Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2021

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

PRIMA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

INDICE PRIMA PARTE

 

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Burocrazia Ottusa.

Il Diritto alla Casa.

Le Opere Bloccate.

Il Ponte sullo stretto di Messina.

Viabilità: Manutenzione e Controlli.

Le Opere Malfatte.

La Strage del Mottarone.

Il MOSE: scandalo infinito.

Ciclisti. I Pirati della Strada.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Insicurezza.

La Strage di Ardea.

Armi libere e Sicurezza: discussione ideologica.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Volontariato e la Partigianeria: Silvia Romano e gli altri.

Lavoro e stipendi. Lavori senza laurea e strapagati.

La Povertà e la presa per il culo del reddito di cittadinanza.

Le Disuguaglianze.

Martiri del Lavoro.

La Pensione Anticipata.

Sostegno e Burocrazia ai “Non Autosufficienti”.

L’evoluzione della specie e sintomi inabilitanti.

Malasanità.

Sanità Parassita.

La cura maschilista.

L’Organismo.

La Cicatrice.

L’Ipocondria.

Il Placebo.

Le Emorroidi.

L’HIV.

La Tripanofobia (o Belonefobia), ovvero la paura degli aghi.

La siringa.

L’Emorragia Cerebrale.

Il Mercato della Cura.

Le cure dei vari tumori.

Il metodo Di Bella.

Il Linfoma di Hodgkin.

La Diverticolite. Cos’è la Stenosi Diverticolare per cui è stato operato Bergoglio?

La Miastenia.

La Tachicardia e l’Infarto.

La SMA di Tipo 1.

L'Endometriosi, la malattia invisibile.

Sindrome dell’intestino irritabile.

Il Menisco.

Il Singhiozzo.

L’Idrocuzione: Congestione Alimentare. Fare il bagno dopo mangiato si può.

Vi scappa spesso la Pipì?

La Prostata.

La Vulvodinia.

La Cistite interstiziale.

L’Afonia.

La Ludopatia.

La sindrome metabolica. 

La Celiachia.

L’Obesità.

Il Fumo.

La Caduta dei capelli.

Borse e occhiaie.

La Blefarite.

L’Antigelo.

La Sindrome del Cuore Infranto.

La cura chiamata Amore.

Ridere fa bene.

La Parafilia.

L’Alzheimer e la Demenza senile.

La linea piatta del fine vita.

Imu e Tasi. Quando il Volontariato “va a farsi fottere”.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Introduzione.

I Coronavirus.

La Febbre.

Protocolli sbagliati.

L’Influenza.

Il Raffreddore.

La Sars-CoV-2 e le sue varianti.

Il contagio.

I Test. Tamponi & Company.

Quarantena ed Isolamento.

I Sintomi.

I Postumi.

La Reinfezione.

Gli Immuni.

Positivi per mesi?

Gli Untori.

Morti per o morti con?

 

INDICE QUINTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Alle origini del Covid-19.

Epidemie e Profezie.

Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.

Gli errori dell'Oms.

Gli Errori dell’Unione Europea.

Il Recovery Plan.

Gli Errori del Governo.

Virologi e politici, i falsi profeti del 2020.

CTS: gli Esperti o presunti tali.

Il Commissario Arcuri…

Fabrizio Curcio, capo della Protezione Civile.

Al posto di Arcuri. Francesco Paolo Figliuolo. Commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure sanitarie di contenimento e contrasto dell'emergenza epidemiologica Covid-19.

Fabrizio Curcio, capo della Protezione Civile.

 

INDICE SESTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

2020. Un anno di Pandemia.

Gli Effetti di un anno di Covid.

Il costo per gli emarginati: Carcerati, stranieri e rom.

La Sanità trascurata.

Eroi o Untori?

Io Denuncio.

Succede nel mondo.

Succede in Germania. 

Succede in Olanda.

Succede in Francia.

Succede in Inghilterra.

Succede in Russia.

Succede in Cina. 

Succede in India.

Succede negli Usa.

Succede in Brasile.

Succede in Cile.

INDICE SETTIMA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Vaccini e Cure.

La Reazione al Vaccino.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Furbetti del Vaccino.

Il Vaccino ideologico.

Il Mercato dei Vaccini.

 

INDICE NONA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Coronavirus e le mascherine.

Il Virus e gli animali.

La “Infopandemia”. Disinformazione e Censura.

Le Fake News.

La manipolazione mediatica.

Un Virus Cinese.

Un Virus Statunitense.

Un Virus Padano.

La Caduta degli Dei.

Gli Sciacalli razzisti.

Succede in Lombardia.

Succede nell’Alto Adige.

Succede nel Veneto.

Succede nel Lazio.

Succede in Puglia.

Succede in Sicilia.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Reclusione.

Gli Irresponsabili: gente del “Cazzo”.

Il Covid Pass: il Passaporto Sanitario.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il tempo della Fobocrazia. Uno Stato Fondato sulla Paura.

Covid e Dad.

La pandemia è un affare di mafia.

Gli Arricchiti del Covid-19.

 

 

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

PRIMA PARTE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La Burocrazia Ottusa.

«Intrappolata» dall’anagrafe. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 23 novembre 2021. Ha divorziato dal marito ma il divorzio non è stato registrato, così non può risposarsi, non può contrarre un mutuo cointestato con il nuovo compagno, non può percepire gli assegni familiari per i figli che vivono con lei. Il 15 novembre scorso, giornata epocale per tanti italiani che hanno finalmente potuto trovare on-line, scaricare e stampare 14 certificati anagrafici (gratuiti) sul sito del ministero dell’Interno non è stato affatto, per Emanuela Valente, una buona giornata. Anzi. Quella che molti lettori e lettrici ricorderanno come l’italiana che per prima ideò, costruì e mise on-line a disposizione di tutti la prima meritoria e sconvolgente banca dati con i nomi delle donne uccise negli ultimi anni «in quanto donna», ha trovato perfino lì, nell’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente, la conferma che ancora nel caso suo non era cambiato assolutamente nulla. Nonostante avesse lasciato l’ex marito da quasi undici anni, avesse ottenuto la separazione da otto e il divorzio (con l’affidamento dei tre figli) da tre e mezzo, dopo una lunga e complicata battaglia legale combattuta a cavallo tra Roma e Parigi risulta ancora così: «Emanuela Valente, coniugata Faro...». Proprio come accadde a centinaia di migliaia di donne, inchiodate per anni ai mariti a suo tempo sposati in matrimoni fallimentari, prima che passasse nel 1970 la legge sul divorzio Fortuna-Baslini. E il divorzio (consensuale!), sancito con sentenza del Tribunale ordinario di Roma 14527/2018, pubblicata e depositata in Cancelleria il 13 luglio 2018? Puff! Sparito. Avrebbe dovuto essere smistato subito, per legge, agli uffici anagrafici di Roma, dove Emanuela è nata. Macché: il plico non è mai arrivato. Men che meno registrato. Colpa del Tribunale? Colpa del Comune di Roma? Colpa del postino o di un piccione viaggiatore lavativo? Boh... Certo è che dopo aver trovato un nuovo compagno che le ha dato un altro bimbo ma che non può sposare, la donna divorziata in tribunale ma maritata all’anagrafe riceve ancora la tessera elettorale col cognome abbinato all’ex marito, non può percepire gli assegni familiari per i figli che vivono con lei, non può chiedere un mutuo cointestato eccetera eccetera... Una vergogna. Aggravata da tutti gli intoppi burocratici messi di traverso alla chiusura della pratica. Roberto Gualtieri ha promesso che con lui sindaco Roma vuole essere una città efficiente in cui si può far tutto «in 15 minuti»? Ecco una buona occasione per iniziare: faccia una telefonata in Tribunale, per favore, e chiuda il tormentone qui. È una storia piccola piccola? Certo, per questo riguarda tutti.

A chi fanno comodo leggi oscure e complicate. Risponde Luciano Fontana su Il Corriere della Sera il 29 novembre 2021. Caro direttore, mi chiedo quale colpa io abbia commesso per vivere in un Paese dove il Governo emana leggi (mi riferisco in questo momento ai vari bonus edilizi) che necessitano di decine di successivi chiarimenti dell’agenzia delle entrate per essere comprese e applicate e che infine vengono radicalmente modificate retroattivamente (decreto antifrodi del 12/11/21) con conseguenze devastanti. Capisco che la credibilità della classe politica italiana sia già nulla e pertanto l’ennesima buffonata non possa peggiorare il giudizio, ma si spera sempre in un miglioramento; purtroppo la luce in fondo al tunnel continua a restare un miraggio. Giulio de Carli

Caro signor de Carli, Il nostro Gian Antonio Stella ha raccontato in maniera mirabile la lingua opaca, le complicazioni e le trappole del «burocratese», il gergo incomprensibile con cui vengono redatti provvedimenti e leggi. È una scrittura che sembra essere fatta apposta per confondere il cittadino. C’è sempre un sovraccarico di chiarimenti e precisazioni che hanno come conseguenza l’errore, il girovagare da un ufficio all’altro o lo sconforto con la rinuncia da parte del beneficiario. Quando, per chiudere il cerchio, non si venga addirittura sanzionati per non aver fatto le cose bene secondo il controllore di turno. Perché accade tutto ciò? Possiamo immaginarne le ragioni e ognuna di loro non ci piace. Le leggi sono spesso un accumulo di spinte diverse da parte di chi le promuove e scrive; si cerca di accontentare tutti, si media fino al pasticcio. In secondo luogo la burocrazia italiana si percepisce come una casta depositaria di una lingua che solo lei riesce a interpretare, spesso con larghi margini di arbitrarietà. Da questa incertezza dell’interpretazione deriva il potere di tenere in pugno il cittadino e la possibilità, qualche volta, che il potere sconfini nella corruzione. Leggi chiare, provvedimenti semplici spazzerebbero via tutto questo. Ma al di là dei proclami sulle semplificazioni ancora non ci siamo. E una buona misura per spingere l’economia, rinnovare gli edifici, aiutare gli italiani, finisce per diventare un passaggio sotto le forche caudine.

Cicchitto: “La legge Severino è la peggiore concessione della politica al giustizialismo…” "La cosa giusta da fare sarebbe smantellare del tutto la legge. Solo un incosciente oggi può fare il sindaco, con questo apparato normativo." Giacomo Puletti su Il Dubbio il 26 novembre 2021. «La rispondo da un telefonino che mi dicono venga usato dai narcotrafficanti colombiani, vista l’impossibilità di applicarvi un trojan, tant’è che tempo fa ho incontrato Luca Palamara e gli ho detto che se fosse stato un tipo retrò come me e avesse usato un telefonino come questo forse avrebbe evitato una parte dei guai e magari sarebbe diventato presidente dell’Anm». Inizia così la nostra conversazione con Fabrizio Cicchitto, colonnello berlusconiano negli anni più duri del giustizialismo e ora presidente di Riformismo e Libertà.

È d’accordo con la proposta del Pd di modifica della legge Severino a tutela dei sindaci ed evitando la loro sospensione dopo una condanna in primo grado?

Con me si sfonda una porta aperta, perché sono radicalmente contrario alla legge Severino in quanto tale. A suo tempo in Forza Italia, durante il governo Monti, fui messo in minoranza dai giuristi professionisti di Berlusconi, perché ritenevo un vulnus in sé il fatto di venir meno ai tre gradi di giudizio, quale che sia il reato. Tra le varie cose che la politica, dagli anni ’90 ormai ridotta in condizioni pessime, ha concesso al giustizialismo in questo Paese questa è la peggiore. Anche se il colpo finale è arrivato con l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti.

I dem puntano a un bilanciamento fra trasparenza della Pa e garanzie per i primi cittadini. Il referendum di Lega e Radicali invece abolisce del tutto la Severino. Si troverà un punto d’incontro?

La proposta del Pd è il minimo che si può fare. La cosa giusta da fare sarebbe smantellare del tutto la legge. Solo un incosciente oggi può fare il sindaco, con questo apparato normativo. Con l’abuso d’ufficio chiunque può portare dei guai al sindaco. È un provvedimento fatto apposta per punire chi non ha fatto assolutamente nulla: insomma la rappresentazione di un proverbio romano che dice “come ti muovi ti fulmino”.

Come si è arrivati a un tale grado di esasperazione da parte dei sindaci, come espresso nell’ultima assemblea dell’Anci dal presidente Decaro?

Ci sono stati tanti casi di condannati poi scopertisi innocenti, anche con grande clamore mediatico. Siamo stati dominati dalle più varie forme di giustizialismo. Prima c’è stato quello maior del 92-94, poi da lì è arrivato quello applicato su Berlusconi, infine quello portato avanti dai Cinque Stelle. Arriviamo insomma da trent’anni di mentalità giustizialista che ora dobbiamo provare a ribaltare.

In che modo?

Credo profondamente nel nostro sistema, che prevede tre gradi di giudizio. Altrimenti arriviamo alla presunzione di colpevolezza che tanti acclamano. Chi dice che abolendo la Severino si rischia di far rimanere impuniti alcuni reati è a favore della presunzione di colpevolezza. Qualcuno, come Davigo, pensa addirittura che qualcuno con la fedina penale pulita sia solo un furbo che l’ha fatta franca. Nella logica intrinseca della Severino c’è la presunzione di colpevolezza e siccome io reputo che anche per i reati più gravi debba valere la presunzione di innocenza, credo che vada abolita.

A livello normativo, ritiene ci sia stato un momento in cui le cose per i sindaci siano peggiorate?

La fisiologia delle autonomie in questo paese dovrebbe essere rivolto a Comuni e Province, mentre la riforma del titolo V ha creato il mostro del presidente di Regione. I sindaci sono le entità più fragili di questo mondo. Il miglior sindaco dei Cinque Stelle, Chiara Appendino, è stata punita per una manifestazione legata a una partita di calcio sicuramente gestita malissimo ma sulla quale lei aveva responsabilità relative. È stata colpita e affondata e il suo è solo uno dei tanti casi.

I sindaci dovranno gestire gran parte dei fondi del Pnrr.  In che modo l’attuale quadro normativo rischi di fermare la loro opera?

La gestione dei fondi implica dei livelli di discrezionalità e non ci vuole niente a definire una discrezionalità un reato. L’Italia rischia di essere strangolata da quello che si riteneva essere un grande valore, cioè l’esplosione di giustizialismo. Fino ad arrivare a un sistematico attacco contro qualsiasi potere decisionale. I fondi del Pnrr hanno invece bisogno di uomini e donne che prendano decisioni e lo facciano in modo consapevole.

Prima accennava al giustizialismo contro Berlusconi. Pensa che il Cavaliere possa arrivare al Quirinale? 

In una condizione normale no, ma siccome siamo in una condizione del tutto anormale, nel senso che quasi tutte le forze politiche sono caratterizzate da andamenti stravaganti, è possibile anche una cosa di questo tipo.

Da Napoli a Palermo, i Comuni del Sud sono al collasso. E resteranno fuori dal Piano di ripresa. Niente soldi per scuole e strade. Personale ridotto al lumicino. E un terzo degli enti che non riesce a chiudere i bilanci. Così 14 milioni di persone vivono senza i servizi pubblici minimi garantiti nel resto del Paese. L’allarme dei sindaci: “Senza aiuti non potremo partecipare ai bandi con i fondi Ue in arrivo”. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 20 luglio 2021. Palermo, quinto Comune d’Italia con i suoi 673 mila abitanti. Da un anno quasi mille bare sono insepolte perché gli spazi nei cimiteri pubblici sono finiti. Ci sarebbero dei nuovi terreni già opzionati, ma l’ente non ha in cassa nemmeno 200 mila euro, i fondi necessari per acquistarli: inoltre non può chiudere il bilancio di previsione 2021 perché mancano all’appello 80 milioni di euro. Reggio Calabria, 182 mila abitanti, un Comune che sta uscendo a fatica dal dissesto e ha la spesa corrente bloccata: ha solo tre asili nido, realizzati con finanziamenti straordinari, ma non ha certezza sui fondi per pagare gli stipendi agli insegnanti e di sicuro non ne può aprire di nuovi. Caserta, quasi 80 mila abitanti, su 780 dipendenti previsti in pianta organica ne ha in servizio poco più di 200, vigili urbani compresi: mancano tecnici per fare i progetti per nuove iniziative ed esperti per partecipare ai bandi Ue. Casal di Principe, piccolo Comune di 20 mila abitanti, simbolo della filiera di paesi dell’entroterra del Sud che sono la maggioranza degli enti locali in questo pezzo d’Italia: il sindaco chiude sì il bilancio, ma non ha i soldi per garantire l’illuminazione pubblica in tutti i quartieri né per aprire una scuola. I Comuni del Sud stanno affondando. Erano già in crisi prima del Covid-19, la pandemia ha dato il colpo di grazia. Il 30 per cento degli enti locali da Napoli in giù non riesce a chiudere i bilanci per disavanzi di amministrazione. Se a questi si aggiungono i Comuni in dissesto e pre dissesto significa che nel Meridione una popolazione di 14 milioni di abitanti non ha già adesso servizi minimi garantiti e rischia di restare fuori dalla ripresa economica: perché in queste condizioni il Piano nazionale di ripresa e resilienza, che per gli enti locali dovrebbe stanziare circa 30 miliardi di euro, passerà sopra le teste di un terzo degli abitanti del Mezzogiorno. Un esempio plastico di questo futuro imminente e beffardo, considerando che Bruxelles ha dato tanti soldi all’Italia per colmare i divari territoriali, arriva dal bando per realizzare nuovi asili nido pubblicato dal Miur con 700 milioni di euro già opzionati sul Pnrr. I criteri prevedono un premio per chi garantisce un cofinanziamento degli interventi. Risultato? Caserta non arriverà nemmeno a essere inserita in graduatoria, Reggio Emilia potrà realizzare altri asili in aggiunta ai sessanta che ha già operativi.

I NUMERI DEL DISASTRO. La crisi economica e finanziaria dei Comuni, iniziata con il governo Monti e l’avvio dell’austerity, oggi al Sud è arrivata a un punto di non ritorno. I numeri che l’Anci, l’associazione nazionale degli enti locali, ha consegnato al Parlamento nelle recenti audizioni in Camera e Senato lasciano pochi spazi ai dubbi. Su 396 Comuni in dissesto e pre dissesto, ben 304 sono al Sud e nelle Isole. Nel 2019, quindi già prima della pandemia, 1.119 Comuni registravano disavanzi, di questi 803 nel Meridione. Cifre che nel 2021 sono chiaramente aumentate. Numeri impietosi anche sul fronte della riscossione: in Sicilia il 50 per cento non riesce a riscuotere Tari, Imu e multe, in Calabria il 40 per cento, in Campania il 30 per cento. Anche qui, numeri in salita nell’anno della pandemia, visto che l’economia si è fermata. Ma c’è di più: la Corte Costituzionale ha appena bocciato la norma che consentiva agli enti locali di ripianare il debito per le mancate entrate in 30 anni, mettendo nero su bianco che non possono essere le nuove generazioni a farsi carico dei buchi del passato. In questo momento moltissimi Comuni non possono tecnicamente chiudere il bilancio di previsione del 2021 (e siamo a luglio). 

ASILI, STRADE, ILLUMINAZIONE. Palermo non solo non ha in cassa 200 mila euro per risolvere un problema come quello delle bare accatastate, ma non riesce, ad esempio, a garantire la manutenzione delle strade: via Volturno, che collega il Teatro Massimo al Tribunale, pieno centro storico quindi, non viene asfaltata da oltre quindici anni. Impensabile così aprire nuovi asili nido o aumentare il tempo pieno nelle scuole. In Sicilia la mensa scolastica è garantita solo nell’8 per cento degli istituti, in Toscana si arriva al 62 per cento. Palermo inoltre non ha dirigenti tecnici, l’ultimo è andato in pensione poche settimane fa. In queste condizioni, come potrà partecipare ai bandi del Piano di ripresa nazionale? Lo scenario non cambia se si sale di qualche chilometro, a Reggio Calabria. Il sindaco Giuseppe Falcomatà ha ereditato un Comune in dissesto e ha evitato il collasso grazie a un aiuto straordinario da 150 milioni per ripianare il debito: «Il Covid ha accentuato le difficoltà dei Comuni del Mezzogiorno, palesando quella che io definisco una discriminazione di cittadinanza. I problemi iniziano già nel 2010, con il criterio della spesa storica inserito tra quelli che stabiliscono quanto lo Stato deve dare ai Comuni: nel 2010 Reggio Emilia aveva 60 asili, Reggio Calabria zero e lo Stato ha continuato a redistribuire le risorse mantenendo questo divario. Anzi lo ha allargato: nel 2010 i trasferimenti statali per il mio Comune erano pari a 80 milioni, oggi sono appena 24 milioni. Nonostante questo abbiamo aperto tre asili nido grazie ai fondi Pac, che dovrebbero essere risorse aggiuntive per colmare i divari e invece diventano somme sostitutive. Ma già penso a come dover pagare gli insegnanti nei prossimi anni». Il sindaco di Catanzaro, Sergio Abramo, riesce a chiudere il bilancio. Ma solo da un punto di vista tecnico, perché poi non ha un euro per fare investimenti: «Il mio Comune ha 15 milioni in meno all’anno come trasferimenti rispetto a una realtà con gli stessi abitanti della Lombardia. Ecco perché i grandi enti della mia regione sono in dissesto: Cosenza, Crotone, Vibo Valentia, Reggio Calabria. Io non ho debiti ma non ho soldi per fare nulla. Non ho nemmeno 100 mila euro per migliorare la manutenzione del verde». Un quadro che non cambia nei piccoli Comuni. Il sindaco di Casal di Principe, Renato Natale, allarga le braccia e al Pnrr nemmeno pensa: «Abbiamo enormi problemi da affrontare senza mezzi. A esempio io ho in gestione oltre 50 beni confiscati all’oppressione mafiosa. Ma questi beni hanno bisogno di interventi per accogliere servizi, come scuole, asili nido, uffici comunali e impianti sportivi. E io non ho un euro. Poi c’è il tema dell’abusivismo edilizio alimentato dal potere mafioso. Io devo abbattere, da solo, 200 beni. E per un abbattimento occorrono 200 mila euro. Per far crollare quattro case ho già dovuto accendere un mutuo con Cassa depositi e prestiti e sono stato costretto a ridurre la manutenzione stradale e a tagliare i fondi per la pulizia delle microdiscariche. Inoltre non ho nessun asilo nido e faremo fare i doppi turni nelle scuole medie perché non abbiamo le aule. Il Pnrr? Siamo tagliati fuori in partenza». 

PERDERE IL TRENO DEL PNRR. Il sindaco di Casal di Principe tocca un tasto dolente, perché il vero timore dei sindaci, soprattutto del Meridione, è quello di perdere anche il treno del Piano di ripresa e resilienza. In questo senso campanelli di allarme sono già suonati. A esempio il Miur ha messo a gara 700 milioni per costruire nuovi asili nido, prenotando i primi fondi del Piano di ripresa. Tra i criteri che premiano le domande c’è quello del cofinanziamento, che dà 10 punti, mentre la mancanza di asili rispetto alla media del Paese dà solo 3 punti. È chiaro che così Milano, Bologna, Firenze avranno punteggi maggiori, mentre Napoli, Bari o Palermo resteranno ancora indietro. Non a caso il sindaco di Caserta, Carlo Marino, presidente dall’Anci Campania, nemmeno pensa che il suo Comune arriverà a essere ammesso in graduatoria: «Il problema comunque non è solo economico. Noi avremo difficoltà a salire sul treno del Pnrr anche perché non riusciremo a fare i progetti. Faccio l’esempio del mio Comune. Nel 2016 avevo 570 dipendenti compresa la polizia municipale. Oggi con quota 100 e pensionamenti vari sono a 215 dipendenti e non ho ingegneri informatici o esperti in digitalizzazione: come faccio i progetti con il Pnrr che prevedono fondi proprio per la digitalizzazione o per il risparmio energetico?». Il tema delle difficoltà finanziarie comunque è ormai nazionale. Dice Alessandro Canelli, sindaco di Novara e responsabile Finanze Anci: «La situazione difficile dei Comuni è figlia di una stagione caratterizzata da un atteggiamento dello Stato di forte restrizione dei finanziamenti. Sono diminuite le spese correnti, è sceso il personale, sono calate le spese per investimenti per ben il 25 per cento. In questo scenario sono emerse le difficoltà drammatiche di quegli enti che già non stavano bene. E non è più una questione di mala gestio, è un problema sociale». Il direttore della Svimez Luca Bianchi lancia quindi l’allarme sul rischio beffa del Pnrr proprio per il Sud: «La minore capacità progettuale delle amministrazioni meridionali le espone a un elevato rischio, con il paradosso che le realtà a maggior fabbisogno potrebbero beneficiare di risorse insufficienti. Se si vuole scongiurare questo rischio, va rafforzato il supporto alla progettualità di questi enti. Il tema della capacità di garantire l’effettiva offerta dei servizi rimanda all’esigenza più ampia di definire un percorso sostenibile di perequazione che consenta di superare la pratica della “spesa storica” e di ristabilire uguali diritti di cittadinanza in tutto il Paese e non solo in una sua parte».

Da huffingtonpost.it l'8 giugno 2021. Un bimbo della scuola dell’infanzia si schiaccia due dita in una porta, mentre è all’asilo, a Crema. Nella di irreversibile, per fortuna, il piccolo deve essere curato per alcuni mesi, ma l’incidente non avrà ripercussioni gravi. Ma per questa vicenda parte un’inchiesta. E la sindaca si trova a essere indagata. La questione ha riaperto il dibattito sulla legge sulla responsabilità dei sindaci. Tra i primi a mostrare solidarietà a Stefania Bonaldi il primo cittadino di Bergamo: “Avviso di garanzia a Stefania Bonaldi, sindaca di Crema, perché un bambino dell’asilo si è chiuso due dita nel cardine di una porta tagliafuoco, senza conseguenze permanenti. L’accusa: avrebbe dovuto impedire che la porta si chiudesse automaticamente. Ma si può andare avanti così?”, scrive su Twitter Giorgio Gori.

Caiazza: «Altro che sindaci, l’abuso d’ufficio è il passepartout delle procure». Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 14 Novembre 2021 e su Il Dubbio il 12 novembre 2021. Il leader dei penalisti «loda» l'iniziativa dell'Anci, ma invita anche a una riflessione più ampia: «Il tema è ancora una volta quello di una politica che si è stolidamente consegnata al controllo di legalità preventivo degli uffici di Procura».

«La lodevole iniziativa dell’Associazione Nazionale dei Comuni d’Italia per un drastico intervento del legislatore volto ad eliminare la paralizzante ipoteca del reato di abuso di ufficio sulla quotidiana attività dei sindaci, sembra però alimentare un singolare equivoco, non solo mediatico». È quanto scrive il presidente dell’Unione Camere penali italiane (Ucpi) Gian Domenico Caiazza, dopo l’appello dei sindaci al premier per cambiare il “reato-trappola” che paralizza gli amministratori. Secondo il leader dei penalisti, infatti, «a sentire o leggere molti degli interventi sul tema», tra cui quello che ieri il Presidente della Camera Roberto Fico ha rivolto alla platea di Parma – «sembra quasi che le gravi distorsioni prodotte da questa magmatica fattispecie di reato siano una peculiare esclusiva dei primi cittadini nei comuni italiani». «Il tema è ovviamente molto più vasto – scrive Caiazza – sia perché ovviamente non può non riguardare tutti gli amministratori pubblici, sia perché la riflessione, se vuole essere seria e credibile, dovrebbe estendersi anche oltre l’articolo 323 del codice penale. Sicché dire, come fa il Presidente grillino della Camera, che “oggi ha una logica rivedere” il reato di abuso in atti di ufficio perché “i sindaci sono una grande comunità, hanno grandi responsabilità e bisogna ascoltarli” a me pare solo un modo per eludere la questione vera che occorre affrontare, e che è ben più complessa». Nel merito, spiega Caiazza, «il reato di abuso in atti di ufficio è da sempre la norma che il legislatore ha consegnato, insieme ad altre, agli Uffici di Procura per esercitare un indebito controllo general preventivo sull’attività della pubblica amministrazione e dunque sulla politica. Norme che per la loro indeterminata genericità si risolvono in quella che è stata efficacemente definita (Luciano Violante) come una sorta di “mandato a cercare” eventuali irregolarità o illiceità nella amministrazione pubblica, a prescindere da ben definite e chiare notizie di reato. È a tutti noto che la percentuale di condanne definitive per abuso in atti di ufficio è infinitesimale se raffrontata al numero di indagini che in nome di esso sono state aperte dagli Uffici di Procura di tutta Italia; indagini che hanno di per sé prodotto i propri effetti sostanzialmente sanzionatori già in quella fase, gravando di una pesante ipoteca lo svolgimento del mandato dell’amministratore indagato, quando non ponendolo perciò solo nella necessità di rimetterlo». Insomma, l’abuso d’ufficio è una sorta di grimaldello che le procure utilizzano per cercare dell’altro. Anche alla luce del fatto, prosegue Caiazza, che «l’abuso, data la sua definizione magmatica e residuale (“salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, così esordisce la norma) permette di tenere in vita e legittimare comunque indagini sommariamente avviate per più gravi ipotesi di reato (corruzione, concussione, peculato) che con il tempo si dimostrino infondate: alla fine, male che vada, un abuso in atti di ufficio non potrà negarsi a nessuno». E questo, aggiunge, «è a ben vedere la distorsione più grave determinata dal mantenere in vita quella fattispecie di reato, e che riguarda – in forma ormai perfino più grave – anche una seconda fattispecie di reato, lo sciagurato “traffico di influenze”, introdotto da pochi anni a furor di populismo». «Nessun giurista serio è ad oggi in grado di spiegare con chiarezza quale possa essere in concreto e con certezza questa misteriosa condotta, un miscuglio indefinito tra una corruzione solo immaginata ed un millantato credito però mica tanto millantato. Un mostriciattolo giuridico senza capo né coda che infatti non produce praticamente mai condanne, ma alimenta invece, come e più dell’abuso in atti di ufficio, un indeterminato numero di indagini. E se per questo reatuncolo non sono consentite – deo gratias – intercettazioni telefoniche, non preoccupatevi: se i protagonisti sono più di tre (e tre cristiani li trovi sempre), sarà sufficiente contestare in fase di indagine una associazione per delinquere finalizzata al traffico di influenze per consentirsele», aggiunge il capo dei penalisti. «Dunque, altro che sindaci – conclude Caiazza -. Qui il tema è ancora una volta quello di una politica che si è stolidamente consegnata al controllo di legalità preventivo degli uffici di Procura, in nome di un diritto penale sempre più drammaticamente lontano dal suo ancoraggio ai principi costituzionali e liberali di tipicità e tassatività delle norme incriminatrici. Questo il Presidente Fico non lo sa, ma occorre invece che tutti lo comprendano, se vogliamo affrontare con serietà questa ennesima emergenza democratica»

Il Sì al referendum giustizia. “Via la stagione della legge Severino, l’abuso d’ufficio serve solo a paralizzare gli enti pubblici”, parla Felice Laudadio. Viviana Lanza su Il Riformista l'1 Settembre 2021. “Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190)?” Il quesito numero 6 del referendum sulla giustizia promosso dai Radicali interroga i cittadini sull’abolizione del decreto Severino, cioè di quella norma voluta nel 2012 dall’allora guardasigilli Paola Severino con l’illusione di contrastare in maniera decisa il fenomeno della corruzione. Illusione perché nei fatti, almeno stando alle statistiche, non si è avuto l’impatto che ci si prefiggeva di avere. La legge Severino prevede, in caso di condanna, incandidabilità, ineleggibilità e decadenza automatica per parlamentari, rappresentanti di governo, consiglieri regionali, sindaci e amministratori locali. Ha valore retroattivo e prevede, anche a nomina avvenuta regolarmente, la sospensione di una carica comunale, regionale e parlamentare se la condanna avviene dopo la nomina della persona in questione. Per gli amministratori di un ente territoriale è sufficiente la condanna in primo grado non definitiva perché si applichi la sospensione che può durare fino a diciotto mesi. Insomma, una pesante ingerenza nell’amministrazione della cosa pubblica che nei fatti non si è rivelata l’arma vincente contro la corruzione. Anzi. Nella stragrande maggioranza dei casi la legge è stata applicata contro sindaci e amministratori locali sospesi o costretti alle dimissioni per processi dai quali sono poi usciti assolti. Con il Sì al quesito referendario, dunque, si vota l’abrogazione dell’automatismo contenuto nel decreto Severino. Significherebbe restituire discrezionalità ai giudici così da decidere, di volta in volta, in caso di condanna, se sia necessario o meno applicare anche l’interdizione dai pubblici uffici. «Non sarà un liberi tutti», chiarisce Felice Laudadio, avvocato e docente universitario che con Il Riformista accetta di svolgere una riflessione a sostegno delle ragioni alla base della consultazione popolare promossa dai Radicali. «Il referendum – spiega Laudadio in premessa – ha un contenuto abrogativo ma anche propositivo». E questa premessa vale tanto più per il quesito sull’abrogazione del decreto Severino. «Su questa disposizione una riflessione va fatta perché è chiaro che i reati, con le garanzie del giusto processo, vanno sanzionati ma è necessario che venga espiata una pena collegata all’accertamento della responsabilità con la misura restrittiva prevista dal codice penale», osserva. Se le limitazioni dei diritti politici collegate alla sentenza non definitiva per reati di 416 bis o comunque legati alla criminalità organizzata possono avere un loro fondamento, anche in proporzionalità, rispetto all’obiettivo della lotta alla mafia, nel caso dei reati contro la pubblica amministrazione una riflessione come quella proposta dal quesito referendario è più che mai necessaria. «Non v’è dubbio che la fattispecie corruttiva sia un disvalore nel sistema delle relazioni sociali e umane – afferma il professor Laudadio- ma che determini la perdita del diritto di elettorato attivo e passivo in aggiunta alla sanzione penale collegata alla commissione del reato deve essere oggetto di una riflessione, da parte del legislatore, ispirata ai criterio generale di proporzionalità della limitazione rispetto alla gravità della condotta». Il tema è delicato e spinoso. È di quelli per cui è facile gridare all’untore e al corruttore. «Da  trent’anni in questo Paese abbiamo le stesse litanie», afferma Laudadio. «Adesso invece è necessario che il popolo rifletta anche sulla razionalità e sulla proporzionalità di questa misura – aggiunge – spingendo i titolari del potere legislativo a una rilettura ispirata a criteri appunto di razionalità e proporzionalità della legge Severino che, a mio parere, va riscritta rispetto all’attuale contingenza». No agli automatismi di limitazioni e pene accessorie, quindi. Sì a valutazioni caso per caso. «I reati di pubblica amministrazione, la legge Severino li equipara tutti. Una misura data nell’empito del momento», osserva il professor Laudadio sottolineando come i tempi adesso siano cambiati e maturi, anche alla luce dell’esperienza di questi anni, per una riflessione come quella proposta dal referendum. «L’incandidabilità non può essere fissata ex lege ma, come un diritto fondamentale, va ancorata al giusto equilibrato processo». Impossibile, poi, non considerare la complessità e l’inutilità, nella sfera dei reati contro la pubblica amministrazione, del reato di abuso d’ufficio. Secondo dati raccolti dall’Anci, l’associazione nazionale dei Comuni italiani, dei 100mila fascicoli aperti negli ultimi dieci anni il 60% si è concluso con archiviazioni e proscioglimenti chiesti dal pubblico ministero, il 20% si è estinto in sede di udienza preliminare, il 18% è arrivato a dibattimento e solo il 2% dei procedimenti si è concluso con una sentenza definitiva di condanna. «La previsione dell’abuso in atti di ufficio, anche nella riforma che stanno tentando, è di difficilissima applicazione perché bisogna provare il dolo nella violazione di legge, il dolo nell’inflizione dell’ingiusto danno o nell’erogazione dell’ingiusto vantaggio – spiega il professor Laudadio – Quanto alla violazione di leggi e regolamenti a cui fa riferimento, bisogna considerare che in Italia abbiamo qualcosa come centinaia di leggi e regolamenti». «L’abuso di ufficio – osserva – va abrogato. Crea una impasse nell’amministrazione perché terrorizza i dirigenti, i quali non firmano perché temono l’accusa di abuso in atti di ufficio e tutto quello che ne deriva in conseguenza anche della famosa legge Severino». «Non significa un liberi tutti – precisa – ma significa infliggere sanzioni per le condotte di maggiore disvalore sociale (la corruzione, la concussione, il peculato, il falso). L’abuso in atti d’ufficio è oggettivamente un “reato ombra” che crea solo lotte nell’amministrazione e inutili appesantimenti. E come tutti i reati generici, che non hanno una definizione tassativa delle condotte, consente un accesso su condotte che potrebbero essere sanzionabili da parte del giudice amministrativo o da parte del giudice della responsabilità erariale. Il fatto penale – conclude Laudadio – è un discorso che non sta in piedi anche perché i risultati sono evidenti e in un certo numero di inchieste la percentuale è infinitesimale. Valutando costi e benefici, i primi superano ampiamente i secondi».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Quegli “errori” delle toghe umiliano la democrazia. Dal caso dell’ex consigliere della regione Valle d’Aosta, Marco Sorbara, a quello del senatore Antonio Caridi: quando un politico viene arrestato ingiustamente, noi tutti siamo meno liberi. Davide Varì su Il Dubbio il 12 agosto 2021. Sì, lo ammettiamo, stavolta era sfuggito anche noi. Ma del resto non passa settimana senza che vi sia un’assoluzione, un caso di malagiustizia che, spesso, colpisce parlamentari o semplici amministratori locali. Qualche giorno fa è toccato all’ex consigliere della regione Valle d’Aosta, Marco Sorbara. E diciamo ex perché Sorbara fu rimosso dal suo incarico politico e rinchiuso in galera per 214 lunghissimi giorni, 45 dei quali in isolamento. Senza contare i restanti 600 e rotti passati in custodia cautelare. Ma il 20 luglio scorso la Corte d’ Appello di Torino lo ha assolto perché il fatto non sussiste: “Ops, ci siamo sbagliati caro signor Sorbara, lei ora è di nuovo un uomo libero”. Ma non è così, il signor Sorbara non sarà mai più un uomo libero: troppo profonde e troppo dolorose le ferite lasciate dalla feroce ottusità di questa giustizia. Solo tre settimane fa era accaduto al senatore Antonio Caridi, ricordate? Secondo i magistrati era l’uomo di collegamento tra le cosche e la politica – il famigerato terzo livello politicomafioso, il padre di tutti i teoremi giudiziari – ma in realtà il senatore di FI era del tutto estraneo a quei fatti. Ora Caridi è stato scarcerato, certo, ma neanche lui è un uomo libero: la sua vita è stata schiacciata e la sua carriera è compromessa per sempre. Ma c’è di peggio: quando un politico viene arrestato ingiustamente, noi tutti siamo meno liberi perché viene intaccato il sistema della rappresentanza politica, viene mortificata e annientata la volontà degli elettori. Ma è la giustizia italiana, bellezza: la responsabilità civile è ancora una chimera e l’immunità parlamentare è stata sacrificata sull’altare del populismo penale. 

M5S ora è garantista con i sindaci. Grazie Raggi e Appendino!. Il partito che un tempo chiedeva la galera preventiva per chiunque, ora fa proposte concrete per guarire i sindaci dalla “sindrome della firma”. Avranno influito le inchieste a carico di Virginia Raggi e Chiara Appendino? Rocco Vazzana su Il Dubbio il 25 ottobre 2021. Chi l’ha detto che onestà e senso della realtà non possano andare di pari passo? Sembra questo il quesito che da un po’ di tempo accompagna l’agire politico del Movimento 5 Stelle. Anche in materia di giustizia. Così, il partito che un tempo chiedeva la galera preventiva per chiunque, sulla base dell’antico adagio casaleggiano «al minimo dubbio, nessun dubbio», oggi si ferma a riflettere. E a mettere in atto una profonda autocritica sul passato forcaiolo. Prima i timidi ripensamenti su Bibbiano, poi le scuse pubbliche a Uggetti, ora proposte concrete per guarire i sindaci dalla “sindrome della firma”, quella che ti porta a contare fino a mille prima di sottoscrivere un atto qualunque per evitare di finire in prigione o sotto inchiesta. E se già un anno fa il presidente del Consiglio Giuseppe Conte era riuscito a imporre ad Alfonso Bonafede una norma che circoscrivesse l’applicazione dell’abuso d’ufficio a “specifiche regole di condotta”, adesso è il senatore grillino Vincenzo Santangelo a proporre un ddl in commissione Affari costituzionali per chiedere la semplice aggiunta di un comma all’articolo 54 del Testo unico degli enti locali, che specifichi: «Il sindaco, quale ufficiale del Governo, nell’esercizio delle funzioni, risponde esclusivamente per dolo o colpa grave per violazione dei doveri d’ufficio». Una rivoluzione nell’immaginario pentastellato su cui tanto avranno influito le inchieste a carico di Virginia Raggi e Chiara Appendino. Meglio tardi che mai.

Da Vendola alla sindaca di Crema, la scia dei politici fulminati dall’abuso d’ufficio. Nel 2019 Di Maio liquidò con un «basta stronzate» la proposta leghista di limitare il reato. A marzo un sindaco grillino della Sardegna è stato prosciolto grazie al decreto del Conte 2. Errico Novi su Il Dubbio il 26 ottobre 2021. Siamo a ridosso delle Europee 2019. Matteo Salvini propone di limitare l’abuso d’ufficio. L’alleato Luigi Di Maio gli replica con un post facebook terribile: «È un reato in cui cade spesso chi amministra, è vero, ma se un sindaco agisce onestamente non ha nulla da temere. Più lavoro meno stronzate». Arriviamo al 20 ottobre 2021. Al Senato, nella congiunta Affari costituzionali-Giustizia, Andrea Ostellari annuncia l’incardinamento di una proposta che quasi abolirebbe la fattispecie incubo dei sindaci. Al testo leghista sono abbinati uno del Pd, firmato da Andrea Parrini, e un altro, udite udite, del Movimento 5 Stelle, ad opera del parlamentare siciliano Vincenzo Santangelo. Cosa è successo, tra lo “stop bullshit” di Luigi Di Maio e la svolta di Palazzo Madama? Che tante altre piccole gocce hanno fatto traboccare un vaso già al limite. L’abuso d’ufficio continua a spaventare gli amministratori locali, i sindaci innanzitutto, nonostante la sforbiciata inflitta alla norma dal decreto Semplificazioni del 2020, quando a Palazzo Chigi c’era ancora Giuseppe Conte. Nel frattempo, tra le tante assoluzioni tardive maturate anche grazie alla modifica, una ha riguardato per esempio Mario Puddu, sindaco cinquestelle di un comune sardo, Assemini. Era accusato per aver conferito nel 2015 un incarico dirigenziale. La Procura di Cagliari si muove innescata da tre consigliere comunali fuoriuscite dal Movimento, e inevitabilmente agguerritissime. Puddu, come altri, esce indenne dal travaglio processuale a troppi anni di distanza dal fatto, e solo in Corte d’appello: la sentenza liberatoria arriva lo scorso 25 marzo. Una vicenda che ha segnato in modo pesante la politica pentastellata dell’Isola: il sindaco di Assemini era candidato governatore in pectore del Movimento. L’indagine fulminò persino la benedizione di Beppe Grillo. La storia dell’abuso d’ufficio e delle ferite lasciate sulla politica è lunga. Come i tentativi di modifica che la norma ha conosciuto dopo il 1930, quando fu prevista per la prima volta nel Codice Rocco. Si provò a cambiarla nel 1990, nel 1997, poi nel 2012, con inasprimenti, all’interno della legge Severino. Fino all’estate dell’anno scorso e del Conte 2. Che però non ha scongiurato vicende incredibili, come l’indagine sulla sindaca di Crema Stefania Bonaldi, accusata nel giugno scorso di abuso d’ufficio perché tre mesi prima un bambino si era chiuso due dita in una porta tagliafuoco dell’asilo comunale. Ecco, il caso Bonaldi è forse un primo innesco della “rivolta” che ora sembra animare Palazzo Madama. Pochi giorni dopo la notizia diffusa dalla prima cittadina lombarda, un migliaio di sindaci manifestarono davanti a Palazzo Chigi per chiedere di intervenire ancora sul reato-incubo. A venerdì scorso risale l’appello di Enzo Bianco, presidente del Consiglio nazionale Anci, che chiede di liberare gli amministratori locali dalla morsa delle Procure. Forse il colpo di reni si spiega anche con il mutato rapporto fra politica e magistratura, che trent’anni dopo Mani pulite è destinato a incidere anche sulla imminente riforma del Csm. A breve conosceremo la decisione della Consulta relativa a una nuova questione di legittimità sollevata da alcuni Tribunali sulla sospensione prevista per i politici locali in virtù di condanne non definitive: mercoledì scorso si è riunita la Camera di consiglio dei giudici costituzionali, in perfetta coincidenza con la seduta al Senato che ha avviato l’iter della nuova legge. La paura della firma è trasversale da tutti i punti di vista. Le condanne per abuso d’ufficio hanno colpito protagonisti assoluti della scena politica e amministratori di piccoli centri. Nel febbraio 2016 il presidente della Campania Enzo De Luca ottenne in Corte d’appello l’assoluzione dalle accuse di abuso d’ufficio nel processo per la realizzazione di un termovalorizzatore a Salerno. La Procura generale aveva chiesto 11 anni di carcere. Altri governatori sono usciti più o meno faticosamente indenni da processi simili: il pugliese Nichi Vendola se la cavò con un proscioglimento del gip in abbreviato, ottobre 2012, ma l’ex presidente del Molise Michele Iorio venne assolto nel 2018 solo in Cassazione. Si potrebbero cogliere tanti altri esempi, fra le migliaia di inchieste per abuso d’ufficio che ogni anno finiscono al macero tra proscioglimenti, archiviazioni e prescrizioni: secondo dati Istat del 2018, la montagna di oltre 7.000 indagini partorì solo quell’anno il topolino di sole 57 condanne. In un altro piccolo comune, stavolta siciliano, Rosolini, il 12 ottobre sorso la ex presidente dell’Assemblea cittadina Maria Concetta Iemmolo è stata assolta dalle accuse nate da una presunta forzatura su un ordine del giorno del 2013. Otto anni dopo. Magari non avrebbe avuto la carriera di De Luca o di Vendola. Ma ha dovuto comunque penare per veder riconosciuta la propria innocenza. E nemmeno per la sanatoria nel frattempo assicurata dal Dl Semplificazioni. “Il fatto non sussiste”, ha sancito il Tribunale di Siracusa. Si può fare l’amministratore pubblico con una prospettiva del genere?

Accusati, lapidati e poi assolti: l’elenco dei politici rovinati dalla gogna. Centinaia sono i politici costretti a deporre le “armi” della partecipazione diretta per fare i conti con una giustizia a volte lenta e ingiusta. Monica Musso su Il Dubbio il 12 agosto 2021. Poltrone che scottano e vite distrutte. Non esiste una sola regione in Italia che non abbia avuto, almeno una volta, un presidente indagato. Se ne contano oltre 60, negli anni, e a volte a qualcuno è toccato anche varcare le porte del carcere. E centinaia sono i politici, di ogni ordine e grado, costretti a deporre le “armi” della partecipazione diretta per fare i conti con una giustizia a volte lenta e ingiusta.

Il caso Caridi

L’ultimo caso in ordine di tempo è quello dell’ex senatore di Forza Italia Antonio Caridi, assolto dopo cinque anni perché il fatto non sussiste. L’ex politico – perché di politica non ne vuole più sapere nulla – era imputato nel processo “Gotha” assieme ad altre 29 persone. Un processo che si è concluso con 15 condanne e 15 assoluzioni (11 delle quali richieste dall’accusa) e che ha registrato anche la condanna a 25 anni dell’ex parlamentare del Psdi Paolo Romeo, considerato alla testa della cupola di invisibili che avrebbe governato la città per decenni. Per l’accusa Caridi avrebbe «agevolato» la ‘ ndrangheta «mediante l’uso deviato del proprio ruolo pubblico», sfruttando tutte le cariche rivestite, dal Consiglio comunale al Senato. Da qui la richiesta d’arresto, che arrivò al Senato a luglio 2016 come un fulmine a ciel sereno. La giunta per le immunità, il 3 agosto, diede il via libera, dopo due giorni di discussione. Il giorno successivo, in un’aula straordinariamente piena, 154 senatori dissero sì al suo arresto, contro 110 contrari e 12 astenuti. Caridi lasciò Palazzo Madama in lacrime, consegnandosi a Rebibbia e attendendo un anno e mezzo prima di tornare a casa. Un anno e mezzo vissuto in celle da incubo, in attesa di conoscere la sua sorte. Per i giudici che lo hanno scarcerato arrestarlo fu un errore. Avrebbe potuto attendere il processo da uomo libero, ma così non è stato. E ciò nonostante le accuse a suo carico, per il tribunale di Reggio Calabria, fossero infondate.

Per Antonio Bassolino mai una condanna

I casi eclatanti non mancano, come quello dell’ex governatore della Campania, Antonio Bassolino, costretto a 27 anni di processi, con nove assoluzioni e nemmeno una condanna. Isolato dalla politica, emarginato dal proprio partito, quasi come fosse radioattivo. Le prime indagini a suo carico risalgono a quando era sindaco, ovvero al 1993. Almeno cinque o sei inchieste si sono sono chiuse con archiviazioni, per il resto ci sono i 19 processi dai quali è uscito assolto e che lo hanno costretto a passare gli ultimi 20 anni a difendersi per il lavoro svolto come governatore della Campania.

Ci sono anche Vasco Errani e Mario Oliverio

Ma la serie è lunga. Tra gli imputati eccellenti c’è Vasco Errani, ex governatore della Toscana, assolto dall’accusa di falso ideologico perché il fatto non sussiste, dopo un calvario lungo 7 anni.

In Calabria, dove a finire sotto indagine sono stati gli ultimi cinque governatori, c’è Mario Oliverio, assolto a gennaio scorso dall’accusa di corruzione e abuso d’ufficio, avanzata dalla Dda di Catanzaro nell’inchiesta “Lande desolate”. Un’inchiesta, quella del 2018, che costrinse l’allora presidente della Regione a tre mesi di “confino” forzato nella sua casa di San Giovanni in Fiore. Ma non solo: proprio a causa di quell’indagine Oliverio fu costretto a rinunciare alla sua ricandidatura, su pressione della segreteria romana del Pd, che per evitare imbarazzi decise di metterlo fuori gioco, decretando, di fatto, la vittoria del centrodestra. «Due anni di gogna mediatica», commentò dopo la decisione del gup. A febbraio è arrivata, dopo otto anni, l’assoluzione piena per 13 ex consiglieri regionali del Lazio, per fatti che risalgono al periodo compreso tra il 2010 e il 2013. Tra loro anche l’attuale senatore del Pd, Bruno Astorre. «Che vita è se per un avviso di garanzia o un rinvio a giudizio ci si deve dimettere?», aveva dichiarato ricordando la gogna subita, i titoli dei giornali e le accuse degli avversari politici.

L’ex sindaco di Lodi

I più forti, quelli con la copertura mediatica maggiore, magari resistono alla valanga di fango dopo l’iscrizione sul registro degli indagati e durante i processi. Altri, invece, decidono di deporre le armi, a volte definitivamente. Come Simone Uggetti, l’ex sindaco del Pd di Lodi, colui che è riuscito nel miracolo di far scusare Luigi Di Maio per la gogna subita: il politico è stato assolto nei mesi scorsi dall’accusa di turbativa d’asta, dopo cinque anni lunghissimi. Anni in cui la sua vita è cambiata radicalmente, in cui «mi sono dovuto reinventare» e fare i conti continuamente con odio e rancore. Uggetti era stato arrestato nel 2016, dopo la denuncia di una dipendente comunale, che lo accusava di aver interferito illecitamente nella redazione di un bando da 4mila euro per la gestione estiva delle piscine comunali. La questione fu soprattutto politica: i grillini si lanciarono subito sul caso, per colpire soprattutto Matteo Renzi, all’epoca ancora segretario del Pd e presidente del Consiglio. E la gogna grillina era stata esasperante: quasi nessuno, tra i big, si era sottratto al gioco del tiro al bersaglio. L’elenco, dunque, è lungo. E la sensazione è che sia destinato ad allungarsi.

«Liberiamo i sindaci dall’incubo delle indagini». L’appello di Bianco. Abuso d'ufficio, il presidente del Consiglio nazionale Anci Enzo Bianco: «Occorre mettere mano a una riforma della magistratura». Valentina Stella su Il Dubbio il 22 ottobre 2021. «I dirigenti della pubblica amministrazione sono nel terrore per il rischio di incappare nelle maglie della giustizia. Occorre mettere mano a una riforma della magistratura, ripristinare l’autonomia dei sindaci». A dirlo ieri Enzo Bianco, presidente del Consiglio nazionale Anci, intervenendo al convegno ‘Ripartire dalla semplificazione della Pubblica amministrazione, una grande opportunità non solo per i professionisti’, organizzato da Ancot (Associazione nazionale consulenti tributari) e Confederazione Aepi (Associazione europea dei professionisti e delle imprese). Come ricordato in un recente ordine del giorno dell’onorevole di Azione Enrico Costa, «il 7 luglio scorso i sindaci hanno manifestato a Roma “per chiedere di intervenire sul reato d’abuso d’ufficio e rivedere la responsabilità amministrativa e i confini entro i quali un amministratore o un dirigente pubblico possono agire, poiché il reato non è ancora abbastanza tipizzato e da ciò discendono i pericoli di un’eccessiva dilatazione dell’intervento penale”; la manifestazione dei sindaci ha rappresentato un grido di dolore di chi quotidianamente si ritrova in prima linea, subendo esposti, quasi sempre infondati, che vengono poi strumentalizzati politicamente». Secondo gli ultimi dati disponibili dell’Istat, nel 2017 sono stati 6.500 i procedimenti aperti per abuso d’ufficio, di cui solo 57 le condanne definitive; nel 2018 quelli definiti da Gip e Gup sono stati 7.133 e 6.142 sono stati archiviati; «si dimostra – conclude Costa –  che i procedimenti aperti per abuso d’ufficio sfociano in condanne definitive in meno di un caso su cento». Nell’accogliere l’odg, il governo si è impegnato a studiare le modifiche alla legge Severino, nel punto in cui prevede la sospensione degli amministratori locali dopo la condanna in primo grado per abuso di ufficio. E in più adesso Partito Radicale e Lega stanno finendo di raccogliere le firme sui sei referendum giustizia, uno dei quali chiede l’abolizione della Severino. Bianco lo avrà sottoscritto?

Il caso a Crema. L’assurdità della sindaca indagata perché un bambino si è rotto un dito a scuola…Giulio Cavalli su Il Riformista il 9 Giugno 2021. Mi raccomando, continuiamo a fingere di non sapere perché qui in Italia quasi nessuno voglia fare il sindaco, quasi nessuno che abbia un ruolo professionale di un certo spessore, nessuno di quelli che hanno capito benissimo l’antifona: perché andare ad infognarsi in un ruolo in cui hai un avviso di garanzia dietro l’angolo (con conseguenze economiche oltre che penali importanti)? Così accade che a Crema la sindaca Stefania Bonaldi si ritrovi con un avviso di garanzia perché un bambino si è schiacciato due dita in una porta tagliafuoco (con effetti non irreversibili) in una scuola materna. Dice la legge che sia lei che avrebbe dovuto controllare che quella porta non si chiudesse. La vicenda fa il paio con il recente caso del sindaco di Lodi Simone Uggetti con una vita rovinata per un appalto da 5mila euro e un’assoluzione arrivata anni dopo ma fa anche il paio con le storie di molti altri sindaci che si sono ritrovati a dover fronteggiare più questioni giudiziarie che politiche. A Torino la sindaca Chiara Appendino è stata condannata a un anno e mezza per la tragedia di piazza San Carlo quando il 3 giugno 2017 si scatenò il panico per dei delinquenti che spruzzarono spray urticante e provocarono due morti e 1500 feriti: la colpa della sindaca è stata di non averlo impedito. Lo stesso è accaduto con il sindaco di Mantova, con Pizzarotti a Parma (6 indagini in 9 anni finite in niente), con l’ex sindaco grillino di Livorno, i casi sono centinaia e si ripetono ogni giorno. Il sindaco di Pesaro Matteo Ricci, presidente delle Autonime locali italiane, non le manda a dire: «È assurdo, basta con queste pazzie contro i sindaci. Come si può indagare un Sindaco per una cosa del genere? Siamo al ridicolo. Davvero poi ci sorprendiamo che scarseggiano i candidati a sindaco? È quanto mai urgente che il legislatore intervenga sulle eccessive responsabilità oggettive che hanno i sindaci, perché non possono ridursi a capro espiatorio di tutti i mali del Paese». «Ogni volta che un sindaco firma un atto rischia di commettere un abuso d’ufficio. Se non firma, rischia l’omissione di atti d’ufficio», aveva sintetizzato bene il presidente dell’Anci Antonio Decaro in una recente intervista. Il tema della responsabilità dei sindaci è un nodo politico grande come una casa e sarebbe davvero uno dei punti da affrontare per un rilancio reale del Paese. E forse questo sarebbe davvero il momento buono visto che praticamente tutti i partiti sono d’accordo.

Giulio Cavalli. Milano, 26 giugno 1977 è un attore, drammaturgo, scrittore, regista teatrale e politico italiano.

«Ora basta!». La rivolta dei sindaci contro le procure. Faremmo male a sottovalutare la storia della sindaca di Crema finita sotto indagine dopo che un bimbo si è schiacciato le dita nella porta dell’asilo comunale. Potrebbe essere il granello di sabbia che fa saltare il sistema? Davide Varì su Il Dubbio il 9 giugno 2021. E se fosse il piccolo granello di sabbia che fa saltare il sistema? O, per essere più drammatici, lo sparo di Sarajevo che nel ’14 incendiò l’Europa? Insomma, faremmo male a sottovalutare la storia della sindaca di Crema finita sotto indagine dopo che un bimbo si è schiacciato le dita nella porta dell’asilo comunale. E faremmo ancora peggio a minimizzare gli sbotti d’ira e di insofferenza arrivati dai sindaci di mezza Italia i quali, appresa la notizia, hanno fatto sapere in coro che questa criminalizzazione quotidiana è diventata insopportabile e intollerabile. E ora mettiamo in fila un po’ di eventi che possono apparire slegati, assembliamoli come fossero le tessere di un puzzle che sembra comporsi giorno dopo giorno sotto i nostri occhi. Iniziamo con la crisi di credibilità della magistratura esplosa col caso Palamara e divampata col caso Storari-Davigo-Amara; poi mettiamoci le scuse pubbliche di Luigi Di Maio che ha chiesto perdono per il linciaggio mediatico contro l’ex sindaco Ugetti (fatto politico rilevantissimo per il leader di fatto del partito cresciuto a forca e manette). Passiamo poi alla diciannovesima assoluzione su diciannove processi subiti dall’ex sindaco di Napoli Bassolino e mettiamoci anche lo scandalo delle intercettazioni trapanesi ai danni di giornalisti e avvocati. E infine arriviamo a oggi: alla rivolta dei sindaci contro una procura che indaga una loro collega per due dita peste. Insomma, la sensazione è che qualcosa si stia muovendo e che questi piccoli eventi siano scosse di avvertimento, segnali di un sistema che sta per saltare. E chissà che quell’avviso di garanzia alla sindaca non diventi il simbolo della fine di un’era: l’era del dominio della magistratura iniziato con le monetine dell’hotel Raphael contro Bettino Craxi e finito ignominiosamente col dito schiacciato di un povero bambino di Crema. E non ci stupiremmo poi tanto se quello che Borrelli definiva il “secolo del potere della magistratura” finisse in questo modo: lo spirito della storia prende forme e strade imprevedibili. O forse qualcosa era prevedibile ma qualcuno lo ha ignorato.

Sindaci, un mestiere pericoloso: il terrore di mettere una firma. Carlo Fusi su Il Quotidiano del Sud il 9 luglio 2021. È PASSATA quasi inosservata, al di là delle meste lamentazioni, al tempo stesso fondate e folkloristiche, di Clemente Mastella sindaco di Benevento riguardo “l’invidia” dei parlamentari, la marcia delle centinaia di primi cittadini che hanno sfilato nel centro di Roma per protestare riguardo la loro condizione d’azione, e i lacci e lacciuoli burocratico-giudiziari che legano loro le mani. È stata una manifestazione circondata dalla distrazione. Eppure il problema esiste e se fino a ieri era urgente, adesso che con il Pnrr gli amministratori – non solo sindaci ma anche presidenti di Regione – avranno responsabilità specifiche nella gestione e allocazione delle risorse, diventa semi-emergenziale. Com’è noto, i sindaci sono il personale politico più vicino alle istanze concrete dei cittadini e molte delle insufficienze e problematicità delle città, soprattutto quelle più grandi, ricadono sulle loro spalle. Non nel senso che ne sono gli artefici, pur se addebiti specifici spesso sono tutt’altro che infondati, ma in particolare perché, seppur eletti proprio con questo mandato, non riescono a risolverle. La situazione è andata via via peggiorando nel corso degli anni. Numerosi casi di mala amministrazione, infatti, hanno rinchiuso l’azione dei primi cittadini in un reticolato di norme e adempimenti tale da diventare ingombrante in modo allarmante. Specificatamente, è invalsa la concezione che ogni delibera o quasi dei municipi potesse essere a rischio malavita o in odore di corruzione. Per cui si sono moltiplicati a dismisura i meccanismi di controllo che, nati da esigenze condivisibili, sono diventati airbag che soffocano ogni intervento e bloccano gran parte delle iniziative. Il risultato è che la discrezionalità politica e la possibilità di scelta è stata quasi annullata, con l’effetto che le amministrazioni in molti casi restano inerti o viaggiano al minimo sindacale perché timorose di incappare nell’incubo dell’abuso di ufficio, di finire sul registro degli indagati, di essere gettati nel tritacarne politico-giudiziario che ne amputa le possibilità di intervento e spesso ne azzera il futuro sia in termini politici che addirittura personali. Come un veleno inarrestabile, quest’inoculazione si è scaricata giù pe li rami su tutta la macchina burocratica dei Comuni: trovare un funzionario che si assume la responsabilità di mettere la firma su un atto amministrativo comportante spese a carico della collettività, è diventato più difficile che vincere al Superenalotto. Né la sindrome controllante è stata superata dall’arrivo nelle sale comunale di ex magistrati, candidati dai partiti spesso come foglia di fico al loro operato oppure frutto di iniziative singole spesso giocate nel chiaroscuro di ricette populiste e promesse intrise di demagogia. Per non parlare di inchieste clamorose come quella di Mafia Capitale che poi non hanno trovato conferme nel processo delle ipotesi accusatorie avanzate, ma hanno comunque contributo loro malgrado a gettare discreto su chi ha gestito il complesso amministrativo. Insomma allo stato dei fatti i sindaci giustamente lamentano che ogni loro atto è a rischio indagine o sospensione, e che così – ripetiamo: al di là dei limiti politici loro e delle maggioranze elette nonché delle eventuali incapacità e inappropriatezze – fare quel mestiere è diventato impossibile. Al punto che una parte non trascurabile delle difficoltà a trovare candidati sindaci di spessore deriva proprio dalla paura dei papabili di finire stritolati. Aprendo così autostrade all’arrivo di personale poco competente o di personaggi con scarsa o perfino nulla caratura amministrativa in un perverso circolo vizioso che pompa scarsa autorevolezza in quello che è un raccordo fondamentale tra cittadini e istituzioni. Adesso poi che le amministrazioni, a tutti i livelli, sono chiamate ad un salto di qualità per rendere effettive e spendere bene le risorse che arrivano dall’Europa, il mastodontico intoppo che si determina a livello locale minaccia di mandare in frantumi anche i piani più ambiziosi ed articolati. Con in più, a livello regionale, i protagonismi dei presidenti che spesso si pongono in un rapporto competitivo e/o concorrenziale con il centro, contribuendo ad accresce la confusione e lo sconcerto nell’opinione pubblica. È una questione che meriterebbe di essere messa in cima alle preoccupazioni delle forze politiche, della maggioranza e del governo. Con tutte le cautele e le garanzie del caso, è forse arrivato il momento di ripristinare o quanto meno riallargare il cerchio della discrezionalità politica e della possibilità di scelta degli amministratori e dei primi cittadini. Che se sbagliano ne pagheranno le conseguenze come è giusto e doveroso, ma che non possono essere penalizzati nelle loro prerogative. Se si ripristina il meccanismo virtuoso della fiducia tra amministrati e amministratori e se la giustizia controlla senza diventare occhiuta e ossessiva, può venirne del bene per tutti. Forse è arrivato il momento di provarci.

Comuni paralizzati dalle inchieste, così è impossibile amministrare. Viviana Lanza su Il Riformista il 10 Giugno 2021. Qual è il perimetro delle responsabilità di un sindaco? La domanda torna di attualità dopo il caso della sindaca di Crema che ha ricevuto un avviso di garanzia perché un bambino si è schiacciato un dito all’asilo. L’episodio ha spinto l’Anci a valutare di presentare una proposta di legge per ridurre gli effetti della Severino ed evitare la cosiddetta “paura della firma” che paralizza le iniziative degli amministratori pubblici ogni volta che la magistratura entra con un’indagine in decisioni che riguardano la pubblica amministrazione. C’è infatti una serie di reati, a partire dall’abuso d’ufficio, che finiscono per condizionare l’andamento della vita pubblica. Il nodo della questione sta nella difficoltà di bilanciare l’esigenza di verifica della regolarità di atti e decisioni che compete all’autorità giudiziaria con la discrezionalità e la possibilità di azione che invece compete al pubblico amministratore. Spesso si crea uno sbilanciamento per cui l’azione giudiziaria interferisce con quella amministrativa e la paralizza. Questo sbilanciamento diventa una spada di Damocle sulla testa di ogni amministratore pubblico. Tanto che quello del sindaco sembra quasi essere diventato un incarico rischioso che può esporre alla gogna mediatico-giudiziaria per un nonnulla. Con il risultato di ritrovarsi per anni nel limbo della giustizia per poi essere assolti. Secondo alcune statistiche raccolte dall’Anci, infatti, nella stragrande maggioranza dei casi le indagini sui sindaci finiscono in una bolla di sapone e solo il 2% dei procedimenti si conclude con una sentenza di condanna definitiva. I primi cittadini, dunque, lamentano di incorrere in responsabilità, anche penalmente rilevanti, sproporzionate rispetto ai poteri loro attribuiti che sono poteri di puro indirizzo politico. Di qui la richiesta di una modifica della legge. «Bisognerebbe domandarsi fin dove si spinge la responsabilità di un sindaco che certo non ne ha sulla funzione gestionale che compete a dirigenti e funzionari – riflette Vincenzo Figliolia, sindaco di Pozzuoli – E bisognerebbe anche comprendere bene alcune norme del codice penale, per esempio per quanto riguarda l’abuso di ufficio. I sindaci hanno una missione delicatissima e una responsabilità enorme e spesso il Parlamento li ha lasciati soli nella grande sproporzione tra responsabilità e problemi reali. Chi non ha mai fatto il pubblico amministratore a livello locale non si rende conto della complessità e dei molteplici problemi che si possono avere dalla mattina alla notte, h24, per occuparsi di tutti, dai servizi alla sicurezza. La mia città, Pozzuoli, ha circa 90mila abitanti, è la quinta della Campania: è come se fossi l’amministratore delegato di un’azienda con 90mila persone. C’è un mondo sulle spalle di un primo cittadino». «Non è un caso che nessun politico voglia fare il sindaco – osserva Ciro Buonajuto, sindaco di Ercolano e coordinatore regionale di Italia Viva – C’è una sproporzione eccessiva tra le responsabilità e le competenze di un sindaco, che si parli di una grande città o di un piccolo centro. Per questo credo che bisogna introdurre delle novità nel Testo unico degli enti locali. Faccio un esempio: l’abuso d’ufficio, reato che ha un perimetro non molto chiaro, scatena il terrore della firma. Tutti hanno paura di commetterlo perché non si comprende bene quale sia la fattispecie concreta che possa definirlo e questo comporta che alla fine il sindaco ha responsabilità incredibili ma competenze limitate. Di fatto la macchina amministrativa la muovono funzionari e dirigenti, non certo il primo cittadino. Ciò che è accaduto al sindaco di Crema ne è la prova: come fa la porta nella quale si è chiuso il dito il bambino a stare sotto il potere di di controllo del sindaco?» «Il rischio di finire sotto inchiesta può condizionare e può diventare un’inibizione, spingendo a pronunciare la fatidica frase “chi me lo ha fatto fare” – dice Vincenzo Catapano, sindaco di San Giuseppe Vesuviano e responsabile degli enti locali per la Lega in Campania – Ho dovuto affrontare sette/otto procedimenti penali, tutti archiviati, uno solo risolto in udienza preliminare pochi mesi fa per abuso d’ufficio e sono stato scagionato da qualsiasi accusa. La riforma sulla separazione delle competenze è stata fatta, la gestione spetta ai dirigenti ma resta facilissimo per un sindaco finire coinvolto in vicende giudiziarie. L’abuso d’ufficio è come il sale in ogni minestra. In otto anni che sono sindaco ho avuto 2mila accessi; tra l’altro la mia città è quella che ha ricevuto più finanziamenti europei per il maggior numero di lavori strutturali in Campania. Attualmente a San Giuseppe Vesuviano ci sono 15 cantieri aperti: altri, al mio posto, si sarebbero scoraggiati e ritirati in buon ordine». «Dobbiamo formalizzarci sui poteri che sono assegnati dalla legge ai primi cittadini – suggerisce Gaetano Cimmino, sindaco di Castellammare e vicepresidente dell’Anci regionale – Un sindaco, nel corso del proprio mandato, è esposto ad ampie responsabilità mentre i poteri sono fermi a quelli di indirizzo politico, perché i poteri gestionali sono demandati ai dirigenti. Va quindi rivista la legge dovrebbe consentire a un sindaco di amministrare ed espletare il proprio mandato in maniera chiara. Se oggi la politica è in crisi e si aggrappa a espressioni di civismo è anche per questo motivo. Noi sindaci non chiediamo immunità o impunità ma solo di essere liberati da responsabilità che non sono nostre. Un’alternativa potrebbe essere quella di consentire al sindaco che si insedia si nominare non solo la giunta, ma anche tutti i dirigenti scelti tra persone di sua fiducia in modo tale da assumersi non solo la responsabilità politica ma anche amministrativa».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

I sindaci sono bersaglio della magistratura, è vero. Ma…Dopo la vicenda della sindaca di Crema indagata per il dito pesto di un bambino, interviene il presidente dell'Anci. Il Dubbio il 12 giugno 2021. In Italia sta avvenendo un fenomeno strano. In tanti comuni, piccoli e grandi, i cittadini, le associazioni, i partiti sono alla disperata ricerca di qualcuno che voglia candidarsi a sindaco. Il candidato sindaco, esemplare un tempo molto diffuso, pare sia a rischio estinzione. Però, se consideriamo gli ultimi fatti di cronaca, come quello che ha riguardato la collega sindaca di Crema Stefania Bonaldi, indagata per un incidente che ha visto coinvolto un bambino in un asilo nido comunale, come potremmo biasimare chi, in questi giorni, rifugge anche dall’idea di una possibile candidatura? Io, però, non voglio arrendermi e, da rappresentante di tutti i sindaci italiani, ho pensato di scrivere ai non-candidati. So bene il perché non volete candidarvi. Non volete farlo perché qualsiasi cosa accada nel vostro Comune sarà vostra responsabilità. Ogni volta che proverete a pedonalizzare anche solo un isolato stradale, vi troverete a lottare contro la burocrazia dell’adempimento formale che vi farà perdere tempo, pazienza e buon umore. Non volete candidarvi perché vi hanno detto che ogni firma che metterete in calce a un provvedimento è un potenziale avviso di garanzia per il reato di abuso, così come le firme non messe potrebbero avere lo stesso effetto per il reato di omissione. E si sa, un avviso di garanzia, con la conseguente gogna mediatica, fa perdere la serenità per mesi, spesso anni. Non volete candidarvi perché vi hanno detto che per i cittadini se un ospedale non funziona, se aumentano gli scippi, se la gente getta i rifiuti per strada, se piove, se fa troppo caldo, se la squadra cittadina retrocede è sempre e solo colpa del sindaco. Bene, tutto quello che vi hanno detto è vero. Tragicamente vero. Ma io che faccio il sindaco della mia città da sette anni posso dirvi che a questo racconto a senso unico, manca qualcosa. Qualcosa che non è scritto nel testo unico sugli enti locali, né nei i trattati di politica o di pubblica amministrazione. Manca quello che si prova indossando la fascia tricolore. Quello che si prova quando un bambino, durante la recita di Natale, si avvicinerà per chiedervi di parlare con Babbo Natale per avere una giostrina nel parco sotto casa sua, quando una ragazza si rifugerà nell’ufficio del sindaco per chiedergli di intercedere con i suoi genitori che l’hanno allontanata perché lei ama una donna. Quello che si prova guardando occhi e bocche spalancate dei cittadini nell’ammirare stupiti un teatro restaurato o un museo recuperato. In quei momenti l’orgoglio di indossare quella fascia può farti fare di tutto, anche improvvisarti guida turistica, come ho visto fare una volta al sindaco di Rimini, Andrea Gnassi. Fare il sindaco può farti vivere un’emozione grandissima come quella che ha provato il collega Marco Bucci quando ha inaugurato il nuovo ponte dimostrando che questo Paese è capace di rialzarsi anche dopo una immane tragedia. È quello che si prova quando si fa la cosa più bella del mondo: cambiare in meglio la vita dei cittadini. Nessuno più del sindaco può farlo. Non c’è nulla che dia più soddisfazione. Cara non candidata, caro non candidato, ripensaci.  Candidati a fare il mestiere più bello del mondo. E se ti stai chiedendo: “Ma ne vale la pena?”, la risposta è sempre la stessa. Sì, ne vale la pena. Ne vale la pena sempre, perché questo è il nostro Paese, è l’Italia in cui siamo nati e siamo cresciuti, è l’Italia che ha bisogno dei sindaci, è l’Italia che troppe volte si appoggia su di noi e poche volte ci ringrazia, è l’Italia che però noi non possiamo mollare. “Dei remi facemmo ali al folle volo”, così Dante scriveva di Ulisse che incitava i suoi alla conquista del mondo sconosciuto. Questa frase spesso mi ha accompagnato nelle mie scelte. Perché ogni giorno forte è la convinzione che la fatica di remare, contro le difficoltà quotidiane, può trasformarsi nella gioia di volare e di raggiungere un nuovo traguardo, piccolo o grande che sia. Per gli occhi di quel bambino della recita di Natale e per il sorriso di quel nonno in smoking all’inaugurazione del teatro comunale. Ne vale la pena. Sì. In Italia sta avvenendo un fenomeno strano. In tanti comuni, piccoli e grandi, i cittadini, le associazioni, i partiti sono alla disperata ricerca di qualcuno che voglia candidarsi a sindaco. Il candidato sindaco, esemplare un tempo molto diffuso, pare sia a rischio estinzione. Però, se consideriamo gli ultimi fatti di cronaca, come quello che ha riguardato la collega sindaca di Crema Stefania Bonaldi, indagata per un incidente che ha visto coinvolto un bambino in un asilo nido comunale, come potremmo biasimare chi, in questi giorni, rifugge anche dall’idea di una possibile candidatura? Io, però, non voglio arrendermi e, da rappresentante di tutti i sindaci italiani, ho pensato di scrivere ai non-candidati. So bene il perché non volete candidarvi. Non volete farlo perché qualsiasi cosa accada nel vostro Comune sarà vostra responsabilità. Ogni volta che proverete a pedonalizzare anche solo un isolato stradale, vi troverete a lottare contro la burocrazia dell’adempimento formale che vi farà perdere tempo, pazienza e buon umore. Non volete candidarvi perché vi hanno detto che ogni firma che metterete in calce a un provvedimento è un potenziale avviso di garanzia per il reato di abuso, così come le firme non messe potrebbero avere lo stesso effetto per il reato di omissione. E si sa, un avviso di garanzia, con la conseguente gogna mediatica, fa perdere la serenità per mesi, spesso anni. Non volete candidarvi perché vi hanno detto che per i cittadini se un ospedale non funziona, se aumentano gli scippi, se la gente getta i rifiuti per strada, se piove, se fa troppo caldo, se la squadra cittadina retrocede è sempre e solo colpa del sindaco. Bene, tutto quello che vi hanno detto è vero. Tragicamente vero. Ma io che faccio il sindaco della mia città da sette anni posso dirvi che a questo racconto a senso unico, manca qualcosa. Qualcosa che non è scritto nel testo unico sugli enti locali, né nei i trattati di politica o di pubblica amministrazione. Manca quello che si prova indossando la fascia tricolore. Quello che si prova quando un bambino, durante la recita di Natale, si avvicinerà per chiedervi di parlare con Babbo Natale per avere una giostrina nel parco sotto casa sua, quando una ragazza si rifugerà nell’ufficio del sindaco per chiedergli di intercedere con i suoi genitori che l’hanno allontanata perché lei ama una donna. Quello che si prova guardando occhi e bocche spalancate dei cittadini nell’ammirare stupiti un teatro restaurato o un museo recuperato. In quei momenti l’orgoglio di indossare quella fascia può farti fare di tutto, anche improvvisarti guida turistica, come ho visto fare una volta al sindaco di Rimini, Andrea Gnassi. Fare il sindaco può farti vivere un’emozione grandissima come quella che ha provato il collega Marco Bucci quando ha inaugurato il nuovo ponte dimostrando che questo Paese è capace di rialzarsi anche dopo una immane tragedia. È quello che si prova quando si fa la cosa più bella del mondo: cambiare in meglio la vita dei cittadini. Nessuno più del sindaco può farlo. Non c’è nulla che dia più soddisfazione. Cara non candidata, caro non candidato, ripensaci.  Candidati a fare il mestiere più bello del mondo.  E se ti stai chiedendo: “Ma ne vale la pena?”, la risposta è sempre la stessa. Sì, ne vale la pena. Ne vale la pena sempre, perché questo è il nostro Paese, è l’Italia in cui siamo nati e siamo cresciuti, è l’Italia che ha bisogno dei sindaci, è l’Italia che troppe volte si appoggia su di noi e poche volte ci ringrazia, è l’Italia che però noi non possiamo mollare. “Dei remi facemmo ali al folle volo”, così Dante scriveva di Ulisse che incitava i suoi alla conquista del mondo sconosciuto. Questa frase spesso mi ha accompagnato nelle mie scelte. Perché ogni giorno forte è la convinzione che la fatica di remare, contro le difficoltà quotidiane, può trasformarsi nella gioia di volare e di raggiungere un nuovo traguardo, piccolo o grande che sia. Per gli occhi di quel bambino della recita di Natale e per il sorriso di quel nonno in smoking all’inaugurazione del teatro comunale. Ne vale la pena. Sì.

Il sindaco? Chi te lo fa fare? Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 22 Giugno 2021. Da qualche anno le interviste ai sindaci sono diventate la specialità del foglio mensile PRIMOPIANOSCALAc, pubblicato da Telos A&S. Abbiamo dato voce a moltissimi tra loro, dal sindaco di Lima in Perù, alle sindache di Reno in Nevada e di Sydney in Australia, passando per il primo cittadino di Vienna. Non sono mancati i sindaci italiani di grandi e piccoli Comuni, da Milano, Torino, Palermo, Bari, fino a Cerignale e San Lazzaro di Savena. Possiamo dire di avere attivato un osservatorio sul lavoro del primo cittadino, che è la vera scuola della politica. Il sindaco di piccole e grandi realtà ha a che fare con un universo di problemi e di opportunità, che deve saper gestire e cogliere, cercando di collegarle con le politiche nazionali. Lo conferma il primo cittadino di Terni, che abbiamo intervistato questo mese. Leonardo Latini ricorda che “il compito dei sindaci e degli amministratori locali dovrebbe essere anche, anzi forse soprattutto, di rappresentare le esigenze dei territori verso i livelli superiori dell’Amministrazione Pubblica. Dovere dei Governi e degli enti sovraordinati deve essere però quello di ascoltare gli amministratori locali e di far tesoro dei loro consigli e delle loro esigenze, perché il collegamento tra lo Stato centrale e i territori è fondamentale. […] soprattutto sotto il profilo della ripartizione delle risorse che dovrebbe ispirarsi ai principi di una sussidiarietà vera”. E aggiunge che il Presidente del Consiglio dovrebbe essere chiamato il “Sindaco dei Sindaci”, proprio per sottolineare la necessità di una continua interazione tra le due funzioni. Leggi l’intervista. Tuttavia, malgrado l’importanza strategica di questo ruolo, la carriera del sindaco sta attraversando una crisi delle vocazioni, tanto che i partiti faticano a trovare i candidati. Tra i problemi, gli stipendi troppo bassi, soprattutto se commisurati con la mole di responsabilità che il ruolo impone, e il rischio di condanne penali per fatti che il sindaco non è sempre in grado controllare ed evitare. Ha colpito tutti l’avviso di garanzia alla prima cittadina di Crema Stefania Bonaldi, “responsabile” dello schiacciamento della manina di un bambino nella porta tagliafuoco di un asilo. Così come ha fatto riflettere la condanna a un anno e sei mesi di Chiara Appendino per i fatti di piazza San Carlo a Torino del giugno 2017. Episodi che hanno portato il presidente dell’Anci e sindaco di Bari Antonio Decaro a sottoscrivere un appello al Parlamento per la revisione del Tuel, il Testo Unico degli Enti Locali. “Prima o poi qualcuno dovrà rispondere quando l’Italia resterà un Paese senza sindaci”. La provocazione del presidente dell’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani porta la lobbista che è in me a fare una considerazione estrema, ma neanche troppo: rischiamo di svuotare la più grande scuola italiana della politica per colpa di una porta tagliafuoco.

Perché nessuno vuole più fare il sindaco di una grande città. di Ignazio Marino su L'Espresso il 26 maggio 2021. Aumentano le inchieste giudiziarie che coinvolgono i primi cittadini, distruggono reputazioni e li costringono a difendersi per anni. Sono uno degli elementi che tengono lontani gli idealisti dall’impegno politico. La recente condanna a un anno e sei mesi di prigione della sindaca Appendino ci deve fare riflettere su diversi temi. Il primo è la responsabilità delle Procure e dei media nel creare nell’immaginario collettivo l’idea che una persona sia colpevole di un reato già nel momento in cui riceve l’avviso di garanzia, un atto che per legge è disposto dal Pubblico Ministero e notificato all’indagato per invitarlo a nominare un difensore. Essere indagati non significa essere colpevoli ma indica soltanto un coinvolgimento nell’indagine. Peraltro, l’avvio dell’indagine prevede per legge l’onere in capo al Procuratore di raccogliere anche elementi a favore dell’indagato. Vale la pena ricordare che per la Costituzione Italiana l’imputato è innocente sino alla fine dei tre gradi di giudizio previsti dal nostro ordinamento. Invece, basta una banale ricerca su internet per trovare pagine e pagine con i nomi di persone la cui reputazione è stata mediaticamente infangata nel momento dell’apertura di una indagine della magistratura. Un giorno, in Sicilia, ascoltai un commento in cui qualcuno parlando della mafia spiegava che se ti schizzano addosso del fango su un vestito bianco lo potrai anche portare in tintoria, ma qualcuno comunque si ricorderà che quel giorno indossavi un vestito macchiato. Una frase semplice che chiarisce perfettamente il concetto. Il secondo tema è sul ruolo e la responsabilità dei sindaci. Il sindaco di una città metropolitana ha responsabilità enormi, compreso un bilancio annuale in alcuni casi superiore a quello di una grande azienda. Il Sindaco di Roma è responsabile di un bilancio cittadino superiore ai 5 miliardi di euro e, come maggiore azionista, di un fatturato di altri 3,2 miliardi di euro per Acea, la multiutility che distribuisce acqua ed elettricità. Quale amministratore delegato accetterebbe la responsabilità di gestire un’azienda con un bilancio annuo di quasi 10 miliardi, oltre sessantamila dipendenti, diversificata in aree strategiche che vanno dai trasporti sino ai rifiuti tossici di un ospedale, per un salario di 4.500 euro al mese e senza la possibilità di scegliersi una squadra di professionisti che possano assumersi le necessarie responsabilità in ciascuna delle aree di attività dell’azienda? E con il rischio di essere denunciato ogni giorno mentre svolge il proprio lavoro? Chiara Appendino è stata condannata per responsabilità legate alla morte e alle lesioni gravissime di alcune persone in una piazza in cui si scatenò il terrore perché una banda di ladri armati di spray al peperoncino generarono il panico per rubare. Furono individuati e condannati. Marta Vincenzi, già Sindaca di Genova, venne inizialmente condannata a cinque anni di prigione per i drammatici eventi alluvionali del 2011 che portarono alla morte di sei donne, tra cui due bambine. Senza tenere in debito conto che in Italia vi sono 12mila chilometri di fiumi tombati e che a Genova nel secolo scorso è stato tombato il torrente Fereggiano, si è costruito in zone dove non si sarebbe dovuto, si è condonato e così il cemento illecito è divenuto lecito per legge. Come se la legge dell’uomo potesse essere applicata alla natura. La magistratura ha il compito di applicare le leggi, ma se si vuole compiere una riflessione al di là di quella possibile in un tribunale è necessario ammettere gli errori commessi in precedenza e non solo cercare un colpevole nel momento del disastro. Quali possibilità reali ha un sindaco di prevedere o prevenire eventi come quelli di Genova e Torino? Ricordo che dopo aver pedonalizzato via dei Fori Imperiali a Roma nell’autunno del 2014 all’una del mattino un gigantesco pino crollò sulla strada deserta senza causare alcun danno. Alto ventidue metri, con un diametro di oltre un metro e un peso di circa due tonnellate, se fosse caduto una domenica di sole alle undici di mattina avrebbe potuto uccidere diverse persone. Una strage. Fui terrorizzato da questo pensiero: convocai i migliori botanici e decisi di abbattere altri sei pini a rischio su via dei Fori Imperiali. Venni criticato duramente da alcuni gruppi ambientalisti ma avviai lo stesso un lavoro di indagine sistematica per studiare la stabilità delle alberature di Roma e procedere ai necessari abbattimenti. Un lavoro che richiede l’utilizzo di mezzi tecnologici come il resistografo e il tomografo (una sorta di Tac del tronco). Temo che quel lavoro sistematico dopo il 2015 si sia fermato, forse perché costoso o forse perché impopolare. Resta il fatto che migliaia di alberi a Roma sono giunti alla fine del loro ciclo vitale, andrebbero tutti abbattuti e sostituiti invece di sperare che non cadano e di cercare il colpevole quando ciò purtroppo accade. Per circa trent’anni ho eseguito trapianti di fegato. Un intervento oggi assai sicuro ma che nel passato aveva una mortalità elevata e durante il quale il paziente, al tavolo operatorio, poteva perdere letteralmente litri di sangue. Ho sempre fatto il mio mestiere con diligenza e tutto il sapere di cui disponevo e non sono mai dovuto entrare in un tribunale per una denuncia. Per ventotto mesi ho fatto il sindaco e, in relazione a questa carica, sono dovuto entrare nei palazzi della Giustizia come imputato decine di volte. Certo, sono stato sempre assolto con formula piena ma ne ho dovuto sostenere il costo morale e materiale. Addirittura, perché decisi di allontanare le bancarelle degli ambulanti dinanzi al Colosseo, al tempio di Nerva o in piazza di Spagna è stato necessario difendermi sino in Cassazione come semplice cittadino. Solo per quell’azione ricevetti oltre venti denunce che confluirono in un processo penale durato quattro anni e conclusosi in Cassazione con una sanzione monetaria nei confronti di chi mi aveva denunciato. Ma in quelle udienze in tribunale io non ero imputato come Sindaco che aveva preso una decisione per l’interesse della città, bensì come singolo individuo. Rimango orgoglioso di quelle decisioni ma non condivido l’idea che possano essere considerate dalla legge come le azioni di un privato cittadino. Ora che si avvicinano le elezioni dei sindaci nelle principali città metropolitane italiane, mi chiedo quale debba essere il profilo dei candidati. Oltre a competenza e integrità sarà necessario anche sentirsi immuni dal dolore che l’ingresso da imputato in un tribunale provoca a chi non lo ha messo in conto. Servirà anche la disponibilità economica, per farsi carico di una difesa adeguata alle denunce che potrebbe ricevere. Sarà sempre più difficile individuare persone competenti a queste condizioni. Sarà forse più facile trovare idealisti animati da una costruttiva follia reclutati dalla società civile o politici di professione, scaltri e senza scrupoli.

Fausto Carioti per “Libero quotidiano” il 31 maggio 2021. L'ultima storia è quella di Simone Uggetti, che fu sindaco di Lodi. Arrestato in modo spettacolare nel 2016 con l'accusa di turbativa d' asta. Assolto l'altro giorno, ha accolto la notizia in lacrime. In mezzo, un'esistenza e una carriera politica devastate. Antonio Decaro, ingegnere e sindaco pd di Bari, è presidente dell'Anci, l'associazione dei Comuni d' Italia. Il "portavoce del partito dei sindaci", insomma. Storie così ne ha viste tante. «Spesso», dice a Libero, «sbagliamo anche noi politici, che trasformiamo un'indagine in una condanna definitiva. Uggetti è stato assolto, ma quanti lo sanno? Ritrovarsi sui giornali come un malfattore, e dover abbassare lo sguardo mentre incroci i tuoi concittadini, senza aver commesso alcun reato, è la cosa più brutta che possa accadere a chi fa il sindaco».

Pare diventato un mestiere pericoloso, il vostro.

«Lo è. Ogni volta che si trova davanti alla firma di un atto, un sindaco rischia. Se firma, rischia di commettere un abuso d' ufficio; se non firma, rischia di commettere un'omissione di atti d' ufficio».

Abuso d' ufficio, primo rischio professionale per la vostra categoria. Lei conosce tutti gli ottomila sindaci d' Italia. Quanti di loro, quanti dei loro assessori sono indagati per questo reato?

«Gli ultimi dati dicono che tra il 2016 e il 2017 sono state elevate circa settemila contestazioni per abuso d'ufficio. Per ognuna di esse c'è un amministratore indagato. I provvedimenti definitivi di condanna, nello stesso periodo, sono stati meno di cento. La sproporzione è evidente. Quasi tutti gli indagati sono stati prosciolti dall' accusa; molti, addirittura, nemmeno sono stati rinviati a giudizio».

Il testo della legge che prevede il reato di abuso d'ufficio è vago. Articolo 323 del Codice penale: il pubblico ufficiale che «intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni». Voi cosa chiedete?

«Non vogliamo depenalizzare il reato, chiediamo solo che abbia contorni più delineati. Il precedente governo, col primo decreto Semplificazioni, ha delimitato in modo un po' più chiaro i confini. Era il minimo. Aspettiamo di vedere gli effetti, ma c'è ancora molto da fare».

Anche con le altre leggi?

«Sì. Occorre intervenire sulle norme del Testo unico degli enti locali, sulle norme della Protezione civile e sulle norme che regolano le ordinanze dei sindaci. Finché restano come sono, è troppo facile finire indagati per responsabilità che, oggettivamente, non possono ricadere sui sindaci».

Di quali responsabilità parla?

«Oggi un sindaco rischia di trovarsi indagato per inquinamento ambientale o per questioni legate all' ordine pubblico o ai bilanci comunali. Ci sono stati sindaci indagati perché un'automobile è finita in un sottopasso allagato. Alcune norme le abbiamo fatte cambiare, ma ce ne sono ancora molte così. In Piemonte un sindaco è stato indagato perché una persona è caduta mentre stava montando le luci sull' albero di Natale: spettava a lui controllare? Non credo».

Chiara Appendino non si ricandida sindaco di Torino proprio a causa dei processi. Dopo la sua condanna vi mobilitaste tutti.

«Il suo è un caso simbolo: l'ordine pubblico non ricade sotto la responsabilità del sindaco, eppure lei è stata condannata. Ripeto, non vogliamo l'impunità né cancellare i reati. Chiediamo solo di rendere più netti i confini delle ipotesi di reato, così da renderci più liberi di svolgere il ruolo di sindaci».

Sarà anche per questo che i politici di prima fila si guardano bene dal candidarsi a sindaco, a Roma come a Milano e a Napoli.

«Chi trova soddisfazione nella propria attività oggi difficilmente si candida a sindaco. Peccato, perché è un mestiere che ti permette di vivere un'esperienza umana indimenticabile. La situazione è grave soprattutto nei Comuni più piccoli. Le responsabilità sono tante e fino poco tempo fa il sindaco di un piccolo Comune guadagnava 700 euro, meno di quanto avrebbe preso col reddito di cittadinanza. Le pare che abbia senso?».

Nella vostra lista nera c' è pure la legge Severino.

«I sindaci sono gli unici pubblici amministratori che, se condannati in primo grado per abuso d' ufficio, sono sospesi per diciotto mesi. Il sindaco, sempre a causa della legge Severino, è trattato come un appestato anche dopo il mandato. Io, sindaco metropolitano, se fossi dirigente di uno dei Comuni dell'area o un libero professionista che lavora per loro, terminato il mandato non potrei tornare al mio impiego prima di due anni. Il sindaco è l'unica figura istituzionale che non si può candidare in Parlamento se non dimettendosi sei mesi prima. Sembrano norme scritte apposta contro i sindaci».

Marta Cartabia sta lavorando alla riforma della giustizia. Può essere l'occasione per riscrivere le norme che vi rovinano la vita?

«Certo che sì. Abbiamo già scritto al governo. Nei prossimi giorni il consiglio nazionale dell'Anci chiederà a Draghi un intervento deciso».

A Mario Draghi vi siete rivolti anche per le opere previste dal Recovery plan. Paura di non rispettare i tempi?

«Voglio dirlo chiaramente: in queste condizioni, per noi spendere le risorse del Recovery plan entro il 2026 sarebbe impossibile. Abbiamo bisogno di personale, chiediamo assunzioni a tempo determinato sino al 2026. E poi devono cambiare le regole».

Il decreto Semplificazioni varato dal governo non è sufficiente?

«Lì dentro ci sono alcune cose che chiedevamo da tempo, ma non basta. Speriamo che in sede parlamentare, con la conversione del decreto, si osi di più».

Cos'altro serve?

«I nostri problemi riguardano le autorizzazioni e i contenziosi. Per le prime abbiamo chiesto tempi perentori e conferenza dei servizi decisoria in trenta giorni, passati i quali vale il silenzio-assenso».

Soluzione drastica.

«Ma necessaria. E non ci stiamo inventando nulla: una norma simile esiste già per l'edilizia scolastica. Se è valida lì, a maggior ragione può esserlo per le opere del Pnrr, che vanno fatte entro il 2026, se non vogliamo perdere i soldi».

Alcune opere pubbliche hanno un impatto ambientale importante e richiedono autorizzazioni particolari come la Via e la Vas.

«In quel caso, se la conferenza dei servizi non si chiude entro trenta giorni, portiamo la decisione in consiglio dei ministri. Pure questa è una norma che già c' è, per le opere il cui costo è al di sopra di una certa soglia. Chiediamo solo di fare la stessa cosa per le opere del Pnrr».

Resta il problema dei contenziosi sugli appalti, causa principale del blocco dei lavori.

«È legittimo che la ditta che ritiene che le sia stato leso un diritto faccia ricorso. Ma noi non ci possiamo fermare: la sospensiva, il Tar, il consiglio di Stato Se facciamo così, nel 2026 le opere del Pnrr saranno bloccate dai ricorsi».

La soluzione?

«Le pubbliche amministrazioni devono comunque andare avanti con i lavori. Quando il contenzioso si risolve, se chi lo ha aperto vede riconosciute le proprie ragioni, riceve una quota del mancato utile. Siamo in un periodo d' emergenza, usiamo procedure d' emergenza. Con le procedure normali non ne veniamo fuori».

Alcune grandi città si trovano a un passo dal fallimento. La colpa è quasi sempre della gestione disinvolta delle amministrazioni precedenti. Chi deve pagare? I contribuenti della città? Tutti gli italiani?

«Le situazioni nelle quali occorre intervenire riguardano gli oltre mille Comuni in dissesto o pre-dissesto finanziario. Molte risalgono ai decenni passati. I Comuni sono disposti a pagare. Però i piani di risanamento, così, sono inapplicabili».

Perché?

«Quei piani prevedono l'aumento della riscossione e la possibilità di recuperare risorse attraverso la vendita degli immobili. Ma nel 2020 e nel 2021 l'epidemia ha ridotto di molto la capacità di riscuotere. Stesso discorso per gli immobili: se faticavano a venderli prima, figuriamoci in tempi di Covid».

Quindi?

«Chiediamo che i termini per attuare i piani di risanamento siano spostati di due anni. Non mi pare richiesta insensata. Insensato è pretendere che siano ancora valide le vecchie scadenze».

Ci si è messa pure la Corte costituzionale. Ha stabilito che i Comuni non avrebbero potuto usare la liquidità che era stata anticipata dalla Cassa depositi e prestiti per pagare i debiti commerciali con i creditori.

«Quella che la Consulta ha dichiarato illegittima era una norma dello Stato. Tanto è vero che si sono comportati in quel modo 1.400 sindaci italiani. La Cdp assegnò ai Comuni risorse da rimborsare in trent' anni. E ora la sentenza stabilisce che la restituzione deve avvenire in un triennio. Ma riuscirci è impossibile, salta il bilancio».

E allora?

«Abbiamo chiesto allo Stato di accollarsi il debito, i Comuni glielo rimborseranno in trent' anni. Offrono servizi fondamentali ai cittadini, mica possiamo mandarli gambe all' aria».

“Tar, è boom di cause. Indispensabili meno burocrazia e norme comprensibili”, parla Serlenga (Anma). Viviana Lanza su Il Riformista l'1 Aprile 2021. I numeri della giustizia amministrativa in Campania come in tutto il Paese fotografano una realtà che funziona più speditamente di ogni altro settore del mondo giudiziario. Il calo delle pendenze è stato notevole nell’ultimo anno e si sono ridotti anche i tempi medi di definizione dei ricorsi che in materia di appalti si attestano in genere attorno ai 150 giorni e nel 26% dei casi, attraverso l’uso delle sentenze in forma semplificata, si è arrivati a una definizione in appello in 69 giorni. «Siamo di fronte a un processo funzionante non solo perché è telematico ma anche perché è snello», spiega Gia Serlenga, presidente dell’Associazione nazionale magistrati amministrativi. La giustizia amministrativa è stata pioniera nel processo telematico, già dal 2017 si è partiti con la materializzazione del processo. «È chiaro che la sacralità dell’udienza in presenza non è assolutamente sostituibile, ma siamo in emergenza e dobbiamo reagire», afferma, sottolineando come durante l’anno di pandemia, mentre tutto rallentava, la giustizia amministrativa sia riuscita a non fermarsi. Per questo i magistrati amministrativi si sono tenuti fuori dalla polemica sui vaccini: «L’Anm ha agito troppo di pancia, anche se il rischio contagi esiste anche per la nostra categoria». «Abbiamo dato una forte accelerazione alla materia di rilevanza economica, gli appalti – prosegue Serlenga a proposito dell’andamento della giustizia amministrativa – Potenziando gli organici si potrebbero garantire le stesse performance anche per materie considerate di serie B ma che di fatto incidono su diritti fondamentali come l’immigrazione, l’assegnazione di case popolari, l’urbanistica». Per il prossimo futuro ci si prepara a un boom di contenziosi davanti ai tribunali amministrativi. «Nel 2020 si è registrato un calo medio del 20%, il 2021 è già iniziato in modo diverso. Del resto tutte le crisi portano a un boom, facendo ripartire gli investimenti pubblici si attiverà anche la giustizia amministrativa che è il controllore del potere pubblico». Serve però arrivare preparati al futuro. «È sconcertante il modo attuale di procedere sulla base della pressioni dei singoli gruppi di interesse e senza mai avere uno sguardo all’orizzonte, con totale assenza di progettualità – osserva la presidente Serlenga – Non è più possibile che la mano destra non sappia cosa fa la sinistra. Ai controlli non si può rinunciare, ma non si può nemmeno andare avanti così, con norme scritte male, confusionarie, incomprensibili. Un funzionario pubblico deve poter leggere una norma e capirla. Quindi cominciamo dalla tecnica legislativa, ma avendo le idee chiare altrimenti non ne usciamo». Il nodo sono dunque le norme, troppe e poco chiare. «Sicuramente il codice degli appalti andrebbe rivisto nel senso della semplificazione. Inutile fare i furbi inserendo norme con molti commi». Sburocratizzare è la parole chiave. «Abbiamo avuto la legge sugli appalti del 1865 che con pochissime norme ha funzionato, più o meno bene, esattamente fino agli anni ’90 passando indenne a scoperte epocali. Dalla legge Merloni in poi abbiamo assistito a normative riviste un mese dopo l’altro. L’insegnamento da trarre dalla storia è che non è la quantità di norme che può preservarci dal fenomeno corruttivo. Questo è stato l’errore nel quale si è caduti anche con l’Autorità anticorruzione – sostiene la presidente dell’Anma – Addirittura qualche anno si parlò di sottrarre al Tar la competenza per darla all’Anticorruzione perché l’ottica era che la battaglia fosse quella, appesantire. In realtà servirebbero poche norme, e buone, per disciplinare gli appalti e – aggiunge – va ridisciplinato il profilo della responsabilità di chi opera, quindi dei funzionari. Certo non si può pretendere da un’amministrazione un grande passo in avanti se non si danno all’amministrazione le risorse per compierlo questo passo. Guardiamo alle realtà territoriali che non hanno risorse per fare il salto.  Se nel futuro non si riuscirà a sburocratizzare le procedure non avremo mai investimenti». Per il Sud sarebbe una condanna senza appello.

"Atto politico insindacabile". La Corte dei conti sancisce la supremazia sulla giustizia. L'archiviazione dell'inchiesta su Zingaretti e Raggi apre nuovi scenari sulla separazione dei poteri. Massimo Malpica - Gio, 11/03/2021 - su Il Giornale. C'è qualcosa di rivoluzionario nella decisione della procura della Corte dei conti di archiviare l'inchiesta contro Nicola Zingaretti e Virginia Raggi per l'acquisto del palazzone del costruttore Parnasi all'Eur, destinato a diventare sede della Provincia di Roma (all'epoca governata dal segretario dimissionario del Pd). La decisione del viceprocuratore generale Gaia Palmieri, che oltre a quelle del sindaco di Roma e del governatore laziale ha archiviato anche altre 33 posizioni (su 37 indagati in totale) segna un precedente importante nel rapporto tra magistratura (contabile, in questo caso) e politica. Lasciando cadere le accuse sulla base delle deduzioni presentate nella memoria difensiva di Zingaretti dai suoi avvocati, Edoardo Giardino e Valerio Tallini, che hanno convinto il viceprocuratore della insussistenza delle condizioni per arrivare al processo. E tra i punti chiave su cui hanno puntato i legali di Zingaretti, la pietra tombale dell'indagine della Corte dei conti, accolta dalla stessa procura, è stata l'insindacabilità dell'atto politico, relativamente alla scelta da parte della Giunta provinciale di costituire un fondo immobiliare per l'acquisizione di quell'immobile. In pratica, la decisione era squisitamente politica, hanno sostenuto Tallini e Giardino, e il viceprocuratore Palmieri ha sposato la stessa linea, definendo quella scelta della provincia presieduta da Zingaretti, principale oggetto di contestazione della procura della Corte dei Conti, che lo riteneva origine di un danno erariale, «una scelta discrezionale sindacabile dal Giudice contabile entro limiti ristretti». Insomma, dietro al sospiro di sollievo per il governatore laziale e per la sindaca di Roma, emerge l'affermazione di un principio, un paletto, che permette di marcare il confine invalicabile - tra l'azione degli esponenti politici e le contestazioni della magistratura. Se un sindaco decide di finanziare una determinata opera con un determinato strumento, al netto della correttezza dell'iter, dovrebbero essere i suoi elettori a giudicarlo e non un pm o un giudice, che su quella scelta discrezionale non possono sindacare. Un principio che, nel provvedimento di archiviazione parziale, viene stampato nero su bianco dal viceprocuratore Palmieri che, a proposito della scelta di costituire il fondo, come strumento per quell'operazione immobiliare, politicamente discutibile quanto si vuole, scrive che si tratta di «valutazioni discrezionali che, alla luce delle controdeduzioni in atti, non appaiono caratterizzate da irragionevolezza o arbitrarietà, e perciò non sono sindacabili in questa sede». Non ci sono dunque illeciti erariali per i quali indagare ancora Zingaretti o la Raggi, e anzi dalla magistratura contabile arriva un precedente che potrebbe appunto definirsi rivoluzionario per riaffermare il principio della separazione dei poteri. Resta da vedere, ora, se questo confine - tracciato sull'asfalto della strada che ha portato all'archiviazione di Zingaretti e Raggi - verrà rispettato anche quando altri magistrati saranno chiamati a pronunciarsi su vicende che riguardino scelte di indirizzo politico. Magari anche di altre parti politiche.

Il vizio della Pubblica amministrazione: premia chi non decide e ha "le carte a posto". Nel "Decalogo dell'impiegato pubblico" dell'avvocato Celotto una diagnosi impietosa dei peccati segreti della nostra burocrazia. Giuseppe Marino - Mer, 10/03/2021 - su Il Giornale. «Vado all'Urp per incontrare il Rup e ottenere il Durc». È uno dei brillanti esempi con cui Alfonso Celotto spiega un caposaldo della Pubblica amministrazione: «Il linguaggio, deve essere oscuro, meglio se fatto di sigle, una tendenza che risale addirittura al Futurismo, quando le abbreviazioni evocavano la velocità, la rapidità, l'opposto di quel che accade oggi». Avvocato amministrativista, appassionato di diritto costituzionale, capo di gabinetto in vari governi, da Renzi ai gialloverdi, Celotto è però soprattutto il miglior cantore di vizi e vezzi della Pubblica amministrazione al punto che, nella sua incarnazione da scrittore, ha costruito una saga romanzesca il cui eroe immaginario è «Ciro Esposito, direttore della Gazzetta Ufficiale». Il quale, a chi gli chiede come va, risponde: «Ai sensi della normativa vigente». Celotto, come il dottor Esposito, è un estimatore del ruolo della Pubblica amministrazione e sebbene nel suol «Decalogo dell'impiegato pubblico» non risparmi il sarcasmo sulla categoria, ammette che i problemi strutturali e normativi sono ben più importanti della tendenza di una parte dei burocrati a seguire la penultima regola: «Nove, undici, tredici, quindici. Ovvero i quotidiani appuntamenti immancabili con giornale, cappuccino, pranzo, caffè». Il comandamento più importante in realtà è il secondo: «Tieni le carte a posto». «Il sistema -spiega- premia chi non decide. Chi si prende la responsabilità della firma, rischia. E allora crea un paravento di carte, chiede tre pareri a tre enti e così se qualcuno gli chiede conto, può sempre dire che aveva le carte a posto». Il risultato è che tutto rallenta, annega in un mare di procedure, create con l'illusione che il moltiplicarsi dei passaggi e delle certificazioni garantisca contro trucchi e imbrogli. E invece rende impossibile controllare per davvero: così il furbo e il corruttore aggirano senza difficoltà gli ostacoli burocratici, potendo contare anche sui frutti della corruzione, il cittadino comune resta impigliato nella rete. «I due terzi dei casi di corruzione riguardano fatti leciti -spiega Celotto- perché a fronte dell'arbitrio, della procedure complicate, dell'immobilismo diffuso, anche chi ha diritto a volte preferisce ottenerlo come un favore». C'è poi il capitolo delle assunzioni annunciate dal ministro Brunetta per svecchiare il personale. «Sicuramente la pubblica amministrazione ne ha bisogno -spiega Celotto- perché oggi c'è un'età media del personale elevatissima a causa del blocco del turn over, è mancata la formazione e quindi le competenze e soprattutto è diffuso l'approccio per cui i dipendenti pubblici sono tutti uguali, per cui quello che lavora viene trattato allo stesso modo di chi si fa gli affari suoi. Serve personale nuovo, ma anche formazione e i giusti incentivi». Eppure ogni riforma è accompagnata da un grande scetticismo: «L'ultimo governo De Gasperi aveva un ministro per la riforma della Pa e si trovano dure invettive contro la burocrazia già nei discorsi di Mussolini e di Cavour -rievoca Celotto- Nel 1993 quando Sabino Cassese divenne ministro della Funzione pubblica, fece una ricognizione delle riforme della Pa: già allora erano oltre 60. Il problema è proprio che ci sono troppe leggi e troppi enti: per poter cambiare davvero bisogna disboscare. La pandemia ha complicato le cose, ma chissà, magari darà anche la spinta giusta».

Il reato indefinito. Abuso d’ufficio: così i Pm hanno sottomesso la politica. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 7 Marzo 2021. Il reato di abuso in atti di ufficio ha una storia lunga, tormentata e -come dire – vagamente isterica. Nella sua originaria formulazione, la norma era pressoché “in bianco”: il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, al fine di acquisire un vantaggio per sé o per altri, o arrecare ad altri un danno, “abusa del suo ufficio, è punito” eccetera. Le norme penali in bianco sono una sciagura, perché sia il Pubblico Ministero che il giudice possono assegnare loro un significato ignoto al cittadino accusato di aver violato la norma medesima. “Abusa del suo ufficio”, come è ovvio, può significare tutto e il suo contrario. Nel 1990 la norma subì una prima modifica, ma non relativa a quella sua micidiale genericità. La riforma fece solo sì che quel reato inglobasse l’abrogato interesse privato in atti di ufficio, prevedendo un aggravamento di pena se l’interesse ed il danno perseguiti dalla (sempre indeterminata) condotta abusiva fossero di natura patrimoniale. Nel 1997 la norma subì finalmente una prima, importante modifica. La esigenza di specificare, cioè di tipizzare una norma di fatto “in bianco”, ne impose finalmente la riscrittura. L’abuso deve essere caratterizzato dalla violazione di legge e di regolamenti; e la condotta di avvantaggiare indebitamente sé stessi od altri, o di danneggiare terzi, deve essere intenzionale. I nostalgici dell’abuso d’antan (puntualmente in prima linea Piercamillo Davigo dalle colonne dell’amato Fatto Quotidiano) omettono puntualmente di ricordare perché si arrivò a quella prima riforma. Ve lo ricordo io. Quella norma in bianco fu usata dalla magistratura italiana, a partire dai primissimi anni novanta, come una clava. Le indagini per abuso in atti di ufficio impazzarono in tutto il Paese, perché attraverso di esso le Procure di tutta Italia poterono esercitare un potere di controllo pressoché assoluto sulla Pubblica Amministrazione, sulle sue stesse scelte discrezionali, sulle sue dinamiche politiche. Che poi, anni dopo, quelle indagini ed i relativi processi finissero sistematicamente (come le statistiche confermano in modo eclatante) nel nulla, essendo in larga misura il nulla, poco importa. Intanto, le sorti politiche e professionali di sindaci, assessori, giunte regionali, amministratori di aziende pubbliche in genere, le decidono le Procure. Senonché la riforma del 1997 vide vanificati i suoi salutari intenti nel breve spazio di un mattino, perché da subito la giurisprudenza si occupò di annacquarne il senso, pur inequivocabile. Per dirne una: nella nozione di “violazione di legge” va inclusa – stabiliscono i magistrati- anche la violazione del principio costituzionale del buon andamento della Pubblica Amministrazione (art. 97). Dunque non prendiamoci la pena di dover individuare per forza una violazione di legge specifica, come pure la legge imporrebbe: qualunque atto amministrativo che possa essere qualificabile come atto di cattiva amministrazione, torni ad essere penalmente sindacabile. La giurisdizione penale rinunzia ben difficilmente ad un potere così formidabile quale è quello di controllare e sindacare, con la forza devastante della azione penale, la Pubblica Amministrazione. Sia ben chiaro, qui nessuno pretende, come si vorrebbe far intendere, l’impunità per i cattivi amministratori: stiamo discutendo di altro. Corruzione, concussione, peculato, induzione indebita, malversazione, fino ad arrivare all’impalpabile “traffico di influenze”, sono tutte condotte che presuppongono che il pubblico ufficiale abusi del proprio ufficio, cioè dei poteri che da esso derivano; e sono, come è giusto che sia, di già severamente punite. Non c’è nessun bisogno di prevedere una specie di norma di chiusura delle condotte di abuso, utile solo a mantenere sotto il giogo delle Procure ogni atto, ogni intenzione, ogni scelta discrezionale della Pubblica Amministrazione. La ribellione della giurisdizione alla chiara volontà che il Parlamento sovrano espresse con la riforma del 1997 ha finito di fatto per ricostituire le condizioni preesistenti del reato di abuso di ufficio come norma penale in bianco. Al punto che perfino il Governo Conte due, dunque in pieno populismo penale, nel 2020 ha ritenuto indispensabile intervenire di nuovo, ribadendo che il reato di abuso non può mai riguardare un atto discrezionale della Pubblica Amministrazione, salvo che ovviamente quell’atto non integri condotte abusive più severamente punite (corruzione, concussione, peculato eccetera). Il dott. Davigo se ne duole, dice che questa storia della paura di firmare che hanno i pubblici amministratori è inspiegabile, male non fare paura non avere, ed amenità simili. Ora forse capirete un po’ meglio perché il dott. Davigo se ne duole. Io intanto, faccio il facile profeta: diamoci un po’ di tempo, e cominceremo a leggere le prime ordinanze di custodia cautelare che ci diranno: un momento, ma cosa significa in realtà “atto discrezionale”? Cosa dobbiamo davvero intendere per “specifiche norme di legge”, come pretende la nuova, ennesima riforma? e saremo – come si suol dire – da capo a dodici. Accetto scommesse.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 6 marzo 2021. Lo spauracchio del reato di abuso d'ufficio, il terrore dei funzionari pubblici di mettere una firma evocato anche dal presidente Draghi nel suo discorso in Parlamento, l'urgenza di abolire il reato per non paralizzare la ripartenza dell'Italia? Sono un po' come per Mark Twain la notizia della propria morte: fortemente sopravvalutata. Almeno stando alla prima spiazzante applicazione di merito della modifica normativa varata nel luglio 2020 dal decreto Semplificazioni (premier Conte, ministro della Giustizia Bonafede), che ora determina la richiesta di archiviazione del sindaco di Busto Arsizio e presidente della Provincia di Varese in un caso di pur provato ostruzionismo a un supermercato Coop. Sì è vero, riassume infatti l'inchiesta GdF nata dalle indagini difensive del legale Coop Giacomo Lunghini, il sindaco Emanuele Antonelli ha intenzionalmente ostacolato la realizzazione di una rotonda prevista invece dalle tavole della convenzione in Comune per l'apertura. Sì è vero, nell'inchiesta «Mensa dei poveri» (sul ras della politica locale Nino Caianiello) c'è un'intercettazione in cui il sindaco sospira «magari riuscissi» a non far fare a Coop la rotonda, e si rammarica che «più di così non si può fare niente, se no mi denunciano, li ho già tirati fino a Natale. Devo cercare di fargli fare i lavori a agosto, così li faccio impazzire... perché vuol dire un altro anno...». Inoltre un architetto, allora consigliere comunale e assessore alle Opere pubbliche, ha testimoniato che «il sindaco non voleva che la rotonda si realizzasse e chiese di trovare un cavillo per rallentare la realizzazione» pur «prevista dalla convenzione sottoscritta», e alla fine trovò una intesa con Coop «ma solo dopo averne rallentato l'iter». Un geometra comunale ha confermato che fu il sindaco a ordinargli (con tanto di foto scattate da casa) un sopralluogo sull'asserito abuso edilizio, in realtà un generatore contemplato dalla convenzione. E un dirigente comunale, che non ci trovò nulla di irregolare, racconta di aver poi subìto tre contestazioni disciplinari, una sanzione economica e il cambio delle mansioni. Ma «la modifica normativa» del reato di abuso d'ufficio «operata dall'art. 23 comma 1 del D.L. 76/2020», prende atto la pm Martina Melita, «ha operato una parziale abolitio criminis» sotto forma di «interpretazione autentica della norma incriminatrice». Mentre prima l'abuso d'ufficio poteva punire ogni caso di violazione di «norma di legge o di regolamento», comprese quindi dei generali principi di imparzialità e buon andamento desumibili dall'articolo 97 della Costituzione, con la modifica del 2020 invece l'abuso d'ufficio può punire esclusivamente violazioni di «specifiche regole di condotta espressamente previste da atti aventi forza di legge per i quali non residuino margini di discrezionalità». La differenza (applicata al caso del presidente della Provincia di Varese dal 2018, nel 2016 eletto sindaco di Busto Arsizio alla guida del centrodestra e a luglio 2020 passato da Forza Italia al partito Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni con cui ha annunciato la ricandidatura) fa sì che la GdF e ora la Procura ritengano da un lato che è «confermata la condotta del sindaco di ostacolare o quantomeno rallentare la realizzazione e l'apertura del supermercato Coop», ma dall'altro lato che questo suo ostruzionismo «non si può dire» abbia «violato specifiche norme di legge o aventi forza di legge». Per il pm ha di certo «violato il principio di imparzialità nell'agire amministrativo di cui all'articolo 97 della Costituzione»: ma questa condotta «non è più prevista come reato» dopo la modifica nel 2020. E col cerino in mano resta, per paradosso, solo il geometra comunale al quale il sindaco ordinò il sopralluogo: «Falso in atto pubblico» per aver poi attestato che il generatore non stesse (e invece stava) nei progetti depositati in Comune.

«Abuso d’ufficio? Per come è adesso tanto valeva abolirlo». Francesca Spasiano su Il Dubbio il 28 Feb 2021. Per il magistrato Giorgio Fidelbo, presidente di Sezione della Corte di Cassazione, la normativa emergenziale dell’ultimo periodo ha prodotto una «politica criminale “all’impronta”». Per il magistrato Giorgio Fidelbo, presidente di Sezione della Corte di Cassazione, la normativa emergenziale dell’ultimo periodo ha prodotto una «politica criminale “all’impronta”». Quasi schizofrenica. O meglio, «strabica». Prendiamo il reato di abuso d’ufficio: secondo Fidelbo, l’intervento riformatore del legislatore ha finito soltanto per «depotenziarlo», realizzando di fatto «un arretramento nel contrasto alla illegalità amministrativa». Al punto che «eliminarlo del tutto potrebbe essere più coerente…».

Presidente, ci spieghi perché.

«Il reato di abuso di ufficio, dopo la recente riforma operata con il decreto legge n. 76 del 2020, è stato stravolto completamente, sicché già è stata operata una sua parziale abolizione. Sono dell’idea che la formulazione precedente, quella nata con la legge del 1997, aveva migliorato sensibilmente la fattispecie penale, modellando un reato con un tasso di tipicità e di articolazione molto superiore rispetto al vecchio abuso d’ufficio, che effettivamente era stato delineato come un gigantesco contenitore, in cui confluivano diverse fattispecie, il che consentiva, effettivamente, applicazioni sorprendenti e non prevedibili da parte del giudice penale, determinando appunto la paralisi del funzionario pubblico».

Lei fa riferimento al decreto semplificazioni dello scorso luglio, con il quale il legislatore ha ristretto l’applicabilità della norma alle “violazioni di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Con quale effetto?

«Se, come sembra, la riforma era diretta ad eliminare del tutto la possibilità che il giudice penale possa attentare alla discrezionalità amministrativa, il risultato potrà essere quello di un sindacato penale rivolto soltanto all’attività vincolata della pubblica amministrazione, coinciderà cioè con il controllo dell’amministrazione nella sua attività meno significativa, quella meramente esecutiva, diretta cioè ad occuparsi di mere bagatelle che fino ad ora il giudice penale non ha mai nemmeno considerato, mentre resteranno penalmente irrilevanti tutta una serie di condotte che la giurisprudenza faceva rientrare nello sviamento di potere: si pensi ai favoritismi indebiti, allo sfruttamento privato, alla prevaricazione arbitraria, tutte situazioni che spesso ritroviamo nelle vicende amministrative. Siamo in presenza di una riforma che persegue un obiettivo di politica criminale che appare incomprensibile, nella misura in cui finisce per innalzare un muro contro la discrezionalità dell’amministrazione, con il rischio di sottrarre al vaglio di legalità le condotte più insidiose da parte del funzionario pubblico. Una politica criminale “all’impronta”, che continua ad essere orientata dall’emergenza e che avvertiamo come strabica: dopo meno di un anno dalla legge n. 3 del 2019, meglio conosciuta come “spazzacorrotti”, che si è posta la finalità di “combattere” la corruzione e, in genere, la criminalità amministrativa con misure assai aggressive, in alcuni casi spostando il baricentro verso la legislazione in materia di criminalità organizzata, senza neppure cogliere la differenza tra i diversi fenomeni criminali, improvvisamente si assiste ad una inversione di tendenza, con un legislatore che ci consegna un abuso di ufficio totalmente depotenziato, realizzando un arretramento nel contrasto alla illegalità amministrativa. Due interventi, entrambi, fuori misura, sicuramente contraddittori».

In occasione di un convegno sul tema, Lei ha sottolineato che il problema dell’abuso di ufficio, più che la sanzione penale, è il danno di immagine prodotto dall’apertura delle indagini che finisce per ostacolare l’attività di politici e amministratori.

«La riforma, che ha quasi eliminato il reato di abuso d’ufficio, non coglie l’obiettivo di mettere davvero il funzionario pubblico al riparo da iniziative giudiziarie. Non è la formulazione della norma che “paralizza” il funzionario, bensì il solo fatto che viene iniziata una indagine, magari per un reato più grave. Anche a voler ammettere che possono esservi stati casi di uso strumentale delle indagini, va comunque detto che le indagini nascono perché c’è una denuncia di un cittadino che ritiene di essere vittima di un abuso, di un sopruso, di un favoritismo a vantaggio di altri e su queste denunce il pubblico ministero non può far altro che aprire un fascicolo e iniziare l’indagine. È anche vero che nel corso delle prime indagini spesso si omettono accertamenti approfonditi e si preferisce rinviare a giudizio l’imputato. Ma è altrettanto vero che le denunce che arrivano nelle procure della Repubblica sono la conseguenza dell’incapacità della pubblica amministrazione di operare con imparzialità ed efficienza, sono il sintomo dell’incapacità dell’amministrazione di assicurare la tutela delle situazioni soggettive e degli interessi che andrebbero presi in considerazione attraverso un’attenta ponderazione e tale incapacità è causata spesso dalla stessa normativa amministrativa che è chiamata ad applicare il funzionario. La prima e più efficiente difesa del cittadino dovrebbe essere rinvenuta nelle norme che l’amministrazione deve applicare, che dovrebbero essere nitide e precise. Solo a queste condizioni le iniziative giudiziarie basate su fattispecie incriminatrici incentrate sulle modalità di esercizio del potere possono e debbono trovare un argine naturale, diversamente questo argine non ci sarà».

In molti casi le accuse per questa fattispecie finiscono con una sentenza di assoluzione. O addirittura non si giunge a processo, anche per la difficoltà di dimostrare il dolo.

«Esiste un rapporto sbilanciato tra indagini avviate e le poche condanne pronunciate. Il numero dei procedimenti per il reato di cui all’art. 323 c. p. pervenuti in Corte di cassazione è sempre stato molto esiguo, con elevatissime percentuali di annullamento. Questo dato è la riprova che la riforma del 1997 aveva realizzato un forte sforzo di tipizzazione della fattispecie penale, in cui tra l’altro l’ambito di applicazione era stato fortemente limitato dalla stessa giurisprudenza, che ha sempre assegnato un rilievo selettivo al dolo intenzionale».

Quale soluzione intravede per il fenomeno della "fuga della firma"?

«Ritengo che il problema sia ancora una volta la pubblica amministrazione, che dovrebbe essere in grado essa stessa di reagire al suo interno a quelle che conosciamo essere forme di abuso di potere, di favoritismi, di preferenze indebite. Ad esempio, potrebbe essere utile ragionare su una proposta che il professore Antonio Pagliaro fece una ventina di anni fa: rivitalizzare l’azione disciplinare, prevedere sanzioni disciplinari proporzionate alla gravità del fatto, costruire un diverso rapporto con il procedimento penale al fine di evitare, ove possibile, l’applicazione della sanzione penale. L’esperienza di altri ordinamenti stranieri dimostra che il funzionamento tempestivo ed effettivo del procedimento disciplinare non rende necessaria la previsione di specifici reati e, quindi, riduce l’intervento del giudice penale sull’amministrazione».

Abuso d’ufficio, quel cappio al collo degli amministratori. Simona Musco su Il Dubbio il 26 Feb 2021. Governatori, sindaci, dirigenti pubblici: chiunque, prima o poi, può incappare nel rischio di finire indagato. E molti evitano di agire per sottrarsi al pericolo. Lo ha detto anche il presidente Mario Draghi: «Occorre evitare gli effetti paralizzanti della fuga dalla firma». Una fuga dettata dalla paura, perché il rischio di finire sotto indagine per abuso d’ufficio, per chiunque svolga il ruolo di amministratore pubblico, è sempre dietro l’angolo. Così si finisce per rimanere immobili: meglio rallentare la pubblica amministrazione che finire in un vortice che rischia di sballottare il malcapitato per anni. Specie se, alla fine, come in molti casi, risulta essere innocente. Da nord a sud, il pericolo è uguale per tutti. E le statistiche non mentono: se si considera il periodo 2016- 2017, sono state circa 7.000 le contestazioni di abuso d’ufficio, con provvedimenti definitivi di condanna pari a 100. Una sproporzione che la dice lunga sulla fumosità del reato. Da quanto emerso nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021, risultano circa 500 iscrizioni tra luglio 2019 e giugno 2020, una sessantina in meno rispetto all’anno precedente. Rimane ancora da capire quali saranno gli effetti delle modifiche intervenute nel frattempo con il decreto- semplificazione del luglio 2020, che ha ristretto l’ambito di applicabilità della norma alle “violazioni di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Insomma, un minimo di libertà agli amministratori è stata restituita. Ma tocca fare i conti con i numeri: finora, circa il 70 per cento delle inchieste finisce nel nulla. Nel frattempo, molti amministratori finiscono nel tritacarne, nella gogna giustizialista, magari gettando la spugna. I casi sono migliaia, molti anche eclatanti. Uno degli ultimi in ordine di tempo è quello dell’ex governatore della Calabria, Mario Oliverio, assolto a gennaio scorso nel processo “Lande desolate”. «Due anni di gogna mediatica», ha commentato dopo la decisione del gup. L’inchiesta, nel 2018, costrinse l’allora presidente della Regione a tre mesi di “confino” forzato nella sua casa di San Giovanni in Fiore. Ma non solo: proprio a causa di quell’indagine fu costretto a rinunciare alla sua ricandidatura, su pressione della segreteria romana del Pd, che per evitare imbarazzi decise di metterlo fuori gioco, decretando, di fatto, la vittoria del centrodestra. Ma i casi sono tantissimi. La grana per Vincenzo De Luca, presidente della Regione Campania, anche lui del Pd, casualmente, era scoppiata proprio alla vigilia della sua ricandidatura a governatore. Ma a pochi mesi da quello scoop, rilanciato a settembre da Repubblica nonostante la notizia fosse ancora coperta da segreto, l’inchiesta è stata archiviata. L’indagine aveva a che fare con l’assunzione di quattro vigili urbani nella segreteria istituzionale del Presidente della Regione Campania, con l’ipotesi di abuso d’ufficio, falsità ideologica e truffa. Pochi giorni fa è arrivata, dopo otto anni, l’assoluzione piena per 13 ex consiglieri regionali del Lazio, per fatti che risalgono al periodo compreso tra il 2010 e il 2013. Tra loro anche l’attuale senatore del Pd, Bruno Astorre. «Che vita è se per un avviso di garanzia o un rinvio a giudizio ci si deve dimettere?», aveva dichiarato ricordando la gogna subita, i titoli dei giornali e le accuse degli avversari politici. Il 27 marzo del 2020 ad essere archiviata è stata la posizione del governatore della Lombardia Attilio Fontana, accusato d’abuso d’ufficio per la nomina di Luca Marsico, avvocato ed ex socio del suo studio. Nel 2015 era toccato al sindaco di Milano Giuseppe Sala, indagato per le vicende Expo. Di mezzo ci sono finiti anche grillini illustri, come il sindaco di Roma Virginia Raggi. I più forti, quelli con la copertura mediatica maggiore, magari resistono alla valanga di fango dopo l’iscrizione sul registro degli indagati. Altri, invece, decidono di deporre le armi e attendere il giudizio. Basta cercare tra gli amministratori locali, infatti, per raccontare storie più drammatiche, come quella dell’ex sindaco di Alcamo, Sebastiano Bonventre, indagato assieme ad alcuni dirigenti comunali e prosciolto dal Gup di Trapani ad ottobre scorso. Dopo, però, aver deciso di dimettersi. Per molti si tratta di una crepa che consente alla magistratura di infilarsi nelle amministrazioni, studiarle da dentro, magari col pretesto di andare a cercare altri reati, come la corruzione. Ma il più delle volte finisce con un unico risultato: la distruzione di un’esperienza amministrativa che, buona o meno, era il risultato di una scelta democratica compiuta dai cittadini. Le voci che si alzano contro questo reato, ora, sono tante. Per Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto a Venezia, andrebbe eliminato. Della stessa opinione l’ex giudice costituzionale Sabino Cassese. L’ex premier Silvio Berlusconi è meno duro: per lo meno, andrebbe rivisto, a fronte di una società in continua evoluzione e un diritto non al passo coi tempi. Le motivazioni sono chiare: non c’è amministratore che non abbia paura di incappare, un domani, in una denuncia. «I tempi si triplicano, nel migliore dei casi: si chiama amministrazione difensiva. Ma il risultato è la paralisi delle amministrazioni, che sono l’alter ego delle imprese», denunciava Nordio al Dubbio. Un concetto condiviso anche da Maria Masi, presidente facente funzione del Cnf, nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei Conti: «Anche la mera prospettiva della sanzione blocca l’iniziativa di dipendenti e amministratori, impedendo interventi incisivi e tempestivi dell’Amministrazione». Eliminare totalmente il reato dal codice penale, secondo Nico D’Ascola, ex presidente della Commissione giustizia al Senato e ordinario di diritto penale, sarebbe insensato e metterebbe a rischio la tutela dei cittadini di fronte all’azione della pubblica amministrazione, spiegava lo scorso anno al Dubbio. La norma «dovrebbe mirare alla giusta criminalizzazione ma solo come extrema ratio, per evitare di incrementare la conflittualità tra politica e magistratura e non bloccare la pubblica amministrazione, punendo solo i comportamenti pienamente dolosi, che violano i poteri conferiti. La mia idea – aveva aggiunto – è che bisogna punire quei comportamenti che producono effetti del tutto contrari ai principi previsti dalla legge violata». 

Tar Lazio, Savo: «Sul contenzioso pesa l’inefficienza della Pa legata alla “paura della firma”». Il Dubbio il 23 Feb 2021. Apertura anno giudiziario, la relazione del presidente del Tar del Lazio Antonino Savo Amodio. «L’anno che è appena iniziato risulta particolarmente significativo perché è quello del cinquantesimo anniversario dell’istituzione dei tribunali amministrativi regionali: è sufficiente uno sguardo retrospettivo per rendersi conto di quanta strada sia stata percorsa dalla Giustizia amministrativa, in questo oramai lungo periodo di tempo, verso una sempre più effettiva tutela delle posizioni soggettive incise dai pubblici poteri». Lo ha detto il presidente del Tar del Lazio Antonino Savo Amodio aprendo l’anno giudiziario. Tra le sentenze del 2020, «per tutte, e per gli effetti favorevoli che può produrre per la tutela dei consumatori, voglio citare la sentenza che ha ritenuto legittima la sanzione irrogata dall’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato ad una società, leader mondiale nella produzione di prodotti informatici, per le insufficienti informazioni rese circa gli inconvenienti che potevano derivare dagli aggiornamenti al proprio sistema operativo», ha detto Savo Amodio, il quale, parlando poi del settore degli appalti pubblici, ha ribadito «l’importanza e la delicatezza del relativo contenzioso». Inoltre, ha ricordato, «numerose sono state le questioni di rilievo costituzionale trattate, tra cui quella vertente sull’impugnabilità dei decreti di indizione del referendum sul taglio dei parlamentari e i giudizi in ordine ai provvedimenti del Consiglio Superiore della Magistratura. Significative risultano anche le decisioni in materia di tutela della salute e del patrimonio culturale e paesaggistico». Accanto a questo contenzioso, «di evidente ricaduta economica e sociale», si pongono i ricorsi «che, pur riguardando esclusivamente il singolo amministrato, presentano implicazioni umane e spesso anche giuridiche delicate e significative. Per tutti – ha sottolineato il presidente – quelli relativi all’attribuzione delle ore di sostegno agli studenti disabili». «Indubbiamente la principale novità dell’anno trascorso è rappresentata dai numerosi ricorsi proposti avverso i provvedimenti assunti per far fronte all’emergenza da Covid-19, in particolare i Dpcm, acronimo divenuto oramai quasi gergale», ha sottolineato il presidente del Tar del Lazio. «Due sono le particolari implicazioni processuali riscontrate in ordine a tali impugnative: la loro appartenenza alla sfera della cosiddetta alta amministrazione – ha rilevato – che ha reso oltremodo delicata la ricerca del punto di equilibrio tra effettività della tutela giurisdizionale e rispetto dei limiti della discrezionalità amministrativa, e il rapido succedersi di tali decreti, sempre ad efficacia temporanea». Tali peculiarità, secondo il presidente del Tar, «hanno determinato una non indifferente ricaduta sul sindacato giurisdizionale: basti pensare che, in molti casi, il rispetto dei termini processuali ha reso di fatto impossibile assumere in tempo utile decisioni collegiali, sia pure di natura cautelare, residuando la sola misura monocratica». «A dimostrazione dell’eccezionalità dell’anno trascorso – sottolinea- evidenzio che i decreti cautelari monocratici emessi hanno visto un incremento di quasi il 15% rispetto al 2019 (2.489), avendo costituito, in base alla normativa emergenziale, l’unico strumento di tutela interinale immediata nei mesi di marzo e aprile. Per quanto concerne gli esiti dei giudizi, mi limito a sottolineare la sostanziale equivalenza percentuale delle pronunce di accoglimento, rigetto e definizione in rito dei gravami presentati. Il tempo medio di definizione dei ricorsi – prosegue – si è attestato su poco più di3 anni (1.117 giorni), una variazione di circa 6 mesi in più rispetto al 2019, dovuta al rallentamento dell’attività decisionale imposto dall’emergenza sanitaria». «Il rallentamento dell’attività amministrativa ordinaria del Paese, pur facendo emergere una nuova tipologia di contenzioso – quello dell’emergenza -, ha determinato una riduzione di circa il 28% dei ricorsi depositati nei settori connumeri tradizionalmente più elevati di impugnative (per tutti, quello in materia di istruzione, che comunque resta anche nel 2020quantitativamente il più rilevante)», ha precisato. «Ciò nonostante, il Tar del Lazio è stato destinatario di oltre il 27% del totale nazionale delle impugnative di primo grado – aggiunge -Significativamente, due delle sezioni interne (I ter e III-bis) hanno ricevuto, da sole, nel 2020, più ricorsi di quelli pervenuti nella maggior parte degli altri Tar – Ulteriore considerazione – sottolinea- forse ancor più rilevante, è che, in un’ipotetica graduatoria di tutte le sedi in ordine al numero dei ricorsi depositati, le tre sezioni esterne del Tribunale si collocherebbero al secondo, terzo e quarto posto».  «Il dato sull’impugnazione delle sentenze del Tribunale, necessariamente riferito al 2019. Anche quest’anno la percentuale delle pronunce divenute definitive, sia perché non appellate, sia perché confermate in secondo grado, è molto significativa, risultando pari al 93,11% del totale». «Non posso non rilevare l’esistenza di ulteriori fattori che alimentano, mi sentirei di dire in maniera distorta, il contenzioso. Innanzi tutto, l’inefficienza, talvolta spinta fino all’inattività, della Pubblica amministrazione, che preferisce demandare al giudice decisioni che pure istituzionalmente le competono», ha sottolineato Antonino Savo Amodio, secondo il quale è «emblematica in tal senso è la definizione del fenomeno “paura della firma” coniata dalla dottrina e riferita ai funzionari pubblici che sono chiamati ad assumere le decisioni amministrative e che si astengono dal farlo». Altro elemento che incide sul volume del contenzioso «è certamente – ha aggiunto – l’eccessiva domanda di giustizia, originata, oltre che dall’inefficienza anzidetta, dall’inesistenza di opportuni strumenti deflattivi». Da ultimo, «ma non in ordine di importanza – ha concluso Savo Amodio – assume rilievo l’assenza di un effettivo coordinamento e di un dialogo fra la pluralità di centri decisionali, chiamati, in uno stesso procedimento, a tutelare ciascuno uno specifico interesse pubblico; i tentativi del legislatore di fornire una soluzione a tale problema, per tutti, i rimaneggiamenti introdotti, anche dalla più recente legislazione, alla disciplina delle varie tipologie di conferenza di servizi, non hanno finora prodotto effetti significativi».

Diodato Pirone per "Il Messaggero" il 20 febbraio 2021. Il caso ha subito gettato sul cammino del neopremier Mario Draghi una delle mine più insidiose disposte sul campo di battaglia italiano: l'inefficienza della pubblica amministrazione. E Draghi ha voluto cogliere l'inaugurazione dell'anno giudiziario della Corte dei Conti per lanciare - senza frase roboanti, com' è nel suo stile - un primo segnale chiarissimo: nello Stato occorre far finire lo sciopero delle firme, ovvero la ritrosia dei dirigenti pubblici a firmare l'avvio di un progetto di spesa per evitare guai con la Corte dei Conti o con le Procure per via di un reato generico come l'abuso d'ufficio.

L'ORIZZONTE. Draghi ha in sostanza delineato un salto di qualità nella pubblica amministrazione basato su due principi pragmatici. Primo: la collaborazione e non la guerra fra le amministrazioni, comprese quelle chiamate a vigilare sui vigilati. «È necessario - ha detto Draghi - trovare un punto di equilibrio tra fiducia e responsabilità. Occorre, infatti, evitare gli effetti paralizzanti della fuga dalla firma, ma anche regimi di irresponsabilità a fronte degli illeciti più gravi per l'erario». Secondo: la necessità strategica dell'amministrazione pubblica italiana di rimettersi in moto per spendere, e spendere bene, i 200 miliardi europei del Recovery Fund. «Non possiamo fallire - ha detto Draghi - Non solo perché è la crescita e non il tasso di interesse che può sostenere il nostro debito. In realtà andiamo verso un bilancio europeo. Questo significa che cittadini di alcuni Paesi europei accettano di farsi tassare per trasferire risorse agli europei più fragili». Di qui l'urgenza di un salto di qualità della pubblica amministrazione. Come? Innanzitutto riconoscendo che sui dirigenti delle amministrazioni sono state scaricate troppe responsabilità in modo confuso anche se il Decreto Semplificazioni della scorsa estate - ha riconosciuto Draghi - qualche passo in avanti già lo ha fatto. Inevitabilmente il neopremier non è sceso nei dettagli ma l'intervento alla Corte dei Conti sembra prefigurare a breve misure di riordino forse anche sul reato di abuso d'ufficio che nella sua genericità spesso finisce per fermare anche progetti strategici. Sarebbe sbagliato però pensare che l'intervento di Draghi sia stato superficiale o solo enunciativo. Il neopremier ha indicato in modo chiaro un metodo ai giudici della Corte dei Conti ovvero la strada della collaborazione e della consulenza con gli amministratori. «Bisogna - ha detto Draghi - dare maggiore impulso ai processi che, pur nell'ambito dell'indipendenza che la Corte deve preservare nelle sue tradizionali funzioni di controllo e giurisdizionali, valorizzino il suo ruolo di supporto consulenziale rispetto alle Amministrazioni».  Sulla complessità delle norme e delle procedure si è soffermato il Presidente della Corte dei Conti, Guido Carlino, sollecitando «la necessità di un rinnovato impegno nella semplificazione della normativa e nello snellimento delle procedure in quanto lazione di contrasto ai fenomeni di dispersione delle risorse pubbliche si confronta con un sistema che spesso determina aggravi per il cittadino e deficit di trasparenza». Le indicazioni di Draghi sono state apprezzate anche da Giuseppe Busia, presidente dell'Autorità Anticorruzione. «La vigilanza collaborativa che il presidente Draghi ha citato, è davvero un approccio nuovo che vogliamo dare all'attività dell'Anac, affiancarci alle pubbliche amministrazioni, aiutarle a usare bene i soldi, farlo con rapidità cercando di garantire, semplificazione e rispetto della legalità». In serata, anche in relazione all'apertura di un fascicolo della Procura di Torino sugli amministratori piemontesi degli ultimi anni sospettati di non aver preso misure sufficienti contro lo smog, è intervenuto il segretario del Pd Nicola Zingaretti: «Vanno colpiti i reali responsabili dell'inquinamento - ha detto Zingaretti - Ma è altrettanto evidente che anche gli amministratori devono poter governare. Senza paure. E' tempo di occuparsene con responsabilità e misura».

Sergio Rizzo per “la Repubblica” il 12 febbraio 2021. Si potrebbe cominciare da un atto elementare: obbligare lo Stato a osservare la legge. Per esempio una del 1990, ribadita poi nel 2000, che vieta agli uffici pubblici di richiedere ai cittadini e alle imprese documenti già in suo possesso. Sarebbe sufficiente applicarla alla lettera per scatenare una rivoluzione virtuosa nella burocrazia. Perché le amministrazioni sarebbero costrette a far dialogare fra loro le rispettive banche dati, che invece causa gelosie restano recinti sigillati. Ecco la prima vera semplificazione, invece dei pomposi disegni di legge con cui ogni governo regolarmente inonda il Parlamento, e altrettanto regolarmente senza alcun risultato. Perché non si può che partire da qualche iniezione di buonsenso nella pubblica amministrazione, se si vuole "tornare alla crescita". Sono le tre parole con le quali Mario Draghi debuttò alla Banca d'Italia nel 2006 e concluse nel 2011 le sue ultima Considerazioni finali da governatore. Un paio di mesi dopo avrebbe firmato insieme a Jean-Claude Trichet, il capo della Bce allora in carica, la famosa lettera nella quale si chiedevano al governo italiano di Silvio Berlusconi riforme urgenti. Finiva così: «Incoraggiamo il governo a prendere immediatamente misure per garantire una revisione dell'amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l'efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze delle imprese». Basta questo per intuire la direzione che potrà prendere l'eventuale governo Draghi se vorrà essere coerente con il proposito di "tornare alla crescita". La stessa, del resto, indicata al momento di arrivare alla Banca d'Italia. Senza troppi peli sulla lingua: «Il sistema giuridico e amministrativo influenza significativamente i costi e la competitività delle imprese. In Italia esso è stato a lungo indifferente alle ragioni del mercato. In una graduatoria della Banca mondiale relativa alle procedure burocratiche e amministrative connesse con l'attività d'impresa, l'Italia occupa la settantesima posizione, penultima fra i Paesi dell'Ocse». A quindici anni di distanza, nella classifica Doing business della Banca Mondiale l'Italia non occupa più il posto numero 70, come denunciò Draghi nelle sue prime Considerazioni finali, bensì il 58. Su 190 economie. Lontanissima comunque dagli altri Paesi europei, perfino dietro Kenya e Kosovo. E lo scenario continua a essere avvilente.  Nel capo delle pratiche edilizie siamo alla casella 97. Non va meglio per l'avvio di un'attività imprenditoriale: 98. Né per ottenere crediti bancari: 119. Per non parlare delle difficoltà di una controversia legale in materia contrattuale: 122. Ma il massimo si raggiunge con la burocrazia fiscale. Per onorare i propri obblighi con il fisco un'impresa impiega mediamente 238 ore l'anno: 10 giorni senza mangiare né dormire oppure un mese intero calcolando 8 ore al giorno. Numeri che valgono nel 2020 la posizione numero 128, contro la 118 del 2019 e la 112 del 2018. Senza poi considerare che il prelievo supera il 59 per cento dei profitti.  Ma è ancora niente rispetto al costo della burocrazia, che è stato calcolato in 30 miliardi l'anno per tutto il sistema delle imprese italiane. Va da sé che alcuni settori sono più colpiti di altri. Quello delle costruzioni è in una situazione delirante. Basta dire che per bandire una gara d'appalto un Comune deve completare una quarantina di procedure e l'impresa che vuole partecipare è costretta a produrre il triplo dei documenti richiesti in qualsiasi altro Paese europeo. Ogni Comune continua ad avere regole diverse dal comune accanto e la quantità di leggi regionali che impattano sull'attività edilizia si misura in diverse migliaia. Per frenare la deriva burocratica nulla hanno potuto i 41 ministri che dal 1950 si sono alternati alla guida di un ministero capace di cambiare soltanto il proprio nome una dozzina di volte in 71 anni. Senza che sia stato riformato o semplificato alcunché. La produzione legislativa è asfissiante: la banca dati del Poligrafico dello Stato censisce oltre 200 mila provvedimenti attualmente vigenti, a cui bisogna sommare circa 50 mila leggi regionali. Una paurosa mole di norme spesso contraddittorie, che nessuno è mai riuscito a sfoltire, e crea spaventosi ingorghi interpretativi a scapito della certezza del diritto. Le ragioni sono infinite, e immense sono le responsabilità della politica. Cambiare marcia certo si poteva, e senza impelagarsi nelle ipotesi di grandi riforme solo per strappare inutili applausi. Si poteva investire nelle tecnologie e nella formazione, sottoporre i servizi pubblici al giudizio vincolante dei cittadini, favorire il turnover, premiare più il merito che l'anzianità. Tutte cose che però sarebbero costate non poco in termini di consenso. Fortuna adesso vuole che di quel genere di consenso uno come Draghi non ne abbia davvero bisogno.

·        Il Diritto alla Casa.

IL DIRITTO DI ABITARE. Un’emergenza chiamata casa: il disastro delle politiche abitative in Italia. Pochi fondi, sussidi a intermittenza, liste di attesa infinite e gente costretta ad occupare tagliata fuori dagli alloggi. Una famiglia su cinque ora non ce la fa. Gloria Riva su L'Espresso il 16 febbraio 2021. L’anziano inquilino dell’appartamento al quarto piano era passato a miglior vita già in primavera. Viveva solo, non aveva figli e giunti all’autunno nessuno si era fatto avanti per reclamare l’eredità di quella casa sulla Tiburtina. Nel frattempo la vita di Marisa e dei suoi due figli scivolava velocemente verso la sopravvivenza: ha vissuto fino al 2015 in un centro per l’assistenza alloggiativa temporanea, ovvero un residence comunale - un ghetto, come lo chiamano gli assistenti sociali -, poi il centro è stato chiuso e per qualche mese ha dormito in auto, finché non le è stato riconosciuto il buono casa. Nell’aprile 2020 le è stata tolta anche questa agevolazione e Marisa, a 42 anni, si è trovata nuovamente per strada. È fra le lacrime che a dicembre ha forzato la serratura di quell’appartamento al quarto piano: «Un minuto dopo ho chiamato la Polizia Locale per autodenunciarmi. Nonostante le difficoltà, ho sempre agito secondo le leggi e non vado fiera di quel gesto, dettato dalla disperazione». Leggi a singhiozzo, fatte di bandi privi di continuità e piani casa a termine, privi di una programmazione a lunga gittata che possa aiutare chi è davvero in difficoltà. Marisa, occupando quell’alloggio, ha inoltre violato l’articolo cinque del decreto legge Renzi-Lupi del 2014 sul Piano Casa, secondo il quale chi occupa abusivamente un immobile non può chiedere la residenza né l’allacciamento a pubblici servizi e «perde moltissimi diritti. In questo caso, questa mamma ha dovuto dire addio al suo posto in graduatoria per l’assegnazione di una casa popolare, che aspetta da dieci anni. E le è stato revocato persino il diritto al medico di base. Quella norma è assurda», spiega Francesca Danese, epidemiologa sociale, ex assessore ai Servizi Sociali del Comune di Roma ai tempi della giunta di Ignazio Marino, che prosegue: «La storia di Marisa, che stiamo cercando di aiutare, non è un caso isolato. Nelle città metropolitane l’emergenza casa sta diventando un problema serio e, solo a Roma, ci sono 200mila persone in difficoltà, 13.544 famiglie in graduatoria per un alloggio pubblico, 10 mila persone (ovvero mille famiglie) che hanno occupato abusivamente un’abitazione. Ogni giorno gli agenti sfrattano almeno dieci famiglie, mentre le domande per il bonus affitto (da 245 euro), istituito per l’emergenza Covid, sono già oltre 50 mila, ma solo 9.700 richieste sono state accolte». Il disagio abitativo non è un fenomeno che interessa solo la Capitale, al contrario, come racconta Danese: «Il problema è gravissimo e consolidato nelle città metropolitane, e nonostante il nostro sia un paese in cui la maggior parte delle famiglie possiede una casa, per la prima volta in assoluto il disagio abitativo si sta estendendo anche alle città di provincia. È colpa dell’impoverimento provocato dal Covid. Inoltre, nonostante il blocco dell’esecuzione degli sfratti per morosità, molti di coloro che avevano un affitto irregolare hanno perso la casa». Proprio il blocco degli sfratti sarà uno dei temi che il prossimo governo a guida Mario Draghi dovrà affrontare: nel decreto Milleproroghe c’è un’estensione di questa norma almeno fino alla fine di giugno, ma molte forze politiche vorrebbero almeno ridimensionarla, come Pd, Leu e M5S, mentre Italia Viva vorrebbe eliminarla. Le associazioni a tutela degli inquilini hanno chiesto «un confronto con le istituzioni per individuare strumenti per soluzioni alloggiative alternative e misure di sostegno a favore degli inquilini e dei proprietari che consentano di governare sui territori le procedure di sfratto in forte crescita e scongiurare un pericoloso aumento del conflitto sociale», scrivono ai gruppi parlamentari Sunia, Sicet, Uniat e Unione Inquilini. In base all’ultima indagine di Federcasa e Nomisma, a causa della pandemia e dei conseguenti divieti una famiglia su quattro ha difficoltà a pagare l’affitto e il 40 per centro prevede di non riuscire a pagarlo nel prossimo anno. A soffrire sono anche le famiglie con un mutuo, le quali hanno generato un ammontare di crediti deteriorati in pancia alle banche di 15,6 miliardi di euro: sono 100mila le famiglie che rischiano di diventare inadempienti e 160mila quelle con la casa pignorata. Complessivamente l’emergenza abitativa riguarda 1,8 milioni di famiglie, cioè una ogni cinque. Quelle che vivono in una residenza pubblica sono 900mila, mentre quelle in graduatoria – e quindi in attesa - sono 350mila: «Le altre 550mila non presentano la domanda per un alloggio pubblico perché sono disilluse, sanno che non riusciranno mai ad ottenerla, nonostante ne abbiano diritto», spiega Luca Talluri, presidente di Federcasa, associazione degli istituti per le case popolari. È invece Caritas ad accedere un faro sull’emergenza casa giovanile, evidenziando come quattro milioni di under 40 vivono ancora con i genitori perché non in grado di far fronte all’acquisto o all’affitto di una casa e il 65 per cento dei giovani che una casa la possiede deve dire grazie a mamma e papà che hanno contribuito alle rate del mutuo, un altro 20 per cento vive un’abitazione ereditata. Eppure la casa continua a non essere una priorità per la politica italiana. Come racconta Carlo Cellamare, docente di Urbanistica a La Sapienza: «L’unico grande piano casa è quello della Legge Fanfani del 1949 che ha istituito il fondo Gescal. Quella stagione si è esaurita nel 1978 con l’ultimo piano decennale. Successivamente, con i governi Berlusconi, la politica dell’abitazione pubblica è stata sostituita da quella del social housing, dei consorzi e delle cooperative private che offrivano abitazioni a un prezzo accessibile, lasciando però intatto il problema dell’emergenza abitativa per i più fragili, che quelle abitazioni non potevano permettersele. Servirebbe un approccio integrato, una politica complessiva a favore della rigenerazione urbana di recupero degli edifici pubblici e privati, serve una politica complessiva che rimetta al centro il tema dell’abitare». L’introduzione del social housing avvenuta negli anni Duemila, e quindi l’idea che ci fosse un’impresa privata a occuparsi dell’emergenza abitativa, ha provocato una distorsione del problema. Si è dato grande rilievo ai 15 mila alloggi creati dal sistema privato, «che sono una goccia rispetto alla domanda di 350mila famiglie in lista d’attesa», commenta Talluri. Con il Recovery Fund ci sarebbe l’opportunità di tornare a parlare di un piano casa ma, al netto della crisi politica che allunga i tempi di qualsiasi iniziativa di programmazione, «nel Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, non esiste un vero interesse. Si punta molto sulle riqualificazioni con il Bonus 110 per cento, che ha indubbiamente il merito di abbattere i consumi energetici delle abitazioni, ma è studiato per famiglie che hanno competenze, capacità e denaro da anticipare e che, quindi, non si trovano in una situazione di disagio abitativo», spiega Cellamare, evidenziando come il bonus rischia di accentuare i fenomeni di disuguaglianza nel paese. L’Italia, del resto, è fanalino di coda in Europa per politiche dedicate alla casa. Basti pensare che in base all’Osservatorio Housing Europe solo il quattro per cento delle abitazioni italiane è di tipo popolare, contro il 15 per cento della Francia, il 24 dell’Austria, il 30 per cento dell’Olanda: «Le politiche abitative europee possono essere divise in quattro gruppi», spiega Cellamare. «Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito sono caratterizzati da un notevole intervento statale e i loro governi spendono oltre il tre per cento del Pil in questo settore; in Austria, Danimarca, Francia e Germania la spesa pubblica per l’edilizia abitativa è fra l’uno e il tre per cento del Pil; Irlanda, Italia, Belgio, Finlandia e Lussemburgo formano un gruppo disparato, ma presentano tutti un numero di alloggi a canone sociale ridotto e una spesa governativa per l’edilizia abitativa inferiore all’uno per cento del Pil; infine Portogallo, Spagna e Grecia dove gli alloggi a canone sociale sono di modesta qualità e e la spesa governativa è minima». Fra i motivi dello sbando italiano nel settore della casa pubblica c’è l’incapacità dell’amministrazione pubblica di gestire le graduatorie e l’edilizia popolare: «A Roma i funzionari che se ne occupano sono solo 40», dice Francesca Danese, che continua: «In generale c’è scarsa formazione, poco personale (complice il blocco delle assunzioni) e anche per questo si generano liste d’attesa inquietanti, al punto che alcune famiglie aspettano un alloggio da oltre 15 anni. Da qui la tentazione di centinaia di persone senza casa di occupare stabili abbandonati. Bisogna ripartire da un piano nazionale di rigenerazione urbana che tenga conto delle mutate esigenze delle famiglie e della demografia. Ad esempio la volumetria delle abitazioni popolari è stabilita in base a un concetto di nucleo famigliare sorpassato, tipico degli anni Sessanta, quando le famiglie erano composte da quattro o cinque persone, mentre oggi ci sono molte persone sole, coppie senza figli, genitori single e, senza una revisione di questi parametri, queste persone difficilmente si vedranno assegnare un’abitazione pubblica, che invece viene data a famiglie migranti, perché più numerose. L’effetto è ovviamente quello di creare tensioni sociali». Un ripensamento che, come viene proposto da Sabina De Luca del Forum Disuguaglianze e Diversità nel riquadro in queste pagine, deve interessare non solo le politiche abitative, ma anche quelle sociali. Perché spesso la mano destra, ovvero l’ufficio urbanistica, non sa cosa fa la mano sinistra, ovvero i servizi sociali, e diventa difficile persino capire quante persone in lista d’attesa percepiscono il reddito di cittadinanza o altri sussidi. Il presidente di Federcasa Talluri invita a fare presto e sfruttare le risorse che verranno dal Recovery Fund, dal momento che la crisi provocata dalla pandemia del Covid-19 sta portando a un aumento della domanda di abitazioni a basso costo: «Serve una strategia nazionale di rigenerazione urbana per aumentare il numero di abitazioni popolari senza un ulteriore consumo di suolo, riqualificando le case già esistenti - demolendole e ricostruendole con un aumento volumetrico -, e sfruttando i palazzi pubblici dismessi, come le Caserme e gli uffici pubblici, per farne nuovi alloggi. Il Recovery Plan e i fondi della Banca Europea degli Investimenti, Bei, consentirebbero un effetto leva per finanziare questa rigenerazione senza pesare totalmente sulle casse dello Stato».

·        Le Opere Bloccate.

Intervista di Antonio Giangrande alla radio tedesca ARD.  Salerno Reggio Calabria: Eterna Incompiuta.

«Attenzione, spesso si cade nei luoghi comuni. La Mafia e la Corruzione sono icone che dove non ci sono si inventano per propaganda politica o per coprire i propri fallimenti. Spesso dietro quel fenomeno si nasconde l’inefficienza tutta italiana. Il problema è che ci sono persone sbagliate (incapaci più che disoneste) a ricoprire ruoli di responsabilità. Si pensi che addirittura Antonio Di Pietro (il PM di Mani Pulite) ha avuto responsabilità nel dicastero di competenza. I politici dicono cosa fare, ma sono i burocrati che decidono come fare (in virtù delle leggi, come la Bassanini, che hanno dato potere ai dirigenti pubblici). Le leggi artificiose create dagli incapaci politici, perché non hanno fiducia dei loro cittadini, crea caos e nel caos tutto succede. Basterebbe rendere tutto più semplice e quel semplice controllarlo.

Un procedimento pur se corrotto dovrebbe comunque avere una soluzione. La Salerno-Reggio Calabria, a prescindere da mafia o corruzione in itinere, comunque non ha soluzione di continuità: ergo, vi è incapacità, più che disonestà.

E’ come quel luogo comune sugli italiani: si dà l’appuntamento per le otto circa e, se va bene, ci si incontra a mezzogiorno.

Se i politici sono nominati con elezioni truccate, questi non rispondono ai cittadini delle loro malefatte. Se i politici nominati raccomandano i funzionari pubblici con concorsi truccati (compreso i magistrati), questi non rispondono ai cittadini delle loro malefatte. I dirigenti nominati con concorsi truccati non hanno remore a truccare gli appalti. Alla fine, però, i lavori dovrebbero concludersi. Invece tutti se ne fottono del risultato finale, avendo per sé soddisfatto i propri bisogni. A questo punto sono tutti responsabili del fallimento: i politici, i funzionari pubblici (compreso i magistrati per omissione di controllo) e gli imprenditori che delinquono; i giornalisti che tacciono ed i cittadini che emulano.

La mia proposta come presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” attraverso il suo braccio politico “Azione Liberale” è che ogni procedimento amministrativo pubblico ha un suo responsabile che ne risponde direttamente, attraverso la perdita del posto, della buona riuscita per sé e per i suoi sottoposti da lui nominati.

Però, purtroppo, un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”».

Ancora vostro Antonio Giangrande

L’alta velocità tra Salerno e Reggio Calabria costerà miliardi e non sappiamo quando (e se) sarà completata. La linea ferroviaria tra la Campania e lo Stretto avrà tempi lunghi e finanziamenti incerti. Ma molti mettono in dubbio l’utilità stessa del progetto e propongono soluzioni alternative e più rapide. Gloria Riva su L'Espresso il 10 novembre 2021. La chiamavano l’Eterna Incompiuta, l’autostrada che va da Salerno a Reggio Calabria: un coacervo di cantieri aperti e cavalcavia perennemente in costruzione. Poi, nel 2016 l’autostrada s’è compiuta forzosamente, nel senso che il Governo - all’epoca il premier era Matteo Renzi - decise di chiudere il rubinetto dei finanziamenti e lasciare la strada così com’era, sorvolando persino sulla riqualificazione delle tratte più pericolose. Ora, quell’appellativo, l’Eterna Incompiuta, rischia di tornare d’attualità e di essere appioppato alla futura tratta ferroviaria dell’Alta Velocità che collegherà Salerno a Reggio Calabria in quattro ore e quindici minuti per 445 chilometri di lunghezza e un costo complessivo che, ad essere ottimisti, sarà di 22,8 miliardi di euro. Le tempistiche? I primi due lotti dovrebbero essere ultimati entro nove anni, il resto nessuno lo sa. A lanciare l’allarme sono ambientalisti, economisti, docenti di ingegneria dei trasporti e amministratori locali all’indomani del confronto pubblico “I grandi investimenti in Italia. Il caso del collegamento ferroviario Salerno-Reggio Calabria”, organizzato dal Forum Disuguaglianze e Diversità. Dagli interventi del ministro dei Trasporti, Enrico Giovannini, del coordinatore della struttura tecnica del ministero, Giuseppe Catalano e di Vera Fiorani, amministratore delegato di Rfi, Rete ferroviaria italiana, si è appreso che i 12 miliardi stanziati per la linea calabrese serviranno a coprire due dei sette lotti complessivi. Ma per completare l’opera serviranno almeno 22,8 miliardi. «È un bene che il governo abbia deciso di rompere l’isolamento della Calabria, la regione più in difficoltà d’Italia. Ma siamo certi che quella ferrovia è un investimento opportuno, dato il suo costo? Inoltre, non ci sono dati, ma è lecito supporre che potrebbe completarsi non prima della fine degli anni Trenta: è consigliabile investirli così, visti e considerati i tempi assai lunghi e l’immediata urgenza di aiutare questo territorio?», si domanda Gianfranco Viesti, economista dell’Università di Bari. Domande a cui il governo risponderà nei primi mesi del prossimo anno, visto che Vera Fiorani di Rfi assicura che a gennaio sarà ultimato lo studio di fattibilità dei primi due lotti, a cui seguirà il dibattito pubblico. In realtà l’opera è già stata definita: «Sembrerebbe che le decisioni siano già state prese, anche se il progetto completo non è ancora pronto e le alternative di tracciato non sono pubblicamente disponibili. Manca una vera disanima delle alternative progettuali, compreso il tipo di linea, la stima della domanda e un’analisi dei costi e dei benefici», commenta il professor Paolo Beria, docente di Economia dei Trasporti e direttore del Laboratorio di politica dei Trasporti al Politecnico di Milano. Il governo Draghi prevede di investire fortemente sul potenziamento delle linee ferroviarie di lunga percorrenza, mentre dall’elenco delle opere sono pressoché assenti le reti metropolitane - si prevede di realizzarne solo 11 chilometri -, che sarebbero utili a decongestionare le città. Questo perché sull’onda della fretta per la presentazione del Pnrr, sono stati approvati i progetti già avviati e sui quali era possibile investire più velocemente: «L’assenza di Roma, con tutti i problemi viabilistici che ha, è emblematica. Da anni alla capitale sembra mancare capacità progettuale e, non avendo alcun grande progetto nel cassetto, nulla è stato destinato per migliorare la viabilità fra centro e periferia», spiega Beria. Le opere in programma non sono state totalmente finanziate, infatti nell’allegato al Def, il Documento di economia e finanza, da poco pubblicato dalla Ragioneria di Stato, c’è scritto che per le ferrovie italiane saranno investiti 156,7 miliardi, di cui 24,7 finanziati dall’Europa attraverso il Piano di Ripresa e Resilienza e altri 69,1 messi dallo Stato. All’appello mancano oltre 62,8 miliardi, che i futuri governi dovranno reperire, sperando che la ripresa economica sarà tale da consentire al paese da avere sufficiente fieno in cascina per ultimare quelle opere e, contemporaneamente, iniziare a rimborsare il capitale prestato dall’Europa per il Next Generation Eu. Che poi, quei 62 miliardi e più non basteranno neppure, prova ne è il fatto che, fra le note a piè di pagina del Def, si scopre che dal conto complessivo mancano i 12 miliardi extra (sui 22,8 totali) per completare proprio la linea ferroviaria Salerno-Reggio Calabria. Il rischio di non ultimare il grande piano di modernizzazione ferroviaria esiste, eccome. Ma indietro non si torna, perché il governo ha deciso di puntare moltissimo sulle ferrovie all’interno dei piani finanziabili con il Recovery Plan dell’Unione Europea. Tuttavia, secondo il professor Beria del Politecnico di Milano, «la stragrande maggioranza dei progetti non è sostenibile dal punto di vista delle analisi costi-benefici. Ci sono casi di over design, ovvero infrastrutture con performance eccessive rispetto alle necessità, ad esempio in termini di capacità, e spesso anche con un impatto ambientale dubbio. Penso al potenziamento della Roma-Pescara, che prevede gallerie e varianti per un totale di quasi quattro miliardi, mentre con interventi mirati sarebbe possibile potenziare l’attuale linea e ottenere importanti risparmi di tempo, ma dimezzando i costi. Tanto più che mancano tre miliardi di finanziamento. Lo stesso vale per il raddoppio della Orte-Falconara, che costa oltre quattro miliardi, ma solo 1,2 miliardi sono attualmente finanziati. Mancano anche due miliardi per concludere la Torino-Milano-Genova». A Sud, l’opera principale è la Salerno Reggio Calabria: la scelta di estendere l’alta velocità al Centro Sud è dettata dalla necessità di offrire a questi territori le stesse opportunità di cui ha goduto il Nord, grazie allo sviluppo della ferrovia veloce. «Ma si sta da un lato progettando una linea con costi, pendenze e capacità eccessive rispetto al resto della rete ad Alta Velocità del Nord, e dall’altro si rischia di avere una linea che per decenni terminerà a Tarsia, con effetti assai limitati», commenta Francesco Russo, docente di Ingegneria dei Trasporti all’Università Mediterranea di Reggio Calabria, che continua: «Si rischia di commettere nuovamente gli stessi errori del passato». Perché Rfi prevede di realizzare treni veloci capaci di portare non solo passeggeri ma anche merci pesanti. Questo comporta un raddoppio dei costi di costruzione, grandi gallerie, ponti, viadotti pesanti e curve ad ampio raggio: «Il costo dell’alta velocità in Italia è doppio rispetto a Francia e Spagna perché Rfi ha deciso di costruire linee in grado di far passare anche i treni merci, che pesano oltre mille tonnellate, anche se sull’alta velocità non passa neppure un convoglio di questo tipo. Abbiamo sprecato un sacco di soldi e ci domandiamo perché ora dovremmo sprecarne altri, tanto più che il potenziamento della linea tra Sibari, Metaponto, Taranto e Bari per far viaggiare le merci sulla linea ionica e poi su quella adriatica ci è costato un mucchio di soldi e funziona benissimo», dice Russo, portavoce di un gruppo di otto docenti siciliani e calabresi che a marzo dello scorso anno hanno inviato un documento di proposte alternative per le infrastrutture del Sud, nel quale si offrivano suggerimenti per evitare di sperperare il denaro destinato ai trasporti. I docenti consigliano di puntare sull’alta velocità fino a Reggio Calabria usando però una tecnologia più leggera e passando dalla costa, così da dimezzare i costi. Le risorse liberate potrebbero servire per modernizzare i porti di Augusta e Gioia Tauro, per creare le smart road e puntare sull’alta velocità fra Catania e Palermo, dove oggi si viaggia a non più di cento all’ora. Edoardo Zanchini, vice presidente di Legambiente, si fa portavoce di molti amministratori locali, «che ci scrivono chiedendo di non essere tagliati fuori dalla futura linea ferroviaria, specialmente nell’area del parco del Cilento. Questo perché l’alta velocità, così com’è strutturata, collega le grandi città, ma trascura i piccoli centri. Prima di disegnare la nuova linea, sarebbe utile parlare con i territori e le comunità locali per capire di cosa hanno bisogno e quale futuro immaginano per la Calabria. Ecco perché il dibattito pubblico è urgente. Serve un’analisi approfondita da parte di Rfi e possibili alternative a costi più bassi e in tempi minori». Tuttavia, proprio Rfi ha già fatto uno studio delle alternative che però risale al 2005. E all’orizzonte non sembra esserci alcuna intenzione di avviare nuove analisi sul tema. In realtà in Calabria un progetto per un’alta velocità più snella ci sarebbe già: era presente nel Documento di economia e finanza dello scorso anno e prevedeva di potenziare l’attuale tratta che avrebbe collegato Salerno a Reggio in quattro ore e un quarto, senza costruire 160 chilometri di gallerie, concludendo l’opera in pochi anni e spendendo circa otto miliardi, anziché 22,8. Ma l’ad di Rfi, Vera Fiorani, fa notare che lavorare su una linea in attività è molto più complicato e crea enormi disagi di viabilità per parecchi anni rispetto alla creazione di una nuova linea. «Sicuramente l’offerta sulla linea Tirrenica Sud è limitata e inadeguata. Pre-Covid c’erano in totale dieci treni fra Roma e Reggio Calabria, il più veloce dei quali impiegava quattro ore e 51 minuti. I collegamenti per Napoli sono anche meno, per Taranto ci vogliono sette ore e 23 fermate. Ma questa offerta scarsa non dipende dalla linea, che è a doppio binario, quasi tutta viaggia a oltre 180 chilometri orari e lontana dalla saturazione. Per potenziare radicalmente quella linea basterebbe aumentare il servizio e migliorare l’orario», commenta Beria del Politecnico di Milano, che si domanda quale possa essere l’effetto positivo sull’economia calabrese di un progetto che, ad andar bene, sarà ultimato tra quindici anni. «Tanto più che molta della spesa in cemento, gallerie e impianti non andrà ad imprese calabresi», dice il professore del Politecnico, «perché dei miliardi spesi, molto andrà al Nord e all’estero, dove la tecnologia utilizzata viene prodotta».

E ai calabresi? Resterà una mega opera, costata un sacco di quattrini, con molti dubbi sulla reale efficacia della linea a migliorare le condizioni di vita di una popolazione fra le più in difficoltà d’Italia.

50 ANNI DELLA GRANDE OPERA. Cavour e il discorso sul traforo del Fréjus. su Il Corriere della Sera il 17 settembre 2021. È stata la prima galleria ferroviaria ad attraversare una montagna. La prima ad utilizzare la tecnica di scavo della perforatrice automatica pneumatica. Una mostra racconta. - Pubblichiamo di seguito il discorso di Cavour prima del voto per la realizzazione del Fréjus.

«Signori, l’impresa che vi proponiamo, non vale il celarlo, è impresa gigantesca; la sua esecuzione dovrà però riuscire a gloria e vantaggio del Paese. Le grandi imprese non si compiono, le immense difficoltà non si vincono che ad una condizione, ed è che coloro cui è dato di condurre queste opere a buon fine, abbiano una fede viva, assoluta nella loro riuscita. Se questa fede non esiste, non bisogna accingersi a grandi cose né in politica, né in industria. Se fossimo uomini timidi, se ci lasciassimo impaurire dal pensiero delle responsabilità, potremmo adottare il sistema del deputato Moia. Ma non avvezzi a queste mezze misure, non usi a propugnare una politica timida, vacillante e perplessa, vi invitiamo a librare nelle vostre bilance i due soli sistemi razionali: quello dell’esecuzione oppure il rinvio ad altri tempi di questo ardimentoso tentativo. Io mi lusingo, signori, che voi dividerete questa nostra fiducia. Io spero che darete un voto deciso. Se dividerete la nostra credenza, votate risolutamente con noi. Se un dubbio vi tormenta che nelle viscere della montagna che si vuole squarciare si nasconda ogni maniera di difficoltà, di ostacoli, di pericoli, rigettate la legge; ma non ci condannate ad adottare una via di mezzo, che sarebbe in questa contingenza fatalissima. Ho fiducia che voi seguirete sempre una politica franca, risoluta. Se voi ora adottaste la proposta Moia, inaugurereste assolutamente un altro sistema; ed io ne sarei dolentissimo, non solo perché andrebbe perduta questa stupenda opera, ma perché un tal atto sarebbe un fatale augurio per il futuro sistema politico che sarà chiamato a seguire il Parlamento. Noi avevamo la scelta della via; abbiamo preferito quella della risoluzione e dell’arditezza; non possiamo rimanere a metà; è per noi una condizione vitale ineluttabile progredire o perire. Io nutro ferma fiducia che voi coronerete la vostra opera colla più grande di tutte le imprese moderne, deliberando il perforamento del Moncenisio».

UNA NORMA “BLOCCA TAR” DI TRE RIGHE PER IMPEDIRE LA CHIUSURA DEI CANTIERI. In caso di vittoria del ricorrente per gli indennizzi non ricorrono le condizioni per il danno all’erario e quindi la Corte dei Conti non può sollevare indagini. Ercole Incalza su Il Quotidiano del Sud il 31 luglio 2021. Una volta tanto ammettiamo apertamente che stiamo riscoprendo la validità degli strumenti della Legge Obiettivo. Lo so dà fastidio al Movimento 5 Stelle e a tutti coloro che ritenevano “criminogena” la Legge ed il suo contorno amministrativo. Questa mia premessa è motivata da una notizia diffusa ultimamente dal Governo in merito ad una svolta ritenuta davvero rivoluzionaria; in particolare la svolta, sempre a detta del Governo, è contenuta nell’articolo 48 (comma 4) del Decreto Legge Semplificazioni, approvato già dalla Camera dei Deputati. Tre righe che danno la misura del cambio di passo voluto dal Presidente Draghi: i tribunali amministrativi non avranno più il potere di bloccare i cantieri. Tre righe, in un decreto di 67 articoli, per spazzare via il fardello della giustizia amministrativa. In caso di contenziosi amministrativi le opere del Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza (PNRR) e del Programma complementare proseguiranno il loro iter e non subiranno interruzioni. Per gli investimenti previsti dal Recovery, la norma stabilisce che in caso di impugnazione degli atti relativi alle procedure di affidamento, i lavori delle opere andranno avanti, al netto dell’esito del contenzioso. Questa, in fondo, è la garanzia che l’Italia procederà in velocità, senza pregiudicare le legittime tutele per le imprese. Ebbene, se entriamo con maggiore attenzione all’interno della “norma blocca TAR”, varata con tale Decreto Legge, scopriamo che essa richiama l’articolo 125 del processo amministrativo (Decreto Legislativo 104/2010): una procedura, già prevista in casi straordinari, per le opere incluse nel Programma delle Infrastrutture Strategiche previsto dalla Legge Obiettivo e che ora si estende a tutti gli appalti finanziati con i fondi del PNRR e del PNIEC (Il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima 2030). All’impresa, che eventualmente vince il ricorso al TAR contro l’aggiudicazione dei lavori al concorrente, spetta esclusivamente una tutela risarcitoria. Basta sospensione dei lavori. Il cantiere andrà avanti senza perdersi tra ricorsi e carte bollate. Sarà il giudice a stabilire l’ammontare del risarcimento. In tal modo si evita un blocco causato dal folle sistema dei contenziosi; basta leggere i numeri, pubblicati in un’inchiesta di Repubblica, per avere un’idea del macigno dei contenziosi amministrativi: cento settantaquattro ricorsi al giorno, più di mille e duecento a settimana, sessantaquattro mila all’anno. La norma, quindi, si ripropone l’obiettivo di ridurre il potere dei giudici amministrativi. Un potere considerato un deterrente per gli investitori stranieri, spaventati dai ricorsi e dalla lentezza delle decisioni. Ma nascono automaticamente due interrogativi:

Perché il Governo non ha, solo con una circolare, imposto il rispetto dell’articolo 125 del Processo Amministrativo già previsto per le opere incluse nel Programma delle Infrastrutture Strategiche della Legge Obiettivo

Perché prima di formulare la nuova norma il Governo non abbia verificato perché l’articolo 125 non è stato utilizzato in passato

Sarebbe stato sufficiente un approfondimento da parte dei Capi Uffici Legislativi dei vari Ministeri, direttamente e indirettamente interessati, e sarebbe emerso subito che in passato, dopo uno o due primi tentativi, la norma non fu più invocata dalle stazioni appaltanti perché prendeva corpo, e mi sembra che per uno o due casi prese corpo, l’ipotesi del danno all’erario da parte della Corte dei Conti. In quanto, a valle del risultato positivo della impugnativa sollevata da un secondo classificato, quanto riconosciuto come indennizzo si configurava, ripeto, come danno all’erario e, quindi, il responsabile che avallava una simile operazione avrebbe dovuto garantire la copertura di tale indennizzo. Quindi la norma, che ritengo essenziale e sicuramente validissima per velocizzare l’affidamento delle opere, è in grado di ottenere le risorse previste Recovery Fund, deve però chiaramente ribadire che non ricorrono le condizioni per il danno all’erario e che quindi la Corte dei Conti non può sollevare indagini e non può far gravare sulla responsabilità del soggetto aggiudicatore nessuna responsabilità. Ma penso che per cercare di superare dei punti critici che caratterizzano il rapporto tra stazione appaltante e imprese di costruzione, sarebbe opportuno affrontare in modo trasparente una delle cause sistematiche che in passato e ancora oggi mette in crisi l’intero sistema di affidamento delle opere pubbliche, mi riferisco in particolare al tema della “offerta anomala”. Ritengo utile in proposito ricordare la Legge 120/2020 — Conversione in legge, con modificazioni, del Decreto – Legge 16 luglio 2020, n. 76, recante “Misure urgenti per la semplificazione”; all’articolo 1 comma 3, è previsto che “nel caso di aggiudicazione con il criterio del prezzo più basso, le stazioni appaltanti procedono all’esclusione automatica dalla gara delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia, come individuata dall’articolo 97, commi 2, 2 -bis e 2 -ter del Codice, anche qualora il numero delle offerte ammesse sia pari o superiore a cinque”. Tale norma ha lo scopo di evitare i procedimenti di verifica di anomalia delle offerte, abbassando da 10 a 5 il numero minimo di offerte ammesse per l’applicabilità del meccanismo. Ma tale previsione opera automaticamente anche se non prevista nella documentazione di gara? E nel caso di annullamento di un provvedimento di esclusione dalla gara di un’offerta ritenuta anomala cosa accade e quali sono gli obblighi per la stazione appaltante prima di procedere all’aggiudicazione della gara?

A rispondere a questa domanda ci ha pensato il Consiglio di Stato con la sentenza n. 3085 del 14 aprile 2021 pronunciatasi in riferimento ad un ricorso presentato per l’annullamento di una decisione di primo grado dove nell’ambito di una gara l’offerta di un concorrente, a seguito di verifica di congruità, era stata ritenuta anomala e quindi esclusa. Tale esclusione era stata confermata prima dal TAR e poi annullata dal Consiglio di Stato. Nel ricorso al TAR, la seconda classificata. al fine di difendere la sua posizione, ha ripreso ad analizzare la confusa documentazione giustificativa che era stata prodotta dalla concorrente esclusa e poi riammessa, in quanto convinta del fatto che tale annullamento avrebbe imposto alla stazione appaltante un nuovo subprocedimento di verifica di congruità rispetto all’offerta. Secondo il Consiglio di Stato “l’aggiudicazione impugnata non è stata preceduta da una nuova valutazione di congruità, sicché tale profilo si è cristallizzato, e il ricorso tenta di rimettere in discussione la congruità dell’offerta valorizzando sul piano esclusivamente formale la nuova aggiudicazione”. Appare evidente che mentre nel caso dell’esclusione automatica sia necessario includere una norma che eviti l’intervento della Corte dei Conti, nel caso invece relativo alla tematica sollevata dalla “offerta anomala” ritengo sia opportuno chiarire in modo inequivocabile ogni possibile diverso comportamento della stazione appaltante. Queste mie considerazioni sono, senza dubbio, molto tecniche e sicuramente, non essendo io laureato in materie giuridiche, contengono tanti errori soprattutto nella parte espositiva ma ritengo, per la mia pluriennale esperienza diretta ed indiretta nel comparto delle opere pubbliche, che da queste considerazioni si evinca quanto sia difficile liberare questo comparto chiave dell’economia del Paese da vincoli procedurali che, a mio avviso, possono essere superati solo indossando una carica di umiltà ogni volta che tentiamo di liberare l’intero settore da vincoli spesso inesistenti o creati volutamente. Sono sicuro, in tutti i modi, che questi errori, nella comunicazione e nell’approfondimento corretto delle proposte di Legge, errori ommessi dalla squadra del Presidente Draghi, diano molto fastidio al Presidente. La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili. 

Tobia De Stefano per “Libero quotidiano” il 26 luglio 2021. Se inserite su Google le parole "Il ricorso al Tar sospende i lavori" verrà fuori una serie infinita di opere, alcune piccole e altre di media dimensione, che sono state bloccate per una decisione del Tribunale Amministrativo. Si parte dall'appalto per le nuove sciovie ad Ovindoli, si prosegue con il progetto del molo galleggiante di Mare Morto a Cabras, in Sardegna, e si arriva fino al fermo per l'antenna di Iliad a Teramo, per la ristrutturazione della scuola media di corso Giannone a Caserta e il rifacimento della Salita Canata a Lerici, con tanto di allargamento della carreggiata e costruzione di un parcheggio. Attenzione si tratta di una rassegna stampa minimale che fa riferimento alle ultime settimane, ma se andiamo indietro negli anni ci accorgiamo che la storia del Paese - dalla ricostruzione dell'Aquila post-terremoto all'ammodernamento del porto di Taranto - è stata condizionata dalle sentenze amministrative. Certo i casi sono molto diversi tra loro- oggi il più significativo è probabilmente quello che riguarda il balletto sullo spegnimento del grande forno all'Ilva-, ma il problema resta l'ingerenza dei Tribunali amministrativi in Italia. Un unicum e una discriminante imprevedibile rispetto alla certezza di realizzare una grande opere e ai tempi per posare l'ultima pietra. Lo dicono da anni governi sia di destra che di sinistra e ce lo fanno notare con un certo fastidio gli investitori stranieri che sanno quando un cantiere in Italia apre ma non hanno minimamente idea di quando possa completarsi. Bene. Da questo punto di vista, la norma "blocca Tar" inserita all'ultimo momento nel decreto Semplificazioni rappresenta una vera e propria rivoluzione. Il senso è questo: nel caso di un appalto che porti al ricorso al Tar di un'impresa, la sua eventuale vittoria davanti al tribunale amministrativo non comporta il subentro nel cantiere ma solo a un indennizzo economico. Nella sostanza: i lavori non si bloccano, non si ricomincia tutto dall'inizio. Certo, si tratta di una corsia preferenziale creata ad hoc per le opere relative al Recovery Fund. E anche di una garanzia verso l'Europa per i 209 miliardi del Pnrr. Ma rappresenta comunque una grande svolta almeno nella filosofia del rapporto tra imprenditori e pubblica amministrazione. Il ministro Renato Brunetta, vero sponsor della norma, esulta: «Siamo pieni di soldi, 230-240 miliardi, dovremo gestire centinaia di progetti infrastrutturali nuovi. Ci sarà la banda larga, ci sarà la digitalizzazione di tutti i processi burocratici. E dentro tutto questo la semplificazione sarà il "fast track", vale a dire la velocizzazione... Nel decreto è previsto che in caso di ricorsi al Tar, i lavori delle opere legate al Pnrr proseguiranno senza interruzioni». Certo che prima o poi la discussione si sposterà sulla necessità di allargare la portata del provvedimento. Come evidenziato dal Sole 24 Ore, infatti, la norma trae spunto dall'articolo 125 del codice del processo amministrativo secondo il quale in un appalto per le opere di interesse strategico, i giudici devono pesare l'interesse del ricorrente con quello dell'aggiudicatore «alla sollecita realizzazione dell'opera», mettendo quindi in conto di stabilire un indennizzo per equivalente al posto del subentro, in caso di vittoria dell'impresa impugnante. A questo punto la domanda sorge spontanea: perché possiamo "sterilizzare" il Tar solo per le opere strategiche del Recovery Plan e non abbiamo la stessa opportunità anche per quelle che sono fuori dal grande piano europeo? Nel loro piccolo tutti i cantieri sono strategici. 

L’Italia della grande lentezza, il male atavico delle incompiute. L’IMPIETOSO DOSSIER DELLA CORTE DEI CONTI Ancora non si riesce a spendere nei tempi corretti le risorse dell’Europa. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 25 luglio 2021. In vista del Pnrr non c’è molto da sorridere: nell’ambito della programmazione europea 2007-2013, dei 56 “Grandi progetti” approvati, per un valore complessivo di 7,634 miliardi di euro, di cui 5,582 miliardi di risorse europee, al 31 dicembre 2020 solo 34 progetti “risultano ultimati e in uso”, mentre “11 interventi sono in corso di realizzazione” ed “altri 11 (spesso ridimensionati) figurano come progetti ordinari, da realizzare nel corso della programmazione attuale, o sono stati abbandonati”. È quanto certifica la Sezione di controllo per gli affari comunitari ed internazionali della Corte dei Conti nella “Relazione speciale i grandi progetti della programmazione europea 2007-2013”. Il report della magistratura contabile conferma un male atavico italiano: non riuscire a spendere nei tempi corretti le risorse comunitarie. Non certo un buon segnale considerano la pioggia di soldi che, a breve, arriverà dall’Europa e che dovremo spendere rapidamente. Non a caso, la Corte dei Conti ha lanciato il monito: “In prospettiva futura, nel segnalare l’opportunità di porre una maggiore attenzione, a monte degli interventi, all’interlocuzione preventiva con gli attori istituzionali”, c’è la necessità di “una radicale modifica dell’assetto istituzionale per l’impiego dei fondi, in quanto l’attuale struttura di governance risulta troppo dispersa per dare attuazione rapida agli impegni assunti in sede europea”. A distanza di quattro anni dalla data di presentazione delle certificazioni di chiusura del periodo di programmazione 2007-2013 (fissata al 31 marzo 2017), solo i due terzi dei 2Grandi progetti” approvati risultano effettivamente entrati in funzione. Si tratta di opere importanti, tutte di importo superiore ai 50 milioni di euro. L’indagine ha analizzato con schede individuali i 19 “Grandi progetti” completati al 31 marzo 2017, i 10 interventi da completare tra il 31 marzo 2017 e il 31 marzo 2019 (cosiddetti “non funzionanti”) e i 27 progetti la cui esecuzione, rimasta parzialmente inattuata entro la scadenza del ciclo 2007-2013, è stata posta “a cavallo” di due programmazioni. “Accanto ad alcune importanti realizzazioni – si legge nella relazione – si registra la tendenza generalizzata a travalicare i limiti di durata di un ciclo di programmazione, rinviando nel tempo la creazione di valore per i territori interessati. Solo 9 progetti dei 34 funzionanti, hanno, infatti, visto il proprio avvio e completamento entro un unico ciclo di programmazione. Forte è la presenza di progetti retrospettivi (in tutto 15 progetti, di cui 3 non risultano ancora in uso al 31 dicembre 2020), con un peso percentuale del 35,2% sul valore della programmazione. Ad essi si aggiungono alcuni progetti “ereditati” dalla programmazione precedente 2000-2006, che incidono per il 10,7% in termini numerici e per l’1,9% in termini di volume finanziario”. Insomma, ritardi su ritardi, opere che si trascinano nel tempo, addirittura dal 2000. Tra gli obiettivi conseguiti la Corte segnala, ad esempio, “la riduzione dei tempi di percorrenza sulle tratte ferroviarie a lunga distanza e sulle direttrici stradali, il miglioramento della qualità del trasporto locale su ferro; la disponibilità delle infrastrutture in banda larga, lo sviluppo ecosostenibile del territorio”. L’indagine ha permesso di individuare le criticità che hanno rallentato, e in alcuni casi ostacolato, la tempestiva attuazione delle opere: lunghe procedure burocratiche, disomogeneo livello di definizione progettuale, crisi finanziaria delle ditte appaltatrici, contenziosi prolungati. “Problematiche – sostengono i magistrati – che, sotto molti aspetti, sono lo specchio di mali più generali, che affliggono la programmazione e la realizzazione delle opere pubbliche in Italia”. Dei 9 “Grandi progetti” che sono stati avviati e conclusi nei termini, tre sono relativi alla diffusione della banda ultra larga; due sono investimenti industriali; quattro hanno natura infrastrutturale, come la realizzazione di un People Mover tra l’aeroporto e la stazione ferroviaria di Pisa; la ricostruzione della galleria ferroviaria Coreca; ammodernamento della rete ferroviaria Ferrovie del Sud-Est in Puglia; costruzione in lotti funzionali della linea di trazione elettrica Bari-Taranto. I dati del report mostrano “con evidenza la difficoltà di realizzare un’opera infrastrutturale nell’arco temporale di un solo ciclo di programmazione, nonostante il carattere prioritario che le infrastrutture individuate rivestono per lo sviluppo del territorio cui si riferiscono (e potenzialmente dell’intero Paese)”, bacchettano i giudici contabili. Non solo: “E’ stato anche rilevato, “a valle” degli interventi, che la fine lavori spesso non coincide con la fine amministrativa dell’opera. Anche con riferimento ad opere ormai da tempo in funzione, la fase del collaudo non risulta conclusa, e anzi si manifesta spesso lunga e accidentata”. La Corte dei Conti, per superare le criticità, invita ad “una maggiore attenzione all’interlocuzione preventiva con gli attori istituzionali, la cui opposizione risulta in più di un caso aver ostacolato la tempestiva attuazione degli interventi”. I giudici rilevano, tra l’altro, “la necessità di ripensare la struttura di governance. Numerosi sono i soggetti coinvolti nell’attuazione delle politiche di coesione cofinanziate con i fondi Sie” e “occorre interrogarsi sui rispettivi ruoli e sui relativi poteri decisionali e di intervento dei vari soggetti, che rischiano altrimenti di sovrapporsi tra loro o di avere un quadro di competenze poco incisivo”. Ad ogni modo, “appare evidente l’esigenza di una radicale modifica dell’assetto istituzionale per l’impiego dei fondi, l’attuale struttura di governance risultando infatti troppo dispersa per dare attuazione rapida agli impegni assunti in sede europea. Pur rimettendo al livello locale l’espressione delle progettualità di investimento, appare necessario un maggiore coordinamento centrale delle iniziative, sia in termini di programmazione che in termini di realizzazioni”, avverte la Corte dei Conti. L’indagine condotta ha rilevato, in particolare, “la mancanza di un centro di impulso decisionale e attuativo che possa portare un progetto fuori delle secche quando questo si incagli”. Infine, sempre in vista del Pnrr, i giudici fanno notare che l’indagine “ha confermato un problema di carico amministrativo, gravante su strutture locali non dotate di sufficienti competenze tecniche e gestionali, almeno in alcuni contesti territoriali”. Come dire, Comuni e Regioni potrebbero non essere pronte.

Ritardi, errori e costi insostenibili: lo scandalo Pedemontana veneta finisce in Parlamento. È di certo la superstrada più cara d’Europa: 80 milioni al km + Iva. Dopo la denuncia del nostro giornale arriva l'interrogazione della senatrice Vanin. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud il 9 luglio 2021. Il “caso Pedemontana” finisce in Parlamento. Pedaggi alle stelle, costi non più sostenibili, un mix di calcoli errati e di flussi dimezzati. Un flop che rischia di pesare per i prossimi due decenni sulle tasche dei veneti e sui conti della Regione e servirà a stabilire un nuovo primato europeo: 15 miliardi di euro. La superstrada più cara d’Europa. In passato era stato il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D’Inca, a esprimere le sue perplessità per la cifra che in 39 anni la Regione guidata dal presidente Luca Zaia dovrà corrispondere al concessionario, 12 miliardi e 108 milioni, cui si aggiungono i finanziamenti erogati dallo Stato e dall’ente locale. A raccogliere la denuncia, rilanciata dal Quotidiano del Sud, è la senatrice 5Stelle Orietta Vanin che ha presentato un’interrogazione urgente al ministro alle Infrastrutture e alla sostenibilità della mobilità, Enrico Giovannini. L’atto di sindacato ispettivo riassume la gestione travagliata.

LA TELA DI PENELOPE. Progettata come superstrada a pedaggio, finanziata con project financing a prevalente capitale privato e con l’apporto di fondi pubblici della regione Veneto, la Pedemontana Veneta si sta trasformando sempre più in un’idrovora che assorbe risorse. Un cantiere a peso d’oro, una delle infrastrutture più straordinariamente costose: circa 80,14 milioni + Iva al km. Ai costi non corrispondono in alcun modo i benefici: 94,5 km di lunghezza + 68 km di opere complementari, una lunga striscia d’asfalto che, una volta ultimata, sarà data in concessione al privato costruttore per 39 anni. Al netto delle obiezioni degli ambientalisti per l’impatto sul paesaggio, resta l’“effetto Penelope”. «La tela cucina e scucita di un’opera che avrebbe dovuto essere completata entro gennaio 2016, poi slittata a dicembre 2018 e infine a settembre 2020 senza che la Regione Veneto ritenesse di voler incassare le penali per ritardata consegna dell’opera» rileva Enrico Cappelli che, svestiti i panni di senatore 5Stelle, ha lasciato palazzo Madama ed è tornato a occuparsi del suo territorio. Suo l’esposto all’Anac (Autorità nazionale anticorruzione) per stabilire che la metodologia utilizzata per quantificare il canone di disponibilità è inadeguata. Non è infatti ammissibile che slittino i termini di ultimazione lavori senza una corrispondente riduzione del termine di durata della gestione. I ritardi nella consegna dell’opera si riflettono quali mancati introiti della gestione dell’infrastruttura.  La Corte dei conti riporta le stesse deduzioni dell’Anac, concordando sul fatto che sarebbe alterata l’allocazione del rischio di costruzione del concessionario.

RIFLETTORI SPENTI. I dubbi sulla Pedemontana si trascinano da anni. Ciò nonostante, l’influenza del doge-governatore tiene spenti i riflettori. Il ministro alle Infrastrutture dovrà rispondere su tutte le questioni più dolenti, elencate una per una. A partire dalla prima, che suona provocatoria, se «sia a conoscenza dei fatti esposti; se sia a conoscenza di altra analoga infrastruttura, in costruzione in Italia, che preveda un esborso pubblico altrettanto straordinariamente elevato». Quindi si chiede se corrisponda al vero che «la Regione Veneto ha ritenuto di non incassare le penali per ritardata consegna dell’opera e se non ritenga che, con l’assunzione da parte della Regione del connesso “rischio di disponibilità”, venga meno un requisito indispensabile per sostenere il progetto di finanza. Infine, se conosca le ragioni che hanno indotto la Regione Veneto a disapplicare la citata delibera Anac nella parte in cui stabilisce che «non è ammissibile lo slittamento del termine di ultimazione dei lavori al 30.9.2020 senza una corrispondente/adeguata riduzione del termine di durata della gestione». La gestione della rete autostradale fa parte ormai del core business della Regione. Non pochi pensano, infatti, che dietro le ambizioni della Cav Spa, la concessionaria per metà della Regione e per l’altra metà dell’Anas che gestisce il Passante di Mestre, vi sia la necessità di finanziare la Pedemontana senza rischiare la bancarotta. Tutto nasce dalle difficoltà per il concessionario privato a far fronte al closing finanziario e dalla decisione di Cdp e Bei di non partecipare al finanziamento. Una scelta dettata da uno studio sulle stime di traffico molto inferiori alle previsioni. Nonostante la stipula del Tac (Terzo atto convenzionale) che ha rivisto le clausole contrattuali, i dubbi su un eccesso di remunerazione del concessionario restano. Senza dire che il nuovo schema contrattuale continuerebbe a essere in contraddizione con la ratio originaria della finanza di progetto (project financing). Il concessionario privato non rischia nulla e incassa il canone. Mentre la Regione, nel corso dei 39 anni, sborsa solo costi di gestione non quantificabili.

LE ALTRE INCOGNITE. A questo si aggiungono altri fattori e uno su tutti: i tempi di realizzazione delle interconnessioni con le autostrade A4, A31 e A27. La piena funzionalità della “Pedemontana Veneta” presuppone l’interconnessione diretta con le autostrade. Non risulta, inoltre, ancora definita la riclassificazione infrastrutturale, non si possono superare dunque i 110 km/h. A Palazzo Chigi è arrivato nei giorni scorsi un dossier dettagliato, un documento riservato che ai leghisti piace poco.

Dice, tra l’altro, che per la tratta già in funzione il pedaggio è di 0,16,420 euro al km per le auto e di circa 0,30 euro per i veicoli pesanti. Carissimo, E che i conti si pareggiano solo se vi circolano 27mila veicoli al giorno, un obiettivo ancora lontano. E Pantalone continua a pagare. 

Come funzionano i subappalti, previsti dal decreto semplificazioni di Draghi. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 29 Maggio 2021. Il Decreto Semplificazioni vede la luce e rimette pace, miracolosamente, alle polemiche tra i partiti. Dopo aver speso molte energie nel batti e ribatti che si è prefissato con Salvini, Enrico Letta inforca la via maestra e rimette i piedi nel piatto delle grandi riforme. Lo fa toccando quattro punti essenziali, con quattro proposte puntuali che il Pd fa proprie. Comincia con una battaglia contro il gruppo misto di Camera e Senato, che «dovrebbe essere un faticoso purgatorio, ma è un paradiso per parlamentari che fanno quello che vogliono e senza alcun controllo». Al suo posto, Letta vedrebbe bene il gruppo dei non iscritti, come nel Parlamento europeo. E poi lancia la suggestione della sfiducia costruttiva, «per sostituire un governo con un altro, come in Germania: non si può fare se non indichi già la nuova maggioranza». E punta poi ad un vulnus lacerante, chiedendo l’applicazione dell’articolo 49 della Costituzione per regolare la vita dei partiti. Un tema che riguarda quasi tutti, ma in maniera eclatante l’alleato a Cinque Stelle. Il Movimento oggi vive l’impasse più grave, non può eleggere il suo leader perché non conosce i suoi iscritti, e va verso un problema immediato non meno serio: chi detiene il simbolo M5S, legalmente, oggi? Perché a Roma, Napoli, Milano c’è da presentare le liste e a farlo potrebbero perfino essere gruppi diversi tra loro, in assenza di una gerarchia, di un regolamento, di una titolarità riconosciuta. C’è poi nei desiderata del leader Pd la necessità di rimettere mano alla legge elettorale. «La malattia democratica si è acuita con le liste bloccate e i criteri di cooptazione e fedeltà». L’acuirsi della malattia nell’ottica dem si riverbera su un consenso elettorale che finisce per premiare la destra. Lega e Fdi, sommati, sono stabilmente sopra il 40% e per provare a batterli serve un centrosinistra largo capace di «incontrarsi con i 5 stelle». Dopo aver incontrato il premier Draghi, Letta sposta dunque l’asse sul futuro («Serve un Pnrr delle riforme»), senza esacerbare le criticità sulla decretazione in corso. Vero, i sindacati sono tornati in piazza, ma più per ribadire l’importanza del ritorno alla concertazione che per alzare barricate. Il giorno dopo l’incontro con il premier, grazie al quale hanno incassato lo stralcio dal decreto semplificazioni del massimo ribasso per gli appalti, i leader sindacali si sono dati appuntamento a piazza Montecitorio – ricevuti poi a palazzo dal presidente della Camera Roberto Fico –per sollecitare il Parlamento a modificare la norma sui licenziamenti. Per il leader della Cgil Maurizio Landini la mobilitazione «continua, perchè la partita non è chiusa». Concluso il presidio dei sindacati, ha preso il via l’atteso Consiglio dei Ministri con il Dl Semplificazione finalmente al voto. Le novità sono importanti e recepiscono tanto la piazza sindacale quanto le trattative bilaterali: il nome del decreto è rispettato, al di là della retorica si vedono misure sulla semplificazione per appalti su opere pubbliche. Sale al 50% la soglia per i subappalti fino al 31 ottobre 2021, sia pure in una “fase transitoria”. Nei bandi di gara e nei contratti pubblici previsti dal Pnrr «è requisito necessario dell’offerta l’assunzione dell’obbligo ad assicurare una quota pari almeno al 30 per cento, delle assunzioni necessarie per l’esecuzione contratto o per la realizzazione di attività ad esso connesse o strumentali, all’occupazione giovanile e femminile». Il decreto prevede l’accesso semplificato per usufruire del beneficio fiscale del Superbonus 110%, attraverso la Comunicazione di inizio lavori asseverata (Cila). Ma c’è anche la garanzia richiesta dal Pd e in particolare da Franceschini: con l’istituzione di una Soprintendenza speciale per il Pnrr, ufficio di livello dirigenziale generale straordinario operativo fino al 31 dicembre 2026, per svolgere funzioni di tutela dei beni culturali e paesaggistici. Infine, luce verde per la «Piattaforma Dgc (Digital Green Certificate) per l’emissione, il rilascio e la verifica delle certificazioni Covid-19 interoperabili a livello nazionale ed europeo è realizzata, attraverso l’infrastruttura del Sistema Tessera Sanitaria e gestita dalla stessa per conto del Ministero della salute, titolare del trattamento dei dati generati dalla piattaforma medesima». Il pass vaccinale internazionale è realtà. Al termine della riunione soddisfazione generale: per Italia Viva «si è raggiunto un risultato insperabile fino a poche settimane fa». Boschi twitta: «Messo il turbo». Il Movimento Cinque Stelle vede riconosciute le sue istanze, Forza Italia gongola e tra i ministri scrive l’happy end Renato Brunetta: «La prima milestone del Piano nazionale di ripresa e resilienza è raggiunta. Nel pieno rispetto del cronoprogramma, il cdm ha approvato il decreto per far marciare veloci i progetti del Recovery Plan».

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Dai trafori ferroviari alle nuove autostrade agli interventi per rafforzare le strutture sanitarie. ... Guido Fontanelli su Panorama il 3 febbraio 2021. Nell'Italia delle 744 opere bloccate (Di mercoledì 3 febbraio 2021) Dai trafori ferroviari alle nuove autostrade agli interventi per rafforzare le strutture sanitarie. Lentezze e mancata efficienza dell'ex governo Conte, rischiano di vanificare anche l'opportunità del Recovery Plan. «Se non razionalizziamo la macchina pubblica e non semplifichiamo la vita alle imprese, questo Paese affonda» denuncia Gabriele Buia, il presidente dei costruttori. Quei 3 miliardi per AlItalia? Dateli ai dipendenti E' un crescendo, un torrente che diventa un fiume in piena. Avevamo contattato Gabriele Buia, 62 anni, presidente dell'Ance, l'associazione dei costruttori edili, per raccogliere un commento sulle esternazioni del premier Giuseppe Conte in tema di appalti e grandi opere. Il risultato è una denuncia sempre più dura contro un sistema di norme e di burocrazia che non solo soffoca le imprese, ma rischia di minare la parte ...

Milena Gabanelli e Fabio Savelli per corriere.it l'11 maggio 2021. Venti anni senza aprire un cantiere. Un’opera strategica nata per sostenere il più importante distretto della ceramica italiano, quello di Sassuolo, e sulla quale, dall’inizio sono d’accordo tutti. Tutti hanno approvato, vidimato, dato il via libera. Parliamo di un raccordo autostradale di 27 km su cui convogliare il traffico pesante fino al casello di Campogalliano, dove la A1 si incrocia con la A22 del Brennero. Una cronistoria «simbolo» che racconta molto di questo Paese ora atteso alla prova del nove: cioè spendere i 53 miliardi agganciati alle infrastrutture entro il 2026. Soldi per la gran parte a debito, ma vincolati all’effettiva messa a terra dei cantieri. Significa che se le opere non si concludono queste risorse vanno restituite a Bruxelles oltre alla quota di debito pubblico in mano agli investitori esteri che lo finanziano per oltre il 30%.

2001: primo ok del Cipe. La storia della Campogalliano-Sassuolo ha inizio nel 1985, quando si decide che bisogna convogliare tutto il traffico pesante in una unica direttrice. Nel 2001 il Cipe la inserisce tra le opere del corridoio dorsale centrale del Paese. Un raccordo da 175 milioni di euro, che è solo l’importo iniziale. L’opera viene inserita nel piano triennale dell’Anas che deve appaltarla nel entro due anni. Nel 2002 ne approva il progetto preliminare trasmettendolo ai vari ministeri. Comunica l’avvio della procedura di impatto ambientale recependo le indicazioni delle Soprintendenze.

Nel 2004 il primo intoppo: il ministero dell’Ambiente comunica ai Trasporti la temporanea sospensione dell’istruttoria perché ravvede un’incongruenza nell’analisi del traffico stimato a supporto della valutazione del progetto. Passa un altro anno per aggiornare lo studio trasportistico, e nel 2005 il Mit trasmette al Cipe la relazione sul progetto preliminare della bretella autostradale che si collega con l’A22 del Brennero e con la Statale 467 Pedemontana. Il costo lievita a 284 milioni di euro a carico dell’Anas, e si indica un tempo di due anni e mezzo per l’esecuzione dei lavori. Nel progetto definitivo però l’importo diventa di 467,1 milioni di euro per tutte le ulteriori opere di allacciamento da realizzare. 

2006-2009: arrivano tutte le autorizzazioni. Arriviamo al 2006, e l’Anas comunica di voler ricorrere all’affidamento in concessione. Il Cipe le propone di verificare anche la possibilità di utilizzare la finanza di progetto con capitali privati o di rientrare del costo dei lavori con il pedaggio. Nel 2007 il Cipe approva il piano di investimenti dell’Anas e la include tra le opere da realizzare mediante finanza di progetto perché esiste una specifica proposta dell’impresa di costruzioni Pizzarotti. Il 23 luglio di quell’anno la Commissione di valutazione di impatto ambientale dà parere favorevole.  A gennaio 2009 si chiude anche la conferenza dei servizi, che mette al tavolo tutti gli enti locali coinvolti. È la fase in cui vengono raccolte tutte le autorizzazioni, ambientali, beni culturali, archeologiche, soggetti responsabili delle interferenze, i comuni. E con l’intesa Stato-regioni l’opera viene dichiarata di pubblica utilità e pertanto possono partire le attività di esproprio. Sembra il via libera finale, ma non lo è.

2010-2014: dal bando di gara alla concessione. Nel 2010 l’Anas pubblica finalmente il bando di gara per l’affidamento in concessione per 50 anni, con una procedura ristretta delle attività di progettazione. Il canone di concessione è stabilito in 881 milioni di euro. L’A22 presenta domanda di partecipazione alla gara costituendo un’associazione temporanea di imprese. Il Cipe dà l’ok nel 2011 e fissa il limite di spesa a 598 milioni.

Nel 2012 l’attività di vigilanza sulle opere passa dall’Anas al ministero dei Trasporti. A questo punto la palla torna al Cipe per le valutazioni. Ciò ritarda ulteriormente i tempi, perché occorre un nuovo atto aggiuntivo tra governo e regione Emilia Romagna. L’atto viene sottoscritto nel 2013. La commissione di gara intanto indica l’aggiudicatario provvisorio: l’Autobrennero, l’impresa Pizzaroti e Coop7. Anas però deve ancora fare le sue verifiche, e il nuovo ente di vigilanza aggiudicare definitivamente. La formalizzazione finale è del 2014: il ministero dei Trasporti dispone l’aggiudicazione definitiva della concessione all’A22 raggruppata nell’associazione di imprese.  Si procede alla convenzione di concessione che prevede un orizzonte di 31 anni. Nello stesso periodo bolle in pentola il decreto che consente di defiscalizzare alcuni lavori. Sono 40 milioni, e le imprese fanno richiesta.

2015-2020: l’avidità, la beffa, e poi il Covid. L’ok del Nars, il nucleo di consulenza sulla regolazione dei servizi di pubblica utilità, arriva nel 2016, ma si deve di nuovo passare dal Cipe che però si oppone «perché il contratto di finanziamento doveva essere stipulato entro 12 mesi dalla firma della convenzione». Cioè nel 2015. Si ricomincia da capo. Il nuovo atto aggiuntivo per ottenere la defiscalizzazione viene sottoscritto nel 2018. Ma bisogna poi attendere la registrazione del decreto da parte della Corte dei Conti. A febbraio 2019 l’ex ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli ferma tutto: chiede l’analisi costi-benefici. A settembre il ministero approva il progetto esecutivo per 406 milioni. Finalmente si parte: la società concessionaria avvia gli espropri, e i lavori stanno per cominciare. Arriva il Covid.

2021: si apre il contenzioso fra pubblico e privati. Nel corso del 2020 la società di gestione della Campogalliano-Sassuolo chiede al ministero la revisione della concessione e le previsioni di traffico ritenute non più adeguate.  In tutto questo la vicenda si lega alla concessione dell’Autobrennero scaduta nel 2014, appena prorogata per la quarta volta, e che deve costruire anche la parte ferroviaria del tunnel del Brennero. Anche quest’opera è nella lista dei lavori strategici e prioritari. Per andare avanti senza gara un decreto di novembre 2020 impone una statalizzazione forzata: «Dovete mettere fuori i privati e riscattare le azioni». I privati si mettono di traverso e agitano il contenzioso in tribunale perché detengono il 14,3% del capitale sociale, che secondo loro varrebbe circa 70 milioni, mentre la Corte dei Conti ritiene sia meno della metà. In più i privati rivogliono indietro la loro quota del Fondo Ferrovie: 800 milioni di utili non distribuiti e investiti in titoli di Stato. Ora una parte di questi soldi deve andare a finanziare proprio il tunnel del Brennero. Ma se i soci privati vengono esclusi, bisognerà decidere con quanto liquidarli. Sta di fatto che il decreto di nazionalizzazione potrebbe essere impugnato nei tribunali amministrativi perché contro le norme europee.

Ottomila camion al giorno sulla statale. Intanto, mentre il Ministero dei Trasporti è diventato quello delle mobilità sostenibili, una lunga fila di tir in entrata e uscita dalle fabbriche delle piastrelle, intasano ogni santo giorno la vecchia e la nuova statale per 27 km, con il conseguente impatto ambientale che tale traffico produce. Per aprire i cantieri manca solo la firma del ministro Giovannini. Pensa che oggi abbia più senso potenziare gli scali ferroviari? Vanno trovate le risorse, e ripartire con il giro di walzer. Significa averli operativi fra una decina d’anni se va bene, mentre la direttrice unica è già finanziata e approvata in tutte le sedi. In mezzo c’è il destino del distretto della ceramica, che conta su un fatturato di oltre 5 miliardi, più dell’80% realizzato sui mercati internazionali, ed offre lavoro a circa 30.000 persone incluso l’indotto. Mancando di una infrastruttura di collegamento importante, rischia di perdere attrattiva.

DATAROOM. Autostrade, ferrovie, metro: le 58 opere urgenti in ritardo, con 60 miliardi fermi in cassa. Milena Gabanelli e Fabio Savelli su Il Corriere della Sera il 23 febbraio 2021. L’ultimo atto del governo Conte porta la data del 21 gennaio, con la nomina dei commissari per la realizzazione delle opere urgenti. Si tratta di opere già in cantiere da tempo e definite come «irrinunciabili» ad agosto 2020. Poche settimane prima era stato approvato il decreto Semplificazioni che ha snellito il Codice degli appalti, una riforma che ci consente già di avviare i progetti usando anche le risorse Ue del Recovery Fund e permette di applicare l’articolo 32 del Codice degli appalti europeo secondo il quale è possibile – per comprovate esigenze di urgenza – lavorare con le imprese evitando il passaggio della gara e operando solo sulla base delle manifestazioni d’interesse. Per partire con opere «di elevato grado di complessità progettuale, esecutiva o attuativa» occorre però avere, per ciascuna di esse, un responsabile in carne e ossa che se ne intesti la realizzazione e i controlli. I commissari appunto. Ma perché ci sono voluti sei mesi per sceglierli? Perché la Presidenza del Consiglio ha chiesto al ministro dell’Economia l’analisi costi-benefici, già fatta dal precedente governo con l’allora ministro Toninelli e da tutti gli esecutivi precedenti. Un’analisi che poi non ha modificato una virgola. Si poteva però intanto non sprecare tempo e utilizzare i Responsabili Unici del Procedimento (Rup) per cominciare a bandire alcuni lotti, senza aspettare l’ennesimo giro di giostra, come è stato fatto sulla Napoli-Bari, sulla Palermo-Catania e per la Verona-Fortezza per l’allacciamento col tunnel del Brennero. Ma tant’è.

Chi sono i commissari. I commissari provengono quasi tutti dalle due grandi stazioni appaltanti pubbliche: Rfi e Anas, entrambe del gruppo Ferrovie dello Stato, e su alcune nomine registriamo più di qualche dubbio. Parliamo dell’ex amministratore delegato di Rfi, Maurizio Gentile, scelto per il completamento della linea C della metropolitana, ma indagato dalla Procura di Lodi per il deragliamento di un Frecciarossa il 6 febbraio 2020, in cui morirono due macchinisti, e a processo a Milano per l’incidente di Pioltello, che costò la vita a tre passeggeri. Nello stesso processo è coinvolto Vincenzo Macello, sempre di Rfi, scelto per l’alta velocità Brescia-Verona-Padova. Poi c’è l’amministratore delegato di Astral, Antonio Mallamo, indagato dalla Procura di Cassino per la morte di due automobilisti sulla Casilina sui quali crollò un pino. Alcuni dirigenti di primo piano dell’Anas, come Raffaele Celia, indagato per la frana di Cannobio in Piemonte; Vincenzo Marzi, finito in un’indagine della Procura di Locri sulla violazione delle norme antisismiche nella realizzazione della statale Jonica. Infine l’amministratore delegato di Anas, Massimo Simonini, indagato per reati ambientali, ma soprattutto inadempiente: nel 2020 ha ritardato di un anno le ispezioni obbligatorie su 3500 ponti. Tutti chiaramente innocenti fino a prova contraria, ma per ragioni di opportunità, o di non manifesta capacità organizzativa, Palazzo Chigi avrebbe potuto scegliere altri profili. Sta di fatto che saranno incaricati di stendere i bandi, assegnare gli appalti, prevenire eventuali controversie che potrebbero innescarsi con i general contractor, ragionare sulle eventuali varianti rispettando le risorse dei due contratti di programma.

L’elenco delle opere. Ad agosto, come abbiamo detto, le opere selezionate come urgenti sono 58. Nell’elenco ce ne sono 14 «relative a infrastrutture stradali, sedici a infrastrutture ferroviarie, una relativa al trasporto rapido di massa, dodici a infrastrutture idriche, tre a infrastrutture portuali e dodici a infrastrutture per presidi di pubblica sicurezza». Parliamo, tra le altre, della Statale Jonica (valore 3 miliardi), l’alta velocità Brescia-Verona-Padova (8,6 miliardi), il potenziamento della linea Fortezza-Verona (4,9 miliardi), lo sviluppo della direttrice Orte-Falconara (3,7 miliardi), l’alta velocità Napoli-Bari (5,88 miliardi), la Palermo-Catania-Messina (8,7 miliardi), la metropolitana linea C di Roma (5,8 miliardi). Bene, le commissioni Ambiente e Trasporti della Camera e Lavori pubblici del Senato entro qualche giorno formuleranno il loro parere, prima del decreto della presidenza del Consiglio che dovrebbe dare l’avvio definitivo. A meno che il premier Draghi non decida di sostituire qualche commissario attualmente in pectore. Bene, le commissioni Ambiente e Trasporti della Camera e Lavori pubblici del Senato entro qualche giorno formuleranno il loro parere, prima del decreto della presidenza del Consiglio che dovrebbe dare l’avvio definitivo. A meno che il premier Draghi non decida di sostituire qualche commissario attualmente in pectore.

Le Regioni mai ascoltate. A questo punto tutta la macchina può finalmente partire? No, perché c’è ancora da confrontarsi con le regioni sui tracciati. Il governo dimissionario ha avuto sei mesi di tempo per portarsi avanti su questo fronte, ma non lo ha fatto. Un passaggio indispensabile poiché molte opere hanno dimensioni multi-regionali e c’è bisogno della massima convergenza da parte delle comunità locali. Per questo, secondo Raffaella Paita, presidente della commissione Trasporti alla Camera, conveniva nominare tra i commissari anche qualche sindaco o governatore di regione. La ricostruzione del ponte Morandi è andata via spedita anche perché a Genova è stato coinvolto il sindaco Marco Bucci. Si sono scelte invece solo professionalità tecniche con poca o scarsa conoscenza di come si coinvolge un territorio. A ritardare tutto il processo c’è stato anche un altro passaggio burocratico. A settembre la presidenza del Consiglio ha chiesto al Mef: «C’è la completa copertura finanziaria?». La risposta, prodotta a novembre e consegnata in Parlamento a gennaio, era già nota: alla Statale Jonica manca 1 miliardo, e c’è allo studio una variante tra Catanzaro e Crotone che aggraverebbe il conto di un 1,1 miliardi. Al potenziamento della Salaria mancano 700 milioni. Alla Grosseto-Fano più di 1,5 miliardi. All’alta velocità Brescia-Verona-Padova mancano oltre 2,5 miliardi soprattutto per l’ultimo tratto da Vicenza a Padova. Per partire, nessuna grande opera deve avere tutti i soldi nel cassetto. Si avanza per programmi, ben sapendo dove prenderli. Non si inizia nulla quando invece le risorse non sono ancora state assegnate. È il caso delle tratte di allacciamento al tunnel del Brennero. Sulla Salerno-Reggio Calabria al bivio fino a Battipaglia sono stati stanziati solo 10 milioni.

Eppure i soldi non mancano. Eppure ci sono già 60 miliardi di euro stanziati dai diversi contratti di programma di Anas e Rfi, nelle disponibilità dei ministeri del Tesoro e dei Trasporti, anche attingendo a fondi europei non ancora utilizzati. A gennaio 2019 scrivemmo che il primo governo Conte aveva perso almeno un anno dietro le analisi costi-benefici, e nel mentre la gran parte dei general contractor nazionali è saltata per aria. Negli ultimi dieci anni abbiamo perso almeno 500 mila posti di lavoro nel settore dell’edilizia che ora si sta ravvivando soltanto grazie all’ecobonus. Parliamo di aziende indebolite dai tempi ingiustificabili della burocrazia e dalle modalità delle gare, dove spesso vince chi fa il prezzo più basso, obbligando poi le imprese in sub-appalto a tirarsi il collo. Il Cipe, alle dirette dipendenze di Palazzo Chigi, che dovrebbe fungere da distributore delle risorse, viene interpellato per ogni modifica progettuale anche quando il costo dell’opera resta immutato. È vero che abbiamo creato il polo delle costruzioni consentendo a Salini Impregilo di incorporare Astaldi con l’ingresso di risorse pubbliche di Cassa Depositi, ma come faremo a utilizzare i soldi che ci dà l’Europa se ci abbiamo messo sei mesi per nominare una decina di commissari già noti alla macchina organizzativa dello Stato?

·        Il Ponte sullo stretto di Messina.

Ponte sullo Stretto, non costruirlo danneggia l’ambiente.  Franco Battaglia su Nicolaporro.it il 19 Settembre 2021. L’incapacità del governo Draghi – come già quella del governo Conte – di gestire la pandemia è ormai acclarata. Mentre gli altri Paesi, anche con copertura vaccinale inferiore alla nostra (73%) – penso a Inghilterra (71%), Svezia (69%) – tolgono le restrizioni, incluse quelle del green pass, Mario Draghi annuncia restrizioni più severe. Ma lo fa apposta? È affetto da incontenibile sadismo? Proviamo a parlar d’altro. Ad esempio di Ponte sullo Stretto. Qualunque mente pensante, guardando la cartina geografica tra Scilla e Cariddi, direbbe «toh, qui manca un ponte». I Verdi, quando erano al governo (quello Prodi, rammentate?) avevano definito l’opera «faraonica e inutile», lasciando così in grande imbarazzo lo stesso Romano Prodi. Il quale, a mio parere, condivide con Silvio Berlusconi la ventura di essere stati, i due, gli ultimi uomini di Stato che l’Italia ha avuto. Di Romano Prodi non condividevo quasi niente, di Silvio Berlusconi quasi tutto, ma chi li ha seguiti sono stati mezze figure inconcludenti privi di senso dello Stato. Mario Draghi compreso, che, non so perché né voglio saperlo, Francesco Cossiga, da Presidente della Repubblica emerito, definì «vile affarista». Tornando al Ponte sullo Stretto, il suo vero impatto ambientale è la sua assenza. Se si fa un giro in internet, si possono ammirare le foto di meravigliosi ponti sospesi e sparsi nel mondo: ad esempio, l’Akashi Kaikyo, con una campata di 2 chilometri, inaugurato 25 anni fa in Giappone; o il Vasco de Gama che, lungo 17 chilometri e inaugurato 23 anni fa, unisce le due sponde del fiume Tago, in Portogallo; o il Great Belt, lungo oltre 13 chilometri, che collega Copenhagen allo Jutland; o l’Oresund, una struttura di 16 chilometri che unisce la capitale danese alla Svezia e che fu inaugurato, molto romanticamente, con un bacio che principessa Victoria di Svezia e Principe Frederik di Danimarca si scambiarono al centro di questa faraonica struttura, costata 7 anni di lavori. Dimentichiamo per qualche minuto di essere nella Repubblica delle Banane, governata prima da Conte e ora da Draghi, e godiamoci un filmato consolante: il resto del mondo non è Italia. Franco Battaglia, 19 settembre 2021

La Pedemontana costata più del ponte sullo Stretto. L'ex senatrice Puppato rincara la dose: «Neanche da ubriachi si poteva firmare un accordo così». Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud l'8 giugno 2021. Una Superstrada di circa 94 km rischia di costare allo Stato 12 miliardi e 108 milioni di euro. Tre volte il costo del Ponte di Messina. È la cifra che la Regione Veneto, spalmata in 39 “scomode” rate, dovrà corrispondere al concessionario. Il calcolo non è nostro. È della Corte dei Conti e risale a qualche mese fa. Il fatto nuovo è che il ministro dei Parlamento Federico D’Incà ora ha posto ufficialmente la questione. «La sostenibilità finanziaria del progetto potrebbe essere messa in difficoltà dai mancati incassi derivanti dai pedaggi che la Regione dovrebbe incassare. Non ci siamo». Stiamo parlando della Pedemontana, costata 2 miliardi 258 milioni, 935 alle casse pubbliche e 1.344 ai privati. Un’idrovora che aspira denaro, completata per ora solo al 70%. Se si pensa che il Ponte sullo Stretto, di cui si parla da mezzo secolo, costerebbe circa 4 miliardi di euro si capirà perché le preoccupazioni suffragate dai calcoli e dalle stime dei tecnici possono trovare una sponda a Palazzo Chigi. Lo scetticismo e i dubbi accompagnano l’opera sin da quando fu inserita nel piano regionale dei trasporti della Regione Veneto, anno domini 1990. Per brevità salteremo gli altri passaggi: revoche, sequestri modifiche al progetto preliminare, fino al bando di project-financing del 2006 e all’aggiudicazione della gara nel 2009. Per accelerare le operazioni l’anno seguente fu addirittura dichiarato lo stato di emergenza nel settore del traffico e della mobilità dei comuni di Treviso e Vicenza ma era ormai chiaro che il livello dell’acqua si stava alzando e si rischiava un secondo Mose. Non per le inchieste o per le mazzette ma per i tempi biblici e i rilievi circa l’utilità dell’opera – un fiore all’occhiello per i leghisti – destinata ad alleggerire dal traffico un territorio simile ad una metropoli diffusa. «Studiammo all’epoca – ricorda Laura Puppato ex senatrice Pd e ex sindaca del comune di Montebelluna – che il 76% del traffico riguardava un raggio di percorrenza inferiore ai 30 km. Da qui la domanda era proprio indispensabile? L’ultima volta che ho percorso la Superstrada, venerdì scorso, negli ultimi 30 km ho incontrato solo tre moto, un furgone e due auto. Si è sbagliato tutto quello che era possibile sbagliare. Neanche da ubriachi si poteva firmare un accordo così». La questione si trascina da anni. La difficoltà per il concessionario privato a far fronte al closing finanziario (reperimento di finanziamenti) a seguito della decisione di Cdp e Bei di non partecipare al finanziamento. Decisione maturata sulla base di uno studio di traffico commissionato ad hoc. Le stime, infatti, sono ampiamente inferiori a quelle poste a base della convenzione e, conseguentemente, i presidi contrattuali che imponevano alla Regione il riequilibrio del piano economico e finanziario sarebbero stati, sotto questo profilo, troppo onerosi per la Regione. Nel 2017, terminata la gestione commissariale con subentro della competenza gestionale della Regione, con la stipula del Tac (Terzo atto convenzionale) ed alla luce delle nuove clausole contrattuali, si è però osservato che avendo fortemente inciso sulle modalità di remunerazione del concessionario (e della Regione che a sua volta avrebbe incassato interamente il pedaggio) restava comunque un eccesso di remunerazione del concessionario, il quale, a fronte di un costo dell’opera inferiore a 3 miliardi avrebbe avuto diritto ad incassare, nell’arco dei 39 anni, da parte della Regione Veneto, un canone di disponibilità pari ad oltre 12 miliardi!

IL CONTRATTO CAPESTRO. L’INCOGNITA DEI PEDAGGI

In termini teorici, il nuovo schema contrattuale, secondo il quale il canone di pedaggio è oggi da incassare dalla Regione è in contraddizione con la ratio originaria della finanza di progetto (project financing) non essendo a sua volta il concessionario privato assoggettato al rischio di mercato (e percependo quest’ultimo in modo certo il cosiddetto canone di disponibilità). In pratica, il concessionario ci guadagna senza rischio d’impresa.

Per contro, gli esborsi monetari a carico della Regione nel corso dei 39 anni di gestione non sono suscettibili di stima certa, poiché la precisa determinazione è rimessa alla formula dell’accordo. Che comprende, ad esempio, il tasso d’inflazione annuo ma soprattutto gli introiti a favore della Regione derivanti dai pedaggi.

Ci sono poi altri fattori che conferiscono instabilità ed incertezza alle stime di traffico: le previsioni dei tempi di realizzazione delle interconnessioni con le autostrade A4, A31 e A27. La piena funzionalità della “Pedemontana Veneta” presuppone la interconnessione diretta con le autostrade. Si dà il caso, però, che la realizzazione dell’interconnessione faccia prevedere ritardi nella esecuzione dei lavori, il cui completamento è allo stato degli atti indicato nel mese di giugno 2023.

VELOCITÀ MASSIMA 110KM/H

Il difetto d’interconnessione con l’A4 e/o il disallineamento dei tempi di realizzazione del raccordo rispetto all’entrata in esercizio della Superstrada giustifica la previsione della diminuzione delle stime di traffico. Da computare, secondo uno studio commissionato dalla Regione nel 2019, nella misura del 13%. E non è finita: la modifica della velocità di percorrenza da 110 km/h a 130 km/h non è stata ancora conseguita dalla Regione. Non risulta ancora definita la richiesta di riclassificazione infrastrutturale, essendo oggi prevista ancora una velocità di percorrenza di 110 km/h. Altro elemento che contribuisce a ridurre gli utenti. Di questo passo sarà molto improbabile che l’ultima tratta venga completata dal consorzio SIS, formato per il 51% dall’italiana Fininc e per il 49% dalla spagnola Sacyr .

Che fare, dunque? Il nastro non si può riavvolgere. È stato tagliato a colpi di inaugurazioni un pezzo alla volta, l’ultimo per il tratto Bassano-Montebelluna. E quasi sempre dalla stessa persona, il governatore veneto Luca Zaia. Finché le critiche arrivavano dall’opposizione e dai comuni amministrati dal centrosinistra, pazienza. È il gioco delle parti. Ma i dubbi arrivano ora da Palazzo Chigi e hanno la sostanza di un dossier completo di annotazioni, volumi di traffico, tariffe. Il pedaggio per la tratta già in funzione è di 0,16,420 euro km per le auto e di circa 0,30 euro per i veicoli pesanti. Troppi. «Ma i conti si pareggiano – ricorda D’Incà – solo se circolano 27 mila veicoli al giorno».

Senza  una  rivalutazione dei profili di economicità e di congruità, correlati all’aggiornamento delle situazioni di fatto, andare avanti in questo modo sarà come guidare un’auto nella notte a fari spenti. È questo che vogliono i veneti? 

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BUON COMPLEANNO “PONTE GIREVOLE”. Il Corriere del Giorno il 22 Maggio 2021. Il progetto fu realizzato dalla Società Nazionale Officine di Savigliano, per tutto quello che riguardava gli organi meccanici ed i comandi elettrici. Il nuovo ponte costruito da un cantiere navale locale, i Cantieri Tosi specializzati nella costruzione di sommergibili venne inaugurato dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi il 10 marzo 1958, e venne intitolato a San Francesco di Paola, protettore delle genti di mare. Ne è passata di acqua sotto i ponti, ma nel suo caso in 134 anni sono passate anche tante navi della Marina Militare da sempre di casa nelle acque dei due mari di Taranto, la quale oggi mentre la città dimentica…con un post su Instagram ha voluto fare gli auguri di buon compleanno al Ponte San Francesco di Paola, meglio conosciuto come “Ponte Girevole” per la possibilità di aprirsi al passaggio delle navi, è la struttura che collega l’isola del Borgo Antico con la penisola del Borgo Nuovo del capoluogo jonico. Grazie al ponte girevole e all’Arsenale Militare della Marina, che venne finanziato grazie ai fondi previsti dalla “legge sugli Arsenali” del 1882 la città Taranto cambiò volto passò all’ economia industriale, con una notevole crescita demografica. Inaugurato il 22 maggio 1887 dall’ammiraglio Ferdinando Acton, il ponte sovrasta il canale navigabile che unisce il Mar Grande al Mar Piccolo. A causa della presenza del ponte, la larghezza nel tratto più stretto del canale è limitata a 58 metri. Realizzato dall’Impresa industriale italiana di costruzioni metalliche di Alfredo Cottrau a Castellammare di Stabia, su progetto dell’ingegner Giuseppe Messina che ne diresse i lavori di costruzione, era originariamente costituito da un grande arco a sesto ribassato in legno e metallo, diviso in due braccia che giravano indipendentemente l’una dall’altra attorno ad un perno verticale posto su uno spallone. Il funzionamento avveniva grazie a turbine idrauliche alimentate da un grande serbatoio posto sul Castello Aragonese adiacente, capace di 600 metri cubici di acqua che in caduta azionavano le due braccia del ponte. La struttura venne successivamente rimodernata negli anni 1957-1958, introducendo un funzionamento di tipo elettrico, ma mantenendo di fatto inalterati i principi ingegneristici della allora costituenda Direzione del genio militare per la Marina. Il progetto fu realizzato dalla Società Nazionale Officine di Savigliano, per tutto quello che riguardava gli organi meccanici ed i comandi elettrici. Il nuovo ponte costruito da un cantiere navale locale, i Cantieri Tosi specializzati nella costruzione di sommergibili venne inaugurato dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi il 10 marzo 1958, e venne intitolato a San Francesco di Paola, protettore delle genti di mare. Il ponte appare in alcuni film, il più antico dei quali è senz’altro “La nave bianca“, girato a Taranto nel 1941. Anche Gabriele d’Annunzio in un suo poema “Laudi del Cielo del Mare della Terra e degli Eroi” cita la struttura. Il ponte girevole è stata anche la destinazione di uno dei frequenti viaggi automobilistici del conte Oddino degli Oddi-Semproni e delle sue due zie, in “Sipario ducale” di Paolo Volponi, romanzo del 1975, ambientato nella Urbino del 1969. Nel 2018 sotto il Ponte Girevole sono state girate numerose scene della serie tv “Six Underground“ diretta da Michael Bay prodotta da Netflix . Nonostante il capoluogo jonico sia stato teatro di numerosi ciak, nella finzione risulteranno ambientati a Beirut. Quella che all’epoca fu considerata un’opera avveniristica, oggi è un pezzo di storia della città dei “due mari” e della Marina, che merita di essere preservato e celebrato. Anche se la politica locale è cieca ed indifferente, quel ponte fa parte della vera storia di Taranto. E lo sarà per sempre.

Ma chi (e perché) non vuole il ponte sullo Stretto di Messina? I casi sono due: il primo nessuno si è posta questa domanda e sarebbe gravissimo. Il secondo: qualcuno se l’è posta ed ha deciso che il Paese non era in grado di intervenire nelle due sue parti e ne doveva sacrificare una, come nei gemelli siamesi. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 22 maggio 2021. Ma il nostro é un Paese serio? La domanda viene spontanea se si guarda alla vicenda ponte sullo stretto di Messina. In un Paese “normale” sarebbe già costruito da decenni. Ma si capisce da questo episodio perché il Paese ancora non ha recuperato i livelli di reddito del 2008 e perché ha la più grande area con il reddito pro capite più basso dell’Unione. Questi cattivi risultati non si hanno per caso. Eppure invece di confrontarsi con i fatti, la vera classe dirigente del Paese, quella che fa opinione nei quotidiani nazionali, quella confindustriale o sindacale, continua con la solita spocchia a dettare ritmi e percorsi ad un Paese ormai al collasso, che perde non solo nella corsa della crescita del reddito con gli altri grandi europei, ma anche in quella della demografia. La domanda importante da porsi, nessuno evidentemente né al Nord né al Sud se l’é mai fatta. Cioè é pensabile un processo di riunificazione del Paese senza far crescere adeguatamente una parte? E quella immediatamente successiva: é possibile pensare ad un processo di sviluppo senza dotare l’area in ritardo di una infrastrutturazione adeguata? I casi sono due: il primo nessuno si é posto questa domanda e sarebbe gravissimo. Il secondo: qualcuno se l’é posta  ed ha deciso che il Paese non era in grado di intervenire nelle due sue parti e ne doveva sacrificare una, come nei gemelli siamesi, quando si decide di lasciare gli organi ad uno e sacrificare l’altro. In realtà sarebbe la teoria della locomotiva e dei vagoni. Quella che ancora con una protervia incredibile Guido Tabellini teorizza quando parla di Milano e Napoli o Tito Boeri quando si sofferma sulle università settentrionali e meridionali. In questo clima, quello relativo al ponte sullo stretto di Messina é un episodio surreale. Fatta la scelta di fermare l’alta velocità ferroviaria a Salerno il ponte diventava ed é stato per anni uno specchio per le allodole da mostrare ad ogni elezione, per conquistare gli allocchi, in una prima fase, solo, siciliani. La Calabria é rimasta sempre molto fredda rispetto a quest’opera fino a Jole  Santelli. Quando però l’opera cominciò  ad avere una possibilità reale di essere portata a termine, con un progetto con tutte le approvazioni, tanto da consentire la posa della prima pietra, ed un finanziamento reale, anche se solo di una parte, il fuoco di fila sul progetto diventò di quelli epocali. Sindaci messinesi, come Renato Accorinti, le solite lobbies dei proprietari dei traghetti, deputati europei come Claudio Fava, oltre alle solite, in genere sparute associazioni ambientaliste, i “no tutto” professionisti, i benaltristi da bar dello sport e qualche dottore in geologia come Tozzi, e molta parte della stampa e della televisione nazionale, si sono attivati per bloccare il progetto sul nascere. E pur in presenza di un avvio di lavori, voluto fortemente da Berlusconi, con la successione del varesino Mario Monti riuscirono a ribloccare il progetto, cosa unica nella storia d’Italia, per una gara internazionale già assegnata e che ovviamente sta portando a strascichi giudiziari. Adesso il dibattito continua e ha del surreale. La De Micheli nomina una commissione per accertare la fattibilità di un collegamento stabile, ripartendo come nel gioco dell’oca, da zero. Trent’anni di costi, di studi, di progetti di studiosi con pedegree inattaccabile ed esperienza internazionale vengono disconosciuti. La commissione creata ad arte per rinviare la decisione non può che pronunciarsi, ma dopo la chiusura del Recovery plan, per l’impossibilità tecnica delle due soluzioni tunnel, cosa che era già scontata e bocciata dagli studi seri già fatti. Ma come il prestigiatore che fa spuntare il colombo dal cilindro prima vuoto, esce dal cappello una nuova soluzione, anch’essa scartata per impossibilità tecnica dagli studi decennali, delle tre campate con due piloni in acqua. Piccolo particolare un tale progetto avrebbe bisogno, nel caso fosse realizzabile, di un periodo di almeno 10 anni per la nuova progettazione e per tutte le autorizzazioni, compreso il cambio del Piano regolatore di Messina. Qualcuno, peraltro, sostiene che così il ponte si avvicina a Messina, come se fosse una passerella per fare incontrare gli innamorati delle due sponde e non un pezzo, peraltro piccolo, del collegamento Hong Kong – Berlino, quel corridoio uno che anche recentemente la Commissione Europea ritiene indispensabile e che, sostiene sempre la commissione, non é stato mai richiesto dal nostro Paese.  Insomma un gioco incredibile, surreale, in cui non si decide mai nulla. Eppure il nostro Paese quando si é trattato della Tav, del Mose di Venezia, dei grandi trafori, della stessa A1, dell’alta velocità ferroviaria é riuscito alla fine a trovare il bandolo ed andare avanti. Perché questo non avviene per il Sud? Ritengo che le motivazioni possono essere diverse e si cumulano.

La prima più banale é che investire soldi al Sud significa sottrarle alla cosiddetta locomotiva che di esigenze ne ha tante e sempre nuove.

La seconda e che in molti credono che il Sud sia irredimibile e che quindi é uno spreco di risorse continuare ad investirvi e che in ogni caso il Paese può andare avanti anche senza il Mezzogiorno.

Una terza é che alcuni ritengono sia comodo avere una realtà di compensazione, per i momenti in cui serve manodopera, da rinviare indietro nei momenti di difficoltà come é avvenuto al diffondersi del virus per diminuire la pressione sulle terapie intensive.

La quarta é che mettere a regime Augusta e Gioia Tauro possa mettere in discussione la primazia di Genova, Trieste e anche Livorno. Tutto sommato é molto comodo avere una area che possa essere utilizzata come area di consumo, come serbatoio di manodopera formata, da gestire con accordi scellerati con le autorità locali, sempre un po’ ascare. Sarà anche una visione che nel lungo é castrante per il Paese, ma intanto ha consentito lo sviluppo delle realtà settentrionali e molti si illudono che possa essere valida anche per il futuro.

Un'opera che non può aspettare. Il Sud soffoca, basta rinvii: facciamo il Ponte sullo Stretto. Leandra D'Antone, Alberto De Bernardi su Il Riformista il 18 Maggio 2021. Il Ponte sullo Stretto era necessario, tecnicamente fattibile, molto ben studiato, progettato e valutato attraverso una procedura amministrativa di grandissima trasparenza. Nel 2003 figurava nella Short List di Van Miert tra le 13 opere strategiche prioritarie dell’Unione europea. Non era che un tratto di strada e ferrovia indispensabile a realizzare l’alta velocità fino a tutta la Sicilia nell’ambito del grande Corridoio europeo Berlino-Palermo (per far diventare l’Europa più mediterranea e il Sud più europeo). Insieme all’alta velocità ferroviaria costituiva una scelta di qualità capace di ridurre drasticamente il dominante e massimamente inquinante traffico stradale di persone e merci. Ciononostante non è stato realizzato. Oggi dichiariamo nuovamente che il Ponte è necessario e urgente: abbiamo perduto vent’anni di tempo mentre il Sud è un deserto infrastrutturale. Senza un Ponte come se ne fanno in tutto il mondo, anche verso isole più piccole – ma che in questo caso collegherebbe stabilmente al continente la Sicilia con i suoi 5 milioni di abitanti – perde la sua funzione tutta l’alta velocità ferroviaria fino a Sud. Alta velocità che, applicando le tecnologie e le velocità già da tempo in vigore nel Centro-Nord fino a Napoli, consentirebbe di collegare Roma allo Stretto in tre ore, Roma a Catania in tre ore e mezza, Roma a Palermo in 5 ore. L’economia del Sud è soffocata dalla insopportabile inadeguatezza delle infrastrutture di comunicazioni terrestri e dai conseguenti costi più elevati della mobilità: il Sud è disuguale anche per questo oltre che nei diritti di cittadinanza. Per la mancanza di infrastrutture sociali e materiali i suoi giovani più qualificati emigrano e la popolazione decresce. Intanto, porti strategici come Gioia Tauro – venti anni fa di primato europeo accogliendo le grandi navi container in movimento dal Far West al Far East – hanno perduto importanza. Questa è la conclusione, tanto benvenuta quanto intempestiva, del Gruppo di lavoro istituito lo scorso anno dal Governo Conte 2 presso il Ministero delle Infrastrutture per la valutazione delle diverse possibilità di collegamento stabile nello Stretto di Messina. Il gruppo di lavoro iniziava i suoi lavori proprio mentre lo stesso governo Conte inseriva nel Pnrr la realizzazione al Sud di un’alta velocità finta, denominata Alta velocità di Rete, diversa da quella realizzata nel resto d’Italia, che toccasse al massimo i 200 km orari lasciando sostanzialmente i tempi di percorrenza uguali a quelli già in atto. La relazione tecnica si è basata sulla ricchissima mole di studi strutturali, geologici, sismici e ambientali – oltre che di impatto economico e trasportistico – effettuati dalla Società Stretto di Messina fin dal 1981, anno della sua costituzione con una partecipazione Iri del 51% e quote pari di FS, Anas, Regione Sicilia e Regione Calabria. Si, è vero: sono stati spesi oltre 300 milioni di euro in trent’anni, ma francamente non sembrano molti per la difficoltà, la novità e l’altissima qualità delle ricerche e delle personalità scientifiche migliori al mondo impegnate a confrontare tre modalità di attraversamento con approfondimenti scientifici completi. Erano peraltro stati effettuati con costi aggiuntivi anche gli studi imposti da una forma di ambientalismo ideologico e irrazionale, come quando nel 2011 il Cipe prescriveva la verifica dell’effetto dell’ombra del ponte sulla vita dei pesci! Il Gruppo di lavoro ha dichiarato maggior favore per la realizzazione di un altro progetto: non un ponte a campata unica ma un ponte a tre campate. Insomma, per il Gruppo tecnico il ponte è necessario, ma dobbiamo farne un altro, meno costoso e soprattutto a carico totale dello Stato, anche se non fa parte del Recovery Plan. Ma per un nuovo progetto di ponte occorre ricominciare daccapo con gli studi di fattibilità, i bandi, e tutti i passaggi burocratici che il precedente progetto aveva superato. A parere degli esperti, per la sua eventuale realizzazione occorrerebbero almeno dieci anni. Tutto sembra orientato verso il nulla. Un nulla capace di far dire a molti Cinquestelle di aver cambiato opinione solo perché è cambiato il progetto e di ammorbidire anche l’ostilità strumentale del Pd (che nel 1996, invece, con Prodi, era stato favorevole alla sua realizzazione). Le più efficaci politiche meridionaliste in Italia sono state effettuate negli anni Cinquanta nel segno della salute della moneta e dello sviluppo da un ex Governatore di Banca centrale, Donato Menichella. Nuove politiche meridionaliste nel segno della salute dell’Euro, del rilancio dell’economia europea e del futuro delle nuove generazioni è chiamato oggi a realizzare Mario Draghi. Al suo governo chiediamo ora, con grande fiducia e col massimo delle aspettative, che l’alta velocità ferroviaria nel Sud – da Salerno a Reggio Calabria e in Sicilia – diventi, come nel resto d’Italia, una modalità di trasporto integrata con le altre e concorrenziale con il trasporto stradale ed aereo. Viceversa, il progetto inserito nel Pnrr non va in questa direzione: si allontana dal percorso tirrenico a Praia verso Tarsia per poi rientrarvi dopo Cosenza e include addirittura 180 km di gallerie su 400 km di linea (in più, la cosiddetta alta velocità Palermo-Catania, in corso di realizzazione per ridurre a due ore il tempo di percorrenza di 180 km, raggiunge appena i 90 km orari!). Ci aspettiamo la realizzazione immediata di un’opera – il Ponte sullo Stretto – che non ha alcuna ragione d’essere rinviata. Leandra D'Antone, Alberto De Bernardi

Il ponte sullo Stretto è un mito buono per tutte le stagioni. Non ho niente contro il ponte. Anzi. Ha sempre fatto parte della mia vita. Mia madre da bambino a Reggio Calabria mi portava in via Marina Bassa, dirimpetto a Messina. Il guaio è che i miti una volta creati hanno una potente forza inarrestabile di espansione e non li ferma più nessuno. Aldo Varano su Il Dubbio l'11 maggio 2021. Non ho niente contro il ponte. Anzi. Ha sempre fatto parte della mia vita. Mia madre da bambino a Reggio mi portava in via Marina Bassa, dirimpetto a Messina. M’insegnava a contare usando i vagoni di treni lentissimi (non ancora interrati sotto il Lungomare Falcomatà, forse uno dei più belli d’Italia) che arrivavano dalla Sicilia al porto per risalire la Locride e lo Jonio o viceversa. La conclusione, lei sapeva che l’aspettavo con ingordigia, era sempre uguale: «Tu non farai su e giù col traghetto. Una bella passeggiatina a piedi o in bicicletta sul ponte e sei subito dall’altra parte». Il Ponte, da queste parti, è sempre stato un mito. L’ha creato la natura. A guardare da uno dei due lati, Messina e Reggio, Calabria e Sicilia, sono troppo addosso per non essere attaccate: impossibile non vi sia un modo per andarci a piedi. Per questo reggini e messinesi hanno rubato il mito di Fata Morgana (che è celtico) che illude tutti (specie turisti e forestieri) di poter raggiungere l’altra parte camminando sull’acqua. Il guaio è che i miti una volta creati hanno una potente forza inarrestabile di espansione e non li ferma più nessuno. Solo il tempo, modificando le condizioni storiche li rende banali fino a distruggerli. È andata così anche con Icaro: ha retto millenni fin quando sono arrivati gli aerei ridicolizzandolo. Da quasi mezzo secolo non c’è presidente del Consiglio italiano che non abbia pensato, almeno per un po’ e magari senza dirlo, di potersi consegnare alla storia dei millenni futuri come il costruttore del Ponte. Un rigo prezioso della biografia da consegnare ai posteri. Craxi ma anche D’Alema (che rifinanziarono la Società dello Stretto incaricata del progetto), Prodi e Renzi per non dire di Berlusconi, che si dice abbia personalmente gettato la prima pietra del Ponte esattamente in mezzo allo Stretto per non inimicarsi siciliani o calabresi scegliendo l’altra costa. Piano piano in modo inesorabile la politica s’è impadronita del mito e l’ha usato per ricavarne vantaggi. Soprattutto, per non affrontare i problemi connessi a questo angolo d’Italia. Così ogni volta che è affiorato il disagio sempre più grave del Sud del Mezzogiorno, il Sud del Sud d’Italia sotto un’ipotetica linea tirata tra Salerno e Bari, giù a dire che ci vuole il Ponte. Chi volete che dica di No? Perfino Salvini, col Ff del presidente della Regione Calabria, ha fatto sparire il vecchio slogan “Forza Etna”, che ha infuriato decenni tifando per una potente eruzione del grande vulcano per risolvere i problemi di questa zona, ora invoca e vorrebbe subito inaugurare i cantieri di un Ponte ad unica arcata: quello più spettacolare. Ma è solo pubblicità nella quale sono tutti impegnati, con la sola esclusione degli ambientalisti che lo fanno con la furia di chi non vuole accettare che un modo per attraversare stabilmente lo Stretto prima o poi bisognerà pur tirarlo fuori. E il punto è proprio questo: la foga pubblicitaria e strumentale si conclude nella chiacchiera mentre nessuno sembra essere veramente interessato a fare quel che serve per rendere veramente ineluttabile una qualche forma di attraversamento stabile di quel pezzetto di mare. La prova della verità rispetto al Ponte sta prima e dopo della breve striscia di cemento, intubata o all’aria aperta, necessaria. Oggi per raggiungere lo Stretto da Roma s’impiega un tempo insopportabilmente lungo. Gli investimenti previsti entro i prossimi 12 anni dovrebbero consentire un Roma Villa Sg “soltanto” in poco più di 4 ore piene mentre già da dieci anni fa il Roma Milano impiega tre ore (ma tra 10 anni tra Roma e Milano potrebbero bastare 30 minuti con l’hyperloop: un treno dentro una capsula a induzione magnetica dentro un tubo vuoto). Ma c’è di peggio: tutti gli investimenti per le ferrovie in Sicilia prevedono tempi di percorrenza dei primi decenni del Novecento. A investimenti eseguiti da Catania a Palermo ci vorrebbero due ore. Da Messina a Palermo un’eternità. Ceto politico, imprenditori, dipendenti di fascia alta non prendono un treno dalla Sicilia o per la Sicilia da decenni e non hanno più memoria storica dei disagi da affrontare. A che serve dire di voler attraversare lo Stretto rapidamente se per imboccarlo o una volta attraversato a Nord e a Sud i tempi restano quelli ormai inaccettabili del secolo scorso? Serve ad alimentare un mito che è sempre bello e non costa nulla. O, se proprio si dovesse costruire qualcosa, ad aspettare i turisti giapponesi che verrebbero (forse) a frotte con le loro macchine fotografiche.

Il gioco delle parti del Pd affonda il ponte sullo Stretto. Le conclusioni del Gruppo di Lavoro bocciano il progetto che era stato oggetto di una gara internazionale. Ercole Incalza su Il Quotidiano del Sud l'11 maggio 2021. Ho letto con attenzione la relazione prodotta dal Gruppo di Lavoro istituito dalla Struttura Tecnica di Missione il 27 agosto 2020 sulla base degli indirizzi forniti dall’allora Ministra Paola De Micheli. Nel documento dal titolo “Valutazione di soluzioni alternative per il sistema di attraversamento stabile dello Stretto di Messina”, si precisa che Il metodo di lavoro adottato si è basato sulle seguenti attività che hanno permesso di giungere ad una serie di conclusioni. In particolare il Gruppo di Lavoro ha effettuato le seguenti attività un’analisi socio-economica dell’area dello Stretto di Messina al fine di definire il contesto di riferimento;

2. un’analisi trasportistica in termini di domanda di mobilità, servizi di trasporto ed accessibilità, al fine di valutare le esigenze trasportistiche di un collegamento stabile per lo Stretto di Messina;

3. la definizione del processo decisionale per la selezione dei progetti nel settore dei trasporti, in termini di analisi del quadro normativo in materia di progettazione di fattibilità e dibattito pubblico;

4. un’analisi di benchmark internazionale sui collegamenti stabili delle grandi isole e le aree continentali;

5. un’analisi documentale con riferimento alla storia dei progetti per l’attraversamento stabile dello Stretto, lo stato della programmazione internazionale e nazionale di settore e l’evoluzione delle normative nazionali ed europee sulla progettazione delle gallerie, dei ponti e dei viadotti;

6. lo svolgimento di specifiche audizioni di testimoni selezionati per i loro diversi orientamenti riferiti alle diverse possibili alternative progettuali.

Seguendo questo itinerario di attività il Gruppo di Lavoro è pervenuto alla seguente decisione: “la soluzione aerea a più campate è potenzialmente più conveniente di quella a campata unica. Il Gruppo di Lavoro ritiene di sconsigliare le soluzioni dei tunnel subalveo e in alveo soprattutto per l’elevato rischio sismico ad esse collegate e per la mole di indagini geologiche, geotecniche e fluidodinamiche necessarie per verificare la fattibilità tecnica ma anche per la eccessiva lunghezza necessaria per il tunnel subalveo e la presumibile durata degli approfondimenti necessari per la nuova soluzione del tunnel in alveo, per la quale mancano riferimenti ed esperienze”.

Sempre il Gruppo di Lavoro suggerisce di “sviluppare la prima fase del progetto di fattibilità limitando il confronto ai due sistemi di attraversamento con ponte a campata unica e ponte a più campate. Infine il Gruppo di lavoro precisa che la prima fase del progetto di fattibilità delle diverse soluzioni tecniche possibili dovrà essere sottoposto ad un successivo Dibattito Pubblico come previsto dal Dlgs 50/2016 e dal DPCM n. 76/2018”. Infine il Gruppo di Lavoro “definisce i contenuti e le analisi che andranno previste nella pria fase del progetto di fattibilità anche in coerenza con quanto previsto nel Dibattito Pubblico”.

Le conclusioni del Gruppo di Lavoro praticamente bocciano il progetto del Ponte sullo Stretto che era stato oggetto di una gara internazionale, una gara lanciata da una Società per Azioni formata da Ferrovie dello Stato, ANAS, Regione Sicilia e Regione Calabria; e, in particolare, Ferrovie dello Stato ed ANAS erano state presenti sempre sin dall’inizio della fase progettuale fino all’affidamento alla Società Eurolink, fino alla approvazione definitiva del progetto e avevano seguito tutte le analisi possibili ed immaginabili. Adesso, invece, dei membri del Gruppo di Lavoro provenienti dalla Società Ferrovie dello Stato e dall’ANAS sottoscrivono un parere che impone il riavvio integrale di tutto; in realtà è come se anni di lavoro, anni di approfondimenti fatti da eccellenze professionali a scala mondiale venissero ritenuti inutili e da dimenticare.

Io non voglio assolutamente criticare quanto prodotto da colleghi che stimo e che sicuramente hanno ritenuto opportuno fornire un contributo intellettuale sulla soluzione del collegamento stabile e per questo ritengo però che un contributo intellettuale non possa:

• essere considerato una sentenza decisiva per fare o non fare un’opera

• essere l’occasione per azzerare una proposta progettuale esistente, una proposta che ha superato tutti i filtri necessari per diventare una opera concreta

• essere eletto a modello procedurale quando generato non da una Decreto del Ministro, non da un Decreto del Presidente del Consiglio, non da un atto del Parlamento

Allora mi spiace ancora una volta denunciare apertamente non la responsabilità del Gruppo di Lavoro quanto l’azione dell’allora Ministra De Micheli che, invocando una simile procedura, ha, come riportato nella Determina del settembre 2020, dato precisi indirizzi alla Commissione ed ha praticamente messo la parola fine alla realizzazione dell’opera.

Ora mi aspetto che il Presidente Draghi ponga due quesiti al suo staff di consiglieri:

• che peso ha questo documento, cioè che rilevanza ha una relazione prodotta da una Determina della Struttura Tecnica di Missione del Ministero

• che peso ha non aver effettuato un confronto dettagliato ed analitico con i redattori del progetto esistente e dopo tale confronto dimostrarne la non validità della proposta

Purtroppo sono quesiti che non avranno risposte perché in fondo ha già vinto chi ha scelto nell’agosto del 2020 l’approfondimento non del progetto esistente ma del “collegamento stabile”.

Il Movimento 5 Stelle è stato sempre contrario alla realizzazione dell’opera e quindi ritengo leale il comportamento tenuto in questa fase, mentre dopo l’operato dell’ex Ministra De Micheli, abbiamo capito quanto, in questa occasione, sia stato elevato il tasso di ipocrisia del Partito Democratico. Infatti è incomprensibile che ad una dichiarazione del Ministro Franceschini, allora delegato del Partito Democratico all’interno del Governo, nel mese di luglio 2020, a valle degli Stati Generali coordinati da Colao, una dichiarazione di indispensabilità della realizzazione del ponte “perché sarebbe una follia realizzare l’alta velocità Salerno – Reggio – Palermo senza il ponte”, abbia fatto seguito un comportamento della Ministra De Micheli completamente opposto; come al solito un triste gioco delle parti.

Consiglio infine al Presidente Draghi di chiedere all’attuale Ministro Giovannini:

• perché si è detto sì all’asse ferroviario AV/AC Salerno – Reggio Calabria

• perché si è detto sì all’asse ferroviario Roma – Pescara

• perché si è detto sì all’asse ferroviario Taranto – Metaponto – Potenza – Battipaglia

Perché si è detto sì a tre progetti di cui si dispone solo di studi di fattibilità e si è detto no al ponte di cui si dispone di un progetto pronto per essere cantierato.

Sono queste domande non solo mie ma anche dei funzionari della Unione Europea che stanno esaminando il nostro Recovery Plan.

Il Mezzogiorno ha perso una grande occasione, il Presidente Draghi ed la Ministra del Sud Carfagna sanno bene che questa era ed è una occasione irripetibile. Presidente Draghi le rivolgo una preghiera: non consenta alla sua squadra di Governo di illudere ancora la gente delle due sponde, la gente di Calabria e di Sicilia, la gente del Mezzogiorno ed essendo io meridionale non consenta il ricorso a modalità, a scelte antitetiche alla crescita del nostro territorio, Presidente non lo meritiamo.

Le "idee flessibili" del Movimento. Ponte sullo Stretto, ennesima giravolta grillina: “segnerà la ripartenza”, ma Grillo parlava di “presa per il cu..” Fabio Calcagni su Il Riformista il 10 Maggio 2021. Se a sparare contro è anche il “fuoco amico” del giornalista-influencer Andrea Scanzi, allora la questione è seria. L’ennesima giravolta, praticamente un carpiato con triplo avvitamento, compiuta in queste ora dal Movimento 5 Stelle ha spiazzato anche uno dei commentatori più vicini al mondo pentastallato: domani deputati e senatori grillini terranno infatti un’assemblea congiunta sulla questione del Ponte sullo Stretto, alla presenza del sottosegretario Giancarlo Cancelleri. Sembrano oggi lontanissimi i tempi, era il 2015, quando il Movimento di Beppe Grillo cannoneggiava contro l’infrastruttura che dovrebbe collegare Calabria e Sicilia con post al veleno sul Blog delle Stelle in cui si leggeva che la sua costruzione “è una presa per il culo che serve al Pd per avere un argomento di cui parlare ai talk show e coprire i suoi fallimenti quotidiani, alla mafia per aprire cantieri che non vedranno mai fine e che costerà altri centinaia di milioni ai cittadini assetati”. Parole evidentemente condivise dallo stesso Cancelleri, per ben due volte candidato presidente della Regione Siciliana, nel 2012 e nel 2017. Oggi invece la giravolta al sapore di calcestruzzo, col Ponte che secondo Cancelleri “segnerà la ripartenza dell’Italia”, ha detto il sottosegretario in una intervista a La Stampa. Una posizione che si scontra però col ‘no’ quasi unanime dei parlamentari calabresi M5S, contrari al Ponte sullo Stretto, così come l’ex pasdaran grillino Alessandro Di Battista. L’ex parlamentare, leader dell’area "barricadera" del Movimento e assieme a Casaleggio ‘mente’ della scissione interna ai 5 Stelle, è tornato ad attaccare gli ex compagni di partito. Per Di Battista dietro la costruzione del Ponte sullo Stretto ci sarebbero infatti i boss della malavita, “primi sponsor” del progetto, mentre “chi si oppone un oscurantista, un retrogrado, un inetto. Per l’establishment, il quale si arricchisce molto più con le inaugurazioni che con la messa in sicurezza, chi ricorda lo stato comatoso in cui vertono strade e autostrade, è uno stolto”. Per Dibba “più ascolto politici parlare del Ponte sullo Stretto e più penso che la pandemia non ci abbia insegnato nulla e che, nonostante la retorica, non andrà affatto tutto bene. La pandemia avrebbe dovuto insegnarci che l’attuale modello economico non è più sostenibile”. Come accennato, a criticare la giravolta grillina ci ha pensato anche la firma del Fatto Quotidiano Andrea Scanzi, che ha definito “patetico, nonché caricaturale”, che nel Movimento 5 Stelle “un tempo nemicissimo di tale opera folle siano ora in tanti a esser diventati di colpo possibilisti. Quando non addirittura d’accordo”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Ponte sullo Stretto, i 5S si dividono. E Casaleggio grida al tradimento. Matteo Pucciarelli su La Repubblica l'11 maggio 2021. Proteste da eletti e iscritti dopo che il viceministro Cancelleri ha aperto all’opera da sempre contestata. Per Conte adesso si apre un nuovo fronte interno. Il complicato rapporto tra la coerenza dei 5 Stelle e le grandi opere — dalla Tav alla Tap, osteggiate finché non è arrivata la prova di governo — si aggiorna con un nuovo e clamoroso capitolo. Dopo che per anni nel Movimento il progetto del Ponte sullo Stretto è stato sbeffeggiato, considerato obsoleto o più semplicemente "una presa per il culo che serve al Pd per avere un argomento di cui parlare ai talk show e coprire i suoi fallimenti quotidiani" (correva l’anno 2015, post ufficiale del M5S), oggi le granitiche certezze sono finite.

Il Ponte sullo Stretto divide pure i grillini. Casaleggio ringrazia. L’ok di Cancelleri al progetto spacca il partito. E Rousseau pubblica un vecchio post NoPonte di Grillo. Rocco Vazzana su Il Dubbio l'11 maggio 2021. Non sempre i ponti riescono a unire. Di certo, non quello sullo Stretto. E senza dubbio non il Movimento 5 Stelle, un partito senza guida, senza freni e senza punti di riferimento da troppo tempo. Così, a scaldare ulteriormente gli animi grillini – e regalare argomenti agli scissionisti di Casaleggio – ci pensa il sottosegretario alle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri, volto popolare dell’attivismo siciliano e storico esponente di quel M5S “No Ponte” che tanta fortuna portò a Beppe Grillo. Sì, perché Cancelleri, lasciando di stucco tutti i parlamentari, ha pensato bene di cancellare con un sol colpo di spugna uno degli ultimi totem della narrazione pentastellata – l’opposizione alla mega opera senza se e senza ma – aprendo senza alcun preavviso alla realizzazione del progetto entro dieci anni. «Dobbiamo dimenticarci il ponte di berlusconiana memoria con una campata sola», dice il sottosegretario. «Ora serve un altro progetto. Io non so se il ponte è una priorità, ma penso a tutti i siciliani che mi chiedono perché l’alta velocità arriva solo fino a Reggio Calabria». La nuova linea dettata da Cancelleri fa balzare sulla sedia gli eletti. Soprattutto i parlamentari calabresi e siciliani, che sul No al Ponte ci hanno messo la faccia per anni, e ora pretendono spiegazioni dal sottosegretario nel corso di una riunione convocata nella serata di ieri. Ma chissà cosa avrà pensato il fondatore, il garante, a sentire un esponente di governo del suo partito, della sua creatura, parlare con tanto entusiasmo di Ponte. Proprio Grillo che nell’ottobre del 2012 aprì la campagna per Regionali siciliane attraversando a nuoto lo Stretto, per denunciare l’inutilità della grande opera. Un’impresa dall’incredibile impatto mediatico per il comico col pallino della politica che non solo portò proprio l’allora candidato governatore Cancelleri a sfiorare il 20 per cento delle preferenze (una novità assoluta per il panorama politico dell’epoca) ma contribuì ad accumulare quel dirompete 25 per cento alle Politiche del febbraio successivo, quando il M5S per la prima volta nella storia della Repubblica entrò in Parlamento. Perché prima ancora che NoTav, NoMuos, NoTap, NoTrivelle, il partito di Beppe Grillo è sempre stato NoPonte. E il “dettaglio” non può certo sfuggire a chi ha solo da guadagnarci a bombardare sulle contraddizioni del quartier generale: Davide Casaleggio. Il figlio del cofondatore non si fa sfuggire un’occasione così ghiotta per colpire sul Blog delle Stelle, ormai diventato a uso e consumo semi esclusivo di Rousseau, l’incoerenza degli ex compagni di strada. L’imprenditore inaugura una nuova rubrica, la “Blog History”, per «combattere il fenomeno della cosiddetta “amnesia selettiva politica” ricordando le battaglie raccontate nel corso degli anni su questo Blog». Dagli archivi della Casaleggio spunta un post del 2016, firmato Beppe Grillo, dal titolo La mia grande opera inutile: il traforo della Sardegna. Nel mirino dell’ex comico c’era Matteo Renzi, all’epoca presidente del Consiglio favorevole al Ponte, insultato con linguaggio aggressivo da Movimento prima versione. «La dichiarazione del Menomato Morale (d’ora in poi ci si riferià a lui come MM) a favore del ponte sullo stretto è un manifesto politico», scriveva il garante cinque anni fa, senza neanche immaginare che un giorno il suo partito, dopo un governo con la Lega e uno col Pd, avrebbe amministrato il Paese anche insieme a Mario Draghi e proposto la realizzazione dell’opera. «È il trionfo del nulla politico che i partiti hanno da offrire in un Paese che ha il record di disoccupazione, soffocato dal debito, con dieci milioni di poveri, che ha perso il 22 per cento della produzione industriale dall’inizio della crisi», spiegava Grillo con una determinazione oggi ripescata dal figlio di Gianroberto per mettere il Movimento alla berlina. «Non può essere una cosa seria. È un gioco a chi dice la boiata più grossa nel momento più drammatico del nostro Paese dal dopoguerra». Casaleggio mette il dito nella piaga pentastellata a poche ore dalla riunione congiunta di deputati e senatori 5S con Cancelleri, giocando di sponda con Alessandro Di Battista che sul No al Ponte ha costruto parte della sua credibilità barricadera. Per il patron di Rousseau è un goal a porta vuota: dividere sui grandi temi un fronte già lacerato e senza prospettive certe. E mentre Conte studia ancora le mosse giudiziarie per entrare in possesso dell’elenco degli iscritti, il proprietario della piattaforma si diverte a demoralizzare l’avversario, lavorando al contempo alla nascita di un nuovo progetto politico “controvento” che riorganizzi i delusi. A Grillo non resta che guardare lo spettacolo dalla platea. Sul palco ci sono altri protagonisti.

Dagonota l'11 maggio 2021. Dopo le dichiarazioni "aperturiste" del sottosegretario grillino alle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri a proposito del ponte sullo Stretto, in tutte le chat del Movimento 5 stelle è scoppiato il putiferio: la sua uscita contraddice totalmente tutto ciò che hanno sempre detto sia il M5s che lo stesso Cancelleri sull'opera. Una storia fatta di accuse e prese in giro a Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, Matteo Salvini e a tutti quelli che sognavano di costruire il ponte. Sui social hanno cominciato subito a girare i video di Cancelleri che invitava il Cavaliere a ficcarsi il ponte in quel posto: "Tutte le volte che sentirete qualcuno dirvi che vuole fare il ponte ditegli di infilarsela...dove vuole quella balla elettorale". I grillini sono furiosi, Beppe Grillo in testa, e le prese per il culo dei fuoriusciti e degli avversari si sprecano. I deputati calabresi, giusto per far capire il clima, hanno pubblicato un comunicato rovente: "È davvero incredibile come ciclicamente si riaccenda il dibattito relativo al ponte sullo Stretto di Messina. Da decenni, periodicamente, qualcuno sente la necessità di far riemergere un progetto di vecchia concezione e di dubbia utilità anziché concentrarsi seriamente sulle reali necessità infrastrutturali del Sud, e della Calabria e Sicilia in particolare", hanno scritto i consiglieri comunali M5S Gioè e Santoro e i parlamentari calabresi del Movimento, Auddino, Dieni, Barbuto, Orrico, Tucci, D'Ippolito, Parentela, Scutellà, Melicchio, Ferrara e Misiti. "Evidentemente non è bastato aver buttato al vento, nel corso dei decenni, centinaia di milioni in inutili progetti spesso non sostenibili e devastanti per il territorio".

Federico Capurso e Ilario Lombardo per "La Stampa" l'11 maggio 2021. Questa sera i parlamentari del Movimento 5 stelle si riuniranno per discutere del ponte sullo stretto di Messina. Un'assemblea indetta in fretta e furia dai vertici grillini per evitare che la spaccatura interna, emersa dopo l'intervista del sottosegretario alle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri su La Stampa, in cui il sottosegretario esaltava la bontà del progetto, finisca per trasformarsi in un'esplosione incontrollata. Forse, però, è già tardi. Nel fronte degli oppositori dell'opera, che si gonfia di ora in ora, alcuni tra i parlamentari più agguerriti sono decisi ad avanzare una mozione di sfiducia nei confronti di Cancelleri. In gergo tecnico, si tratta di una «mozione di censura», la stessa che è stata promossa contro il sottosegretario leghista Claudio Durigon. Questa volta però, clamorosamente, colpirebbe un compagno di partito. Giuseppe Conte per ora non prenderà posizione sul ponte. Vuole aspettare che il gruppo si sfoghi in assemblea. L'argomento, poi, lo aveva affrontato solo pochi giorni fa nel corso dei suoi incontri con i presidenti e i capigruppo delle commissioni parlamentari, organizzati nell'ultima settimana di aprile. A chi lo aveva messo di fronte al tema del ponte sullo Stretto, una delle vecchie battaglie del Movimento, l'ex premier aveva provato a girare al largo: «Non approcciamoci al tema in modo superficiale. Tante volte abbiamo approfondito i dossier e da questi approfondimenti sono poi arrivate valutazioni diverse da quelle iniziali». Un'indicazione di metodo, quella di Conte, per far passare il messaggio che nella nuova fase che si apre per il Movimento ci si dovrà muovere verso posizioni meno ideologiche. Più dossier e meno barricate, dunque, così da evitare altre promesse che non potranno essere mantenute, come accaduto in passato per la Tap, le Autostrade, la Gronda di Genova. Del ponte, dunque, se ne può parlare. Anche se una decisione non è ancora presa. Il nuovo approccio promosso da Conte viene visto però con sospetto da alcuni parlamentari, contrari all'idea di snaturare il Movimento. Un fronte critico composto però in gran parte da nomi che si ritrovano nella lista dei possibili prossimi addii, perché al secondo mandato e quasi certi di non avere un posto nel prossimo Parlamento. Quel che resta sul campo è un'atmosfera tesa, in cui volano insulti sui social. Come accaduto al deputato torinese Luca Carabetta che boccia l'opera definendola un «mostro del passato» e si trova tra i commenti anche quello della collega messinese Angela Raffa, che invece si schiera a favore e replica: «È facile fare post sulla Sicilia quando si è nati e si vive in Piemonte. Noi siciliani quando ordiniamo online su quelle piattaforme tecnologiche che ti piacciono tanto, paghiamo un sovrapprezzo perché il ponte non c'è ed abbiamo tempi di consegna raddoppiati». Lo scontro attira anche gli ex illustri come Alessandro Di Battista: «Riguardo al ponte sullo stretto non ho cambiato idea. Mi indigna solo il fatto che si parli più di tale opera che della revoca delle concessioni autostradali». Gli fa eco anche il senatore Nicola Morra, che si dice «basito, esterrefatto, senza parole» e ricorda l'attraversamento a nuoto dello Stretto da parte di Beppe Grillo, accompagnato da Gianroberto Casaleggio che «lo seguiva su una barchetta». Si rinvanga il passato e nelle chat grilline rimbalza anche il post di tre anni fa in cui Cancelleri, commentando alcune dichiarazioni di Silvio Berlusconi, scriveva: «Eravamo convinti di esserci sbarazzati (del ponte e di Berlusconi) e invece, puntuale a ogni elezione, eccolo ritornare... L'unico ponte che vogliamo è quello che ci collega a un futuro migliore, un futuro a 5 Stelle!». Ma la nuova era del Movimento, forse, passa anche da qui.

«Non si può gettare nel cestino l’opera più importante del Mediterraneo». STEFANIA PRESTIGIACOMO CONTESTA LA RELAZIONE TECNICA La deputata siciliana: «È ridicolo che un Paese che ha investito anni e soldi per la progettazione di una infrastruttura ci debba rinunciare per il parere di un gruppo di studi». Lia Romagno su Il Quotidiano del Sud l'11 maggio 2021. «È ridicolo quello che sta accadendo sul tema del ponte sullo stretto. Un Paese che ha investito anni e soldi per la progettazione di una infrastruttura che si ritiene importante per cambiare il destino del Mezzogiorno, prende il progetto che oltre ad aver ricevuto autorevoli riconoscimenti a livello internazionale, è cantierabile, lo butta nel cestino perché un gruppo di studio dice che a tre campate è più bello». Stefania Prestigiacomo, deputata siciliana di Forza Italia, era ministro all’Ambiente del governo Berlusconi che rilanciò il progetto del Ponte sullo Stretto di Messina, opera dibattuta per decenni, tra continui stop and go secondo l’alternarsi delle maggioranze a Palazzo Chigi. Venerdì scorso il ministro delle Infrastrutture e della mobilità sostenibile, Enrico Giovannini, ha consegnato al Parlamento la relazione della commissione tecnica voluta dal suo predecessore, Paola De Micheli. Il gruppo di lavoro ha promosso il progetto di un collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria, ha esaminato pregi e difetti delle quattro ipotesi in campo, bocciando i due tunnel, in alveo e subalveo, ritenuti troppo esposti al rischio sismico. Restano in campo il ponte ad un’unica campata e quello che ne prevede tre che i tecnici hanno valutato «potenzialmente più conveniente». Un dibattito pubblico dovrebbe ora orientare la scelta del governo. Se la scelta dovesse cadere sul ponte a tre campate, si dovrà ripartire dal via, mettendo da parte un progetto già definitivo, quello con una campata unica a unire le due sponde dello stretto. «È grottesco. È un modo per prender in giro i meridionali e utilizzare gli otto miliardi del ponte diversamente, probabilmente nel Centro Nord», afferma Prestigiacomo secondo cui «questa idea di cambiare il progetto è una azione tombale per il ponte e per le speranze di sviluppo e di reale coesione territoriale della Sicilia. Se il governo avesse veramente intenzione di realizzare il ponte poterebbe sostenere il progetto esistente che è inattaccabile da ogni punto di vista e che ha superato l’iter di autorizzazioni previsto dalla legge che è stato lunghissimo e dettagliato sul piano tecnico, scientifico, ambientale ed economico, incluso il dibattito pubblico». Il governo, sottolinea la deputata azzurra, di fatto non ha ancora ufficializzato la sua posizione: «Vogliamo capire quali sono le reali intenzioni dell’esecutivo. Si è subordinato tutto al parere di una commissione istituita con determina di un direttore. Si tratta di un organo consultivo del precedente ministro, senza alcun rilievo giuridico, una commissione voluta dal ministro per aver un approfondimento. È evidente che siamo davanti ad una scelta che è esclusivamente politica. Se oggi si vuole fare il ponte lo si può fare solo con il progetto già approvato. Se invece non lo si vuole fare si può tornare ai nastri di partenza e ricominciare per non finire mai». «Personalmente – afferma Prestigiacomo – credo sia solo il modo per dirottare altrove gli otto miliardi necessari. Prima il tunnel ora le tre campate». Secondo il parere dei tecnici, qualora si dovesse decidere di portare avanti il “vecchio” progetto del ponte, sarebbe comunque necessario rivederlo. «Mi scusi, ci sono autorevoli pareri che sostengono il contrario. Il punto è che ci sono gli organi preposti, ripeto dalla legge, che certificano la validità dei progetti, non le commissioni di studio. A quegli organi bisogna fare riferimento come per tutte le altre infrastrutture. Se ne possono fare tante di commissioni di questo tipo, e lo dico con tutto il rispetto per le persone che ne hanno fatto parte, sicuramente molto qualificate». «Ricordo che l’idea di istituire questa commissione è nata per sostenere il sì al tunnel ipotizzato dal governo Conte e per valutare se fossero possibili forme alternative al ponte. Ma non ha potuto che dire che il tunnel non si poteva fare. Come si sapeva già da più di venti anni. Ora siamo passati a più campate. Se passasse questa linea dovremmo attendere un’altra pandemia e un altro Recovery plan, ma non noi, i nostri figli o nipoti. Spero che a Palazzo Chigi si rendano conto del vicolo cieco che stanno imboccando».

Ponte, il progetto cambia di nuovo: l’alibi per chi non lo vuole fare. Nino Sunseri su Il Quotidiano del Sud il 9 maggio 2021. A DICHIARARE lo stop al Ponte sullo Stretto nel 2011 fu il governo tecnico di Mario Monti. Dieci anni dopo, nel 2021, un altro esecutivo guidato da una figura estranea ai partiti come Mario Draghi potrebbe riaprire il dossier. Sarebbe un’opera dall’alto valore simbolico per segnare la rinascita del Paese dopo vent’anni di stagnazione culminati nel Covid. Così come l’Autostrada del Sole, costruita in soli quattro anni era stato il traguardo della ricostruzione post-bellica. La porta del Ponte è molto stretta viste le divisioni che attraversano la maggioranza. Questa volta a dare il via libera dovrà essere direttamente il Parlamento dove il dossier approderà in prima battuta il 12 maggio. Ad esaminarla la Commissione Trasporti della Camera guidata da Raffaella Paita. In apparenza la strada sembra spianata. Ma purtroppo è il gioco degli specchi. A marzo c’è già stato un primo voto favorevole. Era stata approvata la proposta nata in casa Pd. A formularla la relatrice Enza Bruno Bossio con l’approvazione del M5s tranne il pentimento successivo. Il testo rimandava la decisione finale al parere del gruppo di lavoro istituito presso il ministero dei Trasporti dall’ex ministra Paola De Micheli. Adesso la risposta è arrivata ed è favorevole. A questo punto scoppia la bagarre. Il parere della commissione, infatti, esclude il tunnel e promuove l’ipotesi del collegamento a tre campate. Sembra un dettaglio ma è la svolta che potrebbe rimettere l’opera in frigorifero per chissà quanto tempo. Il progetto che era stato approvato prima dello stop di Monti prevedeva un collegamento ad una sola campata che copriva i cinque chilometri dello Stretto. Se dovesse passare il programma della commissione sarebbe necessario rifare tutto dall’inizio.

Un’ipotesi che forse non dispiace al ministro Giovannini. Ha ricordato in più di un’occasione che il Ponte non si può fare con i soldi del Recovery perché “non ci sarebbe modo di metterlo in esercizio entro il 2026”. Le indicazioni che arrivano dalla Commissione europea sono chiare: i soldi per le opere pubbliche saranno erogati solo per quelle che prevedono lotti effettivamente fruibili, entro il 2026. E il ragionamento del ministro è che è impossibile realizzare il Ponte entro quella data Ma i partiti che hanno fatto fronte comune per il Ponte sostengono una linea differente. Innanzitutto non è da escludere che, tenendo buono il vecchio progetto, il ponte possa essere completato entro il 2026 considerando che l’Autostrada del Sole, senza le tecnologie moderne è stata costruita in quattro anni. Il riferimento preso ad esempio è la ricostruzione del ponte Morandi crollato a Genova. E non è un caso se sempre nel parere si chiede al governo di adottare “il modello Genova” per velocizzare tutte le opere strategiche. L’altra obiezione all’esecutivo è che il Ponte può uscire dalla logica dell’infrastruttura principalmente viaria dato che intorno alla struttura principale potrebbero insistere infrastrutture, come le ferrovie, accettate e anzi sostenute dall’Europa. Ma è alla questione principale che Giovannini ha sollevato per tenere il Ponte fuori dal Recovery che punta il parere. Nel caso in cui non fosse possibile realizzare il Ponte entro il 2026 potrebbero essere attivi altri lotti funzionali dell’opera, come ad esempio le rampe di accesso, i collegamenti tra la ferrovia e il Ponte, ma anche l’infrastruttura sensoriale per la sicurezza del Ponte stesso. Insomma si potrebbe dire a Bruxelles che entro il 2026 comunque ci sarà un pezzo di Ponte. Il resto potrebbe arrivare con i fondi nazionali oppure sfruttando la disponibilità dei grandi fondi internazionali che investono in infrastrutture. Valga per tutti l’esempio degli australiani di Macquarie pronti a investire in Autostrade per l’Italia dopo aver preso il 40% di Open Fiber. Anche gli americani di Kkr hanno messo una puntata sulla rete di Tim.  Su queste premesse le polemiche infuriano. Per il responsabile nazionale Infrastrutture della Lega Edoardo Rixi “Il Ponte sullo Stretto garantirebbe per 4 anni l’assorbimento dell’acciaio prodotto a Taranto oltre a rappresentare una cerniera col continente per l’alta velocità e l’alta capacità ferroviaria”. Insomma, per l’ennesima volta si fatica a trovare la quadra su quella che da più parti è definita come l’unica opera immediatamente cantierabile per il Sud portando l’Alta Velocità da Helsinki a Palermo. Chi non ha smesso di crederci è il gruppo Webuild. Pochi giorni fa l’amministratore delegato Pietro Salini è tornato sull’argomento annunciando che l’opera potrebbe mobilitare fino a centomila posti di lavoro. Come sempre però il diavolo sta nei dettagli: il progetto preparato da Webuild quando ancora si chiamava Impregilo prevedeva una sola campata. Il parere della commissione istituita dal ministero dei Trasporti, invece, preferisce quello a tre campate. Se passa questa linea il Ponte non nascerà mai perché bisognerà fare tutto daccapo.

Il gioco dell’oca dei progetti che non farà mai realizzare il Ponte. Lia Romagno su Il Quotidiano del Sud l'8 maggio 2021. IL COLLEGAMENTO stabile tra la Sicilia e la Calabria va fatto: «Esistono profonde motivazioni per realizzare un sistema di attraversamento stabile dello Stretto di Messina, anche in presenza del previsto potenziamento e riqualificazione dei collegamenti marittimi (collegamento dinamico)». E’ il parere dei tecnici del gruppo di lavoro istituito presso la struttura tecnica di Missione del ministero delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibile, affidato alla relazione che il ministro Enrico Giovannini ha tramesso ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati. I tecnici hanno esaminato pregi e difetti delle ipotesi in campo: i tunnel in alveo e subalveo, su cui hanno espresso dubbi legati al rischio sismico, il ponte ad unica campata e quello che ne prevede tre, ritenendo «che la soluzione aerea a più campate sia potenzialmente più conveniente di quella a campata unica». Una scelta in questo senso porterebbe a ricominciare da zero, considerando che il progetto a una campata può contare su un progetto definitivo, con buona pace quindi chi chi addirittura pensava di poterla affidare al Recovery plan. In particolare, i tecnici ritengono, di «sconsigliare le soluzioni dei tunnel subalveo e in alveo soprattutto per l’elevato rischio sismico ad esse collegato e per la mole di indagini geologiche, geotecniche e fluidodinamiche necessarie per verificarne la fattibilità tecnica, ma anche per l’eccessiva lunghezza necessaria per il tunnel subalveo e la presumibile durata degli approfondimenti necessari per la nuova soluzione del tunnel in alveo, per la quale mancano riferimenti ed esperienze». Il gruppo di lavoro suggerisce «di sviluppare la prima fase del progetto di fattibilità limitando il confronto ai due sistemi di attraversamento con ponte a campata unica e ponte a più campate, anche ipotizzando diverse soluzioni progettuali per i collegamenti a terra e, nel caso del ponte a più campate, per la localizzazione e la struttura». In particolare, il sistema con ponte a campata unica di 3.300 metri, si ricorda, è stato adottato nel progetto definitivo sviluppato nel 2011 dalla Società Stretto di Messina SpA in liquidazione (SdM) e redatto sulla base del progetto preliminare approvato dal CIPE (delibera n. 66 del 1/8/2003). «Il progetto – si sostiene – andrebbe comunque adeguato sia ai risultati delle ulteriori indagini già in parte previste dal progetto definitivo, sia alle nuove Normative Tecniche per le Costruzioni e alle più recenti Specifiche Tecniche di Interoperabilità inerenti al sottosistema infrastruttura e sicurezza delle gallerie ferroviarie, emanate successivamente alla sua redazione». Tra i punti di forza, la relazione indica la disponibilità del progetto definitivo, «ancorché non approvato dal Cipe, che «può consentire una riduzione dei tempi dell’iter approvativo, quindi una maggiore velocità di avvio della fase realizzativa almeno per l’opera di attraversamento stabile». Considera poi la «ridotta sensibilità alla sismicità dell’area e alle conseguenti azioni sismiche», «nessuna interazione con il traffico marittimo, limitato impatto su fondali e flora\fauna marina», la «tecnologia innovativa ed effetto “showcase”», la «salvaguardia delle opere di potenziamento/adeguamento dei collegamenti terrestri con il ponte già realizzate (es. variante di Cannitello)». Il sistema con ponte a più campate, ipotizzabile, ad esempio, a tre campate con due pile in mare, è considerata «una soluzione tecnicamente fattibile, anche grazie agli avanzamenti delle tecnologie di indagine e realizzazione per fondazioni di opere civili marittime a notevoli profondità». Rispetto al ponte a campata unica, si sostiene, il ponte a più campate «potrebbe avere una maggiore estensione complessiva e mantenere al tempo stesso la lunghezza della campata massima simile a quelle già realizzate altrove e, quindi, usufruire di esperienze consolidate, anche dal punto di vista di tempi e costi di realizzazione». Ma «andrebbero approfonditi i temi relativi alla risposta delle pile in acqua rispetto ad eventi sismici e alle forti e variabili correnti marine. Infine, questa soluzione consentirebbe di utilizzare parte degli studi effettuati per la progettazione del ponte a campata unica per la similitudine tecnologica delle due soluzioni». Qualunque sia la scelta finale, per finanziamento dell’opera, il gruppo di lavoro ritiene «più efficiente finanziare il sistema di attraversamento interamente e trasparentemente a carico della finanza pubblica, anche in relazione ai benefici diffusi che l’opera ha sull’intero Paese».

Si fa, non si fa, si rinvia, ci si ripensa. Il paradosso tutto italiano del Ponte sullo Stretto. Ercole Incalza su Il Quotidiano del Sud il 4 maggio 2021. Un’opera approvata da tutti gli organi competenti, si cominciano a realizzare alcune parti dell’opera, però tutto si blocca per una crisi economica e quando tale crisi termina lo Stato ritiene opportuno rimeditare e approfondire la soluzione tecnica. Ora che il ponte sullo Stretto di Messina non è stato più inserito nel Recovery Plan, ora che non è stato neppure inserito nel Piano parallelo, ora che il grido di dolore dei titolari delle due Regioni non è stato, per l’ennesima volta, preso neppure in considerazione dal Governo (tra l’altro neppure se avanzato da una Regione a statuto speciale come la Regione Sicilia), ora che la Unione Europea ha capito che l’Italia non crede in questa opera, non crede cioè in una opera condivisa ed apprezzata dalla stessa Unione Europea, ebbene ora che il film è finito, consentitemi di enunciare il grande paradosso, un grande paradosso che sconvolgerà, a mio avviso, le menti intelligenti, le menti mature del Paese. Il paradosso è questo: immaginate di progettare un’opera, immaginate che l’opera venga approvata da tutti gli organi competenti, immaginate, addirittura, che si comincino anche a realizzare alcune parti dell’opera e immaginate, però, che l’opera si blocchi per una crisi economica e quando tale crisi termina immaginate che lo Stato ritenga opportuno rimeditare e approfondire la soluzione tecnica. Immaginate che si ricominci ad approfondire una soluzione tecnica diversa e quando tale soluzione sia scelta, cioè fra 4,5,6 anni immaginate che ci sia una Ministra De Micheli di turno o un Ministro Giovannini di turno che ritengano opportuno approfondire la ultima soluzione perché essendo passati 4,5,6 anni ci sono nuovi materiali sul mercato, ci sono nuove tecniche costruttive. Non è il gioco dell’oca perché questo che ho descritto è purtroppo una storia vera; sì è un vero paradosso che penso generi solo un senso di vergogna nella gente perché non riesce a capire le motivazioni di un simile paradosso, cioè non riesce a capire, a mio avviso, perché un simile paradosso sia vero. Penso che questa mia banale ma vera denuncia se sarà letta dal Presidente del Consiglio Mario Draghi produrrà quanto meno un senso di sconcerto perché il Presidente sa bene che questa opera è solo osteggiata per motivi di schieramento e non per motivi oggettivi e questo fa paura e preoccupa perché sarebbe bene scoprire chi è o chi sono, stando in Sicilia, i “pupari” che gestiscono questo sconvolgente paradosso. Io ho vissuto in prima persona la difficile esperienza relativa alla approvazione ed all’avvio dei lavori dell’Alta Velocità, ho vissuto i difficili passaggi legati alle conferenze dei servizi con cui sono stati approvati i progetti, conferenze che prima della Legge Obiettivo si concludevano positivamente solo con il voto unanime, ho vissuto la serie di processi penali, però alla fine si sono realizzati già circa 900 Km di nuovi assi ferroviari ad alta velocità e nei prossimi quattro – cinque anni si completeranno ulteriori 250 Km. Altrettanto è avvenuto e sta avvenendo per il nuovo collegamento ferroviario Torino-Lione; anche in questo caso abbiamo assistito ed assistiamo ad un dissenso locale supportato da uno schieramento politico tuttavia l’opera si sta realizzando. Invece per il ponte sullo Stretto vige il grande paradosso; nasce spontaneo chiedersi perché? Forse perché la mancata crescita del Mezzogiorno fa bene ad una parte del Paese. Sono sicuro che il Presidente Draghi comprenda invece che un simile paradosso non fa bene al Paese e questo anomalo e disomogeneo comportamento dello Stato nei confronti del Mezzogiorno incrinerà sempre più la volontà della gente del Sud di sentirsi davvero integrata con il resto del Paese e, come ho detto in un mio recente blog, questo grave comportamento dell’organo centrale rafforzerà sempre più il tipico localismo geografico; cioè il Sud rimarrà sempre più un Sud slegato dal resto del Paese.

(ANSA il 3 magio 2021. Il ministro delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili Enrico Giovannini, in un'intervista a Il Mattino, rilancia il sistema dei trasporti al Sud, a cominciare dall'Alta velocità, attraverso i fondi europei del Pnrr, che prevede l'investimento al Sud del 56% delle risorse totali del Recovery fund assegnato all'Italia, per arrivare anche a un confronto sullo Stretto, dopo la relazione chiesta al Parlamento. Il punto è ora rispettare i tempi e le procedure previste dal'Ue. "Siamo in presenza di un investimento di proporzioni senza precedenti, che avrà importanti effetti sull'occupazione, di una grande opportunità per ridurre le disuguaglianze tra Nord e Sud e anche tra aree urbane e interne - dice Giovannini - Impossibile accusare il governo di disattenzione verso il Mezzogiorno. Per gli investimenti sulla mobilità, la parola chiave è interconnessione, per migliorare la qualità della vita delle persone e aumentare la competitività dei territori". Con particolare attenzione per il rispetto della sostenibilità ambientale: "Utilizzeremo le migliori pratiche metodologie per ridurre l'impatto sugli ecosistemi. A parità di infrastruttura, si preferiranno le imprese che privilegeranno l'economia circolare. Sarà una svolta enorme rispetto al passato". Oltre alla Napoli-Bari, quante e quali delle opere più significative previste per l'Alta velocità al Sud, e non solo, verranno portate a termine entro il 2026? "Alcuni lotti funzionali dell'Alta velocità Salerno-Reggio Calabria - risponde Giovannini - Sappiamo che con le sole risorse del Pnrr non si potrà completare l'intera tratta, ma lo si farà entro il 2030 con quasi 10 miliardi integrativi stanziati dal governo. Ho già trasmesso al Parlamento lo studio di fattibilità che prevede come prioritari i due lotti funzionali, Battipaglia-Praja e Praja-Tarsia, che includono tra l'altro la bretella per Matera e Taranto, e con essi il collegamento ferroviario tra il porto di Gioia Tauro e la rete ferroviaria nazionale, superando gli attuali limiti nel trasporto dei container dovuti all'ampiezza delle gallerie. Questi tre interventi saranno portati a termine entro il 2026". Quanto al Ponte sullo Stretto, Giovannini afferma: "La Commissione istituita dall'ex ministra De Micheli per l'attraversamento stabile dello Stretto ha ultimato i suoi lavori e, come annunciato dal presidente Draghi, la relazione verrà inviata quanto prima al Parlamento. La mancata inclusione dell'opera nel Pnrr dipende dal fatto che i tempi a disposizione per realizzarla, entro cioè il 2026, sono troppo brevi. Questo non vuol dire che, se si decidesse di procedere, non si possano usare altri fondi. La Commissione ha preso in esame diverse tipologie di tunnel e di ponti: sulla base di questo lavoro si aprirà un dibattito politico e pubblico e si esamineranno tutti gli aspetti legati alla fattibilità, non solo economica". Quanto alla scelta di ricorrere ai commissari per accelerare i cantieri, il ministro che, malgrado le norme consentano ai commissari una forte accelerazione, questo non significa che si possono evitare le procedure di valutazione ambientale, delle sovrintendenze e della sicurezza. "I commissariamenti risolvono una parte dei problemi. E qui il tema si intreccia con quello più generale delle semplificazioni delle procedure previsto dal Pnrr'. Un altro nodo riguarda il Codice degli appalti: 'Verrà rivisto complessivamente con una legge delega, com'è stato annunciato. Ma occorrerà del tempo e nel frattempo le opere del Pnrr devono partire. Occorreranno perciò norme specifiche di cui potranno giovarsi anche gli interventi previsti nel Pnrr, ma non solo: per realizzare velocemente gli interventi serve anche una Pubblica amministrazione rafforzata numericamente e soprattutto tecnicamente, come avverrà presto con le 2.800 assunzioni al Sud già previste. La preparazione dei bandi e il controllo sulle opere saranno decisivi e questo non ha nulla a che vedere con il Codice degli appalti".

Emanuele Lauria per repubblica.it il 3 magio 2021. Il ponte sullo Stretto? È utile farlo. La commissione di tecnici istituita dall'ex ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli e confermata dal successore Enrico Giovannini, riapre la partita dell'opera da realizzare sullo Stretto. Nella relazione approvata venerdì dal gruppo di lavoro coordinato dal direttore dell'unità di missione del ministero Giuseppe Catalano, c'è il sostanziale via libera a un collegamento stabile, con l'indicazione favorevole su due progetti: il primo, con uno stato di elaborazione più avanzato, è quello a unica mandata già portato avanti dalla società Stretto di Messina, in liquidazione dal 2013, che aveva individuato come general contractor il consorzio Eurolink capeggiato da Impregilo (oggi Webuild). Progetto attorno al quale, dopo lo stop all'opera voluto dall'ex premier Monti, si è aperto un contenzioso da 700 milioni. Ma, novità rilevante, c'è il semaforo verde dei tecnici anche a un progetto alternativo, un ponte a tre mandate sullo specchio di mare fra Messina e Villa San Giovanni lungo 3,2 chilometri. Anche questa una soluzione a lungo discussa in passato, rilanciata di recente dall'iniziativa di Italferr, seppur rimasta allo stato preliminare: l'infrastruttura realizzata in questo modo sarebbe meno esposta ai rischi di chiusura legati al vento e avrebbe il vantaggio di arrivare direttamente nel capoluogo siciliano e non nella frazione di Ganzirri. Queste sono le opzioni considerate più fattibili sotto il profilo ingegneristico, dei costi e della sicurezza. Preferite, secondo quanto risulta a Repubblica , ad altre come il tunnel flottante e soprattutto il tunnel subalveo - cioè sotto il fondale dello Stretto - che necessiterebbe di gallerie di ingresso troppo lunghe. Sull'opera sottomarina si erano pronunciati favorevolmente l'ex premier Conte ed esponenti di governo dei 5Stelle. La relazione prodotta dalla commissione dopo 8 mesi di attività - 200 pagine, 50 grafici e 50 tabelle - è ora sul tavolo del ministro Giovannini, pronto a girarla al premier Mario Draghi. Nel documento si sottolinea che un collegamento stabile sarebbe un elemento di completamento della rete nazionale dell'Alta velocità, altrimenti destinata a interrompersi a Reggio Calabria, e consentrebbe una riduzione del 30 per cento dei tempi di viaggio. Ma una valutazione definitiva è rinviata alla politica: Draghi, nel corso del dibattito in Senato sul Pnrr della scorsa settimana, non ha espresso contrarietà nei riguardi dell'opera, sottolineando che la relazione dei tecnici sarà sottoposta al giudizio del Parlamento, dove attualmente l'asse pro-ponte sembra maggioritario. Resta un nodo non esattamente secondario, quello dei soldi. L'opera non è stata inserita nel Recovery plan, anche per una questione di tempi. "Per le regole del Pnrr - ha spiegato nei giorni scorsi Giovannini - entro il 2026 i lotti devono essere in esercizio, fruibili. Quella data non è negoziabile". Restano in piedi altre ipotesi, fra le quali il project financing , la concessione a privati che assorbirebbero i costi con l'introito dei pedaggi. Giovannini ha ricordato di "non aver mai espresso punti di vista sul ponte" e anche lui ha rinviato a un dibattito in Parlamento. Si apre un'altra pagina, nella lunghissima storia dell'attraversamento dello Stretto, esattamente un secolo dopo i primi bozzetti. Finora nulla più di un libro dei sogni. Da oggi, chissà. 

Ponte sullo Stretto, tutti d'accordo: indispensabile ma meglio non farlo. Ercole Incalza su Il Quotidiano del Sud il 16 aprile 2021. È vero che una delle nostre negatività consolidate sia la carenza della memoria storica ma dalla istituzione della Commissione Colao non è ancora passato un anno. Voglio solo ricordare che il 10 aprile dello scorso anno, l’allora Presidente Conte istituì una Commissione presieduta dal manager aziendale Vittorio Colao, oggi Ministro dell’innovazione tecnologica e la transizione digitale. Per due mesi tale Commissione ha lavorato per fornire al Governo un piano strategico, articolato in ben 102 schede, accompagnate da un dettagliato rapporto di una cinquantina di pagine: «Iniziative per il rilancio, Italia 2020-2022». Sulla base di tale documento il Presidente del Consiglio annunciò la convocazione degli Stati generali. In realtà con tale iniziativa si voleva meglio interloquire con sindacati e con le associazioni sulle misure per il rilancio. E così, il 13 giugno dello scorso anno partirono e si conclusero dopo 9 giorni. Ebbene, dopo questa assise ci furono dichiarazioni davvero entusiasmanti e, al tempo stesso, rassicuranti sulla realizzazione del collegamento stabile tra la Sicilia ed il continente; non riporto tutte le dichiarazioni di tanti Ministri o di tanti opinion leader, preferisco riportare solo quella del ministro Dario Franceschini allora Capo della Delegazione del Partito Democratico all’interno del Governo Conte II; la sua dichiarazione fu esaustiva: “Sarebbe assurdo realizzare l’alta velocità nel Sud del Paese senza prolungare tale asse fino a Palermo e sarebbe assurdo quindi non realizzare contemporaneamente un collegamento stabile tra Reggio e Messina”. Dopo è arrivato l’impegno dell’allora Ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti De Micheli nell’avviare una apposita Commissione che, entro il 15 ottobre del 2020, avrebbe dovuto produrre delle conclusioni in merito alla soluzione più idonea relativa alla realizzazione di un collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria. Poi sono arrivate le Linee Guida della Unione Europea relative alle caratteristiche ed ai vincoli cui dovevano sottostare le proposte progettuali da inserire nel Recovery Plan; da tali Linee Guida è emerso che bisognava proporre opere relative a progetti organici da concludersi entro il 31 dicembre del 2026. A questo punto esaminiamo quale sia stato il comportamento degli altri Stati della Unione Europea e, al tempo stesso verifichiamo invece quale linea sta seguendo il nostro Paese; prendo come esempio la Francia, questo Paese ha approfittato, come la maggior parte degli Paesi della Unione, di questa interessante ed irripetibile fase programmatica per redigere una proposta supportata finanziariamente per 40 miliardi con risorse del Recovery Fund e per 60 miliardi con risorse del proprio bilancio ordinario o proveniente da altri fondi comunitari. In tal modo la Francia ha, correttamente, evitato la soglia temporale del 2026 in quanto le opere, con un arco temporale realizzativo più lungo, hanno trovato copertura su altre fonti e in tal modo si consente il raggiungimento della massima contestualità e della massima organicità all’intero Recovery Plan. Cosa ha fatto il nostro Paese, o meglio cosa sta facendo il nostro Paese; a mio avviso sta prendendo in giro l’Unione Europea e sé stesso. Faccio, in proposito, due esempi di proposte inoltrate all’attenzione del Parlamento da parte del Governo e che ritengo altamente significativi:

1. Asse ferroviario ad alta velocità Roma – Pescara (il cui importo stimato globale supera i 6,2 miliardi di euro), nel Recovery Plan entrano solo interventi ubicati nella tratta Pescara – interporto di Chieti, e altri segmenti in vicinanza del nodo di Roma, per un valore globale di 620 milioni;

2. Asse ferroviario ad alta velocità Salerno – Reggio Calabria (il cui importo stimato globale supera gli 8,5 miliardi), nel Recovery Plan entrano solo interventi relativi alla tratta Battipaglia – Praia a mare per un valore globale di 1,8 miliardi.

Penso che nasca spontaneo un interrogativo che, per ora rivolgo io ai redattori di questa proposta e, sono sicuro, quanto prima tale interrogativo sarà posto dalla Unione Europea: che senso ha realizzare un segmento di un asse ferroviario senza garantire davvero la sua integrale efficienza ed efficacia funzionale. Ancora più preoccupante sarà un secondo interrogativo: perché non si è seguita una simile articolazione programmatica anche per la realizzazione del Ponte sullo Stretto e perché, come d’altra parte anche indicato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze Daniele Franco nell’audizione in Commissione Bilanci della Camera, non si sia fatto ricorso a distinte fonti di copertura (ricordo sempre che ci sono 30 miliardi di euro del Programma del Fondo di Coesione e Sviluppo 2014 – 2020).

Penso però sia giunta, dopo tanti anni di altalene, di comportamenti schizofrenici e di assurdi camaleontismi, l’occasione per chiarire due distinti misteri:

1. Il Governo attuale ha una maggioranza formata dal Partito Democratico, da Italia Viva, da Forza Italia, dalla Lega, da Liberi e Uguali e dal Movimento 5 Stelle; escluso il Movimento 5 Stelle e forse Liberi e Uguali, tutti sono a favore di un collegamento stabile e anche il Partito Fratelli d’Italia, pur stando alla opposizione, è a favore dell’opera. Sarebbe, quindi, opportuno conoscere perché si è deciso di non inserirlo nel Recovery Plan seguendo anche quanto fatto per le tratte ferroviarie ad alta velocità;

2. Cosa rimane in termini di infrastrutture inserite nel Recovery Plan per il Mezzogiorno: in realtà, come da me ricordato da mesi, rimane una somma, vera e concreta in termini di rispetto delle logiche imposte dalla Unione Europea, non superiore ai 6 – 7 miliardi e questo contrasta con quanto assicurato dall’ex Ministro del Sud Provenzano (almeno il 40% delle risorse per le infrastrutture al Sud); contrasta con quanto assicurato dalla ex Ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti De Micheli (almeno una quota del 45 % al Sud); contrasta con quanto assicurato dall’ex Presidente del Consiglio Conte nel suo ultimo intervento in Parlamento (al Sud bisogna garantire più del 50%)

Due misteri che durano da molto tempo e che una volta trovavano risposta nel comportamento della Lega mirato a non trasferire risorse al Sud o nella ignavia di Governi che avevano sottovalutato il ruolo strategico dell’intero Mezzogiorno. Oggi, ripeto escluso il Movimento 5 Stelle da sempre contrario alla realizzazione del ponte ed in genere a tutte le opere infrastrutturali in quanto convinti che in tal modo si incentivavano le organizzazioni malavitose, le forze politiche stanno, purtroppo, ammettendo che il Mezzogiorno è un’ottima occasione per affrontare e dibattere determinate problematiche avendo però sempre cura nel non risolverle. Dovevamo vivere questa grande occasione programmatica e strategica come la redazione del Recovery Plan per capirlo e per scoprirlo. Ho solo una speranza: il Presidente Draghi non credo possa salire su un treno pieno di ipocriti.

Ponte sullo Stretto, dilagano i “no” dei dilettanti: i pareri positivi degli esperti vengono ignorati. Si rischia di perdere un patrimonio di progetti autorevoli provocando pesanti ricadute in termini di sviluppo e coesione territoriale. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 7 aprile 2021. Stranisce che l’atteggiamento nei confronti delle problematiche che riguardano il Sud sia così superficiale e approssimativo anche da parte di personaggi in genere estremamente contenuti e prudenti. L’ultimo della serie il ministro Roberto Cingolani.  Si tratta di un fisico, accademico: «Il Ponte sullo Stretto? Mi lascia perplesso. Lì da un lato c’è una situazione di sismicità critica, dall’altro lato penserei più a potenziare le infrastrutture fondamentali per Sicilia e Calabria. Per ora aspetterei, ma non ho studiato il progetto». Così a Radio Capital.

L’APPROSSIMAZIONE. Ora, che si lasci a dichiarazioni in libertà l’avventore del Bar dello Sport non è auspicabile ma è prevedibile. Ma che un ministro di peso come Cingolani si lasci andare a dichiarazioni di tal genere è stucchevole è disarmante. Ma al di là delle dichiarazioni del neo ministro, il tema di fondo riguarda la leggerezza con la quale politici, giornalisti, imprenditori, politologi parlano dei temi che riguardano il Sud. Tutti diventano esperti e si lanciano in giudizi ultimativi rispetto a tematiche, come lo sviluppo, l’infrastrutturazione, le ragioni del ritardo, le esigenze fondamentali. Ciò accade perché tutti sanno che non ci saranno reazioni e, in ogni caso, esse saranno contenute e non arriveranno certamente ai media nazionali. A parte la certezza che cavalcare luoghi comuni sul Sud, come la mancanza di volontà di lavorare, l’essere un po’ approssimativi e superficiali, arruffoni è un po’ ladruncoli trova favorevoli parecchi.

VERITÀ AGGIRATA. Per cui anche Ficarra e Picone possono parlare del ponte come di una barzelletta da avanspettacolo, Dolce e Gabbana si consentono di dire “meglio le navi del ponte sullo stretto”, Giuseppe Sala può affermare: «Smettiamola di parlare di sogni sciocchi come il Ponte sullo stretto». Enumerare poi i conduttori di talk show che interrompono quando il discorso si fa preciso su tematiche che attengono al Sud, come quelle sostenute dall’onorevole Giusy Bartolozzi o da Matilde Siracusano di Forza Italia a Sky tg 24 o dalla senatrice Silvia Vono o dal senatore Davide Faraone di Italia Viva è impossibile, tanto accade spesso.  Come pure le battute alla Gabriele Albertini in “Stasera Italia contro Napoli” che Barbara Palombelli tenta invano di contenere, fanno pensare a un razzismo strisciante e diffuso. Giudizi che non tengono conto, per esempio nel caso del ponte sullo stretto, di cosa ha dichiarato la comunità scientifica internazionale.

IL DOCUMENTO FIRMATO DA 40 ESPERTI. In un documento firmato da 40 ordinari di costruzioni (compreso l’ingegnere  giapponese Yasutsugu Yamasaki, progettista di ponti sospesi, o l’ingegner Giulio Ballio, professore emerito di Tecnica delle costruzioni, già rettore del Politecnico di Milano) si legge: «Siamo consapevoli che ci compete difendere un progetto se infondatamente bistrattato con conseguenze che potrebbero determinare la dissipazione di un grande patrimonio ingegneristico, scientifico e socioeconomico a oggi consolidato in un progetto definitivo. Siamo altresì consapevoli – continuano – della necessità di richiamare l’attenzione sulla realtà dei fatti, per superare posizioni troppo spesso retoriche e non basate su criteri tecnici e scientifici. Lo straordinario lavoro svolto da un grande team internazionale, a guida italiana, al quale hanno partecipato studiosi e istituzioni scientifiche tra i più autorevoli del mondo, nonché leader mondiali nella progettazione di ponti sospesi e nella realizzazione di grandi opere, rischia oggi di essere definitivamente perso. Trascinando con sé tutte le importanti ricadute in termini di sviluppo e coesione territoriale italiani». Bene: quello che questi accademici, scienziati dicono diventa irrilevante per Cingolani che si consente di aver dubbi perché «lì vi è una criticità sismica». Che poi Salini di We Build rilasci delle dichiarazioni circa i tempi di costruzione, contraddicendo il ministro Enrico Giovannini sulla possibilità che possa essere inserito nel Recovery plan, considerata la scadenza supposta del 2026, non conta. Lui non viene chiamato dai ministri per accertare una realizzabilità tecnica che è stata affermata da un’azienda, eccellenza italiana nel mondo, che costruisce ovunque, ma le cui capacità evidentemente vengono messe in discussione in patria. Che poi Gaetano Armao, vicepresidente della regione Sicilia, oltre che docente universitario, faccia fare una ricerca da Prometeia che dimostra che i costi dell’insularità per la Sicilia sono di sei miliardi all’anno, e che quindi il ponte si ripagherebbe in un solo anno, anche questo diventa irrilevante in un approccio del sentito dire, dei luoghi comuni, delle paure ataviche umane di chi pensa che un ponte a campata unica non possa reggere, visto che deve fare un salto di tre chilometri.

COSTI AMMORTIZZATI. Lo studio della Regione dice: «L’insularità costa 6,54 miliardi di euro annui del Prodotto interno lordo regionale. Tenendo in considerazione i costi dei trasporti e le conseguenze sugli operatori economici e i vari settori di attività, la stima dell’impatto della riduzione dei prezzi sul Pil risulterebbe pari al 6,8 per cento. A rivelarlo è uno studio – “Stima dei costi dell’insularità per la Sicilia” – condotto dal governo Musumeci, con il supporto dell’Istituto di ricerca Prometeia, istituto con credibilità internazionale».  Forse è il caso che sul tema di questo secolo del Paese, che è lo sviluppo del Sud, il presidente Mario Draghi faccia adottare ai suoi ministri quella riservatezza che tutto il governo sta adottando per gli argomenti importanti, per evitare di sentire sproloqui inconcludenti, e che poi si occupi personalmente dei dossier più importanti, tra i quali l’alta velocità ferroviaria per il Mezzogiorno e conseguente tracciato montano o marino, compreso il salto dei tre chilometri, per evitare la sensazione che sul  parente povero, «ogni villan che parteggiando viene», come dice Dante,  possa esprimere giudizi e dare soluzioni, perlomeno avventate se non improvvisate.

ANCHE L’UNIONE EUROPEA LEGITTIMA IL NUOVO PONTE DEL MEDITERRANEO. Scrive il presidente del Comitato europeo delle Regioni, Tzitzikostas: «Condivido le vostre opinioni  sull'alta priorità che deve essere data agli obiettivi di coesione sociale e territoriale». Ercole Incalza su Il Quotidiano del Sud il 2 aprile 2021. È davvero importante la nota indirizzata al Vicepresidente ed Assessore all’Economia della Regione Siciliana, Gaetano Armao, dal Presidente del Comitato Europeo delle Regioni, ​Apostolos Tzitzikostas; in tale nota si esprime la piena condivisione delle politiche di coesione socio –  territoriale della Regione Siciliana volte al rilancio economico, attraverso una corretta ripartizione delle risorse del PNR, ed in particolare all’azione di contrasto agli svantaggi economici per i cittadini e le imprese dell’Isola derivanti dalla condizione di insularità. “Condivido le vostre opinioni – scrive il Presidente Tzitzikostas – sull’alta priorità che deve essere data agli obiettivi di coesione sociale e territoriale. In effetti, una corretta ponderazione della ripartizione delle risorse tra le regioni e un pieno coinvolgimento degli enti locali e regionali sono indispensabili affinché il PNR possa garantire il suo massimo impatto.” “Come sapete, – aggiunge Tzitzikostas – durante la sessione plenaria di marzo, abbiamo condiviso energicamente queste prove e le nostre preoccupazioni con il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel e con il vicepresidente esecutivo della Commissione europea, Dombrovskis. Entrambi hanno mostrato piena consapevolezza del ruolo che le regioni e le città devono svolgere nella ripresa dell’Europa. Secondo il regolamento del Recovery and Resilience Facility e le ultime dichiarazioni ufficiali, la Commissione europea sembra veramente impegnata a valutare i piani di ripresa degli Stati membri tenendo conto di come le regioni e le città sono state consultate e di come il loro contributo è stato accolto.” In conclusione della sua nota, la massima autorità di raccordo delle Regioni europee, rimarca il pieno sostegno alle iniziative, peraltro ampiamente condivise a livello comunitario, messe in campo dalla Regione Siciliana: “La ringrazio ancora una volta per il lavoro che presenta e per il contributo che fornirà alla mobilitazione del Comitato su questa sfida decisiva. Avete il pieno sostegno del Comitato per il vostro impegno a ridurre le disparità socio-economiche e a costruire una ripresa sostenibile ed equa, insieme agli enti locali e regionali.” “Accogliamo con grande soddisfazione – ha dichiarato il Vicepresidente ed Assessore all’Economia della Regione Siciliana, Gaetano Armao – l’endorsement del Comitato Europeo delle Regioni alle politiche del Governo Musumeci in ordine al rilancio economico e di contrasto ai costi derivanti dalla condizione d’insularità. Una condizione di svantaggio che uno studio della Regione quantifica in circa 6,5 miliardi di euro all’anno, ovvero una tassa occulta di circa 1300 euro per ogni siciliano. Un ‘costo d’esercizio’ insostenibile che rischia, in combinato con l’incipiente crisi economica e finanziaria causata dalla pandemia, di aggravare ulteriormente l’economia siciliana”. Ho riportato integralmente questo comunicato perché ritengo che sarà davvero difficile per l’attuale compagine di Governo raccontare programmi e scelte strategiche per il Mezzogiorno senza dimostrare contestualmente quando e come attuare davvero le varie iniziative ed il tema legato alla “insularità” diventa non più legato solo ad un danno alla fluidità delle movimentazioni ma un danno diretto alla crescita socio economica della intera realtà siciliana ed è davvero significativa la precisazione che il Presidente Tzitzikostas formula nella sua nota quando ribadisce: “la Commissione europea sembra veramente impegnata a valutare i piani di ripresa degli Stati membri tenendo conto di come le regioni e le città sono state consultate e di come il loro contributo è stato accolto.” Ed allora mi chiedo quali siano state le risposte fornite alla Presidente della Regione Umbria Tesei che, su incarico della Conferenza Stato Regioni, aveva chiesto formalmente di conoscere come lo Stato intendeva coinvolgere le Regioni nella definizione del Recovery Plan. A tale proposito in più occasioni ho ricordato che in base ad una precisa sentenza della Corte Costituzionale si evince che ogni scelta a scala territoriale debba essere supportata da apposita “intesa tra Stato e Regioni” e avevo ricordato che nel caso della Legge 443/2001 (legge Obiettivo) fu necessario produrre un Decreto Legislativo, il 190/2002, attraverso il quale si assicurò il ricorso allo strumento della Intesa Generale Quadro tra Stato e Regioni; uno strumento che veniva sottoscritto dal Presidente del Consiglio, dal Presidente della Regione e dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. Ed allora diventa davvero pericoloso l’attuale comportamento adottato dal Governo nei confronti della Regione Sicilia e della Regione Calabria; cioè la completa assenza di risposte ad un accordo sottoscritto già dalle due Regioni sulla indispensabilità di un collegamento stabile, sulla necessità di dare avvio alla realizzazione di un intervento infrastrutturale pronto già da tempo. Ed allora, in un momento di diffuso attrito tra Stato e Regioni in merito alla gestione della sanità, ritengo opportuno ricordare che nella Costituzione all’articolo 117 tra l’altro viene precisato: “Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: …governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario…” Ed allora non si può sottovalutare questo dettato della Costituzione, non si può, anche in questo specifico caso, aprire uno scontro analogo a quello che stiamo vivendo sulle discrasie emerse sul comportamento delle singole realtà regionali nella gestione delle emergenze legate alla “pandemia”, in questo caso a commettere una forzatura non sarebbero le Regioni ma lo Stato. Voglio far notare che tra le materie di legislazione concorrente non c’è solo il governo del territorio, non ci sono solo i porti e gli aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione ma anche “l’armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica” e, in quanto assolutamente impreparato in questa tematica, non posso però sottovalutare questa specifica voce sulla armonizzazione dei bilanci pubblici in quanto il Recovery Plan ed in modo particolare le infrastrutture in esso contenute, se generano ricadute, se producono convenienze e variano il Prodotto Interno Lordo di determinate realtà regionali, non possono trovare un diretto e misurabile accordo tra le parti. Forse nel caso specifico l’accordo, la possibile intesa, avrebbe senso costruirla non solo tra le due Regioni Sicilia e Calabria ma tra lo Stato e tutte le Regioni del Mezzogiorno che accedono ai Fondi di Coesione e Sviluppo e cioè a tutte e otto le Regioni del Sud. Questa scelta a mio avviso è supportata da due distinte motivazioni:

Le Regioni del Sud utilizzano fino all’80% del Fondo di Coesione e Sviluppo

Le Regioni del Sud potrebbero selezionare e scegliere interventi i cui benefici potrebbero ricadere, in modo diffuso ed organico, sull’intero assetto geo-economico.

Spero che il Governo segua un simile itinerario, spero che le Regioni del Mezzogiorno comprendano la necessità di essere portatori di interessi non legati essenzialmente all’ambito territoriale di propria competenza ma a qualcosa che superi i livelli strategici legati spesso a finalità localistiche prive di un respiro sovraregionale. Penso sia abbastanza chiaro ma l’Unione Europea ci ha ancora una volta ricordato che il Ponte sullo Stretto non è un semplice collegamento fisico ma è una rivoluzione economica dell’intero assetto comunitario; spero che questo Governo comprenda queste ripetute sollecitazioni.

Dopo dieci anni l’appalto per il ponte crollato, la metafora del Sud abbandonato. Nel 2011 cedono due piloni del ponte ferroviario tra Gela e Caltagirone. Solo nei giorni scorsi Rfi ha annunciato lo stanziamento da 10 milioni di euro per la ricostruzione. Intanto per arrivare in treno a Catania (110 km di distanza) occorrono cinque ore. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 29 marzo 2021. Va bene l’elogio del tempo lungo, ma forse qualcuno ha scambiato l’invito a un "pensiero meridiano" del sociologo recentemente scomparso Franco Cassano con una richiesta di  lasciare davvero indietro di decenni i servizi ferroviari del Meridione. E consentire ai "fortunati" meridionali di viaggiare con lentezza e riflettere sull’esistenza o sulle sorti del Pianeta. Perché mentre il dibattito sulle grandi infrastrutture nel Meridione è incentrato sull’eterna diatriba sul Ponte dello Stretto, e sugli eterni progetti e cantieri delle linee veloci Napoli-Bari, Salerno-Reggio-Calabria e Palermo-Catania, nei giorni scorsi in Sicilia il governo Musumeci ha annunciato la comunicazione da parte di Rete ferrovie italiane dell’avvio della gara d’appalto da dieci milioni di euro per ripristinare una parte, piccola, del collegamento tra Gela e Catania interrotto dopo il crollo di un ponte all’altezza di Niscemi. Fin qui, nulla di strano. Senonché a ben vedere si scopre che il ponte in questione non è crollato qualche mese fa. Ma dieci anni fa, nel maggio 2011. Nel Sud a binario unico (la gran parte delle linee sotto Roma non hanno i due binari e alcune non sono nemmeno elettrizzate) ci son voluti dieci anni, dicasi dieci, per bandire una gara e programmare almento l’avvio del ripristino della linea che collega un pezzo di Sicilia a Catania. Un pezzo che conta centinaia di migliaia di abitanti tra Gela, Licata, Niscemi e altri paesini della zona.  Oggi per andare da Gela a Catania in treno e percorrere una distanza di circa 110 chilometri occorrono anche cinque ore, come raccontato dal TgrSicilia. Tre ore se si sceglie di andare in autobus fino a Caltagirone e da qui proseguire in treno per Catania. Ma attenzione: in realtà per ristrutturate tutta la tratta occorrono 265 milioni e al momento ne sono stati stanziati appena 90 milioni. Rfi ha già avviato la progettazione degli undici viadotti da Gela a Caltagirone ma, mancando ancora i fondi, chissà quando tornerà operativa del tutto questa tratta. Ora, per carità, applicare il modello Morandi utilizzato a Genova(con commissari e procedure semplificate per realizzare l’opera intera in meno di 24 mesi) ad un ponticello crollato a Sud del Sud in un angolo del Paese dimenticato da tutti, nessuno lo chiede. Ma festeggiare perché dopo dieci anni finalmente sono state stanziate le risorse per fare la gara (quindi passeranno ancora anni prima del ripristino della linea) sa davvero di beffa.  Ed è difficile consolarsi con questa "fortuna" di potersi muovere con lentezza. 

Perché l’Italia non può dire no al Ponte sullo stretto di Messina. Un’opera che ha subito tutti i filtri istruttori di natura tecnica ed economica e che ha portato a termine analisi soprattutto di carattere ambientale. Ercole Incalza su Il Quotidiano del Sud il 17 marzo 2021. Il quotidiano Il Messaggero il giorno 15 marzo ha pubblicato un articolo dal titolo: “Così il treno avvicinerà l’Italia: Salerno – Reggio Calabria, 60 minuti in meno e da Roma a Bari in appena tre ore” e ha riportato il seguente quadro sintetico che pubblichiamo in fondo. Questo quadro è senza dubbio carico di speranza ed anche di certezze perché, va dato atto alle Ferrovie dello Stato, di aver mantenuto quasi sempre gli impegni assunti nel tempo sulla realizzazione delle reti ferroviarie ad alta velocità e, se ritardi ci sono stati, nel maggior parte dei casi si è trattato di un ritardo nei trasferimenti di risorse da parte dello Stato o dei blocchi nell’avanzamento dell’approvazione dei progetti come quello effettuato sempre dal Governo dal 2015 in poi attraverso il metodo del project review. Questo quadro mette sì in evidenza un contenimento dei tempi di percorrenza ma denuncia chiaramente una irreversibile marginalizzazione della Sicilia. I siciliani otterranno una riduzione rilevante dei tempi di collegamento tra Palermo e Catania e per il resto la rete ferroviaria siciliana servirà solo per rispondere alle esigenze di mobilità interna dei siciliani, mentre per le merci, anno dopo anno, la movimentazione su strada annullerà del tutto quella su ferrovia, già oggi, sempre in Sicilia in avanzata fase di azzeramento. Allora a cosa è servito l’impegno della Unione Europea nel redigere il sistema delle Reti TEN – T, a cosa è valso il chiaro obbligo di dare continuità funzionale ai nove Corridoi plurimodali se poi oggi proprio il Corridoio Helsinki – La Valletta, che a tutti gli effetti possiamo considerare la spina dorsale dell’intero assetto comunitario a 27 Paesi, non trova la continuità territoriale tra la Sicilia ed il continente? Tra l’altro non credo sia sufficiente prendere in considerazione solo l’approccio del nostro Governo ancora non convinto della realizzazione di un simile intervento; è bene infatti ricordare che le Reti TEN – T sono state approvate dalla Commissione Europea e dal Parlamento Europeo e quindi rimangono allo stato l’unico riferimento pianificatorio della Unione Europea; un riferimento pianificatorio che non può essere in alcun modo disatteso dagli Stati membri della Unione Europea e, soprattutto, sarà utile conoscere come possa il nostro Paese rispondere correttamente alle finalità del redigendo Recovery Plan caratterizzato da una chiara finalità ad abbattere l’inquinamento atmosferico, come possa il nostro Governo rispondere al nuovo approccio green consentendo, però, contestualmente che oltre 60 milioni di tonnellate di merci, per oltre il 95%, si muovano in Sicilia solo su strada. Cioè come potranno continuare a difendere le loro idee i sostenitori del “collegamento stabile teorico” (dopo dirò cosa intendo per collegamento stabile teorico) quando si troveranno nell’isola di fronte ad una produzione di milioni di CO2 sempre più inarrestabile, quando assisteranno ad una incidentalità stradale sempre più crescente e ad un consumo energetico completamente antitetico con le finalità descritte proprio nelle linee guida e nel Regolamento per la Ripresa e la Resilienza approvato dal Parlamento Europeo? In realtà finora, sia nel Governo Conte II°, sia nell’attuale Governo, abbiamo assistito sì ad un crollo del tabù del collegamento stabile tra la Sicilia ed il Continente (sarebbe più igienico dire l’Europa) ma contestualmente abbiamo assistito prima all’effetto tartaruga della Commissione istituita dalla Ministra De Micheli sulla scelta della possibile soluzione, poi abbiamo assistito alla esigenza di approfondimenti, poi all’ultima dichiarazione del Ministro Giovannini sulla necessità di completare prima le varie reti, le varie infrastrutture direttamente e indirettamente interagenti con il collegamento stabile. Solo per un problema di età dal 1986, dalla data in cui è stato approvato il primo Piano Generale dei Trasporti, ho raccolto tutte le dichiarazioni non di coloro che erano contrari, perché va dato atto la loro onestà mentale è stata sempre trasparente e chiara, ma di coloro che “ritenevano l’opera essenziale ma solo a valle della sistemazione delle reti in Sicilia e in Calabria”, di coloro che “ritenevano opportuno prima della realizzazione di un’opera così impegnativa e senza dubbio essenziale effettuare una verifica approfondita delle ricadute economiche dirette ed indirette”, di coloro che “pur condividendo l’opera ritenevano opportuno effettuare, prima della scelta definitiva, un dibattito pubblico”. Potrei continuare ma penso emerga subito, da questa mia elencazione, che queste dichiarazioni, tutte mirate a realizzare quello che ho definito “collegamento stabile teorico”, non possono più concludersi e definirsi all’interno del Paese ma necessariamente la sede deve essere solo quella della Unione Europea e in quella sede dovranno far valere il proprio ruolo anche le Regioni del Mezzogiorno perché non ha senso ricevere risorse dal Fondo di Coesione e Sviluppo (30 miliardi da spendere ancora entro il 31 dicembre 2023 e circa 50 miliardi nel Programma 2021 – 2027) e poi non consentire al Mezzogiorno di disporre di un cordone ombelicale (il Corridoio Helsinki La Valletta) in grado di essere una arteria fluida capace di dare alla Sicilia e al Mezzogiorno tutti i gradi di libertà per interagire logisticamente con il vasto sistema comunitario. La cosa grave è che non si vuole dire di sì ad un’opera che ha subito tutti i filtri istruttori di natura tecnica ed economica, ad un’opera che ha portato a termine analisi sofisticate soprattutto di carattere ambientale, ad un’opera la cui cantierabilità è testimoniata dal fatto che è già stata spostata una tratta ferroviaria in Calabria per consentire la ubicazione di una delle due pile del Ponte. Allora forse è il momento di chiedere, proprio a questo Governo, che in questi giorni deve portare a termini due difficili scadenze, quali il Recovery Plan ed il Documento di Economia e Finanza, di non essere più sostenitore di coloro che vogliono il “collegamento stabile teorico” ma dica, apertamente che, purtroppo, il ponte incrinerebbe i rapporti con uno schieramento politico che senza alcuna motivazione ma solo come logica di schieramento è contrario da sempre alla realizzazione del Ponte. Il Paese, il Mezzogiorno e soprattutto l’Unione Europea non capiranno una simile decisione ma almeno porremo fine a questa folle ipocrisia non credo congeniale con un Governo presieduto da una personalità come quella di Mario Draghi.

·        Viabilità: Manutenzione e Controlli.

Binario d'oro. Report Rai PUNTATA DEL 20/12/2021 di Danilo Procaccianti. Collaborazione di Marzia Amico, Norma Ferrara, Alessia Marzi. Immagini di Cristiano Forti, Dario D'India, Paolo Palermo e Andrea Lilli

Montaggio e grafica Monica Cesarani.  

Un viaggio in Ferrovie dello Stato tra polizze misteriose e appalti. Ferrovie dello Stato è una delle prime aziende italiane per numero di dipendenti, ne ha 83.000 ed è una società per azioni  controllata al 100% dal Mef, quindi controllo interamente pubblico. Negli ultimi 30 anni con la fiscalità generale sono andati 470 miliardi di euro a ferrovie, un quinto del debito pubblico. Le ferrovie sono pesantemente sussidiate perché considerate un servizio sociale. Eppure ci sono posti in Italia dove il treno è un miraggio. In Sicilia ci vogliono 11 ore per andare da Catania a Trapani, 13 ore da Trapani a Ragusa. Con il PNRR alle ferrovie andranno 25 miliardi. Sono in buone mani? Una recente inchiesta della Procura di Napoli ipotizza il coinvolgimento del clan dei casalesi negli appalti di Rete Ferroviaria Italiana e poi c'è l'inchiesta della procura di Roma sul settore assicurativo di Ferrovie dello Stato, con la polizza misteriosa dell'ex amministratore delegato Gianfranco Battista che ha avuto un risarcimento per malattia di 1.6 milioni di euro. Una cifra enorme e non lontanamente paragonabile ai risarcimenti riconosciuti ai familiari delle vittime della strage di Viareggio.

“BINARIO D’ORO” Di Danilo Procaccianti Collaborazione Marzia Amico – Norma Ferrara – Alessia Marzi Immagini Cristiano Forti – Dario D’India – Paolo Palermo – Andrea Lilli Montaggio e grafica Monica Cesarani

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO 140 telecamere all’improvviso hanno cercato di contattare un sito esterno, un indirizzo ad oggi sconosciuto. Lo hanno fatto anche con una certa insistenza, circa 11mila volte all’ora. Ma per fare cosa? Per distribuire, far uscire dati, immagini, oppure perché c’era qualcuno che da remoto aveva interesse a controllare il sistema di videosorveglianza di un luogo strategico per il nostro paese. Ecco, era un fatto che fino ad oggi era rimasto sconosciuto, Report ne è venuto a conoscenza, e vi daremo più tardi tutti i dettagli. Dopo aver parlato dell’inchiesta sulla più grande stazione appaltante del nostro paese. Rete Ferrovie dello Stato. Ecco, stanno per arrivare 31 miliardi circa dal PNRR, come verranno spesi? Intanto, come è stata gestita Ferrovie dello Stato? Dal 1990 fino al 2016 ci è costata poco meno di 500 miliardi di euro. Altro che Alitalia che da sola nel dopoguerra ad oggi ci è costata quanto un solo anno di Ferrovie dello Stato: dai 10 ai 12 miliardi. Ora Ferrovie dello Stato è una delle aziende più importanti di Italia, con più dipendenti, 83 mila dipendenti e anche se si tratta di una società privata ad azioni, è controllata al 100 per 100 dallo Stato. E contribuisce in maniera sostanziale a Ferrovie dello Stato perché viene giudicato un servizio sociale. Ora però nessuno chiede conto se a tanti contributi corrispondono servizi di qualità. Lo Stato non li chiede. Ferrovie dello Stato perché dovrebbe rendicontare? Anche perché dovrebbero farlo quei manager che poi metterebbero in discussione compensi e buone uscite milionarie. Ora stanno per arrivare 31 miliardi dal PNRR e il nostro Danilo Procaccianti ha fatto la due diligence a Ferrovie dello Stato. Sono emerse delle criticità, dei bandi fatti su misura, delle polizze assicurative un po’, un tantinello troppo alte, poi appalti in odore di camorra. È anche emerso anche un misterioso viaggio di una pennetta su un Frecciarossa Roma-Milano, che conteneva lettere anonime che poi si sono trasformate in interrogazioni parlamentari. Non è che alla fine rispuntano i soliti nomi? Il nostro Danilo Procaccianti.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Abbiamo immaginato di essere turisti in Sicilia. Dopo l’Etna e Catania, vogliamo visitare le bellezze di Trapani e provincia. Decidiamo di spostarci in treno, visto che non stiamo parlando di posti sperduti ma di un importante collegamento tra due capoluoghi di provincia. Facciamo il biglietto alla stazione di Catania, orario di partenza 9.15. Ed ecco la prima sorpresa: non si parte in treno ma con un autobus sostitutivo, ci sono lavori sulla linea. Prima fermata Dittaino, provincia di Enna, si scende dal bus ed ecco finalmente il treno: arriviamo a Palermo alle 12.34. Una volta a Palermo, però, il grosso dovrebbe essere fatto visto che per Trapani mancano solo 100 km. Il nostro treno riparte alle 13.11, ma si ferma a Piraineto, stazione al centro del nulla poco fuori Palermo. Dopo più di due ore di attesa arriva la nostra coincidenza che però non ci porta a Trapani, la linea diretta è infatti interrotta a causa di alcune frane.

GIOSUÈ MALAPONTI – COMITATO PENDOLARI SICILIANI Da febbraio del 2013 diversi smottamenti sul tratto della via Milo che per otto anni ancora giacciono lì senza nessun intervento.

DANILO PROCACCIANTI 2013, ho capito bene?

GIOSUÈ MALAPONTI – COMITATO PENDOLARI SICILIANI Sì, otto anni fa

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Dopo nove anni, solo pochi giorni fa è stato pubblicato il bando di gara per i lavori. E allora, invece che andare dritti per Trapani, scendiamo giù fino a Castelvetrano, cambiamo treno e risaliamo per Trapani, dove arriviamo alle 19.00: 10 ore per fare appena 330 chilometri. Non va meglio all’indomani, quando da Trapani vogliamo andare a Ragusa, altro capoluogo di provincia, altra perla del Barocco siciliano. Si parte alle 6.50 del mattino. Arriviamo a Ragusa alle 22: ben 15 ore di viaggio per fare circa 300 km. Il terzo giorno da Ragusa rientriamo a Catania e proviamo anche l’ebrezza del furgoncino sostitutivo. Una cosa temporanea?

GIOSUÈ MALAPONTI – COMITATO PENDOLARI SICILIANI Esattamente maggio 2011 crolla un’arcata del ponte e, ahimè, da dieci anni il traffico ferroviario fra Caltagirone e Gela è interrotto e si fa con bus sostitutivi. Anche lì, oggi assistiamo a un finanziamento di dieci milioni di euro per la riprogettazione del viadotto.

DANILO PROCACCIANTI Cioè i lavori non sono iniziati?

GIOSUÈ MALAPONTI – COMITATO PENDOLARI SICILIANI No, che io sappia no

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Qui nessun modello Morandi, il ponte è stato fatto saltare nel 2014 e di lavori per la ricostruzione neanche l’ombra. E noi, per fare appena 100 km, ci abbiamo impiegato quattro ore: un disastro che nemmeno i politici possono far finta di non vedere.

DANILO PROCACCIANTI Io ci ho messo 11 ore da Catania a Trapani, 13 ore da Trapani a Ragusa, quattro ore per fare cento chilometri da Ragusa a Catania. Che ferrovie sono queste? Cioè, da terzo mondo?

NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Sì, da terzo mondo ed è quello che ho detto al ministro dei Trasporti. Il guaio è che prima di dirlo a Giovannini, l'ho detto alla De Micheli, che l'ha preceduto, e prima di dirlo alla De Micheli l'ho detto a Toninelli.

DANILO PROCACCIANTI Però lei è il presidente della regione

NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Quindi?

DANILO PROCACCIANTI Cioè, lei è uno che conta, non è un passante

NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Bravo e conto fino a dieci dopodiché dovrei mandare a quel paese i miei interlocutori a meno che lei non creda che io debba avere la vocazione del suicidio, mi metto al centro di un binario appena passa il treno con un biglietto scritto e dire: mi ammazzo perché il governo centrale da 70 anni non potenzia le ferrovie in Sicilia

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Non sarà colpa di nessuno ma su 1369 km di linee ferroviarie in Sicilia, 1146 sono a binario unico e ben 578 km sono ancora non elettrificate: i treni vanno a gasolio

DANILO PROCACCIANTI Quanto abbiamo speso negli anni per le ferrovie italiane?

FRANCESCO RAMELLA - DOCENTE DI TRASPORTI, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO Dal 1990 al 2016 la spesa è di poco inferiore ai 500 miliardi.

DANILO PROCACCIANTI Quindi altro che Alitalia…

FRANCESCO RAMELLA - DOCENTE DI TRASPORTI, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO Ogni anno Ferrovie ci costa come Alitalia in tutto il dopoguerra.

DANILO PROCACCIANTI Parliamo di quanti soldi ogni anno?

FRANCESCO RAMELLA - DOCENTE DI TRASPORTI, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO Siamo intorno ai 10-12 miliardi.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Altro che Frecciarossa e Alta velocità, pensate: proprio pochi giorni fa si è fatto festa con tanto di taglio del nastro e brindisi perché sono arrivati i Frecciabianca, che nel resto d’Italia sono entrati in servizio dieci anni fa_ questi li hanno dismessi dalla Milano Lecce perché hanno fatto il loro tempo.

GIANCARLO CANCELLERI - SOTTOSEGRETARIO PER LE INFRASTRUTTURE E LA MOBILITÀ Se oggi voglio andare da Catania a Roma impiego 10 ore e 30. Con questo simbolo ci impieghiamo invece 7 ore e 10 quindi andiamo avanti compatti e uniti.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Dalle parole del sottosegretario Cancelleri sembrerebbe che questi treni siano più veloci e riducano i tempi di percorrenza in realtà non è così. Guardate: da Palermo a Catania il Frecciabianca impiega 3 ore e 7 minuti, il semplice regionale veloce ne impiega 3 ore e 9 minuti e addirittura il successivo regionale impiega due minuti in meno. Quello che cambia è solo il prezzo, che è il doppio.

DANILO PROCACCIANTI Ma che cos'è questa cosa? Più una roba di marketing, diciamo.

GIANCARLO CANCELLERI - SOTTOSEGRETARIO PER LE INFRASTRUTTURE E LA MOBILITÀ No, non è una roba di marketing perché i siciliani oggi per andare a Roma con l'unico servizio che c'è, l’Intercity, ci stanno 10 ore 30. Con questo qui, che tu lo dici marketing, ci stanno 7 ore e 30.

DANILO PROCACCIANTI Il treno in sé non è più veloce, ha il bar in più

GIANCARLO CANCELLERI - SOTTOSEGRETARIO PER LE INFRASTRUTTURE E LA MOBILITÀ Ti garantisce le coincidenze, nessun altro treno ti garantisce questo ed è una cosa molto importante.

DANILO PROCACCIANTI Sì, però, se questa roba qui la facevamo con un regionale veloce era uguale se mettevamo a posto le coincidenze questo dico, non è il treno che cambia

GIANCARLO CANCELLERI - SOTTOSEGRETARIO PER LE INFRASTRUTTURE E LA MOBILITÀ Però è il servizio Freccia che noi garantiamo anche. Cioè scusa, i siciliani perché non dovrebbero avere diritto ad avere il bar a bordo e il servizio Freccia!

 DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Anche i siciliani devono avere il bar e ci sembra giusto, tanto paga sempre Pantalone visto che il Frecciabianca, che dovrebbe sostenersi con il prezzo dei biglietti, nel primo mese di vita ha avuto circa 20 viaggiatori a tratta: ne servirebbero 140 per mantenersi. Alla fine, lo Stato tapperà l’ennesimo buco e nessuno chiederà conto.

MARCO PONTI – GIA’ ORDINARIO DI ECONOMIA, POLITECNICO DI MILANO Non c'è una rendicontazione nemmeno minima dei risultati degli investimenti.Lo Stato non chiede quanto traffico è arrivato su quella linea. Se io metto lì dei soldi pubblici, io Stato devo chiedere i risultati che quei soldi dei contribuenti hanno generato alla collettività.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nel PNRR ci sono circa 25 miliardi per le ferrovie e almeno due miliardi andranno in Sicilia. Sembrava una manna dal cielo per colmare il gap infrastrutturale e invece?

NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Hanno previsto soltanto le opere che erano presenti nel piano regionale dei trasporti della legge obiettivo. Hanno recuperato tutti i progetti che avevano nel cassetto, li hanno fatti aggiornare in alcuni mesi e li hanno resi proponibili per il PNRR.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Proprio così, la maggior parte dei soldi sono stati convogliati nella cosiddetta Alta velocità Palermo/Catania e sembra una beffa perché di quest’opera se ne parla da almeno 20 anni: era già stata finanziata e dovrebbe essere addirittura quasi ultimata. I soldi del PNRR sostituiscono finanziamenti esistenti per un miliardo e cento milioni e aggiungono solo 317 milioni di nuove risorse.

NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Nel PNRR ci sono i progetti dello Stato, sono quelli del piano di mobilità del 2001. Sono passati 20 anni, quindi penso che fra dieci, quindici anni avremo le opere realizzate, solo che il PNRR dice che bisogna completarli entro il 2026. Naturalmente io ho tutte le buone ragioni per non farmi illusioni.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Fa bene il presidente Musumeci a non illudersi, sebbene le opere del PNRR andrebbero ultimate entro il 2026, alcune tratte dell’alta velocità Palermo/Catania/Messina, finanziate con il PNRR, saranno completate già da cronoprogramma ufficiale nel 2029, figuriamoci se poi ci saranno ritardi. Insomma, l’opera in sé non sarà molto veloce. Quanto, poi, al risultato finale, si tratta di vera alta velocità?

FRANCESCO RUSSO - DOCENTE DI TRASPORTI UNIVERSITÀ MEDITERRANEA REGGIO CALABRIA A lavori completati si percorrerà la Palermo-Catania in due ore quindi due ore per fare 200 chilometri vuol dire 100 chilometri di media. L'alta velocità è a 300 chilometri quindi non credo che si possa usare la definizione di alta velocità.

DANILO PROCACCIANTI E che tipo di progetto è?

FRANCESCO RUSSO - DOCENTE DI TRASPORTI UNIVERSITÀ MEDITERRANEA REGGIO CALABRIA Un ottimo progetto di intervento straordinario, di manutenzione straordinaria sulla linea

DANILO PROCACCIANTI Che però, diciamo, questa cosa qui si poteva fare vent'anni fa.

FRANCESCO RUSSO - DOCENTE DI TRASPORTI UNIVERSITÀ MEDITERRANEA REGGIO CALABRIA Sì in effetti c’è stato un poco di ritardo sul fare le linee siciliane, trent'anni, diciamo, di ritardo.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Sull’onda della fretta per la presentazione del Pnrr, per la Sicilia sono stati approvati i progetti vecchi che già erano nel cassetto. Basta attraversare lo Stretto, però, e la filosofia cambia radicalmente. Il PNRR prevede infatti una linea alta velocità nuova di zecca tra Salerno e Reggio Calabria, una linea di cui non c’è nemmeno il progetto esecutivo

PAOLO BERIA – PROFESSORE ASSOCIATO ECONOMIA DEI TRASPORTI, POLITECNICO DI MILANO Quello che è circolato finora è una parte dello studio di fattibilità, quindi è evidente che la Salerno-Reggio Calabria non può stare nel Pnrr cioè non ci sta fisicamente perché nel 2026, probabilmente, ci sarà la progettazione completa.

DANILO PROCACCIANTI E già questa è una notizia perché, appunto, dovremmo avere opere pronte, invece lei dice forse il progetto

PAOLO BERIA – PROFESSORE ASSOCIATO ECONOMIA DEI TRASPORTI, POLITECNICO DI MILANO Mi sembra irrealistico che si possa arrivare a completare un'opera di quella entità, stiamo parlando di circa 27 miliardi la previsione, e di una roba da 160 chilometri di gallerie negli Appennini.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il punto è che, proprio per i costi esorbitanti, questa linea rischia di diventare l’eterna incompiuta come è stato per la sua gemella autostradale. L’opera, infatti, dovrebbe costare circa 24 miliardi di euro ma con il PNRR, direttamente, ne arrivano solo 1,8

DANILO PROCACCIANTI Quindi nel Pnrr dovrebbe esserci scritto non “nuova linea Salerno-Reggio Calabria” ma un pezzetto di linea

PAOLO BERIA – PROFESSORE ASSOCIATO ECONOMIA DEI TRASPORTI, POLITECNICO DI MILANO Sì

DANILO PROCACCIANTI E tutto il resto?

PAOLO BERIA – PROFESSORE ASSOCIATO ECONOMIA DEI TRASPORTI, POLITECNICO DI MILANO E il resto, il resto sono quasi dieci miliardi che sono il fondo complementare, sono soldi aggiuntivi peraltro a debito

DANILO PROCACCIANTI E il resto si vedrà.

PAOLO BERIA – PROFESSORE ASSOCIATO ECONOMIA DEI TRASPORTI, POLITECNICO DI MILANO E il resto si vedrà, sì.

MARCO PONTI – GIA’ ORDINARIO DI ECONOMIA, POLITECNICO DI MILANO Questo è il peggiore dei mali e purtroppo è, però, quello che i costruttori desiderano cioè che si aprano i cantieri perché sanno che non si potranno più chiudere.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora se questo è un test su come verranno spesi i soldi del PNRR, insomma si parte con il piede sbagliato. L’esempio della Salerno-Reggio Calabria, la linea ferroviaria sarà finanziata per metà dai soldi del PNRR. Il cronoprogramma? Parliamo di 22 miliardi di euro, prevede che i lavori debbano essere terminati entro il 2016. E sapete dove termineranno? A pochi chilometri da Cosenza, una cittadina, Tarsia, di circa 2 mila abitanti. E il resto? Boh, vedremo. Quello che è certo è che il PNRR sarebbe stata l’occasione giusta per modificare il volto delle Ferrovie Siciliane. E invece in qualche modo sono finiti per finanziare dei progetti già finanziati che rientravano nel piano mobilità del 2001. E allora uno si chiede ma perché se non sono riusciti in vent’anni a chiudere queste opere, lo faranno in 5? Poi nel caso specifico, per esempio, della Palermo-Catania non si tratterebbe appunto di un valore aggiunto il finanziamento, ma della sostituzione di un finanziamento già avvenuto. E anche là insomma, siamo certi che riusciranno a chiudere l’opera nel 2026, perché da cronoprogramma è previsto che i lavori potrebbero finire nel 2029. Cioè 3 anni oltre. E poi anche se riuscissero, non si tratterebbe di alata velocità perché è previsto, stimato che i treni viaggerebbero in una velocità media di 100 chilometri orari, quando l’alta velocità ne richiederebbe almeno 300. Insomma, alla fine faranno con i soldi del PNRR una bella manutenzione della linea. Il vecchio lucidato è accolto come il nuovo in Sicilia e la beffa è avvenuta pochi giorni fa quando è stato presentato il nuovo Frecciarossa che da Milano arriverà a Parigi in sole 6 ore. Costo del biglietto: 29 euro. Mentre invece sono stati portati Frecciabianca in Sicilia, sulla linea Palermo-Catania; costo del biglietto 28 euro. E non erano neppure nuovi perché per dodici anni hanno viaggiato sulla tratta Milano-Bari-Lecce, insomma in Puglia, poi sono stati messi sulla tratta siciliana. Tuttavia sono stati accolti con trionfalismo dalla politica, dall’imprenditoria, dalla nobiltà siciliana perché consente loro di prendere sul treno un caffè… troppo caro gli costa… 14 euro in più… anche se poi impiegano anche addirittura qualche minuto in più a volte del regionale veloce perché poi alla fine la linea quella è. A questo punto c’è da chiedersi, ma un siciliano quando paga le tasse, che cosa paga? Sostanzialmente paga l’alta velocità a chi la percorre tra Milano e Roma. E poi di chi sono le responsabilità quando una linea ferroviaria invece rimane interrotta per dieci anni a causa di una frana o di un ponte interrotto? Sicuramente della politica. È nelle more si fregano le mani quegli imprenditori che con i mezzi di… i bus portano la gente sui percorsi alternativi, passeggeri che dovrebbero prendere il treno. Leader nel campo è Autoservizi Cuffaro, la società che fa riferimento ai fratelli dell’ex governatore Totò Cuffaro. Nel 2020, non bisogna dimenticarselo, Ferrovie dello Stato è stata sicuramente la società appaltante più importante del nostro paese. Da sola ha stanziato 14 miliardi per il 40 per cento degli appalti totali del nostro paese. Ecco, secondo la magistratura napoletana, alcuni di questi sarebbero andati in aziende… ad aziende che sono in odore di camorra. E non è una camorra qualsiasi, ma quella che farebbe riferimento a Sandokan, capo dei Casalesi.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Questo è il palazzo delle Ferrovie dello Stato. Proprio qui sarebbe arrivata la camorra. I Casalesi avrebbero messo le mani sugli appalti. Lo ipotizza un’inchiesta della procura di Napoli. Da alcuni documenti esclusivi siamo risaliti alle registrazioni degli ingressi presso la sede di Ferrovie. In particolare, ci interessa questo nome, Nicola Schiavone. Entra in Ferrovie di continuo, ogni settimana, più volte a settimana. Andava a trovare tutti i dirigenti di Rete ferroviaria italiana, era di casa lì. Ma Nicola Schiavone non è uno qualsiasi perché è compare di Francesco Schiavone detto Sandokan, il boss dei Casalesi a cui ha battezzato il figlio. È stato anche imputato nel processo Spartacus, da cui è uscito completamente assolto

DANILO PROCACCIANTI Chi è questo Nicola Schiavone, l’imprenditore?

ROSARIA CAPACCHIONE – GIORNALISTA E SENATRICE PD 2013 – 2018 Aveva rapporti come subappaltatore per le Ferrovie dello Stato, poi RFI, a un certo punto questi rapporti sono diventati più forti e si sono consolidati

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Un salto che, secondo le ipotesi investigative, sarebbe stato fatto grazie ai soldi dei Casalesi, come ha dichiarato di recente la moglie del capo clan Francesco Schiavone detto Sandokan usando un’efficace metafora: “Nicola Schiavone - dice - usa il lievito madre che tanti anni fa ha preparato mio marito”.

ROSARIA CAPACCHIONE – GIORNALISTA E SENATRICE PD 2013 – 2018 Li ha messi in condizione di lievitare, di crescere, senza mai comparire. Da questo accordo non scritto poi la camorra è arrivata al cuore della finanza nazionale.

GIOVANNI ESPOSITO FARIELLO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE È l'ipotesi che non funziona perché io a sostegno della falsità dell'ipotesi le offro sentenze, accertamenti giudiziari, due procedimenti penali nei quali è stata esclusa in radice l'appartenenza delinquenziale camorristica di Nicola Schiavone.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Le nuove indagini della procura, però, partono da una intercettazione ambientale successiva al processo Spartakus. Nel carcere di Parma dove è rinchiuso al 41 bis, Francesco Schiavone Sandokan parla con la figlia Angela che si sarebbe sposata da lì a poco, gli dice di rivolgersi a Nicola Schiavone per qualsiasi esigenza di natura economica.

DANILO PROCACCIANTI Dottor Schiavone, buongiorno, sono Danilo Procaccianti, sono un giornalista di Report. Siccome mi sto occupando di quella vicenda che la riguarda, insomma.

NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Eh, guardi in questo momento mi trova in disagio perché ho gli avvocati sopra che mi stanno aspettando per cui se mi lascia un bigliettino, poi, le daranno conto gli avvocati.

DANILO PROCACCIANTI Però intanto che, insomma, che mi può dire insomma, il suo figlioccio dice che le sue imprese hanno lavorato coi soldi dei casalesi

NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Allora, guardi

DANILO PROCACCIANTI Non è vera questa storia?

NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Guardi non è vero nulla e parleranno i miei avvocati per me

 DANILO PROCACCIANTI che l'ha battezzato, sì è vero?

NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Allora non è vero niente, non è vero nulla per cui è inutile che vi mettete a...

DANILO PROCACCIANTI però insomma sono…

NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Guardi non essere invadente, io vi do tutta la disponibilità

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nicola Schiavone non vuole parlare ma c’è un altro Nicola Schiavone che invece parla, eccome se parla. Si tratta del figlio di Sandokan, che ha iniziato a collaborare con la giustizia nel 2018. Ha parlato molto del suo padrino imprenditore

NICOLA SCHIAVONE – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA “La crescita economica e sociale dei fratelli Nicola e Vincenzo Schiavone è senza dubbio legata agli aiuti ed al sostegno iniziali che mio padre prima direttamente nei confronti di Nicola e successivamente mio zio Walter nei confronti di Vincenzo, hanno fornito loro. Se dovessi offrirvi un esempio per farvi comprendere di che tipo di personaggio stiamo parlando, potrei paragonarlo a Luigi Bisignani, ovvero a un importante faccendiere, un facilitatore. Ricordo in particolare che in occasione del mio matrimonio mi regalò la somma di ventimila euro in contanti”.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Dai racconti del collaboratore emerge che i rapporti tra l’imprenditore Nicola Schiavone e il clan dei Casalesi sarebbero stati continui negli anni e lo stesso imprenditore si sarebbe anche interessato delle vicende giudiziarie della famiglia Schiavone

NICOLA SCHIAVONE – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA “Con riferimento alla questione degli avvocati ricordo senz'altro che Schiavone Nicola, che come ho già detto è il mio padrino di battesimo, ha pagato per me l'avvocato Esposito Fariello, pagò la somma di lire venticinque milioni”.

DANILO PROCACCIANTI Su queste cose che dite?

GIOVANNI ESPOSITO FARIELLO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE Le affermazioni di questo ragazzo, ragazzo una volta, di questo, questa persona sono prive di qualsiasi verificazione.

DANILO PROCACCIANTI Ma ‘sto Nicola Schiavone quindi, junior, si alza la mattina e parla di Nicola Schiavone senior perché? lo vuole distruggere?

GIOVANNI ESPOSITO FARIELLO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE Questa è la domanda che deve fare a lui

UMBERTO DEL BASSO DE CARO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE Il tema è quello del riscontro. Io dico di una persona: quella persona è stato fortemente aiutato le sue imprese, e scusate ma un'impresa la vogliamo indicare una, un lavoro, ecco

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Non sappiamo se il collaboratore abbia indicato lavori e imprese ma noi attraverso documenti esclusivi abbiamo scoperto che per gli inquirenti Nicola Schiavone risulterebbe il dominus di una serie di imprese a lui non direttamente riconducibili come il consorzio IMPREFER, formato dalle aziende TEC, Macfer, e in passato anche ITEP, imprese intestate a terzi ma di fatto controllate e gestite da Nicola Schiavone DANILO PROCACCIANTI Il punto è che adesso arriveranno tanti miliardi, no

ROSARIA CAPACCHIONE – GIORNALISTA E SENATRICE PD 2013-2018 il rischio serio e concreto è che è stato trovato diciamo per caso Nicola Schiavone con le sue imprese di subappalto con rete ferroviaria ma non sappiamo quanti altri Nicola Schiavone ci sono in giro per l'Italia

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Dell’inchiesta si è saputo perché ormai due anni fa circa sono partite delle perquisizioni nelle case e negli uffici di alcuni dirigenti di RFI, poi licenziati. Sarebbero stati dei consulenti occulti di Nicola Schiavone. Si tratta di Massimo Iorani, Piergiorgio Bellotti, Paolo Grassi e Giuseppe Russo. Sarebbero stati corrotti da Nicola Schiavone per favorirlo nell’assegnazione degli appalti o per far lievitare i costi di alcuni lavori come quelli della stazione di Contursi Terme o di Avezzano, come ci racconta una nostra fonte che preferisce rimanere anonima. FONTE ANONIMA Sì, Schiavone ha incontrato più volte il dirigente Giuseppe Russo, gli chiedeva di scrivere relazioni e perizie per ottenere una lievitazione diciamo economica per quanto riguarda la sottostazione di Contursi. Schiavone riempiva di regali tutti i dirigenti di RFI: cravatte Marinella, biglietti aerei, pranzi costosissimi. Pensate che nell’ufficio di Schiavone c’era proprio una lista con i diversi prodotti da dare poi ai diversi dirigenti di Rfi: che ne so, babà, mozzarelle, conserve di pomodori, un po’ di tutto insomma.

DANILO PROCACCIANTI Nicola Schiavone andava negli uffici dei dirigenti ad alti livelli di RFI per fare che cosa?

UMBERTO DEL BASSO DE CARO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE Il professore Schiavone non è mai stato imprenditore, è stato sempre consulente di società

DANILO PROCACCIANTI Però in questo senso si interessava, cioè se una delle imprese che lui seguiva

UMBERTO DEL BASSO DE CARO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE ma lui la seguiva per le qualifiche DANILO PROCACCIANTI perdeva una gara, poteva andare lì e dire perché è stata esclusa.

UMBERTO DEL BASSO DE CARO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE No, assolutamente no. Lui si interessava della fase preliminare.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Le cose non starebbero proprio così. Massimo Iorani era un dirigente apicale di RFI nella Direzione Acquisti e Direzione Produzione. Era responsabile del procedimento di molte gare d’appalto e responsabile degli accordi quadro. F

ONTE ANONIMA Sì, Iorani era considerato una sorta di consigliere occulto di Schiavone, ecco. Dopo una gara d’appalto in cui l’azienda riferibile a Schiavone aveva perso, fu lo stesso Iorani a suggerirgli a Schiavone di fare ricorso al Tar, e gli diede anche degli appunti per il suo avvocato, ecco.

DANILO PROCACCIANTI Sono Danilo Procaccianti, sono un giornalista, volevo parlare con lei un attimo se era possibile

MASSIMO IORANI – EX MANAGER RETE FERROVIARIA ITALIANA A proposito di che?

DANILO PROCACCIANTI A proposito di quella inchiesta che la riguardava.

MASSIMO IORANI – EX MANAGER RETE FERROVIARIA ITALIANA No, guardi non è il caso

DANILO PROCACCIANTI Sono accuse pesanti insomma

MASSIMO IORANI – EX MANAGER RETE FERROVIARIA ITALIANA Non in questo momento

DANILO PROCACCIANTI Cioè, è accusato di aver favorito Schiavone

MASSIMO IORANI – EX MANAGER RETE FERROVIARIA ITALIANA C'è un pm che da molto tempo ha le carte in mano. Stiamo aspettando con grande pazienza che si decida a leggerle e a fare delle considerazioni. A qualcuno fa comodo buttare la croce addosso a qualcun altro che non c'entra niente. Però io non le posso, non possiamo entrare nel merito con lei, perché è un pour parler, capisce

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Con noi non vuole parlare ma nei documenti del ricorso che vi mostriamo in esclusiva l’ingegner Iorani nega di aver mai favorito Nicola Schiavone ma ammette che l’imprenditore frequentava abitualmente la sede di RFI e tira in ballo l’allora amministratore delegato Maurizio Gentile che, secondo Iorani, si dava del tu con Schiavone e riceveva da lui omaggi in occasione delle festività.

MAURIZIO GENTILE - AD RETE FERROVIARIA ITALIANA 2014-2020 Il Signor Schiavone l'ho incontrato diverse volte, lui veniva in ufficio, faceva il pass. L’ho incontrato in situazioni ufficiali, non l'ho mai incontrato di nascosto, mai parlato di gare, mai parlato di queste cose qui, mai chiesto nulla che fosse fuori le righe, almeno con me.

DANILO PROCACCIANTI Ma è normale che lui venisse tutte quelle volte?

MAURIZIO GENTILE - AD RETE FERROVIARIA ITALIANA 2014-2020 oggettivamente non è normalissimo, no. Diciamo che dal punto di vista del tenere le relazioni era piuttosto insistente, mettiamola così

DANILO PROCACCIANTI Però l'ingegner Iorani nel suo ricorso scrive che Schiavone si dava del tu con Gentile, a Gentile faceva sempre regali

MAURIZIO GENTILE - AD RETE FERROVIARIA ITALIANA 2014-2020 Ma quando mai, ma non è vero. Vede, l’ingegneri Iorani, è stato licenziato per il codice etico. Voglio dire, non è stato in grado di giustificare perché, per come, si sia fatto pagare una vacanza costosa a Positano.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Gli investigatori hanno scoperto che l’ingegner Iorani nel 2018 ha fatto le vacanze sulla costiera amalfitana. Dall’8 al 12 settembre, qui, nel meraviglioso hotel san Pietro di Positano. Poi, dal 12 al 14 settembre, all’hotel Bellevue Syrene di Sorrento. A pagare le vacanze sarebbe stato proprio Nicola Schiavone.

DANILO PROCACCIANTI Avrebbe pagato questa vacanza all'ingegnere Massimo Iorani nella costiera amalfitana

UMBERTO DEL BASSO DE CARO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE Non è oggetto del procedimento DANILO PROCACCIANTI Ma nel merito vi risulta che abbia pagato le vacanze?

UMBERTO DEL BASSO DE CARO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE Assolutamente no.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ed eccoli in esclusiva i fotogrammi delle telecamere interne dell’albergo in cui si vede Schiavone nel momento in cui avrebbe pagato le vacanze del dirigente di RFI. D’altronde, nel ricorso contro il licenziamento fatto da Iorani è lui stesso che ammette il pagamento della vacanza ma a sua insaputa, lo avrebbe scoperto solo al check-out. Iorani aggiunge di aver manifestato disappunto e imbarazzo e dice di aver poi rimborsato Schiavone con 6mila euro, di cui però non ci sarebbe traccia.

DANILO PROCACCIANTI Il fatto che però ha pagato le vacanze a un dirigente

NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Non ho pagato nessuna vacanza, faccia le verifiche

 DANILO PROCACCIANTI Come no? Lo dicono gli inquirenti

NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Niente, niente, niente non è vero niente.

DANILO PROCACCIANTI Risultano… anche, insomma, non è vero nemmeno questo

NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Guardi, non è vero niente, preferisco non parlare

DANILO PROCACCIANTI E il fatto che andava sempre in RFI, lei non aveva di fatto delle imprese

NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Io ho titolo per andare in Rfi, sono un consulente di aziende nazionali e internazionali.

DANILO PROCACCIANTI Eh, ma ci andava ogni settimana, ogni settimana era lì, cioè nemmeno chi ha imprese ci va ogni settimana.

NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Io, io avevo più aziende di consulenza, facevo consulenze ad aziende nazionali e internazionali

DANILO PROCACCIANTI E quindi ci andava così? Anche il boss dice sto in galera anche per lui, anche questo non è vero?

NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Sì. Mi lasci il suo biglietto. È Report

SEGRETARIA DI NICOLA SCHIAVONE Vada via

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Se le indagini della magistratura confermassero questi indizi, ci troveremmo difronte alla faccia imprenditoriale della camorra. Va detto chiaramente che Nicola Schiavone è stato coinvolto nel processo Spartacus, con l’omonimo Schiavone, Sandokan, ma è uscito completamente assolto. Va detto anche chiaramente che questa è un’indagine di cui vi abbiamo parlato stasera preliminare, ancora nelle fasi preliminari, che nasce esclusivamente quando qualcuno si accorge che un signore con un cognome ingombrante entra ed esce da Rete Ferroviarie Italiane, dalla stazione appaltante più importante del nostro paese, come se fosse a casa sua. Anche con orari improbabili. Il nostro Danilo ha raccolto testimonianze che Schiavone entrava addirittura alle 16 del pomeriggio e usciva alle 6 di mattina. Ma per fare cosa? Si muoveva come se fosse a casa sua, incontrava direttori degli acquisti, incontrava addirittura il top management, l’ex ad Gentile ci ha detto: sì è vero l’ho incontrato, ma non sapevo chi fosse. Il cognome però insomma, una campanellina… l’avrebbe dovuta far suonare. Mentre tutti gli altri dirigenti sono stati indagati, compreso Massimo Iorani, direttore degli acquisti della società. L’attuale invece management di Ferrovie dello Stato ci tiene a far sapere che ora non sarebbe stato più possibile effettuarsi di queste pratiche perché sono stati messi in piedi strumenti e presidi anticorruzione. Le aziende coinvolte legate a Schiavone sono uscite dalla white-list, e quindi sono state eliminate. I dirigenti coinvolti nell’inchiesta sono stati licenziati perché avrebbero violato il codice etico. Ecco, compreso anche, licenziato l’ingegner Iorani, che era quello che si era fatto pagare a sua insaputa dice, le vacanze sulla Costiera Amalfitana e Sorrentina. Solo che è stato licenziato perché non va bene a Ferrovie, è stato incaricato invece il 13 settembre scorso dal comune di Roma come direttore di un’importante opera pubblica. Retribuzione: 86 mila euro. Ora continua anche ad accumulare incarichi, Mauro Moretti, l’ex amministratore delegato di Ferrovie dello Stato italiane, è diventato amministratore delegato di Leonardo, la più importante azienda italiana n tema di tecnologia e armamenti, e oggi è amministratore delegato di PSC, un colosso dell’impiantistica delle infrastrutture e delle costruzioni, colosso internazionale. Ma Moretti, particolare non trascurabile, era amministratore delegato nel 2009, nel giugno del 2009 quando si è consumata la strage di Viareggio.

 AUDIO 29 GIUGNO 2009 Pronto, sono il macchinista del treno a Viareggio. Abbiamo deragliato, noi siamo scappati ma è scoppiato tutto.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Era il 29 giugno del 2009, un treno cisterna deraglia all’altezza della stazione di Viareggio. La prima cisterna si squarcia e fuoriesce gas gpl, che dopo un innesco esplode e distrugge un’intera via. Perdono la vita 32 persone, tutte per le ustioni riportate sul corpo. Proprio lo scorso gennaio è arrivata la sentenza di Cassazione ma dopo 12 anni, purtroppo, siamo lontani da un’idea di giustizia.

 VIDEO REAZIONI SENTENZA CASSAZIONE DANIELA ROMBI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Ho provato un dolore immenso come, come quando mi dissero che era morta mia figlia. Proprio non ci pensavamo, potevamo pensare a tutto ma l'incidente sul lavoro proprio no. Perché se non è questo un incidente sul lavoro, a me mi dovete dire quale è.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Non riconoscendo l’aggravante dell’incidente sul lavoro, la Cassazione ha mandato in prescrizione il reato di omicidio colposo e il desiderio di giustizia dei familiari delle vittime. Marco Piagentini porta ancora i segni delle gravi ustioni di secondo e terzo grado sul 90% del corpo. Quella notte perse sua moglie e due figli, il terzo figlio, Leonardo, per fortuna fu estratto vivo dalle macerie dopo quattro ore e mezza.

MARCO PIAGENTINI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Io ho un ricordo totalmente vivo e presente perché ero cosciente, vigile. Sto vigile finché non mi hanno estratto dalle macerie. Quindi ricordo ogni singolo istante di quei tre minuti in cui ho cercato di salvare la mia famiglia e che purtroppo non ci sono riuscito.

DANILO PROCACCIANTI Lei quella sera ha perso tutto, le è rimasto un figlio e la voglia di giustizia

MARCO PIAGENTINI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO E abbiamo ottenuto dei brandelli di giustizia. Come lo racconto a mio figlio, no? Dov'è la verità? E quindi la prescrizione la subiamo come un una spugna che cancella tutto quello che è la ricerca della verità.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Con la prescrizione dell’omicidio colposo la Cassazione ha deciso che si deve celebrare un nuovo processo d’appello per la determinazione delle pene per l’unico reato rimasto, il disastro ferroviario. Negli anni sono scomparsi i reati di incendio colposo e di lesioni colpose.

TIZIANO NICOLETTI – LEGALE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO È difficile poter spiegare a una madre che sa che il proprio figlio è morto ustionato che quel reato non esiste, dal punto di vista della giustizia non esiste più. D

ANIELA ROMBI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Ma di che cosa sono morti questi figli? Di che è morta mia figlia e le altre 31 persone? Loro sono responsabili anche dell'incendio che conseguentemente ha ucciso queste 32 persone che ricordiamocelo erano in casa. Sono state cancellate 32 vite per i soldi, per il profitto, per il guadagno.

 DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Salvatore Giannino è il pm che ha sostenuto l’accusa nel primo e secondo grado e adesso sta preparando il nuovo processo d’appello.

DANILO PROCACCIANTI I familiari delle vittime dicono

SALVATORE GIANNINO – SOSTITUTO PROCURATORE LUCCA E hanno ragione

DANILO PROCACCIANTI Senza l’omicidio

SALVATORE GIANNINO – SOSTITUTO PROCURATORE LUCCA Hanno ragione, hanno ragione è un nonsenso perché il fatto è lo stesso. Quelle stesse condotte poste in essere nello stesso tempo hanno fatto sì che morissero 32 persone, ci fosse l'incendio e l'esplosione delle case e ci fosse il disastro ferroviario.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il treno cisterna è deragliato perché un’asse era arrugginito e si è spezzato. Per questo sono stati condannati i proprietari stranieri del carro. E le nostre Ferrovie dello Stato? L’allora amministratore delegato Mauro Moretti disse subito che loro non c’entravano nulla perché il carro lo avevano noleggiato.

DAL TG1 DEL 30 GIUGNO 2009 Mauro Moretti: “Noi facciamo i controlli sui nostri carri, ogni proprietario fa i controlli sui suoi!”

DANILO PROCACCIANTI L'amministratore delegato di allora, di Ferrovie, Moretti, ha sempre detto non dovevamo controllare noi quelle cisterne

SALVATORE GIANNINO – SOSTITUTO PROCURATORE LUCCA Il processo ha stabilito che questo non corrisponde al vero. È sconfessata la linea difensiva che, con cui si sosteneva che la responsabilità fosse solo dei cosiddetti tedeschi

DANILO PROCACCIANTI Moretti ha sempre detto: noi, la società estera ci ha dato un foglio in cui si dice che la cisterna era stata controllata, a noi bastava quello, il processo non ha detto questo

SALVATORE GIANNINO – SOSTITUTO PROCURATORE LUCCA Non hanno controllato neanche quei fogli tanto per cominciare perché in quei fogli i nostri consulenti si sono accorti solo guardando quei fogli che il carro non poteva circolare in sicurezza. Una omissione gravissima per scelta perché la loro politica era proprio questa: io noleggio all'estero e non mi occupo più di nulla.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Mauro Moretti ha sempre rinunciato alla prescrizione ma oggi che la Cassazione ha rinunciato a un processo in corte d’appello la rinuncia di Moretti deve essere ribadita D

ANILO PROCACCIANTI Adesso però la Cassazione dice: se l'ingegner Moretti vuole rinunciare a prescrizione deve tornare in aula e dirlo nuovamente. È così?

MARCO PIAGENTINI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Sì, è proprio così e noi abbiamo sobbalzato sulla seggiola perché noi eravamo in aula, abbiamo udito bene le parole di Moretti di rinunciare alla prescrizione, pur consapevole che quella rinunzia non era solo per il processo in corso in appello ma sarebbe stata valida anche per gli ulteriori successivi gradi di giudizio. La Cassazione gli sta offrendo una via d'uscita. Adesso vediamo se Moretti veramente ha rinunciato alla prescrizione perché è una persona coerente oppure no.

MAURO MORETTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2006 - 2014 No, lasciatemi stare

DANILO PROCACCIANTI No, solo se ci conferma

MAURO MORETTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2006 – 2014 Per cortesia, non toccare

DANILO PROCACCIANTI Ma non la sto toccando, se ci conferma, se conferma

MAURO MORETTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2006 – 2014 Non confermo nulla a nessuno, parlo solo in tribunale

DANILO PROCACCIANTI Cioè, le famiglie aspettano queste notizie, è solo una domanda MAURO MORETTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2006 – 2014 Parlerò in tribunale

DANILO PROCACCIANTI Quindi ci sta pensando, insomma, non è scontato che rinunci alla prescrizione

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Chissà cosa deciderà Moretti che nonostante le condanne in primo e secondo grado non ha mai avuto ripercussioni sulla sua carriera, è rimasto amministratore delegato di Ferrovie fino al 2014, quando è stato nominato ad di Finmeccanica e poi nel 2021 ad di PSC Group. Nel frattempo, l’anno dopo la strage di Viareggio, nel 2010, era stato anche nominato cavaliere

DANIELA ROMBI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Non parliamo poi di Napolitano che è andato all'ospedale a trovare il bambino, unico bambino rimasto vivo di Marco. Questo bambino aveva otto, nove anni gli ha regalato anche il disegno. E neanche un anno dopo fa Cavaliere del Lavoro Mauro Moretti. Cioè io dico: ma lo stomaco dove l'hanno, l'anima, la coscienza dove ce l'hanno?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora negli anni sono caduti in prescrizione l’incendio e poi anche le lesioni colpose, ora è caduta anche l’accusa dell’aggravante dell’incidente sul lavoro che avrebbe avuto tempi di prescrizione più lunghi, ma caduta questa, ovviamente è cauta in prescrizione l’omicidio colposo. Per tutti tranne che per Moretti che aveva rinunciato ad onor del vero alla prescrizione, ora però la Cassazione avendo mandato in appello in Corte d’appello il procedimento, scrive in sentenza che Moretti dovrà dichiarare nuovamente di voler rinunciare alla prescrizione. Lo farà? Insomma, con noi non ha voluto parlare. Quello che è successo che la piccola procura di Lucca ha messo in atto tutti gli sforzi possibili per evitare la prescrizione ed arrivare ad una verità, ha mandato notifiche nella maniera più veloce possibile all’estero per gli imputati tedeschi, e poi ha cercato di far tradurre nella maniera più veloce possibile anche la sentenza in lingua tedesca. Ma si trattava di materia complessa e delicata. Il primo traduttore ha rinunciato a metà strada, il nuovo ha dovuto ricominciare tutto da capo, e ha impiegato circa un anno. E poi quando nel 2013 è cominciato il processo, lo Stato che avrebbe potuto far sentire la propria vicinanza alle vittime della strage di Viareggio, ha rinunciato a costituirsi parte civile. E ha trattato direttamente il risarcimento con le assicurazioni. Già le assicurazioni hanno da sempre un ruolo importante quando ci sono questi avvenimenti, hanno cercato di svuotare il più possibile il processo trattando con le parti risarcimenti, cercando di accordarsi per far partecipare al processo meno gente possibile. Ora una vita di una familiare morto nella strage di Viareggio vale circa 330 mila euro. Cosa diversa invece se l’assicurazione deve trattare il caso di malattia di un ex ad di Ferrovie, Battisti. Ora è stata pagata una polizza per malattia della bellezza di un milione e 600 mila euro. è una polizza… tutto legittimo, lo diciamo, che però ha scatenato una valanga. E proprio intorno a questa polizza che si scatena una guerra senza esclusione di colpi e anche di lettere anonime che viaggiano misteriosamente in una chiavetta sull’Alta Velocità Roma-Milano. Ecco, quelle lettere anonime che poi vengono trasformate in interrogazioni parlamentari… da chi?

 DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nella tragedia di Viareggio un ruolo fondamentale lo hanno avuto le assicurazioni, una in particolare, Generali, che è la compagnia assicurativa di Ferrovie dello Stato. Inizialmente, per volere dell’allora ad Mauro Moretti, non furono nemmeno attivate per la tragedia

 DANIELA ROMBI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO E disse che loro era, non era responsabilità loro, che questi che avevano fatto i controlli... La colpa era tutta dei tedeschi e quindi non avrebbero mai attivato le assicurazioni D

ANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Successivamente, però, quando si è capito che le cose non erano così semplici come li dipingeva l’ingegner Mauro Moretti, le assicurazioni non solo furono attivate ma assunsero un ruolo centrale nel processo

TIZIANO NICOLETTI – LEGALE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Hanno cercato di risarcire più possibile le parti civili, cioè hanno cercato di togliere dal processo più parti civili possibile.

DANIELA ROMBI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO A me vennero anche due anni fa. La prima volta mi davano, boh, 270mila, 370mila euro perché il cadavere della bimba costava 200, la sofferenza, la mamma aveva 50 anni, cioè io dissi al mio avvocato: ma che è una lista della spesa?

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Quello che pochi sanno è che per questo tipo di incidenti esistono delle vere e proprie tabelle che stabiliscono il risarcimento in base al danno subito

TIZIANO NICOLETTI – LEGALE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Per esempio, la perdita di un figlio va in una forbice che va da 160mila euro a 320mila euro.

DANILO PROCACCIANTI Cioè una vita vale al massimo 300mila euro?

TIZIANO NICOLETTI – LEGALE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Al massimo 331 mila euro, sì. Sono state riconosciute anche le sofferenze della vittima diretta, che ha sopravvissuto in maniera cosciente quindi consapevoli di essere ustionati, di andare verso la morte e di soffrire. Ecco, questa sofferenza delle vittime è poi stata quantificata: si va su 500, massimo 600mila euro comprensivo appunto della perdita del familiare, delle sofferenze e anche del danno materiale e abitazioni quindi queste sono le cifre.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Tutti questi calcoli non valgono sempre. È il caso di una polizza misteriosa che è costato il posto di amministratore delegato di ferrovie a Gianfranco Battisti. Si è scoperto che alla fine del 2014, quando ancora non era Ad di Ferrovie ma era a capo della divisione alta velocità, ha incassato un risarcimento da un milione e 600mila euro per una malattia invalidante. Una cifra enorme soprattutto se si tiene conto che in quell’anno Battisti non ha mai preso un giorno di malattia.

DANILO PROCACCIANTI Se uno che muore, poveraccio, prende, e ci sono stati anche dirigenti che sono arrivati a 600mila euro, perché si arriva a un milione e seicentomila per una malattia?

GIANFRANCO BATTISTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2017-2021 cioè non è che è un privilegio che ho avuto io, tutti ce l’hanno. Quindi, poi, in base alla gravità della malattia, io ho avuto una malattia. Quando io feci la domanda, la Generali mi ha sottoposto non a una ma a dieci visite di controllo certificate da tre ASL poi, hanno certificato che avevo, che ho una patologia per la quale posso lavorare

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La polizza dei misteri è venuta fuori grazie a un esposto anonimo. Parte un audit interno che si conclude nel maggio del 2017. I risultati sono impietosi: “Il sistema di controllo interno e di gestione dei rischi è risultato caratterizzato da diffuse carenze di disegno e di operatività che lo rendono nel complesso carente”

ANTONIO COVIELLO – RICERCATORE IRISS-CNR Non avere idea, secondo quanto dice il documento, di quello che andava assicurato, come andava fatto, in che modo. Cioè come se dire a una casalinga di fare la spesa e lei la fa in base a quello che prima verifica che c'è in frigorifero o nelle credenze. Mi mancano, non so, il pane il latte lo zucchero eccetera. Non fare questa operazione è come mandare la signora a fare la spesa senza sapere di che necessita quindi può comprare tutto, anche quello che non c'è, o nulla, quello che serve.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’audit interno, insomma, scoperchia un vero e proprio vaso di Pandora tanto che la procura di Roma apre un’inchiesta per corruzione che è ancora in corso e che vede come unico indagato Raffaele D’Onofrio, che fino al 2017 gestiva il settore assicurativo di Ferrovie. Dagli atti emerge che tra il 2011 e il 2019 Ferrovie ha pagato oltre 550 milioni di premi assicurativi. Di questi, l’89,5% sono andati alle Assicurazioni Generali.

DANILO PROCACCIANTI Dottor D'Onofrio?

RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Sì?

DANILO PROCACCIANTI Salve, sono Danilo Procaccianti, sono un giornalista della Rai.

RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO E allora?

DANILO PROCACCIANTI Siccome mi sto occupando di questa inchiesta sulle assicurazioni, volevo chiedere conto a lei visto che è l'unico sotto inchiesta

RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Ho da fare. Quale inchiesta scusi?

DANILO PROCACCIANTI C'è questa inchiesta sulle assicurazioni su Generali. Lei sarebbe l'unico indagato.

RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Una cosa vecchia…

DANILO PROCACCIANTI Vecchia? È ancora in corso. E lei che dice?

RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Niente

DANILO PROCACCIANTI che Generali aveva il monopolio

RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Assolutamente, erano tutte con gare.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Tra le anomalie segnalate nel rapporto c’è anche la sparizione sia dall’archivio informatico che da quello cartaceo di 66 pratiche. Una è proprio quella di Gianfranco Battisti, la famosa polizza da un milione e seicentomila euro

DANILO PROCACCIANTI Tutte queste pratiche sparite

RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO No, no, assolutamente

DANILO PROCACCIANTI 66 pratiche sparite

RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO No, no, non è sparito, erano in Generali

DANILO PROCACCIANTI perché Ferrovie non ce l'aveva, non c’erano in archivio.

RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Questo non lo so, in archivio dovevano starci non so perché non c'erano.

DANILO PROCACCIANTI Però lei era responsabile

RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Sì, ma io già ero andato via

DANILO PROCACCIANTI E vabbè, è andato via quando si sono accorti che mancavano

 RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO non lo so che fine hanno fatto

DANILO PROCACCIANTI Anche, anche quella pratica di Battisti.

RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Lo chieda a Generali che ha fatto un'indagine con i medici

DANILO PROCACCIANTI Nell’audit c’è la mancata trasparenza.

RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Di che giornale è?

DANILO PROCACCIANTI Sono di Report, di Raitre

RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Ciao, salve

 DANILO PROCACCIANTI Non le piace Report?

RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Sì che mi piace

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Va via Raffaele D’Onofrio e non spiega perché, quando al suo posto sono arrivati altri, le cose sono andate decisamente meglio. Nel 2016, infatti, l’allora ad di Ferrovie Renato Mazzoncini, nominato dal governo Renzi, a gestire il settore assicurativo chiama due manager di comprovata esperienza, Giovanni Conti e Marco Binazzi. Con loro Generali non è più l’unica partecipante alle gare e si risparmiano 42 milioni di euro in due anni. I due, però, invece di essere premiati, vengono mandati via proprio da Gianfranco Battisti, che nel frattempo era diventato amministratore delegato.

MARCO BINAZZI – EX RESPONSABILE ASSICURATIVO FERROVIE DELLO STATO Mi hanno ovviamente proposto piuttosto che un licenziamento, un accordo consensuale. Dal punto di vista dell’immagine sembra che siamo tutti d’accordo, ma non è così ovviamente. È stata “spintanea” no?

DANILO PROCACCIANTI E perché, secondo lei?

MARCO BINAZZI – EX RESPONSABILE ASSICURATIVO FERROVIE DELLO STATO Probabilmente qui sono andato a pestare tanti piedi, non lo so

DANILO PROCACCIANTI Quando arriva però Conti con Binazzi eccetera in qualche modo risanano quel settore assicurativo

GIANFRANCO BATTISTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 Ma che risanano, ma che, io ho tutto scritto, macché è un bluff! Binazzi e quest’altro quando fanno le altre gare danno perimetri completamente diversi. Sono quelli cacciati che poi hanno architettato tutto.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO I due manager da quello che ci racconta Gianfranco Battisti sarebbero stati quindi cacciati perché complici di un piano per farlo fuori, un piano fatto di lettere anonime che sarebbe stato architettato da Gianluigi Castelli, all’epoca presidente di ferrovie e oggi consulente del ministro Colao.

GIANFRANCO BATTISTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 Un giorno entra questo Castelli e mi legge una lettera anonima che dice che io ero raccomandato dal Vaticano, da Confindustria che, però, avevo avuto un indennizzo non dovuto. Solo dopo dice questa è la prima di altre lettere anonime. Arriva una seconda lettera anonima che dice l’indennizzo corrisponde a questa cifra qua. Che succede, che da questa seconda lettera si scatena la guerra. Renzi su Repubblica: “siluro di Renzi all’ad delle Ferrovie”.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ovviamente l’ex premier Matteo Renzi non c’entra sicuramente nulla con questa presunta attività di dossieraggio. Certo è che quando le lettere anonime non erano ancora uscite dai palazzi delle ferrovie, il 12 ottobre 2019 esce un articolo su Repubblica che anticipa un’interrogazione parlamentare dell’onorevole Nobili di Italia Viva che riprende passo passo quelle lettere anonime e fa riferimento proprio al risarcimento da un milione e seicentomila euro.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Chi ha passato le lettere anonime all’onorevole Nobili e soprattutto chi le ha scritte? Qui comincia una vera e propria spy story con al centro una misteriosa chiavetta che avrebbe viaggiato tra Roma e Milano, la trova un capotreno, dentro c’erano le tre lettere anonime e l’avrebbe dimenticata proprio il presidente di Ferrovie Castelli

GIANFRANCO BATTISTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 lo chiamo, registrato, lui ammette che è la sua chiavetta

DANILO PROCACCIANTI Cioè lui ammette che era tutta una manovra per fare fuori lei

GIANFRANCO BATTISTI – AMMINISTRATORE DELEGATO FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 Sì, dice che è stato lui a fare le lettere anonime e mi propone di non fare niente in modo che non scoppino gli scandali. E quindi c’era tutta una manovra per ammazzarmi.

DANILO PROCACCIANTI Io ho incontrato l'ex amministratore delegato Battisti e lui mi dice che era lei a scrivere le lettere anonime.

GIANLUIGI CASTELLI – PRESIDENTE FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 che lo provi in qualche aula di tribunale dopodiché ne pagherà le conseguenze.

DANILO PROCACCIANTI lui mi racconta la storia di questa chiavetta che è stata trovata su un treno, la chiavetta sarebbe stata sua e dentro c’erano le lettere anonime

GIANLUIGI CASTELLI – PRESIDENTE FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 non so di che cosa stia parlando. Me ne aveva parlato e fatto un cenno, forse posso anche sapere da dove provenisse quella chiavetta ma non è mia intenzione discuterne con lei.

DANILO PROCACCIANTI Ma lei mi conferma che la chiavetta era sua?

GIANLUIGI CASTELLI – PRESIDENTE FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 Io so che girava una chiavetta, è stata girata una chiavetta: che sia stata attribuita a me o che, questo non posso confermarlo con certezza

 DANILO PROCACCIANTI Quindi lei non ha mai ammesso di essere stato il corvo?

 GIANLUIGI CASTELLI – PRESIDENTE FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 Ci mancherebbe, altro ci mancherebbe altro. La prima lettera anonima era stata inviata non solo agli organi di Ferrovie ma era stata inviata al presidente del Consiglio e a tre ministri. E quindi quali possano essere state poi le fughe di notizie, questo non lo posso sapere

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Una vita vale 330.000 euro, una malattia seppur invalidante 1 milione e 600mila euro. La vita è quella di una figlia morta nella strage di Viareggio. La malattia invalidante anche se non ha fatto mancare un solo giorno dal posto di lavoro è quella dell’ex ad Battisti di Ferrovie. Questo è un po’ un mistero delle valutazioni delle assicurazioni che tuttavia hanno un criterio cinico alla base. Per le polizze assicurative il risarcimento di un manager per una malattia equivale a 3 volte il compenso annuo. E Battisti quell’anno prendeva 500 mila euro. insomma, è tutto legittimo. L’anomalia è la valanga che ne scaturisce da questa polizza assicurativa. Ne scaturisce un’indagine della magistratura, unico indagato Raffaele D’Onofrio. Che gestiva le pratiche assicurative che finiscono nell’occhio di un audit interno. E sarebbero state gestite in maniera impropria, avrebbero addirittura messo a rischio le casse, le risorse dell’azienda, delle Ferrovie dello Stato. Sono finite sotto l’occhio della magistratura i 550 milioni di euro di risarcimenti di premi, di polizze assicurative che sono finite poi nella casse di Generali. Le attuali invece, l’attuale management ci scrive di Ferrovie che prosegue nel campo assicurativo un percorso virtuoso che era cominciato già nel 2016 con l’avvento dell’ad Renato Mazzoncini, che era stato nominato da Renzi. Oggi sono ancora aumentate le compagnie di assicurazione, questa crea una maggiore ovviamente competizione nelle offerte, con conseguenti anche risparmi per le casse delle Ferrovie. Ecco invece riguardo alla sparizione dei 66 documenti, delle 66 pratiche assicurative che sono scomparse dagli archivi tra cui anche quella riguardante la polizza di Battisti di un milione e 600 mila euro, fanno sapere gli attuali manager che sono state presentate delle denunce. Rimane però il mistero di questa chiavetta che ha fatto il viaggio tra Roma e Milano contenente le 3 lettere anonime. Secondo Battisti da noi intervistato l’autore sarebbe il presidente di allora Castelli, che le avrebbe anche preparate e diffuse, e di questo avrebbe prova in una registrazione. Castelli invece da noi intervistato, nega. Il mistero che invece rimane è quello del motivo per cui una di queste lettere anonime, proprio quella riguardante la polizza di un milione e 600 mila euro di risarcimento di Battisti, finisce in un’interrogazione parlamentare. Chi è che consegna questa lettera anonima al parlamentare? Chi è questo parlamentare? È Luciano Nobili di Italia Viva. Lo stesso parlamentare che aveva presentato l’interrogazione su un dossier falso che ci riguardava, che riguardava Report e me in particolare che appunto si è rivelato falso. Lui, abbiamo chiesto una spiegazione, lui che è sempre prolisso, questa volta si cela dietro il riserbo.

L’uomo che fermava i treni. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2021. C’è un signore dispettoso che sale sui treni regionali, aspetta che prendano velocità e aziona il freno d’emergenza. Dall’inizio dell’anno lo ha già fatto più di cento volte, provocando ritardi biblici e perdite di pezzi di vita a migliaia di studenti e lavoratori pendolari. Il suo campo d’azione sono Liguria, Piemonte e Lombardia: una sorta di triangolo ferroviario delle Bermude. Un giorno a Bergamo ha provato ad allargare la sua attività agli aerei, ma arrivato in alta quota si è messo a inveire contro il personale di bordo perché non trovava il freno. L’altra sera, alla stazione di Novi Ligure, lo hanno finalmente arrestato: è un bulgaro senza fissa dimora e, immagino, con qualche disturbo, ma questa è arida cronaca, mentre la storia è chiaramente metafisica. Che cosa spinge un essere umano a compiere cattiverie gratuite in modo compulsivo e a danneggiare gli altri senza trarne alcun giovamento per sé? Il brivido della trasgressione o il piacere di rompere i crostoni al prossimo? Di solito sono i bambini che sabotano le azioni dei grandi, spinti dalla pulsione irresistibile di attirare l’attenzione. Ma il frenatore seriale ha 47 anni e, lungi dal mettersi in mostra, dopo la bravata va a nascondersi nei bagni fino a quando il treno non riparte. Quindi perché lo fa, ma soprattutto perché mi sembra di conoscerlo e di riconoscerlo, ogni volta che sui social leggo qualcuno che insulta qualcun altro senza ragione alcuna?

Striscia la notizia, la "truffa in autostrada": gratuita, invece si paga. La tratta incriminata. Libero Quotidiano il 09 dicembre 2021. Truffa in autostrada? Come minimo, qualcosa non torna: a Striscia la notizia va in onda il paradosso della Liguria. Il tg satirico di Canale 5 fondato e diretto da Antonio Ricci spedisce in Riviera l'inviato Capitan Ventosa, che si mette al volante e affronta la tratta del Ponente ligure. "Dopo il crollo del Ponte Morandi - spiega - sono iniziate tutta una serie di ristrutturazioni di viadotti e gallerie che hanno messo in ginocchio la viablità per anni. Dopo numerose proteste, Autostrade ha reso gratuito il passaggio nelle aree maggiormente colpite" dai disagi, spiega l'inviato di Striscia. Un esempio? La tratta tra Savona e Genova è gratuita, come confermato dal sito stesso di Autostrade calcolandone il pedaggio. "Ma se invece di entrare a Savona entriamo a Spotorno, ingresso successivo, per logica dovremmo pagare solo la tratta tra Spotorno e Savona, 10 chilometri e 1,20 euro. Invece no: si paga la tratta Spotorno-Genova per intero. Ma perché?", chiede Capitan Ventosa. Risultato: 5,30 euro di pedaggio per 57 chilometri. "Ma scusate: se ci sono disagi in quella tratta, chiunque la attraversi a prescindere dall'ingresso autostradale preso dovrebbe essere esentato". A conferma della svista "di sistema", lo stesso accade anche procedendo da Est a Ovest: entrando a Recco, in direzione Savona, si pagano solo i 60 centesimi della tratta Recco-Genova. Ma se si esce a Spotorno, se ne pagano 7,50.

Frecciarossa deragliato "Difetti e zero controlli". Paola Fucilieri l’8 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nel disastro morti 2 macchinisti, 31 feriti. Le accuse ad Alstom e Rfi: in 15 a giudizio.  Subito - tra il freddo e il sole della campagna lombarda e dinnanzi alle lamiere della motrice capovolta come un grosso pachiderma d'acciaio ormai del tutto inerme - si era parlato di un pezzo difettoso posto nello scambio e di un errore di manutenzione, avvenuta durante la notte e appena terminata. Ieri la Procura di Lodi lo ha scritto nero su bianco nell'atto di chiusura delle indagini sull'incidente del Frecciarossa 9595 deragliato all'alba del 6 febbraio 2020 a Livraga, nelle vicinanze di Lodi e che costò la vita ai due macchinisti, Mario Dicuonzo e Giuseppe Cicciù, 59 e di 51 anni, oltre a provocare 31 feriti. I reati contestati dal Procuratore della Repubblica Domenico Chiaro e dal pm Giulia Aragno sono disastro colposo e omicidio colposo plurimo. «Maurizio Gentile (all'epoca ad di Rete ferroviaria Italiana, Rfi) - scrivono i pm - omise di adottare le misure di prevenzione necessarie atte a garantire l'integrità fisica dei lavoratori di Trenitalia spa e di tutti i viaggiatori sui treni percorrenti la linea di Alta Velocità binario dispari Milano-Salerno».

Sempre secondo i magistrati lodigiani, la società «Almston» inoltre avrebbe fornito al gestore Rfi un «telaio che presentava un difetto di montaggio interno consistito nella inversione dei cavi 16 e 18, nonostante fosse stato collaudato e certificato». L'atto è stato notificato anche all'ad della società Michele Viale. I destinatari dell'avviso di conclusione indagini notificato ieri, oltre alle due società, sono in tutto 15 persone. Insieme a Gentile e Viale, ci sono i nomi di alcuni dirigenti di Alstom come Maurizio Pula nel cda di Alstom e responsabile del segnalamento ferroviario dell'unità produttiva di Firenze, quindi Tiziana Impera e Francesco Muscatello, all'epoca rispettivamente direttore per l'Italia della sicurezza funzionale e system program manager sempre di Alstom. È stata stralciata invece la posizione di sei persone in vista dell'istanza di archiviazione, tra cui quella di Marco Donzelli, responsabile dell'unità territoriale di Bologna per Rfi. Più nel dettaglio, secondo quanto ricostruito in Procura a Lodi, la causa del deragliamento sarebbe stata la posizione sbagliata di uno scambio, dovuta a «un difetto di produzione presente all'interno» di una sua componente, l'«attuatore telaio aghi» fornito da Alstom a Rfi. Scambio «interessato poco prima» dell'incidente «da lavori di manutenzione programmata». Il Frecciarossa, che aveva «ricevuto il segnale di via libera per viaggiare sul corretto tracciato», quello normale, «alla massima velocità» ovvero 295 chilometri all'ora, sarebbe quindi deragliato per via dello scambio trovato aperto nel tracciato ferroviario, e quindi a rovescio, facendo sì che il treno dovesse cambiare direzione. Quello scambio, o deviatoio, avrebbe invece dovuto essere chiuso e il convoglio procedere diritto fino a Bologna. Nell'atto di chiusura indagine si parla di condotte omissive e di «negligenza e imperizia» nei controlli e di «violazione delle norme anti-infortunistiche e inerenti la sicurezza della circolazione ferroviaria». Paola Fucilieri

Rinaldo Frignani per corriere.it il 2 ottobre 2021. «Copiose richieste di risarcimento per danni patrimoniali nei riguardi sia dei denunciati sia dei sanzionati amministrativamente a causa dei ritardi provocati alla circolazione stradale, ma anche e soprattutto a quella aerea, oltre che per il danno provocato all’Amministrazione e agli stessi poliziotti che sono stati refertati in ospedale». Così venerdì mattina la Questura di Roma a margine della notizia della denuncia di nove persone per i tafferugli del 24 e 25 settembre scorsi sia sull’autostrada Roma-Fiumicino, nei pressi dello scalo «Leonardo da Vinci», nel corso delle proteste dei dipendenti Alitalia, sia a San Giovanni, alla fine dell’ultimo sit-in dei no green pass, con scontri con le forze dell’ordine durante un tentativo di corteo lungo via Appia. Fra i denunciati anche Giuliano Castellino, leader romano di Forza Nuova, per violazione della sorveglianza speciale alla quale è sottoposto. Per la prima manifestazione e il conseguente blocco della circolazione stradale, e aerea, come hanno sottolineato da San Vitale, i denunciati sono sei. La Digos ha accertato le loro responsabilità: quattro sono accusate di resistenza e lesioni a un pubblico ufficiale, uno solo di resistenza e l’ultimo anche di blocco stradale, che prevede anche una multa fra i mille e i 4mila euro. Gli investigatori sottolineano anche come «le sigle sindacali, che hanno regolarmente indetto la manifestazione presso il sito aeroportuale, munite di tutti i permessi, ne hanno preso formalmente le distanze, stigmatizzando questi comportamenti violenti e mostrando gratitudine alle forze di polizia, per aver garantito l’ordine pubblico nel pieno rispetto del diritto di manifestare, e vicinanza agli agenti feriti, in una lettera inviata al questore Mario Della Cioppa». In via Appia, invece, oltre a Castellino, che in quanto sorvegliato speciale secondo la Digos non avrebbe potuto partecipare alla manifestazione, gli agenti hanno denunciato altre due persone, una per aver incitato la folla a dare vita a un corteo non autorizzato «ed esserne stato materialmente il promotore», e l’altra per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale. Altri 26 partecipanti al corteo saranno invece multati per aver «arbitrariamente bloccato la circolazione stradale lungo via Appia, da piazza di Porta san Giovanni a piazza Re di Roma, per cui è prevista una sanzione amministrativa che va da mille a 4mila euro. Per la resistenza a pubblico ufficiale invece è prevista la pena della reclusione da 6 mesi a 5 anni».

Giulio De Santis per corriere.it l'1 ottobre 2021. Francesco Caporale, 49 anni, è morto per essere caduto con la moto in una delle «numerose buche» in via Salaria, presenti nonostante le segnalazioni dei vigili urbani. Buca killer profonda 3 centimetri rimossa subito dopo l’incidente. A doverla «riempire e livellare» prima della tragedia avrebbero dovuto essere due funzionari del Simu (il dipartimento comunale Sviluppo e infrastrutture manutenzione urbana), ieri condannati a un anno e quattro mesi con l’accusa di omicidio colposo per aver omesso di avviare i lavori di manutenzione. La sentenza è stata innanzitutto pronunciata nei confronti di Marco Domizi, direttore della manutenzione stradale del Simu. L’altro imputato è Guido Carrafa, responsabile della manutenzione del «lotto 3» di Roma Capitale all’epoca della tragedia. «È una sentenza storica perché mai a Roma sono stati condannati dei funzionari per non aver coperto una buca», sottolinea Manuela Barbarossa, presidente dell’Avis (Associazione vittime della strada) che, attraverso l’avvocato Giuseppe Bellanca, ha assistito i familiari di Caporale costituitisi parte civile. «Domizi ha avviato le pratiche previste dal suo ruolo. Pertanto andava assolto», ribatte l’avvocato Fabio Federico, difensore del funzionario. La caduta mortale in via Salaria – strada che rientra nella categoria della grande viabilità, la cui custodia, pertanto, è di competenza esclusiva del Simu - risale alle 2,50 del 22 dicembre 2016. Nelle ore successive Domizi e Caraffa procedono «al riempimento e corretto livellamento della buca» ma, rimarca il pm nel capo di imputazione, con «mezzi, personale e materiale» che anche prima del sinistro «non mancavano». C’’è un secondo aspetto, che per l’accusa inchioda i due funzionari. La manutenzione è un «atto dovuto» a prescindere da eventuali solleciti. Ora è opportuno ritornare ai giorni precedenti il 22 dicembre di cinque anni fa. Da tempo, in quel periodo, i vigili urbani segnalano in via Salaria a vari uffici comunali «la presenza di numerose buche sull’asfalto». Le raccomandazioni in particolare finiscono sulla scrivania della III sezione Manutenzione stradale, dipartimento Simu. Avvisi che però rimangono lettera morta, almeno secondo l’accusa. Mai infatti viene avviata alcuna pratica per il rattoppo della strada. Così Caporale, alla guida della sua Suzuki N1200, percorrendo via Salaria non nota la presenza della buca killer che, anche per via dell’ora tarda, «non è facilmente avvistabile ed evitabile». Fattori che rende l’avvallamento «insidioso», sostiene la Procura. Caporale finisce con le ruote nella buca, perde il controllo della moto e sbatte con la testa contro il guardrail. Rimanendo ucciso. 

Da repubblica.it il 9 settembre 2021. Piccola disavventura per Roberto Mancini dopo la bella serata di Reggio Emilia in cui la sua Italia ha travolto la Lituania 5-0 nelle qualificazioni ai Mondiali del prossimo anno. Dalla città del Tricolore il ct azzurro stava rientrando a Milano ma ha dovuto cambiare il piano di viaggio dopo aver trovato l'autostrada chiusa. Una cosa che non è andata giù al Mancio, che nelle sue storie su Instagram ha denunciato l'accaduto con un breve filmato accompagnato da un post molto duro: "Queste sono le autostrade italiane. Arrivi a mezzanotte dalla A7 allo svincolo A26 e trovi la autostrada chiusa senza un cartello che segnala la chiusura. Vergognatevi. Ma in tanti dovete vergognarvi".

Mancini resta bloccato e attacca Autostrade per l'Italia: «Vergognatevi». Il Quotidiano del Sud il 10 settembre 2021. Post-partita complicato ieri sera per il ct azzurro Roberto Mancini dopo la vittoria per 5-0 sulla Lituania nelle qualificazioni mondiali. Il tecnico jesino, infatti, è rimasto bloccato in autostrada mentre tornava a casa e sui social si è sfogato, con tanto di video della sua disavventura. “Queste sono le autostrade italiane – ha scritto in una story su Instagram – Arrivi a mezzanotte dalla A7 allo svincolo A26 e trovi l’autostrada chiusa senza un cartello che segnala la chiusura. Vergognatevi, ma in tanti dovete vergognarvi”. 

Tony Damascelli per “il Giornale” il 10 settembre 2021. Reduce dal trionfo sulla Lituania, Roberto Mancini ha vissuto una notte da incubo. Letta e scritta così, si potrebbe pensare a un agguato, a un'aggressione violenta, al gesto di un folle, a una rapina a mano armata. In verità si tratta di qualcosa di ben più serio: la chiusura, per lavori, dell'autostrada A26 al bivio di Novi Ligure. E qui il commissario tecnico campione d'Europa ha perso il controllo, non dell'autoveicolo ma dei nervi. Ha preso a insultare e si è scatenato con una storia su Instagram dai toni e contenuti non proprio in linea con un uomo di fede e di eleganza come il marchigiano: Queste sono le autostrade italiane. Arrivi a mezzanotte dalla A7 e allo svincolo per l'A26 trovi l'autostrada chiusa senza un cartello che segnala la chiusura. Vergognatevi, ma in tanti dovete vergognarvi. Vergogna. La rabbia viene condita da un porca tr... che in fondo ribadisce lo slogan di Lino Banfi censurato da Tim e il Moige. La controparte, nel senso di Autostrade per l'Italia, ha risposto con furbizia, complimentandosi per i risultati sportivi, ricordandogli che l'avviso di chiusura alle ventuno era segnalato dalle nove del mattino sui pannelli luminosi e invitandolo a conoscere le lavoratrici e i lavoratori che di notte faticano in quelle gallerie e in quei cantieri. Piccola storia che illustra come gli abitanti del mondo calcio scoprano la realtà dei cittadini comuni i quali ugualmente rivolgono inviti a madonne e divinità vari ma non ricevono nemmeno una cartolina di risposta e restano in coda, cercando una soluzione alternativa. La quale esisterebbe pure e Roberto Mancini ne è a conoscenza: lui avrebbe dovuto comportarsi come quel gruppetto di azzurri che, con la giustificazione taroccata che si usava a scuola dei bei tempi, se l'è data prima della partita contro la Lituania. A quell'ora, prima delle ventuno, l'autostrada era libera, senza chiusure e le lavoratrici e i lavoratori stavano davanti alla tivvù a tifare per gli azzurri. Informato degli sviluppi della vicenda, il cittì ha commentato: «Faccio i complimenti ai ragazzi ma dei singoli non parlo».

Daniele Dell'Orco per “Libero quotidiano” il 10 settembre 2021. Dopo essere diventato l'eroe della nazione a seguito del trionfo azzurro ad Euro 2020, il ct Roberto Mancini ha deciso di concedersi qualche vezzo da vero capopopolo che tanto piace alla gente. Dalle passeggiate in bermuda ad Ancona, alla fila dal panettiere nella sua Jesi, fino alle imprecazioni contro i (presunti) disservizi di Autostrade per l'Italia. È successo nella serata di mercoledì, dopo la grande vittoria della Nazionale a Reggio Emilia - 5-0 contro la Lituania in una gara di qualificazione ai Mondiali 2022. Dalla città del Tricolore il ct azzurro stava rientrando festante a Milano in macchina, quando all'improvviso ha dovuto cambiare piani per via della chiusura di un tratto autostradale a suo dire non segnalata. Incarognito come ogni vero automobilista italiano sa essere in casi del genere, si è sfogato su Instagram condividendo una storia in cui denunciava l'accaduto con un breve filmato accompagnato da un post molto duro: «Queste sono le autostrade italiane. Arrivi a mezzanotte dalla A7 allo svincolo A26 e trovi la autostrada chiusa senza un cartello che segnala la chiusura. Vergognatevi. Ma in tanti dovete vergognarvi». Il tutto condito anche da un insulto, «porca troia!», urlato praticamente in diretta. Una disavventura che gli ha guastato un po' l'umore e gli ha fatto dimenticare la gioia per aver conquistato l'ennesimo record portando a 37 la striscia di risultati utili consecutivi per la sua Italia con 28 vittorie e 9 pareggi. A questa invettiva di stampo un po' grillino, totalmente priva del suo proverbiale aplomb imparato negli anni di lavoro in Inghilterra, l'azienda ha risposto, sempre via Instagram, con un post di smentita che inizia con i complimenti a Mancini per la vittoria sulla Lituania e il successo agli Europei e prosegue col dettaglio sui lavori: «La chiusura della A26- si legge -, inclusa in un programma di lavori riguardanti le gallerie, è stata attivata ieri dalle ore 21, in direzione Genova, a partire dal bivio per Novi Ligure/A7 fino al bivio per la A10. L'informazione della chiusura, inserita anche come previsione nella home page del nostro sito, è risultata sempre esposta sui pannelli luminosi in avvicinamento al tratto interessato, sia dalla A7 che dalla A26. In particolare la chiusura è stata preannunciata fin dalle ore 9 del mattino e in continuità segnalata a partire dalle 21 per tutta la durata dell'evento. Prendiamo in ogni caso spunto dal suo messaggio e cercheremo di migliorare ancora di più l'informazione di servizio». Infine, un tocco più umano che sa di ammonimento nei confronti dell'"insensibile" Mancini, con tanto di invito: «I nostri tecnici e operai stanno facendo sforzi inauditi per portare avanti un lavoro che non è visibile a chi viaggia, ma che consiste nella completa ristrutturazione delle gallerie per allungarne la durata di decine di anni. Uno sforzo che comporta inevitabili disagi, che noi per primi vorremmo evitare a viaggiatori e cittadini, ma che è necessario per ammodernare le infrastrutture di questo Paese, che risalgono in larga parte agli anni '60/'70. Dentro quelle gallerie lavorano ogni giorno e notte centinaia di uomini e donne che danno il massimo per rispettare i tempi di consegna. Le andrebbe di venire a conoscerli? Saremmo infatti lieti di invitarla a fare un sopralluogo dentro questi cantieri. Troverà tanta passione e impegno, oltre che accesi tifosi suoi e della Nazionale che, invece che vergognarsi, la accoglieranno in modo affettuoso. Che ne pensa? La aspettiamo!». Considerata la legittima voglia del commissario tecnico di rientrare a casa prima possibile dopo oltre una settimana di ritiro, viaggi tra Coverciano, la Svizzera e Reggio Emilia, tre partite anche delicate e tutto il carico di stress e aspettative che comporta essere freschi campioni d'Europa, una svista potrà essere certamente capitata. E magari non si sarà accorto delle comunicazioni sui ledwall. Allo stesso modo, i lavori in autostrada bisognerà pur farli, peraltro alla mezzanotte di un mercoledì di metà settembre che sa molto di buon senso. Ma dopo il crollo del ponte Morandi, mesi e mesi di campagne d'odio contro gli ex concessionari, i Benetton, e i classici stereotipi che vedono le nostre autostrade come tutt' altro che curate ed efficienti rendono fin troppo semplice abbandonarsi a qualche insulto di troppo quando capita l'imprevisto, anche ora che la gestione è passata al consorzio formato da Cassa depositi e prestiti con i fondi Blackstone e Macquarie. Succede un po' a tutti. È successo anche a Mancini.

Dagospia il 9 settembre 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, Mancini ha fatto benissimo a lamentarsi della autostrada A7. Ci passo ogni settimana perché ho una casa in campagna: per mesi è stato aperto un cantiere proprio sugli ultimi due chilometri, all’ingresso per Milano (tratto di competenza di Milano Serravalle, ndR) creando un imbuto colossale: non ho mai visto nessuno lavorarci il sabato e la domenica. In tutto il mondo, sulle autostrade, si lavora giorno e notte sette giorni su sette (facendo i turni, ovviamente). Pierluigi Panza 

Alessio Ribaudo per corriere.it l'11 settembre 2021. Senza troppi giri di parole, come nel suo stile, Flavio Briatore si è scagliato ieri contro chi gestisce le autostrade in Liguria sul popolare social network TikTok. Il noto imprenditore piemontese, trapiantato a Monaco, rimasto imbottigliato nel traffico dell’A10 non ha retto e con il suo smartphone ha girato un video che, in poche ore, è diventato virale.

Lo sfogo. «Le autostrade italiane fanno schifo e chi amministra le autostrade fa schifo - ha attaccato Briatore - e non solo non dovremmo pagare il ticket, ma dovremmo chiedere i danni». Il settantunenne, che come team manager in Formula 1 è riuscito a vincere tre titoli con due piloti e due squadre diversi, ha proseguito nel suo sfogo: «È tutta l’estate che è così e non vedo nessuno lavorare nei cantieri». Briatore, nel video, racconta di aver visto un cartello in cui si segnalavano cinque chilometri di coda per lavori: «Ma noi non abbiamo visto operai per 200 chilometri, ti fanno passare da una corsia all’altra, ti bloccano, ma non c’è nessuno». Poi ha tagliato corto: «Chi le amministra fa schifo e non è possibile, trattano la gente come fossero degli stracci». 

Il precedente. Il tratto autostradale ligure, per via dei lavori di manutenzione, è uno dei più trafficati d’Italia. Nei giorni scorsi anche l’allenatore Roberto Mancini si era lasciato andare a dure critiche sui social di ritorno da Reggio Emilia dove aveva giocato la nazionale. «Queste sono le autostrade italiane, arrivi a mezzanotte dalla A7 allo svincolo A26 e trovi l’autostrada chiusa senza un cartello che segnala la chiusura - era sbottato sul suo profilo Instagram taggando il gestore Autostrade per l’Italia -. Vergognatevi ma in tanti dovete vergognarvi». Parole a cui l’azienda aveva replicato: «Chiusura annunciata e segnalata, venga a trovarci».

(ANSA il 22 luglio 2021.) E' di una vittima - l'autista del minibus precipitato, di cui non sono ancora state rese note le generalità - e di 28 feriti registrati al pronto soccorso dell'ospedale di Capri il bilancio dell'incidente verificatosi stamattina. Per la maggior parte si tratta di persone ferite in modo lieve, che non si trovavano sull'automezzo ma sono state investite da detriti provocati dalla caduta. Quelli in condizioni più gravi sono i passeggeri del minibus. Due dei feriti, tra cui un ragazzo, sono già stati trasferiti in elicottero a Napoli, rispettivamente nell'ospedale del Mare e al pediatrico Santobono. Altri due feriti sono attualmente assistiti in camera operatoria in attesa di trasferimento, altri stanno ricevendo cure e sono in fase di stabilizzazione emodinamica e assistenza respiratoria, sempre in attesa di trasferimento. Delle persone coinvolte nell'incidente quattro sono di nazionalità straniera, francese e libanese. (ANSA).

(ANSA il 22 luglio 2021) Una persona è deceduta in seguito all'incidente del minibus precipitato a Capri. Secondo quanto al momento accertato dalla Polizia ci sarebbero oltre a feriti lievi anche 3-4 casi gravi. Da Napoli sono partiti elicotteri sia della Polizia che della Guardia di Finanza per trasferire sull'isola medici e riportare in città, all'ospedale del Mare, i casi gravi. Finora due i trasferimenti eseguiti. (ANSA).

Dagospia il 22 luglio 2021.- COMUNICATO STAMPA DELL’ASL NAPOLI 1 CENTRO. Incidente sull’Isola di Capri. In merito al grave incidente occorso oggi sull’Isola di Capri, l’ASL Napoli 1 Centro fa sapere di aver immediatamente attivato, attraverso l’Unità Operativa Servizio 118 Napoli 1 e in sinergia con il sindaco di Capri, il piano operativo per fronteggiare l’emergenza sanitaria venutasi a creare. Con l’ausilio di due elicotteri, (Polizia di Stato e Guardia di Finanza) messi a disposizione tramite la Prefettura di Napoli, è stato trasferito personale sanitario e presidi medici necessari ad integrare quanto già presente presso l’Ospedale Capilupi di Capri che è il primo riferimento per l’accoglienza dei feriti. All’elicottero del Servizio Regionale di Emergenza 118, abilitato al trasporto dei pazienti, è stata affiancata un’ulteriore unità di elisoccorso con capacità tripla di trasporto feriti. Il decesso di una persona è stato accertato sul luogo dell’incidente. I pazienti trasportati presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale Capilupi (codici gialli e rossi) presentano politraumi a dinamica maggiore con fratture multiple dello scheletro in più distretti, sospette lesioni vascolari dei distretti toraco-addominali, policontusioni multiple, escoriazioni multiple, ferite lacero contuse multiple. I feriti registrati al PS allo stato sono 28, dei quali 2 sono già stati trasferiti rispettivamente presso l’Ospedale del Mare e l’Ospedale Santobono. Altri due feriti sono attualmente assistiti in camera operatoria in attesa di trasferimento, altri stanno ricevendo cure e sono in fase di stabilizzazione emodinamica e assistenza respiratoria, in attesa di trasferimento. Delle persone coinvolte nell’incidente 4 sono di nazionalità francese e libanese. I pazienti che necessitano di essere trasferiti su Napoli, all’Ospedale del Mare, verranno spostati con l’ausilio dei due elicotteri del Servizio Regionale Emergenza 118 Napoli 1.

Melina Chiapparino per "il Messaggero" il 23 luglio 2021. «Ho sentito l'autobus traballare e ho avuto tanta paura». Mentre pronunciava queste parole con un filo di voce, Gaia, distesa su un lettino nel pronto soccorso dell'ospedale del Mare, cercava lo sguardo della madre. «Non riesco a ricordare cosa sia accaduto, ho visto tutta la gente a terra» ha raccontato la 14enne di Pavia con metà volto tumefatto e l'occhio destro fasciato. Trasportata nel presidio di Ponticelli, dopo la prima assistenza all'ospedale Capilupi, a Capri, è stata ricoverata, insieme ad altre 13 persone, in un reparto aperto appositamente per i feriti nell'incidente. «Abito con la mia famiglia a Pavia ma veniamo ogni estate a Capri e la nostra vacanza era cominciata da poco» ha continuato incredula la 14enne.

I SOCCORSI Da primo pomeriggio fino alle 20 di ieri, è stato continuo il via vai dell'elicottero del Servizio Regionale di Emergenza 118 e di un secondo mezzo per l'elisoccorso che hanno trasportato all'ospedale del Mare i pazienti spaventati e confusi, per i quali la direzione strategica dell'Asl napoletana ha predisposto un servizio di assistenza psicologica, cominciato fin dalle prime ore di ricovero. «Ho sentito delle scosse come di un terremoto e ho stretto al mio petto i miei due figli» ha raccontato una signora che ieri non smetteva di pregare. «Mi sono affidata alla Madonna», ha spiegato commossa. Nell'area dedicata al ricovero dei pazienti trasportati da Capri si sono intrecciate le storie di chi si è sentito miracolato e fortunatamente per tutti gli assistiti non ci sono state prognosi di rischio vita ma, nella maggior parte dei casi, i feriti hanno riportato politraumi, escoriazioni, fratture e ferite lacero contuse multiple. «Stavo raggiungendo con delle amiche il b&b dove trascorrere le nostre vacanze, ero sull'autobus e non avrei mai pensato di ritrovarmi in un incubo» ha raccontato una delle ragazze soccorse. 

IL TERRORE «Sembrava fosse venuto giù un palazzo», hanno raccontato invece nella piazza di Marina Grande le persone che hanno assistito al volo del minibus. «È stata una scena agghiacciante - racconta Luca, uno dei conducenti dei taxi del porticciolo caprese - alcuni bambini avevano le ossa che sporgevano dalle gambe, molte persone erano insanguinate, gridavano disperate». Non tutti si sono subito resi conto della portata della tragedia. «Chi poteva - raccontano due anziani signori - si è messo in salvo da solo uscendo con difficoltà dal minibus e arrampicandosi verso le uscite. L'autobus è caduto sul fianco dal lato del conducente e quindi la porta siamo riusciti ad aprirla dal lato opposto. Ma non abbiamo subito compreso che, all'interno, ci fosse anche una persona deceduta».

(ANSA il 24 luglio 2021.) "Dagli accertamenti eseguiti oggi è emerso che le cause del decesso sarebbero riconducibili a "lesioni multiple agli organi toraco-addominali": al momento, quindi, sembrerebbe escluso che il decesso sia stato causato da un malore o da una patologia". A rendere noti i primi esiti dell'autopsia eseguita sulla salma di Emanuele Melillo, l'autista 33enne del minibus deceduto nel grave incidente stradale avvenuto a Capri è l'avvocato Giovanna Cacciapuoti, legale della famiglia della vittima. "Ad ogni modo - continua la penalista - bisogna attendere l'esito degli esami istologici al cuore e al cervello, e di quello tossicologico, per avere un quadro più chiaro". L'incarico per l'autopsia è stato conferito in mattinata al medico legale Marta Moccia, negli uffici della Procura di Napoli. Le operazioni peritali, alla presenza del consulente di parte dottor Francesco Paciolla, sono iniziate intorno alle 13, nel Secondo Policlinico di Napoli, e si sono concluse intorno alle 15. Il sostituto procuratore di Napoli Domenico Musto si è pronunciato contro l'istanza di cremazione della salma che, a questo punto, non verrà restituita alla famiglia per la tumulazione e resterà sotto custodia nel Secondo Policlinico in attesa di eventuali ulteriori approfondimenti che, al momento, non possono essere esclusi. La relazione del consulente nominato dalla Procura verrà consegnata entro 60 giorni. (ANSA).

Anna Paola Merone per corriere.it il 29 luglio 2021. Nella strada stretta che a Napoli, da via Tribunali, porta a casa Melillo è un via vai continuo di persone. Nel cuore del centro storico della città c’è una mobilitazione generale per portare una parola di conforto, un saluto, un messaggio di cordoglio, un fiore alla famiglia del conducente del bus morto a Capri nel corso di un incidente sul quale la Procura di Napoli ha aperto un fascicolo per disastro colposo. Oggi sarà eseguita l’autopsia sulla salma, per avere qualche risposta alle molte domande che riguardano le cause che hanno provocato la tragedia. Fino ad ora si sa solo che Emanuele Melillo, che aveva 33 anni, è morto mezz’ora dopo l’incidente. Mentre si stava predisponendo il suo trasferimento in ospedale. «È stato mio zio ad avvertirmi — racconta Amelia, la sorella di Emanuele —. Lavora anche lui a Capri, alla funicolare, ed è stato fra i primi ad accorrere sul luogo della tragedia. Ha chiamato me sul cellulare per dirmi che mio fratello era coinvolto in un brutto incidente. Io l’ho richiamato in continuazione, ma lui non aveva il coraggio di dirmi che non c’era più niente da fare. Poi, alle mie insistenze, mi ha detto di farmi coraggio. Per tutti». E Amelia il coraggio se lo dà, fra fiumi di lacrime e decisioni ferme. La prima delle quali riguarda la compagna di Emanuele, Rosaria Aridità, e il bimbo che le sta crescendo in grembo. «La sosterremo in ogni modo — dice —. Questa casa è la loro casa. Lui vivrà in questo bimbo, lei è di tre mesi e non sappiamo ancora se è un maschietto o una femminuccia, che consideriamo come l’eredità che ci ha lasciato». Emanuele aveva già una bimba, Zaira, che ha 11 anni. «Noi — aggiunge Amelia — abbiamo avvisato subito la sua mamma che sceglierà come dirle che il papà non c’è più, magari con il supporto di uno psicologo. Zaira va tutelata: se per noi quello che è successo è drammatico, immaginiamo per una bambina». Amelia con compostezza prova a tenere insieme i pezzi di una famiglia distrutta. Ha 43 anni ed è la prima di tre figli. Dopo di lei c’è Marco, che ha 41 anni. Emanuele che era il piccolo di casa, arrivato dieci anni dopo. «Era bello come il sole, generoso, con un sorriso che illuminava tutto. Era un uomo ricco di slanci di generosità, pronto ad impegnarsi come volontario per la Croce Rossa e per i più deboli. Andava e veniva da Capri tutti i giorni — ricorda Amelia —. Estate e inverno su e giù e, quando il tempo non permetteva la partenza delle navi, lui restava a dormire sull’isola in un sacco a pelo in un deposito dei bus. Si dedicava al lavoro senza risparmio ed è capitato che la società fosse in ritardo con i pagamenti e lui lavorasse gratis, senza lamentarsi». I suoi genitori, Nazzareno e Antonella e i suoi fratelli, chiedono la verità sulla sua morte. «Era in perfetta forma, il ritratto della salute — dice Amelia — stava benissimo. Aspettiamo i risultati dell’autopsia perché vogliamo capire cosa e successo e perché. Tante volte ci siamo ritrovati a leggere su un giornale di una famiglia che perde un figlio, ma questo dolore atroce vissuto non è spiegabile. E almeno vogliamo sapere il motivo di tutto questo. Siamo rimasti senza il sorriso, la bontà, la positività di un ragazzo amato e rispettato da tutti. Il suo motto era: chi siamo noi per giudicare, solo Dio può farlo. E noi seguiremo la sua parola e il suo esempio». Gli amici hanno promosso una sottoscrizione per i suoi figli, perché possano guardare avanti e affrontare il futuro senza affanni. 

Leandro Del Gaudio per ilmattino.it il 29 luglio 2021. Ha fatto di tutto per salvare la vita sua, dei passeggeri e di quanti erano nelle vicinanze. Ha fatto di tutto per reagire a un probabile guasto tecnico (una ruota che slitta e sbanda), per fermare la marcia del mezzo e per impedire la tragedia che si stava consumando sotto i propri occhi. Di sicuro, è stato vigile fino alla fine, tanto da inarcarsi sulla sinistra, appoggiando la testa sul finestrino del lato guida, per controsterzare, per provare - con uno sforzo impossibile - a deviare il corso del bus che stava precipitando dal lato destro della carreggiata. È questa la testimonianza resa da uno dei passeggeri che viaggiava nel bus che giovedì scorso è crollato su un lido di Capri, provocando la morte del conducente, il 33enne Emanuele Melillo, il ferimento di decine di persone, tra passeggeri e operatori del lido sottostante. Una testimonianza destinata a finire agli atti dell’inchiesta condotta dal pm Giuseppe Tittaferrante, magistrato in forza al pool guidati dall’aggiunto Simona Di Monte. Disastro colposo è l’ipotesi battuta in queste ore dalla Procura di Napoli, che ieri ha effettuato un sopralluogo sul posto dell’incidente. Una visione dello stato dei luoghi, anche in vista della rimozione del bus (che dovrebbe essere effettuata grazie a elicotteri dell’Esercito) e del dissequestro del lido coinvolto dall’incidente (i cui titolari, rappresentati dal penalista Antonio Di Nocera, sono ovviamente estranei alle ipotesi investigative). Ma torniamo alle indagini, al lavoro finora svolto, sette giorni dopo l’incidente mortale. Agli atti le testimonianze raccolte dai media e dalle forze di polizia giudiziaria, che sembrano andare tutte nello stesso senso: la conferma di quanto emerso finora dai primi esiti autoptici, che escludono l’ipotesi del malore. Ma restiamo alla versione resa da uno dei passeggeri. Ha superato la sessantina ed era a bordo del minibus. Si definisce un miracolato, perché sopravvissuto a quella che sembrava una tragedia irreparabile per tutti i passeggeri. Ha raccontato cosa è accaduto in quegli istanti ed è pronto a ripetere la sua versione dei fatti anche dinanzi alla polizia giudiziaria: «Non c’è stato malore - chiarisce il teste, smentendo la tesi dell’infarto che pure era circolata sulle prime -, il conducente non ha avuto un mancamento, ma ha resistito fino alla fine, ha provato con tutte le sue forze a raddrizzare la corsa del mezzo, che nel frattempo era sbandato». Ma cosa ha fatto deviare il corso? Perché un mezzo che procede in salita, in modo lento, sbanda e va a sbattere sulla ringhiera? «Era come se la ruota fosse uscita fuori dall’asse, come se avesse urtato contro un marciapiede», chiarisce il teste. Poi c’è anche un altro passaggio, degno di essere considerato nel corso delle indagini, legato al tentativo dell’autista di rimettere in carreggiata il bus dopo la prima sbandata. Spiega il teste: «Ho guardato l’autista, come se avessi voluto chiedergli cosa stesse accadendo. L’ho visto manovrare con forza il volante, tanto che si è appoggiato sulla sua sinistra per fare leva con il corpo e provare a far girare il volante. Non ce l’ha fatta. Siamo precipitati e, solo alla fine, il bus si è girato su se stesso». Una vicenda che ora attende gli esiti delle indagini, mentre la famiglia di Emanuele Melillo chiede di conoscere la verità sull’incidente mortale. Difesa dalla penalista Giovanna Cacciapuoti, la moglie della vittima ha anche offerto il codice di accesso del telefonino cellulare del marito, anche per sgomberare il campo da ogni ipotesi di distrazione al volante. Ma su cosa battono ora le indagini? Si riparte dalle testimonianze, si punta a verificare eventuali guasti tecnici o difetti di manutenzione. Si lavora in due direzioni: da un lato sulle condizioni della ringhiera di protezione, in un tratto di strada in salita e in curva; dall’altro sulle condizioni delle ruote e del motore del minibus. A quando risaliva la revisione del mezzo? E da chi era stata effettuata? È una delle domande che spingono gli inquirenti ad acquisire atti negli uffici di città metropolitana (per le condizioni delle strade) e del comune di Capri (a proposito di bus e revisioni).

Altro che malore: "Ecco perché il bus è uscito di strada". Francesca Galici il 29 Luglio 2021 su Il Giornale. I testimoni a bordo del bus precipitato a Capri e l'autopsia escludono il malore dell'autista: probabile un guasto tecnico. Sotto accusa anche la ringhiera arrugginita. Il bus precipitato a Capri lo scorso 22 luglio è ancora lì, adagiato sul fianco in fondo alla scarpata dal quale è scivolato mentre effettuava servizio tra il porto e Anacapri. Gli inquirenti devono ultimare la perizia sul mezzo e, anche quando questa sarà finita, rimuoverlo non sarà facile. Dovrà probabilmente essere utilizzato un elicottero per spostarlo da quell'infausta posizione, impossibile da raggiungere con argani e gru. Ora, però, la rimozione non è una priorità. È necessario accertare i motivi che hanno portato il bus fuoristrada e gli investigatori per farlo stanno ascoltando anche i testimoni, soprattutto i passeggeri che erano a bordo del mezzo e che sono sopravvissuti. Sono proprio loro ad aver probabilmente dato le informazioni fondamentali per risolvere il caso, descrivendo agli inquirenti il comportamento tenuto dall'autista in quei secondi drammatici prima della caduta. L'unica vittima dell'incidente è stata proprio Emanuele Melillo, il conducente del bus. L'autopsia per il momento ha escluso che possa essere stato un malore la causa della sua morte, sopraggiunta per i traumi causati dell'incidente. Serviranno degli esami più approfonditi per avere la certezza ma gli inquirenti sembrano essere orientati verso il guasto tecnico. Si stanno esaminando il motore e il sistema frenante del mezzo per verificarne il corretto funzionamento e i passeggeri che si trovavano a bordo di quel bus sono fondamentali in questo lavoro di ricostruzione. "Era come se la ruota fosse uscita fuori dall’asse, come se avesse urtato contro un marciapiede", ha dichiarato un testimone, secondo quanto riportato sul quotidiano Il Mattino. Lo stesso testimone, che era a bordo quando il bus è precipitato, ha spiegato: "Non c’è stato malore, il conducente non ha avuto un mancamento ma ha resistito fino alla fine, ha provato con tutte le sue forze a raddrizzare la corsa del mezzo, che nel frattempo era sbandato". Il passeggero si trovava a breve distanza da Melillo mentre lui provava a evitare la tragedia: "L’ho visto manovrare con forza il volante, tanto che si è appoggiato sulla sua sinistra per fare leva con il corpo e provare a far girare il volante. Non ce l’ha fatta. Siamo precipitati e, solo alla fine, il bus si è girato su se stesso". Sotto l'occhio attento della procura, che ha aperto un fascicolo per disastro colposo, è finita anche la ringhiera, sfondata dal bus prima che questo precipitasse sullo stabilimento sottostante. I sindacalisti dell'Usb Lavoro privato, che hanno effettuato un sopralluogo sul posto nei giorni successivi all'incidente, hanno rilevato alcune anomalie sul dispositivo di protezione: "La ringhiera mostrava impietosamente i segni del tempo, con ruggine in più punti, ad evidenziare lo stato di pericolosità per la sicurezza stradale e della pubblica incolumità". Da un video di sorveglianza registrato dalle telecamere della vicina tenenza della guardia di finanza si nota il bus che arriva a velocità non elevata, senza manovre improvvise, e si appoggia alla ringhiera, che cede senza opporre resistenza al mezzo.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

La famiglia: sedicenti benefattori ci chiamano per aiutarci. Bus precipitato a Capri, dramma nel dramma: la compagna di Melillo ha perso il bambino. Redazione su Il Riformista il 30 Luglio 2021. Dramma nel dramma dopo la tragedia di Capri costata la vita Emanuele Melillo, il 33enne napoletano alla guida del minibus precipitato nel vuoto a Marina Grande. La compagna dell’autista, incinta da quattro mesi, ha perso il bambino. Rosaria Ardita, 30 anni, ha iniziato a stare male subito dopo la notizia della morte di Melillo. Un dolore troppo forte che ha avuto conseguenze sulla gravidanza della donna.  Da poche settimane la coppia era andata a vivere insieme e a fine giugno il giovane autista aveva annunciato l’arrivo del figlioletto. La famiglia, inoltre, secondo quanto riferisce l’Ansa, sta ricevendo numerose telefonate di sedicenti benefattori che stanno offrendo assistenza gratuita. Intanto sono in programma martedì 3 agosto i funerali di Melillo, l’autista che lo scorso 22 luglio ha interessato un autobus di linea dell’azienda Atc con a bordo 11 passeggeri, precipitato nel vuoto finendo la propria corsa sulla spiaggia, a ridosso di un lido nella zona di Marina Grande. Melillo è l’unica vittima di un incidente, le cui cause sono tutte da accertare, che ha provocato anche 23 feriti, alcuni di loro in modo grave ma nessuno in pericolo di vita. L’ultimo saluto al giovane autista-eroe, che da pendolare ogni giorno si spostava sull’isola Azzurra per lavoro, si terranno alle 16 nella Chiesa di San Lorenzo in piazza San Gaetano, nel cuore del centro storico di Napoli. Nella giornata di ieri, giovedì 29 luglio, il sostituto procuratore di Napoli Giuseppe Tittaferrante ha dato il via libera alla sepoltura dopo i numerosi esami eseguiti sul corpo di Melillo per chiarire quanto prima le cause che hanno portato al suo decesso. Inizialmente si era pensato a un malore, un infarto mentre era alla guida. Ipotesi questa smentita dai primi esiti dell’autopsia. “Dagli accertamenti eseguiti è emerso che le cause del decesso sarebbero riconducibili a ‘lesioni multiple agli organi toraco-addominali‘: al momento, quindi, sembrerebbe escluso che il decesso sia stato causato da un malore o da una patologia” ha chiarito la scorsa settimana Giovanna Cacciapuoti, legale della famiglia della vittima. Ad ogni modo, come spiega l’avvocato, “bisogna attendere l’esito degli esami istologici al cuore e al cervello, e di quello tossicologico, per avere un quadro più chiaro”. Esami questi che sono stati ultimati nella giornata di giovedì 29 luglio alla clinica Pineta Grande di Castel Volturno (Caserta). L’ipotesi su cui è a lavoro la procura di Napoli è quella di omicidio colposo. Continuano gli accertamenti sul mezzo e su quel tratto di strada per escludere il guasto meccanico. Si verifica che le revisioni siano in regola, si controllano i documenti della società privata Atc, al vaglio anche i turni di Emanuele, i giorni in cui ha lavorato, i riposi oltre alle condizioni del minibus, in particolare ruote e motore, che secondo alcuni colleghi di Melillo era “obsoleto”. Accertamenti anche sulla ringhiera di protezione divelta dal mezzo guidato da Melillo, poi precipitato nel lido sottostante. Minibus che resta ancora da rimuovere perché bloccato nella scarpata tra il corridoio di passaggio verso la spiaggia libera del porto e lo stabilimento balneare “Da Gemma”. Nei prossimi giorni dovrebbe intervenire per la rimozione un elicottero specializzato del Saf: la Procura avrebbe infatti scartato l’ipotesi di effettuare l’incidente probatorio sul retro del lido. Quando la ‘carcassa’ del minibus verrà agganciata dall’elicottero, dovrebbe quindi essere trasportata sulle banchine del porto di Capri e da lì trasportata da una imbarcazione fino a Napoli, dove il mezzo resterà a disposizione degli inquirenti per le perizie. “Mio fratello era sano come un pesce, non soffriva di niente, era un leone. Ora vogliamo la verità”, ha dichiarato a Repubblica Amalia, 43 anni, sorella di Emanuele. Non riesce a rassegnarsi, dopo la notizia dell’incidente: “Mi ha chiamato un parente che lavora a Capri, mi ha detto prega, la vita di tuo fratello è appesa a un filo. Ho pregato ma non è servito”. Ripete più volte che Emanuele era un gran lavoratore, “uno stakanovista, non si lamentava mai, quando era maltempo e non riusciva a rientrare, ha dormito più di una volta con il sacco a pelo in un garage, pur di lavorare. Ha lavorato anche gratis, quando l’azienda era in difficoltà, ha fatto mille mestieri, voleva fare l’infermiere”. “Era come se la ruota fosse uscita fuori dall’asse, come se avesse urtato contro un marciapiede”. È questa la versione resa da uno dei passeggeri del minibus di Capri. “Non c’è stato malore, il conducente non ha avuto un mancamento, ma ha resistito fino alla fine, ha provato con tutte le sue forze a raddrizzare la corsa del mezzo, che nel frattempo era sbandato”.

Grazia Longo per “La Stampa” l'1 agosto 2021. «A dolore si è aggiunto altro dolore. Dopo la morte di Emanuele mi ero aggrappata a questo bambino con tutte le mie forze: se fosse stato maschio l'avrei chiamato come lui, se invece fosse stata una femminuccia Emanuela. Era un modo per tenere il mio amore sempre con me, e invece non è stato possibile. Prima ho perso Emanuele e ora ho perso il nostro bambino tanto desiderato». Piange e non si dà pace Rosaria Ardita, 30 anni, compagna di Emanuele Melillo, l'autista del minibus dell'Atc di Capri che lo scorso 22 luglio è volato giù, a Marina Grande, come un birillo sul retro delle cabine del lido "Le ondine di Gemma" a due passi dai bagnanti. Qualcuno di questi è rimasto ferito dal volo dei pezzi di legno e ferro, mentre i passeggeri del pulmino, compresi due bambini di 10 e 11 anni, hanno riportato fratture multiple, e hanno trasformato in un incubo una giornata di vacanza. In tutto 23 persone hanno dovuto ricorrere alle cure dell’ospedale. E l'altro ieri, esattamente una settimana dopo il drammatico incidente, Rosaria ha dovuto fare i conti con un'altra atroce sofferenza: l'interruzione della gravidanza. Era incinta da tre mesi, e due mesi fa aveva appena messo su casa insieme ad Emanuele. Fidanzati da due anni, avevano infatti deciso di compiere il grande passo e andare a vivere insieme nel centro storico di Napoli, nel quartiere di San Gregorio Armeno. «Mio fratello era un gran lavoratore - ricorda Marco Melillo, 41 anni - ma non era ancora assunto in pianta stabile all'azienda dei trasporti. Aveva contratti stagionali e d'inverno, quando il mare era grosso e non poteva rientrare a Napoli, dormiva nel deposito a Capri. Ha fatto un sacco di sacrifici per crescere una figlia avuta da una precedente relazione, mia nipote di 11 anni, bella come il suo papà. E ora era tutto felice perché sarebbe diventato padre una seconda volta. Lui e Rosaria erano molto legati, e lei ora che ha perso il bambino è doppiamente a pezzi. Una tragedia nella tragedia». Lo shock per Rosaria è stato troppo forte. «Siamo molto tristi per lei e anche per noi - prosegue Marco -, perché pure io, i miei genitori e mia sorella non vedevamo l'ora che nascesse questo bambino. Siamo circondati da persone che ci confortano e ci sostengono, ma il vuoto lasciato dalla scomparsa di Emanuele è incolmabile». E alla disperazione si aggiunge l'ansia di verità e giustizia. Ancora da chiarire sono, infatti, le cause che hanno determinato l'incidente: il mezzo era in salita e viaggiava al massimo a 20 chilometri all'ora, quando all'improvviso ha sbandato, è andato a sbattere contro una ringhiera di metallo a protezione della scogliera che ha ceduto e a quel punto il minibus è piombato giù. Che cosa si nasconde dietro allo sbandamento? Inizialmente si è pensato ad un infarto, ad un malore, escluso però dall'autopsia. Si è quindi forse trattato di un guasto al pulmino? E come mai la ringhiera che doveva reggere l'urto è crollata? E ancora: com'è possibile che il cemento in cui era incastrata la barriera crollata abbia ceduto così in fretta? «Se mio fratello ha sbagliato, ha pagato con la morte - conclude Marco Melillo - ma se, e sottolineo se, la responsabilità dell'incidente è di qualcun altro, questo qualcuno deve pagare con la galera». E l'avvocato Giovanna Cacciapuoti, che assiste la famiglia della vittima, aggiunge: «Sono in corso accertamenti tecnici disposti dalla procura sul minibus e sulle capacità di contenimento della ringhiera. C'è un passeggero che ha testimoniato di aver visto Emanuele provare a controsterzare per evitare lo scontro con la ringhiera, ma qualcosa non ha funzionato».

Marito e bimbo: il doppio lutto di una donna. Valeria Braghieri l'1 Agosto 2021 su Il Giornale. Era l'estate della sua vita. Malgrado la variante Delta, gli incendi, il pil che arranca. Era l'estate della sua vita. Era appena andata a convivere, era incinta come voleva, dell'uomo che voleva. Era estate. E c'erano i post su Facebook di loro due assieme, con l'amore che gli scintillava fresco negli occhi, ad annunciare ad amici, parenti e sconosciuti: «Aumentano i Melillo». Presto sarebbero stati tre, che è il numero di quando si comincia in due. E profumava tutto di domeniche e di futuro. E di cose da comprare e di nomi da trovare e di ecografie e progetti. Prove di vita piena. Fino allo scorso 22 luglio, con quel pullman che precipita giù dalla scarpata e straccia il silenzio di Capri. Alla guida del pullman c'è il suo compagno, Emanuele Melillo, che muore schiantandosi tra il beach club Da Gemma e il corridoio d'accesso alla spiaggia libera di Marina Grande. Finiscono i giorni buoni di Rosaria Ardita e iniziano quelli feriti. Il volo nel vuoto, i feriti, il suo compagno morto, le televisioni, i giornali, un elicottero che forse dovrà provvedere al recupero del mezzo, le ipotesi sulla dinamica, l'autopsia, il funerale da organizzare... la variante Delta, gli incendi, i quaranta gradi all'ombra... Questa maledetta estate. I turisti, il sole, la scogliera... Rosaria perde il suo compagno. L'anima si mette a tremare e il bambino le lascia il corpo. In una settimana perde tutto. L'uomo della sua vita e il resto della sua vita. Dall'altro ieri non ha più il suo bambino. Prima Emanuele, poi il seguito di Emanuele. Da tre a uno in sette giorni. In sette giorni l'estate della sua vita le ha azzerato la vita. Non ha ancora seppellito il suo compagno (i funerali di Emanuele si terranno il 3 agosto alle 16, nella Basilica di san Lorenzo Maggiore in piazza San Gaetano, a Napoli) e non ha ancora capito perché sia morto (pare abbiano escluso l'ipotesi del malore e le indagini autoptiche stanno ancora analizzando le vere cause dell'incidente), che si trova a dover dire addio al figlio che aveva in pancia. Un congedo a due. Spoglio e intollerabile. Un addio che ti urla da dentro. In una settimana la vita si è messa a sbranare. A voler avere la meglio in tutti i modi, che sono sempre i peggiori. Ha iniziato a sentirsi male subito Rosaria. Dalle immagini di quelle lamiere trasformate in bara. Con dentro Emanuele. Che sulla scogliera ha lasciato tutto: lei, il figlio che non è nato e la figlia che aveva già avuto. Maledetta estate. Per Emanuele e la sua famiglia è in corso una raccolta di fondi, sono già stati versati quattordicimila euro, ma l'intento è di arrivare a quota centomila. Ma c'è da domandarsi per finanziare quale vita, per andare avanti dove, e perché. Dopo quella curva che ha tolto l'orizzonte. Maledetta estate. Valeria Braghieri

Da "il Messaggero" il 26 luglio 2021. Se arrivasse anche da noi, in due ore e mezzo potrebbe percorrere tutta l'Italia. Per adesso il treno è solo cinese: sfruttando la levitazione magnetica (da cui la definizione di Maglev) raggiunge i 600 km all'ora ed è quindi il più veloce del mondo. Presentato a Qingdao, nella provincia dello Shandong, è stato sviluppato dalla compagnia statale China Railway Rolling Stock Corporation e sembra galleggiare grazie a una forza elettromagnetica che lo fa planare sopra i binari. Presentando il prototipo nel 2019 la Cina aveva annunciato di avere piani molto ambiziosi per circuiti di trasporto della durata massima di 3 ore tra le principali aree metropolitane del Paese. Per adesso l'unica linea Maglev collega l'aeroporto di Pudong di Shanghai con la stazione di Longyang Road in città. Il viaggio di 30 km dura circa sette minuti e mezzo, con il convoglio che raggiunge i 430 km/h.

Ruggine, corrosione e cemento sbriciolato: il drammatico degrado delle strade d’Italia. Calcinacci, restringimenti, lavori abbandonati. Da Nord a Sud, manca l’ordinaria manutenzione per garantire la sicurezza. A tre anni dalla tragedia del ponte Morandi i riflettori sulla cura delle infrastrutture si sono spenti. E, in vista della ripresa, il Paese si sgretola. di Fabrizio Gatti su L'Espresso il 28 maggio 2021. Tre anni non sono bastati. Dai pellegrinaggi dell’allora ministro Danilo Toninelli sotto piloni e viadotti per mostrarne il degrado, la gestione di strade e autostrade fa ancora fatica a garantire l’ordinaria manutenzione. Dove erano necessarie poche mani di intonaco, ora ferri e calcestruzzo si rompono con la fragilità del pane secco. Ai piedi dei delicati punti di appoggio si accumulano grandinate di calcinacci. E i cantieri aperti per centinaia e centinaia di chilometri, a volte nemmeno prevedono la fine dei lavori. Sarà un’estate al rallentatore. Da Cesena a Orte. Da Roma a L’Aquila e Pescara. Da Firenze a Livorno. Da La Spezia a Genova e Torino. Ma anche lungo l’autostrada A1. Escluse le principali direttrici del centro-nord da poco ampliate, al risveglio economico una via crucis attende il traffico pesante e l’esodo verso le prime vacanze con in tasca il certificato Covid-free.

L’IMBUTO CHE DIVIDE L’ITALIA. Ci siamo messi in coda anche noi, dentro le spirali di questi interminabili imbuti che restringono e dividono l’Italia. Erano passate poche ore dalla tragedia genovese del Ponte Morandi, crollato la vigilia di Ferragosto del 2018, quando le telecamere cominciarono a indirizzare l’attenzione sotto tutti i ponti indeboliti dall’incuria e dal furbesco tentativo di alcune società di ritardare la manutenzione ordinaria perché diventasse straordinaria. La prima va infatti pagata dal gestore, la seconda dallo Stato. Oggi si riconosce facilmente dove sono passati ministri e magistrati: lì le armature dei piloni sono ricoperte da uno strato di intonaco fresco. Ma scendendo dai viadotti, dove nessuno è più venuto a controllare, si scoprono le vere condizioni del cemento che ha ereditato dal boom economico italiano, che ora fa i conti con il tempo. Colate sbriciolate da rughe e crepe, arrossate dalla ruggine del ferro, sfilano al ritmo binario battuto sui giunti dalle ruote pesanti dei Tir, decine di metri sopra di noi. Tum-tum, tum-tum. Come alla sommità del pilone centrale del viadotto Puleto, lungo la superstrada E45 che per migliaia di imprese ha la stessa vitale importanza dell’Autostrada del Sole. Oppure sotto il monumentale viadotto Pietrasecca, lungo l’autostrada A24 Roma-L’Aquila. E ancora sotto la A25 Pescara-Roma, a Cerchio e Cocullo, che è stato il set del videoselfie del ministro Toninelli. Qualche pilone qui, tra le potenti faglie sismiche di Avezzano e Sulmona, è stato riparato. Gli altri, dopo tre anni, ancora no. Il Pil di queste regioni, dal Lazio, all’Abruzzo, all’Umbria, alla Toscana, su fino all’Emilia Romagna, viaggia in fila nei restringimenti a doppio senso di marcia. Ore e ore di coda. E adesso che il governo di Mario Draghi ne riparla, che senso avrebbe concentrare dieci miliardi per un solo ponte tra Messina e Reggio Calabria, se poi nel resto d’Italia dobbiamo guidare con i limiti di velocità tra i venti e i quaranta orari?

L’OTTOVOLANTE E45 CESENA-ORTE. Non appena si esce dallo svincolo di Cesena Nord e si punta verso le colline, è subito chiaro cosa significhi l’ultima lettera che accompagna il Pnrr, il piano nazionale di ripresa. R come resilienza: che in psicologia è sì la disponibilità delle persone a superare un periodo di difficoltà, ma in ingegneria è la capacità dei materiali di assorbire un urto senza rompersi. Ecco, appunto. La superstrada E45 accoglie il semiasse con due buche, il cartello dei 40 obbligatori e un doppio senso di marcia. Se vi manca il mito della Salerno-Reggio Calabria, ormai rimodernata, lo ritrovate qui. Giusto un titolo sui giornali locali di qualche giorno fa conferma il nesso tra urti e resilienza: «E45, cinghiale si scontra con un’auto: donna ferita». Il cinghiale è morto investito la sera del 18 maggio dalle parti dello svincolo di Borrello, direzione sud. Meno di dodici ore dopo, la superstrada è di nuovo chiusa per un palo abbattuto da un’auto, finita fuori strada sotto la pioggia. L’asfalto drenante quassù non è mai arrivato. Gli abitanti dei paesi lungo il tracciato da due anni si sfogano con un pizzico di resiliente ironia sulla pagina Facebook Vergogna E45.

«Con il nostro primo esposto del 2013 alla Procura abbiamo denunciato anche il fatto che non ci fosse viabilità alternativa tra Valsavignone e Canili perché il tratto della statale 3 Tiberina, appartenente al comune di Pieve Santo Stefano, è chiuso da ventun anni», racconta Erika Dori, una delle coordinatrici della pagina: «Abbiamo chiesto fin dall’inizio la messa in sicurezza della E45, il ripristino della vecchia strada e di vigilare su come vengono eseguiti i lavori, per la sicurezza in primis e perché il danno economico negli anni è stato enorme». La gestione della E45, conosciuta sulle mappe anche come strada statale 3 bis Tiberina, è affidata all’Anas. E non sempre la manutenzione è stata all’altezza. Nel gennaio 2019 la Procura di Arezzo ha fatto sequestrare l’intero viadotto Puleto: anni di abbandono avevano sbriciolato la parte superficiale del cemento e fatto affiorare l’armatura. Ma chiudere il Puleto significa tagliare in due questo pezzo d’Italia, perché l’unica strada alternativa è proprio quella bloccata da oltre vent’anni da una frana, da Canili a Valsavignone, al confine tra Emilia Romagna e Toscana. Camionisti e automobilisti, in quei giorni invernali di caos, venivano gentilmente invitati a percorrere la A1 Autostrada del Sole o la A14 Adriatica. Due deviazioni da centinaia di chilometri. Oggi al viadotto non più sotto sequestro ci si arriva dopo un paziente slalom tra cantieri e gallerie chiuse per manutenzione. A Mercato Saraceno un cuore nostalgico ha infilato una bandiera rossa su un traliccio in disuso e vi ha appeso la gigantografia di Enrico Berlinguer con dedica: «Ci manchi». Ancora adesso, otto anni dopo il primo esposto alla magistratura, in caso di incidente o semplicemente di un camion guasto, non esistono né corsia di emergenza né percorsi alternativi: la vecchia statale Tiberina è sempre chiusa e la bis, quando si blocca, ti imprigiona. Sul Puleto, per non affaticarlo troppo, si passa su un’unica corsia e, quando non c’è coda, il limite di velocità è da crampo al piede destro: da quaranta bisogna scendere a venti chilometri orari. Almeno sul cartello: nella realtà restano quaranta, perché se osi andar più piano, il Suv appena dietro ti si incolla con gli abbaglianti accesi fin dentro l’abitacolo. I bordi del ponte sono consumati. Ma i piloni sono stati intonacati da poco. Soltanto il delicato punto di appoggio del viadotto su una delle pile centrali è ancora nudo: dalla sommità il calcestruzzo è caduto e i ferri dell’armatura sono esposti come le ossa di uno scheletro. L’email all’Anas per avere una spiegazione non ha ottenuto risposta. La corsia unica e il limite dei venti all’ora proseguono per tutta la lunghezza del viadotto successivo, il Tevere IV, che non è affatto in buona salute. Si sobbalza sui giunti, sospesi sul panorama mozzafiato. Anche questo monumento dell’ingegneria italiana soffre la corrosione. L’acqua salata ha consumato i blocchi di appoggio, come se fossimo in riva al mare e non in mezzo agli Appennini. È l’effetto dei mezzi spargisale, indispensabili per fondere il ghiaccio d’inverno.

Sul Tevere IV i lavori sono in corso da mesi. Avviata il 16 maggio 2019, la ristrutturazione di piloni, solette e giunti è sospesa da febbraio di quest’anno, per permettere l’asfaltatura urgente della superstrada. Stato di avanzamento in due anni: 1,74 per cento. Va un po’ meglio sul viadotto Puleto: 27,28 per cento dall’8 luglio 2019. Ma non è possibile sapere quando finirà: «Il termine dei lavori è in corso di ridefinizione», spiega la scheda tecnica pubblicata da Anas. È una prassi. Su 53 interventi di manutenzione programmata e attualmente in corso lungo la E45, per 23 non ne viene indicata la conclusione. Si arriva a Narni e poi a Orte che è quasi buio, a una velocità media da vicolo urbano.

PM SULLA ROMA-L’AQUILA-PESCARA. Già a Castel Madama, appena fuori Roma, si incontra il primo cantiere per la manutenzione della soletta di un viadotto. E dopo lunghi tratti a una sola corsia, allo svincolo di Tornimparte prima dell’uscita per L’Aquila, Strada dei parchi, l’ente gestore, ha demolito un ponte che non garantiva la necessaria capacità antisismica. Al suo posto stanno costruendo una struttura in acciaio corten, resistente alla corrosione e alle deformazioni provocate dai terremoti. Il 9 giugno la società concessionaria della A24 e A25 finirà in tribunale. Sarà il giorno dell’udienza preliminare, dopo la richiesta di rinvio a giudizio della Procura de L’Aquila per i manager a cominciare dal patron, il costruttore Carlo Toto. Sono accusati di aver messo a rischio «la sicurezza del trasporto autostradale, determinando uno stato di estremo deterioramento e il conseguente pericolo di crollo totale o parziale delle pile e degli impalcati di nove viadotti su venticinque». Il tramonto sotto la rupe di Pietrasecca, alle porte dell’Abruzzo, è uno spettacolo. Il sole basso addolcisce perfino l’ingombro dell’omonimo viadotto che come un millepiedi di milleottocentottanta metri risale lungo tutta la valle. Ma soprattutto, nei suoi chiaroscuri, mette in evidenza le crepe nei piloni, gli spigoli gonfi che cadono a pezzi, i ferri corrosi. Avezzano è appena al di là della montagna. Se si dovesse ripetere il catastrofico terremoto del 1915, nessuno sa come si comporterebbero queste strutture malandate che sono la principale via di accesso ai soccorsi. Un recente carotaggio sul viadotto Cartecchio a Teramo, pubblicizzato dalla società di Carlo Toto, dimostra che sotto lo strato di corrosione, cemento e armatura sono in ottimo stato. Ma dove i tondini esterni sono marci, comprese le staffe orizzontali che li dovrebbero trattenere, quale sarà l’effetto delle azioni sismiche sulla loro resistenza? A prima vista il viadotto Cerchio sulla A25, qualche chilometro oltre Avezzano, è perfetto. Il nuovo intonaco ricopre completamente i piloni lungo i suoi 425 metri. Da quando sono terminati i lavori, però, uno strato di macerie si è già accumulato alla base di uno di questi. Cadono dal groviglio di ferri arrugginiti che si staccano dai punti di appoggio di due impalcati, a destra e a sinistra, su cui poco fa è passata una colonna di Tir. Trenta minuti di autostrada più avanti, il viadotto Cocullo conferma la grave crisi nel sistema di vigilanza del ministero delle Infrastrutture. Tre anni dopo il disastro di Genova e la denuncia di un ministro, soltanto qualche pilone è stato ricoperto. Il resto è esattamente come allora. «Hanno lavorato un po’, poi sono andati via», racconta Giovanna, una pensionata che ogni sera porta qui il cane a passeggiare: «Un mese fa hanno scaricato del materiale. Ma non ho visto più nessuno. Spero che finiscano presto, prima che ci cada una pietra in testa». La grandinata di calcinacci è ovunque per terra, ai piedi dei piloni più corrosi. La superficie di calcestruzzo si sbriciola con la semplice pressione della mano. I ferri si spezzano come fossero cartone. Da una crepa, si affaccia curiosa e assonnata una lucertola. Sotto la campata successiva una colonia di formiche sbuca indaffarata dalla trama ferrosa delle armature. Tum-tum, tum-tum, mentre il cuore del viadotto continua a battere là in cima.

TUTTI IN FILA DA FIRENZE A TORINO. Si viaggia comodi solo intorno a Roma. Ma è pura illusione. Da Orte Scalo, l’Autosole torna alla stessa larghezza dell’anno di inaugurazione: da tre a due corsie. È buio, piove a dirotto. E anche da queste parti l’asfalto drenante non sanno cosa sia. Sotto le ruote dei camion in colonna lo strato d’acqua esplode in sbuffi di nebbia impenetrabile. A Firenze il raccordo per l’autostrada A11 è chiuso per lavori. Bisogna uscire, ma nessun cartello indica la deviazione. È quasi mezzanotte. Il coprifuoco ha svuotato gli incroci e perfino il navigatore si perde. Ecco alla fine, la barriera di Prato. Biglietto, sbarra alzata e subito ci accoglie un cambio di carreggiata a quaranta all’ora. In fondo all’autostrada che porta i fiorentini al mare, lo svincolo per Viareggio e Genova è illuminato dai lampeggianti di un trasporto eccezionale. Non si passa. Su un rimorchio stanno trainando un pesante yacht largo due corsie. Cinquanta all’ora e tanta pazienza. Finalmente La Spezia. La città più orientale della Liguria è, suo malgrado, la capitale dei ponti caduti. Almeno qui la roulette del destino non ha preteso vittime. Il 12 maggio è venuto giù il nuovo ponte levatoio della darsena di Pagliari, a ridosso del porto. L’8 aprile 2020, per una buca scavata dalla corrente, si è disintegrato il viadotto sul fiume Magra tra Santo Stefano e Albiano. Si riparte per Genova. L’autostrada A12 è praticamente su due sole corsie. Una verso Ponente, l’altra verso Levante. Gallerie da rinforzare, ponti da consolidare. Il degrado ha presentato il conto. Coda di chilometri a Nervi. Sul nuovo viadotto di Renzo Piano i limiti sono 80, poi 60, poi un primordiale 40 all’ora. Sarà sempre così, anche senza lavori, perché il progetto ha ricopiato il vecchio tracciato. Da Genova a Savona si può comunque accelerare. Ma dallo svincolo per Torino di nuovo tutti in fila. Ancora viadotti a fine carriera, operai affacciati sul vuoto, limiti di velocità e corsie ridotte per scongiurare il sovraccarico catastrofico che diede il colpo di grazia al Ponte Morandi. Arriviamo che è sera allo svincolo per l’aeroporto di Torino Caselle, lungo l’autostrada A5 per Aosta. Poco prima dell’uscita si passa sotto il cavalcavia della provinciale 500. Lo sorreggono otto cilindri di calcestruzzo divorati alla base: tre hanno già perso diversi centimetri di diametro e la parte esterna dell’armatura è ormai ridotta a scaglie di ruggine. Nemmeno qui ci sono segni di manutenzione. Eppure è impossibile non vederli.

Estratto dell’articolo di Andrea Greco per "la Repubblica" il 10 giugno 2021. Non è da tutti farsi rimborsare progetti favolosi dallo Stato per centinaia di milioni. Specie dopo non averli saputi sostenere finanziariamente. Sarc, società fondata da Vito Bonsignore e altri soci nel 2014, ce l' ha fatta l' agosto scorso, incassando 36 milioni dall' Anas per cederle il progetto della quattro corsie a pedaggi tra Ragusa e Catania. Oggi, se il ministro dei Trasporti Enrico Giovannini vorrà, Bonsignore potrebbe ottenere cinque volte tanto, addossando al concessionario pubblico la faraonica Orte-Mestre, 10 miliardi di lavori tutti da fare ma 180 milioni da pagare, per il tentativo, a Ilia Or-Me, altra società che fa capo alla holding Mec dei Bonsignore. C' è una leggina ad hoc, inserita nel decreto Milleproroghe 2019 e subito "sfruttata" da una delibera del Cipe un anno fa, che lo consente: e trasforma in milioni le rivendicazioni di privati costruttori che non riescono neppure ad avviare i lavori. C' è, anche, la prima linea dell' Anas che spinge: guidata dall' ad Massimo Simonini, l' ex dirigente fatto capo dal ministro M5s Danilo Toninelli e ora in scadenza con tutto il cda. Benché prima vorrebbe rappacificarsi con Bonsignore e il progetto di cui da una decina d' anni si favoleggia, con il titolo di "A2", l' autostrada che duplichi quella del Sole sull' Alto Adriatico. Tra l' altro a pagare l' obolo sarebbe la gestione di Luigi Ferraris, neo ad di Fs: da due anni Anas è passata sotto l' egida delle Ferrovie, e anche Simonini dopo la sostituzione di Gianfranco Battisti (altra scelta dei M5s) è a rischio di conferma. (…)

"Non doveva essere su quel treno", il disastro tra la nebbia. Angela Leucci il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il 7 gennaio 2005 si consumava la tragedia di Crevalcore: "Le responsabilità solo su chi non c'è più". L’incidente ferroviario di Crevalcore è stato sicuramente tra quelli che hanno scosso maggiormente le coscienze collettive sul concetto di precarietà della vita, portato all’aggiornamento dei sistemi di sicurezza, provocato ripercussioni anche indirette su superstiti, familiari e amici delle vittime. Perché è questo che accade dopo una grande tragedia. Una tragedia che in questo caso ha portato alla morte di 17 persone e al ferimento di altre 80. Lavoratori, pendolari, che quel giorno avevano scelto il trasporto pubblico oppure erano soliti spostarsi in questo modo.

Il viaggio

È il 7 gennaio 2005: il treno passeggeri Ir2255 sta effettuando la tratta tra Nogara e Tavernelle Emilia della linea Verona-Bologna. A bordo ci sono 200 persone, per lo più lavoratori pendolari. “Mauro non doveva andare a lavorare - ha detto a Il Resto del Carlino Nadia Zecchi, vedova di Mauro Bussolari, dipendente di una causa farmaceutica e una delle 17 vittime - Ma andò lo stesso perché doveva sistemare alcune questioni d’ufficio a Verona. E rientrò in treno perché c’era una grandissima nebbia, per evitare di fare il tragitto in automobile”. La nebbia è in effetti una delle chiavi per comprendere la vicenda: quella mattina nei pressi di Bolognina di Crevalcore c’era una fitta nebbia, e questo può aver influito sull’errore umano alla base del disastro ferroviario.

L’incidente

Sono le 12.53 quando avviene il tragico schianto frontale. Come riporta il sito Ferrovie, si stava procedendo all’incrocio tra il regionale e un treno merci, il 59308, che proveniva dal Sud Italia. I due convogli stanno procedendo in senso opposto, su un binario unico: all’epoca erano possibili degli scambi veloci attraverso un sistema di segnalazione, ovvero “il treno incontra nell'ordine prima il segnale di avviso del posto di movimento (che serve da preavviso al segnale di protezione) disposto al verde (avviso di via libera in corretto tracciato senza limitazioni di velocità), poi il segnale di protezione disposto al giallo (avviso di via impedita a 1.200 metri con riduzione di velocità per potersi arrestare entro lo spazio previsto) e successivamente il segnale di partenza disposto al rosso (conferma di via impedita)”. Ma questi segnali, che in effetti avevano funzionato, non vengono rispettati da macchinisti, aiuto macchinisti e dal capotreno: da subito ci si chiede se i segnali non siano stati visti a causa della nebbia, dato che la visibilità stimata era tra 50 e 150 metri. Così i due treni stanno procedendo con una velocità superiore a quella cui dovrebbero e finiscono per scontrarsi: in uno dei vagoni passeggeri si apre uno squarcio, ma non sono solo loro a pagare con la vita per l’errore umano. Tra le 17 vittime e gli 80 feriti ci sono infatti sì molti passeggeri, ma anche i macchinisti di entrambi i convogli. Si chiamavano Ciro Cuccinello, Equizio Abate, Vincenzo De Biase, Paolo Cinti, Francesco Scaramuzzino, Donatello Zoboli, Diana Baraldini, Claudia Baraldini, Daniel Buriali, Andrea Sancini, Maurizio Mussolari, Banka Bairam, Alberto Mich, Bruno Nadali, Anna Martini, Mario Santi e Matteo Sette.

Le responsabilità

Nel 2011 si concluse il processo a carico di 7 persone, tra dirigenti e funzionari della Rete Ferroviaria Italiana. Le indagini su Crevalcore si erano chiuse appena un anno prima. Il processo assolse le Ferrovie, imputando le sole responsabilità al macchinista e al capotreno, i compianti Vincenzo Debiase e Paolo Cinti: secondo i magistrati, non videro i semafori rossi a causa della nebbia.

“Quel verdetto è vergognoso - disse all’epoca Alessandra, mamma del ventenne Daniel Buriali, la vittima più giovane - una presa in giro. Sulla tratta Verona-Bologna non c'era il dispositivo di sicurezza che blocca automaticamente il treno se passa con il rosso e mi si vuol far credere che la colpa era dei macchinisti? […] Allo Stato italiano chiedo giustizia quella vera. Non mi basta quella sentenza. Vorrei vedere in faccia i capi delle Ferrovie e vorrei che loro vedessero me. Vorrei fissare i loro occhi, senza tante parole”.

Oltre la tragedia

Come spesso accade in questi casi, c’è stato un cambiamento radicale in termini di organizzazione e sicurezza: la linea è oggi a doppio binario, e possiede un diverso sistema di sicurezza, il Sistema di Controllo della Marcia Treno, che mantiene la vigilanza elettronica sul personale di macchina, cercando quindi di prevenire possibili errori umani. Vicino all’ex stazione di Bolognina c’è oggi inoltre il Parco 7 gennaio 2005, con una stele in cui sono annotati i nomi delle 17 vittime. I superstiti furono invece al centro di un case study psicologico di cui si è occupata l’Università di Bologna: essere sopravvissuti alla tragedia ha rappresentato per loro l’esplosione della sindrome da stress post-traumatico ma anche ma anche lo sviluppo del “senso di colpa del sopravvissuto”, che nasce dalla convinzione di non essere riusciti a fare abbastanza per salvare gli altri.

"Abbiamo deragliato", poi il boato: così a Viareggio morirono in 32

“Dalle parole dei sopravvissuti - si legge nell’articolo di Pietrantoni, Palestini, Prati e Cigognani apparso nel 2008 sulla rivista Psicologia Contemporanea - emergono una sensazione di choc e incredulità (parole come ‘agghiacciante’, ‘irreale’ sono molto frequenti) e successivamente le reazioni tipiche della ‘fase dell’inventario’ in cui i sopravvissuti verificano le conseguenze dell’evento su se stessi e sui loro cari: ‘Un miracolo. Ancora non ci credo di essere riuscita a salvarmi’; o ancora: ‘Uno sembrava illeso. Però correva in circolo e non si fermava mai. E ripeteva grazie, Madonna. Quando mi sono avvicinato mi ha abbracciato e ci siamo messi a piangere’. Dai resoconti dei superstiti, emerge l’attuazione anche in un contesto così drammatico di comportamenti prosociali e altruisti, spesso però senza successo considerata la dinamica dell’incidente: ‘C’era un uomo, infatti, ed era incastrato. Urlava, ma non siamo riusciti a tirarlo fuori’”.

A cinque giorni dal disastro di Crevalcore, un macchinista, Alberto Guerro, si suicidò. Era amico dei colleghi sul treno merci: come riporta Repubblica, c’è chi lo ritiene la 18esima vittima del disastro, poiché il suicidio potrebbe essere stato innescato dal dolore per la perdita e legato a un precedente deragliamento subito in prima persona. Ma naturalmente si possono fare solo supposizioni in merito, senza averne certezza.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Carlo Vulpio per il “Corriere della Sera” il 25 ottobre 2021. Finirà rubricata come una tragica fatalità. Ma poiché è di quelle «fatalità» che si potrebbero evitare con poco, anche semplicemente con la presenza di qualcuno - un sorvegliante, un poliziotto, un casellante ferroviario come quelli che c'erano una volta -, non è stata una fatalità. Angela Giancaspero, studentessa di 16 anni, è morta sabato sera intorno alle 20,30 nella stazione delle Ferrovie dello Stato di Acquaviva delle Fonti, travolta dal treno Lecce-Milano. Non è ancora chiaro per quale ragione, ma a un certo punto Angela si è staccata dal drappello dei suoi amici ed è andata a sedersi sulla banchina del secondo binario, proprio sulla famosa linea gialla che non deve essere mai oltrepassata e proprio con le gambe penzoloni sulle rotaie. Si è seduta e si è immersa nell'ascolto della sua musica, con le cuffie alle orecchie e il cappuccio della felpa in testa. Non ha sentito il fischio del treno e nemmeno ha potuto vedere Raffaele, 23enne di Gioia del Colle, che dall'altra parte della banchina si sbracciava per segnalarle il pericolo. In un attimo, il treno l'ha travolta, martoriandone il corpo sulla banchina, sotto la scritta bianca e blu della stazione. I suoi amici terrorizzati hanno chiamato subito un'ambulanza, che, pur avendo Acquaviva delle Fonti uno dei più grossi ospedali della regione, è arrivata - riferiscono testimoni oculari - dopo 45 minuti. Certo, non ci sarebbe stato nulla da fare, ma un'ambulanza non può arrivare con tanto ritardo. Così come è inconcepibile che una stazione delle Fs di una città di ventimila abitanti sia di fatto una vera e propria terra di nessuno in cui chiunque possa fare ciò che vuole. Non un poliziotto, non un dipendente Fs, solo due dipendenti (precari) di una ditta di Torino che fanno i turni al mattino e al pomeriggio per mantenere in uno stato di decenza un luogo in disfacimento, dove funzionano soltanto le macchinette dei biglietti e l'altoparlante che da remoto dice le solite cose, ma con la voce registrata aggiornata che ammonisce di mettere la mascherina. Per il resto, qui si spaccia, si beve, si spaccano i servizi igienici e si abbandona ogni tipo di rifiuti, mentre il «nuovo corso» delle Fs, come altrove, ha chiuso la sala d'attesa, le biglietterie e tutti i locali che fanno di una stazione una stazione, lasciando che chi la frequenta se la sbrighi da solo. Com' è accaduto all'addetta (precaria) alle pulizie, aggredita due volte con un coltello da un nigeriano, arrestato solo dopo la seconda denuncia della donna. Angela Giancaspero - che era della vicina Cassano delle Murge e ad Acquaviva frequentava l'istituto «Rosa Luxemburg» - è stata imprudente, ma, come dice Davide Carlucci, sindaco di Acquaviva, «noi con questa stazione abbiamo da sempre un grosso problema di sicurezza che riguarda soprattutto i ragazzi come Angela e quei soggetti marginali che in un luogo abbandonato come questo fanno ciò che vogliono». In altre parole, se ci fosse stato qualcuno a impedire che Angela si sedesse sul bordo della banchina non ci sarebbe stata alcuna tragica fatalità. Angela, fa notare il sindaco, è stata travolta proprio di fronte ad alcuni locali abbandonati di proprietà di Rete ferroviaria italiana, per i quali è pronto dal 2014 un progetto del Comune, già finanziato, che vorrebbe trasformarli in una velostazione e così animare il luogo, sottrarlo alla sua spettralità. Niente, Rfi ha bloccato tutto perché teme di dover pagare l'Imu. Mentre Fs non aveva nessuno che potesse ordinare ad Angela: «Via da lì». C'è stato solo il «pianto del treno», cioè lo straziante fischio prolungato del treno successivo, che, com' è usanza, ha salutato Angela.

"Ho scavalcato le persone a pezzi", quella strage che si poteva evitare. Mariangela Garofano il 23 Maggio 2021 su Il Giornale. Cinque anni fa, il 12 luglio 2016, si consumava uno dei disastri ferroviari più gravi del nostro Paese, che costò la vita a 23 persone, i cui parenti ancora oggi chiedono che sia fatta giustizia. “Scalza, ho tolto le macerie e le lamiere e mi sono messa a gridare. Ho scavalcato le persone a pezzi…”. Queste le agghiaccianti parole di una donna, superstite del più violento incidente ferroviario accaduto in Puglia. Sono le 11.06 del 12 luglio 2016, quando si avverte un boato provenire dalla campagna tra Andria e Corato. È un fragore di lamiera che stride, ed è così forte che lo sentono fino al centro di Corato. Quando i soccorsi arrivano sul posto si trovano davanti una scena apocalittica, surreale. Ci sono pezzi di lamiera ovunque, sparsi in mezzo agli ulivi, fino a 100 metri di distanza. E poi le urla: grida di dolore provengono da tutta la campagna. Le forze dell’ordine e i soccorritori impiegano un istante a constatare che il tremendo fragore proveniva da due treni della Ferrotramviaria, che si sono scontrati frontalmente. Dei due convogli ora resta un groviglio d’acciaio, a testimonianza della violenza dell'impatto. Il treno che veniva da Corato è adagiato sopra l'altro treno, come se la velocità dello scontro lo avesse fatto volare in aria. Siamo al chilometro 51 del tratto ferroviario Bari-Barletta, dove il restringimento dei binari costringe i convogli a transitare su un binario unico. I vigili del fuoco e i soccorritori arriveranno da ogni parte del sud Italia per aiutare: da Bari, Foggia, perfino da Matera, Caserta e Avellino. Viene approntato un ospedale da campo per prestare i primi soccorsi ai feriti, e l'appello dell'Avis e degli ospedali a donare il sangue per i feriti più gravi, viene accolta da tutta la Puglia. Per trentadue ore si lavora incessantemente per estrarre fuori dalle macerie il maggior numero di passeggeri, ma da subito ai soccorritori è chiara la portata del disastro: uno dei treni ha solo due vagoni su quattro intatto, l'altro uno. Il bilancio è di ventitré morti e cinquantuno feriti, giovani che si stavano godendo un viaggio estivo, pendolari che si recavano al lavoro, ma anche pensionati e madri di famiglia.

Le vittime. A perdere la vita sul colpo saranno i due macchinisti, Pasquale Abbasciano, che all’epoca era prossimo alla pensione, e Luciano Caterino, di soli 37 anni. È stato grazie all’anello di fidanzamento che è stata riconosciuta Jolanda Inchingolo, una giovane di 25 anni prossima alle nozze. Giuseppe Acquaviva, agricoltore, non viaggiava su uno dei treni, stava lavorando nei campi nei pressi dello scontro, ed è rimasto ucciso dalle lamiere, schizzate in aria nell’area circostante, dopo la collisione. E poi Francesco Tedone, appena sedicenne, rientrato da un anno in Giappone, che quel giorno stava andando ad Andria per perfezionare l'iscrizione al quinto anno di scuola superiore. Ventitré nomi, ventitré vite spezzate da quello che da subito fu definito un errore umano nella gestione del traffico ferroviario, aggravato da una serie di altri fattori come la mancata formazione del personale e il mancato ammodernamento della rete ferroviaria. Patty Carnimeo, 30 anni, saliva su quel treno per recarsi al lavoro a Bari tutti i giorni e lo fece anche quel maledetto 12 luglio, lasciando una bimba di due anni. Sono tanti i nomi delle vittime di un disastro che si sarebbe potuto evitare. I familiari oggi cercano ancora la verità, come si legge sulla pagina Facebook Astip (Associazione Strage Treni in Puglia 2016), dove puntualmente vengono forniti aggiornamenti sul processo in corso. Ma soprattutto chiedono giustizia per i propri cari che non ci sono più.

La dinamica dell’incidente. Ma cosa ha portato i due treni a scontrarsi e soprattutto, a viaggiare contemporaneamente? È evidente che quella mattina del 12 luglio di 5 anni fa ci fu un problema nelle comunicazioni, e che uno dei due convogli non sarebbe dovuto transitare su quel maledetto binario. Nella parte della rete ferroviaria a binario unico vige il regime di circolazione a blocco telefonico. Questo significa che ogni capostazione, prima di autorizzare la partenza di un treno atteso nella sua stazione, ottenga il “via libera” dal capostazione della stazione in cui il treno dovrà effettuare la fermata successiva. Un sistema ormai superato, che avrebbe dovuto essere sostituito dal blocco automatico da tempo. “Fa dunque particolarmente accrescere la rabbia e senso di ingiustizia - si legge sul blog Giustizia per Andria-Corato - sapere che la Regione Puglia avesse stanziato finanziamenti per realizzare l’ammodernamento della tratta per contribuire alla sicurezza della stessa e che i vertici societari invece avessero convogliato quei fondi alla produttività della infrastruttura e quindi agli utili che poi hanno incassato i soci”. Quel giorno qualcosa si è inceppato, e il treno proveniente da Andria è partito in contemporanea a quello in arrivo da Corato, dando luogo a uno dei disastri ferroviari più gravi mai avvenuti in Italia. Il destino beffardo ha fatto sì che non vi fosse la minima possibilità da parte dei due macchinisti di evitare lo scontro. L’incidente infatti ebbe luogo su una curva affiancata da alberi di ulivo, che resero impossibile ai macchinisti accorgersi dell’altro treno in arrivo.

Le indagini. Subito dopo l’incidente, la procura di Trani ha avviato le indagini per i reati di omicidio colposo plurimo e disastro ferroviario. La società Ferrotramviaria è stata accusata di non aver disposto l’adeguamento tecnologico sulla tratta Bari-Barletta, nonostante negli anni vennero aperti fascicoli inerenti a molti altri “incidenti sfiorati” sulla medesima tratta. La Bari-Barletta, su cui transitavano ogni giorno decine e decine di convogli, non era sicura e questo non era una novità. I fascicoli aperti, e mai segnalati all’Ustif, l’ufficio addetto ai controlli sulle tratte regionali, parlano di “grave e concreto rischio per la salute” causato dalle condizioni della tratta in questione. Dopo vari rinvii a giudizio, il 13 maggio di quest’anno è ripreso il processo, che vede imputati 17 impiegati dalla Ferrotramviaria, tra dirigenti e dipendenti. Sotto accusa anche dirigenti del Ministero dei Trasporti e dell’Ustif, accusati di disastro ferroviario, omicidio colposo e lesioni gravi colpose, omissione dolosa di cautele, violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro e falso.

Mariangela Garofano. Il giornalismo è la mia passione fin dai tempi dell’università. Per ilGiornale.it scrivo di cronaca e spettacoli. Recensisco romanzi per alcuni blog letterari da diversi anni. Da sempre appassionata di scrittura e libri, ho svolto il lavoro di correttore di bozze. Per amore della lettura, ho gestito anche una libreria a Bologna

Da "liberoquotidiano.it" il 16 maggio 2021. Kat Kamalani, assistente di volo e star di TikTok, ha rivelato un “segreto” del suo mestiere su cosa fanno realmente i membri dell’equipaggio quando salutano i passeggeri mentre si recano ai loro posti. “Avete mai camminato su un aereo e visto gli assistenti di volo in piedi proprio qui a salutarvi? O gli assistenti di volo che camminano su e giù per il corridoio?" si è chiesta Kat in un video che ha fatto oltre due milioni di visualizzazioni. Nel video la ragazza ha ammesso che il segreto dietro il saluto c'è l'obiettivo di trovare “persone abili” sul volo, cioè persone che sono in grado di assistere gli assistenti di volo in caso di emergenza. Kate si riferisce all'acronimo ABP, cioè persone tra cui medici, infermieri e personale militare, che sarebbero in grado di assisterli in caso di crisi, per esempio durante una violazione della sicurezza o un’emergenza medica. “Ma stiamo anche controllando un’altra cosa. Stiamo cercando oggetti che non dovrebbero essere a bordo dell’aereo, come ad esempio liquidi. Inoltre, prestiamo attenzione al traffico di esseri umani, succede spesso nel settore e la sicurezza dei nostri passeggeri è la nostra priorità numero uno. In sintesi, cerchiamo cose che sembrano fuori posto“, ha sempre svelato l'assistente di volo. Un follower gli ha anche detto di essere un medico e le ha chiesto come potrebbe riconoscerlo. “Oh, lo sappiamo“, ha risposto Kamalani nei commenti, aggiungendo un’emoji ammiccante. Infine, in un altro video di qualche tempo fa, l'assistente di ha affermato di non bere mai l'acqua calda disponibile a bordo degli aerei e ha anche non consigliato alle persone di farlo, spiegando che l'acqua calda proviene dai serbatoi dell'acqua della macchina che vengono puliti raramente. Auguri per il prossimo volo con Kate Kalamani.

Jenner Meletti per "il Venerdì - la Repubblica" il 21 aprile 2021. Casalecchio di Reno (Bologna). Il camionista romeno Constantin aspetta che il cuoco spadelli la Regina pappardella (euro 10,90) e la metta in un contenitore. «Vado a mangiarla nella mia cabina. Non mi piace stare in mezzo agli altri. Ma un pasto caldo al giorno devo farlo». Decine di tavoli, nel ristorante La Fucina. Uno solo è occupato da due persone. Stanno mangiando il Mezzo pollo con patate, euro 13,90. Il Covid sta davvero cambiando il mondo. Fino a poco più di un anno fa facevi la fila al bar del pianoterra, per un caffè o le sigarette. Ti fermavi davanti al bancone per scegliere fra Capri, Milanese, Rusticone o Schiacciata, tutti a 5,90 euro. Dovevi aspettare alle casse del ristorante e del supermercato. Adesso, al bar al pianoterra del Cantagallo Ovest, c’è solo una signora polacca, Anastazja: «Devo andare al Cantagallo Est. Fra poco passa il furgone». Ha un valigione che potrebbe contenere un lottatore di wrestling. «Lavoro a Reggio Emilia. Mando a casa tutto ciò che serve a mio marito e ai nostri quattro figli. Il furgone parte da Roma e va a Cracovia. Domattina la valigia sarà a casa mia». Non devono spaventare i parcheggi, i bar e i ristoranti quasi vuoti. Semplicemente qui tutti sono in trincea, aspettando la fine della pandemia. E non vogliono cedere, anche se gli addetti sono il doppio dei clienti. Se abbassi la serranda non sai se o quando potrai rialzarla. E non puoi certo abbandonare questo Autogrill (fino al 1977 Mottagrill, voluto da Angelo Motta, industriale dei panettoni) che nel giorno in cui fu aperto, il 29 aprile di sessant’anni fa, venne esaltato come «il maggiore d’Italia e il più grosso d’Europa». Il passato, a volte, può dare speranza. Dalle grandi vetrate che sovrastano le corsie dell’A1, come in un film vedi passare la storia d’Italia. Dai giorni in cui “si andava a Messa in autogrill” e poi si pranzava nel ristorante “con cucina e girarrosto a vista” fino ai mesi prima del Covid, quando qui arrivavano fra i 6.500 e 7.000 clienti al giorno. Tutto iniziò con una benedizione, quella del cardinale di Bologna Giacomo Lercaro, arrivato al Cantagallo con il sottosegretario alla Pubblica istruzione Giovanni Elkan. «Anche Gesù» disse Sua eminenza «nella parabola sul Buon Samaritano parlò di un piccolo posto di ristoro sulla strada per Gerico. Qui tutto è comunque più grande, moderno». Duecento posti al ristorante, le sfogline che preparava no in diretta tortellini e tagliatelle. Si poteva entrare senza prendere l’autostrada, superando un tornello. La chiesetta fu aperta il 15 aprile 1966 e dedicata a Sant’Angelo per ricordare Angelo Motta, il grande benefattore. «Quel giorno» ricorda monsignor Ernesto Vecchi, già vescovo ausiliario di Bologna, «c’ero anch’io, ero segretario del cardinal Lercaro. Il Mottagrill era davvero una piccola città. Oltre alla chiesetta, con Messa celebrata ogni domenica alle 11, c’erano l’ufficio postale e quello dell’ente per il turismo, un’agenzia della Banca Commerciale, la libreria e l’edicola. C’era anche un grande negozio dell’Oreal con le ragazze e Mike Bongiorno che faceva la pubblicità. Avevo trent’anni e mi chiedevo: cosa dirà il cardinale di fronte a prodotti di cosmesi e di bellezza? Lercaro sembrò leggermi nel pensiero. “Non preoccuparti”, disse. “Nella Bibbia ci sono tante pagine dove si parla di acconciature femminili e di belletti”». Andare al ristorante del Cantagallo diventa una moda. Si lasciano la Seicento o la Lambretta nel parcheggio esterno e per qualche ora si vive in autostrada senza pagare il pedaggio. Ci passano tutti, nell’autogrill più famoso d’Italia. Il ristorante viene riempito di fiori per l’arrivo di Sofia Loren. Attori e cantanti quasi ogni notte, da Benigni a Morandi. Lasagne o tortellini per Enrico Berlinguer, Giovanni Spadolini, Ugo La Malfa. Tutti i 150 dipendenti entrano invece in sciopero quando a fine giugno 1973 si presenta Giorgio Almirante del Msi con signora e scorta. Niente caffè e niente pieno di benzina. Il giorno dopo un gruppo di fascisti danneggia bar e ristorante. «Siamo stati i primi», dice Demetrio Chiurco, responsabile area ordinaria Autogrill, «a legare le nostre cucine al territorio. Al Cantagallo, ad esempio, sono sempre state presentate le eccellenze locali. Centinaia di migliaia di viaggiatori per la prima volta hanno visto come si facevano i tortellini. E c’era anche lo spettacolo, quando venivano affettate le grandi mortadelle o si aprivano le forme di parmigiano. Gli americani ci facevano i filmini. Cantagallo è stata ed è una comunità. I bar erano come quelli di paese. Trovavi gli stessi camerieri per due chiacchiere e un caffè. Sia per il camionista partito da Varsavia che per il ciclista arrivato da Sasso Marconi. Il ponte di settanta metri mantiene il suo fascino. Dopo il pranzo in tanti scattano foto o selfie con le montagne dell’Appennino sullo sfondo». Quattro anni prima del Cantagallo, il 3 febbraio 1957, fu trasmesso il primo Carosello. «Umberto Eco» scrive Simone Colafranceschi in Autogrill, una storia italiana, edizioni il Mulino «disse che con Carosello il pubblico non subisce ma desidera e richiede la pubblicità. Ecco, qualcosa di simile sarebbe accaduto sulle autostrade: un territorio vergine e dunque un luogo ideale per fondare le nuove città, emblema di una nuova civiltà dei consumi». Consumi e velocità, ma non solo. Al Cantagallo puoi trovare anche una sorpresa: la chiesa dell’Angelo è diventata un piccolo santuario. C’è infatti un’urna trasparente che raccoglie le “richieste di preghiera” lasciate dai viaggiatori. Nell’ultimo sabato di ogni mese i biglietti vengono raccolti e letti nella vicina chiesa di San Biagio. «Sono più di duemila all’anno» racconta il parroco don Sanzio Tasini, «e il numero non è diminuito in questi tempi di autostrade al minimo, anzi. Tante le preghiere delle badanti, per i loro figli lasciati a casa, per il marito senza lavoro». Il Cantagallo Est, come Teano Est sull’A1 da Napoli a Roma, è un crocevia di badanti. Aspettano pullman e furgoni dal Sud e partono verso il Brennero, l’Austria, la Slovenia e poi verso tutti i Paesi dell’Est. Al Cantagallo Ovest si aspettano i pullman per Firenze, Roma, Napoli. L’appuntamento in autostrada e non in città taglia ogni sosta di almeno un’ora. «Noi chiediamo che la chiesetta sia segnalata meglio. Vorremmo tornare ai tempi in cui accanto al luogo di preghiera c’erano i tavoli per un riposo o un picnic senza frenesia. In viaggio si trovava anche il tempo di pregare» spiega il parroco. La signora Carla, con un gruppo di preghiera, ogni mese legge le invocazioni a “Maria Madre dell’Amore” nella chiesa di San Biagio. “Il mio papà adesso è lì con Te”. “Ti prego per mio zio che ora è in cielo”. Forse sono vittime del Covid. “Dacci la gioia di essere genitori, assistici in questo viaggio della speranza”, scritto da chi va a cercare un aiuto all’ospedale Sant’Orsola di Bologna. Tanti biglietti lasciati da camionisti italiani e stranieri. “Da Palermo a Monaco di Baviera. Proteggimi, fammi tornare a casa dalla mia famiglia”. La signora Anastazja adesso è al Cantagallo Est. «Il furgone è appena passato. Ora aspetto mia cognata, che è andata a “svoltare“ a Sasso Marconi. Presto sarà qui. La prossima volta spero di salire anch’io sul furgone. Non torno a casa da due anni».

Salvatore Merlo per “il Foglio” il 6 agosto 2021. Un grande manager di carriera americana, cresciuto alla Procter & Gamble, poi chiamato alla Fiat da Marchionne, il dirigente aziendale che fece la fortuna del Telepass e che poi trasformò l’aeroporto rudere di Fiumicino nel migliore aeroporto d’Europa, è stato linciato mercoledì da M5s, Lega, Pd, FI e  FdI. Scelto di fatto da Palazzo Chigi secondo principi di competenza e mercato per salvare il carrozzone sfasciato di Anas, l’altro giorno Ugo de Carolis è stato spinto dai partiti a rinunciare all’incarico di amministratore delegato di questa povera azienda colabrodo. Secondo il seguente pseudo ragionamento di Danilo Toninelli, che ha ricompattato il populismo gialloverde con il concorso gregario del Pd: “Parliamo di un uomo di fiducia dei Benetton e dell’ex ad di Autostrade Giovanni Castellucci”. Poiché nulla importa che De Carolis non abbia mai lavorato in Autostrade, né mai si sia occupato di ponti e viadotti Aspi, tanto meno del Morandi, e che insomma nulla ha avuto a che fare con la tragedia di Genova, il problema di De Carolis – a quanto pare –  è  quello di essere stato un  amministratore delegato all’interno della enorme galassia finanziaria e industriale che fa riferimento alla famiglia Benetton. Circa seicento manager, tredicimilacinquecentocinquanta dipendenti in Italia e trentunomila nel resto del mondo. Seguendo questo bislacco filo logico (logico si fa per dire), chiunque abbia lavorato con Benetton o Castellucci (pure i negozi di maglieria?), avrebbe sostanzialmente collaborato e cooperato a una specie di obiettivo societario globale che consisteva nel far crollare il ponte Morandi. Non responsabilità personale, ma responsabilità oggettiva. Tipo la Salem del 1642 (1692, ndD), ma con Toninelli giudice religioso: bruciamo sul rogo i Benetton e chiunque sia stato con loro. Pure il cane. Cucinavi a casa Benetton? Tizzone ardente. Hai guidato la macchina di Luciano? Ti impaliamo. Hai gestito l’Aeroporto di Roma? Ti tagliamo un dito. Verrebbe da ridere, se non ci fossero risvolti penosi. Si segnala infatti una prima vittoria del populismo senza cervello sul governo di Mario Draghi, che non ha saputo difendere una sua scelta. E si evidenzia la subalternità del Pd agli sciroccati del M5s. Tutti sanno che gli unici manager capaci, non solo in Italia ma nel mondo, sono quelli che vengono dal privato. Che seleziona secondo princìpi di risultato. Per questo era stato chiamato De Carolis. Perché la missione è complicata. Serviva uno che non sprecasse l’occasione offerta dai miliardi di euro del Pnrr che finiranno ad Anas, il decrepito falansterio che conta negli ultimi tre anni più crolli di ponti di quanti non ne siano avvenuti in 20 anni di Autostrade. Il semestre bianco comincia male.

Maurizio Belpietro per “La Verità” il 5 aprile 2021. Vi ricordate di Francesco Maria De Vito Piscicelli? Se il nome non vi dice nulla vi rinfresco la memoria. Il signore in questione è un imprenditore che nel febbraio di 11 anni fa venne arrestato per gli appalti della ricostruzione dopo il terremoto in Abruzzo. Non fu però per le accuse di corruzione che il suo nome finì sui giornali, ma per la pubblicazione della trascrizione di una conversazione tra lui e il cognato. Al telefono, mentre gli italiani seguivano con dolore le operazioni di soccorso nelle zone stravolte dal sisma, i due se la ridevano. Il congiunto di Piscicelli raccomandava di partire subito in quarta, cioè di darsi da fare con gli appalti: «Perché non c'è un terremoto al giorno». Nel senso che una «fortuna» del genere non capita spesso. E l'altro rispondeva: «Io ridevo stamattina alle 3 e mezzo dentro il letto». In pratica, la tragedia aveva messo allegria a Piscicelli. Il cinismo dei due imprenditori felici per una calamità in cui perirono oltre 300 persone suscitò un'indignazione collettiva e non ci fu giornale che non avesse messo in prima pagina la notizia dei due avvoltoi che si felicitano fra loro per la catastrofe. Vi chiedete perché tirare fuori ora questa vecchia storia? Perché ho la sensazione che l'indignazione proceda a singhiozzo: se c'è di mezzo uno sconosciuto come Piscicelli, ci si può sdegnare per il disprezzo della vita umana, se invece si parla di qualcun altro, magari della famiglia Benetton, si procede con cautela, moderando le parole. Anzi: cancellandole. Già avevamo notato l'atteggiamento prudente della grande stampa due anni e mezzo or sono, quando venne giù il ponte Morandi. Per far spuntare in prima pagina il nome degli imprenditori di Ponzano c'erano voluti giorni: tranne La Verità e forse un altro quotidiano, raccontando la strage in cui morirono 43 persone i giornaloni riuscirono a non citare i padroni di Autostrade, quasi che la società fosse una specie di public company, cioè di azienda con tanti piccoli azionisti. In realtà, come tutti sanno, il socio di riferimento era uno solo, ossia la holding dell'impero dei maglioni che per anni, grazie alla riduzione degli investimenti in manutenzione, aveva incassato dividendi miliardari. Ma se alla fine, dopo un disastro in cui 556 persone persero la casa, con molta timidezza il nome dei Benetton fu fatto, adesso si procede con cura, cercando di non mettere troppo in imbarazzo i signori di Ponzano, evitando cioè di disturbare la vendita di Autostrade a Cassa depositi e prestiti, operazione che, guarda caso, si sta concludendo proprio ora. Vi chiedete che cosa ci sia di nuovo da aggiungere a una vicenda che già è stata scandagliata anche da una raffica di indagini? Beh, di nuovo c'è quel che abbiamo raccontato l'altro giorno e di certo è una novità. Il settimanale Panorama, scartabellando fra le carte dell'inchiesta della Procura di Genova, ha pubblicato le conversazioni tra i vertici del gruppo, ovvero tra l'amministratore della holding di famiglia e gli amministratori di Atlantia. È il 31 dicembre del 2019 e Gianni Mion parla con Carlo Bertazzo e Fabio Cerchiai, rispettivamente amministratore delegato e presidente della società che controlla Autostrade. Poche ore prima, sull'autostrada dei trafori che porta a Genova, dal soffitto di una galleria, è crollato un enorme blocco di cemento e solo per un soffio non ci sono stati morti. Dopo il disastro del ponte Morandi, ci si aspetterebbe che i tre dimostrino preoccupazione per la sicurezza degli automobilisti. Invece, a quanto pare, i manager del gruppo sono preoccupati solo delle loro vacanze. Riporto direttamente il brano di Panorama, che molti lettori già conoscono perché La Verità lo ha scritto due giorni fa. «Cerchiai è pensieroso: "per andare giù devo fare tutte le gallerie". Risate. Bertazzo fa riferimento a un censimento del Mit sui tunnel non a norma: "Mi son preso paura quando m' ha detto 200 gallerie su 270 in Italia". Irrompe Mion: "Devi andare in aereo, devi andare in aereo". Cerchiai sta al gioco: "Vado in aereo, difatti, sì". Altra ilarità. Chiude Mion: "Eh sì, però, se vai in galleria puoi fare tu il monitoraggio". Nuove risate». Tutto ciò, ribadisco, dopo il crollo del ponte Morandi con 43 vittime. E dopo la strage del bus caduto dal viadotto dell'autostrada Napoli-Canosa in cui, anche per scarsa manutenzione, morirono 40 persone e otto rimasero ferite. Certo, il cinismo di Piscicelli era insopportabile: un insulto ai morti del terremoto. Ma anche quello dei manager di casa Benetton è un insulto alle vittime della mancata manutenzione. E tuttavia, l'indignazione della grande stampa per quelle risate non c'è stata. I tre scherzano perché un pezzo di galleria è caduto e dicono di non voler viaggiare in autostrada per paura, ma sono gli stessi che sulle autostrade incassano fior di pedaggi, mandando altri sotto le gallerie. Non so voi, ma a me è parsa subito una notizia da prima pagina. Ai giornaloni no, tanto che hanno evitato di pubblicarla. Zitti zitti, perché una delle famiglie più ricche d'Italia non può certo essere trattata come un Piscicelli qualunque. E poi, come la mettiamo con la bella pubblicità multirazziale e multimilionaria fatta dai Benetton?

Claudio Antonelli per “la Verità” il 23 aprile 2021. Il 30 novembre scadranno i termini della seconda offerta per rilevare da parte di Cassa depositi e prestiti la maggioranza della rete autostradale. Una telenovela (al di là del recente ruolo di Cdp) che vede lo Stato e la famiglia Benetton litigare dall' indomani del crollo del ponte Morandi e dei funerali di ben 43 persone. Una telenovela che ha visto il governo incapace di sfilare la concessione e pronto a trattare con i soci di Atlantia che fino a oggi hanno sempre mantenuto una posizione di forza. Basti pensare che la prima offerta inviata da Cdp poco più di un mese fa è stata snobbata dai produttori di lana di Ponzano Veneto. Le intercettazione finite sui giornali e presenti nelle oltre 100 pagine di ordinanza di arresto degli ex manager di Aspi non possono però cadere nel vuoto. L' ammissione da parte dei rappresentanti della famiglia Benetton di aver risparmiato sulle spese destinate alla manutenzione a fronte di un progressivo incremento dei dividendi apre un solco profondo nella politica. In tutta quella parte della sinistra che ha sostenuto sempre e spada tratta il gruppo di Ponzano Veneto. Sebbene la gestione delle tariffe e i ritorni sugli investimenti fosse smaccatamente sotto gli occhi di tutti, adesso c' è la famosa smoking gun che servirebbe per separare il destino dei Benetton da quello di Autostrade per l' Italia. Se questo accadrà e in breve tempo è invece un altro paio di maniche. La sinistra autostradale, quella delle porte girevoli con le società del gruppo, sta andando in testa coda, ma è ancora presto per capire se basterà per avviare un cambio di passo. Il ministro ai Trasporti, Paola De Micheli, si è limitata a dire che la trattativa per il futuro di Aspi afferisce a Cdp. Come se il suo ministero e il resto del governo fossero degli ingenui passanti. La De Micheli ha fatto parte della fondazione Vedrò di Enrico Letta chiusa nel 2013 per evitare «conflitti di interessi» con la presidenza del Consiglio. Non è una notizia ricordare che Autostrade è stata a lungo finanziatrice di Vedrò. Simonetta Giordani nel 2006 lavora per Aspi. Quando l' esponente della Margherita siede a Palazzo Chigi, chiama la Giordani a fare il sottosegretario ai Beni culturali. L' anno dopo passa la mannaia di Matteo Renzi e la manager per un po' ricopre l' incarico di consigliere in Fs, finché torna in Atlantia, dove viene incaricata della gestione degli affari istituzionali. Lo stesso Letta entra nel cda di Abertis e se ne esce poco prima che il gruppo dei Benetton lanci l' Opa sulla società spagnola. Tempismo perfetto. Che però non sposta il tema. Oggi una delle figura che suggerisce nell' orecchio alla De Micheli è Fabrizio Pagani, lettiano di ferro, sherpa nel G20, capo segreteria per il ministro Pier Carlo Padoan. Che cosa stia suggerendo in queste ore per uscirà dal cul de sac in cui si è infilato mezzo Pd non lo sappiamo. Intanto ieri ci sarebbe stata una riunione tra i capi di gabinetto dei ministeri interessati alla partita e l' ad di Atlantia Carlo Bertazzo, il quale se ne sarebbe andato con ben poche rassicurazioni. Di certo, l' altra metà del Pd comincia a vedere con un po' di fastidio persino le storiche relazioni e porte girevoli con Autostrade. Paolo Costa, ad esempio. Tra il 1997 e il 1998 ricopre l' incarico di ministro dei Lavori pubblici, per poi diventare ministro delle Infrastrutture nel 2006, prima che lo stesso incarico vada ad Antonio Di Pietro. Costa è vicino a Romano Prodi. Tra il primo e il secondo incarico romano, fa il sindaco di Venezia. Nei 24 mesi trascorsi al ministero dei Lavori pubblici contribuisce a preparare al fianco del Professore la privatizzazione della rete autostradale e getta le basi dell' intero sistema di concessioni. Che verrà modificato più volte negli anni, senza però venire mai stravolto. A dicembre del 2019 la Corte dei conti se ne esce con una relazione pesantissima. Stronca il sistema di calcolo delle concessioni. «Fin dagli anni Novanta, le autorità indipendenti lamentano la mancata apertura al mercato delle concessioni e l'opacità nella loro gestione, non essendo state le convenzioni di affidamento, fino all' anno passato, rese pubbliche». Tradotto, secondo i magistrati contabili siamo di fronte a pochi investimenti, manutenzione scarsa, modelli tariffari tutti da rivedere e clausole contrattuali vantaggiose per i privati. Eppure si arriva a ieri, giorno in cui la De Micheli va in Aula e promette di prendere in considerazione l' ultima relazione dell' autorità dei trasporti che fa a pezzi il nuovo Pef di Aspi. «Valuteremo», dice senza però prendere impegni. Se il piano investimenti è sovrastimato, il valore della società sale. Inutile dire chi ci guadagna. Non certo Cdp. E così si torna al punto di partenza. Il Pd comincerà a prendere le distanze oppure attenderà la Commissione Ue che prima o poi sul braccio di ferro delle concessioni autostradali dirà la sua? Dopo aver ascoltato le imbarazzanti intercettazioni sicuramente sarà equidistante e forse farà da sponda ai grillini che ieri hanno rialzato la testa. Giancarlo Cancelleri, vice ministro dei 5 stelle, ha di nuovo sollecitato la chiusura dell' operazione Cdp-Aspi entro l' anno o la revoca della concessione. Ma quale sarà il pensiero del suo collega di governo, il ministro alla Sviluppo economico Stefano Patuanelli, dal quale in molti si aspettano una smentita o una presa di distanza proprio dall' ex capo di Autostrade, Giovanni Castellucci? A pagina 87 dell' ordinanza dei pm di Genova si legge l' intercettazione telefonica tra il manager e l' allora capo di Air Dolomiti, controllata da Lufthansa), Joerg Eberhart. «Il ministro ha chiesto di incontrarmi [...] all' inizio mi aveva chiesto di aiutarlo su Alitalia e se ero disponibile». A proseguire nella lettura si comprende che i pm ritengano quanto Castellucci sia effettivamente attivo per trovare incarichi o soluzioni per la su ex società. L' intercettazione è di ottobre 2019 ed escludono che stia millantano. Il nome di Patuanelli non è mai citato, ma il riferimento a lui è chiaro. Dunque, o rettifica e smentisce Castellucci altrimenti tutto lo storytelling dei 5 stelle viene meno. Come si fa a urlare in piazza e poi fare intelligenza con il nemico? Andrebbe chiarito con una certa urgenza.

Tommaso Fregatti e Matteo Indice per "La Stampa" il 3 giugno 2021. In una riunione riservata del novembre 2010, fu l'amministratore delegato di Autostrade in persona, Giovanni Castellucci, a ribadire che l'unica via per mettere in sicurezza il Ponte Morandi sarebbe stata l'accelerazione del restyling ai tiranti del pilone numero 9, quello poi collassato. E però l'intervento, mentre lui rimaneva alla guida del concessionario, è stato fatalmente rinviato di anno in anno, finché il viadotto non è crollato il 14 agosto 2018, uccidendo 43 persone. Tra i documenti che maggiormente inguaiano l'ex numero uno di Aspi c'è il resoconto di un summit ristretto che la Finanza ha ripescato esaminando decine di computer, ora depositato insieme agli altri atti dell'inchiesta sulla strage. «Il 10 novembre 2010 alle 15.30 - scrivono i militari ai pm - nella sede di Autostrade per l'Italia in Roma, via Alberto Bergamini 50 si teneva la convocazione del "Comitato completamento lavori", per discutere l'ordine del giorno sul punto "Informativa sul viadotto Polcevera"». «Su invito dell'amministratore delegato Giovanni Castellucci», prende la parola Gennarino Tozzi, ingegnere. Tozzi conosce bene il ponte. E spiega che nel 1993, su uno dei piloni principali, sono stati inseriti cavi esterni ai tiranti poiché quelli interni, annegati nel calcestruzzo e quindi invisibili da fuori, erano corrosi. E dichiara: «In base ad attività di ispezione lo stato di conservazione evidenzia problemi strutturali». Entra in scena Castellucci, palesando agli occhi di chi indaga la propria consapevolezza sull'urgenza della ristrutturazione: «L'amministratore delegato - precisano i finanzieri dopo aver esaminato i verbali della riunione - fa presente che la decisione risolutiva sarebbe quella di anticipare gli interventi di rinforzo strutturale degli stralli (nome tecnico dei tiranti, ndr) dei residui sistemi bilanciati (con questa locuzione si intendono i piloni 10 e 9, che non furono oggetto delle migliorie compiute nel 1993, ndr)». A parere degli inquirenti Castellucci aveva insomma tutto chiarissimo, sapeva già nel 2010 che la tenuta del Morandi era a rischio al punto da dichiarare che la via da prediligere per scongiurare progressioni nefaste era il restyling proprio dei tiranti. Ma cosa ne è stato di quell'urgenza? Tra una mail interna e l'altra i sottoposti dissertano all'infinito dei costi altissimi e dell'ipotesi Gronda, la bretella che dovrebbe alleggerire il nodo autostradale cittadino. E trascorrono sei anni senza che sul viadotto Polcevera s'intervenga sul serio, nonostante l'ad sia lo stesso che aveva certificato la necessità di rifare gli stralli. Il 15 febbraio 2016 nuovo meeting dedicato alla sicurezza del Morandi. E Castellucci, risulta ancora dal verbale, spiega che la complessiva messa in sesto dell'opera rientra in un «piano accelerato». Cos'è un «piano accelerato»? «Come previsto dalle norme sulle ispezioni delle strutture e infrastrutture autostradali - precisa la Finanza - si intendevano quelle attività di ripristino da svolgersi con procedura immediata». È però impressionante, ed è rimarcato nelle informative, quanto i tempi dell'intervento siano stati via via posticipati (le «interferenze al traffico» si sarebbero protratte complessivamente per 8 mesi): i lavori, nella prima bozza del Catalogo rischi, dovevano concludersi «nel 2017»; poi «entro il 2018», quindi «entro il 2019» finché - edizione 2017 del medesimo Catalogo - non si arriva al termine «del 2020». Evidentemente troppo tardi.

 Toninelli: “Ho quasi finito il mio libro, racconterò tutto sul Ponte Morandi”. Giampiero Casoni il 24/04/2021 su Notizie.it. Toninelli: “Ho quasi finito il mio libro, racconterò tutto sul Ponte Morandi. Ho vissuto in prima persona quei momenti drammatici e subito attacchi". Danilo Toninelli occhieggia dalla sua pagina Facebook e chiosa il suo post con un goloso: “Ho quasi finito il mio libro, racconterò tutto sul Ponte Morandi”. A metà fra spottone e intrigo l’ex ministro pentastellato alle Infrastrutture posta una foto iconica. Nello scatto è in pieno “furor” produttivo e, al computer, mostra la bozza del suo prossimo (nel senso temporale di imminente) libro sul crollo del Ponte Morandi a Genova. Lo fa con la schermata aperta in bella vista su un fantomatico capitolo dal titolo “Decreto Genova”. E a corredo della foto il post: “Oggi (il 23 aprile – ndr) è la Giornata mondiale del libro. E il libro che sto scrivendo da mesi è quasi finito. Dopo le ultime tremende notizie dell’inchiesta sul Ponte Morandi sono ancora più motivato a pubblicarlo”.  Perché Danilo Toninelli è motivato ancor più? Lo spiega proseguendo: “Ho vissuto in prima persona quei momenti drammatici e sono stato il primo a denunciare lo scandalo che si celava dietro la gestione miliardaria del concessionario. Per questo ho subito ogni genere di attacco, ma grazie a questo oggi abbiamo visto ricostruire in tempi record il nuovo ponte di Genova”. Al di là della verità inattaccabile per cui Toninelli ha avuto un ruolo importante nella ricerca della verità su quella tragedia il tono è comunque molto “da retroscena per tornare sulla scena” ma tant’è: i libri bisognerà pur renderli accattivanti, dato che in barba alle varie giornate mondiali in Italia non li legge quasi più nessuno. E i commenti social a corredo del post rispecchiano perfettamente la natura divisoria del personaggio. Fra essi ne abbiamo scelti due che danno la cifra in maniera perfettamente bipartisan del gradimento che il cimento di Toninelli sta riscontrando nel popolo del web, ecco il primo: “Da genovese ed estimatrice di quello che è stato il miglior Ministro del MIT non vedo l’ora di acquistarlo e di leggerlo”. Questo invece, per quanto attiene la parte decisamente più “scettica” nei confronti della fatica letteraria dell’ex ministro, il secondo: “In confronto Cent’anni di Solitudine ricorderanno le avventure della Pimpa! Le librerie fremono per avere il tuo capolavoro sugli scaffali!”.

Giampiero Casoni. Giampiero Casoni è nato a San Vittore del Lazio nel 1968. Dopo gli studi classici, ha intrapreso la carriera giornalistica con le alterne vicende tipiche della stampa locale e di un carattere che lui stesso definisce "refrattario alla lima". Responsabile della cronaca giudiziaria di quotidiani come Ciociaria Oggi e La Provincia e dei primi free press del territorio per oltre 15 anni, appassionato di storia e dei fenomeni malavitosi. Nei primi anni del nuovo millennio ha esordito anche come scrittore e ha iniziato a collaborare con agenzie di stampa e testate online a carattere nazionale, sempre come corrispondente di cronaca nera e giudiziaria.

Matteo Indice per “la Stampa” il 23 aprile 2021. Il ponte è crollato perché nessuno ha rinforzato in mezzo secolo il punto più critico e l' obiettivo era risparmiare sulle manutenzioni, onere così invasivo da indurre il gestore «a considerare la possibilità di demolire il manufatto nel 2003». Le omissioni sono diventate macroscopiche con la privatizzazione del concessionario, che ha massacrato gli investimenti in prevenzione nonostante i suoi azionisti si spartissero utili vicini talvolta al miliardo annuale. Non solo. Il rischio che i tiranti si spezzassero era noto «già nel 1975» in un dossier diffuso a vari livelli societari, al punto che il premio assicurativo per l' eventuale scempio era via via lievitato, «con un incremento esponenziale da 100 a 300 milioni dal 2016». E ancora: nel 1993, a un convegno in Cina, il dirigente Michele Donferri Mitelli (oggi indagato) spiegava che il viadotto di Genova aveva «corrosione diffusa» proprio nei tiranti. Lo mettono nero su bianco il procuratore aggiunto Paolo D' Ovidio e i sostituti Massimo Terrile e Walter Cotugno, nell' avviso di conclusione dell' indagine preliminare inviato a 69 persone fra manager e tecnici di Autostrade per l' Italia e Spea Engineering (entrambe del gruppo Atlantia, la seconda delegata ai monitoraggi) e del ministero delle Infrastrutture, accusati per la strage in cui morirono 43 persone il 14 agosto 2018 a Genova. Gli addebiti sono a vario titolo di omicidio stradale plurimo, crollo doloso, falso, attentato alla sicurezza dei trasporti. Scrivono quindi i pm: «Tra il battesimo del 1967 e il crollo, per ben 51 anni, non era stato eseguito il minimo rinforzo sugli stralli (nome tecnico dei tiranti, ndr) del pilone numero 9 (poi collassato, ndr). E, nei 36 anni e 8 mesi intercorsi fra il 1982 e il disastro, gli interventi strutturali compiuti sul viadotto Polcevera avevano avuto un costo complessivo di 24.578.604 euro. Di questi il 98,01% erano stati spesi dal concessionario pubblico e solo 488.128 euro (l' 1,99%) dal privato. La spesa media annua del pubblico era stata di 1.338.359 euro (3.665 al giorno), quella del privato di 26.149 (71 euro al giorno), con decremento del 98,05%. La situazione non era giustificabile, per il medesimo gestore privato, con l' insufficienza delle risorse finanziarie, dal momento che aveva chiuso tutti i bilanci dal 1999 al 2005 in forte attivo, con utili compresi tra 220 e 528 milioni, e tra il 2006 e il 2017 i medesimi utili di Aspi sono variati tra un minimo di 586 e un massimo di 969 milioni, distribuiti agli azionisti in percentuale media attorno all' 80% e sino al 100%». Esaurita la premessa, i magistrati descrivono le responsabilità specifiche dell' ex amministratore delegato di Aspi, Giovanni Castellucci. «Poneva in pericolo la sicurezza e cagionava, non impedendolo, il crollo della pila 9 e del collegato tratto di circa 240 metri dovuto alla rottura per corrosione dei cavi portanti all' interno dello strallo lato mare/Genova». E strettamente collegata è l' accusa ad Autostrade nel suo complesso, inquisita in base alla legge sulla responsabilità amministrativa per «omicidio colposo in violazione delle norme sulla sicurezza nei posti di lavoro e falso informatico reati commessi nel suo interesse e a suo vantaggio, consistente nel risparmio derivante dai mancati o comunque insufficienti investimenti nelle attività di sorveglianza della rete e nel conseguente incremento degli utili distribuiti ai soci, anche da persone che rivestivano funzioni apicali di amministrazione e direzione». E in primis si riferiscono di nuovo «all' ad Giovanni Castellucci, al responsabile dell' ufficio centrale operazioni Paolo Berti» e al capo nazionale manutenzioni «Michele Donferri Mitelli». Tra i big ministeriali nel mirino, poiché avallarono un progetto di restyling contenente dati inquietanti, figura tra i più alti in grado il provveditore alle opere pubbliche per Piemonte e Liguria Roberto Ferrazza. E fra gli addebiti rivolti a chi lavorava nella galassia del Mit c' è pure quello d' aver sorvolato su un «documento informale» del consulente Antonio Brencich, che descriveva «degrado impressionante». Egle Possetti, portavoce dei familiari delle vittime, auspica «tempi stretti» per il processo e chiede di riflettere ancora sulle concessioni ad Aspi.

(ANSA il 22 aprile 2021) Già nel 1990 e nel 1991 Autostrade Spa sapeva che nella pila 9, quella crollata il 14 agosto 2018, vi erano "due trefoli lenti e due cavi scoperti su quattro". E' quanto emerge dall'avviso di conclusioni indagini che gli investigatori del primo gruppo della guardia di finanza sta notificando in queste ore ai 69 indagati più le due società Aspi e Spea. Le accuse sono di attentato alla sicurezza dei trasporti, crollo colposo, omicidio colposo e omicidio stradale e rimozione dolosa di dispositivi per la sicurezza dei posti di lavoro.

Andrea Pasqualetto per il "Corriere della Sera" il 21 luglio 2021. «Nessuno degli imputati ha preso iniziative, in una situazione nella quale qualsiasi segnalazione di degrado del ponte Morandi avrebbe evitato con certezza il disastro o l'avrebbe limitato». Nell'atto d'accusa della Procura di Genova c'è il sospiro di chi pensa, dopo quasi tre anni d'indagine, che sarebbe bastato poco per salvare le 43 vittime del crollo. L'indice è qui puntato su dirigenti, manager e tecnici di Autostrade per l'Italia (Aspi) e Spea che dovevano gestire, sorvegliare e riparare il ponte. «Ma sono responsabili anche tutti coloro che in Anas e nel ministero delle Infrastrutture non hanno garantito la vigilanza su di loro... E chi, chiamato a esaminare il progetto di ristrutturazione, ha omesso di comunicare le condizioni di impressionante degrado in cui versava il viadotto». In tutto fa 59 imputati, per i quali i pubblici ministeri hanno chiesto il processo firmando una richiesta di 2.260 pagine. L'udienza preliminare, nella quale il giudice deciderà se e quando rinviarli a giudizio, inizierà il 15 ottobre e dovrebbe terminare in dicembre. Nel ponderoso atto d'accusa, oltre a quanto è stato più volte scritto circa gli allarmi e le mancate manutenzioni dovute a una politica aziendale orientata alla massimizzazione dei profitti, spuntano i progetti abortiti. Interventi cioè di rinforzo strutturale del Morandi rimasti solo sulla carta. «Se realizzati avrebbero evitato sicuramente il crollo». Il primo risale al 2011. Era stato avviato dall'ingegner Francesco Pisani, collaboratore del «maestro» Riccardo Morandi che progettò il ponte. «Era finalizzato a rinforzare gli stralli della pila 9 (quella crollata, ndr ) ma fu inspiegabilmente abbandonato, preferendo un modestissimo intervento di ripristino, peraltro mai realizzato», scrivono i magistrati. La spiegazione, in realtà, è chiara: «Il costo del ripristino era 150 mila euro, quello del progetto Pisani circa 23,8 milioni». Il secondo è invece datato 2014 «ed era stato affidato all'ingegner Bernardini». Sempre sugli stessi stralli, la cui rottura secondo i periti ha innescato il collasso. «Ma anche quello fu inspiegabilmente abbandonato all'inizio del 2016». Il procedimento sforna numeri eccezionali: 135 faldoni, oltre 200 testimoni, migliaia di intercettazioni. E le parti offese: 357. Sono i 291 parenti delle vittime e le 66 persone rimaste ferite o che hanno avuto importanti danni psicologici, per aver perso la casa o per aver visto la morte in faccia. Fra gli altri, l'autista del camion Basko, Luigi Fiorillo, che si fermò miracolosamente sull'orlo del baratro. «Ha subito il trauma della voragine. Aspi gli ha offerto 30 mila euro, ha detto no, vuole il processo», spiega l'avvocato Pietro Bogliolo che lo assiste. Bogliolo è il legale anche della famiglia Granieri che era in automobile subito dietro al camion: «Proposti diecimila euro... briciole, rifiutati». Poi c'è Giancarlo Lorenzetto, che guidava il supertir finito al centro della polemica per i 440 quintali di carico che secondo alcuni consulenti di Aspi potrebbe c'entrare qualcosa con il crollo. Lui è precipitato ma si è salvato. «Mi sono ritrovato appeso alla cintura di sicurezza, per fortuna che l'avevo allacciata. Poi ho avuto coliche renali, stress, mi è venuto di tutto», aveva detto in un'intervista. Il documento della Procura si chiude con una sorta di SOS. Si tratta di una scaletta in ordine cronologico che mette in guardia sul rischio prescrizione dei vari reati che vengono contestati. Dal 2023 inizieranno a saltare le omissioni d'atti d'ufficio, dal 2024 la frode informatica, dal 2026 gli omicidi e le lesioni colpose, nel 2031 l'attentato alla sicurezza dei trasporti... I primi reati, minori, sono destinati a cadere. È infatti difficile che si possano celebrare i tre gradi di giudizio entro il 2024. E qualcuno adesso agita anche lo spauracchio della riforma Cartabia, che è destinata ad accorciare i tempi dei giudizi in Corte d'appello e in Cassazione. «Premesso che il testo della riforma non è ancora definitivo, la norma non dovrebbe essere applicata in modo retroattivo, il che escluderebbe il processo del ponte Morandi», taglia corto uno dei legali di Autostrade. 

Ponte Morandi, l’accusa: «Autostrade sapeva dei cavi corrosi ben prima del crollo». Anni di clamorose negligenze emerse dalle intercettazioni, nessuna manutenzione al viadotto per 51 anni: la procura chiude le indagini per il crollo che causò la morte di 43 persone. I pm: «Erano a conoscenza del rischio già dal 1990». I familiari: «Si poteva chiudere quel ponte anche solo un mese prima, e salvare chi non c’è più». Matteo Macor su L'Espresso il 23 aprile 2021. La pila 9 di ponte Morandi, quella che il 14 agosto del 2018 si sbriciolò su se stessa trascinando tra le macerie 43 vite innocenti, prima del giorno del disastro non aveva ricevuto «il benché minimo intervento manutentivo di rinforzo». Neanche un giorno di manutenzione in 51 anni, dalla mattinata dell’inaugurazione del viadotto, nel 1967, al mattino che fece puntare su Genova gli occhi sconvolti del mondo. È una delle tante, sconvolgenti verità emerse dalle indagini preliminari del processo sul crollo del ponte sul fiume Polcevera, concluse questa settimana dopo due incidenti probatori e due anni e otto mesi di lavoro. Uno «sforzo enorme», dicono dalla Procura genovese, finito oggi - in attesa delle richieste di rinvio a giudizio - con la notifica dovuta di fine indagini a 69 persone, più le società Autostrade per l'Italia e Spea. Tra queste dirigenti, tecnici, consulenti coinvolti a vari livelli nella lunga storia di mancate manutenzioni e controlli insufficienti che ha portato il vecchio Morandi a spezzarsi, per i quali i capi di imputazione variano tra il disastro e il crollo dolosi, l’attentato alla sicurezza dei trasporti, l’omissione di cautele per prevenire il disastro, omicidio colposo, falso e pure l’omicidio stradale e lesioni. Frutto di un quadro d’inchiesta che porterà all’inizio del processo «entro l’estate», promette il procuratore capo Francesco Cozzi, e dal quale già emergono rivelazioni preoccupanti. Intrecciata da subito con altri filoni d’indagine, da quello parallelo sui pannelli antirumore fuori norma all'inchiesta sui report truccati sugli altri viadotti, tra gli indagati dell’inchiesta sul crollo del Morandi ci sono oggi società private e lavoratori pubblici, manager e funzionari. Per primi i nomi noti legati ad Autostrade per l’Italia (l'ex amministratore delegato della società Giovanni Castellucci, dietro di lui gli allora numeri due e tre di Aspi: Michele Donferri Mitelli e Sergio Berti), ma anche figure di vertice di Spea (la società delegata al controllo della rete autostradale in tutta Italia per conto di Aspi, nel 2018 guidata da Antonino Galatà) e uomini chiave del ministero delle Infrastrutture, l’unico organo che avrebbe dovuto vigilare (ma non ha fatto, per gli inquirenti) sull’operato della concessionaria che aveva in gestione il viadotto crollato. Facce diverse di uno stesso mondo che in questi mesi le indagini hanno prima cercato di comprendere, e poi messo nero su bianco su una mole impressionante di atti. Compresa quella consulenza tecnica della Procura, fino ad oggi rimasta segreta, che meglio di ogni altra cosa - parlando di «incosciente dilatazione» dei tempi da parte delle società indagate davanti alle misure in tema di sicurezza - pare spiegare le negligenze all’origine del crollo. Se 32 mesi dopo la chiusura delle indagini cristallizzano oggi un passaggio giudiziario formale, a raccontare l'assurdità di una tragedia e le incredibili proporzioni delle possibili colpe che andranno a processo, del resto, basterebbero alcuni dei particolari della vicenda che vengono rivelati oggi. Quel «rischio di crollo per ritardati interventi di manutenzione», con relativa indicazione a «elevare il massimale assicurativo da 100 a 300 milioni di euro» che già nel 2013 - otto anni prima del 14 agosto 2018 - Aspi scriveva nel “Catalogo dei rischi operativi”, un documento di pianificazione interna. Il fatto che già nel 1990, ad esempio, Autostrade Spa avesse certificato che in quella stessa pila destinata a crollare 28 anni più tardi erano ammalorati i trefoli e scoperti due cavi su quattro, nervature fondamentali dell’infrastruttura. E poi ancora, la totale «inidoneità a fornire una rappresentazione completa e veritiera dei difetti esistenti» del manuale di sorveglianza e il cosiddetto “catalogo difetti” approvato da Aspi per monitorare il ponte, che - si legge nelle carte della Procura - «erano espressione della filosofia manutentiva praticata dalla società, che prevedeva che il degrado non fosse prevenuto o affrontato e risolto sul nascere, ma fosse lasciato avanzare e progredire». O il fatto che fino al 2008 (e poi dal 2016 al 2018) nessun sistema di monitoraggio strumentale fosse mai stato installato sul viadotto, a parte quello destinato a tenere sotto controllo la pila 11. O il meccanismo con cui Spea - viene spiegato - «sottostimava sistematicamente i difetti che rilevava, attribuendo voti inferiori a quelli previsti dal manuale, in modo da non costringere Aspi a procedere a interventi manutentivi in tempi brevi, mantenendo inalterata, attraverso disinvolte operazioni di "copia-incolla" e contro ogni legge fisica, la descrizione e la valutazione di gravità dei difetti anche per molti anni». Anni e anni di clamorose negligenze, suggerisce la Procura, riassunti alla perfezione da una delle ultime intercettazioni emerse dalle carte. Un messaggio di Whatsapp, inviato da Michele Donferri a Paolo Berti, numeri 2 e 3 di Aspi nel 2018, in cui la verità delle condizioni del Morandi già morente vengono messe in chiaro, senza sconti: «I cavi sono corrosi». Era il 25 giugno di due anni fa, neanche un mese e mezzo prima della tragedia di Genova. Berti aveva scritto a Donferri della proposta di iniettare aria deumidificata per “curare” i cavi del viadotto, una soluzione, a quel punto, già impraticabile. La prova - commenta oggi Egle Possetti, la portavoce del comitato che riunisce i familiari delle 43 vittime del disastro, - «che più mi fa male, che più mi strazia il cuore». «Oggi sappiamo che si poteva chiudere quel ponte anche solo un mese prima, e salvare chi non c’è più - sospira, lei che sul Polcevera ha perso la sorella, il cognato e due nipoti - Anche solo pochi giorni prima della tragedia, anche solo una persona tra quelle che sapevano che il Morandi fosse marcio, avrebbe potuto evitare quello che è successo. Sarebbe bastato chiuderlo il mattino del 14 agosto, sarebbe bastato solo uno, a uscire dal coro e lanciare l’allarme. Probabilmente il ponte sarebbe venuto giù comunque, ma da solo, senza nessuno sopra. E invece no, le responsabilità sono corali, in tanti sapevano, tolleravano, e questa corresponsabilità così larga è la cosa più inaccettabile. Oggi speriamo solo in una giustizia che ci meritiamo, e in un processo che non abbia tempi troppo lunghi, perché sarebbe l’ennesimo macigno sulla nostra memoria».

Tommaso Fregatti per "La Stampa" il 22 aprile 2021. Sessantanove persone a rischio processo, insieme a due società: Autostrade per l’Italia e Spea Engineering, una nuova perizia in mano alla Procura che parla di «incosciente dilazione dei tempi, immobilismo, confusione e accavallamento di ruoli nella catena di comando della società concessionaria» e altre accuse messe nero su bianco sempre più gravi per gli indagati. E cioè, oltre ai reati dolosi, la nuova contestazione di omicidio stradale. Dopo quasi mille giorni - 968 per la precisione - da quella tragica mattina del 14 agosto 2018, ieri il pubblico ministero Massimo Terrile ha firmato l’atto di chiusura delle indagini sul crollo del viadotto Morandi e la morte di 43 persone. Questa mattina partiranno nei confronti degli indagati gli avvisi di conclusione indagini preliminari che saranno notificati dai militari della guardia di Finanza diretti dai colonnelli Ivan Bixio e Giampaolo Lo Turco tra oggi e domani. Si tratta del preludio della richiesta di rinvio a giudizio. Il procuratore capo Francesco Cozzi ha voluto sottolineare «come non sia stato perso neppure un giorno nell’inchiesta». Le novità principali riguarda un nuovo indagato e il reato di omicidio stradale. Per i pm che indagano sul crollo del ponte Morandi è stato come un maxi incidente dove hanno perso la vita ben 43 persone. La condotta negligente dei responsabili ha provocato una strage. Per questo, dopo una lunga serie di riunioni, i magistrati coordinati dall’aggiunto Paolo D’Ovidio hanno ipotizzato la nuova accusa. Che effetto potrebbe avere sul processo? «Alzare le pene finali», viene ribadito in Procura. Accanto all’omicidio stradale plurimo sono contestati il reato doloso di attentato alla sicurezza dei trasporti, il crollo e vari reati di falso. La chiusura delle indagini ha come base la perizia degli esperti dell’accusa. Nelle conclusioni del documento viene riportato come ci sia stata «un’incosciente dilazione dei tempi rispetto alle decisioni da assumere ai fini della sicurezza». Ma non solo. «C’è stata - scrivono - confusione e accavallamento di ruoli nella catena di responsabilità dei vari soggetti coinvolti, ovvero Aspi, Spea, Autorità preposte alla vigilanza e al controllo, consulenti e tecnici esterni». Una confusione che ha avuto un ruolo nel cedimento: «Tale decisione avrebbe dovuto comportare scelte importanti, quali l’attivazione immediata di una serie di controlli a rilevamento continuo o, più semplicemente, l’immediata chiusura al traffico del viadotto e l’inibizione all’accesso e ai transiti delle zone sottostanti, anche solo a scopo precauzionale».

Ponte Morandi, verso il maxi processo in estate a Genova per 69 indagati. Marco Lignana su La Repubblica il 22 aprile 2021. I pubblici ministeri Massimo Terrile e Walter Cotugno hanno chiuso le indagini sulla tragedia che è costata la vita a 43 persone. Durissime accuse: "Già dal 1990 Autostrade sapeva che il viadotto era a rischio". "Non abbiamo perso un giorno", dice il procuratore capo Francesco Cozzi. Due anni e otto mesi dopo il crollo di ponte Morandi, i pubblici ministeri Massimo Terrile e Walter Cotugno hanno chiuso le indagini sulla tragedia che è costata la vita a 43 persone. E aggiunge Cozzi: "Pensiamo che il processo si possa celebrare entro l'estate.  Non è stato perso nemmeno un giorno senza lavorare a questa indagine. La complessità della vicenda, due incidenti probatori, hanno portato a questi tempi. È stato un lavoro straordinario - ha detto -. Questo è un passaggio importante ma è il punto di vista della procura, dello Stato. Ora si apre una fase in cui le difese spiegheranno le proprie ragioni".  "Come servitore dello Stato - ha detto Cozzi - sono onorato ad avere coordinato questa indagine. Lo dovevamo alle vittime e per tutelare interessi pubblici e privati".

Gli atti. La Procura sta notificando a 69 persone, più le società Autostrade per l'Italia e Spea, gli "Acip" (avviso di conclusione delle indagini preliminari). L'atto che precede le richieste di rinvio a giudizio: "Se ci sono stati dei rallentamenti, non sono mai dipesi da noi", rivendica Cozzi. Oltre al documento che sarà recapitato a tutti gli indagati - i pm per il momento non hanno archiviato alcuna posizione - c 'è una mole impressionante di atti a disposizioni delle difese. Tra questi, la consulenza tecnica della Procura, finora rimasta segreta. Che mette in evidenza la "incosciente dilatazione" dei tempi rispetto alle decisioni da prendere sulla sicurezza da parte di Aspi e Spea. Oltre alle "comunicazioni incomplete ed equivoche" sui report sullo stato di salute del viadotto. Analisi in parte condivise dai periti del Gip al termine dei due incidenti probatori. Così come è condivisa da accusa e periti del giudice la causa del crollo: la rottura di uno degli stralli della pila 9, quello verso Sud-Est.

Le accuse. Oltre alle accuse di omicidio colposo plurimo, disastro, attentato alla sicurezza dei trasporti, falso, le contestazioni della Procura dovrebbero riguardare anche l'omicidio stradale. Un reato valutato fin dall'inizio delle indagini dai pm Terrile e Cotugno, e che ora dovrebbe comparire nero su bianco. Oltre ai 68 nomi già noti, c'è un nuovo indagato, le cui responsabilità sono emerse soltanto negli uitimi mesi. Una posizione, a quanto filtra, comunque marginale. Procura e finanzieri del Primo Gruppo e del Nucleo Operativo Metropolitano, diretti dal colonnello Ivan Bixio e dal tenente colonnello Giampaolo Lo Turco, hanno fin da subito in tre direzioni. In primis Autostrade per l'Italia, a partire dall'ex amministratore delegato Giovanni Castellucci e ai dirigenti allora subito sotto di lui, Michele Donferri Mitelli e Sergio Berti. Gli stessi manager poi arrestati nell'ambito dell'indagine parallela sulle barriere antirumore pericolose e fuori norma. Ma fin da subito sono emerse le responsabilità di Spea, la società "gemella" di Aspi delegata al monitoraggio e al controllo della rete in tutta Italia. Anche il suo ex amminsitratore delegato, Antonino Galatà, è stato colpito da una misura cautelare, la sospensione dai pubblici uffici per dodici mesi, e stavolta nell'ambito dell'inchiesta sui report truccati sugli altri viadotti. Infine, la Procura ha messo sotto indagine anche alcuni uomini chiave del ministero delle Infrastrutture. Perché se è vero che, secondo i pm, dirigenti e tecnici di Autostrade e Spea hanno fatto il bello e il cattivo tempo sulla pelle degli automobilisti, è altrettanto vero che l'unico organo deputato a controllare la concessionaria era il ministero. Quel lavoro di controllo, però, per gli inquirenti non è stato fatto.

I tempi. Se la pandemia ha giocoforza rallentato i tempi dell'indagine - basti pensare alle riunioni fra i tecnici durante l'incidente probatorio, alcune rimandate più volte, altre svolte a distanza - nelle ultime settimane si è tornati a correre: "Anche le udienze dello stesso incidente probatorio in tutto sono durate soltanto sette giorni, andando oltre le nostre aspettative", confida Cozzi. Fin dalle prossime ore nella tensostruttura "anti-Covid" allestita nell'atrio del tribunale di Genova inizierà il via vai degli avvocati degli indagati, che potranno accedere agli atti attraverso il "cervellone", il software usato anche dall'Fbi che permette di indicizzare e collegare elementi (per la Procura indizi) provenienti da diverse fonti. Soltanto di materiale informatico agli atti ci sono 55 terabyte, che per capirsi corrispondono a oltre 82 mila cd-rom, o più di 7 milioni di foto.

Le carte. Già nel 1990 e nel 1991 Autostrade Spa sapeva che nella pila 9, quella crollata il 14 agosto 2018, vi erano "due trefoli lenti e due cavi scoperti su quattro". E' quanto emerge dall'avviso di conclusioni indagini che gli investigatori del primo gruppo della guardia di finanza sta notificando in queste ore ai 69 indagati più le due società Aspi e Spea. Le accuse sono di attentato alla sicurezza dei trasporti, crollo colposo, omicidio colposo e omicidio stradale e rimozione dolosa di dispositivi per la sicurezza dei posti di lavoro. "Le indagini diagnostiche - si legge nel documento - degli anni 1990 (19-29 novembre) e 1991 (12-13 giugno) sugli stralli della pila 9, pur eseguite in modi parziali e inadeguati, avevano individuato, sull'unico strallo a mare lato Savona esaminato, 2 trefoli "lenti" e del tutto privi di iniezione, e, sull'unico strallo lato Genova lato monte esaminato, 2 cavi scoperti su 4, privi di guaina perché completamente ossidata, privi di iniezione perché asportata dal degrado originato dalle infiltrazioni dell'acqua meteorica e, soprattutto, alcuni trefoli rotti, con pochi fili per trefolo ancora tesati". Il manuale di sorveglianza e il catalogo difetti approvato da Aspi erano "del tutto inidonei a fornire una rappresentazione completa e veritiera dei difetti esistenti" ed erano espressione della "filosofia manutentiva praticata dalla società che prevedeva che il degrado non fosse prevenuto o affrontato e risolto sul nascere, ma fosse lasciato avanzare e progredire". Vi era da parte di Aspi una "presunzione, del tutto infondata sotto il profilo tecnico-scientifico, di essere sempre in grado di controllarne l'evoluzione nel tempo, in modo da poter intervenire il più tardi possibile, ma, comunque, prima che potessero verificarsi conseguenze troppo gravi ed economicamente dannose, come il crollo del 14 agosto 2018". Spea, dal suo lato "sottostimava sistematicamente i difetti che rilevava, attribuendo voti inferiori a quelli previsti dal manuale, in modo da non costringere Aspi a procedere a interventi manutentivi in tempi brevi, mantenendo inalterata, attraverso disinvolte operazioni di "copia-incolla" e contro ogni legge fisica, la descrizione e la valutazione di gravità dei difetti anche per molti anni, senza fornirne descrizioni tecnicamente idonee e sufficientemente circostanziate per consentire l'individuazione della loro esatta ubicazione e dell'epoca della loro prima rilevazione". Fino al 2008- si legge ancora nelle carte - "nessun sistema di monitoraggio strumentale era mai stato installato sul viadotto, a parte quello destinato a tenere sotto controllo la pila 11, oggetto dei lavori di rinforzo degli stralli, che, installato nel 1995 e rivelatosi un fallimento, veniva abbandonato nel 1998". Dal 2008 "era diventato operativo un (modesto e inidoneo) sistema di monitoraggio statico, limitato al solo impalcato compreso tra i sistemi bilanciati, installato da TECNO-EL, che condivideva con ASPI i relativi dati sulla base di un contratto che ASPI decideva di non rinnovare alla scadenza del 30.6.2014; in data 7.7.2016, i cavi di questo sistema venivano accidentalmente tranciati nel corso di lavori e, da allora, il sistema non veniva più ripristinato". Inoltre, proseguono i magistrati,  "nel periodo immediatamente precedente il tranciamento dei cavi (maggio-luglio 2016), il sistema di monitoraggio installato da TECNO-EL aveva evidenziato che gli inclinometri posizionati sulle pile 9 e 10 - ma soprattutto i primi - a differenza di quelli posizionati sulla pila 11, segnalavano movimenti anomali e inattesi dell'impalcato, che avrebbero imposto immediati approfondimenti sulle condizioni della struttura allo scopo di individuarne le cause, ma che venivano totalmente ignorati da Aspi e Spea". In 51 anni, dall'inaugurazione nel 1967 al crollo, non è "mai stato eseguito il benché minimo intervento manutentivo di rinforzo sugli stralli della pila" 9, scrivono i pm. Inoltre, "nei 36 anni e 8 mesi intercorsi tra il 1982 e il crollo, gli interventi di natura strutturale eseguiti sull'intero viadotto Polcevera avevano avuto un costo complessivo di 24.578.604 euro": il 98,01% stati spesi dal concessionario pubblico e l'1,99% dal concessionario privato. "La spesa media annua del concessionario pubblico era stata di 1.338.359 euro (3.665 al giorno), quella del concessionario privato di 26.149 euro (71 al giorno)".

(Il Sole 24 Ore Radiocor Plus il 22 aprile 2021) - Milano, 22 apr - Tra l'inaugurazione del Ponte Morandi, avvenuta nel 1967, e il suo crollo - dunque per 51 anni - non è stato eseguito il benchè minimo intervento manutentivo di rinforzo sugli stralli della pila 9, cioè quella collassata il 14 agosto 2018. Inoltre, nei 36 anni e 8 mesi intercorsi tra il 1982 e il crollo stesso, gli interventi di natura strutturale eseguiti sull'intero viadotto Polcevera hanno avuto un costo complessivo di 24,57 milioni, di cui il 98% spesi dal concessionario pubblico e il 2% dal privato (Aspi), per una media dunque per quest'ultimo di 71 euro al giorno. E' quanto emerge dall'avviso di conclusioni indagini che gli investigatori del primo gruppo della guardia di finanza hanno notificato a 69 indagati, tra cui l'ex numero uno di Aspi Giovanni Castellucci, più le due società Aspi e Spea. Le accuse sono, a vario titolo, di attentato alla sicurezza dei trasporti, falso, crollo colposo, omicidio colposo plurimo, omicidio stradale e rimozione dolosa di dispositivi per la sicurezza dei posti di lavoro. Secondo i pm, l'entità delle spese in manutenzione del concessionario privato non è "giustificabile con l'insufficienza delle risorse finanziarie necessarie, dal momento che aveva chiuso tutti i bilanci dal 1999 al 2005 in forte attivo (utili compresi tra 220 e 528 milioni di euro circa) e che, tra il 2006 e il 2017, l'ammontare degli utili conseguiti da Aspi è variato tra un minimo di 586 e un massimo di 969 milioni di circa, utili distribuiti agli azionisti in una percentuale media attorno all'80%, e sino al 100%". Allo stesso tempo i magistrati fanno notare come dal 2016 ad oggi la concessionaria aveva tuttavia triplicato il massimale assicurativo relativo al viadotto Polcevera da 100 a 300 milioni, indotta dal fatto che - sottolineano - il ponte "almeno sino al completamento dell'intervento di retrofitting sugli stralli delle pile 9 e 10 - presentasse criticità e problemi, i cui rischi, in termini di stabilità e sicurezza dell'opera, non era possibile determinare con precisione, ma che certamente andavano aumentando con il passare del tempo".

Andrea Giacobino per "Affari & Finanza - la Repubblica" il 22 aprile 2021. L'ex titolare della Candy entra nella società di private equity, che ha rinviato il lancio del primo fondo. E intanto risistema le attività nel mattone L' ex top manager che voleva farsi imprenditore ha ceduto il passo all' ex imprenditore che vuole diventare manager. È anche questo il senso del passaggio avvenuto qualche giorno fa a Milano quando si sono riuniti gli azionisti della Koinos Capital Partners Sgr, società di gestione di fondi lanciata nel 2019 da Gianni Mion, già top manager dei Benetton e presidente di Edizione, holding della dinastia di Ponzano Veneto. Durante l' assemblea è stato annunciato che in consiglio d' amministrazione veniva cooptato Beppe Fumagalli, l' imprenditore monzese già proprietario col fratello Aldo del gruppo di elettrodomestici Candy, venduto tre anni fa per 475 milioni di euro al colosso cinese Qingdao Haier. L' ingresso nel board della società di gestione anticipa il secondo step: Fumagalli rileverà il 31,5% della sgr in mano a Mion e il 7,5% di Carmine Meoli, ex consigliere di Autogrill, diventandone così il primo azionista. E si troverà in mano una realtà finalizzata al private equity che avrebbe dovuto lanciare già a inizio 2020 un fondo con una dotazione di 80 milioni di euro per puntare ad acquisizioni di Pmi. Mion e i suoi, però, non hanno avuto fortuna e ora Fumagalli, alla vigilia dei suoi 60 anni, metterà in campo l' esperienza di investitore proprio nel private equity, che in tandem col fratello ha sviluppato negli ultimi tre anni dopo la vendita di Candy. I due Fumagalli marciano separati per colpire uniti: il veicolo di Aldo è Alisei Forinvestments, quello di Beppe si chiama Buenafortuna Capital. I due sono soci paritari in Albe Finanziaria: nata nel 2017 con un patrimonio netto di soli 18 mila euro, l' ha visto crescere in tre anni oltre i 180 milioni nel bilancio chiuso a fine 2019 (grazie alla contabilizzazione di parte della vendita della Candy), dove figurano 54 milioni di investimenti e ancora 90 milioni di liquidità. Il principale asset è il 42% di Emera, veicolo nel cui consiglio d' amministrazione i fratelli sono entrambi presenti e primo azionista col 18% di Eurotech, la quotata della Carnia diventata un gigante nella produzione di computer miniaturizzati e che ha appena nominato Paul Chawla nuovo amministratore delegato. Con Albe Finanziaria, poi, i Fumagalli nello scorso settembre hanno comprato per 16 milioni proprio da Candy le due società agricole Cea e Capodimonte. I due fratelli coi rispettivi veicoli hanno investito in fotocopia rilevando quote identiche di Boox, Genenta Science, The Equity Club, Itaca Equity Holding e Techwald Holding. Boox è un "salottino" che ha il 12% del sito Tanni dedicato alla vendita di vino e liquori, oltre a un chip del 3,5% in Velasca, il marchio di scarpe su cui ha puntato anche Angelo Moratti. Genenta Science sviluppa terapie cellulari e tra i soci vede l' ospedale San Raffaele di Milano, i Ferragamo, i Riello e i Rovati. The Equity Club e Itaca Equity Holding sono i due club deal lanciati rispettivamente da Mediobanca e Gianni Tamburi mentre Techwald Holding è una società torinese di investimenti in aziende farmaceutiche di avanguardia, guidata da Alessandro Piga. Mentre Aldo Fumagalli come persona fisica ha appena rilevato il 70% della squadra monzese Pro Victoria Pallavolo che milita nel campionato di serie A1 femminile, entrambi i fratelli attraverso la più piccola delle loro società in comune, denominata Beldofin, qualche settimana fa hanno comprato per 6,6 milioni il 50% restante dell' immobiliare Barbara Srl dalle sorelle Elisa e Laura. Con le quali, in ogni caso, restano nel mattone con la Roda, il cui asset principale è la proprietà del golf club di Puntaldia, il green in Sardegna a nove buche.

Sandro Iacometti per "Libero Quotidiano" il 21 aprile 2021. Un operaio, un capomastro, un capocantiere? Difficile dirlo, ad oltre mezzo secolo di distanza. Sta di fatto che qualcuno nel 1967, a pochi mesi dal collaudo dell'opera commissionata dall'Anas e realizzata dalla Società italiana per Condotte d'Acqua, ha riempito la parte terminale di un tirante della pila 9 del Ponte Morandi (quello, per intendersi, che il 14 agosto del 2018 è andato in pezzi, provocando il cedimento della struttura e la morte di 43 persone) con pezzi di legno, iuta e carta da imballaggi. Tecnica consolidata? Innovazione ingegneristica? Macché, materiale di fortuna per tentar e di rimediare ad un errato posizionamento di cavi metallici e guaine all'interno del getto di calcestruzzo che ha provocato cavità e difformità in grado di compromettere l'integrità, la resistenza e la protezione alla corrosione dell'intero blocco. È da questo difetto di costruzione che bisogna partire per capire fino in fondo non solo cosa sia successo al Viadotto di Polcevera quella maledetta vigilia di ferragosto, ma anche cosa sia successo prima. Quando, come sostengono gli stessi periti del tribunale di Genova, si potevano mettere in atto azioni e comportamenti che, «con elevata probabilità, avrebbero impedito il verificarsi dell'evento». Sì, avete capito bene. La tragedia, forse, poteva essere evitata. Vediamo perché. Che il cedimento sia stato determinato dal collasso di quella parte della struttura sembra assodato. «La causa scatenante il crollo», si legge nella perizia del secondo incidente probatorio depositata il 21 dicembre 2020, «è la corrosione della parte sommitale del tirante Sud-lato Genova della pila 9». Una corrosione, attenti bene, «che ha avuto luogo in zone di cavità e mancata iniezione formatesi all'atto della costruzione» e che è cominciata «sin dai primi anni di vita» dell'opera. Prima domanda: chi sapeva? Che i cavi primari di uno degli stralli (così si chiamano i tiranti) fossero totalmente fuori posto e, per questo motivo, in uno stato di avanzato ammaloramento e che la parte terminale fosse piena di robaccia (tecnicamente "materiali estranei") è stato accertato ufficialmente solo qualche mese fa, nel corso delle analisi effettuate dai tecnici nominati dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Genova. Ma che il fatto fosse ignoto a chi ha posato le prime pietre è tutto da verificare. Scrivono i periti: «Il 132 (la sella lato Sud posta in sommità della antenna della pila 9 che fungeva da supporto ai tiranti), fra tutti i reperti analizzati, ha evidenziato la presenza di un rilevante difetto di costruzione. Considerata l'entità del difetto e gli effetti che esso produsse, sicuramente esso fu ben visibile e percepibile da parte degli operai e del direttore del cantiere, se il difetto fosse stato condiviso con il progettista e con il direttore dei lavori non si può sapere, però, considerato che esso può essere stata la causa di alcune modifiche introdotte nella costruzione dei tiranti, non si può escludere che la circostanza fosse stata condivisa con il progettista e con il direttore dei lavori per decidere le azioni da intraprendere». Ipotesi impossibili da confermare, almeno in base a quella poca documentazione dell'epoca scovata a fatica dalla Gdf negli archivi dell'Anas, di Aspi, nelle direzioni territoriali delle società coinvolte e, in alcuni casi, anche nei cassetti delle famiglie dei progettisti. Quello che si sa con certezza è che in fase di collaudo l'unicità assoluta dei cavi fornita dalle decine di centimetri di solido calcestruzzo precompresso che li circondano. Da un punto di vista pratico, quelle evidenze spingono Zannetti a chiedere che le pile e i tiranti vengano interamente ricoperti con vernici idrorepellenti. Negli stessi anni, anche lo stesso Morandi si arrende all'evidenza. In un articolo del '79 ammette che «le fessure possono a lungo termine provocare danni alla conservazione della armatura a causa dell'infiltrazione di umidità ed altre cose». Identico il consiglio: è opportuno sigillare e coprire le superfici esterne. Passano gli anni e la situazione peggiora. Nel 1981 Morandi scrive una relazione sullo stato di conservazione del viadotto in cui evidenzia, tra le altre cose, «danni al calcestruzzo con distacchi di parti di esso per effetto di ossidazione delle armature», «fessurazioni di solette, pareti, pilastri, tiranti», «aggressione di natura fisico-chimica delle superfici esterne del calcestruzzo». Pure lui, questa volta, vede sulle antenne e sui tiranti «qualche traccia di infiltrazione d'acqua con macchie di ruggine». Complessivamente, il ponte è oggetto di un processo di degradazione «tale da temere nel prosieguo qualche incidenza alla sua consistenza statica». Quanto ai tiranti, Morandi conferma la necessità di rivestirli «con vernice impermeabilizzante ad alta resistenza chimica» e ne consiglia anche una accurata ispezione con i raggi x (che d'altra parte non avrebbero mai rilevato il difetto della pila 9). Non è tutto. Chiede anche che vengano completate le iniezioni all'interno delle guaine «qualora queste risultino mancanti o difettose». Il che implica, scrive il perito delle parti civili, «che avesse per lo meno il dubbio che in fase di esecuzione le cose non fossero andate per il verso giusto». Non è finita. Nel 1985 scende in campo il capo della manutenzione di Autostrade Gabriele Camomilla, che confonde un po' le acque. L'ingegnere stende una dettagliata relazione sugli interventi da fare con tre priorità. Verificare lo stato di conservazione degli stralli è l'ultima. Anche lui, comunque, dopo aver suggerito di eseguire dei saggi per «valutare lo stato dei cavi solo se i calcestruzzi saranno risultati più o meno nelle condizioni di funzionamento previste», sostiene che «sarà probabilmente necessario un provvedimento di protezione (verniciatura) con materiali elastici». Sebbene, avverte, «limitatamente alle zone più degradate». Camomilla, malgrado proprio a lui l'allora Società Autostrade Concessioni e Costruzioni abbia affidato la sicurezza del ponte, sembra il meno preoccupato, ma è l'ennesimo tecnico che invoca l'impermeabilizzazione. Conseguenze? Nessuna. Interventi? Idem. Fossero o meno i tecnici a conoscenza del vizio originario e fossero o meno tutti preda di un timore reverenziale nei confronti del maestro, la storia del ponte arriva al suo primo bivio. Zannetti prima, lo stesso Morandi poi e infine Camomilla lasciano intendere che il ponte potrebbe avere problemi ai tiranti e dicono che necessita di una impermeabilizzazione. Operazione che, con tutta probabilità, avrebbe potuto ritardare di molto la corrosione dei cavi primari all'interno della pila 9. Perché nessuno (all'epoca Autostrade, società dell'Iri, è concessionaria e l'Anas concedente) muove un dito? Mistero.

Alessandro Fulloni per "corriere.it" il 17 aprile 2021. «Papà, ma io non ero manco mai andato a Genova... a vedere questo ponte». Sono le 7 e 01 del 28 marzo 2019 e Roberto Salvi, membro operativo del «risk management» di Autostrade per l’Italia, telefona al padre Luciano per confidargli ciò che il giorno prima ha raccontato agli investigatori della Guardia di Finanza di Genova che lo hanno ascoltato a lungo. Quello che i due non sanno è che la loro conversazione è intercettata. A leggerlo adesso il contenuto (rivelato, tra gli altri, nell’edizione del Fatto Quotidiano di venerdì in un articolo di Marco Grasso) si rivela piuttosto surreale.L’indagine è quella sul crollo del ponte Morandi che il 14 agosto 2018 ha provocato 43 morti. Roberto Salvi (chiariamolo subito: non è indagato) ha svolto a lungo un compito di non poco conto per Atlantia: è stato uno degli estensori dei cataloghi nei quali sono classificati i pericoli per tutte le infrastrutture gestite sulla rete Aspi. Tra cui, appunto, il viadotto sul Polcevera. Che lui però non ha mai visto. E questo nonostante nel monitoraggio — trovato dalle Fiamme Gialle nel registro elettronico di Atlantia — si parlasse di «rischio crollo per ritardate manutenzioni» già dal 2013. Al papà lo ha ripetuto più volte: «Io non ero manco mai andato a Genova...». Quando qualcuno gli chiese di fare «un’analisi sui rischi catastrofali... ho detto ok... ma lì mi son posto il problema... quali possono essere eh... non lo so...». Riflettendo tra sé e sé, il «chief financial officer and risk manager» di Autostrade tech, fa qualche congettura al telefono sotto controllo: «Per esempio potrebbe essere quello della caduta di un aereo sull’autostrada... che scavando scoppia una conduttura e tutti i lavoratori muoiono eh... magari un ponte che cade...». Per avere le idee più chiare, Salvi andò «da quello che si occupa dei ponti» per chiedergli «ma secondo te, c’è qualche ponte... potrebbe esserci una catastrofe?». La risposta, dice Salvi al telefono con il padre, fu più o meno questa: «“Ma sì, vabbé i ponti sì, ma catastrofe, cose eccetera... l’unica catastrofe è questa qua... guarda”... mi apre il computer, mi fa vedere... “vedi questo qua...”». Ecco, «questo qua» è riferito al Morandi: che «“passa sopra la ferrovia, sopra i palazzi e ti rendi conto da solo che se cadesse qualcosa...” e beh, allora questo lo posso mettere come controlli ... cioè è nata così». Insomma: come riassumono gli investigatori, il documento di rischio è stato partorito in questo modo, con Salvi che a «vedere il ponte Morandi non c’è mai stato». Ma le Fiamme Gialle precisano anche che «per quanto riguarda i documenti presi e il discorso del rischio» il dirigente ha affermato «che in base a quanto scritto era poi l’azienda che doveva fare le valutazioni in merito». Al padre, Roberto indica tre colleghi (con «nome e cognome» scanditi pure alla Finanza): «Ragazzi... questi potevano fare le verifiche, perché non le hanno fatte? Perché non hanno scelto quel tema nel piano di audit? Diranno perché ho avuto altre priorità... perfetto! Chi te le ha date le altre priorità?». E ancora: se c’erano dei «rischi alti» con «che criterio hai fatto questo e non hai fatto quello?». Non finisce qui. Dopo aver detto a papà Luciano che i superiori si sono comportati all’insegna della «negligenza metodologica», Salvi osserva: «Questi vogliono fare i direttori, pigliarsi la macchina tremila di cilindrata, pigliarsi i soldi e poi dopo non vogliono pigliarsi le... ma rispondessero pure loro». Dalle carte, si scopre pure che il «rischio crollo del Polcevera in caso di ritardata manutenzione» di cui il catalogo parlava nel 2013 diventa un più generico «rischio crollo» nell’aggiornamento del 2015. Edulcorazione spiegata da Salvi come frutto di un «ragionamento metodologico»: la prima versione era «limitativa» e nella seconda «ci comprendi tutte le possibilità». Dal maresciallo apprende che i sensori che avrebbero dovuto monitorarne i cedimenti, dal Morandi «erano spariti». Erano quelli dal costo irrisorio e che probabilmente vennero strappati via per errore dagli operai di un cantiere. Lui sgrana gli occhi: «Non lo sapevo... non avevo il compito di verifiche sul campo... Altrimenti avrei cambiato le mie valutazioni».

Da “Anteprima. La spremuta di giornali di Giorgio Dell’Arti” il 17 marzo 2021. «Noi abbiamo lavorato come c’han sempre detto... ovvero alla cazzo perché se va a vedere un ponte di giorno... eh ci siamo mai andati di giorno? No… perché non han chiuso prima? Per il traffico, eh beh, chiudi tre ore e ci vai… Cioe, vai a vedere un ponte di notte? Chiudi e lo vai a vedere di giorno, non vai di notte con le lampade». E arrabbiato Marco Trimboli, tecnico della Spea, la società del gruppo Benetton che si occupava della manutenzione del viadotto crollato il 18 agosto del 2018 facendo 43 vittime. Ne parla al telefono con il collega Massimo Ruggeri, entrambi indagati nell’ambito del procedimento sul disastro, senza immaginare che dall’altra parte del filo, ad ascoltarli, c’erano gli uomini della Guardia di Finanza di Genova che indagavano sulla vicenda. E un’intercettazione del 29 ottobre 2018, anticipata dal Secolo XIX. Stessi toni usano gli ex dirigenti di Autostrade per l’Italia, Paolo Berti e Michele Donferri Mitelli. Quest’ultimo, responsabile delle manutenzioni, a un certo punto sbotta: «Ma io non so... cosa mandavano i ciechi! Mandavano i ciechi a fare ispezioni questi! I ciechi!». Si tratta di conversazioni considerate rilevanti dagli inquirenti che le hanno messe a disposizione delle difese. Gli stessi inquirenti, guidati dal procuratore Francesco Cozzi, che in queste ore hanno fatto l’elenco delle accuse provvisorie nei confronti dei 68 indagati per il disastro, come chiesto dal gip Angela Nutini, che sta gestendo la vicenda intercettazioni.

Francesco Bonazzi per “la Verità” l'11 giugno 2021. Tre uomini dello Stato che per la famiglia Benetton valgono tanto oro quanto pesano. Tre grand commis capaci di resistere al cambio di tre governi in una sola legislatura. I loro nomi sono Alberto Stancanelli, Luigi Carbone e Roberto Chieppa. Tre esperti di diritto amministrativo, che da anni fanno la spola tra i ministeri e Palazzo Chigi e che per due anni hanno trattato con gli uomini di Ponzano Veneto l'affare Autostrade. Un affare per il venditore Atlantia, visto che lo Stato, come ha spiegato La Verità domenica scorsa, ha offerto 21,3 miliardi per rilevare Aspi, andando a spendere 7,37 miliardi in più di quanto avrebbe dovuto versare se avesse semplicemente esercitato il diritto di recesso. E se Stancanelli e Carbone, in quanto capi di gabinetto dei due ex ministri competenti sul dossier, ovvero Roberto Gualtieri (Mef) e Paola De Micheli (Mit), avevano più di un buon motivo per sedersi a quel tavolo, Chieppa invece era ed è il segretario generale di Palazzo Chigi. E la sua presenza era decisamente impropria. Ma in quanto braccio destro dell'ex premier Giuseppe Conte, doveva controllare e gestire le trattative per conto del sedicente «avvocato del popolo». Ai tempi del primo governo Conte, il premier e i principali esponenti del Movimento 5 stelle, da Luigi Di Maio a Stefano Patuanelli e Danilo Toninelli, avevano più volte minacciato la revoca delle concessioni ad Aspi, dopo che il 14 agosto 2018 il ponte Morandi era crollato per somma incuria e aveva ucciso 43 persone. Il giorno dopo la tragedia, di ritorno dalla camera ardente di Genova, Conte proclamò: «Revocheremo le concessioni ad Autostrade, perché non possiamo aspettare la giustizia». E il 14 agosto dello scorso anno, nel secondo anniversario della tragedia, raccontò ai parenti delle vittime: «Non voglio essere polemico, sicuramente è stato un negoziato faticosissimo e durissimo. Ancora aspettiamo di mettere le firme sull' accordo finale». Mentre Di Maio, anche dopo la scelta di restare al governo con un Pd storicamente legatissimo ai Benetton, faceva ancora la faccia feroce: «La revoca rimane sul tavolo, non è mai stata è esclusa». Ma la «non esclusione» era solo l'ennesimo gioco di prestigio verbale, dopo il capolavoro del «procedimento in corso per la caducazione delle concessioni» tirato fuori da Conte (primo ottobre 2019). La verità è che la revoca è sempre stata una minaccia finta e che avrebbe scatenato una guerra giudiziaria con Atlantia dai costi imprevedibili. Per questo, anziché ricoprire di miliardi la dinastia dei golfini, sarebbe bastato esercitare il diritto di recesso e poi aspettare serenamente che i manager dei Benetton se la vedessero con la giustizia. Il fatto più grave, però, è che la trattativa è stata gradualmente allontanata dai riflettori, dal Parlamento, dalla politica. E si è svolta, con il pieno assenso di Conte, su tavoli come secretati. E l'ha gestita Chieppa, che non era un capo di gabinetto come i colleghi Carbone e Stancanelli, ma il segretario generale della presidenza del Consiglio, il quale per legge si occupa del personale di Palazzo Chigi, del suo funzionamento e della gestione amministrativa. Invece, incontrando regolarmente il capo di Atlantia, Carlo Bertazzo, Chieppa si è occupato anche di trattare con dei concessionari sospettati di strage colposa. Il trio di mandarini ha anche scritto l'accordo del 14 luglio 2020 con il quale Atlantia si impegnava a vendere l'88% di Aspi a una cordata guidata da Cdp e composta dai fondi esteri Macquarie e Blackstone. Chieppa ha poi messo la firma sotto la lettera del 20 settembre scorso, con la quale il governo intimava ad Atlantia di rispettare quell' accordo, in una fase in cui sembrava che i Benetton volessero scatenare un'asta con gruppi privati sul prezzo di Aspi. Una lettera così «dura», che hanno poi ripetuto il giochetto con la fantaofferta spagnola di Florentino Perez. E sempre il terzetto di grand commis ha seguito le trattative con Atlantia sul prezzo da pagare. Anche qui, nulla è accaduto alle spalle dell'avvocato del popolo. Del resto, Chieppa era in tutto e per tutto il suo grande orecchio, anche se al Copasir stanno ancora aspettando che si presenti a riferire sulla misteriosa vicenda del finto hackeraggio dell'account Facebook di Conte, accaduto a metà gennaio. Il prezzo riconosciuto ai privati si base sull' offerta del consorzio è calibrato sulla promessa strappata dai consulenti di Blackstone e Macquarie, ovvero Fulvio Conti e Claudio Costamagna, di avere una remunerazione del 10%, e verrà pagato dagli automobilisti. I margini sono garantiti dal Piano economico finanziario di Aspi, che la De Micheli aveva prontamente firmato, ma che va approvato dal Cipe. Quando il Cipe era diretto dal sottosegretario Riccardo Fraccaro (M5s), il timbro sul Piano non è mai arrivato. Ora la patatona bollente è nelle mani di Teresa Bellanova, viceministro alle Infrastrutture. Dopo il famoso «accordo» di luglio, l'allora ministro delle Politiche agricole dichiarò: «La soluzione alla vicenda Autostrade che il Consiglio dei ministri ha individuato nella notte [] avvalora la necessità di un percorso accorto nella relazione tra pubblico e privato e va nella direzione da noi auspicata: una soluzione bilanciata che fa salvo l'interesse della collettività e la credibilità dell' Italia come sistema Paese». Adesso che la pasionaria renziana ha l'occasione di poter fermare un regalo da sette miliardi ai Benetton, cinque dei quali grazie a un escamatoge fiscale, si apprezzerà la sua nozione di «soluzione equilibrata». Lo stesso vale per Matteo Renzi, che due anni fa vigilava sul rischio «regali ai concessionari» e oggi gira alla larga dal dossier. Una trattativa, quella Stato-Benetton, condotta ben al riparo da occhi indiscreti.

Marco Fagandini,Matteo Indice per “la Stampa” il 16 ottobre 2021. L'udienza che doveva rappresentare un concentrato di tecnicismi assume infine connotati (soprattutto) politici, più precisamente di pura realpolitik. Per la strage del Ponte Morandi - 43 vittime il 14 agosto 2018 a Genova, nel crollo del viadotto sull'A10 - la presidenza del Consiglio dei ministri e il ministero delle Infrastrutture, attraverso l'Avvocatura dello Stato, chiedono di costituirsi parti civili. Lo fanno contro tutti gli imputati per lo scempio di tre anni fa, tranne Autostrade per l'Italia, che è indiziata in quanto società ai sensi d'una legge specifica. È una scelta chiara e nettissima e matura a valle di due passaggi nodali: l'ingresso dello Stato stesso in Aspi attraverso Cassa depositi e prestiti, che dev' essere solo suggellato ma è ormai un dato di fatto; e soprattutto l'accordo stragiudiziale raggiunto negli ultimi giorni fra concessionario, ministero ed enti locali (Comune di Genova e Regione Liguria) che prevede un miliardo e mezzo di ristori al territorio in prevalenza sotto forma di finanziamenti a infrastrutture(vedi approfondimento nella pagina accanto). Lo Stato, quindi, entra nel processo e mette nel mirino pure una decina di suoi dirigenti e funzionari, poiché una parte degli imputati sono tuttora in servizio proprio al ministero, accusati di non aver vigilato accuratamente sulle omissioni del gestore privato; tuttavia non può farlo contro un'azienda che rappresenterà a breve una parte di se stesso e risarcirà in modo significativo il territorio che ha ferito. A loro volta, Comune e Regione chiedono al momento di poter procedere contro tutti, Autostrade inclusa. Ma in particolare la Regione, con una serie di dichiarazioni pubbliche, fa capire senza troppi fronzoli che non appena i soldi arriveranno, la costituzione nei confronti di Aspi sarà ritirata. La declinazione precisa delle scelte governative sul processo Morandi modifica in serata l'atteggiamento dei familiari di chi nel disastro perse la vita. Egle Possetti, presidente del Comitato ricordo vittime del Ponte Morandi, uscendo dal tribunale alla conclusione dell'udienza aveva espresso parole di apprezzamento: «Sappiamo che la decisione è maturata nelle ultimissime ore, è un segnale per noi importante» aveva rimarcato. Quando ha preso corpo la notizia dell'esclusione di Autostrade dai soggetti contro i quali si muove l'esecutivo, la posizione è radicalmente mutata: «Una vergogna, un passaggio inquietante preludio ad accordi con cui si manda al macero la memoria di 43 persone, lo Stato nega la sua funzione di equità». Sul piano strettamente giudiziario va invece ricordato che ieri si è materializzata l'indiscrezione trapelata nei giorni scorsi. Gli avvocati di otto ex dirigenti di Autostrade per l'Italia - tra loro i difensori dell'ex amministratore delegato Giovanni Castellucci - hanno ricusato la giudice dell'udienza preliminare Paola Faggioni. Lo stesso magistrato era stato infatti il gip che aveva disposto misure cautelari nei confronti di quelle otto persone in un procedimento parallelo, sull'installazione di barriere fonoassorbenti pericolose. Nel motivare i provvedimenti, Faggioni aveva inserito alcune considerazioni sul comportamento degli indagati nella gestione del Ponte Morandi, motivo per il quale ai loro occhi ha maturato un pregiudizio e non è «equanime». Sul caso si pronuncerà entro dieci giorni il presidente della Corte d'Appello: se l'istanza sarà accolta, Faggioni dovrà essere avvicendata, l'udienza preliminare ripartirà daccapo e i tempi slitteranno. In attesa del pronunciamento, e per dare alle difese la possibilità di replicare ai vari soggetti e alle associazioni che hanno chiesto appunto di costituirsi parte civile, ci si rivedrà in tribunale l'8 novembre. Il processo è a carico di 59 fra dirigenti e tecnici, o ex, di Autostrade, Spea e ministero delle Infrastrutture, con accuse a vario titolo di omicidio colposo plurimo, falso e attentato alla sicurezza dei trasporti e nel mirino ci sono in primis le mancate manutenzioni.

Ne valeva la pena? La cacciata dei Benetton da Autostrade ci è costata 7,9 miliardi: tutti i buchi lasciati da Conte. Claudia Fusani su Il Riformista il 4 Giugno 2021. Ci sono storie che sono “capolavori” di spreco e non-sense. Condividono un fattore comune: portano la firma di quelli che dicono No, spesso a prescindere, altrettanto spesso per questioni di principio che poi si rivelano, alla prova dei fatti, dannose e controproducenti. «Abbiamo cacciato i Benetton fuori da Autostrade. Detto/fatto» hanno gridato, dopo i 40 morti del ponte Morandi, i leader del Movimento 5 Stelle di volta in volta in compagnia di chi tra le altre forze politiche spingeva di più, in quel momento, sul pedale del populismo. Dopo tre anni i Benetton sono stati in effetti cacciati e per farlo il paese ha pagato 7,9 miliardi. Ne valeva la pena? «Nessun gasdotto per nessuna ragione mai toccherà la terra di Puglia» è stato il grido che ha portato in Parlamento, già dal 2013, molti parlamentari grillini che credevano di essere diventati “politici” e “portavoce” dando vita ai Comitati No-Tap, la Trans Adriatic Pipeline, il gasdotto che parte a Kipoi (confine tra Grecia e Turchia dove è collegato con un altro gasdotto), attraversa la Grecia settentrionale, l’Albania e sbuca sulla bellissima spiaggia di San Foca, cuore del Salento pugliese. Insomma una infrastruttura strategica di cui l’italiana Snam è proprietaria al 20% che non solo avrebbe messo l’Italia al centro del mercato del gas, ma ci avrebbe aiutato a calmierarne il prezzo. Il problema di queste storie è che quando smettono, per un motivo o per l’altro, di smuovere consenso vengono dimenticate. Un peccato perché regalano una morale preziosa. Un post del sottosegretario alle Infrastrutture Teresa Bellanova (Iv, anche Renzi e il sottosegretario Scalfarotto sono intervenuti sul punto) ha aiutato ieri a rinfrescare la memoria: il gasdotto funziona e si è confermato una infrastruttura strategica; la costa non ha subito alcun danno ambientale e i famosi ulivi, ben 200 che dovettero essere espiantati per il cantiere e poi piantati di nuovo, sono vivi e vegeti e anche gli unici, nella zona, a non aver sofferto per la Xylella. Peccato per il tempo e anche per i soldi persi. «Dicevano che avremmo distrutto la costa, sradicato gli ulivi, devastato il territorio» scrive Bellanova. «Ancora una volta il tempo ci ha dato ragione: la TAP funziona e si conferma un’infrastruttura strategica per la diversificazione energetica, il Mezzogiorno e l’Italia. Il territorio è rimasto intatto, l’ambiente è salvaguardato e tutelato, gli ulivi sono stati ripiantati, il mare, splendido, è stato premiato anche quest’anno con la Bandiera Blu». Fosse solo per il tempo perso, uno potrebbe allargare le braccia e consolarsi col fatto che ogni tanto capita di prendere abbagli. Il dramma è che i No-Tap, complice anche qualche governo, hanno perso ben 55 milioni che, spiega Bellanova, «sono il valore degli investimenti per il territorio messi in campo dal Consorzio Tap al tempo dei governi Renzi e Gentiloni». Tap aveva acconsentito, in cambio del disturbo arrecato dal cantiere, a costruire una pista ciclabile, pagare corsi di formazione e altri interventi per il recupero di quel tratto di costa. Risorse, dice Bellanova, «volatilizzate per colpa dei signori del No per cui il-Tap né-ora-né-mai e a causa dei giri di valzer del primo governo Conte che deve ancora spiegare come e perché dai 55milioni si era passati a 30 e poi anche i 30 sono finiti nel dimenticatoio». La questione fu questa: accettare quei soldi voleva dire accettare anche l’infrastruttura. A cui poi lo stesso Conte fu costretto a dire sì. Come in seguito è successo anche per la Tav. Un altro capolavoro di quelli-che-dicono-No e che poi restano prima prigionieri e poi vittime della loro stessa propaganda riguarda Autostrade. Il grido di guerra “fuori i Benetton da Autostrade” ha rimbombato nelle nostre orecchie in questi tre anni. All’inizio di più, col tempo sempre meno. La scorsa settimana quando “finalmente” i Benetton sono stati messi alla porta come promettevano i 5 Stelle ma anche Fratelli d’Italia e talvolta pure la Lega, il grido di battaglia è diventato flebile. Eppure doveva essere il momento dei cartelli e dello champagne in piazza. Ad esultare, invece, sono stati proprio i Benetton perché se Atlantia, società da loro controllata, ha ceduto Aspi (Autostrade per l’Italia) alla cordata guidata da Cassa Depositi e Prestiti e i fondi Macquarie e Blackstone, Atlantia, e quindi i Benetton, si ritrova in cassa 7,9 miliardi. Con la cessione dell’88% di Aspi, Atlantia ha ceduto anche l’obbligo a realizzare nuovi investimenti, opere di manutenzione e migliorie strutturali. Investimenti per miliardi di euro, già in programma e che adesso si dovranno accollare i nuovi proprietari. Tutte cose che potevano, anzi dovevano, essere realizzate in questi tre anni dove invece il grosso è rimasto congelato perché lo “Stato doveva far fuori i Benetton da Autostrade”. Ancora una volta, ne valeva la pena? Non sarebbe stato più conveniente, dopo la tragedia del ponte Morandi, pretendere subito da Aspi titolare della concessione fino al 2038 un maggiore impegno a risarcire danni e dolore? Quelli del No proliferano anche grazie alla giungla della burocrazia, all’intreccio di veti, autorizzazioni e permessi che non sempre sono sinonimo di interventi produttivi e nel rispetto dell’ambiente. Un paese veramente semplificato, cioè deburocratizzato, dovrebbe diventare ostile alle mafie e ai clan. Ma anche a quelli del No.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 6 giugno 2021. Siccome i circa 10 miliardi di dividendi incassati nel corso degli anni non parevano sufficienti a soddisfare la voracità dei Benetton, lo Stato ha deciso di ricomperarsi a caro prezzo la concessione di Autostrade, pagando il gruppo veneto con altri miliardi e facendosi carico dei numerosi, e costosi, investimenti necessari per mettere in sicurezza la rete viaria italiana. Ma, come se non bastasse aver pattuito una buonuscita che consentirà alla famiglia di Ponzano di mettersi in tasca quasi 2,5 miliardi, ai fratelli a colori è stato fatto un altro regalo, con un maxi sconto fiscale. La storia è raccontata nei dettagli in queste pagine dal nostro Francesco Bonazzi il quale, non essendo abituato ad accontentarsi né dei comunicati ufficiali né delle versioni di comodo, ha preferito fare due conti, scoprendo come ciò che i 5 stelle presentano come una grande vittoria dello Stato sia, per le casse del medesimo, una pesante sconfitta. Sintetizzo in breve ciò che il collega racconta più diffusamente senza dimenticare alcun dettaglio. La sostanza è questa: se, dopo il crollo del ponte Morandi, il governo avesse fatto ciò che Giuseppe Conte aveva promesso, ovvero avesse receduto dalla concessione ad Autostrade (la famosa «caducazione» evocata a cadaveri ancora caldi da colui che ancora si definiva l'avvocato del popolo) lo Stato avrebbe dovuto sborsare 19,1 miliardi. Una cifra mostruosa che in molti, e noi tra questi, avremmo ritenuto non dovuta, visto com'era mantenuto un bene finanziato con le tasse dei contribuenti. Ma a prescindere dal fatto che tale somma dovesse essere pagata o meno, una buona parte sarebbe tornata nelle casse pubbliche sotto forma di tasse. Bonazzi ha calcolato che le imposte introitate dal fisco sarebbero state pari a 5,3 miliardi e dunque, Benetton e soci avrebbero messo in tasca 13,8 miliardi. Troppi? Sì. Un' enormità soprattutto considerando ciò che è successo sul Morandi. Tuttavia, non aver innescato il recesso, ma avere avviato una procedura che condurrà all'acquisto di Autostrade da parte di Cassa depositi e prestiti e di alcuni fondi d'investimento, comporterà per lo Stato una spesa maggiore e per i Benetton un incasso superiore al previsto. Non ci credete? Basta fare due conti, come li ha fatti Bonazzi. In caso di recesso, come abbiamo visto, la spesa netta per il governo sarebbe stata di poco inferiore ai 14 miliardi. Per effetto invece dell'offerta presentata da Cassa depositi e prestiti e dai soci, a Benetton e compagni andranno 9,1 miliardi, a cui forse si aggiungeranno 400 milioni di indennizzo Covid. In totale, dunque, lo Stato pagherà 9,5 miliardi e mezzo, in apparenza molti meno rispetto al costo della «caducazione» della concessione. O per lo meno questo è ciò che sembra. Infatti, ai soldi che ufficialmente sono iscritti per l'operazione bisogna aggiungere 8,8 miliardi di debito, che prima pesavano sulle spalle della famiglia veneta e da domani ricadranno su quelle degli acquirenti, vale a dire degli italiani. Già qui si capisce che l'affare sia molto meno conveniente di quanto si dice, ma se a ciò si aggiunge che i soli indennizzi per il crollo del Ponte Morandi rischiano di costare allo Stato 3,4 miliardi, a cui si dovranno probabilmente aggiungere i costi legali, beh si capisce che l'affare non lo ha fatto il Paese, ma i fratelli dei maglioni a colori. Mettendo insieme le cifre, tra quelle che saranno liquidate alla famiglia veneta e quelle che si rischia di dover liquidare tra investimenti e danni, si arriva a 21,3 miliardi, 7,3 in più dell'ipotesi iniziale di «caducazione» della concessione. Non è finita. Se già c' è da farsi venire un travaso di bile per il regalo fatto ai Benetton, a mandare su tutte le furie qualsiasi persona di buonsenso è il fatto che, a seguito delle plusvalenze, il gruppo veneto pagherà qualche cosa di più di alcune briciole. Infatti, mentre ai comuni mortali è applicato un salasso, in questo caso ci si dovrebbe fermare al 5 per cento della plusvalenza, che tradotto in valori assoluti significherebbe all' incirca un centinaio di milioni su un guadagno di circa 2 miliardi.

Francesco Bonazzi per “la Verità” il 6 giugno 2021. «Chi commenta dicendo che abbiamo regalato soldi ai Benetton sbaglia. Ai Benetton abbiamo tolto parecchi miliardi che sono quelli in più che avrebbero incassato se avessero mantenuto la gestione dei 3.000 chilometri di autostrade per gli altri 20 anni previsti». Parola del grillino Danilo Toninelli. In questi giorni, l'ex ministro delle Infrastrutture del Conte uno, saltato come un birillo più che altro per propri demeriti, e prontamente rimpiazzato dalla piddina Paola De Micheli, è impegnato a promuovere su Facebook il proprio libro denuncia. S' intitola Non mollare mai e l'ha dovuto pubblicare con la vituperata Amazon, scelta che gli sta costando anche un mezzo processo da parte dei suoi seguaci. Gli altri esponenti del M5s, dopo l'assemblea di Atlantia di lunedì scorso che ha accolto l'offerta presentata dalla cordata di Cdp per Autostrade per l'Italia, sono stati più prudenti. Bocche suturate anche nel Pd e in tutta la «sinistra autostradale», quella solida corrente transgenica che parte dalla sinistra Dc di Fabrizio Palenzona e Romano Prodi e arriva al Pd di oggi con Enrico Letta e Graziano Delrio. Per due anni e mezzo hanno lasciato sfogare forcaioli e tribuni del popolo, si sono capiti al volo con un principe del cavillo come Giuseppe Conte, hanno fatto terrorismo sui costi di una lite con i Benetton e alla fine, alla faccia di Toninelli, il regalo c' è eccome. Ed è anche di quelli grossi. Si tratta esattamente di un cadeau da 7,3 miliardi, come si ricava non da atti segreti, ma da documenti pubblici come la convenzione Mit-Aspi e il Piano economico finanziario (Pef) che Autostrade ha presentato al ministero e che il Cipe deve ancora approvare. Come aveva svelato Panorama il 9 dicembre scorso, la vera trattativa per la clamorosa nazionalizzazione si è svolta tra l'amministratore delegato di Atlantia, Carlo Bertazzo, il capo di gabinetto della De Micheli, Alberto Stancanelli, e il capo di gabinetto dell'allora ministro dell'Economia Roberto Gualtieri, ovvero Roberto Chieppa. A comprare, però, sono Cdp, Macquarie e Blackstone. Che in cambio riceveranno margini del 10% l'anno, grazie ai soliti aumenti tariffari. Per oltre due anni e mezzo, mentre Aspi continuava come nulla fosse a incassare i suoi bravi pedaggi, si è agitato lo spauracchio della revoca delle concessioni. Lo hanno fatto anche Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, seppure quest' ultimo, tanto per essere comprensibile al popolo di cui si era nominato «avvocato», arrivò a parlare di «caducazione». Sempre comunque aggiungendo che il contenzioso con Atlantia era potenzialmente assai costoso. Il picco di allarmismo lo ha raggiunto Matteo Renzi, il fan più esagitato dei Benetton. Il 13 luglio 2020, ovvero alla vigilia dell'ultimo Consiglio dei ministri dove Aspi ha rischiato la revoca, Renzi spara: «Oggi i populisti vogliono la revoca perché è caduto il ponte e perché Benetton ha preso troppi soldi. Questo puoi farlo al bar: la verità è che con la revoca si danno i miliardi a Benetton. E sapete perché non hanno mai scritto il documento di revoca? Perché ci sono scritti sopra i miliardi che devono dare a Benetton. Questo giochino rischia di costare ai nostri figli 20/30 miliardi. Intanto si licenziano delle persone e si bloccano i cantieri». Può darsi che i calcoli dell'ex Rottamatore fossero anche corretti, ma il segreto per arrivare è: basta impostare male il problema. Perché qui, anche dopo i 43 morti del Morandi, non di revoca, ma di recesso si doveva parlare. E i conti sarebbero stati assai meno pesanti rispetto alla nazionalizzazione più o meno forzosa che va in scena oggi. La revoca non prevede che il concedente (qui, lo Stato), accusi di alcunché il concessionario (Aspi). Insomma, nessuna «demagogia», ma semplice diritto a tirarsi indietro, secondo le regole stabilite dalla concessione stessa. La convenzione Aspi-Mit è pubblicata sul sito del ministero e possono leggerla tutti i deputati. Quella attualmente in vigore è stata firmata il 12 ottobre 2007 (secondo governo Prodi) ed è stata aggiornata il 24 dicembre 2013 (governo di Enrico Letta. Come si può immaginare, non sono documenti ostili ai Benetton. Ebbene, all' articolo 9 bis la convenzione prevede che in caso di revoca il concessionario abbia diritto a un indennizzo «pari al valore attuale netto dei ricavi della gestione», ovvero al netto di costi, oneri, investimenti e imposte prevedibili nel periodo mancante alla fine della concessione. Usando le tabelle del Pef in vigore, la somma da dare ad Aspi arriverebbe a 13,8 miliardi netti. Su questa cifra, lo Stato recupererebbe poi 5,3 miliardi di imposte con un'aliquota al 27,9% (24% di Ires e 3,9% di Irap), che escludiamo dal conteggio perché è una partita di giro. Ora, abbandonata questa strada per nulla punitiva per i Benetton, andiamo a quello che secondo Toninelli «non è un regalo». Il consorzio guidato da Cdp (il nuovo ad, Dario Scannapieco si è insediato il giorno dopo il voto dell'assemblea Atlantia) ha offerto ad Atlantia 9,1 miliardi (considerando la valorizzazione al 100%, pari a 7,9 miliardi per l' 88% della società). A questi vanno sommati 8,8 miliardi per l'accollo dei debiti di Aspi e 3,4 miliardi per gli indennizzi diretti in ragione del crollo del ponte sul Polcevera. Il tutto, senza contare i rischi legali per indennizzi indiretti, oggi non quantificabili, visto che mancano le sentenze penali. Alla fine, la strada scelta dal precedente governo, al momento confermata anche da quello attuale, ci costa ben 21,3 miliardi. In modalità «vendita», i Benetton ne incasseranno 2,4, sui cui dovranno solo pagare il 5% di tasse, in base al regime fiscale agevolato sulle plusvalenze, ovvero un centinaio di milioni. Insomma, con il recesso, il valore netto riconosciuto ai Benetton per uscire da Aspi sarebbe stato pari a 13 miliardi e 818 milioni. Mentre con l'acquisto da parte dello Stato si arriva a 21 miliardi e 190 milioni. Il regalo ai Signori del casello, a futura memoria anche della Corte dei conti e del Cipe che ora deve vidimare il nuovo Pef (senza il quale la remunerazione di Macquerie e Blackstone sarebbe incerta), arriva a 7 miliardi e 370 milioni. Ci si finanzierebbero i Ristori II, III e forse pure IV. Tanto per fare del «populismo», come direbbe il Renzi.

Non è garanzia di migliori risultati. La nazionalizzazione di Autostrade chiude una brutta storia ma…Enrico Musso su Il Riformista il 22 Giugno 2021. Con la rinazionalizzazione di Autostrade per l’Italia si conclude una travagliata e infelice storia italiana cominciata il 14 agosto 2018 con il crollo del viadotto Morandi. Il governo Conte Uno – espressione delle forze politiche più stataliste e anti-mercato del parlamento italiano, M5S e Lega – si intestò la battaglia per ottenere lo scalpo dei concessionari privati, condannati dopo un processo sommario di poche ore svoltosi in favore di telecamere e conclusosi in tempo per i funerali delle vittime. Giuseppe Conte dichiarava, fra le macerie fumanti, «non possiamo aspettare i tempi della giustizia italiana», come se lui fosse stato un turista canadese in vacanza e il problema dei tempi della giustizia non lo avessero riguardato affatto. Là dove era possibile e sensato pretendere dal concessionario – in quanto tale, cioè a prescindere dalle responsabilità – il ripristino a proprie spese del manufatto, si preferì intraprendere la strada, più redditizia dal punto di vista elettorale, della (annunciata) revoca della concessione. Aprendo così a un contenzioso dall’esito incerto e comunque costosissimo per il contribuente, che ci rimise di tasca propria i quattrini per la ricostruzione. La strada era così impervia che fu abbandonata: servì per indebolire Aspi sui mercati azionari ed esibire facce da duri nei talk show. Ma poi si preferì trattare per togliere Aspi dalle mani dei Benetton “con le buone”, e cioè comprandola. Così che alla fine è il contribuente a dare altri soldi ai Benetton, e non viceversa. L’inadeguatezza delle manutenzioni – che attende conferma nel processo ma appare oggettivamente probabile – ha permesso alla politica di additare come unico colpevole la privatizzazione, causa di tutti i mali dalle guerre puniche in poi. E di propugnare così l’immediato ritorno a una taumaturgica nazionalizzazione, vero obiettivo del governo più statalista della storia repubblicana (si veda anche il caso Alitalia). È opinabile che il ricorso ai privati – vista come salvifica da Prodi & C. negli anni ’90 quando si dovevano colmare le fosse di bilanci pubblici devastati da decenni di clientelismo – sia il modo più efficiente ed efficace di gestire un’infrastruttura di trasporto con caratteristiche di quasi monopolio. Serverebbe infatti gare trasparenti, contratti di servizio, controlli e sanzioni efficaci, e non – come è avvenuto in Italia – affidamenti diretti senza gare e reiterate proroghe concesse per tempi molto lunghi con il pretesto di nuovi investimenti funzionalmente connessi. Una gestione pubblica delle autostrade è quindi del tutto plausibile, soprattutto in paesi dove gli apparati pubblici presentano un accettabile grado di efficienza (forse in Canada, appunto). Il ritorno del pubblico, tuttavia, non garantisce di per sé migliori risultati, e neppure il superamento dei problemi posti dalla privatizzazione: le tariffe sotto Cdp saranno le stesse di prima, l’obiettivo del profitto sarà perseguito anche dai nuovi manager, l’asimmetria di informazioni fra concessionario e concedente non sarà colmata. Permette invece di nascondere sotto il tappeto le colpe politiche sul Morandi: il rifiuto di una nuova infrastruttura (osteggiata dal M5S e da altre forze politiche) che avrebbe “scaricato” il viadotto dal conclamato eccesso di traffico che ne causò l’ammaloramento, e la devastante burocrazia che rallentò per anni i lavori straordinari che erano stati certificati come urgenti. Si poteva partire dalle macerie del Morandi per intervenire su tre gravi mali italiani: le privatizzazioni senza regole né gare e né controlli, che favoriscono la ricerca criminale del profitto a tutti i costi e gettano discredito sulle virtù della concorrenza; la politica cinica che segue la “pancia” di vere o presunte constituencies elettorali; la burocrazia onnipresente e tentacolare come il rampicante rossastro della Guerra dei Mondi del romanzo di H.G. Wells (e del film di Spielberg). Si rischia invece di ridare forza a un altro grande topos della nostra economia malata: l’inefficiente gestione pubblica di gangli vitali dell’apparato produttivo del paese. Ovviamente, speriamo di sbagliarci. Enrico Musso

Estratto dell'articolo di Giacomo Amadori e Alessandro Rico per “Panorama” il 31 marzo 2021. Sotto le macerie del Ponte Morandi di Genova non sono rimaste solo 43 vite di cui pochi ricordano i nomi, ma anche la credibilità di una schiatta di maestri tessitori che per quasi quarant'anni ha attraversato da protagonista la scena imprenditoriale italiana, ma che oggi è trattata alla stregua di una bottega di magliari. Il cognome Benetton, secondo gli esperti di onomastica, dovrebbe derivare dalla forma dialettale contratta dell'accrescitivo del nome Benedetto. Benedettoni, dunque. Ma ormai di benedetto c'è ben poco. E a restituire la giusta luce all'immagine offuscata non basterebbe neppure il fotografo di corte, quell'Oliviero Toscani cacciato con disdoro dai suoi mecenati per aver pronunciato la vile infamia: A chi interessa che caschi un ponte. A oltre trenta mesi dal crollo che ha spezzato in due Genova scopriamo che i peggiori giudici dei Benetton sono i Benetton stessi o i loro più fidati collaboratori. Come raccontano le intercettazioni depositate dalla procura guidata da Franco Cozzi nei vari filoni del procedimento avviato dopo il crollo. Montagne di trascrizioni scodellate nei vari riesami e ore di audio che gli avvocati stanno ascoltando in una stanza dedicata al nono piano del Tribunale del capoluogo ligure. Chi sono davvero i Benetton? Chi sono gli imperatori delle concessioni autostradali, i giganti del tessile, i magnati che hanno diversificato il loro business acquistando catene come Autogrill o investendo nelle assicurazioni (Generali) e nel credito (Mediobanca)? Un ritratto autentico lo forniscono, alcune conversazioni registrate dalla Guardia di finanza, discorsi proferiti da membri della famiglia o dagli uomini a loro più vicini (tutti, precisiamo, non indagati), a partire dal top manager Gianni Mion. Questo settantasettenne padovano dalla chioma candida è il dirigente che ha traghettato gli affari dei Benetton dal mondo concreto delle filande a quello volatile e ingrato dell'alta finanza e dei trasporti, dalle strade ai cieli, approfittando delle privatizzazioni selvagge dei bei tempi dei governi di centrosinistra, alla cui tavola i Benedettoni hanno mangiato a quattro palmenti. Mion è stato per la famiglia di Ponzano Veneto quello che per gli Agnelli sono stati Cesare Romiti o Vittorio Valletta: per decenni ai vertici della holding Edizione, nella quale ha operato dal 1986 al 2016 e, poi, di nuovo dal 2019 al 2020. Torniamo alle intercettazioni finite nel fascicolo in mano all'aggiunto Paolo D'Ovidio e ai pm Massimo Terrile e Walter Cotugno. È il 31 dicembre del 2018, da quattro mesi è crollato il viadotto sul Polcevera, gestito da Autostrade per l'Italia (Aspi). Da allora, la politica sta provando a togliere (un esproprio per dirla con uno dei loro amici) alla dinasty trevigiana la gestione della rete viaria a pagamento. Mion è al telefono con Fabrizio Palen zona, già vicepresidente di Aeroporti di Roma (Adr, altra società della galassia Benetton, che controlla lo scalo di Fiu micino), membro del cda di Mediobanca (di cui Edizione detiene il 2,1 per cento) e presidente dell'Aiscat, l'associazione che riunisce le società concessionarie di autostrade.

Mion sbotta: Noi dobbiamo fare qualcosa su Aspi che bisogna che diamo garanzie, ma non solo garanzie, tanto i Benetton l'hanno capito tutti che non capiscono un cazzo e che siamo degli inetti, no?. Un epitaffio sulla storia dei suoi datori di lavoro.

Poco dopo, soggiunge: [...] la prova di inettitudine è certificata da parte dell'azionista di riferimento, no?. È una climax di invettive: Loro, i signori del ponte, si incazzano quando parlano (si parla, ndr) sempre di Benetton, quello scrive la lettera perché non c'entra un cazzo... ma non c'entri un cazzo perché non capisci niente! Perché allora... i tuoi dividendi li dovevi devolvere in beneficienza perché non ti riguardavano, no? Cioè insomma una figura da cazzo così è.... L'epistola cui fa riferimento Mion è quella spedita da Luciano Benetton, uno dei fondatori del gruppo ed ex senatore repubblicano, a diversi quotidiani nazionali, poche settimane prima: Nessun componente della famiglia Benetton ha mai gestito Autostrade, aveva cercato di auto assolversi l'imprenditore. Ma quello che era stato il manager di fiducia della famiglia, al telefono, pur dicendosi de ciso a sparare tutto quello che abbiamo da sparare per salvare dignità, azienda e investimento, riconosce che questi qua, cioè gli stessi Benetton, sono quelli che se lo meritano di meno. Al telefono con Fabio Cerchiai, presidente di Atlantia (la controllante di Aspi), il 3 gennaio 2020, Mion finisce per restituire un desolante ritratto dell'intero management della società: Non son boni [...] francamente, insomma la patente di incapaci l'abbiamo già portata a casa, no?. Però non è solo il Romiti di Edizione a demolire la casata. Persino il rampollo Alessandro, secondogenito di Luciano, pare non avere una buona opinione dei famigliari, soprattutto dei cugini. Con loro, Christian, Franca Bertagnin e Sabrina, Alessandro era entrato in rotta di collisione nel 2016, uscendo dal cda del gruppo. (...) Sul dossier Autostrade, Alessandro fa lo scaricabarile: [...] non me ne occupo e sono cazzi loro, ci sono i miei cugini. L'imprenditore ritiene ci sia una sola via d'uscita: [...] c'è un problema di credibilità compromessa che non è recuperabile... ok? [...] per salvare Atlantia noi dovremmo uscire da Aspi.... Ma come si fa a rinunciare alla gallina dalle uova d'oro?

Perché le autostrade fruttano incassi da capogiro. Quel denaro che, sempre stando a Mion, intercettato il 2 febbraio 2020, è l'ossessione dei Benetton: Le manutenzioni, confessava il manager, le abbiamo fatte in calare, più passava il tempo, meno ne facevamo... così distribuiamo più utili e Gilberto e tutta la famiglia erano contenti. Un concetto ribadito da Carlo Bertazzo, nuovo a.d. di Atlantia, l'8 febbraio 2020. Conversando con il presidente Cerchiai, egli riporta un'opinione che ha ascoltato da almeno due fonti: I Benetton hanno di fatto ingessato la società in quanto volevano solo dividendi, dividendi, dividendi. Sono proprio i dividendi, a un certo punto, a imbarazzare Ermanno Boffa, consigliere d'amministrazione di Atlan tia e marito di Sabrina Benetton (uscita dal cda pochi giorni fa, per essere stata sottoposta a pressioni di ogni tipo, dopo la tragedia del Morandi). Nel 2020, al telefono con Mion, Boffa sottolinea che sarebbe devastante se venisse fuori che i Benetton si sono distribuiti 200 milioni di euro nel loro momento peggiore, cioè successivamente alla strage sul Polcevera. Grazie ai bilanci si può ricostruire l'immenso flusso di denaro che, negli anni, è transitato sui conti correnti degli azionisti delle società della famiglia di Ponzano Veneto. Nel 2010, l'ammontare dei dividendi di Atlantia superava i 516 milioni. Nel 2016, era salito a oltre 775. Il balzo più clamoroso avviene nel 2017, con oltre 2 miliardi e 567 milioni di euro. L'anno della tragedia di Genova, la slot machine di Aspi si ferma a circa 456 milioni. In nove il totale fa quasi 7 miliardi e mezzo. Così, sempre citando Mion, il defunto Gilberto e tutta la famiglia erano contenti. Dalle telefonate emerge chiaramente come la famiglia veneta e i suoi collaboratori cerchino di interpretare come aruspici ogni palpito o sospiro della politica. Un esempio lo abbiamo quando Mion parla del prezzo delle azioni dei Benetton che Cassa depositi e prestiti (controllata dal ministero dell'Economia e delle Finanze) avrebbe dovuto acquistare, per prendere il controllo del 51 per cento di Aspi: Bisogna anche fare la verifica se ci vogliono o non ci vogliono, perché se non ci vogliono, basta che mettiamo a posto le aziende e poi ognuno per sé e Dio per tutti... perché [...] non c'è dubbio che è stata la Cassa depositi che ha insufflato tutti sti 5 stelle per un anno e mezzo per cacciarci a calci nel culo. Ecco perché, tra i bersagli della vis polemica di Mion, figurano i grillini, tifosi sfegatati della revoca delle concessioni: Pensavano che bastasse parlare del ponte e di Benetton e si aumentavano i voti del 15 per cento... non mi sembra che abbiano avuto il 15 per cento in più dei voti e anche lì si conferma che tutto sto battage che hanno montato, anche in termini elettorali, non gli porta assolutamente niente, perché la gente ha capito che è tutta una stronzata. Ma una ciambella di salvataggio, come molte volte in passato, il gruppo veneto confidava arrivasse dagli ambienti della sinistra. E per questo cercava segnali nelle mosse della ministra, cioè Paola De Micheli, la titolare piddina del dicastero delle Infrastrutture e dei Trasporti nel governo giallorosso. Mion osserva: Ieri è andata a vedere i lavori da 200 e fischia milioni di investimenti che sta facendo Adr, cioè Aeroporti di Roma. Il manager è speranzoso: Quindi è un messaggio, no? È un messaggio per dire, beh, le cose stanno accadendo, no? Capito? [...] il Pd è lì che si barcamena fra questi scemi dei 5 stelle e poi il fatto che questa qui sia andata in Adr, è un fatto significativo secondo me... perché insomma, voglio dire, non è che t'ha messo lo stigma del lazzarone da tutte le parti... no?. Ma se i Benetton non capiscono un cazzo, nelle intercettazioni ce n'è anche per manager e tecnici. Per esempio, in un'altra telefonata, Mion umilia l'ex a.d. Castellucci e critica pesantemente Spea engineering Spa, la società del gruppo Atlantia che avrebbe dovuto occuparsi dei controlli strutturali sulla rete autostradale. È a questa che attribuisce le più gravi responsabilità delle omesse verifiche: [...] però non è solo Castellucci francamente, perché la verità è che c'era questa società che si chiama Spea, no? Fatta tutta di ingegneri [...] qualcuno a suo tempo degli interni mi aveva detto... "guarda che lì c'è una banda di lazzaroni". In uno scambio di vedute con Bertazzo, il 31 dicembre 2019, Mion discute proprio di come far fuori Spea. E, su questo dossier, contesta la gestione di Cerchiai: [...] lui deve dire [...] "questa società qua, gestita in questo modo, non la voglio!" [...] Se non lo dice che cazzo sta a fare? Sta a coprire!. Non è finita: Si capisce che Cerchiai sta solo a proteggere sé stesso... ma insomma basta!. E ancora: Cerchiai e Castel lucci sono responsabili, direi che sono responsabili in ugual misura! [...] Uno perché era pazzo e quell'altro perché è paraculo!. Atlantia è tutto un casino, sospira Alessandro Benetton, dialogando con il manager Corsico: Cerchiai ha fatto tutto fuorché il presidente. Ma, come specifica il rampollo, egli era assolu tamente contiguo al sistema pur non direttamente coinvolto e consapevole. Insomma, la fotografia dell'impero industriale e finanziario dei Benetton, scattata dai suoi stessi protagonisti, è choccante, come un'istantanea di Toscani. Emblematica la chiosa di Mion: [...] diciamo, tutto quello che nei primi dieci anni si è costruito... nei secondi dieci anni si è distrutto. Un'ultima intercettazione rende bene l'idea di come, nel regno dei Benetton, non si salvino né i sovrani, né i consiglieri. Il 31 dicembre 2019, Mion, Bertazzo e Cerchiai, i vertici delle società del gruppo, organizzano una call a tre. Poche ore prima, sull'A26, nei pressi di Masone (Genova), dal soffitto di una galleria si è staccato un enorme blocco di cemento. Il problema dei tre sembra quello di evitare di prendersene uno in testa andando in vacanza alla volta di mari esotici e montagne innevate. Cerchiai è pensieroso: Per andare giù devo fare tutte le gallerie.... Risate. Bertazzo fa riferimento a un censimento del Mit sui tunnel non a norma: Mi son preso paura quando m'ha detto 200 gallerie su 270 in Italia.... Irrompe la battuta di Mion: Devi andare in aereo, devi andare in aereo. Cerchiai sta al gioco: Vado in aereo, difatti, sì. Altra ilarità. Chiude Mion: Eh sì però, se vai in galleria puoi fare tu il monitoraggio. Nuove risate. Cheese... mancava solo Oliviero per una bella foto in posa.

AUTOSTRADE, I BENETTON SI ARRENDONO. SABRINA LASCIA IL CDA ATLANTIA: «DISAGIO». La rottura a sorpresa, legata anche alla vicenda del Ponte Morandi, agevola l’accordo con Cdp per la vendita di Aspi. Nino Sunseri su Il Quotidiano del Sud il 16 marzo 2021. Si rompe il fronte della famiglia Benetton, rendendo più agevole l’accordo con Cdp per la vendita di Autostrade per l’Italia. Con una decisione a sorpresa, ma a lungo meditata dicono fonti vicine alla famiglia, Sabrina Benetton, si è dimessa dal consiglio d’amministrazione di Atlantia, la holding controllata dalla dinastia cui fa capo la concessionaria autostradale. Una decisione dall’alto valore simbolico,  considerando che Sabrina, pur non avendo deleghe operative,  era l’unico  consigliere  a portare il nome Benetton. Ma soprattutto è un’esponente di primo piano della seconda generazione in quanto  figlia di Gilberto, il primo dei quattro fratelli fondatori che,  dopo aver assunto la presidenza del gruppo, aveva guidato la diversificazione. I maglioncini di Luciano e di Franca perdevano peso a favore di autostrade, ristorazione (Autogrill) e aeroporti.

LO STRAPPO. La decisione, si legge in una nota, è «maturata anche alla luce degli accadimenti (recenti o meno) relativi alla controllata Autostrade per l’Italia, e al disagio anche reciproco che necessariamente determina la posizione di azionista di rilievo nel socio di maggioranza».  Uno strappo importante nella famiglia delle autostrade italiane, all’indomani dell’approvazione dei conti 2020 di giovedì scorso, che riflette le crescenti difficoltà legate  non solo alla trattativa con il consorzio a guida Cassa depositi e prestiti per Aspi, ma anche alla vicenda del Ponte Morandi. La decisione di Sabrina non ha avuto conseguenze in Borsa, visto che il titolo Atlantia è rimasto stabile a 16,1 euro.  Costituisce comunque la conferma dei rumors che da settimane parlano di crescenti  divergenze tra la famiglia Benetton, primo azionista di Atlantia al 30,2% con la holding Edizione – e il consiglio di amministrazione della società. In particolare con l’amministratore delegato Carlo Bertazzo e il presidente Fabio Cerchiai. Sarebbero proprio i vertici della società che, nel quadro della trattativa con il consorzio a guida Cdp (che comprende anche gli statunitensi di Blackstone e gli australiani di Macquarie), avrebbero spinto per avere condizioni più favorevoli per gli azionisti. A cominciare dal prezzo finora sempre definito inadeguato. L’ultima offerta, arrivata nella serata del 23 febbraio, metteva sul piatto un ammontare di poco superiore ai nove miliardi, definito inadeguato dai vertici di Atlantia che, insieme al Fondo Tci (secondo azionista con una quota del 10%), spingono per una valutazione di almeno 11 miliardi.

TRATTATIVA ALLUNGATA. Una posizione che ha sicuramente allungato la trattativa acuendo le tensioni tra le parti coinvolte, che mantengono i contatti – la settimana scorsa la cordata ha chiesto una ulteriore proroga dei termini fino al 27 marzo – ma con i nodi del prezzo e della manleva che rimangono irrisolti.  Prosegue quindi, come confermato anche da Carlo Bertazzo agli analisti finanziari la scorsa settimana, la trattativa per trovare un accordo che, come ribadito dagli analisti di Equita «eliminerebbe il rischio politico, risolverebbe il problema del debito della holding e assicurerebbe flessibilità finanziaria ad Atlantia per nuovi investimenti, compreso il sostegno ad Abertis, il cui debito resta  elevato». Sabrina Benetton era entrata nella stanza dei bottoni di Atlantia circa un anno e mezzo fa, subito intenzionata a dare un segnale di discontinuità nel rapporto tra la famiglia e Autostrade, convinta che la tragedia del Morandi dovesse implicare un cambio di passo netto anche nei posti di comando.

ROTTURA NELLA DINASTIA. La decisione di Sabrina sancisce anche la rottura all’interno della dinastia.  La sua decisione, infatti, ha avuto l’appoggio di Alessandro, figlio di Luciano, altro volto storico della prima generazione. Sono stati loro, Sabrina e Alessandro, a spingere per la sostituzione del manager storico dei Benetton, quel Gianni Mion che ha guidato il gruppo in quel sistema di scatole cinesi che da Atlantia porta poi al controllo di Autostrade. C’è anche da aggiungere che Mion era stato richiamato dalla famiglia dopo più di tre anni. Aveva litigato proprio con Gilberto ed era uscito. Alla morte del capostipite la famiglia, incapace di esprimere una leadership condivisa, aveva richiamato Mion. Tranne poi licenziarlo un’altra volta per far posto a Enrico Laghi come presidente di Edizione. Con l’addio di Sabrina al tavolo del consiglio di amministrazione Atlantia non c’è più un componente che porta il cognome Benetton. Edizione ha un altro consigliere, ma non è la stessa cosa.

Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 19 marzo 2021. C'è Franca Benetton che «dice delle cose e dopo cinque minuti dice l'opposto, non stimola gli investimenti, le piacciono anche i dividendi...»; c'è suo cugino Alessandro che «adesso vuole i soldi perché lui ha un progetto, dice che è imprenditore e che gli altri non capiscono niente, mamma mia, pensano solo ai c... loro»; c'è Sabrina, quella del recente strappo con Atlantia, che scalpita e «incontra Franca ma i loro discorsi non sono mai molto concreti»; e c'è lui, Gianni Mion, storico braccio destro della famiglia Benetton, fino allo scorso novembre al timone della holding del gruppo di Ponzano (Edizione) alla quale fanno capo Atlantia e Autostrade per l'Italia (Aspi), che lo dice chiaro: «Scappo e buonanotte». E così ha fatto, anche se accompagnato da qualcuno. Due anni di intercettazioni sul disastro del Morandi, eseguite dalla Guardia di finanza e depositate dalla Procura di Genova, restituiscono un'immagine non proprio unita dei Benetton e svelano i retroscena di vari avvenimenti, dalle responsabilità sul crollo del ponte Morandi alla guerra per il controllo di Aspi a quella familiare dei Benetton, fino alle recenti dimissioni dal cda di Atlantia di Sabrina. «È una débâcle completa della famiglia», sintetizza il professor Giorgio Brunetti, economista e membro esterno di vari consigli di amministrazione del gruppo di Ponzano, in una conversazione con lo stesso Mion del febbraio 2020. La parabola ha un punto di discesa: il 14 agosto 2018, crollo del Ponte Morandi, gestito da Aspi, 43 vittime. «È emerso che noi per molti anni le manutenzioni non le abbiamo fatte in misura costante, nonostante la vetustà aumentasse», dice Mion a Ermanno Boffa, marito di Sabrina, che sempre nel febbraio dello scorso anno gli chiede se ha incontrato l'allora premier Conte. «Non ancora, perché stiamo preparando un documento in cui diciamo che siamo disponibili a cedere il controllo... Vogliamo programmi d'investimento secondo gli schemi raccomandati dal procuratore Cozzi». Cozzi, che per il disastro ha iscritto 68 persone nel registro degli indagati e si appresta a chiudere l'inchiesta ribadendo la necessità di rendere prioritaria la sicurezza nelle scelte d'investimento. Sicurezza che lo stesso Mion, in una conversazione a tre con l'avvocato Sergio Erede e Bertazzo, illustra così: «Quando io ho chiesto all'ingegner Castellucci e ai suoi dirigenti chi certificasse la stabilità di questo ponte e l'agibilità, mi è stato detto: ce lo autocertifichiamo». Sul banco degli imputati mette Spea, la società del gruppo che si occupava delle manutenzioni: «Sono una banda di cialtroni e un'associazione a delinquere... diciamo che in Autostrade, in Spea, in quel mondo là non si salva nessuno». Dopo il crollo del ponte, altro punto di caduta dell'impero è stata la scomparsa di Gilberto Benetton, due mesi dopo il disastro. Gilberto, padre di Sabrina, era l'anima finanziaria del gruppo, il collante, artefice della diversificazione e della crescita esponenziale delle attività. «È anche inutile che ci mettiamo a cercare un altro Gilberto - dice Boffa a Mion - perché fra tre generazioni siamo ancora qui a cercarlo». La situazione per Mion è preoccupante: «C'è poco da fare, il clima è questo e adesso bisogna inventarsi qualcuno che affianchi i Benetton perché il vero problema è la loro inettitudine...», dice in dicembre ad Aldo Laghi che gli subentrerà alla guida di Edizione holding. Alla fine si torna sempre lì: le scarse manutenzioni e il mantra dei dividendi. «Io batterò solo su questo con la Franca - assicura Boffa -. Cioè, vuoi un futuro? Il futuro è già oggi, è sulla politica dei dividendi, ci tieni anche all'immagine... cioè tu immagina se viene fuori che i Benetton si sono distribuiti 200 milioni nel momento peggiore della loro vita». Mion condivide: «Anche l'altro giorno parlavo con la Franca e mi dice: "Ma perché ce l'hanno con noi, mica abbiam fatto niente". No, dico, vi siete solo arricchiti... inconsapevolmente, a vostra insaputa, vi siete arricchiti... Alessandro adesso vuole i dividendi». Risultato: Mion si dimette, Sabrina saluta tutti e Aspi è ancora un intrigo di palazzo.

Matteo Indice per "La Stampa" il 9 marzo 2021. Le riunioni tra i massimi dirigenti tecnici di Autostrade per l'Italia e della controllata Spea Engineering sono state registrate clandestinamente da due dei partecipanti per un anno, 42 volte tra la fine del 2016 e la conclusione del 2017, quindi prima del crollo del Ponte Morandi. In più summit si fa riferimento esplicito all'avanzato stato di corrosione dei tiranti del viadotto collassato il 14 agosto 2018 a Genova (43 vittime) e si profilano gravi rischi per la tenuta dell'infrastruttura. Ecco perché gli audio rappresentano secondo la Procura una delle prove-cardine sulla consapevolezza dei pericoli e sul fatale rinvio delle manutenzioni da parte di Aspi. In altre occasioni emergono la cronica sottostima della pericolosità di altri ponti (dettaglio che ha dato il là a un'inchiesta autonoma in Toscana) e le anomalie in diversi tunnel. I colloqui sono stati scoperti dalla Guardia di Finanza nei «device», dispositivi elettronici, di due degli oltre 70 indagati per il disastro di tre anni fa, accusati a vario titolo di omicidio colposo plurimo, crollo doloso e attentato alla sicurezza dei trasporti. Marco Vezil, ex responsabile verifiche tecniche di Spea, ha registrato 38 incontri; Massimiliano Giacobbi, ex direttore tecnico della medesima Spea, 4 appuntamenti ai quali Vezil non era presente. Ciascuna registrazione, si scopre oggi, ha durata variabile, fra una o due ore complessive, talvolta frammentata in segmenti da 20-30 minuti. Le riunioni si tenevano perlopiù nel centro direzionale Aspi di Campi Bisenzio (in provincia di Firenze appunto, motivo per cui una parte delle segnalazioni è stata inoltrata ai magistrati toscani) e il numero dei partecipanti era sempre piuttosto ristretto, da 3-4 a un massimo di 10. Il personaggio-chiave, presente a quasi tutti i colloqui, è l'ex supercapo nazionale delle manutenzioni di Autostrade, Michele Donferri Mitelli, indagato per il massacro di Genova e in altri filoni collegati. L'ex amministratore delegato Giovanni Castellucci, a sua volta inquisito, viene evocato più volte ma non è fisicamente in sala, mentre in un'occasione si sente la voce di Carmelo Gentile, docente del Politecnico di Milano, che realizzò una consulenza allarmante sul viadotto. L'elemento più interessante, si rimarca fra gli investigatori, è rappresentato dalle ricorrenti discussioni sul progetto di retrofitting del Morandi. È il restauro eseguito negli Anni 90 su uno solo dei tre piloni principali e sarebbe dovuto partire - tardivamente - nell'autunno del 2018 sugli altri due, a chiosa di un iter a dir poco tortuoso. È in quei frangenti che emergono le preoccupazioni diffuse sull'avanzamento della corrosione, con oltre un anno e mezzo di anticipo sulla strage. La matrice primaria del crollo, secondo i periti del tribunale, è infatti il cedimento d'uno «strallo», uno dei tiranti diagonali che dalla sommità delle pile scendevano fino all'impalcato (la strada) sorreggendola. L'anima in acciaio, circondata dal calcestruzzo e quindi non visibile dall'esterno, si è progressivamente deteriorata, fino a spezzarsi e a generare l'effetto domino che ha disintegrato l'opera. Ai problemi degli stralli si fa cenno in modo esplicito durante i meeting, e in un paio di circostanze le considerazioni sono pesantissime. Un altro aspetto rischiarato dalle intercettazioni clandestine (il principale autore, Marco Vezil, viene definito dagli ex colleghi «un animale che non butti giù nemmeno se gli spari») è la cronica sottovalutazione dei livelli di rischio sui viadotti diversi dal Morandi. Tra gli scambi più illuminanti ne viene allegato uno del 24 ottobre 2017, captato di nascosto con uno smartphone. Donferri detta la linea e chiede di rivedere il voto assegnato a una serie d'infrastrutture: «Cosa sono - dice - tutti 'sti 50 (il numero indica un coefficiente di rischio, più alto è e più urgenti sono le manutenzioni da eseguire, ndr)? Me li dovete togliere... Adesso riscrivete e fate Pescara (il rimando è a un viadotto nella zona, ndr) a 40... il danno d'immagine è un problema di governance». In quelle conversazioni emerge inoltre come Donferri avesse obiettivi di risparmio legati a una maxi-operazione finanziaria del gruppo, la cessione d'un pacchetto azionario da 1,49 miliardi.

Ponte Morandi nato malato. Strangolato dai cavi marci. I segnali d'allarme c'erano dall'inizio. A provocare la catastrofe l'incuria di Autostrade e parastato. Luca Fazzo, Venerdì 05/02/2021 su Il Giornale. Genova. Il «tumore». Ormai gli avvocati della megainchiesta sul crollo del ponte Morandi lo chiamano così. Il «tumore» è il groviglio di cavi d'acciaio che nel 1965 venne piazzato a reggere la pila 9 del viadotto sul Polcevera, e che fin da subito si trovò immerso nell'acqua, negli acidi, nella salsedine: e cominciò a incancrenire come una metastasi. Sono espressioni crude. Ma quella andata in scena in questi giorni nel tendone del tribunale genovese sembra davvero una autopsia. Sul tavolo c'è un cadavere. Non di un uomo: il gigantesco cadavere del ponte crollato il 14 agosto 2018. Sezionato, analizzato.

Come tutti i cadaveri, anche quello del Morandi parla. Il tumore è lì, sul tavolo dei periti: il «reperto 132», il pezzo della pila 9, lato sud, che alle 11,36 cede di schianto. Su questo ormai sono tutti d'accordo, consulenti dell'accusa e della difesa. Ma come nei processi per colpe mediche, dove si parla di esseri umani lasciati morire senza cure o con le cure sbagliate, la domanda cruciale è: il malato si poteva salvare? I sintomi si coglievano, erano affrontabili? Ed è qui che le versioni divergono, e la battaglia dei settantuno indagati - con i pubblici ministeri, e poi tra di loro, gli uni contro gli altri - si annuncia aspra e interminabile, col rischio che l'immane complessità della materia porti tutto avanti nel tempo. Anche per questo, le famiglie di trentanove dei quarantatré morti hanno scelto di mollare, prendere i soldi, uscire per sempre dal tormento senza fine delle sentenze giuste o sbagliate, dei ricorsi, delle prescrizioni. A combattere sono rimasti in tre. Marcello Bellasio, che perse due figli; Nadia e Egle Possetti, che persero la sorella; e il papà di Giovanni Battiloro. A loro, spiegano, i milioni di Autostrade non interessano. Vogliono capire perché, per colpa di chi. Non si sono accontentati della perizia disposta dal giudice, quella discussa per tre giorni questa settimana, e su cui dal 18 febbraio avvocati e periti torneranno a litigare. Bellasio e le Possetti hanno voluto un loro consulente, uno di cui si fidassero. Si chiama Paolo Rugarli, è un ingegnere milanese, ha depositato 373 pagine con la sua risposta alle domande del giudice. Ed è accaduta una cosa singolare. Sulla ricostruzione di Rugarli - una ricostruzione impietosa, di cui qua accanto si riportano i passaggi principali - si sono ritrovati in buona parte anche gli imputati legati ad Atlantia ovvero ai Benetton, i manager entrati in scena con la privatizzazione di Autostrade nel 1999, a partire da Giovanni Castellucci, prima amministratore e poi presidente. Anche con loro, con le omissioni per ignavia o per soldi della gestione privata, la ricostruzione di Rugarli ha la mano pesante. Ma ha un pregio: guarda anche all'indietro, riavvolge il filo della tragedia fino agli esordi del ponte, alla progettazione, alla costruzione, ai segnali d'allarme iniziati prima ancora che sui 1.182 metri progettati dal grande Enrico Morandi passasse la prima auto. E sugli anni successivi, gli anni dell'Anas, delle autostrade pubbliche, del parastato sprecone e miope. Il ponte, dice Rugarli, nacque già malato. E la sua morte, cinquant'anni dopo, fu la conseguenza inevitabile di una serie di colpe imperdonabili da parte praticamente di chiunque, in un ruolo o nell'altro, vi abbia messo le mani. Anche la Procura di Genova ha, sulla carta, nel mirino quel periodo. Ma Castellucci e gli altri sono convinti (e gli indizi ci sono) che alla fine rischiano di essere gli unici chiamati a pagare. Non ci stanno. E la mano decisiva forse gli arriverà dal perito delle loro vittime.

L'incidente probatorio sulla maxi perizia. Il Ponte Morandi è crollato perché costruito male, ecco le prove. Paolo Comi su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. Il ponte sarebbe stato costruito “male”. Le indagini sul crollo del ponte Morandi, avvenuto il 14 agosto del 2018 e dove persero la vita 43 persone, sono ad una svolta. Questa settimana è iniziato l’incidente probatorio sulla maxi perizia di circa 500 pagine disposta dal giudice Angela Nutini. La Procura del capoluogo ligure ha iscritto nel registro degli indagati 71 persone tra ex dirigenti, ad iniziare dall’ex ad Giovanni Castellucci, e tecnici di Autostrade e di Spea (la società incaricata delle manutenzioni), nonché dirigenti del Ministero delle infrastrutture e del Provveditorato. Fra le accuse, omicidio colposo plurimo, crollo doloso, attentato alla sicurezza dei trasporti, falso, omissione d’atti d’ufficio, rimozione o omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Per la Procura di Genova il crollo del ponte sarebbe stato dovuto all’assenza di manutenzione “straordinaria e ordinaria”. Secondo i periti, in particolare, «la causa scatenante il crollo è la corrosione della parte sommitale del tirante della pila 9», che «ha mostrato un’evidente e gravissima forma di corrosione nella zona di attacco con l’antenna», una corrosione che «ha avuto luogo in zone di cavità e mancata iniezione formatesi nella costruzione del ponte». I periti hanno anche evidenziato che il processo di corrosione «è cominciato sin dai primi anni di vita del ponte ed è progredito senza arrestarsi fino al momento del crollo determinando una inaccettabile riduzione dell’area della sezione resistente dei trefoli che costituivano l’anima dei tiranti, elementi essenziali per la stabilità dell’opera». La relazione ricorda poi che nel 1993, quando fu effettuata una importante manutenzione del ponte, «non sono stati eseguiti interventi che potessero arrestare il processo di degrado in atto e/o di riparazione dei difetti presenti nelle estremità dei tiranti che, sulla sommità del tirante Sud-lato Genova della pila 9 erano particolarmente gravi». Sempre secondo i periti, se i controlli e manutenzioni fossero stati fatti nel modo corretto, «con elevata probabilità avrebbero impedito il verificarsi dell’evento». Chi doveva occuparsi della manutenzione del ponte «avrebbe dovuto avere una conoscenza adeguata di come l’opera era stata costruita, valutando la rispondenza con i documenti progettuali, cosa che avrebbe permesso di individuare il grave difetto costruttivo nell’ultimo tratto del tirante, in corrispondenza della sommità dell’antenna, consentendo di prevedere e tenere sotto controllo il processo di degrado», hanno quindi concluso i periti incaricati dal Tribunale di Genova. Uno scenario che, però, stride con quanto accaduto negli ultimi anni. Molti professionisti che si sono interessati del ponte hanno, infatti, sempre dato una valutazione molto “tranquillizzante”. L’ingegnere Francesco Pisani, allievo di Riccardo Morandi, che eseguì il progetto di rinnovo del ponte nel 1993 attestò il buono stato complessivo dell’infrastruttura, avallando anche il sistema di retroriflettenza scelto come modello di controllo. L’ingegnere Francesco Martinez y Cabrera, titolare della Cattedra di Ponti e Grandi strutture presso la facoltà di Ingegneria del Politecnico di Milano, che nel 1993 aveva effettuato il collaudo del ponte, fissò al 2030 la nuova attività ispettiva. Anche il Cesi (Centro elettrotecnico sperimentale italiano), uno delle più importanti società di ingegneria, nel 2016 aveva espresso una valutazione positiva. E, per finire, il professor Carmelo Gentile nel 2017, pur sollevando dubbi su delle corrosioni di cavi secondari, non aveva ravvisato criticità imminenti per il ponte. Già nel 1993, anno in cui si decise di privatizzare la rete autostradale, il ponte Morandi era purtroppo gravemente corroso, avendo esaurito tutti i margini di sicurezza. Complicato accorgersene con i normali monitoraggi dinamici. I difetti di costruzione erano localizzati ad un metro di profondità e le ispezione visive sarebbero dovute essere precedute da scassi locali di almeno 40 cm, difficili da realizzare. L’unica soluzione era, dunque, il “retrofittig”, già in programma. Che il ponte destasse preoccupazioni, comunque, era stato anche Morandi a sottolinearlo in due distinti rapporti nel 1979 e nel 1981. Esiste un «diffuso stato di ammaloramento», aveva scritto l’ingegnere, proponendo alcune modifiche di intervento «non sempre accolte».

Il report di 500 pagine. Ponte Morandi, corrosione e manutenzione inadeguata: così è crollato, la relazione dei periti. Redazione su Il Riformista il 21 Dicembre 2020. Corrosione e controlli e manutenzione inadeguate. E’ quanto si legge nella relazione di 500 pagine dei periti del Gip Angela Nutini sulle cause che hanno provocato il crollo del Ponte Morandi di Genova dove il 14 agosto 2018 hanno perso la vita 43 persone. La causa scatenante “‘è il fenomeno di corrosione a cui è stata soggetta la parte superiore del tirante Sud- lato Genova della pila 9” si legge nel report redatto nell’ambito del secondo incidente probatorio, quello che dove stabilire le cause del crollo. La procura di Genova aveva formulato 40 quesiti a cui i super esperti hanno risposto. Oltre alla corrosione, a determinare il crollo sono stati anche “i controlli e le manutenzioni che se fossero stati eseguiti correttamente, con elevata probabilità avrebbero impedito il verificarsi dell’evento”. “La mancanza – scrivono i periti del Gip- e/o l’inadeguatezza dei controlli e delle conseguenti azioni correttive costituiscono gli anelli deboli del sistema; se essi, laddove mancanti, fossero stati eseguiti e, laddove eseguiti, lo fossero stati correttamente, avrebbero interrotto la catena causale e l’evento non si sarebbe verificato”. Inoltre – si legge sempre nella relazione – “non sono stati individuati fattori indipendenti dallo stato di manutenzione e conservazione del Ponte che possano avere concorso a determinare il crollo, come confermato dalle evidenze visive emerse dall’analisi del filmato Ferrometal”.

Marco Fagandini e Tommaso Fregatti per “La Stampa” il 22 dicembre 2020. Il crollo del ponte Morandi e la morte di 43 persone si sarebbero potuti tranquillamente evitare. Se solo «fossero stati svolti i regolari controlli e le attività di manutenzione che avrebbero certamente individuato uno stato di corrosione cominciato sin dai primi anni di vita del ponte e che è progredito senza arrestarsi fino al momento del crollo». Ma non solo. Viene smentita la tesi della difesa che aveva puntato sulla presenza sul ponte, il 14 agosto del 2018, giorno della strage, di una super bobina, quale concausa del collasso. «Non sono stati individuati fattori indipendenti dallo stato di manutenzione e conservazione del ponte che possono aver concorso a determinare il crollo». Sono alcune delle conclusioni dei periti nominati dal giudice Angela Maria Nutini, nell'ambito del secondo incidente probatorio. Un atto considerato super-partes. La perizia è maturata nel contraddittorio delle parti e costituirà una prova nel processo. I quattro periti hanno risposto ai quesiti, spiegando le ragioni per cui il viadotto è crollato. Parlano di «mancanza e/o inadeguatezza dei controlli e delle conseguenti azioni correttive che costituiscono gli anelli deboli del sistema. Se fossero stati eseguiti correttamente l'evento (e cioè il crollo, ndr) non si sarebbe verificato». Secondo gli esperti «sono state trascurate negli anni le innumerevoli indicazioni del progettista Morandi, con particolare riferimento al degrado degli acciai dei tiranti». Lo stesso ingegnere aveva continuato a evidenziare, sino al 1985, un «diffuso stato di ammaloramento e proposto modifiche di intervento non sempre accolte». Mentre «il gestore dell'opera avrebbe dovuto avere una conoscenza adeguata di come l'opera era stata costruita - scrivono i periti -, cosa che avrebbe permesso di individuare il grave difetto costruttivo nell'ultimo tratto del tirante Lato Genova/Sud, consentendo di prevedere e tenere sotto controllo il processo di degrado riscontrato». Grazie anche all'analisi del video della telecamera di Ferrometal (azienda poco distante dal Morandi) «è possibile stabilire (reperto 132) l'esatto punto di partenza del crollo, che coincide con la rottura del tirante Sud che si trova sul lato di Genova». La corrosione dei cavi dei tiranti era così importante che sarebbero bastate «ispezioni visive dirette con scassi locali ed endoscopi». Ma si aggiunge che «il punto di non ritorno, oltre il quale l'incidente si è sviluppato inevitabilmente, è da individuarsi nel momento in cui, per effetto della corrosione, si è innescato un fenomeno evolutivo che ha determinato un elevato tasso giornaliero di rottura dei fili, che avrebbe portato inevitabilmente al collasso anche per effetto dei soli carichi permanenti (la struttura stessa, ndr)». Aspi, per la perizia, ha sempre attuato un monitoraggio "statico": «Quel sistema era solo formalmente conforme alla normativa vigente e alla migliore pratica a causa del basso numero dei sensori e all'assenza di interpretazioni delle letture (dei dati riportati, ndr) in funzione delle criticità da monitorare». Solo in due occasioni, invece, era stato eseguito un «monitoraggio dinamico», ma senza poi seguirne le indicazioni: «Non è stato dato seguito alle raccomandazioni del Cesi di Milano che aveva consigliato l'installazione di un sistema di monitoraggio dinamico permanente». Le indagini commissionate da Aspi «non hanno consentito di pervenire ad un adeguato livello di conoscenza dell'effettivo stato di degrado dei cavi dei tiranti». E nel mirino dei periti finisce anche l'intervento di retrofitting che avrebbe dovuto mettere in sicurezza il viadotto a ottobre 2018, due mesi dopo il crollo. Intervento già al centro di nuove accuse, per falso, da parte della procura. «Le stime della corrosione già nel 1993 - scrivono i periti - con riferimento alle pile 9 e 10 risultavano rispettivamente pari all'8,6% e al 20,54% e sono in palese contraddizione con quella riportata nel progetto di retrofitting (che arriva ben 24 anni dopo, ndr), generalmente pari al 10-20% indistintamente per le due pile, che implicherebbe il completo arresto del progredire del fenomeno di corrosione in un quarto di secolo». Gli esperti ritengono la stima di Aspi sul retrofitting «chiaramente assurda e inaccettabile». E accusano la concessionaria «di aver ritardato l'intervento che, svolto con adeguato anticipo, avrebbe evitato il crollo». Dallo studio emergono anche problemi strutturali per carenze progettuali e difetti costruttivi, ma non alla qualità dei materiali. Aspi ha sostenuto che il Morandi sarebbe crollato per un «vizio occulto». I giudici sposano in parte la tesi. Ma evidenziano come sarebbero stati sufficienti «controlli e manutenzione per evidenziare questi difetti».

Marco Fagandini Tommaso Fregatti per "la Stampa" il 25 giugno 2021. La procura di Genova chiede che 59 dei 69 indagati per la strage del Ponte Morandi siano processati. Così come le due società chiamate a rispondere ai sensi della legge sulla responsabilità amministrativa, ovvero Autostrade per l'Italia e Spea, il soggetto che all'epoca monitorava le infrastrutture del concessionario. Le posizioni degli altri dieci indagati invece vengono stralciate, per essere sottoposte a un'ulteriore valutazione, prima di decidere se archiviarle o meno. Le tempistiche programmate dagli inquirenti sono state rispettate. «Non è stato perso neppure un giorno a disposizione per l'inchiesta», aveva detto il procuratore capo Francesco Cozzi. E il piano di arrivare alle richieste di rinvio a giudizio prima della pausa estiva si concretizzerà in queste ore, quando saranno notificati materialmente i documenti. A quel punto si chiarirà anche quali sono i dieci nomi "congelati" dai magistrati. Poco più di due anni e nove mesi sono serviti agli investigatori, coordinati dal procuratore aggiunto Paolo D'Ovidio e dai sostituti Massimo Terrile e Walter Cotugno, per fare luce su quel 14 agosto del 2018. Quando il viadotto Morandi era crollato ed erano morte 43 persone. Per gli inquirenti, quei 59 indagati già sapevano delle fragilità del viadotto. Ma non avrebbero fatto niente o quasi per monitorarne lo stato di salute effettivo. E per rinforzarlo come sarebbe stato necessario, a partire dallo strallo sud della pila 9, il primo a cedere. Il mantra era ridurre le spese in manutenzioni e sicurezza per aumentare i guadagni di Aspi, sostengono i finanzieri agli ordini dei colonnelli Ivan Bixio (Primo Gruppo) e Giampaolo Lo Turco (nucleo metropolitano), che hanno esaminato fra le migliaia di documenti dell'inchiesta anche anni di bilanci. Illuminanti, per gli inquirenti, sono state anche le due perizie, una sulle condizioni del viadotto e una sulle cause del crollo, disposte dal giudice per l'udienza preliminare Angela Maria Nutini ed eseguite in incidente probatorio (e quindi terze rispetto alle parti). Per i quattro autori della seconda, il crollo si sarebbe evitato se «fossero stati svolti i regolari controlli e le attività di manutenzione che avrebbero certamente individuato uno stato di corrosione cominciato sin dai primi anni di vita del ponte e che è progredito senza arrestarsi fino al momento del crollo», si legge nelle sintesi della perizia. Fra i 69 indagati ci sono figure di primissimo piano dell'epoca di Aspi, come l'ex amministratore delegato Giovanni Castellucci, il responsabile dell'ufficio centrale operazioni Paolo Berti e quello nazionale delle manutenzioni Michele Donferri Mitelli. Ci sono poi responsabili e tecnici di Spea e dirigenti ministeriali nel mirino, coloro che per la procura avrebbero dovuto vigilare e non lo fecero. Tra questi ultimi il provveditore alle opere pubbliche per Piemonte e Liguria Roberto Ferrazza. I reati contestati a vario titolo sono omicidio stradale plurimo, crollo doloso, falso e attentato alla sicurezza dei trasporti.

La Procura di Genova sul disastro del 14 agosto 2018. Ponte Morandi, 59 richieste di rinvio a giudizio: “Immobilismo e consapevolezza del rischio”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 25 Giugno 2021. La Procura di Genova ha inviato 59 richieste di rinvio a giudizio nell’ambito delle indagini sul crollo del Ponte Morandi di Genova. La tragedia il 14 agosto 2018. Morirono 43 persone nel crollo del viadotto. Oltre alle 59 richieste, 10 posizioni stralciate, tre indagati sono deceduti invece negli ultimi anni. Chiesto il giudizio anche per Aspi e Spea. L’udienza preliminare dovrebbe tenersi intorno a settembre. L’inchiesta è stata coordinata dal Procuratore aggiunto Paolo D’Ovidio e dai pm Walter Cotugno e Massimo Terrile. Destinatari della richiesta anche manager ed ex vertici della società Autostrade e di Spea. Tra i 59 nomi anche l’ex ad di Atlantia Giovanni Castellucci, l’ex ad di Spea Antonino Galatà, i manager Paolo Berti e Michele Donferri Mitelli. Le richieste, a quasi tre anni dalla tragedia, hanno attraversato due incidenti probatori, perizie, indagini. Le accuse, a vario titolo: omicidio colposo plurimo, attentato alla sicurezza dei trasporti e omicidio stradale, crollo doloso e omissione dolosa di dispositivi di sicurezza sul lavoro. Per gli inquirenti, come riporta l’Ansa, ci sarebbero stati “immobilismo” e “consapevolezza del rischio” per la sicurezza sul viadotto. “Il momento emotivamente più critico è stato quello del 14 agosto 2018, quando ho ricevuto la notizia – ha detto all’Agi il procuratore aggiunto Paolo D’Ovidio che coordina l’inchiesta sul crollo del Ponte Morandi – C’è massima soddisfazione, con la consapevolezza che i miei colleghi hanno fatto un lavoro straordinario”. Tra le posizioni stralciate quelle di Roberto Acerbis, Vittorio Barbieri, Galliano Di Marco, Giovanni Dionisi, Carlo Guagni, Giorgio Peroni, Luigi Pierbon, Alessandro Pirzio Birolli, Giorgio Ruffini, Alessandro Severoni. Tre i nomi invece espuntati, per decesso nel corso delle indagini: quello di Luigi Forti, Celso Gambera e Graziano Baldini. La società Spea è stata da due anni esautorata e i controlli delle infrastrutture affidati a società esterne di ingegneria. Potenziati i sistemi di controllo e prevenzione. Il traffico ha riaperto dalla serata del 4 agosto 2020. Il nuovo viadotto, progettato da Renzo Piano, è stato intitolato a San Giorgio. La gestione della struttura è stata restituita dal sindaco e commissario straordinario Enrico Bucci ad Autostrade per l’Italia Spa (Aspi).

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Fabio Savelli per il "Corriere della Sera" il 28 giugno 2021. «Incoscienza, negligenza, immobilismo, comunicazioni incomplete e fuorvianti» per oltre 50 anni della vita del ponte. L' accusa nei confronti di 59 imputati per il crollo del viadotto Morandi a Genova il 14 agosto 2018 racconta una sterminata galleria di errori ed omissioni che portarono ad una tragedia in cui persero la vita 43 persone. Famiglie distrutte. Una città, una Regione e non solo messe in ginocchio. Tra gli accusati il numero uno di Atlantia e anche della società Autostrade che avrebbe dovuto garantire la sicurezza di chi era in viaggio. Giovanni Castellucci che, a quasi tre anni dalla tragedia ed a indagini finalmente concluse, ha deciso di rispondere alle domande che in questi mesi in molti si sono e ci siamo fatti. I numeri dell'accusa parlano chiaro, del totale dei lavori fatti sul viadotto dal 1982 a oggi per il 98% sono stati eseguiti dal concessionario pubblico, e solo per meno del 2% da quando è diventato privato. 50 anni di inerzia: i cavi della pila collassata «non sono stati oggetto di alcun sostanziale intervento di manutenzione».

«Prima di ogni altra cosa mi permetta di esprimere ancora il dolore per quanto è successo, una tragedia immane che mi, e ci, ha segnato tutti profondamente: ai familiari delle vittime rinnovo tutta la mia sincera vicinanza. Venendo alla sua domanda, a indagini concluse e atti depositati emerge anche un'altra verità rispetto a quanto fin qui rappresentato: gli incidenti probatori hanno evidenziato che già nel 2000, quando la società fu privatizzata, il margine di sicurezza dello strallo del pilone 9 nel punto di rottura (cd reperto 132) si era ridotto dell'80%, nonostante l'importante ciclo di manutenzione del 1993 eseguito dallo Stato prima di consegnarci il Ponte. Perché il difetto di costruzione era occulto. Ma anche prima della tragedia i lavori sul ponte erano continui: il giorno dopo la caduta Il Secolo XIX titolò "crolla il ponte dei cantieri infiniti". Erano interventi di miglioramento della struttura e non correttivi perché nessuno dei tecnici ipotizzava la presenza del difetto di costruzione, per questo figurano alla voce investimenti e non manutenzioni».

Le ricordo che lei era a capo della società che gestiva quel viadotto su cui passavano migliaia di auto e camion al giorno. Per lei può essere pacifico che non si conoscesse il difetto, ma la tragedia c' è stata e sempre secondo l'accusa «c' era un diffuso stato di corrosione delle armature», per il quale non avete fatto nulla per evitarlo.

«Per me non c' è nulla di pacifico. Ma lo stesso incidente probatorio ha evidenziato che i cavi degli stralli avevano una ossidazione superficiale o al massimo modesta, tanto è vero che non sono stati nemmeno analizzati nel dettaglio; sul reperto 132, invece, la corrosione profonda era stata provocata da una serie di errori di costruzione: cavi portanti affastellati, bolla d' aria nel getto di calcestruzzo, guaine di protezione troppo corte, materiali estranei, fessurazioni diffuse. Il tutto sotto quasi mezzo metro di cemento armato. Un difetto occulto, ma viene da chiedersi se non sia stato addirittura occultato, dato che quello fu l'unico pilone a non essere mai stata sottoposto alla prova di carico obbligatoria per legge. Tecnici qualificati nel 1993, e cioè in occasione della precedente ristrutturazione, decisero per il pilone 9 solo l'impermeabilizzazione, con una prognosi di rivalutazione al 2030. Impostarono anche un sistema di monitoraggio attraverso una tecnologia elettrica che però non identificò il difetto, perché, come riportato dai periti, il modo più sicuro per individuare il problema sarebbe stato di demolire tutto il cemento armato e mettere a nudo i cavi profondi. Ma si sarebbe dovuto sapere dove e cosa cercare».

Sta dicendo che è colpa dello Stato? O dei «tecnici qualificati» come li chiama lei che nel 1993 fecero la prognosi? Peccato che siano passati quasi 25 anni. E su quel ponte siano passati milioni di veicoli.

«Guardi, è un fatto che nella consulenza tecnica di una delle parti offese viene riportata un'affermazione forte: nel 1993 fu "decretata la sorte" del ponte. E a sovrintendere quei lavori c' erano un collega di Morandi e l'ordinario del Politecnico di Milano. Quella stessa relazione dice anche che nessun tecnico ha mai preso in considerazione un crollo per la corrosione dei cavi primari: quelli più profondi e protetti che tenevano in piedi il ponte». 

Veramente la conclusione delle indagini teorizza la presenza di una tendenza a risparmiare sulle manutenzioni e dare più dividendi agli azionisti. E lei capisce che se le accuse venissero confermate dai giudici, sarebbe una politica che facciamo fatica a commentare.

«I dividendi annui inseriti nel piano finanziario dopo la mia uscita e nonostante le nuove regole tariffarie sono circa il doppio di quelli distribuiti durante la mia gestione. Quanto alla spesa su ponti, viadotti e sicurezza dopo la privatizzazione del 2000 era più che raddoppiata. Ed era tutto alla luce del sole».

Le accuse si basano anche sulle telefonate fatte da Mion, storico amministratore delegato fino al 2016 della holding dei Benetton, che, intercettato, parla espressamente di riduzione delle manutenzioni.

«Non è vero e i numeri, pubblici, lo dimostrano. Tenga conto che le migliaia di intercettazioni fatte dopo la tragedia, su persone indagate o che potevano diventarlo, erano anche suscettibili di strumentalità per scagionarsi, accusare, compiacere, senza rispondere di quanto dichiarato. Prese complessivamente vi si legge tutto e il contrario di tutto. Più in generale vorrei ricordare che i rapporti miei e dei miei manager con Edizione Holding, con Gilberto Benetton, l'ad Mion, il dg Bertazzo e con il cda erano continui: mai una tensione o divergenza su dividendi o manutenzioni». 

Insomma, la colpa è sempre di qualcun altro.

«Veramente mi pare il contrario, ovvero che si vogliano addossare le responsabilità a me. Dopo la privatizzazione abbiamo lavorato e investito tanto proprio sul tema della sicurezza. Tutor, asfalto drenante, cantieri notturni e tanto altro avevano ridotto radicalmente il numero di morti sulla strada: circa 300 vite risparmiate ogni anno. Eravamo considerati un modello in tema di sicurezza. E anche su Aeroporti di Roma avevamo applicato lo stesso metodo con successo trasformandolo in un punto di riferimento in Europa. Piuttosto mi stupisce il tentativo di tutti coloro che avevano un ruolo per assicurare la sicurezza e i controlli di trasformare dopo la tragedia quella che era la condivisione totale in ignoranza di tutto. Certo che mi domando se nel mio ruolo avrei potuto fare qualcosa di diverso, però tutti i giornalisti bene informati sanno che negli atti depositati ci sono i miei continui inviti ad affrontare il tema delle manutenzioni e del controllo del ponte in maniera organica e risolutiva nonostante le rassicurazioni dei tecnici interni ed esterni. Ma questo purtroppo non ha evitato la tragedia. E la documentazione raccolta dagli inquirenti solleva tanti legittimi interrogativi sulla gestione degli ultimi 50 anni che dovranno essere chiariti anche nel mio interesse. Il processo dirà qual è la verità, a cui tutti hanno diritto e per rispetto di coloro che della tragedia hanno tanto sofferto».

·        Le Opere Malfatte.

Carlo Macrì per il "Corriere della Sera" il 4 novembre 2021. Che la malta cementizia per consolidare le parti cadenti del ponte Morandi, 113 metri d'altezza, che collega Catanzaro all'autostrada del Mediterraneo attraverso la superstrada dei Due Mari, fosse di qualità scadente, erano in tanti a saperlo. A cominciare dall'ingegnere dell'Anas Silvio Baudi, progettista e direttore dei lavori. I fratelli Eugenio e Sebastiano Sgromo, 52 e 55 anni, titolari della Tank di Lamezia Terme, la ditta che si è aggiudicata i lavori di manutenzione del Morandi per 25 miliardi di euro, avevano avvertito il tecnico confessando di aver utilizzato la malta «Azichem», anziché la «Basf». L'avevano fatto per risparmiare sui costi, perché inguaiati finanziariamente. «Io Azichem l'ho già utilizzata su una superficie pressoché liscia e ha fatto guai. Non so se è stata messa male, ma ha fatto guai, si è staccata» è stata la replica dell'ingegner Baudi. «È una porcheria questo prodotto, fa c... - sentenziava il capo cantiere Gaetano Curcio, geometra dell'Anas -. Noi al Morandi con questo materiale l'abbiamo fatto... e casca tutto». È lo spaccato inquietante che emerge dalle intercettazioni dell'operazione Brooklyn della Guardia di finanza di Catanzaro che ieri ha portato in carcere i titolari della Tank, il maresciallo della Finanza Michele Marinaro, amico fidato degli Sgromo, considerato dagli inquirenti la talpa all'interno della Procura di Catanzaro e la dipendente della ditta Rosa Cavaliere (ai domiciliari), intestataria fittizia dei beni dei due imprenditori che, già indagati in altre inchieste, avevano timore del sequestro e della confisca dei loro beni. Il giudice delle indagini preliminari Paola Ciriaco che ha accolto le tesi della Procura distrettuale ha invece applicato l'interdizione dalla professione per nove mesi all'ingegner Silvio Baudi e per sei al geometra Curcio. Il gip ha disposto anche il sequestro, con facoltà d'uso, del viadotto Morandi (il vero nome è Bisantis, ndr), costruito nel 1962 con le stesse tecniche del ponte di Genova. L'Anas in una nota ha fatto sapere che «sta fornendo tutta la necessaria collaborazione alle autorità inquirenti». Inoltre «conferma la sicurezza statica delle opere, poiché il sequestro riguarda il risanamento di alcune porzioni delle infrastrutture, senza impatto per la viabilità». La Tank dei fratelli Sgromo è un'impresa che i magistrati considerano «vicina» alla cosca Iannazzo di Lamezia Terme. Gennaro Pulice, laurea in Giurisprudenza e Scienze giuridiche, killer dei Iannazzo, oggi collaboratore di giustizia, ha riferito che molti lavori appaltati dagli Sgromo sono poi finiti in subappalto ai Iannazzo. Tra questi la caserma dei carabinieri e l'aeroporto internazionale di Lamezia Terme. Gli imprenditori lametini si sentivano al sicuro, anche perché potevano contare sulle «soffiate» del maresciallo Marinaro che, attraverso un giornalista, passava loro informazioni riservate. In cambio il sottufficiale, un passato alla Dia di Catanzaro, ha ottenuto il trasferimento alla sede di Reggio Calabria dei Servizi segreti, ufficio informazioni.

Inchiesta Ponte Morandi, a Catanzaro resta la paura ma monta la rabbia. Andrea Trapasso su Il Quotidiano del Sud il 5 novembre 2021. Un’opera maestosa a cui tutti hanno guardato e guardano con stupore e meraviglia. Non solo per chi giunge per la prima volta nel capoluogo di Regione, ma anche per i catanzaresi stessi – dei quali da 59 anni è uno tra i simboli nel mondo – l’impatto, arrivando dalla galleria del Sansinato o dalla zona Sud della città è sempre nuovo e sempre straordinario. Quel ponte che sovrasta tutto e tutti e che sembra sfidare le leggi della fisica rimane un qualcosa a cui guardare con grande ammirazione. Ma oggi, all’indomani dell’inchiesta “Brooklyn” che ha messo in luce il presunto utilizzo di materiali scadenti negli interventi di manutenzione straordinaria, verso il viadotto “Morandi-Bisantis” di Catanzaro si sono risvegliati, da parte un po’ di tutti, sentimenti di diffidenza e di paura. Come del resto era successo a più riprese negli ultimi anni. Tra il 2016 e il 2017, quando iniziarono a essere evidenti alcuni chiari segnali di ammaloramento che interessavano alcuni dei piloni che sostengono la maestosa arcata del viadotto. E che spinsero Anas, anche su pressioni del sindaco Sergio Abramo, a intraprendere quei lavori di manutenzione “esterna” oggi ancora in via di svolgimento e finiti purtroppo al centro dell’inchiesta giudiziaria. E ancor di più successe nell’agosto 2018, all’indomani del crollo del ponte di Genova che condivideva con l’opera catanzarese il progettista, l’ingegnere Riccardo Morandi, appunto. Iniziarono a circolare foto, seguirono tavoli tecnici in Comune, in città arrivò anche l’allora ministro alle Infrastrutture Danilo Toninelli, nell’ambito di un’attività di monitoraggio di tutti i ponti italiani. Tuttavia, dalla stessa Anas e dalle autorità arrivarono ampie rassicurazioni: il ponte Bisantis ha sì bisogno di “cure” vista la sua “anzianità”, si dovrà sì intervenire nel prossimo futuro anche sul piano dell’adeguamento sismico (e su ciò è in corso una progettazione che vede anche la collaborazione dell’Unical) ma è stabile e sicuro. A riprova di ciò fondamentali sono stati i risultati emersi dai carotaggi effettuati negli ultimi anni sulla resistenza a compressione media del calcestruzzo, pari a 504 Kg a centimetro quadro (ben oltre la media richiesta), che dimostrerebbero la compattezza e la longevità dei materiali usati, ormai quasi 60 anni fa, per la costruzione. E anche oggi, nelle ore successive allo scoppio del “bubbone” dell’indagine condotta dalla Guardia di Finanza, Anas e tutte le altre istituzioni hanno inteso tranquillizzare tutti: non esistono problemi di stabilità del viadotto, tanto che sia quest’ultimo che la galleria del Sansinato (anch’essa finita sotto i riflettori degli inquirenti e sequestrata) sono rimasti aperti al traffico. Ferme restando le dovute ulteriori indagini che dovranno essere condotte per fugare ogni dubbio. Ma l’impatto mediatico della vicenda ha di fatto risvegliato la tensione tra i cittadini. Che di punto in bianco si sono visti sbattere il “loro” ponte sulle prime pagine di tutti i media nazionali. Sui social, al netto degli immancabili post satirici e ironici, sono palpabili tanto i sentimenti di rabbia e indignazione («Maledetti criminali», «Catanzaro va amata e protetta dalle persone senza scrupoli», «Il profitto è sempre più importante delle persone» per citare qualche commento) che quelli di vera e propria paura di quanti temono che il viadotto possa rappresentare un pericolo. E intanto anche la politica ha iniziato a “mobilitarsi”. Oltre ai commenti della prima ora, molti dei quali volti proprio a richiedere approfondimenti decisi sulla questione, ieri mattina i consiglieri comunali di Catanzaro, Giuseppe Pisano e Sergio Costanzo, hanno ufficialmente chiesto a Eugenio Riccio, presidente della commissione Lavori pubblici, di convocare al più presto una riunione dell’organismo consiliare invitando a partecipare i dirigenti regionali dell’Anas. «C’è l’assoluta necessità che i vertici dell’Azienda spieghino nel dettaglio se sussistono pericoli per la stabilità del ponte e, ovviamente, per l’incolumità pubblica. È un atto dovuto nei confronti della città e dei catanzaresi dopo che l’inchiesta Brooklyn ha scoperchiato una serie di allarmanti illeciti», hanno sottolineato Pisano e Costanzo. «Non abbiamo dubbi – concludono – che il consigliere Riccio procederà nel minor tempo possibile a convocare la riunione con l’indispensabile presenza di Anas: sulla vicenda, della quale tutto il capoluogo è parte in causa, c’è bisogno della massima trasparenza». E mentre il consigliere comunale Antonio Corsi attacca duramente Anas («Troppo comodo per l’Anas – afferma – cavarsela con una nota in cui dice che collaborerà con gli inquirenti. Le responsabilità dell’Azienda sono enormi e credo che il presidente dell’Anas, Gemme, e l’amministratore delegato, Simonini, debbano con immediatezza rimuovere la dirigenza calabrese per il mancato controllo su quello che succedeva nel cantiere del Morandi»), Enzo Scalese, segretario generale della Cgil Area Vasta, Simone Celebre Fillea Cgil Calabria ed Emanuele Scalzo Fillea Cgil Area Vasta chiedono che  «vengano disposti ed estesi maggiori controlli in tema di appalti pubblici e dell’applicazione della normativa di prevenzione antimafia, a partire dall’apertura delle fasi di gara e affidamento fino alla consegna ed ultimazione dei lavori».

La grande fuga. Report Rai PUNTATA DEL 31/05/2021 di Max Brod. Vicino alle nostre case, sotto il manto stradale, passano chilometri di tubazioni del gas. Quando si verificano delle perdite da queste condotte, il metano può arrivare anche dentro alle abitazioni e provocare gravi incidenti. Per questo motivo i tubi vanno posati a profondità di legge e gli scavi per ripararli vanno poi riempiti con materiali specifici. Ma avviene sempre così? Report ha girato l'Italia per capire come stanno le cose, scoprendo tubazioni superficiali e gestori che hanno dovuto correre ai ripari dopo la posa delle condotte. E i Comuni quanto controllano? Il problema della profondità sembra importare a pochi nonostante ciò che racconta chi sulle strade lavora tutti i giorni: le tubazioni superficiali sono all'ordine del giorno.

LA GRANDE FUGA di Max Brod collaborazione di Greta Orsi immagini di Paolo Palermo, Fabio Martinelli, Cristiano Forti e Andrea Lilli ricerche immagini di Eva Georganopoulou montaggio di Andrea Masella

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Chi controlla a quale profondità vengono interrati i tubi del gas? La domanda sembra banale, non lo è perché per questione di centimetri possono essere evitati degli incidenti che possono anche trasformarsi in tragedia. Il nostro Max Brod.

MAX BROD FUORI CAMPO Le fughe di gas sono un fenomeno costante. Nel 2019 ci sono stati 157 incidenti con 23 deceduti e 308 infortunati, quasi uno al giorno. La maggior parte degli eventi avviene nelle abitazioni. Ma anche la rete di tubi che scorre sotto la sede stradale è stata coinvolta in gravi incidenti.

FABIO GIOVINAZZO – RESP. NAZ. SETTORE SOCCORSO DEI VVF Chiaramente poi il gas si muove dove trova spazio e può capitare che possa eventualmente risalire attraverso wc in casa.

MAX BROD FUORI CAMPO Nel 2019 a Rocca di Papa, in provincia di Roma, il palazzo del Comune è esploso a causa di una fuga che si era originata proprio durante dei lavori di scavo. Muore anche il sindaco: era stato l’ultimo a uscire per assicurarsi che fossero tutti in salvo. Proprio per tutelare la sicurezza, la rete di tubi che veicola il gas deve essere posata, seguendo norme specifiche.

GIOVANNI PICCOLI – GESTORE PUBBLICO RETI GAS AGORDO (BL) Questo è il tubo di allacciamento appena posato è in acciaio ha un rivestimento in polietilene. La pala sta aggiungendo la sabbia allo scavo in modo da permettere progressivamente la copertura della tubazione.

MAX BROD Adesso cosa succede?

GIOVANNI PICCOLI – GESTORE PUBBLICO RETI GAS AGORDO (BL) Fase di posa del nastro segnalatore per permettere di rilevare la presenza della tubazione senza danneggiarla.

MAX BROD Perché è importante mettere a profondità i tubi?

GIOVANNI PICCOLI – GESTORE PUBBLICO RETI GAS AGORDO (BL) Quando le tubazioni sono poste troppo in superficie questo le fa durare meno, le sottopone a stress ai carichi dei mezzi che passano e qualche volta le saldature rompono e può fuoriuscire il gas.

MAX BROD FUORI CAMPO La profondità è importante anche per un altro aspetto, che riguarda tutti quelli per un motivo o per un altro potrebbero trovarsi a lavorare sulla strada.

 NICOLA FIORE – RESP. LABORATORIO STRADE SAPIENZA UNIV. ROMA Se dovessi mettere questo tubo qui e poi dovessi effettuare operazioni di manutenzioni non del tubo ma della strada e allora rischio in effetti di rompere il tubo.

MAX BROD FUORI CAMPO È proprio ciò che è successo a Lecce quando nel 2013 durante degli scavi in un cantiere si trancia per errore un tubo del gas, il traffico si blocca e accorrono i vigili. Nessuno si fa male, ma il rischio c’è stato.

MAX BROD È questo il tubo rotto?

SERGIO DE NUZZO – INGEGNERE IMPRESA DI COSTRUZIONE Sì sì. Il foro è stato circa una ventina di metri a monte e quindi la tubazione era la stessa.

MAX BROD Questo qui è l’asfalto dove passano le macchine?

SERGIO DE NUZZO – INGEGNERE IMPRESA DI COSTRUZIONE Esattamente.

MAX BROD Distanza dall’asfalto è…

SERGIO DE NUZZO – INGEGNERE IMPRESA DI COSTRUZIONE 40-50 centimetri.

MAX BROD È normale che un tubo sia a quella profondità?

SERGIO DE NUZZO – INGEGNERE IMPRESA DI COSTRUZIONE Certamente no, una tubazione così grossa dovrebbe avere almeno un metro. MAX BROD FUORI CAMPO La procura archivia l’inchiesta aperta per capire se ci fossero responsabili. Secondo la normativa tecnica, salvo eccezioni, i tubi dovrebbero essere posizionati ad almeno 90 cm di profondità se la pressione è di media intensità, ad almeno 60 centimetri se la pressione è di bassa intensità. Il codice della strada, poi, parla di 100 cm per tutte le tubazioni. Qui siamo in giro sui cantieri di Roma.

MAX BROD Il gas vi è mai capitato di beccarlo? OPERAIO 1 Sì come no.

MAX BROD Sì? OPERAIO 1 A volte se non è segnalato.

OPERAIO 2 Se tolgo il pezzo di nastro del gas e gli passo sopra... non è che lo rimetto.

OPERAIO 1 In zona nomentana ma stava a una quarantina.

MAX BROD Quaranta centimetri?

OPERAIO 3 Io una volta stavo a via Ostiense con la fresa per fresare l’asfalto stava sotto l’asfalto.

OPERAIO 4 Il tubo perdeva praticamente togliendo il tappo che sarebbe l’asfalto è uscito il gas.

OPERAIO 5 Quando vanno a buttare lo scavatore fanno buu e lo beccano.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Come è emerso il problema? Con la liberalizzazione del mercato delle reti del Gas. A quel punto gli amministratori comunali potevano anche interrompere la concessione, a volta anche cinquantennale, e potevano trattare un prezzo del riscatto della rete stabilendo un valore, un valore residuo, cioè basato sull’effettivo stato della rete del gas. Ma non sempre si mettevano d’accordo con i gestori della rete, e quindi cosa succede: doveva intervenire un terzo, spesso si è andati a finire in un arbitrato e si andava a scavare per verificare, vedere con i propri occhi quale fosse lo stato dei tubi. Ecco lì a quel punto sono emerse delle sorprese, sorprese anche che avevano una ricaduta sulla sicurezza dei cittadini. A quel punto, come si sono comportati gli amministratori?

MAX BROD FUORI CAMPO L'avvocato Gaspare Bertolino ha tutelato molti comuni nei contenziosi con i gestori del gas.

GASPARE BERTOLINO – AVVOCATO CIVILISTA Almeno un centinaio in Lombardia, Veneto, Piemonte, ed Emilia-Romagna.

MAX BROD Su dieci sondaggi in media quanti venivano fuori irregolari?

GASPARE BERTOLINO – AVVOCATO CIVILISTA Qualche irregolarità c’era sempre.

MAX BROD Quanti di questi Comuni hanno rimesso a posto poi queste reti?

GASPARE BERTOLINO – AVVOCATO CIVILISTA Nessuno a mia conoscenza.

MAX BROD Cioè lei mi sta dicendo che ci sono in giro almeno un centinaio di Comuni che in questo momento potrebbero avere reti non a norma?

GASPARE BERTOLINO – AVVOCATO CIVILISTA Bah forse sono ottomila.

MAX BROD FUORI CAMPO A Sabbioneta, provincia di Mantova, la controversia va avanti per anni. Il Comune sostiene che parte dell’impianto abbia una profondità non a norma e pretende una riduzione del valore della rete, anche se l’ex gestore 2i Rete Gas respinge questa tesi, la strategia funziona.

MAX BROD Quella di cercare di capire se le reti sono a norma oppure no era una strategia vincente per contrattare sul prezzo?

ALDO VINCENZI – SINDACO SABBIONETA (MN) 2014-2019 Siamo riusciti a far risparmiare alle casse comunali 350mila euro.

MAX BROD FUORI CAMPO Diverse relazioni dell’ufficio tecnico del Comune, però, certificano le profondità irregolari, e Vincenzi deposita addirittura una denuncia parlando “di pericolo per la pubblica incolumità”. Ma poi si mette d’accordo con il gestore della rete Gas. E il problema sicurezza sparisce.

MAX BROD Una volta ritornati proprietari delle reti, avete rimesso a posto?

ALDO VINCENZI – SINDACO SABBIONETA (MN) 2014-2019 Di fatto quei carotaggi che sono stati fatti nel 2014, delle difformità non le hanno mostrate.

 MAX BROD Però nel 2016 lei c’aveva queste in mano.

ALDO VINCENZI – SINDACO SABBIONETA (MN) 2014-2019 Sì.

MAX BROD La relazione tecnica del comune, qui le difformità ci sono.

ALDO VINCENZI – SINDACO SABBIONETA (MN) 2014-2019 Dove c’erano le difformità credo siano state modificati.

MAX BROD Questo però non è sicuro di questo. Si sentirebbe tranquillo oggi ad abitare in via san Remigio, in via Sollazzi, cioè dove sono state trovate tubazioni non a norma?

ALDO VINCENZI – SINDACO SABBIONETA (MN) 2014-2019 Sinceramente io questo aspetto non lo ricordo.

MAX BROD FUORI CAMPO Chi si ricorda invece, è chi quelle relazioni le scrisse.

MAX BROD Dottoressa ma poi che lei sappia, qualcuno è andato a rimettere a posto sui quei punti?

UFFICIO TECNICO COMUNE DI SABBIONETA (MN) No, ma certo che no.

 MAX BROD Quindi scusi scherzavate quando andavate a fare una denuncia querela sulla sicurezza delle reti?

ALDO VINCENZI – SINDACO SABBIONETA (MN) 2014-2019 Allora, non scherzavamo, però, la fotografia della rete che abbiamo è una fotografia di rete sicura.

MAX BROD FUORI CAMPO Sarà anche sicura ma appena finita l’intervista tornano i dubbi.

ALDO VINCENZI – SINDACO SABBIONETA (MN) 2014-2019 Mi ha messo delle pulci, io sono il primo a dire che si poteva probabilmente fare qualcosa in più.

MAX BROD FUORI CAMPO Si poteva fare per esempio come Rivarolo del Re, provincia di Cremona, a cinque chilometri di distanza. Qui si fa un accertamento tecnico preventivo ed ecco che cosa si scopre.

MAX BROD Qui il tubo era a che profondità?

MARCO VEZZONI – SINDACO RIVAROLO DEL RE 2004-2019 Sui 60-70 cm.

MAX BROD Doveva essere?

MARCO VEZZONI – SINDACO RIVAROLO DEL RE 2004-2019 I 90 di legge.

MARCO VEZZONI – SINDACO RIVAROLO DEL RE 2004-2019 Dei 27 chilometri di rete c’è una non conformità che va dal 35 al 50%. MAX BROD FUORI CAMPO Anche qui alla fine si trova un accordo economico con 2i rete gas, ma questa volta con un obbligo in più.

MARCO VEZZONI – SINDACO RIVAROLO DEL RE 2004-2019 Se la rete non vale come dicevi perché non è a posto la conseguenza è che me la metti a posto.

MAX BROD FUORI CAMPO Sia a Rivarolo che a Sabbioneta il gestore era 2i Rete Gas, uno dei principali in Italia.

MAX BROD Ma perché scappa così? Volevamo solo capire come è possibile che una questione che riguarda la sicurezza come quella di Sabbioneta sia finita con uno sconto e basta. A Rivarolo avete rimesso a posto, Sabbioneta avete transato, vorremmo solo capire quante reti con problemi di profondità state gestendo, tutto qua…

MAX BROD FUORI CAMPO Questi non sembrano casi isolati, a confermarcelo è un ex dirigente in pensione di uno dei più grandi distributori di gas italiani.

MAX BROD È cosa risaputa che una parte delle reti non sia a norma?

EX DIRIGENTE AZIENDA DISTRIBUZIONE GAS Si sa, parlo soprattutto del periodo successivo al 2002, è da lì che sono cominciati i sondaggi in contraddittorio.

MAX BROD Quando i comuni facevano i sondaggi i problemi li trovavano?

EX DIRIGENTE AZIENDA DISTRIBUZIONE GAS Ma qualcosa si è sempre trovato.

MAX BROD FUORI CAMPO I Comuni possono fare verifiche sulla Rete. Ma chi dovrebbe farlo per contratto. È il gestore. A Viadana, provincia di Mantova, sono in guerra da anni con Italgas che ha in carico 170 km di tubi.

GIUSEPPE SANFELICI - RESPONSABILE UFF. TECNICO COMUNE VIADANA (MN) Nel 2019 durante dei lavori di manutenzione della rete di acquedotto abbiamo visto che una tubazione era a 60 cm, una tubazione di media pressione nel centro della frazione di Cogozzo.

 MAX BROD Voi avevate fatto altri sondaggi?

GIUSEPPE SANFELICI - RESPONSABILE UFF. TECNICO COMUNE VIADANA (MN) Sì, avevamo fatto 15 sondaggi. Abbiamo riscontrato sempre profondità inferiori ai 100 cm, in alcuni casi anche 60 cm, abbiamo trovato anche tubi del gas affiancati ai tubi dell’acqua.

MAX BROD FUORI CAMPO Su questo avremmo voluto intervistare i responsabili di Italgas.

UFFICIO STAMPA ITALGAS Ma che vuoi sapere? Tutte le cose che volevi sapere te le abbiamo dette.

MAX BROD Eh ma no, se un ente pubblico si presenta all’Anac, parlando di problemi di sicurezza, la cosa di cui mi stupisco è che Italgas non trovi 10 minuti per risponderci su questa questione.

UFFICIO STAMPA ITALGAS Max, la rete di Viadana è sicura.

MAX BROD FUORI CAMPO A Viadana però continuano a dire di trovare problemi.

MAX BROD Che tipo di riempimento avete trovato qui?

GIUSEPPE SANFELICI - RESPONSABILE UFF. TECNICO COMUNE VIADANA (MN) Abbiamo trovato in prevalenza sabbia e abbiamo solo pochi centimetri di ghiaia mista qua nella parte più superficiale.

 MAX BROD Invece il riempimento regolare come si fa?

GIUSEPPE SANFELICI - RESPONSABILE UFF. TECNICO COMUNE VIADANA (MN) Bisogna fare 20-30 cm di sabbia e poi il resto con la ghiaia che vedete qua sul camion a sinistra.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO A Sabbioneta, nel mantovano i tubi li gestiva 2i rete Gas, ma dal 2011 non è proprietaria delle reti, il nuovo gestore, Edigas, ci scrive che "le misure riscontrate non si discostano in maniera significativa da quelle previste dalla normativa e non c’è un potenziale pericolo". 2i rete Gas, invece, ci scrive che sulla questione della profondità "Non risultano altre contestazioni o lamentele che siano – invece - sfociate in contenziosi". Il contenzioso invece è aperto a Viadana, dove c'è in corso un contezioso con Italgas che ci scrive che ha ispezionato “158 mila metri di rete, eseguendo interventi per 3.160 metri”. “Le ispezioni effettuate dal comune - dice Italgas - sono da ritenersi inattendibili” secondo Italgas, perché sarebbero state effettuate in assenza il contraddittorio, con il gestore. Mentre sulle reti di Cogozzo, dice: "Non risultano difformità relative al tratto citato" e che in maniera più generica, “i re-interri come segnalati e denunciati dal tecnico comunale sono stati effettuati tutti secondo la normativa”. Ora i gestori delle reti hanno anche un controllore, avrebbero un controllore, che è l’Autorità di regolazione per l’energia e l’ambiente, che però vigila e controlla, ma non sullo stato e la profondità dei tubi. Una fotografia importante e interessante sullo stato dei tubi del gas in Italia. Potrebbe emergere dalle gare d’ambito: che cosa sono? Adesso quando si affidano dei tubi non si fa più una gara che riguarda un Comune, ma più Comuni, un’area praticamente vasta. L’Italia è divisa in 177 gare d’ambito, ecco, da questo, che vanno però a rilento, e da questo emerge già un particolare: che per esempio anche una città come Milano corre dei potenziali rischi, perché gli amministratori non conoscono effettivamente a quale profondità sono stati messi i tubi della vecchia rete.

STEFANO BESSEGHINI - PRESIDENTE AUTORITA’ REGOLAZIONE ENERGIA RETI E AMBIENTE Chi fa lo stato di consistenza della rete deve preoccuparsi di fare una dichiarazione veritiera.

MAX BROD Sì, però in questo caso il controllore è il controllato e se io chiedo al gestore se ha costruito bene o se le sue reti sono a norma, il gestore cosa deve fare mi dice sono a norma.

STEFANO BESSEGHINI - PRESIDENTE AUTORITA’ REGOLAZIONE ENERGIA RETI E AMBIENTE Beh sì, diciamo si prende una responsabilità non banale.

MAX BROD FUORI CAMPO A Milano, uno dei pochi ambiti ad essere arrivato in fondo alla gara del gas, ecco come ci rispondono quando chiediamo della profondità dei tubi.

MARCO GRANELLI - ASSESSORE A MOBILITÀ E LAVORI PUBBLICI COMUNE MILANO Stiamo ancora lavorando proprio per cercare di avere il più possibile una sorta di catasto del sottosuolo.

MAX BROD Vi è mai capitato di trovare una tubazione del gas non a profondità di norma?

FILIPPO SALUCCI - DIRETTORE AREA TRANSIZIONE AMBIENTALE COMUNE MILANO Noi abbiamo un’attività continua di monitoraggio di tutto ciò che sta nel sottosuolo, situazioni di questo tipo non le abbiamo mai verificate.

MAX BROD FUORI CAMPO Le verifiche saranno anche continue, però, quando chiediamo i dettagli della gara d’ambito sul gas, ci dicono così.

MAX BROD Se avete mai affrontato la questione della profondità di posa delle tubazioni?

FILIPPO SALUCCI - DIRETTORE AREA TRANSIZIONE AMBIENTALE COMUNE MILANO No. Però noi abbiamo un impianto molto vecchio per cui non siamo entrati troppo nel merito, quindi valuteremo questo tema solo in relazione a quando si proporrà come intervento di manutenzione straordinaria.

MAX BROD FUORI CAMPO Eppure una rete più è anziana più avrebbe bisogno di essere controllata, perché più a rischio, come ci spiegano sui cantieri milanesi.

ADDETTO UNARETI Ti dico che l’80% è rete vecchia.

MAX BROD Durante i lavori stradali si beccano per sbaglio i tubi del gas?

ADDETTO UNARETI Sì, li trovi perché non sono segnalati, capito?

MAX BROD Queste qui sono le famose reti vecchie del gas di Milano?

CAPO CANTIERE Stiamo scavando sopra il tubo rimuovendo il vecchio e alla stessa posizione posiamo il nuovo.

MAX BROD E quanti anni aveva?

CAPO CANTIERE Questa qua sarà del ’59 -’60.

MAX BROD E come mai lo cambiate?

CAPO CANTIERE Per manutenzione, anche perché iniziava un po’a perdere. Potrebbero anche esserci infiltrazioni d’acqua perché il catrame magari non riesce più a isolarlo.

MAX BROD FUORI CAMPO Se una fuga di gas è grave, anche la magistratura indaga, ma se non lo è, chi verifica le responsabilità di quanto successo?

MAX BROD Un organo terzo, che quando c’è una fuga controlla se quella fuga era stata negligenza o semplicemente il caso, non esiste?

STEFANO BESSEGHINI - PRESIDENTE AUTORITA’ REGOLAZIONE ENERGIA RETI E AMBIENTE Beh dipende da che tipo di esiti ha avuto. Se non coinvolge cose o persone, non viene neppure registrato come incidente gas. MAX BROD Il Comitato Italiano Gas infatti nel 2019 individua solo 11 incidenti sulle reti di distribuzione. Perché non conta tutte le fughe, ma solo quelle con morti feriti o più di cinquemila euro di danni.

MAX BROD Non è un evento che non è successo, è un evento che per fortuna è andato bene.

STEFANO BESSEGHINI - PRESIDENTE AUTORITA’ REGOLAZIONE ENERGIA RETI E AMBIENTE Il problema che si è fortunosamente evitato per l’operatore potrebbe presentarsi in maniera non fortunosa, quindi non ha nessun interesse a trascurare la situazione.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Di fatto quando si tratta di casi di dispersione di fuga di gas, magari durante dei lavori stradali, spariscono dalle statistiche, non dovrebbero secondo noi, perché come sono emersi in questi giorni quattro, cinque episodi di cronaca, ecco, è andata bene, però sono il segnale, potrebbero almeno essere il segnale di qualcosa che non va. Magari di cartine sulla distribuzione della rete che non sono fatte in maniera precisa, delle ditte che lavorano male o addirittura dei tubi che sono stati installati troppo in superficie. Ora, tutta questa tipologia di incidenti potrebbe invece essere significativa se si dovesse ripetere con una certa frequenza: di un pericolo di qualcosa che potrebbe anche degenerare. Ecco, sorprende che in materia di gas, almeno di tubi, gli amministratori navighino bendati. 

“Chiudete subito viadotti e gallerie della Palermo-Messina”: il carteggio shock svela in che condizioni è l’autostrada. L’Espresso ha letto i documenti che si rimpallano il ministero dei trasporti, le prefetture e il Consorzio autostrade siciliane (che assicura: “Nessun pericolo”). Intanto le procure hanno sequestrato trenta cavalcavia. Benvenuti nell’arteria che si dovrebbe collegare al Ponte sullo Stretto. Antonio Fraschilla su L'Espresso l'1 giugno 2021. In Italia c’è un’autostrada che cade a pezzi, con procure che hanno già sequestrato trenta sovrappassi e una recente ispezione del ministero delle Infrastrutture che chiede adesso di chiudere anche otto gallerie e due viadotti. L’autostrada che frana è la Palermo-Messina, la più inaugurata d’Italia, uno dei fiori all’occhiello dei governi berlusconiani con il buon Silvio più volte fotografato a tagliare nastri anche per aprire il viadotto “Inganno”, mai nome più profetico. Decenni di incuria, incassi dai pedaggi serviti per pagare negli anni passati un esercito di casellanti ed ecco che i nodi vengono al pettine. L’autostrada, iniziata negli anni Sessanta e completata sulla soglia degli anni Duemila al costo di quasi 5 miliardi di euro, per il ministero in ampi tratti andrebbe chiusa, e subito. Questa arteria è proprio quella che dovrebbe collegare la Sicilia al Ponte sullo Stretto. L’agenda dei politici locali e nazionali è occupata dalla grande infrastruttura faraonica e multi miliardaria, ma più prosaicamente gli stessi politici sembrano essersi dimenticati dell’autostrada che a quel Ponte si dovrebbe agganciare. La Palermo-Messina è un colabrodo: secondo le stime dell’ente regionale che gestisce il tratto occorrerebbe un miliardo di euro per metterla in sicurezza. Ma per l’autostrada non si chiedono soldi, mentre l’Espresso è venuto in possesso di un carteggio riservato tra ministero Infrastrutture, Prefetture e vertici del Consorzio autostrade siciliane (Cas), con rimpalli di responsabilità perfino su chi dovrebbe prendere la decisione di chiudere i tratti incriminati. Un carteggio già sulle scrivanie delle procure territorialmente competenti, che in questi ultimi dodici mesi hanno sequestrato una trentina di sovrappassi e alcuni viadotti: «Ma più di questo non possiamo fare, il nostro mestiere non è quello di avviare i lavori necessari», dicono allargando le braccia dietro le loro scrivanie i procuratori di Messina e Barcellona Pozzo di Gotto, Maurizio De Lucia ed Emanuele Crescenti.

La relazione shock. Il 21 marzo scorso l’ispettore Placido Migliorino consegna alle autorità una relazione di 46 pagine dopo quattro giorni di verifiche e controlli. In quelle pagine annota non solo una serie di irregolarità, come diverse «barriere che non risultano ancorate agli impalcati» o che «in tutta l’autostrada ispezionata è stata constatata, in più punti, la presenza di barriere incidentate che rappresentano un grave pregiudizio alla sicurezza della circolazione autostradale». Migliorino segnala anche gravi criticità strutturali e chiede la chiusura al traffico di intere porzioni dell’arteria. Come la galleria San Giovanni, dove potrebbero esserci «possibili distacchi di pezzi di calotta». Per questo, si legge nella relazione, «si ritiene che non sussistano le condizioni per poter garantire il transito della circolazione». Alle stesse conclusioni l’ispettore è arrivato per altre sette gallerie: Perara, Baglio, Telegrafo, Mongiove, Torretta, Calavà e Petraro. Ma non finisce qui. Nella relazione finale l’ispettore Migliorino chiede la chiusura anche di due viadotti: il Pollina e il Furitano. Il primo è lungo un chilometro ed è costituito da 14 campate. Un’opera importante. Migliorino ha scoperto che dal 2005 il Pollina non ha un certificato di collaudo statico. Sembra incredibile, ma è così. Nel 2004 una parte dei piloni vennero interessati da una frana che ha rotto anche dei muri di contenimento. In quegli anni berlusconiani si doveva andare di fretta, il presidente del Consiglio con il suo console in Sicilia, Gianfranco Micciché, dovevano fare le foto di rito per l’inaugurazione spettacolo (Berlusconi si mise anche a fare il casellante il giorno del taglio del nastro): così i collaudatori diedero un via libera parziale, legato al ripristino dei muri di contenimento e a verifiche sulla frana in corso. Nessuno ha poi fatto nulla e così, scrive adesso Migliorino, «l’opera è ancora oggi sprovvista del necessario certificato e non può essere mantenuta in esercizio». Sul Furitano invece l’aggancio alla collina, alla “spalla”, si è abbassato di 50 centimetri e ne restano «appena dieci».

Il carteggio riservato. Migliorino consegna la relazione e inizia uno strano carteggio. Il primo aprile il Cas risponde al ministero inviando i pareri di tre docenti universitari che, pur ribadendo la necessità di analisi più approfondite, sostengono non vi siano rischi di cedimento. Il 3 aprile Migliorino ribatte: «La missiva di riscontro non ottempera alle richieste ma propone alcune considerazioni finalizzate a giustificare atteggiamenti attendisti». Il 7 aprile il direttore del Cas Salvatore Minaldi replica: «Gli interventi di mitigazione del rischio individuati sono allo stato idonei ad assicurare le esigenze di circolazione. Va tenuto in conto il principio della proporzionalità. A tale principio deve attenersi una chiusura al traffico, visto i disagi alla popolazione e possibili profili di danno erariale per l’ente a causa dei mancati ricavi». Ma nella stessa lettera Minaldi scrive: «Rimetto alle competenti prefetture la valutazione in ordine alla ricorrenza dei presupposti per l’adozione di un provvedimento di sospensione della circolazione». I prefetti saltano sulla sedia e per primo, l’8 aprile, risponde quello di Palermo, Giuseppe Forlani: «I profili di competenza prefettizia non ricomprendono situazioni tecnico-strutturali. Il pericolo per l’incolumità pubblica in questo caso è infatti direttamente riconducibile alle condizioni delle opere d’arte ispezionate e non alla circolazione stradale». Il prefetto Forlani anzi chiede al Cas di essere informato preventivamente in caso di chiusura dell’autostrada. Passano i giorni, le settimane. Ma non accade nulla: «Io attendo ancora risposte concrete alle richieste di chiusura di tratti dell’autostrada», dice all’Espresso Migliorino, «mi hanno mandato atti che non hanno a che fare con i punti da me contestati e per i quali ho chiesto la chiusura. A Genova dopo una analoga mia relazione hanno chiuso i viadotti, in Sicilia no e sinceramente non so perché: ma lì c’è una situazione di alto rischio. Non stupiamoci se vengono giù viadotti e gallerie». Nel frattempo tutta l’autostrada è stata chiusa per i trasporti eccezionali oltre le 50 tonnellate. Per il ministero «una scelta inutile, perché due camion in coda da 40 tonnellate pesano di più».

Da “Libero quotidiano” il 13 maggio 2021. È crollato a La Spezia il ponte levatoio della Darsena di Pagliari. Per fortuna non ci sono stati feriti. Si tratta di un ponte gestito dall'Autorità Portuale della città, di servizio ad una Darsena per imbarcazioni da diporto. «Il ponte», - ha spiegato il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti - è crollato, pare, per il cedimento di un pistone del meccanismo di apertura e chiusura. Dopo il passaggio di una barca, un ingranaggio del movimento avrebbe ceduto». Inaugurato nel 2010, il ponte era lungo 21 metri. Rientrava nel progetto di realizzazione della darsena di Pagliari, costato 9 milioni.

·        La Strage del Mottarone.

Cronaca di una tragedia annunciata. Report Rai PUNTATA DEL 27/12/2021 di Walter Molino Collaborazione di Federico Marconi 

Storia di una concessione pubblica tra carenze di manutenzione e di personale.

23 maggio 2021, è passato da poco mezzogiorno, la cabina numero 3 della Funivia del Mottarone precipita nel vuoto. Muoiono 14 persone, l’unico superstite è il piccolo Eitan, 5 anni. È la più grande tragedia mai avvenuta su una funivia. L’inchiesta della Procura di Verbania accerta che la cabina è caduta perché si è spezzata la fune traente e i freni di emergenza risultavano disattivati. Sono passati sei mesi dalla strage del Mottarone, la cabina numero 3 è stata recuperata solo poche settimane fa con un’operazione spettacolare dei Vigili del Fuoco, ma il collegio dei periti nominati dal Tribunale, che dovranno accertare le cause della rottura della fune, sono appena all’inizio delle loro analisi e hanno già chiesto una proroga di sei mesi. Ma perché quella fune di acciaio si è spezzata? L’inchiesta di Report approfondisce tutti gli aspetti legati ai controlli e alla manutenzione, sottolineando le carenze di personale e di risorse degli organi statali di vigilanza del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Organi che avrebbero dovuto vigilare anche sui conflitti d’interesse. Grazie a documenti inediti e testimonianze esclusive, Report ricostruisce anche la storia della concessione pubblica dell’impianto, gestito fin dagli anni ‘70 da società riferibili alla famiglia di Luigi Nerini.

CRONACA DI UNA TRAGEDIA ANNUNCIATA di Walter Molino collaborazione Federico Marconi immagini Cristiano Forti montaggio Giorgio Vallati

CARABINIERI DI VERBANIA Verbania, Carabinieri.

OPERATRICE 118 Guardi, è caduta una cabina alla funivia di Stresa. Ma è sopra in cima al Mottarone quindi…

CARABINIERI DI VERBANIA Ma Alpino o Mottarone?

OPERATRICE 118 Che casino, che casino…

CARABINIERI DI VERBANIA Vai verso Stresa, poi ti dico! Al momento so che è caduta la cabina della funivia ma non so dove. OPERATRICE 118 Pare che la cabina sia caduta in mezzo al bosco, non è nemmeno raggiungibile da un mezzo via terra. All’interno c’erano almeno sei persone, non si sa che in condizioni, sicuramente sono gravissimi.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO 23 maggio 2021, è passato da poco mezzogiorno. La cabina numero 3 della Funivia che da Stresa porta in cima al Mottarone precipita nel vuoto. Muoiono 14 persone, tra cui due bambini. Un solo superstite, il piccolo Eitan, 5 anni, che nella tragedia perde entrambi i genitori, il fratellino e i bisnonni.

CRISTIANO L’ALTRELLA – VOLONTARIO VIGILI DEL FUOCO Siamo stati i primi ad arrivare. Uno scenario del genere non mi era mai successo ma… lo sconforto era forte e la rabbia di non essere riuscito a fare di più. Finché campo ce l’avrò negli occhi.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO A provocare l’incidente è stata la rottura del cavo trainante della funivia che si è staccato dalla testa fusa, il cono di acciaio che collega il carrello al cavo traente. Ma perché non sono scattati i freni di emergenza che dovrebbero attivarsi proprio in queste circostanze? I carabinieri convocano i responsabili dell’impianto: Luigi Nerini è l’amministratore della società Ferrovie del Mottarone. La sua famiglia gestisce la funivia fin da quando venne costruita nel 1970. L’ingegner Enrico Perocchio è il direttore di esercizio, responsabile della sicurezza. Gabriele Tadini è il capo servizio e storico factotum della funivia. Perito elettrotecnico, lavora in funivia da 36 anni. Ed è proprio lui a fare la rivelazione più sconvolgente. 

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Qual è questa dichiarazione lo vedremo. Gabriele Tadini è un caposervizio ed è uno dei responsabili, protagonisti di questa tragedia. Si arrangiava un po’ in tutte le maniere pur di far funzionare le funivie, a prescindere, pure quando c’erano delle anomalie. L’altro protagonista è Enrico Perocchio, direttore d’esercizio, da lui dipendevano la sicurezza e la manutenzione che era stata appaltata al colosso Leitner. E poi c’è Luigi Nerini che parla per la prima volta dopo la tragedia, è l’amministratore delle funivie di Ferrovie del Mottarone, da cui dipendono appunto le funivie, la cui famiglia di Nerini gestisce dagli anni ’70. È una vera miniera d’oro, capace di trasportare nei momenti pre-Covid fino a 100mila persone ogni anno. Ci si imbarca sul lago Maggiore, da Stresa, e poi si arriva sulla cima del Mottarone. E lì si può godere di un paesaggio mozzafiato: hai la possibilità di vedere i sette laghi che sono tra il Piemonte e la Lombardia. Hai davanti il Monte Rosa, le Alpi marittime e addirittura la pianura padana. Poi hai accesso a 17 piste di sci, quattro per le escursioni. Insomma: un paradiso. Solo che quel 23 maggio è scoppiato l’inferno. Ecco, dietro a tragedie come queste c’è sempre una fatalità. Ma se ci vai a vedere dentro c’è una storia di confitti, o anche coincidenze di interessi, di superficialità, di omessi controlli. A Stresa un po' tutti hanno lavorato, magari a livello stagionale, all’interno delle funivie del Mottarone e c’era la consapevolezza che la sicurezza venisse gestita con una certa superficialità, leggerezza. Il nostro Walter Molino ha incontrato due testimoni, due di quegli ex dipendenti, che hanno mostrato e ve li faremo vedere dei video e della documentazione inedita. E alla fine di questa inchiesta sorge un dubbio: ma come viene gestita la sicurezza nelle nostre funivie e negli impianti sciistici. Quanti Nerini, quanti Perocchio, quanti Tadini ci sono a controllare le 1700 funivie del nostro paese? Il nostro Walter Molino.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il capo servizio Tadini confessa la terribile verità: è stato lui a disattivare i freni di emergenza della cabina tramite l’uso di due forchettoni. E così se il cavo si spezza, la cabina scivola via.

GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA – RICOSTRUZIONE AUDIO Come tutte le mattine, intorno alle 9, ho fatto fare alle cabine un giro di prova. Mi sono accorto di qualche anomalia sull’impianto frenante della cabina numero 3. Sentivo un rumore provenire dalla centralina dei freni, dovuto presumibilmente alla perdita di pressione del sistema frenante. Per impedire questo problema ed evitare arresti intempestivi della cabina ho evitato di togliere il forchettone che inibisce il sistema frenante.

ROBERTO MARCHIONI – COMANDANTE VVFF VERBANIA Quelli sono i freni di emergenza. In caso di emergenza i freni intervengono, stringono queste ganasce intorno alla fune portante e la cabina si ferma. WALTER MOLINO I freni non sono stati scattati perché c’erano i forchettoni.

ROBERTO MARCHIONI – COMANDANTE VVFF VERBANIA Quell’oggetto metallico rosso. WALTER MOLINO Quello lì rosso.

ROBERTO MARCHIONI – COMANDANTE VVFF VERBANIA 3 Esatto. Quel forchettone tiene aperte le ganasce…

WALTER MOLINO E impedisce ai freni di chiudersi.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Dopo la confessione del capo servizio la Procura ordina il fermo dei tre indagati: il reo confesso Tadini, il direttore d’esercizio e suo superiore Enrico Perocchio e il gestore Luigi Nerini.

OLIMPIA BOSSI – PROCURATRICE CAPO DI VERBANIA Tadini non è stato ritenuto attendibile …

WALTER MOLINO Quando diceva che Nerini e Perocchio sapevano..

OLIMPIA BOSSI – PROCURATRICE CAPO DI VERBANIA Esatto.

WALTER MOLINO Lei invece ci crede che lo sapessero.

OLIMPIA BOSSI – PROCURATRICE CAPO DI VERBANIA Ci sono altre fonti dichiarative, testimoni, dipendenti che hanno detto la stessa cosa.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Due giorni dopo però il colpo di scena. Il Giudice per le indagini preliminari Donatella Banci Buonamici dispone la scarcerazione dei fermati. Tadini va ai domiciliari ma per Nerini e Perocchio non ci sarebbero gravi indizi di colpevolezza e tornano in libertà. Ma potevano non sapere? I testimoni convocati dai magistrati confermano che l’uso dei forchettoni per non far attivare i freni fosse noto ai superiori di Tadini.

EMANUELE ROSSI – MACCHINISTA (RICOSTRUZIONE AUDIO) La decisione di mettere i forchettoni è stata solamente del capo servizio, ma credo abbia informato del problema ai freni sia il direttore di esercizio che il gestore.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO L’agente di stazione Fabrizio Coppi aggiunge un particolare importante.

FABRIZIO COPPI – AGENTE DI STAZIONE (RICOSTRUZIONE AUDIO) Questi dispositivi vengono messi la sera all’ultima corsa, quando la vettura arriva nella stazione di rinvio vuota.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Ma questo video, girato da un suo collega qualche anno prima della tragedia, dimostra che venivano inseriti anche durante il giro di prova con l’agente di vettura a bordo.

TESTIMONE 2 – EX DIPENDENTE FUNIVIA (RICOSTRUZIONE VIDEO) Io mi sono rifiutato una volta, forse al primo tronco, che ho fatto anche la ripresa col telefonino. Io ho avuto paura perché mi ha detto vaffanculo, ti mando via a calci nel culo, la vettura deve viaggiare. WALTER MOLINO FUORI CAMPO 4 Tadini ordinava di tenere i forchettoni, gli operatori dovevano eseguire, pur sapendo di commettere una grave imprudenza.

FABRIZIO COPPI – AGENTE DI STAZIONE (RICOSTRUZIONE AUDIO) La vettura non può viaggiare con il forchettone inserito. Ricordo di averlo chiesto proprio a Tadini quando mi ordinò di non rimuovere il forchettone dalla cabina 3. Ma lui mi rispose: “Prima che si rompa una traente o una testa fusa ce ne vuole”.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Ad ogni guasto l’impianto si doveva fermare. Il capo servizio Tadini doveva informare il direttore d’esercizio Perocchio e questi chiamare la manutenzione. Tempi morti. Meglio andare coi forchettoni e non perdere i 5 mila euro di incasso al giorno.

WALTER MOLINO Gabriele Tadini è il colpevole di questa storia

 MARCELLO PERILLO – AVVOCATO TADINI Lo ha confessato, lo ha ammesso per la questione della disattivazione dei freni, la questione dei famosi forchettoni sicuramente sì.

WALTER MOLINO Lei è sicuro che Tadini condividesse l’uso dei forchettoni con Perocchio e Nerini?

MARCELLO PERILLO – AVVOCATO TADINI Loro sapevano. Infatti più volte a domanda’ del giudice che chiedeva se ci fosse stata proprio una comunicazione diretta specifica del giudice il dottor Tadini ha detto non sono sicuro non lo so.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Dalla riapertura post lockdown del 26 aprile alla tragedia del 23 maggio, la società di Nerini ha incassato 140 mila euro. Alcuni dipendenti però hanno riferito ai magistrati che alla cassa si faceva moltissimo nero. Come conferma il nostro testimone.

TESTIMONE 1 – EX DIPENDENTE FUNIVIA (RICOSTRUZIONE VIDEO) La funivia è sempre stata una miniera d’oro. Il nero l’han sempre fatto. Prima c’erano i biglietti con lo scontrino, dopo han messo queste tesserine elettroniche e non ti dico il casotto che facevano. Quando uno restituiva la scheda la rivendevano, le schede rivendute due o tre volte nella stessa settimana.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Schede d’ingresso rivendute più volte, accordi con tour operator e agenzie di viaggio per non fatturare i biglietti di gruppo. Tutto da dimostrare ma se così fosse, si tratterebbe di decine e decine di migliaia di euro incassati in nero da un privato che ha in concessione un bene pubblico. Negli ultimi anni di gestione prima del Covid, gli utili della società Ferrovie del Mottarone erano in crescita costante 230 mila euro nel 2017, 350 mila nel 2018, più di 400 mila nel 2019.

OLIMPIA BOSSI – PROCURATRICE CAPO DI VERBANIA La scelta era quella di far funzionare l’impianto, nella convinzione che tanto la fune non si sarebbe spezzata. WALTER MOLINO FUORI CAMPO 5 Bisognerà aspettare cinque mesi perché il Tribunale del Riesame accolga il ricorso della Procura: secondo i giudici la gestione della sicurezza sulla funivia del Mottarone era “spregiudicata e superficiale”, la custodia cautelare per Nerini e Perocchio era giusta, ma nel frattempo i due indagati sono rimasti sempre a piede libero.

WALTER MOLINO Lei teme che in tutto questo tempo il fatto che siano rimasti in libertà sia Nerini che Perocchio possa avere in qualche modo minacciato le vostre indagini?

OLIMPIA BOSSI – PROCURATRICE CAPO DI VERBANIA (sorride in silenzio)

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Va beh, insomma, il sorriso della procuratrice capo di Verbania è più eloquente di una richiesta di custodia cautelare. Allora, una cabina, la numero 3 della funivia del Mottarone, crolla, cade, precipita con 15 persone a bordo. Questo perché si è rotta la fune nel punto della testa fusa, cioè nell’apice, in quel cono di acciaio che collega il carrello alla fune trainante della funivia. Ecco, in quel caso là, per evitare che quella cabina precipitasse bisognava che entrassero in funzione i freni, il sistema di freno di emergenza. Ma non poteva entrare in funzione perché era stato bloccato da un forchettone. Lo aveva fatto il caposervizio Gabriele Tadini, perché aveva registrato delle anomalie nel tempo di questo sistema frenante, per evitare che entrasse in funzione, senza una giusta causa, mentre stava svolgendo una normale corsa, ci ha infilato dei forchettoni. Costo: 50 euro. Che però gli hanno consentito di continuare a incassare centinaia di migliaia di euro. Tadini ha anche detto del fatto che avesse dovuto inserire i forchettoni anche il direttore di esercizio Perocchio e anche l’amministratore Nerini. I magistrati gli hanno creduto. Gli hanno anche chiesto l’arresto. Poi ci è stata la scarcerazione, è stato richiesto nuovamente l’arresto e adesso è tutto pendente in Cassazione. Ora però bisognerà capire perché la fune si è rotta all’altezza della testa fusa. Il tribunale ha nominato due squadre di periti, una proprio per esaminare lo stato della testa fusa, l’altro gruppo di periti si dovrà concentrare sulla scatola nera presente nella cabina. Che però è rimasta per tanto tempo nel bosco, le operazioni di recupero sono state lunghissime. E per arrivare ad una verità occorrerà ancora molto altro tempo. L’incidente probatorio è stato fissato, l’udienza è stata fissata a luglio prossimo. Insomma ci vorrà ancora molto tempo per arrivare a scoprire una verità quando invece forse la tragedia del Mottarone era la cronaca di una tragedia annunciata.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO La cabina n. 3 della funivia del Mottarone è stata recuperata soltanto l’otto novembre scorso, a quasi sei mesi dalla tragedia. La gru volante dei vigili dei fuoco l’ha depositata su un mezzo per trasporti eccezionali, poi è stata rinchiusa in questo capannone della Protezione civile. I periti hanno dovuto estrarre la testa fusa dal tronco di abete in cui si è conficcata nell’impatto. Ma dall’incidente probatorio del 16 dicembre scorso, non è arrivata alcuna risposta.

WALTER MOLINO Ma perché da quando è stata portata qui la testa fusa ancora non è stata aperta?

DONATO FIRRAO – PROF. EMERITO POLITECNICO DI TORINO - CONSULENTE DELLA PROCURA Vuolsi così colà dove si puote, ciò che si vuole, e più non dimandare.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO 6 Questa è la volontà di chi decide, spiega con una citazione dantesca il professor Firrao, consulente della Procura e tra i massimi esperti di tecnologia dei metalli. E chi decide è il collegio dei periti che per analizzare la testa fusa ha chiesto una proroga e la prossima udienza dell’incidente probatorio si terrà addirittura il 14 luglio prossimo.

ANNA GASPARRO – AVVOCATO PARTE CIVILE E PARENTE DI DUE VITTIME La comunicazione di quella data fa male perché è normale che dopo un anno e due mesi… noi aspettiamo solo giustizia perché noi abbiamo lasciato i nostri cari nel pieno delle loro vite. Mio cugino aveva 45 anni, la moglie 40, compiva proprio quel giorno. WALTER MOLINO FUORI CAMPO L’unica conclusione al momento riguarda la fune traente. I periti nominati dal Tribunale ne hanno tagliato ed esaminato 15 metri senza riscontrare anomalie.

DONATO FIRRAO – PROF. EMERITO POLITECNICO DI TORINO – CONSULENTE DELLA PROCURA Fuori verbale: avessero esaminato 25 altri pezzi, avrebbero trovato lo stesso risultato. Quelli erano stati controllati con la magnetoinduzione ed erano stati valutati per bene. Di più non posso dire.

WALTER MOLINO La fune andava bene.

DONATO FIRRAO – Professore emerito Politecnico di Torino – Consulente della Procura In quei tratti lì che sono stati provati, e ne avrebbero potuti provare anche 10 altri, andava bene. Ma non è lì che si è rotta.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO La fune traente che si è spezzata era stata installata nel 1997, è lunga circa tre chilometri e pesa quasi sei tonnellate. I periti avrebbero potuto esaminarla anche tutta, dice il professor Firrao, ma il risultato sarebbe stato lo stesso perché gli esami magnetoinduttivi erano già stati fatti. Per capire cosa è successo è urgente aprire la testa fusa, ma a sei mesi dalla tragedia c’è ancora da aspettare.

WALTER MOLINO Come facciamo a verificare lo stato di salute di funi che teoricamente potrebbero durare quasi in eterno?

PAOLO PENNACCHI – INGEGNERE POLITECNICO CONSULENTE DELLA PROCURA Si fanno degli esami di tipo magnetoscopici, sono delle specie di carrelli che si muovono sulle funi con un elaboratore. È responsabilità delle persone che poi fanno queste cose.

WALTER MOLINO La fune si è spezzata più o meno all’altezza della testa fusa.

PAOLO PENNACCHI – INGEGNERE POLITECNICO CONSULENTE DELLA PROCURA La testa fusa è la parte di estremità della fune traente, questo elemento evidenziato in blu. La fune si è spezzata all’ingresso di questa cosa qua.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO 7 L’ultimo esame sulla fune traente è stato eseguito dalla Sateco, un fornitore di Leitner che lavora su 3 mila impianti in 11 paesi. WALTER MOLINO Il vostro ultimo controllo sulle funi è quello del 5 novembre 2020, esecuzione esame magnetoinduttivo su tutte le funi.

ALESSANDRO ROSSI – AMMINISTRATORE SATECO (AL TELEFONO) Nel caso di quella fune c’erano dei probabili fili rotti interni, singoli, sparsi lungo la fune, come rilevati dai nostri esami, è una cosa normale che su una fune ci possano essere dei fili rotti. Eravamo ben lontano dai criteri di scarto. La parte terminale, quella che si dice dentro il canotto della testa fusa, non è ispezionabile col metodo magnetoinduttivo. WALTER MOLINO E come si fa a ispezionare la testa fusa?

ALESSANDRO ROSSI – AMMINISTRATORE SATECO (AL TELEFONO) Si guarda, e si cambia ogni cinque anni. I riferimenti su chi deve fare queste cose sono abbastanza chiari, insomma no?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, il riferimento è chiaro, dice Rossi, l’amministratore della Sateco, la società che per la Leitner, che gestisce tutta la manutenzione ha monitorato lo stato del cavo della funivia. Ha anche rilevato alcuni fili rotti all’interno del cavo, ma nella normalità per un cavo che è in esercizio da circa 20 anni. Inoltre dice Rossi guardate che il problema non è sul cavo ma è in prossimità della testa fusa, e quella può essere ispezionata soltanto a vista e poi deve essere cambiata ogni cinque anni. Questo secondo, almeno, le regole del ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Ogni cinque anni. Tuttavia ci sono dei regolamenti e delle direttive europee che raccomanderebbero invece il cambio della testa fusa ogni quattro anni. Quella del Mottarone aveva quattro anni e mezzo di vita. Però l’ispezione a vista l’avrebbe dovuta fare il caposervizio Gabriele Tadini, come speriamo la facciano tutti i capi servizio delle 1700 funivie nel nostro paese. Però questo pone il tema su come funzionano i controlli e le manutenzioni. Per conto della funivia del Mottarone, la manutenzione abbiamo visto spetterebbe alla società Leitner, che però si serve di ditte fornitrici: la Sateco per monitorare il cavo, la Rvs per quello che riguarda le riparazioni. Doveva occuparsi anche di riparare il sistema dei freni di emergenza, quello della cabina 3. Nel contratto dovrebbe farlo intervenire la Leitner immediatamente, nel giro di otto ore. Il nostro Walter Molino ha recuperato una e-mail che dimostra che questo è avvenuto con giorni e giorni di ritardo. Inoltre quelle anomalie che sono state riscontrate vanno, devono essere registrate sul diario di bordo. Il nostro Walter Molino ha incontrato invece due ex dipendenti della funivia del Mottarone. Ha raccolto le loro testimonianze e con documentazione e video inediti ne esce fuori una rappresentazione della gestione della sicurezza fatta con una certa allegria, giusto per utilizzare un eufemismo

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Qui a Stresa, turisti a parte, ci si conosce tutti. E tutti hanno un padre, un figlio, un cugino che ha lavorato con Nerini e parlare coi magistrati non è cosa semplice. Di notte, sulle sponde del lago Maggiore, incontriamo qualcuno che su quella funivia ci ha lavorato a lungo.

TESTIMONE 1 – EX DIPENDENTE FUNIVIA (RICOSTRUZIONE) 8 Noi abbiamo un registro giornale, come sulle navi. Ogni giorno si segnalavano le anomalie, i dati… Io negli ultimi anni ho cominciato a fotografare sti registri perché avevo paura che facessero dei verbali falsi.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Queste sono le foto scattate dal nostro testimone. Decine, centinaia di pagine che potrebbero raccontare molto sulla gestione della sicurezza di un impianto che trasportava ogni anno migliaia di passeggeri.

TESTIMONE 1 – EX DIPENDENTE FUNIVIA (RICOSTRUZIONE) Un giorno, guasto uguale a quello che avevano in quel periodo. Avviso giù, dico: “C’è il freno che non va, aspetta a fare i biglietti”. Il capo servizio in questo caso sospende l’impianto, se non sei in sicurezza non viaggi. Mi chiama il gestore dal telefono interno: “Eh, no io qua ho una coda fino…”

WALTER MOLINO Nerini.

TESTIMONE 1 – EX DIPENDENTE FUNIVIA (RICOSTRUZIONE) Il sistema era: per non fermare il servizio tu viaggiavi con quella cabina vuota. Se ti torna indietro e dal palo va a finire in stazione a piena velocità, magari con la gente che ti sta aspettando, succede un disastro anche lì. Lui dice: “Ah si, vabbè mettiamo i ceppi…”. Io dico: lì non manovro, per me non esiste. Dopo un quarto d’ora mi vedo arrivare Tadini alle spalle: “Sono arrivato io, puoi andare a casa”.

OLIMPIA BOSSI – PROCURATRICE CAPO DI VERBANIA Ma questa gente qua, che sa, ma perché non lo viene a dire a noi? Vai dai Carabinieri e digli: “guarda io ho visto questo, questo e questo”. Sennò io come faccio a saperlo?

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Agli arresti domiciliari c’è rimasto per sei mesi soltanto Gabriele Tadini. Ma perché il capo servizio si è assunto una responsabilità così grande?

GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA Io mi sono preso le mie responsabilità, poi guardi in questo momento non me la sento di rispondere.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Per non fermare la funivia Tadini ha inserito i forchettoni ma avrebbe invece potuto disporre che insieme ai passeggeri viaggiasse un agente di vettura. Un manovratore capace di intervenire a bordo in caso di blocco dei freni.

MARCELLO PERILLO – AVVOCATO DI TADINI Però probabilmente il vetturino costa e il forchettone non ha prezzo.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il forchettone è un pezzo di metallo che pesa cinque chili, vale una cinquantina di euro ed è costato la vita a 14 persone. Ma è vero che la presenza di un manovratore a bordo non è più obbligatoria nelle cabine con capienza fino a 25 persone. Quelle della funivia del Mottarone potrebbe portare fino a 40 passeggeri, ma già prima del Covid la capienza era stata ridotta a 15. Era una precauzione presa per le anomalie ai freni? L’ex agente di stazione Coppi dichiara che c’era anche stata per un momento l’idea di chiudere l’impianto per risolvere il problema.

FABRIZIO COPPI – AGENTE DI STAZIONE (RICOSTRUZIONE AUDIO) Questa avaria, nonostante ci sia stato l’intervento di una ditta specializzata continuava a manifestarsi, ragion per cui Tadini voleva chiudere l’impianto per procedere alla riparazione. Ma avendo riaperto la stagione da circa un mese dopo il fermo dovuto al Covid, con l’arrivo del flusso turistico a livello economico sarebbe stato catastrofico bloccare l’impianto.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il problema alla centralina dei freni della cabina 3, lo conoscevano tutti. Almeno dal mese di febbraio, più di tre mesi prima della tragedia. Questa è la relazione di intervento del 4 febbraio 2021 effettuata dalla RVS, società specializzata di Torino e fornitrice di Leitner. Sostituzione cartucce, filtri e pompa, vengono ricaricati gli accumulatori e controllate le perdite d’olio. Secondo quanto racconta Tadini ai magistrati, il problema alla centralina si ripresenta già una settimana dopo ma i tecnici della manutenzione torneranno al Mottarone solo il 3 maggio.

LUIGI NERINI – GESTORE DELLA FUNIVIA Io personalmente ero tranquillo perché avevo due professionisti che mi seguivano la parte tecnica e una ditta leader mondiale. Più tranquillo di così.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Era tranquillo Luigi Nerini. I giudici lo vorrebbero agli arresti ma i suoi avvocati hanno fatto ricorso in Cassazione e nell’attesa si è rintanato nella sua villa. Parla per la prima volta dopo la tragedia.

LUIGI NERINI – GESTORE DELLA FUNIVIA Se ci fossero state delle manutenzioni da fare erano già pagate, perché io versavo 150 mila euro alla Leitner, contratto casco. Se c’è da cambiare un bullone, loro devono intervenire in otto ore.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Nerini ha ragione. Nel 2016 ha stipulato un contratto con Leitner, leader mondiale degli impianti a fune che ha curato i lavori di ristrutturazione dell’impianto. 1 milione 651 mila euro per la manutenzione ordinaria e straordinaria. Circa 150 mila euro all’anno per un contratto casco, tutto compreso e prevede un servizio di pronto intervento garantito entro 8 ore.

WALTER MOLINO Con quel tipo di contratto, da 150mila euro comunque, Leitner forse non è così motivata ad intervenire tutte le volte perchè ogni volta che esce perde soldi rispetto a quei 150 mila.

LUIGI NERINI – GESTORE DELLA FUNIVIA Allora l’avido non sono io. Probabilmente è qualcun altro.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Nonostante l’intervento sulle centraline dei freni fosse richiesto con urgenza il 17 aprile i tecnici della ditta delle manutenzione RVS risaliranno al Mottarone soltanto il 3 maggio, altro che 8 ore. E l’intervento non riuscì neppure bene. Il factotum delle funivie Tadini racconta ai magistrati che il problema alle centraline si ripresenterà appena qualche giorno dopo.

OLIMPIA BOSSI – PUBBLICO MINISTERO Il 3 maggio c’è stato il secondo intervento di RVS sulle centraline. Come è andato?

GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA (RICOSTRUZIONE AUDIO) Dopo qualche giorno ho cominciato di nuovo a sentire lo stesso scherzo, era sempre più frequente… ho richiamato l’ingegner Perocchio e gli ho detto: “Qua ho ancora questo problema”. Mi fa: “Allora ti manderò fuori ancora il tecnico”. Sarebbe stato il terzo intervento.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO La RVS di Torino è uno dei principali fornitori di impianti oleodinamici nel settore delle funivie. È qui che sono stati realizzati i sistemi frenanti della funivia del Mottarone.

WALTER MOLINO Cercavo l’amministratore, il signor Pezzolo.

VOCE DAL CITOFONO Mi dice che adesso è impegnato.

WALTER MOLINO Avrei bisogno di parlargli di una questione legata alla storia della funivia del Mottarone.

VOCE DAL CITOFONO Direzioneatat***.it

WALTER MOLINO FUORI CAMPO All’email RVS ha fatto rispondere dal suo avvocato, ma solo per dire che tutti gli impegni con Leitner sono stati rispettati. Nel frattempo però Tadini era costretto ad arrangiarsi, su richiesta dello stesso direttore dell’impianto Perocchio.

GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA (RICOSTRUZIONE AUDIO) Io dico: devo andare avanti, intanto come faccio? “Arrangiati” mi ha detto. Ve’ che finisce che metto su i ceppi sui freni”.

OLIMPIA BOSSI – PUBBLICO MINISTERO Lei ha detto a Perocchio: “Finisce che metto su i ceppi?”

GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA (RICOSTRUZIONE AUDIO) Si.

OLIMPIA BOSSI – PUBBLICO MINISTERO E Perocchio cosa le ha risposto?

GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA (RICOSTRUZIONE AUDIO) Non mi ha risposto.

OLIMPIA BOSSI – PUBBLICO MINISTERO Quante volte ha usato questo sistema dei ceppi?

GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA (RICOSTRUZIONE AUDIO) Dalla riapertura del 26 aprile almeno una decina di volte.

WALTER MOLINO Lei effettivamente era al corrente che l’ultimo intervento della RVS non aveva risolto il problema alla centralina dei freni?

ENRICO PEROCCHIO – DIRETTORE DI ESERCIZIO FUNIVIA Non voglio e non è corretto, in questo momento della mia vita, della mia situazione, rilasciare dichiarazioni. Io con la coscienza mi sento a posto perché sennò non sarei riuscito neanche a sopravvivere.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il 2 settembre scorso si presenta ai Carabinieri di Verbania Stefano Gandini, un ex dipendente stagionale della funivia. Ai militari consegna un cd con alcune registrazioni che ha fatto di nascosto col suo telefonino. E quando gli investigatori le ascoltano, rimangono sgomenti.

STEFANO GANDINI – EX DIPENDENTE FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Potete venire a vedere la cabina? Perché perde olio!

SILVIO RIZZOLO – EX VICE CAPO SERVIZIO FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Cosa vuol dire perde olio…

STEFANO GANDINI – EX DIPENDENTE FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Stamattina o trovato una pozzanghera di olio sul tetto della cabina. Perdeva olio. Scriviamo sul libro giornale… oggi non prendo in carico la cabina.

SILVIO RIZZOLO – EX VICE CAPO SERVIZIO FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Devi dire dov’è sto olio? Devi dire dov’è sto olio! STEFANO GANDINI – EX DIPENDENTE FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Sui fazzoletti che ho appena pulito porca troia! Mettete i ceppi, fate quello che ritenete più giusto, io non prendo la cabina n.3 oggi, quando il direttore d’esercizio l’ingegner Perocchio, mi prende in mano la vettura e mi dice che è tutto a posto io parto.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO In questa registrazione che Report vi può fare ascoltare in esclusiva, l’ex dipendente della Funivia Gandini si rifiuta di salire a bordo della cabina num.3 perché ha riscontrato lo stesso problema segnalato da Tadini, una perdita di olio alle centralina dei freni. Quello che è inquietante è che questo fatto è avvenuto il 27 maggio 2019. Esattamente due anni prima della tragedia.

STEFANO GANDINI – EX DIPENDENTE FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Non mi sento di portare 40 persone a cabinata su questo impianto.

ALESSANDRO ZURIGO – DIPENDENTE FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Dicono che va ben?

STEFANO GANDINI – EX DIPENDENTE FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Ti dicono sempre che va bene, tanto poi ci sei su te! Chiamiamo il Ministero, esce fuori il Ministero, mi verifica la cabina.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Gandini si sfoga con i suoi colleghi, scrive una lettera al direttore di esercizio e viene immediatamente convocato nell’ufficio di Nerini.

LUIGI NERINI – AMMINISTRATORE FUNIVIA DEL MOTTARONE Stefano, io ne ho pieni i coglioni qui di certi comportamenti. Il capo servizio ha detto che la vettura si può usare e tu la usi… Vuoi piantare rogne? Non ci sono problemi tanto tu un posto di lavoro nel raggio di 300 chilometri non lo trovi più, qui lo dico e qui lo confermo.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Anziché preoccuparsi dell’avaria che mette a rischio la sicurezza dei passeggeri Nerini minaccia di licenziare il suo dipendente. Gandini l’indomani torna al lavoro e discute con il capo servizio Tadini.

GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Gli ho fin fatto mettere su temporaneamente i ceppi per controllare, quando ho visto che era tutto a posto glieli ho fatti togliere. Ma vabbè la vettura è a posto.

STEFANO GANDINI – EX DIPENDENTE FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Mi fai avere la dichiarazione di conformità dei lavori che sono stati fatti…

GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Ma noooo! Quale conformità!

STEFANO GANDINI – EX DIPENDENTE FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) E noooo! E no e dai!!! Ma ho capito, anche al ponte Morandi hanno detto che è a posto, poi guarda che fine ha fatto, non esageriamo!

GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Nooo! Non esageriamo, non parliamo del ponte Morandi cazzo!

STEFANO GANDINI – EX DIPENDENTE FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Se scende il freno non riesco a riarmarlo.

GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Non posso mica chiudere l’impianto per una cazzata così.

STEFANO GANDINI – EX DIPENDENTE FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Va bene, non rischio la vita!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO “Non rischio la vita”. Queste erano le parole dell’ex dipendente Stefano Gandini che due anni prima che avvenisse la tragedia aveva anche lanciato una tremenda profezia: “Finisce come con il ponte Morandi”. Quando aveva annunciato ai suoi capi le anomalie del sistema frenante della cabina 3, e anche l’uso dei forchettoni e quelle anomalie che avrebbe voluto mettere nero su bianco sul diario di bordo, aveva annunciato quest’intenzione a Nerini, Nerini ha minacciato di licenziarlo. Ora che ci fossero i problemi al sistema frenante della cabina 3 a Stresa, lo sapevano anche i sassi. Tanto che la ditta che veniva a fare le riparazioni per conto della Leitner, la Rvs, era intervenuta più volte sul sistema frenante, e le anomalie si ripresentavano. Al punto che Tadini a un certo punto è stato costretto a mettere i forchettoni, e ha anche avvisato il direttore d’esercizio Perocchio. Insomma, qui il tema si pone sulla manutenzione. La Leitner è adesso indagata nella persona del suo amministratore delegato Anton Seeber, insieme ad altri due tecnici. Uno è quello che ha costruito la testa fusa. Nel 2015 infatti è stata proprio la Leitner a ristrutturare l’impianto, quando aveva costituito un’associazione temporanea d’impresa con Nerini proprio per 13 aggiudicarsi un bando. Un bando che è convenuto a tutti e due perché la Leitner ha inglobato un ricco contratto di manutenzione, Nerini ha potuto continuare a fare quello che ha sempre fatto con la sua famiglia, cioè a gestire le Funivie dal 1970 quando sono state costruite per la prima volta. Una pausa solo di tre anni, dal 1997 al 2001, che è stata gestita la funivia da un consorzio pubblico. Solo che quando c’è stato da investire pesantemente sull’impianto, è sempre intervenuto il denaro pubblico. È successo nel bando del 2014, quando una società della Regione Piemonte aveva scritto le condizioni per partecipare al bando, aveva fissato una scadenza del 2030, ma aveva fissato soprattutto la scadenza del 2029 per cambiare i cavi della funivia. Era un esborso importante, per questo poi le gare sono andate deserte. Ma in quell’anno c’erano le elezioni a Stresa, e il sindaco Canio Di Milia non ha voluto lasciare la funivia chiusa. E allora che cosa fa: interviene direttamente con le casse del Comune, rende il bando più appetibile, pone delle condizioni più favorevoli. Aggiunge un milione al milione e 750 che aveva già messo la Regione, quindi alla fine diventano due milioni, quelli dell’intervento del Comune. Soprattutto dal bando sparisce l’obbligo di rispettare la clausola di protezione per i lavoratori. Insomma, chi vince il bando può guadagnare di più, è anche più libero di licenziare. E a quel punto Nerini e Leitner si possono presentare.

CANIO DI MILIA – EX SINDACO DI STRESA Si è fatto di tutto per far ripartire questo impianto perché in quegli anni lì in città c’era chi sosteneva che la funivia si dovesse chiudere. Basta… costerà tanto sta funivia. Ed è vero, costa tanto al Comune di Stresa.

WALTER MOLINO Poi il Comune ci ha messo un milione in più…

LUIGI NERINI – AMMINISTRATORE FUNIVIE DEL MOTTARONE Il Comune non mi dà nessun contributo. Mi sta solo restituendo i soldi che ho anticipato io per il Comune. Queste cose non vengono dette però. Il Comune doveva mettere per il bando 1 milione 800 mila euro.

WALTER MOLINO E glieli sta dando anno per anno.

LUIGI NERINI – AMMINISTRATORE FUNIVIE DEL MOTTARONE Io li ho anticipati di tasca mia, quindi il Comune sta solo restituendo i miei soldi. Punto. Non mi sta dando neppure un centesimo.

WALTER MOLINO Ma una volta che il Comune avrà finito di restituirle tutti questi soldi, lei però ci avrà guadagnato. 250, 300 mila euro di ricavi annui, negli ultimi due anni più o meno.

LUIGI NERINI – AMMINISTRATORE FUNIVIE DEL MOTTARONE Hmm.. ni. Scrivono sempre quello che vogliono.

WALTER MOLINO Dicono che pure lei scriveva quello che voleva nei bilanci. I biglietti in nero…

LUIGI NERINI – AMMINISTRATORE FUNIVIE DEL MOTTARONE Io pagavo decine di migliaia di euro di tasse, quindi…

WALTER MOLINO FUORI CAMPO 14 L’associazione temporanea d’impresa formata da Leitner, all’80 per cento, e la Ferrovie del Mottarone di Nerini, al 20, non ha concorrenti e si aggiudica la gara. Con un ribasso dello 0,1%.

WALTER MOLINO Quindi il socio forte in quella fase è Leitner.

DANIELE TERRANOVA – AVVOCATO TRIBUTARISTA Ferrovie del Mottarone vuole fare il gestore ma per prendere la concessione ha bisogno di un socio finanziariamente forte, che è Leitner. Qual è il senso economico per Leitner? Aggiudicarsi poi un contratto per la manutenzione degli impianti.

PIERO VALLENZASCA – EX CONSIGLIERE COMUNALE DI STRESA Il privato non ha messo niente. 1 milione 750 mila euro che sono i soldi in capitale che mette la Regione, e poi prendiamo i 2 milioni spalmati in 13 anni che ci mette il Comune, poi il privato si fa finanziare per il resto da un istituto di credito e con i trasferimenti del Comune paga capitale, annualità e interessi. E alla fine non ci mette un euro. WALTER MOLINO Un altro elemento è la cancellazione, dal primo al secondo bando, della clausola sociale. Non obbligate più il concessionario a tutelare, a mantenere i posti di lavoro.

CANIO DI MILIA – EX SINDACO DI STRESA Si, si! Qui parliamo di una decina di dipendenti. Cioè non parliamo di cinquecento…Volevano essere liberi nel poter partecipare al bando e non avere condizioni di questo tipo.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Più liberi di licenziare ma con più soldi per il personale. Si, perché se tra il primo e il secondo bando sparisce la clausola di protezione per i lavoratori, nel Piano economico finanziario i soldi per il personale passano da 5,3 a 6,4 milioni di euro. Ma se i dipendenti sono diminuiti e non servono più neanche gli agenti di vettura, dove vanno a finire tutti questi soldi?

WALTER MOLINO Non è che Nerini vi ha un po’ presi per il collo come amministrazione comunale

CANIO DI MILIA – EX SINDACO DI STRESA Nerini, mi ricordo, quelle volte che si è discusso… non voleva partecipare alla gara della funivia eh!

WALTER MOLINO A chi lo diceva?

CANIO DI MILIA – EX SINDACO DI STRESA Lo diceva sempre a tutti

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il 6 maggio 2015 l’ultimo consiglio comunale prima di andare a nuove elezioni, delibera l’aumento di 1 milione di euro del contributo comunale. Ma non tutti ritengono che quello sia un atto legittimo. WALTER MOLINO 15 C’è qualcuno che dice: attenzione. Mancano meno di 45 giorni alle nuove elezioni, un impegno così importante è giusto che lo prenda il prossimo consiglio comunale e questo consigliere che lo dice è lei. Riteniamo opportuno non prendere parte alla discussione. Lei è ancora convinto di questa cosa che pensava nel 2015?

ALESSANDRO BERTOLINO – VICE SINDACO DI STRESA Domanda… Che un consiglio dovesse esprimersi così a ridosso della scadenza io non lo trovo corretto. WALTER MOLINO Alessandro Bertolino a quel tempo era consigliere comunale di opposizione, oggi invece è il vice sindaco leghista di Stresa. WALTER MOLINO Secondo lei perché Canio Di Milia ha insistito così tanto? L’ultima seduta del consiglio, perché?

ALESSANDRO BERTOLINO – VICE SINDACO DI STRESA Non lo so probabilmente voleva chiudere la partita, voleva mettere un cappello, abbiamo fatto anche questo, ci portiamo a casa un pacchetto di voti in più.

WALTER MOLINO Nerini faceva riferimento un po’ a questo gruppo di maggioranza si può dire?

ALESSANDRO BERTOLINO – VICE SINDACO DI STRESA Lui era dieci anni che trattava con loro, erano dieci anni che la controparte eran loro.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO La controparte cambia ma Nerini resta. Nonostante la grave inadempienza sia drammaticamente dimostrata dalle 14 vittime, il Comune di Stresa ha impiegato quasi sei mesi per notificare la revoca della concessione alla società di Nerini che adesso si prepara a fare ricorso.

MARCELLA SEVERINO – SINDACO DI STRESA Dal 23 maggio a oggi noi non abbiamo neanche versato un euro, quindi non c’era l’urgenza diciamo di andare a tutelare questa cosa.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO A Nerini vanno anche i contratti di affitto compresi nella concessione: per esempio quello dell’Idrovolante, il bar-ristorante annesso alla stazione di partenza della funivia: 30 mila euro l’anno.

MARCELLA SEVERINO – SINDACO DI STRESA L’idrovolante verserà il canone a noi, assolutamente.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO E invece, anche dopo la tragedia, il canone di affitto dell’Idrovolante ha continuato a incassarlo Nerini.

WALTER MOLINO Dopo la tragedia voi avete continuato a pagare l’affitto.

GESTORE IDROVOLANTE 16 Si, c’era una scadenza… io ho sentito il mio commercialista, lui ha sentito il commercialista della controparte, cioè del Nerini e dopo un po’ è arrivata la fattura. E io non avendo avuto indicazioni l’ho pagata. WALTER MOLINO E dal Comune nessuno si è fatto sentire

GESTORE IDROVOLANTE No, no niente

MARCELLA SEVERINO Nerini a oggi è un indagato.

WALTER MOLINO La cabina è caduta, il servizio è sospeso, non c’è neppure il servizio sostitutivo nonostante questo sia assimilabile al servizio pubblico locale.

MARCELLA SEVERINO – SINDACO DI STRESA Guardi lì potremmo aprire una parentesi, l’attrazione era la funivia, anni fa era stato fatto un servizio sostitutivo ma non c’erano utenze

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Come se lo spiega che questa concessione ce l’ha avuta sempre Nerini?

MARCELLA SEVERINO – SINDACO DI STRESA Bella domanda.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Eh, mi dia anche una risposta.

MARCELLA SEVERINO – SINDACO DI STRESA Chi lo sa. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bella domanda. Che però rimane senza risposta. Il suo attuale vicesindaco in quota Lega, Alessandro Bertolino, era all’epoca della concessione del Bando consigliere comunale. Aveva abbandonato l’aula in segno di protesta perché secondo lui il fatto che il sindaco avesse incrementato la quota del Comune per agevolare la ristrutturazione dell’impianto in prossimità delle elezioni, nei 45 giorni prima che si andasse a votare, fosse un’operazione illegittima, una forzatura fatta solo per incassare un pacchetto di voti. Invece la sindaca ha impiegato ben 6 mesi per chiedere la revoca della concessione a Nerini. Questo ritardo ha consentito a Nerini di incassare intanto una rata semestrale di circa 15mila euro dal bar Idrovolante che è annesso alla stazione della funivia. E sempre la sindaca di Stresa ha chiesto un parere alla Corte dei Conti perché non vuole pagare la spesa di 18mila euro all’agenzia funebre che ha recuperato i corpi delle vittime della tragedia del Mottarone. L’ha chiamata l’autorità giudiziaria si giustifica così la sindaca. Ora probabilmente anche questa vicenda finirà in tribunale, non vogliamo pensare che l’epilogo possa essere che a qualcuno venga in mente di presentare il conto alle famiglie delle vittime. Sarebbe una beffa dopo la cronaca di una tragedia annunciata, ma anche quella di un conflitto di interessi annunciato. L’ha scoperto l’ultimo il nostro Walter Molino riguarda il direttore di esercizio Enrico Perocchio, che quando è stato ingaggiato da Nerini è 17 anche dipendente della Leitner, cioè della società che fa manutenzione sull’ impianto. Ma chi doveva controllare se n’è accorto? In questo caso doveva essere l’Ustif.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO A vigilare per conto dello Stato sulla sicurezza degli impianti è l’USTIF, Ufficio speciale trasporti a impianti fissi, un organo periferico del Ministero delle Infrastrutture. Alla sede dell’USTIF di Torino non ci hanno voluto ricevere, ma dopo la nostra visita il direttore Ivano Cumerlato ci ha telefonato.

 IVANO CUMERLATO DIRETTORE USTIF TORINO (AL TELEFONO) Io non ho paura perché so di aver fatto tutto quello che è necessario per far sì che la sicurezza fosse assicurata su quell’impianto.

WALTER MOLINO L’USTIF deve dare il nulla osta per la nomina del direttore d’esercizio.

IVANO CUMERLATO DIRETTORE USTIF TORINO (AL TELEFONO) Si, esatto.

WALTER MOLINO L’ingegner Perocchio è direttore d’esercizio della funivia ma è anche un dipendente della Leitner che ha un contratto di manutenzione per la funivia. Non c’è un conflitto d’interessi?

IVANO CUMERLATO DIRETTORE USTIF TORINO (AL TELEFONO) Cioè, io pensavo veramente… visto che il contratto di manutenzione noi non dobbiamo averlo per forza…

 WALTER MOLINO Lo sapeva benissimo che era un dipendente della Leitner.

IVANO CUMERLATO DIRETTORE USTIF TORINO (AL TELEFONO) Si, questo qua si.

WALTER MOLINO Secondo lei l’ingegner Perocchio è stato all’altezza del suo compito? IVANO CUMERLATO DIRETTORE USTIF TORINO (AL TELEFONO) Non è che possa dire che l’ingegner Perocchio sia il non plus ultra, sicuramente ci sono tecnici che conoscono bene l’impianto altrettanto quanto lui. ENRICO PEROCCHIO – DIRETTORE DI ESERCIZIO FUNIVIA Non c’è conflitto d’interessi ma non voglio rilasciare dichiarazioni, non è corretto in questo momento

WALTER MOLINO Ma se non c’è conflitto d’interesse chi è che chiamava Leitner per fare gli interventi di manutenzione?

ENRICO PEROCCHIO – DIRETTORE DI ESERCIZIO FUNIVIA Ho detto che preferisco non rilasciare dichiarazioni.

DARIO BALOTTA - OSSERVATORIO NAZIONALE LIBERALIZZAZIONE E TRASPORTI Il Ministero ha alzato bandiera bianca. Senza uomini, senza autonomia di risorse e soprattutto senza autonomia politica, perché il problema non è di andare in una casa qualunque a fare dei controlli. Il problema è andare in case importanti che esercitano importanti pressioni politiche e qualche volta il Ministero non riesce a entrare come dovrebbe entrare. WALTER MOLINO FUORI CAMPO I controlli dell’USTIF sono di due tipi: quelli calendariati, cioè a scadenza fissa, e quelli a sorpresa. Un ex dipendente ci racconta come funzionavano.

TESTIMONE 1 – EX DIPENDENTE FUNIVIA (RICOSTRUZIONE VIDEO) Sapevamo le date dei controlli. Tante volte li andavamo pure a prendere a Torino. Per tenerli buoni li andavamo a prendere, li portavamo a mangiare… La settimana prima ci eravamo già preparati. Il sistema era quello, se ci stavi. Io non ho più fatto collaudi per esempio. Non mi lasciavano più lì quando veniva l’USTIF. Mi chiamavano a casa e mi dicevano: non venire perché l’impianto è chiuso.

WALTER MOLINO USTIF dovrebbe fare anche dei controlli a sorpresa. IVANO CUMERLATO DIRETTORE USTIF TORINO (AL TELEFONO) Se ci viene un dubbio la facciamo. WALTER MOLINO Come poteva venirvi questo dubbio?

IVANO CUMERLATO DIRETTORE USTIF TORINO (AL TELEFONO) Abbiamo un sacco di impianti e siamo in tre soltanto.

WALTER MOLINO In Piemonte quante funivie ci sono?

IVANO CUMERLATO DIRETTORE USTIF TORINO (AL TELEFONO) Eh ci sono… duecento impianti circa. WALTER MOLINO E voi siete soltanto in tre!

IVANO CUMERLATO DIRETTORE USTIF TORINO (AL TELEFONO) Come si fa ad assumere un ingegnere e pagarlo 1500 euro al mese. Io sono entrato nel Ministero dopo essere stato insegnante nella scuola.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Con queste competenze è entrato l’USTIF. E ora è una delle 3 persone che in Piemonte devono vigilare su 200 impianti. Grazie a queste carenze i controlli del Mistero si risolvono in una semplice comunicazione che il controllato manda al controllore, come dimostra questa email inviata da Perocchio all’USTIF per comunicare che l’ultimo controllo sulle funi è andato bene. Ma dal 1° gennaio USTIF sarà assorbita da ANSFISA, l’agenzia nazionale per la sicurezza delle infrastrutture istituita dopo la tragedia del ponte Morandi. A dirigerla si sono già avvicendati tre direttori. L’ultimo è Domenico De Bartolomeo, nominato dal governo Draghi. Abbiamo chiesto anche a lui se non ci fosse 19 un conflitto d’interessi nel fatto che Perocchio vestisse i doppi panni di direttore d’esercizio della funivia e dipendente della Leitner che per quella funivia ha un contratto di manutenzione.

DOMENICO DE BARTOLOMEO – DIRETTORE ANSFISA Il direttore d’esercizio, in quanto libero professionista, lo dice la parola stessa, deve essere libero da qualsiasi tipo di interesse diretto o indiretto.. anche così in relazione a quelli che possono essere stati dei contatti pregressi con la società che fa la manutenzione.

WALTER MOLINO Non è che era dipendente prima.

DOMENICO DE BARTOLOMEO – DIRETTORE ANSFISA Aaaah, allora a maggior ragione, secondo me non ci sono assolutamente i presupposti. WALTER MOLINO Lei avrà il potere di nominare i responsabili USTIF dei vari distretti.

DOMENICO DE BARTOLOMEO – DIRETTORE ANSFISA Si, però sono nomine che sulla base dell’attuale quadro normativo non mi consentono degli spazi di manovra.

WALTER MOLINO Lei ha o no il potere di rimuovere quel dirigente o funzionario che sia?

DOMENICO DE BARTOLOMEO – DIRETTORE ANSFISA Guardi, potere o non potere io lo farò.

DOMENICO DE BARTOLOMEO – DIRETTORE ANSFISA Il numero delle funivie è un numero importante. Che tra l’altro io neanche immaginavo, nel senso che, da sciatore della domenica, pensavo che gli impianti a fune fossero soltanto in alcune zone d’Italia.

WALTER MOLINO 1700 funivie. Fino ad ora queste 1700 funivie sono state vigilate e controllate da USTIF. Quanti addetti ci sono in Piemonte?

DOMENICO DE BARTOLOMEO – DIRETTORE ANSFISA Allora… il numero esatto non glielo so dire. Ma credo che siano pochissime unità.

WALTER MOLINO Glielo dico io. Sono tre.

DOMENICO DE BARTOLOMEO – DIRETTORE ANSFISA Eh eh, pochissime unità.

WALTER MOLINO Queste tre unità che devono controllare 200 funivie sono troppo pochi.

DOMENICO DE BARTOLOMEO – DIRETTORE ANSFISA E sono pochi sicuramente. Però glielo dico, non è che diventeremo tantissimi. Forse potranno diventare quattro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Abbiamo capito che in tema di controlli non è che cambierà granché visto che le risorse umane quelle sono. Adesso con il nuovo anno anche l’Ustif entrerà a far parte dell’Agenzia che controlla le infrastrutture. E alla fine quando sarà a regime avrà 668 dipendenti che devono controllare 6700 km di autostrade,132 mila km di strade provinciali, 35 mila km di rete ferroviaria. Ora dovranno controllare anche le 1700 funivie. Insomma “non pensavo ce ne fossero tante”. dice il direttore della nuova agenzia. Ora come funzionavano i controlli per quel che riguarda le funivie del Mottarone ce l’ha raccontato un ex dipendente. Che ha detto al nostro Walter Molino che i controlli erano scarsi e quei pochi che c’erano venivano anche annunciati con largo anticipo. Tanto che poi se ne andavano anche a mangiare. Insomma, e poi chi è che andava a controllare? Per carità sarà anche uno bravo ma andava un ex insegnante, e lui stesso dice guardate che un ingegnere bravo se gli offri 1500 euro di stipendio non ci viene a fare i controlli. Tuttavia, lui ha controllato chi doveva controllare che la testa fusa non avesse fatto il suo tempo. Di sicuro ha giudicato non influente pur non giudicandolo una cima il direttore d’esercizio, il conflitto di interessi che riguardava il direttore d’esercizio, cioè colui che era stato ingaggiato da Nerini per far funzionare e mettere in sicurezza le funivie, che però era pagato, dipendente della stessa società che faceva la manutenzione. Ora, può funzionare la filiera di controlli in questa maniera. Quando tu hai dall’altra parte quella avidità ancestrale di chi gestisce queste attività che magari non è che non ferma l’impianto perché deve comprare un pezzo per la manutenzione che costa qualche centinaio di euro, non ferma l’impianto perché è una perdita importante di esercizio. Ora, insomma tutto questo avviene quando ci si adagia sulla filosofia di vita “Io speriamo che me la cavo”.

Claudio Del Frate per corriere.it il 23 maggio 2021. La funivia che collega Stresa con il Mottarone è precipitata e al momento ci sono almeno 13 vittime. Sul posto sono presenti squadre dei Vigili del fuoco e del soccorso alpino e non si esclude che vi siano anche dei bambini coinvolti. Secondo le prime testimonianze una delle cabine è precipitata poco dopo le 12.30 in prossimità di un pilone, in uno dei punti più alti dell’impianto, in prossimità della vetta del Mottarone: l’incidente sarebbe stato provocato dal cedimento di una fune.

Le vittime. Sulla cabina della funivia precipitata e che dal lago era diretta verso la montagna, c’erano- secondo quando si apprende - 15 persone (la capienza è di 35). I due bambini portati in codice rosso, con le eliambulanze, all’ospedale Regina Margherita di Torino hanno 9 e 5 anni; entrambi restano in condizioni critiche. Uno dei due bambini, quello di 5 anni ha le gambe fratturate, diversi traumi ma è cosciente; l’altro invece è in rianimazione ed è stato sottoposto alla Tac e successivamente intubato. Secondo il soccorso alpino di Verbania tra i morti ci sarebbero anche turisti tedeschi. Secondo la sindaca di Stresa Marcella Severino tra i morti ci sarebbero degli italiani residenti in provincia di Varese, un turista inglese e anche un bimbo di 2 anni. Le di recupero sono rese più difficili dal fatto che la cabina è caduta in un bosco in una zona impervia. Un mezzo dei vigili del fuoco che stava salendo sul luogo della tragedia si è ribaltato: non ci sono feriti.

La dinamica. La dinamica dell’evento è ancora tutta da chiarire. La sindaca di Stresa Marcella Severino ha riferito il racconto di alcuni testimoni. Questi «hanno sentito un forte sibilo e poi hanno visto la cabina retrocedere velocemente per poi essere sbalzata via al momento dello schianto contro il pilone». Sempre la sindaca, che è salita sul luogo della tragedia, ha detto al telefono di aver visto «il cavo tranciato di netto». «La cabina della funivia è caduta da un punto relativamente alto e si è adagiata sul terreno ai piedi di un grande bosco. Ora appare sostanzialmente distrutta a terra quasi completamente accartocciata, quindi la caduta è stata evidentemente significativa» ha raccontato Walter Milan portavoce del Soccorso Alpino parlando in diretta con Rainews 24.

I controlli. La funivia parte da Stresa, sulla sponda piemontese del lago Maggiore e raggiunge una montagna sovrastante in un punto panoramico a circa 1.500 metri di altitudine: è una meta frequentatissima dai turisti sia in estate che in inverno, quando entrano in funzione alcune pista da sci. L’impianto era stato riaperto ieri, al termine del secondo lockdown ed era stato sottoposto a lavori di ristrutturazione nel 2016. Nella circostanza era stata eseguita anche una magnetoscopia sulle funi, una sorta di esame ai raggi x per verificarne la tenuta. . I lavori di revisione tecnica dell’impianto sono costati 4 milioni e 400 mila euro, finanziati dalla Regione Piemonte, dal Comune di Stresa, e dalla società di gestione. «L’impianto era assolutamente sicuro, era stata fatta la revisione generale, quindi un ciclo di manutenzione completo» ha detto Valeria Ghezzi, presidente di Anef, l’Associazione Nazionale Esercenti Impianti a Fune .

Draghi e Mattarella. A nome di tutto il governo il presidente del consiglio Mario Draghi ha espresso «il cordoglio alle famiglie delle vittime, con un pensiero particolare rivolto ai bimbi rimasti gravemente feriti e ai loro familiari». Anche il presidente della repubblica Sergio Mattarella ha espresso il suo dolore. «A questi sentimenti si affianca il richiamo al rigoroso rispetto di ogni norma di sicurezza per tutte le condizioni che riguardano i trasporti delle persone».

PRECIPITA CABINA DELLA FUNIVIA STRESA-MOTTARONE: 14 MORTI, 1 BAMBINO GRAVE. Il Corriere del Giorno il 23 Maggio 2021. A bordo dell’impianto si trovavano almeno 15 persone e sono 13 le vittime. Ricoverato All’ospedale Regina Margherita di Torino un bambino di nove anni in rianimazione e l’altro di cinque. Il premier Draghi: “Cordoglio di tutto il governo”., Messaggio di cordoglio del Capo dello Stato Mattarella: “Il tragico incidente alla funivia Stresa-Mottarone suscita profondo dolore per le vittime e grande apprensione per quanti stanno lottando in queste ore per la vita. Esprimo alle famiglie colpite e alle comunità in lutto la partecipazione di tutta l’Italia”. Una cabina dalla funivia Stresa-Mottarone nel Verbano con a bordo almeno 15 persone è precipitata. Secondo le testimonianze del 118 e dei soccorritori i morti nell’incidente sono al momento 14. Due bambini sono stati soccorsi dal 118 e trasportati in elicottero fino all’Oval Lingotto dove con le ambulanze sono stati portati all’ospedale infantile Regina Margherita. Le loro condizioni sono molto gravi e sono stati trasportati. Il primo bambino di 6 anni Eitan Moshe ha riportato trauma cranico, toraco-addominale e fratture agli arti inferiori, ma sarebbe cosciente. Il più grande dei due bambini, che avrebbe intorno ai 10 anni, che era rimasto ferito ed era stato trasportato all’ Ospedale Regina Margherita di Torino non ce l’ha fatta. I due bambini, di 6 e 10 anni, coinvolti nell’incidente della funivia Stresa-Mottarone erano sulla cabina della funivia ed adesso lottano per la vita. Non sono state ancora rese note al momento le identità o le nazionalità. Il primo bambino, quello di 5 anni, è arrivato nel pronto soccorso alle 14.45. Era cosciente quando l’ambulanza lo ha trasferito dall’elicottero con cui è arrivato dal Mottarone, fino all’ingresso dell’ospedale. Il secondo bambino, che avrebbe 9 anni è grave avendo riportato un grave trauma cranico e fratture alle gambe. Arrivato in condizioni critiche in ospedale dopo circa mezz’ora. I medici gli hanno subito praticato il massaggio cardiaco dopo che il suo cuore ha smesso di battere, e sono riusciti a rianimarlo. Quindi è stato sottoposto alla tac ed intubato. “La situazione dei due bambini è critica – ha detto Giovanni La Valle direttore sanitario della Città della Salute – più grave quella del bambino un po’ più grande che, presumibilmente, ha circa 9-10 anni” ed ha avuto anche un arresto cardiaco. “Il bambino più piccolo che è arrivato cosciente e parlava italiano, ed ha un’età di circa 5 anni, in questo momento è in sala operatoria per stabilizzare le fratture. Le prossime 12-15 ore saranno fondamentali”. La cabina della funivia è crollata poco prima delle 13. Al momento non si conoscono ancora le cause ma la cabina, arrivata in prossimità dell’ultimo pilone, quindi in uno dei punti più alti del tragitto verso la montagna nei pressi del Lago Maggiore, è caduta, si ipotizza per il cedimento di una fune. Una testimone, Grazia Aguzzi racconta “Verso le 12.30 si è sentito un botto pazzesco, poi si è sentito come qualcosa che stesse rotolando e poi un’altra botta pazzesca. Infine tutto era in silenzio”. Un’ altra testimone Vanessa Rizzo, che lavora all’adiacente maneggio dice: “Abbiamo sentito un piccolo boato e poi abbiamo visto i cavi volare per terra. Abbiamo visto le altre persone che scendevano con l’altra cabina: le hanno fatto scendere con le scale. Quando sono arrivati i vigili del fuoco non potevano passare perché i cavi erano proprio sulla strada”. “L’impianto era assolutamente sicuro, era stata fatta la revisione generale, quindi un ciclo di manutenzione completo ma effettivamente qualcosa è accaduto. Ora bisognerà capire cosa realmente è successo, fare ipotesi oggi non va bene per il rispetto alle vittime a alle persone eventuali responsabili”. afferma Valeria Ghezzi, presidente di Anef, l’Associazione Nazionale Esercenti Impianti a Fune in merito alla tragedia sul Mottarone (Verbania) dove si è staccata una cabina della funivia causando il decesso di 9 persone e 3 codici rossi. “Mi sento di escludere che causa della tragedia sul Mottarone sia da ricercare in un guasto elettrico”, dice il tecnico elettronico specializzato nella costruzione di impianti di risalita del comprensorio sciistico del Civetta nelle Dolomiti Bellunesi. “Dal punto della sicurezza impiantistica, ovvero impianto elettrico dell’intero impianto di risalita, a monte, a valle, dentro la cabina e sui piloni, mi sento di garantire che non possono esserci problematiche che portano ad incidenti come quello di oggi. La sicurezza viaggia su due canali, ovvero una serie di micro – interruttori di relè e logica digitale che operano in autonomia e non può essere che entrambi siano entrati in guasto nello stesso momento”. “Un cavo di acciaio che dovrebbe essere il cavo portante della cabinovia caduta sul Mottarone – si è staccato e a seguito di questo saranno successe azioni concatenanti che hanno portato allo sgancio della cabinovia dal resto dei cavi che sono rimasti integri”. Si tratta di “due file di cavi” e “sarà da chiarire” perché la cabinovia – rimasta chiusa durante il lockdown e riaperta da poco – è caduta nel vuoto “all’altezza dell’ultimo pilastro”. Lo afferma Giorgio Santacroce, tenente colonnello del Nucleo operativo dei Carabinieri di Verbania, intervenuto sull’incidente della funivia caduta sul Mottarone dove hanno perso la vita 13 persone, tra cui “qualche straniero”. “Ma sull’identificazione preferiamo mantenere ancora la riservatezza”, aggiunge. “E’ un po’ presto per dare delle spiegazioni sulla dinamica dell’incidente. L’impianto è sotto sequestro, non abbiamo ancora sentito il gestore della funivia, prima completiamo la fase di soccorso”, afferma il tenente colonnello Santacroce, sottolineando che “la cabina può portare anche più persone: in questo periodo di Covid i posti sono ridotti”, ma 15 persone erano “regolari”. La Funivia del Mottarone è stata chiusa nel 2014 per garantirne una revisione generale, ed è stata riaperta il 13 agosto 2016. La manutenzione straordinaria ha previsto una serie di interventi tra cui la sostituzione dei motori, dei quadri elettrici, dell’apparato elettronico, dei trasformatori. È stata eseguita anche una magnetoscopia sulle funi, una sorta di esame ai raggi x per verificarne la tenuta. Le cabine sono state smontate, ricondizionate e rimontate con impianto acustico e videocamera di sorveglianza a bordo. I lavori di revisione tecnica dell’impianto sono costati 4 milioni e 400 mila euro, finanziati dalla Regione Piemonte, dal Comune di Stresa, e dalla società di gestione. Il procuratore di Verbania Olimpia Bossi ha disposto il sequestro dell’impianto della funivia del Mottarone.  Dai primi accertamenti sembrerebbe confermato che un cavo della funivia si è tranciato di netto, mentre bisognerà perché la cabina si sia staccata nonostante i sistemi di sicurezza.

Il cordoglio del Quirinale e di Palazzo Chigi. “Il tragico incidente alla funivia Stresa-Mottarone suscita profondo dolore per le vittime e grande apprensione per quanti stanno lottando in queste ore per la vita . Esprimo alle famiglie colpite e alle comunità in lutto la partecipazione di tutta l’Italia. A questi sentimenti si affianca il richiamo al rigoroso rispetto di ogni norma di sicurezza per tutte le condizioni che riguardano i trasporti delle persone” dice in una nota il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il presidente del consiglio Mario Draghi che segue ogni aggiornamento in costante contatto con il ministro Enrico Giovannini, con la Protezione Civile e le autorità locali, ha manifestato la solidarietà del Governo: “Ho appreso con profondo dolore la notizia del tragico incidente della funivia Stresa – Mottarone. Esprimo il cordoglio di tutto il Governo alle famiglie delle vittime, con un pensiero particolare rivolto ai bimbi rimasti gravemente feriti e ai loro familiari”. “Un dramma terribile, ho già parlato con il prefetto e la direttrice dei Vigili del Fuoco e la Protezione Civile. Stiamo cercando di comprendere quanto è accaduto, ma è un dramma veramente terribile”. È quanto dichiara il ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, Enrico Giovannini, interpellato dall’AGI. Il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti: “Sono colpito e profondamente addolorato per la tragedia della funivia Stresa-Mottarone. Una montagna che mi è familiare e che oggi è lo scenario di un evento terribile: sono vicino alle famiglie delle vittime e prego, in particolare, per la salvezza dei due bambini che ora sono in ospedale”. Ci sono anche sei lombardi tra le vittime dell’incidente della funivia al Mottarone. Le famiglie sono state avvisate in serata dopo gli accertamenti del caso. Nella lista a disposizione delle autorità ci sono tre residenti a Pavia, i genitori e il loro bambino di due anni: si tratta di Amit Biran, 30 anni, Tal Peleg, 27 anni (nati entrambi in Israele) e Tom Biran, 2 anni, nato a Pavia, abitanti in via Ca’ Bella. C’è inoltre una coppia di fidanzati di Varese, Silvia Malnati 27 anni, abitante in via Rovereto, e Alessandro Merlo, 29 anni, residente in via Pergine. Il sesto nome è quello di Vittorio Zorloni, 55 anni, residente a Vedano Olona in via Matteotti. Le altre vittime sono di Diamante, in provincia di Cosenza (Serena Cosentino, 28 anni, e l’iraniano Mohammadreza Shahisavandi, 33 anni); due sono di Castel San Giovanni (Piacenza), Angelo Gasparro, 45 anni, e Roberta Pistolato, 40 anni. L’elenco si completa con l’israeliano Tshak Cohen 83 anni, residente in Israele. Si sta accertando la parentela con la famiglia pavese. Allo stato ci sono due vittime da identificare, e un ferito grave, il figlio di 6 anni dei Biran, Eitan Moshe.

L’elenco completo dei nomi delle vittime   

– Biran Amit, nato in Israele il 2 febbraio 1991 e residente a Pavia

– Peleg Tal, nato in Israele il 13 agosto 1994 e residente a Pavia

– Biran Tom, nato a Pavia il 16 marzo 2019 e residente a Pavia

– Cohen Konisky Barbara, nata in Israele l’ 11 febbraio del 1950

– Shahaisavandi Mohammadreza, nato in Iran il 25 agosto 1998, residente a Diamante (Cosenza)

– Cosentino Serena, nata a Belvedere Marittimo (Cosenza) il 4 maggio del 1994 e residente a Diamante (Cosenza)

– Malnati Silvia, nata a Varese il 7 luglio del 1994, residente a Varese

– Merlo Alessandro, nato a Varese il 13 aprile del 1992, residente a Varese

– Zorloni Vittorio nato a Seregno, Milano, l’8 settembre del 1966, residente a Vedano Olona (Varese)

– Gasparro Angelo Vito, nato a Bari il 24 aprile 1976, residente a Castel San Giovanni (Piacenza)

–  Pistolato Roberta, nata a Bari il 23 maggio del 1981, residente a Castel San Giovanni (Piacenza)

Ancora non è nota l’identità dei due bambini coinvolti. 

Riccardo Bruno, Andrea Camorani, Alessandro Fulloni, Eleonora Lanzetti, Carlo Macrì per corriere.it il 24 maggio 2021. Tom, due anni. Mattia, cinque. Poi Itshak, 81. E Silvia e Tal, 27 e 26. Famiglie in gita con i figli piccoli, mamme e papà, bisnonni e nipoti, coppie di fidanzati, giovani che si stavano affacciando nel mondo del lavoro, progettando il proprio futuro. Erano insieme su quella cabina che saliva verso il Mottarone, uniti in una giornata che doveva essere di festa e che invece si è trasformata in tragedia a pochi metri dalla cima, quando il panorama sembrava allontanarli da tutti i mali del mondo.

Chi erano le vittime. Storie di chi adesso non c’è più: come Serena Cosentino, 27 anni compiuti lo scorso 4 maggio, di origini calabresi, una laurea in Scienze naturali e una specializzazione in Monitoraggio e riqualificazione ambientale conseguita alla Sapienza con 110 e lode. Da due mesi aveva vinto una borsa di studio del Cnr e si era trasferita a Verbania per indagare sulla presenza di microplastiche nel Lago Maggiore. Serena era appena guarita dal Covid, per festeggiare in questa domenica di bel tempo e di vincoli ormai allentati era arrivato da Roma il fidanzato, Mohammed Reza Shahisavandi, 30 anni, iraniano, che studiava nella Capitale e si pagava gli studi lavorando in un bar. Si era laureata con 110 e lode e da marzo, dopo un’esperienza a Londra, lavorava in una sede del Cnr a Verbania Serena Cosentino, 27 anni, una delle vittime. La ragazza era di Diamante, località turistica dell’Alto Tirreno Cosentino, che aveva lasciato prima per studiare a Roma, poi per lavorare. Nella cittadina calabrese era vissuto anche il fidanzato, Shahaisavandi Mohammandrez, 23 anni, di origine iraniana prima di trasferirsi a Roma da dove l’aveva raggiunta per trascorrere con lei la domenica. In paese ricordano bene entrambi. Serena era conosciuta per la sua inclinazione per gli studi. A Diamante vive la sua famiglia: il padre, tecnico antennista, la madre, due sorelle gemelle più grandi di lei che esercitano la professione di nutrizioniste e coltivano la passione per la pallavolo, ed un fratello più piccolo. Per un periodo la famiglia aveva avuto in gestione un bar, dove sia Serena sia il fidanzato avevano lavorato. Secondo quanto si apprende, la famiglia del ragazzo vive in Iran. Anche Amit Biran, 30 anni, e la moglie Tal Peleg, 26, erano stranieri, israeliani, che vivevano in Italia con i figli Tom ed Eitan, 2 e 5 anni. Solo Eitan è ancora vivo ma in condizioni gravissime nel reparto di Rianimazione dell’ospedale Regina Margherita di Torino. Con loro hanno perso la vita il nonno di Tal, Itshak Cohen, 81 anni, e sua moglie Barbara Konisky, 71 anni, arrivati da Tel Aviv per trascorrere una vacanza con loro. Amit Biran aveva studiato medicina a Pavia e aveva trovato un’occupazione come tirocinante alla clinica Maugeri della città. Collaborava anche con la Comunità ebraica di Milano, dove lo ricordano come un ragazzo sempre disponibile e «con una carica di simpatia e di allegria contagiosa». La moglie, laureata in psicologia, si era finora dedicata ai suoi bambini e contava di iniziare a lavorare l’anno prossimo quando il più piccolo avrebbe iniziato ad andare all’asilo. Poco fuori Pavia vivono anche la sorella di Amit, Aia e il cognato Nirko. «Abbiamo sentito le notizie, e ci siamo subito messi a leggere cosa fosse successo — raccontano —. Sapevamo che Amit e la sua famiglia fossero andati da quelle parti, ma non pensavamo di vedere i loro nomi tra le vittime di questa tragedia. Siamo sconvolti e preghiamo affinché il piccolo Eitan possa sopravvivere e tornare da noi». Amit e Tal si erano trasferiti da un paio di settimane in un appartamento più grande e avevano lasciato la loro casa alle spalle del fiume. «Una famiglia meravigliosa, con una vita davanti — commentano i vecchi vicini di via Cà Bella —. Proprio ieri erano qui, stavano tinteggiando casa per lasciarla pronta ai ragazzi che l’avevano appena presa in affitto. Siamo sconvolti. Non possiamo credere di non poter più vedere il piccolo Tom giocare qui in cortile». Poi le altre vittime della sciagura. A Piacenza, due sposi di 40 e 45 anni: lei dottoressa. Roberta Pistolato (che proprio ieri, con la gita in funivia, ha festeggiato il compleano) e lui guardia giurata, Angelo Vito Gasparro. E anche un’ altra coppia, stavolta a Varese: Alessandro Merlo e Silvia Malnati, 29 e 27 anni, fidanzati da quasi dieci anni, condividevano la passione per il lavoro, lo studio e i viaggi. Gli amici li ricordano come «due ragazzi affiatati e gioiosi», tanto da pensare di costruire un futuro più stabile insieme, forse anche dopo la laurea di Silvia, lo scorso 23 marzo. Sorridente, e con un vestito a pois, la corona d’alloro — come la si vede ritratta nelle immagini del suo profilo social — Silvia aveva festeggiato postando come commento una frase di Goethe: «Qualunque cosa tu possa fare, qualunque sogno tu possa sognare, comincia. L’audacia reca in sé genialità, magia e forza. Comincia ora». Sabato la decisione di fare un giro in Piemonte, in una zona a due passi da Varese e a portata di mano, fra montagna e lago. Ma la notizia della tragedia è arrivata presto in città. Il sindaco Davide Galimberti ha parlato di «una tragica domenica per cui non ci sono parole. Solo il profondo dolore per tutte le vittime e un grande pensiero a chi sta lottando per la vita a seguito dell’incidente sulla funivia Stresa Mottarone». Della famiglia Zorloni, di Vedano Olona, ancora nel Varesotto, si sa poco. Se non che il piccolo Mattia, cinque anni, è morto all’ospedale Regina Margherita di Torino dove è giunto in eliambulanza ancora in vita. I suoi genitori, il papà Vittorio, 55, e la mamma Elisabetta Samantha Personini, 38, sono entrambi morti all’istante, dentro le lamiere della cabina precitata. Si sarebbero dovuti sposare il 24 giugno e il sindaco Cristiano Citterio, «sconvolto, incredulo, addolorato», su Facebook scrive queste parole: «Tragedia immane che sconvolge una comunità intera».

Qui a seguire i nomi delle vittime della tragedia di Mottarone

Biran Amit, nato in Israele il 2 febbraio 1991 e residente a Pavia

Peleg Tal (coniugata Biran), nata in Israele il 13 agosto 1994 e residente a Pavia

Biran Tom, nato a Pavia il 16 marzo 2019 e residente a Pavia

Cohen Konisky Barbara, nata in Israele l’ 11 febbraio del 1950

Cohen Itshak, nato in Israele il 17 novembre 1939

Shahaisavandi Mohammadreza, nato in Iran il 25 agosto 1998, residente a Diamante (Cosenza)

Cosentino Serena, nata a Belvedere Marittimo (Cosenza) il 4 maggio del 1994 e residente a Diamante (Cosenza)

Malnati Silvia, nata a Varese il 7 luglio del 1994, residente a Varese

Merlo Alessandro, nato a Varese il 13 aprile del 1992, residente a Varese

Zorloni Vittorio nato a Seregno, Milano, l’8 settembre del 1966, residente a Vedano Olona (Varese)

Persanini Elisabetta, nata nel 1983

Zorloni Mattia, 5 anni, figlio di Vittorio Zorloni e Elisabetta Persanini

Gasparro Angelo Vito, nato a Bari il 24 aprile 1976, residente a Castel San Giovanni (Piacenza)

Pistolato Roberta, nata a Bari il 23 maggio del 1981, residente a Castel San Giovanni (Piacenza)

Valentina Errante per "il Messaggero" il 24 maggio 2021. Un cavo tranciato di netto. Per stabilire perché i sistemi di sicurezza della funivia Stresa-Mottarone non siano entrati in funzione e la cabina sia caduta nel vuoto per 15 metri, rotolando poi a valle, occorreranno perizie e alcuni mesi. Il procuratore di Verbania, Olimpia Bossi, ha disposto il sequestro dell'impianto di proprietà del comune ma gestito dalla società Ferrovie del Mottarone, della famiglia Nerini. Ma sotto accusa, ancora una volta, finisce la manutenzione, affidata all' altoatesina Leitner, specializzata in tecnologie funiviarie a livello mondiale, e responsabile dei controlli straordinari, mentre la gestione ordinaria è in carico alla società locale. Si va a ritroso, per ricostruire la storia di una struttura inaugurata nel 1970 per sostituire il vecchio trenino. Bisognerà stabilire perché il cavo portante si sia staccato e perché la cabinovia sia stata sganciata dai due cavi rimasti integri, senza che intervenisse neppure l'impianto frenante. L' ultimo intervento era stato nel 2014, una profonda revisione. Tanto che, per due anni, l'impianto era rimasto chiuso. Un' altra lunga chiusura per manutenzione c' era stata alla fine degli anni 90. Nel luglio 2001 la funivia si era bloccata, in quel caso, nel primo tratto dopo la partenza da Stresa ed era stato necessario l'intervento dei soccorritori per portare in salvo una quarantina di turisti. Per questo gli impianti erano stati di nuovo controllati. Sostituzione dei motori, dei quadri elettrici, dell'apparato elettronico, dei trasformatori. L' ultimo intervento all' impianto era durato due anni e aveva comportato una profonda ristrutturazione della funivia. Era stata eseguita anche una magnetoscopia sulle funi, una sorta di esame ai raggi x per verificarne la tenuta. Le cabine erano state smontate, ricondizionate e rimontate con impianto acustico e videocamera di sorveglianza a bordo. I lavori di revisione tecnica dell'impianto erano costati 4 milioni e 400 mila euro, finanziati dalla Regione Piemonte, dal Comune di Stresa, e dalla società di gestione. La riapertura era avvenuta ad agosto del 2016, ma poi, tra ottobre-dicembre dello stesso anno, erano state anche rinnovate le stazioni di riferimento della funivia. Il presidente di Leitner, Anton Seeber, conferma: La revisione dell'intero impianto è stata realizzata nell' agosto del 2016. Ogni anno a novembre si sono succeduti con regolarità i controlli alle funi e sempre con esito positivo». Secondo il ministero per le Infrastrutture, che ha il compito di vigilanza sui trasporti, dopo la riapertura, nel 2016, i controlli sono stati ripetuti a luglio 2017 e, successivamente tra novembre e dicembre 2020, sono stati eseguite specifiche sui cavi. In particolare, controlli magnetoscopici sulle funi portanti, traenti e sulla fune di soccorso. Infine, a dicembre 2020, chiarisce il ministero, è stato effettuato, da una società specializzata, l'esame visivo delle funi tenditrici. Nel luglio del 2001 la cabina della funivia era ferma a 25 metri di altezza con 40 turisti a bordo. Un' improvvisa mancanza di tensione aveva provocato il brusco arresto dell'impianto: l'oscillazione della cabina, che saliva da Stresa alla stazione intermedia dell'Alpino, aveva causato l' accavallamento delle funi traente e portante. Di conseguenza si era bloccato il primo tronco dell'impianto tra Stresa e l' Alpino di Stresa. Per quattro ore erano rimasti sospesi nel vuoto. Alla fine passeggeri erano stati imbracati e calati a uno a uno con un verricello, attraverso un'apertura predisposta sul fondo della cabina passeggeri, intanto gli uomini del Soccorso alpino e dei vigili del fuoco tagliavano le piante del bosco sottostante per consentire l'atterraggio. Così nel 2002 la funivia era stata sottoposta a una revisione straordinaria eseguita dalla ditta Poma Italia (ora Agudio).

La tragedia della funivia: "Il controllo dei cavi nel 2020, dovevano durare altri otto anni". Diego Longhin su La Repubblica il 23 maggio 2021. La fune strappata, la cabina che non si blocca: le indagini della procura dovranno chiarire le cause della strage. “Revisioni fatte a cadenza regolare”, dice la società di gestione. Nel 2016 spesi più di 4 milioni per interventi straordinari. Perché quella fune si è strappata? Perché la cabina non è rimasta appesa al cavo portante? Perché è scivolata colpendo il primo pilone e scarrucolando nel vuoto a non più di cento metri dalla stazione di arrivo del secondo tronco della funivia Stresa-Mottarone, trascinando con sé la vita di tredici persone? A queste domande dovranno rispondere i tecnici che la procura di Verbania nominerà per chiarire cosa sia successo ieri alle 12.30 sull'impianto che si affaccia sul Lago Maggiore. "Le manutenzioni e i controlli sono stati effettuati regolarmente", dice il legale della società di gestione, Ferrovie del Mottarone che fa riferimento alla famiglia Nerini, l'avvocato Pasquale Pantano. E la Leitner di Vipiteno, società che si occupa della manutenzione, dice che "l'ultimo controllo magnetoscopico della fune è stato effettuato a novembre del 2020 e gli esiti dello stesso non hanno fatto emergere criticità". Un esame che sottopone i cavi a una sorta di raggi X per vedere le condizioni interne delle corde di acciaio che nel caso dell'impianto del Mottarone sono doppie: una traente, trascina su e giù la cabina, l'altra portante. La sostituzione dei cavi era prevista per il 2029, fra otto anni. "Sarà tutto oggetto di verifiche di carattere tecnico nei prossimi giorni", sottolinea Olimpia Bossi, procuratore della Repubblica a Verbania. "Stiamo facendo accertamenti e verifiche tecniche. È certo che la funivia avesse quasi terminano la sua corsa, elemento che aggiunge grandissima tristezza. Nella tragedia per fortuna la capienza delle cabine era limitata causa le norme anti-Covid", dice la pm. L'impianto è stato posto sotto sequestro, così come la documentazione tecnica e delle manutenzioni periodiche. L'ipotesi di reato, per ora senza nessun indagato, è omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. Si potrebbe profilare un altro reato: l'attentato alla sicurezza dei trasporti. È prevista la visita della Commissione istituita dal ministero dei Trasporti per verificare cosa sia successo. La funivia Stresa-Mottarone è di proprietà del Comune di Stresa, mentre prima del 2016 era di proprietà della Regione. Complesso che rientrava nei servizi di trasporto pubblico, al pari di un metrò, e non solo di quelli turistici. Collega la località del Lago Maggiore con le frazioni di Alpino e Gignese, sui monti. Trasporta circa 80-100 mila persone l'anno. Costruita nel 1967 e inaugurata nel 1970 per sostituire la vecchia ferrovia a cremagliera chiusa nel 1964. La sindaca di Stresa, Marcella Severino, sottolinea che il tecnico incaricato della manutenzione della funivia "ha detto che tutto era in ordine". Proprio sabato le ultime verifiche "i collaudi prima della riapertura". La sindaca conferma che "la fune è tranciata di netto". Quale la causa? C'è chi parla di un fulmine. La funivia aveva visto importanti interventi di manutenzione straordinaria negli anni. Resto basita". Ultime revisioni? Quelle più consistenti nel 2001, dopo un periodo di degrado che aveva portato alla chiusura, e poi nel maggio 2016, dopo due anni di stop. Intervento per adeguare i sistemi alle nuove norme con un investimento di 4,4 milioni. Diverse le opere realizzate, dalla sostituzione delle apparecchiature elettriche al rifacimento delle quattro cabine, dalla sostituzione dei trasformatori di alimentazione con un sistema ridondante, che permette l'esercizio in caso di guasto. Sostituiti anche i rulli di scorrimento sui piloni e le pulegge del sistema di soccorso. L'impianto è stato dotato pure di uno smorzatore delle oscillazioni per ridurre i rischi di accavallamento funi. Nel 2016 è stata fatta anche la magnetoscopia, l'esame ripetuto lo scorso anno senza risultati negativi. La presidente Anef, associazione di categoria delle imprese che gestiscono gli impianti di risalita è senza parole: "Sono gli impianti più sicuri al mondo - dice Valeria Ghezzi - gli ultimi incidenti in Italia, sul Cermis, risalgono al '76, per un errore umano, e al 1998, quando un caccia tranciò i cavi della struttura".

Dai controlli al cavo spezzato: gli enigmi della tragedia. Rosa Scognamiglio il 24 Maggio 2021 su Il Giornale. Cosa è successo sul Mottarone? Perché il cavo si è spezzato? Sono queste le domande a cui dovranno tentare di dare una risposta gli investigatori nelle prossime settimane. Perché si è spezzata la fune traente? Perché i freni di emergenza non hanno funzionato? Sono queste le domande a cui dovrà dare risposta il procuratore di Verbania, Olimpia Bossi, nel tentativo di far luce sul disastro del Mottarone: 14 persone sono morte e l'unico sopravvissuto, un bimbo di appena 6 anni, è rimasto gravemente ferito. Cosa è andato storto? Ma soprattutto, l'incidente si poteva evitare? Certo è che l'ipotesi di una "tragica fatilità" non è contemplata nel fascicolo delle indagini per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. Tante, troppe cose non tornano. Al punto che i magistrati potrebbero anche valutare il reato di attentato colposo alla sicurezza dei trasporti.

La maxi revisione del 2014 e i controlli. Chiusa per una revisione generale nel 2014, la funivia del Mottarone ha riaperto nel 2016, ben due anni dopo i lavori di manutenzione e ammodernamento affidati alla società Leitner. Il 13 agosto del 2016, per l'esattezza, c'è stata l'inaugurazione e, tra i mesi di ottobre e dicembre, si è provveduto a rinnovare anche le relative stazioni di riferimento della funivia. Ora, la prima domanda è: gli interventi sono stati realizzati tutti a regola d'arte? Per poterlo stabilire "bisognerà aver un quadro chiaro delle competenze", spiega il procuratore Olimpia Bossi al Corriere della Sera. Sì perché il "quadro delle competenze" non è ancora chiaro o, almeno, non del tutto. Per certo, non è stato ancora perfezionato "al momento" il passaggio di proprietà tra la Regione e il Comune di Stresa. E oltre al gestore del della funivia - le Ferrovie del Mottarone - ci sono la società che si è occupata dei lavori di ammodernamento, l'azienda che certifica annualmente la funzionalità della struttura e la ditta che provvede alla manutenzione ordinaria e straordinaria dell'impianto. Tutti, al momento, potrebbero essere coinvolti nelle indagini.

La cabina. I rottami della cabina, quel poco che avanza dopo lo schianto contro il pilone, sono sotto sequestro. I vigili del fuoco provvederanno a recuperare la carcassa di ferraglia per sottoporla all'attenzione degli investigatori e dei consulenti della procura. La speranza è che tra quei relitti emergano elementi utili alle indagini. "Qualunque ipotesi va valutata. - afferma Olimpia Bossi - Al momento, gli unici elementi che abbiamo sono la rottura del cavo trainante e il mancato funzionamento del freno sul cavo portante. Cercheremo di dare una risposta completa nel più breve tempo possibile".

I testimoni. I testimoni del disastro, già sentititi dai carabinieri, riferiscono di aver sentito "un forte rumore, come se un freno metallico stridesse sulla fune d’acciaio, quella portante sulla quale scorrono le ruote del carrello al quale è appesa la cabina". Qualcuno avrebbe notato del fumo, circostanza che proverebbe il mancato funzionamento dei freni. Allora, cosa non ha funzionato? "La cosa che mi ha turbato di più è il contrasto stridente nello scenario che mi si parava di fronte: da un lato la bellezza straordinaria del panorama e dall’altro la tragedia della morte - continua il procuratore - Probabilmente servirà molto tempo per arrivare a chiarire ogni aspetto della tragedia. I tecnici dovranno fare molti sopralluoghi nell’area dove è caduta la cabina, una zona molto impervia, e in tutte le strutture dell’impianto".

La nota di Leitner. Intanto, l'azienda altoatesina Leitner, responsabile della manutenzione dell'impianto funiviario Stresa-Mottarone, dopo la tragedia di ieri, si dichiara a disposizione della magistratura, precisando che "i controlli giornalieri e settimanali previsti dal regolamento d'esercizio e dal manuale di uso e manutenzione sono in carico al gestore". In una nota la società rende noto l'elenco dei controlli e delle manutenzioni degli ultimi mesi, "secondo le prescrizioni della normativa vigente, sulla base del contratto di manutenzione sottoscritto con la società di gestione Ferrovie del Mottarone". Il 3 maggio 2021 manutenzione e controllo delle centraline idrauliche di frenatura dei veicoli; i controlli non distruttivi su tutti i componenti meccanici di sicurezza dell'impianto previsti dalla revisione quinquennale, in scadenza ad agosto 2021 sono stati anticipati dal 29 marzo a 1° aprile 2021; il 18 marzo 2021 prove di funzionamento dell'intero sistema d'azionamento; il 4 e 5 marzo lubrificazione e controlli dei rulli e delle pulegge delle stazioni; il 1° dicembre 2020 'finti tagli' (prova che prevede una simulazione della rottura della fune traente e conseguente attivazione del freno d'emergenza); il 5 novembre 2020 controllo periodico magnetoinduttivo delle funi traenti e di tutte le funi dell'impianto con esito positivo.

Non ci abitueremo all'insicurezza. Vittorio Macioce il 24 Maggio 2021 su Il Giornale. È una domenica qualunque e nessuno immagina di viverla senza rete. Abituarsi alla paura è una follia. È che a volte ti sembra davvero difficile riuscire a calcolare il rischio. È una domenica qualunque e nessuno immagina di viverla senza rete. Abituarsi alla paura è una follia. È che a volte ti sembra davvero difficile riuscire a calcolare il rischio. Manca poco a mezzogiorno e appena 300 metri ti separano dalla stazione di arrivo. Il Mottarone è lì, bello e maestoso, come un principe in mezzo ai laghi. Non ci pensi mai a quello che può accadere. Stresa è villeggiatura e sa di Grand Tour e di ville ottocentesche. È una striscia sul golfo del lago Maggiore e guarda le isole Borromee, la più grande si chiama Madre. Stresa è l'inizio di un viaggio che ti porta su, fino alla vetta del monte. Qui fino al 1970 c'era una vecchia ferrovia con i vagoni che andavano a elettricità e ondeggiavano lenti e incerti. Poi venne la funivia e non c'era da avere paura. Nel 2014 sono cominciati i lavori di manutenzione. Le cose invecchiano ed è meglio tenerle a bada. Curarle. Sostituzione dei motori, quadri elettrici, trasformatori e magnetoscopia sulle funi, una sorta di esame a raggi x per verificarne la tenuta. Le cabine erano state smontate, ricondizionate e rimontate con impianto acustico e videocamera di sorveglianza a bordo. I lavori sono costati 4 milioni e 400 mila euro, finanziati dalla Regione Piemonte, dal Comune di Stresa, e dalla società di gestione. Nel 2016 si ricomincia. Tutto a posto. Non c'è appunto da avere paura. A dicembre 2020 altri controlli sulle funi. La funivia funziona tutti i giorni dell'anno. Non è stagionale, non è solo turistica. È quotidiana. È come prendere il treno, l'autostrada, il viadotto. È qualcosa che fai senza interrogarti troppo. Se poi è festa ti viene solo da lasciarti alle spalle le fatiche della settimana. Cosa può accadere? «Gli impianti a fune- dicono i tecnici- sono tra i mezzi di trasporto più sicuri in assoluto». La paura forse è proprio questo: percepire il rischio lì dove non te lo aspetti. È domenica e ti viene voglia di respirare. Ti chiedi se pure quassù bisogna tenere la mascherina. È chiaro che sì. Non si sa mai. Che ti costa essere prudente? Fa sempre un po' impressione guardare giù, ma le funivie non sono mica una magia. È tutto pensato. È tecnica. È calcoli. È ingegneria. La cabina non è neppure piena. C'è spazio e si può stare lontani un metro uno dall'altro. La capienza massima è quaranta persone. Si è di meno, in quindici. Ci sono anche due bambini. Poi tutto viene giù. È un sibilo che sembra un urlo. Viene giù quello che è stato costruito per stare su. Viene giù la vita, si spezza il destino, si schianta la cabina con a bordo i passeggeri che hanno preso il biglietto sbagliato e i morti sono quattordici. Un bambino, due anni, non ce l'ha fatta. Il cuore ha ceduto. L'altro, ancora più piccolo, è molto grave. Che è successo? Un cavo, proprio nel punto più alto, si è staccato e non ha funzionato neppure il sistema di sicurezza che avrebbe dovuto impedire comunque alla cabina di finire a terra. No, non sono due fatalità. Non puoi maledire il cielo. È che i meccanismi che dovevano salvare le vite non hanno funzionato. È il segno, tragico, di una sciatteria. Il gestore della funivia è frastornato: «Noi le manutenzioni le abbiamo fatte». Allora ti chiedi: perché? Perché una gita, una vacanza, una villeggiatura, finisce in questo modo? Perché ora la «normalità» ti fa paura? La risposta la darà chi la deve dare. Ci sarà un processo e probabilmente sarà lungo. I controlli, ripetono, ci sono stati. Ora bisogna capire come sono stati fatti. Quello di cui si può parlare adesso è un'inquietudine che si ripete. È la stessa di quando è crollato il ponte Morandi. C'è qualcosa in questa terra che si è perso. È la cura. È lo scrupolo. Non è il momento questo di puntare l'indice, però il sospetto che qualcosa nelle manutenzioni non sia così accurato si fa forte. Non è una garanzia. È come se in molti, moltissimi, lavori si fosse perso quel senso del dovere, quell'attenzione, perfino quel pessimismo che ti fa pensare al peggio e ti suggerisce di non lasciare nulla alla fortuna. Forse in pochi fanno troppe cose o magari si è troppo distratti, tra telefonate, mille video da vedere, stanchezza, mancanza di concentrazione o menefreghismo, fatto sta che troppo spesso si lavora male. Il lavoro è irresponsabile e non ti salva la vita. Non ti fidi più, di nulla. Non ti fidi della solita strada e ancora di meno di quella che non conosci. Non ti fidi di quello che vedi e di quello che non vedi, il tangibile e l'invisibile. Non ci fai pace, non te lo spieghi. Da ogni parte non fanno che parlare di sicurezza. È la parola evocata e sbandierata, eppure non ci siamo mai sentiti così insicuri. Scettici e sfiduciati e come compagna di viaggio la solita paura. Tutti andiamo in giro con le spalle scoperte.

Quelle famiglie in gita sul Lago Maggiore per respirare la libertà. di Federica Cravero,  Lucia Landoni su La Repubblica il 23 maggio 2021. Cinque i gruppi saliti sulla cabina della funivia precipitata, di cui due coppie con figli piccoli. Erano arrivati da Varese, Piacenza, Verbania, Pavia. Ecco le loro storie. I genitori e il fratello di Silvia escono dalla caserma dei carabinieri di Stresa con lo sguardo perso nel vuoto. "Si era appena laureata, era andata a fare una gita con il fidanzato. Noi abbiamo saputo dello schianto leggendo i siti internet", raccontano scossi. In caserma hanno avuto la conferma del sospetto che hanno cercato di allontanare per ore, nonostante fosse impossibile raggiungere al telefono i due fidanzati, nonostante ovunque risuonassero le notizie della tragedia. Silvia Malnati aveva 26 anni, Alessandro Merlo 29. Entrambi abitavano a Varese. "Qualunque cosa tu possa fare, qualunque sogno tu possa sognare, comincia", aveva scritto Silvia citando Goethe sui social quando il 23 marzo si era laureata in Economia e management, momento immortalato dalla corona d'alloro e il sorriso di una nuova fase della vita che inizia. Per il momento era contenta di aver trovato lavoro, impiegata da poco alla profumeria Kiko a Milano.

La ragazza di Diamante e il fidanzato iraniano. Diamante è lontana più di mille chilometri dal Mottarone. Mille chilometri che adesso ripercorreranno le salme di Serena Costantino, 27 anni, e del fidanzato iraniano Mohammadreza Shahaisavandi di 23. Entrambi erano residenti nella località calabra ma vivevano fuori. Lei si era trasferita da poco a Verbania, dopo aver vinto il 15 marzo una borsa di ricerca con il Cnr e l'Istituto di ricerca sulle acque, dopo aver studiato alla Sapienza a Roma. Aveva appena disfatto le valigie e si stava abituando alla nuova vita, mentre nella capitale viveva ancora il fidanzato, che studia all'università e si paga gli studi lavorando in un bar. Ma si erano rivisti per il fine settimana per colmare la distanza che li separava. Ora alle autorità spetterà il difficile compito di avvertire la famiglia del ragazzo, che vive ancora in Iran. Mentre in Calabria il lutto ha toccato l'intera regione e le condoglianze sono arrivate anche dal presidente Giovanni Arruzzolo: "Siamo sgomenti".

Angelo e il regalo di compleanno a Roberta. Quarant'anni, una data da ricordare con una bella gita su quella funivia che dall'isola Bella sale fino alla cima del Mottarone. Aveva preparato tutto per festeggiare in vetta, proprio il giorno del suo compleanno, Roberta Pistolato con il marito Angelo Vito Gasparro, di cinque anni più grande di lei. Erano partiti dall'Emilia, due giorni di svago. Lo raccontavano a tutti: l'ultimo messaggio alla sorella, che vive in Puglia, alle 11 del mattino: "Stiamo salendo in funivia". Erano cresciuti entrambi a Bari e da qualche anno si erano trasferiti a Castel San Giovanni, provincia di Piacenza. Lui guardia giurata, lei medico: negli ultimi tempi si era impegnata nella campagna vaccinale anti-Covid, sia negli hub che a domicilio per raggiungere i pazienti fragili e anziani. Per questo in tanti hanno voluto ricordarla, non appena la notizia ha raggiunto gli ambienti sanitari in cui si era inserita: "Era una professionista disponibile e cordiale che ha sempre dimostrato spirito di servizio", scrive l'Ausl di Piacenza.

Vittorio, Elisabetta e il piccolo Mattia. "Una tragedia immane, da cui come vedanesi siamo ancora più toccati perché ha devastato un'intera famiglia della nostra comunità". Così Cristiano Citterio, il sindaco di Vedano Olona (nel Varesotto), commenta il crollo della cabina della funivia sul Mottarone in cui hanno perso la vita tre suoi concittadini. Tra le vittime ci sono il 54enne Vittorio Zorloni, la moglie Elisabetta Persanini (38 anni) e il figlio Mattia ( 5 anni). "Sono in contatto con i carabinieri e sto aspettando ulteriori aggiornamenti. Al momento so solo che Vittorio era partito per una gita con la famiglia, come tantissimi altri italiani avranno fatto in questa domenica di libertà dopo i lunghi periodi di lockdown - continua il primo cittadino - I parenti sono già partiti per andare sul posto ed effettuare il riconoscimento delle salme. Tutta la comunità vedanese si stringe intorno a loro in questo momento di terribile dolore".

Il destino di Amit e Tal via da Israele col sogno di dimenticare i razzi. Erano appena rientrati da Israele, dalla guerra, dai razzi e dai lutti senza fine. Anche se il cuore e la testa di Amit erano sempre là, su quel conflitto che ha anche riempito gli ultimi post del suo profilo Facebook. Hanno trovato la morte in una giornata di sole, durante «una gita in montagna che — racconta Milo Hasbani il presidente della comunità ebraica di Milano — avrebbe dovuto restituire a tutti un po’ di spensieratezza». Un’intera famiglia annientata: Amit Biran, 30 anni, che si era trasferito a Pavia nel 2018 per studiare Medicina, la moglie, Tal Peleg, di 27, e Tom, il figlio più piccolo di appena due anni, che era nato proprio in Italia, nella città che la coppia aveva scelto per vivere. Con loro, anche due parenti venuti da Israele a trovarli. L’unico sopravvissuto, il bambino più grande di cinque anni. Che sta ancora lottando. Quando è arrivato, in condizioni molto gravi, all’ospedale infantile Regina Margherita di Torino, dicono i medici, piangeva disperato e continua a ripetere solo: "Lasciatemi stare, lasciatemi stare". Nella tragedia sono morti anche i suoi bisnonni Itshak Cohen, 82 anni, e la moglie Barbara Cohen Konisky, 70 anni.

Funivia Stresa Mottarone, ecco perché è la strage di chi era tornato a vivere. Renato Farina su Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. Da dove cominciare il racconto dei nostri quattordici morti di Pentecoste, accartocciati nella funivia che collega Stresa alla cima del Mottarone, provincia di Cuvio-Verbania? Non dall'orrore di quei cadaveri raccolti dai vigili del fuoco e dagli uomini del soccorso alpino, che le immagini raffigurano straziati e immobili, con le braccia aperte dalla costernazione. È più umano partire dagli ultimi istanti di vita, pensiamo sia giusto per loro, si capirà che non volevano brividi di avventura, ma la quiete di una bellezza gustata insieme, senza timore di stringersi un po', nel vero primo giorno della liberazione, una sorta di seconda nascita. Viene in mente il racconto di Hemingway: «Breve la vita felice di Francis Macomber». La funivia e il panorama del Lago Maggiore Quindici facce allegre nel giorno di festa, guardavano salendo in cielo il più bel panorama del mondo, mentre il sole brillava (occhi su). Sotto di loro le isole Borromee, quella è l'Isola Bella, quell'altra è quella dei Pescatori (occhi giù), gocce di smeraldo nell'azzurro del lago Maggiore, eccetera. E poi Il contrasto tra la luce e le tenebre non potrebbe essere più netta. Non è una memoria di viaggio questa, ma la cronaca di uno schianto in un giorno entusiasta, nell'ora culminate. Ore 12, ci sono le borse per il picnic, gli zainetti tra i piedi, il cellulare zigzaga. Mancano trecento metri alla stazione di arrivo. Poi chi vorrà potrà prendersi anche la seggiovia, per l'ultimo tratto, ma non esageriamo, il resto sul sentiero e il prato. Il Mottarone che vuol dire Monte Rotondo non ha asprezze, è un balcone che ha la dolcezza di una veranda sul giardino. Pazienza che si arriva, o forse si vorrebbe durasse tutta la vita questo navigare nell'infinito, dove l'aria somiglia alle acque materne della pace. Pace? Un istante e lo strappo secco del tirante, il precipizio. Sembrava così leggera quella scatola colorata, così bella la vita. Tutto vero, resta vero, ma oggi è più vera la morte di quattordici persone come noi, che finalmente respiravano l'idea che si vive di nuovo. Due bambini, pare di cinque e nove anni, sono stati trasportati all'ospedale di Torino: uno purtroppo non ce l'ha fatta, l'altro lotta per vivere. Chi era con lui, madre, padre, zio, non è lì accanto a vegliare, l'urto tremendo da cui è sopravvissuto lo ha reso orfano. Si sono messi in fila verso le dodici e trenta. Chi vive in Lombardia e Piemonte lo sa (ma forse lo sanno dovunque nel mondo) prima di partire da Stresa per il panorama forse più bello del mondo, si parte per una gita che conduce allo spettacolo dei fiori sul lago Maggiore. Non ne esistono di paragonabili sotto le Alpi. Quelli di Villa Taranto a Pallanza, poi dieci minuti di auto, ed a Stresa il giardino botanico Alpinia. Piante rare, colori più seducenti che i pesci del Mar Rosso. Ma i bambini puntano al trasbordo sulla scopa volante. Non solo a loro, ma a tutti i passeggeri, quando si sono aperte le porte della cabina bianca e rossa della funivia che porta da Stresa al Mottarone sembrava di aver scassinato per sempre il carcere del lockdown e via, e su, ad ammirare la chiostra alpina e i laghi, infine sedersi sull'erba, godersi il panino e ad est il Maggiore a ovest quello di Orta. Prima però venti minuti di trasvolo sognante, era la promessa. Quante precauzioni anche ieri, per salire in funivia. L'addetto faceva in modo che la naturale tendenza a tamponarsi nelle code onde far prima non accorciasse le distanze sociali. La trafila consueta, in questo caso era piacevole persino vedersi puntare quella quella pistola di plastica sulla fronte per misurare la febbre. Trentasei e tre, va bene. Va bene un cavolo, se eravamo tutti trentotto la si scampava. La capienza del vagoncino è stata per sicurezza (che ironia) ridotta alla metà dei posti standard, onde non respirarsi addosso microbi malvagi. Paradosso: quei quindici-venti che non sono saliti per le norme anti pandemia, sono gli unici a cui il Covid ha salvato la vita. Questa Pentecoste è speciale, occasione di purificazione della mente e dei polmoni dopo gli incubi del confinamento. Dal 19 maggio i turisti possono riattraversare i valichi delle Alpi, affacciarsi al nostro sole. La prima gita, con il fruscio dei cavi, con la lieve danza da trapezisti causa il vento, sospesi senza rete ma prudenti, navigando sopra i boschi, un po' astronavi od ospiti di una mongolfiera, senza rombi di motori, ma il vociare multilingue. Fantastico. Ci si appaia al falco pellegrino, non però come quei matti in deltaplano o parapendio, ma saldi e attaccati alla potente tecnologia, revisionata, radiografata dalla ditta sudtirolese, il massimo. Ora, con i corpi negli obitori, apprendiamo che negli anni '60 il vecchio trenino a cremagliera che faceva tanto bella époque era stato sostituito da una funivia d'avanguardia. Questa. Nel 2014 era stata ristrutturata, in grado di sopportare ogni possibile tremendo collaudo ed eventualità apocalittica, non certo come i tunnel e i viadotti abbandonati all'incuria. Due anni di lavoro ed eccola ringiovanita come un'aquila dalle penne nel fiore degli anni. La ripresa dei viaggi il 25 aprile dopo la sosta. E ieri il giorno del gran pavese di un ritrovato orgoglio. E quattordici morti. Come siamo fragili, non sarà fatalità, tutto ha una causa, e ci sono colpe senz' altro. Ex post il senno esce dal torpore consueto, forse già domani apparirà il titolo coniato dai plagiatori perenni di Garcia Marquez: «Cronaca di una tragedia annunciata». Come no? Troveremo gli appositi Benetton anche stavolta, ci sono sempre dei Benetton da accusare, da stanare come profittatori, salteranno fuori perizie devastanti o e inascoltate come per i tiranti del Ponte Morandi, e tutto va bene, e la magistratura c'è apposta, e pure le commissioni già nominate dal ministro che nel 2018 era Toninelli e oggi Giovannini. Bisogna. Ovvio. Tutto ciò è necessario perché non si ripetano altre sciagure, e lo si diceva già al tempo del Titanic, ma resta questa tragedia dell'umanità: che per dolo, negligenza, cedimento strutturale inspiegabile, o mancanza ingiustificabile, comunque sia, in questi secondi infiniti ed eterni quei nostri fratelli non hanno avuto tempo di esaminare la scatola nera della funivia, ma neppure quella della loro vita, che in quei brevi minuti era stata così felice.

Gian Antonio Stella per il "Corriere della Sera” il 24 maggio 2021. Il destino? Mah... Troppo facile, in casi come questi, parlare di una tragica fatalità. Troppe volte queste parole sono state usate per spiegare sciagure che poi, con gli approfondimenti delle indagini e l'emergere di dettagli al momento ignoti, si sarebbero rivelate come causate da responsabilità umane. Certo è che il disastro della cabina della funivia del Mottarone inghiottita ieri mattina dall' abisso ha colpito gli italiani come una coltellata a tradimento. Erano otto mesi che le persone aspettavano finalmente di uscire dall' incubo della pandemia, dei centomila morti della seconda ondata del virus, della scuola a singhiozzo coi ragazzi inchiodati alla Didattica a distanza vissuta come forzati ai remi delle galee, delle saracinesche abbassate, del tormentone dei vaccini e pareva che potessimo infine, davvero, tirare un sospiro di sollievo. E quello doveva essere lo spirito con cui le famiglie annientate dalla tragedia avevano raggiunto ieri mattina Stresa, sul Lago Maggiore, per salire con la funivia in cima al Mottarone, da quasi un secolo e mezzo una delle mete più amate dai milanesi, e spaziare con lo sguardo intorno dal Monte Rosa ai sette laghi fino ad aguzzar la vista verso la piana dove, nelle giornate più limpide, dicono si intravveda il Po. Finalmente una gita. Finalmente un cielo senza nuvoloni, né atmosferici né metaforici. Finalmente, tra qualche incertezza, il sole. La partenza. Le risate dei bambini. La fretta di arrivare lassù. Poi possiamo solo immaginare. Un sussulto. Uno schiocco. Il respiro fermato. La scudisciata del cavo spezzato. Il precipizio. Il vuoto. Pochi istanti ed è tutto finito. Laggiù, fra gli alberi. Centinaia di metri più sotto. Dove alle due del pomeriggio i vigili del fuoco arrivati tra mille difficoltà sul posto scattano la prima fotografia. Con il sole che batte sulla carcassa rossa e bianca della cabina riversa tra gli alberi. E restiamo tutti lì, appesi all' interrogativo: cosa è successo? Quella volta del Cermis, nel '98, venti morti, si seppe: un aereo dei marines della base americana di Aviano, che volava troppo basso, aveva tranciato un cavo della funivia. E così quindici anni fa, quando un elicottero che portava in alta quota sulle Alpi tirolesi una trave di cemento ai confini tra l'Austria e l'Italia dove era stato ritrovato Ötzi, la celebre Mummia del Similaun ora esposta a Bolzano, perse il carico piombando sulla funivia che solcava il ghiacciaio uccidendo nove persone tra le quali tre bambini. Orrori inaccettabili. Ma era comunque meglio sapere chi portava la responsabilità dei lutti. Oggi? Pochi anni fa, forse, la colpa sarebbe stata scaricata subito sulla cattiva manutenzione. Basti rileggere qualche messaggio, d' entusiasmo e inquietudine, su TripAdvisor: «Conosco il Mottarone da quando ero bambina e ci andavo a sciare con la mia famiglia... Il posto è veramente bello con vista sui laghi della zona... Ho saputo che probabilmente quest' anno verranno fatte delle opere di ristrutturazione dell'impianto che effettivamente è vecchiotto e non genera fiducia...». Dal 2014 al 2016, però, la revisione straordinaria finanziata dalla Regione Piemonte, dal Comune di Stresa, dalla società Funivia del Mottarone, risulta essere stata fatta. E affidata alla Leitner, la società di Vipiteno che, fondata alla fine dell'800 per costruire macchine agricole, è diventata via via la prima al mondo nelle tecnologie invernali e sugli impianti a fune di ogni genere. Ne ha costruiti dodicimila, sparsi per il pianeta. Dalle montagne di tutti i continenti alle «metro» volanti tra i grattacieli di Hong Kong o la Paz, New York o Mexico Ciudad. L' accertamento di una qualche responsabilità nel caso di ieri sul Mottarone, per quanto l'impianto sopra Stresa fosse stato costruito cinquant' anni fa con un progetto oggi probabilmente improponibile per sostituire l'antico trenino a cremagliera, potrebbe avere effetti pesanti su una delle realtà fino a ieri considerata un gioiello dell'imprenditoria italiana. Mai come oggi, insomma, è indispensabile arrivare quanto prima a capire bene cosa è successo. E quali sono eventuali colpe e colpevoli. Non ci possiamo permettere in un momento così, in cui questa tragedia pugnala un Paese che tenta di ripartire e riacquistare fiducia, che un'altra inchiesta evapori in nuvolaglie di perizie, controperizie, ricorsi, controricorsi... Quelle famiglie tradite da una fune che non si doveva rompere hanno diritto ad avere giustizia. E troppe volte altre famiglie non l'hanno avuta.

«Un forte sibilo poi lo schianto» Ormai la cabina era quasi in vetta. Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 24 maggio 2021. «Otto, dieci secondi al massimo». Matteo, uno degli uomini del Soccorso alpino, guarda in alto verso la stazione d' arrivo della funivia e prova a immaginare il tempo che ci è voluto per precipitare da lì al punto in cui si trova lui, davanti alla cabina accartocciata. «Dieci secondi al massimo», appunto. Un tempo infinito se sei intrappolato in una scatola a venti metri d' altezza e stai scivolando in giù veloce, sempre più veloce. Dieci secondi per capire che non c' è salvezza, per vedere la morte avvicinarsi, per pregare, forse; certamente per urlare. Poi il tonfo, il silenzio, e un uomo che chiama i soccorsi così scioccato da quella scena da non riuscire quasi a parlare. «È precipitata, la cabina è precipitata», dice la sua voce quando trova la via per uscire. Provano a calmarlo ma lui ha visto quella cabina indietreggiare, balbetta, trema. È andata così, ieri a Stresa. L' allarme di quell' uomo - che aspettava l'attracco della funivia su, al Mottarone - è stato l'inizio di una giornata drammatica. La notizia fa il giro del mondo in pochi minuti: è venuta giù una cabina della funivia che parte dalla sponda piemontese del Lago Maggiore per raggiungere proprio il panoramico Mottarone, a 1.500 metri di quota. A bordo c' erano quindici persone (un numero ridotto in osservazione delle norme anticovid) e se n' è salvata soltanto una, un bambino che i medici del Regina Margherita di Torino stanno cercando di strappare alla morte. Weekend da zona gialla, sole, temperatura perfetta e impianto funzionante. Coppie e famigliole con bambini salgono a bordo per raggiungere il Mottarone che da queste parti è una località star per i turisti. Boschi, passeggiate, rifugi dove pranzare e il lago sullo sfondo per mille fotografie. È più o meno mezzogiorno. La cabina sale lenta, come sempre. Sobbalza un po' a ogni pilone, com' è normale. Sembra di vederli, tutti, con gli occhi incollati ai finestrini a guardare il panorama lontano o il fitto bosco di abeti e larici al di sotto. Ci sono tre bambini, in quella piccola folla. Due sono nati nel 2015, l'altro invece ha due anni. I dodici adulti sono in gran parte italiani o residenti in Italia, qualcuno è di nazionalità israeliana e uno iraniano. C' è divertimento, nell' aria, leggerezza. Si passa l'ultimo pilone, ancora pochi istanti e ci siamo. La cabina sta per arrivare alla meta. Mancano pochissimi metri all' attracco quando succede qualcosa. La fune «traente» si spezza e l'uomo che lavora per la funivia e che sta aspettando gli ospiti a monte vede la cabina tornare indietro, giù. Il cavo, spezzandosi, quasi lo colpisce. Quella scatola volante e il suo carico umano scivolano indietro veloci. In una eventualità del genere i freni di emergenza dovrebbero entrare in funzione e tenere fermo l'abitacolo in attesa dei soccorsi ma non succede niente di tutto questo. La cabina scende all' indietro e torna verso l'ultimo pilone appena superato in salita. È la fine. Arrivando in quel punto la parte che fa da gancio scarrucola e precipita sulla «pista» degli alberi tagliati che segna l'intero percorso del viaggio Stresa-Mottarone. Quando tocca il suolo la cabina crea una specie di cratere, «come se fosse scoppiata una bomba», per dirla con le parole di chi ha visto la scena. Ma non è ancora finita. La pendenza è così elevata che quelle lamiere ormai accartocciate rotolano più in giù di altre decine di metri fino a fermarsi contro gli alberi. Quando i primi soccorritori arrivano sul posto trovano soltanto cinque persone ancora dentro la cabina, tutte morte, fra loro un bambino. È la vittima più piccola, si chiamava Tom, aveva due anni. Gli altri sono stati sbalzati fuori dalla violenza dello schianto, alcuni a 30-40 metri di distanza. Tutt' attorno, per un raggio di decine e decine di metri, sono disseminati zainetti, borse, pezzi di vestiti, occhiali, telefonini, scarpe...Si sente soltanto un vento leggero e caldo che arriva dalla valle, nessun rumore a parte i passi e il vociare degli uomini che cercano di capire se qualcuno è ancora vivo. Lo sono i due bimbetti di cinque anni. Li portano via con l'elicottero, le condizioni di uno dei due, Mattia, sono disperate, gli restano poche ore di respiro prima che il suo cuore si arrenda, al Regina Margherita di Torino. L' altro piccolino, Eitan, è israeliano ed è l'unico sopravvissuto di questa storia nera. Agli uomini del Soccorso alpino, ai vigili del fuoco, agli operatori del 118, ai carabinieri e tutti gli altri arrivati davanti alla cabina, tocca fare i conti con uno scenario di morte che non dimenticheranno mai più. Quel che resta di quella gente è coperto dai teli di alluminio usati per il soccorso in montagna. Vicino alle lamiere accartocciate della cabina c' è - in parte attorcigliato - il cavo che ha ceduto. «Un solo cavo è tranciato, gli altri sono intatti» dice il tenente colonnello Giorgio Santacroce, comandante del Nucleo operativo dei carabinieri di Verbania. Se a spezzarsi fosse stata una fune portante ci sarebbe stata l'altra in grado di tenere il peso della funivia e consentire il salvataggio. Ma - dicono gli esperti - quando a rompersi è il cavo di trazione la sola salvezza può arrivare dai freni che, evidentemente, ieri non hanno funzionato come avrebbero dovuto. Già da ieri sera è al lavoro una Commissione ispettiva voluta dal ministero delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili per individuare le «cause tecniche e organizzative» dell'incidente. E mentre la procura apre un fascicolo penale con le prime ipotesti di reato (cioè omicidio colposo plurimo e lesioni colpose), i gestori della funivia fanno sapere attraverso l'avvocato Pasquale Pantano che «controlli, verifiche e manutenzione sono tutti a posto. Quel che è accaduto è tutto da verificare». È sempre il ministero delle Infrastrutture a dare qualche dato sui controlli fin qui sostenuti dall' impianto: la revisione generale è avvenuta - dicono - nell' agosto del 2016, i controlli sono proseguiti a luglio del 2017 e poi ancora fra novembre e dicembre del 2020. In particolare a novembre del 2020 sono stati eseguiti accertamenti tecnici sulle funi portanti, su quelle traenti e sulla fune di soccorso. Eppure niente di tutto questo ha potuto scongiurare il dramma di ieri. Marcella Severino, sindaca di Stresa, ha passato il pomeriggio su, in cima al Mottarone, sul luogo della tragedia. Riferisce di aver visto «un cavo tranciato di netto», e dice che alcuni testimoni hanno raccontato «di un forte sibilo prima di vedere la cabina retrocedere velocemente per poi essere sbalzata via al momento dello schianto contro il pilone». Quando è stato il momento di fare la conta dei morti, quando si è saputo che anche uno dei bambini portati in ospedale non era sopravvissuto e proprio mentre le passava davanti il primo carro funebre, la sindaca è scoppiata a piangere pensando proprio a loro, a quei bimbetti perduti nella sua terra, nel suo pomeriggio di sole. «È una scena devastante» ha provato a descrivere quel che ha visto. «È un brutto momento per me, per la nostra comunità e per tutt' Italia». Mentre le vite di 14 persone finivano, sulla funivia Stresa-Mottarone era in viaggio anche una cabina in senso opposto rispetto a quella caduta. Anche in questo caso era quasi arrivata alla meta (cioè alla stazione intermedia dell'Alpino). Ma scoppiato l'allarme tutto si è bloccato e le persone a bordo non hanno potuto raggiungere il punto della normale discesa, sono state fatte calare a terra con delle corde. Come sempre accade in tragedie come queste, il caso può fare la differenza fra la vita e la morte. «Quando ho sentito la notizia della funivia mi si è gelato il sangue: in quella cabina potevamo esserci io e il mio bambino di sei anni», racconta Dario Prezioso all' agenzia di stampa Adnkronos. «Avevo deciso di portare il mio bambino ad Alpiland dove c' è una pista di bob ma la cabina che si è schiantata era già al completo e quindi ci siamo fermati in attesa di quella successiva, mai presa». Le persone che sono morte lui le ha viste davanti alla biglietteria, ha scambiato due parole... «Mentre nell' attesa stavo spiegando a mio figlio come funziona la funivia ho sentito un colpo e ho visto un cavo cadere e la cabina che stava scendendo si è immediatamente bloccata». Pochi minuti dopo avrebbe saputo: lui e suo figlio salvi per le norme anticovid che prevedono un numero limitato di passeggeri a bordo. Matteo, il soccorritore del Soccorso Alpino che ha immaginato gli ultimi dieci secondi di tutte quelle persone morte, dice che «io faccio questo mestiere da 22 anni. Per me è lavoro, lo so. C' è la lucidità e l'intervento, prima di tutto. Ma ci sono storie e scene che ti porti a casa, poi. Ci sono immagini che rivedrò a lungo la sera, prima di addormentarmi. Quei corpi straziati coperti dai teli di alluminio non li dimenticherò. Non scorderò la manina del bimbo senza più vita».

Giacomo Nicola per "il Messaggero" il 24 maggio 2021. «La cabina non c' era più. Era come se fosse esplosa una bomba. Tutti i passeggeri erano stati sbalzati fuori. Li abbiamo dovuti cercare uno a uno in mezzo al bosco. Non sapevamo chi era vivo e chi no. È stata una scena terribile, che non dimenticherò». Matteo Gasparini è il responsabile del Corpo Nazionale Soccorso Alpino per il Verbano-Cusio-Ossola (la provincia del Lago Maggiore, in Piemonte). Quando parla al telefono è ancora sotto choc. «È stato un disastro, un terribile disastro». E spiega: «Siamo intervenuti con una trentina di volontari, insieme ai Vigili del Fuoco, alla Protezione Civile e ai Carabinieri. La zona non è particolarmente impervia, una strada sterrata ci ha permesso di arrivare rapidamente sul posto». Le prime notizie facevano pensare che la cabina fosse precipitata da un' altezza di oltre 50 metri, ma in realtà non era così. «È caduta da una ventina di metri di altezza, non di più. Poi però è rotolata giù per il pendio, e si è letteralmente disintegrata. Ci siamo trovati davanti a una scena apocalittica». «Non abbiamo trovato nessuno dentro, perché non c' era più un dentro. Cinque corpi erano accanto ai resti della cabina, e li abbiamo trovati subito. Gli altri erano finiti più lontano, nella vegetazione, e li abbiamo dovute cercare. Il bilancio definitivo è di 13 morti, gli unici due sopravvissuti sono i bambini trasportati dall' elisoccorso a Torino (uno morirà in serata, ndr). Erano quasi tutti turisti». Le squadre di soccorso sono arrivate ieri mattina poco l' allarme. C' è voluto tempo per individuare il punto in cui è caduta, perché la zona sottostante è impervia. Le squadre del Soccorso Alpino e Speleologico sono state al lavoro tutto il giorno insieme ai vigili del fuoco e ai carabinieri. Nella salita verso il Mottarone un camion dei pompieri si è ribaltato, ma nessuno fra i soccorritori si sarebbe fatto male. Chiuse le strade che portano in vetta. «Si sono alternati tre elicotteri per portare via le vittime - racconta ancora Gasparini -. Ogni volta speravamo di trovare qualcuno ancora vivo. In tutta la mia vita non mi sono mai trovato davanti uno scenario simile. Per la nostra zona è una tragedia senza precedenti. Non è certo una giornata che potrò dimenticare. Tutte quelle famiglie e i bambini». In vetta si è lavorato contro il tempo in un' atmosfera surreale con il rumore delle sirene dei mezzi dei vigili del fuoco e le pale degli elicotteri. I primi ad arrivare sul posto dalle 12.30 sono stati i pompieri e il personale del Soccorso alpino che si sono trovati di fronte subito uno scenario straziante. Durante le operazioni di recupero alcune vittime erano ancora vive, ma nonostante la corsa contro il tempo, sono morti poco dopo, allungando inesorabilmente la lista dei morti.

Funivia Mottarone, il capo dei soccorritori: “C’erano cadaveri nel raggio di 30 metri”. Alessandra Tropiano il 24/05/2021 su Notizie.it.  Funivia Stresa Mottarone, il capo dei soccorritori sotto shock: "Una scena del genere non era immaginabile". Una domenica di primavera trasformata in tragedia. Dopo l’incidente della funivia tra Stresa e Mottarone, arrivano le prime testimonianze di chi è intervenuto sul luogo dell’incidente.

Funivia Mottarone, parla il capo dei soccorritori. “Una scena del genere non era immaginabile” sono le parole di Matteo Gasparini, capo del soccorso Alpino di Verbania Val d’Ossola. Intervenuto sul luogo dell’incidente, è rimasto sconvolto dallo scenario che ha trovato, mai visto in oltre 20 anni di esperienza in interventi in luoghi di montagna. “Nulla del genere avevo mai visto” ha raccontato Matteo Gasparini a Leggo. “Mi aspettavo di arrivare e vedere la cabina con i corpi all’interno. Invece quando sono giunto sulla scarpata nel bosco, mi sono visto davanti agli occhi la funivia esplosa e le vittime erano sparse nel raggio di 30 metri -racconta-.

Una scena bruttissima: vedere le vittime in queste condizioni è stato veramente uno shock”. Il racconto di Gasparini a Leggo continua: “Gli elicotteri del 118 intervenuti stavano già portando via i due piccoli: abbiamo parlato con i medici che li avevano stabilizzati, ma le loro condizioni si è capito subito fossero molto gravi”. Gli altri passeggeri della funivia, invece, non ce l’hanno fatta. “Il medico che era arrivato sul posto con l’elicottero da Torino ci ha subito detto che tutte le altre persone che erano nella cabina erano purtroppo morte -racconta Gasparini-.

C’erano rottami dovunque, gli effetti personali erano sparsi in mezzo alla scarpata e nel bosco. Non è stato facile…”. Tra il dolore e lo sconforto, si cerca di fare chiarezza sulle cause della caduta della cabina. “Due cose sicuramente sono accadute: il cavo si è staccato e il freno di emergenza in salita non è intervenuto -spiega Gasparini-. Così la cabina è scivolata all’indietro fino a schiantarsi contro il pilone e precipitare nel vuoto. Pochi dubbi su questo. Ora spetterà ai giudici fare chiarezza”. E proprio Matteo Gasparini è stato spesso passeggero di quella che si è trasformata nella funivia della morte. “Faccio bici e parapendio. Quindi la prendevo per salire sul Mottarone, invece di andarci in auto. Non ho mai avuto il minimo dubbio sulla sicurezza. Come Soccorso Alpino locale, si figuri che abbiamo anche partecipato al collaudo della struttura per dare l’ok all’impianto con l’Ustif”.

Alessandra Tropiano. Nata a Voghera, il 08/09/1996, è laureata in Comunicazione, Innovazione e Multimedialità (CIM) presso l’Università di Pavia. Collabora con Gilt Magazine e ha lavorato presso SkyTG24.

Andrea Pasqualetto per il "Corriere della Sera" il 24 maggio 2021. «Mi ha impressionato il bambino, non lo dimenticherò mai quel bambino. Era sotto il corpo di un giovane che respirava ancora. E sotto di lui altri tre. Tutti morti. Una scena terribile». Ce l'ha negli occhi, il piccolo di due anni rimasto intrappolato nella cabina precipitata sul Mottarone. In 27 anni di volontariato Cristiano L' Altrella ne ha viste tante ma questa, dice, le supera tutte. È stato lui il primo ad arrivare sul luogo del disastro, assieme a due colleghi. L' Altrella è il caposquadra del distaccamento dei Vigili del Fuoco di Stresa. Sembrava una mattina tranquilla, quella di ieri. Poi la chiamata e la corsa verso l'inferno. «Mentre andavamo ho sperato in un errore o che non ci fosse nessuno in quella cabina». E invece «E invece abbiamo trovato un campo di battaglia, corpi di ragazzi, di uomini e di donne sparsi sul pendio della montagna. Eravamo saliti in vetta, fino alla stazione capolinea della funivia, dove queste persone non sono mai arrivate. E da lì siamo scesi seguendo la linea dei cavi. Sotto c' è una fascia disboscata, come sotto tutte le funivie. Un pendio ripidissimo, sarà dell'80%. Scivolavamo giù anche noi. Fino a che 3-400 metri sotto abbiamo visto la cabina rossa accartocciata, era rotolata giù e si era fermata addosso a un pino, trenta metri più in là dell'ultimo pilone. Prima di arrivare abbiamo trovato due corpi, due uomini. Erano stati sbalzati fuori e non respiravano più. Siamo quindi andati a soccorrere quelli della cabina e lì». L' Altrella si ferma, scuote la testa, gli occhi si fanno lucidi perché quel che ha visto è orribile.

Siete entrati?

«Era aperta su un fianco, una fessura però molto stretta. Io che sono magro mi sono infilato dentro a fatica. Abbiamo chiesto subito di tagliare le lamiere perché se c' era qualcuno da portar fuori bisognava creare lo spazio per far passare le barelle».

E all' interno?

«Un' inferno. C'erano cinque persone, ammassate l'una sull' altra. Uno solo respirava, quello che stava sopra agli altri. Abbiamo cercato in tutti i modi di salvarlo. Era incosciente ma i segnali di vita c' erano ancora. Gli abbiamo messo la maschera dell'ossigeno, ambu, massaggio cardiaco. È il protocollo di primo soccorso. Ma niente, non ce l'ha fatta. Il bambino era sotto di lui. Gli occhi chiusi, come tutti. Non riesco a descrivere quello che ho visto, troppo, troppo forte. Senza considerare il rischio che si correva in quel momento».

Cioè?

«Che la cabina precipitasse ancora più giù, perché la pendenza era notevole. Abbiamo così cercato di metterla in sicurezza legandola all' albero con una corda. Fuori, c' era tutto il resto. Bisognava capire come stavano gli altri. Non sapevamo quanta gente ci fosse nella funivia. Ho fatto un calcolo approssimativo: so che queste cabine hanno una capienza di 40 posti, ridotta della metà per il Covid. Quindi potevano esserci una ventina di persone a bordo. Ne mancavano più di dieci all' appello, secondo i nostri calcoli».

Dove il avete trovati?

«Erano sparsi, sotto il livello della cabina, fino a una distanza di venti trenta metri. Catapultati fuori dall' abitacolo, scivolati giù, uno qui, uno lì. Immobili. Siamo andati a vederli uno per uno, sperando in qualche segnale di vita. Quattro donne e un uomo, il padre del bambino. Tutti spirati. Poi abbiamo cercato ancora perché non avevamo certezze sui numeri. Con noi anche gli uomini del Soccorso alpino e un'infermiera, un medico. E quelli dell'elisoccorso che andavano avanti e indietro. Due bambini erano stati portati via. Dopo che il medico ha constatato i decessi, ci siamo preoccupati di coprire tutti i corpi con le coperte di stagnola».

Fra quelli del Soccorso Alpino, anche Matteo Gasparini, il capo di Verbania. Uno che ha vissuto Rigopiano e che ora dice: «Almeno lì c' era la neve che un po' nasconde». Lui ha alle spalle oltre 20 anni di interventi: «Ma una cosa così grossa da noi non l'ho mai vista».

È il più grande disastro di questi luoghi.

«Senza ombra di dubbio. Prima di questo io ricordo un aereo precipitato anni fa al Mottarone, due vittime. E un treno deragliato a Stresa, un morto e vari feriti. Qui sono 14... non riesco a pensare a quello che ho visto. Mi scusi ma ora sono troppo stanco e vorrei tornare a casa».

Chi l'aspetta?

«Mia moglie e i miei figli. Non l'ho ancora chiamata. Non so come farò stanotte. Ho quel bambino negli occhi».

La tragedia del Mottarone chiede verità e giustizia, ma non sommaria. Gianluigi Nuzzi il 24/05/2021 su Notizie.it. Se ci sono delle responsabilità queste vanno certamente accertate, ma aspettiamo a puntare l'indice. L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è una giustizia sommaria. La tragedia della funivia del Mottarone chiede verità e giustizia in tempi molto rapidi. Ci sono 14 persone che hanno perso la vita, ci sono parenti che piangono e c’è un dolore che colpisce non solo tutta l’Italia ma anche tutti i Paesi che vedono qualche vittima in questo triste elenco. Ma non bisogna puntare l’indice, non bisogna avere una giustizia sommaria. Se ci sono delle responsabilità, queste vanno certamente perseguite. Bisogna capire perché il cavo portante si è spezzato, perché – se è vero – il sistema frenante non è entrato in azione. Era stata fatta una manutenzione straordinaria un paio di anni fa, ora bisogna capire se quella ordinaria è stata sempre compiuta a regola d’arte. Però aspettiamo a puntare l’indice. Lasciamo che gli inquirenti, i Vigili del Fuoco, gli ingegneri e la Procura facciano le opportune verifiche. Vogliamo verità e giustizia.

Gianluigi Nuzzi. Giornalista, ha iniziato a scrivere a 12 anni per il settimanale per ragazzi Topolino. Ha, poi, collaborato per diversi quotidiani e riviste italiane tra cui Espansione, CorrierEconomia, L'Europeo, Gente Money, il Corriere della Sera. Ha lavorato per Il Giornale, Panorama e poi come inviato per Libero. Attualmente conduce Quarto Grado su Rete4 ed è vicedirettore della testata Videonews. È autore dei libri inchiesta "Vaticano S.p.A." (best seller nel 2009, tradotto in quattordici lingue), "Metastasi", "Sua Santità" (tradotto anche in inglese) e "Il libro nero del Vaticano".

Funivia, parenti e amici fuori dall’obitorio: “Chi parla di fatalità offende i nostri cari”. Debora Faravelli il 25/05/2021 su Notizie.it. Tanti i parenti e gli amici delle persone decedute nell'incidente che ha coinvolto la funivia di Stresa fuori dall'obitorio: l'ultimo saluto alle vittime. Sono ancora sconvolti i parenti e gli amici delle quattordici vittime del disastro della funvia Stresa-Mottarone, che fuori dall’obitorio hanno commentato con la stampa quanto successo: “Chi le definisce una fatalità insulta la memoria delle vittime”. Tra le persone che si sono recate alla camera mortuaria dell’ospedale di Verbania vi sono Aldo e Sara Fontanesi, usciti dalla camera mortuaria tenendosi stretti l’uno all’altro per dare l’ultimo saluto alla loro vicina di pianerottolo Serena Cosentino, calabrese arrivata in Piemonte a metà marzo. Sara in particolare ci ha tenuto a rimarcare come non si debba parlare di tragica fatalità in relazione all’incidente per non insultare chi vi ha perso la vita. Un’altra coppia, amici di Vittorio Zorloni e della sua compagna Elisabetta con i quali condividevano gli aperitivi sul muretto del condominio di Vedano Olona, non ha lasciato spazio agli aneddoti ma ad uno sfogo: “Tanto lo sappiamo che questa cosa enorme verrà dimenticata in fretta, e in fondo lo capiamo, c’è tanta voglia di distrarsi dopo un anno passato in casa. Ma non è giusto”. Presente anche la sindaca di Stresa, luogo dove è avvenuta la tragedia, che ha parlato di “una scena impressionante, che non è giusto neanche descrivere”. Non si dovrebbe indulgere nei particolari, ha affermato, “e noi vogliamo tutelare in ogni modo le vittime e i loro cari”. L’importante è non dimenticare e mettersi alle spalle quel che è appena accaduto. La donna ha inoltre assicurao che parteciperà a ogni funerale, che ci saranno tante cerimonie e che si è fatta promettere dalla Regione Piemonte che le spese di trasporto delle salme saranno a carico delle istituzioni. Fuori dall’obitorio sono giunti anche membri della comunità ebraica di Torino tra cui Daniel Treves, l’addetto alla purificazione dei corpi dei suoi confratelli deceduti, e il console Avraham Eitan, appena giunto da Roma: “C’era il sole, il periodo buio che ha vissuto tutto il mondo sta finendo, c’è voglia di ricominciare. E in un attimo la vita finisce. A volte, non c’è una spiegazione”. Tra le vittime è infatti presente la famiglia israeliana di Eitan, l’unico sopravvissuto che ora lotta per la vita a Regina Margherita.

(ANSA il 24 maggio 2021) Restano gravi le condizioni del bambino di 5 anni unico sopravvissuto all'incidente della funivia del Mottarone. Ricoverato all'ospedale infantile Regina Margherita di Torino, dopo l'intervento di ieri la prognosi resta riservata. Al momento il piccolo è intubato e sedato. In ospedale, nella tarda serata di ieri, è arrivata la zia del bambino, sorella del padre che nell'incidente è morto con la moglie e con l'altro figlio di due anni. La famiglia, di origini israeliane, viveva nel Pavese.

Irene Famà per “La Stampa” il 24 maggio 2021. A pregare, fuori dall'ospedale, non c'è nessuno per quei due bambini di cinque anni ricoverati al Regina Margherita di Torino, dopo che la cabina di una funivia della linea Stresa-Alpino Mottarone, sul Lago Maggiore, è precipitata nei boschi, rovesciandosi più volte su un pendio erboso. I loro genitori, i loro fratelli, sono morti nello schianto. I due piccoli sono stati caricati sulle eliambulanze di Borgo Sesia e Alessandria e portati d'urgenza al pronto soccorso. Alle 19,40 arriva la notizia: Mattia Zorloni è morto a seguito di un arresto cardiaco. Eitan Moshe Biran invece continua a combattere, unico sopravvissuto alla tragedia. All'ospedale era arrivato cosciente, ai medici ha mormorato qualche parola: «Lasciatemi stare, lasciatemi stare». Non voleva farsi toccare dagli infermieri. «Era spaventato» dice Fabrizio Gennari, direttore della struttura complessa di chirurgia pediatrica del Regina Margherita. Nello schianto ha riportato gravi traumi al cranio, al torace, all'addome e numerose fratture alle gambe. «Le prossime ore saranno decisive per vedere la risposta alle terapie. È stato operato per stabilizzare le fratture. Stiamo lavorando al massimo per mantenerlo stabile e poter avere buoni risultati» spiega Giovanni La Valle, direttore della Città della Salute. La prognosi è riservata. Mattia Zorloni all'ospedale era arrivato in condizioni critiche. Sei minuti sono stati necessari per rianimarlo e poi la tac, gli esami per cercare di stabilizzare i parametri vitali. «È deceduto, nonostante gli sforzi infiniti che abbiamo messo in campo» sono le parole del direttore La Valle. Che lancia un appello: «Chiunque lo conosca, ci dia informazioni. In questo momento non siamo riusciti a metterci in contatto con nessuno e non riusciamo a sapere chi sia», dicevano ieri in serata i medici. Alle 19.40 erano ancora incerte le identità delle vittime intrappolate tra le lamiere e sbalzate tra la boscaglia. Così da risalire alle generalità corrette dei due bambini. La tragedia di Stresa ha distrutto famiglie intere. I due bimbi hanno lottato da soli, in una stanza d'ospedale. L'ultimo gesto d'affetto, Mattia l'ha ricevuto dagli infermieri, dagli anestesisti e dai chirurghi che hanno tentato di tenerlo in vita. I suoi genitori, papà Vittorio e mamma Elisabetta Persanini, sono morti sulla montagna. Residenti a Vedano Olona, in provincia di Varese, erano partiti per una gita di famiglia. La prima giornata di svago all’aria aperta ora che finalmente anche le restrizioni anti-contagio lo permettevano. Una gita attesa da mesi anche per la famiglia di Biran: madre, padre e due figli. Di origini israeliane, vivevano a Pavia da diversi anni e ieri desideravano trascorrere una giornata ammirando dall'alto il Lago Maggiore. Scattare qualche foto, pranzare fuori. Poi quella cabina è diventata una trappola mortale. E nel lungo elenco delle vittime c'è il nome di papà Amit, di mamma Tal Peleg, del piccolo Tom, di appena due anni. Eitan è l'unico sopravvissuto. Precipita funivia Stresa-Mottarone, i soccorsi nei pressi della cabina caduta. All'uscita del pronto soccorso, alle 19.40, ci sono solo i giornalisti, le televisioni. Una madre, che sta accompagnando un ragazzino all'ospedale, si ferma. «Cos'è successo?», chiede. Poi fa il segno della croce: «Prego, come pregherei per mio figlio».

G. Nic. Per "il Messaggero" il 24 maggio 2021. Il piccolo Eithan Biran è l'unico sopravvissuto, la sua famiglia non esiste più. Ha perso il padre, la madre, i nonni e anche il fratellino di due anni. Vivevano insieme a Pavia: la famiglia era di origini israeliane. Quando è arrivato in ospedale, al Regina Margherita di Torino, continuava a ripetere: «Lasciatemi stare». L' altro bambino che è arrivato in ospedale con Eithan non ce l' ha fatta. Aveva cinque anni, così hanno ricostruito i soccorritori, e solo in serata si è capito che anche i suoi genitori erano rimasti vittime dell' incidente. I piccoli erano stati soccorsi dal 118, le loro condizioni si sono mostrate da subito molto gravi e sono stati trasportati in elicottero fino all' Oval Lingotto dove, con le ambulanze, sono stati trasferiti all' ospedale infantile Regina Margherita. Eithan, di 5 anni, ha varcato la soglia del pronto soccorso alle 14.45. Le sue condizioni restano gravi per le ferite riportate: diversi traumi alla testa e al torace e fratture alle gambe. Era cosciente quando l' ambulanza lo ha trasferito dall' elicottero, con cui è arrivato dal Mottarone, fino all' ingresso dell' ospedale. Chiedeva della mamma, Tal Peleg, morta nello schianto ad appena 27 anni. Un destino condiviso con i suoi genitori, i coniugi Cohen. Il secondo bambino, che aveva 5 anni, era ancora più grave. Era arrivato in ospedale mezz' ora dopo Eithan in condizioni critiche. I medici sono riusciti a rianimarlo: in pronto soccorso gli è stato praticato il massaggio cardiaco dopo che il suo cuore aveva smesso di battere. È stato poi sottoposto alla tac ed è stato intubato. Aveva riportato un grave trauma cranico e fratture alle gambe. In serata però è andato in arresto cardiaco. «Abbiamo fatto tutto il possibile ma dopo poche ore di tentativi non ce l'ha fatta», ha detto il direttore generale dell' ospedale, informato dai medici che lo hanno seguito. Nessun parente aveva contattato la struttura e i medici avevano lanciato un appello a chiunque potesse avere informazioni su di lui. Ma, in serata, è emerso che i genitori erano Vittorio Zorloni di Vedano Olona ed Elisabetta Persanini, nata nel 1983, entrambi morti nel terribile impatto. Ieri pomeriggio Eithan è stato operato. L' intervento è servito a stabilizzare le fratture multiple al femore, alla tibia e all' omero. Per i medici le prossime 12-15 ore saranno fondamentali per stabilizzarlo. Un altro bambino è morto sul luogo dell'incidente. Si tratta proprio di Tom, due anni, il fratellino di Eithan, ora rimasto solo. Il piccolo sarebbe morto sul colpo quando la cabina è precipitata al suolo da un'altezza di venti metri. Su Facebook restano le foto di quella che era una famiglia felice: tantissimi scatti di mamma e papà sorridenti con in braccio i due bambini. Il papà, Amit Biran, 30 anni, era addetto alla sicurezza delle comunità ebraiche e della scuola che frequentavano i figli: un ruolo delicato che, in un'ipotesi remota, potrebbe anche far pensare a un attacco mirato. Ma quasi certamente si è trattato di un tragico incidente. Proprio di recente era stato a Israele. A Pavia, Amit Biram aveva studiato Medicina e Chirurgia, poi si era sposato in Israele e aveva convinto la moglie a trasferirsi in Italia. In Israele era tornato con Tal in occasione dei parti dei due figli. Mit e Tal erano profondamente legati, anche dalla fede religiosa e si erano sposati in Sinagoga. Un fede che per la coppia rappresentava anche un impegno, tant' è che Amit Biram aveva accettato l' incarico di responsabile per la sicurezza della comunità ebraica di Milano. 

Il gesto eroico del papà: così ha salvato il piccolo Eitan. Valentina Dardari il 24 Maggio 2021 su Il Giornale. Il piccolo, unico superstite della tragedia, si trova ora in prognosi riservata e deve la vita all'ultimo gesto d'amore del suo papà. Eitan è sopravvissuto grazie all’abbraccio paterno che lo ha protetto. Questo almeno si è appreso da fonti interne all’ospedale pediatrico Regina Margherita dove il piccolo è ricoverato in prognosi riservata. Secondo quanto riportato da Agi: "Per essere riuscito a sopravvivere al terribile impatto è probabile che il padre, che era di corporatura robusta, abbia avvolto con un abbraccio suo figlio".

Eitan lotta in un letto di ospedale. Eitan, 5 anni di età, è l'unico superstite di ieri, quando una cabina della funivia Stresa-Mottarone si è staccata ed è precipitata dal punto più alto del tragitto, quando mancavano ormai poche centinaia di metri all’arrivo. Eitan, bimbo israeliano, adesso è intubato e sedato. Nel pomeriggio di ieri, domenica 23 maggio, verso le 18 ha subito un intervento chirurgico per la riduzione delle fratture e la prognosi per il momento resta ancora riservata. Al suo capezzale è corsa la zia, sorella del padre. In quel tragico incidente Eitan ha perso la sua famiglia, il papà Amit, la mamma Tal e il fratellino Tom di soli 2 anni, nato in Italia. Doveva essere una giornata di sole e divertimento invece, poco dopo mezzogiorno, si è trasformato nel giorno peggiore della sua vita. Quando è arrivato in elisoccorso all’ospedale di Torino è scoppiato in un pianto a dirotto e le uniche parole che ha detto ai medici e al personale sanitario sono state:“Lasciatemi stare, lasciatemi stare”. Era così agitato che i camici bianchi hanno deciso di sedarlo tempo prima dell’operazione, durata in tutto 5 ore. Due i bambini che sono stati trasportati in elisoccorso nella struttura ospedaliera torinese, ma l’unico che è riuscito a sopravvivere e sta lottando contro la morte è il piccolo Eitan. Ieri pomeriggio infatti l’altro bambino, Mattia Zorloni di sei anni, non ce l’ha fatta e il suo cuoricino ha smesso di battere.

L'ultimo gesto d'amore: un abbraccio che gli ha salvato la vita. Fabrizio Gennari, direttore della chirurgia pediatrica, ha spiegato: “Abbiamo lavorato per stabilizzare le fratture che ha riportato a gambe e braccia. C'è anche un grave politrauma”. Ma se è ancora vivo lo deve molto probabilmente all’abbraccio del suo papà, l’ultimo gesto di amore che l’uomo ha avuto per suo figlio. Probabile che il padre, un 30enne di corporatura robusta, abbia avvolto con un abbraccio istintivo suo figlio, proteggendolo. Le condizioni di Eitan, continuamente monitorato, dal punto di vista emodinamico adesso sono stabili e sono stati fatti ulteriori accertamenti. Saranno cruciali le prossime 48 ore, e solo trascorso questo tempo la prognosi verrà sciolta.

L'inchiesta: ultima revisione il 3 maggio. Eitan, danni neurologici esclusi ma è ancora in pericolo: “Salvato dall’abbraccio del papà”. Redazione su Il Riformista il 24 Maggio 2021. Danni neurologici esclusi e inizio del risveglio dal coma farmacologico a partire dalla giornata di martedì 25 maggio. E’ questo l’esito della tac a cui è stato sottoposto il piccolo Eitan, 5 anni, unico sopravvissuto alla strage della funivia avvenuta domenica sul Mottarone e dove hanno perso la vita 14 persone, tra cui il papà, la madre e il fratellino più piccolo del bambino ricoverato all’ospedale Regina Margherita di Torino. “La risonanza magnetica non ha evidenziato danni neurologici sia a livello celebrale sia a livello del tronco encefalico: questo ci autorizza nella giornata di domani a cominciare un cauto risveglio del bambino”. E’ quanto fa sapere il direttore generale della Città della Salute Giovanni La Valle. Eitan non è ancora fuori pericolo ma dai medici filtra “un cauto ottimismo, aspettiamo ancora la giornata di domani per vedere” ha fatto sapere Giorgio Ivani, direttore del reparto di rianimazione. Il bimbo è sedato e costantemente monitorato dopo essere stato sottoposto nella giornata di domenica a un intervenuto chirurgico di diverse ore per la riduzione delle fratture riportate, soprattutto agli arti inferiori. “Teniamo conto di due fattori – ha aggiunto poi la Valle – una forte debolezza fisica perché gli interventi fatti per la stabilizzazione delle fratture hanno inciso in maniera notevole. E c’è anche un problema psicologico perché riportiamo il bimbo nel mondo reale e quindi bisogna fare attenzione”. Eitan sarebbe riuscito a sopravvivere alla tragedia del Mottarone, e al terribile impatto con il suolo della funivia, perché avvolto con un abbraccio da papà Amit, 30 anni: “Per essere riuscito a sopravvivere al terribile impatto è probabile che il padre, che era di corporatura robusta, abbia avvolto con un abbraccio suo figlio”. Oltre al genitore il piccolo, di nazionalità israeliana ma residente a Pavia da quattro anni, ha perso la madre, Tal Peleg, 27 anni, il fratellino Tomer detto Tom, di appena 2 anni, e i due nonni materni, arrivati da Israele per stare insieme ai nipotini. “Ciao Eitan, ce la devi fare, ti lascio il pupazzo di mio figlio per giocare e dormire con lui. Ti voglio bene. Una mamma”. E il biglietto che accompagna un orsacchiotto bianco e blu che una mamma che ha voluto restare anonima ha consegnato ai sanitari che hanno in cura il piccolo sopravvissuto alla tragedia del Mottarone. Il bimbo, ricoverato da ieri al Regina Margherita di Torino, nel crollo della funivia ha perso papà, mamma, un fratellino e due bisnonni. Nelle prossime ore si procederà alle iscrizioni nel registro degli indagati. Un atto dovuto, quello della procura di Verbania per avviare una serie di accertamenti e perizie che potrebbero essere affidate al Politecnico di Torino. C’è anche il “disastro colposo” tra i reati ipotizzati dalla procura guidata da Olimpia Bossi, che coordina le indagini sul crollo della funivia Stresa-Mottarone che ha portato alla morte di 14 persone, tra cui due bambini.  La nuova ipotesi di reato si aggiunge all’omicidio plurimo colposo e alle lesioni colpose per il bimbo ferito in ospedale. “Logica vorrebbe che si è spezzato il cavo e l’impianto frenante non ha funzionato, ma può anche essere il contrario. Lo dovranno stabilire i consulenti” ha aggiunto Bossi. “Ho già parlato col Politecnico di Torino, anche se non ho ancora dato l’incarico – precisa – serviranno ingegneri meccanici e stiamo valutando se servano anche esperti in metallurgia”. La Leitner, l’azienda altoatesina incaricata, ha fatto sapere che l’ultima manutenzione con controllo delle centraline idrauliche di frenatura dei veicoli è avvenuta il 3 maggio. L’azienda si è dichiarata a disposizione della magistratura.

Funivia Mottarone, il piccolo Eitan non ha lesioni gravi. Marco Della Corte il 24/05/2021 su Notizie.it.  Funivia Mottarone: il piccolo Eitan, sopravvissuto alla tragedia, non risulta aver riportato lesioni cerebrali e al midollo. La tragedia della funivia Stresa-Mottarone ha precipitato nell’angoscia l’intera Italia. L’incidente è avvenuto lo scorso 23 maggio provocando quattordici vittime. Il piccolo Eitan, di soli 5 anni, si è salvato e non avrebbe riportato lesioni gravi. Il bambino è stato sottoposto a una risonanza magnetica e non sono stati riscontrati danni al cervello e al midollo. Il presidente del Piemonte Alberto Cirio ha dichiarato che Eitan è sedato ed è un bel bambino. I medici proveranno a svegliarlo nella mattinata del 25 maggio.

Funivia Mottarone: le dichiarazioni di Cirio su Eitan. Alberto Cirio si è recato nel pomeriggio del 24 maggio presso l’ospedale infantile Regina Margherita. Il presidente della Regione Piemonte ha rilasciato alcune informazioni su Eitan riportate da Huffington Post. Cirio ha dichiarato: “Il bambino è sedato ed è molto bello. Non ha subito traumi al volto e non dà l’idea di essere precipitato da quell’altezza. Abbiamo pregato insieme all’ambasciatore ed è stato emozionante”.

Funivia Mottarone: le dichiarazioni della zia di Eitan. Intervistata a Repubblica, Aya, la zia di Eitan, ha rilasciato le seguenti dichiarazioni su quanto accaduto: “Ho saputo quello che è successo dai messaggi di WhatsApp dei miei amici. “Oh mi dispiace”, hanno iniziato a scrivermi” e poi ancora: “Al quarto messaggio ho pensato che fosse caduto un altro missile in Israele. Così ho chiamato mio fratello ma non mi ha risposto, poi mia cognata e neanche lei mi ha risposto. Qualcosa non va. Allora ho scritto ai miei amici ma cosa è successo? Due ore dopo la conferma dei nomi dei carabinieri”. Almeno all’inizio, del piccolo Eitan non si sapeva nulla. Aya ha spiegato: “Non sapevamo dove si trovasse, abbiamo capito che si trattava di lui quando abbiamo visto che non era nell’elenco delle vittime”.

Funivia Mottarone, Eitan sopravvissuto. Il piccolo Eitan è l’unico sopravvissuto della tragedia della funivia Stresa-Mottarone in cui sono morte quattordici persone. Quotidiano.net ha parlato del bambino come un “piccolo guerriero”. Dopo aver perso i genitori e il fratellino ha lottato contro la morte e al momento è ricoverato a Torino presso il reparto Regina Margherita. Ma come è riuscito a salvarsi? Fonti interne dall’ospedale hanno spiegato che “per essere riuscito a sorpavvivere è probabile che il padre, che era di corporatura robusta, abbia avvolto con un abbraccio suo figlio”.

Marco Della Corte. Sono nato a Capua il 4 Agosto 1988. Laureato in Filologia classica e moderna e iscritto all'Ordine dei giornalisti della Campania. Esperto di cronaca nera, sono cresciuto a pane e 'Chi l'ha visto?'. Collaboro con diverse testate giornalistiche online, tra cui Blasting News, Scuolainforma e, ovviamente, Notizie.it. Per il resto sono un semplice (e appassionato) docente di materie umanistiche alle superiori.

Funivia Stresa-Mottarone, parla la zia del bambino sopravvisuto: "Siamo qui per lui: ha cinque anni, e ha perso mamma, papà e fratellino". Cristina Palazzo su La Repubblica il 24 maggio 2021. Tal Peleg, 26 anni, Amit Biran, 30 anni, e il piccolo Tom, 2 anni, la famiglia residente a Pavia, di origini israeliane, deceduta nell'incidente della funivia del Mottarone, Stresa. Aya Biran in ospedale a Torino dove è ricoverato l'unico sopravvisuto alla tragedia: "Non sapevamo dove si trovasse, abbiamo capito che si trattava di lui quando abbiamo visto che non era nell'elenco delle vittime". "Ho saputo quello che è successo dai messaggi di WhatsApp dei miei amici. "Oh mi dispiace" hanno iniziato a scrivermi. Al quarto messaggio ho pensato che fosse caduto un altro missile in Israele. Così ho chiamato mio fratello ma non mi ha risposto, poi mia cognata e neanche lei mi ha risposto. Qualcosa non va. Allora ho scritto ai miei amici ma cosa è successo? Due ore dopo la conferma dei nomi dei carabinieri". Aya Biran nella tragedia di Stresa ha perso suo fratello Amit, sua cognata Tal Peleg e il nipotino Tom di soli due anni, che vivevano a Pavia. È notte fonda ed è davanti all'ingresso dell'ospedale Regina Margherita di Torino, dove è ricoverato l'unico sopravvissuto della tragedia, l'altro suo nipotino di soli cinque anni "non sapevamo dove si trovasse, abbiamo capito che si trattava di lui quando abbiamo visto che non era nell'elenco delle vittime". Suo nipote è arrivato in ospedale in elicottero intorno alle 14, le sue condizioni sono gravi ma stazionarie. Ieri pomeriggio ha subito cinque ore di intervento per le fratture a braccia e gambe "e ora stiamo aspettando che ce lo facciano vedere, almeno da lontano attraverso il vetro" dice tra una telefonata e l'altra all'ingresso dell'ospedale. Dentro ci sono i suoi genitori e "fra poco arriverà personale dall'ambasciata". Anche Aya vive nel Pavese dove lavora come medico in carcere "ma ancora per poco, la vita è troppo breve per essere bruciata così". Mostra dal telefono la foto dell'altro nipotino, Tom, la vittima più giovane dello schianto "è una meraviglia, i bisnonni erano arrivati da pochi giorni per vederli". I genitori di Tal Peleg sono morti nel crollo con il resto della famiglia. "Erano arrivati come turisti, ultraottantenni e vaccinati avevano deciso di venire. In Israele ci sono i missili cosa può succedere in Italia? Volevano vedere i bisnipoti". Sono ore di attesa e dolore: "i miei genitori sono molto agitati, ho paura che dovrò chiamare un'ambulanza", ammette. Aya è anche l'unica che parla italiano: "io e mio marito viviamo in Italia da 17 anni, ora ho lasciato due bimbe a casa per essere qui e dovremo gestire tutte le comunicazioni". Hanno preso una stanza in un albergo di Torino "ma solo per appoggiare la testa. Mio nipote ha un trauma cranico bisogna vedere come va, la prognosi non esiste ancora". 

Dall'Ansa.it il 25 maggio 2021. La prognosi resta riservata e per ora non viene sciolta, ma da questa mattina è iniziato il processo di risveglio di Eitan bambino di 5 anni, unico sopravvissuto nella strage della funivia del Mottarone, ricoverato all'ospedale infantile Regina Margherita di Torino. Il bimbo è stabile è ha passato una notte tranquilla, c'è ottimismo tra i medici. Per questo, spiega li direttore generale della Città della Salute Giovanni La Valle, «l'equipe del dottor Ivani ha iniziato l'iter per il risveglio che consiste nel ridurre i dosaggi dei farmaci che lo stanno tenendo in coma farmacologico. Nelle prossime ci sarà una riduzione sempre più graduale». 

M. Mas. per il "Corriere della Sera" il 25 maggio 2021. «Ciao Eitan, ce la devi fare, ti lascio il pupazzo di mio figlio per giocare e dormire con lui. Ti voglio bene. Una mamma». È uno dei tanti messaggi, accompagnato da un orsacchiotto bianco e blu, che sono stati lasciati di fronte all'ingresso dell'ospedale Regina Margherita di Torino, dove è ricoverato il bimbo israeliano di 5 anni sopravvissuto allo schianto della funivia Stresa-Mottarone. Eitan potrebbe essere stato salvato dall'abbraccio di suo papà. È quello che si apprende da fonti ospedaliere: «Per essere riuscito a sopravvivere al terribile impatto è probabile che il padre, di corporatura robusta, abbia avvolto con un abbraccio istintivo suo figlio prima di morire». Nella serata di ieri anche gli ultras juventini della brigata «A Modo Nostro» hanno appeso uno striscione con la scritta «Forza Eitan», a testimonianza di quanto sia partecipata la battaglia per la vita del piccolo. Dopo ore di angoscia finalmente dal reparto di rianimazione filtrano le prime notizie positive: «Il bambino è stato operato e gli accertamenti diagnostici, per il momento, hanno escluso danni al cervello e al midollo - ha spiegato ieri sera Giovanni La Valle, direttore della Città della Salute di Torino, dopo aver ricevuto i risultati dell'ultima Tac -. Il bambino è ancora intubato e la prognosi al momento resta riservata. Quello che ha vissuto è un dramma nel dramma. Al dolore non ci si abitua mai e le ore accanto a Eitan e Mattia, che purtroppo non ce l'ha fatta, le abbiamo vissute come se fossimo vicino ai nostri figli. Possibili danni neurologici sono stati esclusi e nelle prossime 24 ore proveremo a svegliarlo». Eitan ha perso gli affetti più cari, ma non resterà da solo. Nella tragedia di Stresa sono morti i genitori, il fratellino di due anni e i bisnonni, ma è già partita una campagna di solidarietà lanciata dalla Comunità ebraica di Torino assieme alla piattaforma di crowfunding Eppela. Una raccolta fondi per garantire il suo futuro, condivisa con le comunità di Roma, Milano e del resto d'Italia. «Rinunceremo alle nostre provvigioni - ha annunciato l'ad Nicola Lencioni, promotore dell'iniziativa assieme al presidente della comunità torinese Stefano Disegni -. Tutto quello che sarà raccolto sarà destinato alla costruzione della vita di Eitan». Ieri in tutte chiese di Pavia e nelle sinagoghe di tutta Italia hanno pregato per Eitan, una preghiera a cui si è unito anche il premier israeliano Netanyahu, che ha inviato le sue condoglianze alla famiglia Biran: «Preghiamo per la guarigione di Eitan, l'altro figlio di Amit e Tal. Lo Stato di Israele assisterà la famiglia in tutto e per tutto a seguito di questa tragedia. Possano riposare in pace». Nella scuola pavese gli insegnanti e i compagni fanno il tifo per Eitan e ieri pomeriggio a Torino l'ambasciatore israeliano Dror Eydar ha raggiunto l'ospedale infantile Regina Margherita, dove è stato accolto dal presidente Alberto Cirio, per portare la sua solidarietà alla famiglia: «Ringrazio gli angeli dello staff dell'ospedale e il mio amico Cirio. Speriamo che Eitan superi questo momento difficile». I funerali dei familiari di Eitan si svolgeranno lunedì in Israele. Mercoledì a Verbania si svolgerà una breve preghiera e poi le salme partiranno da Caselle con un volo di Stato.

Giacomo Nicola per "il Messaggero" il 25 maggio 2021. Oggi i medici risveglieranno Eitan. Accanto a lui ci saranno i nonni e la zia Aya Biran. Dovranno spiegargli quello che è successo: mamma e papà non ci sono più. E anche il suo fratellino Tom, di appena due anni, ora è un angelo. Lui è vivo grazie al padre, Amit Biran, che con il suo corpo gli ha fatto da scudo. Quando domenica pomeriggio il piccolo Eitan, 5 anni, è arrivato all'ospedale pediatrico Regina Margherita di Torino era cosciente. E terrorizzato. «Lasciatemi stare, non mi toccare, voglio la mamma» continuava a urlare ai medici. Poi le cinque ore di intervento, dove l'ortopedico Simone Spolaore e i suoi colleghi hanno cercato di stabilizzare le fratture al femore, alla tibia e all'omero. Da allora è tenuto in coma farmacologico e le sue condizioni vengono monitorare costantemente. La tac non ha evidenziato danni al cervello o al midollo. La zia ha preso una casa a Torino per seguirlo insieme ai nonni durante la convalescenza.

I MESSAGGI «Siamo qui per lui, per fargli sentire che non è solo. Cercheremo di stargli vicino il più possibile. Crescerà con noi. Ho saputo quello che è successo dai messaggi di WhatsApp dei miei amici. Oh mi dispiace hanno iniziato a scrivermi. Al quarto messaggio ho pensato che fosse caduto un altro missile in Israele. Così ho chiamato mio fratello ma non mi ha risposto, poi mia cognata e neanche lei mi ha risposto. Qualcosa non va. Allora ho scritto ai miei amici ma cosa è successo? Due ore dopo la conferma dei nomi dai carabinieri». Aya Biran nella tragedia di Stresa ha perso suo fratello Amit, sua cognata Tal Peleg e il nipotino Tom di soli due anni, che vivevano a Pavia. Anche i nonni di Tal Peleg erano a bordo della cabina precipitata. L'unico sopravvissuto della famiglia è Eitan. «Non sapevamo dove si trovasse - racconta ancora la zia - abbiamo capito che si trattava di lui quando abbiamo visto che non era nell'elenco delle vittime». Con lei ci sono i nonni paterni. Quelli materni sono partiti da Israele. Anche Aya vive nel Pavese dove lavora come medico in carcere «ma ancora per poco, la vita è troppo breve per essere bruciata così». Mostra dal telefono la foto dell'altro nipotino, Tom, la vittima più giovane dello schianto «è una meraviglia, i bisnonni erano arrivati da pochi giorni per vederli». I nonni di Tal Peleg, la mamma di Eitan, sono morti nel crollo con il resto della famiglia. «Erano arrivati come turisti, ultraottantenni e vaccinati avevano deciso di venire. In Israele ci sono i missili cosa può succedere in Italia? Volevano vedere i bisnipoti». Vicino al bimbo c'è anche l'intera comunità ebraica di Torino. «Pregheremo per la famiglia e per il piccolo durante le nostre funzioni - le parole di Dario Disegni, presidente della comunità ebraica torinese - cercheremo di fornire alla famiglia tutta l'assistenza materiale e psicologica di cui ha bisogno. Stiamo vivendo un periodo terrificante, a partire dalla pandemia da cui Israele è uscito prima degli altri, per poi passare alla tensione dei giorni scorsi. Quella di ieri doveva essere una giornata di sole, finalmente un po' di relax dopo un periodo terribile con una giornata diversa che invece si è trasformata in tragedia. Non li lasceremo soli. Ora la nostra prima speranza è che il bimbo possa salvarsi».

L'AMBASCIATORE C'era anche l'ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar. «Non sappiamo ancora cosa è successo esattamente. C'è un'indagine in corso, siamo sicuri che le istituzioni italiane faranno il meglio che potranno. Abbiamo buone notizie e speriamo che il bambino si riprenda. Tutti noi preghiamo per Eitan, quanto accaduto è stato un grande disastro». A visitare il bimbo anche il presidente della comunità ebraica milanese, Milo Hasbani. «I funerali probabilmente saranno in Israele. Penso che mercoledì ci sarà una preghiera a Verbania e poi le salme partiranno da Torino Caselle con un volo di Stato».

Funivia Stresa Mottarone, il terrificante sospetto di Paolo Mieli: "Chi c'era tra i morti. Stanno indagando per attentato?" Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. Anche la pista dell'attentato dietro il tragico incidete della funivia Stresa-Mottarone. A sollevare l'ipotesi è Paolo Mieli, ex direttore del Corriere della Sera e opinionista tra i più autorevoli in circolazione, ospite di Simone Spetia alla rassegna stampa di Radio 24. A insospettire Mieli è la presenza, tra i 14 morti (su 15 passeggeri) della cabina caduta tra i boschi, di una coppia di origine israeliana. Tra le cinque famiglie distrutte, infatti, c'è anche quella di Amit Biran e Tal Peleg, scomparsi insieme a un figlio e due nonni mentre un altro figlio è ricoverato a Torino in condizioni gravi. "Sono anch'io come tutti sconvolto per l’incidente". premette Mieli, prima di avanzare un "dubbio" decisamente inquietante, come lo definisce anche Affaritaliani.it: "Per caso c’è anche un’indagine in corso sul fatto che possa essersi trattato di un attentato?". "No, non mi pare", risponde uno spiazzato Spetia. "Me lo sono domandato - spiega Mieli - perché ho visto che fra i morti c’è la famiglia di un ragazzo israeliano, Amit Biran, che era un capo della sicurezza israeliana. Come sempre in questi casi non ho nessun elemento, ma mi è venuto un dubbio, vista l'intera famiglia sterminata...". Il quadro, ovviamente, è quello della guerra strisciante in Palestina, con il conflitto armato tra palestinesi ed ebrei israeliani. A rafforzare il dubbio di Mieli la dinamica ancora poco chiara: il cavo trainante spezzatosi all'improvviso, a pochi metri dall'arrivo, nonostante tutti i certificati di manutenzione assicurino, oggi, che nei mesi scorsi non erano state riscontrate criticità di sorta. Come per il caso del ponte Morandi a Genova, la pista più battuta e probabile è quella dell'incuria o di qualche mancanza burocratica, magari un controllo effettuato in modo superficiale. Mieli invece farà anche "peccato", ma preferisce "pensar male". A riportare tutto in un alveo più razionale ci pensa sempre Affaritaliani.it, Biran non era "capo della sicurezza israeliana", ma più modestamente il responsabile della sicurezza della scuola milanese frequentata dai figli. La famiglia viveva a Pavia e il marito collaborava con la comunità ebraica di Milano come volontario. "I suoi figli frequentavano la nostra scuola - ammette il presidente della comunità israelita milanese Milo Hasbani - e proprio per questo lui si occupava della sicurezza degli studenti, un servizio che noi chiamiamo protezione civile". Difficile che questo ruolo possa averlo esposto a rappresaglie di alcun tipo. 

Funivia Stresa Mottarone, tra le vittime il responsabile della sicurezza ebraica: l'inquietante pista del sabotaggio. Marco Bardesono su Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. Il suo nome è Moshe Eitan Biran, compirà sei anni il primo luglio e lotta per vivere. Si trova in rianimazione all’ospedale infantile di Torino Regina Margherita ed è sopravvissuto alla tragedia del Mottarone. È nato in Israele, ma da quando aveva un anno vive a Pavia, con la sua famiglia, che non c’è più. Il papà Amit Biran di 30 anni, la mamma Tal Peleg di 27 e il fratellino di Moshe, Tom di 2 anni, sono morti nello schianto. I corpi sono stati trovati lontano dalla funivia e la mamma stringeva al petto il bimbo più piccolo, come per proteggerlo. Avevano lasciato Pavia ieri mattina per una gita in montagna programmata già da alcuni giorni insieme ai nonni materni, Itshak e Barbara Cohen, di 83 e 71 anni, deceduti anche loro. Una famiglia israeliana che aveva scelto l’Italia come Paese d’adozione. A Pavia, Amit Biran aveva studiato Medicina e Chirurgia, poi si era sposato in Israele e aveva convinto la moglie a trasferirsi in Italia. In Israele era tornato con Tal in occasione dei parti dei due figli. Mit e Tal erano profondamente legati, anche dalla fede religiosa e si erano sposati in sinagoga. Una fede che per la coppia rappresentava anche un impegno, tant’è che Amit Biran aveva accettato l’incarico di responsabile per la sicurezza della comunità ebraica di Milano. Un ruolo particolarmente delicato, specie in questo periodo e alla luce dei fatti avvenuti in Israele. Per tale motivo l’inchiesta su quanto accaduto sul Mottarone potrebbe riservare ulteriori e nuovi sviluppi. Indagare anche partendo dal ruolo ricoperto in seno alla comunità ebraica da parte del trentenne israeliano è, allo stato dei fatti, quantomeno un atto dovuto. Certo è che la cabina è caduta, come hanno confermato i magistrati inquirenti, «perché non hanno funzionato a dovere i sistemi di sicurezza», ma resta da stabilire il perché. Se si sia trattato della conseguenza di una mancata manutenzione o di altre cause, compresa quella, per quanto incredibile e improbabile, del sabotaggio. All’elenco delle vittime si è poi aggiunto, nella serata di ieri, un bambino ricoverato anche lui al Regina Margherita. È stato identificato in serata, era il figliolo di Vittorio Zorloni ed Elisabetta Persanini, anch’essi periti nella funivia. Le condizioni di Tom, spiegano in ospedale, sono molto gravi. «Entrambi i bambini - ha aggiunto il professor Fabrizio Gennari, direttore della struttura complessa di chirurgia pediatrica dell’ospedale infantile - sono stati trasportati in elicottero fino all’Oval Lingotto di Torino dove, con le ambulanze, sono stati trasferiti al Regina Margherita. Il secondo bambino, poi deceduto, è apparso subito in condizioni disperate. È arrivato dopo circa mezz’ora in condizioni davvero molto critiche. Siamo riusciti a rianimarlo. Giunto in pronto soccorso, gli è stato praticato il massaggio cardiaco dopo che il suo cuore aveva cessato di battere. È stato poi sottoposto alla tac ed è stato intubato. Aveva riportato un gravissimo trauma cranico e fratture alle gambe". L’elenco dei deceduti, di cui uno ancora da identificare, segue con nomi di persone che desideravano trascorrere una domenica serena e, invece, hanno incontrato un destino atroce. Ci sono un cittadino iraniano, Mohammad Shahisa, di 33 anni, residente a Diamante (Cosenza) e la sua compagna italiana, Serena Cosentino di 27 anni. Poi un’altra coppia: Silvia Malnati, 27 anni e Alessandro Merlo di 29, entrambi di Varese. Tra le vittime altri due israeliani, i genitori di Tal, Barba Cohen Konisky di 71 anni e Itshak Cohen di 83. Le altre vittime sono tutte italiane: Vito Angelo Gasparro, 45 anni, e Roberta Pistolato di 40 anni, entrambi di Bari, e Vittorio Zorloni, 56enne di Seregno, e la moglie Elisabetta Persanin, morti come detto insieme al figlio di 5 anni. Nella serata di ieri, tornando alla base di Stresa, Matteo Gasparini, responsabile del soccorso Alpino per il Verbano-Cusio-Ossola, aveva un nodo alla gola e parlava a fatica: «È stato un disastro, un terribile disastro». Lui e una trentina di uomini hanno cercato per ore superstiti e deceduti. «Non sapevano dove guardare - ha raccontato -, la cabina era pressoché disintegrata, all’interno non c’era alcun corpo. Abbiamo dovuto cercare nel bosco, anche a più di cento metri di distanza. Cinque cadaveri erano accanto alla carcassa della funivia, gli altri non sapevamo dove. È stata una corsa contro il tempo. Con le mani abbiamo spostato tronchi e arbusti per cercare i corpi, senza sapere quanti potessero essere». Un racconto angosciato, quello di Gasperini: «C’erano famiglie intere, 15 persone in tutto, almeno queste sono quelle che abbiamo trovato». La cabina ne poteva ospitare 35, ma dalla stazione di partenza avevano confermato che ve ne fossero meno della metà. «Ci siamo trovati di fronte ad una scena apocalittica», aggiunge Gasperini, «abbiamo lavorato fianco a fianco noi del soccorso Alpino, i vigili del fuoco, i carabinieri e anche i poliziotti. Era necessario fare in fretta per individuare se vi fossero sopravvissuti». Nella serata di ieri tutte le salme sono state portate a valle e composte negli obitori di Stresa e Verbania a disposizione dell’autorità giudiziaria e, a tarda ora, sono giunti, straziati, i primi parenti delle vittime.

L'inchiesta sul disastro del Mottarone. Strage della funivia, spunta il video dell’incidente: giallo su un guasto sabato pomeriggio. Carmine Di Niro su Il Riformista il 25 Maggio 2021. Le telecamere erano puntate sulla zona d’arrivo delle cabine, con diverse angolazioni. Gli attimi precedenti la tragedia del Mottarone, dove domenica sono morte 14 persone, tra cui due bambini, sono state riprese dalle telecamere di sorveglianza e sequestrate nelle indagini condotte dalla Procura di Verbania. Immagini forti, assicura chi ha già potuto osservarle. Nei vari ‘frame’ si vede infatti la cabina arrivare a pochi metri dalla stazione di monte della funivia del Mottarone, rallentare quando l’operatore sta per aprire il cancellato per far scendere i passeggeri e poi il dramma, col rumore della fune traente che si spezza e la cabina che riparte con la sua corsa al contrario, uscendo dalla visuale e precipitando dopo qualche decina di metri. Nell’audio, scrive il Corriere della Sera, si sentirebbe anche il rumore forte e netto fatto dalla fune che si spezza, mentre si vede anche l’addetto che viene sbalzato all’indietro. Filmati che sono finiti nel ‘corpaccione’ dell’inchiesta in mano al procuratore Olimpia Bossi e al sostituto Laura Carrera: le ipotesi di reato sono omicidio colposo plurimo e lesioni colpose gravissime contro ignoti, ma Bossi ha spiegato ieri che si sta valutando anche l’ipotesi di disastro colposo con messa in pericolo della sicurezza dei trasporti. Un quadro in cui ad oggi manca chiarezza sulle competenze della funivia, e quindi delle responsabilità. Il Comune di Stresa, tramite il sindaco Marcella Severino, ha spiegato infatti che non sarebbe stato ancora formalizzato il passaggio di proprietà tra l’ente locale e la Regione, che sarebbe dovuto avvenire nel 2016. Ma risvolti nuovi arrivano anche dalla questione controlli, che tirano in ballo quindi la Ferrovie del Mottarone di proprietà di Luigi Nerini, che ha la gestione dell’impianto, e la società Leitner di Vipiteno, azienda leader nel settore che aveva eseguito i lavori di ristrutturazione della linea e che si occupa della manutenzione dell’infrastruttura. Agli inquirenti è arrivato un esposto da parte dell’avvocato Ferdinando Paglia, rappresentante della società Alfar di Milano. Quest’ultima aveva partecipato, salvo poi ritirarsi, alla gara del 2015 per i lavori di ristrutturazione, vinta poi da Leitner. Alfar infatti aveva ritenuto fosse necessaria una totale ristrutturazione dell’impianto, più di quanto previsto dal bando, e i costi sarebbero stati insostenibili. “Per questo avevamo mandato un esposto a Comune e Regione perché prendessero atto di quella situazione, a nostro avviso pericolosa”, spiega l’avvocato Paglia. Ulteriore novità, riportata da Repubblica che cita un testimone, sarebbe quella di un guasto avvenuto alla funivia sabato pomeriggio, dunque meno di 24 ore prima della tragedia. La struttura si sarebbe bloccata per mezz’ora e sarebbero intervenuti i tecnici. La domanda è scontata: può esserci un rapporto con l’incidente mortale avvenuto la mattina seguente? L’ultima revisione, aveva sottolineato il procuratore Bossi, è stata effettuata nel novembre 2020, sei mesi fa: “Stiamo acquisendo i report finali, che per legge devono essere trasmessi a un ufficio periferico territoriale del Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture. Anche sulla scorta di quello che emergerà – conclude – avremo un quadro completo”. La società Leitner in un documento ha invece spiegato che le centraline idrauliche di frenatura dei veicoli erano state controllate l’ultima volta il 3 maggio scorso.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Ivan Fossati e Niccolò Zancan per "La Stampa" il 25 maggio 2021. È tutto registrato. Nitido e insopportabile alla vista. Sono 14 secondi di video: il tempo esatto in cui cambia la storia e la tragedia si compie. L'uomo che ha visto quel video non avrebbe voluto farlo, ma era suo dovere. C'è una telecamera piazzata sul tetto della stazione della funivia del Mottarone. Domenica mattina era accesa. Visibilità perfetta, sole caldo, non una bava di vento, ore 12.02. «La cabina ormai era arrivata. Mancavano tre metri alla stazione di monte, al massimo quattro. Pochi istanti e avrebbe raggiunto la vetta. C'è un attimo preciso in cui rallenta e si avvicina, mettendosi in asse: è in quel momento che ho visto sorridere i viaggiatori. Quei poveri ragazzi, le famiglie. Si vedono le loro facce: è questa la cosa più difficile da reggere. Erano in cima e sembravano felici». L'attimo dopo si è spezzata la cima traente. È quella che fa muovere la funivia. Ecco cos'era quella scudisciata nell'aria: un rumore assurdo di acciaio nel cielo. Lo scossone ha lanciato all'indietro la cabina come una fionda, anche questo purtroppo si vede perfettamente. «È partita con un balzo in direzione opposta, tirata giù dalla parte del cavo che si sfilava dall'impianto con tutto il suo peso. Ma in quel punto la carrucola della cabina era ancora attaccata alla fune portante, ancora fissata alla fune d'emergenza. Però scivolava indietro. La si vede accelerare, giù sempre più forte, per 400 metri. È arrivata a una velocità di 120 chilometri all'ora. Nel punto di massima discesa, prima del pilone, si vede che si infossa, percorre come una specie di avvallamento, che risalendo diventa un trampolino: a quel punto la cabina si stacca dai cavi. Vola oltre il pilone a un'altezza di 25 metri. E scompare dall'inquadratura». Adesso può essere consolante immaginare che il padre di Eitan Biran, 5 anni, proprio a questo punto abbia stretto suo figlio in un abbraccio salvifico. Ma qui gli occhi si chiudono. Nessuno sa. Non si può vedere oltre. «Dopo l'impatto al suolo la cabina è rotolata per 300 metri», dice un investigatore. È un bosco fitto di larici. Domenica pomeriggio i soccorritori hanno messo delle bandierine a terra dove hanno trovato i corpi. La procuratrice di Verbania Olimpia Bossi, dopo che tutto il possibile era stato fatto, ha chiesto di osservare un minuto di silenzio. Carabinieri e vigili del fuoco hanno spento le radio. E dopo quel silenzio, qualcuno ha intonato una preghiera solitaria. Tutti insieme hanno recitato le parole dell'eterno riposo.

Il filmato sotto sequestro. Quella sera stessa, la sera di domenica, gli investigatori hanno sequestrato il video che mostra in maniera precisa la dinamica dell'incidente. E cioè descrive due fatti che sembrano accertati: la fune traente si è spezzata, il freno di emergenza non ha funzionato. «Non c'è il minimo accenno di frenata durante quei 14 terribili secondi», dice l'uomo che ha visto il video. Nel bosco a pregare c'era anche la sindaca di Stresa, Marcella Severino. «Domenica notte ho preso un tranquillante, così sono riuscita a dormire tre ore. Alla mattina sono andata a incontrare in ospedale i parenti delle vittime. Le parole che ci siamo detti restano fra noi. Ma sono devastati dal dolore, e capisco bene la loro disperazione. Quello che è successo ci ha toccati nel profondo. Vogliamo che le cause di questa tragedia vengano accertate al più presto». Stresa era una località di pace e turismo, che proprio adesso ricominciava a assomigliare a se stessa. Il tenore Placido Domingo era tornato a mangiare nel suo ristorante preferito con vista sul Lago Maggiore, un calciatore della Juventus era stato avvistato in visita alle Isole Borromee. Gli alberghi a cinque stelle stavano preparando le riaperture per la stagione estiva. E i villeggianti, soprattutto svizzeri e tedeschi, erano tornati a prenotare le vacanze estive. La funivia Lido-Mottarone ha ripreso il servizio domenica 25 aprile. Sabato 22 maggio, nel pomeriggio, secondo il racconto di un testimone che ieri è stato sentito dai carabinieri, è rimasta ferma per problemi tecnici. Domenica 23 maggio, alle 12.02, è precipitata nel vuoto, prendendosi la vita di quattordici persone. Tutti cercavo il proprietario e unico gestore dell'impianto, il signor Luigi Nerini, con concessione comunale fino al 2028. Il suo telefono squillava a vuoto. La sindaca Severino, però, l'aveva visto domenica pomeriggio in cima all'impianto. «Era sconvolto, come tutti. Era molto provato. Mi ha ripetuto solo queste parole: "Ho i registri a posto, ho tutti i registri a posto". Poi non l'ho più visto». Il giorno dopo è un giorno di lutto e di acquazzoni. Piove, si alza la nebbia sul lago. I traghetti sfilano come fantasmi, segnando la rotta fra la sponda piemontese e quella lombarda. La stazione di partenza della funivia è chiusa. Sulla porta d'ingresso c'è un cartello dei carabinieri: «Immobile posto sotto sequestro dall'autorità giudiziaria». Lì davanti, qualcuno ha lasciato un lumino rosso, un cero votivo. Non ci sono altri segni.

Sistema frenante disarmato? Ma è proprio qui, dentro questi uffici, che si cercano le ragioni del doppio disastro. La fune. E i freni, che avrebbero potuto ovviare. Un investigatore spiega un particolare forse importante: «Ogni notte, dopo l'ultima corsa, il sistema frenante della funivia veniva armato e disarmato. I tecnici usavano dei cunei per tenere separati i morsi. Certo, se quei cunei non fossero stati tolti domenica mattina, se il sistema non fosse stato armato, allora si spiegherebbe quell'accelerazione terribile fino al salto nel vuoto». Quello che è successo è registrato in un video. Non ci sono dubbi sulla dinamica dello schianto. Mancano le cause. Come mai il cavo ha ceduto? Il controllo di integrità era stato fatto «a vista» o con le tecnologie necessarie? Perché i freni d'emergenza non sono entrati in funzione? L'uomo che ha visto il video di 14 secondi non sa come fare: «Quei sorrisi, a pochi metri dall'arrivo, mi sono rimasti negli occhi». Era l'attimo prima. Quello in cui tutto poteva ancora funzionare.

Iva. Fos. per "La Stampa" il 25 maggio 2021. Chiariti i motivi del disastro, resta da capire perché è successo. E la procuratrice di Verbania Olimpia Bossi predica calma: «Serve verità, non fretta». E aggiunge: «Non posso dire quando ci saranno le prime risposte, è evidente che le indagini saranno complesse. Il punto è verificare perché si è spezzata la fune traente e perché non è entrato in funzione, oppure è scattato ma non in modo efficace, il sistema frenante di sicurezza». Da domenica è sotto sequestro il luogo dell'incidente, l'impianto, le stazioni. La carcassa della cabina è stata protetta da teli impermeabili: dovrà essere recuperata e portata in laboratorio per le perizie. Intanto emergono i primi buchi neri. Uno, quello che ricorre con più insistenza, riguarda le «pinze» che avrebbero dovuto scattare frenando la corsa della cabina sulla fune portante. In quasi tutti gli impianti di questo tipo, la sera vengono bloccate aperte, con dei cunei che ne impediscono lo scatto per la chiusura. Operazione inversa la mattina, prima della messa in funzione dell'impianto: si rimuove l'ostacolo e si verifica che funzioni tutto. Una persona sostiene che quei cunei non siano stati rimossi, per errore. Nel caso la fune scorre lo stesso, ma non può scattare la morsa. Non fosse questo il motivo si dovrà capire perché il sensore, che rileva la corsa libera della cabina, non ha messo in azione il sistema di emergenza. Un ragazzo ha invece segnalato un guasto sabato pomeriggio, poco prima dell'orario di chiusura della funivia, fatto che gli avrebbe causato un ritardato rientro. Un altro malfunzionamento è stato indicato nel 7 maggio, ma pure in questo caso non c'è ancora stato tempo per le verifiche. Intanto sono stati sequestrati anche tutti i documenti dell'impianto, le schede tecniche e ogni filmato delle tante telecamere presenti sulla linea.

Lodovico Poletto per "La Stampa" il 25 maggio 2021. «Il signor Nerini non è un tecnico, di tutte le questioni tecniche si occupa la società delle manutenzioni. Quando la Leitner di Vipiteno è entrata in società con lui, alla ripresa dell'attività, per lui è stato un sollievo vero» raccontano in paese, a Stresa. Perché qui lo sanno tutti: Luigi Nerini è un imprenditore che ci sa fare con i conti, che sa esattamente che cosa vogliono i turisti che vanno in cima al Mottarone. Ma di tecnologia non è che sia un grosso esperto, «anche se ornai dopo tanti anni sui sistemi di trasporto di questo tipo potrebbe tenere conferenze dottissime». E così adesso c'è ci racconta che da tempo si dibatteva sulla questione «scatola nera» da mettere sulle cabine. Un sistema indistruttibile e che non può essere manomesso, che registra ogni singola manovra. Che immagazzina dati e che potrebbe essere molto utile oggi per capire cosa è accaduto domenica, ma che poteva essere adoperato anche per vigilare - in tempo reale - sulle «condizioni di salute» e di operatività della linea. Perché, alla fine, questa funivia era davvero molto «particolare». Vuoi per la lunghezza, vuoi per il dislivello che scala. Vuoi per l'altezza massima a cui corre quando ormai ha superato più della metà del suo tracciato e già si intravede la cima della montagna: 120 metri. Un record, quasi. «E anche per la lunghezza di una campata, quella che c'è a più di metà percorso. Guardi: era bellissimo vederla salire sospesa nel vuoto, sembrava volasse» dicono. Bello certamente, ma anche molto impressionante. «Ecco perché la questione scatola nera era un argomento di cui si parlava tra noi» dicono gli ex lavoratori. Quelli che hanno vissuto la «morte» della cremagliera e la nascita della funivia. «Quando hanno tolto il manovratore delle cabine, quello che viaggiava con i passeggeri, la questione scatola nera era sulla bocca di tutti. Dicevamo "faranno tutto le macchine". Invece…».  

Funivia Stresa Mottarone, il sospetto degli inquirenti: "Controlli visivi", cosa non torna nel comunicato del Ministero. Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. "Omicidio colposo plurimo" e "attentato alla sicurezza dei trasporti". Nel grande mistero della tragedia della funivia Stresa-Mottarone che ha visto morire 14 dei 15 passeggeri della cabina caduta nel vuoto domenica dopo pranzo, sotto accusa finisce inevitabilmente la società che gestisce l'impianto, la Ferrovie del Mottarone Srl, che già negli anni passati era finita nel mirino. Ma i pm potrebbero anche chiedere conto al Ministero dei Trasporti di un passaggio in cui si parla semplicemente di "controlli visivi". L'incidente, provocato dalla rottura improvvisa di una fune trainante e dal mancato funzionamento dei freni di sicurezza, che avrebbero dovuto ancorare la cabina ai cavi portanti, in apparenza è inspiegabile. O almeno questo si evince dalle dichiarazioni delle autorità e degli enti chiamati in causa, che assicurano come revisione e controlli fossero tutti in regola e non fossero emerse criticità negli anni passati. Eppure, ricorda il Giornale, "la storia recente della AB19 e della AB20, nome burocratico degli impianti che dalle sponde del Verbano portano in altitudine, è una storia di degrado e di incuria, oggetto di interpellanze e di scaricabarile nello stile consueto dei drammi italici". Il Ministero delle Infrastrutture certifica che solo una manciata di mesi fa "sono stati effettuati controlli specifici sulle funi", compresi i fondamentali "controlli magnetoscopici sulle funi portanti, sulle funi traenti e sulla fune di soccorso". Qualcosa però non torna: perché la cabina è stata sbalzata via dal cavo rotto come fosse uno yo-yo impazzito? Il 3 aprile 2015 il consigliere regionale del Piemonte Maurizio Marrone, come ricorda sempre il Giornale, "presenta una interpellanza alla giunta per chiedere conto proprio dello stato di manutenzione del collegamento via cavo tra Stresa e le alture". Si parla di "grave degrado", legato alla gestione proprio di Ferrovie del Mottarone, che si era occupata dell'impianto dal 1970 al 1997. La stessa società si era poi aggiudicata nuovamente la concessione, e sfruttando i fondi delle Olimpiadi invernali di Torino del 2006 aveva realizzato un nuovo impianto. Nel 2014, la nuova gara per la concessione va deserta e così Funivie del Mottarone entra di nuovo in gioco, appaltando la gestione della funivia alla Leitner di Vipiteno (Alto Adige), colosso del settore (gestisce 132 impianti in tutto il mondo) che in una nota, domenica sera, precisa: l'ultimo controllo risale all'autunno 2020, "gli esiti dello stesso non hanno fatto emergere alcuna criticità". "L'impianto era stato collaudato e riaperto sabato", ha confermato Marcella Severino, sindaco di Stresa, subito dopo la tragedia. La Procura di Verbania, nel frattempo, ha aperto un fascicolo per "omicidio colposo plurimo" e indaga anche per "attentato alla sicurezza dei trasporti". Secondo il Giornale ha già una pista da seguire: il comunicato del Ministero delle Infrastrutture parla di "controlli visivi", "e detta così non appare una analisi affidata a strumenti tecnici, ma soltanto al fallibile occhio umano".

Alessio Ribaudo per il "Corriere della Sera" il 25 maggio 2021.

1 Per la Procura di Verbania la fune traente della funivia di Stresa-Alpino-Mottarone si è rotta. Com' è possibile?

«Raramente a provocare tragedie è una causa sola - spiega Gianpaolo Rosati, docente di Tecnica delle costruzioni al Politecnico di Milano - ma sarà la perizia a stabilire i motivi esatti che hanno generato l' incidente. Per concetti generali, la fune traente è molto resistente ma, allo stesso tempo, è delicata e può rompersi per motivi ben precisi. Uno è il difetto di resistenza».

2 Cos' è il difetto di resistenza che può aver fatto cedere la fune traente? Accade quando all' interno del cavo c' è un processo di corrosione o può essere causato da morsetti di ancoraggio al carrello della cabina. Può succedere che la fune si rompa per eccesso di sforzo o sollecitazione.

«Bisognerà capire se questa fune - dice Rosati - si sia strappata per un deficit di resistenza o per altre cause».

3 Quali potrebbero essere le altre cause?

«L' argano ha potuto sottoporre la fune a uno sforzo superiore alle sue capacità», prosegue Rosati, che fu uno dei periti del Tribunale di Genova sul ponte Morandi. «Per esempio: se si blocca la ruota a valle, quella a monte continua a tirare la fune traente ed è come quando in laboratorio facciamo le prove di trazione per capire quale sia il punto di rottura. Ripeto, sono ipotesi di scuola».

4 Ci sono sistemi di emergenza che intervengono in caso di rotture?

Sì, sia nelle funivie più datate sia in quelle moderne. Di solito, c' è un dispositivo che al venir meno dello sforzo della fune traente fa chiudere delle ganasce che fermano la cabina sulla fune portante. Bisognerà studiare l' im-pianto per poter dire che cosa non ha funzionato. Le ipotesi non mancano. «Se, ad esempio, il cavo traente fosse finito tra le ruote del carrello e la portante - riflette Rosati - potrebbe essere stato tranciato dalle ruote stesse».

5 Perché i sistemi di emergenza non sono intervenuti?

Lo stabilirà la perizia. Ma ci sono delle ipotesi. «Una è che la cabina sia scarrellata - argomenta il docente - fuori dalla fune portante e, a quel punto, c' era la sola fune traente a sostenerla. Ci potrebbe essere stato un effetto simile a un colpo di frusta e, in questo caso, il freno d' emergenza potrebbe essere stato ingannato e non è intervenuto».

6 La capienza delle cabine, causa Covid, era stata ridotta da 40 a 15 ospiti: le funi non dovevano essere meno sollecitate?

Nei fenomeni di fatica non sempre la rottura avviene per il superamento del carico nominale massimo ma può avvenire anche a livelli di carico più basso. Perciò queste infrastrutture sono molto delicate da gestire e va rispettata la manutenzione giornaliera, ordinaria e straordinaria.

7 A quali controlli sono sottoposte?

Tutti gli impianti sono collaudati prima della messa in esercizio e, ogni 5 anni, c' è una revisione che può prevedere la sostitu-zione di elementi costruttivi, organi mecca-nici e componenti elettrici. Poi c' è il control-lo sullo stato di conservazione degli aziona-menti principali, di riserva, di soccorso o recupero. Tra il ventesimo e il quarantesimo anno c' è la revisione generale. Infine, ogni impianto ha un direttore di esercizio che controlla l' infrastruttura per tutta la stagione.

8 Sulle funi ci sono controlli particolari? Sì, è prevista anche una magnetoscopia.

«È una sorta di radiografia - dice Rosati - che mostra lo stato di salute dei cavi in modo da capire se vanno bene o vanno sostituiti».

9 Ma le funivie in Italia sono sicure?

«Non esiste un' infrastruttura sicura al 100% perché si stima che la probabilità di collasso sia di 1 su un milione. L' aleatorietà c' è ma è molto improbabile se sono assolte tutte le verifiche sia in fase di progetto sia di piano di manutenzione che va rispettato alla lettera: qui entra in gioco il fattore umano».

10 Quanto incide il «fattore umano» nelle tragedie?

«Le perizie spesso fanno emergere quanto sia determinante: anche al 70%. Non posso escluderlo - conclude Rosati - neanche per la funivia di Stresa. In Italia non mancano certo le regole, anzi ce ne sono sin troppe e danno luogo a situazioni paradossali di rimpallo di responsabilità».

Luca Fazzo per “il Giornale” il 24 maggio 2021. Dentro alle reazioni a botta calda di fronte alla tragedia, di fronte ai primi attestati secondo cui la funivia di Stresa era stata controllata fino a tempi recenti, si fa strada comunque l' ipotesi della strage annunciata: perché la storia recente della AB19 e della AB20, nome burocratico degli impianti che dalle sponde del Verbano portano in altitudine, è una storia di degrado e di incuria, oggetto di interpellanze e di scaricabarile nello stile consueto dei drammi italici. Perché da un lato c' è la certificazione del Ministero delle infrastrutture che ieri sera rende noto che una manciata di mesi fa, a dicembre dell' anno scorso, «sono stati effettuati controlli specifici sulle funi», comprensivi di «controlli magnetoscopici sulle funi portanti, sulle funi traenti e sulla fune di soccorso», e da ultimo, alla fine dell' anno, «l' esame visivo delle funi tenditrici». E dall' altro c' è l' immagine raggelante della cabina accartocciata dal volo e dai rimbalzi, delle fune spezzate di netto, della gita trasformata in bara. Come si conciliano le due certezze, i certificati rassicuranti del ministero e le fotografie del disastro? Per fare delle ipotesi bisogna fare un passo indietro, andare a una interpellanza che il 3 aprile 2015 il consigliere regionale del Piemonte Maurizio Marrone presenta alla giunta per chiedere conto proprio dello stato di manutenzione del collegamento via cavo tra Stresa e le alture. Nella interpellanza si ricorda che per quasi trent' anni, dalla inaugurazione del 1970 al 1997, le due tratte «vengono gestite dalla società Ferrovie del Mottarone srl», fino a quando «a seguito di grave degrado dell' impianto» vengono tolte alla società e affidate una azienda di servizi incaricata del risanamento. Ma appena quattro anni dopo, nel 2001, la Ferrovie del Mottarone, «la stessa società che aveva portato la funivia a degrado», si aggiudica nuovamente la concessione e poco dopo ottiene anche con i fondi delle Olimpiadi invernali di Torino del 2006 di realizzare un nuovo impianto. Ma la storia del degrado e dell' abbandono non cessa, al punto che nel 2014 la gara per la concessione della funivia va deserta. Ma poi a rientrare in scena è ancora la Funivie del Mottarone. Che appalta la manutenzione dell' impianto alla Leitner di Vipiteno, in Alto Adige, un colosso delle funivie che gestisce 132 impianti sparsi per il pianeta, che ieri sera dirama un comunicato in cui, ricalcando il testo del ministero, conferma che l' ultimo controllo risale all' autunno scorso «e che gli esiti dello stesso non hanno fatto emergere alcuna criticità». E riecco la contraddizione stridente tra la apparenza tranquillizzante dei certificati, e quel rumore di sibilo, quasi di frusta, che due gitanti ieri sentono fischiare sopra di loro, pochi secondi prima di vedere la cabina precipitare verso valle, sganciare, schiantarsi. A riferire la testimonianza è Marcella Severino, sindaco di Stresa, che ieri scende attonita dal luogo della strage. Eppure anche la Severino ieri conferma che «l' impianto era stato collaudato e riaperto ieri» (sabato, nda). Così il tragico mistero di un impianto che sulla carta era in piena efficienza e che si schianta come un Lego col suo carico di vite umane viene affidato all' indagine della Procura di Verbania, «omicidio colposo plurimo», e alla trafila delle perizie che da oggi cercheranno di cristallizzare la scena della valle, alla ricerca di frammenti e di schegge: e soprattutto a Stresa, nella cabina di comando, dove è ancora avvolta la bobina della fune portante. É lì che forse si cela una parte delle risposte, perché se la fune era lesionata è difficile immaginare che lo fosse in un solo punto: e ancora più difficile è immaginare che le lesioni, una o tante che fossero, siano sfuggite ai controlli «magnetoscopici» dell' autunno scorso. Ma la Procura vorrà anche capire cosa sottintenda l' espressione che appare nel comunicato ministeriale, dove si parla di «controlli visivi»: e che detta così non appare una analisi affidata a strumenti tecnici, ma soltanto al fallibile occhio umano. Una superficialità che sarebbe tanto più grave davanti alla storia di degrado dell' impianto. 

Mario Gerevini per il "Corriere della Sera" il 25 maggio 2021. La società che ha in gestione la funivia del Mottarone si chiama Ferrovie del Mottarone ed è al 100% di proprietà di Luigi (Gigi) Nerini, 56 anni, un imprenditore locale, di Baveno, paese sulla sponda piemontese del Lago Maggiore. Ma a quanto risulta al Corriere quattro anni fa c'era un rapporto strettissimo con l'altoatesina Leitner dalla quale Nerini acquistò l'80% delle Funivie di Mottarone, poi fusa in Ferrovie. La relazione era tale per cui il gruppo di Vipiteno aveva in pegno il 100% della società di Nerini. Cioè, in sostanza, l'aveva finanziato. Il retroscena è tutt'altro che secondario perché la Leitner della famiglia Seeber (una multinazionale attiva negli impianti a fune da 1 miliardo di ricavi) è quella che ha la responsabilità della manutenzione. Di fatto tra Nerini e Leitner c'è stata una relazione che è andata ben oltre a quella tra il committente della manutenzione e il fornitore. «I controlli giornalieri e settimanali previsti dal regolamento d'esercizio e dal manuale di uso e manutenzione sono in carico al gestore», ha sostenuto ieri la Leitner. «La società Ferrovie del Mottarone - ha dichiarato il legale della società, Pasquale Pantano - ha stipulato nel 2016 un contratto di manutenzione ordinaria e straordinaria con la Leitner per un canone annuale di 150mila euro circa. A quanto abbiamo ricostruito, tra il 2014 e il 2016 si fece una ristrutturazione, da allora la Leitner si è occupata della manutenzione». Ma i rapporti, come abbiamo visto, erano ben più stretti. I bilanci degli ultimi anni delle Ferrovie del Mottarone, che controlla la funivia, hanno segnato risultati molto soddisfacenti con fatturati stabili intorno a 1,7-1,8 milioni (l'ultimo noto è quello del 2019) e utili in crescita da 200 mila fino a 440 mila euro. I debiti sono pari a 2,6 milioni e quindi, almeno fino a ieri, del tutto compatibili con un'azienda che realizza un utile pari a oltre il 20% del fatturato. Nerini prende un compenso di 96 mila euro dalla sua società e ha in concessione la funivia dal Comune di Stresa fino al 2028. Il Comune, che eroga un contributo annuo intorno ai 130 mila euro, ha incamerato due fideiussioni dall'imprenditore per poco più di 100 mila euro. Il numero dei dipendenti cambia ogni mese e si va da un massimo di 18 tra maggio e agosto al minimo di 8 a novembre, seguendo il flusso dei turisti che pagano 20 euro il biglietto di andata e ritorno. I passaggi sono circa 100 mila l'anno, compresi i residenti a Stresa che hanno tariffa agevolata. Nerini, diploma di liceo scientifico, è titolare anche di un'agenzia viaggi a Verbania. «Ho preso spunto - raccontava presentando il suo libro sulla "Ferrovia elettrica Stresa-Mottarone" - dal centenario del primo viaggio effettuato dal "Trenino" l'11 luglio 1911, della Società Ferrovie del Mottarone, che oggi rappresento, per prendere coraggio al fine di scrivere la storia e le origini della mia famiglia, a partire dalla seconda metà dell'800». All'inizio, dunque, era una ferrovia a cremagliera che poi nel '63 fu chiusa e sostituita dal servizio autobus della Autoservizi Nerini; la funivia fu inaugurata il primo agosto 1970. Il 3 aprile 2015 - secondo quanto ha scritto Il Giornale - il consigliere regionale del Piemonte Maurizio Marrone aveva presentato un'interpellanza alla giunta per chiedere conto dello stato di manutenzione del collegamento via cavo tra Stresa e le alture. E Marrone ricorda che per quasi trent'anni, dall'inaugurazione nel 1970 al 1997, le due tratte «vengono gestite dalla società Ferrovie del Mottarone srl», fino a quando «a seguito di grave degrado dell'impianto» vengono tolte alla società e affidate un'azienda di servizi incaricata del risanamento. Ma «la stessa società che aveva portato la funivia a degrado», cioè la Ferrovie del Mottarone, nel 2001 si aggiudica nuovamente la concessione e nel 2014 se la riaggiudica, dopo che la gara era andata deserta.

Lodovico Poletto per "La Stampa" il 25 maggio 2021. Il patron della funivia non s'è più visto al bar Idrovolante dalla domenica della sciagura. Dicono che ieri sia andato e venuto da Milano al Lago Maggiore, dallo studio dell'avvocato a casa. Dove vive asserragliato con la famiglia e suo padre, l'uomo che ha inventato tutto questo impero di trasporti su e giù dal Mottarone. «Provato da questa storia, umanamente sconvolto: su di sé sente tutto il peso di ciò che è accaduto» sussurra il suo legale, Pasquale Pantano. Quel che è certo, però, è che Nerini figlio oggi gestisce davvero un impero. E la funivia è sì la sua «creatura più importante», ma non è l'unica. Perché lassù in cima alla montagna che guarda i laghi e la Pianura Padana c'è pure una seggiovia. E l'azionista di riferimento è sempre lui, Luigi Nerini. E poi c'è un impianto dicono «tra i più grandi d'Europa» di slittino su rotaie, e ancora una volta c'entrerebbe la famiglia Nerini. Ecco spiegato perché sulle sponde del lago, a Stresa, trovi chi li ama oppure li critica senza troppa pietà: «Ha tutto lui, non c'è spazio per nessun altro». Ora, la sua storia parte da lontano. Da quando cioè il capostipite - il papà di Luigi - era il patron del trenino, una cremagliera che scalava i 1.200 metri di salita al Monte. E finiva lassù dove adesso ci sono ancora la stazione d'arrivo e il ricovero del treno. Vecchi muri che vengono giù. Ecco, o lo ami o lo critichi Luigi Nerini, e fai come fa un ex consigliere di opposizione di Stresa, Piero Vallenzasca, che in modo neanche troppo velato gli ha fatto la guerra. Tutto s'è acuito dopo che l'impianto era stato fermato per manutenzione. Erano gli anni a cavallo tra il 2014 e il 2017. E la Regione aveva tirato fuori un po' di soldi per sistemarla: un'impresa partecipata anche dal Comune. Poi venne bandita la gara. «E chi l'ha vinta? Nerini ovviamente. E sa che utile fa con questa funivia? Centinaia di migliaia di euro l'anno», dice Vallenzasca. Che però ce l'ha a morte con altro. E cioè con i cento e rotti mila euro che il Comune di Stresa dà - o darebbe - alla società che opera sulla funivia. «E prima o poi io mando tutto alla Corte dei Conti: voglio vederci chiaro in questa storia», continua. I soldi, però, fanno parte di un pacchetto di accordi che vennero sottoscritti prima che il bando per la gestione fosse riassegnato al vecchio proprietario, che fu anche il partecipante unico a quella gara. La questione era stata affrontata - in qualche modo - anche nei palazzi della Regione, a Torino. Maurizio Marrone (Fdi), allora consigliere, l'aveva tirata fuori non come attacco al gestore, ma raccogliendo, dice adesso, «le istanze della gente del territorio». Che già allora mugugnava su questo e su quello. Anche sui licenziamenti del personale. E sui tagli al momento delle riassunzioni, quando la funivia riprese a girare. Erano gli anni in cui il sindaco di Stresa, la perla del lago Maggiore, era ancora Canio Di Milla. Uno ancora inseguito dalle polemiche per un eliporto realizzato in villa sulla collina, da un magnate bielorussa, uno che - raccontano - ha ancora 28 cause in corso. Nonostante non sia più sindaco da anni.

Estratto dell’articolo di Diego Longhin per "la Repubblica" il 24 maggio 2021. (…) La Leitner di Vipiteno, società che si occupa della manutenzione, dice che «l'ultimo controllo magnetoscopico della fune è stato effettuato a novembre del 2020 e gli esiti dello stesso non hanno fatto emergere criticità ». Un esame che sottopone i cavi a una sorta di raggi X per vedere le condizioni interne delle corde di acciaio che nel caso dell' impianto del Mottarone sono doppie: una traente, trascina su e giù la cabina, l' altra portante. La sostituzione dei cavi era prevista per il 2029, fra otto anni. «Sarà tutto oggetto di verifiche di carattere tecnico nei prossimi giorni », sottolinea Olimpia Bossi, procuratore della Repubblica a Verbania. (…) Ultime revisioni? Quelle più consistenti nel 2001, dopo un periodo di degrado che aveva portato alla chiusura, e poi nel maggio 2016, dopo due anni di stop. Intervento per adeguare i sistemi alle nuove norme con un investimento di 4,4 milioni. Diverse le opere realizzate, dalla sostituzione delle apparecchiature elettriche al rifacimento delle quattro cabine, dalla sostituzione dei trasformatori di alimentazione con un sistema ridondante, che permette l' esercizio in caso di guasto. Sostituiti anche i rulli di scorrimento sui piloni e le pulegge del sistema di soccorso. (…) Nel 2016 è stata fatta anche la magnetoscopia, l' esame ripetuto lo scorso anno senza risultati negativi. La presidente Anef, associazione di categoria delle imprese che gestiscono gli impianti di risalita è senza parole: «Sono gli impianti più sicuri al mondo - dice Valeria Ghezzi (…) »

Francesco Specchia per "Libero Quotidiano" il 25 maggio 2021. Davanti al Bar Lungolago, tra decine di alberghi vuoti e negozi chiusi, avvolti in un silenzio innaturale, l'oste di lungo corso Lorenzo Ponti Greppi, sua figlia e i suoi collaboratori sembrano quattro statue di sale. Braccia conserte, sguardo lavato dalla pioggia e perso nella nebbiolina del Lago Maggiore, annuiscono: «È una tragedia avevamo appena ricominciato a riprenderci dal Covid…». Accanto a loro, dal palazzo del municipio, allo stesso modo, ogni impiegato, cronista in visita, tutore dell'ordine, passante si cristallizza per un quarto d'ora di straziato lutto cittadino. Stresa piange i suoi morti. Manca l'ossigeno, finiscono le lacrime, le parole rimangono in gola. Accartocciate come la cabina della funivia schiantatasi poco lì sopra tra i faggi del Mottarone, da un'altezza di 30 metri. Quattordici vittime, un unico bimbo sopravvissuto - Eitan, 5 anni non più in pericolo di vita, salvato dal padre morto - per un incidente tecnicamente impossibile. Mentre i corpi, visitati dalla sindaca Marcella Severino e dal governatore piemontese Cirio giacciono all'obitorio di Verbania, stampa e curiosi affollano la stazione di partenza di Lido Carciano tra telecamere e auto del soccorso alpino. Ogni pensiero è un sussurro. Da queste parti, davanti all'Isola Bella - come scrisse Buzzati - si sta concentrando tutto il dolore del mondo. «Sono qui da 20 anni: mai successo una cosa simile, nel 2001 la funivia si bloccò, ma il sistema di frenaggio era perfetto». Alessandro, il barista del Lido scuote la testa. Accanto a lui Udo, un fisico tedesco, mi bombarda di spiegazioni tecniche: «Non si capisce. Il sistema è sicurissimo tra cavo portante e cavo trainante, e c'è un freno d'emergenza e la cabina sopporta tre volte il peso. Si è rotto il cavo, è saltato il freno. Con l'intero impianto rifatto nel 2013. E poi il controllo è affidato alla Leitner di Vipiteno, un'azienda infallibile". Eppure, nessuno capisce. Non capisce com'è potuto accadere il ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini che istruisce «una commissione che si aggiunge a quelle già competenti della magistratura». Non capisce il misterioso gestore della funivia Luigi Nerini, 56 anni, proprietario unico delle Ferrovie del Mottarone, uomo dall'understatement inversamente proporzionale al fatturato (1,7 milioni di euro, 100 mila clienti l'anno). Soprattutto, non capisce la Procura. Secondo il Procuratore di Verbania Olimpia Bossi si configurano il "disastro colposo" e pure l'"omicidio plurimo colposo"; ma non si parla di indagati. Perché gli attori in commedia sono un groviglio. C'è la società che gestisce l'impianto, appunto; ci sono le società che hanno effettuato i lavori di ristrutturazione dell'impianto nel 2014-2016, e c'è la società incaricata della revisione annuale. Eppoi ci sono gestione e proprietà. Mi racconta l'assessore regionale Maurizio Marrone che - dall'opposizione della giunta Chiamparino - sulle manutenzioni delle Ferrovie produsse chili di interrogazioni: «Dopo la gestione per anni di Ferrovie del Mottarone, nel 2014 l'asta per le gestione e la manutenzione della funivia andò deserta. Servivano almeno 4 milioni di euro per il 40° anno di vita di una struttura vecchiotta. Dei quali 1 milione dalla Regione e 1,8 dal Comune, il resto dovevano accollarselo i privati. Poi, nel novembre 2015, arrivò un altro bando; venne confermato l'impegno pubblico dalla Scr Piemonte la società della Regione. E si presentarono le Ferrovie del Mottarone con la Leitner di Vipiteno, leader mondiale di impianti (Leitner ricorre spesso, ndr)». Sì, ma la proprietà? La Regione assegna la proprietà al Comune. Il Comune - attraverso la sindaca, e Carla Gasparro assessore al Bilancio e alla Fiscalità, ora "alla preghiera" (fu la prima a recarsi con la sindaca nella scarpata in cerca dei corpi) sostiene che «la proprietà doveva passare a noi, ma siccome non sono stati fatti ancora alcuni passaggi burocratici, è in itinere: la proprietà sta in capo alla Regione». L'altroieri era il contrario. Mi spiegano che, in pratica, manca la trascrizione delle proprietà, i timbri. Ignoro se servirà a rimpallare per molto la responsabilità penale. Ora il Mottarone è blindato, in vetta, dai posti di blocco. Si è chiuso lo sguardo sulla Val d'Ossola, sugli arabeschi dei sette laghi, sui giganti del Vallese e i riflessi di ghiaccio del Monte Rosa. La funivia, dal 1963 cerniera naturale su paesaggi di paradiso, è diventata un filo d'acciaio su cui danza il dolore del mondo…

Funivia Stresa Mottarone, dopo la strage il mistero della proprietà: appartiene al Comune o alla Regione?  Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. Dopo l'incidente di Stresa alla Funivia Mottarone è scattata l'indagine. Il ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini e il capo della Protezione civile Fabrizio Curcio hanno partecipato al Palacongressi di Stresa (Verbania) al tavolo tecnico per cercare di capire quanto accaduto. Non è ancora chiaro se la funivia, teatro della tragedia costata la vita a 14 persone, sia di proprietà del Comune di Stresa o della Regione Piemonte. "Lo stiamo appurando in queste ore", spiega il procuratore. In occasione dell'ultima importante riqualificazione della funivia, la Regione ha stanziato un importante contributo, a fronte del quale era previsto il passaggio di proprietà dell'impianto proprio alla Regione, ma non è ancora chiaro se questa procedura sia stata completata. "Dobbiamo chiarire se l'ente proprietario è la Regione o il Comune di Stresa", dice il procuratore Olimpia Bossi. Il procuratore di Verbania precisa che nella vicenda sono coinvolti più soggetti. "C'è la società che gestisce l'impianto, Ferrovie del Mottarone, ci sono le società che hanno effettuato i lavori di ristrutturazione dell'impianto, nel biennio 2014-2016, e c'è una società incaricata della revisione annuale". L'ultima revisione sarebbe stata effettuata nel novembre 2020, sei mesi fa: "Stiamo acquisendo i report finali, che per legge devono essere trasmessi a un ufficio periferico territoriale del Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture. Anche sulla scorta di quello che emergerà - conclude Bossi - avremo un quadro completo». C'è anche il "disastro colposo" tra i reati ipotizzati dalla procura che indaga sulla tragedia. La nuova ipotesi di reato si aggiunge all'omicidio plurimo colposo e alle lesioni colpose per il bimbo ferito in ospedale.

Dagospia il 24 maggio 2021. Caro Dagospia,

1 - Luca Fazzo del "Giornale", di cui avete ripreso l'articolo, non sa e dunque non ha scritto che la famiglia di Luigi-Gigi Nerini gestisce i trasporti con il Mottarone da un secolo esatto: prima della funivia, aperta nel 1970, la sua famiglia aveva l'appalto del famoso trenino a cremagliera che compare su tutti i poster. Quella non è una concessione, per quanto reiterata. È una sinecura centenaria. Chiusa la cremagliera, la famiglia è stata "risarcita" con l'appalto della funivia. Non solo: la famiglia è proprietaria del terreno accanto alla stazione dove arrivava un tempo la cremagliera, lasciato in stato di grave abbandono nonostante le proteste dei locali, e mai sanzionato dal Comune che, anzi, lo paga per i servizi resi.

2 - A Stresa vi sono gravi problemi di gestione della cosa pubblica. Il Comune di Stresa è stato commissariato più volte negli ultimi trent'anni, l'ultima a metà del decennio scorso. Adesso, con l'arrivo di una massa di kazaki e bielorussi dalle attività ignote ma con molto denaro, che comprano ville in contanti e promettono il rilancio dell'alberghiero, si sono moltiplicate le concessioni sospette e i premi di cubatura per scempi architettonici come la ex villa Lasio, la più bella proprietà del lago, ora trasformata in un casermone modello haussmaniano, con le piante secolari abbattute per far posto ad alberi non autoctoni. Il Comune favorisce i nuovi arrivati in ogni modo, anche a fronte di sentenze sfavorevoli e di prese di posizione istituzionali, come nell'annoso caso dell'eli-superficie privata concesso a una bielorussa con passaporto maltese, che vive asserragliata sulla collina e ha disboscato oltre 6 mila metri quadrati di un terreno a rischio idrogeologico boscato, vincolato e soggetto a un Piano Regolatore molto limitante, con l'approvazione del Comune. Il caso è stato oggetto di una sentenza sfavorevole del Consiglio di Stato, di una presa di posizione durissima della Protezione Civile, di una petizione degli abitanti, senza che il Comune facesse niente o nemmeno sanasse la sentenza. Adesso, se l'Enac non tenesse conto di questa situazione, Stresa potrebbe ritrovarsi sulla testa gli elicotteri della bielorussa che sorvolano le case e i boschi (che, fra l'altro, dove vanno, visto che la Svizzera è a venti minuti in linea d'aria?)

3 - I fanghi (presumibilmente tossici, si parla di bentonite ma nessuno ha fatto una verifica, perché il Comune lavora con geologi "amici") sversati nel bosco per costruire fantomatici campetti da calcio: 8 mila metri quadrati di limo sversati nel bosco, disboscato apposta. L'impatto è tale che si vede anche da Google Maps.

4 - Poi c'è la questione della piscina comunale di Carciano di Stresa, altro disastro che - come i precedenti - hanno un nome e un cognome, che non è quello dell'attuale sindaca, Marcella Severino, ex capo dell'opposizione, che per professione tiene i conti del marito idraulico e ha sempre avuto la Lega nel cuore, ma sarebbe quello dell'ex sindaco Canio Di Milia. Attualmente il Comune di Stresa ha 28 cause in corso.

La tragedia del Mottarone vista da Rai News, tutti i dettagli del dramma. Il Quotidiano del Sud il 23 maggio 2021. Grave incidente sul Mottarone, nella zona di Stresa, in provincia di Verbania, dove si è staccata una cabina della funivia, a seguito della rottura di un cavo portante. Sono 14 le vittime della tragedia, con un ferito grave. “Purtroppo sì, ci sono anche bambini” ha detto il sindaco di Stresa, Marcella Severino, scoppiata a piangere al passaggio dei carri funebri con i primi corpi. “La fune traente è strappata”, ha poi spiegato. “Ci sono due escursionisti che stamattina hanno sentito un fischio e hanno visto la cabina che stava arrivando in vetta retrocedere velocemente, poi ha preso un pilone ed è sbalzata, ha fatto due balzi sul terreno scosceso e si è fermata contro degli abeti”. “Domani ci sarà il lutto cittadino e 14 minuti di serrata delle attività”, annuncia poi Severino. Domani mattina, intorno alle 10, “si terrà un tavolo alla presenza delle diverse forze dell’ordine, Protezione civile e del ministro”. E non ce l’ha fatta il più grande (9 anni) dei due bambini ricoverati in gravi condizioni a Torino. Era stato intubato in Rianimazione. L’altro, 5 anni, è in pericolo di vita. In tarda serata, si è concluso al Regina Margherita di Torino l’intervento a cui è stato sottoposto. Il piccolo è stato operato per stabilizzare le fratture riportate alle gambe. Uscito dalla sala operatoria, verrà sottoposto a una nuova Tac. Nell’urto il bambino ha riportato anche diversi traumi.

Sequestrato l’impianto. La procura di Verbania ha disposto il sequestro dell’impianto e indaga per omicidio colposo plurimo. “Per ora procediamo per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose, dobbiamo verificare anche la fattispecie dei reati di attentato alla sicurezza dei trasporti, anche in base alla natura pubblica o meno dell’impianto”. ha spiegato il procuratore Olimpia Bossi al termine del lungo sopralluogo al Mottarone. “L’intera area è stata posta sotto sequestro – aggiunge – cominceremo dai rilievi tecnici per accertare le cause dell’incidente. Le vittime sono state identificate ma stiamo avvisando i parenti”. L’impianto, da quanto risulta, è di proprietà del Comune di Stresa. La sindaca ha spiegato che il manutentore dell’impianto ha confermato che erano stati fatti tutti i controlli senza rilevare anomalie. Fatto confermato dai legali della società che lo gestisce: “I controlli, le verifiche, la manutenzione sono tutte a posto. Poi quel che è accaduto è tutto da verificare” ha riferito l’avvocato Pasquale Pantano.  La funivia aveva riaperto al pubblico ieri, come gli altri impianti in Italia, dopo oltre un anno di chiusura dovuto all’emergenza Covid. L’impianto collega il Piazzale Lido di Stresa alla vetta della montagna che divide il Lago Maggiore da quello di Orta. Un tratto panoramico della durata di 20 minuti diviso in due tronconi. Era stata completamente revisionata e sottoposta a manutenzione straordinaria tra il 2014 e il 2016. Inaugurato ed entrato in servizio il 1° agosto 1970, l’impianto bifune fu suddiviso in due tronconi: da Stresa all’Alpino di 2.351 metri e dall’Alpino al Mottarone di 3.020 metri.

Cinque famiglie stroncate nell’incidente. La tragedia della funivia ha colpito cinque famiglie, tre residenti in Lombardia, una in Emilia Romagna e una in Calabria. In particolare, una famiglia residente a Pavia era di origini israeliane.

A seguire l’elenco delle vittime: Biran Amit, nato in Israele il 2 febbraio 1991 e residente a Pavia Peleg Tal, nata in Israele il 13 agosto 1994 e residente a Pavia Biran Tom, nato a Pavia il 16 marzo 2019 e residente a Pavia Cohen Konisky Barbara, nata in Israele l’ 11 febbraio del 1950 Cohen Itshak, nato in Israele il 17 novembre 1939 Shahaisavandi Mohammadreza, nato in Iran il 25 agosto 1998, residente a Diamante (Cosenza) Cosentino Serena, nata a Belvedere Marittimo (Cosenza) il 4 maggio del 1994 e residente a Diamante (Cosenza) Malnati Silvia, nata a Varese il 7 luglio del 1994, residente a Varese Merlo Alessandro, nato a Varese il 13 aprile del 1992, residente a Varese Zorloni Vittorio nato a Seregno, Milano, l’8 settembre del 1966, residente a Vedano Olona (Varese); la moglie Elisabetta Persanini, di 37 anni, insieme al loro figlio di sei anni, Mattia  Gasparro Angelo Vito, nato a Bari il 24 aprile 1976, residente a Castel San Giovanni (Piacenza) Pistolato Roberta, nata a Bari il 23 maggio del 1981, residente a Castel San Giovanni (Piacenza). 

Un volo di “15-20 metri”. Sulla cabinovia viaggiavano stamattina 15 persone. E’ precipitata per ”15-20 metri, poi ha rotolato per qualche decina di metri e si è fermata contro due tronchi di alberi”. A ricostruire la dinamica dell’incidente è Giorgio Santacroce, tenente colonnello del Nucleo operativo dei carabinieri di Verbania intervenuto sull’incidente della funivia sul Mottarone. L’incidente è avvenuto poco prima delle 12 e l’impatto è stato devastante tanto che alcuni corpi sarebbero stati sbalzati e trovati ad alcuni metri di distanza dal cavo tranciato.

Carabinieri: “Si è staccato un cavo portante”. L’incidente della funivia Stresa-Mottarone sarebbe stato causato dal cedimento di un cavo, poco prima della stazione di arrivo, nella parte più alta del tragitto che, partendo dal lago Maggiore arriva a quota 1.491 metri. La cabina è crollata in un tratto boscoso e impervio, dove le operazioni di soccorso non sono state facili. 

“Si indaga sul sistema di sicurezza”. Il tenente colonnello Giorgio Santacroce aggiunge: “Si sta verificando perché il sistema di sicurezza, che in caso di rottura di un cavo dovrebbe comunque impedire alle cabine di precipitare a terra, non sia scattato”. Sul posto anche il procuratore di Verbania, Olimpia Bossi.

“La cabina poteva portare anche più di 15 persone”. “La cabina può portare anche più persone: in questo periodo di Covid i posti sono ridotti”, ma 15 persone erano ”regolari”, dice poi Santacroce.

Leitner: ultimo controllo ok lo scorso novembre. L’azienda Leitner di Vipiteno ha appreso con “profondo dolore la notizia della tragedia avvenuta tra Stresa e il Mottarone”. In merito alla manutenzione dell’impianto, “l’ultimo controllo magnetoscopico della fune è stato effettuato a novembre del 2020 e gli esiti dello stesso non hanno fatto emergere alcuna criticità”. “Il pensiero più profondo e commosso della nostra azienda, che rimane a completa disposizione assieme ai propri tecnici per cercare di individuare al più presto le cause della immane tragedia, va alle vittime, ai feriti e alle loro famiglie e a tutte le comunità coinvolte”, dichiara Anton Seeber, presidente di Leitner. “La revisione generale – prosegue la Leitner in una nota – che consiste in una severa revisione dell’intero impianto, dalle cabine ai carrelli, agli argani e alle apparecchiature elettriche, era stata realizzata nell’agosto del 2016. Da allora, ogni anno a novembre, si sono succeduti con regolarità i controlli alle funi. Sempre con esito positivo”. Nell’impianto di Stresa-Mottarone Leitner ha “in carico la manutenzione straordinaria e quella ordinaria, mentre i controlli giornalieri e settimanali di esercizio fanno capo alla società di gestione Ferrovie del Mottarone”. L’azienda altoatesina, una delle più importanti al mondo per la costruzione di impianti a fune, ha spiegato anche in cosa consiste il controllo magnetoscopico: “Tutte le funi degli impianti sono sottoposte a controlli visivi frequenti. Bisogna essere certi dell’integrità di tutta la fune, anche della parte interna. Per questo motivo, secondo i piani di manutenzione, le funi sono sottoposte a un controllo magnetoscopico. In pratica, la fune viene sottoposta a un campo magnetico con uno speciale toroide: l’analisi dell’onda elettromagnetica di ritorno permette di evidenziare eventuali anomalie da indagare. Al termine del controllo, il risultato viene validato dall’Ustif, Ufficio speciale trasporti a impianti fissi”.

Mattarella: “Profondo dolore, richiamo rispetto norme sicurezza”. “Il tragico incidente alla funivia Stresa-Mottarone suscita profondo dolore per le vittime e grande apprensione per quanti stanno lottando in queste ore per la vita. Esprimo alle famiglie colpite e alle comunità in lutto la partecipazione di tutta l’Italia. A questi sentimenti si affianca il richiamo al rigoroso rispetto di ogni norma di sicurezza per tutte le condizioni che riguardano i trasporti delle persone”. Così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in una nota. 

Il premier Draghi: “Esprimo il cordoglio di tutto il Governo alle famiglie delle vittime”. “Ho appreso con profondo dolore la notizia del tragico incidente della funivia Stresa – Mottarone. Esprimo il cordoglio di tutto il Governo alle famiglie delle vittime, con un pensiero particolare rivolto ai bimbi rimasti gravemente feriti e ai loro familiari”. Lo afferma il presidente del Consiglio, Mario Draghi, che ha seguito ogni aggiornamento in costante contatto con il ministro Enrico Giovannini, con la Protezione Civile e con le autorità locali. 

Il ministro Giovannini segue da vicino quanto avvenuto a Stresa. Il ministro delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili, Enrico Giovannini, segue da vicino quanto avvenuto a Stresa. Lo fa sapere il dicastero, precisando che appena appresa la notizia del tragico incidente, il ministro ha contattato immediatamente le autorità locali, il Prefetto e i Vigili del Fuoco.

Il Presidente della Regione Piemonte Cirio: “Tragedia enorme che ci toglie il fiato”. “Siamo sconvolti per l’incidente avvenuto oggi sulla funivia Stresa-Mottarone. Ci stringiamo forte alle famiglie delle vittime e preghiamo per i due bambini feriti con ogni speranza possibile nel cuore. È una tragedia enorme che ci toglie il fiato. La Protezione civile regionale è sul posto per aiutare i soccorsi e dare tutto il proprio sostegno”. Sono le parole del presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio.

Il cordoglio dell’Ue. “L’Europa è in lutto con voi”, dice il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, in un messaggio in italiano su Twitter. Tra i primi a chiedere chiarezza su quanto accaduto il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, che affida a Twitter il suo messaggio: “In questo momento di dolore, mi stringo alle famiglie e agli amici delle vittime del tragico incidente della funivia Stresa-Mottarone – scrive -. Il mio pensiero e quello dell’Europarlamento è con voi. Che sia fatta subito chiarezza sulle cause di questa assurda tragedia”.

Von der Leyen: addolorata per incidente. “Sono molto addolorata per il tragico incidente di #Stresa”, scrive su Twitter, in italiano, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. “Ai familiari delle vittime tra cui purtroppo diversi bambini porgo il profondo cordoglio dell’Europa. E condivido la grande apprensione per quanti stanno lottando in queste ore per la vita”.  

"Non ha funzionato la ganascia frenante". Così la funivia è precipitata. Luca Sablone il 24 Maggio 2021 su Il Giornale. Il comandante dei vigili del fuoco ricostruisce la dinamica dell'incidente: "La cabina è tornata indietro, ha acquistato velocità, è uscita dall'appoggio ed è caduta al suolo". Continuano a emergere dettagli raccapriccianti sulla tragedia che si è consumata sul Mottarone, nella zona di Stresa, dove 14 persone hanno perso la vita dopo che una funivia si è staccata ed è crollata a terra. Nel frattempo la procura di Verbania indaga per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose; andrà verificata poi la fattispecie dei reati colposi di attentato alla sicurezza dei trasporti, anche in base alla natura pubblica o meno dell'impianto. Ma come è avvenuta la vicenda? Per il momento resta complicato stabilire le reali ed effettive cause che hanno comportato l'incidente, mentre è possibile tentare di ricostruire in maniera sommaria l'incidente. Lo ha fatto il comandante dei vigili del fuoco di Verbania che ai microfoni di Non è l'arena - programma condotto da Massimo Giletti in onda su La7 - ha ricapitolato quanto avvenuto in quella che è stata una drammatica domenica. Va considerato che il tratto finale della corsa di un impianto a fune è quello in cui si determina il massimo sforzo della fune traente, che pare sia quella che abbia ceduto. Dunque la cabina, per effetto della pendenza, tornando indietro ha conquistato progressivamente velocità e a quel punto è avvenuta la tragedia: "Quando ha incontrato il pilone probabilmente è uscita dall'appoggio della carrucola e di conseguenza è caduta al suolo". Il comandante dei vigili del fuoco di Verbania ha tenuto a sottolineare che si tratta di una sommaria e ipotetica ricostruzione della dinamica dei fatti; per stabilire e accertare le cause di tutto ciò quasi sicuramente sarà necessaria una perizia. Rispetto al fatto se il cavo si sia rotto o sganciato, il procuratore Olimpia Bossi ha precisato: "Non è un accertamento che può essere fatto nell'immediatezza, sarà necessario fare verifiche di carattere tecnico". Per individuare cause e responsabilità sarà fondamentale prendere in esame quella che è una sorta di scatola nera che rileva tutti i dati dalla velocità al vento (che oggi sul Mottarone era forte) presente su ogni impianto. Una delle ipotesi investigative è che non abbia "funzionato la ganascia frenante" dopo rottura della fune. Una testimonianza è arrivata anche da Marcella Severino, sindaco di Stresa, tra i primi ad arrivare sul luogo del dramma insieme ai soccorritori: "Gli alberi hanno frenato la cabina crollata a terra dopo l'impatto con il pilone. C'erano corpi sbalzati dalla cabina. Una vista devastante, la scena che mi ha colpito di più è stata vedere le scarpette dei bambini a terra".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabat

"Schianto col pilone": cosa sappiamo della tragedia del Mottarone. Francesca Galici il 23 Maggio 2021 su Il Giornale. Inizia a delinearsi la dinamica dell'incidente della funivia del Mottarone a Stresa, tra cavi tranciati e testimonianze di chi ha sentito lo schianto. Iniziano a uscire le prime testimonianze degli escursionisti presenti sul Mottarone al momento dello schianto, mentre la procura ha deciso di procedere per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. "Due escursionisti hanno sentito un grosso fischio e hanno visto che questa cabina che stava arrivando in vetta si è messa di colpo a retrocedere velocemente, poi ha preso un pilone ed è sbalzata, ha fatto due balzi sul terreno scosceso e si è fermata contro degli abeti", hanno raccontato le persone che hanno assistito alla scena per voce del sindaco di Stresa Marcella Severino.

Le testimonianze dal Mottarone. In queste ore le testimonianze si incrociano e devono essere tutte passate al vaglio degli inquirenti per valutare quale possa essere stata l'esatta dinamica che ha portato alla morte di 14 persone persone e al ferimento in modo grave di un'altra. Il sindaco, quindi, prosegue: "A quanto si è capito una delle funi si è strappata in un punto molto vicino alla vetta". Il tenente colonnello del Nucleo operativo dei carabinieri di Verbania, a proposito del cavo ha commentato: "È un pò presto per dare delle spiegazioni sulla dinamica: quello che abbiamo constatato è che un cavo di acciaio - dovrebbe essere il cavo portante della cabinovia - si è staccato e a seguito di questo saranno successe azioni concatenanti che hanno portato allo sgancio della cabinovia dal resto dei cavi che sono rimasti integri". Stando a informazioni degli investigatori che sono accorsi sul Mottarone, il cavo si sarebbe spezzato di netto a circa 100 metri dalla vetta.

"A disposizione per trovare le cause". In una nota rilasciata dall'azienda Leitner, incaricata della manutenzione dell'impianto del Mottarone, si legge che l'ultimo controllo magnetoscopico della fune è stato effettuato a novembre del 2020 e gli esiti dello stesso non hanno fatto emergere alcuna criticità. L'ultima revisione generale, che consiste in una severa revisione dell'intero impianto, dalle cabine ai carrelli, agli argani e alle apparecchiature elettriche, era stata realizzata nell'agosto del 2016. Nel comunicato si riferisce che da quel momento, ogni novembre, sono stati effettuati regolari controlli alle funi, che hanno sempre dato esito positivo. "Il pensiero più profondo e commosso della nostra azienda, che rimane a completa disposizione assieme ai propri tecnici per cercare di individuare al più presto le cause della immane tragedia, va alle vittime, ai bimbi feriti e alle loro famiglie e a tutte le comunità coinvolte", ha dichiarato Anton Seeber, presidente di Leitner, prima della notizia della morte del secondo bambino in ospedale.

I nomi delle vittime. Intanto iniziano a uscire i nomi delle vittime. Per ora sono stati resi noti quelli di 12 persone che si trovavano a bordo di quella cabina. Si tratta di cinque israeliani, due dei quali residenti a Pavia, un iraniano e sei italiani. Amit Biran, nato in Israele il 2 febbraio 1991 e Tal Peleg, nata in Israele nel 1994, entrambi residenti a Pavia. Con loro c'era il figlio, Tom Biran, di soli due anni. Con loro anche Barbara Cohen Konisky, nata in Israele nel 1950 e Itshak Cohen, nato in Israele nel 1939. Un'intera famiglia distrutta. Sulla cabina diretta al Mottarone c'erano anche Mohammadreza Shahaisavandi, iraniano di 23 anni residente a Diamante (Cosenza), Serena Cosentino, nata a Belvedere Marittimo (Cosenza) il 4 maggio del 1994 e residente a Diamante (Cosenza). Serena era una borsista del Cnr, a Verbania da marzo per lavorare all'Istituto di ricerca sulle acque. Mohammadreza Shahaisavandi era il suo fidanzato, che studiava a Roma ed era andato a trovarla per trascorrere qualche giorno insieme. E ancora Silvia Malnati, impiegata in un negozio di cosmetica e nata a Varese nel 1994, Alessandro Merlo, nato a Varese nel 1992. Erano fidanzati e avevano deciso di concedersi una gita fuori porta. Vittorio Zorloni nato a Seregno, Milano, l'8 settembre del 1966, residente a Vedano Olona (Varese). Tra le vittime compaiono anche i nomi di Angelo Vito Gasparro, nato a Bari il 24 aprile 1976, residente a Castel San Giovanni (Piacenza) e sua moglie Roberta Pistolato, nata a Bari il 23 maggio del 1981, residente a Castel San Giovanni (Piacenza). Oggi era il suo compleanno, 40 anni, e avevano deciso di trascorrerlo sul lago Maggiore. L'ultimo sms alle 11 alla famiglia di lei in Puglia: "Stiamo salendo in funivia". Poi il silenzio.

Notizie dall'ospedale. Ancora non sono stati comunicati i nomi di due delle vittime, tra le quali il bambino deceduto in ospedale. "Con grande dispiacere nonostante gli sforzi infiniti che l'ospedale ha messo in campo per il bambino più grande, purtroppo il bambino è appena deceduto. Ha avuto un arresto cardiaco da cui non siamo più riusciti a riprenderlo", hanno dichiarato i medici che l'hanno preso in cura. Tutti gli sforzi sono ora concentrati sull'unico sopravvissuto alla tragedia: "Adesso continueremo a lavorare sul secondo bimbo per fare tutto quello che possiamo per salvarlo. Stiamo lavorando al massimo per mantenerlo stabile e poter avere un risultato buono".

"Procediamo per omicidio colposo plurimo". Intanto ha reso dichiarazioni anche il procuratore di Verbania, Olimpia Bossi: "Per ora procediamo per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose, pou dobbiamo verificare anche la fattispecie dei reati colposi di attentato alla sicurezza dei trasporti, anche in base alla natura pubblica o meno dell'impianto". Il procuratore, poi, ha aggiunto: "L'intera area è stata posta sotto sequestro e nomineremo dei tecnici per accertare le cause dell'incidente". Per quanto riguarda l'esatta dinamica, ossia se il cavo si è tranciato o si è sganciato, la Bossi risponde: "Non è un accertamento che può essere fatto nell'immediatezza sarà necessario fare verifiche di carattere tecnico".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

"Dovevo esserci io con mio figlio in quella cabina..." Francesca Galici il 23 Maggio 2021 su Il Giornale. Doveva salire sulla funivia del Mottarone insieme a suo figlio di sei anni ma non c'era più posto: il racconto di un padre scampato alla tragedia. A volte il destino gioca tiri mancini, altre il contrario. Quest'ultimo è caso di Dario Prezioso, un turista che si trovava a Stresa insieme al figlio di 6 anni. Sarebbero dovuti essere anche loro a bordo di quella cabina che si è schiantata sul Mottarone nel pomeriggio. 14 le vittime su 15 occupanti, l'unico sopravvissuto è un bambino di circa 5 anni, ricoverato a Torino con gravi fratture agli arti e sottoposto a un intervento chirurgico di stabilizzazione. "Quando ho sentito la notizia della funivia mi si è gelato il sangue: in quella cabina potevamo esserci io e il mio bambino di sei anni", ha raccontato Dario Prezioso all'Adnkronos. L'uomo si trovava alla stazione intermedia quando è accaduta la tragedia del Mottarone e non ha preso quella cabina solo per un caso fortuito. Con le restrizioni Covid anche le cabine della funivia viaggiano a regime ridotto e così, negli stessi spazi in cui fino a un anno e mezzo fa si poteva viaggiare in 35 ora si viaggia in 15. "Avevo deciso di portare il mio bambino ad Alpiland dove c'è una pista di bob ma per una serie di miracolose coincidenze, quando siamo arrivati a prendere la funivia, la cabina che si è schiantata era già al completo e quindi non siamo potuti salire. Eravamo i prossimi e quindi ci siamo fermati ad aspettare la cabina successiva, che non abbiamo mai preso", ha spiegato Dario Prezioso. Una fortunata coincidenza per questo padre con suo figlio piccolo, che si è accorto dell'incidente: "Le persone che si trovavano sulla cabina caduta le avevamo incontrate in coda per i biglietti e avevano anche scambiato qualche parola. Poi mentre in attesa nella stazione intermedia stavo spiegando a mio figlio come funziona la funivia, ho sentito un colpo e ho visto un cavo cadere mentre la cabina che stava scendendo si è immediatamente bloccata. A quel punto ho pensato che lo stesso fosse accaduto alla cabina che stava salendo, ma purtroppo, ho scoperto poi, così non è stato". Immediatamente l'uomo non ha avuto l'esatta percezione di quanto fosse accaduto, dalla sua posizione la cabina non era più visibile. La scoperta di quanto accaduto è avvenuta solo qualche minuto dopo, quando i due erano ormai lontani dal Mottarone e dal luogo dell'incidente: "Subito dopo ci hanno riportato a terra, ci hanno rimborsato il costo del biglietto e io e mio figlio ci siamo allontanati fino a raggiungere una pizzeria sul lago. Mentre andavamo via abbiamo sentito alcune sirene. 'Un po' strano', ho pensato, per un cavo che si è rotto. Solo mentre ero in pizzeria ho scoperto cosa era accaduto. In quel momento mi si è gelato il sangue".

Precipita funivia Mottarone, sale a 14 il numero delle vittime: tra loro due baresi. L'ultimo sms alla sorella poi il silenzio. Due bambini gravi portati a Torino: il più grande è morto in ospedale. Graziana Capurso su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Maggio 2021. La funivia che collega Stresa con il Mottarone è precipitata e al momento ci sono 14 vittime. Sul posto sono presenti squadre dei vigili del fuoco e del soccorso alpino. Sulla cabina della funivia Stresa-Mottarone precipitata c'erano, secondo quando si apprende, 15 turisti. Due bambini sono stati portati in codice rosso, con le eliambulanze, a Torino. Il più grande dei due (sui dieci anni) per le lesioni riportate è morto in serata, si continua a sperare per il più piccolo. Tra le vittime ci sono anche due coniugi baresi residenti entrambi a Piacenza. Roberta Pistolato, 40 anni, e Angelo Vito Gasparro di 45 anni. I due si trovavano a bordo della cabina della funivia del Mottarone che è precipitata nei boschi. È stata proprio la famiglia pugliese, al corrente che la 40enne si trovava in quella zona insieme al marito, a segnalare che dalle 11 non si avevano più sue notizie, e che non rispondeva più al cellulare. L'ultimo messaggio inviato alla sorella: «Stiamo salendo in funivia». Pare infatti che la coppia avesse deciso di festeggiare il compleanno di lei oggi con una gita sul Lago Maggiore. Roberta Pistolato era fresca di studi in medicina, e lavorava come guardia medica all'Asl di Piacenza. L'anno scorso, il 13 settembre del 2020, aveva prestato giuramento, nella giornata dell'Ordine dei Medici, proprio a palazzo Gotico a Piacenza. L'incidente sulla funivia sarebbe stato causato dal cedimento di una fune, nella parte più alta del tragitto che, partendo dal lago Maggiore arriva a quota 1.491 metri. La fune dell’impianto avrebbe quindi ceduto quasi in vetta (a 100 metri prima dell’ultimo pilone) in uno dei punti più alti, dove la funivia corre più staccata da terra. Sul posto dalle 12 i vigili del fuoco e personale del Soccorso alpino che si sono trovati di fronte subito uno scenario apocalittico. La cabina dopo l'impatto è rotolata sbalzando fuori alcuni corpi che al momento dei primi soccorsi non erano stati visti. Cinque salme sono state recuperate nella cabina e otto nel bosco. Ecco i nomi delle vittime: 

- Biran Amit, nato in Israele il 2 febbraio 1991 e residente a Pavia

- Peleg Tal, nato in Israele il 13 agosto 1994 e residente a Pavia

- Biran Tom, nato a Pavia il 16 marzo 2019 e residente a Pavia

- Cohen Konisky Barbara, nata in Israele l’ 11 febbraio del 1950

- Shahaisavandi Mohammadreza, nato in Iran il 25 agosto 1998, residente a Diamante (Cosenza)

- Cosentino Serena, nata a Belvedere Marittimo (Cosenza) il 4 maggio del 1994 e residente a Diamante (Cosenza)

- Malnati Silvia, nata a Varese il 7 luglio del 1994, residente a Varese

- Merlo Alessandro, nato a Varese il 13 aprile del 1992, residente a Varese

- Zorloni Vittorio nato a Seregno, Milano, l’8 settembre del 1966, residente a Vedano Olona (Varese)

- Gasparro Angelo Vito, nato a Bari il 24 aprile 1976, residente a Castel San Giovanni (Piacenza)

-  Pistolato Roberta, nata a Bari il 23 maggio del 1981, residente a Castel San Giovanni (Piacenza)

Tra le vittime anche un bambino,, di cui non sono ancora state rese note le generalità, deceduto in un secondo tempo in ospedale.

IL CORDOGLIO DEI COLLEGHI DI ROBERTA - «Come colleghi di Roberta siamo intenzionati ad esprimere il più sentito cordoglio, ci ha lasciato una nostra collega dolce e gentile, preparata e disponibile, che aveva ancora tutta la vita davanti. A volte fatichiamo a comprendere come si possa dedicare la vita agli altri e poi morire per un tragico scherzo del destino. Alla sua famiglia le nostre condoglianze», così in una nota i Colleghi della Continuità Assistenziale di Piacenza.

Claudio Del Frate per "corriere.it" il 25 maggio 2021. Ci sono i primi indagati per la tragedia della funivia del Mottarone (Verbania) in cui domenica scorsa hanno perso la vita 14 persone. Le indagini, dopo 48 ore, subiscono così un’accelerazione rispetto alle presunte responsabilità legate alla manutenzione dell’impianto. Secondo la ricostruzione ufficiale dell’incidente la cabina della funivia del Mottarone correva al momento dello schianto a 100 all’ora ed è stata catapultata via per 54 metri. E tra le cause della tragedia non viene esclusa l’ipotesdi dell’errore umano. Sono queste le novità che emergono in giornata per voce della procuratrice di Verbania, Olimpia Bossi, titolare dell’inchiesta, e il consiglio regionale del Piemonte dove la seduta odierna è stata dedicata proprio all’incidente della funivia di Stresa.

L’impianto fermato sabato. «Nessuna ipotesi può essere esclusa, neppure quella dell’errore umano» ha detto Olimpia Bossi, parlando con i giornalisti. Al momento ha confermato non ci sono persone iscritte al registro degli indagati. «L’ipotesi della forchetta e dell’errore umano fa parte degli accertamenti ma non è riscontrabile dai video che non sono nemmeno di qualità eccelsa» ha specificato Bossi. «Tutto è stato coperto e repertato noi non tocchiamo niente fino a quando intervengono i tecnici» ha aggiunto la procuratrice. L’errore umano potrebbe essere stato compiuto durante gli interventi di controllo e manutenzione avvenuti pochi giorni prima dell’incidente, in particolare le operazioni sui «forchettoni» che azionano i freni. la mancata entrata in funzione di questo dispositivo, come è noto, è uno dei quesiti dell’indagini. La procuratrice ha anche visionato i video delle telecamere di sicurezza: «Si vede la cabina sussultare e poi cominciare la sua corsa all’indietro» ha riferito. La stessa giudice ha confermato che sabato pomeriggio la funivia si era fermata ed era stato necessario un intervento tecnico per rimetterlo in funzione «ma non sappiamo se questo è collegato all’incidente».

La Regione: «Proprietà del comune di Stresa». La dinamica dell’incidente è stata illustrata anche durante la seduta del consiglio regionale del Piemonte, durante la quale è intervenuto l’assessore ai traporti Marco Gabusi: «Ci sono due sistemi frenanti che devono agire se purtroppo capita una cosa di questo genere. Se il sistema frenante non si aziona la cabina torna indietro, si calcola lo abbia fatto a oltre cento chilometri orari. In corrispondenza del pilone non dovrebbe esserci stato nessun urto, ma la pendenza che cambia a quella velocità ha fatto da trampolino e la cabina è saltata per aria a centro chilometri orari, facendo un volo di 54 metri, e poi è ancora rotolata per qualche decina di metri». Gabusi ha anche riferito che la proprietà dell’impianto è stata trasferita dalla Regione al comune di Stresa nel ‘97 «ma il passaggio non è stato perfezionato per la mancanza di documenti più volte sollecitati al comune stesso».

Ipotesi "errore umano". Il primo indagato è un dipendente. Crollo funivia, il giallo del ‘forchettone’ e del freno disattivato: “Ipotesi errore umano”. Redazione su Il Riformista il 25 Maggio 2021. “L’ipotesi della forchetta e dell’errore umano fa parte degli accertamenti ma non è riscontrabile dai video che non sono nemmeno di qualità eccelsa”. Sono  le parole di Olimpia Bossi, a capo della Procura di Verbania, sulle indagini in corso dopo la strage del Mottarone dove nella giornata di domenica 23 maggio, in seguito al crollo di una funivia, sono morte 14 persone. In serata è poi emerso che c’è un primo indagato dopo l’apertura del fascicolo per omicidio colposo plurimo, lesioni colpose e disastro colposo. Si tratta di un dipendente delle Ferrovie del Mottarone, la società che gestisce l’impianto. Bossi ha spiegato che verrà sentito al più presto il testimone che ha riferito del guasto del giorno prima dell’incidente, con la funivia bloccata per circa mezz’ora. Ad avvalorare l’ipotesi di un errore umano sono foto e frame di video che mostrano un ‘forchettone”, ovvero una pinza che consente di lasciare aperto il freno di emergenza automatico e che dovrebbe essere utilizzata sono nelle prove di collaudo senza passeggeri.  Il ‘forchettone” era invece collocato sui freni sopra il tetto della cabina quando è avvenuto l’incidente e quindi avrebbe così disattivato la frenata d’emergenza. Una presenza che spiegherebbe perché la cabina è precipitata nel vuoto per circa 20 metri. “Non conosco nel dettaglio la morsa, o forchettone, che figura dalle immagini riportate dai media della funivia del Mottarone, perché usiamo altri tipi di dispositivi, ma posso confermare che tale sistema per disabilitare i freni esiste, e ha una sua funzione ben precisa, cioè di tenere sempre aperte le ganasce del freno, impedendone l’attivazione in caso di necessità. Ma è un’operazione che deve essere fatta quando la cabina è vuota, durante le fasi di manutenzione”. È quanto spiega a LaPresse Pier Giacomo Giuppani, ingegnere e consulente tecnico dell’Associazione nazionale Esercenti funiviari. “Ma io non posso confermare assolutamente che sia accaduto ciò – precisa Giuppani – dico solo che il forchettone viene utilizzato normalmente quando ad esempio c’è un guasto del sistema idraulico della centralina dei freni. In questo caso si procede all’apertura manuale del freno consentendo il recupero delle persone a bordo della cabina presso la stazione più vicina dopo aver accertato che non ci siano altre anomalie nel sistema frenante. È un’operazione che viene fatta manualmente e viene prevista nei manuali di uso e manutenzione fornita dai costruttori. Ma è qualcosa che avviene solo in casi di emergenza e con un controllo ben preciso”. Sul luogo dell’incidente, oggi, l’ennesima tragedia: un operatore tv, Nicola Pontoriero, è morto mentre percorreva i sentieri con una troupe di Mediaset, per un infarto. Inutili i tentativi di rianimarlo dei poliziotti che erano con lui e poi dei soccorritori. Intanto si continua a sperare per il piccolo Eitan, l’unico sopravvissuto alla strage: il bimbo è ricoverato all’ospedale Regina Margherita di Torino ed è iniziato oggi il suo risveglio dopo la sedazione. I medici parlano di "cauto ottimismo" in proposito, anche se fonti dell’ospedale fanno sapere che sarà necessario un aiuto psicologico per quando il piccolo riuscirà a svegliarsi.

Tragedia della funivia, 3 arresti nella notte: anche il titolare dell'impianto Nerini. "Freno manomesso per aggirare anomalia". A loro carico ci sono "gravi indizi di colpevolezza" e si aggrava il capo di accusa. La morsa che teneva aperti i freni serviva ad aggirare un problema che durava da un mese e mezzo. Una scelta criminale, fatta anche al prezzo della vita di 14 persone. Il procuratore: "Sviluppo inquietante". Federica Cravero su La Repubblica il 26 maggio 2021. La morsa che teneva aperti i freni, il cosiddetto "forchettone" non era stato dimenticato inserito ma aveva una precisa funzione, quella di aggirare un'anomalia ai freni che durava da un mese e mezzo. Una scelta criminale, fatta anche al prezzo della vita di 14 persone, poiché quel pezzo di ferro rosso, che serve per tenere aperte le morse del freno d'emergenza, è con tutta probabilità la principale causa dello schianto della cabina della funivia che collega Stresa al Mottarone. Gli interrogatori ai dipendenti della società Ferrovie del Mottarone si sono conclusi verso le quattro di notte con tre persone fermate: Luigi Nerini, titolare dell'impresa che gestisce la funivia, difeso dall'avvocato Pasquale Pantano, il direttore dell'esercizio Enrico Perocchio e il capo servizio Gabriele Tadini. "Uno sviluppo consequenziale, molto grave e inquietante, agli accertamenti che abbiamo svolto. Nella convinzione che mai si sarebbe potuto verificare una rottura del cavo si è corso il rischio che ha purtroppo poi determinato l'esito fatale".  ha spiegato il procuratore Olimpica Bossi, lasciando la caserma. A loro carico ci sono "gravi indizi di colpevolezza" che hanno portato la procuratrice capo di Verbania Olimpia Bossi e la sostituta Laura Carrera a disporre il fermo: "Si è trattato di una scelta consapevole dettata da ragioni economiche. L'impianto avrebbe dovuto restare fermo", ha detto Olimpia Bossi, che ha coordinato le indagini dei carabinieri, guidati dal comandante provinciale di Verbania Alberto Cicognani, che hanno raccontato il materiare per arrivare a muovere queste contestazioni. Cambiata anche l'ipotesi di reato: all'omicidio colposo si è aggiunto l'articolo 437 del codice penale che punisce con una condanna fino a 10 anni la rimozione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, aggravate se da quel fatto deriva un disastro. Ora saranno ristrettì - in carcere o ai domiciliari - e nelle prossime ore sarà chiesta la convalida del fermo e l'applicazione di una misura cautelare. Secondo quanto ricostruito da circa un mese, da quando la funivia era stata riaperta dopo il lockdown, la centralina rilevava delle anomalie sull'impianto frenante di una delle due cabine. La segnalazione era stata presa in considerazione, tanto che erano stati chiesti anche degli interventi di manutenzione. Tuttavia non erano stati risolutivi e sarebbe stato necessario un lavoro più incisivo che avrebbe probabilmente tenuto fermo l'impianto proprio ora che la bella stagione era appena iniziata e il Covid stava mollando la presa. D'altra parte però era complicato continuare con quella cabina che di tanto in tanto si fermava e toccava andarla a recuperare trainandola con fatica fino alla stazione. Ecco allora che una soluzione è stata trovata non per risolvere il problema ma per aggirarlo e da alcuni giorni era stato sistemato il forchettone che escludeva i freni di emergenza. Uno dei punti ancora da chiarire è se il divaricatore sia stato sistemato solo su uno dei due freni della cabina o su entrambi. Dalle immagini scattate dopo il disastro sembra che sul relitto ci sia un solo forchettone sistemato, ma stamattina e il programma un sopralluogo approfondito per controllare se per caso il secondo sia saltato durante l'urto con il terreno. In ogni caso questo non spiega la rottura del cavo, che era un fattore imprevedibile. Le indagini per lo schianto della funivia del Mottarone hanno subito un'improvvisa accelerazione durante la notte quando è entrato in caserma Luigi Nerini, il titolare della società Ferrovie del Mottarone che gestisce l'impianto, la cui proprietà pubblica viene rimpallata tra Regione Piemonte e Comune di Stresa. Nel pomeriggio erano iniziate le convocazioni come testimoni dei dipendenti della società che gestisce l'impianto di risalita. Dopo una serie di domande incrociate tra i vari lavoratori, verso le sette e mezza di sera l'arrivo di un avvocato ha rivelato che la posizione di uno dei lavoratori si era complicata portando all'iscrizione nel registro degli indagati di un primo nome. A notte fonda alcuni dei testimoni hanno lasciato la caserma, ma i carabinieri hanno continuato a interrogare ad oltranza fino a quando non è stata chiarita la situazione. In giornata erano stati acquisiti documenti anche in Regione ed era stata sequestrata anche la registrazione della telefonata al 118 di chi per primo ha dato l'allarme. 

(ANSA il 26 maggio 2021) - Hanno "ammesso" le tre persone fermate nella notte per l'incidente alla funivia del Mottarone. Lo afferma il comandante provinciale dei carabinieri di Verbania, tenente colonnello Alberto Cicognani. "Il freno non è stato attivato volontariamente? Sì, sì, lo hanno ammesso", dice l'ufficiale dell'Arma ai microfoni di Buongiorno Regione, su Rai Tre. "C'erano malfunzionamenti nella funivia, è stata chiamata la manutenzione, che non ha risolto il problema, o lo ha risolto solo in parte. Per evitare ulteriori interruzioni del servizio, hanno scelto di lasciare la 'forchetta', che impedisce al freno d'emergenza di entrare in funzione".

Perché si è rotta la fune? Tutte le ipotesi. Trovato il secondo forchettone. A cosa serve. Andrea Pasqualetto, Giuseppe Guastella il 27/5/2021 su Il Corriere della Sera. Se i freni della cabina avessero funzionato, la sciagura sarebbe stata evitata. Ma sarebbe stata evitata anche se, in assenza di freni, non si fosse rotta la fune. Perché la cabina avrebbe naturalmente raggiunto la destinazione, come centinaia di altre volte. E quindi gli inquirenti indagano anche sulla causa della rottura. Cosa può averla provocata? Abbiamo sentito due ingegneri specializzati in impianti a fune che conoscono bene l’impianto del Mottarone.

Rottura nel punto terminale. Si chiama testa fusa ed è la parte terminale del cavo di trazione, quello che aggancia il carrello della cabina. È considerato il punto più debole della fune, il meno verificabile per il fatto che lo strumento utilizzato per il controllo annuale, tecnicamente magnetoinduttivo (eseguito dalla ditta Sateco di Torino con un sistema di calamitoni), in quel punto non è in grado di verificarne l’integrità. Tutto viene dunque rimesso a un controllo a vista che si esegue ogni tre mesi. L’operatore abilitato si reca fisicamente sul posto, osserva la superficie esterna e, se non vede fili rotti, (ogni trefolo, cioè un insieme di fili ritorti, ne ha centinaia) dà l’ok. Questa verifica è esterna. E l’interno? «Impossibile controllarlo. Ragione per cui la norma prevede che ogni 5 anni venga tagliata l’estremità della fune di circa una spanna e rifatta la testa fusa».

Puleggia. Le due pulegge, attorno alle quali ruota la fune, che si trovano a valle e a monte, possono rompersi e «svirgolarsi», inclinandosi, creando un’anomala tensione. Oppure un elemento esterno, tipo un bullone, potrebbe inserirsi fra il cavo e la puleggia e danneggiare la fune. Ma questo danno dovrebbe essere rilevato dal controllo magnetoinduttivo.

Usura. La fune potrebbe avere subito un’eccessiva usura, dovuta anche alla corrosione per il fattore climatico, zona lacustre, molto umida. L’ultima sostituzione risale al 1998. Una norma successiva stabilisce che ogni 20 anni debba essere sostituita, con la possibilità di procrastinare l’intervento di 10 anni. «Ma in ogni caso il grado di usura viene misurato annualmente dal controllo magnetoinduttivo che è legato a parametri matematici. Se i figli rotti superano una certa percentuale, scatta la sostituzione. E questa soglia, secondo i report del manutentore, non sarebbe mai stata toccata».

Rullo di linea. Il giorno prima del disastro si era verificato un guato. Una ditta di Verbania è intervenuta e ha sostituito un rullo di linea, cioè un ruotino di gomma sul quale poggia la fune traente. «Escluderei che questa sostituzione possa aver causato la rottura perché anche in assenza di ruotino il cavo non subisce grossi danni».

Fulmine. La notte prima della sciagura si è verificato un temporale. Un fulmine la causa? «Se così fosse sarebbero a rischio tutti gli impianti a fune di montagna. Lo considero molto improbabile perché oltretutto il cavo traente si trova al d sotto del cavo portante, che fa un po’ da parafulmine». Fin qui le possibili cause secondo gli ingegneri più esperti del settore. Saranno però i periti del giudice, nel contraddittorio con i consulenti delle difese, a decidere cosa ha causato il disastro del Mottarone.

Funivia Stresa-Mottarone, cos’è il “forchettone” che potrebbe spigare l’incidente. Valentina Mericio il 26/05/2021 su Notizie.it. Si inizia a far luce su ciò che potrebbe aver causato la tragedia della funivia Stresa-Mottarone. I fari sono puntati sul cosiddetto "forchettone". Sono passati ormai due giorni da quella tragica domenica 23 maggio 2021 che ha visto distruggere le vite di ben cinque famiglie. Come in tutte le cose è arrivato il momento di fare un bilancio e di cercare di fare luce su ciò che possa causato il cedimento della fune della funivia Stresa-Mottarone e cosa possa averne impedito il blocco provocando così la morte di quelle 14 persone. Ora le luci sono state puntate tutte sul “forchettone”, un dispositivo che normalmente viene usato a cabina vuota durante le operazioni di manutenzione. Ora da una foto che inquadra la cabina è emerso come questo dispositivo fosse stato ancora in azione. Un dettaglio importante che tuttavia infittisce la vicenda e nel frattempo ci si chiede se sia stato un errore umano dato dalla negligenza o manomissione. Le prime indiscrezioni che arrivano dal quotidiano “La Stampa” ci dicono come potrebbe essere stata la negligenza nata da un errore umano la causa della tragedia. Un ragazzo avrebbe infatti messo in evidenza come già sabato 22 maggio si fosse verificato un guasto e che la mattina dopo il “forchettone” non sarebbe stato rimosso, mentre a tal proposito la procuratrice Olimpia Rossi ha dichiarato: “Il giorno prima la funivia si è bloccata e c’è stato un intervento per rimetterla in funzione. Nel frattempo stando a quanto scrive TgCom24, la società Leitner che si occupata della gestione della manutenzione e dell’ammodernamento della funivia ha reso noto che verso la fine del mese di marzo sarebbero stati effettuati dei controlli, mentre nel mese di dicembre venne fatta un’ulteriore verifica, non a caso quella che rigurdava il cedimento della fune e conseguente azionamento del freno d’emergenza. 

Funivia Stresa Mottarone forchettone, come funziona?  Ma come funziona il “forchettone” e perché quella tragica domenica del 23 maggio il freno di emergenza non si è azionato? Questo dispositivo che impedisce al freno di emergenza di azionarsi in caso di possibile avaria della funivia quella mattina potrebbe non essere stato disinserito. Potrebbe essere stato dunque questo ad aver causato una simile tragedia? Nel frattempo le ipotesi sono moltissime e tante le cose da chiarire.

Dagospia il 25 maggio 2021. Riceviamo e pubblichiamo: C'è un video importante girato a marzo 2021 (2 mesi fa) che spiega cosa avveniva ogni volta che la cabina della funivia del Mottarone arrivava alla stazione alta (dove è avvenuta la rottura del cavo). Il video è stato girato da alcuni tecnici della funivia che facevano probabilmente una corsa di collaudo che parlano per l’intera durata del video (10 minuti) dicendo anche cose importanti in merito alla qualità dell’impianto (parlano di mancanza di illuminazione dei tralicci eccetera). Nell’ultimo minuto si nota un tremolio fortissimo della cabina causato dall’effetto della catenaria (la fune di traino non è in tensione costante all’arrivo ed alla partenza a causa del differente peso delle due cabine e quindi se da un lato si tende ed allunga, dall’altro si “affloscia” ed accorcia). Succede quindi che a 5 metri dalla stazione (il punto esatto dove si sarebbe recisa la fune di traino) la fune di traino inizi a vibrare in modo molto accentuato dall’argano di recupero all’aggancio sulla cabina. Questo causa il tremolio all’intera cabina che si sente nel filmato ed in 50 anni che utilizzo funivie per andare a sciare queste vibrazioni non le ho mai riscontrate. A mio avviso questa vibrazione della fune di traino ha causato la rottura proprio a pochi metri dalla stazione. Capire se poi i freni di emergenza siano stati danneggiati dalla fune di traino o siano stati disattivati come scrive il Corriere oggi è un altro problema. Di sicuro quella funivia NON era sicura ed è strano che sia stato autorizzato l’utilizzo nonostante questi evidenti problemi.

Andrea Pasqualetto per corriere.it il 25 maggio 2021.  Almeno un freno della cabina della funivia Stresa-Mottarone precipitata domenica scorsa (provocando 14 vittime) sarebbe stato disattivato. L’analisi dei fotogrammi che hanno ripreso la carcassa dell’abitacolo della funivia di Stresa non lascerebbe spazio a dubbi. Almeno secondo un ingegnere specializzato in impianti a fune contattato dal Corriere della Sera. A disattivare il freno sarebbe una staffa in metallo di colore rosso che gli addetti chiamano in gergo forchettone. Nell’immagine risulta inserita. Si tratta di un elemento che tiene sempre aperte le ganasce del freno, impedendone l’attivazione in caso di necessità. Il forchettone viene utilizzato normalmente quando le cabine sono vuote. In questo modo il gestore evita perdite di tempo nel caso in cui scatti il freno bloccando la cabina in mezzo al percorso, evento che costringerebbe l’operatore a intervenire sul posto per disattivarlo. Una circostanza che si verifica per esempio quando salta la corrente o c’è un guasto del sistema idraulico. Con il forchettone, la vettura, vuota, scende invece ugualmente verso la stazione. Dall’esame dello stesso fotogramma dei Vigili del fuoco, si nota anche che l’altro freno risulta invece regolarmente aperto. Il che lascia aperte alcune ipotesi: «Il secondo forchettone potrebbe essere saltato via durante l’incidente — dice l’ingegnere — Oppure potrebbe non essere mai stato inserito». Con la gente a bordo la staffa dev’essere sempre tolta, in modo che il freno sia in grado di funzionare quando si verifica l’imprevisto e la cabina rimanga agganciata alla fune. Cosa che purtroppo non è accaduta a Stresa.

Funivia Stresa Mottarone, "quella cabina non funzionava da oltre un mese": l'ammissione del capo servizio. Libero Quotidiano il 26 maggio 2021. Una strage che si poteva evitare, causata da una “omissione consapevole”. Fa ancora più rabbia sapere che quanto accaduto alla funivia del Mottarone è dipeso da una negligenza umana, costata la vita a 14 persone, tra cui due bambini. “Quella cabina aveva problemi da un mese o un mese e mezzo”: ad ammetterlo durante l’interrogatorio è stato Gabriele Tadini, capo servizio responsabile del funzionamento della funivia che è stato fermato insieme a Luigi Nerini (proprietario delle Ferrovie del Mottarone) e Enrico Perocchio (direttore dell’esercizio). Per cercare di risolvere il problema erano stati effettuati “almeno due interventi tecnici”, evidentemente senza successo. Nei confronti dei tre fermati è stato raccolto quello che il procuratore Olimpia Bossi ha definito “un quadro fortemente indiziario”. Stando a quanto riportato dall’Ansa, l’analisi dei reperti avrebbe permesso di accertare che “la cabina presentava il sistema di emergenza dei freni manomesso”. Per gli inquirenti il forchettone - che serve a tenere distanti le ganasce dei freni che dovrebbero bloccare il cavo portante in caso di rottura del cavo trainante - non è stato rimosso. “Un gesto materialmente consapevole per evitare disservizi e blocchi della funivia, che presentava anomalia”, secondo quanto emerso dagli interrogatori. “Omissione consapevole” che è stata sottolineata anche dal procuratore Bossi: quella di ovviare ai problemi dell’impianto, che continuava a fermarsi, è stata secondo l’accusa una “scelta deliberata” delle tre persone che sono state fermate. Non è escluso che al registro degli indagati possano essere aggiunte altre persone dopo la consulenza tecnica irripetibile. 

Funivia Stresa Mottarone, i tecnici fermati dal pm "confidavano nella fortuna": le sconcertanti motivazioni dietro alla strage. Libero Quotidiano il 26 maggio 2021. "Me li avete ammazzati e a questo, mi spiace, non ci sarà mai nessun tipo di perdono": a parlare è la figlia di una delle vittime della tragedia della funivia del Mottarone. Il crollo della cabina ha provocato la morte di ben 14 persone. Unico sopravvissuto un bambino di 5 anni, Eitan, che è stato estubato e ha aperto gli occhi. L'incidente, però, non sarebbe stata una tragica fatalità. Dietro ci sarebbe il blocco volontario del sistema frenante di sicurezza da parte dei tecnici. I tre fermati dal pm durante la notte sono il gestore Luigi Nerini, Enrico Perocchio, direttore del servizio, e Gabriele Tadini, capo operativo. Sono stati loro - come riporta il Corriere della Sera - ad ammettere davanti agli inquirenti di essere a conoscenza che i freni di emergenza della cabina erano stati disattivati. Olimpia Bossi, il procuratore di Verbania che sta indagando sul caso, ha riferito che i tre "confidavano nella buona sorte" ed erano convinti del fatto che il blocco volontario del sistema frenante di sicurezza non avrebbe mai causato un disastro. Eclatante è anche il fatto che non si sarebbe trattata di un'iniziativa singola, ma di una "scelta condivisa e soprattutto non limitata al giorno" della tragedia. Il procuratore, poi, ha aggiunto che la funivia si è fermata anche sabato, 24 ore prima del disastro: "Posso pensare che l'episodio si inquadri in questa vicenda, ma per ora è difficile dirlo. Lo verificheremo chiedendo a questi tecnici perché sono stati chiamati".

L'inchiesta sulla tragedia del Mottarone. Strage della funivia, l’ammissione del tecnico: freni bloccati per scelta da oltre un mese. Carmine Di Niro su Il Riformista il 27 Maggio 2021. Secondo la Procura di Verbania erano tutti consapevoli e ben consci che la cabina numero 3 della funivia Stresa-Mottarone, precipitata domenica poco dopo mezzogiorno causando la morte di 14 persone, tra cui due bambini, non poteva frenare. Non poteva perché chi di dovere aveva inserito i forchettoni sui freni di emergenza. È quello che scrive il procuratore Olimpia Bossi nel chiedere la misura cautelare del carcere per i tre fermati martedì notte con l’accusa di omicidio colposo plurimo, lesioni gravissime e per aver rimosso “sistemi finalizzati a prevenire infortuni e disastri”, reato che prevede pene fino a 10 anni: il gestore dell’impianto Luigi Nerini, il caposervizio delle funivie Gabriele Tadini e il direttore d’esercizio ed ingegnere della Leitner, Enrico Perocchio. I tre hanno trascorso la prima notte in carcere in attesa della convalida del fermo, mentre venerdì e sabato ci saranno gli interrogatori di garanzia. Proprio Perocchio, tramite il suo legale Andrea Da Prato, ha negato “categoricamente di aver autorizzato l’utilizzo della cabinovia con i “forchettoni” inseriti e anche di aver avuto contezza di simile pratica, che lui definisce suicida”, un gesto “da pazzi”. Eppure nell’interrogatorio di martedì pomeriggio che ha portato ai fermi, secondo quanto riferito da Tadini era noto che “quella cabina aveva problemi da un mese o un mese e mezzo” e che per cercare di risolverli erano stati effettuati “almeno due interventi tecnici”, scrive l’Ansa. Tadini ammette, si legge nel decreto di fermo, “di aver deliberatamente e ripetutamente inserito i dispositivi blocca freni (i forchettoni, ndr) durante il normale servizio di trasporto dei passeggeri”. Una scelta deliberata e presa per motivi economici perché, secondo la procuratrice Bossi, si voleva “evitare continui disservizi e blocchi della funivia”, c’era quindi bisogno di un intervento “radicale con un lungo fermo che avrebbe avuto gravi conseguenze economiche. Convinti che la fune di traino non si sarebbe mai rotta, si è poi voluto correre il rischio che ha portato alla morte di 14 persone”. Ma Tadini tira in ballo pesantemente gli altri due indagati, che erano stati “ripetutamente informati” della situazione e che “avallavano tale scelta e non si attivavano per consentire i necessari interventi di manutenzione”, scrive il Corriere della Sera riportano il decreto di fermo. Resta invece il mistero del perché la fune traente si sia spezzata: già oggi la Procura affiderà le consulenze tecniche per ricostruire l’accaduto.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" il 27 maggio 2021. Il perimetro dell'inchiesta sulla strage del Mottarone è destinato ad allargarsi, soprattutto nei confronti di chi era deputato ad eseguire i controlli sull' impianto e non ha imposto, al gestore, il blocco delle macchine. Perciò, i tre arrestati dalla procura di Verbania, Luigi Nerini, proprietario della Ferrovie del Mottarone, il direttore dell'esercizio Enrico Perocchio e il capo servizio Gabriele Tadini, non saranno gli unici nomi a comparire nel registro degli indagati. Le parole pronunciate ieri dal procuratore capo Olimpia Bossi tracciano il percorso che seguiranno inquirenti e carabinieri: «Credo che l'impianto, gestito dalla società, abbia plurimi dipendenti. Verificheremo se anche il personale sapeva, il che non significa che fosse una loro decisione» lasciare il forchettone che ha impedito al freno di emergenza di entrare in funzione per bloccare la cabina. Le indagini non riguarderanno solo la società che gestiva la funivia, Ferrovie del Mottarone, il cui vertice è rappresentato da Nerini. L' inchiesta punta a comprendere se vi siano state responsabilità anche in chi riveste ruoli di rilievo negli altri due anelli della catena: chi era deputato al controllo dell'impianto, la società Leitner, e la proprietaria della struttura, ancora non è chiaro se sia il comune di Stresa o la regione Piemonte. I due enti si stanno rimbalzando la titolarità dell'impianto. Ad ogni modo, anche per venire a capo di questa controversia, i carabinieri, ieri hanno acquisito documenti nella sede del Comune e della Regione. Per quanto riguarda la società Leitner i carabinieri stanno passando al setaccio il ruolo di Perocchio. Da un lato l'ingegnere risultava essere organico all' azienda deputata ai test sulla funivia Stresa-Mottarone, dall' altra di quegli impianti Perocchio era anche il direttore d' esercizio.

GLI ACCERTAMENTI. Sono ancora molti i fronti aperti su cui si muovono i militari dell'Arma, da quello tecnico legato alla manutenzione, che dovrebbe spiegare perché una fune d' acciaio si sia spezzata, a quello amministrativo. L'individuazione dei soggetti potenzialmente coinvolti sta nella mole di documenti che gli investigatori hanno acquisito. «Le indagini proseguiranno perché dobbiamo individuare il motivo per cui il cavo si è spezzato, se sia una seconda anomalia o una coincidenza o sia collegato al malfunzionamento che ha portato alla disabilitazione del freno», ha precisato il comandante provinciale dei carabinieri Alberto Cicognani. E il procuratore Bossi è stato chiaro: «In questo momento non abbiamo elementi per ritenere questi due eventi (la rottura del cavo e la disattivazione del freno, ndr) reciprocamente collegati. Siamo sempre in attesa delle verifiche tecniche sulla fune. Ne parlerò con il consulente che dovrebbe arrivare domani». Il magistrato ha poi spiegato che la decisione di disinstallare l'impianto frenante «non è stato il provvedimento di un singolo, ma è stato condiviso e non limitato a quel giorno. È stata una scelta legata» alla volontà di «superare problemi che avrebbero dovuto essere risolti con interventi più decisivi e radicali invece che con telefonate volanti».

GLI INTERVENTI. Gli interventi tecnici, per rimediare ai disservizi, erano stati «richiesti ed effettuati» - uno il 3 maggio - ma «non erano stati risolutivi e si è pensato di rimediare». Così, «nella convinzione che mai si sarebbe potuto verificare una rottura del cavo, si è corso il rischio che ha purtroppo poi determinato l'esito fatale», ha sottolineato il magistrato. Le indagini non sono finite. E non solo perché, con il supporto dei periti, sarà necessario confermare quanto emerso dai primi accertamenti. La procura di Verbania intende infatti «valutare eventuali posizioni di altre persone». «Si è tutto accelerato nel corso del pomeriggio e di ieri notte - ha precisato il procuratore lasciando la caserma -. Nelle prossime ore cercheremo di verificare, con riscontri di carattere più specifico, quello che ci è stato riferito». Perciò, filtra da ambienti giudiziari, verrà acquisito materiale in «tutti gli enti che possono avere un coinvolgimento», tra cui l'Ufficio speciale trasporti a impianti fissi Ustif. «L' analisi delle carte servirà per chiarire il quadro e individuare eventuali soggetti rispetto ai quali ipotizzare un eventuale profilo di responsabilità - ha concluso Bossi - per poi svolgere una congrua attività istruttoria».

Strage del Mottarone, l'ingegnere responsabile della sicurezza: "La funivia era sicura, l’ho verificata io. Positivo anche il test del cavo tagliato". Diego Longhin su La Repubblica il 26 maggio 2021. "Se il forchettone è stato utilizzato e poi non è stato tolto durante il normale servizio dell'impianto, è un errore". A spiegarlo è Ivano Cumerlato, ingegnere, responsabile dell'Ustif, l'Ufficio speciale trasporti e impianti fissi del ministero dei Trasporti. "Se il forchettone è stato utilizzato e poi non è stato tolto durante il normale servizio dell'impianto, è un errore. Un errore che inibisce l'azione del freno sulla corda portante". A spiegarlo è Ivano Cumerlato, ingegnere, responsabile dell'Ustif, l'Ufficio speciale trasporti e impianti fissi del ministero dei Trasporti, sede di Settimo Torinese.

Ingegner Cumerlato, conosce l'impianto di Stresa-Mottarone?

"Sì, certo. È uno dei 217 impianti che seguiamo in Piemonte. E lo conosco bene perché l'ultima visita è stata fatta da me ad agosto del 2020.Un sopralluogo di quattro giorni, se non ricordo male. Comunque, il documento di via libera alla riapertura da parte nostra è stato rilasciato il 12 di agosto dopo aver svolto tutte le prove".

Come si spiega l'incidente di domenica dove hanno perso la vita 14 persone?

"Davvero non lo so. Ad agosto avevamo fatto tutte le verifiche. Si tratta di interventi che facciamo per testare anche i componenti che vengono smontati e rimontati nelle cosiddette prove non distruttive. Per questo l'impianto non gira nei giorni di controllo. Abbiamo fatto anche la prova del finto taglio".

Di cosa si tratta?

"Simuliamo un taglio del cavo traente, quello che ha il compito di portare a monte e a valle le cabine, per controllare la tenuta della fune portante e, soprattutto, il meccanismo e la tenuta dei sistemi di freno delle cabine".

Che esito aveva dato la prova sulla Stresa-Mottarone?

"Nessun problema, tutto in regola".

Allora cosa è successo domenica?

"Se non è stato disinserito il forcone il freno è stato inibito. Così si spiegherebbe il perché dello scivolamento a valle della cabina fino al primo pilone e della mancata azione del freno. Dalle foto che sono state pubblicate sembra proprio che il forcone sia inserito".

Ciò spiega anche la rottura della fune traente dell'impianto?

"No, quella no. Non può essere dipesa dal forcone".

E da cosa?

"Non lo so spiegare. Al 12 di agosto era tutto in regola. E, dalle informazioni che abbiamo, le verifiche e i controlli venivano eseguiti periodicamente".

In che cosa consiste la vostra attività di controllo e verifica?

"C'è un'attività istruttoria sui progetti, in base auna legge degli anni Ottanta. Controlliamo tutti gli interventi per la revisione periodica e per l'adeguamento alle nuove normative, come nel caso proprio del Mottarone per i lavori di adeguamento alle nuove norme di sicurezza eseguiti nel 2016".

È un lavoro solo sugli incartamenti?

"No, prima verifichiamo i progetti, poi diamo il nulla osta sui progetti. Terminati i lavori, andiamo a controllare di persona se tutto è stato fatto a regola d'arte e se l'impianto rispetta le norme di sicurezza. Facciamo le prove, a vuoto e a pieno carico. Solo a quel punto viene rilasciato un nulla osta che permette il pubblico esercizio dell'impianto. E non ci sono solo i nostri controlli".

Cosa intende?

"Che i gestori degli impianti hanno tutte delle prescrizioni, delle verifiche periodiche, mensili, settimanali e giornaliere, da fare. Un po' come il libretto di manutenzione di un'auto. Ogni5 mila chilometri bisogna fare un cambio olio? Bene, stessa cosa per gli impianti a fune. Ci sono degli interventi da realizzare".

In quanti siete nell'ufficio Ustif di Settimo, nel Torinese?

"Siamo tre ingegneri. Sì, siamo rimasti in tre. A dicembre eravamo in quattro".

E in tre dovete sovraintendere e controllare 217 impianti?

"Sì, corriamo un po', ma cerchiamo di fare il massimo possibile. Certo, dieci o cinque anni fa eravamo di più e il lavoro era un po' più tranquillo".

Avete 72 impianti a testa da tenere sott'occhio?

"Esatto. Detto in altro modo, se arrivasse qualche nuovo ingegnere potremmo farlo con un po' più calma. Tutto però viene fatto al meglio".

Emiliana Costa per Leggo.it il 26 maggio 2021. Mottarone, la testimonianza choc a Pomeriggio 5: «Degli operai hanno scoperchiato la cabina prima di farci salire». Oggi (ieri, ndr), nel programma condotto da Barbara D'Urso si è tornati a parlare della tragedia della funivia, in cui domenica scorsa hanno perso la vita 14 persone. La conduttrice ha intervistato Riccardo, un ragazzo che ha preso la stessa funivia lo scorso 9 maggio. Ecco la sua testimonianza: «Eravamo 27 in funivia, oltre il numero consentito dalle misure anti Covid. Noi siamo rimasti bloccati sullo stesso impianto per 40 minuti. Ci hanno fatto aspettare 40 minuti prima di farci salire alla fermata centrale di Alpino, dalla quale si scende a Stresa o si sale al Mottarone. Degli operai hanno scoperchiato la cabina per fare dei lavori. Poi non hanno fatto fare un giro a vuoto alle cabine. Alcune persone hanno scelto di scendere a piedi». Continua Riccardo: «Noi siamo saliti ma la cabina faceva dei rumori strani, abbiamo avuto paura. A un certo punto abbiamo pensato 'è la fine'». Barbara D'Urso, senza parole, commenta così: «Sicuramente gli inquirenti acquisiranno la tua testimonianza».

Lodovico Poletto per "La Stampa" il 26 maggio 2021. II freno d'emergenza che non funziona, certo. È un errore umano, o forse anche qualcosa di più. Ma la domanda attorno a cui ruota tutta l'indagine della Procura di Verbania - e sulla quale per il momento nessuno intende sbilanciarsi - è questa: «Per quale misteriosa ragione si è strappato il cavo che traina le cabine?». Per capire qualcosa di più bisogna sfogliare l'atto di appalto dei lavori di manutenzione alla funivia del Mottarone. Anno 2014. Il documento è «la Relazione tecnica generale del Progetto Esecutivo». Dove sono elencati in modo chiaro tutti i lavori che saranno fatti: uno per uno. Si parla di pulegge, di «installazione dello smorzatore di oscillazioni», di sostituzione dei «rulli di linea» degli impianti principali e addirittura di «adeguamento e pulizia dei veicoli principali». Ma non c'è una sola parola sui cavi. Perché? Perché la sostituzione delle funi portanti, traenti e di soccorso di entrambi i tronchi venne fatta l'ultima volta tra il 1997 e il 1998. Nel 2014 quando si progetta il rifacimento non se ne fa nulla. Tecnicamente non sono passati venti anni, ovvero si è ancora dentro (seppure di poco) alla norma italiana entrata in vigore dopo la tragedia della funivia del Monte Bianco, che stabiliva l'obbligo di sostituire le funi dopo 20 anni di attività. E mancavano ancora 36 mesi prima di essere al limite. Di più. Già allora c'era anche in ballo una norma europea che prevedeva di procrastinare di altri dieci anni l'intervento. Di qui la scelta di non farne nulla. Si cambiò tutto, ma restano le funi. Cosa scentra tutto questo con la tragedia del Mottarone? C'entra perché è il cedimento della fune che innesca la discesa in retromarcia della vettura. Che non può frenare. Perché accade? A sentire Donato Firrao, docente del Politecnico di Torino, l'uomo che firmò la perizia tecnica sul cavo portante della funivia del Monte Bianco - altra grande tragedia italiana dei trasporti su fune - c'è di mezzo l'usura. Ovvero una storia che, a raccontarla adesso, fa venire in mente analogie con un'altra tragedia del Paese: quella del ponte di Genova. Una storia che ha a che vedere con l'acqua - e la linea del Mottarone corre proprio sopra la più grande zona lacustre del nord Italia - e ciò che accade al Morandi. In sintesi i tecnici la spiegano così: l'umidità raccolta da dalle funi, nelle ore più fredde si condensa e si insinua tra i trefoli (i fili intrecciati su un'anima di metallo flessibile) e raggiunge il centro. Dove - pian piano - la corrodono. Ovvero: esattamente ciò che è accaduto agli stralli del Morandi. Vero, lì c'era il mare, l'acqua salina, la corrosione moltiplicata per mille, ma su una fune che è almeno venti volte più grande di quella trainante di una funivia. Possibile professor Firrao? Ed ecco la sua risposta: «Quando tagliammo il cavo portante del Monte Bianco fummo investiti da una nuvola di ossido di ferro. Frutto della corrosione interna, che mangia l'anima de fili e alla fine cede di schianto. Non eravamo al mare. ma in montagna. In una zona umida». Ora, se è andata così, e tra chi indaga c'è più di un sospetto, la questione si sposta tutta sulla manutenzione dell'impianto. E resta sospesa una domanda: perché durante i controlli periodici con una apparecchiatura simile a quella adoperata per i Raggi X nessuno se n'è mai accorto nulla? Forse perché le irregolarità, sono più difficili da vedere nei punti di aggancio alla vettura? Ecco la ragione per cui la procuratrice di Verbania, Bossi, parla di necessità di consulenze tecniche sulla cabina (per i freni) e sulle funi. Ma c'è un secondo aspetto da tenere in considerazione, e che sposta di nuovo la lente dei tecnici. Stavolta di mezzo c'è un temporale di cui parla ampiamente Piero Vallenzasca - ex consigliere comunale di Stresa - nella notte tra venerdì e sabato e tra sabato e domenica. Se fosse vero - e di nuovo qui entrano in ballo i tecnici - un fulmine potrebbe aver fuso alcuni trefoli (i fili sopra l'anima flessibile) indebolendo il cavo al punto di portarlo ad una rottura. Arrivata dopo una mattinata di viaggi. L'ultima ipotesi riguarda un problema a una puleggia. Che potrebbe aver rovinato la «fune trainante». Facendo cioè da lima sul metallo. Indebolendolo ad ogni passaggio un po' di più, fino a tagliarlo, e poi arrivare allo strappo che ha fatto andare indietro la cabina, senza controllo da parte dei freni di emergenza. I contatti della Procura di Verbania con il Politecnico di Torino hanno proprio questo obiettivo: individuare la causa prima del disastro. E stabile se - al di là dell'errore umano, di qualunque natura esso sia - c'era una colpa precedente e fin più grave. Perché le ragioni di questo disastro non possono essere liquidate con la parola «caso».

Ivan Fossati, Cristina Pastore, Beatrice Archesso e Luca Bilardo per lastampa.it il 26 maggio 2021. Non dovrebbero chiudersi con i tre fermi di questa notte l'inchiesta sulla tragedia della funivia del Mottarone. Altri nomi, a stretto giro, potrebbero essere iscritti nel registro degli indagati. La procura di Verbania in queste ore sta infatti valutando la posizione di altre persone, in particolare anche in vista della consulenza tecnica e di quelli che saranno gli accertamenti «irripetibili». Intanto Luigi Nerini (amministratore della società che gestisce la funivia), Gabriele Tadini (capo operativo) ed Enrico Perocchio (direttore di esercizio) sono in carcere a Pallanza, in tre celle diverse a causa delle limitazioni Covid. Intanto domani mattina è prevista la richiesta di convalida del fermo disposto dalla Procura di Verbania. Con un minuto di silenzio oggi alle 16 la Camera ha reso omaggio alle 14 vittime della tragedia del Mottarone. «E’ inaccettabile e sarà necessario fare piena luce, in tempi rapidi, sulle cause di questa tragedia e sulle responsabilità» ha detto il presidente della Camera Roberto Fico.

La figlia di una vittima: «Nessun perdono». «Me li avete ammazzati e a questo, mi spiace, non ci sarà mai nessun tipo di perdono». Con una storia su Instagram Angelina, figlia di Vittorio Zorloni – una delle 14 vittime della funivia del Mottarone – commenta la notizia dei tre arresti avvenuti nella notte per quanto successo domenica mattina.

Trovato un secondo «forchettone». Si arricchisce di un nuovo dettaglio l’inchiesta sulla tragedia della funivia di Stresa. Sul luogo dell’incidente, nei boschi del Mottarone, è stato trovato questa mattina il secondo «forchettone», quel particolare strumento che impedisce l’entrata in funzione dei freni di emergenza dell’impianto. L’inchiesta non si ferma. «Verificheremo se anche il personale della società fosse a conoscenza di questa prassi, il che non significa che sia stata una loro decisione» ha detto la procuratrice di Verbania Olimpia Bossi. Intanto domani ci sarà il conferimento dell'incarico ai periti «per un sopralluogo», poi si procederà «al conferimento degli accertamenti irripetibili per i quali abbiamo bisogno di più tempo» ha aggiunto la procuratrice.

I tre arresti nella notte, tra loro il gestore. «Con la convinzione che mai si sarebbe verificata la rottura del cavo, hanno corso un rischio che purtroppo ha determinato un esito fatale per le 14 persone che domenica si trovavano sulla funivia del Mottarone. Il quadro ricostruito è grave e sconcertante». Dopo una lunga notte di interrogatori nella caserma dei carabinieri di Stresa, condotti dalla procuratrice di Verbania Olimpia Bossi e dagli uomini del colonnello Alberto Cicognani, sono stati arrestati quelli che gli inquirenti ritengono i tre responsabili del disastro al Mottarone. Convocato poco prima di mezzanotte e stato trasferito in carcere alle 4 Luigi Nerini, 56 anni, di Verbania, residente a Baveno. E’ l’amministratore delle Ferrovie del Mottarone, la società concessionaria della gestione dell’impianto. Con lui sono indagati in stato di fermo (in attesa della convalida del Gip) Gabriele Tadini - 63 anni, di Stresa – caposervizio dell’impianto e coordinatore del personale: il vice di Nerini all’interno dell’azienda. Il terzo arrestato è l’ingegner Enrico Perocchio, 51 anni, biellese, consulente esterno per le Ferrovie del Mottarone con incarico di direttore di esercizio. Allo snodo delle indagini, affidate dalla Procura ai carabinieri, gli inquirenti sono arrivati a poco più di 48 ore dall’agghiacciante incidente che ha provocato la morte di 14 persone, tra loro molti giovani e due bambini. La svolta nell’attività investigativa è stata segnata dal riscontro che un “forchettone”, un divaricatore che tiene aperte le ganasce che attivano il sistema frenante, era rimasto attivato. Da metà pomeriggio di ieri la convocazione di dieci dipendenti delle Ferrovie del Mottarone e dalle loro testimonianze è emersa una prima verità: i freni non sono entrati in funzione perché si era deciso di tenere aperta la ganascia perché causava interferenze con il sistema trainante e mandava in blocco tutto il sistema. Per sistemare l’anomalia ci sarebbe forse voluto un intervento prolungato che avrebbe voluto dire chiusura dell’impianto e niente incasso per un altro periodo dopo quello del lockdown. Una decisione presa nella certezza che la fune traente non si sarebbe mai spezzata, invece è successo. Per quale motivo, è l’altro enigma che gli inquirenti devono sciogliere. Il  colonnello Cicognani ha spiegato che «hanno ammesso le loro responsabilità». Da quanto ricostruito era da tempo, si presume almeno un mese, che la funivia aveva qualche problema e quindi viaggiava in quel modo. Intanto proseguono le indagini degli inquirenti per verificare ulteriori persone coinvolte e responsabilità. «In modo particolare dalle fotografie all’impianto – ha detto nella notte la procuratrice Olimpia Bossi – abbiamo visto come il sistema di emergenza dei freni sembrava manomesso, nel senso che era stato apposto il “forchettone” che bloccava i freni. Dagli accertamenti questo è stato motivato dall'esigenza di evitare continui disservizi e blocchi della funivia. Erano stati fatti degli interventi di manutenzione che però non aveva risolto del tutto i problemi. Il sistema evidentemente aveva delle anomalie  e avrebbe richiesto un intervento più sostanzioso che avrebbe tenuto fermo l’impianto». E qui il procuratore spiega il perché degli arresti. «Per ovviare a questo problema, gli operatori con quello che noi riteniamo il concorso, l’avvallo e l’assoluta consapevolezza del gestore e del responsabile dell’impianto non ha rimosso questa forchetta. E così, quando il cavo si è spezzato il freno di emergenza non è entrato in funzione». E quindi la rottura della fune – il cui motivo è ancora da chiarire – da sola non avrebbe comportato questa tragedia.

Mario Gerevini per corriere.it il 26 maggio 2021. Il gestore della funivia e il titolare della manutenzione. Relazioni economiche, appalti e la parentesi di una denuncia: è una storia che va messa a fuoco. La Leitner di Vipiteno (Bz), una multinazionale «familiare» da un miliardo di fatturato, e la Ferrovie Mottarone della famiglia Nerini, storici gestori degli impianti che dal lago portano i turisti fino ai 1.492 metri del Mottarone, si mettono insieme nell’estate del 2015. Partecipano all’appalto per i lavori di revisione generale della funivia Stresa-Mottarone, per poi gestirla fino al 2028.

Contributo pubblico. L’operazione è sostenuta da un contributo pubblico di circa 3 milioni che per la sua parte, circa metà, il Comune di Stresa rateizza in tranche annuali da circa 130 mila euro bonificati alla società di gestione dell’impianto. Leitner-Nerini è un tandem affiatato sulla carta: l’azienda altoatesina è il socio costruttore-manutentore mentre l’azienda locale è il gestore-finanziatore. Si aggiudicano l’appalto e a fine 2015 costituiscono la società di progetto Funivie del Mottarone. I Nerini hanno il 20% e Leitner l’80% ma con un patto di cessione ai primi dell’intera quota al pagamento dei lavori e al collaudo. E qui emerge il primo problema: gli imprenditori locali non pagano, secondo Leitner, che cita in giudizio sia Ferrovie del Mottarone che Mario Nerini, il capostipite della famiglia, per ottenere un’ipoteca sui loro beni. Nel frattempo i lavori si concludono e Funivie stipula un contratto con Leitner per la manutenzione dell’impianto per 13 anni. Da notare che in quel momento (aprile 2016) Funivie è ancora all’80% della stessa Leitner.

Attrazioni turistiche. Il contratto di concessione della gestione dell’impianto viene stipulato il 28 ottobre 2016 tra Funivie (sempre nella combinazione 80%-20%) e il concedente Comune di Stresa. La funivia torna a funzionare dopo due anni di stop. Pochi mesi dopo, a marzo del 2017, quando i ricavi cominciano a ingrossare il bilancio e a far vedere buoni risultati, Leitner cede il suo 80%: il prezzo è di soli 8 mila euro. Ma a garanzia dei suoi crediti per i lavori (840 mila euro con un tasso del 4,5%) si prende in pegno tutto il capitale e ipoteca gli immobili di Mario Nerini. Nel giro di poco, con gli affari della funivia che decollano, i Nerini trovano le risorse per saldare il debito con Leitner. E a quel punto la famiglia decide di fondere la società Funivie nella storica (nata nel 1908) azienda di famiglia, Ferrovie del Mottarone, portandosi dentro attivi, passivi e contratti. Tra questi anche quello della manutenzione con Leitner, stipulato quando la stessa società bolzanina aveva il controllo: scadrà al termine della concessione, nel 2028. A che prezzo? Circa 2 milioni di euro per tutto il periodo. Per fare cosa? Manutenzione straordinaria e ordinaria mentre quella giornaliera e settimanale sarebbe a carico della società di gestione. Nel frattempo Luigi Nerini, 56 anni, ha rilevato il 100% dell’azienda di famiglia e con le altre sue società gestisce attrazioni per turisti in vetta al Mottarone (pista da bob su rotaia) e un Safari Park.

Fabio Pavesi e Andrea Deugeni per affaritaliani.it il 26 maggio 2021. Che ci fosse un modello “Autostrade” anche nella gestione della piccola funivia del Mottarone a Stresa? Ricavi garantiti dalla posizione di monopolio della tratta e con costi tenuti il più possibile bassi gli utili erano garantiti. Et voilà, anche la società Ferrovie del Mottarone una piccola srl di proprietà di Luigi Nerini che gestisce l’impianto funicolare collassato è un piccolo esempio di grande profittabilità. Nell’ultimo bilancio quello del 2019 pre-pandemia, la srl ha prodotto 439 mila euro di utili netti su 2 milioni di ricavi. Ogni 100 euro incassati dai biglietti venduti, più di 20 euro diventano profitti per la piccola srl. Una redditività molto buona sul modello di un tipico business da monopolio delle infrastrutture. Fare utili con la funicolare non era poi così difficile. Con circa 100 mila turisti trasportati ogni anno a poco meno di 20 euro a biglietto cui si aggiungono ogni anno i contributi del Comune di Stresa per circa 130 mila euro ecco il fatturato che veleggiava sui 2 milioni. Basta tenere sotto controllo i costi e gli utili sono assicurati. Già i costi. Nel 2019, ma andava più o meno così tutti gli anni precedenti, per beni di consumo e materiali sono stati spesi solo 18 mila euro. La voce dei servizi (tra cui evidentemente la manutenzione appaltata al gigante delle funivie Leitner) contava per 442 mila euro, poco più del 20% del totale degli incassi. Pagato il personale per 485 mila euro l’anno e spesati gli ammortamenti ecco che i profitti si producevano quasi in automatico e per un importo notevole pari al 20% dell’intero fatturato. Questa la dinamica del business della piccola srl familiare che ha in concessione fino al 2028 la funicolare. Un affare per Nerini prima della tragedia. Ora si tratterà di capire dalle carte dell’inchiesta se oltre a gestire un bell’affare sul piano economico, la Funivia del Mottarone non lesinava le risorse necessarie a garantire assoluta sicurezza. Poi ci sono le domande specifiche sul malfunzionamento che per ora non trovano risposta: non era un impianto vecchio a solo una fune traente (i moderni impianti ne hanno due)? E ancora perché non sono partiti i freni di emergenza per bloccare la cabina? A risolvere i dubbi dovrebbe essere anche la Leitner, colosso mondiale altoatesino controllato dalla famiglia Seeber, che Affaritaliani.it ha cercato di contattare chiamando sia i numeri personali dell’ufficio stampa sia l’azienda, ma senza esito. Per il momento il manutentore, che nel 2016 aveva effettuato una revisione completa della funivia e a novembre del 2020 il consueto controllo annuale, ha fatto soltanto sapere che lo scorso anno “non era risultata alcuna criticità”. La Leitner, sede a Vipiteno, 3.814 dipendenti e 18 stabilimenti in giro per il mondo, assieme all’austriaca Doppelmayr, è uno dei gruppi leader mondiali per impianti a fune per il trasporto di persone in montagna e città, un gruppo che grazie a una diversificazione industriale iniziata negli anni ’70 con acquisizioni estere produce anche gatti delle nevi e veicoli cingolati multiuso, sistemi per l’innevamento automatizzato, sistemi per il trasporto di materiali e impianti eolici. Business che hanno consentito alla Leitner di superare per la seconda volta nel 2019 quota un miliardo di fatturato a 1,056 miliardi dai 1,021 miliardi dell’anno precedente. Ricavi realizzati per il 90% interamente oltre confine. Tra gli impianti più celebri della Leitner, che per il design interamente made in Italy collabora dal 2001 con Pinifarina, la cabinovia da dieci posti Fleckalmbath a Kitzbuhel, la monofune più veloce di tutta l’Austria e la prima funivia trifune della Scandinavia a Voss, in Norvegia. Ora a Cortina ha avviato i lavori per il mega collegamento tra Tofane e cinque Torri. E in ambito urbano? Il marchio Leintner è presente sulle vetture del minimetrò di Perugia fino agli impianti di Città del Messico a Tolosa, passando da Medellin, in Colombia.

Da lastampa.it il 26 maggio 2021. Sapeva tutto ma non voleva perdere i ricavi di una bella domenica di sole. Nerini, il gestore della funivia Stresa-Mottarone a due giorni dalla tragedia si diceva devastato, ma sapeva tutto e alla fine ha confessato nella notte. Fabio Poletti racconta i due volti dell'imprenditore.

Lodovico Poletto per "la Stampa" il 27 maggio 2021. Quanto vale la vita di quattordici persone? Centoquaranta mila euro? Forse molto meno se questa storia criminale e pazzesca la guardi da qui, dalla cima del Mottarone, dalla stazione d' arrivo della funivia che ha distrutto famiglie, ammazzato padri, madri, nonni e bambini. Centoquarantamila euro: ed è un calcolo esagerato perché le cabine che scalano la montagna che sovrasta i laghi più belli del l'Italia, non hanno fatto 20 corse al giorno (come da orario per la stagione estiva 2021) a pieno carico, dal 26 aprile a domenica a mezzogiorno. No, la vita di 14 persone vale poche decine di migliaia di euro: soldi che chi ha in carico quella che chiamano «l'attrazione del lago Maggiore» non voleva perdere a nessun costo. «Perché le spese sono tante» e poi «che cosa vuoi che capiti?». Già, «cosa vuoi che capiti?». Lo pensava anche Gabriele Tadini, il capo del servizio della funivia del Mottarone. Persona serissima, dicono. Viso tirato dietro agli occhiali dalla montatura leggera, Gabriele Tadini forse ci pensava da giorni a confessare. A raccontare a qualcuno che sì, quei quattordici nomi scritti sulle bare all' obitorio dell'ospedale di Stresa, in fondo li aveva - anche - lui sulla coscienza. Anche, ma non soltanto. E così era sparito dai radar già da lunedì mattina, il giorno dopo il disastro. «È a Borgomanero, dove vive». «No è dall' avvocato di Milano, con Gigi Nerini» dicevano all' Idrovolante, il bar ristorante di Stresa, accanto all' imbarco della funivia. È ricomparso l'altro pomeriggio al palazzo di giustizia di Verbania come «persona informata sui fatti»: testimone cioè utile a far luce su questa storia. Erano le 8 di sera quando la procuratrice Olimpia Bossi, con il colonnello dei carabinieri Alberto Cicognani ha iniziato a martellarlo di domande sulla storia dei «forchettoni», quei grossi pezzi di ferro di colore rosso, incastrati nei freni di emergenza così da non farli scattare mai. Perché, e chi ha deciso di metterli, e come è stato fatto, gli chiedevano la procuratrice e il colonnello, e lui alla fine non ha retto più. Il racconto - per quel poco che viene fuori in queste ore dal palazzo di giustizia - è di un confronto che diventa drammatico. «Dottoressa mi ascolti: tutto quel che è capitato è colpa mia. Soltanto mia, di nessun altro. Io ho deciso di far girare la funivia con quei dispositivi sui freni di emergenza. L' ho scelto io, l'ho fatto fare io. Nessun altro ha avuto voce in capitolo». Lo ha fatto, ha confessato, perché quel che aveva dentro era un peso troppo grande. «È mia la responsabilità di tutto questo. Soltanto mia, mi creda». Ma chi mai può credere che una scelta di questo tipo possa farla il dipendente di un'azienda, per quanto sieda su una sedia importante? E allora Bossi e Cicognani si sono messi lì, e alla presenza dell'avvocato, lo hanno tempestato di domande. Perché, percome, da quanto tempo i forchettoni erano inseriti, gli hanno ridomandato all' infinito. E poco alla volta è saltato fuori tutto il resto. E cioè che le funivie avevano un problema da fine aprile. Che i forchettoni c' erano - su entrambi i freni - dal 26 di aprile. Che - ovviamente - altri sapevano e avevano approvato la sua scelta. «Chi sapeva signor Tadini?». Alla fine sono stati fuori i nomi che già si dubitavano. Quelli di Luigi Nerini - il boss - l'uomo che aveva preso in concessione la funivia. Il figlio di Mario, l'ultranovantenne ex patron del trenino a cremagliera che scalava la montagna fino alla metà degli Anni '70. E poi sapeva anche il tecnico responsabile delle manutenzioni, l'ingegnere Enrico Perocchio. Di fatto dipendente della Leitner di Vipiteno (incaricata del servizio di manutenzione) e al contempo consulente della Mottarone. Un doppio ruolo, un incarico complicato. Ecco, è bastato questo per far scattare le manette. Per far finire in carcere tutti e tre. Tutti, cioè, sapevano il rischio che correvano. Erano consapevoli che sarebbe bastata una fatalità per provocare un disastro. Ma pur di non far perdere gli incassi delle corse al boss, che piangeva miseria da mesi, hanno fatto carta straccia di ogni norma di sicurezza: «Tanto, che cosa vuoi che capiti?». In questa storia maledetta, di gente che se ne infischia della sicurezza per non perdere poche decine di migliaia di euro, c' è anche dell'altro. Che non è ancora stato chiarito. E cioè: chi altro sapeva e ha taciuto? I vertici, è chiaro, e adesso ci sarà anche la convalida dei fermi. Ma chi altro ha girato la faccia dall' altra parte, ha finto di non vedere, ha condiviso la scelta e ha continuato far correr su e giù i vagoncini della funivia: «Venti euro a passeggero, sconti per i bambini e comitive». Per il momento l'inchiesta è ferma qui: a questi tre uomini. E la procuratrice Bossi non aggiunge altro. Se non che adesso bisogna lavorare su nuovi fronti. Il primo? Quello del cavo. E si deve trovare una spiegazione chiara e inconfutabile sulle ragioni della rottura. Cioè «sull' imprevisto», sulla causa prima del disastro. E ancora una volta c' è il sospetto che la manutenzione abbia qualcosa a che vedere. Perché una fune d' acciaio, che potrebbe sostenere un peso di almeno sei volte tanto un vagoncino come quelli, a pieno carico, non può spezzarsi così. Chi la controllava? E come venivano fatte le verifiche? «C' erano stati degli accertamenti manutentivi sulla funivia» dicono in Procura. Ma quanto approfonditi? E poi ancora: perché non è stato deciso di sospendere le corse per una settimana e risolvere il problema dei blocchi improvvisi, ragione prima per cui si adoperavano i forchettoni? Costava troppo e in cassa non c' erano abbastanza soldi per chiamare a Stresa un super esperto e un manipolo di operai con i pezzi di ricambio? Oppure si sapeva che il cavo era datato e - forse - qualche problema lo aveva? C' è poi una terza questione ancora tutta da chiarire e che riguarda la proprietà dell'infrastruttura. Agli atti della Regione è scritto «è stata trasferita al Comune di Stresa». Ma l'operazione non è ancora stata perfezionata «perché nonostante i solleciti l'amministrazione comunale non ha fornito tutti documenti». E allora di chi è? Di Nerini - a cui è stato passato tutto (gestione e impianto con una concessione di 28 anni) - o del Comune, o ancora della Regione? Per la Procura su questo punto non ci sono dubbi: «La proprietà dell'impianto è in capo alla Regione Piemonte». Se è così: per quale ragione l'ente non ha vigilato? Non ha controllato, non ha insistito per vedere carte e relazioni tecniche? Per quale ragione dal 1997 a oggi il «nodo proprietà» non mai è stato sciolto? Elementi che fanno dire a qualcuno che questa storia non è finita qui. Non con tre arresti, quantomeno. E le colpe - dal punto di vista penale e risarcitorio - sono da distribuire tra un bel po' di altra gente. Per Nerini, Tadini e Perocchio in modo netto. Per chi sapeva e ha taciuto forse più sfumato. E per chi non ha vigilato, la questione va definita con il tempo. Perché, come dice il capo della procura di Verbania: «Siamo soltanto al secondo giorno di indagini. Di strada da fare ce n' è ancora tanta». Oggi si riparte con le indagini. Intanto un primo risultato già c' è: il racconto del tecnico che gestisce la funivia ha consentito di trovare il secondo forchettone blocca freni di emergenza. Era sotto un pezzo di lamiera, nel bosco dove la cabina si è schiantata. Ed è un grosso passo avanti, che cancella tutte le ipotesi di lunedì pomeriggio. E che fa tornare alla prima domanda, quella che racchiude ogni spiegazione di questa storia. Quanto hanno incassato nei giorni di viaggi senza freni di sicurezza? Non 140 mila euro, certo. Molti, molti meno. Forse 30 o 40 mila. Una scelta criminale. Per una manciata di soldi - che mai avrebbero salvato i bilanci si è scommesso sulla vita dei passeggeri. Quattordici sono morti domenica a mezzogiorno. Tra loro anche due bambini.

Quando il gestore diceva: "Non avrei mai rischiato la vita dei miei figli". Francesca Galici il 27 Maggio 2021 su Il Giornale. Uno degli ultimi a sentire Gigi Nerini dopo la tragedia del Mottarone è stato l'editore del sito internet della funivia, con il quale il gestore si è sfogato. È difficile accettare che 14 persone siano morte per una scelta consapevole. Lo sarebbe anche se si fosse trattato di un errore umano, ma sapere che la cabina della funivia del Mottarone è caduta, con a bordo l'intero carico umano, perché è stato deciso di disattivare i freni di emergenza per evitare perdite economiche su un sistema non perfettamente funzionante è inconcepibile. Tra i tre principali indiziati come responsabili di questa immane tragedia c'è Gigi Nerini, il gestore di quella funivia. Fino a domenica era considerato un uomo di sani principi, molto conosciuto nella sua Stresa. Oggi, quelle che fino a ieri erano considerate opere di cui dargli merito diventano ulteriore motivo di biasimo da parte dei suoi concittadini.

La filantropia. Nei primi anni Duemila, Gigi Nerini si è fatto promotore della nascita del circolo verbanese del Kiwanis. Si tratta di un'organizzazione di volontariato il cui scopo è quello di "aiutare i bambini di tutto il mondo". Nel corso del tempo, Nerini pare abbia anche finanziato personalmente alcuni progetti, ricevendo il plauso dei concittadini, gli stessi che oggi usano quegli slanci di volontariato per accusarlo. Il paese è piccolo, la gente mormora e per molti, con la vicenda del Mottarone, Gigi Nerini ha mostrato il suo vero essere. Sul lungolago da domenica non si parla d'altro e il gestore è al centro dei discorsi. Si dice che con il volontariato volesse "darsi un tono", fare come i ricchi filantropi. Il Corriere della sera, che ha parlato con alcuni amici e familiari che preferiscono restare anonimi, spiega che il suo scopo nella vita era quello di raggiungere uno status sociale. Non tanto a livello economico, visto che il suo benessere non era né florido e nemmeno solido, quanto più agli occhi dei suoi concittadini. La pandemia, come a tutti, anche a Gigi Nerini ha causato un ingente danno economico. La funivia è stata forzatamente chiusa per oltre un anno e quella per lui era l'unica fonte di reddito. Va da sé che per non crollare e non fallire, come spiega il Corsera, sia stato costretto a ipotecare la splendida casa di famiglia.

La situazione economica. Villa Claudia a Stresa è un'antica dimora del XIX secolo, una delle tante che si trovano in questo paese sul lago Maggiore, da sempre meta di ricchi turisti italiani e stranieri. Quella villa, oggi, è in decadimento e si notano i segni del tempo che avanza inesorabile senza che vengano attuati interventi di ristrutturazione. "Una casa bellissima, abitata da gente che non può permettersi di mantenerla", dice al cronista del Corriere un abitante del condominio di fronte. Forse, ancora una volta una conferma della volontà di imporsi come membro più in vista della sua comunità, senza però averne le possibilità. La storia della sua famiglia è molto simile a quella di molte altre della zona. Il padre era un piccolo industriale tessile ed è proprio nella fabbrica di famiglia che Gigi Nerini si affaccia al mondo del lavoro non ancora maggiorenne. L'azienda del padre, poi, fallisce nel 1987 e lui va a lavorare nella ditta di trasporti di suo nonno, che in quel periodo era in massima espansione con ben 30 autobus che accompagnavano i turisti sulle vette intorno alla cittadina, dove oltre al Mottarone si trova anche il monte Zeda. Tutto questo fino al 1997, quando l'azienda venne ceduta. Da Pietro Vallenzasca, ex consigliere comunale di Italia nostra, viene definito come "uno che si arrangiava, che grattava il muro con le mani coltivando rapporti, provandoci in ogni modo, ma che non ce l’ha mai fatta davvero".

La gestione della funivia. Gigi Nerini non fa parte del ristretto circolo dei veri ricchi di Stresa, che sono tanti e lavorano per lo più nel settore alberghiero. Sul lungolago di Stresa, infatti, ci sono alcuni degli hotel più famosi del mondo. Lui doveva lottare per guadagnarsi la sua fetta di torta. "Per lo sviluppo del turismo c’è spazio solo in alto", diceva. A causa di una gestione non ottimale, col tempo fu costretto a dismettere le strutture che suo padre ottenne dal ministero dei Trasporti quando venne chiusa la ferrovia a cremagliera, sostituita proprio dalla funivia. Ma aveva anche rischiato di perdere la concessione di quella funivia in passato, proprio per l'incuria con la quale la gestiva. Uno degli ultimi a sentirlo, come racconta il Corriere della sera, è stato Andrea Lazzarini. Lui gestisce il sito della funivia del Mottarone e lunedì mattina avevano concordato due righe da inserire in homepage. "Faccio avanti e indietro su quella cabina tutto il giorno. Se sapevo che c’era qualcosa di pericoloso non avrei mai rischiato la vita dei miei figli", gli avrebbe detto Nerini. Entrambi i figli di Nerini quella mattina hanno utilizzato la funivia. Lavoravano insieme al padre alla gestione dell'impianto e quel giorno sono saliti in vetta con quello stesso impianto. "Avrebbero potuto esserci loro", ha rivelato a Lazzarini, senza aggiungere altro.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Marco Imarisio per il "Corriere della Sera" il 26 maggio 2021. «In forma modesta e privata si è inaugurata l'opera grandiosa che fu sogno accarezzato di molti anni, coll'intervento di molti giornalisti e albergatori, gentilmente invitati dalla Società Ferrovie del Mottarone». Non ci furono cerimonie, per motivi di sicurezza. L'edizione di martedì 11 luglio del 1911 del Verbania se ne dispiace. «Ci affrettiamo a dire che questa ardita ferrovia ormai entrata in attività di servizio non mancherà di ottenere quella maggiore celebrazione che il consenso unanime del pubblico concede alle opere che sono grandi e belle per virtù proprie». Era la Belle époque. Il piccolo borgo di Stresa aveva già dismesso la sua vocazione agricola per diventare la perla del lago Maggiore, meta preferita di scrittori, viaggiatori e reali. La nascita della ferrovia elettrica a cremagliera congiungeva il paese alla vetta del Mottarone che già a quel tempo era soprannominato la vetta dei milanesi. Ce ne sarebbero di storie da raccontare. A volerle cercare, sono dentro un bel libro celebrativo delle edizioni Scenari pubblicato per il centenario, «dal trenino alla funivia, attraverso le vicende di storiche famiglie imprenditoriali impegnate nel settore trasporti e ospitalità». L'autore, nonché committente dell'opera, è Gigi Nerini, attuale gestore della società che da sempre ha in gestione la funivia, tramite una società che anche nella denominazione discende da quella originaria. La sua famiglia è la più recente nell'albero genealogico che conduce all'attuale infrastruttura. Il padre Mario gestisce gli ultimi anni del treno a cremagliera, dal 1959 fino al 13 maggio 1963, quando cessa l'attività per mancanza di sicurezza dovuta a «eccessiva anzianità», come riporta anche il Corriere della Sera di quel giorno. A sostituirla è il servizio di autobus della Società Autoservizi Nerini. Quando il 29 agosto 1970, «con una cerimonia semplice e ben riuscita alla presenza dell'onorevole Oscar Luigi Scalfaro», viene inaugurata la nuova funivia, la gestione «economica e funzionale» dell'impianto bifune, diviso in due tronconi, viene affidata ai Nerini, che la conservano fino a oggi. Anzi, fino al 31 dicembre 2028, come si legge nel testo dell’ ultima concessione, stipulata nel 2015, che fissa una durata di tredici anni. Esiste un gestore ormai storico, ma non si capisce ancora bene a chi appartiene quella funivia. E quindi, bisogna mettere da parte le disquisizioni storiche per addentrarsi in un groviglio burocratico. A cominciare dalla legge regionale del 21 marzo 1997 con la quale il Piemonte trasferisce al Comune di Stresa la proprietà degli impianti ed attrezzature della funivia «al fine di consentire la realizzazione degli occorrenti interventi di manutenzione straordinaria e di messa in sicurezza degli impianti», per i quali contribuisce con uno stanziamento di tre miliardi di vecchie lire. Tutto chiaro. Peccato che quella legge non venga mai trascritta in atti, con i passaggi notarili necessari. Il Comune di Stresa si comporta comunque da padrone, decidendo il periodico rinnovo della concessione a Nerini. Passano gli anni. Gli standard dell'Unione Europea impongono adeguamenti in materia di sicurezza. Il concessionario della funivia non ha la funivia come occupazione principale. Gigi Nerini sviluppa altre attività turistiche che ci girano intorno. Apre Alpyland, la slittovia del Mottarone e un ristorante alla stazione intermedia, prende in gestione dal Comune il giardino botanico Alpinia, realizza una seggiovia panoramica, sempre sulla vetta della montagna. Non è un impero. Sono attività che fanno da corollario alla gestione dei grandi hotel di Stresa, di proprietà delle famiglie e delle società che comandano nel lungolago. La funivia invecchia in fretta. Nel 2009 la manutenzione diventa ancora straordinaria. Nasce addirittura un comitato, fioriscono le petizioni per accelerare i tempi dei lavori di ammodernamento, nel frattempo diventati obbligatori per legge. Nel 2011, il Comune di Stresa chiede alla Regione di riprendere la proprietà dell'impianto, ma continua di fatto ad amministrare i rapporti con il gestore. A maggio di quell'anno la Regione elabora un progetto definitivo da 3.301.029 euro, con la promessa di metterci la metà della somma necessaria. Nessun altro si fa avanti. La funivia chiude per la prima volta nel 2013 per la sostituzione delle pulegge e delle funi, interventi che si erano resi necessari dopo che i pezzi erano risultati usurati durante un'ispezione. Ma non basta. A ottobre del 2014 nuova chiusura, mentre intanto la concessione è scaduta da un anno. Dopo quasi due anni di fermo, la funivia torna in attività il 13 agosto 2016. La gara d'appalto, intanto, è salita fino a 4,4 milioni di euro. Regione e Comune garantiscono per 3,4 milioni. Il resto deve metterlo la nuova società che gestirà l'impianto, nata dal sodalizio tra le Ferrovie del Mottarone di Nerini e la Leitner di Bolzano, fornitrice delle funi. La Regione Piemonte fa un comunicato per dire che non ne vuole più sapere, ora dipende tutto dal Comune di Stresa, il quale con la nuova concessione garantisce ai gestori un finanziamento annuale di 143.000 euro in cambio di un versamento di seimila euro per l'utilizzo di alcune sue strutture nella piazzola di arrivo in vetta al Mottarone. Adesso diventa importante stabilire chi è il vero proprietario della funivia. Potrebbe essere un dettaglio utile. Anche per capire le vere cause del disastro.

Marco Imarisio per il "Corriere della Sera" il 27 maggio 2021. «Perché i bambini sono l'unica cosa che conta, sono creature fragili e dobbiamo averne cura». Durante il suo discorso di insediamento, il presidente Gigi Nerini si era commosso. Non conta più nulla, perché l'enormità di quel che è successo elimina ogni sfumatura. Lui è la macchia più nera di questo disastro, e tale resterà. Ma le cose sono sempre più complicate di come appaiono, e anche l'animo delle persone. L'uomo che oggi è accusato di un crimine infame costato la vita a quattordici persone, tra le quali due bimbi, è la stessa persona che vent'anni fa contribuì in solido a far nascere la sezione di Verbania del Kiwanis, l'organizzazione mondiale di volontari che ha come motto «aiutare i bambini di tutto il mondo», avviando di tasca sua una serie di progetti benefici. Adesso, si sa come vanno le cose, sul lungolago di Stresa si incontrano molti suoi colleghi imprenditori pronti a sostenere che lo faceva per darsi un tono, per entrare in una sorta di Rotary dei poveri. Parlando con i pochi amici che non lo rinnegano e con alcuni familiari, viene fuori anche il ritratto di una vita passata a rincorrere uno status, con l'ansia perenne di una affermazione personale che andasse oltre la dichiarazione dei redditi e lo ricongiungesse a una storia familiare più florida. Il suo invece era un benessere precario, reso ancora più incerto dai quindici mesi di pandemia che avevano chiuso i rubinetti della sua unica fonte di reddito, costringendolo a ipotecare i propri beni personali, cominciando dalla casa di famiglia. La funivia, e il Mottarone, la montagna sulla quale è cresciuto, erano quel che gli restava. Aveva dismesso i beni che il padre ottenne dal ministero dei Trasporti dopo la chiusura della ferrovia a cremagliera. A Stresa c'è ancora il rudere della vecchia pensilina, in stato di abbandono. «Il lago appartiene ai veri ricchi e ormai non ci sono più posti liberi», aveva detto pochi mesi fa. «Per lo sviluppo del turismo c'è spazio solo in alto». Ma a queste conclusioni c'era arrivato quasi per sottrazione. Quando le cose andavano bene, aveva rischiato almeno due volte di perdere quella concessione ereditata dal padre e mantenuta con i buoni uffici del Comune di Stresa proprio a causa dell'incuria con la quale gestiva la struttura. Andrea Lazzarini, l'editore che gestisce per conto suo il sito della funivia, lo ha sentito lunedì mattina. Dovevano concordare due righe da mettere online, una dichiarazione che non fosse soltanto il fermo delle attività. «Faccio avanti e indietro su quella cabina tutto il giorno» gli ha detto. «Se avessi saputo che c'era qualcosa di pericoloso non avrei mai rischiato la vita dei miei figli». La mattina del disastro, sia Federico che Stefano Nerini, che hanno entrambi iniziato a collaborare con l'azienda paterna, sono saliti in vetta. «Avrebbero potuto esserci loro», ha detto all'amico. Era provato. Non ha aggiunto altro. Se non che aveva capito. Era finita, anche per lui. Suo padre Mario era un uomo autoritario, che gli impose una gavetta senza sconti. A diciassette anni, quando ancora studiava al liceo scientifico di Verbania, cominciò come operaio nell'azienda tessile di famiglia, che fallì nel 1987. Passò a lavorare come autista nella società Autoservizi Nerini fondata dal nonno del quale lui porta il nome di battesimo, che non è mai stata un colosso. Si sviluppò tra le due guerre con il trasporto dei familiari che da Verbania salivano all'Eremo, il sanatorio della tubercolosi sul monte Zeda. A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta raggiunse un numero massimo di trenta autobus di linea e da turismo. Nel 1997, l'azienda di famiglia venne ceduta alla concorrenza. Nerini non apparteneva alle grandi famiglie di Stresa, proprietarie degli hotel famosi in tutto il mondo. Le fette più grandi del turismo lacustre non sono mai state sue. «Uno che si arrangiava, che grattava il muro con le mani coltivando rapporti, provandoci in ogni modo, ma che non ce l'ha mai fatta davvero». Piero Vallenzasca, ex consigliere comunale di Stresa, esponente di Italia nostra, liquida così uno dei suoi nemici storici. E certe volte, la cattiveria è meglio dell'indifferenza. Nerini chi? Oggi non risulta a nessuno. Neppure a qualche collega imprenditore che pure figura tra gli iscritti del consorzio turistico Terra dei laghi, una delle sue iniziative finite male. Promuoveva le bellezze del Lago Maggiore, partecipava a ogni fiera turistica in giro per il mondo, ospitava delegazioni russe e cinesi. Quando la Regione Piemonte tagliò di un terzo i finanziamenti, si scoprì che in cassa non c'era più nulla. Duecentomila euro di scoperto. Villa Claudia di Baveno è forse il simbolo di questa parabola personale e imprenditoriale. Gigi Nerini ha vissuto in una normale villetta a schiera di Verbania fino alla morte avvenuta nel 2004 dell'amatissima nonna, dalla quale ha ereditato la storica dimora costruita nel XIX secolo. I muri sono pieni di crepe, la tinteggiatura è ormai svanita. Le finestre dell'ala interna hanno i vetri rotti e anneriti. «Una casa bellissima, abitata da gente che non può permettersi di mantenerla», dice un abitante del condominio di fronte, mentre passa uno dei figli di Gigi Nerini, camminando con la testa bassa e coperta dal cappuccio di una felpa. A Stresa e nei dintorni, non ci saranno domande. E non ci sarà alcuna pietà.

Giuseppe Guastella per il "Corriere della Sera" il 27 maggio 2021. C'è un momento preciso nel quale, già messa a dura prova dai sensi di colpa per la morte dei 14 passeggeri della funivia del Mottarone di cui non possono non avvertire il peso, la vita di Luigi Nerini, Enrico Perocchio e Gabriele Tadini sprofonda nel baratro. È quando alle prime ore di martedì mattina i pm che indagano su uno dei maggiori disastri della storia italiana dei trasporti a fune mettono la propria firma sul decreto di fermo che porta i tre in carcere trasformando quello che fino a poco prima veniva letto come un tremendo incidente dovuto ad un fatale, tragico «errore umano», in una «scelta deliberata» e criminale, fatta solo per soldi. Quelli che la Ferrovie del Mottarone avrebbe perso se avesse fermato l'impianto per una lunga riparazione. Nerini, 55 anni, titolare della società che gestisce la funivia, Perocchio, 51 anni, direttore di esercizio, Tadini, 63 anni capo servizio, sono accusati di «Rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro», reato che prevede fino a 10 anni di reclusione in caso di disastro e vittime per chi non mette, rimuove o danneggia sistemi di sicurezza. I carabinieri della compagnia di Verbania già a 48 ore dall'incidente avevano fornito al Procuratore Olimpia Bossi e al sostituto Laura Carrera tutti gli elementi che spiegavano che i freni di emergenza non erano intervenuti perché erano stati disattivati con i «forchettoni», con la conseguenza che quando domenica mattina la fune di trazione si è spezzata all'arrivo nella stazione di monte, la cabina, libera dall'unico vincolo, è diventata un proiettile, ha ripercorso a ritroso gli ultimi 300 metri fatti all'andata a folle velocità, si è sganciata dalla fune portante schiantandosi a terra. Quando Tadini viene interrogato martedì pomeriggio nella stazione dell'Arma di Stresa la situazione si ribalta nel momento in cui ammette «di aver deliberatamente e ripetutamente inserito i dispositivi blocca freni (i «forchettoni», ndr) durante il normale servizio di trasporto dei passeggeri», si legge nel decreto di fermo. Sono le 16.30, arrivano pm e avvocato difensore d'ufficio, l'uomo viene indagato e l'esame riprende con le domande stringenti della Procuratrice e del capitano Luca Geminale. Perché ha messo i «forchettoni»? Perché una serie di anomalie facevano scattare i freni d'emergenza e le riparazioni, l'ultima il 3 maggio, non erano servite a niente. «Per evitare continui disservizi e blocchi della funivia, c'era bisogno di un intervento radicale con un lungo fermo che avrebbe avuto gravi conseguenze economiche. Convinti che la fune di traino non si sarebbe mai rotta, si è poi voluto correre il rischio che ha portato alla morte di 14 persone. Questo è lo sviluppo grave e inquietante delle indagini», è la raggelante risposta di Olimpia Bossi alla fine degli interrogatori mentre alle 4 di martedì mattina sul lago Maggiore albeggia. Il blocco per la pandemia aveva falcidiato gli incassi e, ipotizzano gli investigatori, bisognava evitare ulteriori perdite. Tadini ha dichiarato che Nerini e Perocchio, che erano stati «ripetutamente informati» della situazione, «avallavano tale scelta e non si attivavano per consentire i necessari interventi di manutenzione», riporta il decreto, già dalla riapertura del 26 aprile. Per quasi un mese, quindi, la cabina è stata una roulette russa per chi ci ha viaggiato. Resta da capire perché la fune traente si sia spezzata, quesito al quale risponderanno le consulenze tecniche che saranno affidate dai pm già da oggi. Per i magistrati, quindi, siamo di fronte a fatti la cui «straordinaria gravità» è dimostrata dalla «deliberata volontà di eludere gli indispensabili sistemi di sicurezza dell'impianto di trasporto per ragioni di carattere economico e in assoluto spregio delle più basilari regole di sicurezza, finalizzate alla tutela dell'incolumità e della vita dei soggetti trasportati». Quello che è accaduto, scrivono ancora, a causa della «sconsiderata condotta» dei tre indagati comporta, in caso di una condanna in un processo, «l'irrogazione di una elevatissima sanzione detentiva». Questo potrebbe spingere gli indagati a fuggire. Secondo i pm, infatti, il pericolo di fuga è «concreto e prevedibilmente prossimo alla volontà degli indagati» anche «in considerazione dell'eccezionale clamore a livello internazionale» della vicenda e «per la sua intrinseca drammaticità, che diverrà sicuramente più accentuata» quando emergeranno per intero tutte «le cause del disastro».

Da ansa.it il 27 maggio 2021. Ai tre arrestati per l'incidente alla funivia del Mottarone sono contestati fatti di "straordinaria gravità" per la loro "deliberata volontà" di bloccare i freni di emergenza "per ragione di carattere economico e in assoluto spregio delle più basilari regole di sicurezza". Lo scrive la Procura di Verbania nel decreto di fermo dei tre, sottolineando il capo servizio della funivia, "ha ammesso di avere deliberatamente e ripetutamente inserito i dispositivi blocca freni (forchettoni), disattivando il sistema frenante di emergenza", mentre il direttore di esercizio e l'amministratore locale non hanno agito "per consentire i necessari interventi di manutenzione". Respira da solo ma non è ancora completamente cosciente Eitan, il bimbo unico sopravvissuto della strage. Mottarone: Leitner spa, ci costituiremo parte civile  - Leitner SpA si costituirà parte civile nel procedimento giudiziario per la tragedia di domenica sulla funivia Stresa-Mottarone. Lo annuncia la stessa azienda di Vipiteno. "La manomissione degli impianti di sicurezza che ha portato alla tragica morte di 14 persone - dichiara Anton Seeber, presidente di Leitner SpA - è un atto gravissimo. L'utilizzo dei cosiddetti forchettoni è espressamente vietato con persone a bordo. Per tutelare l'immagine dell'azienda, dei suoi collaboratori e di tutto il settore abbiamo deciso che ci costituiremo parte civile. Eventuali risarcimenti verranno devoluti alle famiglie delle vittime". Leitner, 30 aprile fatti controlli a freni - Ribadendo di aver "sempre risposto con tempestività a ogni richiesta di intervento da parte del gestore", Leitner ha reso noti gli ultimi due interventi alla Stresa-Mottarone. "Una società incaricata da Leitner ha effettuato il 30 aprile 2021 (con comunicazione degli esiti datata 3 maggio 2021) controlli ai freni vettura, con verifiche di funzionalità, senza riscontrare problemi e procedendo alla ricarica degli accumulatori delle centraline idrauliche che azionano i freni sulla fune portante. Da quel giorno a Leitner non sono arrivate altre richieste d'intervento e segnalazioni in merito a malfunzionamenti dell'impianto frenante". Per la procura di Verbania che indaga sull'incidente del Mottarone, "sussiste il pericolo concreto e prevedibilmente prossimo della volontà degli indagati di sottrarsi alle conseguenze processuali e giudiziarie delle condotte contestate, allontanandosi dai rispettivi domicili e rendendosi irreperibili". Lo si legge nel decreto di fermo disposto nei confronti di Luigi Nerini, Enrico Perocchio e Gabriele Tadini, rispettivamente amministratore unico, direttore di esercizio e capo servizio della funivia crollata domenica scorsa causando la morte di quattordici persone. Gabriele Tadini, capo servizio della funivia del Mottarone, "ha ammesso di avere deliberatamente e ripetutamente inserito i dispositivi blocca freni (forchettoni), disattivando il sistema frenante di emergenza". Una condotta "di cui erano stati ripetutamente informati" Enrico Perocchio e Luigi Nerini, direttore di esercizio e amministratore di Ferrovie del Mottarone, che "avvallavano tale scelta e non si attivavano per consentire i necessari interventi di manutenzione che avrebbero richiesto il fermo dell'impianto, con ripercussioni di carattere economico". "I fatti contestati sono di straordinaria gravità in ragione della deliberata volontà di eludere gli indispensabili sistemi di sicurezza dell'impianto di trasporto per ragione di carattere economico e in assoluto spregio delle più basilari regole di sicurezza finalizzate alla tutela dell'incolumità e della vita" dei passeggeri. Lo scrive la procura di Verbania nel decreto di fermo. Sottolineano la "sconsiderata condotta" che "ha determinato" la "morte di quattordici persone e lesioni gravissime a un minore di cinque anni" i magistrati della procura di Verbania. I pm rilevano che "in caso di accertato riconoscimento" delle responsabilità la pena detentiva sarebbe "elevatissima". "Il nostro paese con questo e i passati governi ha erogato sostegni importanti: dati Inps parlano di oltre 2 miliardi e 700 milioni di cassa integrazione" e molti sono arrivati ad aziende "che non hanno avuto alcuna flessione di fatturato durante la pandemia. Forse se questo operatore avesse avuto ristori di altra natura, se avesse avuto ristori chi ha avuto vistose diminuzioni di entrate, forse avremmo 14 morte in meno". Lo ha detto il presidente della Commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra a Sky. "Piango 14 vite umane che si sarebbero potete salvare", ha concluso. "Abbiamo sequestrato tutto, anche la scatola nera": lo ha detto il capitano Luca Geminale, comandante della compagnia dei carabinieri di Verbania che da domenica lavora sul campo alle indagini sull'incidente alla funivia del Mottarone. "Il tragico incidente del 23 maggio 2021 sulla funivia Stresa Mottarone è una grande ferita per il Paese. Desidero quindi esprimere nuovamente il profondo cordoglio del Governo nei confronti dei familiari delle vittime". Lo ha detto il ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili, Enrico Giovannini, iniziando in Aula alla Camera l'informativa urgente del Governo sul tragico incidente verificatosi sulla funivia Stresa-Mottarone. L'Aula ha applaudito dopo queste parole. Un gesto "consapevole", per ovviare ai problemi tecnici della funivia ed evitarne lo stop. A discapito della sicurezza dei passeggeri. E' un quadro "molto grave e inquietante" quello che emerge dagli accertamenti degli inquirenti sulla tragedia del Mottarone. Tre le persone fermate all'alba, e sono arrivate anche le prime ammissioni: Luigi Nerini, titolare della società che ha in gestione l'impianto, Enrico Perocchio e Gabriele Tadini, rispettivamente direttore dell'esercizio e capo servizio della funivia. Sono accusati, in concorso tra loro, di omissione dolosa, "articolo 437 del codice penale", precisa il procuratore Olimpia Bossi che, in attesa delle verifiche tecniche sulla fune e dell'intervento dei consulenti esperti, oggi chiederà la convalida dei fermi al gip del Tribunale di Verbania. E intanto si riserva "di valutare eventuali posizioni di altre persone". Presto potrebbero dunque esserci altri indagati, perché se è vero che i tre fermati erano "coloro che prendevano le decisioni" e che avrebbero "condiviso" quella scelta che, secondo le indagini, assieme alla rottura del cavo, ha causato l'incidente, il sospetto degli inquirenti è che anche altri sapessero delle anomalie della funivia e di quel "forchettone", il divaricatore che tiene distanti le ganasce dei freni di cui oggi è stata trovata tra i boschi un'altra parte, la seconda. Bloccare così quel freno d'emergenza, "senza interventi più decisivi e radicali" sembra esser stato, per i fermati, l'unico modo di non compromettere l'esercizio della funivia, che aveva ripreso a girare dopo il lungo stop per la pandemia. Quella cabina aveva infatti problemi "da un mese o un mese e mezzo" e per cercare di risolverli sono stati effettuati "almeno due interventi tecnici", ha ammesso durante l'interrogatorio di martedì sera, come apprende l'ANSA, Tadini. "La preoccupazione era il blocco della funivia. Stavamo studiando quale poteva essere la soluzione per risolvere il problema", ha aggiunto nelle quattro ore di dichiarazioni che, come è stato riferito, hanno riempito parecchie pagine di verbale. Da quanto è trapelato il tecnico avrebbe ammesso che si sarebbe trattato, come stamane ha ribadito il Procuratore Bossi, "di una scelta consapevole e non di una omissione occasionale o una dimenticanza" per "bypassare un problema"" che non era di un giorno. E proprio per questo come è scritto nel capo di imputazione i tre sono stati fermati solo per l'accusa di "rimozione o omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro" con l'aggravante che da questo comportamento ne è derivato un disastro. Un reato che prevede una pena fino a 10 anni, a cui si aggiungono l'omicidio colposo plurimo e le lesioni gravissime per cui i tre sono indagati. Intanto oggi é attesa la richiesta di convalida del fermo e di arresto da parte dei pm che in queste ore stanno scrivendo l'atto, corredato dei documenti finora raccolti, dalle testimonianze dei dipendenti dell'impianto - non è escluso che sia stato uno di loro a spiegare la questione del 'forchettone' su cui sono stati trovati i risconti sufficienti per il carcere - e da altri elementi probatori. Richiesta che verrà inoltrata al gip il quale, probabilmente già venerdì, potrebbe fissare gli interrogatori per poi decidere. Sempre oggi è atteso il conferimento dell'incarico a uno o più ingegneri del Politecnico di Torino per una maxi consulenza e non è escluso che facciano un primo sopralluogo sulla scena dell'incidente, dove ora ci sono le lamiere accartocciate, simbolo di morte. E poi, non tra molto l'elenco degli indagati si dovrebbe allungare se non altro in vista dell'accertamento tecnico irripetibile necessario per avere un quadro di quel che è accaduto. "Il mio assistito è sereno - commenta l'avvocato Marcello Perillo, legale di Tadini, dopo avergli fatto visita in carcere - ed essendo un cattolico fervente sta cercando conforto nella fede. Mi ha raccontato del fatto. Sono in attesa di avere accesso al fascicolo per leggere gli atti e studiare una linea difensiva".

Fabio Poletti per “La Stampa” il 27 maggio 2021. Il dolore da solo non basta. A rendere insopportabile la tragedia è la scoperta che dietro a quelle 14 morti c'è la mano colpevole di uno di qui, del Luigi Gigi Nerini che conoscevano tutti, vedevano al bar o sul lungolago, con il suv Mercedes nero che fa tanto imprenditore di successo. Il giorno dopo gli arresti e le confessioni, i forchettoni messi ai freni per spremere la funivia come un limone senza pensare al suo carico di turisti, Stresa si scopre tradita. Davanti alla chiesa dei Santi Ambrogio e Theodulo, affollata per la commemorazione delle quattordici vittime, una signora con la camicetta rosa e il golfino beige all'uncinetto, dice quello che pensano molti: «Siamo passati dal dolore alla rabbia. Prima piangevamo solo dei poveri morti, anche se non erano di qui. Adesso abbiamo a che fare con dei criminali. Si fa fatica a pensare che per qualche euro c'è chi decide di mettere a repentaglio la vita della gente. La nostra vita». In chiesa sono in 160, contati per le misure anti Covid. In strada mischiati alle televisioni e alle autorità in pompa magna, altra gente. Tanta, molta più che all'obitorio con le salme delle vittime, dove a portare un fiore o a dire una preghiera erano stati davvero pochini. Davanti all'altare quattordici fiammelle, quante sono state le vittime. Don Gian Luigi Villa, parroco di Stresa da dieci anni, legge le parole di cordoglio inviate dal Papa, ma poi non può trattenersi: «C'era Dio in quella cabina schiacciata, come sulla croce dall'ingiustizia umana. Morti di questo tipo aprono voragini di male e di sofferenza». Parole dure ma misurate. A sentire Angelo Garavaglia, il proprietario del Cafè Idroscalo attaccato alla funivia, il barista che ogni giorno serviva l'espresso a Luigi Gigi Nerini, lo stresiano che come tutti sarà salito un milione di volte sull'impianto fino al Mottarone, a sentire lui si capisce davvero come si sentano i nemmeno cinquemila abitanti di Stresa. Le sue sono parole colme di rabbia, tanta rabbia: «Lui e gli altri arrestati sono persone che conosciamo. Non ci aspettavamo una svolta così. Avevano la nostra fiducia ce l'hanno tolta con il loro comportamento che ha provocato 14 morti. Quello che hanno fatto non è ammissibile. Hanno messo a repentaglio la vita di tutti. Su quella funivia domenica ci potevo essere io, ci potevano essere i miei figli. Chiunque di Stresa. Gente che lo salutava, divideva il caffè o l'aperitivo, era abituato a vederlo come uno di noi». Perché alla fine, non sono solo i 14 morti il problema. Persone che venivano da Pavia o da Israele, da Varese o dalla Calabria, luoghi troppo distanti anche per l'umana pietà. Il fatto che sconvolge è che questi morti li abbia provocati uno di Stresa, per un gesto calcolato e scellerato pur di non perdere l'incasso di una giornata di sole. Che sarebbero poi 6 mila euro in tutto. Che fanno nemmeno 450 euro a vittima, quasi che la vita non abbia prezzo. Ma nell'altro senso, diverso dal sentire comune. Il sindaco di Stresa Marcella Severino, al mattino corre a Torino al capezzale del piccolo Eitan, l'unico sopravvissuto, al pomeriggio indossata la fascia tricolore appare alla commemorazione delle vittime. Le sue sono parole colme di costernazione: «La notizia degli arresti è una ulteriore mazzata. Adesso sappiamo che la tragedia si poteva evitare. Il buono e il cattivo c'è ovunque, persone così spero ce ne siano pochissime». C'è chi ha perso la vita per salire sul Mottarone. C'è chi immagina che l'immagine della perla del lago Maggiore non sarà più la stessa dopo questa tragedia che ha fatto il giro del mondo. In paese sono arrivati giornalisti israeliani, tedeschi, svizzeri. Perché alla fine c'è pure il danno economico, con la funivia ferma per chissà quanto tempo. All'imbarcadero dei battelli per l'Isola Bella, c'è chi vede il brutto di tutto. Un signore col giubbotto blu e gli occhiali da sole è più addolorato che arrabbiato: «Nessuno poteva immaginare che per l'incasso di una giornata Gigi potesse arrivare a tanto. Si è rovinato la vita oltre ad aver rovinato la vita a 14 persone e ai loro familiari. Ma ha rovinato anche l'azienda che andava avanti da cent'anni e pure i suoi dipendenti, adesso senza lavoro fino a chissà quando». Tra le autorità, alla commemorazione per le vittime, c'è anche il presidente della Provincia del Verbano Cusio Ossola Arturo Lincio. Le sue sono parole sentite, ma sono pure la difesa di Stresa, di quello che è stato e che rischia di non essere più, come una macchia indelebile: «Sono qui per testimoniare la nostra vicinanza a chi ha subito questa sciagura insopportabile. Ma siamo anche colpiti perché abbiamo fatto dell'ospitalità di questa terra il nostro traguardo». Giovanni Catarinella un tempo gestiva il Baia Rosa Bistrot dall'altra parte della piazza da dove partono la funivia e i battellini e i motoscafi per il giro sul lago d'estate affollato di turisti. Gli piace venire qui anche solo per una passeggiata. Come tutti conosceva Luigi Gigi Nerini. Non può difenderlo ovviamente. Ma più che rabbia la sua è incredulità, per una tragedia provocata da una colpa grave: «Non doveva fare quello che ha fatto. Lui e gli altri arrestati con lui si sono fatti prendere dall'ingordigia. Hanno agito con una leggerezza che alla fine è costata la vita a 14 persone, gente che veniva qui da noi per godere di un giorno di sole, il primo dopo le troppe privazioni che abbiamo vissuto tutti con il lockdown». Dalle televisioni e sui social arrivano le reazioni della politica e dei familiari che hanno perso un loro caro. Si invocano pene severe. Si giura che mai e poi mai si potrà perdonare chi per ingordigia e per profitto ha provocato una strage. Davanti alla chiesa di Sant'Ambrogio e Theodulo, porgere l'altra guancia non è nemmeno da prendere in considerazione. Un ragazzone con la mascherina nera quasi sibila di rabbia: «Non devono più uscire dal carcere. Devono buttare via la chiave. Ma, soprattutto, non si facciano mai più vedere a Stresa».

Fabio Poletti per “La Stampa” il 27 maggio 2021. La differenza tra un benefattore e uno squalo passa attraverso un forchettone di troppo e quattordici morti che fa pena pure contarli. Luigi Gigi Nerini, 56 anni, il suv nero in cortile, il villone che vorrebbe essere un castello, era tutto questo. Nel bene e nel male. Nel male per quello che ha provocato. Nel bene di chi lavorava per lui alla Società Ferrovie del Mottarone, come uno dei tanti addetti che adesso racconta l’altro lato, quello non oscuro: «Quando eravamo fermi per il lockdown ci ha aiutato anticipando a tutti la cassa integrazione. Aggiungendo di tasca sua altri soldi per farci arrivare allo stipendio pieno». Di soldi ne giravano, anche se non tantissimi dentro la società, concessione garantita fino al 2028. Fatturato da 1 milione e 800 mila euro, 450 mila euro di guadagno, più 130 mila euro all’anno di sovvenzione dal Comune di Stresa. A cui poi va aggiunto tutto il resto, la seggiovia al Mottarone, Alpyland la pista artificiale estiva di bob, 1200 metri, una tra le più grandi di Europa. Una volta c’era anche il patrimonio immobiliare del padre, l’artefice del successo per il trenino fino in vetta, ma col tempo si è volatilizzato. Uno degli immobili è diventato un supermercato Conad. Rimane villa Claudia, più bella che pretenziosa, in restauro con le impalcature e i tubolari, la parabolica sul balcone della torretta beige che fa tanto periferia metropolitana. La ex moglie dalla quale era separato da tempo è finita chissà dove, i due figli di 20 e 22 anni, uno aiutava alla biglietteria della funivia, sono andati lontano da occhi indiscreti. A sentire chi non lo ama, e non sono tanti, Luigi Gigi Nerini è il classico imprenditore prendi i soldi e scappa. Pietro Vallenzasca, ex consigliere comunale di opposizione a Stresa, uno che da sempre gli ha fatto la guerra, lo ritrae come un imprenditore con il pelo sullo stomaco, più pelo che stomaco: «Si faceva dare i soldi pubblici per ristrutturare gli impianti ma poi se li intascava. E siamo davvero sicuri che questa storia del forchettone per disattivare il freno per evitare problemi, sia stata la follia di una domenica di sole? Magari lo faceva sempre, per lucrare sui turisti». Il titolare di un hotel su al Mottarone, dove si arriva solo con la funivia o pagando l’esosissimo pedaggio di 10 euro manco fosse un’autostrada a quattro corsie, col senno di poi si chiede quello che si chiedono tutti: «Se lo ha fatto solo per guadagnare qualche euro in più, chissà da quanto tempo lo faceva». E allora adesso che Luigi Gigi Nerini è finito in carcere e chissà per quanti anni, sembra essere tornata a tutti la memoria sui mille magheggi della società Ferrovie del Mottarone, le concessioni e i fallimenti. Pietro Vallenzasca, l’ex nemico del Consiglio comunale di Stresa, fa due conti: «La concessione sarebbe durata fino al 2028. Altri sette anni che gli garantivano di andare ampiamente in pensione, incassando ancora 910 mila euro solo di aiuti dal Comune di Stresa». Poi c’è chi ricorda pure la concessione tolta nel 1997 per «grave incuria nella gestione della funivia», concessione restituita allo stesso gestore appena quattro anni dopo. Sono cose di cui si occuperà la Procura, si capisce. Resta il mistero sull’altro volto di Luigi Gigi Nerini, uno di qui, uno che trovavi al bar o in pizzeria, che dopo aver manomesso i freni e contato le vittime, a tutti mostrava un dolore che sembrava averlo annientato: «Soffro per quei morti, mi sento già in croce. È come se fossero morti dei miei parenti, dei miei figli». Ma in questa storia di guardie e ladri, di investigatori e magistrati che ci mettono due giorni e due notti a scoprire forchettoni fraudolenti, c’è un altro dottor Jekyll e mister Hyde, l’ingegner Enrico Perocchio, nato a Rapallo e residente tra Biella e Torino, dipendente della Leitner di Vipiteno, il colosso mondiale che cura pure la funivia del Mottarone e allo stesso tempo libero professionista con mansioni di certificatore di impianti proprio a Mottarone e pure a Rapallo. A Stresa lo conoscono in pochi, veniva, certificava, firmava carte e a quanto pare chiudeva un occhio se non due. L’assessore ai Lavori Pubblici del Comune di Rapallo Filippo Lasinio è basito: «Per quanto lo conosca, tutte le volte che l’ho visto al lavoro mi è sembrato sempre molto scrupoloso, costantemente chiedeva il controllo dei componenti e degli interventi». Pure alla Leitner di Vipiteno sono sbalorditi: «Adesso aveva l’ufficio a Torino, si occupava dell’assistenza ai clienti. Era con noi da vent’anni. Uno puntiglioso, mai un problema. Non capiamo proprio, per ora non abbiamo neanche deciso di sospenderlo. Vogliamo capire meglio». Ultima ruota del carro a finire in carcere Gabriele Tadini, che abita a Borgomanero. Lui era il motore della funivia nel vero senso della parola. Alla stazione intermedia di Alpino gestiva i comandi per far muovere l’impianto. In vent’anni era diventato il braccio destro di Luigi Gigi Nerini. A parte la parentesi dal 1993 al 1997, quando si era fatto prendere dalla politica ed era finito a fare il consigliere comunale della Lega a Stresa. Ma poi gli era passata. Chi lo ha visto domenica aggirarsi tra le lamiere accartocciate della «sua» funivia, racconta che dal dolore non riusciva a dire neanche una parola. Ma forse era solo paura, la paura di sapere che prima o poi sarebbe finita com’è finita.

Ivan Fossati per "La Stampa" il 27 maggio 2021. Vogliono procedere con prudenza e dopo una forte, e rapida, risposta al mondo che si domandava cosa fosse successo su quella maledetta funivia, ieri Procura e carabinieri di Verbania hanno tirato il fiato. Almeno in apparenza. Qualche ora per riprendersi da una notte infinita (Luigi Nerini, Gabriele Tadini ed Enrico Perocchio sono usciti dalla caserma diretti in carcere che erano le 4 passate), attendere le convalide dei fermi - l'udienza del gip è prevista nel pomeriggio - e andare a caccia della risposta più difficile: perché la fune si è strappata. Che resta il vero buco nero. Chiarito il motivo del disastro costato 14 vite, sarà più complesso mettere a fuoco dove quei fili di metallo intrecciati hanno manifestato una falla passata inosservata fino alle 12,02 di domenica. Le suggestioni si insinuano tra scenari concreti e altri più improbabili: dal rattoppo mal eseguito al fulmine, dalla testa fusa con un danno importante alla piccola lacerazione ignorata troppo a lungo. Resta sul tavolo anche il sabotaggio, ma solo per il concetto secondo cui fino a prova contraria non si esclude nulla. Se lunedì mattina la procuratrice Olimpia Bossi aveva detto «serve la verità, non la fretta» e poi in poche ore una parte dell'inchiesta ha avuto l'accelerazione inattesa, è verosimile la dichiarazione di ieri del colonnello dei carabinieri Alberto Cicognani: «Non dobbiamo correre, anche se stiamo andando veloci. Fatti i primi passi, ci sono tempi da rispettare». A partire dal gip, che domani vedrà gli indagati e poi si esprimerà sulla misura cautelare. Intanto sul registro non sono stati aggiunti nomi. Il prossimo passo sarà riscontrare le informazioni raccolte martedì tra le 16 e mezzanotte. Mentre in una stanza della caserma di Stresa Gabriele Tadini, dipendente della società Ferrovie del Mottarone con il ruolo di caposervizio, cominciava a svelare dettagli che verso le 18 hanno trasformato la sua posizione in indagato, in altri locali venivano raccolte le sommarie informazioni degli operatori. Quelle che ora vanno riscontrate. Luigi Nerini, il gestore, è stato invece convocato che era ormai mezzanotte, e a lui non sono state poste domande: dopo quattro ore ha scoperto che non sarebbe tornato a casa. Così pure Perocchio, il più sorpreso dei tre, quello che quando iniziava ad albeggiare lo si sentiva protestare ad alta voce tra le mura della caserma. No, non se l'aspettava di finire in una cella. E ieri l'avvocato Andrea Da Prato ha dichiarato che Perocchio «nega categoricamente di aver autorizzato l'utilizzo della funivia con i "forchettoni"». Perocchio è il direttore di esercizio della funivia, figura che non impone la presenza costante in sede, ma che non esula dalle responsabilità. A loro si aggiungerà probabilmente qualche operaio che materialmente non rimuoveva, ormai da settimane, il blocco al freno. Ma ora la questione è capire dove e perché la traente si è sfilacciata. Dentro la stazione di monte tra le pulegge, oppure nell'attacco al gancio della cabina, la cosiddetta «testa fusa». È il punto sottoposto a maggior stress, la parte terminale e più delicata della fune, anche quella che si riesce a controllare meno con i rilievi magnetoinduttivi. È per questo che la «testa fusa» va rifatta ogni cinque anni, indipendentemente dalle condizioni. Si taglia e si realizza una nuova fusione. Agli specialisti incaricati delle perizie non dovrebbe risultare complicata una prima analisi del punto di rottura, chiarendo se sia dovuta alla corrosione, a un fulmine, oppure se i filamenti risultano tranciati di netto. In contemporanea con l'udienza davanti al gip per i tre fermati, arriverà a Verbania il perito incaricato dalla Procura: è il docente di meccanica aerospaziale Giorgio Chiandussi del Politecnico di Torino. Sarà poi lui a indicare altri esperti per completare il pool che lavorerà, forse per mesi, sui rottami della cabina. I rilievi saranno sul campo, con l'obiettivo di spostare il prima possibile la carcassa dal bosco e chiuderla in un magazzino. Ieri mattina, con l'aiuto di una trentina di volontari di Soccorso alpino e Protezione civile, i carabinieri hanno setacciato l'area dell'incidente a caccia del secondo «forchettone». E per trovarlo sono bastati dieci minuti. È il segno che entrambi i freni della cabina erano bloccati. Questo esclude un altro scenario. Fino a un paio d'anni fa a bordo c'era il conduttore, che in caso di necessità aveva la possibilità di azionare con un altro comando lo stop d'emergenza. Non sarebbe servito, con il forchettone che blocca le ganasce non c'è niente da fare. E i responsabili della funivia lo sapevano.

"C'è il pericolo di fuga". Ecco cosa può accadere agli indagati. Luca Sablone il 27 Maggio 2021 su Il Giornale. L'accusa è forte: "Condotta sconsiderata per evitare ripercussioni di carattere economico". Adesso i tre fermati per la tragedia del Mottarone rischiano grosso. La "condotta sconsiderata" messa in atto da Luigi Nerini (gestore della funivia del Mottarone), da Gabriele Tadini (caposervizio responsabile dell'impianto) e da Enrico Pericchio (ingegnere e consulente esterno) nella giornata di domenica "ha determinato" la morte di 14 persone e lesioni gravissime ai danni di un bambino di 5 anniì. È questo uno dei passaggi del decreto di fermo emesso dalla procura di Verbania che sta indagando sulla tragedia del Mottarone. Si legge inoltre che tutto ciò, in caso di accertato riconoscimento della relativa responsabilità penale, potrebbe comportare "l'irrogazione di una elevatissima sanzione detentiva". Il provvedimento di fermo si basa sul pericolo di fuga. La procura la ritiene una possibilità concreta considerando "l'eccezionale clamore anche internazionale per la sua intrinseca drammaticità", destinato ad accentuarsi progressivamente con il disvelarsi delle cause del disastro. Dunque per gli inquirenti la scelta di far aprire le porte del carcere è ritenuta del tutto necessaria in quanto "sussiste il pericolo concreto e prevedibilmente prossimo della volontà degli indagati di sottrarsi alle conseguenze processuali e giudiziarie delle condotte contestate". Nel decreto di fermo si legge che Tadini avrebbe ammesso di "aver deliberatamente e ripetutamente inserito i dispositivi blocca freni (forchettoni) durante il normale servizio di trasporto passeggeri". In tal modo avrebbe disattivato il sistema frenante di emergenza destinato a entrare in funzione e ad arrestare la corsa della cabina della funivia in caso di pericolo. Andavano risolte le anomalie "da tempo manifestatisi" rispetto a quello che doveva essere il regolare funzionamento del sistema frenante. Della condotta "erano stati ripetutamente informati tanto il Perocchi quanto il Nerini". Pertanto il dito è puntato contro i tre fermati, accusati di aver "avallato tale scelta" e di non essersi attivati "per consentire i necessari interventi di manutenzione" che avrebbero richiesto il temporaneo fermo dell'impianto, "con conseguenti ripercussioni di carattere economico". Va ricordato che, stando all'ipotesi accusatoria, il "forchettone" sarebbe stato volutamente lasciato in posizione per evitare il ripetersi di blocchi e per non interrompere il servizio ai danni dei passeggeri e dei turisti. Nel decreto di fermo, oltre al pericolo di fuga, viene sottolineato che "i fatti contestati sono di straordinaria gravità in ragione della deliberata volontà di eludere gli indispensabili sistemi di sicurezza dell'impianto di trasporto per ragione di carattere economico e in assoluto spregio delle più basilari regole di sicurezza", che invece avrebbero consentito di tutelare la salute dei passeggeri.

Il "capo", il "socio", l'"esecutore": il "trio forchetta" è in disgrazia. Redazione il 28 Maggio 2021 su Il Giornale. Stresa ha già disconosciuto il gestore e i suoi uomini. Luigi Nerini, il «capo»; Gabriele Tadini, il «braccio destro»; Enrico Perocchio, l'«esecutore». Tre ruoli per una banda accomunata da un tacito accordo: evitare rogne. Ma alla fine quello che gli è piombato addosso è ben più di una rogna: 14 morti sulla coscienza non sono uno scherzo e, al di là dell'aspetto morale della questione, il «dramma del Mottarone» potrebbe trasformarsi penalmente in molti anni di galera. Intanto i tre protagonisti della sciagura della funivia di Stresa si ritrovano a fare i conti con una «condanna pubblica» che ribalta completamente l'immagine che li aveva caratterizzati finora: cioè quella di tre uomini «perbene» e di tre professionisti «scrupolosi». Ma ora la gente si sente tradita. In cima alla piramide delle responsabilità il «tribunale del popolo» ha già messo un nome. È quello del gestore dell'impianto, Luigi Nencini, 56 anni, capo della Società Ferrovie del Mottarone (fatturato da 1,8 milioni all'anno, con una concessione fino al 2028). Da 48 ore nessuno in paese si azzarda più a chiamarlo confidenzialmente «Gigi» come hanno sempre fatto tutti prima che venisse fuori la verità sul crollo della funivia. Poi c'è lui: lo «storico collaboratore», Gabriele Tadini, residente a Borgomanero, l'uomo che gestiva i comandi della funivia alla stazione intermedia di Alpino; ha difeso strenuamente il suo «capo», cercando di assumersi per intero tutta la responsabilità della tragedia. Infine c'è quello che pare essere l'anello più debole della catena: Enrico Perocchio, l'«addetto ai controlli», dipendente della Leitner e libero professionista con mansioni di «certificatore di impianti». Ieri a Villa Claudia l'elegante dimora a Baveno, dove Luigi Nerini ha sempre vissuto con i suoi due figli dopo essersi separato dalla moglie, gli operai impegnati nei lavori di ristrutturazione della facciata dell'edificio con vista lago, non si sono presentati. Anche i due figli ventenni dell'imprenditore sotto accusa hanno cambiato aria. Fino a ieri la famiglia Nerini era rispettata e forse anche invidiata, come avviene sempre nei piccoli centri dove qualcuno ha la «colpa» di avere avuto successo. E Luigi Nerini quel successo l'aveva ottenuto grazie a non pochi appoggi e protezioni, cose che non gli avevano evitato di attraversare momenti di crisi dai quali però si era sempre risollevato attraverso un combinato disposto di capacità personali e «aiutini» esterni. Sul «Gigi» tutti mettevano la mano sul fuoco, ma ora - quella mano - tutti la ritirano sdegnati: troppo forte la paura di bruciarsela. Del resto i verbali di interrogatorio parlano chiaro. I tre hanno «confessato» quanto basta per salire sulla gogna e non scenderne più. «Troppo tardi» per rimediare. Eccole le due parole che martellano la testa del «trio forchetta» Nerini, Tadini e Perocchio: «Troppo tardi». Certo, ognuno di loro «non poteva immaginare che...», eppure quello che non avevano - colpevolmente - mai sospettato accadesse, è accaduto davvero. E ora è «troppo tardi». Per tutto. Eccetto che per fare giustizia.

Quelle cifre incassate senza fare un intervento. Luca Fazzo il 28 Maggio 2021 su Il Giornale. L'impianto in serio degrado già nel 2014. Dalle pulegge agli argani, dai motori ai freni: quando nel novembre 2014 la Ferrovie del Mottarone sospende l'esercizio della funivia di Stresa e riconsegna l'impianto in mano agli enti locali, restituisce una struttura in condizioni pietose, segnata in profondità dal degrado e dalla necessità di nuovi interventi. Eppure per anni la società dei Nerini aveva incassato contributi comunali e regionali per mandare avanti il collegamento tra il lago e la montagna. Finanziamenti incassati, e lavori mai fatti. Un precedente inquietante, visto alla luce della tragedia di domenica scorsa. Il documento che racconta in controluce lo stato di degrado in cui già sette anni fa versava la funivia è il capitolato della gara che nel 2015 Scr Piemonte, l'azienda regionale che gestisce gli appalti, vara per la «progettazione esecutiva e la realizzazione di tutti i lavori e forniture necessari per la revisione generale 40esimo anno della funivia Stresa-Alpino-Mottarone». È la replica della gara andata deserta l'anno prima, il 19 dicembre, a funivia ormai ferma, quando nessuno si era sentito di anticipare i 2,2 milioni chiesti per i lavori di ammodernamento. Invece l'anno dopo la gara viene vinta dall'unico concorrente: il consorzio composto dalla società di Gigi Nerini e dalla Leitner, il colosso altoatesino che si occupa dell'appalto. Il Comune di Stresa si rassegna a versare un contributo di tre milioni. Ma il vero business per Leitner è il contratto di manutenzione dell'impianto per i tredici anni successivi. In che condizioni è l'impianto che Gigi Nerini riconsegna a se stesso e ai suoi soci altoatesini dopo un anno di stop? Un impianto in condizioni pietose, stando alle carte che sono alla base dell'interpellanza depositata lo stesso anno da Maurizio Marrone, consigliere regionale di Fratelli d'Italia. L'appalto del 2015, quasi identico all'appalto 2014, snocciola uno dopo l'altro i punti critici che vanno affrontati per «ripristinare le condizioni di efficienza e sicurezza per il proseguimento della vita tecnica dell'impianto». Superati i quarant'anni di vita (l'inaugurazione è del 1970) la funivia di Stresa è di fatto una struttura obsoleta, mai messa al passo con i tempi. In particolare, si legge nel capitolato, servono «sostituzione degli attuali argani di entrambi i tronchi, degli argani di recupero e degli argani di sostegno», la «sostituzione delle pulegge motrici principali, di soccorso e di deviazione», la «sostituzione delle apparecchiature elettriche di azionamento e regolazione dei nuovi motori e dei circuiti di sicurezza». Tra gli interventi previsti, c'è anche quello sui «dispositivi elettrici di oltrecorsa posti alla stazione intermedia, comandano l'intervento del freno di emergenza agente sulla puleggia motrice». Sono i freni che ad appena sei anni dall'appalto hanno iniziato a funzionare male, spingendo il gestore Nerini e i suoi tecnici a escogitare il rimedio criminale del forchettone.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus. 

Mottarone, sicurezza ignorata per 12mila euro al giorno: il calcolo choc. Luca Sablone il 27 Maggio 2021 su Il Giornale. La sicurezza dei passeggeri è stata sacrificata per non rinunciare all'incasso: "La preoccupazione era il blocco della funivia". Il metodo di azione delineato dal procuratore di Verbania, Olimpia Bossi, è da brividi: il "forchettone" sarebbe stato volutamente lasciato in posizione per evitare il ripetersi di blocchi e per non interrompere il servizio ai danni dei passeggeri e dei turisti. La modalità di lavoro, sempre secondo la Bossi, non sarebbe stata decisa in autonomia: si tratterebbe infatti di una "scelta condivisa e soprattutto non limitata al giorno" della tragedia della funivia. E alla base vi sarebbero state motivazioni di tipo economico, considerando che uno stop dell'impianto avrebbe provocato un mancato guadagno alle casse già messe a dura prova durante il periodo del lockdown.

L'incasso giornaliero. Come mai si è arrivati a una simile decisione? Perché le anomalie che presentava l'impianto si sarebbero potute risolvere probabilmente solo interrompendo le corse. E di conseguenza rinunciando agli incassi dei biglietti quotidiani. Un incasso che, stando ai conti fatti da Il Giorno, nella più ottimistica delle ipotesi non va oltre i 12.600 euro. Va infatti considerato che "le 4 cabine, due per ogni direzione, devono effettuare le 21 corse, per tratta, dell’orario estivo viaggiando a capienza ridotta (15 persone anziché 40) per effetto delle norme anti-Covid e il biglietto di andata e ritorno per gli adulti costa 20 euro". Secondo La Stampa invece i conti sono diversi, trattandosi di circa 5mila euro al giorno e dunque di 140 mila euro che sarebbero stati intascati dal 24 aprile (giorno della riapertura al pubblico). Sarebbe addirittura un "calcolo esagerato" visto che le cabine "non hanno fatto 20 corse al giorno (come da orario per la stagione estiva 2021) a pieno carico, dal 26 aprile a domenica a mezzogiorno". Resta comunque il serio dubbio che qualcuno possa aver sacrificato la sicurezza in nome di qualche migliaia di euro quotidiani.

"Freni tolti per soldi". Un lungo fermo avrebbe avuto pesanti conseguenze economiche. Con la convinzione che la fune di traino non si sarebbe mai rotta, "si è poi voluto correre il rischio che ha portato alla morte di 14 persone". È questo lo sviluppo "grave e inquietante" delle indagini descritto dal procuratore. Secondo i magistrati, la decisione di eludere i sistemi di sicurezza dell'impianto di trasporto sarebbe stata dettata da "ragioni di carattere economico e in assoluto spregio delle più basilari regole di sicurezza", che invece avrebbero consentito di tutelare la salute dei passeggeri. Gabriele Tadini, il responsabile del funzionamento della Funivia del Mottarone, secondo l'Ansa si sarebbe così espresso nel corso dell'interrogatorio della scorsa notte: "La preoccupazione era il blocco della funivia. Stavamo studiando quale poteva essere la soluzione per risolvere il problema".

Funivia Stresa Mottarone, forchettoni inseriti anche in passato. Il sospetto della Procura: "Manomissione dei freni non occasionale". Libero Quotidiano il 28 maggio 2021. I responsabili della funivia Stresa Mottarone hanno giocato col destino e la morte per anni. Secondo la Stampa, gli inquirenti stanno coltivando un tragico dubbio: che il freno disattivato con i forchettoni ancora inseriti, che ha causato la caduta della cabina domenica all'ora di pranzo, provocando la morte di 14 dei 15 passeggeri, non fosse un caso isolato e nemmeno un'abitudine dell'ultimo mese, come dichiarato dagli stessi tre proprietari, soci e dirigenti in stato di fermo. In sostanza, la Procura di Verbania ha motivo di credere che il trucco ammesso da Luigi Nerini, Enrico Perocchio e Gabriele Tadini "per evitare che le corse si fermassero a causa di un'anomalia" fosse stato adottato in svariate occasioni anche in passato, ogni qual volta ci fosse un problema tecnico che avesse richiesto la sospensione dell'attività per risolverlo. Modus operandi chiaro: se c'è il segnale che qualcosa non va, basta tacitare quel segnale inserendo i forchettoni. Nella speranza che "l'eventualità su un milione" che il cavo si spezzi non si verifichi. "Disattivare il freno era la soluzione più semplice e veloce - spiega la Stampa -. E meno costosa. L'ipotesi si è fatta strada alla vigilia del primo sopralluogo, ieri pomeriggio, dell'esperto nominato dalla Procura di Verbania", un sopralluogo affidato al docente del Politecnico di Torino Giorgio Chiandussi, che ha controllato le lamiere della cabina insieme a carabinieri, soccorso alpino e protezione civile. Già venerdì mattina la sua relazione potrebbe arrivare sul tavolo della procuratrice Olimpia Bossi, alla vigilia dell'interrogatorio ai tre indagati. Al momento gli unici, anche se voci che filtrano dalla Procura parlano di possibili sviluppi e nuove iscrizioni. Da indagare anche le cause che hanno portato il cavo d'acciaio, cambiato l'ultima volta 23 anni fa, a spezzarsi. Chiandussi "si è concentrato vicino alla testa fusa", sopra le teste dei passeggeri. È un segmento di circa 50 centimetri, quello "più vicino al braccio che sovrastando la cabina si aggancia alla fune portante". È lì che il cavo traente, rompendosi, ha causato lo scivolamento all'indietro della cabina (laddove sarebbero dovuti intervenire i freni d'emergenza), fino al pilone precedente, allo scarrucolamento e alla caduta. "Che ceda il cono - spiegano gli sperti - è praticamente impossibile, che abbia problemi il primo tratto di fune appena oltre il blocco prodotto con la fusione è più comprensibile perché è proprio quel pezzo che sfugge alle verifiche magnetoscopiche, e che per questo va rifatto ogni 5 anni". 

Funivia Stresa Mottarone, la telefonata subito dopo la sciagura: "Ho una fune a terra, una nella scarpata, la cabina ha le forchette su". Libero Quotidiano il 27 maggio 2021. La strage della funivia di Stresa-Mottarone si poteva evitare. Perché fin dal giorno della riapertura dopo lo stop per il covid il 26 aprile si sapeva che l'impianto aveva dei problemi: i freni scattavano bloccando le cabine facendo perdere così tempo soldi e corse alla società. Quindi la decisione del blocco dei freni è stata consapevole. E sarebbe stata condivisa con il gestore della funivia, Luigi Nerini, e con il direttore di esercizio Enrico Perocchio, ingegnere, il più alto in grado della società di gestione. La Procura di Verbania ha fermato tre persone con l'accusa di omicidio colposo plurimo, lesioni gravissime e omissione di cautele. "Confidavano nella buona sorte", ha detto il procuratore Olimpia Bossi. Perocchio, che ha un doppio ruolo essendo anche dipendente della Leitner, la società che ha fornito le cabine e fa le manutenzioni all'impianto, riporta il Corriere della Sera, ha negato ogni responsabilità. "L'ingegnere non ha mai autorizzato l'utilizzo della cabinovia con i forchettoni inseriti e anche di aver avuto contezza di simile pratica, che lui definisce suicida", ha spiegato il suo avvocato Andrea Da Prato, suo difensore. Perocchio ha quindi ricordato la telefonata con la quale è stato avvisato da Tadini del disastro. "Erano le 12.09 di domenica. Mi ha detto 'ho una fune a terra, una nella scarpata, la cabina ha le forchette su'". Nella scarpata anche quattordici corpi. Questo vuol dire affidarsi alla "buona sorte". "Glielo dico in camera caritatis - confida al Corriere un esperto della Leitner che vuole restare anonimo -. Dovevano chiudere l'impianto e portar su le persone con i pullman fino a che risolvevano i problemi di malfunzionamento". L'azienda incaricata della manutenzione era intervenuta già due volte, invano. L'ultima lo scorso 3 maggio. Fin qui, il filone d'indagine sulla causa ultima del disastro. Poi c'è la questione della rottura della fune traente. L'inchiesta dovrà fare luce sui controlli e sulle manutenzioni. E rispondere a una domanda: perché il cavo di ferro si è spezzato?

I freni e i "ceppi": spunta la mail dopo lo schianto. Luca Sablone il 27 Maggio 2021 su Il Giornale. Prima la telefonata ricevuta dal responsabile tecnico: "La fune è a terra". Poi la mail relativa "all'utilizzo improprio del sistema frenante". La tragedia del Mottarone si continua ad arricchire di particolari agghiaccianti e giustificazioni che lasciano intendere come si potesse evitare l'incidente, tenendo in vita le 14 persone invece decedute in seguito al crollo della funivia. Poco dopo l'incidente sarebbe partita una chiamata da Gabriele Tadini a Enrico Perocchio. Il capo degli operai della funivia si sarebbe così messo immediatamente in contatto con il responsabile tecnico dell'impianto, comunicandogli con urgenza quanto avvenuto: "Enrico, ho una fune a terra. La fune è giù dalla scarpata. La vettura aveva i ceppi". Il cellulare squilla pochi istanti dopo per la seconda volta, con un dettaglio che viene ripetuto nuovamente: "La vettura aveva i ceppi". Tadini è agitato e attende che arrivi sul posto Perocchio. Il quale si trova di fronte un teatro di morte: cabina accartocciata, corpi intrappolati e cadaveri lungo la collina. I "ceppi" citati fanno riferimento a quelli che vengono solitamente chiamati "forchettoni". Un ulteriore sopralluogo sul luogo dell'incidente, effettuato nella mattinata di ieri, ha consentito di trovare la seconda parte del "forchettone". La cui presenza sarebbe stata una scelta "consapevole", fatta sacrificando la sicurezza dei passeggeri pur di continuare a lavorare. Secondo l'ipotesi accusatoria, il "forchettone" sarebbe stato volutamente lasciato in posizione per evitare il ripetersi di blocchi e per non interrompere il servizio ai danni dei passeggeri e dei turisti.

Quella mail inviata. Tuttavia Perocchio, per voce del suo avvocato Andrea Da Prato, ha negato a gran voce di essere a conoscenza della procedura per escludere i freni: "Portare persone con i forchettoni è una pratica suicida, una circostanza che il mio cliente respinge nel modo più assoluto. Non ne aveva idea". Tanto che, come riportato da Il Fatto Quotidiano, nella tarda mattinata di martedì (prima che Perocchio finisse indagato) il suo legale avrebbe inviato una mail - tramite Pec - alla procura di Verbania. Nel testo si farebbe riferimento a diversi "elementi" potenzialmente utili alle indagini, dopo aver appreso da un dipendente della società di gestione informazioni relative "all'utilizzo improprio del sistema frenante".

"Speravano nella buona sorte". Secondo il procuratore di Verbania, Olimpia Bossi, i tre fermati "confidavano nella buona sorte" convinti del fatto che il blocco volontario del sistema frenante di sicurezza non avrebbe mai causato un disastro come quello che invece ha provocato la morte di 14 persone. La Bossi, che sta indagando su quanto accaduto nella giornata di domenica, ha inoltre svelato un particolare piuttosto eclatante: non si sarebbe trattata di un'iniziativa singola, ma di una "scelta condivisa e soprattutto non limitata al giorno" della tragedia. Sarebbe diventata ormai una sorta di consuetudine per "bypassare le problematiche dell'impianto che dovevano essere risolte con interventi più radicali".

Funivia Stresa Mottarone, cos'è e come funziona il forchettone: il freno automatico e la strage, tutto ciò che non sapete. Renato Farina su Libero Quotidiano il 27 maggio 2021. Si chiama forchettone. È il freno automatico delle funivie. Rompeva i coglioni al manovratore, scattava alla minima vibrazione, e allora si doveva tirar su a mano la cabina, salire e scendere, attuare procedure noiose, poi calmare la gente che si spaventa per niente, le corse che ritardano, e per cosa poi? Per rovinare la vita ai bravi gestori, ai direttori, a chiunque è pronto a giurare sulla base della sua esperienza che certe norme di sicurezza sono esagerate, che c'è una probabilità su un milione, cioè non capiterà mai, non a noi comunque. Il diavolo ragiona così. Anzi gli uomini. Che razza di bestia è questa umanità? Nessun complotto a Stresa. È una strage senza misteri, se non quello antico e assai conosciuto che è quello del male. Stavolta però l'iniquità non sta nella cieca natura, che di tanto inganni i figli tuoi, ma negli uomini che ci vedono benissimo, eppure scelgono di scommettere sulla vita degli altri per due soldi, e si salvi chi può. Addio ipotesi affascinanti e apocalittiche sulla macchina perfetta che si ribella al suo inventore seminando cadaveri come nei film su Batman e lo scienziato pazzo. La tecnologia stavolta non è stata affatto fragilissima e mentitrice, bastava scegliere di usarla, e non sarebbe accaduto nulla. Ci sarebbe stato al massimo un po' di spavento. Si sarebbe ruzzolati a terra, e addio distanza sociale. Un intervento con l'elicottero magari, come sul Monte Bianco due anni fa, sarebbe stata persino un'avventura da ricordare. Invece, hanno tolto il forchettone, un attrezzo piccolo, persino molto semplice, banale come la differenza tra la vita e la morte (degli altri). Toglierlo con coscienza, con mano salda ed ecco la caduta vertiginosa, dodici secondi di abisso. La morte. Com' è stato possibile? E perché? Non si tratta di un errore umano, ma della futilità schifosa per cui alcuni signori hanno giocato alla roulette russa con famiglie e bambini felici cui pareva di stare in paradiso, si sentivano sicuri su quel balcone divino sopra il lago: immaginavano di essere ospiti nella dimora di angeli gentili, ed invece erano nel dominio di mostri molto comuni, con difetti che a loro parevano veniali, così fan tutti. Devono aver pensato in questo modo. Si saranno paragonati ai furbetti del cartellino, a chi fa la cresta sulle note spese, pare lo facciano anche alcuni arbitri di calcio. Ma sì, arrangiamoci. Come gli statali che staccano con il vapore le marche da bollo dagli incartamenti. Mostri che neppure sapevano di esserlo. Non commettiamo lo sbaglio di assimilare gli atti ad una identica categoria di astuzia malsana. C'è una graduatoria nelle colpe. E togliere la rete di salvataggio mentre passa Eitan, cinque anni, con i suoi genitori, è qualcosa di imperdonabile. Non sono delitti punibili nello stesso girone di malvagità. Qui siamo nella palude atroce di chi non collauda i ponti, evita di revisionare gli autobus e li usa per trasportare alunni, chiude un occhio sul sovraccarico per staccare un biglietto in più, per far salire su una tribuna di uno spettacolo qualche adolescente innamorato del divo rock. È andata così. Quattordici morti e un orfano per quattro palanche in più, per non avere rotture di scatole supplementari, che già la vita è grama anche senza il forchettone che scatta e frena, e rovina gli incassi già spolpati dal Covid. La battuta atroce, perdonatemi, viene a fior di labbra e non riesco a ricacciarla giù: forchettone e forchettoni. E finiamola anche con la retorica della rinascita. Ci sta. È doverosa. Ma non pitturiamo di rosa il mondo, non dipingiamo ali sul corpaccio italico. Non dobbiamo dimenticare quel che da anni ci dicevamo e non è stato risanato da quattro canti in balcone per dirci che ce la faremo insieme. C'è stato prima ancora che una crisi economica e finanziaria, e precedendo quella sanitaria, un default morale, un'emergenza educativa, per la quale ad un certo punto la generazione degli adulti ha smesso di comunicare il senso del bene e del male, il desiderio di ubbidire alla voce insopprimibile del cuore-coscienza-ragione (la si chiami come si vuole). Il Covid è stato il momento nel quale è accaduto il miracolo della fioritura di gesti puramente gratuiti e persino eroici, ma ha fatto spuntare sul corpo fiacco della società pure il bubbone dell'abbrutimento. Tale quale nelle guerre di cui si tramanda la memoria. Come dopo ogni terremoto. C'è chi si affanna e muore per tirar fuori dalle macerie una vecchietta, e chi le toglie la catenina d'oro. Carezze misericordiose e infamie. Tanto più abiette perché a chi le fa, siccome magari le pratica costantemente, non sembrano tali, appaiono addirittura trascuratezze veniali, ma in esse si annida il disprezzo della vita altrui, venduta per un forchettone. Per evitare altre Stresa che si fa? Una legge più severa contro chi toglie i forchettoni? Più burocrazia prima di dare i permessi? Ma dai. Basta il quinto comandamento: non uccidere, ricominciando a insegnarlo da bambini. Dando l’esempio.

Ivan Fossati per “la Stampa” il 28 maggio 2021. Il dubbio che si è insinuato nelle ultime ore tra gli investigatori è atroce. Il freno bloccato, sulle cabine del Mottarone, potrebbe non essere stata un'abitudine solo dell'ultimo mese. Se la Procura con le prime ammissioni ha già ricostruito che così avveniva dal 26 aprile, si scaverà per chiarire un altro sospetto: che fosse già accaduto in precedenza, negli anni, quando anomalie al sistema di emergenza rischiavano di bloccare troppo a lungo l'impianto. Disattivare il freno era la soluzione più semplice e veloce. E meno costosa. L'ipotesi si è fatta strada alla vigilia del primo sopralluogo, ieri pomeriggio, dell'esperto nominato dalla Procura di Verbania. Il docente del Politecnico di Torino Giorgio Chiandussi non ha voluto perdere tempo: subito sul luogo della tragedia, poi alla stazione intermedia della funivia, quindi al Mottarone, di nuovo giù negli uffici della società e ancora a vedere quella carcassa di lamiera rimasta tra le piante. Ha lavorato finché c'è stata luce Chiandussi, intorno a lui solo carabinieri, soccorso alpino e protezione civile. E da lui questa mattina la procuratrice Olimpia Bossi si aspetta le prime analisi per impostare ciò che chiederà domani mattina ai tre indagati durante l'interrogatorio di garanzia nel carcere di Pallanza, condotto dal gip Donatella Banci Buonamici. L'udienza è fissata alle 9. In carcere e non in tribunale, che dista un chilometro, per contenere una pressione mediatica che è ancora elevatissima. Chiandussi deve rispettare il segreto investigativo e ieri le uniche parole che ha detto sono state «sentite il magistrato». Ma il suo meticoloso lavoro ha già dato frutti. E si è concentrato vicino alla «testa fusa», che sulle funivie si trova esattamente sopra la testa dei passeggeri. È un tratto di trenta, cinquanta centimetri: si tratta del segmento più vicino al braccio che sovrastando la cabina si aggancia alla fune portante. Lì la traente, la fune che domenica rompendosi ha generato la tragedia sul Mottarone, è ancorata alla vettura con un sistema a coni rovesciati. Il cono della fune si ottiene fondendo i fili di metallo con una lega molto resistente: diventa un tutt' uno, inserito in un alloggiamento altrettanto forte dove si esercita la forza di traino. Che ceda il cono, secondo gli esperti, è praticamente impossibile, che abbia problemi il primo tratto di fune appena oltre il blocco prodotto con la fusione è più comprensibile perché è proprio quel pezzo che sfugge alle verifiche magnetoscopiche, e che per questo va rifatto ogni cinque anni. Lì non si riesce a capire la salute dei trefoli perché è uno spazio stretto dove non entra il magnetoscopio. Ed è lì che il metallo avrebbe potuto iniziare a deteriorarsi. L'incidente, domenica alle 12,02, è avvenuto quando la cabina era ormai in stazione, aveva già rallentato e si era portata in posizione orizzontale. Poi un sobbalzo e la corsa all'indietro in caduta libera sino a raggiungere una «folle velocità» come scrive la procuratrice Olimpia Bossi nell'atto di fermo di indiziato che ha portato dietro le sbarre Luigi Nerini, Enrico Perocchio e Gabriele Tadini. Sono nel carcere di Pallanza e stanno meditando. Chi prega, il capo degli operatori Tadini, chi dice di pensare a come risarcire le vittime, il titolare della società Nerini, e chi si professa totalmente estraneo, il direttore di esercizio Enrico Perocchio. Gli inquirenti hanno parlato di persone che per fare soldi agivano in spregio alle norme di sicurezza, che in Italia per gli impianti a fune sono severissime. L'assurdo è che pur sapendo di aver disabilitato il freno, loro stessi viaggiavano su quelle cabine. E talvolta anche i loro figli. 

Funivia Stresa Mottarone, il procuratore Olimpia Bossi: "Tutti i dipendenti sapevano". Libero Quotidiano il 27 maggio 2021. Olimpia Bossi, procuratrice della Repubblica di Verbania, ha coordinato il lavoro dei carabinieri con a fianco il sostituto Laura Carrera sull’incidente della Funivia di Stresa. "Abbiamo provato altro dolore e un amarissimo sconcerto quando ci siamo resi conto che il mancato funzionamento del sistema frenante era esito di una scelta. Qua non c’entra la negligenza, il pressappochismo, quell’errore umano che non rende immuni da responsabilità ma almeno genera una certa comprensione. Ci troviamo davanti a chi, a fronte di un proprio interesse, ha preferito mettere a repentaglio la vita degli altri", spiega amaramente. "Abbiamo cominciato a fare chiarezza: si tratta di una primissima risposta parziale ancorché terribile. L’indagine è appena cominciata, a monte c’è sempre la prima domanda: perché si è spezzato il cavo traente? Comunque saranno i periti a fornire le risposte che cerchiamo. Mi rimetto a chi questa materia la studia e la conosce. Gli operatori e le forze dell’ordine sul luogo del disastro domenica avevano scattato centinaia di foto, girato moltissimi video. L’intuito dei carabinieri ha portato subito a un approfondimento e martedì pomeriggio abbiamo convocato i dipendenti di Ferrovie del Mottarone per capire da loro di cosa esattamente si trattava. Lo hanno spiegato ed è emerso in modo inequivocabile: tutti sapevano che il freno restava aperto anche se non doveva", chiarisce in una intervista alla Stampa. "Il caposervizio Gabriele Tadini ha ammesso questa consapevolezza e ha dichiarato che si era fatta quella scelta perché si era sicuri che mai il cavo traente si sarebbe spezzato. Le anomalie erano state riscontrate al sistema frenante della cabina 3, quella schizzata nel vuoto, e in parte nella 4, che fortunatamente domenica si è fermata senza schiantarsi. Da quello che abbiano desunto la 3 viaggiava col freno disattivato da fine aprile, quando è ripreso il trasporto dei passeggeri. Tadini in azienda ha una posizione subordinata al titolare e al direttore dell’esercizio. Noi sosteniamo quindi che anche Nerini e Perocchio sapevano e volevano che si procedesse così per non fermare l’impianto per un controllo approfondito. Al momento gli altri dipendenti non sono indagati", conclude la Bossi. Ma, date le considerazioni che filtrano dalla procura, ogni sviluppo è possibile.

Funivia Stresa Mottarone, chi è il pm Olimpia Bossi: i segreti di una toga diversa da tutte le altre. T.L. su Libero Quotidiano il 28 maggio 2021. Non ama i riflettori Olimpia Bossi. Eppure, di fronte ad una tragedia come quella del Mottarone, di fronte a parenti e giornalisti ansiosi di verità, non si è sottratta. Non per la vanità di avere tra le mani uno dei casi emotivamente più difficili da gestire, ma perché, pratica e precisa come è descritta da chi la conosce, vuole dare risposte. E ne ha già date (nomi e cognomi dei presunti responsabili della tragedia con altri in arrivo) non risparmiandosi in questi quattro giorni di angoscia. Nata a Busto Arsizio 55 anni fa, Olimpia Bossi è una tosta. Lo avevano capito i colleghi della pretura circondariale di Termini Imerese (Palermo) dove ha trascorso i primi tre anni di carriera. Era il 1994. Poi nella sua città natale è prima giudice civile, poi gip. Qui molti la ricordano per aver indagato a fondo nell’omicidio di un ingegnere romeno di 40 anni. Il suo datore di lavoro, un piastrellista che all’epoca dei fatti, nel 1999, aveva 36 anni, lo aveva arso vivo perché aveva denunciato condizioni di lavoro disumane. Aveva chiesto 30 anni, la Cassazione li riduce a 16. Quando il Csm la designa a capo della procura di Verbania, cinque anni fa, diventa il magistrato più giovane d’Italia alla guida di una procura. E si è dimostrata una procuratrice di ferro: fedele alla sua missione, non si è mai persa nei meandri delle correnti che si muovono all’interno della magistratura. L’unica corrente che vorrebbe seguire, ammette, è a bordo di una nave da crociera per fare il giro del mondo. Magari insieme ai suoi due figli: uno che studia al Politecnico di Milano, l’altro che vuole diventare come la mamma e già si “allena” facendo tirocinio. E se i geni non mentono... 

Funivia Stresa-Mottarone, il manovratore Gabriele Tadini: “È colpa mia, farò i conti con Dio”. Annachiara Musella il 28/05/2021 su Notizie.it. Funivia Stresa-Mottarone, la versione di Gabriele Tadini: "La funivia continuava a funzionare a singhiozzo, ma mai avrei pensato che la cima si spezzasse". “È tutta colpa mia, farò i conti con Dio”: queste sono le parole di Gabriele Tadini, il manovratore della funivia Stresa-Mottarone. Il manovratore della funivia, il 64enne Gabriele Tadini, si trova ora in isolamento in una cella di massima sicurezza nel carcere di Verbania. La sua versione dei fatti agli inquirenti: “La funivia continuava a funzionare a singhiozzo, ma mai avrei pensato che la cima si spezzasse”. “Mi sento un peso enorme sulla coscienza. Prego e faccio i conti con me stesso e faccio i conti con Dio”, così continua la versione di Tadini. L’uomo, che ha ammesso di aver manomesso il freno d’emergenza con il “forchettone”, era diventato capo servizio dopo 40 anni di lavoro nella società che gestiva l’impianto. Durante l’interrogatorio con i carabinieri, ha dato la sua versione dei fatti: “La funivia funzionava a singhiozzo… L’impianto idraulico dei freni d’emergenza aveva dei problemi, perdeva olio e le batterie si scaricavano continuamente. Dopo la riapertura del 26 aprile, avevamo già fatto due interventi. Ma non erano stati risolutivi. La funivia continuava a funzionare a singhiozzo. Il problema si ripresentava, serviva altra manutenzione”, ha raccontato il 64enne. “Tenere i freni scollegati permetteva alla funivia di girare. Mai avremmo potuto immaginare che la cima traente si spezzasse… Era in buone condizioni: non presentava segni di usura. Quello che è successo è un incidente che non capita neppure una volta su un milione”, ha continuato Tadini, dicendosi pentito. Il legale del 64enne racconta che, alla fine della confessione, il suo assistito era molto provato: “Mai avrebbero pensato di far correre quel rischio ai passeggeri. Siamo tutte persone umane, possiamo fare delle scelte sbagliate senza rendercene conto”. L’unico superstite è il piccolo Eitan, 5 anni, che in quella tragedia ha perso tutta la sua famiglia. Il bambino è ricoverato all’ospedale Regina Margherita di Torino, da dove, nel pomeriggio di giovedì 27 maggio, è giunta la notizia del suo risveglio dal coma: Eitan sarebbe sveglio e cosciente, con la zia, sorella del padre. Intanto è stata lanciata una raccolta fondi dalla Fondazione Scuola della Comunità Ebraica di Milano, grazie alla quale, in poche ore sono stati raccolti più di 80 mila euro, che serviranno soprattutto a sostenere il percorso di studi del bambino, rimasto senza madre, padre e fratello.

Niccolò Zancan per “la Stampa” il 28 maggio 2021. L'uomo che ha confessato sta, con gli occhi chiusi, sul letto di una cella di massima sicurezza del carcere di Verbania. È in isolamento. Aspetta un cambio di vestiti. E per tutto il tempo sembra parlare da solo: «Mi sento un peso enorme sulla coscienza. Prego e faccio i conti con me stesso. Faccio i conti con Dio». Gabriele Tadini, 64 anni, è l'uomo che ha spiegato tutto quello che si è capito, fino a ora, dello schianto della funivia del Mottarone. Ha ripetuto quelle parole anche mercoledì pomeriggio, quando ha incontrato per la prima volta l'avvocato Marcello Perrillo. Dopo quarant' anni al servizio nella società che gestiva la funivia, era diventato capo servizio. Era lui il responsabile del funzionamento: «L'impianto idraulico dei freni d'emergenza aveva dei problemi, perdeva olio e le batterie si scaricavano continuamente. Dopo la riapertura del 26 aprile, avevamo già fatto due interventi. Ma non erano stati risolutivi. La funivia continuava a funzionare a singhiozzo. Il problema si ripresentava, serviva altra manutenzione. È stato in quel contesto, di tentativi e di interventi tecnici, che toglievamo e mettevano il cosiddetto forchettone per armare e disarmare il sistema dei freni d'emergenza. Tenere i freni scollegati permetteva alla funivia di girare. Mai avremmo potuto immaginare che la cima traente si spezzasse. Era in buone condizioni: non presentava segni di usura. Quello che è successo è un incidente che non capita neppure una volta su un milione». Dopo un giorno passato chiuso in casa senza dire una parola, martedì sera Gabriele Tadini è stato convocato in qualità di testimone nella caserma dei carabinieri di Stresa: «Persona informata sui fatti». Ha deciso di dire quello che sapeva. È stato lui il primo iscritto nel registro degli indagati, perché con le sue stesse parole ha cambiato la sua posizione. «Diceva cose penalmente rilevanti», spiega un investigatore. Insomma: stava confessando un reato. Non era più possibile proseguire in quel modo. Subito è stato convocato il primo avvocato d'ufficio presente sull'elenco. Eccolo, l'avvocato Canio Di Milla: «Erano le 19,15. Ho aspettato a lungo prima di vederlo. Ci siamo incrociati solo per pochi istanti: sono stati momenti di grande tensione. Ho dovuto spiegargli che non sarei stato io il suo difensore. Visto che in passato ho ricoperto il ruolo di sindaco di Stresa, ho deciso di non accettare l'incarico per motivi di opportunità. Io penso che il Comune di Stresa sia parte lesa in questa tragedia». Così è uscito di scena l'avvocato Di Milla, ed è stata chiamata l'avvocatessa Annamaria Possetti. A quel punto, erano passate le otto e mezza di sera: «Ho capito subito che il signor Tadini era intenzionato a dire quello che sapeva sull'incidente, non ho fatto altro che accompagnarlo in questo suo percorso di verità. Una scelta non certo fatta per lucrare qualche vantaggio in sede processuale, ma dettata dalla coscienza. Tadini era molto provato. Mai avrebbero pensato di far correre quel rischio ai passeggeri. Siamo tutte persone umane, possiamo fare delle scelte sbagliate senza rendercene conto». Hanno deliberatamente scelto di bloccare i freni d'emergenza per non perdere altre corse della funivia. Hanno lasciato quel forchettone perché così, in quel modo, l'impianto girava senza bloccarsi in continuazione. «Lo so. Ma escludo categoricamente che avessero messo in conto un rischio tanto spaventoso». La confessione è finita alle 3 del mattino. «Ammetto di essermi trovata in forte conflitto con me stessa», dice l'avvocatessa Possetti. «Questa è una tragedia che mette a dura prova, una vicenda umana assurda. Devi avere una scorza ben dura per poterla sopportare, una scorza che forse io non ho. Pensavo alle ragioni degli indagati, ma pensavo anche alle persone offese, a tutto il dolore di questa tragedia. Mi sono sentita sollevata quando ho saputo di essere stata sostituita da un avvocato di fiducia». Gabriele Tadini, nato nel 1958, due figli, breve carriera politica nella Lega: era in consiglio comunale con l'attuale sindaca di Stresa alla fine degli anni '90. Ma, soprattutto, era già capo servizio della funivia del Mottarone quando, per la prima e unica volta nella sua storia, cambiò gestione. Da privata a pubblica. Non più la famiglia Nerini, ma la «ConSer VCO» che gestiva i trasporti locali e la raccolta rifiuti per conto della Regione Piemonte. Presidente di quella società era Claudio Zanotti, un professore di Italiano e Latino, con carriera politica da centro a sinistra: Dc, Popolari, Pd, Margherita. Adesso, seduto su una panchina del lungo lago, non riesce a darsi pace per questa storia sbagliata: «Divenni presidente il primo marzo del 1997. La Regione ci aveva affidato in concessione la gestione della funivia. Ci trovammo di fronte a un impianto che richiedeva un intervento di manutenzione imponente. Vennero stanziati 3 miliardi per metterlo in sicurezza. Cambiammo tutte le funi, alcuni cavi avevano più di trent' anni di utilizzo. Nel 2001, pur lavorando solo 7 mesi su 12, avevamo 706 milioni di ricavi e 727 milioni di costi. Anche durante la nostra gestione ci fu un guasto dovuto a un calo di tensione, ma nessuno si fece male e l'inchiesta si concluse con un'archiviazione». E poi? «Inspiegabilmente fummo tagliati fuori dall'unica gara d'appalto mai fatta, tornò in auge la famiglia Nerini, che da allora si è sempre vista rinnovare in automatico la concessione di un impianto ristrutturato da noi». Tornò la famiglia Nerini, tornò Gabriele Tadini. Da allora sono passati 32 anni. E di nuovo l'impianto funzionava malissimo. Usurato. Pericolante. «Perdeva olio, la batteria si scaricava, per questo abbiamo disattivato i freni d'emergenza», ha confessato Tadini. «Non riesco a darmi pace», dice adesso Zanotti. «Noi non avremmo mai messo quei forchettoni, mai. Avremmo tenuto ferma la funivia».

Andrea Pasqualetto per corriere.it il 28 maggio 2021. L’indagine passa da lì, dalla causa prima della sciagura del Mottarone: la rottura della fune. Se non si fosse verificato questo rarissimo evento nulla di tragico sarebbe accaduto domenica scorsa sul Mottarone. Indipendentemente dal fatto che i freni della funivia fossero o meno funzionanti. Ma chi doveva controllare lo stato di salute di questa fune di 2 centimetri e mezzo di diametro, installata nel 1998, che traina le cabine da una stazione all’altra della montagna? Come doveva controllare? E quando? La Procura di Verbania sta mettendo insieme i tasselli di un grande mosaico di norme, regolamenti, report. E di nomi: quelli delle ditte e dei soggetti che dovevano vigilare, verificare, intervenire e verbalizzare.

Tadini e i controlli a vista. Partiamo dall’operazione più semplice e quotidiana. Domenica scorsa, come ogni mattina, il dovere di Gabriele Tadini, lo storico macchinista della società di gestione Ferrovie del Mottarone, ora in carcere, oltre che togliere i forchettoni che bloccavano i freni, doveva fare un controllo a vista sulla fune. Posizione, rumori sospetti.

I fulmini. Inoltre, secondo la regola, visto che durante la notte c’era stato un temporale con fulmini, era tenuto a osservare il cavo per un giro a velocità ridotta. Se avesse trovato delle anomalie, l’impianto non avrebbe potuto aprire. In questo caso sarebbe scattata la segnalazione al direttore di esercizio, Enrico Perocchio, l’uomo più alto in grado nella catena di comando della funivia, in cella pure lui. Inoltre, ogni mese, lo stesso Tadini, nella sua funzione di capo servizio, deve fare un esame più approfondito delle varie componenti: cavo, pulegge, centralina. «Soprattutto dove ci sono state rotture di fili e altri danni esterni», prescrive l’allegato tecnico del decreto 18 maggio 2016, un po’ la Bibbia dei controlli sugli impianti a fune. Fin qui, il colpo d’occhio.

Sateco e i calamitoni. Il controllo più serio viene fatto una volta l’anno. L’ultimo è datato 5 novembre 2020 ed è firmato dalla torinese Sateco, 37 anni di esperienza su 3 mila impianti in 11 nazioni. La Sateco ha utilizzato il sistema magnetoinduttivo che rileva le condizioni della fune con dei calamitoni (come previsto dal decreto). Il controllo è in grado di rilevare la percentuale deteriorata di metallo. Se arriva al 6% (ma la quota sale al 10 o al 25 a seconda della dimensione della superficie presa in considerazione) è allarme e la fune dev’essere sostituita. In novembre il cavo del Mottarone è risultato sotto questa soglia e Sateco l’ha comunicato con un report a Perocchio, che a sua a volta ha spedito il risultato all’Ustif del ministero delle Infrastrutture, l’organo pubblico che sovrintende alla sicurezza su questi impianti.

Leitner e la «testa fusa». La parte più fragile della fune è quella terminale, tecnicamente «testa fusa». Fragile e sospetta, perché i calamitoni in quel punto non arrivano e dunque anche il controllo annuale può essere eseguito soltanto a vista. Il ministero ha prescritto un modo per superare il problema: la sostituzione ogni cinque anni. Si taglia un pezzo di cavo, circa una spanna, e si rifà la «testa». Operazione che è stata fatta il 22 novembre 2016 dalla Leitner di Vipiteno (Bolzano), il gruppo che ha fornito le cabine del Mottarone e che si occupa della maggior parte delle manutenzioni. I cinque anni scadono quindi fra sei mesi. Nel frattempo, a vista, pare non sia emerso nulla di allarmante. Quanto alla durata del cavo, installato nel 1998, «non c’è più il termine dei 30 anni — spiega l’esperto —. Viene sostituito quando la parte di metallo sano scende sotto le soglie stabilite dal ministero».

I controlli. Insomma, i vari report sulla funivia della sciagura riportano numeri insospettabili. C’è però un precedente che un po’ inquieta: il ponte Morandi. Anche in quel caso le relazioni sfornavano percentuali da struttura in salute. Avevano però un difetto: erano false.

"Hanno visto i corpi ma non hanno detto nulla..." Gabriele Laganà il 29 Maggio 2021 su Il Giornale. Emergono nuovi dettagli sulla tragedia della funivia del Mottarone costata la vita a 14 persone. "Appare, allo stato, inadeguata ogni altra misura cautelare" perché "sproporzionata alla gravità dei fatti ed alla enorme risonanza è allarme sociale che l'avvenimento sta suscitando a livello locale e internazionale". È questo uno dei passaggi della richiesta di convalida del fermo firmato dalla procura di Verbania nei confronti dei tre fermati per la tragedia della funivia del Mottarone avvenuta la scorsa domenica nella quale hanno perso la vita 14 persone che viaggiavano sulla cabina numero 3. Per il procuratore di Verbania, Olimpia Bossi, non solo esiste il "concreto e attuale" pericolo di fuga di fronte ad accuse che se dimostrate comporterebbero una "elevatissima sanzione amministrativa", ma anche la possibilità che se in libertà i fermati commettano ancora gli stessi reati. Questo perché, ad esempio, Enrico Perocchio, consulente esterno dell'impianto della funivia del Mottarone, è dipendente della Leitner e ricopre l'incarico di direttore d'esercizio non solo a Stresa ma anche presso la funivia del Santuario Nostra Signora di Montallegro a Rapallo, in Liguria, "chiusa per manutenzione, a seguito del suo arresto, coincidenza significativa e singolare". In questo caso, però, il Comune ha voluto rassicurare spiegando che si tratta di lavori programmati da tempo. Secondo il procuratore, però, c’è anche il rischio di inquinare le prove.

La decisione della procura di Verbania. La libertà potrebbe, infatti, agevolare "accordi collussivi tra Nerini e Perocchio (rispettivamente gestore dell'impianto e direttore di esercizio, ndr) finalizzati ad addossare tutte le responsabilità a Tadini", il capo servizio dell'impianto che ha ammesso di aver manomesso il sistema frenante di emergenza. Inoltre, per il procuratore la loro presenza fuori dal carcere potrebbe "influire sulla genuina raccolta delle dichiarazioni dei dipendenti e di altre persone informate che potrebbero essere indotte a riferire il falso o a mitigarne le responsabilità". Non solo, perché secondo Bossi i soggetti potrebbero anche aver alterato documenti. Pertanto il carcere appare l'unica misura di fronte a un disastro che i fermati, se ritenuti colpevoli, dovranno risarcire non solo ai parenti delle vittime ma anche al Comune di Stresa per un "danno all'immagine certamente subito". Nella richiesta della procura di Verbania con cui si conferma la misura cautelare in carcere per i tre indagati firmata dalla procuratrice Olimpia Bossi e dal pm Laura Carrera si evidenzia anche un altro aspetto importante: "Nonostante la gravità delle condotte e delle conseguenze che ne sono derivate, i fermati non hanno avuto un atteggiamento resipiscente presentandosi nell'immediatezza dei fatti all'autorità giudiziaria per assumere le proprie responsabilità". "Tale considerazione- si legge ancora nel documento- assume maggiore gravità e rilievo per Luigi Nerini ed Enrico Perocchio che, accorrendo sul posto il giorno dei tragici accadimenti, hanno potuto vedere i corpi delle vittime straziati, giacenti a terra sbalzate fuori dalla cabina numero 3 o incastrati dentro la stessa".

Le accuse a Tadini. Secondo la procura Tadini sentì "un rumore/suono caratteristico" riconducibile alla "presumibile perdita di pressione del sistema frenante della cabina, che si ripeteva ogni 2-3 minuti, per ovviare al quale decideva di lasciare inseriti i forchettoni rossi". Questo sarebbe avvenuto anche il giorno del disastro. Tra le accuse mosse a Tadini c'è infatti anche quella di "falso" in quanto lo stesso avrebbe annotato il falso sul registro giornale. Quest’ultimo, nel corso dell'interrogatorio avvenuto in caserma a Stresa, avrebbe espressamente dichiarato che "lo sapevano tutti". Il riferimento è all’"abituale ricorso ai 'forchettoni'" sull'impianto per ovviare a un'anomalia del sistema frenante. Tadini avrebbe aperto l'impianto alle 9 del mattino facendo fare un giro di prova a una cabina della funivia. Lo stesso avrebbe ispezionato la cabina che sarebbe poi crollata, rilevando una "anomalia sull'impianto frenante". In particolare ha riferito di aver udito un "rumore" che era "caratteristico". A quel punto Tadini avrebbe deciso di lasciare inserito il forchettone in quella cabina, che poi sarebbe caduta. Sempre secondo la procura di Verbania Tadini aveva condiviso la decisione di disattivare il sistema frenante sia con Nerini che con Perocchio. Il fatto che a richiedere l'intervento dei tecnici per due volte sia stato lo stesso Tadini dimostra che egli "fosse assolutamente consapevole delle anomalie" e sarebbe "irrealistico" pensare che non fosse a conoscenza dei "forchettoni". In un altro passaggio contenuto nella richiesta di convalida del fermo che riporta parte delle dichiarazioni rese da Tadini si legge che la cabina numero 3 aveva i freni di emergenza disattivati non solo domenica 23 maggio, quando si è verificata la tragedia, ma anche il giorno prima. Una scelta legata al fatto che il sistema segnalava in modo costante un problema ai freni, ossia una perdita di pressione che faceva scattare le ganasce. Tadini ha dichiarato che la scorsa domenica la scelta di inibire il sistema frenante era stata soltanto sua tanto che non aveva avvertito altre persone. Inoltre lo stesso Tadini ha aggiunto che anche il giorno precedente, in considerazione del fatto che la cabina numero 3 presentava gli stessi problemi, aveva evitato di togliere il "forchettone", facendola viaggiare tutto il giorno con il sistema frenante inibito. In questo caso non aveva annotato l'evento sul libro giornale, né avvisato altri.

Le accuse a Nerini. Nerini deve restare in carcere "stante la già dimostrata insofferenza ad uno scrupoloso rispetto delle misure di sicurezza volte a tutelare l'incolumità degli utenti di tale genere di impianti". Nerini, tra l’altro, è anche gestore dell'impianto di attrazione Alpyland dove si sono verificati due incidenti in cui sono rimasti feriti un dipendente e un passeggero e ha un procedimento penale in corso.

Oggi gli interrogatori dei tre fermati. Sono stati fissati per questa mattina gli interrogatori di convalida dei fermi per Nerini, Perocchio e Tadini che compariranno davanti al gip Donatella Banci Buonamici, che è anche presidente dell'ufficio.

Gabriele Laganà. Sono nato nell'ormai lontano 2 aprile del 1981 a Napoli, città ricca di fascino e di contraddizioni. Del Sud, sì, ma da sempre amante dei Paesi del Nord Europa. Seguo gli eventi di politica e cronaca dall'Italia e dal mondo. Amo il calcio, ma tifo in modo appassionato solo per la Nazionale azzurra. Senza musica non potrei vivere. In tv non perdo i programmi che parlano di misteri e i film horror, specialmente del genere zombie. Perdono molte cose. Solo una no: il tradimento

"Avvertì rumori strani, poi inserì i forchettoni". I pm: Tadini ha mentito. Patricia Tagliaferri il 29 Maggio 2021 su Il Giornale. Si complica anche la posizione di Perocchio: «Chiamò due volte i tecnici, sapeva dei fermi». Ai magistrati aveva detto che domenica, prima del disastro del Mottarone, non aveva sentito rumori sospetti. Ma Gabriele Tadini - il caposervizio della funivia che con le sue dichiarazioni ha aperto uno squarcio sulle responsabilità che hanno contribuito alla tragedia costata la vita a 14 persone, ammettendo di aver disattivato i freni di sicurezza per ovviare ai blocchi continui che avrebbero potuto costringere la chiusura dell'impianto per manutenzione - stava mentendo. Delle anomalie le aveva riscontrate, ma non gli aveva dato seguito correndo il rischio di far lavorare la funivia. La Procura di Verbania, nella richiesta di arresto, lo accusa anche di falso per avere annotato nel registro giornale l'esito positivo dei controlli malgrado «un rumore caratteristico riconducibile alla presumibile perdita di pressione del sistema frenante della cabina, che si ripeteva ogni 2-3 minuti, per ovviare al quale decideva di lasciare inseriti i forchettoni rossi». Episodi che si sarebbero verificati almeno in due occasioni, ossia il 22 e il 23 maggio, proprio il giorno in cui ha ceduto la fune traente. «Ha messo questi forchettoni un paio di volte, poi li ha tolti, molto spesso con la cabina vuota. Faceva delle prove perché c'erano questi rumori che non lo convincevano», spiega il suo legale, Marcello Perillo. Domenica Tadini era al lavoro vicino ai monitor quando la telecamera del sistema di video sorveglianza si è spenta. Ha intuito che qualcosa non andava, ma non ha visto nulla, né sentito il tonfo della cabina numero 3 che si schiantava al suolo. Oggi, durante l'interrogatorio di convalida, dovrà rispondere anche di non aver segnalato «tempestivamente all'Ustif del Piemonte e Valle d'Aosta (ufficio speciale per i trasporti ad impianti fissi) tutte le anomalie od irregolarità riscontrate nel funzionamento dell'impianto». La Procura ha chiesto il carcere per lui e per gli altri due fermati, Luigi Nerini, il titolare delle Ferrovie del Mottarone, ed Enrico Perocchio, l'ingegnere della Leitner direttore del servizio, che per ora respingono le accuse negando di aver avallato il blocco dei freni per salvaguardare gli incassi. I pm ritengono che potrebbero inquinare le prove, concordando le proprie versioni, o provare a fuggire. Nell'interrogatorio fiume di martedì notte Tadini ha inguaiato Perocchio e Nerini: loro sapevano ed erano d'accordo. Per evitare ripercussioni di carattere economico proprio ora che stavano cominciando a tornare i turisti. Per l'accusa il caposervizio aveva condiviso con entrambi la decisione di disattivare il sistema frenante e il fatto che a richiedere per due volte l'intervento dei tecnici sia stato Perocchio «dimostra che egli fosse assolutamente consapevole delle anomalie». Sarebbe irrealistico, scrivono i pm nella richiesta di misura cautelare, pensare che non fosse a conoscenza dei forchettoni. Sotto la lente della Procura anche le ditte che si occupavano della manutenzione dell'impianto e che avevano effettuato i controlli non riscontrando anomalie. Fondamentale sarà poi capire se c'è una connessione tra la rottura della fune e gli allarmi che facevano scattare i freni di emergenza, motivo per cui erano stati inseriti i forchettoni. Forse quegli allarmi stavano segnalando che la fune stava per cedere e sono stati colpevolmente ignorati?

Funivia Stresa Mottarone, Tadini pronto a confessare tutto: "Gli altri due negano, pene altissime". Libero Quotidiano il 28 maggio 2021. Sarebbe pronto a confessare tutto Gabriele Tadini, responsabile del servizio della funivia del Mottarone. Dopo il crollo di una cabina e la morte di 14 delle 15 persone a bordo, domani l’uomo dovrebbe ammettere davanti al gip di Verbania di aver disattivato il sistema frenante con la scelta dei forchettoni per evitare il blocco della cabina. Lo riporta l’Ansa. “Ho corso il rischio ma l'ultima cosa al mondo che pensavo è che si potesse rompere il cavo traente", avrebbe detto in carcere durante un colloquio col suo avvocato Marcello Perillo. "È pentito", ha aggiunto il difensore, annunciando che per lui chiederà i domiciliari. Hanno negato le accuse, invece, gli altri due indagati: Luigi Nerini, titolare delle Ferrovie del Mottarone, ed Enrico Perocchio, ingegnere e direttore del servizio. Nerini, infatti, avrebbe detto di non avere mai avallato il blocco dei freni, tanto è vero che ”salivo sulla funivia con i miei figli”. Uguale Perocchio. “Si è messo a disposizione della magistratura immediatamente, invece è stato sbattuto in carcere. Dice che solo un pazzo poteva bloccare i freni e la presenza dei forchettoni non gli era stata mai segnalata”, ha dichiarato il suo avvocato Andrea Da Prato. I tre fermati, comunque, rischiano pene molto alte, come riporta il Corriere della Sera. In particolare, per la Procura c’è il pericolo che tentino la fuga visto il rischio di una ”elevatissima sanzione detentiva”, pari a oltre dieci anni di carcere, per una vicenda che ha sollevato un “clamore internazionale”.

Francesco Specchia per “Libero Quotidiano” il 28 maggio 2021. Marcella Severino è una sindaca d'acciaio. Lavora bene, amata dai concittadini; e da quando è entrata in carica nella sua Scesa, ogni cosa era illuminata. Ma negli ultimi tre giorni ha passato il tempo tra i morti e le lamiere della tragedia del Mottarone. Sta vivendo nella stessa lacrima dei familiari delle vittime. Sindaco, sono stati confermati gli arresti di Nerini, Tadini e Perocchio, accusati di aver manipolato il sistema di frenaggio della funivia. Come si sente alla notizia?

«Non mi intendo di cavi, non sapevo nulla di forchettoni, fino a quando non me ne hanno parlato i tecnici. So solo che nessuno, dico nessuno, a Stresa si sarebbe mai immaginato una cosa simile. Siamo tutti addolorati. Quella filovia, per noi, è un simbolo, come lo è il Duomo per Milano. Fa parte di noi da sempre. Da piccoli ci salivamo per andare a imparare a sciare. E ora ci salgono i nostri figli. Quei tre che sono in galera li chiamerei assassini, è quello che sono. Confermato il loro arresto, finito l'interrogatorio di garanzia, ci costituiremo, tutto il Paese, parte civile e li denunceremo».

Non si capisce ancora bene la faccenda della proprietà della funivia...

«Invece si capisce. È confermata la proprietà della Regione, l'ha detto anche il Procuratore».

È rimasta anche lei spiazzata dall'atteggiamento di Luigi Nerini, storico proprietario delle Funivie del Mottarone (su cui, da tre generazioni, la sua famiglia ha l'assoluto dominio), e dalla sua spietata voglia di fatturato?

«Nerini ha ereditato il business dal padre, poi si è ingrandito, ma noi lo vediamo poco, sta a Baveno, non è mai stato uno di Stresa. Vede, noi siamo una comunità piccola, molto unita, in inverno arriviamo a 5000 abitanti, ci conosciamo tutti. E tutti - ma dico tutti - sono rimasti costernati dal dolore. Il primo giorno abbiamo indetto un quarto d'ora di lutto cittadino, rispettato da tutti. Si immagini che gli albergatori, tanto se la sono presa a cuore, che hanno ospitato gratuitamente i parenti delle vittime; e i servizi di noleggio auto hanno messo a disposizione le loro vetture. Tutto il Paese s'è stretto intorno alla tragedia. È come se quei morti fossero stati nostri figli».

Il turismo ha subìto un duro colpo, proprio ora che si ripartiva. Cosa farete per superare l'impasse?

«Mi ha chiamato il principe Vitaliano Borromeo, (l'anima di Stresa e delle isole omonime di proprietà della famiglia, proprietario dei Castelli di Angera e di Cannero, di Villa e Parco Pallavicino, imprenditore illuminato della zona, ndr) e s'è offerto di mettere a disposizione i suoi legali; e, soprattutto, i nove chilometri di strada privata dei Borromeo sui 21 della strada statale - dove un tempo passava la tappa del giro d'Italia - per poter sostituire la tratta della funivia che rimarrà ferma chissà quanto. Non è detto che non ci aiuti sul rilevare la funivia. Penso che utilizzeremo un sistema di navette, ci stiamo organizzando».

Stresa - purtroppo - è al centro del mondo ma state ricevendo attestati di solidarietà da ogni dove.

«Non sa quanti me ne stanno arrivando. Per il bambino sopravvissuto, Eitan, arrivano perfino richieste di adozione dalla Sicilia. Ci sono tutti vicini. Certo, c'è sempre qualche meschino odiatore sui social, ma la polizia postale li ha già individuati. E l'essenziale, guardi, è che Stresa deve ripartire, lo sta già facendo, per esempio col Giro d'Italia. Abbiamo chiesto al ministro Giovannini di fermare la tappa del Mottarone, ma la corsa comunque passerà da Stresa, come in una sorta di riscatto. Abbiamo l'80% di turismo estero, che il Covid ci ha bloccato, limitandoci al turismo di prossimità. Ma ciò che vorrei è lasciare nel ricordo dei familiari delle vittime che né Stresa né il Mottarone c'entrano con la loro tragedia. E che noi saremo sempre con loro. Tutti siamo aggrappati al corpicino di Eitan che è il simbolo della rinascita».

Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 28 maggio 2021. Alla fine di quella lunga giornata i passeggeri avevano fatto un brindisi con gli uomini del 118 e i Vigili del fuoco. Nella sala interna del ristorante Belvedere, dove era stato allestito il punto ristoro, conservano ancora la foto di quel momento. A mezzogiorno del 12 luglio 2001 un calo di tensione provoca una brusca oscillazione della cabina, che fa accavallare i cavi causando un blocco immediato della funivia. I soccorritori si calano in cabina da un elicottero, imbragano ognuno dei quaranta turisti rimasti sospesi nel vuoto per quasi cinque ore, e li depositano in salvo sul prato. È il lieto fine che questa volta non c'è stato. È così che sarebbe dovuta andare, se i forchettoni fossero stati tolti. Ma quell'incidente, che apre i telegiornali della sera, rappresenta a suo modo anche un colpo di fortuna per Gigi Nerini, perché gli restituisce qualcosa che aveva perso. «Certo che se quell'impianto fosse stato ancora gestito da un ente pubblico, l'avremmo senz'altro chiuso e poi avremmo fatto le riparazioni». Claudio Zanotti, insegnante di Lettere in pensione, ex sindaco di Verbania, usa il «noi» quasi senza accorgersene. Democristiano, Popolare, Margherita, infine Pd, è stato presidente anche di Conser Vco, azienda di servizi che oggi come all'epoca si occupa soprattutto di gestione dei rifiuti. Ma dal 1997 al 2001 fu incaricata dalla Regione Piemonte di prendersi cura della funivia Stresa-Mottarone. Furono gli unici quattro anni, su oltre un secolo di vita, contando anche il periodo della ferrovia a cremagliera, in cui quella infrastruttura, costruita dallo Stato, ha avuto un gestore pubblico. Non accadde per caso. Nel 1997 la funivia, gestita a partire dal 1970 dalla «Ferrovie del Mottarone» di proprietà della famiglia Nerini, cade a pezzi. Le segnalazioni di guasti sono sempre più frequenti. I titolari della concessione, che nel frattempo è scaduta, non ci mettono una lira, neppure per la manutenzione comune. Un perito ha appena certificato che «il piazzale antistante la stazione di arrivo e le parti comuni della stazione intermedia versano in stato di abbandono pressoché totale». Con una legge di tre soli articoli, il 21 marzo la Regione Piemonte eroga tre miliardi di vecchie lire per l'ammodernamento e la messa in sicurezza degli impianti, e trasferisce la proprietà al Comune di Stresa. Il finanziamento è affidato a Conser Vco. «Ci volle molto lavoro, perché le condizioni erano davvero precarie, ma ne facemmo un gioiellino» ricorda Zanotti. Vengono cambiate le funi, che avevano ormai quasi raggiunto i trent'anni di utilizzo. E le tenditrici, e le pulegge. La piazzola viene sistemata a dovere. Tutto nuovo. Nel 2000 il bilancio della funivia chiude in leggero attivo. Per la prima volta nella sua storia a quel tempo trentennale. L'incidente del luglio 2001 cambia tutto. L'impianto viene fermato per alcuni mesi. I tredici dipendenti rimangono senza stipendio. Zanotti viene indagato. Sarà assolto con formula piena due anni dopo. La Regione affida alla Provincia del Verbano Cusio Ossola la gara d'appalto per la concessione. Conser Vco si dice disponibile ad andare avanti. Il consiglio di amministrazione invia una lettera alla Provincia chiedendo che vengano specificati i termini economici del bando, per potervi partecipare. Quale prezzo doveva essere fissato per i biglietti, quale contratto di locazione per le parti comuni di proprietà demaniale. Non ottiene risposta. Alla gara si presenta solo la «Ferrovie del Mottarone», che ottiene la gestione fino al 31 dicembre 2002. Per quindici anni non verrà indetto nessun altro bando. Le funivie tolte a Gigi Nerini per via del degrado della struttura, gli vengono restituite come nuove. A spese dello Stato.

Strage Stresa Mottarone, perché si è spazzato il cavo "indistruttibile": l'ipotesi del "corpo estraneo". Libero Quotidiano il 28 maggio 2021. Perché il cavo ritenuto “indistruttibile” si è spezzato, provocando la tragedia della funivia Stresa Mottarone? Anche se parlare di tragedia è forse inappropriato, perché si tratta di un incidente costato la vita a 14 persone che si poteva evitare. Quella cabina, infatti, continuava a fermarsi: sarebbe bastato non manomettere i freni, cosa che invece è stata fatta per non perdere nemmeno un giorno di lavoro nel primo weekend di riaperture. Tragedia che addirittura sarebbe stata prevedibile, se dovesse rivelarsi strettamente connessa allo stress subito dal cavo traente. “Questi cavi in acciaio - si legge su Il Giornale - a trefoli intrecciati, sono ritenuti ‘indistruttibili’. Resistono anche se rovinati per metà, sono tarati per reggere cinque volte il peso dell’impianto per cui sono pensati e a capienza piena, nemmeno ridotta come in quella maledetta domenica scorsa. Nessun fenomeno meteo avverso, temporale, ghiaccio o fulmine può scalfirli, dato che sono pensati per lo sci e l’inverno. Eppure quella fune non ha retto”. Va capito perché, per provare a farlo Il Giornale ha interpellato diversi tecnici: “I punti deboli sono nell’aggancio alla cabina oppure a monte e valle, quando si arrotolano sulle pulegge”. Ma cosa potrebbe aver fatto andare in tilt il meccanismo? “Un corpo estraneo o la stessa fune che potrebbe aver scarrocciato andando perfino ad autolesionarsi ad ogni giro”, è il parere espresso da uno dei tecnici a Il Giornale. Decisiva sarà la perizia sulle due cabine, quella distrutta e quella sospesa verso valle: nel frattempo l’associazione nazionale esercenti funivia ha già bollato come un gesto pari a un attentato la manomissione dei freni attraverso i blocchi del “forchettone”. 

Luca Fazzo per “il Giornale” il 28 maggio 2021. Dalle pulegge agli argani, dai motori ai freni: quando nel novembre 2014 la Ferrovie del Mottarone sospende l'esercizio della funivia di Stresa e riconsegna l'impianto in mano agli enti locali, restituisce una struttura in condizioni pietose, segnata in profondità dal degrado e dalla necessità di nuovi interventi. Eppure per anni la società dei Nerini aveva incassato contributi comunali e regionali per mandare avanti il collegamento tra il lago e la montagna. Finanziamenti incassati, e lavori mai fatti. Un precedente inquietante, visto alla luce della tragedia di domenica scorsa. Il documento che racconta in controluce lo stato di degrado in cui già sette anni fa versava la funivia è il capitolato della gara che nel 2015 Scr Piemonte, l'azienda regionale che gestisce gli appalti, vara per la «progettazione esecutiva e la realizzazione di tutti i lavori e forniture necessari per la revisione generale 40esimo anno della funivia Stresa-Alpino-Mottarone». È la replica della gara andata deserta l'anno prima, il 19 dicembre, a funivia ormai ferma, quando nessuno si era sentito di anticipare i 2,2 milioni chiesti per i lavori di ammodernamento. Invece l'anno dopo la gara viene vinta dall'unico concorrente: il consorzio composto dalla società di Gigi Nerini e dalla Leitner, il colosso altoatesino che si occupa dell'appalto. Il Comune di Stresa si rassegna a versare un contributo di tre milioni. Ma il vero business per Leitner è il contratto di manutenzione dell'impianto per i tredici anni successivi. In che condizioni è l'impianto che Gigi Nerini riconsegna a se stesso e ai suoi soci altoatesini dopo un anno di stop? Un impianto in condizioni pietose, stando alle carte che sono alla base dell'interpellanza depositata lo stesso anno da Maurizio Marrone, consigliere regionale di Fratelli d'Italia. L'appalto del 2015, quasi identico all'appalto 2014, snocciola uno dopo l'altro i punti critici che vanno affrontati per «ripristinare le condizioni di efficienza e sicurezza per il proseguimento della vita tecnica dell'impianto». Superati i quarant'anni di vita (l'inaugurazione è del 1970) la funivia di Stresa è di fatto una struttura obsoleta, mai messa al passo con i tempi. In particolare, si legge nel capitolato, servono «sostituzione degli attuali argani di entrambi i tronchi, degli argani di recupero e degli argani di sostegno», la «sostituzione delle pulegge motrici principali, di soccorso e di deviazione», la «sostituzione delle apparecchiature elettriche di azionamento e regolazione dei nuovi motori e dei circuiti di sicurezza». Tra gli interventi previsti, c'è anche quello sui «dispositivi elettrici di oltrecorsa posti alla stazione intermedia, comandano l'intervento del freno di emergenza agente sulla puleggia motrice». Sono i freni che ad appena sei anni dall'appalto hanno iniziato a funzionare male, spingendo il gestore Nerini e i suoi tecnici a escogitare il rimedio criminale del forchettone.

Lo choc e la rabbia dei familiari delle vittime. "Li avete uccisi, non ci sarà mai un perdono". Patricia Tagliaferri il 27 Maggio 2021 su Il Giornale. I parenti delle 14 persone decedute: "Ora i responsabili dovranno pagare". Una tragedia del genere sarebbe stata impossibile da accettare anche se fosse stata una fatalità. Magari con il tempo qualcuno ci sarebbe pure riuscito, chissà. Ma sapere che dietro alle 14 vittime dell'incidente del Mottarone e a quel bimbo di 5 anni che lotta per vivere una vita che non sarà mai più la stessa, ci sono responsabilità precise, sapere che i presunti responsabili per la Procura avrebbero manomesso il sistema frenante per motivi economici, per non rinunciare al profitto proprio ora che il turismo stava ripartendo, è devastante per i familiari di chi non è più tornato da una gita sul monte che domina il lago Maggiore. Come è possibile perdonare un comportamento del genere? Come può una madre, un padre, un fratello o un figlio trovare pace di fronte a certe notizie, sapendo che i propri cari non torneranno più a casa perché qualcun altro, se l'accusa reggerà, avrebbe pensato più al profitto che alla sicurezza di chi saliva in funivia per cercare un po' di svago? «Me li avete ammazzati e a questo, mi spiace, non ci sarà mai nessun tipo di perdono», scrive in una storia su Instagram Angelica Zorloni, primogenita di Vittorio morto insieme alla compagna Elisabetta Persanini e il figlio Mattia, di 5 anni. La notizia dei tre fermi ha travolto la giovane, nata da un precedente matrimonio, che subito dopo la tragedia aveva già affidato ai social il suo drammatico addio al genitore. Ieri di nuovo ha voluto sfogare la sua rabbia per gli agghiaccianti sviluppi dell'inchiesta postando una foto della famiglia sorridente, lei con in braccio il fratellino scomparso, per dire che no, non potrà mai perdonare, se è vero come sembra che la tragedia si poteva evitare. Angelica non usa mezzi termini: «Me li avete ammazzati», dice. Anche la mamma di Alessandro Merlo, morto insieme alla fidanzata Silvia Malnati, non riesce a contenere la rabbia. La dinamica dell'incidente, l'ipotesi accusatoria di una consapevole manomissione della funivia per non perdere i clienti, aggiunge dolore a un dolore già insopportabile per aver perso il suo ragazzo, 29 anni, mai tornato da una gita che doveva celebrare il ritorno alla normalità. «Il freno bloccato per non perdere turisti. Se mio figlio è morto per questo dovranno pagare», si sfoga con Repubblica. Per Eitan, il piccolo di origini israeliane unico sopravvissuto, è la comunità ebraica ad esprimere il proprio sdegno. La zia ha tempo solo per lui, per accompagnare il suo risveglio. «È una tragedia immensa, un momento terribile anche alla luce delle notizie emerse sulle responsabilità. Certo le scuse e forse anche il carcere non bastano davanti a 14 vite spezzate. Il risultato dell'inchiesta è sconvolgente, ci vuole una pena esemplare», commenta Giulio Disegni, vice presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane che ieri insieme alla presidente Noemi Di Segni e al presidente della Comunità ebraica torinese, Dario Disegni, ha fatto visita al bambino.

Irene Famà per "La Stampa" il 27 maggio 2021. «They are murderers». Sono assassini. L'inglese lo parla poco, per la traduzione si affida al marito Ron. Gali Peleg, la zia di Eitan, da Tel Aviv segue passo passo le condizioni del piccolo. Legge ogni articolo e ascolta ogni trasmissione che riguarda gli sviluppi delle indagini della procura di Verbania. Nella tragedia di Stresa, lei, 29 anni, ha perso sua sorella Tal, la mamma di Eitan, suo cognato Amit, suo nipote Tom. Le è rimasto Eitan. Gali e il marito chiedono risposte perché quello di domenica, dicono, «non è stato un incidente, non è stata una fatalità. È stata una tragedia voluta». Insieme ricordano i momenti trascorsi in Israele con l'intera famiglia. Una famiglia che aveva innumerevoli progetti per il futuro.

Quando sono arrivati in Italia Amit e Tal?

«Cinque o sei anni fa. Amit voleva studiare medicina a Pavia, dove abita e lavora anche sua sorella. Eitan è nato in Israele, poi sono partiti».

Cos'ha detto a Tal quando ha deciso di trasferirsi?

«Inevitabilmente ero un po' triste, ma sapevo che non mi avrebbe mai abbandonata. Che sarebbe tornata, anche solo per un saluto. Non eravamo solo sorelle, eravamo anime gemelle».

Un sogno, per loro, vivere nel pavese?

«Quando Amit era con noi ne parlava spesso con toni entusiastici. E dopo che si erano trasferiti, sia lui che Tal trascorrevano ore a raccontare degli studi e dell'Italia. Al telefono ci sentivamo spesso».

Avevano accennato della gita a Stresa?

«Certo, per loro era importante. Durante l'ultima telefonata mi hanno raccontato il programma nei dettagli. Parlavano del panorama che avrebbero ammirato, del lago Maggiore. Tal era molto contenta».

Una vacanza tanto attesa anche dai bisnonni di Eitan?

«Sì. Con il Covid viaggiare non è semplice e loro finalmente potevano riabbracciare tutti i nipoti».

Sono partiti nonostante la guerra…

«Avrebbero dovuto lasciare Israele prima, ma il volo è stato cancellato proprio a causa di quanto stava accadendo».

Con Amit e Tal si era già parlato delle vacanze?

«Certo. Dall'ultima volta che ci eravamo visti, ad ottobre, era passato molto tempo. Così avevano programmato un viaggio in Israele a luglio con i figli. Invece non li vedremo più».

I funerali quando si terranno?

«Le salme arriveranno durante la notte e verranno celebrati i funerali di Amit, Tal e Tom. Quelli di Barbara e Itshak saranno venerdì».

Le indagini hanno accertato la manomissione ai freni di emergenza. Basta questo a spiegare una simile tragedia?

«Non è stata una tragedia, non è stata una fatalità. È stato un omicidio».

Come mai?

«È stato scritto sui giornali e ribadito in televisione che pare si sia voluto risparmiare sulla manutenzione, non si volesse tenere ancora ferma la funivia. Questo è costato tante vite».

Quattordici.

«No, molte di più. Le vittime non sono solo quattordici. Ci siamo anche noi, ci sono anche le famiglie di tutti coloro che hanno perso la vita su quella montagna per colpa di chi ha pensato solo al denaro. Di chi ha pensato che le vite valessero meno di un po' di soldi».

Eitan è l'unico sopravvissuto. È un simbolo di speranza?

«Eitan ha un significato emblematico, vuol dire "forza". Il suo secondo nome poi è Moshe, lo stesso del nonno morto tempo fa. E sua madre gli ripeteva una frase».

Quale?

«He will always look after you and keep you safe. Si prenderà sempre cura di te e ti terrà al sicuro».

Eitan si sta svegliando.

«Lo aspettiamo. Non vediamo l'ora di vederlo, di abbracciarlo, di giocare con lui. Deve sapere che non è solo».

Resta il giallo della rottura del cavo. Tragedia del Mottarone, le prime parole del piccolo Eitan: “Cia zia dove sono mamma e papà?” Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Maggio 2021. Lo ha salvato il caldo abbraccio di papà Amit Biran, 30 anni, che lo ha stretto forte al petto durante la caduta. Il piccolo Eitan, 5 anni, unico sopravvissuto alla strage della funivia del Mottarone si è svegliato e ha detto le sue prime parole. China sul suo letto c’era la zia Aya. “Ciao zia, perché siamo in ospedale? Dove sono mamma e papà?”, ha detto. “Ho male alla gola”, ha continuato il piccolo che è ricoverato all’ospedale pediatrico Regina Margherita di Torino. Il piccolo è stato a lungo intubato perché in gravi condizioni. Su quella funivia del Mottarone sono morti i suoi genitori il fratellino e i bisnonni. Eitan, fa sapere la Città della Salute di Torino, è in una “situazione stabile ma la prognosi rimane riservata. Il torace è ancora contuso e la situazione addominale non permette ancora di rialimentarlo. Per questa ragione il bimbo rimane in Rianimazione ancora qualche giorno. Eitan comunque è sveglio ed ha accanto a sé la zia e la nonna. A volte Eitan chiede dei suoi genitori ma la zia gli resta sempre vicino”.

La solidarietà per Eitan. E la solidarietà intorno al piccolo si fa sentire da tutti. Tante famiglie si sono fatti avanti proponendo un’adozione ma gli zii si prenderanno cura di lui. I vigili del fuoco hanno realizzato un elmo con il suo nome, consegnato al personale sanitario dell’ospedale Regina Margherita dal comandante di Verbania, Roberto Marchioni, assieme a due capi squadra intervenuti sul Mottarone, che oggi hanno fatto visita al piccolo ricoverato. “Forza Eitan, siamo tutti con te” scrivono i pompieri sul loro account twitter, dove postano la foto dell’elmo per il piccolo sopravvissuto alla strage della funivia. I vigili hanno anche preparato delle magliette con il nome del bambino e l’immagine di Grisù, il draghetto che voleva fare il pompiere. Il Giro d’Italia passerà davanti al carcere di Verbania: nel primo pomeriggio di sabato la corsa attraversa il cuore della città, dopo aver deviato venerdì, giorno in cui era prevista la sua salita al Mottarone. È in quello stesso carcere che si trovano al momento Gabriele Tadini, Luigi Nerini ed Enrico Perocchio, i tre fermati, per il momento, per la tragedia alla funivia del Mottarone, che ha provocato la morte di 14 persone. Ed è qui che sabato mattina alle 9 ci sarà l’udienza di convalida del fermo fissata dal gip e l’interrogatorio per i tre. Che, secondo la procura, devono restare in carcere: per i tre sussistono, secondo la pm, diverse esigenze cautelari. Il rischio di fuga, perché non si sarebbero presentati subito dopo il fatto a dire quanto accaduto. Il rischio di inquinamento probatorio, poiché potrebbero accordarsi e cambiare versione, dice la procura. E infine anche il rischio di reiterazione del reato. I fatti sono ritenuti di “straordinaria gravità” dalla procura, che parla anche di “clamore internazionale” per la loro “drammaticità”. Tadini, l’unico ad aver ammesso di aver deliberatamente inserito i ‘forchettoni’ all’interno dei freni, si è chiuso in preghiera, come continua a ripetere il suo avvocato. Che racconta anche la sua versione: “Faceva sostanzialmente delle prove. Ha messo questi ‘forchettoni’ un paio di volte, poi li ha tolti, molto spesso con la cabina vuota – spiega il legale di Tadini, Marcello Perillo -. Faceva delle prove perché c’erano questi rumori, quando faceva queste prove, che non lo convincevano”. Questi rumori, secondo la procura, Tadini li ha sentiti anche il 22 e il 23 maggio, cioè il giorno prima e il giorno stesso della tragedia. Si tratta di un “rumore caratteristico”, che potrebbe essere riconducibile alla presunta “perdita di pressione del sistema frenante” e che si ripeteva “ogni 2-3 minuti”. Tra le ipotesi di reato inserite nella richiesta della procura c’è infatti, solo per Tadini, anche quella di falso: il caposervizio, che il giorno della tragedia si trovava alla base della funivia a Carciano, a Stresa, avrebbe falsificato “il Registro Giornale” e “attestava falsamente” lo stato dell’impianto sui registri anche impedendo così di assicurare l’attività di sorveglianza da parte del ministero. Tadini, secondo il suo legale, è “pentito” e non avrebbe intenzione di ritrattare le sue dichiarazioni. “Lui mi ha detto che l’ultima cosa che avrebbe pensato al mondo che potesse succedere era la rottura del cavo traente. Lui non era sereno quando metteva questi benedetti forchettoni”, ha poi spiegato l’avvocato Perillo. Resta infatti il giallo della rottura del cavo: se tra le ipotesi al vaglio c’era anche quella di una correlazione tra il malfunzionamento del sistema frenante e la rottura della fune, l’avvocato sostiene che il suo assistito lo esclude al 100%. La richiesta del carcere sembra però eccessiva ai difensori: sicuramente Perrillo chiederà per il suo assistito almeno i domiciliari, insistendo soprattutto sul fatto che non può esserci pericolo di fuga perché Tadini è andato spontaneamente in caserma dai carabinieri a Stresa due giorni fa, quando poi è stato fermato. Intanto continuano a essere sentite persone informate sui fatti, in particolare dipendenti. “I processi si fanno in tribunale e non davanti ai giornalisti” sono le poche parole che dicono gli assistenti dell’avvocato Pantano, che difende il gestore di Ferrovie del Mottarone, Luigi Nerini, davanti alla procura.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Massimo Massenzio per il Corriere della Sera il 30 maggio 2021. «Dove sono mamma e papà?». La domanda, drammatica e inevitabile, è arrivata ieri mattina, quando Eitan Moshe Biran, il bambino israeliano di 5 anni sopravvissuto alla strage del Mottarone, ha chiesto come mai non ci fossero i genitori accanto al suo letto nel reparto di rianimazione del Regina Margherita di Torino. Dopo il risveglio dal coma farmacologico ha ripreso a parlare e a rendersi conto di essere in un ospedale: «Cosa ci facciamo qui?». La zia Aya Biran, che con la nonna gli sta vicino nella stanza del terzo piano, ha trattenuto le lacrime. Poi gli ha fatto una carezza sulla guancia. Infine, con i medici e una psicologa, ha cercato di spiegargli che aveva dormito per tanti giorni e che avrebbe dovuto pensare solo a rimettersi in forze. Nessuna bugia, ma il piccolo non è pronto per conoscere la verità. Non tutta, almeno per ora. Prima di sapere che mamma Tal, papà Amit, il fratellino Tom e i bisnonni Barbara e Itshak (ieri i funerali dei due anziani in Israele) sono morti nello schianto della funivia, Eitan dovrà superare i traumi fisici. I medici non sanno ancora cosa ricordi dell'incidente: «Siamo noi che dobbiamo raggiungerlo - ha spiegato la psicologa Marina Bertolotti, membro dell'equipe che lo assiste -. Senza aspettarci quelle risposte che desidereremmo ricevere». Eitan è l'unico superstite di una tragedia e l'unico vivo della sua famiglia e potrebbe sviluppare sensi di colpa. Anche quando saprà che l'ultimo abbraccio del suo papà forse gli ha salvato la vita. Per quel gesto tutti gli schieramenti politici italiani hanno proposto per Amit Biran una medaglia al merito al valore civile, ma al momento le onorificenze passano in secondo piano. L'attenzione dei familiari di Eitan è concentrata sulle condizioni del bambino, che non è ancora fuori pericolo ed è alimentato con le flebo. Il piccolo ha riaperto gli occhi mercoledì e il giorno dopo ha pronunciato le prime parole. «Mi fa male la gola» ha sussurrato. Poi un lungo silenzio, alternato da sonno e piccoli lamenti. Ieri mattina, quando si è svegliato dopo una notte tranquilla, ha incrociato lo sguardo della zia. Gli psicologi hanno spiegato quanto sia importante per un bambino sapere di avere accanto una persona di fiducia: «L'interrogativo più frequente per un bambino riguarda il futuro immediato. Alla domanda "Chi si prenderà cura di me adesso?" la risposta più efficace è il volto rassicurante di un parente». Intuendo che stesse per dire qualcosa Aya si è chinata su di lui e il nipote l'ha salutata: «Ciao zia, che cosa ci facciamo qui?». Capire che cosa è successo sarà solo la prima, durissima, prova che il bambino dovrà affrontare. Ma Eitan non sarà da solo.

Mottarone, l'ultimo sospetto: registri falsificati per nascondere i guasti? Luca Sablone il 29 Maggio 2021 su Il Giornale. Il capo dell'impianto è accusato di aver annotato l'esito positivo dei controlli nonostante un rumore sospetto "che si ripeteva ogni due-tre minuti". Le effettive condizioni della funivia del Mottarone potrebbero essere state alterate. Nella richiesta con cui si chiede la conferma del carcere, viene evidenziato come il registro giornale delle verifiche e prove giornaliere potrebbe essere stato falsificato. I dubbi sul documento, che riporta gli interventi a partire dal 7 ottobre 2020, sono emersi dopo le dichiarazioni di Gabriele Tadini: il capo servizio dell'impianto ha fatto sapere che anche il giorno precedente, sabato 22 maggio, "aveva evitato di togliere il 'forchettone', facendo viaggiare la cabina tutto il giorno con il sistema frenante inibito". E non l'avrebbe annotato sul libro giornale, "né avvisato nessuno".

La procura è pronta a dare il via libera a una serie di accertamenti irripetibili sul cavo spezzato per tentare di stabilirne la causa e l'eventuale collegamento con il malfunzionamento dei freni. L'intenzione è quella di far luce su quei registri non solo per accertate "la eventuale avvenuta alterazione anche di altre annotazioni, riferite a date ed eventi diversi", ma anche per stabilire il possibile coinvolgimento pure degli altri due indagati, "attesi i rispettivi ruoli, nella falsificazione del suddetto atto pubblico".

Quel rumore sospetto. Quella di manomettere il sistema frenante di sicurezza potrebbe essere stata un'abitudine ripetuta più volte nel tempo. Una soluzione che, secondo il procuratore capo di Verbania Olimpia Bossi, alla base ha "ragioni di carattere meramente economico" ma che comunque presenta un "assoluto spregio delle più basilari regole cautelari di sicurezza" che invece avrebbero potuto salvare le vite delle 14 vittime. L'obiettivo era quello di evitare il ripetersi di blocchi e di non interrompere il servizio ai danni dei passeggeri e dei turisti. Tadini, riporta l'Adnkronos, avrebbe mentito negando di aver sentito dei rumori sospetti a poche ore dal disastro. Tadini è accusato di falso perché nel registro giornale avrebbe annotato "l'esito positivo dei controlli" nonostante la presenza di un "rumore caratteristico riconducibile alla presumibile perdita di pressione del sistema frenante della cabina, che si ripeteva ogni 2-3 minuti". Da qui la decisione di lasciare inseriti i "forchettoni", proprio per ovviare al problema. Episodi che si sarebbero verificati almeno in due occasioni, ovvero il 22 e 23 maggio.

La confessione choc: "L'ho fatto altre volte...". Gabriele Laganà il 29 Maggio 2021 su Il Giornale. L’avvocato di Gabriele Tadini, direttore d'esercizio della funivia del Mottarone, ha chiesto per il suo assistito gli arresti domiciliari. Gabriele Tadini, direttore d'esercizio della funivia del Mottarone, ha risposto alle domande dei magistrati. Lo ha confermato parlando con i cronisti l'avvocato Marcello Perillo, legale dell’indagato per la tragedia consumatasi la scorsa domenica che è costata la vita a 14 persone. L’interrogatorio davanti al Gip di Verbania, Donatella Banci Buonamici, ed alla procuratrice, Olimpia Bossi, è durato oltre tre ore. Tadini è il l'uomo che già martedì notte ha ammesso di avete utilizzato i cosiddetti "forchettoni", circostanza che, come ha riferito il suo legale, ha confermato anche l'interrogatorio di oggi. L’avvocato, uscendo dal carcere di Verbania al termine dell'interrogatorio, ha anche annunciato di aver chiesto i domiciliari per il suo assistito perché "hanno l'adeguatezza per contenere eventuali rischi. Ho chiesto solo i domiciliari, non la libertà. Ho contestato le esigenze cautelari della procura". Ma i pm nei giorni scorsi avevano parlato di pericolo di fuga e inquinamento delle prove.

Le parole di Tadini. "Non sono un delinquente. Non avrei mai fatto salire persone se avessi pensato che la fune si spezzasse", ha affermato lo stesso Tadini secondo quanto riferito dal suo difensore. "Sono quattro giorni che non mangia e non dorme", ha aggiunto il legale che ha anche raccontato che il suo assistito ha anche detto al gip che porterà il peso di questa tragedia per tutta la vita, "sono morti degli innocenti". Secondo l’avvocato Perillo, il caposervizio davanti al gip ha ammesso di aver inserito più volte il "forchettone" nel freno della funivia del Mottarone. "Ha ammesso di averlo fatto" per il "problema legato a questa macchina", ha spiegato il legale, insistendo sul fatto che il suo assistito nega una correlazione con la rottura della fune trainante. Perillo ha inoltre spiegato che il reato di falso contestato al caposervizio della funivia non può esserci perché"il falso è per un pubblico ufficiale e non per tutti gli altri e lui non lo è". "I bloccafreno non erano fissi su questa cabina tutti i giorni- ha aggiunto- ma solo quando c'era questa manifestazione", cioè un rumore sospetto. "Il problema di queste pompe di pressione era che il freno poteva far fermare la funivia a metà corsa, con un obbligo di intervento con il cestello. Questo era il motivo per cui lui faceva funzionare comunque la funivia con il bloccafreni", ha affermato ancora Perillo.

Gli altri indagati. Oltre a Tadini in carcere ci sono il titolare della Ferrovie del Mottarone, Luigi Nerini, e il direttore d’esercizio, Enrico Perocchio. Secondo i magistrati i fermati "non hanno avuto un atteggiamento resipiscente presentandosi nell'immediatezza dei fatti all'autorità giudiziaria per assumere le proprie responsabilità". "Tale considerazione- si legge ancora nella richiesta della procura di Verbania con cui si conferma la misura cautelare in carcere- assume maggiore gravità e rilievo per Luigi Nerini ed Enrico Perocchio che, accorrendo sul posto il giorno dei tragici accadimenti, hanno potuto vedere i corpi delle vittime straziati, giacenti a terra sbalzate fuori dalla cabina numero 3 o incastrati dentro la stessa".

Strage del Mottarone, il caposervizio Tadini: "Non sono un delinquente". Il suo legale: "Non mangia né dorme da 4 giorni". Libero Quotidiano il 29 maggio 2021. “Non sono un delinquente”. Lo ha dichiarato Gabriele Tadini, il caposervizio della funivia del Mottarone, durante l’interrogatorio di garanzia che si è svolto nel carcere di Verbania. Una discreta faccia tosta, insomma. Il suo avvocato Marcello Perillo racconta di un uomo distrutto, “che da quattro giorni non mangia e non dorme” e che soprattutto ha ammesso nuovamente di aver messo lui il ‘forchettone’ sulla cabina numero 3, quella che si è tragicamente schiantata costando la vita a quattordici persone, tra cui due bambini. “Non avrei mai fatto salire persone se avessi pensato che la fune si potesse spezzare”, ha dichiarato Tadini a Donatella Banci Bonamici, gip del tribunale di Verbania. Oltre al caposervizio, nella giornata di oggi - sabato 29 maggio - verranno ascoltati anche Luigi Nerini (proprietario di Ferrovie del Mottarone) e Enrico Perocchio (direttore dell’esercizio). I tre sono accusati di omicidio colposo plurimo, lesioni colpose e rimozione dolosa di sistemi di sicurezza: il gip dovrà decidere se convalidare la prima misura cautelare presa dalla procura di Verbania per evitare una possibile fuga. “Ha risposto in maniera compiuta a diverse domande del giudice, è stato un interrogatorio profondo in cui ha confermato le sue responsabilità”, ha dichiarato l’avvocato di Tadini. “È distrutto, il peso di questa cosa lo porterà per tutta la vita - ha aggiunto - è morta gente innocente, potevano esserci il figlio di Tadini o il mio” nella cabina che è precipitata. Il legale del caposervizio ha chiesto gli arresti domiciliari: “Secondo il mio cliente e i consulenti che ho sentito, non è collegabile il problema dell’impianto frenante con la rottura della fune”. Inoltre in merito alle mancate annotazioni sul malfunzionamento dell’impianto, l’avvocato sostiene che non c’è il reato di falso perché l’indagato “non è un pubblico ufficiale”. 

Il gip scarcera i 3 indagati del Mottarone. Francesca Galici il 29 Maggio 2021 su Il Giornale. Il caposervizio della funivia del Mottarone ai domiciliari, Luigi Nerini ed Enrico Perocchio liberi: così ha deciso il gip dopo la tragedia. Il gip Donatella Banci Bonamici ha convocato nel carcere di Verbania i legali dei tre fermati per lo schianto della funivia del Mottarone, che ha causato 14 vittime. Il Gip ha comunicato loro le sue decisioni. Nella casa circondariale sono arrivati anche il procuratore Olimpia Bossi e la sostituta Laura Carrera. Nelle ore precedenti i tre indagati sono stati ulteriormente sentiti per l'interrogatorio, durante il quale è iniziato il rimbalzo delle responsabilità. Il gestore dell'impianto della funivia del Mottarone Luigi Nerini e il direttore di esercizio Enrico Perocchio hanno lasciato il carcere di Verbania e sono liberi. Va agli arresti domiciliari il capo servizio Gabriele Tadini che ha ammesso di aver manomesso il sistema di frenata di sicurezza. Il gip oggi ha ascoltato il gestore Luigi Nerini, il caposervizio Gabriele Tadini e il direttore d'esercizio Enrico Perocchio. Ogni interrogatorio è durato quasi due ore, un'intera giornata spesa dalla dottoressa Banci Bonamici per la convalida del fermo. L'avvocato Marcello Perillo, legale del caposervizio Tadini, ha riferito che il suo assistito ha confermato quanto già detto in caserma dai carabinieri. Quindi ha ammesso di aver "più volte" utilizzato i forchettoni per bloccare il freno di emergenza quando c'erano suoni sospetti. Diversa la versione fornita dal gestore Luigi Nerini, invece, che stando a quanto dichiarato dal suo legale avrebbe negato davanti al gip di sapere di essere a conoscenza di questa pratica. "Per favore smettete di dire che ha risparmiato sulla sicurezza. Il dato di fatto è che ex lege chi si occupa di sicurezza dei viaggiatori sono il caposervizio e il direttore d'esercizio e non il gestore", ha detto il suo legale difensore Pasquale Pantano. Anche il terzo interrogato, Enrico Perocchio, ha negato però di essere a conoscenza dei forchettoni inseriti per il blocco dei freni di emergenza della funivia del Mottarone. Lo ha riferito l'avvocato Andrea Da Prato. Perocchio sarebbe ne venuto a conoscenza alle 12.09 di domenica 23 maggio, quando ha ricevuto la chiamata di Gabriele Tadini. Questo Perocchio avrebbe voluto dire alla procura lo scorso martedì tramite Pec prima di essere convocato. L'unica certezza al momento è che Gabriele Tadini fosse a conoscenza dei forchettoni inseriti, ma da chi è arrivato l'ordine di non toglierli? Pare che Tadini non abbia mai detto di aver ricevuto un ordine dall'alto preciso. "Tutti sapevano", avrebbe detto. Su questo insistono le difese di Perocchio e Nerini. Dopo aver ascoltato le versioni dei tre, che si trovano attualmente rinchiusi nel carcere di Verbania, il gip si è preso alcune ore per decidere sul fermo e in serata ha convocato i tre legali difensori per comunicare loro la sua decisione. Gabriele Tadini pare sia sconvolto, stando alle dichiarazioni del suo legale: "Si è rifugiato nella fede. Avrà per sempre quelle vittime sulla coscienza". Per Lugi Nerini e per Enrico Perocchio non sussisterebbero i gravi indizi necessari per una misura cautelare in carcere. Nerini ha subito commentato: "Contento, ora bisogna trovare i responsabili".

Le parole del procuratore. "Contro Nerini e Perocchio il giudice ha ritenuto le prove non sufficienti ritenendo le parole di Tadini non credibili". Così il procuratore capo di Verbania Olimpia Bossi commenta la decisione del giudice rispetto agli indagati della tragedia del Mottarone.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Funivia Stresa Mottarone, tutti fuori dal carcere: il gip smonta l'inchiesta di Olimpia Bossi. Libero Quotidiano il 30 maggio 2021. Clamorosa svolta nell'inchiesta della strage in funivia. Va ai domiciliari Gabriele Tadini, il caposervizio della funivia del Mottarone, e tornano liberi Luigi Nerini, il gestore dell'impianto, e Enrico Perocchio, direttore di esercizio. Lo ha deciso il gip di Verbania Donatella Banci Buonamici, di fatto smontando totalmente l'inchiesta della pm, Olimpia Bossi. I tre erano stati fermati nella notte tra martedì e mercoledì, per l'incidente che domenica ha causato 14 morti. Secondo quanto si apprende, dalle dichiarazioni dei dipendenti dell'impianto, dichiarazioni riportate nell'atto, "appare evidente il contenuto fortemente accusatorio nei confronti del Tadini", il caposervizio dell'impianto, perche' "tutti concordemente hanno dichiarato che la decisione di mantenere i ceppi era stata sua, mentre nessuno ha parlato del gestore o del direttore di servizio", scrive ancora il gip di Verbania, Donatella Banci Buonamici, nell'ordinanza. E ancora, il gip Buonamici ha ritenuto "che non ci sono indizi sufficienti di colpevolezza su Luigi Nerini e su Enrico Perocchio" e ha ritenuto "non credibili sufficientemente le dichiarazioni di Gabriele Tadini", ha creduto "alla dichiarazione di estraneità di Nerini e Perocchio che hanno scaricato la scelta" dell'uso dei blocchi al freno "su Tadini". Sono state queste le parole usate dalla pm Bossi per riassumere le motivazioni del gip. Olimpia Bossi ha aggiunto: "Noi abbiamo accertamenti nelle indagini programmati e che proseguiranno, gli indagati restano gli stessi e manca l'accertamento sul perché la famosa fune si è rotta". Ora, ha rimarcato, "bisogna accertare tutte le responsabilità di chi ha concorso a causare questo terribile incidente e da lunedì riprenderemo con tutti i passi tecnici che dovremo fare". Da par suo Nerini si è detto "contento" spiegando, tramite il suo avvocato, che ora il tema è "trovare i responsabili, non c'è motivo di gioire, bisogna capire cosa è successo". Infine Perrocchio: "Sono contento di tornare dalla mia famiglia, ma sono disperato per le quattordici vittime". E ancora: L'errore è stato mettere i forchettoni per ovviare ad un problema che si sarebbe risolto. Se avessi saputo che erano stati messi non avrei avvallato la scelta, in carcere stavo male per le persone mancate e per la mia famiglia".

Funivia Stresa Mottarone, "zero indizi contro Nerini e Perocchio". La replica della pm: "Non finisce qui", esplode lo scontro in procura. Libero Quotidiano il 30 maggio 2021. Tutti fuori dal carcere per la strage alla funivia Stresa-Mottarone. Questo l'ultimo colpo di scena: Gabriele Tadini ai domiciliari, revoca della custodia cautelare per Luigi Nerini ed Enrico Perocchio. Escono dal carcere i tre fermati dal pm, Olimpia Bossi, per la sciagura costata la vita a 14 persone. Il punto è che secondo il gip, Donatella Bonci Buonamici, nei confronti di Tadini, il capo servizio dell’impianto che ha ammesso di aver bloccato il freno di emergenza inserendo i forchettoni, è sufficiente la misura attenuata mentre per il gestore dell’impianto Nerini e il direttore di esercizio Perocchio non sussisterebbero quei gravi indizi di colpevolezza tali da imporre la detenzione. Insomma, libero perché non ci sarebbero indizi. Tutto il contrario di quel che sosteneva la pm e di quel che sembrava emergere in questi giorni. La gip infatti ha ritenuto "non sufficientemente credibili le dichiarazioni di Gabriele Tadini e di altri dipendenti", mentre ha dato credito "alle affermazioni di estraneità di Nerini e Perocchio che hanno scaricato la scelta" relativa all'uso dei blocchi al freno, dei cosiddetti forchettoni, su Tadini: questo è quanto ha spiegato la stessa Olimpia Bossi. Che aggiunge: "Questo non sposta niente rispetto alla nostra volontà di accertare la verità e di ricerca della prova. Abbiamo indagini programmate che continuano, manca pur sempre l’accertamento sulla fune spezzata. Non finisce qui. Io ho argomentato le mie richieste di fermo, ero convinta. Mi riservo di valutare attentamente le motivazioni e pensare a un’eventuale impugnazione". Insomma, lo scontro in procura è totale. La decisione è arrivata al termine dei lunghi interrogatori del sabato, durati dalle nove del mattino e fino a tarda sera. Tutto verte attorno al nodo delle ganasce: di chi è la responsabilità per averle inserite? Per certo, si apprende che un manovratore a bordo non avrebbe cambiato le cose, insomma non avrebbe evitato la tragedia: ne sono certi i periti coinvolti nell'inchiesta. Ora, l'inchiesta si concentra soprattutto su un punto: perché la fune traente dell'impianto ha ceduto?  Cosa ha causato la sequenza di eventi che i tecnici non avevano previsto o valutato talmente improbabile da voler correre il rischio di bloccare i freni? Domande che per ora restano senza risposta. Mentre le persone fermate, come detto, tornano a piede libero o ai domiciliari.

Funivia Mottarone, PM: “A breve anche altri dipendenti nel registro degli indagati”. Valentina Mericio il 30/05/2021 su Notizie.it. "A breve potrebbero essere iscritti altri dipendenti nel registro degli indagati", questo l'annuncio della PM Olimpia Bossi. Ancora sviluppi e colpi di scena sul caso che riguarda la strage della funivia Stresa Alpino-Mottarone che esattamente una settimana fa è precipitata causando la morte di 14 persone. Dopo la scarcerazione delle tre persone fermate con il responsabile di servizio della funivia Tadini finito ai domiciliari, altri dipendenti della funivia potrebbero finire a breve nel registro degli indagati. Ad annunciarlo il procuratore di Verbania Olimpia Bossi che ad ANSA farà delle ulteriori valutazioni come ad esempio quello di fare luce su fino a che punto sapessero dell’uso dei forchettoni. Oltre a ciò si continua indagare per comprendere come si possa essere spezzata la linea che sorreggerà la funivia: “quando saremo in grado di fare gli avvisi avendo un quadro chiaro di tutte le persone coinvolte”. “Valuteremo in che termini sapevano dell’uso dei forchettoni e se hanno consapevolmente partecipato o se si sono limitati ad eseguire indicazioni provenienti dall’alto”. Ad annunciarlo il pubblico ministero Olimpia Bossi che ha reso noto che potrebbero essere inseriti già nei prossimi giorni altri dipendenti nel registro degli impiegati. A tal proposito il pm Olimpia Bossi ha reso noto come non sarebbe una sconfitta il verdetto del GIP di scarcerare le tre persone fermate, precisando inoltre che: “l’aspetto più importante è che il giudice abbia condiviso la qualificazione giuridica dei fatti”. Nel frattempo dalle indagini emerge come Gabriele Tadini avrebbe ordinato di inserire i “ceppi” al fine di bloccare l’azione dei freni di emergenza e che avrebbero operato per di più già all’inizio della stagione che ha preso il via lo scorso 26 aprile. A rivelarlo uno dei dipendenti della funivia sentito durante le indagini. Il teste avrebbe inoltre aggiunto che tentò di far funzionare di far funzionare la funivia nonostante fossero diverse le anomalie che non avrebbero trovato una giusta risoluzione e nonostante non fossero “garantite le condizioni di sicurezza necessarie”. Tadini ha quindi aggiunto: “Non sono un delinquente. Non avrei mai fatto salire persone se avessi pensato che la fune si spezzasse”. Intanto in tutta la Regione Piemonte, in virtù del decreto firmato dal Governatore Cirio è stato invitato ad osservare il minuto di silenzio. “Nulla può lenire il dolore, ma sentiamo il bisogno di ricordare in un modo solenne coloro che hanno perso la vita in questa follia. Il Piemonte non smetterà mai di stringersi alle loro famiglie e al piccolo Eitan”, le parole di cordoglio del presidente piemontese Alberto Cirio.

Tragedia del Mottarone, tutti liberi i tre indagati. Il Gip ribalta la decisione. Solo uno ai domiciliari. su Il Quotidiano del Sud il 30 maggio 2021. Tutti fuori: Luigi Nerini, il gestore dell’impianto, e Enrico Perocchio, direttore tecnico rimessi in libertà con l’annullamento della misura cautelare e Gabriele Tadini che esce dal carcere e va agli arresti domiciliari. Il gip del tribunale di Verbania, Donatella Banci Bonamici, ha ribaltato le decisioni che erano state assunte dalla Procura della Repubblica ed ha di fatto accolto tutte le richieste dei legali dei tre fermati. La giornata di ieri al carcere di Verbania era cominciata alle 9, con gli interrogatori di garanzia. Il primo ad essere sentito è stato Tadini, che ha confermato le dichiarazioni già rilasciate in sede di interrogatorio la notte del fermo, ammettendo di avere utilizzato i cosiddetti "forchettoni". «E’ distrutto – ha detto al termine dell’interrogatorio il suo legale Marcello Perillo – sono quattro giorni che non mangia e non dorme, il peso di questa cosa lo porterà per tutta la vita». Per l’avvocato Perillo «il problema del cattivo funzionamento dei freni», ragione per cui Tadini ha utilizzato il cosiddetto "forchettone", «non è in alcun modo collegabile al problema della rottura della fune trainante». Ha, invece, detto di non aver saputo dell’uso delle ganasce il direttore tecnico Enrico Perocchio, che ha spiegato di avere saputo dell’utilizzo dei forchettoni solo alle 12,09 del giorno dell’incidente, quando ha ricevuto da Tadini una telefonata in cui veniva detto: «Ho una fune a terra, avevo i ceppi su». Ultimo ad essere sentito è stato Luigi Nerini, che avrebbe detto che non sarebbe spettato a lui fermare l’impianto. «Il mio assistito – ha spiegato al termine dell’interrogatorio, l’avvocato Pasquale Pantano – ha agito in piena trasparenza. Sapeva che c’era un problema di cattivo funzionamento del sistema dei freni di emergenza, ma non è lui che può fermare la funivia: a farlo possono essere solo il direttore del servizio ed il direttore tecnico». Gli interrogatori si sono conclusi nel tardo pomeriggio, poi il gip è tornata nei suoi uffici per formalizzare le sue decisioni, che sono arrivate alle 22,30 e che sono state comunicate in carcere ai legali e ai tre fermati. «Mi riservo di valutare attentamente le motivazioni del gip, e ricordo che esistono anche strumenti di impugnazione»: è stato il primo commento del procuratore della Repubblica Olimpia Bossi. «Una decisione – ha aggiunto – che si è basata sul fatto che non è stata ritenuta credibile la testimonianza di Tadini e di altre persone. Stiamo comunque parlando di una fase cautelare e la nostra strategia non cambia. Il lavoro si concentrerà adesso soprattutto sulla valutazione delle cause della rottura della fune. Gli indagati restano gli stessi, il nostro lavoro va avanti». Soddisfatti i legali che hanno visto accogliere le loro richieste. L’avvocato Perillo, ha commentato: «Avevo chiesto gli arresti domiciliari perché quello che Tadini ha ammesso è molto grave ed è indifendibile». «Non c’erano i presupposti per il fermo dell’ingegner Perocchio», ha detto invece l’avvocato Andrea Da Prato. «Non dobbiamo dare colpe all’accusa – ha aggiunto – il giudice è lì per correggere eventuali errori, fondamentalmente. Io credo che ci sia stato un errore di impostazione. Noi siamo contenti – ha concluso – l’ingegnere è ovviamente provato, stanco ma sereno. Va bene così, andiamo avanti». Infine l’avvocato Pantano, ha detto: «Non si tratta di una vittoria: giustizia è fatta per quanto riguarda Nerini, ma non c’è motivo di gioire. Ancora il grosso delle indagini deve essere fatto, bisogna trovare i responsabili». Quando su Verbania era ormai scesa la notte, Tadini, Perocchio e Nerini sono usciti dal carcere: il primo, accompagnato dal suo legale, ha raggiunto il luogo degli arresti domiciliari, gli altri due da uomini liberi. Intanto oggi in tutto il Piemonte sarà Giornata di lutto per le vittime della funivia del Mottarone. Lo ha deciso il presidente della Regione, Alberto Cirio, che invita la popolazione ad osservare un minuto di silenzio alle 12 e gli enti pubblici piemontesi ad unirsi nella manifestazione del cordoglio, esponendo le bandiere a mezz’asta.

Strage della funivia, il clamore mediatico non basta: fuori tutti gli indagati. Secondo il gip, sarebbe «di totale irrilevanza» il riferimento alla risonanza mediatica della vicenda in merito al pericolo di fuga per i fermati. Tadini ai domiciliari, Perocchio e Nerini rimangono indagati a piede libero. Il Dubbio il 30 maggio 2021. Il clamore mediatico non basta: secondo il gip di Verbania, il fermo per i tre indagati nell’ambito dell’inchiesta sulla strage alla funivia del Mottarone «è stato eseguito al di fuori dei casi previsti dalla legge» e per questo non può essere convalidato. Luigi Nerini ed Enrico Perocchio, rispettivamente responsabile del servizio e direttore di esercizio della funivia del Mottarone sono tornati in libertà. Per Gabriele Tadini, caposervizio e l’unico ad aver confessato di aver inserito i “forchettoni” e inibito l’impianto frenante di emergenza, è finito ai domiciliari, sono stati disposti i domiciliari: è uscito dal carcere poco dopo mezzanotte. Il giudice Donatella Banci Buonamici smonta, dunque, le tesi della procura, che nei giorni successivi alla tragedia che ha provocato la morte di 14 persone ha formulato ipotesi di reato gravissime, senza risparmiare alcun dettaglio a tv e giornali. «Sono professionalmente soddisfatto – ha detto il legale di Tadini -. Sarebbe stato offensivo chiedere la libertà». Per il caposervizio, secondo il gip, la misura è stata decisa anche in base all’età e al suo «stabile contesto familiare». Dopo circa un’ora ha lasciato il carcere di Verbania anche Enrico Perocchio: «Sono partito immediatamente per recarmi sul luogo dell’incidente, le telefonate non mi dicevano subito che era una strage. Sono partito subito nella speranza che si trattasse di un accavallamento», spiega ai giornalisti a proposito di ciò che è accaduto il 23 maggio, il giorno della strage che ha provocato la morte di 14 persone. A chi chiede cosa abbia pensato una volta saputo delle accuse, risponde: «Onestamente mi sono sentito morire, ho pensato non è possibile, non è possibile, sul momento mi sono sentito come un macigno». Tra le cose che più lo hanno colpito, ha detto Perocchio, c’è «il fatto che venisse detto che ho detto che fossi io ad avallare una cosa che non ho mai avallato». Il suo legale, Andrea Da Prato, ha insistito sul fatto che Perocchio non fosse infatti a conoscenza dell’uso dei “forchettoni”. L’ultimo a uscire dal carcere è l’amministratore di Ferrovie del Mottarone srl, Luigi Nerini. «Mi dispiace tantissimo», sono le sue uniche parole mentre, scortato dagli avvocati, si reca alla sua auto. I tre restano indagati. «Il giudice ha ritenuto che le prove a loro carico non fossero sufficienti – ha detto la procuratrice Olimpia Bossi uscendo dal carcere, dopo la lettura del dispositivo da parte del gip davanti ai tre fermati nella notte di martedì – Gli indagati restano gli stessi». Secondo il gip, il fermo per i tre «è stato eseguito al di fuori dei casi previsti dalla legge» e per questo non può essere convalidato. La motivazione addotta dalla procura era quella del pericolo di fuga, che però secondo il gip non sussiste. Durissime le motivazioni per non convalidare il fermo: «Suggestivo ma assolutamente non conferente è il richiamo al “clamore mediatico”», spiega il giudice che definisce «di totale irrilevanza» questo dettaglio in merito al pericolo di fuga per i fermati. Nel dettaglio, la gip sottolinea anche che non si comprende perché Perocchio o Nerini avrebbero dovuto «avallare» la decisione di inserire i forchettoni come fatto, e ammesso, da Tadini. Le dichiarazioni rese dai testimoni, infatti, accuserebbero Tadini ma non direbbero nulla, secondo il gip, a proposito della «correità» degli altri due.

"Arrangiati...": la frase choc di Tadini. Cosa è successo al Mottarone. Francesca Galici il 30 Maggio 2021 su Il Giornale. Per la strage del Mottarone nessuno dei tre attualmente indagati è in carcere e Tadini insiste sulla conoscenza dei fatti anche degli altri due, che negano di sapere del forchettone inserito. Dei tre incarcerati in settimana per la strage del Mottarone, solo per uno prosegue il regime di custodia cautelare. Il gip ha deciso che Luigi Nerini ed Enrico Perocchio potessero essere rilasciati senza ulteriori restrizioni. Solo per Gabriele Tadini è stato previsto il regime di detenzione domiciliare in attesa di ulteriori chiarimenti su quanto accaduto una settimana fa alla funivia che, precipitando, si è portata via 14 vite. Al momento ad assumersi le sue responsabilità è stato solo Tadini, che ricopriva il ruolo di capo servizio. Gli altri due hanno negato di essere a conoscenza dei forchettoni inseriti nel freno di emergenza e, con gli elementi a disposizione, non c'erano i presupposti per proseguire con la carcerazione cautelare. "Nessuno mi ha detto di andare avanti con il sistema frenante disattivato, ma mi hanno detto comunque vai avanti", dice oggi Gabriele Tadini. Le indagini, che proseguono senza sosta, hanno appurato che anche la mattina dell'incidente la funivia ha mostrato problemi tali da richiedere l'intervento dell'assistenza da parte del capo servizio. La manutenzione è arrivata ma non è stata in grado di risolvere il problema. "Sostanzialmente in 20 giorni ho chiamato tre volte l'assistenza. A Perocchio (direttore di esercizio e dipendente della Leitner che si occupa della manutenzione) ho detto che andavo avanti con i forchettoni e lui non mi ha risposto. (…). Poteva immaginarlo che sarei andato avanti senza sistema di emergenza", ha dichiarato Tadini nella sua ricostruzione messa a verbale. Poi continua: "Ho detto a Nerini (gestore dell'impianto) al telefono che mettevo i ceppi. Tre volte gliel'ho detto". Tadini l'ha dichiarato che "tutti sapevano" ma non ha dato maggiori dettagli e le testimonianze degli altri dipendenti lo smentiscono. "In occasione dell'ultima richiesta di assistenza sapevano che avrei rischiato di chiudere", ha dichiarato Tadini a verbale, rivelando anche che nell'ultimo mese la funivia ha viaggiato quasi regolarmente con i forchettoni inseriti. Si sarebbe dovuto effettuare un terzo intervento di manutenzione ma il cattivo tempo nei giorni precedenti l'incidente ha costretto al rinvio. "Ho detto a Nerini che ormai era prassi disattivare il sistema di sicurezza. Mi dicevano arrangiati. Gli altri dipendenti sapevano di viaggiare senza sistemi di sicurezza. Lo avevo ordinato io", ha concluso Tadini. Al di là della scarcerazione, i tre restano indagati ma "non finisce qui". Queste le parole del procuratore Olimpia Bossi dopo la decisione del gip Donatella Banti Bonamici che ha di fatto ribaltato le scelte dei magistrati inquirenti. "Non cambia nulla rispetto alla nostra volontà di accertare pienamente tutte le responsabilità di coloro che hanno contribuito a causare questo tremendo incidente", ha proseguito la Bossi. L'attività di indagine continua e "da lunedì si andrà avanti a cominciare dagli accertamenti tecnici a cui abbiamo solo dato avvio con il primo sopralluogo del nostro consulente".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

"Testa fusa usurata". Quel sospetto dei pm. Lucia Galli il 30 Maggio 2021 su Il Giornale. Indagini concentrate sulla fune spezzata. Sostituzione prevista soltanto a fine anno. Ci sono dei freni che non sono entrati in azione perché manomessi; ci sono foto amatoriali che mostrerebbero come fosse prassi imbavagliarli e ci sono 14 morti per cui oggi, a una settimana dall'incidente, si osserverà un minuto di silenzio senza avere risposte, ma solo un gran rumore di ipotesi. Su tutto, c'è una fune che doveva durare 30 anni e che invece, arrivata a 23 anni di onorata carriera, si è prima sfilacciata e poi rotta. È lo stesso cavo, che aveva superato anche l'incidente del 2001, quando sul Mottarone, per un guasto si evacuarono i 40 passeggeri a bordo della cabina. Eppure, durante la simulazione di dicembre 2020 la fune traente aveva retto anche alla prova dei finti tagli, un test che oggi pare ancora più sinistro, dato che è qui, in questo filo sciagurato del destino, che si è ingarbugliata la tragedia della funivia. La fune come causa, la manomissione dei freni, come amplificatore del disastro. Già, anche i freni: sulle centraline idrauliche si era intervenuti il 3 maggio. Il sistema d'azionamento era stato controllato il 18 marzo 2021 e la lubrificazione dei rulli e delle pulegge delle stazioni qualche giorno prima. Tutto ok? Allora sembrò o si volle far apparire così: questo è quanto dovranno appurare gli inquirenti, nel rimpallo delle competenze e delle accuse incrociate che si stanno scambiando gli indagati. In realtà non era affatto tutto ok: al punto che quel sistema frenante dava problemi a ogni corsa, faceva inceppare l'impianto anche ogni 3 minuti e perfino 24 ore prima della tragedia, alcuni tecnici esterni erano stati chiamati, pur non intervenendo direttamente sui freni. Ecco perché l'idea scellerata di «silenziare» i freni con i forchettoni rossi: «Proprio come quando si spegne una spia dell'auto, pensando sia un contatto e non un problema vero, da approfondire», spiega un impiantista. A giudicare da come ne parlano gli esperti, non si tratta, purtroppo, di una pratica tanto rara quando l'impianto è chiuso e all'opera sono solo gli addetti ai lavori. Si, perché se il freno entra in azione, servono ore per rimettere in moto le cabine. E allora, si preferisce viaggiare senza sicura. Ma non si dovrebbe mai farlo a impianto aperto. Soprattutto non senza aver accertato quale sia la ragione del mayday e perché l'impianto lo stia lanciando. Capire se vi sia un legame di causa-effetto o concausa fra quel malfunzionamento e lo sfilacciamento della fune è la chiave del rebus e sarà anche il terreno legane della diatriba. L'impianto aveva passato anche i controlli sui componenti meccanici che anzi erano stati anticipati di qualche mese rispetto alla scadenza. Quinquennale sarebbe stato eseguito fra pochi mesi - è anche il rifacimento della «testa fusa», su cui si concentrano i periti. Si chiama così il punto in cui la fune traente viene «fusa», saldata al corpo della funivia per spingerla o tirarla: un segmento delicatissimo, che si provvede a «cementare» ma che risulta difficile da analizzare se non a vista, dato che il check magneto-induttivo che si applica al resto del cavo, non può operare su questo cuneo saldato. Intanto ieri, mentre il Giro D'Italia arrivava a Madesimo in val Chiavenna, gli impianti che avrebbero dovuto aprire da oggi e fino al 6 giugno e ancora nel successivo fine settimana, non hanno aperto. L'idea di aprire Groppera e Val di Lei - dove si arriva proprio con una funivia vai e vieni - a un migliaio di sciatori per approfittare dell'eccezionale neve primaverile ha vacillato subito dopo Mottarone. Come il passo dello Stelvio ha pure fatto slittare di 3 settimane l'apertura dello sci estivo «per terminare la manutenzione», così Madesimo ha fatto marcia indietro, annunciando - e solo sul web - la chiusura per oggi e domani, poi si vedrà. La ragione? Una seggiovia da controllare.

Funivia Stresa Mottarone, "il difetto non erano i freni". Il tecnico: un tragico ribaltone, la vera causa della strage. Libero Quotidiano il 31 maggio 2021. Forse non era il freno a essere difettoso, ma il cavo della funivia della linea Stresa Mottarone che staccandosi ha fatto precipitare la cabina a terra, provocando 14 morti. A una settimana dalla tragedia sul lago Maggiore, emergono nuovi pesantissimi sospetti sulle cause dell'incidente. I responsabili della linea finiti in carcere hanno ammesso di aver lasciati inseriti i "forchettoni" (la staffa di fetto che tiene aperte le ganasce dei freni di sicurezza) per evitare che la linea si bloccasse di continuo a causa di una anomalia che dal 26 aprile scorso faceva scattare continuamente l'allerta. Una "anomalia ai freni", hanno spiegato: Ma secondo quanto riporta il Corriere della Sera, "è possibile che i rumori anomali e i continui blocchi fossero i segnali premonitori della rottura (del cavo, ndr) che ha portato al disastro". In altre parole, i freni funzionavano benissimo. Era il cavo, cambiato l'ultima volta 23 anni fa, a essere a rischio. A questa ipotesi sta lavorando il consulente tecnico nominato dalla Procura di Verbania, il professor Giorgio Chiandussi del Politecnico di Torino, ed era già stata ventilata da Davide Marchetto, il responsabile tecnico della Rvs di Torino che ha eseguito i due interventi di manutenzione sulla funivia di Stresa chiesti quest'anno da Gabriele Tadini, capo servizio dell'impianto ora ai domiciliari. "Se la centralina del sistema frenante della cabina 3 segnalava una perdita di pressione (come sostiene Tadini, ndr) una delle ipotesi è che la fune di trazione si stesse muovendo dalla propria sede in maniera anomala", sono state le parole riferite da Marchetto agli investigatori. Tadini però non gli aveva parlato di quelle criticità, e così il tecnico si era concentrato sulla "ricarica degli accumulatori di tutte e quattro le vetture" e sulle "teste fuse della cabina 2", ma non della 3, quella caduta. I diretti interessati pensavano fosse solo un problema di freni: "Abbiamo sostituito la pompa della centralina e la cabina ha continuato a circolare regolarmente". 

Funivia Stresa Mottarone, "prima che si rompa il cavo ce ne vuole": dal verbale spunta la testimonianza choc contro Tadini. Libero Quotidiano il 30 maggio 2021. Altri dipendenti della società che gestisce la funivia del Mottarone potrebbero essere iscritti nel registro degli indagati. “Valuteremo in che termini sapevano dell’uso dei forchettoni, se hanno consapevolmente partecipato o se si sono limitati a eseguire indicazioni provenienti dall’alto”, ha dichiarato la procuratrice Olimpia Bossi, il cui ordito è stato un po’ smantellato dal giudice delle indagini preliminari. “Non vivo come una sconfitta la decisione del gip di scarcerare i tre fermati”, ha aggiunto la procuratrice, secondo cui l’aspetto più importante è che il giudice abbia “condiviso la qualificazione giuridica dei fatti”. Gabriele Tadini ha ammesso davanti al gip di aver messo il ceppo blocca freno e di averlo fatto altre volte: inoltre ha escluso collegamenti tra i problemi ai freni e quelli alla fune, affermando di non essere un delinquente e che non avrebbe mai fatto salire le persone se avesse pensato che la fune potesse spezzarsi. Dalle dichiarazioni dei dipendenti della funivia del Mottarone emerge però un “contenuto fortemente accusatorio” nei confronti del caposervizio dell’impianto: tutti hanno concordato che la decisione di mantenere i ceppi era stata sua, nessuno ha parlato del proprietario o del direttore di servizio. Non a caso il gip di Verbania ha disposto i domiciliari per Tadini e rimesso in libertà gli altri due fermati. Uno dei dipendenti ha fatto mettere a verbale che Tadini avrebbe affermato che “prima che si rompa una traente o una ‘testa fusa’ ce ne vuole”. Quando il caposervizio gli ordinò di non rimuovere il ceppo della cabina 3, l’altro chiese se la cabina potesse viaggiare con persone a bordo e ceppo inserito. Tadini avrebbe replicato che prima che si rompa un cavo traente “ce ne vuole”. Invece è avvenuto proprio nella tragica mattinata del 23 maggio. 

Tragedia della funivia, se l’inchiesta si trasforma in uno show. Nel fermo disposto dalla procura di Verbania, ai tre indagati è contestato il pericolo di fuga «anche in considerazione dell’eccezionale clamore a livello anche internazionale per l'intrinseca drammaticità dell’incidente». Simona Musco Il Dubbio il 29 maggio 2021. Un vero e proprio show. Se non ci fossero 14 morti di mezzo, famiglie distrutte e vite ancora in bilico, si potrebbe definire così la gestione dell’inchiesta sulla tragedia della funivia Stresa-Mottarone. Con un aggiornamento costante dello sviluppo delle indagini, interviste su ogni minimo dettaglio della tragedia, titoli di giornale che non lasciano nulla al caso, tradendo un interesse sempre più drammatico per il particolare tragico, e l’inseguimento folle del piccolo Eitan, unico sopravvissuto, a caccia di una frase ad effetto sulla sua tragedia privata, ancora solo agli inizi, per provocare una lacrima e rendere i responsabili di quanto accaduto ancora più detestabili. Non è un caso, forse, che nel fermo disposto dalla procura di Verbania, titolare delle indagini, venga tirata in ballo la risonanza della vicenda, il suo impatto, feroce, con la sensibilità dell’opinione pubblica. Per i tre indagati – la cui colpevolezza è data per certa da chiunque ne parli e ne scriva – la procura ha contestato il pericolo di fuga, ipotizzabile, si legge nel decreto di fermo, «anche in considerazione dell’eccezionale clamore a livello anche internazionale per l’intrinseca drammaticità dell’incidente». Drammaticità «che diverrà sicuramente ancora più accentuata – conclude la procura – al disvelarsi delle cause del disastro». Un clamore che, però, dipende proprio dall’aggiornamento costante di ogni fase delle indagini, anche il più piccolo passo, necessariamente solo agli inizi, e dall’avidità con cui la stampa si è lanciata sull’ennesima storia da usare e poi dimenticare, stabilendo già, senza appello, i nomi dei colpevoli e le loro responsabilità. E ciò mentre le ipotesi della procura, ora dopo ora, cambiano e si arricchiscono di particolari. «Ciao zia, dove sono mamma e papà?», scrivono i giornali riferendosi al risveglio del piccolo Eitan. Una sorta di pornografia che ingrossa l’odio e toglie spazio alla giustizia, puntando dritto ad un unico, inaccettabile, obiettivo: un colpevole da consegnare alla gogna pubblica. In una vicenda ancora tutta da scrivere, emblematico è quanto accaduto ad uno degli indagati, Enrico Perocchio, direttore di esercizio della funivia del Mottarone in carcere dall’alba di mercoledì insieme a Luigi Nerini, titolare delle Ferrovie del Mottarone e Gabriele Tadini, responsabile del servizio. «Non si può parlare di pericolo di fuga. Il mio cliente è andato lui stesso in caserma dai carabinieri di Stresa facendosi un viaggio di 90 chilometri», ha detto il suo legale Andrea Da Prato all’Adnkronos. «Non ci sono i presupposti per la convalida del fermo – ha sottolineato -. Fermarlo di notte sapendo che ha un legale di fiducia toscano mi sembra una bella brutalità». L’uomo è stato convocato in caserma come persona informata sui fatti, arrivando sul posto a mezzanotte. Ma una volta lì è scattato il fermo, il tutto senza che nulla gli venisse chiesto né comunicato. «Non è stato sentito da nessuno, fino alle 3 di notte – ha spiegato Da Prato a La Nazione -, quando gli è stato notificato il fermo. Mi chiedo come possa trovare giustificazione nel pericolo di fuga una persona che aveva chiesto di essere sentita come informata sui fatti». Perocchio ha negato di aver autorizzato l’utilizzo della cabinovia con i “forchettoni” inseriti e anche di aver avuto contezza di simile pratica, che ha definito «suicida». Una pratica che avrebbe sempre osteggiato e che può essere attivata esclusivamente in fase di installazione e comunque solo con le cabine vuote. Per gli inquirenti, però, i fatti, così come ricostruiti, sono «di straordinaria gravità in ragione della deliberata volontà di eludere gli indispensabili sistemi di sicurezza dell’impianto di trasporto per ragione di carattere economico e in assoluto spregio delle più basilari regole (…) finalizzate alla tutela dell’incolumità e della vita» dei passeggeri. E i tre fermati, secondo la richiesta di convalida del pm al gip, devono devono restare in carcere perché continuando a lavorare in questo settore potrebbero mettere nuovamente in pericolo la sicurezza pubblica e quindi reiterare il reato. Non c’è da dubitare su quali sarebbero le conseguenze qualora oggi il gip giungesse ad una valutazione opposta a quella della procura, decidendo di lasciare i tre a piede libero: una sicura condanna pubblica.

Marco Imarisio per il "Corriere della Sera" il 30 maggio 2021. All' uscita del carcere, è stato lui a dare le indicazioni. «Non si preoccupi» gli diceva l'assistente dell'avvocato Pasquale Pantano mentre si dirigevano verso l'auto inseguiti dai cronisti, «siamo quasi arrivati». Lui gli ha risposto quasi sopra pensiero, in modo inavvertitamente sbrigativo. «Conosco la strada, grazie, adesso giriamo a destra». Un suo amico, o che almeno sosteneva di esserlo a favor di telecamere, ha commentato con un sorriso: «Sempre il solito, non cambierà mai». Gigi Nerini avrà già capito che intorno a lui è cambiato tutto. Quel «un grande dispiacere» a proposito delle vittime della funivia, le sue uniche parole ufficiali dette con l'espressione spaesata di chi ritrova la libertà, mentre veniva strattonato da una parte e dall' altra, a Stresa e sul lungo lago non verranno ascoltate da nessuno. E in buona sostanza non interessano neppure troppo. Fuori dai tribunali le sentenze sono definitive, una volta pronunciate. «Non riesco neppure a immaginare come affronterà i prossimi mesi». Fabrizio Bertoletti, il gestore dell'albergo Eden sul piazzale di partenza della funivia, lo conosce da quando erano entrambi bambini. Gli vuole bene, dice, ma al tempo stesso sta già pensando a costituirsi parte civile in un futuro processo, perché sono morte 14 persone, e con loro anche il turismo della montagna. C' è così poca gente che i gestori del bar Alp scendono dalla cima per prendere un caffè dal loro collega, permettendogli almeno di battere qualche scontrino. Nell' ultimo fine settimana neppure un coperto, tre fila di sedie vuote, qualcuno ne dovrà rispondere. «L' uscita dalla cella non è un'assoluzione, purtroppo, ma l'ingresso in un limbo destinato a durare chissà quanto». Raccontare la prima giornata in libertà di Gigi Nerini è come raccontare un'ombra. Nel condominio di fronte alla sua Villa Claudia ci sono due famiglie in attesa sui balconi, dall' alto arrivano tintinnii di bicchieri e profumi di cibarie, aperitivo con vista sul colpevole che tale non è, ma è come se lo fosse. «Eccolo, è la sua macchina» urla un ragazzo quando a mezzogiorno la sua auto spunta dal vicolo e oltrepassa il cancello. Era un semplice vicino di casa, è diventato una calamita di morbosità e al tempo stesso oggetto di una rimozione che è già agli atti, nonostante il decreto di scarcerazione. «Anche noi ci sentiamo traditi» dice Gian Maria Vincenzi, presidente degli albergatori di Verbania, altro buon conoscente di Nerini. «La sua famiglia è nota, ci fidavamo di lui. Adesso, comunque vada, questo è un colpo durissimo per un territorio come il nostro, che al novanta per cento vive di turismo estero. In questo fine settimana i nostri paesi sono quasi vuoti, per tacere della montagna». Anche Marcella Severino, che alla fine degli anni Novanta ha condiviso la militanza leghista e il Consiglio comunale con Gabriele Tadini, non ha usato mezze misure. «Il buono e il cattivo c' è ovunque» ha raccontato. «Ma persone così spero ce ne siano pochissime». Il mondo che aspetta il gestore della funivia Stresa-Mottarone è questo. Non basterà la ripartizione delle responsabilità individuali tracciata dal giudice per le indagini preliminari a cambiarlo. «Rimane sotto accusa, è senz' altro rovinato, verrà dimenticato» dice con amarezza un suo amico. Nerini ha già detto nei giorni scorsi quali sono le sue intenzioni, almeno così le ha fatte filtrare il suo avvocato. «Voglio incontrare i familiari delle vittime, vedere le tombe di quelle persone, e poi metterò a disposizione tutto quel che ho per risarcirli». Ma anche questo ormai è quasi un dettaglio. Ormai è come se questa tragedia avesse trovato il suo alveo, confinata a un ristretto gruppo di persone. A un nido di vipere, come ricostruisce anche l'ordinanza del Gip, un tutti contro tutti dal quale chiunque ha interesse a tenersi ben lontano. Con Tadini che accusa gli altri due, gli operai della struttura che si dividono tra colpevolisti e innocentisti. Uno di loro, si chiama Fabrizio Coppi, accusa in modo diretto l'imprenditore e poco importa che siano state valutate da un giudice terzo come dichiarazioni all' insegna della sopravvivenza personale, rimarranno comunque agli atti. «Ho personalmente capito, in più occasioni, che ad avaria o anomalia riscontrata, Tadini riferiva a Perocchio e Nerini che era necessario fermare l'impianto. Ma nonostante questo, le loro volontà erano di proseguire l'eventuale riparazione e ripristino dell'anomalia più avanti nel tempo, quando ad esempio la funivia si sarebbe fermata per la chiusura stagionale». Ieri a mezzogiorno Stresa si è fermata per un minuto. Poi tutto è ripartito, era pur sempre domenica. Quali che siano le sue eventuali colpe, il silenzio che sta avvolgendo Gigi Nerini invece durerà molto di più. 

Lodovico Poletto per "la Stampa" il 30 maggio 2021. Sette giorni e una sola certezza: la strage del Mottarone è stata provocata dal blocco dei freni di emergenza della cabina numero 3 della funivia che, dalle sponde del Lago Maggiore, a Stresa, sale in cima alla montagna. Fine. Tutto il resto va rivisto. Ridiscusso. Rianalizzato, alla ricerca di elementi che spieghino due cose. Uno: perché la fune trainante si è spezzata. Due: chi davvero sapeva, e chi ha fatto viaggiare quella cabina della funivia in spregio a ogni più elementare norma di sicurezza. In spregio al buonsenso. Alla cura che va messa nel tutelare i clienti. All' umanità. La svolta dell'altra notte racconta una storia diversa da quella narrata subito dopo gli arresti della scorsa settimana. E il gip Donatella Bonamici, in venti pagine, smonta i ragionamenti della procuratrice Bossi. Offre una lettura differente delle dichiarazioni di Gabriele Tadini, il caposervizio che ha fatto scattare le manette. E la sintesi è: ha chiamato in causa gli altri per alleggerire la sua posizione. O quantomeno, le sue spiegazioni sono deboli e non supportate. Ecco, bisogna partire da qui, da questa lettura, per capire la «ratio» adoperata dal giudice per le indagini preliminari per scarcerare Gigi Nerini ed Enrico Perocchio: il boss e il responsabile del servizio di trasporto su fune, per altro mai interrogati. E ciò che scrive Buonamici è una pietra tombale sulle scelte del capo della Procura. La prima: «Il fermo è stato eseguito fuori dai casi previsti dalla legge». La seconda: Non c' è «alcun elemento dal quale sia possibile evincere il pericolo di fuga» degli indagati. Motivo? Perocchio è un professionista, un padre con una situazione famigliare complessa. Nerini, invece, ha costruito la sua vita qui, sulle sponde del lago. Ha due figli, è separato e non ha ragioni di voler fuggire. Tadini invece è reo confesso: la sua libertà personale va limitata. Ma agli arresti domiciliari. A riguardo del «clamore mediatico nazionale e internazionale attorno a questa vicenda» scritto da Bossi nel decreto di arresto, viene definita «di palese evidenza» la sua «totale irrilevanza» rispetto al pericolo di fuga. Che c' entra, cioè, tutto questo con le manette? E con il carcere? Bonamici è lapidaria: «Ci sono indizi di colpevolezza solo nei confronti di Gabriele Tadini». E così torna daccapo. Ai racconti del caposervizio che ha chiamato in causa gli altri due. Ai verbali dei sei impiegati delle Ferrovie del Mottarone interrogati nei giorni successivi alla sciagura. Alle spiegazioni. Tadini tira in ballo i suoi due superiori. Dice testualmente a verbale: «Dell' iniziativa di mettere i ceppi ai freni della cabina 3 ne ho parlato con l'ingegner Perocchio, al quale ho anche detto che per poter far funzionare l'impianto sarei stato costretto a mantenere tale accorgimento. Lo sapeva anche il signor Nerini, di fatto lo sapevano tutti». Ecco, il gip smonta questa chiamata in correità. Dice che non basta una frase. Non bastano poche parole non supportate da altri elementi e per di più pronunciate dopo 7 ore di interrogatorio: «Che ne confermino l'attendibilità». E ancora: «Nemmeno alcun riscontro emergeva dalle dichiarazioni dei dipendenti della Mottarone». Già, i dipendenti. Tutti sapevano, o quasi, dei blocchi ai freni di emergenza sulla cabina 3. Sapevano che Tadini faceva piazzare i «forchettoni» perché c' erano dei cali di pressione sui freni. Ma soltanto uno di loro chiama in causa i vertici dell'impianto. Il suo nome è Fabrizio Coppi. Che a verbale dice: «Ho personalmente capito, in più occasioni, che il signor Tadini riferiva al direttore d' esercizio e al gestore dell'impianto di avarie o anomalie riscontrate e che era necessario bloccare l'impianto stesso». E ancora: «Nonostante questo la loro volontà era quella di proseguire, rimandando l'eventuale riparazione... più avanti nel tempo, quando cioè la funivia si sarebbe fermata per la chiusura stagionale, o se si trattava di riparazioni più semplici e veloci nei giorni di brutto tempo, quando l'affluenza dei turisti sarebbe stata pari a zero». L' affondo arriva poche domande dopo: «Ho udito più volte Tadini discutere animatamente al telefono con Perocchio e Nerini poiché questi ultimi erano contrari alla chiusura dell'impianto, nonostante la volontà di Tadini fosse di chiudere». Tutti gli altri no. Non parlano dei vertici della società. Raccontano che Tadini era rimasto l'unico caposervizio «perché il suo collega era andato in pensione all' inizio del 2021 e non era ancora stato sostituito». Narrano dettagli sui ceppi. Come e quando venivano messi. Spiegano che Tadini «doveva essere informato». Che era «lui a decidere». Qualcuno ammette: «Sì, li ho messi pure io, ma su indicazione del nostro responsabile». Cioè sempre lui, sempre l'ultrasessantenne dipendente delle Ferrovie del Mottarone da 36 anni in servizio a Stresa: Gabriele Tadini, l'uomo dei tormenti post disastro, della confessione tirata fuori con le pinze (dopo un fiume di domande), della chiamata in correità degli altri due. La giudice per le indagini preliminari, nelle 24 pagine di ordinanza, offre anche una spiegazione del perché il caposervizio della Mottarone potrebbe aver fatto i nomi degli altri: «Tadini sapeva benissimo di essere stato lui a prendere la decisione di non rimuovere i ceppi. Sapeva perfettamente che il suo gesto scellerato aveva provocato la morte di 14 persone. E che sarebbe stato chiamato a rispondere, anche e soprattutto in termini civili, del disastro causato in termini di perdite di vite umane». Ed è per questa ragione che Bonamici parla di «credibilità profondamente minata». Come dire: non è il miglior testimone al mondo su cui basare una intera ricostruzione di questa vicenda. Anche perché aveva troppi interessi nel raccontare una verità differente da quella reale. Di più. Ecco la frase che insinua dubbi su tutto e che trae origine dalle spiegazioni precedenti: «E allora perché non condividere questo immane peso, anche economico, con le uniche due persone che avrebbero avuto la possibilità di sostenere un risarcimento danni». E ancora: «Perché non attribuire ANCHE a Nerini e Perocchio la decisione di non rimuovere i ceppi?». Con quell'«anche» scritto in maiuscolo, a significare che potrebbe esserci stato un tentativo di «condividere» le responsabilità. E conclude così: «Tadini sapeva benissimo che chiamando in correità i soggetti FORTI (scritto di nuovo in maiuscolo) del gruppo, il suo profilo di responsabilità sarebbe stato, se non escluso del tutto, quantomeno attenuato». Insomma: l'impianto dell'accusa passato al primo vaglio non starebbe in piedi. Anche perché l'unica motivazione offerta è quella economica. Che per il gip è troppo fragile. Leitner veniva pagata 120 mila euro l'anno per le riparazioni. Tutto compreso. Non c' era ragione di non fermare la funivia. Ecco, l'inchiesta riparte da qui. Dalla frenata impressa dal gip. Riparte dalle perizie sulla fune, da quelle sui documenti non ancora presi in considerazione, dalla «scatola nera» che gli operatori dicono esserci «ma non sappiamo dov' è». E forse, alla fine di tutto questo salteranno fuori altre responsabilità. Altri nomi. Dopo l'altra notte tutto gira attorno ad un uomo prossimo alla pensione: Gabriele Tadini. Reo confesso.

Scoppia la bufera Mottarone: "Processi in 48 ore..."Rosa Scognamiglio il 30 Maggio 2021 su Il Giornale. Si accende la polemica dopo la decisione del gip di Verbania sulla scarcerazione degli indagati per la strage del Mottarone: "Ennesima stortura". Desta non poche perplessità l'ordinanza del gip di Verbania che ha stabilito la libertà per Luigi Nerini, gestore della funivia del Mottarone, ed Enrico Perocchio, direttore di esercizio, dopo la tragedia di domenica scorsa in cui sono morte 14 persone. Secondo il giudice per le indagini preliminari, Donatella Banci Buonamici, il quadro indiziario a carico degli indagati sarebbe "scarno", eccezione fatta per il caposervizio Gabriele Tadini, per il quale sono stati disposti i domiciliari dopo una corposa confessione. A torto o ragione della deliberazione, la reazione del mondo politico (e non solo) non si è fatta attendere. "Non entro nel merito accuse, ma mi pare che siamo di fronte all'ennesima stortura nell'applicazione delle misure cautelari, la fretta di individuare i responsabili porta inevitabilmente a delle storture e si crea una gogna mediatica che non fa bene alla giustizia", dichiara nel corso di un'intervista all'Agi il presidente dell'associazione Camere Penali del Piemonte occidentale, Alberto De Sanctis.

"Bisogna rispettare tempi processuali". Se Luigi Nerini ed Enrico Perocchio abbiano avuto delle responsabilità per la tragedia del Mottarone saranno le investigazioni a confermarlo. Certo è che per il gestore della funivia e il direttore di esercizio la gogna mediatica sarà inevitabile. "Arrestati e dipinti come uomini cinici e senza scrupoli, pronti a tutto per il profitto, oggi scarcerati per mancanza di gravi indizi di colpevolezza - dice De Sanctis - non mi interessano le tesi innocentiste e colpevoliste, mi interessa solo fare una riflessione sull'abuso delle misure cautelari e precautelari (arresto e fermo) e sulla gogna mediatica alimentata da frettolose ricostruzioni accusatorie. Il principio della presunzione di innocenza - secondo la legislazione europea - deve essere applicato anche all'informazione giudiziaria, non solo al processo. Invito tutti ad una pacata riflessione su questo tema che incide così violentemente sulla vita delle persone sottoposte ad indagini e dei loro famigliari, ma anche delle persone offese che cercano la verità e non un simulacro di responsabilità penale", continua. "Si tratta di una tragedia immane che crea sgomento e proprio per questa ragione bisogna essere cauti e seguire le regole del processo penale - prosegue il penalista - questi sono processi molto complessi in cui le responsabilità dei singoli devono essere suffragati da perizie, testimonianze e consulenze tecniche. Non bastano 48 ore, i processi andrebbero fatti in aula l'emotività dovrebbe essere tenuta molto distante dall'analisi delle prove per individuare le singole responsabilità. Raggiungere in tempi rapidi un risultato non è bene e la magistratura dovrebbe essere capace di arginare le pressioni mass mediatiche".

Cicchitto: "Con certa Giustizia si rischia il ridicolo". Sulla vicenda del Mottarone e, nello specifico, sulla decisione del gip di scarcerare gli indagati, è intervenuto anche Fabrizio Cicchitto, presidente di Riformismo e Libertà. "Quello che sta accadendo per la strage del Mottarone mette ulteriormente in evidenza la crisi devastante che attraversa la nostra magistratura. Tutti colpevoli o quasi nessun colpevole? Ma i morti ci sono e la fune si è rotta. - dice ai taccuini di LaPresse - Ma con la spettacolarizzazione della giustizia non si va da nessuna parte e anzi si rischia di coprirsi di ridicolo anche di fronte ad una terribile tragedia. A questo punto all'estero è possibile che pensino che i nostri ponti e le nostre funivie siano a rischio e la nostra magistratura non sa capire chi è colpevole e chi innocente. Insomma, si sta passando da un estremo all'altro, non in una vicenda di ordinaria amministrazione, ma in una tragedia". Cicchitto invoca poi l'intervento del Ministro della Giustizia, e forse anche "un'autorità istituzionalmente superiore", dovrebbero intervenire per "evitare che l'Italia cada nel grottesco anche in presenza di una strage di 14 persone. In ogni caso, a parte le dirette responsabilità penali, siamo in una situazione nella quale non si è fatta neanche luce sulle omissioni fatte da chi avrebbe dovuto esercitare il controllo. Anzi, non è chiaro ancora chi avrebbe dovuto esercitare il controllo: ma tutto ciò non si risolve in una incredibile vergogna nazionale da ogni punto di vista si affronti la situazione?"

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi

La tragedia di Mottarone. Sulla strage del Mottarone va in onda il piagnonismo preventivo all’italiana. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 31 Maggio 2021. Il direttore del Riformista ed io ci alterniamo nel commentare le notizie sul Tg4 delle 19 e sembra che gli ascoltatori apprezzino una forma di News peraltro confezionato in maniera completa e con materiale di cronaca di prima mano. Entrambi, a giorni alterni, ci siamo occupati della catastrofe della funivia di Stresa, e adesso che tutto è più chiaro sono arrivato a una conclusione che vorrei condividere con i lettori e che non ha a che fare con le funivie, ma con il verme del populismo, che è figlio sia del giustizialismo che dell’Italia piagnona e forcaiola. È quell’Italia geneticamente priva di pretese nei confronti della verità, e più ancora priva di garanzie verso la persona intesa, come essere umano degno comunque di rispetto. Ciò che ho annusato di fronte all’accaduto – i morti macellati nel terrore di un macchinario fuori controllo – è stato il piagnonismo preventivo all’italiana che costituisce l’anestetico contro il limpido desiderio di conoscere fatti, cause, responsabilità, errori e le necessarie correzioni. Ma più che altro sapere: bene, senza una coltre di luoghi comuni tra cui primeggiano -sempreverdi – le “micidiali fatalità”, le “imprevedibili sciagure”, accompagnati da un malloppo di sentimenti ipocriti e precotti che rimbalzavano da molti telegiornali, dalle prime pagine e dal chiacchiericcio degli uffici stampa impegnati a spegnere ogni eventuale libido per la verità. Non critico l’espressione privata del dolore e la costernazione per i bambini esposti come cadaveri da copertina sulle spiagge libiche o siriane, oppure nel tritacarne di una funivia. I sentimenti e il dolore fanno parte del menù informatico. Ma dall’inizio a me è sembrato che mancasse il desiderio semplice asciutto urgente e prevalente – oltre che pratico – di sapere che cosa fosse successo, sapendo che si doveva trattare comunque di errore umano, a prescindere da colpe e delitti. Le inchieste all’inizio erano appena accennate nella dose minima sindacale, ma mancava la rappresentazione del fatto analizzato come errore umano, su meccanismo umano inventato azionato e curato dall’uomo. Mio padre, come ho raccontato nel corso delle cronache, era un ingegnere delle Ferrovie dello Stato che fra i suoi compiti aveva quello di collaudare e sottoporre a revisione da stress funivie, seggiovie, montagne russe e luna-park, treni, cabinovie e cremagliere in ogni angolo del nostro Paese. Ho passato gli anni dell’adolescenza a seguirlo mentre investigava su disastri ferroviari, stradali, di tutte le macchine che debbono avere freni d’emergenza automatici e dispositivi di sicurezza. Da quelle avventure una cosa ho imparato: non esistono “incidenti fatali inspiegabili” a meno che non ci sia di mezzo Madre natura con le sue delizie: tsunami, fulmini, frane, eruzioni, terremoti. Se c’è disastro sulle macchine, c’è errore umano. Fiutando nell’aria e nelle parole l’inclinazione verso il fatalismo della sciagura piovuta dal cielo come una punizione degli dèi, ho cercato di richiamare l’attenzione sull’errore umano, che invece sentivi culturalmente respinto come un elemento accessorio e in fondo fastidioso: mi sentivo soffocato dalla sopraffazione del banale. Poi, c’è stata la svolta: la scoperta dei meccanismi che avrebbero potuto forse frenare, ma che erano stati rimossi. “Tanto, la fune portante non si rompe perché non si è mai rotta”. E invece si è rotta. Adesso dicono che proprio i forchettoni rimossi l’abbiano tranciata, si vedrà al processo. Di qui il fermo di tre presunti responsabili. Ed ecco che, soltanto a questo punto, non compare il desiderio di sapere, ma avviene un cambio di maschera: tutti i lamentosi piangenti che parlavano di fatale incidente mandato forse dal demonio, subisce una mutazione trasformandosi in un esercito di carpentieri che inchiodano patiboli. Hanno già processato e condannato i presunti colpevoli sul conto dei quali l’unica curiosità si concentra su un solo punto: avevano pianto? Avevano tentato di buttarsi dalla finestra? Eravamo passati da un atteggiamento rinunciatario rispetto alla richiesta di verità alla giustizia sommaria: “Chiudeteli in galera e buttate la chiave”. Il populismo di destra stemperava l’indignazione con l’attenuante della lunga astinenza da Covid, mentre quello grillesco starnazzava dalla felicità gridando: a morte i profittatori e galera senza pietà. Male che vada, domani, qualcuno chiederà scusa attraverso un giornale, come ha appena fatto Di Maio con una lettera al Foglio in cui chiede scusa al sindaco di Lodi ingiustamente perseguitato e finalmente assolto. Ma per ora, quella fetta del nazional-populismo sinistrese festeggia la vittoria sulla malvagità di chi fa profitto, a prescindere. Nel frattempo, tutte le regole delle garanzie, come ha già scritto il direttore del Riformista, sono saltate cedendo il passo ad anticipazioni delle sentenze di ogni ordine e grado, particolarmente gradite a una folla improvvisata passata dai riti fatalisti della disgrazia (probabilmente per reazione del Pianeta offeso da chi pianta cicoria togliendo spazio alle fragole di bosco), al partito populista della punizione esemplare.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Funivia Stresa Mottarone, Alessandro Sallusti: le scarcerazioni non sono un'assoluzione. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 31 maggio 2021. La giudice di Verbania, Donatella Banci Bonamici, contraddicendo in parte la decisione della sua collega procuratrice Olimpia Bossi, ha disposto la scarcerazione dei tre presunti responsabili (uno va ai domiciliari) della tragedia del Mottarone che ha provocato la morte di quattordici persone. Di primo acchito la decisione potrebbe lasciare perplessi i più: ma come, tanto orrore e i presunti responsabili non stanno in cella? È così, direi finalmente è così, nel senso che per una (rara) volta la giustizia viene amministrata - da due donne - in punta di diritto e non in modo approssimativo e forcaiolo. L'uso disinvolto della carcerazione preventiva è una delle piaghe più infette del nostro sistema giudiziario, spesso i magistrati ne fanno uso per delirio di onnipotenza, per mania di protagonismo, peggio per piegare la volontà degli imputati e ottenere confessioni che avvalorino la loro tesi accusatoria o la chiamata in causa di eventuali complici. Una vera e propria tortura di stato per la quale l'Italia è stata più volte ammonita dall'Europa e che è costata ai contribuenti milioni di euro in risarcimenti ai malcapitati. Prima di una sentenza definitiva in carcere si entra solo per grave pericolosità sociale (per esempio per un omicidio), per pericoli di fuga, di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato. Nessuno degli indagati per la strage della funivia rientra in una di queste categorie per cui è corretto che, acquisiti tutti gli elementi, tornino a casa in attesa di un giusto processo, al termine del quale, se condannati, varcheranno le porte del carcere per scontare la loro pena. E qui veniamo al secondo problema che la questione pone. Il giusto rispetto per i diritti degli indagati sancito dalla giudice Banci Bonamici non può trasformarsi in una ingiustizia nei confronti delle vittime e dei loro parenti per via delle lungaggini dei tempi della giustizia. Loro, come del resto tutti noi, hanno il diritto di vedere velocemente condannati i responsabili, cosa al momento in Italia per nulla garantita (anche per questo non è più rinviabile una drastica riforma della giustizia). Facciamo quindi sì che non passino anni prima che una sentenza equa e definitiva rimetta le cose al loro posto decidendo anche per chi e per quanto il giusto posto debba essere il carcere.

Tanto più grande è il reato, tanto più serve il garantismo. Strage del Mottarone, scatta il linciaggio e l’inchiesta si trasforma in show. Piero Sansonetti su Il Riformista il 28 Maggio 2021. Qualcuno di voi ha dato un’occhiata ai giornali di ieri? Erano tutti uguali. Titoli di scatola, a tutta pagina, più o meno identici, costruiti su tre parole: Avidi, Criminali, Colpevoli. Le tre persone – persone – che sono state arrestate dalla polizia giudiziaria su ordine di un Gip e su richiesta di un Pm, venivano indicate come colpevoli, spietate, sciacalle e, naturalmente, da punire senza tante discussioni e subito. Con una pena severissima. La severità della pena veniva anticipata addirittura non da voce di popolo ma da dichiarazioni ufficiali del Pubblico ministero. Il quale, con incredibile disinvoltura, anticipava l’inchiesta, il dibattimento, il processo, l’appello e l’eventuale Cassazione e stabiliva la gravità della pena. Oltre che rilasciare svariate dichiarazioni. In spregio aperto e sereno di tutte le disposizioni del ministro, del Procuratore generale della cassazione, e delle direttive europee sulla presunzione di innocenza recentemente recepite dal Parlamento italiano. Ci mette poco a sparire il principio che tutti hanno diritto a un processo e che gli indiziati e gli imputati non possono essere ritenuti colpevoli. Ci mette un minuto. Si apre subito la caccia. La corsa a chi riesce a innalzare più su possibile la gogna e la forca. Si scatena, in un’orgia, sostenuta da un’opinione pubblica compatta come non mai, la volontà del linciaggio. Il linciaggio è esattamente questo. È la giustizia che si esprime attraverso la violenza popolare e di massa, e la verità che si accerta con la gravità del reato. Vedete, il problema è tutto qua. Ci vuole poco a essere garantisti verso un ladro di mele. O anche, magari, verso un politico. O addirittura verso una persona accusata e chiaramente, già a prima vista, innocente (ci vuole poco per modo di dire: il caso del sindaco di Lodi è emblematico; era chiaramente innocente ma fu linciato lo stesso dai giornali reazionari, vicini alla Lega e a Grillo. In quel caso però il linciaggio è solo di una parte politica, quella avversa all’imputato). Quando invece il reato è molto grave il garantismo sparisce. Ti dicono: ma hai visto che infamia ha combinato? A che serve un processo? Ecco, il garantismo è esattamente questo. Quel sistema di civiltà e di rispetto della giustizia che scatta in modo più massiccio se il reato è più grave. Tanto più è grave il reato tanto più la giustizia pretende garanzie per l’imputato. Purtroppo, quasi sempre, questo non succede. Stavolta lo spettacolo è stato davvero impressionante. Si è avuta la sensazione che chiunque non mostri orrore e schifo per i tre arrestati sia complice della sciagura del Mottarone. Si invoca l’etica, la morale, la religione, magari. Nessuno parla di diritto. Hanno diritto o no, i tre imputati, a essere processati con umanità e in osservanza della legge e non degli anatemi? Credo che siano pochissime le persone disposte a riconoscere questo diritto. Né nel popolo né nelle classi dirigenti, né tra gli intellettuali. Tranne pochissime eccezioni. Persino il Corriere della Sera, con un editoriale del mio amico carissimo, Antonio Polito, per il quale nutro da una quarantina d’anni affetto e una stima altissima, si è misurato ieri sul tema dell’etica, immaginando che un delitto così grave non possa che essere trattato con il libro dell’etica in mano. Lo ha fatto ricorrendo anche a Max Weber e alle sue teorie sull’etica del capitalismo, che da sole sarebbero sufficienti – pare – a gettare quei tre imputati nella Geenna. In realtà il povero Weber parlava di etica del capitalismo sostenendo che essa si identifica nel profitto. Più o meno – diciamo così – fotografava quelle che forse sono state le motivazioni del reato che i tre indiziati potrebbero aver commesso. Ma tutto questo conta poco, probabilmente. L’importante è chiarire che stavolta ci troviamo di fronte a un problema morale e non giuridico. E la sentenza tocca ai moralisti. Ne hanno diritto. In nome di che cosa? In questi casi la risposta è semplice, ed è ispirata alla Sharia: all’onore delle vittime. A me che son vecchio, questo clima di unità nazionale attorno a un simbolico patibolo, ricorda un episodio simile avvenuto un po’ più di mezzo secolo fa. 1969. Strage di Piazza Fontana. Un paio di giorni dopo la tragedia, tutti i giornali – tutti – titolarono: preso il mostro. Avevano arrestato Pietro Valpreda, l’immondo ballerino anarchico. Poi sapemmo che era innocente. Ecco, siamo tornati lì.

P.S. È normale che una inchiesta sia diretta da un Pm che ha già deciso che la pena sarà severissima?

P.S 2. Perché sono stati arrestati se non esiste il rischio che ripetano il reato né che inquinino le prove ed è ridicolo pensare alla possibilità che fuggano? È una domanda molto scomposta la mia, però non ha una risposta.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Giuseppe Guastella per il Corriere della Sera il 30 maggio 2021. Agli arresti domiciliari Gabriele Tadini, scarcerati Luigi Nerini ed Enrico Perocchio: alle 23.15 arriva la decisione del gip sul fermo dei tre indagati per l'incidente della funivia del Mottarone. Dopo meno di 96 ore, tutti e tre lasciano il carcere di Verbania e solo il capo servizio della funivia proseguirà la detenzione a casa. Il gip Donatella Banci Bonamici non ritiene che ci siano sufficienti elementi perché restino in carcere i tre indagati per concorso in omicidio colposo plurimo e in lesioni colpose gravissime, falso in atto pubblico e rimozione dolosa di sistemi di sicurezza dell'inchiesta sul disastro del Mottarone con la decisone con cui non convalida il fermo deciso dalla Procura alle prime ore di mercoledì. Sono proprio le dichiarazioni di Tadini «a non essere ritenute credibili con quelle di altri dipendenti che hanno detto che era nota la scelta di mettere i forchettoni», i blocchi che rendevano inefficaci i freni e non hanno evitato l'incidente, spiega il Procuratore di Verbania, Olimpia Bossi. Il magistrato aggiunge che, invece, sono stati creduti Nerini e Perocchio che «hanno scaricato tutta la responsabilità su Tadini». Il Pm avverte che «il procedimento è alle sue fasi iniziali» e che non sono state ancora accertate cause e responsabilità della rottura della fune traente che ha scatenato il disastro.

Soddisfatti i difensori. «Con la liberazione del mio assistito è stata fatta giustizia, ma non bisogna gioire perché sono ancora da trovare i responsabili», afferma il difensore di Nerini, l'avvocato Pasquale Pantano. «Professionalmente per me è una soddisfazione. Avevo chiesto soltanto i domiciliari perché la questione del blocco dei freni è sicuramente una colpa sua», afferma Marcello Perillo, avvocato di Tadini. Per il legale di Perocchio, Andrea Da Prato, «il giudice ha stabilito che il fermo era forzato». L' udienza di convalida inizia in mattinata con gli indagati che rispondono alle domande. È un tutti contro tutti. Il titolare Luigi Nerini dice che lui con la sicurezza non c' entra, quindi l'incidente è colpa del direttore di esercizio e del capo del servizio; il direttore dell'esercizio Perocchio che dichiara che non sapeva dei forchettoni che aveva messo il capo servizio; il capo del servizio Tadini che ammette di averli messi lui, ma dice che era la società, quindi Nerini, a volerli per non interrompere il servizio, con la consapevolezza e l'avallo di Perocchio. Sono stati installati «il giorno dell'incidente e altre volte per i problemi con la centralina dei freni che - specifica l'avvocato Perillo - non sono assolutamente collegabili alla rottura della fune, la cui origine è sconosciuta. Se avesse immaginato un minimo pericolo, non avrebbe mai fatto salire i passeggeri». Nessuna ammissione da Perocchio. «L' unico elemento a suo carico - dice l'avvocato Da Prato - è una breve, generica e superficiale affermazione di Tadini che dice che Perocchio era consapevole della presenza dei forchettoni. Non c' è traccia di questa comunicazione, di quando e come l'abbia fatta». Il gip gli ha creduto. Per l'accusa Nerini aveva un ruolo operativo nella funivia e, quindi, sapeva dei fermi. «Per legge - sostiene l'avvocato Pasquale Pantano - solo il direttore del servizio e il capo servizio possono fermare l'impianto. La sicurezza è demandata a loro, non è affare dell'esercente Nerini».

Giuseppe Guastella per il Corriere della Sera il 30 maggio 2021. «Sono consapevole dell'errore che ho commesso lasciando i forchettoni», ma «questa era la volontà della società», mette a verbale alle 23.45 di martedì il capo servizio delle Ferrovie del Mottarone Gabriele Tadini davanti al procuratore Olimpia Bossi, che due ore dopo lo sottoporrà a fermo con il titolare della società, Luigi Nerini, e il direttore d' esercizio, Enrico Perocchio, per il disastro della funivia che è costato la vita di 14 persone e il ferimento di un bimbo di 5 anni. Ha passaggi sofferti il verbale dell'interrogatorio che con le sue conseguenze, come ha fatto prima l'incidente, ha cambiato per sempre la vita di Tadini, che a 63 anni si avviava verso la pensione dopo 36 anni di servizio. «Dio mi giudicherà», dirà Tadini all'avvocato Marcello Perillo che ha preso il posto del difensore d' ufficio che aveva partecipato all' interrogatorio. «Mai e poi mai avrei pensato che la fune traente avrebbe potuto spezzarsi», ripete al procuratore Bossi e al capitano della compagnia dei carabinieri di Verbania Luca Geminale che lo incalzano con le domande. La rottura della traente, infatti, è un caso più unico che raro ma, se si verifica, le cabine sono provviste di freni d' emergenza che le bloccano impedendo che, libere, prendano folle velocità sulla fune portante e precipitino, come è accaduto. Quel tragico mattino, però, i freni erano bloccati e non potevano agire. Tadini racconta la giornata cominciata mentre sul lago Maggiore splendeva il sole e i primi turisti già erano pronti a salire in vetta. «Come di solito ho aperto la stazione, ho verificato che tutto fosse in ordine» e «ho avviato intorno alle 9-9.10 una corsa di prova, che consiste nel fare una corsa completa a bassa velocità, per verificare che in linea sia tutto a posto». Nella cabina che tre ore dopo cadrà emerge però subito qualche problema alla centralina dell’impianto frenate che fa un rumore «dovuto presumibilmente alla perdita di pressione del sistema frenante» che «chiudeva una delle due ganasce». «Cosa fece lei?», chiedono gli inquirenti: «Se l'impianto di sicurezza rileva un'anomalia, la funivia non parte (). Per impedire questo problema, e far entrare in funzione la cabinovia, ho evitato di togliere il "forchettone"». In un primo tempo, Tadini afferma che è stata una scelta solo sua («non ho avvisato nessuno, né Nerini né Perocchio»), poi, quando la sua posizione inizia a trasformarsi da testimone in indagato, riferisce di aver «sempre informato il signor Nerini Luigi dei problemi e della necessità di far intervenire i tecnici, cosa su cui lui ha concordato dicendo di farli contattare dall' ingegner Perocchio». Aggiunge che l'obiettivo non era di far funzionare l'impianto comunque, ma di «evitare arresti intempestivi lungo la linea» che avrebbero costretto a trasbordare i passeggeri dalla cabina a un cestello di soccorso per farli tornare alla stazione. Quelle anomalie si verificavano da molto tempo, addirittura dal periodo di chiusura per il Covid, iniziato a ottobre 2020, durante il quale l'impianto aveva marciato quasi tutti i giorni. «Il sistema continuava ad entrare in pressione () ripetutamente e questo poteva causare problemi alle batterie scaricandole e deteriorandole, tanto è vero che le avevo già sostituite una volta durante l'inverno». Si rivolse allora al titolare delle Ferrovie Nerini che gli disse di contattare Perocchio il quale mandò i tecnici, l'ultima volta il 3 maggio, senza che si trovasse una soluzione. «Negli ultimi giorni il problema era diventato però molto frequente (ogni 2-3 minuti, ndr ) e in attesa dell'intervento dei tecnici ho deciso di inserire i cosiddetti "forchettoni"», dichiara in un primo momento Tadini. Quindi ci ripensa e aggiunge di averlo fatto anche il 21 maggio, cioè il giorno prima dell'incidente, e poi aggiunge «più volte in questo ultimo mese». Li istallavano 3/4 operai della sua squadra. «Ne ho parlato con Perocchio al quale ho detto che per poter mantenere in funzione l'impianto regolarmente sarei stato costretto a usare tale accorgimento - afferma -. Bisognava fare così per far funzionare l'impianto. Questa era la volontà della società, perché di fatto né l'ingegner Perocchio né Nerini, pur sapendo dei problemi e pur avendone le competenze e i poteri, non hanno mai ritenuto di bloccare l'impianto». È questa dichiarazione a mettere tutti nei guai, anche perché per i pm la ragione del mancato fermo era di evitare di perdere gli incassi. Ciò di cui Tadini non riesce a capacitarsi è la rottura della fune traente. «Mai e poi mai avrei pensato che avrebbe potuto spezzarsi», «non me lo spiego, è un qualcosa che non doveva accadere. Secondo gli ultimi controlli (novembre 2020, ndr ) era in perfette condizioni e non ha mai avuto problemi lungo la linea». Dopo l'incidente, non è tornato in funivia «per evitare che si pensasse a un mio intervento di alterazione».

Andrea Pasqualetto per il Corriere della Sera il 30 maggio 2021. Si sa tutto sulla concausa della sciagura, quei freni disattivati, ma poco o nulla della causa prima, la rottura della fune. Si sa chi ha messo i cosiddetti «forchettoni» che hanno impedito alla vettura di fermarsi ma non si sa cosa ha determinato lo strappo del cavo. La dinamica è chiara, meno le responsabilità (anche alla luce di due fermati su tre), a parte quella del reo confesso, il capo servizio dell'impianto Gabriele Tadini, 63 anni, storico macchinista della funivia a un passo dalla pensione. A una settimana dal disastro del Mottarone, gli inquirenti hanno fatto buona luce sul caso. Rimangono tuttavia dei punti oscuri. Vediamo cosa si sa e cosa no della più grande tragedia delle funivie italiane. È ormai una certezza: la cabina precipitata aveva i freni disattivati dai cosiddetti «forchettoni». Si tratta di staffe in ferro inserite all' occorrenza sul sistema frenante della vettura per tenere aperte le ganasce. Vengono utilizzati di norma quando la funivia sta per chiudere, all' ultima corsa della giornata. Servono a rendere meno problematica la riapertura dell'impianto il giorno dopo, nel caso in cui il freno d' emergenza scatti per qualche ragione, come nel caso di un guasto elettrico. Regola numero uno: i «forchettoni» vanno inseriti solo a cabina vuota. Quel giorno c' erano i passeggeri e pure i «forchettoni». Quattro giorni dopo la tragedia Tadini confessa: «Sono stato io a lasciarli, l'ho fatto perché c' era un'anomalia ai freni che li faceva chiudere spesso», dice precisando che i freni sono rimasti disattivati dal giorno della riapertura dell'impianto: 26 aprile. Tadini coinvolge il gestore dell'impianto, Luigi Nerini, 56 anni, titolare della Ferrovie del Mottarone, e il direttore del servizio, l'ingegner Enrico Perocchio, 51, che sovrintende alla gestione della funivia e che è anche dipendente del gruppo Leitner di Vipiteno (Bolzano) della famiglia Seeber, la società che ha fornito le cabine e che si occupa della manutenzione dell'impianto. Un colosso del settore. Sostiene che Nerini e Perocchio erano a conoscenza dei forchettoni inseriti. I tre vengono fermati dai carabinieri il giorno stesso ma gli altri due prendono le distanze dalle sue dichiarazioni. In particolare Perocchio: «Quella di usare i forchettoni è stata una scelta scellerata di Tadini». Questo è un punto di contrasto. Chi la racconta giusta? Tadini o Perocchio? Per cercare di sistemare il freno difettoso era intervenuta il 30 aprile la Rvs di Torino ma il problema, aggiunge il capo servizio, era rimasto. Domanda: può essere successo che a far scattare il freno fosse proprio un difetto della fune? «Diciamo che se c' è un rumore relativo alla perdita di pressione del sistema frenante, cosa della quale Tadini non ricordo mi abbia però parlato - spiegherà agli inquirenti l'operatore della Rvs intervenuto, Davide Marchetto - può significare che la fune di trazione si sta muovendo dalla propria sede in maniera anomala attivando l'impianto frenante». Quindi, il collegamento poteva esserci. Tadini non lo sapeva. «Ma con quel rumore doveva comunque fermare l'impianto», spiega un ingegnere che conosce la funivia. Il mistero rimane sulla rottura della fune di traino. Se non si fosse verificata, la vettura sarebbe arrivata alla meta. Perché si è spezzata? Lo diranno i periti e sarà una battaglia, perché tira in ballo controlli e manutenzioni di vari soggetti. A parte quelli quotidiani e mensili, a vista, cui è tenuto il capo servizio dell'impianto, ogni anno la fune viene sottoposta a una verifica magnetoinduttiva, una sorta di elettrocardiogramma al quale però sfugge la parte terminale, chiamata testa fusa. Che oggi sale alla ribalta perché pare che la rottura sia avvenuta proprio in questa zona. La testa fusa è un cuneo di piombo che si aggancia alla cabina. Si tratta della parte più delicata che peraltro può essere controllata solo a vista. Ragione per cui il ministero ha disposto che ogni 5 anni venga tagliata e rifatta. Operazione che esegue la Leitner. L'ultimo taglio è del novembre 2016, pertanto sarebbe dovuta intervenire fra sei mesi. Chi doveva accorgersi che la testa fusa stava cedendo? Fra i compiti del capo servizio, Tadini, c' è anche il controllo trimestrale di questo elemento, che dev' essere fatto seguendo una procedura ben definita. L' aveva fatto? Quella mattina aveva sentito un rumore anomalo. «È possibile che fosse quello della testa fusa che si stava muovendo in modo scorretto - ipotizza l'ingegnere -. Il cavo sarà poi andato in tensione alla stazione di arrivo, la testa ha ceduto e la fune si è strappata». E la cabina ha preso a correre per poi precipitare con i suoi 15 passeggeri.

Marco Bardesono per Libero Quotidiano il 30 maggio 2021. E dunque, la colpa sarebbe tutta del manovratore, di Gabriele Tadini. Il solo ad andare agli arresti domiciliari. Mentre il gestore dell’impianto della funivia del Mottarone Luigi Nerini eil direttore di esercizio Enrico Perocchio restano indagati ma lasciano il carcere di Verbania il cui ingresso avevano visto chiudersi alle loro spalle all’alba di martedì scorso, 48 ore dopo la tragedia. L’ingegner Enrico Perocchio, responsabile della sicurezza dell’impianto, e il patron della funivia del Mottarone Luigi Nerini, di quel “forchettone” che ha causato la tragedia pare non ne sapessero un bel nulla. Perlomeno così sostengono. Secondo le difese degli stessi Perocchio e Nerini, la procuratrice Olimpia Bossi avrebbe preso un abbaglio colossale a porre in stato di fermo tutti e tre, e anche i carabinieri avrebbero sbagliato tutto. Una giornata drammatica, quella di ieri nel carcere di Verbania, dove sono stati condotti dal gip Donatella Banci Bonamici, gli interrogatori di garanzia dei presunti responsabili della strage di Stresa. Interrogatori cominciati alle nove e terminati sette ore dopo. Pentimenti, difese strenue più o meno credibili, accuse reciproche. Fino a quando, in tarda serata, il magistrato ha sciolto la riserva. Una decisione che è solo il primo step di una vicenda giudiziaria che si annuncia lunga e complessa, e che nei prossimi giorni potrebbe riservare nuovi sviluppi con l’emissione di altri avvisi di garanzia.

NON MANGIA NÉ DORME Gabriele Tadini, l’anello debole, la persona che ricopre il ruolo meno importante nella catena di comando, quello del manovratore della funivia, secondo le tesi degli altri due indagati sarebbe stato un «pazzo», ma avrebbe agito da solo e senza avvertire nessuno dell’utilizzo dei “forchettoni”. Lui le sue responsabilità se le è prese: «Nel corso dell’interrogatorio di garanzia, Gabriele Tadini ha ammesso di aver messo il “forchettone” che inibiva il freno di emergenza alla cabina numero 3 della funivia», ha detto l’avvocato Marcello Perillo, il legale di Tadini, il primo dei tre arrestati per la strage della funivia a essere stato ascoltato. «Tadini ha risposto in maniera compiuta a diverse domande del giudice, è stato un interrogatorio profondo». Al gip Donatella Banci Bonamici, Tadini ha poi detto: «Non sono un delinquente. Non avrei mai fatto salire delle persone in funivia se avessi pensato che la fune si potesse spezzare, cosa che ancora oggi io non riesco a spiegarmi». L’avvocato ha poi aggiunto: «Il mio assistito è distrutto, non riesce a capacitarsi perché la fune si sia rotta, sono quattro giorni che non mangia e non dorme, il peso di questa cosa lo porterà per tutta la vita». Tadini ha ammesso che i forchettoni non erano rimasti sulla cabina solo quel giorno, «ma molte più volte, sostanzialmente in modo pressoché abituale, quantomeno nel corso dell’ultimo mese, da quando l’impianto aveva riaperto al pubblico» dopo la pandemia. Gli investigatori sospettano addirittura che siano stati applicati nel mese di ottobre, dopo un intervento di manutenzione straordinaria. D’altro canto, Tadini ha giurato di aver condiviso la decisione «sia con l’ingegner Perocchio sia con Nerini», che non solo l’avevano avallata, ma gli avevano anche detto di non fermare la funivia per la lunga manutenzione necessaria per evitare «ripercussioni di carattere economico», violando così le norme «sul corretto funzionamento dell’impianto», ha sostenuto il pm in udienza di fronte al gip. Di tutt’altro tenore la deposizione dell’ingegner Perocchio che ha negato di essere a conoscenza del sistema che impediva l’entrata in funzione dei freni d’emergenza. «Non salirei mai - ha detto al gip - su una funivia con ganasce, quella di usare i “forchettoni” è stata una scelta scellerata solo di Tadini». Il suo legale, l’avvocato Andrea Da Prato, all’uscita dal carcere ha poi spiegato: «Il mio assistito ha parlato a lungo, ha risposto a tutte le domande. Ha ribadito con grande partecipazione e scrupolo la sua estraneità. Ho trovato l’ingegner Perocchio incredulo e inebetito. Speriamo che già oggi possa lasciare il carcere». L’avvocato Da Prato ha poi detto che un «teste scagiona Perocchio»: si tratterebbe di un tecnico di una società esterna alla gestione dell’impianto, che avrebbe reso dichiarazioni spontanee che «dimostrano l’estraneità di Perocchio». La tesi più sconcertante è stata, però, quella sostenuta dal gestore dell’impianto, Luigi Nerini, che nei giorni scorsi, attraverso il suo avvocato, aveva dichiarato d’essere prostrato e pronto a risarcire. «Non decido io - ha spiegato Nerini - di fermare la funivia, sulla sicurezza decidono altri. Per legge erano Tadini e Perocchio a doversene occupare. Io mi dovevo occupare degli affari della società. Non avevo nessun interesse a non riparare la funivia». Il suo legale, l’avvocato Pasquale Pantano, rivolgendosi ai giornalisti, ha poi ribadito: «Smettetela di dire che ha risparmiato sulla sicurezza. Sapeva che c’era un problema, ma era tutto in carico a Tadini e Perocchio». Quindi Nerini, dal quel che è emerso, da un lato pur essendo a conoscenza di anomalie sull’impianto, avrebbe inspiegabilmente evitato di chiedere spiegazioni più precise ai tecnici. Non solo: dalla sua deposizione emerge anche che «l’anomalia tecnica» sarebbe stata di «responsabilità» non solo di Tadini, ma anche dell’ingegner Perocchio.

CAPI DI IMPUTAZIONE Illegale di Tadini aveva chiesto al giudice l’adozione per il suo assistito degli arresti domiciliari, identica richiesta, ma in subordine, avanzata dagli altri due avvocati che avevano chiesto la scarcerazione di Nerini e Perocchio. Ora per la procura di Verbania si apre un nuovo capitolo, ed è relativo ai capi di imputazione da contestare agli indagati: l’omicidio colposo, oppure quello volontario per «dolo eventuale». La questione è essenziale, perché riguarda l’eventuale condanna ma anche i risarcimenti. Il tema è già stato affrontato in altri procedimenti, entrambi sono stati celebrati a Torino: il caso Thyssen e quello di Eternit, dove l’allora procuratore Guariniello contestò l’omicidio con «dolo eventuale». Le sentenze furono esemplari, ma con profondi distinguo rispetto alle responsabilità e alle pene. Nulla a che vedere, però, con l’accusa ipotizzata dal magistrato torinese.

Da Libero Quotidiano il 30 maggio 2021. Se non si è trattato di un fulmine o di un attentato, fatti che il super perito della procura Giorgio Chiandussi, sembra aver escluso a priori, e se è vero che il cavo di acciaio si è sfilacciato nel tempo fino a spezzarsi, allora è altrettanto vero che manutenzione e controlli alla funivia del Mottarone, non sono stati eseguiti a regola d’arte. Almeno nell’ultimo anno. È pur vero che il cavo si sarebbe spezzato all’altezza della “testa fusa”, la parte più delicata e vicina alla cabina e di più difficile valutazione anche attraverso la valutazione magnetoscopica. Ma ciò non toglie che una scrupolosa analisi della fune non poteva non evidenziare eventuali anomalie, ammesso che ce ne fossero.

CONTROLLI E SILENZI L’ultimo controllo dell’Ustif è dell’agosto scorso; quello della Leitner, attraverso la ditta torinese specializzata per questo genere di controlli (la Sateco), è dell’autunno 2020. Se ci fosse stata un’anomalia, come il cavo sfilacciato, sarebbe dovuta emergere, tanto più che per mesi, poi, la funivia del Mottarone è rimasta chiusa. Per ciò che riguarda il controllo di Ustif, non si è negato il dirigente della struttura, l’ingegner Ivano Cumerlato che, già all’indomani della tragedia, ha detto: «Quella verifica l’ho fatta io, ed era tutto in ordine». Tacciono per ora i responsabili di Sateco (Fulvio Rossi e Giancarlo Berruti), mentre Leitner non affronta il tema se non per sottolineare: «Per ciò che riguarda la tragedia del Mottarone, noi siamo parte lesa e ci costituiremo in giudizio». Quando si giunge in Strada Cebrosa a Settimo Torinese, sede dell’Ustif, l’Ufficio speciale trasporti a impiantifissi, organo periferico del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, quello che colpisce, è la più totale desolazione. Qualche auto nel parcheggio e uffici completamente vuoti. Uno scenario non incoraggiante, proprio qui dove si dovrebbero controllare tutte le funivie di Piemonte e Liguria. Eppure questi uffici «rilasciano il nulla osta all’entrata in servizio, ai fini della sicurezza, dei sistemi di trasporto realizzati ex novo o in seguito a pesanti ammodernamenti: ferrovie in concessione, metropolitane, tranvie, filovie, seggiovia, funivie e ascensori». Lavorano proprio qui, a Settimo Torinese, gli ingegneri che hanno concesso l’autorizzazione per l’entrata in funzione della funivia del Mottarone e che l’hanno controllata l’ultima volta nel mese di agosto, non riscontrando nessuna anomalia. L’Ustif di Settimo Torinese «ha il compito - spiega un addetto - di controllare la sicurezza di oltre 300 impianti, presenti tra Piemonte e Liguria». E per verificarli tutti, «ci sono otto dipendenti: tre ingegneri, un tecnico, e altre quattro persone che si occupano di questione organizzative». Insomma, sono talmente pochi che il ministero ha deciso di lasciare gli uffici e di trasferire il personale al secondo piano della stessa struttura, condivisa ora con gli impiegati del Centro Prova Autoveicoli di Torino. Si scopre anche che, degli otto dipendenti, solo tre sono i veri esperti di funivie: gli ingegneri che si recano, di tanto in tanto, sul posto per verificare gli impianti. «C’è anche un’altra risorsa tecnica, ma per il momento, a causa di un infortunio sul lavoro, non è in grado di operare».

DITTE ESTERNE Considerate le pochissime risorse a disposizione, sembra di capire che a volte l’Ustif, per effettuare i controlli delle funivie, si affidi anche a ditte esterne. Nel caso specifico, per ciò che riguarda il Mottarone, sia Leitner che Sateco, avrebbero operato controlli e verifiche sull’impianto di Stresa e sulle funi. Sono arrivati proprio in Strada Cebrosa, quindi, i dati della revisione generale della funivia effettuata nel 2016 e anche quelli successivi, compreso il controllo di agosto, in questo caso eseguito direttamente dal responsabile dell’Ufficio speciale trasporti a impianti fissi.

Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 31 maggio 2021. Il suo chiodo fisso è l'ingegner Perocchio: «Io gliel'avevo detto che se il problema dei freni non si risolveva non potevo andare avanti con il servizio... Gli avevo detto dei forchettoni ma lui non ha risposto... Perocchio aveva il potere di inibirmi la decisione di metterli e di fermare la funivia». Gabriele Tadini è un uomo solo. Ha sbagliato e l'ha confessato: «Sono stato io a disattivare i freni». Poteva deciderlo, nel suo ruolo di capo servizio della funivia. E poteva chiederlo, come ha fatto, ai macchinisti e agli altri operatori suoi sottoposti. Ma non accetta l'idea di aver fatto tutto da sé. I suoi interlocutori, ai piani alti, erano Luigi Nerini, titolare della Ferrovie del Mottarone che gestisce la funivia, ed Enrico Perocchio, l'ingegnere della Leitner che era anche direttore d'esercizio. Cioè, il proprietario e il dirigente più alto in grado. E lui ne ha avute per entrambi: sapevano. «L'avevo detto anche a Nerini che mettevo i ceppi. Quando avevo problemi chiamavo pure lui». E lui cosa diceva? «Vai avanti». Ma il dente avvelenato ce l'ha con Perocchio, nonostante quest' ultimo non fosse presente a Stresa perché operava per la maggior parte del tempo a distanza. «Poteva immaginarlo che sarei andato avanti senza sistema di emergenza. Sapeva della mia intenzione di mettere i forchettoni». Un refrain. Detto al pm di Verbania che l'aveva spedito in carcere e ripetuto davanti al gip che gli ha concesso la misura meno afflittiva degli arresti domiciliari. «È tornato a casa, a Borgomanero, da suo figlio, e questo un po' lo rasserena, per quanto può rasserenarsi un uomo che si sente responsabile del disastro», ha fatto sapere l'avvocato Angelo Perillo che lo difende. Sbattendo la porta in faccia al procuratore che aveva creduto ciecamente a Tadini, la gip Donatella Banci Buonamici ha demolito un po' anche lui: «Nessun riscontro, credibilità fortemente minata. Tadini sapeva benissimo che chiamando in correità i soggetti forti del gruppo la sua responsabilità si sarebbe attenuata». Insomma, non gli crede. E lui cosa dice di questa pesante posizione del giudice? «Dice che purtroppo non ha nulla di scritto per dimostrare che quella è la verità». Il gip sostiene anche che la decisione di chiudere l'impianto faceva capo a lui, non agli altri. «Mi ha detto "avvocato, io non ho mai chiuso l'impianto senza la loro autorizzazione"». Domiciliari non è libertà. «Sì ma io preferisco che stia a casa, così inizia a scontare la pena».

Andrea Pasqualetto per il "Corriere della Sera" il 31 maggio 2021. E se il freno considerato difettoso avesse in realtà funzionato benissimo e i «difetti» fossero stati sintomi ignorati del malessere della fune? Cioè, è possibile che i rumori anomali e i continui blocchi fossero i segnali premonitori della rottura che ha portato al disastro? La clamorosa ipotesi è al vaglio degli inquirenti e soprattutto del consulente tecnico nominato dalla Procura, il professor Giorgio Chiandussi del Politecnico di Torino. Non nasce dal nulla. A ventilarla è stato Davide Marchetto, il responsabile tecnico della Rvs di Torino che ha eseguito i due interventi di manutenzione sulla funivia di Stresa. Quelli chiesti quest' anno da Gabriele Tadini, il capo servizio dell'impianto finito prima in carcere e da ieri ai domiciliari. «Se la centralina del sistema frenante della cabina 3 (quella precipitata, ndr ) segnalava una perdita di pressione (come sostiene Tadini riferendo di quei rumori, ndr ) una delle ipotesi è che la fune di trazione si stesse muovendo dalla propria sede in maniera anomala», ha spiegato Marchetto agli investigatori lo scorso 27 maggio, quando è stato sentito come persona informata sui fatti. Il tecnico dice però che il giorno dell'ultimo intervento (30 aprile) Tadini non gli aveva parlato di questa criticità. Cosicché lui si è concentrato su altri lavori: «La ricarica degli accumulatori di tutte e quattro le vetture...». Tadini gli avrebbe segnalato poi un problema alla cabina 2. «Abbiamo verificato la parte delle teste fuse di questa vettura». Ma non della 3, dove la testa fusa è oggi imputata di essere il punto di rottura del cavo. Marchetto chiamò Tadini il 3 maggio. «Per sapere se era tutto in ordine. Ha detto di sì e non l'ho più sentito». Il primo intervento risale invece al 4 febbraio di quest' anno. In quell' occasione la chiamata riguardava la cabina della sciagura e in particolare proprio la centralina dei freni. «Esattamente il problema di cui si lamentava Tadini nei giorni precedenti al disastro, anche se non ne aveva più fatto cenno a Marchetto. Cioè, il freno che scattava spesso fermando la cabina e costringendo l'operatore a raggiungerla ogni volta per sbloccarla. «Il problema era relativo alla pompa della centralina del freno, che andava sostituita. In pratica un malfunzionamento determinava che il freno rimanesse chiuso bloccando la cabina. Abbiamo quindi sostituito la pompa e la cabina ha continuato a circolare regolarmente». Ma secondo Tadini il problema non sarebbe mai stato davvero risolto. La grana dei freni che scattavano l'ha così sistemata a modo suo: inserendo i forchettoni per disattivare i freni. Il resto è cosa nota: la fune si è spezzata ed è stata una strage.

Ivan Fossati e Cristina Pastore per "La Stampa" il 31 maggio 2021. Un pugno nello stomaco, di quelli forti. L' investigatore, affranto, davanti a un caffè riassume così l'ordinanza del gip che poche ore prima non ha convalidato i tre fermi. In quei 24 fogli che il giudice Donatella Banci Buonamici ha iniziato a leggere dopo le 23 di sabato in una saletta affollata del carcere di Pallanza c' è la spiegazione del perché Luigi Nerini, Enrico Perocchio e Gabriele Tadini è come se neanche avessero varcato la porta della cella. Per loro è stata un'esperienza umanamente molto dura, 78 ore in isolamento, che però non lascia strascichi nel fascicolo. Ma in quelle pagine c' è anche uno schiaffo alla Procura di Verbania. Si parla di «mere, seppur suggestive, supposizioni» riferendosi alle accuse, di «totale irrilevanza» di alcuni particolari, di «scarne dichiarazioni di Tadini (a cui sono stati applicati gli arresti domiciliari, ndr), rese peraltro di notte, dopo sette ore dalla convocazione in caserma, che non consentivano alcun vaglio di attendibilità», e poi ancora che «il pm si basa su argomentazioni logiche, ma che non sono in alcun modo convincenti», fino a indicare come «scarno» il quadro indiziario. Nella squadra della procuratrice Olimpia Bossi molti ieri si sono presi una giornata libera. In montagna, al lago o al campetto: serviva staccare per rigenerare la mente. E oggi si riparte. Come? Sulla traccia già segnata, questo è sicuro. La Procura ritiene fondatissimo l'impianto accusatorio che si sta formando. «Il gip ha detto che non c' erano gli estremi per privare della libertà, non ha detto che abbiamo sbagliato»: sintesi formalmente corretta, ma un po' edulcorata. Il colonnello dei carabinieri Alberto Cicognani è una sfinge. Da giorni nei corridoi del tribunale si diceva che tra oggi e domani sarebbero state indagate altre persone, probabilmente dipendenti o consulenti della società Ferrovie del Mottarone che gestiva la funivia, ma il comandante provinciale dell'Arma blocca sul nascere il ragionamento: «Non entro nel merito di niente. L' indagine sarà lunga: abbiamo temi da approfondire e altri da iniziare. Siamo convinti di quello che stiamo facendo, e continueremo a farlo in rigoroso silenzio per rispetto delle vittime, di chi è o sarà indagato e anche del segreto investigativo: fughe di notizie rischiano di compromettere tanti sforzi». «Non è finita qui» ha detto sabato sera la procuratrice Bossi lasciando il carcere. E non era una minaccia, ma una promessa. Si continua per cercare le cause, e gli eventuali responsabili, della rottura della fune e per definire chi sapeva del blocco dei freni, chi lo metteva in pratica e chi l'aveva ordinato. Anche Olimpia Bossi, la procuratrice, si è fermata per un giorno nelle indagini. Ma non si nega. Sono state considerazioni troppo severe quelle del giudice? «Forse una critica implicita è questa: abbiamo messo troppa fretta nel procedere in una direzione che a noi era emersa evidente con i primi riscontri di carattere tecnico, ascoltando persone informate dei fatti e dalle dichiarazioni del caposervizio e coordinatore del personale». Sia sincera, è delusa? «È giusto così: procura e tribunale svolgono ruoli diversi. Noi continuiamo con determinazione nella nostra attività, che come ho detto fin dall' inizio sarà complessa e non tralascerà alcune aspetto. Non esprimo considerazioni sulle decisioni del gip. Una sola riflessione: penso sia mancata una visione d' insieme nell' esaminare la concatenazione logica degli elementi di prova che abbiamo raccolto. Scontato che se analizzati singolarmente, perdono di forza». Bossi rientra da una passeggiata; alla stessa ora, una settimana fa, stava coordinando le prime azioni di polizia giudiziaria e il recupero delle quattordici salme della cabina numero 3, precipitata nel bosco di abeti lungo il pendio affacciato su Stresa e le isole Borromee. Sebbene con funzioni contrapposte, Bossi condivide ogni giorno le aule del palazzo di giustizia di Verbania con il giudice Donatella Banci Buonamici: «Sta nelle regole del nostro lavoro e va a dimostrare come non c' è bisogno di una legge che separi le carriere tra magistratura giudicante e inquirente per evitare ambiguità e indipendenza degli uffici. Un po' di delusione chiaramente c' è, ma è riferita solo all' enorme impegno concentrato in pochi giorni, soprattutto da parte dei carabinieri. Diciamo che per un po' il caffè che a volte bevevo con il giudice alla macchinetta, lo prenderò da sola nella mia stanza». Ora si darà precedenza agli accertamenti irripetibili, gli incidenti probatori. Anche perché la carcassa della funivia non può restare a lungo nel bosco se si vuole conservare tutti i reperti in buone condizioni. E per questo dovrebbero arrivare a breve nuovi indagati.

Lucio Fero per blitzquotidiano.it il 31 maggio 2021. Mottarone, un magistrato in parte disfa ciò che l’altro magistrato ha fatto. Il primo magistrato a metter mano ne ha messo tre in galera, il secondo ne ha messi fuori due e ai domiciliari uno. Il primo magistrato pensava potessero fuggire o inquinare le prove, il secondo lo esclude. Soprattutto il primo magistrato pensava tutti e tre sapessero e fossero sodali nella scelta di disattivare i freni d’emergenza per fare andare la funivia mentre il secondo magistrato trova illogico che due di loro lo sapessero e di fatto ritiene responsabile della scelta criminale solo uno dei tre. Quindi il secondo magistrato pensa i vertici innocenti a fil di logica però punta sui dipendenti che materialmente apponevano i cosiddetti forchettoni e aggiunge: “potevano rifiutarsi”. Tra un magistrato e l’altro le responsabilità dell’accaduto vanno polverizzandosi in nebulosa in espansione.

Io li ho messi, loro sapevano… No, mai saputo. È nei diritti delle difese ed era prevedibile: i tre indagati (restano tali) scaricano ciascuno la responsabilità sull’altro. Uno dei tre ammette la pratica continuata e recidiva di far andare la funivia senza freni. Aggiunge di averlo fatto perché i capi volevano non si fermasse, quindi vuole spartire con gli altri due la colpa. Gli altri due negano di aver mai saputo della scelta e della pratica dei forchettoni. Il primo magistrato aveva trovato inverosimile non sapessero, il secondo ha trovato logico non sapessero. Però i forchettoni venivano regolarmente apposti, quindi più d’uno sapeva: i tecnici, gli operai, quali, chi? E che rilevanza penale sta nell’aver saputo? Quando sarà processo, sarà slalom e labirinto tra reciproci scarica barile.

Freno scattava perché fune si stava rompendo? Forse il freno ripetutamente scattava da settimane proprio perché la fune traente si stava rompendo. Ma uno dei tre indagati ha detto: è successa una cosa che accade uno volta su un milione. E pare abbia detto qualcosa di analogo quando la squadra in funivia metteva i forchettoni annulla freni e pare, anzi questo è sicuro, che tutti coloro che mettevano mano abbiano in qualche modo condiviso l’idea del non può succedere, non succede quasi mai. Invece stava succedendo, ma quel che stava succedendo non si aveva occhi per vederlo. Perché, a monte e a valle della funivia chiamata Italia, è stata abolita la regola del non si fa perché non si deve fare. Sostituita dalla regola del non si fa solo se c’è controllo, altrimenti, se conviene, si fa. Controllo non c’è quasi mai e la manutenzione etica del proprio agire è attività desueta ed ormai esotica. Controllo non c’è, né da parte altrui né da parte di se stessi. Ci può essere sfortuna, dannata e maledetta sfortuna, l’unica remora il timore della sfortuna. Ecco, tra nebulizzazione in atto delle responsabilità e legittimo scarica barile processuale ci si avvia verso la stazione del 14 morti… di sfortuna. Una bestemmia incivile.

Strage della funivia, l’Anm attacca i penalisti. Ma la gip è d’accordo con loro. L'Anm accusa la Camera penale di voler fare pressioni sulla procura. Ma le loro osservazioni sull'illegittimità del fermo sono identiche a quelle della gip, che ha scarcerato gli indagati. Simona Musco su Il Dubbio l'1 giugno 2021. Non si può giustificare un fermo con il clamore mediatico. E non si può ipotizzare il pericolo di fuga solo sulla base della gravità del reato contestato, per quanto odioso e per quanto tragiche siano state le sue conseguenze. Si racchiude tutta qui, in soldoni, la decisione del gip di Verbania, Donatella Banci Buonamici, che ha definito «irrilevanti» le ragioni alla base della richiesta di convalidare il fermo per le tre persone indagate per la strage della funivia di Stresa-Mottarone. Si tratta, come noto, di Gabriele Tadini, responsabile del funzionamento dell’impianto e reo confesso, per il quale il gip ha disposto i domiciliari, Enrico Perocchio, direttore di esercizio dell’impianto e Luigi Nerini, amministratore unico di Ferrovie del Mottarone, per i quali invece il gip ha disposto la scarcerazione. Tutti rimangono indagati per gravi reati: rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, omicidio colposo e lesioni colpose, mentre il solo Tadini risulta anche indagato per falsità ideologica, non avendo segnalato nell’apposito registro il malfunzionamento del sistema frenante della cabina numero 3, che il 23 maggio, è precipitata a folle velocità verso valle, sganciandosi dalla fune e schiantandosi a terra, fino ad impattare contro gli alberi, provocando la morte di 14 persone e lesioni gravi all’unico sopravvissuto, un bimbo di 6 anni.

La degenerazione mediatica. La vicenda è subito diventata un caso mediatico: «Gli inquirenti – denunciava domenica l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle Camere penali -, in sole 48 ore, hanno affermato pubblicamente di aver individuato e fermato i primi (ma non gli unici) responsabili della tragedia. Non solo: diffondono le loro dichiarazioni che portano a proclami di responsabilità in quanto “la cabina era a rischio. E lo sapevano”». Ma non solo: nelle motivazioni del fermo disposto dalla procura veniva tirato in ballo, come motivazione, «l’eccezionale clamore a livello anche internazionale», giustificando, di fatto, la privazione della libertà di tre persone con la risonanza della stessa indagine sui media. Una tesi totalmente bocciata dalla gip e, prima, dai penalisti del Piemonte occidentale e della Valle d’Aosta, che attraverso il presidente Alberto De Sanctis avevano analizzato l’uso dello strumento del fermo. «Lo abbiamo fatto prescindendo completamente dai fatti – spiega De Sanctis al Dubbio -. Ci era sembrato singolare, in una vicenda come questa, pensare di applicare un istituto che consente di portare un uomo in carcere soltanto per il pericolo di fuga, dal momento che non c’erano prove a riguardo. Si tratta di un’ipotesi di reato molto grave, ma colposa, che riguarda persone che hanno risorse economiche, famiglie e lavoro qui: è difficile che siano pronti a fuggire a poche ore dalle indagini». La seconda riflessione riguarda, invece, la gogna: «C’è stata una ricostruzione accusatoria fatta in pochi giorni e comunicata con plurime conferenze stampa, nelle quali si spiegava la ricostruzione delle ipotesi di reato con la logica del profitto – aggiunge -. La vicenda merita forse un maggiore approfondimento prima di dare in pasto ai giornalisti ricostruzioni già cristallizzate. Ci teniamo molto ad affermare un principio che è nella direttiva dell’Ue sul principio di non colpevolezza, inteso non solo in senso endoprocessuale, ma anche per quanto riguarda la comunicazione giornalistica. Le informazioni, in una fase così delicata, vanno centellinate».

L’ira dell’Anm. Ma l’esternazione di De Sanctis non è andata bene alla giunta dell’Anm del Piemonte, che si è schierata in difesa della procuratrice Bossi poche ore dopo la decisione del gip, che pure dava ragione ai penalisti. «Piena solidarietà ai colleghi della procura di Verbania che, con costante impegno ed indiscutibile spirito di servizio, si dedicano da giorni ad un’indagine complessa quanto dolorosa», si legge nella nota, con la quale l’Anm «stigmatizza come inopportune e fuorvianti le pesanti critiche portate ad un’indagine in corso», tali da insinuare «inaccettabilmente il sospetto che siano state adottate scelte processuali al limite della legalità o addirittura per compiacere il sentire popolare». Affermazioni che, secondo i magistrati, rappresenterebbero un «inaccettabile strumento di pressione e condizionamento dell’attività giudiziaria, vieppiù in quanto provenienti da organo in nessun modo chiamato istituzionalmente ad esprimere giudizi sulle modalità di indagine ed anzi sistematicamente impegnato nella delegittimazione dei pubblici ministeri, che si vorrebbero sottrarre alle garanzie della giurisdizione». Accuse respinte al mittente dai penalisti, che hanno definito «fuori luogo» la polemica, in quanto «non c’è stato nessun attacco ai magistrati». «È singolare che l’Anm, associazione rappresentativa dei pubblici ministeri ma anche – è bene ricordarlo – dei giudici, esprima indignazione per una nostra legittima riflessione giuridica, per nulla “inopportuna e fuorviante”, sull’uso dell’istituto del fermo di indiziato di delitto, stando attenti a non entrare nel merito delle responsabilità, tutte da accertare nel processo – afferma De Sanctis -. È doppiamente singolare perché il giudice, che l’Anm dovrebbe rappresentare, scrive nel suo provvedimento che “il fermo è stato eseguito fuori dai casi previsti dalla legge”. Non lo scrive la Camera penale, lo scrive un magistrato. La gogna mediatica è stata riservata ad altri e su questo invitiamo tutti ad una pacata riflessione».

La reazione della procuratrice. La procuratrice Bossi, commentando la decisione del gip, ha invece evidenziato due cose: da un lato che la decisione proverebbe l’indipendenza del giudicante dall’inquirente e, dunque, la superfluità della separazione delle carriere. Ma ciò non senza tradire la propria delusione, affermando che «prendevamo insieme il caffè, per un po’ lo berrò da sola». Una dimostrazione, secondo l’Ucpi, che l’indipendenza professata poco prima si tramuta in «un atto di inimicizia»: «La regola che ci si aspetta debba essere di norma rispettata è l’adesione alla ipotesi accusatoria, non fosse altro che per tutelare e proteggere, dichiara la dottoressa Bossi, “l’enorme impegno concentrato in pochi giorni, soprattutto da parte dei Carabinieri». Un ulteriore spot, secondo i penalisti, per la «ormai imprescindibile necessità della separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante».

«Quelle carriere inseparabili persino nella pausa caffè…» «Niente caffè insieme...»: con la sua reazione la procuratrice della tragedia del Mottarone dimostra «le sovrapposizioni tra pm e Gip», commenta Romanelli dell'Ucpi. Valentina Stella su Il Dubbio l'1 giugno 2021. Nello scontro in atto negli uffici giudiziari di Verbania tra la procuratrice Olimpia Bossi e la gip Donatella Buonamici, la quale ha sostenuto che il fermo dei 3 indagati «è stato eseguito al di fuori dei casi previsti dalla legge e non può essere convalidato», capita di leggere dichiarazioni sorprendenti proprio del pm che abbiamo imparato a conoscere, a seguito della strage della funivia Stresa Mottarone, in virtù della sua sovraesposizione mediatica: «Prendevamo insieme il caffè, per un po’ lo berrò da sola», ha detto la Bossi in una dichiarazione a La Stampa. «Se ci fosse effettivamente tra giudice e pm un rapporto di totale indipendenza», commenta con il Dubbio l’avvocato Rinaldo Romanelli, responsabile dell’osservatorio Ordinamento giudiziario dell’Unione Camere penali, «e se il pm si aspettasse dal giudice solo l’esercizio della sua funzione di limite al potere del pm e di garanzia che le norme siano applicate correttamente, non dovrebbe provare alcun tipo di dispiacere quando una richiesta non è accolta. Il dispiacere lo provi se ti aspetti di poter condividere una funzione con qualcuno». La reazione è stata forse istintiva? «È la reazione di chi è abituato, quando prende il caffè alla macchinetta, a parlare anche dei procedimenti che segue, a condividerli col giudice e aspettarsi che quel giudice la pensi come lei. La dottoressa Bossi è talmente convinta di quello che dice che lo ha fatto in buona fede, sennò se lo sarebbe tenuto per sé. Evidentemente non si rende conto fino in fondo di quello che ha detto: sarebbe come dire che io mi offendo se un giudice non accoglie una mia istanza difensiva e quindi poi non ci prendo più il caffè. Ammesso che ci prenda un caffè, io mi offendo soltanto se un giudice non legge le carte e vedo che c’è un provvedimento scritto palesemente male». In un’altra dichiarazione, al giornalista che le ha fatto notare come le divergenze tra Procura e Tribunale siano marcate, la procuratrice Bossi ha risposto: «Sono la giusta risposta a chi sostiene che ci siano collusioni tra i vari rami della magistratura e invoca la separazione delle carriere: ciascuno fa con coscienza il proprio mestiere e lavora con indipendenza». Ma secondo Romanelli «innanzitutto un episodio non fa statistica: la nostra esperienza in generale è di segno opposto, soprattutto nel momento delle indagini c’è una particolare vicinanza tra pm e gip. Poi quando si celebra il processo e ci si allontana dall’immediatezza degli eventi, questo avviene meno. Tanto è vero che ci sono circa 1.000 indennizzi per ingiusta detenzione l’anno, visto che le misure cautelari molto spesso si emettono con troppo facilità, anche a carico di indagati che poi magari vengono assolti». L’Ucpi si batte da sempre per avere più trasparenza nell’amministrazione della giustizia, a partire proprio dai dati concernenti il numero di misure cautelari richieste dal pm e concesse dal gip: «Sarebbe assolutamente importante conoscere questi numeri: al momento sappiamo solo che il 35% dei detenuti è in attesa di giudizio definitivo, il che induce a pensare a un abuso della misura cautelare in carcere». La vicenda ci offre lo spunto per tornare a parlare di separazione delle carriere, tema non all’ordine del giorno nelle riforme della giustizia: eppure mai come adesso la modifica sembra “reclamata” dagli eventi: «È una riforma che i magistrati non vogliono e la politica si adegua, come ha sempre fatto. I magistrati devono difendere la corporazione e il potere vero che è in capo alle Procure. L’unico argine, previsto dalla Costituzione e dal codice di procedura penale, a questo strapotere è», ricorda Romanelli, «il controllo del giudice. Il quale, proprio per questo, dovrebbe essere non solo imparziale ma terzo, appartenente a un altro organismo rispetto a quello del pm». Ma la categoria dei giudici non dovrebbe ostacolare questa riforma, in fondo è solo il pm ad avere bisogno della conferma del proprio impianto accusatorio da parte della magistratura giudicante. «Non dimentichiamo però che i pm, pur essendo solo circa un quinto dei magistrati, hanno un peso preminente nelle varie correnti che compongono l’Anm: basti pensare che negli ultimi vent’anni tutti i presidenti dell’associazione, tranne l’ultimo, sono stati appunto pm. Come è noto, sono le correnti dell’Anm ad avere il controllo del Csm e di conseguenza il controllo sulle valutazioni professionali dei magistrati, e quindi anche sulle carriere dei giudici. In un contesto del genere, anche i giudici che pensano che le carriere debbano essere separate, si guardano bene dal dirlo pubblicamente».

La “vendetta” della pm: quel caffé negato alla Gip. Il Procuratore Capo di Verbania dice che per un po' smetterà di prendere il caffé con la giudice che non ha convalidato il fermo di due dei tre indagati per la strage della funivia. Ecco, non poteva esserci uno spot più efficace a sostegno della ormai imprescindibile necessità della separazione delle carriere. Giandomenico Caiazza su Il Dubbio il 31 maggio 2021. Il Procuratore Capo di Verbania, dottoressa Bossi, non si è sottratta ad un commento sul provvedimento con cui la Gip dottoressa Banci Buonamici non ha convalidato il fermo di due dei tre indagati per la strage della funivia “per mancanza dei gravi indizi di colpevolezza”. Pur ribadendo i propri convincimenti, la pm a denti stretti ha perfino valorizzato il fatto come sintomatico della piena indipendenza del giudice, e dunque della superfluità della separazione delle carriere. Ma subito dopo non ha nascosto la propria forte “delusione”, confessando che per un po’ non intende più accompagnarsi con la Collega Gip alla macchinetta del caffè, come fino a ieri l’altro era solita fare. Non lasciatevi sfuggire l’importanza di questo moto spontaneo ed incontrollabile di risentimento della pm La manifestazione di indipendenza del Gip, tanto magnificata un attimo prima contro la necessità della separazione delle carriere, viene disvelata per ciò che davvero significa agli occhi di quel magistrato: un atto di inimicizia, talmente forte da rendere inevitabile, almeno “per un po’”, la consuetudine amicale. Nulla di più lontano, dunque, da quanto dovremmo aspettarci da una condivisa pratica della indipendenza del giudice. Un giudice che, soprattutto in una vicenda di forte esposizione mediatica, contraddice clamorosamente il punto di vista accusatorio, si iscrive tra i “nemici” della Procura (e dunque, si lascia intendere, della Giustizia tout court). In altri termini, la regola che ci si aspetta debba essere di norma rispettata è l’adesione alla ipotesi accusatoria, non fosse altro che per tutelare e proteggere, dichiara la dott.ssa Bossi, “l’enorme impegno concentrato in pochi giorni, soprattutto da parte dei Carabinieri”. Dobbiamo essere grati alla dott.ssa Bossi per la sua sincerità. Non poteva esserci, esattamente al contrario di quanto essa afferma, uno spot più efficace a sostegno della ormai imprescindibile necessità della separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante. Appartenere allo stesso ordine, provenire dallo stesso concorso, essere partecipi della stessa associazione, frequentare gli stessi corsi di formazione, avere lo stesso organo di autogoverno, e anche per tali ragioni prendere tutti i giorni il caffè insieme, crea inesorabilmente, e ben giustamente aggiungo, un sentimento profondo di comunanza, di fervida e fattiva solidarietà, di reciproco sostegno e protezione. Atti di autentica indipendenza di pensiero e di giudizio, esternati senza alcun riguardo alla loro ricaduta mediatica ed anche di carriera professionale del Collega, sono innanzitutto  -ben oltre Verbania, nella quotidianità della nostra esperienza giudiziaria- assolutamente eccezionali e fuori da ogni regolarità statistica; ma soprattutto, assumono -in forza di tale eccezionalità- una portata avvertita come talmente devastante da legittimare addirittura reazioni di risentimento e di inimicizia. Nell’eterno dibattito sulla separazione delle carriere, i nostri avversari hanno sempre tacciato di qualunquismo il nostro stigmatizzare giudici e pubblici ministeri sempre insieme al bar del Tribunale. Questa voce dal sen (s)fuggita al Procuratore della Repubblica di Verbania rende giustizia a quella pur evidente allegoria. Anche noi prendiamo il caffè (più raramente) o frequentiamo privatamente (molto più raramente), PP.MM. o Giudici; ma lo facciamo, possiamo reciprocamente farlo, con un sentimento certo, sereno ed immodificabile di chi fa mestieri irriducibilmente diversi, quando non contrapposti. Vorremmo che così prima o poi accadesse anche tra giudici e pm, una volta che finalmente possano appartenere ad ordini diversi e separati. Avremmo, statene certi, molti caffè in meno alla macchinetta, ma tanti processi giusti in più.

Ivan Fossati e Lodovico Poletto per "la Stampa" l'8 giugno 2021. Coprono con i teloni anti-pioggia quel che resta della cabina numero 3 precipitata sul Mottarone, i pompieri e gli uomini della Protezione civile. Un filo di ruggine, oppure un pezzo che si stacca, potrebbero essere l'ennesimo colpo a questa inchiesta che doveva dire - rapidamente - per quale ragione, e per colpa di chi, 14 persone erano morte nella prima domenica in cui sulle sponde del lago Maggiore si respirava aria di ritorno alla normalità. Già, un altro colpo e sarebbe tutto più complicato ancora, come se quel che è accaduto fin qui non bastasse. Tre arresti. Le scarcerazioni. Polemiche sull' operato della Procura, le parole forti adoperate del Gip nell' ordinanza che ha rimesso in libertà due dei tre arrestati. I commenti successivi. Troppo. Poi, però, mentre ieri si cercavo gli elicotteri, si pianificava l'intervento sulle pendici della montagna, ecco andare in scena l'ennesimo colpo di teatro. Esce dall' inchiesta il giudice che aveva cassato la chiamata in correità di due dei tre uomini, sostenuta dalla procura. Accade nel penultimo giorno utile per chiedere al Tribunale del Riesame di Torino di prendere in carico il ricorso contro le due scarcerazioni. Succede mentre è aperto il dibattito sull' incidente probatorio: se concederlo o meno - come chiesto dall' avvocato dell'unico indagato ancora ai domiciliari - dipende dal Gip. Ecco, mentre va in scena tutto questo il presidente del Tribunale di Verbania - Luigi Montefusco - firma un atto che mette da parte Donatella Banci Bonamici. E assegna il caso al «Gip titolare» Elena Ceriotti. Tutto legittimo, anzi di più. Ma è una fiammata che scatena gli esperti dietrologi. Ma poi Montefusco mette tutti a tacere, con le motivazioni del provvedimento. Eccole: «Avendo la dottoressa Donatella Banci Buonamici, presidente di sezione coordinatrice dell'area penale, esercitato la funzione di Gip supplente per la convalida del fermo di 3 indagati (Gigi Nerini, Gabriele Tadini ed Enrico Perocchio) il procedimento relativo alla predetta richiesta è stato dalla cancelleria assegnato al medesimo giudice. Ritenuto che tale assegnazione, se giustificata per la convalida del fermo non è conforme alle regole di distribuzione degli affari e ai criteri di sostituzione dei giudici impediti, disposti nelle tabelle di organizzazione dell'Ufficio Gip/Gup..» il fascicolo va ad un altro magistrato. Cioè Elena Ceriotti che - dicono - avrebbe dovuto occuparsene fin dall' inizio, ma proprio nei primissimi giorni di questa complicata inchiesta era impegnata in altre attività. Il linguaggio di Montefusco è giuridico, è vero. La sostanza però è chiara: esistono regole, e vanno rispettate anche quando c' è di mezzo una tragedia come quella del Mottarone. Misteri? Nessuno. Ma le voci girano in fretta da queste parti e anche quello che verrà poi definita una «semplice attività di organizzazione del lavoro», diventa un caso alla luce di quella richiesta di incidente probatorio presentata dall' avvocato di Gabriele Tadini. Per quale ragione quell' atto è così importante è facile da capire. Le prove acquisite nel corso delle operazioni sono valide soltanto per le persone attualmente indagate. Se - un giorno - ce ne saranno altri, non potranno essere adoperate. A meno di indagare subito chiunque abbia avuto in un modo oppure nell' altro a che fare con quella funivia. Ed è per questa ragione di prudenza che il capo della Procura, Olimpia Bossi, è contraria. Si pregiudicherebbe: «in modo irreversibile lo svolgimento delle attività di indagine» hanno scritto Bossi e la pm Carrera nelle deduzioni inviate all' ufficio dei Gip. Se poi, proprio non si può farne a meno, si chiede almeno di rimandare l'atto «di un paio di mesi, onde consentire che vengano espletate da parte di questo ufficio le attività di indagine». E mentre tutto questo va in scena gli avvocati dei tre indagati commentano - poco - quel che è accaduto. Da Milano il legale del patron della funivia, Pantano parla di «stranezza» riferendosi alla sostituzione del giudice per le indagini preliminari. Il suo collega Marcello Perillo che assiste il caposervizio reo confesso dice: «Non mi era mai successa una cosa del genere, in ogni caso attendo con serenità il riscontro del nuovo giudice alla mia richiesta». Oggi si capirà come va finire.

La decisione a sorpresa del presidente del Tribunale. Strage del Mottarone, tolto il fascicolo al gip garantista Banci Buonamici: la Procura chiede di annullare le scarcerazioni. Carmine Di Niro su Il Riformista il 7 Giugno 2021. Il giudice per le indagini preliminari Donatella Banci Buonamici, il magistrato che il 29 maggio scorso aveva rigettato la richiesta di convalida del fermo della procura, scarcerando il titolare delle Ferrovie del Mottarone Luigi Nerini e il direttore d’esercizio, Enrico Perocchio (ai domiciliari era rimasto invece Gabriele Tadini, caposervizio della funivia), non sarà più la titolare del fascicolo di inchiesta sulla strage della funivia Stresa-Mottarone. Il presidente del tribunale di Verbania, Luigi Montefusco, ha infatti riassegnato il fascicolo alla gip titolare Elena Ceriotti, togliendolo alla supplente Banci Buonamici. La Ceriotti era assente ‘epoca dei fatti era assente, ma è rientrata nel suo ruolo il 31 maggio. Secondo il tribunale, l’assegnazione a Buonamici era “giustificata per la convalida del fermo”, ma “non è conforme alle regole di distribuzione degli affari e ai criteri di sostituzione dei giudici impediti disposti nelle tabelle di organizzazione”. Al suo posto, quindi, si sarebbe dovuto scegliere uno fra gli altri giudici, quattro per l’esattezza, più titolati di lei. Una sostituzione che arriva dopo le incredibili polemiche nate proprio per la scarcerazione disposta dal gip dei tre indagati rigettando la richiesta di convalida del fermo della procura. Una decisione che aveva provocato la reazione ‘piccata’ della procuratrice di Verbania Olimpia Bossi, con la gip costretta a difendersi e a spiegare davanti ai giornalisti che “non c’erano le esigenze cautelari e gravi indizi di colpevolezza per tenere in carcere gli indagati” e che per questo “dovreste ringraziare che il sistema è così, dovete essere felici di vivere in uno Stato in cui il sistema fa giustizia o è una garanzia e invece sembra che non siate felici, l’Italia è un paese democratico”. Polemiche asprissime e una contrapposizione tra gip e procura che aveva spinto alla solita gogna mediatica ma anche a minacce nei confronti del gip, “colpevole” di aver liberato dei “criminali”. Lo stesso presidente del tribunale di Verbania Montefusco era intervenuto pubblicamente a suo favore. La scelta di togliere il fascicolo al gip ha provocato l’immediata reazione degli avvocati della difesa. “Non si è mai visto un provvedimento del genere. È la prima volta che non per un valido impedimento ma per un problema tabellare sia sostituito un giudice di un procedimento in corso”, ha commentato l’avvocato Marcello Perillo, difensore di Gabriele Tadini, il capo servizio della Funivia del Mottarone e l’unico dei tre fermati ad essere agli arresti domiciliari. Le ripercussioni della scelta del presidente del tribunale di Verbania Montefusco sono praticamente immediate: la Procura di Verbania al più tardi entro domani mattina depositerà il ricorso al Tribunale del Riesame contro l’annullamento dell’ordinanza di rigetto del fermo del gestore della funivia del Mottarone Luigi Nerini e del direttore d’esercizio dell’impianto Enrico Perocchio, entro la scadenza dei termini. Cambia quindi anche la gestione dell’incidente probatorio chiesto dalla difesa di Tadini e Nerini per stabilire la causa dell’incidente. A giudicare non sarà più Donatella Banci Buonamici ma il gip titolare Elena Ceriotti: contro la richiesta  si è già espressa proprio la procura guidata da Olimpia Bossi, perché se eseguito subito “pregiudicherebbe in modo irreversibile lo svolgimento delle attività di indagine“. Dalla Procura specificano che “dal momento del tragico incidente sono trascorsi solo 11 giorni” e definiscono la richiesta “intempestiva e prematura”. Chiedono quindi l’inammissibilità della richiesta e il rigetto perché “infondata”. Fra le problematiche rilevate rispetto l’incidente probatorio, lo spostamento della cabina che è una “operazione di notevole complessità, tenuto conto del luogo in cui la cabina si trova e della sua mole”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Giuseppe Salvaggiulo per "La Stampa" il 23 luglio 2021. La gestione del fascicolo sulla strage della funivia del Mottarone nel tribunale di Verbania è irregolare. Il balletto di competenze tra giudici, l'anomala informalità dei provvedimenti, la ripetuta assenza del capo dell'ufficio, le comunicazioni via mail e chat, l'arbitrarietà dei criteri di assegnazione e sottrazione del fascicolo configurano «un triplo pasticcio» senza precedenti nella storia giudiziaria italiana. Questa la conclusione della settima commissione del Consiglio superiore della magistratura, che non senza imbarazzo ha esaminato il dossier bocciando i tre provvedimenti del tribunale. Mercoledì il documento sarà votato dal plenum. La vicenda era diventata di dominio pubblico dopo che il presidente del tribunale di Verbania, Luigi Montefusco, aveva sottratto il processo alla giudice per le indagini preliminari Donatella Banci Buonamici, che pochi giorni prima aveva annullato l'arresto dei tre indagati disposto dalla Procura. Le Camere Penali avevano gridato allo scandalo, i consiglieri Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita avevano sollevato il caso al Csm. Il Csm ha verificato se sono state rispettate le regole che garantiscono la trasparenza nell'assegnazione dei processi. Forma che è anche sostanza. Dal dossier si scopre che in realtà sono tre i provvedimenti sotto esame. Il primo risale a febbraio. La gip Elena Ceriotti viene esonerata dal presidente del tribunale fino a fine maggio, «per smaltire l'arretrato». I nuovi fascicoli vengono distribuiti agli altri gip. Il provvedimento, dice il Csm, è confuso nei presupposti e irrituale per la mancata comunicazione formale. Il secondo provvedimento è quello con cui, il 27 maggio, la presidente della sezione gip, Banci Buonamici, «assegna a sé medesima il fascicolo con l'assenso del presidente del tribunale» anziché smistarlo alla collega Annalisa Palomba, come previsto dalle tabelle stabilite a febbraio. «Era impegnata in altra udienza», si difende la Banci. Falso, accerta il Csm: l'udienza era finita alle 13,02 e la Palomba era libera nei due giorni successivi. Il terzo provvedimento è di nuovo del presidente del tribunale, Montefusco: il 7 giugno, mentre la Banci sta per decidere sulla richiesta di incidente probatorio avanzata dagli indagati e dopo che i due hanno avuto intense conversazioni, le toglie il fascicolo e lo assegna alla Ceriotti, poiché nel frattempo «il suo esonero è finito». Questa la più grave delle «plurime violazioni», rilevata dal Csm con più nettezza rispetto al parere del Consiglio giudiziario di Torino, che pure aveva definito il provvedimento «contraddittorio, infondato, incoerente». E ora? Gli atti giudiziari (sia della Banci che della Ceriotti) restano validi. La palla torna al presidente del tribunale che, sulla base delle valutazioni del Csm, dovrà decidere a chi assegnare definitivamente il fascicolo. Possibile un altro cambio di giudice, in pieno incidente probatorio. Sarebbe il terzo. Quanto al Csm, il caso non è chiuso. Potrebbe valutare eventuali motivi di incompatibilità ambientale tra i magistrati protagonisti della vicenda e provvedimenti sulle loro carriere. Le comunicazioni sono agli atti, assieme all'audizione torinese, «molto ricca» secondo diverse fonti, della gip Banci.

Bocciati tre provvedimenti del Tribunale di Verbania. Strage del Mottarone, il Csm fa "a pezzi" la gestione dell’indagine: non poteva essere sottratta al gip Banci Buonamici. Carmine Di Niro su Il Riformista il 23 Luglio 2021. Un pasticcio dietro l’altro nella gestione del fascicolo di indagine sulla strage della funivia Stresa-Mottarone, l’incidente avvenuto il 23 maggio scorso e costato la vita a 14 persone. È la conclusione a cui è arrivata la settima commissione del Consiglio superiore della magistratura esaminando le carte dell’inchiesta: irregolarità sono state riscontrate nel balletto di competenze tra giudici, nell’anomala informalità dei provvedimenti, nella ripetuta assenza del capo dell’ufficio, nelle comunicazioni via mail e chat, nell’arbitrarietà dei criteri di assegnazione e nella sottrazione del fascicolo d’inchiesta. Il documento della settima commissione, che ha bocciato tre provvedimenti del tribunale di Verbania, sarà votato mercoledì prossimo dal plenum. Lo scontro all’interno del tribunale era diventato di dominio col fascicolo clamorosamente sottratto al gip Donatella Banci Buonamici dal presidente del tribunale Luigi Montefusco, dopo che il giudice che aveva annullato l’arresto dei tre indagati (poi aumentati a 14, ndr) disposto dalla procuratrice di Verbania Olimpia Bossi. Una mossa, quella di Montefusco, che aveva provocato la reazione fortissima delle Camere Penali, che avevano manifestato contro la decisione, mentre i consiglieri del Csm Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita avevano sollevato il caso in Consiglio. Ma cosa viene ‘censurato’ dalla settima commissione? Innanzitutto l’esonero della gip Elena Ceriotti fino a fine maggio, con i fascicoli distribuiti agli altri magistrati: per il Csm il provvedimento è confuso nei presupposti e irrituale per la mancata comunicazione formale. Secondo provvedimento bocciato è quello con cui Donatella Banci Buonamici il 27 maggio scorso assegna a sé stessa il fascicolo “con l’assenso del presidente del tribunale” anziché smistarlo alla collega Annalisa Palomba, come previsto dalle tabelle stabilite a febbraio. La difesa della Banci, ovvero che “era impegnata in altra udienza”, secondo la commissione è falsa: l’udienza era finita alle 13,02 e la Palomba era libera nei due giorni successivi. Ultimo provvedimento bocciato dal Csm è del presidente del tribunale di Verbania Montefusco, quando il 7 giugno toglie il fascicolo alla Banci Buonamici e lo assegna alla Ceriotti mentre la prima sta per decidere sulla richiesta di incidente probatorio avanzata dagli indagati. Una scelta già bocciata dal Consiglio giudiziario di Torino, che aveva definito il provvedimento “contraddittorio, infondato, incoerente”. Ora quindi che succederà? Sulla base delle valutazioni che prenderà mercoledì il plenum del Csm, il presidente del tribunale di Verbania Montefusco dovrà stabilire definitivamente a chi assegnare il fascicolo. In caso di un cambio in corso d’opera, sarebbe il terzo gip ad occuparsi del caso in pieno incidente probatorio. Il Csm inoltre potrebbe anche valutare eventuali motivi di incompatibilità ambientale tra i magistrati protagonisti della vicenda.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

«La Gip di Verbania prese il fascicolo della funivia perché il tribunale era in tilt». L’intero iter di gestione del fascicolo sulla tragedia del Mottarone sarebbe viziato da errori, come emerge dalle carte in possesso del Csm che "assolvono" la gip Donatella Banci Buonamici. Simona Musco su Il Dubbio il 28 luglio 2021. «Non emergono elementi da cui desumere che l’autoassegnazione abbia avuto finalità diverse dalla funzionalità dell’ufficio». La frase è contenuta in una nota dell’ordine del giorno del plenum di mercoledì al Csm, giorno in cui i consiglieri si ritroveranno a votare la bocciatura dell’iter di assegnazione del fascicolo della funivia. Una frase riferita all’operato della gip Donatella Banci Buonamici, alla quale il fascicolo è stato sottratto proprio nel giorno in cui avrebbe dovuto pronunciarsi sulla richiesta di incidente probatorio avanzata da una dalle difese, circa una settimana dopo la discussa decisione di non convalidare il fermo disposto dalla procura per i tre indagati per la strage del Mottarone. Un passaggio breve, quasi invisibile, ma non di poco conto nell’ambito di una polemica che si è trasformata in un vero e proprio caso per il mondo della magistratura, l’ennesimo in un periodo travagliatissimo per le toghe. Come evidenziato nell’edizione di sabato, l’intero iter di gestione del fascicolo è stato giudicato negativamente dalla settima Commissione del Csm, che si è trovata per le mani tutti i documenti del caso e la valutazione operata dal Consiglio giudiziario di Torino. E dall’analisi della vicenda vengono fuori le fibrillazioni che hanno tenuto banco in Tribunale sin dall’inizio della vicenda, diventata un vero e proprio caso mediatico, tanto che perfino il fermo per i tre indagati era stato motivato con il «clamore internazionale» suscitato dalla vicenda. Troppo poco, secondo la gip, per tenere in carcere tre persone, in assenza di riscontri adeguati che facessero temere la fuga, l’inquinamento probatorio o la reiterazione del reato. Una scelta che è costata alla giudice attacchi, anche violenti, sul web, e che la stessa ha difeso ricordando a tutti le garanzie di uno Stato di diritto. Il fascicolo, però, le è stato sottratto il 7 giugno scorso, quando il presidente del Tribunale di Verbania ha disposto l’assegnazione dello stesso ad Elisa Ceriotti, in qualità di «gip titolare del ruolo per tabella», a fronte del deposito, il 3 giugno, della richiesta di incidente probatorio. Due i decreti che hanno preceduto questa situazione. Il primo è il numero 3/ 2021, del primo febbraio, tramite il quale Banci Buonamici, con l’approvazione del presidente Luigi Montefusco, «preso atto della grave situazione di sofferenza dell’ufficio gip», ha disposto l’esonero di Ceriotti fino al 31 maggio, riassegnando alcuni procedimenti pendenti alle colleghe Beatrice Alesci e Annalisa Palomba, alla quale, in particolare, sarebbe toccato il mese di maggio. In tale situazione, anche la presidente Banci Buonamici avrebbe coperto alcuni dei turni, così come si evince dallo stesso decreto. Il secondo è quello del 27 maggio, quando Banci Buonamici, sentito il presidente, ha riassegnato a sé il procedimento della funivia, per il quale alle 17.50 era stata depositata richiesta di convalida del fermo dei tre indagati, dato l’impegno, in concomitanza, di Palomba e dato quanto previsto dal decreto 3/ 2021. Il 7 giugno, dunque, il presidente del Tribunale, Luigi Montefusco, ha “restituito” il fascicolo a Ceriotti, evidenziando che l’assegnazione a Banci Buonamici anche della richiesta di incidente probatorio «non è conforme alle regole di distribuzione degli affari ed ai criteri di sostituzione dei giudici impediti disposti nelle tabelle di organizzazione dell’Ufficio gip/ gup». Si tratta, però, dell’unico fascicolo sottratto a Banci Buonamici. E ciò, ha spiegato Montefusco, in quanto «gli altri procedimenti assegnati nel periodo di esonero» sono stati assegnati «“in via definitiva” entrando a far parte del ruolo dei colleghi assegnatari». Ma non solo. Stando alla memoria di Montefusco, a seguito del deposito della richiesta di incidente probatorio il presidente «aveva tentato di convincere la collega a spogliarsi del fascicolo, che ella “intendeva trattenere anche per la decisione sull’incidente probatorio”, “anche per sottrarla a facili accuse di eccessivo protagonismo” e per riportare il procedimento al suo gip naturale», ossia Ceriotti. Una «opera di convincimento» che Montefusco avrebbe tentato di fare il 5 giugno via sms, alla quale Banci Buonamici «si è opposta con una veemenza inusitata, e per me, inspiegabile», ha aggiunto. Rientrato in ufficio e dopo aver adottato il provvedimento del 7 giugno, «aveva appreso che l’udienza dibattimentale della dr. ssa Palomba era terminata il 27.5.2021 alle ore 13». Diversa la ricostruzione di Banci Buonamici, secondo cui «le funzioni gip nel procedimento per la convalida del fermo sono state da lei esercitate non in qualità di supplente, ma previa assegnazione a sé del fascicolo, concordata telefonicamente col presidente, dopo autorizzazione ad hoc all’apertura della cancelleria per ricevere l’atto fuori dall’orario». Un’autoassegnazione che trova origine nel provvedimento 3/ 2021, «a sua insaputa mai trasmesso al Consiglio Giudiziario nonostante prevedesse una variazione tabellare» – e pertanto dallo stesso bocciato, in quanto non noto – in forza del quale tutti i procedimenti transitati da Ceriotti ad altri gip «sono stati definitivamente presi in carico dal giudice assegnatario e mai restituiti» alla stessa, proprio in quanto l’esonero era finalizzato ad alleggerire il suo ruolo. Nessun fascicolo, ad eccezione del procedimento “Mottarone”, è stato infatti riassegnato a Ceriotti, «scelta conforme alle previsioni tabellari in base alle quali il fascicolo incardinato per il compimento di un atto urgente resta assegnato al medesimo giudice, al fine di non incorrere in future incompatibilità in ragione delle contenute dimensioni dell’ufficio». Banci Buonamici, in quella situazione, sarebbe stata dunque la «sola persona che avrebbe potuto, nel breve lasso di tempo imposto dalle richieste della Procura, studiare con un poco di attenzione le carte processuali». Nessuno, fino al 3 giugno, avrebbe sollevato dubbi sulla sua legittimazione a decidere sulla richiesta di incidente probatorio, essendo tra l’altro «Ceriotti ancora in congedo ordinario fino al 7 giugno». Giorno in cui, poi, non le è stato consentito di depositare l’ordinanza. In merito alla posizione di Palomba, Banci Buonamici ha evidenziato che la stessa «era gravata da un pesante ruolo dibattimentale che la vedeva sempre impegnata in udienza, a volte fino a tardo pomeriggio, il lunedì, il martedì ed il giovedì ed inoltre era in ferie dal lunedì successivo 31 maggio fino al 5 giugno». Ed è «prassi dell’ufficio concordata con il presidente Montefusco e con le colleghe della sezione, non gravare la collega di incombenti urgenti e impegnativi, da evadere nel corso del fine settimana». L’autoassegnazione, pertanto, «oltre che concordata ed avallata dal presidente Montefusco, era conforme alla prassi dell’ufficio, rispondeva esclusivamente all’interesse primario di garantire il funzionamento del Tribunale e non aveva incontrato l’obiezione di alcuno». Insomma, un gran pasticcio, sul quale ora si pronuncerà il plenum, che dovrà stabilire se formalmente, così come evidenziato dal Consiglio giudiziario di Torino prima e dalla prima Commissione poi, tutto l’iter di assegnazione sia stato viziato da errori. E ciò a prescindere «dall’impegno profuso per far fronte alle criticità dell’ufficio da parte della presidente di sezione, del quale comunque non si ha motivo di dubitare sulla scorta della documentazione in atti».

Funivia, Di Matteo e Ardita in difesa di Banci Buonamici: «Messa in discussione l’autonomia del giudice». Per i due togati del Csm, la revoca del fascicolo alla gip «rappresenta un grave vulnus all’organizzazione dell’ufficio idonea ad incidere sull’andamento del processo». Simona Musco su Il Dubbio il 29 luglio 2021. «La revoca della assegnazione al gip Banci Buonamici rappresenta un grave vulnus all’organizzazione dell’ufficio idonea ad incidere sull’andamento del processo, dal momento che erano stati già adottati provvedimenti sulla libertà personale». È netta la posizione sostenuta in plenum dai togati del Csm Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo, che hanno bocciato lo “scippo” del fascicolo della tragedia della funivia del Mottarone ai danni della gip Donatella Banci Buonamici, sancito dal presidente del Tribunale Luigi Montefusco lo scorso 7 giugno. Una scelta, quella del presidente, pericolosa secondo i due togati, che hanno messo l’accento sulla tempistica di tale provvedimento, arrivato proprio dopo la scarcerazione dei tre indagati «e dopo che la stampa esercitava enormi pressioni esterne; ed è intervenuta quando era già pronto il provvedimento che decideva sulla richiesta di incidente probatorio che non poté essere depositato». Per i due consiglieri, che hanno preso la parola durante un lungo dibattito concluso con l’approvazione del parere della settima Commissione, che di fatto ha bocciato tutta la gestione delle tabelle del tribunale, sarebbero dunque «deboli» le argomentazioni addotte da Montefusco, opposte a quelle invece definite «molto convincenti» di Banci Buonamici, «che risulta avere operato con correttezza e senso di responsabilità e a lei dovrebbe andare il sostegno dell’organo di autogoverno». Al centro della discussione la decisione di porre sullo stesso piano i tre decreti che hanno scandito la vicenda, ovvero l’esonero della gip Elisa Ceriotti, titolare per tabella del procedimento, sin da febbraio scorso, l’autoassegnazione del fascicolo da parte di Banci Buonamici il 27 maggio, visti gli impegno concomitanti della collega Annalisa Palomba, e quello di revoca da parte di Montefusco. Per Ardita e Di Matteo, «è un errore grave mettere sullo stesso piano tutti i provvedimenti, e il Csm dovrebbe oggi concentrarsi sulla illegittimità della revoca dell’assegnazione al giudice competente e sulle sue conseguenze: questa vicenda ha un’enorme rilevanza, perché la difesa della autonomia del giudice contro qualsiasi possibile interferenza esterna rappresenta il compito prioritario dell’autogoverno. In questo quadro la decisione di sollevare il giudice dalla competenza, benché formalmente non risulti rivolta a quello scopo, rischia di trasformarsi in una lesione alla indipendenza del giudice e alla sua immagine». Insomma, una difesa a spada tratta dell’autonomia del giudice da parte di due pubblici ministeri, secondo cui tale prerogativa «è un bene prioritario e irrinunciabile in una democrazia». Il documento, al termine della discussione, è stato approvato con 24 voti a favore e un astenuto, il laico di Forza Italia Alessio Lanzi, che aveva tentato – salvo poi ritirare la proposta – di riportare la delibera in Commissione per stralciare la parte riguardante il decreto di «riassegnazione a sé medesima» firmato da Banci Buonamici con il placet dello stesso Montefusco, chiedendo, successivamente, di votare separatamente i tre provvedimenti in esame. «Il nostro obiettivo è di rendere un buon servizio alla giustizia – ha evidenziato Lanzi – e in questo caso, con il comportamento della dottoressa Banci, è stato reso un ottimo servizio alla giustizia, una giustizia pronta, che ha riequilibrato una situazione difforme dalle regole della legge e che può ridare fiducia alla comunità per quanto concerne l’amministrazione della giustizia penale». Secondo Lanzi, dunque, Montefusco avrebbe sottratto il fascicolo a Banci Buonamici «quando lo ha visto eccessivamente al centro dell’attenzione». Giuseppe Cascini, togato di Area, ha contestato le motivazioni dei colleghi, affermando che «valutare le decisioni in materia tabellare sulla base del merito delle decisioni adottate dai giudici – ha sottolineato – è esattamente il contrario di quello che noi dobbiamo fare. Le regole tabellari non sono diritti disponibili, non c’è accordo fra le parti per derogare alle regole. Se leggiamo la motivazione di questa delibera c’è scritto esattamente quali erano le regole tabellari, a quale giudice doveva andare il fascicolo e, in caso di emergenza, c’erano le regole sulle sostituzioni. È un principio costituzionale, si chiama predeterminazione del giudice. Il giudice non si sceglie».  Un discorso non condiviso dalla togata di Magistratura Indipendente Loredana Miccichè, che ha evidenziato «le piccole dimensioni» del tribunale di Verbania. «Le regole tabellari non sono dei totem – ha chiarito – perché è sempre possibile, con delle motivazioni specifiche, derogare a questi criteri». E nel provvedimento di autoassegnazione, secondo Miccichè, «la motivazione c’è, perché la dottoressa Banci ci dice che la dottoressa Palomba era indisponibile perché impegnata in udienza». Miccichè ha anche evidenziato come i provvedimenti di variazione tabellare stabiliti a febbraio per gestire la situazione di sofferenza dell’ufficio gip/gup non siano stati trasmessi al Consiglio giudiziario, onere, questo, che sarebbe spettato al presidente Montefusco e non a Banci Buonamici e la cui mancata ottemperanza, di fatto, ha reso quel provvedimento nullo. Nel suo intervento Ardita ha evidenziato come la risonanza mediatica dell’evento avesse posto la giustizia «sotto la lente di ingrandimento», evidenziando la differenza tra il provvedimento di Montefusco e i due iniziali, adottati «prima che le parti del processo fossero investite da decisioni giudiziarie. C’è un abisso tra la valutazione dei primi due provvedimenti e il terzo, che incide nettamente sul procedimento, perché già c’è stata una valutazione il gip». Non si può cambiare l’arbitro a partita in corso, ha dunque evidenziato con una metafora calcistica. E anche qualora l’autoassegnazione fosse stata irregolare, «non è la stessa cosa togliere un procedimento» a chi già se ne sta occupando. «Il valore del giudice, la sua indipendenza, è un principio irrinunciabile», ha concluso. Intervento, dunque, condiviso da Di Matteo, secondo cui la scelta di sottrarre il fascicolo alla gip «ha un’enorme rilevanza per il nostro ordinamento e deve richiamare il Csm all’adempimento di un suo compito indefettibile, la difesa del singolo giudice contro qualsiasi possibile, anche apparente, pressione esterna. La decisione di sollevare il giudice dalla competenza, al di là delle intenzioni di chi l’ha presa, rischia di essere letta come una lesione al principio di autonomia del giudice contro qualsiasi possibile interferenza esterna». Toccherà ora al presidente del Tribunale adottare le conseguenti determinazioni in modo conforme al contenuto della delibera, «per escludere il profilarsi di ulteriori potenziali incompatibilità nella successiva fase dibattimentale». A commentare il dibattito che ha tenuto banco durante il plenum anche il direttivo della Camera penale del Piemonte Occidentale e Valle d’Aosta, secondo cui, «in attesa delle ulteriori valutazioni di competenza di altre sedi consiliari e autorità, è auspicabile l’ostensione di tutti gli atti esaminati nel corso di tale procedura per conoscere nella massima trasparenza il grado di conformità delle condotte alle funzioni istituzionali svolte dei vari soggetti coinvolti nella presente vicenda. Una vicenda – prosegue la nota – nella quale un magistrato ha difeso con tenacia la propria indipendenza; quell’indipendenza che dovrebbe essere tutelata e garantita dall’ordinamento giudiziario e non esclusivamente affidata al coraggio di un giudice che si è esposto in prima persona pur di difendere la sua libertà di giudizio».

I penalisti di Verbania sul caso della gip “garantista”: “Grave vulnus, intervenga Via Arenula”. La Camera penale di Verbania conferma lo stato di agitazione e chiede di desecretare i verbali di Banci Buonamici, a cui è stato sottratto "illegittimamente" il fascicolo della funivia. Il Dubbio il 29 luglio 2021. Il direttivo della Camera Penale di Verbania chiede «al Consiglio Giudiziario di desecretare e rendere pubblici i verbali della seduta in cui sono stati ascoltati il dr. Montefusco e la dottoressa Banci» in relazione alla vicenda della funivia del Mottarone e chiede poi di «sollecitare il ministro della Giustizia a inviare gli ispettori presso il Tribunale di Verbania, così come lo stesso Ministero con un comunicato stampa aveva anticipato». È quanto si legge in una nota deliberata oggi dal presidente e dal segretario della Camera Penale di Verbania che conferma lo stato di agitazione per denunciare con forza la decisione del presidente del Tribunale di Verbania, Luigi Montefusco, di sottrarre il fascicolo al gip Donatella Banci Buonamici, rimossa dopo aver deciso la scarcerazione dei tre indagati per la strage della funivia. Dalla pronuncia di oggi del Csm, scrivono i penalisti, «è emerso in modo inequivocabile che vi è stato un grave vulnus nella libertà del Giudice  Banci Buonamici», e per questo la «Camera Penale di Verbania non può che prendere atto ed evidenziare che una ferita grave è stata inferta nella fiducia dei cittadini nella giustizia, soprattutto perché i fatti si sono svolti in un Tribunale piccolo ma sempre virtuoso per tempi e modi di ottemperare all’alta funzione giudiziaria». «Le conseguenze della decisione del Presidente del Tribunale di sostituire il GIP con le ben note modalità e tempistiche, che il CSM ha censurato – si legge ancora nella nota – ha inoltre gettato una luce negativa sulla capacità della sezione penale di affrontare il carico di lavoro, invece, pur con i precedenti provvedimenti tabellari, sempre gestito con efficienza e contenimento dei tempi ed era pur stata individuata e attivata soluzione per superare le criticità relative allo smaltimento dell’arretrato di due magistrati, accollandosi gli altri magistrati della sezione penale Presieduta dalla dott.ssa Banci, unitamente alla stessa, il maggior carico di lavoro». La gip Banci Buonamici è stata sostituita infatti i primi di giugno per “mancato rispetto delle regole tabellari” con decreto del Tribunale ritenuto illegittimo dalla settima commissione del Csm che con delibera approvata dal plenum a maggioranza – con 24 voti a favore e l’astensione del laico di Forza Italia, Alessio Lanzi – valuta il provvedimento non conforme alle regole tabellari vigenti nell’ufficio, che riguardano l’organizzazione del lavoro. «Appare indiscutibile che – scrivono ancora i penalisti di Verbania – se è vero che la Giustizia è amministrata in nome del Popolo, allora è doveroso che vi sia cristallina trasparenza nei passaggi di una vicenda che vulnera l’indipendenza del Giudice naturale precostituito per legge e venga fatta chiarezza su tutti gli aspetti legati a questa vicenda, esigenza che deve essere cara a tutta l’avvocatura e non solo agli iscritti alle Camere Penali». Un aspetto questo denunciato anche dai togati del Csm Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo, per i quali «la revoca della assegnazione al gip Banci Bonamici rappresenta un grave vulnus all’organizzazione dell’ufficio idonea ad incidere sull’andamento del processo, dal momento che erano stati già adottati provvedimenti sulla libertà personale». La revoca, ricordano i due togati, «è intervenuta dopo che erano stati scarcerati tre indagati e dopo che la stampa esercitava enormi pressioni esterne; ed è intervenuta quando era già pronto il provvedimento che decideva sulla richiesta di incidente probatorio che non potè essere depositato. Deboli appaiono gli argomenti del presidente del tribunale, molto convincenti quelli della dottoressa Banci Bonamici, che risulta avere operato con correttezza e senso di responsabilità e a lei dovrebbe andare il sostegno dell’organo di autogoverno».

Funivia, sostituita la gip che ha difeso lo Stato di diritto. Il legale: «Provvedimento anomalo». Il giudice Donatella Banci Buonamici che aveva scarcerato due dei tre indagati per la strage del Mottarone esce di scena. Al suo posto il gip «titolare per tabella» Elena Ceriotti. E ora il pm chiede l'annullamento dell'ordinanza. Simona Musco su Il Dubbio il 7 giugno 2021. Non si occuperà più della tragedia della funivia del Mottarone la gip di Verbania Donatella Banci Buonamici, che nei giorni scorsi ha scarcerato due dei tre indagati, mandando ai domiciliari il terzo. Una decisione presa dal presidente del tribunale Luigi Montefusco proprio nel giorno in cui la giudice avrebbe dovuto decidere sulla richiesta di incidente probatorio relativa alle modalità attraverso cui procedere alle verifiche e alle perizie tecniche sul relitto della cabina e sul cavo spezzato, depositata il 3 giugno da Marcello Perillo, avvocato di Gabriele Tadini, il capo servizio della funivia ora ai domiciliari. Richiesta contro la quale la Procura si è opposta, con l’intenzione di disporre un «accertamento tecnico non ripetibile». La palla, ora, passa al giudice Elena Ceriotti, «titolare per tabella del ruolo» ed esonerata a febbraio scorso da Banci Buonamici dalle funzioni di gip per la «grave situazione di sofferenza» del suo ufficio, esonero valido fino al 31 maggio. La scelta di Montefusco, secondo le difese, rappresenta una novità assoluta. A far discutere è soprattutto la tempistica: nonostante la gip Ceriotti sia tornata in ballo il 31 maggio, la richiesta di incidente probatorio, presentata tre giorni dopo, è comunque arrivata sulla scrivania di Banci Buonamici, così come la replica della procura. E il cambio di giudice è arrivato proprio nel giorno in cui la giudice si sarebbe dovuta pronunciare. Era stata la stessa Banci Buonamici ad assegnarsi il fascicolo, che sarebbe toccato, invece, alla collega Annalisa Palomba, «contestualmente impegnata in udienza dibattimentale». In casi del genere, scriveva però Banci Buonamici, «le funzioni di gip, dal 1.1.2021, sono state esercitate da questo presidente». Sarebbe stata lei, dunque, secondo questa consuetudine, il giudice naturale del caso. Ma per il presidente del Tribunale, «tale assegnazione, se giustificata per la convalida del fermo, non è conforme alle regole di distribuzione degli affari e ai criteri di sostituzione dei giudici impediti disposti nelle tabelle di organizzazione dell’Ufficio gip/gup». Stando al provvedimento, infatti, «in base alle tabelle il giudice assegnatario del procedimento si sarebbe dovuto individuare, in caso di assenza o impedimento del gip titolare, in via graduata tra i giudici Alesci, Palomba, Sacco e Michelucci, e non nella dottoressa Banci Buonamici». E sarebbe impossibile, secondo Montefusco, applicare «la disposizione di cosiddetta prorogatio della competenza del primo gip che ha adottato un atto del procedimento anche per tutti gli atti successivi, essendo questa dettata, ovviamente, per disciplinare la distribuzione degli affari ed evitare incompatibilità tra i gip titolari del ruolo, e non quando il singolo atto venga adottato da un gip supplente, che non deve, per un’equa e coerente distribuzione del lavoro, accollarsi, sino alla definizione del procedimento, affari per tabella non spettantegli, fatti salvi giustificati motivi». Rientrata Ceriotti, dunque, il fascicolo può tornare a lei. Il provvedimento arriva dopo le polemiche sulla decisione di Banci Buonamici di non convalidare il fermo della procura, che aveva motivato il pericolo di fuga con la «risonanza mediatica» dell’inchiesta. Così la richiesta avanzata dalla procuratrice Olimpia Bossi di tenere tutti in carcere è stata cassata malamente dalla gip: nessun elemento concreto, infatti, sarebbe stato portato a sostegno del pericolo di fuga, «presupposto indefettibile per procedere al fermo di indiziati di reato», mentre non è stato ritenuto valido, giuridicamente, il richiamo al clamore mediatico della vicenda («è di palese evidenza la totale irrilevanza», al punto da definirlo «suggestivo»). La decisione non era piaciuta alla procuratrice Bossi, che commentando l’esito dell’udienza di convalida si era lasciata andare ad un attimo di amarezza: «Prendevamo insieme il caffè – ha detto parlando della gip -, per un po’ lo berrò da sola». E da qui la replica della giudice all’assalto dei giornalisti: «È il sistema, dovreste ringraziare di vivere in uno Stato dove il sistema fa giustizia o è una garanzia. L’Italia è un Paese democratico». La decisione, ora, rischia di avvelenare ancora di più il clima attorno all’inchiesta. Che ieri ha registrato, da parte della procura, anche la richiesta di «annullamento dell’ordinanza di rigetto» nei confronti del gestore della funivia del Mottarone Luigi Nerini e del direttore d’esercizio dell’impianto Enrico Perocchio, scarcerati da Banci Buonamici il 30 maggio. E le difese hanno subito espresso sconcerto per la decisione di Montefusco. «È un provvedimento anomalo. Non è mai capitato che durante una partita venga cambiato l’arbitro nonostante tutti riconoscano abbia operato bene», ha commentato Pasquale Pantano, legale di Nerini. Stessa reazione da parte di Perillo, che al Dubbio spiega: «Non è mai successo nulla del genere. I cambi di giudice dipendono, in genere, da motivi di salute o eventuali trasferimenti. Sono molto stranito da questa cosa, ma aspetto con serenità il provvedimento del nuovo giudice». Per Alberto De Sanctis, presidente della Camera penale del Piemonte occidentale, «mai viene riassegnato ad altro gip un fascicolo in fase di indagini, salvo in casi di impossibilità a svolgere le funzioni (per esempio: maternità o trasferimento ad altro ufficio). È doppiamente singolare che accada in un piccolo Tribunale in cui il vero problema dovrebbe essere quello di evitare l’incompatibilità tra gip e gup. Non “bruci” due gip perché avresti problemi a trovarne il terzo per celebrare l’udienza preliminare. È ancora più incredibile che questo avvenga d’urgenza così di fatto da impedire al gip originario di decidere su una richiesta di incidente probatorio formulata dalla difesa. Spero che qualcuno all’interno della magistratura e dell’Anm se ne accorga così da tutelare l’indipendenza e la terzietà del giudice».

Strage della funivia, il Consiglio giudiziario: sbagliato sottrarre il fascicolo alla gip. Contestato tutto l'iter di gestione del fascicolo: Banci Buonamici non avrebbe potuto autoassegnarsi il caso. La replica: «Accuse infamanti». Simona Musco su Il Dubbio il 29 giugno 2021. La scelta di togliere il fascicolo della strage della funivia del Mottarone alla gip Donatella Banci Buonamici non è stata corretta. Così come non sarebbe stata corretta l’autoassegnazione del fascicolo da parte della stessa giudice, nonostante tale procedimento fosse una prassi consolidata del Tribunale di Verbania. È questo quello che è emerso dalla riunione del Consiglio giudiziario di Torino, che in due diverse sedute ha affrontato la sostituzione della giudice che ha disposto la scarcerazione degli indagati, suscitando un mare di polemiche. Secondo quanto stabilito a seguito dell’audizione delle persone coinvolte, il Consiglio giudiziario ha inoltrato un parere al Csm, concludendo, di fatto, che tutta la gestione del fascicolo sia stata sopra le righe. Secondo quanto emerso, infatti, il presidente del Tribunale di Verbania Luigi Montefusco non avrebbe dovuto sottrarre il fascicolo a Banci Buonamici per passarlo alla giudice Elena Ceriotti. Ma anche l’autoassegnazione da parte del giudice Donatella Banci Buonamici del procedimento di convalida del fermo dei tre indagati per la morte delle 14 persone precipitate il 23 maggio scorso sulla funivia del Mottarone non sarebbe stata regolare. La scorsa settimana il Consiglio aveva ascoltato sia la giudice sia il presidente Montefusco. Secondo il consiglio giudiziario, nel riassegnare il fascicolo ad altro gip, Montefusco non avrebbe dovuto rivolgersi alla gip già in precedenza esonerata, ma alla collega in forza al tribunale al momento della convalida del fermo. «La cosa chiara è che il fascicolo non mi poteva essere tolto – ha commentato Banci Buonamici all’AdnKronos -. Che mi si dica che non potevo fare il gip è un’accusa falsa, infamante, lesiva della mia dignità. Certamente deve essere stato male sintetizzato il parere del Consiglio laddove si scrive che “non avrei potuto esercitare le funzioni di gip”», ha aggiunto, sottolineando che «la nostra è una sezione unica, promiscua, dove tutti fanno gip e dibattimento. Ma non solo, io il gip lo sto facendo dal 1 gennaio e l’ho fatto per 13 anni. Ho lavorato in una distrettuale a Milano dove sono stata sotto scorta perché ho fatto terrorismo, mafia, ‘ndrangheta». «Quel fascicolo – ha evidenziato – è arrivato alle 6 di sera, ho autorizzato l’apertura della cancelleria perché era chiusa, non c’era nessuno. Mi sono consultata con il presidente che non c’era, avevo i termini che scadevano sabato alle 18 e d’accordo con il presidente, come ho fatto in altri centinaia di casi, ed è documentato, mi sono, nelle mie facoltà presidenziali, assegnata il procedimento e ho provveduto nei termini su una convalida con due, tre persone che erano da 96 ore in stato di custodia cautelare. Questi sono i fatti – ha concluso -, rispetto il parere ma attendo fiduciosa la valutazione finale degli organi competenti in merito al mio operato del quale peraltro non viene messo in discussione il merito». La decisione di sostituire Banci Buonamici venne presa dal presidente del tribunale Luigi Montefusco proprio nel giorno in cui la giudice avrebbe dovuto decidere sulla richiesta di incidente probatorio relativa alle modalità attraverso cui procedere alle verifiche e alle perizie tecniche sul relitto della cabina e sul cavo spezzato, depositata il 3 giugno da Marcello Perillo, avvocato di Gabriele Tadini, il capo servizio della funivia ora ai domiciliari. Richiesta contro la quale la Procura si è opposta, con l’intenzione di disporre un «accertamento tecnico non ripetibile», ma poi accolta dalla giudice Ceriotti. Sarebbe stata lei, secondo Montefusco, la giudice «titolare per tabella del ruolo» ed esonerata a febbraio scorso da Banci Buonamici dalle funzioni di gip per la «grave situazione di sofferenza» del suo ufficio, esonero valido fino al 31 maggio. Era stata la stessa Banci Buonamici ad assegnarsi il fascicolo, che sarebbe toccato, invece, alla collega Annalisa Palomba, «contestualmente impegnata in udienza dibattimentale». In casi del genere, scriveva infatti Banci Buonamici, «le funzioni di gip, dal 1.1.2021, sono state esercitate da questo presidente». Sarebbe stata lei, dunque, secondo questa consuetudine, il giudice naturale del caso, così come avallato dallo stesso Montefusco, che sottoscrisse l’autoassegnazione. Ma il 7 giugno lo stesso ha evidenziato, con il provvedimento di sostituzione, che «tale assegnazione, se giustificata per la convalida del fermo, non è conforme alle regole di distribuzione degli affari e ai criteri di sostituzione dei giudici impediti disposti nelle tabelle di organizzazione dell’Ufficio gip/gup». Stando al provvedimento, infatti, «in base alle tabelle il giudice assegnatario del procedimento si sarebbe dovuto individuare, in caso di assenza o impedimento del gip titolare, in via graduata tra i giudici Alesci, Palomba, Sacco e Michelucci, e non nella dottoressa Banci Buonamici». E sarebbe stato impossibile, secondo Montefusco, applicare «la disposizione di cosiddetta prorogatio della competenza del primo gip che ha adottato un atto del procedimento anche per tutti gli atti successivi, essendo questa dettata, ovviamente, per disciplinare la distribuzione degli affari ed evitare incompatibilità tra i gip titolari del ruolo, e non quando il singolo atto venga adottato da un gip supplente, che non deve, per un’equa e coerente distribuzione del lavoro, accollarsi, sino alla definizione del procedimento, affari per tabella non spettantegli, fatti salvi giustificati motivi». Rientrata Ceriotti, dunque, il fascicolo doveva tornare a lei. Al centro della polemica anche l’orario di assegnazione del fascicolo: lo stesso sarebbe stato preso in carico da Banci Buonamici alle ore 17.55 del 27 maggio, ora in cui Palomba, secondo quanto testimoniato da Montefusco, aveva già terminato l’udienza in cui era impegnata. Sul caso è aperto un fascicolo al Csm, mentre si attende l’arrivo degli ispettori inviati dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Il caso è solo all’inizio.

Il caso Verbania. Strage della funivia del Mottarone, la rimozione della Gip “decisione non corretta”. Angela Stella su Il Riformista l'1 Luglio 2021. La decisione del presidente del Tribunale di Verbania Luigi Montefusco di sostituire il giudice Donatella Banci Buonamici con il giudice Elena Ceriotti, nell’inchiesta sull’incidente del Mottarone, non è stata corretta. Ma allo stesso tempo non è stata corretta neanche l’auto-assegnazione iniziale del fascicolo, in quanto Banci Buonamici non poteva esercitare funzioni da gip. Questo il primo verdetto dell’affaire Verbania: si tratta della decisione emersa dal Consiglio giudiziario presso il Distretto di Corte di Appello di Torino, che invierà ora il suo parere al Csm, dove dovrebbe essere già stata aperta una pratica sulla questione, per valutare se e quali provvedimenti disciplinari prendere, come richiesto dai consiglieri Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo e dal gruppo dei togati di Magistratura indipendente. L’organismo territoriale di autogoverno dei magistrati piemontesi, a cui hanno diritto di tribuna anche tre avvocati, si è riunito sulla vicenda per la seconda volta, dopo che una settimana fa erano stati ascoltati i protagonisti di questa vicenda, il presidente Montefusco e il gip Banci Buonamici. Secondo quanto emerso, entrambi non avrebbero dunque rispettato le regole di attribuzione dei fascicoli. Né Banci Buonamici, che si era auto-assegnata il fascicolo, né Montefusco, che ha sostituito il gip dopo che quest’ultima aveva disposto la scarcerazione dei tre indagati. A quel punto il fascicolo era stato riassegnato al gip Elena Ceriotti. Altro errore, secondo il Consiglio giudiziario, perché sarebbe dovuto essere assegnato ad Annalisa Palomba, che sin dall’inizio avrebbe dovuto occuparsi del fascicolo sul crollo della cabina della funivia per cui il 23 maggio sono morte quattordici persone. Durante il Consiglio giudiziario ha parlato anche il procuratore generale Francesco Enrico Saluzzo; ha chiarito, leggendo una comunicazione che ha trasmesso al CSM, che nella mail da lui inviata al presidente del Tribunale di Verbania tre giorni prima che il fascicolo venisse sottratto alla giudice non ha solo chiesto informazioni sull’esistenza e la portata di presunte minacce al gip di Verbania, ma ha anche espresso sconcerto per quanto appreso relativamente allo scontro tra Procura e la gip e ha condiviso l’auspicio che il contrasto potesse rientrare nell’alveo della fisiologia dei rapporti tra gip e pm. «Il fascicolo non mi poteva essere tolto, credo che questo sia pacifico», ha affermato all’Ansa Banci Buonamici, che ha rotto così il silenzio delle ultime settimane per rilasciare quella che ha definito una «dichiarazione in autotutela». Ha poi aggiunto: «È falso e infamante che mi si dica che non potevo fare il gip. Io potevo e dovevo farlo», ha detto, spiegando che quella di Verbania «è una sezione promiscua, non c’è distinzione tra gip e dibattimento, tant’é che al sabato facciamo turno unico». Il magistrato ha poi spiegato la dinamica dei fatti: «Avevo tre persone in custodia cautelare da quasi 48 ore, il fascicolo è arrivato alle 6 di sera, ho deciso di assegnare a me il fascicolo per fare un adempimento assolutamente urgente, il tempo a disposizione era pochissimo» aggiungendo che, quasi a difendere la sua professionalità, «a Milano ho fatto il gip 13 anni, occupandomi di tutto. Ero assolutamente molto qualificata per fare quel fermo. Tutto il resto, su cui ho deposto la scorsa settimana, si vedrà; quello che mi preme è affermare che io potevo e dovevo fare il gip: ero l’unica in ufficio». Ha concluso dicendosi «fiduciosa» che il Csm le renderà giustizia.

Angela Stella

«Ho giudicato 70 fascicoli: eppure mi è stato tolto solo quello della funivia…» ESCLUSIVO, LA GIP GARANTISTA DI VERBANIA PARLA AL “DUBBIO”. Simona Musco su Il Dubbio l'1 luglio 2021. «Da quattro mesi l’ufficio gip/ gup è in sofferenza. Non c’è niente di anomalo nel fatto che io mi sia autoassegnata quel fascicolo, prassi sempre condivisa e mai contestata. In questi mesi sono stati almeno 70 i fascicoli dei quali mi sono occupata con questa modalità, ma l’unico per il quale sono stata contestata è quello della tragedia della funivia». A dirlo, al Dubbio, è Donatella Banci Buonamici, la giudice che il 30 maggio scorso ha deciso di scarcerare due degli indagati per la tragedia e di mandare il terzo ai domiciliari, contestando fortemente le indagini condotte dalla procura di Verbania. Una scelta che fece gridare allo scandalo e alla quale, una settimana dopo, seguì la sostituzione della giudice da parte del presidente del Tribunale Luigi Montefusco, proprio nel giorno in cui la stessa avrebbe dovuto decidere sulla richiesta di incidente probatorio depositata il 3 giugno da Marcello Perillo, avvocato di Gabriele Tadini, il capo servizio della funivia ora ai domiciliari. «Mi sono assegnata 70 fascicoli Perché ne contestano solo uno?» «Da quattro mesi l’ufficio gip/ gup è in sofferenza. Non c’è niente di anomalo nel fatto che io mi sia autoassegnata quel fascicolo, prassi sempre condivisa e mai contestata. In questi mesi sono stati almeno 70 i fascicoli dei quali mi sono occupata con questa modalità, ma l’unico per il quale sono stata contestata è quello della tragedia della funivia». A dirlo, al Dubbio, è Donatella Banci Buonamici, la giudice che il 30 maggio scorso ha deciso di scarcerare due degli indagati per la tragedia e di mandare il terzo ai domiciliari. Una scelta che fece gridare allo scandalo e alla quale, una settimana dopo, seguì la sostituzione della giudice da parte del presidente del Tribunale Luigi Montefusco, proprio nel giorno in cui la stessa avrebbe dovuto decidere sulla richiesta di incidente probatorio, depositata il 3 giugno, da Marcello Perillo, avvocato di Gabriele Tadini, il capo servizio della funivia ora ai domiciliari.

LA SOSTITUZIONE DELLA GIP

Il fascicolo, dunque, è passato alla giudice Elena Ceriotti, «titolare per tabella del ruolo» ed esonerata a febbraio scorso da Banci Buonamici dalle funzioni di gip per la «grave situazione di sofferenza» del suo ufficio, esonero valido fino al 31 maggio. Era stata la stessa Banci Buonamici ad assegnarsi il fascicolo, che sarebbe toccato, invece, alla collega Annalisa Palomba, «contestualmente impegnata in udienza dibattimentale». In casi del genere, scriveva infatti Banci Buonamici, «le funzioni di gip, dal 1.1.2021, sono state esercitate da questo presidente». La scelta, all’epoca, era stata condivisa proprio con Montefusco. Ma la sostituzione ha fatto piombare pesanti sospetti sul tribunale di Verbania, anche a seguito delle indiscrezioni giornalistiche secondo le quali a spingere il presidente a sostituire la gip sarebbe stata una mail del procuratore generale di Torino, Francesco Enrico Saluzzo, circostanza smentita categoricamente dallo stesso pg. La vicenda, nei giorni scorsi, è finita davanti al Consiglio giudiziario di Torino, che ha trasmesso parere negativo su quella sostituzione. Ma quanto trapelato dalle stanze chiuse dell’assise ha lasciato più di un dubbio. Se, infatti, in un primo momento, Saluzzo aveva sottolineato con forza di essersi interessato esclusivamente alle minacce ricevute da Banci Buonamici, in qualità di titolare delle iniziative in materia di sicurezza personale dei magistrati, nel corso della seduta ha affermato che nella mail inviata a Montefusco avrebbe anche espresso sconcerto per il contrasto tra pm e gip, auspicando un ritorno nell’alveo della fisiologia dei rapporti tra pm e giudice.

UFFICIO IN SOFFERENZA

Il clima a Verbania è teso, dicono gli addetti ai lavori. Ma per chi, come Banci Buonamici, è costretta a fare i conti con i numeri, la tensione è l’ultimo dei problemi. «Se mi trovo con le spalle al muro lo sfondo e trovo un passaggio», dice ironicamente, apparendo completamente distante dalla descrizione di donna «glaciale» attribuitale dalla stampa. In tribunale, spiega la giudice, «la situazione era critica, in quanto con l’esonero della collega ci trovavamo con una scopertura del 50% dei gip. Era evidente che ne dovevamo recuperare un altro. È vero che io ho individuato il secondo gip nella dottoressa Palomba – spiega -, alla quale vanno i miei ringraziamenti, come alle altre colleghe della sezione. Ma lei non è mai stata esonerata un solo giorno dal ruolo dibattimentale ed è evidente che, soprattutto le urgenze gip, devono essere conciliate con la gestione di un pesante ruolo dibattimentale». Negli ultimi quattro mesi, dunque, Banci Buonamici e Beatrice Alesci, altra giudice della sezione, hanno seguito quanti più fascicoli possibile per affiancare Palomba, «che stava lavorando per due persone». Quello della tragedia del Mottarone è arrivato sulla sua scrivania alle 18, ovvero quando Palomba, al termine delle udienze, aveva già lasciato il Tribunale. «Il lunedì successivo sarebbe stata in ferie – spiega Banci Buonamici – e come da prassi, approvata nelle riunioni di sezione e conosciuta dal presidente del Tribunale, quando la collega va in ferie il lunedì i turni del sabato e della domenica vengono assegnati ad altri. Anche in ragione di quello ho dovuto fare i conti con le persone a disposizione: Antonietta Sacco è un mot, e come tale non può svolgere il ruolo di gip, Alesci aveva udienza il giorno successivo, Rosa Maria Fornelli è il gup. Mi sono consultata in diretta con il presidente del Tribunale e ho deciso di assegnare a me il fascicolo». Anche perché Palomba ha un ruolo dibattimentale pesantissimo, fatto di circa 400 sentenze l’anno. «Dal primo di gennaio abbiamo dovuto far fronte a questa situazione, di cui mi sono assunta la responsabilità, assegnandomi la maggior parte del carico di lavoro per sgravare i colleghi, cosa che ho detto al Consiglio giudiziario. È stata la regola per quattro mesi. Avrebbero dovuto protestare il giorno stesso in cui mi sono assegnata quel fascicolo, invece andava bene a tutti – prosegue -. Ci siamo sempre reciprocamente aiutati, ma prima di ora nessuno ha avuto nulla da contestare. C’è un ruolo arretrato dal 2017, ho lavorato per quattro mesi 10 ore al giorno. E nemmeno la procura, a cui le tabelle sono note, ha mai avuto nulla da ridire». Ma non solo: dal provvedimento di non convalida alla contestazione sul suo operato sono passati sette giorni senza che nessuno, tra procura della Repubblica, procura generale, Tribunale e avvocati, protestasse. Chi ha sollevato, dunque, il problema? Quanto riferito da Banci Buonamici in Consiglio giudiziario è secretato e la stessa non vuole scendere nei dettagli. Ma nella mail del pg Saluzzo, letta dal pg in Consiglio giudiziario su richiesta di Banci Buonamici, «vengono espresse critiche sul mio operato», sottolinea. Saluzzo, nel corso di diverse uscite pubbliche, ha più volte evidenziato di non aver alcun potere di intervento sul presidente del Tribunale né alcun interesse a farlo. Ma ciò che sarebbe stato contestato alla gip è l’atteggiamento «duro», tenuto nel corso dell’udienza di convalida nei confronti del pm, comprese le critiche mosse all’impostazione delle indagini. «Nella mail erano contenute segnalazioni di comportamenti asseritamente scorretti che io avrei tenuto in udienza di convalida – sottolinea la giudice -. Comportamenti che io nego categoricamente. La discussione sarà stata anche accesa, ma sono dinamiche processuali davvero molto frequenti. Ho sempre avuto un ottimo rapporto con la dottoressa Olimpia Bossi (procuratrice di Verbania, ndr), per quattro anni abbiamo collaborato in tranquillità, non avevo alcun pregiudizio. Certamente ero molto critica nei confronti delle indagini, ma l’ho scritto nel mio provvedimento. Se questo non va bene ci sono gli strumenti processuali appositi per contestarlo, ma mi sembra che contro la non convalida non sia stato fatto alcun ricorso in Cassazione. Io 96 ore in carcere non le auguro a nessuno. Prima di fermare una persona ho imparato che ci si deve pensare bene».

IL CONSIGLIO GIUDIZIARIO

A far discutere è anche la scelta di Saluzzo di intervenire e votare nel corso della riunione del Consiglio giudiziario di Torino. E ciò in quanto parte in causa, date le polemiche sul contenuto della sua mail. Secondo l’articolo 15 del regolamento del Consiglio giudiziario di Torino, infatti, «i componenti che dichiarano di astenersi dalla trattazione di un argomento per ragioni di incompatibilità od opportunità non partecipano alla discussione ed alla votazione e devono allontanarsi dalla sala di riunione». Il Consiglio ha espresso parere negativo sulla sostituzione della giudice, ma nel corso della riunione lo stesso pg ha chiesto una rettifica al parere, ottenendo all’unanimità un’integrazione: la legittimità, in capo al presidente del Tribunale, di sostituire la giudice. E se errore c’è stato, secondo Saluzzo, lo stesso starebbe nella scelta della sostituta: la titolare naturale del fascicolo sarebbe stata, infatti, Palomba e non Ceriotti. Ora la palla passa al Csm, mentre a Verbania si attendono ancora i commissari inviati dalla ministra Marta Cartabia. Intanto il presidente della Camera penale, Gabriele Pipicelli, chiede a Saluzzo di rendere pubblica la mail: «Se la missiva è semplicemente quella di cui parla il pg, la metta a disposizione di tutti i giornalisti e chiudiamo la faccenda. Vogliamo solo fare chiarezza».

Funivia del Mottarone, silurata Donatella Banci Buonamici la Gip che aveva scarcerato. Angela Stella su Il Riformista l'8 Giugno 2021. Non sarà il gip di Verbania Donatella Banci Buonamici, che ha scarcerato i tre indagati per la tragedia della funivia del Mottarone, a dover decidere sull’incidente probatorio chiesto dalla difesa di Gabriele Tadini, il capo servizio della funivia ora ai domiciliari, ma il giudice Elena Ceriotti, “titolare per tabella del ruolo”. Lo ha deciso ieri il presidente del tribunale di Verbania, Luigi Montefusco. La gip Banci Buonamici, nella sua funzione di “supplente”, ha deciso giustamente sui fermi dei tre indagati per omicidio colposo plurimo – sono 14 le vittime di domenica 23 maggio -, ma non può decidere sull’incidente probatorio «rilevato – si legge nella nota del presidente del tribunale di Verbania – che il 31 maggio 2021 è cessato l’esonero dalle funzioni di gip di Elena Ceriotti, titolare per tabella del ruolo». Dunque sulla richiesta di incidente probatorio sulla fune e sul sistema frenante della cabina presentata il 3 giugno scorso dall’avvocato Marcello Perillo, difensore di Tadini, si dovrà esprimere il gip Ceriotti. Proprio Perillo ci dice: «Prendo atto di questa decisione ma registro che non si è mai visto un provvedimento del genere. È la prima volta che non per un valido impedimento ma per un problema tabellare sia sostituito un giudice di un procedimento in corso». Lo stesso pensiero ci viene confermato dall’avvocato Alberto De Sanctis, presidente della Camera penale del Piemonte occidentale: «È singolare il provvedimento del Presidente del Tribunale. Mai viene riassegnato ad altro Gip un fascicolo in fase di indagini, salvo in casi di impossibilità a svolgere le funzioni (per esempio: maternità o trasferimento ad altro ufficio). È doppiamente singolare che accada in un piccolo Tribunale in cui il vero problema dovrebbe essere quello di evitare l’incompatibilità tra gip e gup. Non “bruci” due gip perché avresti problemi a trovarne il terzo per celebrare l’udienza preliminare. È ancora più incredibile che questo avvenga d’urgenza così di fatto da impedire al gip originario di decidere su una richiesta di incidente probatorio formulata dalla difesa». E conclude: «Queste inspiegabili decisioni rischiano di minare la credibilità della magistratura così come percepita dai cittadini. Proprio non ne avevamo bisogno in questo momento storico. Spero che qualcuno all’interno della magistratura e dell’Anm se ne accorga così da tutelare l’indipendenza e la terzietà del Giudice». Si tratta di «provvedimento anomalo» anche per l’avvocato Pasquale Pantano, legale di Luigi Nerini, il titolare della Ferrovia del Mottarone, che aggiunge: «Non è mai capitato che durante una partita venga cambiato l’arbitro nonostante tutti riconoscano abbia operato bene». Qualche dubbio sorge se pensiamo a quanto accaduto nei giorni precedenti: a seguito delle scarcerazioni decise dal gip Banci Buonamici, secondo la quale il fermo era «stato eseguito al di fuori dei casi previsti dalla legge» e per questo non poteva essere convalidato, la Procuratrice Olimpia Bossi si era lasciata andare a dichiarazioni sorprendenti come «Prendevamo insieme il caffè (riferita alla gip, ndr), per un po’ lo berrò da sola». Se la pm si era sentita quasi offesa dal tradimento della collega, quest’ultima invece con determinazione aveva replicato ai cronisti: «Il pm fa il suo lavoro bene e io faccio il mio lavoro credo altrettanto onestamente. È il sistema, dovreste ringraziare che il sistema è così, dovete essere felici di vivere in uno Stato dove il sistema fa giustizia o è una garanzia e invece sembra che non siate felici. Perché non siete felici? L’Italia è un Paese democratico». Per il Tribunale di Verbania invece tutto regolare, nessuno scandalo. Sotto la lente del presidente del tribunale è finita proprio la decisione della Banci Buonamici di autoassegnarsi il fascicolo sull’incidente della funivia del Mottarone che doveva essere assegnato al giudice Annalisa Palomba «impegnata in udienza dibattimentale», come emerge in un documento a firma Banci Buonamici. Se l’udienza di convalida non è in discussione, il presidente del tribunale ha ricordato che il gip supplente «non deve, per un’equa e coerente distribuzione del lavoro, accollarsi, sino alla definizione del procedimento, affari per tabella non spettantigli». Rientrato il giudice titolare ora è tutto nelle mani di Elena Ceriotti, e sarà lei a decidere sull’incidente probatorio e su eventuali altre questioni. Il provvedimento di esonero, su richiesta del presidente del tribunale di Verbania, viene trasmesso alle parti interessate e «per le valutazioni di competenza al consiglio giudiziario presso la corte d’appello di Torino», oltre che al presidente della corte d’appello e al procuratore generale sempre di Torino. Intanto la Procura della Repubblica di Verbania ha chiesto al Tribunale del Riesame di annullare il provvedimento con cui il gip Donatella Banci Buonamici lo scorso 29 maggio aveva rigettato la richiesta di misura cautelare per Luigi Nerini, il titolare della Ferrovia del Mottarone, e per Enrico Perocchio, l’ingegnere direttore di esercizio. Angela Stella

Funivia Stresa Mottarone, vincono forca e piazza. Quel terribile sospetto sulla cacciata della gip: il solito vizio italiano? Libero Quotidiano l'08 giugno 2021. “Chi vince, la legge o la piazza? A quanto pare, neanche la strage del Mottarone avrà un destino giudiziario lineare”. Lo scrive Il Giornale in relazione agli ultimi sviluppi che hanno destato grande clamore: la gip Donatella Banci Buonamici, che con un provvedimento garantista aveva giustamente scarcerato i tre indagati per mancanza di esigenze cautelari, è stata privata del fascicolo, che è stato assegnato a una collega, Elena Ceriotti, che la stessa Buonamici aveva sospeso per i gravi ritardi nello smaltimento dei carichi di lavoro. E guarda caso come le carte sono passate di mano la Procura è tornata all’assalto, richiedendo immediatamente l’annullamento dell’ordinanza di rigetto nei confronti di Nerini e Perocchio. Il loro, insieme a quello di Tadini, era un arresto eseguito fuori dai casi previsti dalla legge e quindi non poteva essere convalidato: lo aveva scritto la gip il 30 maggio. Poi però la Buonamici è stata “silurata” dal presidente del tribunale di Verbania, Luigi Montefusco. Una decisione inappuntabile dal punto di vista formale, dato che la Buonamici, che è presidente di sezione e coordinatrice dell’area penale, si era occupata del fermo dei tre indagati in quanto esercitava la funzione di ‘supplente’: non vale la norma secondo cui la competenza resta del primo gip che ha adottato un atto del procedimento anche per tutti gli atti successivi. “Cosa devono pensare i tre indagati riguardo alle garanzie di un’indagine nella quale viene sostituito all’improvviso l'arbitro? Cosa ne è della terzietà del giudice rispetto al pubblico ministero, che con l’esclusione della Buonamici incassa un clamoroso punto a favore, tanto da chiedere l’annullamento della sua ordinanza?”, sono gli interrogativi posti da Il Giornale. Secondo cui questa “guerra tra toghe” che si sta consumando a Verbania “mette in gioco la civiltà giuridica del paese”. 

Gip rimossa, scoppia la protesta dei penalisti: “Fatto senza precedenti”. Angela Stella su Il Riformista il 9 Giugno 2021. «Riparta da Verbania la battaglia politica per l’approvazione della proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per la separazione delle carriere, firmata da 75mila cittadini e pendente in Parlamento». Questo il senso della delibera della giunta dell’Unione delle Camere Penali approvata ieri a seguito della revoca del fascicolo al giudice Banci Buonamici, che aveva scarcerato (due a piede libero, uno ai domiciliari) i tre indagati per la tragedia della funivia del Mottarone. Ora è tutto in mano al giudice Elena Ceriotti, “titolare per tabella del ruolo”, come deciso dal presidente del tribunale di Verbania, Luigi Montefusco. La vicenda ha messo in agitazione i penalisti a livello locale e nazionale che, fatta chiarezza sull’accaduto, hanno deciso di mobilitarsi in massa. La Camera Penale di Verbania ha proclamato infatti per il 22 giugno lo stato di agitazione e un giorno di astensione dall’attività di udienza e giudiziaria. «Il solo sospetto che la riassegnazione del fascicolo possa essere conseguenza di insistenze provenienti da una parte del procedimento costituisce un inaccettabile vulnus alla serenità della giurisdizione, di cui deve essere espressione l’assoluta indipendenza del giudice», scrive il presidente della Camera Penale, Gabriele Pipicelli, che chiede un «immediato approfondimento di Csm e Ministero della Giustizia». E aggiunge importanti dettagli riguardo la riassegnazione: «ad oggi non risulta che tutti i procedimenti assegnati ai vari giudici in sostituzione della dottoressa Ceriotti siano alla stessa stati riassegnati». Inoltre, «al momento della “sospensione” dalle funzioni di Gip della dottoressa Ceriotti» per smaltire dell’arretrato «era stato condiviso con la Camera penale di Verbania il principio per cui l’assegnatario di fascicoli destinati alla Ceriotti li portasse a conclusione». E allora perché togliere quello sulla tragedia del Mottarone alla Banci Buonamici? Per ora quest’ultima non parla, aggiunge solo che «parlerò nelle sedi istituzionali». Ad aderire all’astensione dei penalisti di Verbania saranno tutte le Camere penali del Piemonte che in una nota fanno notare «che mai si è visto il Presidente di un Tribunale riassegnare il procedimento al GIP che avrebbe dovuto averlo in carico secondo un’originaria tabella disattesa per un legittimo impedimento dello stesso giudice; e che, come sempre accade, il GIP dell’udienza di convalida del fermo o dell’arresto continua ad esercitare le stesse funzioni fino alla conclusione delle indagini preliminari». La giudice Donatella Banci Buonamici si era autoassegnata l’udienza di convalida dei fermi nell’inchiesta sulla sciagura del Mottarone ma dopo aver «sentito il Presidente del Tribunale», come leggiamo nel provvedimento che abbiamo avuto modo di visionare. Dato tutto questo quadro, a sostenere l’iniziativa degli avvocati piemontesi c’è l’Ucpi che ha diramato un durissimo comunicato: «Il Re, dunque, è nudo, e se in questo Paese fosse ancora necessario avere conferma della improcrastinabile necessità di operare, da subito, per una riforma costituzionale che separi le carriere tra magistratura inquirente e magistratura giudicante, la clamorosa vicenda di Verbania ha assolto definitivamente questo compito». Mentre infatti, prosegue la giunta presieduta dall’avvocato Gian Domenico Caiazza, «risulta da nessuno smentita la notizia, ripetutamente diffusa dai media pubblici e privati, di un diretto intervento del Procuratore Generale di Torino sul Presidente del Tribunale di Verbania per la rimozione da quella inchiesta di un Giudice coraggiosamente indipendente dall’Ufficio di Procura come la dott.ssa Banci Buonamici, siamo assolutamente persuasi che, in ogni caso, quella notizia sia purtroppo straordinariamente verosimile». In conclusione «un Paese nel quale può accadere ciò che accade a Verbania, e cioè che un Giudice che adotta decisioni sgradite all’Accusa venga bruscamente eliminato dallo scenario processuale, è un Paese che calpesta la Costituzione, con una protervia ed un sentimento di impunità che lascia sbalorditi. Invitiamo il Governo, la Ministra Cartabia e tutti i Parlamentari che abbiano a cuore i valori costituzionali del giusto processo, ad acquisire definitiva consapevolezza di questa allarmante emergenza, e dunque a rilanciare il percorso della proposta di legge di iniziativa popolare dell’UCPI, firmata da 75mila cittadini e attualmente ferma avanti la Commissione Affari Costituzionali della Camera. Quella è la strada maestra, senza -occorre dirlo con molta chiarezza- illusorie scorciatoie referendarie». Sul fronte politico, quello che in primis dovrebbe smuovere le acque per discutere in Parlamento della proposta di legge dell’Ucpi, tutto tace. Fa eccezione il deputato e capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia, Pierantonio Zanettin che ha presentato «un’interrogazione al ministro della Giustizia per chiedere di disporre un’ispezione ministeriale finalizzata a verificare la legittimità del provvedimento con il quale il Presidente del Tribunale di Verbania ha disposto questo inconsueto avvicendamento dei Gip». Sarcastico invece il commento dell’onorevole di Azione Enrico Costa: «Alla Gip di Verbania che ha osato rigettare le richieste del PM è stato tolto il fascicolo d’inchiesta. Bisogna rispettare il “ruolo”, è la spiegazione offerta. Il “ruolo” del Gip è infatti – statisticamente- quello di mero esecutore delle richieste dei PM». Angela Stella

Dopo la sostituzione del Gip del caso Mottarone. Funivia del Mottarone, i penalisti napoletani in campo: “Non trionfi il giustizialismo”. Francesca Sabella su Il Riformista il 10 Giugno 2021. «La Camera Penale di Napoli, nell’accogliere con convinzione l’invito rivolto dall’Unione delle Camere Penali Italiane (Ucpi) esprime incondizionato sostegno ai penalisti di Verbania e del Piemonte Occidentale che hanno proclamato l’astensione dalle udienze a seguito dell’inopinata decisione del presidente del Tribunale di Verbania di revocare l’assegnazione del fascicolo relativo alla tragedia della funivia Mottarone alla dottoressa Banci Buonamici». I penalisti napoletani si schierano dopo gli ultimi sviluppi della tragica vicenda della funivia piemontese: al gip che aveva chiesto la scarcerazione per due dei tre indagati è stato tolto il fascicolo, poi affidato a un altro che ha subito chiesto l’annullamento di quel provvedimento. Il giudice ha solo applicato la legge, ma evidentemente, in Italia, ciò non è abbastanza e la rabbia dell’opinione pubblica giustizialista conta più della Costituzione. «La vicenda di Verbania costituisce l’ennesima riprova della necessità di procedere alla separazione delle carriere tra magistratura inquirente e magistratura giudicante – si legge nella nota ufficiale della Camera Penale di Napoli – È infatti evidente che la magistratura giudicante debole, impaurita e talvolta poco consapevole del fondamentale ruolo a essa demandato non è in grado di sottrarsi alle enormi pressioni provenienti dalle Procure (e dai mondi che le ruotano attorno, in primis l’informazione) e stia progressivamente smarrendo quei caratteri di terzietà e imparzialità che costituiscono l’essenza (e ancor prima la legittimazione) del giudicare». E questo rappresenta un pericolo gravissimo a Verbania come a Napoli: in gioco c’è la tenuta democratica del Paese.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

L'inchiesta su Mottarone. Funivia caduta, Di Matteo e Ardita pressano il Csm sulla gip rimossa: “Subito un’inchiesta”. Angela Stella su Il Riformista il 10 Giugno 2021. Arriva al Consiglio Superiore della Magistratura il caso della sostituzione in corso d’opera del giudice Donatella Banci Buonamici che si stava occupando dell’inchiesta sul Mottarone. I consiglieri togati Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo hanno chiesto infatti al Comitato di presidenza l’apertura di una pratica: «Apprendiamo dalla stampa che nel corso di un procedimento penale pendente presso il Tribunale di Verbania e nel cui ambito sono stati resi provvedimenti sulla libertà personale, il giudice costituito nella funzione di GIP sarebbe stato sostituito in corso di procedimento con provvedimento del presidente del Tribunale. Chiediamo che della questione venga investita con immediatezza la commissione competente e subito dopo l’assemblea plenaria affinchè si intervenga con massima tempestività per valutare la correttezza della decisione adottata e la sua eventuale incidenza sui principi in tema di precostituzione del giudice». Occorre agire subito per evitare che, tra sei mesi ad esempio, il Csm decida di intraprendere eventuali azioni disciplinari quando l’inchiesta è andata ormai avanti con un giudice che in teoria non se ne sarebbe dovuto occupare per una decisione errata del Presidente del Tribunale. Dunque, due pubblici ministeri stanno ricordando che nella cultura della giurisdizione liberale di un Paese democratico ciò che è intoccabile è il giudizio del giudice e un pm non può divenire l’elemento dominante dell’attività investigativa. Per questo la necessità di fare chiarezza, soprattutto in questo momento di grave crisi di credibilità della magistratura, sul provvedimento del Presidente del Tribunale di Verbania. Anche alla luce di quanto denunciato dai penalisti per i quali «al momento della “sospensione” dalle funzioni di Gip della dottoressa Ceriotti» per smaltire dell’arretrato «era stato condiviso con la Camera penale di Verbania il principio per cui l’assegnatario di fascicoli destinati alla Ceriotti li portasse a conclusione». Così la preoccupazione sollevata dall’avvocatura, in particolare dall’Unione delle Camere Penali, che pure aveva richiesto un intervento del Csm e del Ministero della Giustizia tramite il presidente dei penalisti di Verbania Gabriele Pipicelli, sembra essere condivisa anche da parte della magistratura che intende fare luce su una vicenda apparentemente regolare dal punto di vista procedurale ma alquanto singolare, considerato che, come denunciato dalle Camere penali, una tale gestione di un fascicolo non avrebbe precedenti. Anche i togati di Magistratura indipendente – Loredana Micciché, Paola Maria Braggion, Antonio d’Amato e Maria Tiziana Balduini – si sono associati alle richieste di Ardita e Di Matteo chiedendo «che la commissione competente venga investita con urgenza della questione relativa alla correttezza della decisione adottata dal presidente del tribunale di Verbania incidente sui fondamentali principi di precostituzione del giudice». Strage del Mottarone, tolto il fascicolo al gip garantista Banci Buonamici: la Procura chiede di annullare le scarcerazioni

Intanto arriva la secca smentita del procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, alle ipotesi secondo cui avrebbe esercitato pressioni o interferenze per ottenere dal presidente del tribunale di Verbania la sostituzione del Gip assegnatario del fascicolo sul disastro della funivia del Mottarone: «Non ho alcun titolo per intervenire sugli uffici giudicanti, non ho la competenza e la attribuzione ordinamentale (che spetta al presidente della Corte d’Appello) e mantengo un ‘sacro’ rispetto nei confronti della magistratura giudicante e dei suoi appartenenti», pertanto «trovo gravemente offensivo (per non dire oltraggioso) ipotizzare che io o il procuratore della Repubblica (un magistrato tra i più corretti che io abbia conosciuto) abbiamo posto in essere ‘manovre’ occulte (poiché altro non potrebbero essere) per ottenere un risultato illecito. E per cosa? Perché un giudice ha seguito una ricostruzione ed una valutazione diversa rispetto a quella del pubblico ministero? Come se non accadesse ogni giorno nella normale dialettica delle parti nel processo. Sono previsti rimedi processuali appositi e ad essi già fatto ricorso il procuratore della Repubblica di Verbania». Ha proseguito sottolineando che «gli autori di queste affermazioni, false e ridicole, se ne assumeranno la responsabilità», aggiungendo, poi, altri due elementi. Il primo: «la decisione del presidente del Tribunale (che ho letto quando mi è stata recapitata perché il mio ufficio è in indirizzo) riguarda dinamiche interne a quell’ufficio giudicante e la sua aderenza alla organizzazione tabellare (cioè, predeterminata e rigida per dare attuazione ai principi costituzionali del "giudice naturale" e "precostituito") sarà valutata dal Consiglio giudiziario e dal Consiglio superiore della Magistratura». La seconda: di aver indirizzato una nota scritta al presidente del Tribunale «per avere informazioni in ordine all’esistenza, alla portata e allo ‘spessore’ delle asserite minacce o intimidazioni che sarebbero state rivolte alla dottoressa Banci Bonamici». «Essendo l’unico ed esclusivo titolare – conclude Saluzzo – delle iniziative in materia di sicurezza personale dei magistrati e delle sedi giudiziarie ho chiesto al presidente del Tribunale di Verbania di relazionare sul punto, al fine di mettermi in condizioni di fare, eventualmente, le mie richieste e le mie proposte al competente organismo della prefettura». Angela Stella

Valentina Errante per "Il Messaggero" il 10 giugno 2021. Si riunirà oggi il Comitato di presidenza del Csm e con ogni probabilità affiderà alla settima commissione l'esame sul caso Verbania. Ossia la decisione del presidente del Tribunale di assegnare a un altro gip, rispetto a quello che non aveva convalidato i fermi, la competenza sulla tragedia del Mottarone. La commissione aprirà una pratica e dovrà pronunciarsi su quello che in gergo si chiama provvedimento tabellare ossia il cambiamento del giudice competente. La decisione del presidente del Tribunale potrebbe anche essere annullata. L'ultima parola spetterà comunque al plenum. A sollevare la questione sono stati i consiglieri Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo, ai quali si sono poi uniti tutti i togati del gruppo di Magistratura indipendente. I magistrati, dopo le polemiche sulla scelta del presidente del Tribunale, hanno chiesto con urgenza l'apertura di una pratica per verificare la correttezza della decisione di sostituire in corsa il giudice che si stava occupando dell'inchiesta. E così Palazzo dei Marescialli gioca d'anticipo e in senso opposto rispetto al presidente del Tribunale Luigi Montefusco, che aveva messo sotto accusa il presidente del gip, mandando al consiglio giudiziario l'ordinanza che le toglieva il caso. Investire «con immediatezza la commissione competente e subito - si legge - dopo l'assemblea plenaria affinché si intervenga con massima tempestività per valutare la correttezza della decisione adottata e la sua eventuale incidenza sui principi in tema di precostituzione del giudice». Alla richiesta, formulata al comitato di presidenza del Csm da Ardita e Di Matteo, si sono associati i consiglieri Loredana Micciché, Paola Maria Braggion, Antonio d'Amato e Maria Tiziana Balduini. Il caso è scoppiato lunedì scorso, quando Luigi Montefusco, presidente del Tribunale di Verbania, ha riassegnato il fascicolo sull'incidente della funivia, nel quale hanno perso la vita 14 persone, al gip Elena Ceriotti, titolare per tabella del ruolo, rientrata in servizio il 31 maggio dopo la cessazione dell'esonero dalle funzioni. Il procedimento era intanto stato assunto dal presidente dell'ufficio gip, Donatella Banci Buonamici, come supplente per la convalida del fermo, che aveva disposto la scarcerazione di Luigi Nerini, ed Enrico Perocchio, disponendo i domiciliari per Gabriele Tadini. L'ordinanza, della quale ora si occuperà il Csm, ha suscitato molte polemiche e il sospetto negli avvocati che sia stata indotta dalle pressioni del procuratore Olimpia Bossi, che intanto ha impugnato davanti al Riesame la mancata convalida del fermo. Montefusco ha trasmesso la sua ordinanza con i rilievi a Banci Buonamici anche Presidente della Corte d'Appello, al Procuratore Generale e al Consiglio giudiziario di Torino, che formula i pareri sull'attività delle toghe, alla Procura e all'Ordine degli avvocati di Verbania. «Il giudice assegnatario del procedimento - si legge - si sarebbe dovuto individuare, in caso di assenza o impedimento del gip titolare, in via gradata tra gli altri giudici dell'ufficio, escludendo il presidente Donatella Banci Buonamici». E ancora: «Tale assegnazione, se giustificata per la convalida del fermo, non è conforme alle regole di distribuzione degli affari e ai criteri di sostituzione dei magistrati dell'ufficio gip-gup». Così se Montefusco aveva investito il consiglio giudiziario per «le valutazioni di competenza» nei confronti del capo dei gip, con l'ipotesi di trasmettere la questione al Csm, il Consiglio adesso potrebbe mettere sotto accusa proprio il presidente del Tribunale e annullare il provvedimento. Gli avvocati, intanto, stanno valutando se chiedere lo spostamento dell'inchiesta in un'altra sede per «legittima suspicione». Mentre la Camera penale di Verbania ha proclamato una giornata di astensione dalle udienze (il 22 giugno) alla quale si sono associati anche gli avvocati di Torino, Alessandria, Novara e Vercelli.

Tragedia del Mottarone, alla gip “titolare” torna solo il fascicolo funivia. Dopo la sostituzione della gip Donatella Banci Buonamici, rimpiazzata in corsa dal presidente del Tribunale di Verbania, i penalisti decidono di agire proclamando una giornata di astensione. Simona Musco su Il Dubbio il 9 giugno 2021. Il clima a Verbania è incandescente. E dopo la sostituzione della gip Donatella Banci Buonamici, rimpiazzata in corsa dal presidente del Tribunale Luigi Montefusco con la collega Elena Ceriotti nel caso della strage della funivia di Stresa-Mottarone, ora i penalisti decidono di agire, indicendo una giornata di astensione, prevista per il 22 giugno. Il dubbio, infatti, è che la gestione della vicenda rischi di minare la «serenità della giurisdizione», a causa di tutta una serie di elementi ancora poco chiari. Anche a causa del «presunto interessamento da parte della procura generale di Torino per verificare l’assegnazione del fascicolo», affermano i penalisti. La vicenda, dunque, da fatto giudiziario è diventato un vero e proprio caso. Condito dal circo mediatico che ha caratterizzato l’indagine sin dall’inizio e dalla querelle tra procura e gip in sede di udienza di convalida del fermo, quando la giudice ha cassato il provvedimento della procuratrice Olimpia Bossi bollando come «totalmente irrilevante» la ragione posta alla base del fermo: il «clamore internazionale» della vicenda. «Non ho niente da dire – ha commentato laconicamente Banci Buonamici -. Parlerò nelle sedi istituzionali». Montefusco, lunedì, ha inviato tutto il provvedimento, compreso il precedente decreto di esonero di Ceriotti, al Consiglio giudiziario presso la Corte d’appello di Torino e alla procura generale. Il presidente ha sottratto il fascicolo alla giudice proprio nel giorno in cui la stessa avrebbe dovuto decidere sulla richiesta di incidente probatorio depositata il 3 giugno da Marcello Perillo, avvocato di Gabriele Tadini, il capo servizio della funivia ora ai domiciliari. Richiesta alla quale si era opposta la procuratrice Bossi ma che, secondo indiscrezioni, la stessa gip aveva accolto, salvo vedersi rifiutare l’accettazione del provvedimento dalla cancelleria. Per Montefusco a dover gestire il fascicolo sarebbe Ceriotti, «titolare per tabella del ruolo» ed esonerata a febbraio scorso da Banci Buonamici dalle funzioni di gip per la «grave situazione di sofferenza» del suo ufficio, esonero valido fino al 31 maggio. Dopo quella data, la stessa era rimasta però fuori gioco, avendo chiesto un congedo ordinario conclusosi solo il 7 giugno, ovvero il giorno in cui Montefusco le ha attribuito il fascicolo. La richiesta di incidente probatorio, dunque, era finita in mano a Banci Buonamici, così come la replica della procura. L’errore, secondo il presidente del Tribunale, starebbe a monte: «In base alle tabelle il giudice assegnatario del procedimento si sarebbe dovuto individuare, in caso di assenza o impedimento del gip titolare, in via graduata tra i giudici Alesci, Palomba, Sacco e Michelucci, e non nella dottoressa Banci Buonamici». L’erede naturale sarebbe stata, dunque, Annalisa Palomba, «contestualmente impegnata in udienza dibattimentale». Ed in casi del genere, scriveva Banci Buonamici, «le funzioni di gip, dal 1.1.2021, sono state esercitate da questo presidente», così come stabilito assieme allo stesso Montefusco. «Il primo di febbraio – ha spiegato la giudice ad Azzurra Tv – ho esonerato la dottoressa Ceriotti e ho disposto che tutti i procedimenti venissero assegnati alla dottoressa Palomba, indicando me come sostituta in caso di suo impedimento. Quando è arrivato il fascicolo per la convalida, la dottoressa era impegnata nelle funzioni del Tribunale e l’ho sostituita. Un provvedimento avallato dal presidente del tribunale, controfirmato, già fatto per centinaia di processi». Una scelta, dunque, che sembra «contraddire le stesse determinazioni prese dalla presidente di sezione in uno con il presidente del Tribunale al momento dell’assegnazione del fascicolo e non contribuisce, per toni e contenuto, a definire con adeguata trasparenza la vicenda», secondo i penalisti di Verbania, guidati da Gabriele Pipicelli. Ma non solo: al momento della sospensione dalle funzioni di gip di Ceriotti, «era stato condiviso con la Camera penale il principio per cui l’assegnatario di fascicoli destinati» alla stessa «li portasse a conclusione». Tant’è che in nessun altro caso è stato preso un provvedimento simile a quello destinato a Banci Buonamici: «Ad oggi – affermano i penalisti – non risulta che tutti i procedimenti assegnati ai vari giudici in sostituzione della dottoressa Ceriotti siano alla stessa stati riassegnati e nel provvedimento del presidente del Tribunale non vi è menzione alcuna in merito». Un unicum, dunque, che secondo gli avvocati merita un approfondimento anche da parte del Csm e del ministero della Giustizia, per scacciare qualsiasi dubbio su possibili «insistenze provenienti da una parte del procedimento», situazione che rischierebbe di portare ad un’incompatibilità ambientale. Alla giornata di astensione organizzata dai penalisti di Verbania hanno aderito anche i colleghi di Novara, Piemonte occidentale e Valle d’Aosta, Vercelli e Alessandria, evidenziando rischi «di tenuta del sistema processuale» e lamentando «seri problemi di indipendenza, imparzialità e terzietà del giudice nei confronti della procura della Repubblica, requisiti imprescindibili che devono essere garantiti dal sistema processuale nella loro effettività e persino nella loro formalità, così come viene percepita all’esterno, e non affidati all’attitudine personale del singolo magistrato». Sulla vicenda ha chiesto chiarezza anche il deputato e capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia, Pierantonio Zanettin, che ha annunciato un’interrogazione alla ministra «per chiedere di disporre un’ispezione ministeriale finalizzata a verificare la legittimità del provvedimento». Ma c’è di più: subito dopo aver deciso di rimettere in libertà due dei tre indagati e di mandare il terzo ai domiciliari, Banci Buonamici è stata vittima di minacce e insulti online, attacchi ora oggetto di attenzione da parte della Procura generale della Corte d’Appello di Torino. L’iniziativa sarebbe finalizzata a valutare l’opportunità di stabilire misure di vigilanza a tutela della giudice. Minacce alle quali era stato lo stesso Montefusco a replicare, in difesa della collega. «Piena e convinta solidarietà per l’esemplare e doveroso impegno profuso in un atto d’ufficio al solo scopo di accertare la verità», aveva dichiarato, condannando la «gogna mediatica» subita dal gip.

S. Dim. per “La Verità” l'11 giugno 2021. Ha assunto ormai i contorni della polemica (politica) giudiziaria il provvedimento di sostituzione del giudice delle indagini preliminari che dovrà occuparsi della strage del Mottarone. Nei giorni scorsi, al posto del gip Donatella Banci Buonamici, è arrivata infatti, su disposizione del presidente del Tribunale di Verbania, Luigi Montefusco, la collega Elena Ceriotti, titolare per tabella del ruolo, rientrata in servizio il 31 maggio scorso - quindi otto giorni dopo il crollo della funivia, costato la vita a 14 persone - cessato l'esonero dalle funzioni. Un cambio in corsa irrituale, secondo diversi osservatori, dietro cui potrebbero celarsi guerre di potere sotterranee nel mondo della magistratura. Ieri, il comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura (composto dal vicepresidente David Ermini e dai vertici della Cassazione) ha deciso di aprire una pratica di «indagine» sul cambio accogliendo così le richieste dei consiglieri Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo, cui si è nel frattempo aggregato l'intero gruppo di Magistratura indipendente. Si tratta di un atto ispettivo che dovrà valutare la correttezza della decisione del presidente del Tribunale di Verbania anche e soprattutto alla luce delle indiscrezioni di stampa (respinte dai diretti interessati) riguardo a possibili pressioni esercitate dalla Procura per agevolare l'avvicendamento del gip Banci Buonamici, protagonista della clamorosa scarcerazione di due dei tre indagati (Luigi Nerini ed Enrico Perocchio) e l'applicazione degli arresti domiciliari, cui tuttora si trova, del terzo soggetto sott'inchiesta, Gabriele Tadini. Una sostituzione, insomma, da qualcuno interpretata come una sorta di «punizione» per le posizioni garantiste del primo giudice che avrebbero fatto crollare l'impostazione accusatoria dell'ufficio inquirente, particolarmente esposto dal punto di vista mediatico - in queste settimane - per la soluzione del caso. E non è forse un caso che il mondo giornalistico sia il campo di battaglia sui cui si sta combattendo il conflitto attorno ai due gip. La stessa richiesta di intervento, firmata da Ardita e Di Matteo, faceva esplicito riferimento alle notizie apprese dai quotidiani. Un classico cortocircuito tra informazione e giustizia. «Apprendiamo dalla stampa che nel corso di un procedimento penale pendente presso il Tribunale di Verbania e nel cui ambito sono stati resi provvedimenti sulla libertà personale, il giudice costituito nella funzione di gip sarebbe stato sostituito in corso di procedimento con provvedimento del presidente del Tribunale», avevano scritto i togati. «Chiediamo che della questione venga investita con immediatezza la commissione competente e subito dopo l'assemblea plenaria affinché si intervenga con massima tempestività per valutare la correttezza della decisione adottata e la sua eventuale incidenza sui principi in tema di precostituzione del giudice». E la commissione competente (la settima), come detto, se ne occuperà nei prossimi giorni. Per il 14 giugno, invece, la Procura di Verbania ha convocato le difese degli indagati e le parti lese (i familiari delle vittime e la zia del piccolo Eitan, il bambino di cinque anni tornato proprio ieri a casa) per il conferimento dell'incarico al perito - con contestuale nomina dei consulenti tecnici di parte - che dovrà effettuare «accertamenti tecnici irripetibili» su alcuni cellulari e sui pc sequestrati. In particolare, dovranno essere esaminati hard disk, chiavette usb, schede sd, disk drive e un registratore portatile Sony.

Funivia Stresa Mottarone, la gip cacciata? Interviene il Csm: cosa c'è dietro davvero alla guerra in magistratura. In che mani siamo...Alfredo Mantovano su Libero Quotidiano il 12 giugno 2021. Davanti a una tragedia che ha stroncato 14 vite è il caso di impegnare tempo e fatica in una questione in apparenza soltanto tecnica, quella dell'individuazione del Gip chiamato a seguire le indagini? È giusto che anche il Csm se ne interessi, come accade in queste ore? È che in un ordinamento che voglia definirsi civile le regole non sono un optional: se si va oltre la superficie, ciò che sembra formalismo è invece sostanza. In sintesi. Quando all'ufficio Gip del Tribunale di Verbania arriva il fascicolo per la strage del Mottarone, col fermo dei primi tre indagati, il magistrato che ne avrebbe la titolarità, la d.ssa Ceriotti, è stata già da febbraio, e fino al 31 maggio, esonerata dalle assegnazioni per via di un consistente arretrato da smaltire. Il giudice che dovrebbe sostituirla è impegnata in dibattimento, e per questo la presidente della sezione Gip d.ssa Banci Buonamici se lo autoassegna, con un decreto a propria firma, "sentito il presidente del Tribunale". Nel merito, come è noto, decide di non convalidare due fermi su tre, e pone ai domiciliari il terzo indagato, con seguito di polemiche e con annuncio di ricorso al riesame da parte della Procura. Il 3 giugno alcune difese depositano la richiesta di incidente probatorio: dovrebbe provvedere la stessa Gip che ha deciso sui fermi, e invece il 7 giugno il presidente del Tribunale riassegna il fascicolo alla d.ssa Ceriotti, motivando che il 31 maggio è terminato il periodo del suo esonero. Questo pasticcio verbano fa sorgere domande, che richiedono risposte celeri: al Gip esonerato per quattro mesi dalle nuove assegnazioni sono stati restituiti tutti i fascicoli che avrebbe dovuto ricevere nel quadrimestre? Dal decreto del 7 giugno parrebbe di no, perché ha riavuto in carico solo la vicenda della funivia: se così fosse, però, cadrebbe il passaggio saliente della motivazione (peraltro è prassi di tutti i Tribunali d'Italia che chi convalida i fermi o gli arresti poi resti titolare del procedimento). Quanto ha inciso l'intensa interlocuzione mediatica della Procuratrice della Repubblica? Quanto ha pesato l'imminenza della decisione sull'incidente probatorio, su cui la stessa Procura si è affrettata ad annunciare la propria contrarietà? Quanto ha influito lo sconcerto di (presunti) colpevoli scarcerati a poche ore dall'arresto? È solo una faccenda di forme e di cavilli? Proprio no! La Costituzione, all'art. 25, vieta di essere distolti dal "giudice naturale precostituito per legge": all'individuazione del "giudice naturale" provvedono le c.d. tabelle, cioè atti dei capi degli uffici giudiziari, resi pubblici a tutti, a cominciare dagli ordini degli avvocati, che stabiliscono con largo anticipo i criteri di assegnazione dei fascicoli. Lo scopo è che il giudice non venga scelto in relazione al singolo affare da trattare, ma che vi sia una preordinazione oggettiva. È una esigenza oggi ancora più fondata di quando furono approvati la Costituzione e il codice di procedura penale: la storia giudiziaria degli ultimi decenni ha conosciuto casi delicatissimi di individuazioni controverse di chi è stato chiamato a giudicare, sui quali la Cedu è più volte e anche di recente - intervenuta. Nel momento in cui, grazie a una parte della magistratura e all'assenza di riforme significative su di essa, non è infrequente che un imputato si chieda a quale corrente appartenga chi dovrà vagliare le accuse mosse nei suoi confronti, non è formalismo avere certezza su criteri predeterminati di assegnazione dei processi. Senza dire che la trattazione di un procedimento da parte di un giudice che per tabella non avrebbe dovuto seguirlo potrebbe provocare la nullità di tutti gli atti da lui compiuti. Quel che 14 vittime e i loro familiari attendono, insieme con una comunità nazionale fortemente colpita, è che i magistrati titolati del procedimento ricostruiscano il fatto e accertino le responsabilità. L'ultima cosa di cui hanno bisogno è che si giunga a un certo punto, e poi il processo retroceda al punto di partenza. La giustizia non è il gioco dell'oca.

Cartabia invia gli ispettori a Verbania, tutti gli occhi puntati sul caso della gip “garantista”. Non solo l'indagine ministeriale, il caso arriva davanti al Consiglio giudiziario di Torino: a giorni il parere da inviare a Palazzo dei Marescialli. Simona Musco su Il Dubbio il 17 giugno 2021. Non solo l’indagine ministeriale. La sostituzione della gip di Verbania Donatella Banci Buonamici, alla quale è stato sottratto il fascicolo sulla tragedia della funivia proprio nel giorno in cui avrebbe dovuto pronunciarsi sulla richiesta di incidente probatorio, ieri è arrivata in Consiglio giudiziario a Torino. La discussione, però, non è ancora terminata: il parere – che comprenderà anche la voce dell’avvocatura – verrà espresso nei prossimi giorni e poi inviato al Csm. «Il ministero della Giustizia – si legge in una nota di via Arenula – ha chiesto all’Ispettorato di procedere con accertamenti preliminari, a fronte delle notizie sulla sostituzione del giudice per le indagini preliminari». Al centro della discussione la decisione del presidente del Tribunale di Verbania, Luigi Maria Montefusco, di riassegnare il fascicolo a quella che sarebbe dovuta essere, sin dal principio, la giudice titolare, Elena Ceriotti, assente dal primo febbraio e rientrata in servizio proprio il 7 giugno, giorno in cui Banci Buonamici è stata sostituita. Una scelta che ha destato non poche perplessità, portando ad una mobilitazione dei penalisti e all’apertura di una pratica al Csm, per verificare se sia stato o meno legittimo il provvedimento preso dal presidente. Secondo la versione di Montefusco, a dover gestire il fascicolo sarebbe stata Ceriotti, «titolare per tabella del ruolo» ed esonerata a febbraio scorso da Banci Buonamici dalle funzioni di gip per la «grave situazione di sofferenza» del suo ufficio, esonero valido fino al 31 maggio. Dopo quella data, la stessa era rimasta però fuori gioco, avendo chiesto un congedo ordinario conclusosi solo il 7 giugno, ovvero il giorno in cui Montefusco le ha attribuito il fascicolo. La richiesta di incidente probatorio, dunque, era finita in mano a Banci Buonamici, così come la replica della procura. L’errore, secondo il presidente del Tribunale, starebbe a monte: «In base alle tabelle il giudice assegnatario del procedimento si sarebbe dovuto individuare, in caso di assenza o impedimento del gip titolare, in via graduata tra i giudici Alesci, Palomba, Sacco e Michelucci, e non nella dottoressa Banci Buonamici». L’erede naturale sarebbe stata, dunque, Annalisa Palomba, «contestualmente impegnata in udienza dibattimentale». Ed in casi del genere, scriveva Banci Buonamici, «le funzioni di gip, dal 1.1.2021, sono state esercitate da questo presidente», così come stabilito assieme allo stesso Montefusco. Una scelta, dunque, che sembra «contraddire le stesse determinazioni prese dalla presidente di sezione in uno con il presidente del Tribunale al momento dell’assegnazione del fascicolo e non contribuisce, per toni e contenuto, a definire con adeguata trasparenza la vicenda», secondo i penalisti di Verbania, guidati da Gabriele Pipicelli. Ciò che indigna i penalisti di Verbania – che hanno proclamato una giornata di astensione il 22 giugno – è il fatto che al momento della sospensione dalle funzioni di gip di Ceriotti, «era stato condiviso con la Camera penale il principio per cui l’assegnatario di fascicoli destinati» alla stessa «li portasse a conclusione». Tant’è che «ad oggi – affermano i penalisti – non risulta che tutti i procedimenti assegnati ai vari giudici in sostituzione della dottoressa Ceriotti siano alla stessa stati riassegnati e nel provvedimento del presidente del Tribunale non vi è menzione alcuna in merito». Ceriotti, nei giorni scorsi, ha però nuovamente scontentato la procura, accogliendo la richiesta di incidente probatorio avanzata da a Marcello Perillo, avvocato di Gabriele Tadini, il capo servizio della funivia ora ai domiciliari. Le polemiche, però, partono da lontano. Ovvero dalla scelta i Banci Buonamici di mandare ai domiciliari due degli indagati e ai domiciliari il terzo, con un’ordinanza che, di fatto, ha bollato come inconsistenti le motivazioni della procura: secondo Olimpia Bossi, procuratrice di Verbania, il pericolo di fuga dei tre sarebbe dipeso dal «clamore internazionale» della vicenda. Motivazione che non ha convinto la gip, che l’ha considerata «totalmente irrilevante». Da qui l’attacco a Banci Buonamici, vittima anche di minacce sul web, e l’epilogo del suo allontanamento. Secondo l’Unione delle Camere penali, «la gravità di quanto accaduto a Verbania deve essere denunziata da tutta l’Avvocatura e da tutti coloro che hanno a cuore il rispetto delle regole atte a garantire la terzietà del Giudice ed i diritti delle parti. È sempre più evidente – ha aggiunto l’Ucpi – che la unicità delle carriere dei magistrati del pubblico ministero e dei Giudici impedisce la piena realizzazione dei principi costituzionali del giusto processo ed in particolare della terzietà del giudice».

Via alle indagini del Ministero. Caso Mottarone, schiaffo di Cartabia ai Pm: ispettori a Verbania per vederci chiaro sulla gip rimossa. Paolo Comi su Il Riformista il 16 Giugno 2021. La ministra della Giustizia Marta Cartabia si è convinta ad inviare gli ispettori a Verbania, dove è avvenuta la clamorosa sostituzione del gip del Tribunale Donatella Banci Bonamici, che aveva scarcerato i tre indagati nell’ambito dell’inchiesta sulla tragedia del Mottarone, ma anche alla Procura di Milano. Meglio tardi che mai. La decisione della Guardasigilli, comunque, era nell’aria da giorni: troppe le condotte “irrituali” da parte dei pm milanesi nella conduzione delle indagini. La classica goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la “sottrazione”, nel processo Eni-Nigeria, di un video che dimostrava l’intento dell’ex manager Vincenzo Armanna di vendicarsi, presentando una denuncia per corruzione, contro i vertici del colosso petrolifero che l’avevano licenziato. Una “sottrazione” stigmatizzata dal collegio giudicante che aveva assolto tutti gli imputati e che aveva comportato l’iscrizione nel registro degli indagati per omissione e rifiuto di atti d’ufficio del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro, titolari del fascicolo. «Dopo la diffusione di notizie in merito all’iscrizione nel registro degli indagati di due pm della Procura di Milano e alla luce del deposito delle motivazioni della sentenza del Tribunale di Milano – hanno fatto sapere ieri da via Arenula – il Ministero ha chiesto all’Ispettorato di svolgere accertamenti preliminari, al fine di una corretta ricostruzione dei fatti, attraverso l’acquisizione degli atti necessari». La sentenza di assoluzione è stata acquisita dal procuratore di Brescia Francesco Prete che sta indagando sui colleghi milanesi. Il presidente del collegio Marco Tremolada, nel frattempo, ha prodotto una relazione in cui illustra il tentativo dei pm, definito “irrituale”, di introdurre nel processo la testimonianza di Piero Amara. L’ideatore del “Sistema Siracusa” e gola profonda delle nefandezze togate, interrogato dai pm milanesi aveva fatto cenno alla possibilità che le difese di Eni riuscissero ad avvicinare proprio il presidente Tremolada. Dichiarazioni che, in corso del dibattimento, erano state mandate a Brescia dal procuratore di Milano Francesco Greco. Il fascicolo era stato poi archiviato. Ma oltre a questo episodio ci sarebbero anche le clamorose rivelazioni del pm Paolo Storari che, dopo aver interrogato Amara con l’aggiunto Laura Pedio, era intenzionato a procedere nei suoi confronti ma venne subito stoppato. Una vicenda che ricorda, in fotocopia, quanto accaduto all’ex pm romano Stefano Rocco Fava. Anch’egli, come è stato più volte raccontato in queste settimane dal Riformista, voleva procedere nei confronti di Amara venendo puntualmente fermato dai suoi capi. La richiesta di arresto per Amara che Fava aveva predisposto non venne mai vistata dal procuratore Giuseppe Pignatone e dall’aggiunto Paolo Ielo i quali per tutta risposta gli tolsero il fascicolo. All’Ispettorato il compito di capire, allora, per quale motivo non fosse possibile “toccare” Amara, al quale in passato in altri procedimenti per reati gravissimi, come la corruzione in atti giudiziari, era stato “regalato” un patteggiamento a pochi anni di reclusione. Qualcuno aveva paura che Amara, in caso di arresto, potesse rivelare verità scomode? Ci sono magistrati che hanno avuto con lui rapporti ed “utilità” e per questo motivo dovevano essere ‘tutelati’? Un altro mistero che avvolge la Procura di Milano, infine, riguarda il fascicolo dove sono contenuti gli interrogatori di Amara sulla Loggia segreta denominata Ungheria. Un fascicolo del 2017 che, da quanto si è potuto apprendere, è ancora pendente nella fase delle indagini preliminari. Il fascicolo è assegnato alla Pedio, magistrata molto vicina a Greco. Perché questo fascicolo dopo quattro anni non viene chiuso? Cosa si sta aspettando? Non si escludono a questo punto sviluppi clamorosi, come il pensionamento prima del tempo dello stesso Greco. «Avevo presentato insieme Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia alla Camera, un’interrogazione al ministro Cartabia, affinché fossero accertate le eventuali responsabilità dei soggetti coinvolti in questi procedimenti. L’invio degli ispettori è una prima risposta alla nostra sollecitazione. Spero che venga fatta chiarezza nel più breve tempo possibile», è stato il commento dell’onorevole forzista Matilde Siracusano. E sempre da via Arenula hanno fatto sapere ieri di aver avviato un’inchiesta amministrativa sulla gestione del fascicolo riguardante l’incidente della funivia del Mottarone, in cui hanno perso la vita quattordici persone. In particolare, il Ministero ha chiesto all’Ispettorato di procedere con accertamenti preliminari per capire i motivi della sostituzione del gip del Tribunale di Verbania, Donatella Banci Bonamici, che aveva scarcerato i tre indagati nell’ambito dell’inchiesta sulla tragedia. Della questione si è occupato anche il Consiglio giudiziario di Torino, guidato dal presidente della Corte d’Appello del capoluogo piemontese Edoardo Barelli Innocenti. Gli avvocati, che hanno contestato la sostituzione del gip, hanno proclamato l’astensione dalle udienze per il 25 e 26 giugno. Paolo Comi

Il caso Verbania. Strage del Mottarone, cosi il Pg di Torino ha intimidito il presidente del tribunale per far rimuovere la gip garantista. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Giugno 2021. Le inchieste giudiziarie, di norma, hanno tre protagonisti: l’accusa, la difesa e il Gip (che è il giudice delle indagini preliminari). Il Gip dovrebbe essere imparziale, terzo, e cioè dovrebbe evitare che una delle due parti in conflitto soverchi l’altra aggirando le norme e le leggi. Domanda: che succede se il capo degli accusatori impone al capo dei giudici di sostituire un Gip perché sta sì rispettando la legge ma senza accogliere i desideri dell’accusa? Succede che la giustizia scompare. Diventa inquisizione. È vero che nella realtà della giustizia vissuta, quasi sempre il Gip esegue gli ordini del Pm. Che è un suo collega e spesso un suo amico. Raramente è davvero terzo. Ed è per questo che si chiede la separazione delle carriere: per dividerli. Però una cosa è l’usanza, degenerata, una cosa diversa è la spavalderia di una pressione esercitata in modo diretto e prepotente proprio contro uno dei pochi Gip che si è mostrato seriamente terzo. A Verbania, nonostante le smentite del procuratore generale di Torino, è successo esattamente questo. Una Gip era entrata in contrasto con il Pm, il Pm ha protestato, il Procuratore generale (cioè il capo dei Pm di tutto il Piemonte) si è scagliato contro la Gip sgradita e ha quantomeno “suggerito” al presidente del Tribunale di sostituirla, Il presidente del Tribunale ha eseguito e la Gip, troppo rispettosa delle leggi, è stata rimossa. La vicenda la conoscete tutti, è quella dell’inchiesta sulla tragedia della funivia di Stresa, crollata nella valle con 15 persone a bordo, delle quali 14 sono morte. Cioè tutte tranne un bambinetto. È partita l’inchiesta, sotto una incredibile pressione popolare e di mass media: “prendete i responsabili, incarcerateli, puniteli in modo esemplare”, è stato il grido unanime. Tre persone sono state arrestate ma la Gip ha osservato che non c’erano i requisiti minimi che consentono l’arresto. Per almeno due di loro. Uno l’ha mandato libero, l’altro ai domiciliari. A questo punto si è scatenato l’inferno ed è intervenuto il Procuratore generale. Il quale nei giorni scorsi ha negato di avere chiesto la rimozione della Gip e ha sostenuto di essersi solo preoccupato della incolumità della giudice. Però il 22 giugno si è riunito il Consiglio Giudiziario del Piemonte (che è l’organo regionale di autogoverno dei magistrati, una specie di Csm territoriale), ha interrogato la Gip rimossa, Donatella Banci Buonamici, e ha esaminato le carte a disposizione. È saltata fuori la mail inviata dal procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, al presidente del Tribunale di Verbania, Luigi Montefusco, ed è una mail che inguaia il Pg. Risulta che quello che lui ha dichiarato quando si è diffusa la voce di un suo intervento non era la verità. Nella mail ci sono accuse pesanti verso la dottoressa Banci Buonamici, e la mail risulta palesemente come un pressante consiglio di sostituirla. Cosa che poi è avvenuta. Il presidente del Tribunale di Verbania, Montefusco, in realtà in un primo tempo aveva lodato il comportamento rigorosissimo della Gip. Poi aveva cambiato atteggiamento. Aveva chiamato la Gip per chiederle di trovare un modo per non concedere l’incidente probatorio chiesto dalla difesa, e poi in varie occasioni aveva fatto notare alla Gip che la sua carriera sarebbe stata danneggiata se si fosse messa di traverso. Questo cambio di atteggiamento è dipeso dall’intervento del Pg di Torino? Noi sappiamo con certezza che la Gip ha invece accolto la richiesta di incidente probatorio -respingendo le pressioni – ma questa richiesta è stata rifiutata dal cancelliere con una motivazione sorprendente: “Lei, dottoressa, è stata rimossa”. La Gip non era stata avvertita del provvedimento, gliel’ha detto il cancelliere. Ora tutto il materiale è stato trasferito al Csm, che dovrà esaminarlo e stabilire come procedere. Sicuramente a Verbania è stato leso l’equilibrio tra procura e tribunale, che è un cardine della Costituzione e dello stato di diritto. Il Csm potrà chiudere un occhio, come fa spesso, e dire che in fondo in quella richiesta non c’era violenza, e gettare ancora polvere e polvere e polvere e macerie sotto il tappeto? Difficile, stavolta. Il dottor Saluzzo, cioè il Pg di Torino, è un personaggio piuttosto noto. Spesso apprezzato. Ma anche molto criticato. Difese in modo impegnatissimo, ad esempio, la decisione della procura di Torino di arrestare Nicoletta Dosio, una donna di 73 anni condannata a un anno di prigione senza condizionale per avere partecipato a una manifestazione non violenta contro la Tav della val di Susa. Nicoletta passò mesi e mesi in carcere. E aveva creato polemiche anche con una presa di posizione di segno opposto, quando difese i migranti durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, lanciando il grido verso le istituzioni insensibili al fattore umano: “pietà l’è morta”. Difficile dire se Saluzzo è una toga di sinistra o di destra. Diciamo che è una toga convinta che la toga sia al di sopra di tutto, che un Pg possa permettersi di spedire una mail per intimidire un presidente del Tribunale, che la giustizia sia un affare dei Pm duri e puri e che bisogna tenere alla larga i garantisti, cioè quelli che mettono le regole e la legge al di sopra della necessità di fare prevalere l’accusa sulla difesa e il bene sul male. Non è in minoranza, Saluzzo, tra i suoi colleghi. Che in gran numero si oppongono al referendum sulla separazione delle carriere e sulla creazione di due distinti Csm. Si capisce.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il clamoroso caso Verbania. La giudice è brava e applica la legge con rigore? Niente paura, basta sostituirla. Piero Sansonetti su Il Riformista il 9 Giugno 2021. Provate a raccontare questa storia a un cittadino americano, o canadese, o svizzero, o giapponese. Ditegli che in Italia è successo questo: un procuratore entra in contrasto con un giudice che respinge alcune sue richieste e accoglie invece alcune richieste della difesa. Il Presidente del tribunale interviene e rimuove il giudice, sebbene risulti del tutto evidente che il giudice ha assunto fin qui decisioni ineccepibili dal punto di vista del Codice di procedura e della Costituzione, e che le richieste del Procuratore erano non accoglibili. Probabilmente il cittadino americano o canadese, o giapponese scoppierà a ridere. Non vi crederà. Forse vi conviene raccontare questa storia a un cittadino della Corea del Nord, o dell’Iran. Avete più speranze che vi dica: succedono anche da noi cose di questo genere. La vicenda della Giudice di Verbania, rimossa con una scusa burocratica, è agghiacciante. È il superamento di ogni “sfacciataggine” del ”Sistema”. Che non ha il pudore almeno di nascondere la sua arroganza. La mostra contento, ti ride in faccia. Ogni volta che denuncio la degenerazione della magistratura, e la sua prepotenza, e il disprezzo per lo Stato di diritto, mi sento dire (e solo dalle persone più ragionevoli): “Tu sbagli, fai di ogni erba un fascio. Il corpo grosso della magistratura è sano”. Già. Può darsi. Ma il corpo grosso della magistratura è imbrigliato in un sistema che non gli permette di esprimersi e di servire onestamente e con rigore la legge e il diritto. A me pare del tutto evidente che la dottoressa Banci Buonamici sia una ottima magistrata, che conosce le leggi, le sa applicare con saggezza e rigore, sa svolgere anche il suo ruolo che prevede la necessità di riequilibrio nel caso che il rappresentante dell’accusa sia troppo aggressivo. Ma la dottoressa Banci Buonamici è stata messa alla porta proprio per questa ragione: perché è una magistratura seria e onesta. Ci rendiamo conto? La maggior parte della magistratura è seria e onesta, io ci credo, ma voi vi dovete convincere che esiste una robusta e potentissima minoranza della magistratura che coltiva solo il proprio potere, se ne infischia della giustizia e delle sue regole, si fa beffe della ricerca della verità, ed è in grado di tenere sotto scacco la magistratura onesta. O si risolve questo problema, con un vero e proprio atto rivoluzionario che privi dell’immenso potere di cui gode la parte oscura della magistratura, oppure il Italia lo Stato di diritto assomiglierà sempre di più a quello venezuelano o a quello della Corea del Nord. Chi lo deve compiere questo atto rivoluzionario? C’è un solo soggetto autorizzato a farlo: il Parlamento. La politica. Vi ricordate ancora di quando la politica viveva di dignità e pensiero propri? Ieri la Procura generale della Cassazione ha chiesto al Csm di confermare la condanna di Luca Palamara. Cioè la sua cacciata dalla magistratura. Perché? Perché – dice l’accusa – ha tramato, ha condizionato o si è fatto condizionare dai politici, ha provato a ostacolare le carriere dei colleghi. Oddio: ma alla Procura generale della Cassazione l’hanno letto il libro di Palamara? Si son resi conto di quale palude fangosa sia il terreno nel quale le correnti della magistratura si davano e si danno battaglia e poi negoziano le carriere, i posti di potere, i rapporti di forza, e probabilmente anche le inchieste da fare o da insabbiare e le sentenze di condanna o di assoluzione? E si sono accorti che al processo del Csm contro Palamara non hanno potuto partecipare decine e decine di testimoni, per la semplice ragione che se quelle testimonianze fossero state ammesse poi sarebbe stato necessario cacciare dalla magistratura, eventualmente qualche centinaio di magistrati, in prevalenza Pm, che poi sono esattamente quelli che oggi rappresentano l’impalcatura del potere giudiziario? Nonostante il silenzio impressionante dei giornali (anche loro ispirati probabilmente dalle abitudini della Nord Corea più che del Venezuela, dove almeno una parvenza di stampa libera ancora esiste), una parte importante dell’opinione pubblica è stata informata di quel che sta succedendo, e di come ha funzionato negli ultimi decenni la magistratura. La fiducia popolare nelle Procure, che era altissima, ora è rasoterra. Chiunque può capire che dei provvedimenti vanno presi. Probabilmente il più urgente è la separazione netta tra Ordine dei Pm e Ordine dei giudici, cioè di un provvedimento che impedisca l’irruzione dei Pm nelle competenze della magistratura giudicante, come sembra essere successo a Verbania. E non solo a Verbania. Di solito questa irruzione avviene semplicemente attraverso la sottomissione del Gip, che copia e poi incolla i documenti firmati da Pm, senza osare obiezioni. Se la sottomissione non c’è scatta il metodo Verbania. Possibile che il Parlamento, e anche il Presidente della Repubblica, non si accorgano di questa situazione? E il governo? E la ministra? Oppure – come è probabile – se ne accorgono perfettamente ma non hanno la forza, o il coraggio, per intervenire.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Ecco perché il caso della funivia ha molto a che vedere con la difesa dell’appello penale. La “verità” rimane categoria divina, esclusa dalla fallibilità dell’essere umano. Il Dubbio l'8 giugno 2021. Cosa c’entra la difesa dell’appello con l’ennesimo caso che mette in luce l’anomalia dell’ordinamento giudiziario italiano (magistrati dell’accusa e del giudizio che partecipano carriere, sindacato, organo di promozione e disciplinari)? All’apparenza non c’entra nulla, a meno che non si voglia andare al fondo e comprendere. Chi non ne ha voglia si fermi qui. Come tutti intuiscono, i criteri in base ai quali un fascicolo è assegnato a un giudice (nota per gli stolti: giudice non pubblico ministero, che è cosa diversa) sono oggettivi e predeterminati. Se ciascuno potesse scegliere in base al proprio gradimento la donna o l’uomo che deciderà della sua libertà personale sarebbe alterata l’aspirazione di imparzialità che l’ordinamento giuridico deve assicurare. È il principio del giudice naturale precostituito per legge, previsto dalla Costituzione e attuato secondo criteri predefiniti in ogni ufficio giudiziario: le così dette tabelle o criteri tabellari. Quali che siano in ciascun ufficio, questi criteri consentono di distribuire gli affari senza tener conto dell’importanza del caso, della sua mediaticità, della rilevanza pubblica degli imputati ecc. Potremmo dire, semplificando, che è l’applicazione del principio “uno vale uno”, sebbene esistano metodi di compensazione “ponderale”, utilizzati in Cassazione ad esempio, con lo scopo di “pesare” il livello di difficoltà di ciascun affare (ciascuno comprende ad esempio che un processo come quello della funivia del Mottarone “vale”, per impegno, almeno dieci processi per colpa medica). Chiarito quindi che su basi oggettive e predeterminate un fascicolo arriva sulla scrivania di un giudice, e che quel giudice non può essere sostituito se non per evenienze eccezionali (maternità, trasferimento ecc.), cerchiamo di spiegare qual è il nesso con il giudizio di appello. Ci vuol poco a comprendere come l’esito di un processo oltre che dal diritto, dalla bravura o meno di chi accusa e di chi difende, dipenda dalla persona del giudice che decide. È l’adagio che molti conoscono: “un bravo avvocato conosce la legge, un ottimo avvocato conosce il giudice”. La regola nella pratica quotidiana orienta le strategie. Ad esempio: ci sono GIP con i quali si può chiedere il giudizio abbreviato, altri con i quali la scelta è “preclusa”. In somma: al di là delle “carte”, l’esito di un processo dipende dagli esseri umani che se ne occupano e dall’essere umano che lo decide. Per questa ragione, nei millenni, i sistemi processuali si sono evoluti per progressione di questioni risolte e questioni da risolvere nel merito (appello) e in diritto (cassazione). I Romani diffidavano finanche del “giudicato” (res iudicata pro veritate habetur) e infatti i sistemi giudiziari prevedono l’istituto della revisione nella consapevolezza che neppure il giudicato è certo (si pro veritate habetur non est veritas). Il broccardo consente di far luce su un altro fraintendimento: il processo non serve ad accertare la “verità”, ma a stabilire quale tra le due tesi a confronto (accusa e difesa) sia più credibile, salva la successiva verifica nel merito (appello) e in diritto (cassazione). La “verità” rimane categoria divina, esclusa dalla fallibilità dell’essere umano. Se così è, si comprendono allora molte cose. In primo luogo, si comprende come sia anomalo affidare la scelta della tesi più attendibile a un essere umano la cui carriera dipende dal medesimo ordine al quale appartiene l’essere umano che accusa. Si comprende poi come sia sommamente ingiusto precludere, limitare, ostacolare la verifica del primo accertamento e impedire l’accesso a una seconda verifica di merito da affidare a tre giudici anziché a uno, come si vorrebbe fare. Tutto questo non ha nulla a che vedere con la stupidaggine propinata circa la durata del processo. Ha a che vedere con l’essenza del diritto penale: chi è accusato dallo Stato è un presunto innocente e compete a chi lo accusa dimostrare il contrario. Competenza che richiede regole di imparzialità effettiva ma anche apparente (justice must not only be done; it must also be seen to be done), controlli a verifica della fallibilità umana; struggimenti dell’animo e notti insonni. Nulla che sia paragonabile allo spettacolo indecoroso al quale siamo quotidianamente costretti ad assistere con i processi di piazza in tv e sui giornali, con le lotte di potere per il carrierismo, con le beghe segrete per “fottere” questo o quell’imputato. Questo, al fondo, è il patto sociale. Chiamatelo garantismo, se volete. Ma risparmiateci la grancassa della speculazione politica e delle finte riforme, utili solo a sottrarre aria ai cittadini processati da altri cittadini. Il bene che è in gioco, la libertà, appartiene anche alle vittime del reato. Appartiene a tutti noi. Marco Siragusa. Direttivo Camera penale di Trapani.

Quei “no” dei giudici ai pm: storia (breve) di chi ha deciso di dire stop al copia e incolla. I casi di appiattimento sulle tesi dei pm superano in maniera esponenziale quelli in cui i giudici decidono di valutare autonomamente gli indizi a carico degli indagati. Simona Musco su Il Dubbio l'1 giugno 2021. Trovare un precedente è difficile. Di giudici che abbiano detto no ai magistrati che richiedevano misure cautelari, negli anni, se ne sono visti pochi o, comunque, in numero decisamente inferiore a quelli che, invece, spesso si sono limitati a fare copia e incolla delle richieste loro sottoposte, lasciando il compito di valutare le esigenze cautelari ad altri. E forse è proprio per questo che la decisione della giudice Donatella Banci Buonamici appare tanto clamorosa, nonostante si fondi su una scrupolosa analisi degli elementi allo stato raccolti dalla pubblica accusa. Una decisione che, ovviamente, non certifica l’innocenza di nessuno, ma ribadisce un principio: il carcere è e deve essere l’extrema ratio. Nell’ordinanza del gip di Verbania si parte da un presupposto: «Il fermo è stato eseguito fuori dai casi previsti dalla legge». E ciò in quanto «difettava il pericolo di fuga», che oltre che essere concreto deve essere anche attuale. Ma sul punto, nonostante la richiesta di far rimanere in carcere i tre indagati, «sono gli stessi pm che hanno operato il fermo a non indicare alcun elemento dal quale sia possibile evincere il pericolo di allontanamento dei tre indagati». Per la procura tutto si racchiude «nell’eccezionale clamore», nonché nella «elevatissima sanzione detentiva» che conseguirebbe all’eventuale accertamento delle responsabilità. Ma per il giudice il tutto appare «suggestivo» e «assolutamente non conferente», al punto da definire «di palese evidenza la totale irrilevanza» di tale condizione. Anzi: la confessione del principale indagato, Gabriele Tadini, e la disponibilità immediata degli altri due, Enrico Perocchio e Luigi Nerini, a riferire su quanto di loro conoscenza dimostrano, semmai, il contrario: quel pericolo di fuga non c’è e non è mai esistito. Tutto ciò che c’è a carico di questi ultimi, secondo il gip, è niente più che «suggestive supposizioni». E al momento della richiesta, «il già scarno quadro indiziario è stato ancor più indebolito», anche perché nessun vantaggio – men che meno economico – sarebbe venuto ai due dalla complicità nel lasciare i ceppi inseriti nel sistema frenante. A voler cercare qualche precedente, bisogna tornare a luglio del 2019, quando il gip di Agrigento Antonella Vella ha respinto la richiesta di convalida dell’arresto e la richiesta di applicazione della misura cautelare del divieto di dimora a carico di Carola Rackete, capitano della Sea Watch, rimasta quattro giorni ai domiciliari dopo l’attracco rocambolesco al porto di Lampedusa per far scendere a terra i migranti portati in salvo nel Mediterraneo. Secondo il giudice, Rackete non aveva commesso alcun reato, rispettando invece l’obbligo di legge di soccorrere persone in pericolo, adempiendo ad un dovere di soccorso che «non si esaurisce nella mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione fino al più volte citato porto sicuro». Fortemente critica era anche stata la posizione del gip di Locri, Domenico Di Croce, che aveva respinto la richiesta di arresto nei confronti dell’ex sindaco di Riace, Domenico Lucano, accusato di associazione a delinquere, truffa, concussione e altro. Lucano finì ai domiciliari, poi revocati, ma dopo la scrematura del gip era rimasta ben poca cosa delle accuse contestate dalla procura. Nessun fondamento, affermava il gip in circa 130 pagine, alla base delle accuse di associazione a delinquere finalizzata, a vario titolo, alla truffa, alla concussione e alla malversazione, accuse che per gli uffici giudiziari guidati da Luigi D’Alessio, invece, sono rimaste in piedi. E laddove il reato c’era stato, secondo il giudice, era accaduto per fini umanitari. «Il diffuso malcostume emerso nel corso delle indagini non si è tradotto in alcuna delle ipotesi delittuose delineate dagli inquirenti», scriveva il giudice. A Torino, dopo la manifestazione di protesta per le restrizioni anti-Covid, il gip ha deciso di non convalidare i fermi respingendo l’accusa, nei confronti di 24 persone, di devastazione e saccheggio, ritenendo che il reato da configurare fosse quello di furto aggravato. Per il giudice, infatti, i furti non sarebbero stati collegati agli scontri di piazza, contestando anche la tempistica del fermo: quattro mesi dopo i fatti. Diversi i casi di indagini per stupro per i quali i presunti colpevoli, dapprima fermati, sono stati rimessi in libertà per mancanza di indizi, anche in virtù della scivolosità del reato, che spesso viene contestato sulla base della testimonianza della sola vittima. Ma trovare esempi è cosa assai difficile. Mentre appare più semplice trovare prove delle ordinanze “copia-incolla”, autorizzate, almeno in parte, anche dalla Cassazione. Secondo gli ermellini, infatti, è da annullare il provvedimento nel caso in cui la motivazione sia assente oppure non contenga una valutazione autonoma delle richieste. Rimane, dunque, la necessità dell’autonoma valutazione delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza da parte del giudice, che può essere accettata anche se avviene con il sistema del “copia e incolla”, laddove accoglie le richieste del pm solo per alcune imputazioni oppure solo per alcuni indagati. E ciò perché «il parziale diniego opposto dal giudice o la diversa graduazione delle misure, costituiscono di per sé indice di una valutazione critica e non meramente adesiva, della richiesta cautelare, nell’intero complesso delle sue articolazioni interne». Cosa che non è avvenuta, dunque, nel caso delle 10 persone accusate di avere realizzato falsi documenti per favorire migranti clandestini a Catania. «L’esame comparato della richiesta di misura del pm e dell’ordinanza» ha «consentito di apprezzare come il primo giudice, in punto di valutazione della gravità indiziaria, si sia limitato ad operare un “copia e incolla”» della richiesta della Procura, aderendo in maniera «acritica e apodittica» alla sua tesi. Per questo motivo il Tribunale del riesame di Catania aveva annullato l’ordinanza del gip. Così come era accaduto nell’operazione “San Bartolomeo”: il tribunale del Riesame ha annullato l’ordinanza emessa dal Gip del tribunale di Roma per “vizio di forma”, avendo «copiato» le motivazioni del sostituto procuratore invece di esprimere una propria valutazione. Un vizio che, stando alle statistiche, appartiene a tanti.

Il processo Rinascita Scott. Violenta aggressione di Gratteri alla giudice Macrì: “Sta zitta, ora parlo io”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 14 Gennaio 2021. Lei stia zitta, adesso finisco di parlare io. Violenta aggressione del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri nei confronti della presidente del tribunale Tiziana Macrì ieri mattina nell’aula-bunker di Lamezia Terme dove è iniziato il processo “Rinascita Scott”. Il magistrato che ama chiamarsi “il Falcone di Calabria” è furibondo perché la giudice, da tutti descritta come severa e integerrima, ma anche molto autonoma, non è scattata sull’attenti alla sua richiesta di astenersi dal presiedere il tribunale di questo processo fin dal 9 novembre. Secondo il dottor Gratteri la presidente Macrì non avrebbe neppure dovuto attendere la decisione al riguardo della corte d’appello. Avrebbe dovuto dire “signorsì” a Sua Maestà, come purtroppo e troppo spesso fanno altri suoi colleghi, tanto che si leggono provvedimenti di giudici che sono la fotocopia della richiesta della procura. In ogni caso la presidente del tribunale ieri mattina ha dichiarato la propria astensione, dopo che la corte d’appello di Catanzaro aveva accolto (con entusiasmo, viste le argomentazioni identiche a quelle della Dda) la proposta di ricusazione. Ma sono passati due mesi e nel frattempo il procuratore fremeva, scalpitava, aveva fretta, e ha portato in aula tutto il suo nervosismo, senza alcun timore di apparire scorretto, tanto è abituato agli inchini di (quasi) tutti. Ma ieri ha veramente tracimato, non solo perché ha quasi portato alle lacrime una giudice con reputazione da dura, ma anche per qualche insinuazione che dovrebbe essere portata al vaglio del Csm. In sintesi, nel rimproverare la presidente Macrì di avergli fatto perdere del tempo non assecondandolo e non obbedendo alla sua (discutibilissima) richiesta di ricusazione, ha alluso al favore che “oggettivamente” questo ritardo avrebbe fatto alla ‘ndrangheta. Pare infatti – così avrebbe detto un pentito -, che ci sia stato un vertice, in questo periodo, in cui i capibastone avrebbero dato indicazione agli imputati di scegliere il rito ordinario (91 hanno già scelto l’abbreviato, quello che si svolge solo davanti al gup) per arrivare alla prescrizione dei reati. La giudice Macrì, per aver deciso di attenersi come sempre alle regole, avrebbe “oggettivamente” favorito la ‘ndrangheta? Un’accusa gravissima, di cui il procuratore Gratteri dovrebbe rendere conto all’organo di autogoverno dei magistrati, al Csm. Certo è che questa presidente non deve proprio essergli simpatica, probabilmente perché è molto autonoma. Anche rigorosa e riservata. Tanto che ieri ha vietato le riprese televisive del processo, fatto su cui hanno protestato i sindacati dei giornalisti. Questione spinosa, quando la necessità di salvaguardare la libertà di stampa e la pubblicità del processo può cozzare con la necessità di evitare che le aule di tribunale diventino baracconi delle vanità ed esibizione degli imputati come trofei, come animali da circo. Del resto il circo è già in piedi: 325 imputati, 600 avvocati, 224 parti offese (secondo la dda, perché in realtà si è costituita parte civile solo una trentina di loro) in una struttura di 3.300 metri quadri, lunga 103 metri. Tutta questa scenografia per un processo che tra l’altro non si celebra neppure in corte d’assise, visto che i tredici imputati di omicidio saranno giudicati a parte e altrove il prossimo 30 gennaio. Nulla a che vedere la giornata di ieri, dunque, con quella del 1986 in cui cominciò davanti a una giuria popolare il processo agli uomini di Cosa Nostra a Palermo. Deve essere anche per questo che il procuratore Gratteri, che anche ieri non si è sottratto, nonostante la sua proverbiale riluttanza, alle telecamere, sia pure all’esterno dell’aula, ha ribadito che ormai la mafia non spara più, ormai agisce più dentro le istituzioni che in montagna tra i pastori. Sarà anche vero, ma se si costruisce un’inchiesta che ha come collante solo la contestazione del reato di associazione mafiosa, bisogna anche essere in grado di dimostrare che il personaggio istituzionale che si vuole portare a processo sia soggettivamente consapevole, nella sua attività, di aver avuto a che fare con uomini d’onore. Fino a oggi al procuratore Gratteri e alla Dda in Calabria è andata malissimo. Tra derubricazioni, scarcerazioni e assoluzioni, ben poco è rimasto nel loro carniere, a parte la presenza nel processo di qualche avvocato come Francesco Stilo, che ieri i medici hanno consigliato di lasciare l’aula e andare a casa, viste le sue precarie condizioni di salute, che dieci mesi di carcere non hanno certo migliorato. Ma c’è un’altra questione procedurale che attende il procuratore Gratteri. Ci sono quattro imputati, di quelli della famosa “zona grigia” senza la quale tutto il teorema rischia di saltare, che si sono sottratti al processone e hanno chiesto il rito immediato. Cioè quello che consente, saltando la fase dell’udienza preliminare, di esser processati subito. “Immediato” vuol dire questo. E vuol significare anche la volontà di esser processati a parte, di non finire nel calderone di un maxiprocesso eterno nei tempi e ambiguo nella massa dei protagonisti. Al procuratore questa scelta non è piaciuta per niente. L’avvocato Giancarlo Pittelli, l’imprenditore Mario Lo Riggio, l’ex sindaco di Nicotera Salvatore Rizzo e l’avvocato Giulio Calabretta dovrebbero andare a giudizio in modi e tempi separati, anzi è già tardi, visto che la loro richiesta risale a qualche mese fa. La procura invece vuole la riunificazione con il maxi, e le ragioni sono chiarissime: può mai la zona grigia discostarsi da quella nera senza far crollare il teorema? Ma come la mettiamo con la necessità dell’immediatezza, che in un processo a parte e con solo quattro imputati sarebbe molto più veloce? Nell’udienza del 9 novembre scorso lo stesso tribunale presieduto dalla dottoressa Macrì ha deliberato per la fusione tra i due tronconi. La difesa con gli avvocati Stajano e Contestabile ha fatto ricorso su cui deciderà la corte di cassazione il prossimo 22 febbraio. Ma ci sarà anche un’altra decisione della suprema corte, perché i legali hanno impugnato anche la decisione della corte d’appello di Catanzaro sulla ricusazione del presidente Macrì. Insieme a lei ieri si sono astenute anche le due giudici laterali Brigida Cavasina e Gilda Romano, che avevano emesso qualche provvedimento nei confronti di indagati in qualcuno dei mille tentacoli del “Rinascita Scott”. Si attende ora la formazione del nuovo collegio per la prossima udienza del 19 gennaio. Poteva infine mancare, nel grande circo mediatico del processo la presenza, unica nel panorama politico, dell’onorevole Nicola Morra? Il presidente della Commissione bicamerale antimafia, dimentico del suo ruolo e senza pudore si è presentato con deferenza davanti al procuratore, poi ha dichiarato che con questo processo “si farà la Storia”. Con la S maiuscola. Ha già emesso la sentenza. A proposito della divisione dei poteri.

Il maxiprocesso. Processo Rinascita Scott, altri due giudici ricusati: manca un tribunale per Gratteri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Marzo 2021. Pare impossibile trovare un tribunale indipendente che possa giudicare il maxiprocesso di Nicola Gratteri. Prima era stata la stessa Dda a porre la questione dell’incompatibilità nei confronti della prima presidente designata Tiziana Macrì. E la ricusazione era stata fatta propria dalla corte d’appello di Catanzaro. Ora sono gli avvocati, un bel gruppetto di dieci, a ricusare altri due giudici del collegio per una questione sostanziale. Il giudizio della sentenza “Nemea” è un’anticipazione di convincimento su “Rinascita Scott”. L’avvocato Francesco Stilo, ancora ai domiciliari nonostante le gravi condizioni di salute, ha preso la parola personalmente, anche per lamentare le difficoltà a sottoporsi a visite specialistiche. Ma soprattutto per indignarsi per esser sempre sospettato di essere un “messaggero” di informazioni tra mafiosi. E di vederlo scritto da magistrati che dovrebbero non avere pre-giudizi. L’attuale presidente Brigida Cavasino e una delle giudici laterali Gilda Danila Romano, avevano emesso, insieme a Tiziana Macrì, la sentenza del processo “Nemea”, che era stato una sorta di antipasto del maxiprocesso in corso nella aula bunker di Lamezia. E che era stato uno dei più colossali flop dell’ipotesi dell’accusa, con 8 assoluzioni su 15 imputati e le condanne dei restanti dimezzate rispetto alle richieste della Dda. Le motivazioni della sentenza, depositate nei giorni scorsi, sono molto esplicite nello sconfessare alcune deposizioni dei pentiti: chi è stato assolto (e scarcerato) non aveva proprio commesso i reati di cui era stato accusato. Cioè non c’entrava niente. Tutta questa vicenda, che pare intricata ma in realtà ha profili di politica giudiziaria molto netti, ha molto a che vedere con il sogno del procuratore Gratteri di diventare il Falcone di Calabria. E anche di purificare la sua regione (per poi ricostruirla “come un Lego”) tramite un grande processo, derivato da due blitz del 2019 e 2020, “Rinascita Scott” e “Imponimento”. I primi arresti avevano poi subìto scremature da parte di diversi organi giudicanti, inoltre gli imputati avevano scelto diverse opzioni processuali, anche se poi è capitato per esempio all’avvocato Giancarlo Pittelli, che aveva deciso per il processo immediato, di ritrovarsi “ritardato” e gettato nel pentolone del rito ordinario, iniziato nello scorso gennaio. Il processo “Nemea” era una costola di “Rinascita Scott”, le motivazioni della sentenza lo dicono esplicitamente, anche per la concomitanza di alcuni imputati nei due processi. Tiziana Macrì era la presidente del tribunale, Brigida Cavasino e Gilda Danila Romano le due giudici laterali. Il problema si era posto fin dalle prime battute del maxiprocesso. Qualche giornale calabrese ne aveva parlato, prendendo di mira in particolare la presidente Macrì, una giudice molto stimata e poco condizionabile. Il tribunale si era comunque insediato. Ma era successo qualcosa di strano. All’improvviso, durante le vacanze di natale, la Dda aveva ricusato la presidente (e solo lei), ma non per il processo “Nemea”, ma per una questione formale su cui differenti sezioni della corte di cassazione avevano dato pareri discordanti. E cioè per aver firmato, nel suo precedente ruolo di gip di Catanzaro, la proroga di un’intercettazione. La corte d’appello aveva confermato: fuori Macrì, ma dentro le altre due giudici. È stata la lettura delle motivazioni con cui le tre giudici avevano emesso la sentenza “Nemea” a far scatenare gli avvocati, che leggevano in quelle pagine non solo i nomi dei propri assistiti, ma anche la definizione di “unico disegno criminoso” nei fatti ricostruiti nei due processi. Un unicum, insomma. E pre-giudizi che impediscono alla prova di formarsi in aula, come vuole il codice di procedura. 

Lo scontro tra toghe rosa. Patricia Tagliaferri il 2 Giugno 2021 su Il Giornale. Quando si dice un'indagine mediatica. E non solo per la rilevanza di una tragedia costata la vita a 14 persone, ma soprattutto per la sovraesposizione di chi indaga e di chi è chiamato a valutare il lavoro dell'accusa. Quando si dice un'indagine mediatica. E non solo per la rilevanza di una tragedia costata la vita a 14 persone, ma soprattutto per la sovraesposizione di chi indaga e di chi è chiamato a valutare il lavoro dell'accusa. Due donne, in questo caso. Da una parte il procuratore capo di Verbania, Olimpia Bossi, che la stessa notte dell'interrogatorio del caposervizio Gabriele Tadini aveva spiegato ai giornalisti davanti alle tv che non era stata una fatalità a far cadere la funivia ma una «omissione consapevole». Dall'altra il gip Donatella Banci Buonamici che ha sconfessato il lavoro dei pm. Nella sua ordinanza ha scritto che i fermi erano stati eseguiti «al di fuori dei casi previsti dalla legge». Ma non basta che siano le carte a parlare. Sente che quel provvedimento, per molti inaspettato, va difeso pubblicamente. Lo fa con i cronisti che la intercettano fuori dal palazzo di giustizia di Verbania: «Dovete essere felici di vivere in uno Stato dove il sistema fa giustizia o è una garanzia, invece sembra che non siate felici. Dovete essere felici, l'Italia è un Paese democratico». Non esisteva il pericolo di fuga per il titolare della funivia Luigi Nerini e per il direttore Enrico Perocchio, né sussistevano gravi indizi. Lo ha scritto nell'ordinanza che li ha scarcerati, ritenendo che sui due indagati ci fossero solo suggestioni, e adesso rivendica di non aver ritenuto riscontrata la chiamata in correità, «che in fase cautelare deve essere dettagliata e questa non lo era ed era smentita da altri risultati». Un duro scontro, insomma, per la piccola procura di Verbania. «Il pm fa il suo lavoro bene e io faccio il mio credo altrettanto onestamente», dice il gip. Ma è probabile che non sia finita qui e che la procuratrice decida di impugnare l'ordinanza del gip davanti al Tribunale del riesame per dimostrare che invece gli arresti erano necessari per evitare inquinamenti probatori o che gli indagati si accordassero sulle versioni da rendere.

"Ecco perché non ho tenuto gli indagati in carcere". Ignazio Riccio l'1 Giugno 2021 su Il Giornale. Parla il gip di Verbania Donatella Banci Buonamici, che ha liberato due delle tre persone sotto inchiesta per la strage della funivia del Mottarone. “Il pm fa il suo lavoro bene e io faccio il mio credo altrettanto onestamente. É il sistema, dovreste ringraziare che funziona così, bisogna essere felici di vivere in uno Stato dove si fa giustizia e invece sembra che non lo siate. L'Italia è un Paese democratico”. A parlare è il gip di Verbania Donatella Banci Buonamici, che ha scarcerato due dei tre indagati per la strage della funivia del Mottarone. “Io ho osservato che non sussisteva il pericolo di fuga – continua – non esisteva. Non ho ritenuto per due persone la sussistenza dei gravi indizi non perché non abbia creduto a uno, ma perché abbia ritenuto non riscontrata la chiamata in correità, che deve essere dettagliata: questa non lo era ed era smentita da altre risultanze”. In particolare il giudice non ha ritenuto sufficienti le accuse del capo servizio dell'impianto Gabriele Tadini (attualmente ai domiciliari) contro il gestore Luigi Nerini e il direttore di esercizio Enrico Perocchio, entrambi scarcerati sabato notte. Olimpia Bossi, procuratore capo di Verbania, intanto, ha ripreso il lavoro sulle carte dell'inchiesta. L'esito dell'udienza di convalida, con la decisione del gip Buonamici che di fatto ha ribaltato l'impostazione della sua inchiesta concedendo la libertà a due degli indagati e disponendo i domiciliari per il terzo, non è passato senza lasciare segni. Ma la procuratrice già nella notte di sabato aveva ribadito con forza il suo convincimento, e anche ieri sera in una intervista televisiva ha detto che nel provvedimento del giudice “è mancata una visione di insieme nell'esaminare la concatenazione logica degli elementi che abbiamo raccolto. Se analizzati singolarmente perdono forza”. Quali sono le contestazioni che il gip ha mosso alla Procura? Sono, in realtà, su più piani, di sostanza e di forma. Già in premessa, il giudice osserva che “il fermo è stato eseguito al di fuori dei casi previsti dalla legge e non può essere convalidato. Difettava infatti il pericolo di fuga, presupposto indefettibile per procedere al fermo di indiziati di reato”. É palese - secondo il giudice - la "totale irrilevanza" del riferimento fatto dai Pm di Verbania al "clamore mediatico nazionale e internazionale" dell'incidente della funivia del Mottarone per sostenere il "pericolo di fuga" dei tre fermati. Non si può - conclude il gip - far ricadere su un indagato il "clamore mediatico". Oggi, come riporta il quotidiano la Repubblica, in procura è la giornata del vertice tra il consulente Giorgio Chiandussi, professore del Politecnico di Torino, nominato per accertare le cause dell'incidente della funivia e investigatori e inquirenti, coordinati dalla procuratrice Olimpia Bossi. Un incontro che servirà per iniziare a mettere nero su bianco gli elementi tecnici su cui verterà il quesito della consulenza nella forma dell'accertamento irripetibile. Gli accertamenti in vista, ha spiegato Bossi, sono “finalizzati a capire perché la fune si è rotta e si è sfilata e se il sistema frenante aveva dei difetti”. Tema d'indagine è pure sapere se è accaduto e quando, come indicato da Tadini, il blocco della cabina dovuto alla "pressione dei freni" che scendeva "a zero". Dopo questi controlli, potrebbero arrivare nuovi avvisi di garanzia.

Ignazio Riccio. Sono nato a Caserta il 5 aprile del 1970. Giornalista dal 1997, nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria. Scrivo per ilGiornale.it dal 2018. Nel 2017 è uscito il mio primo libro, il memoir Senza maschere sull’anima. Gianluca Di Gennaro si racconta, edito da Caracò editore. Un secondo libro: L’attualità in classe-Il giornale tra i banchi di scuola (testo di narrativa per gli istituti secondari di primo grado), edito da Libriotheca Editore, è stato pubblicato a marzo 2019. Amo in particolare la lettura, il cinema e il teatro; sono appassionato di calcio e tifo Fiorentina.

Da corriere.it l'1 giugno 2021. «Dovreste ringraziare che il sistema è così, dovete essere felici di vivere in uno Stato in cui il sistema fa giustizia o è una garanzia e invece sembra che non siate felici, l’Italia è un paese democratico». Così il gip di Verbania Donatella Banci Buonamici, che ha scarcerato sabato i tre fermati per l’incidente della funivia del Mottarone, mettendo ai domiciliari Tadini, ha risposto ai cronisti fuori dal Tribunale. Il giudice entrando in Tribunale a Verbania questa mattina ha risposto ad alcune domande dei cronisti. «L’ho scritta la mia posizione», ha detto facendo riferimento all’ordinanza con cui ha rimesso in libertà due dei tre indagati e un terzo ai domiciliari. «Ho osservato che non sussisteva il pericolo di fuga, non esisteva - ha spiegato il gip - per le motivazioni che ho scritto, non ho ritenuto per due persone la sussistenza dei gravi indizi, non perché non abbia creduto a uno (ossia a Tadini, ndr), perché ho ritenuto non riscontrata la chiamata in correità, che deve essere dettagliata, questa non lo era ed era smentita da altre risultanze». Il giudice Donatella Banci Buonamici ha aggiunto: «Il pm fa il suo lavoro bene e io faccio il mio lavoro credo altrettanto onestamente, è il sistema».

Funivia Stresa Mottarone, la gip Buonamici sulle scarcerazioni: "Dovreste essere contenti di vivere in uno stato democratico". Libero Quotidiano l'01 giugno 2021. A Verbania, monta lo scontro in procura. Il caso è ovviamente quello della strage sulla funivia Stresa Mottarone. A parlare, ora, è la gip Donatella Buonamici, che torna sulla scelta di concedere i domiciliari a uno degli indagati e di lasciare a piede libero gli altri due. Una scelta con cui di fatto ha cancellato quanto fatto dalla pm, Olimpia Bossi, che solo tre giorni dopo i fatti aveva disposto il fermo dei tre soggetti. "Dovreste essere contenti di vivere in uno stato democratico. Secondo me non c'erano le esigenze cautelari e gravi indizi di colpevolezza per tenere in carcere gli indagati", ha picchiato duro la Buonamici rispondendo alle domande dei cronisti sull'ordinanza con cui ha smontato l'impostazione della Bossi. E ancora: "Io ho osservato che non sussisteva il pericolo di fuga, non esisteva - ha aggiunto -. Non ho ritenuto per due persone la sussistenza dei gravi indizi non perché non abbia creduto a uno" ma "perché ho ritenuto non riscontrata la chiamata in correità, che deve essere dettagliata: questa non lo era ed era smentita da altre risultanze". E ancora, la Buonamici ha rimarcato: "Il pm fa il suo lavoro bene e io faccio il mio lavoro credo altrettanto onestamente, è il sistema, dovreste ringraziare che il sistema è così, dovete essere felici di vivere in uno Stato in cui il sistema fa giustizia o è una garanzia e invece sembra che non siate felici, l'Italia è un paese democratico". Nel frattempo oggi, martedì 1 giugno, in procura è la giornata del vertice tra il consulente Giorgio Chiandussi, professore del Politecnico di Torino, nominato per accertare le cause dell'incidente della funivia del Mottarone, che ha causato 14 morti, e investigatori e inquirenti, coordinati proprio dalla pm Bossi. L'incontro servirà a iniziare a mettere nero su bianco gli elementi tecnici su cui verterà il quesito della consulenza nella forma di accertamento irreperibile.

Ebbene sì, noi garantisti dobbiamo reclutare magistrati come la gip di Verbania.  È vero, in un Paese normale una giudice non accompagnerebbe mai una propria ordinanza di scarcerazione con lezioni sullo Stato di diritto. Eppure, se vogliamo scalfire il muro granitico che blinda la mente dei forcaioli, dobbiamo servirci di quei pochi magistrati disposti a proclamare, come noi, la solennità delle garanzie. Errico Novi su Il Dubbio il 2 giugno 2021. Sì, lo so.  Non è da Paese normale che una giudice commenti una propria ordinanza, che spieghi perché non ha convalidato dei fermi. Non è da Paese normale che un magistrato accompagni i propri atti con una didascalia veicolata a mezzo stampa. Ma è un Paese normale, l’Italia, in materia di giustizia? Non direi. Da anni sono convinto che il muro manettaro-populista sia fra le fortezze più inespugnabili che la storia italiana ricordi dal principio dell’era moderna. E che perciò le generose e commoventi battaglie del cosiddetto fronte garantista siano tanto giuste e necessarie quanto difficili. Proprio per la difficoltà di scalfire quel muro, mi sono convinto della necessità di un compromesso. E cioè che si debbano reclutare nella battaglia quei pochi magistrati pronti a parlare di Stato di diritto, di civiltà delle garanzie e di democrazia basata sui princìpi della giustizia liberale. Come ha fatto la gip di Verbania dottoressa Donatella Banci Buonamici. I magistrati sono insospettabili, agli occhi dell’opinione pubblica “rigorista”, perciò vanno “usati”. Sì, il caso cosiddetto Palamara ha fatto scendere su di loro un velo di diffidenza. Ma in fondo gran parte dei manettari vede ancora, nella toga del giudice, una garanzia di inesorabile efficacia punitiva. E se un giudice parla di giuste scarcerazioni per i presunti responsabili di un disastro come quello del Mottarone, c’è qualche speranza che nella mente di una parte degli italiani giustizialisti si insinui una provvidenziale, seppur infinitesimale, ombra di dubbio.

Ma alla Gip di Verbania dico: un giudice parla solo con le sentenze. Le parole della Gip che ha deciso la scarcerazione dei tre indagati per la strage della funivia sono sacrosante ma rischiano di alimentare il circo mediatico-giudiziario. Perché in democrazia la forma è sostanza, non orpello. E la forma prevede che un giudice parli con le sentenze, non con interviste. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 2 giugno 2021. Le parole con cui la gip di Verbania, Donatella Banci Buonamici, “giustifica” la sua decisione di non confermare le misure cautelari per gli indagati del disastro della funivia sono una lezione di civiltà giuridica. Perché in democrazia, in uno Stato di diritto, la gente non finisce in cella semplicemente perché un pubblico ministero lo ritiene opportuno. Esistono delle garanzie ed esistono dei giudici a tutelarle. Eppure, persino le parole della dottoressa Buonamici presentano, in potenza, il seme di una possibile degenerazione giudiziaria. Riconoscendo tutte le “attenuanti” del caso alla gip – inseguita per strada dai giornalisti – non si può ignorare che, rispondendo alla curiosità dell’informazione, la giudice diventa parte di quello stesso cortocircuito di cui spesso sono protagonisti i suoi colleghi pubblici ministeri. Da sempre, dalle colonne di questo giornale, ci battiamo contro la spettacolarizzazione della giustizia, contro le conferenze stampa delle Procure che vorrebbero esaurire la complessità di un processo alle fase delle indagini preliminari, contro i giudizi formulati sui giornali e in tv invece che in un’aula di Tribunale. Per questo la pur condivisibile presa di posizione di Buonamici stona proprio con quelle garanzie democratiche che la gip intende esaltare. Perché in democrazia la forma è sostanza, non orpello. E la forma prevede che un giudice parli con le sentenze, non con interviste. Applicare la legge e motivare le proprie decisioni è tutto ciò che un giudice dovrebbe fare per tentare di recuperare quel rapporto di fiducia ormai sfilacciato tra i cittadini e le toghe. Altimenti la diga, già fragile per le continue bordate di alcuni pm, finirebbe per crollare definitivamente. Non è un caso che secondo i dati Eurispes e secondo un recente sondaggio Ipsos meno di un cittadino su due dichiara di fidarsi della magistratura. Un dato drammatico se solo paragonato a undici anni fa, quando le toghe godevano ancora di un’altissima popolarità tra gli italiani: il 70 per cento. Ora quel legame sembra essersi dissolto e non solo per colpa del caso Palamara o dei verbali di Amara diffusi nei sottoscala. Il cittadino non crede più al magistrato super partes, all’eroe civile alla ricerca della verità giudiziaria, ma vede l’uomo dietro la toga, con i suoi interessi, le sue ambizioni, le sue rivincite da prendere. Quando il processo diventa mediatico, alla lunga, ci perdono tutti, anche quelli che pensavano di recitare la parte dei “buoni”. Per questo, anche Donatella Banci Buonamici farebbe bene a evitare proclami pubblici. Ne va della tranquillità degli indagati, della serenità parenti delle vittime e della credibilità della magistratura tuta.

«È lo Stato di diritto, bellezza»: la lezione del gip di Verbania. Strage della funivia, la giudice che ha scarcerato i tre indagati smonta le polemiche: «Dovreste essere tutti felici di vivere in un Stato democratico». Simona Musco su Il Dubbio l'1 giugno 2021. «Il pm fa il suo lavoro bene e io faccio il mio lavoro credo altrettanto onestamente. È il sistema, dovreste ringraziare che il sistema è così, dovete essere felici di vivere in uno Stato dove il sistema fa giustizia o è una garanzia e invece sembra che non siate felici. Perché non siete felici? L’Italia è un Paese democratico». Poche parole, rubate dai cronisti assiepati davanti al Tribunale di Verbania. Ma quanto basta al giudice per le indagini preliminari Donatella Banci Buonamici per liquidare una polemica alimentata dai media che, che da giorni, non aspettano altro che l’ennesimo battibecco sulla giustizia, mettendo in secondo piano tutto: la tragedia, le vittime, le regole del diritto, gli equilibri del giusto processo. Così, nel teatrino che è diventata l’inchiesta sulla tragedia della funivia di Stresa-Mottarone, tocca alla giudice rimettere in ordine le cose. Ricordando che esiste lo Stato di diritto e che per tutti, giustizialisti compresi, è una garanzia che dovrebbe far dormire sonni tranquilli. La decisione del giudice di rimettere in libertà due degli indagati e mandare a domiciliari il terzo ha, infatti, generato l’ennesimo vespaio di polemiche. Perché in tanti, ignari delle regole che stanno alla base del sistema accusatorio, hanno tratto un’unica conclusione: il giudice ha già assolto tutti, mandando in fumo un’inchiesta che, invece, aveva già trovato i colpevoli in pochi giorni, tradendo i familiari delle vittime che, intanto, aspettano giustizia. Insomma, una sentenza già scritta stracciata in faccia all’opinione pubblica, per la quale quegli indagati non meritano – ovviamente – alcuna difesa. La gip, però, ha chiarito, probabilmente suo malgrado, i fatti: «Io ho osservato – ha detto – che non esisteva il pericolo di fuga, e non ho ritenuto per due persone la sussistenza dei gravi indizi non perché non abbia creduto a uno (Tadini, ndr), ma ho ritenuto non riscontrata la chiamata in correità. La chiamata in correità – ha aggiunto – deve essere dettaglia e questa non lo era ed anzi era smentita da altre risultanze». Insomma: di elementi concreti, tra quelli – necessariamente parziali – portati dalla procura, non ce n’erano. Non abbastanza, di certo, per tenere tre persone in carcere ipotizzando un pericolo di fuga motivato con il clamore mediatico della vicenda. Così, sabato sera, ha preso la propria decisione applicando semplicemente la legge, mandando ai domiciliari Gabriele Tadini, responsabile del funzionamento dell’impianto e reo confesso, e lasciando a piede libero Enrico Perocchio, direttore di esercizio dell’impianto e Luigi Nerini, amministratore unico di Ferrovie del Mottarone. Tutti rimangono indagati per gravi reati: rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, omicidio colposo e lesioni colpose, mentre il solo Tadini risulta anche indagato per falsità ideologica, non avendo segnalato nell’apposito registro il malfunzionamento del sistema frenante della cabina numero 3, che il 23 maggio, è precipitata a folle velocità verso valle, sganciandosi dalla fune e schiantandosi a terra, fino ad impattare contro gli alberi, provocando la morte di 14 persone e lesioni gravi all’unico sopravvissuto, un bimbo di 6 anni. La decisione non è piaciuta alla procuratrice Olimpia Bossi, che commentando l’esito dell’udienza di convalida si è lasciata andare ad un attimo di amarezza: «Prendevamo insieme il caffè – ha detto parlando della gip -, per un po’ lo berrò da sola». Insomma, la non conformità dell’azione del giudice a quella del magistrato è stata interpretata come «un atto di inimicizia», come ha osservato l’Unione delle Camere penali. Ma la procuratrice ha anche fatto una distinzione tra diverse categorie di diritti: «Quelli dei vivi» contro «quelli dei morti», come se appartenessero a due mondi diversi, quasi in conflitto. Delle due donne protagoniste di questa vicenda giudiziaria la stampa fornisce due ritratti opposti: amorevole ed empatica la procuratrice, «gelida» la giudice, diceva ieri La Stampa. E non è difficile immaginare che leggendo tali descrizioni non si finisca per simpatizzare per l’una anziché per l’altra, come se, appunto, la giustizia fosse questione di tifo. Ma così non è, ricorda Banci Buonamici. La giustizia è fatta di diritti, di garanzie che valgono per tutti, buoni e cattivi, belli e brutti. E il suo provvedimento – che non tradisce alcuna convinzione personale sulla responsabilità degli indagati – ne è la dimostrazione più lampante. La giudice, infatti, non ha fatto altro che constatare la fragilità degli elementi a supporto della richiesta di convalida del fermo, sottolineando che lo stesso è stato eseguito «al di fuori dei casi previsti dalla legge». Illegittimo, dunque, e non avallabile in uno Stato di diritto. Perché illegittimo? Nessun elemento concreto è stato portato a sostegno del pericolo di fuga, «presupposto indefettibile per procedere al fermo di indiziati di reato». E la richiesta non indica «alcun (scritto tutto maiuscolo nell’ordinanza del giudice, ndr) elemento dal quale sia possibile evincere il pericolo di allontanamento dei tre indagati». Non vale, giuridicamente, il richiamo al clamore mediatico della vicenda («è di palese evidenza la totale irrilevanza», al punto da definirlo «suggestivo»), né la minaccia di una pesantissima sanzione detentiva («le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte unicamente dalla gravità del titolo di reato»). Si tratta, cioè, solo di supposizioni, di ipotesi non riscontrate. Tant’è che il giudice evidenzia dati ovvi, in assenza di altri elementi: i tre vivono, lavorano e hanno famiglia in Italia, uno dei tre ha confessato, gli altri due si sono messi subito a disposizione degli inquirenti. Da cosa si poteva evincere il pericolo di fuga? Così come la chiamata in correità di Tadini nei confronti di Nerini e Perocchio non risulta riscontrata: gli operai sentiti a sit hanno anzi tutti confermato la responsabilità di Tadini, tranne uno, colui che avrebbe dovuto togliere i ceppi al sistema frenante e che, dunque, «ben sapeva del rischio di essere lui stesso incriminato per avere concorso a causare con la propria condotta, che avrebbe benissimo potuto rifiutare, la morte dei 14 turisti». Insomma: non era totalmente credibile. Così come non lo sarebbe l’indagato principale, che ha mentito laddove ha negato di avere il potere di fermare l’impianto, possibilità, invece, prevista dalla legge. «Certamente – ha evidenziato il gip – tale normativa non poteva essere da lui ignorata trattandosi di perito tecnico con mansioni di responsabilità, operante da 36 anni nel settore dei trasporti su fune».

C.Gu. per "Il Messaggero" l'1 giugno 2021. Telefonate, chat, mail. L'affermazione del responsabile della sicurezza Gabriele Tadini «tutti sapevano dei forchettoni che bloccavano il freno di emergenza», cioè il capo servizio operativo Enrico Perocchio e il gestore della società Luigi Nerini, passa attraverso l'esame delle comunicazioni intercorse tra loro. Il giorno dell'incidente ma anche nelle settimane precedenti: la funivia ha ripreso a circolare il 26 aprile e le interruzioni per interventi di manutenzione sono state numerose, dicono gli investigatori. Che hanno sequestrato il Libro giornale della funivia, il diario di bordo nel quale per legge devono essere annotati i problemi tecnici e le riparazioni. Incroceranno i rapporti con le informazioni raccolte presso le società di manutenzione e con i filmati delle telecamere di sorveglianza, l'intenzione è far luce su quei registri per accertate «l'eventuale avvenuta alterazione anche di altre annotazioni, riferite a date ed eventi diversi», ma anche per stabilire l'eventuale coinvolgimento di Nerini e Perocchio, «attesi i rispettivi ruoli, nella falsificazione del suddetto atto pubblico». Se Tadini ammette che sicuramente in due occasioni, il 22 e il 23 maggio, ha falsificato i registri per nascondere i problemi al sistema frenante, dai messaggi telefonici potrebbe emergere che il responsabile della sicurezza, le cui dichiarazioni non sono ritenute sufficienti dal gip, dica il vero quando afferma che in più occasioni ha informato Nerini e Perocchio dei guasti all'impianto. Oggi in Procura a Verbania i pm incontreranno il perito Giorgio Chiandussi, per definire gli elementi tecnici su cui verterà la consulenza tecnica. «Solo dopo questi accertamenti irripetibili faremo nuovi avvisi di garanzia», puntualizza la procuratrice Olimpia Bossi. L'obiettivo, spiega un investigatore, è verificare la presunta «connessione» tra i malfunzionamenti ai freni, di cui si lamentava Tadini dicendo di averli a più riprese segnalati a Perocchio da fine aprile, e l'incidente. E se quei problemi che facevano bloccare la cabina, tanto che almeno «dieci volte» in quindici giorni il caposervizio ha inserito i forchettoni sul sistema frenante, potessero essere un «campanello d'allarme» della debolezza del cavo che poi si è spezzato, facendo arretrare la vettura a valle a una velocità elevatissima e proiettandola in aria con un effetto fionda. «Non sono ancora in grado di dire perché si sia verificato questo evento. Gli accertamenti tecnici sono proprio finalizzati a capire perché la fune si è rotta e si è sfilata e se il sistema frenante aveva dei difetti», precisa la procuratrice Bossi. Determinante anche ricostruire se è accaduto e quando, come indicato da Tadini, il blocco della cabina dovuto alla «pressione dei freni» che scendeva «a zero». Il direttore del servizio è intervenuto almeno due volte, l'ultima il 30 aprile emettendo fattura i primi di maggio, come si legge negli atti, per «l'assistenza dei tecnici» della Rvs, alla quale la Leitner, incaricata delle manutenzioni, aveva subappaltato «gli interventi sulle centraline dei sistemi frenanti». Il problema non è stato risolto e Tadini, per non interrompere le corse, inseriva i forchettoni. Una scorciatoia di cui era al corrente Fabrizio Coppi, manovratore, in servizio il 23 maggio. La procura di Verbania è stata praticamente costretta ad accendere un faro su di lui dopo l'ordinanza del gip Donatella Banci Bonamici: se è vero che su indicazione del caposervizio Gabriele Tadini, l'unico rimasto sotto custodia agli arresti domiciliari, ha lasciato inserite le ganasce, è altrettanto certo, secondo il giudice, che «poteva benissimo rifiutarsi». E non si può escludere che a qualche suo collega tocchi la stessa scomoda sorte di figura «attenzionata» dagli inquirenti.

Mottarone, una tv tedesca rivela: “La funivia viaggiava coi freni disattivati dal 2014”. Penelope Corrado martedì 1 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. Il forchettone per disattivare i freni veniva usato sulla funivia del Mottarone già nel 2014. Lo afferma l’emittente tedesca Zdf, che nel programma d’inchiesta Frontal 21 mostrerà le immagini girate da un videoamatore svizzero, Michael Meier, appassionato di funivie. L’emittente pubblica tedesca ha inviato alla procura di Stresa alcuni video che potrebbero aggravare la posizione degli indagati. Meier, secondo il sito della Zdf, ha filmato la funivia del Mottarone in 3 occasioni: nel 2014, nel 2016 e nel 2018. Dopo l’incidente avvenuto 10 giorni fa, Meier ha riesaminato foto e video e ha scoperto la presenza del dispositivo in grado di disattivare il freno. “Ho notato che questi forchettoni si vedono già in queste foto. Già nel 2014 questi forchettoni venivano usati con le persone in cabina”, ha detto Meier alla Zdf. Le immagini, evidenzia l’emittente, sono a disposizione anche degli inquirenti italiani. Sarà necessario spostare la cabina numero 3 della funivia precipitata domenica 23 maggio sul Mottarone per capire, oltre al discorso dei freni disattivati, perché la fune si è rotta. Un’operazione complicata, ma necessaria. Servirà per vedere la parte alta della cabina. Ossia quella dove c’è la testa fusa. In pratica, la parte in cui la fune trainante viene saldata al carrello. E il forchettone che ha impedito al sistema frenante di emergenza di entrare in funzione. Spostare la cabina richiederà tempo e competenza. La strada non sembra abbastanza larga per i mezzi dei vigili del fuoco. Inoltre, utilizzare un elicottero potrebbe essere pericoloso vista la presenza dei cavi portanti della funivia. Difficile finora, visto che la cabina è rimasta bloccata dal tronco di un albero, poter analizzare tutti i componenti della cabina accartocciata da un lato e ferma su un terreno scosceso. Lunedì 7 giugno il consulente nominato dal pm, il docente di meccanica aerospaziale Giorgio Chiandussi del Politecnico di Torino, tornerà sul Mottarone per capire, insieme ai vigili del fuoco, come procedere per mettere in sicurezza la cabina e procedere con l’analisi degli elementi – a partire dalla causa per cui si è rotta la fune trainante – che potrebbero spiegare i motivi del disastro.

Strage del Mottarone, in un video del 2014 il forchettone già inserito. Carmine Di Niro su Il Riformista il 2 Giugno 2021. Il forchettone sulla funivia Stresa-Mottarone veniva utilizzato già nel lontano 2014? È quello che sembrerebbe emergere da un video pubblicato dall’emittente tedesca Zdf, che martedì sera ha mostrato nel corso del programma Frontal 21 le immagini girate da un videoamatore svizzero, Michael Meier, appassionato di funivie. La notizia, anticipata ieri da Repubblica, può portare ad una svolta nelle indagini: secondo la Zdf Meier ha filmato la funivia dove domenica scorsa sono morte 14 persone in tre occasioni, nel 2014, nel 2016 e nel 2018. A seguito dell’incidente del 23 maggio Meier ha riesaminato le vecchie foto e video e ha scoperto la presenza del dispositivo in grado di disattivare il freno. “Ho notato che questi forchettoni si vedono già in queste foto. Già nel 2014 questi forchettoni venivano usati con le persone in cabina“, ha detto Meier alla Zdf. Immagini che, come confermato all’AdnKronos dal procuratore capo di Verbania Olimpia Bossi, sono a disposizione degli inquirenti: “Le abbiamo ricevute e preferisco evitare in questo momento ogni valutazione”. Quanto filmato da Meier potrebbe cambiare la posizione degli indagati. Ad oggi infatti la versione del capo servizio della funivia, Gabriele Tadini, è di aver applicato le ganasce per dieci volte in aprile e a maggio del 2021 per impedire che il freno d’emergenza si attivasse troppo spesso.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Funivia Stresa Mottarone, "perché il cavo si è spezzato". L'inquietante ipotesi al vaglio della Procura. Libero Quotidiano il 02 giugno 2021. Potrebbe essere stato l'uso massiccio e scriteriato dei cosiddetti "forchettoni" durante la corsa della funivia di Stresa Mottarone ad avere scaricato una tensione eccessiva sulla fune e, quindi, la rottura all'altezza dell'attacco del carrello. Su questa ipotesi - un fra le altre - stanno lavorando i consulenti della Procura di Verbania che devono fare luce sulle cause dell'incidente che il 23 maggio ha provocato la morte di 14 persone. Gli accertamenti tecnici sono complicati e ancora di più per l'accesso all'interno della cabina, che è ancora sul posto e che potrà essere rimossa solo con una serie di accorgimenti. I "forchettoni" sono dei ceppi che si applicano al freno di emergenza in modo da non interrompere la corsa dell'impianto. Durante l'orario di servizio devono essere tolti ma il 23 maggio sono stati lasciati sulla cabina 3. Le indagini hanno appurato che questo espediente, non consentito, era stato usato diverso volte nel corso del mese normale e forse anche in precedenza. Addirittura ci sono dei video che mostrano che il forchettone usato sulla funivia del Mottarone era già stato utilizzato nel 2014. Secondo quanto ha riportato l'emittente tedesca Zdf, che nel programma Frontal 21 mostrerà le immagini girate da un videoamatore svizzero, Michael Meier, l'appassionato di funivie ha filmato la funivia del Mottarone in tre diverse occasioni: nel 2014, nel 2016 e nel 2018. Dopo l'incidente avvenuto 10 giorni fa, Meier ha riesaminato foto e video e ha scoperto la presenza del dispositivo in grado di disattivare il freno. "Ho notato che questi forchettoni si vedono già in queste foto. Nel 2014 questi forchettoni già usati con le persone in cabina", ha detto Meier alla Zdf. Le immagini, evidenzia l'emittente, sono a disposizione anche degli investigatori italiani.

Niccolò Zancan per “la Stampa” il 2 giugno 2021. Poi arriva il giorno in cui un signore svizzero, tal Michael Majer, dimostra che la funivia del Mottarone viaggiava senza freni d' emergenza da almeno sette anni. Non era un rischio recente. Non dipendeva soltanto dai noti problemi al sistema frenante della cabina numero 3. Era una scelta banale e sciagurata, una cosa che succedeva talmente spesso che il signor Majer, un appassionato di funivie, controllando nel suo gigantesco archivio di immagini, ne ha trovato ampie dimostrazioni: 2014, 2016, 2018. Eccoli, si vedono chiaramente: sono i forchettoni rossi inseriti. Così ha mandato quei video alla tv pubblica tedesca Zdf, la quale oltre a confezionare un programma d' inchiesta andato in onda ieri sera, ha inviato tutto il materiale alla procura di Verbania. Cosa si capisce di nuovo? La funivia del Mottarone girava senza freni, con persone a bordo, da molto tempo. Succedeva ben prima del disastro costato la vita a quattordici persone. Sono tornate alla mente le parole messe a verbale dal capo servizio Gabriele Tadini, per 36 anni al lavoro su quello stesso impianto, l'unico indagato agli arresti domiciliari: «Quella di disattivare il sistema di sicurezza era diventata una prassi. Lo sapevano tutti». Dopo i video forniti dal signor Majer le sue parole sembrano assumere contorni più precisi. Volevamo chiedere un commento al gestore dell'impianto, Luigi Nerini. Ma il suo telefono è scollegato dalle ore 4,17 di mercoledì, cioè dal momento in cui è entrato in cella. Non lo ha più riacceso dopo la scarcerazione di sabato notte, per decisione del gip Donatella Banci Buonamici. Nemmeno ha mai detto una parola sull' uso dei forchettoni, ma per lui ha parlato l'avvocato Pasquale Pantano: «Il signor Nerini pagava un canone di 128 mila euro all' anno alla Leitner per la manutenzione dell'impianto. I problemi tecnici e di sicurezza non erano di sua competenza». Ecco l'ingegner Enrico Perocchio, dipendente della Leitner e responsabile d' esercizio della funivia del Mottarone: «Non sapevo dei forchettoni. Mai e poi mai avrei avallato una decisione del genere». Due operai che lavoravano in funivia, Fabrizio Coppi e Emanule Rossi, hanno confermato che l'uso dei forchettoni era molto frequente. Anche loro avevano ricevuto l'ordine di lasciarli inseriti. La differenza fra toglierli o metterli è spiegata benissimo dalla stessa giornata della strage. Alle 12.02 si spezza la fune traente. La cabina numero 3 è quasi in cima, ma viene spinta indietro dal contraccolpo e senza freni raggiunge la velocità di 100 chilometri all'ora, prima di staccarsi dall' impianto e precipitare nel bosco. Ma giù, a valle, c' è la cabina numero 4. Che gira con l'impianto dei freni d' emergenza in funzione. E infatti: i freni scattano. La bloccano alla fune portante. I cinque passeggeri a bordo vengono raggiunti, imbragati e messi in salvo. Ieri tre ispettori della commissione d' inchiesta voluta dal ministro ai Trasporti, Enrico Giovannini, sono saliti nel punto esatto in cui si capisce quello che è successo: dove la cabina numero 3 della funivia del Mottarone resta incastrata nella pineta. I vigili del fuoco hanno tolto il telo che la copre: tre funi la assicurano agli abeti in modo che non possa muoversi neppure di pochi centimetri. Lì, fra il bosco e il canalone, tutti stanno cercando la risposta che manca. Perché la fune ha ceduto? Se ne occupa il consulente della procura, il professor Giorgio Chiandussi. Se ne occuperanno i tre ispettori del ministero, che ieri scattavano fotografie. Le attenzioni si concentrano su diversi aspetti. Lo stato della fune. Il punto in cui si è strappata. E quello della cosiddetta testa fusa, cioè l'innesto sulla cabina. La fune spezzata si trova 200 metri più su nel canalone, fra rododendri e piccole betulle. Gli ispettori dicevano: «I trefoli sono in buone condizioni». Cioè la fune non sembra usurata. Era stata controllata a novembre del 2020. Perché ha ceduto? Potrebbe c' entrare quel problema ai freni? Portare via la carcassa della cabina numero 3 sarà un lavoro estremamente complicato. I cavi, in alto, rendono arduo l' uso dell' elicottero. L' alternativa è smontarla e trasportarla con mezzi agricoli.

Funivia Stresa Mottarone, nuova ipotesi al vaglio: "Il giorno della tragedia la centralina dei freni rumoreggiava", era il segnale? Libero Quotidiano il 02 giugno 2021. Dopo il video che ritrae la presenza del forchettone in grado di inibire i freni di sicurezza già nel 2014, si inserisce un nuovo inquietante dettaglio sulla tragedia della funivia Stresa Mottarone. Al vaglio degli inquirenti c'è infatti una nuova ipotesi di quanto accaduto quella mattina. A ricostruirla ci pensa il Corriere della Sera che riporta: "Il giorno del disastro Tadini sente che la centralina dei freni rumoreggia, teme che le ganasce possano scattare bloccando la cabina, decide di lasciare i forchettoni che disattivano i freni perché pensa che si tratti solo di un problema di pressione ma in realtà quel rumore è qualcosa di più sinistro: il segnale che la fune si sta rompendo". Nulla di ancora certo, tanto che Gabriele Tadini, l'uomo che gestiva i comandi della funivia alla stazione intermedia di Alpino, nega: "Impossibile". A suo dire in 36 anni di funivia non ha mai sentito nulla del genere. Eppure non tutti la pensano così. Davide Marchetto, responsabile tecnico della Rvs di Torino nonché colui che era stato chiamato a sistemare l'impianto lo scorso 30 aprile, è convinto del contrario: "Se c'è un calo di pressione del sistema frenante l'ipotesi può essere che la fune traente si sta muovendo in modo anomalo". Ma Tadini continua a rigettare le accuse e tramite il suo avvocato ha fatto sapere che "da quando l'impianto ha riaperto (26 aprile) si sono verificare delle anomalie alla centralina dei freni della cabina 3 (quella precipitata ndr )". E ancora: "Questi episodi li ho segnalati al direttore di esercizio, l'ingegner Perocchio (Enrico Perocchio, il direttore della funivia ndr ) ancora prima della riapertura dell'impianto chiedendo un intervento di revisione del sistema frenante. E l'ingegnere ha fatto intervenire i tecnici della Rvs di Torino che è la società che fornisce le centraline dei freni, alla quale si appoggia la Leitner (manutentore dell'impianto ndr ). L'ho sempre detto anche a Nerini (il suo titolare, gestore della funivia ndr )". Insomma, sembra un continuo rimbalzo di responsabilità. Intanto sono Tadini, Perocchio, Nerini a essere indagati per il disastro, ma non è escluso possano arrivare novità.

L'ira degli operai. "Noi obbedivamo solo agli ordini". Patricia Tagliaferri il 2 Giugno 2021 su Il Giornale. Inserivano i ceppi su input di Tadini, adesso temono di finire indagati. L'ispezione dei periti sul relitto per esaminare la testa fusa. È tempo di indagini tecniche sulla funivia del Mottarone. Accertamenti irripetibili per rispondere ai quesiti della perizia che dovrà stabilire perché il 23 maggio si è spezzata la fune traente dell'impianto facendo precipitare la cabina numero 3 con 15 persone a bordo: tutti morti, tranne un bimbo. Il consulente Giorgio Chiandussi, nominato dalla Procura di Verbania, ha consegnato ieri alla procuratrice Olimpia Bossi e al sostituto Laura Carrera una prima relazione dopo il sopralluogo sui rottami effettuato nei giorni scorsi per formulare le domande a cui gli esperti nominati dalle parti dovranno dare una risposta, in particolare relative alla causa del cedimento del cavo e al malfunzionamento del sistema frenante. Determinate sarà capire se i freni di sicurezza entravano in funzione per segnalare qualche anomalia della fune che l'inserimento dei forchettoni avrebbe fatto passare in secondo piano, oltre a non evitare che la funivia precipitasse. Il caposervizio Gabriele Tadini, ora ai domiciliari, si è assunto la responsabilità della decisione «scellerata» di inserire i ceppi per impedire ai freni di entrare in funzione. Ma il gip non ha creduto alla versione del «tutti sapevano», non convalidando il fermo del titolare delle Ferrovie del Mottarone, Luigi Nerini, e del direttore d'esercizio Enrico Perocchio, che rimangono indagati per concorso in omicidio colposo plurimo, lesioni gravissime e rimozione di sistemi di sicurezza. Ma le indagini sono destinate ad allargarsi ai dipendenti che sapevano dei forchettoni e ai tecnici che si sono occupati della manutenzione. Gli avvisi di garanzia arriveranno non appena saranno pronti i quesiti della perizia, per consentire a tutte le parti di nominare i propri consulenti per seguire gli accertamenti. Gli altri manovratori dell'impianto ora temono di finire nel registro degli indagati, anche se erano solo esecutori. «Dicono che dovevamo rifiutarci di mettere i ceppi, ma noi prendiamo ordini dal caposervizio e non pensavamo ci fosse un pericolo. Tutti sapevano, non si può scaricare la colpa sugli operai. I ceppi erano su da tre settimane, sinceramente ero tranquillo. Mi fidavo dei miei superiori», si sfoga con i giornalisti Emanuele Rossi, uno dei dipendenti in servizio la mattina del disastro. Era stato Tadini, come sempre, a dire di mettere i forchettoni per bypassare il problema al sistema frenante. Una prassi, a suo dire avallata da Nerini e Perocchio per evitare di dover fermare la funivia per la manutenzione. Le prove di questa procedura si stanno cercando nelle mail e nei messaggi. Dopo le questioni giuridiche che hanno visto il gip smontare la ricostruzione della Procura, è il momento delle analisi tecniche su quello che rimane della funivia, ieri ispezionata anche dagli esperti del ministero delle Infrastrutture che conducono un'indagine parallela. La cabina lunedì sarà rimossa e trasportata altrove. Un'operazione complicata, ma necessaria, per esaminare la «testa fusa» - il cuneo di piombo che aggancia la fune traente alla cabina, che al momento si trova conficcato in un albero nei pressi del relitto - e il forchettone che ha impedito al sistema frenante di emergenza di entrare in funzione. Spostare la cabina richiederà tempo e competenza: la strada non sembra abbastanza larga per i mezzi dei vigili del fuoco e utilizzare un elicottero potrebbe essere pericoloso vista la presenza dei cavi portanti della funivia.

Claudia Guasco per “Il Messaggero” l'1 giugno 2021. Sul lago Maggiore la stagione estiva sta per cominciare, ma l'atmosfera non è quella effervescente dei bei tempi. All'imbarcadero di Stresa i battelli allineati aspettano i gitanti, i barcaioli agganciano i turisti. «Domani riaprono i palazzi borromei delle isole, speriamo arrivi gente. Ma ormai è finita», mormora sconsolato un addetto con il cappellino da marinaio. Finita ancor prima di ricominciare. La strage del Mottarone, gita suggestiva per ammirare il panorama lacustre da 1.490 metri di altezza, ha offuscato il paesaggio con un manto di dolore. Ci sono quattordici morti e tre cittadine in dieci chilometri - Stresa, Baveno, Verbania - che nel 2019 hanno avuto quasi 3 milioni di visitatori da tutta Europa e domenica scorsa i turisti dell'orrore. «Una famiglia di Saronno mi ha chiesto informazioni per arrivare in cima al Mottarone, sul luogo dell'incidente. È successo anche alla mia collega dall'altro lato della strada, eravamo sconvolte», racconta la proprietaria di un negozio di souvenir del centro. «È il nostro 11 settembre», esprime la sua angoscia la sindaca di Stresa Marcella Severino. Al palazzo del municipio le bandiere sono a mezz'asta, in chiesa brillano quattordici candele tante quante le vittime, la notizia del fermo dei vertici della società Ferrovie del Mottarone è stata un colpo, la loro scarcerazione ritenuta uno schiaffo. «Non posso negare che ci sia perplessità, quasi sconcerto nella mia comunità dopo le decisioni delle ultime ore - riconosce la sindaca - tuttavia sono sicura che l'inchiesta porterà al risultato che tutti noi auspichiamo, vale a dire fare luce su una vicenda che ci ha toccato e sconvolto». Ma dietro il dolore, il minuto di silenzio e la compassione per i morti serpeggiano ostilità interne e rivalità campanilistiche. Il giorno dopo l'incidente c'è chi chiede le dimissioni del primo cittadino e chi accusa di connivenza Stresa, che ha assegnato a Luigi Nerini la concessione dell'impianto fino al 2028. «Qualcuno si è permesso di dire che l'amministrazione e la comunità intera sapevano di questo modus operandi per la funivia. È intollerabile, inqualificabile», si indigna Marcella Severino. Il paese è piccolo, la Ferrovie del Mottarone ha 18 dipendenti in alta stagione e dieci nella bassa, sempre locali. L'insinuazione, dunque, è che tutti a Stresa fossero al corrente del fatto che le cabine circolassero con le ganasce sui freni di emergenza. Un'accusa che fa insorgere gli abitanti, soprattutto per una questione di cittadinanza: «Il Nerini non è dei nostri», dicono. È cresciuto a Verbania, abita a Baveno, a Stresa veniva giusto per staccare i biglietti. Motivo per cui qui se ne parla con evidente fastidio, a Verbania gli danno del traditore e a Baveno lo difendono. «È una bravissima persona. Mio marito ha lavorato con lui per anni, si è sempre comportato bene», è dalla sua parte la cassiera del supermercato accanto a Villa Claudia, la dimora d'epoca in decadenza dove Nerini risiede con il figlio. Ci si sposta di nove chilometri e si arriva a Verbania. Altro clima. Sabato, davanti al carcere, ai tavolini del Corona bar i colpevolisti facevano capannello. Grande delusione alla notizia che avrebbero scarcerato i tre fermati: «È una vergogna, hanno ucciso degli innocenti e sono liberi», protestava il gruppo. Chi non ha bisogno dello sfogo della piazza ma dell'aiuto dello psicologo, invece, sono gli addetti del soccorso alpino intervenuti la mattina del 23 maggio. Si sono trovati davanti agli occhi la cabina accartocciata, le vittime una sopra l'altra, i corpi sbalzati fuori. «In tanti anni di servizio non ho mai visto una cosa del genere - ammette Franco Gazzola -. Mercoledì sera abbiamo partecipato tutti a una seduta di gruppo, ciascuno ha raccontato quello che ha dovuto affrontare e come lo ha percepito. Quelle immagini resteranno per sempre dentro di noi, condividerle alleggerisce il peso».

Funivia Stresa Mottarone, tolto il fascicolo alla gip Donatella Banci: si oppose alla carcerazione degli indagati. Libero Quotidiano il 07 giugno 2021. Da Nicola Porro arriva una notizia a dir poco esplosiva sulla vicenda giudiziaria riguardante la strage del Mottarone. Il pm aveva fatto mettere le manette a Luigi Nerini, Enrico Perocchio e Gabriele Tadini, quest'ultimo reo confesso sulla rimozione dei freni d'emergenza per quanto concerne la cabina precipitata con 15 persone a bordo (14 sono morte). Il gip Donatella Banci aveva però fatto scarcerare Nerini e Perocchio e ordinato gli arresti domiciliari per Tadini: questo però in carcere si va preventivamente per gravi motivi stabiliti dalla legge e non dall'opinione pubblica. "Ebbene stamattina - scrive Porro sul suo sito - il presidente del Tribunale di Verbania ha esonerato la gip che si era opposta alle carcerazioni della Procura. Quante volte avete sentito che ad un giudice si toglie un fascicolo specifico e per di più così importante? E che giudice, la signora è anche presidente della sezione penale del medesimo tribunale. E senza mai un'ombra sul suo operato. O meglio un problema evidentemente Donatella Banci ce l'ha: è una garantista. Legge le carte, non ascolta i giornali, non segue la piazza". 

La gip è stata addirittura minacciata di morte per la sua decisione impopolare, ma assolutamente corretta. "Le hanno tolto il fascicolo - ha aggiunto Porro - riassegnandolo proprio a quel giudice che la stessa Banci dal primo febbraio aveva esonerato per i suoi ritardi, ritenuti cronici, nella redazione delle sentenze". Insomma, la follia manettara imperversa ancora anche nei tribunali: questa vicenda segna un'altra brutta pagina per la giustizia italiana. 

(ANSA l'8 settembre 2021) La cabina della funivia del Mottarone precipitata lo scorso 23 maggio dovrà essere rimossa entro il 15 ottobre. Lo hanno stabilito periti e legali nel confronto di oggi in tribunale a Verbania. La testa fusa rimasta infilzata in un albero sarà invece rimossa dai vigili del fuoco lunedì 13 settembre.

(ANSA l'8 settembre 2021) E' stata la ministra della Giustizia Marta Cartabia a promuovere l'azione disciplinare nei confronti dei magistrati che si sono occupati della strage della funivia del Mottarone, il presidente del tribunale di Verbania Luigi Montefusco e la gip Donatella Banci. L'iniziativa è stata assunta prima della pausa estiva dopo il rapporto degli ispettori di via Arenula. Del procedimento si occupa ora la procura generale della Cassazione guidata da Giovanni Salvi.

Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” l'8 settembre 2021. I giudici di Verbania che si sono occupati della strage della funivia del Mottarone finiscono sotto accusa. La Procura generale della Cassazione ha comunicato l'azione disciplinare a Luigi Montefusco, presidente del tribunale, e Donatella Banci, giudice che aveva sconfessato la Procura sul fermo dei tre indagati. Contestate a vario titolo «grave inosservanza» delle regole organizzative stabilite dal Csm, mancanza di «correttezza e diligenza» professionale e «gravi scorrettezze» verso gli altri giudici, con conseguente «lesione del principio costituzionale del giudice naturale e danno grave all'immagine dell'ufficio». La vicenda si riferisce a tre provvedimenti: l'iniziale esonero dai nuovi fascicoli di un'altra giudice, Elena Ceriotti; l'autoassegnazione del fascicolo sulla funivia da parte della Banci; la sottrazione del fascicolo alla Banci dopo il suo primo provvedimento, per opera del presidente Montefusco. I due incolpati possono depositare memorie e documenti, indicare testimoni e farsi interrogare. A quel punto la Procura della Cassazione può archiviare o mandarli a processo davanti al Csm. Montefusco è prossimo alla pensione: il processo disciplinare, in ogni caso, si estinguerebbe. Il tempo gioca a suo favore. Non così per la Banci. Che già davanti al Consiglio giudiziario di Torino aveva manifestato piglio battagliero. Il suo avvocato Davide Steccanella ha inviato in Cassazione una prima memoria. Trenta pagine per confutare tecnicamente le accuse, dimostrando correttezza e laboriosità della Banci. Precedute, però, da una ricostruzione del contesto in cui matura, all'inizio di giugno, lo scontro tra toghe. L'obiettivo è dimostrare che sull'operato della Banci «nessuno ha avuto da ridire». Nemmeno Montefusco che anzi l'aveva pubblicamente difeso come «esemplare». Fino al 3 giugno, quando gli indagati presentano un'istanza processuale che la Procura contesta e viceversa la gip Banci si appresta ad accogliere. Nei giorni successivi accadono fatti, e soprattutto intercorrono comunicazioni, che cambiano il corso della vicenda. Il 7 giugno il fascicolo viene tolto alla Banci. Agli atti ci sono mail, conversazioni e chat tra magistrati. La prima mail è del 4 giugno, parte di quello che la memoria definisce «un carteggio riservato». A inviarla al presidente del tribunale di Verbania è il procuratore generale di Torino, Franco Saluzzo. Prima di chiedere notizie sulle minacce ricevute dalla Banci, Saluzzo evoca «asperità forse eccessive» della stessa gip con la Procura e auspica soluzioni per ricondurre il rapporto a fisiologia. La Banci denuncia ora «l'inaudita gravità» della mail, collegandola agli eventi successivi. Saluzzo, che a fine giugno l'ha letta davanti al Consiglio giudiziario proprio davanti alla Banci, ha sempre bollato come «false e ridicole» le accuse di «pressioni» sul presidente del tribunale per farla sostituire. Le conversazioni e le chat avvengono invece tra gli stessi magistrati di Verbania, Montefusco e Banci, nei giorni successivi alla mail. Il presidente del tribunale prima chiede alla gip di non accogliere l'istanza degli indagati «anche per sottrarla a facili accuse di protagonismo», poi di «spogliarsi del fascicolo». Richieste entrambe respinte, sebbene accompagnate da riferimenti a imprecisati soggetti, estranei all'ufficio, che pure avrebbero sollecitato prudenza, nonché da suggerimenti a ponderare tutti gli effetti, anche personali, delle decisioni. Nessuno dei magistrati, interpellati ieri sera, ha inteso commentare.

La strage della funivia. Strage del Mottarone, la Cartabia mette nel mirino presidente del Tribunale e la gip Banci. Angela Stella su Il Riformista il 9 Settembre 2021. La tragedia del Mottarone continua a tenere banco più per lo scontro tra toghe che per le indagini sullo schianto della funivia, in cui hanno perso la vita quattordici persone. Ieri infatti si è appreso che è stata la ministra della Giustizia Marta Cartabia a promuovere l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati che si sono occupati della vicenda: il presidente del tribunale di Verbania Luigi Montefusco e la gip Donatella Banci Buonamici. L’iniziativa è stata assunta prima della pausa estiva, a seguito del rapporto degli ispettori di via Arenula chiamati lo scorso 15 giugno ad avviare un’inchiesta amministrativa. In particolare, il Ministero aveva chiesto all’ispettorato di procedere con accertamenti preliminari, a fronte delle notizie sulla sostituzione del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Verbania. Del procedimento si occupa ora la procura generale della Cassazione guidata da Giovanni Salvi. Al centro della contestazione disciplinare, la violazione delle regole tabellari, cioè delle norme sull’organizzazione degli uffici giudiziari e la distribuzione dei fascicoli ai singoli giudici secondo criteri predeterminati. In particolare vengono contestate, a vario titolo, “grave inosservanza” delle regole organizzative stabilite dal Csm, mancanza di “correttezza e diligenza” professionale e “gravi scorrettezze” verso gli altri giudici, con conseguente “lesione del principio costituzionale del giudice naturale e danno grave all’immagine dell’ufficio”. La giudice, difesa dall’avvocato Davide Steccanella, ha già depositato una memoria di 35 pagine. Potranno essere ascoltati anche dei testimoni. Al termine dell’istruttoria la Procura della Cassazione potrà archiviare o mandarli a processo davanti al Csm. Sempre il Consiglio Superiore della Magistratura a fine luglio, in plenum, si era espresso sulla questione: attraverso una delibera, era stata bocciata la revoca del fascicolo da parte di Montefusco alla Banci Buonamici. Inoltre erano stati ritenuti illegittimi, perché non conformi alle regole tabellari vigenti nell’ufficio, i decreti che riguardano l’organizzazione del lavoro: il primo che prevedeva l’esonero del giudice Elena Ceriotti per 4 mesi dalle funzioni di gip e anche quello dell’auto assegnazione del fascicolo da parte della Buonamici. Angela Stella

Otto e Mezzo, Marco Travaglio sulla strage della funivia: "Leggenda sui controlli solenne bestialità". Libero Quotidiano il 28 maggio 2021. Si è parlato del Dl Recovery e Semplificazioni appena approvato in Cdm nello studio di Lilli Gruber a Otto e Mezzo. Tra gli ospiti anche Marco Travaglio, che ha espresso le sue prime opinioni sul provvedimento. Soffermandosi per un attimo anche sull'incidente della funivia sul Mottarone, crollata la scorsa domenica con 15 persone a bordo. Il solo sopravvissuto è un bambino di 5 anni. "C’è una deregulation molto preoccupante, soprattutto alla luce di quello che abbiamo visto nello scandalo della funivia - ha affermato il direttore del Fatto Quotidiano -. La leggenda metropolitana secondo cui in Italia ci sono troppi controlli è una solenne bestialità. In Italia ci sono pochi controlli e molto silenzio-assenso". Parlando del decreto nello specifico, invece, Travaglio, incalzato dalla conduttrice, ha spiegato: "Tutti i partiti d'accordo? Di solito quando è così, c’è qualcosa che non funziona".  Poi ha aggiunto: "È stato appena varato, dalle anticipazioni si scopre che ci avevano provato su alcuni fronti, dal massimo ribasso alla liberalizzazione totale dei subappalti alla sospensione del codice degli appalti per 6 anni. E adesso invece la sospensione è solo fino al 2023, la liberalizzazione dei subappalti è dimezzata e sparisce il massimo ribasso". "Denunciare certi scempi, che inizialmente erano nel provvedimento, è servito a qualcosa - ha continuato l'ospite della Gruber -. E adesso vedremo se sono sparite anche le altre vergogne, perché ce ne erano delle altre. Praticamente era un provvedimento tracopiato con la carta copiativa dalla legge Obiettivo di Lunardi e Berlusconi".

Mottarone, accusa choc al "poker sovranista". Ma la verità è un'altra. Simone Savoia il 28 Maggio 2021 su Il Giornale. Un articolo del Fatto mette nel mirino le ricette sovraniste per le riaperture legandole alla tragedia. Come stanno davvero le cose. La tragedia di Stresa (a mezzogiorno della scorsa domenica una delle due cabine della funivia per il Mottarone è precipitata nel vuoto da 50 metri a causa della rottura del cavo traente e del blocco consapevole e criminale dei freni d’emergenza: 14 morti, soltanto il piccolo Eitan si è salvato) unisce tutto il Paese nel cordoglio e nello sbigottimento. Una mazzata anche psicologica proprio mentre l’Italia sperimenta le prime riaperture dopo 15 lunghi mesi di pandemia. Anche per questo ha lasciato sinceramente esterrefatti l’articolo del “Fatto Quotidiano” a firma di Leonardo Coen comparso ieri, 27 maggio 2021, a pagina 3, la prima che cade sotto l’occhio del lettore che apre il quotidiano. Il titolo è “Il poker sovranista mette in gioco la nostra pelle”. E cosa c’entreranno mai i famigerati sovranisti con la tragedia della funivia? Ci illumina (si fa per dire) lo stesso Coen, che scrive: “Battersi e scatenare polemiche per aprire a tutti i costi bar e ristoranti, quando moltissimi dei loro gestori non rispettano più di tanto le regole anti-Covid, è un indizio di questa deriva. Si concedono i benefici della ‘ripresa’ a chi spesso e volentieri elude ed evade le imposte, impone il lavoro nero, non rispetta le norme di sicurezza”. Tradotto: la tragedia della funivia nasce nel clima di riaperture a tutti i costi, volute dalla Lega e da Fratelli d’Italia e dagli altri cattivoni sovranisti sparsi per il Paese. Ora: a parte che anche il Presidente del Consiglio Mario Draghi, non un pericoloso sovranista, ha affermato solennemente che le riaperture saranno graduali ma irreversibili, ma forse Coen non ricorda che la seconda ondata di coronavirus in Italia (settembre-novembre 2020) fu scatenata soprattutto dall’affollamento dei mezzi pubblici tornati a riempirsi di studenti e pendolari, e non dai locali pubblici, chiusi quasi subito. Un settore che conta 333.640 attività tra ristoranti, bar, enoteche con cucina, eccetera, dove lavorano 1.252.000 persone. Un settore che nel 2018 ha generato 85,3 miliardi di fatturato, investendo 20 miliardi all’anno per l’acquisto dei prodotti. La stragrande maggioranza di ristoratori e baristi ha rispettato le norme e i protocolli di sicurezza, attingendo alla bisogna da bilanci già sottoposti a dimagrimento forzato dalle chiusure prolungate. Ristoranti e bar sono i principali canali di diffusione del settore agroalimentare italiano, cioè di 751.000 imprese agricole e 70.000 imprese dell’industria alimentare con un bacino di 3 milioni e 600mila lavoratori. Fermare oltre il necessario questo mondo significherebbe, in pratica, mettere a rischio quasi tutto ciò che lo stile italiano e il made in Italy rappresentano nel mondo. Non è un’isteria da sovranisti aver spinto per la ripartenza di questo settore, ma mera difesa per la sopravvivenza di una parte importante dell’economia e della stessa identità nazionale. Stesso ragionamento per il mondo della montagna, derubricato da lor signori a vezzo dei ricchi, novelli ‘cumenda’ desiderosi di sciare. In realtà sui 1.200 chilometri di estensione dell’arco alpino vivono 4 milioni e mezzo d’italiani e lavorano oltre 400.000 persone anche e soprattutto grazie a 2.000 impianti di risalita che garantiscono l’accesso a quasi 6.000 chilometri di piste. Imprenditori e lavoratori coscienziosi, non criminali che rimuovono freni d’emergenza in spregio alla sicurezza dei viaggiatori come accaduto sul Mottarone. Ma andiamo avanti con l’articolo di Coen. Che scrive: “Non scordiamo quel che successe un anno fa nella Bergamasca, quando le attività economiche e commerciali rimasero in funzione, fregandosene del contagio e favorendo i picchi dei decessi”. Al 31 marzo 2020 Bergamo e provincia contavano 2.060 morti per coronavirus e 2.700 decessi anomali riconducibili alla pandemia, arrivata in Italia il 20 febbraio 2020. Il capoluogo orobico e le sue Valli, specialmente la Seriana, furono martoriati come nessun altro luogo nel mondo occidentale. Certo, in quei giorni tremendi tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo la pressione di circa 90mila aziende della Bergamasca (quasi 380 sono tra Alzano e Nembro) si è fatta sentire a tutti i livelli, dai Comuni, a Regione Lombardia fino al governo di Giuseppe Conte. E ancora prima l’intera classe politica, di destra di centro e di sinistra, aveva sottovalutato la pericolosità pandemica del virus cinese. Basti ricordare le foto di diversi sindaci nei ristoranti cinesi, tra cui le prime cittadine 5 Stelle di Roma Virginia Raggi e di Torino Chiara Appendino, la visita del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla scuola Manin di Roma con numerosi alunni cinesi (6 febbraio 2020), l’aperitivo del segretario del Pd Nicola Zingaretti a Milano (27 febbraio 2020), gli appelli per la riapertura delle attività dei sindaci Pd di Bergamo, Giorgio Gori, e di Milano, Beppe Sala. Ci fu una sottovalutazione dell’intera classe dirigente italiana, male informata anche da organismi come l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Sottovalutazione che ad esempio portò alla decisione, poi rivelatasi suicida, di riaprire l’ospedale di Alzano dopo averlo chiuso per alcune ore il 23 febbraio 2020. Ma non furono solo i filmati promozionali di Confindustria a spingere, in quei giorni terribili, per riaperture scellerate. Anche dopo il paziente numero 1 di Codogno (20 febbraio 2020) il coronavirus sembrava ai più ancora un fenomeno controllabile. Andiamo al finale dell’articolo di Coen, che scrive: “I cadaveri del Mottarone… sono davanti ai nostri occhi. Ci riportano alla realtà, come il corpo inerte della bimba sulla battigia libica. Ma l’una e gli altri sono il frutto velenoso delle stesse dinamiche…. Certi politici giocano a poker sovranisti con le nostre vite, irresponsabilmente spacciando costanti rassicurazioni pur di favorire i propri elettori in barba ai controlli, … comprese le essenziali procedure di sicurezza per evitare incidenti nel mondo del lavoro, nelle strutture di servizio o in quelle turistiche. Per il pokerista il rischio è accettabile. Ma per noi?”. Boom! Finale col botto! Quindi, se siete elettori della Lega o di Fratelli d’Italia (i partiti più ‘aperturisti’ della scena politica) o se siete semplicemente dei cittadini che vivono facendo i ristoratori o i baristi o i lavoratori della montagna, secondo Coen e il “Fatto Quotidiano” siete dei giocatori di poker moralmente responsabili di tragedie varie, dall’incidente della funivia all’immigrazione passando per le vittime del coronavirus. Se non ci fossero drammi epocali e complessi evocati da questo contesto, potremmo rispondere che i pokeristi sovranisti sono andati a vedere le carte di Coen. E hanno scoperto l’ennesimo, assurdo bluff radical chic.

Simone Savoia. Napoletano, ma anche apollosano caudino, ma anche un pochettino piemontese. Annata 1976. Quotidiani e tv locali a Napoli, poi a Milano. Dal 2008 collaboratore di Videonews Mediaset, con Mattino Cinque e Dritto&Rovescio. Uditore enologico con i degustatori dell'Associazione Italiana Sommelier, munito di videocamera e microfono per vigneti e cantine d'Italia. Tifoso del Napoli e della Polisportiva Apollosa 1981. In emotiva partecipazione anche per il Benevento Calcio. Troppo ottimista per essere pessimista. Troppo pessimista per essere o…

Claudia Guasco per "il Messaggero" il 3 giugno 2021. Gli addetti della funivia vengono convocati uno dopo l'altro nella caserma dei carabinieri di Stresa. Anche ieri, come lunedì, gli investigatori hanno ascoltato nel ruolo di persone informate sui fatti i dipendenti della Ferrovie del Mottarone: chi era al lavoro la mattina della strage, costata la vita a quattordici persone, chi obbediva agli ordini del direttore del servizio Gabriele Tadini. A tutti lui rispondeva la stessa cosa, quelle ganasce che bloccavano il freno di emergenza dovevano restare agganciate. Come mette a verbale Stefania Bazzaro: «So per certo che Tadini ordinava l'applicazione e il regolare funzionamento dell'impianto anche con i ceppi installati. Questo inverno gli ho chiesto espressamente se dovessi togliere i ceppi per la messa in funzione della funivia. Mi ha risposto di lasciarli dov' erano a causa di un problema all' impianto frenante che causava l'inserimento del sistema di emergenza». Per alcuni dipendenti la posizione potrebbe cambiare: si tratta degli operatori che su ordine di Tadini, ora agli arresti domiciliari, nel corso delle ultime settimane hanno lasciato innescati i forchettoni. Uno di loro, Emanuele Rossi, si difende: «Dicono che ci dovevamo rifiutare di mettere i ceppi, ma eseguivamo gli ordini del caposervizio». Un impedimento labile secondo i pm di fronte a una pratica, quella del disinserimento dei freni, vietata da tutti i regolamenti di sicurezza e la conseguenza sarebbe l'iscrizione nel registro degli indagati con il concorso nella rimozione volontaria di cautele contro gli incidenti. Dalle audizioni dei dipendenti gli investigatori vogliono raccogliere elementi precisi, quando e con quale frequenza i forchettoni venissero inseriti, se fosse una decisione autonoma di Tadini o condivisa, come lui sostiene, con l'amministratore unico Luigi Nerini e il capo operativo servizio Enrico Perocchio. Ma anche delle criticità evidenziate dall' impianto, che potrebbero essere correlate con la rottura del cavo. Nel vertice in Procura di tre giorni fa l'ingegnere del Politecnico di Torino, Giorgio Chiandussi, ha messo sul tavolo una serie di ipotesi, premettendo che prima degli accertamenti tecnici restano tutte teoriche: l'usura del cavo, il difetto di fabbricazione, l'impiego assiduo delle ganasce che potrebbe avere scaricato una tensione eccessiva sulla fune e, quindi, la rottura all' altezza dell'attacco del carrello. E c' è un altro elemento importante da chiarire, cioè quella misteriosa disfunzione ai freni ripetutamente avvertita da Tadini e di cui i manutentori non hanno trovato traccia. Nell' interrogatorio chiuso alle 23.55 del 25 maggio riferisce di «alcune anomalie alla centralina dell'impianto frenante relativo alla cabina numero 3». Il sistema «continuava a entrare in pressione, si sentiva anche un rumore tipico di quando carica per riportare il valore della pressione nella norma. Il fatto si verificava ripetutamente e questo poteva causare problemi alle batterie, scaricandole e deteriorandole, tant' è vero che ne avevo già sostituita una durante l'inverno». Così chiama la manutenzione. «I tecnici della Rvs sono venuti una volta prima della riapertura del 26 aprile e hanno controllato in particolare proprio la vettura numero 3. Dopo il loro primo intervento il problema si è riproposto quasi immediatamente. Ho chiesto quindi un altro intervento tramite l'ingegner Perocchio e ho chiesto di fare una verifica a tutte quattro le cabine. L'impianto aveva già riaperto, poteva essere il 3 maggio. Ho fatto presente che la questione non si era risolta, però mi dissero che quando c' erano loro tutto funzionava». Da venerdì 21 maggio i forchettoni vengono inseriti stabilmente da Tadini, «senza mai rimuoverli» in attesa dei manutentori. Ma il sole brilla, arrivano i turisti e il responsabile della sicurezza rinvia l'appuntamento alla settimana successiva: «Le previsioni erano brutte e si sarebbe potuto interrompere il servizio». Troppo tardi, domenica 23 accade il disastro.

"Fune usurata dall'uso dei forchettoni". Patricia Tagliaferri il 3 Giugno 2021 su Il Giornale. Accertamenti sul rapporto causa-effetto. I dubbi sulle immagini del videomaker. È sempre stata una delle ipotesi al vaglio degli investigatori che indagano sul disastro della funivia del Mottarone, ma alla luce di quanto sta emergendo sul ricorso ai forchettoni per disattivare i freni di emergenza (che in Europa non sono obbligatori), sta prendendo piede la pista che proprio un uso smodato dei ceppi, che potrebbero aver scaricato sulla fune traente una tensione eccessiva, abbia contribuito al suo cedimento. Se finora si pensava che il campo dell'indagine fosse circoscritto a circa un mese prima della tragedia - più o meno dalla fine di aprile a domenica 23 maggio, quando la cabina numero 3 è precipitata uccidendo 14 persone - adesso la Procura di Verbania punta a ricostruire il più possibile la storia degli ultimi sette anni della funivia perché sospetta che gli ormai noti forchettoni, colorati di rosso proprio per renderli visibili, fossero impiegati con una frequenza tale da indebolire la fune d'acciaio. Un'ipotesi a cui non crede Valeria Ghezzi, presidente dell'Associazione nazionale esercenti impianti a fune: «Dire che la fune è stata danneggiata dall'utilizzo dei forchettoni mi sembra eccessivo». Il caposervizio Gabriele Tadini ha ammesso che negli ultimi tempi l'inserimento dei ceppi era diventata una prassi nota a tutti per bypassare un malfunzionamento che faceva bloccare la funivia. Ma dei filmati amatoriali girati da un videomaker svizzero, ora agli atti dell'inchiesta, mostrano l'impianto girare con i forchettoni inseriti già nel 2014, tra l'altro lo stesso anno in cui la funivia fu chiusa per un radicale intervento di ristrutturazione. Il procuratore Olimpia Bossi per ora è cauta su questo punto, anche perché nei verbali gli operai spiegano che, una volta rimossi, i forchettoni vengono lasciati per comodità sulla pedana di ispezione presente sul carrello superiore della cabina. Le immagini del 2016, dunque, potrebbero averli ripresi posati ma non inseriti nel sistema frenante. Certo la possibilità che il ricorso «scellerato» ai forchettoni possa aver contribuito al cedimento del cavo, è una delle piste su cui si concentrano gli accertamenti tecnici disposti dalla Procura sui resti della cabina. Su un eventuale nesso causale tra l'utilizzo dei ceppi e il deterioramento della fune sta lavorando il consulente dei pm, che lunedì effettuerà un nuovo sopralluogo sul luogo del disastro per valutare anche le modalità di rimozione della cabina per trasferirla altrove e dare il via ai cosiddetti accertamenti irripetibili, ai quali parteciperanno i periti di tutte le parti. Non solo quelli di Tadini, del titolare delle Ferrovie del Mottarone, Luigi Nerini e del direttore d'esercizio, Enrico Perocchio, ma anche di coloro che nelle prossime ore dovrebbero ricevere un avviso di garanzia perché sapevano dei forchettoni. Sarà determinante esaminare la «testa fusa», il cuneo di piombo che si aggancia alla cabina e che dopo lo schianto si è andato a conficcare in un albero. Solo aprendolo si potranno conoscere le condizioni dei centimetri finali della fune.

Da corriere.it il 3 giugno 2021. Luigi Nerini, il gestore della funivia Stresa Mottarone, indagato dopo la tragedia costata la vita a 14 persone, è sotto inchiesta da pare della procura di Verbania per altri due incidenti: sono avvenuti negli anni scorsi lungo l’impianto Alpyland, una pista per bob su rotaia lungo lo stesso pendio del Mottarone e gestito sempre da una società di Nerini. La circostanza emerge dalla richiesta di convalida del fermo che eras stata presentata dalla pm Olimpia Bossi ma che era stata rigettata dalla gip Donatella Banci Buonamici. Il particolare non è collegabile con il disastro di domenica 23 maggio ma viene ricordato dalla procura per sostenere «la già dimostrata insofferenza ad uno scrupoloso rispetto delle misure di sicurezza volte a tutelare l’incolumità degli utenti di tale genere di impianti». Gli incidenti si sono verificati nel 2017 e nel 2019 provocando il ferimento di un dipendente e di un passeggero. Il reato ipotizzato sono le lesioni colpose. Il socio di Nerini nella gestione di Alpyland aveva preso le distanze dall’imprenditore indagato proprio per divergenze sulla gestione dell’impianto di «rollercoaster».

Andrea Pasqualetto per il "Corriere della Sera" il 3 giugno 2021. C'è chi non sapeva che i forchettoni disattivano i freni e ricorda di averli visti con i passeggeri a bordo perché «Tadini voleva così»; c'è chi dice di non aver mai fatto un corso di formazione e chi racconta della corsa di prova del mattino, che serve a controllare la sicurezza dell'impianto prima dell'apertura al pubblico, fatta con i turisti in cabina, anche la mattina del disastro. E c'è chi, al termine dell'audizione, allarga le braccia: «Senta, lo sapevamo tutti che non era normale viaggiare con i forchettoni montati... ma io temevo di perdere il lavoro se avessi detto no». Loro sono gli addetti della funivia del Mottarone, macchinisti, vetturini, agenti di stazione, bigliettai. Tutti in qualche modo testimoni di questo piccolo mondo in cui è maturato il disastro. Sono in nove, sentiti dagli investigatori, e i loro racconti messi in fila tratteggiano un quadro sconcertante dell'impianto teatro della sciagura. Per esempio, Pietro Tarizzo, l'operatore che il giorno del disastro controllò l'integrità delle funi, la racconta così: «Quella mattina, per la corsa di prova, non sono salito da solo ma con altre 12 persone, oltre al mio collega Zurigo. Questa è stata la corsa di prova quella mattina». Il giro che dovrebbe testare l'impianto prima che la gente ci salga aveva dunque la gente a bordo. Possibile? Lo stesso Tarizzo critica la scelta. Per quale motivo l'ha fatta allora? «Perché Nerini ci ha detto "il gruppo sale con voi". E a loro "salite"». Come dire, dovete portare anche loro. Tra l'altro, quella notte c'era stato un temporale che avrebbe dovuto suggerire prudenza a chi doveva aprire l'impianto. Ma Luigi Nerini è il titolare, proprietario della Ferrovie del Mottarone che gestisce la struttura, e per Tarizzo non è facile dire di no. Il patron era dunque lì quella mattina, il primo ad arrivare. «C'erano lui e la signora Patrizia... sono andato a verificare le funi tenditrici. Ho fatto un controllo visivo puntando una pila su tutti i trefoli. Non c'erano anomalie. Dopodiché siamo saliti con le 12 persone sul Mottarone». Gli chiedono se è una consuetudine fare la corsa di prova con i turisti. «No, non lo è ma capita». E fatalmente è successo il giorno del disastro. «Quei 12 passeggeri hanno rischiato la vita in un giro di prova», l'amara deduzione degli inquirenti. Una certezza ormai c'è: la cabina si è schiantata perché erano stati inseriti i famigerati ceppi, chiamati anche forchettoni, che disattivavano i freni d'emergenza. Ma chi li metteva? E quanti dipendenti sapevano del rischio che comportava quell'operazione con i passeggeri a bordo? Fra i nove dipendenti c'erano diversi livelli di consapevolezza. Patrizia Giannini, agente di stazione, l'ha detto chiaro: «Non sono a conoscenza della funzione del forchettone. So solo che venivano messi a fine giornata, a impianto fermo e cabina vuota». La sua collega Stefania Bazzaro, macchinista, sapeva invece bene quali fossero i rischi del dispositivo inserito. Lei qualche volta li ha anche usati, quando c'erano i passeggeri: «Era Tadini a ordinare l'applicazione dei ceppi sui freni d'emergenza anche durante il regolare funzionamento dell'impianto. Quando gli ho chiesto se dovessi toglierli lui mi ha risposto di lasciarli dov'erano che c'era un problema ai freni». Il vetturino Ahmed El Khattabi parla di dimenticanze: «È capitato di far viaggiare i passeggeri nella cabina con i ceppi. Per quanto ne so io succedeva quando l'addetto si dimenticava di toglierli. Ma è severamente vietato farle viaggiare così». Fra chi sa e chi non sa c'è Fabrizio Coppi, agente di stazione, che ha dichiarato di non avere certezze sul fatto che la cabina possa viaggiare con persone a bordo e ceppo inserito: «Credo di no. Io li ho messi e tolti diverse volte. Ricordo di aver chiesto chiarimenti a Tadini, quando mi ordinò di non levarli. Disse: prima che si rompa una traente o una testa fusa ce ne vuole». A Coppi rimase impressa anche un'altra frase, questa del titolare Nerini, a proposito di pericoli: «All'inizio mi disse "stai tranquillo che tanto non succede niente". Il mese dopo fui costretto a calare 38 persone da una cabina bloccata». In fatto di formazione del personale, tema sul quale la Procura di Verbania insiste molto, Coppi dice di non aver fatto corsi particolari: «Ho imparato sul campo, dal personale più esperto». Come del resto il suo collega Alessandro Zurigo, prima vetturino e poi bigliettaio: «Feci solo un affiancamento con Tadini per una settimana». Altri, qualcosa hanno fatto. È il caso del figlio del gestore, Federico Nerini, 22 anni, agente di stazione: «Ho effettuato un corso sulla sicurezza e antincendio qualche mese dopo la mia assunzione e un apprendistato in Dad di un mese». E della macchinista Bazzaro, la quale spiega che normalmente «per svolgere le mie mansioni si viene affiancati a un operatore per un periodo e dopo si effettuano delle prove tecniche: Io ho effettuato queste prove quasi subito». In definitiva, questi dipendenti dicono che, nonostante perplessità e timori, dovevano obbedire: forchettoni, giro di prova, formazione. Il motivo? «Io sono stagionale e temevo di perdere il posto», ha sintetizzato Tarizzo. Poi succede la sciagura, uno di loro viene sfiorato dalla fune caduta, gli altri sanno di aver rischiato la vita. E corrono a prestare soccorso. Come Massimo Ogadri, vetturino in servizio quel giorno: «Dal Mottarone ho visto del fumo salire in cielo dopo il pilone. Sono andato da solo sul posto, ho visto la vettura schiantata contro gli alberi. Mentre mi avvicinavo ho trovato il primo cadavere, a una trentina di metri dal pilone a terra, dove c'erano i segni del primo impatto con il suolo... Sono entrato nella cabina, ho trovato un uomo che respirava ancora, ci ho parlato per qualche attimo. Poi è morto davanti a me».

Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 4 giugno 2021. «Stavo facendo una passeggiata con una coppia di amici sul sentiero che porta al Mottarone, ero giunta quasi all'arrivo della funivia, proprio sotto la stazione. Mi sono girata per fare qualche foto e ho visto la cabina che stava salendo adagio adagio Siccome faccio spesso questo sentiero, già mi era capitato di vedere la cabina in fase di arrivo. Ma questa volta ho notato una stranezza: era troppo bassa rispetto al solito. E così ho allertato la mia amica Marianna, dicendole di spostarsi». Marcella Pepice era proprio lì, sul punto di rottura, la mattina della sciagura. L'allerta all'amica è stato in realtà un urlo, dice l'altro che era con loro, per il fatto che la cabina ce l'aveva sulla testa. Cosa stava succedendo alla funivia? O sono solo suggestioni? Gli inquirenti cercheranno di capirlo con il loro consulente, il professor Giorgio Chiandussi, anche se gli esperti di impianti a fune invitano alla prudenza: «La quota della cabina non è determinata dalla fune che si è rotta ma da quella portante, che è rimasta integra, così almeno pare». E sempre da quel terzetto di escursionisti esce un'altra testimonianza ritenuta importante e depositata agli atti del procedimento. Quella del marito di Marianna, Renzo Libanoro: «Dopo un po' ho sentito un rumore molto forte e strano, assomigliava a una frustata. Ha avuto una durata di circa cinque secondi. Sono riuscito a vedere un cavo d'acciaio che si era staccato... La parte finale era collegata a qualcosa delle dimensioni di circa mezzo metro». Era forse la cosiddetta testa fusa, cioè la parte terminale della fune dove pare sia avvenuto il distacco? Tutta materia da ingegneri e perizie. E a proposito di perizie, ieri l'avvocato Marcello Perillo, difensore del principale indagato, il capo servizio della funivia Gabriele Tadini, ha chiesto al gip, Donatella Banci Buonamici, un incidente probatorio per cristallizzare le prove sui motivi del cedimento della fune: «Causa primaria della caduta della funivia», scrive in tre paginette dove non mancano le punzecchiature: «Dal momento dell'incidente sono già trascorsi 11 giorni, si tratta di radura boschiva di libero accesso». Vuole dire che c'è il rischio che la prova venga alterata dal tempo e dall'uomo, «visto il passaggio di persone anche non addette». Curiosi e giornalisti. «Degrado significa perdita di dettagli utili alla comprensione del cedimento», aggiunge il professor Andrea Gruttadauria, esperto di ingegneria dei metalli, nominato consulente dalla difesa di Tadini. «Io non mi opporrò», fa sapere l'avvocato Pasquale Pantano, difensore di Luigi Nerini. Nel frattempo è rimbalzata la notizia che lo stesso Nerini, titolare della Ferrovie del Mottarone che gestisce l'impianto, risulta indagato in altri due procedimenti. Qui la funivia non c'entra. C'entra Alpyland, una pista su rotaia che si snoda sul pendio della montagna. È sua. Si tratta di fascicoli nati dal ferimento di un dipendente nel 2017 e di un passeggero nel 2019. Due denunce in quattro anni, fa però notare chi ne sa, sono numeri nella norma.

Ivan Fossati e Niccolò Zancan per “la Stampa” il 4 giugno 2021. C' è una foto che adesso non si può guardare senza provare sgomento. La funivia è proprio in quel punto: quasi in vetta, a pochi metri dalla stazione del Mottarone. È il primo pomeriggio di domenica 9 maggio, mancano due settimane allo schianto che è costato la vita a 14 persone. È una domenica speciale, la prima in zona gialla. Va in scena l'undicesima edizione del «Trail del Mottarone», una corsa di 20 chilometri in salita. Settecento persone si sono iscritte alla gara. Partenza da Stresa, arrivo in cima alla montagna. Il fotografo Danilo Donadio è in servizio per La Stampa, scatta molte foto, anche il ritorno a valle dei corridori. Ecco quello che si vede nella fotografia: la cabina numero 4 è piena zeppa di persone, ben oltre i 18 posti consentiti dalla normativa Covid. Ma quel che è peggio, è che la cabina numero 4 ha i famigerati forchettoni inseriti. Si vede la coppia di ceppi rossi, in alto, a bloccare il sistema dei freni d' emergenza. Per tutto il giorno la funivia si riempie di persone, avanti e indietro, in spregio a tutte le norme di sicurezza. «Abbiamo ricevuto non poche lamentele» dice Max Valsesia, uno degli organizzatori della gara. «Il ritorno in funivia era compreso nell' iscrizione per 30 euro, ma se ne occupava direttamente il gestore Luigi Nerini. Non so quali fossero le restrizioni e nemmeno conosco i protocolli, spettava a lui occuparsene. So che si era creato un tappo alla partenza, faceva freddino e le lamentele erano per l'eccessiva attesa. C' erano famiglie, molti bambini». Forse è per quel motivo che le cabine 3 e 4 giravano piene. Quello che non si capisce è perché fossero bloccati i freni anche della numero 4, visto che fino a oggi il capo servizio Gabriele Tadini ha sempre ripetuto che i problemi erano sulla vettura numero 3. E solo quella, la vettura poi precipitata, era stata utilizzata senza freni d' emergenza. «Gabriele Tadini ripete sempre le stesse parole», dice l'avvocato Marcello Perillo. È appeno stato a colloquio da lui nella casa di Borgomanero, dove si trova agli arresti domiciliari. «Tadini continua a ripetere che i freni d' emergenza sono stati disinseriti solo alcune volte e sempre sulla cabina numero 3, per quel noto problema al sistema idraulico che mandava in avaria l'impianto». L' unico indagato sottoposto a misura cautelare vive giorni di grande solitudine, quasi tutti i colleghi gli hanno voltato le spalle. Lui ripete di aver preso quella decisione dopo averne parlato con il gestore Luigi Nerini e con il responsabile di esercizio Enrico Perocchio. Ma se è vero quello che raccontano a Stresa, non sarà facile dimostrarlo: «Tadini usa un vecchio telefono, non ha nemmeno WhatsApp». E Perocchio, davanti al giudice per le indagini preliminari, ha ripetuto questa frase: «Trovatemi una sola mail o un solo messaggio in cui io vengo informato dell'uso dei forchettoni». No, secondo le testimonianze del vetturino Fabrizio Coppi, il solo a confermare la versione di Tadini, quando c'era un problema tecnico il capo servizio telefonava e parlava con i suoi superiori, spesso li aveva sentiti discutere animatamente. Così gli investigatori cercano eventuali tracce nei computer, nei tabulati e nei telefoni degli indagati. Mentre i periti tornano nel bosco, sotto la stazione di monte. Dove tutti si occupano di stabilire le ragioni del cedimento della fune traente. Lunedì tornerà lassù anche l'ingegner Giorgio Chiandussi del Politecnico di Torino, il perito nominato dalla procura. Ieri avrebbero voluto avvicinarsi i periti di parte, Riccardo Falco e Andrea Gruttadauria, un fisico e un esperto di ingegneria dei metalli. «Vogliamo fare una ricognizione diretta, finora abbiamo potuto esaminare solo delle fotografie», diceva l'avvocato Perillo. Ma il permesso non gli è stato accordato. «La procura ci ha vietato la ricognizione, sono molto risentito», ha detto l'avvocato allontanandosi. Insomma, la strage del Mottarone sta prendendo la forma di tutte le tragedie italiane. E infatti ecco arrivare la notizia che «le indagini si allargano a altri incidenti», cioè quelli avvenuti su un altro impianto della stessa società di Luigi Nerini, la Alpyland, una pista di bob su rotaia. Un incidente nel 2017, l'altro nel 2019: feriti un dipendente e un passeggero. Certo: sono tante le domande in cerca di risposta. Ma oggi, per noi, la più importante è questa: perché domenica 14 maggio la cabina numero 4 della funivia viaggiava piena di persone e senza freni?

(ANSA il 21 luglio 2021) "Quel cavo non si doveva spezzare, è inconcepibile. Non riesco a darmi pace". Sono le parole di Gabriele Tadini, capo servizio della funivia e l'unico ad essere ai domiciliari per la tragedia del Mottarone in cui lo scorso 23 maggio sono morte 14 persone e solo un bimbo è sopravvissuto. Tadini, attraverso il suo difensore, Marcello Perillo, ha chiesto e ottenuto l'incidente probatorio che prenderà il via domani per accertare le cause della sciagura. "Finalmente - ha detto al suo legale - cominciamo a fare accertamenti sulla fune. E' una questione che non mi fa dormire: al di là dei forchettoni inseriti non si doveva rompere".

Funivia Stresa Mottarone, Bechis spulcia le carte: "Impianto a rischio? Si capiva già prima del crollo". Franco Bechis su Libero Quotidiano il 05 giugno 2021. L'atto è quasi lapalissiano: il 29 maggio scorso la comunità finanziaria ha deciso di fare precipitare la valutazione della solidità della società Ferrovie del Mottarone, con la comunicazione che ora campeggia nella relativa scheda sulla banca dati Cerved-Camere di commercio: "Variazione negativa della affidabilità", e l'aggiunta: "L'attuale valutazione è: non affidabile". Postilla: "Non esistono le premesse per la concessione di un fido". Per qualsiasi lettore ovviamente non è una sorpresa: ci mancherebbe fosse considerata affidabile dalla comunità finanziaria quella funivia dopo la tragedia del crollo della cabina e la morte di quattordici passeggeri e l'ovvio successivo sequestro dell'impianto. Ma è scorrendo quella scheda che si scopre un'altra verità. Perché alla voce "Ritagli di stampa di tenore negativo" si trova: "Non emergono notizie". E infatti non è il crollo della cabina ad avere causato l'inaffidabilità della funivia. Ma l'analisi avvenuta a fine maggio dell'ultimo bilancio di esercizio, appena depositato: quello relativo all'anno 2020. Naturalmente nulla di quel che è scritto in quelle pagine può giustificare o motivare la tragedia che è avvenuta e le responsabilità dei singoli. Ma lì c'è una verità assai diversa da quella descritta sulla stampa nei giorni successivi alla strage sulla base dei dati del 2019: l'anno della pandemia aveva messo infatti ko la società di Luigi Nerini, che era ormai vicinissima al capolinea, "non affidabile" per il sistema bancario. In un anno la società era passata da guadagnare 439.005 euro (bilancio 2019) a perderne 81.831 (bilancio 2020), ma soprattutto il fatturato si era dimezzato.

Chiusure e capienza. Nella nota integrativa si elenca con semplicità quello che è accaduto. "Nella stagione 2020 è scoppiata la pandemia Covid 19 e, a causa dell'emergenza epidemiologica, la Funivia è stata chiusa dall'8 marzo al 29 maggio, per disposizione del Dpcm, e nel mese di dicembre attiva solamente dal 19 al 23. I giorni di chiusura relativi alla stagione 2020, nei quali abbiamo dovuto sospendere il servizio, sono stati 108 in totale". E poi: "Per disposizione del Ministero dei Trasporti, dalla riapertura dell'impianto il 30 maggio 2020 è stata ridotta la capienza delle cabine. Nel 2019 sono stati trasportati n. 107.587 utenti, mentre nel 2020 n. 50.453. Nel 2020 vi è stato un calo del 53% di affluenza rispetto all'anno precedente e di conseguenza anche un calo di fatturato pari ad euro un milione circa". Infine (la relazione è datata primo aprile 2021) si avverte: "Il protrarsi delle restrizioni disposte anche nel 2021 a causa dell'emergenza ha determinato che, nella stagione in corso, la Funivia è stata ancora chiusa dal 1° al 15 gennaio e dal 15 marzo ad oggi. Per tutte le motivazioni di cui sopra, ne consegue un importante squilibrio del piano economico finanziario per un evento imprevedibile non imputabile al normale rischio imprenditoriale". Quelle funivie hanno visto dunque sparire un milione di incassi come conseguenza dei dpcm dello scorso anno. A compensazione, hanno ottenuto un primo ristoro dal decreto che Giuseppe Conte varò il 19 maggio 2020 di 14.324 euro e un secondo ristoro dal nuovo decreto Conte di fine ottobre 2020 per la stessa identica somma. A questa hanno aggiunto 213 euro di credito di imposta per la sanificazione, altri 1.645,05 euro di tax credit affitti e 1.500 euro di bonus una tantum della Regione Piemonte. Un milione di euro perduti con le chiusure e 32.006,05 euro di risarcimenti ottenuti. In più garanzie pubbliche per 19.834,96 euro di prestiti ottenuti per andare avanti. Ci si poteva attendere da un'azienda in queste condizioni finanziarie un investimento particolare sulla manutenzione degli impianti? Difficile dire di sì, anche se i doveri di sicurezza non dovrebbero mai venire meno e certo se le risorse non bastavano sarebbe stato saggio lanciare sos agli enti pubblici che- come il Comune di Stresa e la Regione Piemonte- sovrintendevano a quella concessione, anche correndo il rischio di perderla. E questo non è stato fatto.

Problema diffuso. Ma non bisogna chiudere gli occhi, perché la tragedia che è accaduta a Stresa potrebbe ripetersi anche altrove. Nel 2020 è come se fosse passato uno tsunami dentro molte piccole e medie società italiane, ed è ora di smetterla di illudersi di avere tappato la falla con quei ristori di Conte che come si vede nel bilancio delle Ferrovie del Mottarone erano cosa ridicola rispetto al danno reale. Questi numeri finora sconosciuti non servono ad alleggerire le responsabilità di chi ha tolto freni di emergenza o mancato ai propri doveri di gestore e amministratore. Ma debbono fare scattare un allarme vero, perché forse è proprio in quelle piccole infrastrutture legate al turismo, uno dei settori più in ginocchio per la pandemia, che bisogna buttare subito le risorse che arrivano dai piani europei.

La tragedia e le polemiche. Come è caduta la funivia del Mottarone, perché si è spezzato il cavo che ha causato la strage. Valerio Rossi Albertini su Il Riformista il 5 Giugno 2021. Come fisico della materia, vi potrei parlare delle cause presunte della rottura del cavo della ferrovia di Stresa, del possibile affaticamento dei fili di acciaio attorcigliati che costituivano il cavo, o di microscopici danneggiamenti non diagnosticati. Ma sarebbero ipotesi, che accerteranno i periti incaricati dal tribunale di eseguire le indagini sui materiali. In ogni caso, il risultato è lo stesso. Un cavo ha ceduto per logoramento spontaneo o per l’usura indotta da un uso improprio. Un evento rarissimo, che non avrebbe avuto conseguenze drammatiche, se i sistemi di sicurezza non fossero stati disattivati. Escludendo che qualcuno, anche tra coloro che hanno manomesso il sistema frenante, avrebbe desiderato arrecare danno ai passeggeri, come si è potuto verificare un disastro del genere? Cosa pensava(no) o cosa si augurava(no) che accadesse? Perché qualcosa hanno dovuto pensare o augurarsi, è impossibile che lo abbiano fatto in stato di perfetta incoscienza. Si tratta pur sempre di tecnici e, se un meccanico di auto toglie gli airbag o le luci di posteriori di frenata, indipendentemente dal motivo per cui lo fa, si rende ben conto delle possibili conseguenze. È di questo che voglio ragionare con voi. Nessuno sa quando sia nata la disputa tra Fisici e Ingegneri. Ognuna delle due categorie sostiene di possedere l’approccio corretto alla soluzione dei problemi tecnologici. Si narra che un fisico e un ingegnere discutessero su come si sarebbe potuto stabilire il peso di un aeroplano “747”. Il fisico ipotizzò che dovesse esistere una bilancia per carichi eccezionali e che si sarebbe potuta utilizzare quella. In alternativa, si sarebbe potuto usare il metodo di Archimede, immergendo l’aeroplano in una enorme vasca o piscina, misurando la spinta idrostatica. O ancora, si sarebbe potuto far decollare l’aeroplano in assenza di vento, calcolando il rapporto tra la potenza dei motori al momento del distacco dal suolo e la sua portanza alare. Oppure…Nel frattempo l’ingegnere aveva telefonato all’ufficio tecnico della Boeing e gli avevano detto che il peso a vuoto del “747” è 180 tonnellate. Non sempre l’ingegnere può telefonare a qualcuno per risolvere il problema e quindi i fisici non rischiano di restare disoccupati, ma questo aneddoto suggerisce il motivo per cui ponti, viadotti e funivie sono solitamente infrastrutture affidabilissime e per cui, quando accade un disastro, ci deve essere stato un motivo molto serio: qualcosa deve essere andato storto per cause che non potevano essere evitate durante il progetto e la costruzione dell’opera. Vediamo come procede un ingegnere quando deve valutare la tenuta, cioè il carico massimo di un solaio. Il metodo consiste nel fare tutti calcoli, controllarli, accertarsi di non aver commesso errori, che le approssimazioni eseguite siano ammissibili. Giunto al risultato corretto… lo moltiplica per tre! È previsto che il solaio debba sostenere una carico massimo di due quintali per metro quadro? Benissimo, lo dimensioniamo in modo che possa reggerne sei! Certo, è un criterio empirico. Ma eviterà che, se qualcuno metterà una cassaforte al centro della stanza o se, per festeggiare la fine del distanziamento sociale, farà un party in cui le persone saranno accalcate come in discoteca, il pavimento crolli. Sempre ammesso che quel pavimento non sia stato indebolito da interventi edilizi inopportuni, infiltrazioni di acqua, terremoti. I cavi di una funivia sono sovradimensionati addirittura di 5 volte. Cioè, quando la cabina accoglie il numero massimo di passeggeri, il cavo dovrebbe essere in grado di sostenere uno sforzo fino a cinque volte superiore a quello da cui è sollecitato. Il numero magico precauzionale 3 è salito fino a 5, perché un conto è il cedimento di un solaio, con l’apertura magari di una crepa e, solo nel caso più funesto, un salto di tre metri. Tutt’altro è la caduta di una cabina piena di passeggeri da un’altezza vertiginosa. Invece di valutare le possibili cause dello strappo del cavo della funivia di Stresa, facciamo una considerazione matematica sui rischi, i rischi in generale. Vivere è un rischio. Qualunque cosa si faccia, qualunque attività si svolga, comporta un rischio. Quando ci alziamo dal letto la mattina dobbiamo essere consapevoli dei rischi a cui ci esporremo. Non per diventare paranoici, ma per prevenirli, o contenerne quanto possibile gli effetti. E allora che cosa facciamo, rinunciamo ad uscire di casa? Neanche questo sarebbe molto utile: la maggior parte degli incidenti che richiedono un intervento di pronto soccorso avviene tra le mura domestiche. Io credo che il motivo dell’incidente della funivia di Stresa sia fondamentalmente una errata percezione e valutazione del rischio. Gli aspetti tecnici, pur importanti, sono subalterni. Secondo quanto riferito da un dipendente dell’azienda che gestisce la funivia, il caposervizio Tadini, una volta gli disse: «Prima che si rompa il cavo ce ne vuole!». Questa frase incriminata, ripresa da giornali e siti internet come atto di accusa, di per sé è assolutamente condivisibile. Anzi di più, è la semplice constatazione di un dato oggettivo. Guai se così non fosse. Avremmo assistito a continui incidenti su tutte le funivie attualmente in funzione! Il problema però è quello che ho accennato prima. Percezione del rischio e valutazione delle conseguenze. Far circolare la funivia con i famigerati “forchettoni” inseriti, che – ormai lo sappiamo perfettamente – impediscono l’azione automatica di frenamento (nella rarissima ipotesi di rottura di un cavo) è come consentire il volo di un aereo senza paracaduti. Gli aerei sono i mezzi di trasporto più sicuri. La probabilità che cada un aereo in perfetta efficienza è così bassa da poterla considerare trascurabile? Assolutamente no! È qui l’errore. L’aereo senza fornitura adeguata di paracadute e degli altri dispositivi di sicurezza deve restare a terra e a nessun costo se ne deve autorizzare il decollo. La regola aurea di chi sa di statistica è questa: «Benché la probabilità di un certo evento sia bassissima, se le conseguenze del verificarsi di tale evento sono gravi, o peggio irreparabili, è imperativo considerare questa bassa probabilità come se fosse una certezza». Eh sì, perché non accadrà oggi, non accadrà domani, ma se c’è una probabilità che accada, per quanto piccola, prima o poi questo evento si verificherà. È la legge empirica del caso. Pensiamoci un attimo. È la stessa cosa che facciamo quando compriamo il biglietto della Lotteria Italia. Perché lo compriamo, pur sapendo che se ne vendono a milioni e che la probabilità di vincere sarà minima? Perché il premio è lauto: con tutta probabilità non vinceremo, ma la ricompensa così ghiotta ci spinge tuttavia ad acquistarlo. Insomma, ciò che di solito sarebbe trascurato, va invece considerato con estrema cautela, quando le ripercussioni sono di eccezionale importanza. Tanto più che esiste un teorema (delle probabilità congiunte) nel calcolo statistico che esprime la moltiplicazione della probabilità che si verifichi un evento anche raro, se si continua a ripetere più e più volte la prova. Se il forchettone fosse stato inserito solo una volta durante il funzionamento della funivia, la tragedia sarebbe stata conseguenza sì di un atto esecrabile, ma anche di una sfortuna colossale. Invece, da quanto inizia ad emergere, l’uso improvvido del forchettone era una prassi, o almeno un atto ripetuto. E, secondo il teorema delle probabilità congiunte, la tragedia – per quanto ancora molto improbabile – non sarebbe più stata poi così inverosimile. In fondo il teorema delle probabilità congiunte lo conosciamo tutti, in altra forma: tanto va la gatta al lardo…Valerio Rossi Albertini

Ivan Fossati Niccolò Zancan per “la Stampa” il 5 giugno 2021. La foto pubblicata ieri dalla Stampa, quella che mostra la cabina numero 4 della funivia piena di persone e con i freni bloccati dai forchettoni rossi, sarà acquisita agli atti dai carabinieri e entrerà a fare parte dell'inchiesta sulla tragedia del Mottarone. Nessuno aveva segnalato anomalie o guasti su quella vettura. Era domenica 9 maggio: tutti i passeggeri, inconsapevolmente, viaggiavano in condizioni di pericolo. Ma ecco quello che non si capisce: perché anche la cabina numero 4 girava senza freni d' emergenza? I problemi descritti dal capo servizio Gabriele Tadini sono tutti sulla cabina numero 3. Faceva rumori strani, perdeva olio e il sistema idraulico mandava in avaria l'impianto. Il gestore della funivia, Luigi Nerini, pagava un canone di 128 mila euro annui alla Leitner per le manutenzioni. A occuparsene doveva essere il responsabile d' esercizio Enrico Perocchio, il quale, a sua volta, faceva intervenire le ditte ritenute più idonee per la riparazione. Nel caso specifico del sistema frenante: erano stati chiamati i tecnici della Rvs di Torino, specializzati in impianti a fune. Nel 2021 erano già stati richiesti due interventi, anzi tre. «La prima chiamata per mettere a posto il sistema frenante risale al 5 febbraio» dice l'avvocato Marcello Perillo, che difende il capo servizio Tadini. «Dopo venti giorni circa, ecco una seconda chiamata per lo stesso problema, ma la manutenzione interviene solo il 30 aprile, come emerge dai documenti. Quanto alla terza richiesta di intervento, sempre per quel problema al sistema frenante, è stata avanzata a Perocchio la prima settimana di maggio. Ma non è così chiaro se l'intervento fosse in programma. Di sicuro fino al 23 maggio, quindi fino al giorno del disastro, l'intervento non era stato fatto». Insomma: due tentativi di riparazione, il secondo in ritardo. Più un terzo intervento richiesto, ma non ancora eseguito: secondo alcune voci, era in programma il giorno successivo allo schianto costato la vita a 14 persone. Ma se le anomalie erano sempre sulla cabina numero 3, se Tadini ha ammesso di aver fatto viaggiare quella vettura con i forchettoni inseriti per una decina di volte, allora cosa significa quella fotografia pubblicata dalla Stampa? Perché girava senza freni anche la cabina numero 4? Alcuni fatti certi, adesso, si possono mettere in fila. Gli interventi di riparazione, il primo e il secondo, non erano stati risolutivi. Tadini continuava a segnalare lo stesso guasto. Ma intanto l'impianto, fermo nei mesi invernali per la pandemia, aveva ricominciato a girare. Girava rabberciato, girava senza freni d' emergenza, girava in attesa di una nuova riparazione. È in questo contesto che, domenica 23 maggio alle 12.02, come immortalato da due videocamere piazzata in alto sul tetto della stazione d' arrivo, la fune traente si spezza, il contraccolpo spedisce indietro la cabina numero 3. Che raggiunge i 100 chilometri all'ora, prima di staccarsi dall' impianto lanciata verso l'alto e precipitare nel bosco. Quattordici morti. Un bambino di cinque anni, Eitan Moshe Biran, unico sopravvissuto.

(ANSA l'8 giugno 2021) "E' caduta una cabina della funivia di Stresa, in cima al Mottarone. Stiamo mandando tutti i mezzi che riusciamo a recuperare...." Sono passate da poco le 12 di domenica 23 maggio quando l'operatore del 118, una donna, comunica con queste parole quanto è appena accaduto ai carabinieri di Verbania. "In cima al Mottarone... non sappiamo esattamente dove. All'interno ci sono almeno sei persone, sicuramente gravissimi....", aggiunge la donna che non perde mai la calma, lasciandosi andare soltanto a un "che casino... che casino...", a metà della conversazione, resa nota dal sito del quotidiano La Stampa. " Verbania, carabinieri" risponde all'operatrice del 118 il militare dell'Arma. "Stiamo mandando mezzi a Stresa, non so se vi hanno detto", aggiunge la donna, che poi si interrompe per avere informazioni più precise. Una pausa che il militare utilizza per allertare le prime pattuglie. "Vai verso Stresa, appena so altre notizie ti dico. Al momento so che è caduta una cabina della funivia ma non so dove. Un attimo che ho il 118 in linea", aggiunge il carabiniere, che con grande professionalità mantiene la calma nonostante il momento concitato per garantire soccorsi immediati alle persone coinvolte nell'incidente. "Pare che la cabina sia caduta in mezzo al bosco, non sappiamo di preciso dove, pare non sia raggiungibile via terra", riprende l'operatrice del 118. Poi la telefonata si interrompe: "La devo salutare perché devo gestire tutto l'intervento", dice l'addetta del 118. "Appena possibile mi fate sapere l'altezza?", è la preoccupazione del carabiniere.

Nadia Muratore per “il Giornale” il 6 giugno 2021. Ci sono attimi nella vita che rimangono impressi nella mente per sempre, con una precisione che ha dell’incredibile. Ed è anche sul ricordo di questi particolari che la Procura di Verbania punta per ricostruire la dinamica della strage della funivia Stresa-Mottarone, che ha ucciso 14 persone ed ha lasciato orfano un bimbo di 5 anni, unico sopravvissuto alla tragedia. In Procura, da quella maledetta domenica, sono sfilate - come persone informate sui fatti - i testimoni che si trovavano in quella zona. Escursionisti, turisti e soprattutto gli addetti all'impianto di risalita che quel giorno erano in servizio. Le loro considerazioni sono fondamentali, soprattutto se valutate in parallelo con i molti video e le fotografie che hanno immortalato gli istanti della tragedia. Particolare importanza per gli investigatori, è quello che ha messo a verbale, l'addetto della funivia che si trovava in quella che in gergo si chiama la «fossa di arrivo», che si è visto sfuggire dalle mani la cabinovia numero 3 che, dopo qualche attimo, si è trasformata in un groviglio di lamiere. Il testimone ascoltato dai carabinieri si chiama Pietro Tarizzo, da quasi 4 anni è stagionale presso l'impianto di Stresa-Mottarone. «Ho sentito - ha detto - un forte rumore netto di rottura. Così per impedire alle persone in attesa di avvicinarsi e mettermi in salvo, sono corso via. Ho schiacciato il pulsante che aziona il freno d'emergenza sulla fune traente che però non ha funzionato». Non ha funzionato - si scoprirà dopo poche ore - perché c'era il forchettone inserito che disattivava l'impianto frenante di sicurezza. Quello che Tarizzo ha raccontato agli inquirenti è certificato dal video della telecamera posizionata all'arrivo, che rende le sue parole ancora più forti e drammatiche. Le immagini, infatti riprendono gli ultimi istanti di vita dei passeggeri: ormai arrivati in cima, sono pronti a scendere e, fuori, l'addetto è già in posizione per aprire il portellone. Un gesto quasi automatico per Tarizzo, ma all'improvviso accade l'impensabile. La cabina arretra e anche lui torna indietro di corsa, si guarda attorno e si scansa, per la paura che il cavo strecciato gli finisca addosso. Attiva il freno ma è inutile. In quei pochi secondi concitati, si compie la tragedia. La cabinovia sobbalza e prosegue la sua corsa all'indietro fino ad arrivare ai rulli del pilone tre, che fanno da trampolino e la lanciano nel vuoto. Pesanti come macigni anche le parole di Cristiano L'Altrella, volontario soccorritore e caposquadra del distaccamento dei Vigili del Fuoco di Stresa, primo ad arrivare sul luogo della tragedia. «Abbiamo trovato un campo di battaglia - ha raccontato - corpi di ragazzi, uomini e donne sparsi sul pendio della montagna. Dalla vetta siamo scesi seguendo la linea dei cavi, un pendio ripidissimo, circa dell'80 percento. Poi abbiamo visto la cabina rossa accartocciata: non dimenticherò mai quello che ho visto. Uno mi è morto tra le braccia». Intanto dalla Procura si attendono nuovi avvisi di garanzia, anche per permettere agli indagati di nominare i periti per assistere gli accertamenti irripetibili che inizieranno domani.

"Ti dovrei ammazzare. E' la fine" "Mi hai rovinato la vita". I verbali. Affari italiani.it il 17/6/2021. Strage Stresa, "Ti dovrei ammazzare, mi hai rovinato la vita". "E' la fine". La tragedia del Mottarone, costata la vita a quattordici persone che da Stresa salivano su in quota fino a 1500 metri e che sono precipitati nel vuoto a causa dell'improvviso cedimento della cabina della funivia su cui viaggiavano, resta avvolta nel mistero. Sono ancora troppe le incongruenze in questa inchiesta, in cui si registra anche una vera e propria guerra interna tra la pm e la gip del caso nel Tribunale di Verbania. Uno scontro - si legge sul Fatto Quotidiano - talmente violento da ipotizzare apertamente irregolarità nelle indagini. “Mi sta accusando di falso?”, domanda il procuratore di Verbania Olimpia Bossi al Gip Donatella Banci Buonamici. “Non lei...”, replica il giudice. E aggiunge: “Bastava registrare”. “Ero presente anche io, ma cosa sta dicendo?”, ribatte Bossi. “È stato verbalizzato poco... Siete stati 7 ore, e ci sono 4 pagine di verbale, senza nemmeno le domande che gli avete fatto”. I nuovi atti - prosegue il Fatto - consentono di fare luce su alcuni momenti cruciali del disastro. È il 23 maggio scorso, è appena crollata la funivia del Mottarone. Sul teatro della strage si ritrovano per la prima volta Tadini, Perocchio e Nerini. “Io ti dovrei ammazzare”, dice Perocchio a Tadini. Prima che Nerini lo senta aggiungere: “Tu a mezzogiorno di oggi mi hai rovinato la vita”. Tadini, racconta sempre Nerini, in quei momenti convulsi “ripeteva ossessivamente”: “Ho fatto una cazzata, è colpa mia”. “Me l’ha detto decine di volte. Io l’ho abbracciato”. Perocchio, assistito dal suo legale Andrea Da Prato: "Che Dio mi fulmini se ho mai detto a un operatore di girare con le forchette. È la cosa più pericolosa che c’è sugli impianti a fune. Non riesco a capire perché sono finito in galera. Dopo la sua telefonata, in cui mi diceva che c’erano morti e feriti e che chiamava il 118, ho chiamato subito mia moglie e le ho detto: "È la fine, è la fine". È ovvio, a prescindere che sia colpa mia, va giù una funivia...".

Massimo Massenzio per il "Corriere della Sera" l'1 giugno 2021. Otto giorni senza mai tirare il fiato, con gli occhi puntati sui monitor, la faccia incollata a una parete di vetro e il cuore che sussulta per ogni piccola variazione. Le lacrime trattenute al primo battito di ciglia, alle prime parole di Eitan sussurrate all' orecchio. E poi quei vuoti di memoria che ogni volta riempiono la stanza di silenzio e di un'inspiegabile speranza. Infine la notizia che Aya Biran aspettava dal 23 maggio, da quando è arrivata all' ospedale Regina Margherita di Torino. Da ieri pomeriggio suo nipote Eitan Moshe Biran, unico sopravvissuto alla strage del Mottarone, è fuori pericolo. I medici hanno sciolto finalmente la prognosi alle 18.30 e per Aya è stato come se la sua vita tornasse a scorrere, dopo una settimana in cui tutto il suo mondo si era fermato. Supera la porta dell'ingresso principale e si siede su una panchina, esausta: «Vado a mangiare qualcosa, è la prima volta nelle ultime 24 ore». Di Eitan non vuole parlare: «Non è il momento, di là c' è un bambino di cinque anni che un giorno leggerà queste cose». Il quadro clinico del piccolo è riassunto nel comunicato rilasciato dai medici: «Le condizioni di Eitan sono in significativo miglioramento sia dal punto di vista del trauma toracico sia dal punto di vista del trauma addominale». Ieri il bimbo ha mangiato il suo primo purè di patate e oggi uscirà dalla rianimazione e sarà trasferito in un reparto di degenza. Del terribile incidente non ricorda nulla, ma tutti gli esami hanno escluso danni neurologici e probabilmente soffre di un' amnesia post-traumatica. In ogni caso non è ancora arrivato il momento di fargli sapere che in quel terribile schianto durante una giornata di festa sono morti la sua mamma Tal, il papà Amit, il fratellino Tom e i nonni Barbara e Itshak. Al loro funerale Aya, la sorella di Amit, non c' era. Ma durante la cerimonia è stato letto il suo ricordo: «Mio Amit, mio piccolo fratellino, mia amata Tal-Tal e nostro Tomi-Tom. Non ho parole per descrivere quanto ci mancherete». Aya, 40 anni, da diciassette in Italia, si è laureata in medicina a Pavia e alla Cattolica di Milano ha conseguito un master in clinica delle dipendenze. Da otto anni lavora in carcere, a stretto contatto con la disperazione e il dolore. Amit l' aveva raggiunta a Pavia quattro anni fa ed era al quinto anno della facoltà di medicina: «Quando siete arrivati, Eitan aveva solo un mese - ricorda -. Le mie bimbe avevano 2 e 18 mesi. Per la prima volta da anni abbiamo avuto una famiglia in Italia. Abbiamo condiviso la crescita dei bambini, li abbiamo allattati insieme. Sapevamo che ci saremmo sempre stati gli uni per gli altri». Nessuno poteva pensare che quell' armonia si sarebbe spezzata: «Sono stati anni di gite con i passeggini, di magliette macchiate di gelato giocando all' oratorio, pomeriggi nella piccola piscina in giardino. Sono gli scatti dei nostri momenti insieme, tra dubbi, studi, lavoro, le festività, i Shabbat insieme. Faremo di tutto perché i vostri sogni per Eitan diventino realtà. Vi vorremo bene per sempre». Per i familiari del bimbo il miglioramento di Eitan fa passare in secondo piano la notizia della scarcerazione di due indagati: «Vogliamo ringraziare l' ospedale di Torino e i medici che stanno lavorando con passione e infinita pazienza. Oltre alla comunità ebraica italiana e alla città di Pavia che ci stanno supportando in questo terribile momento». E aggiungono: «Ci rattrista sapere che gli indagati sono già a casa, vorremmo che i responsabili venissero assicurati alla giustizia in tempi brevi e puniti nella misura massima consentita dalla legge. Vorremmo che ciò che è successo fosse un punto di svolta perché tragedie simili non si ripetano. Ci sono stati incidenti inimmaginabili in Italia negli ultimi anni, tutti dovuti a negligenza e mancanza di manutenzione. È ora di dire basta. Ciò che è successo non sarebbe dovuto accadere. Ha distrutto così tante vite e ha completamente distrutto la nostra famiglia lasciando come unico sopravvissuto un bambino di 5 anni. Con meno "menefreghismo" questa tragedia si sarebbe potuta evitare».

Antonio Palma per "fanpage.it" il 9 giugno 2021. Il piccolo Eitan sta meglio e ormai sa della tragedia della funivia Mottarone Stresa del 23 maggio scorso costata la vita a 14 persone tra cui la sua intera famiglia: padre, madre, fratellino e bisnonni. Dopo il suo trasferimento dalla rianimazione a un normale reparto di degenza dell'ospedale infantile Regina Margherita di Torino, infatti, il bimbo di 5 anni è stato seguito attentamente da un team di psicologi ed esperti che con calma e molta delicatezza lo hanno portato ad apprendere la dolorosa verità. La conferma è arrivata oggi dai legali della famiglia Biran al termine dell’incontro in Procura Verbania con ipm che indagano sulla strage.

Eitan aveva chiesto di sua madre e di suo padre. Interpellati dai giornalisti presenti sul posto, infatti, gli avvocati hanno spiegato che Eitan “sta meglio e ha tutto l’affetto e il supporto della famiglia” e che ormai “Purtroppo sta imparando attraverso la famiglia e gli psicologi” e “con tutta la delicatezza del caso"  quanto è accaduto a lui e ai suoi genitori quel terribile giorno della salita sul Mottarone. Già subito dopo il risveglio Eitan aveva chiesto di sua madre e di suo padre, Tal e Amit, morti insieme con il fratellino di 2 anni Tom, e i suoi bisnonni. Per lui però sarà un percorso ancora lungo durante il quale sarà affiancato da un team di terapeuti, che lo guideranno passo passo, ma anche dalla famiglia tra cui la zia Aya, sorella del suo papà, che non lo ha mai lasciato un attimo dal momento del suo ricovero.

Per il bimbo sopravvissuto il futuro è in Israele . Il bimbo rimarrà ancora a lungo in ospedale per curare le ferite fisiche e mentali di quella tragedia. Durante tutto il tempo rimarrà sotto il controllo del giudice tutelare prima della decisione sull’affido come ha spiegato l'avvocatessa della famiglia, Cristina Pagni.  Per il bimbo, unico sopravvissuto della Funivia del Mottarone probabilmente il futuro sarà in Israele con i parenti. “Il desiderio dei suoi genitori Era di tornare in Israele e farlo crescere li" hanno spiegato infatti gli zii e i nonni. "Faremo di tutto perché i desideri di mio fratello e sua moglie per Eitan si realizzino” aveva spiegato la zia Aya in una lettera.

Eitan, l’ultima foto nella funivia è la morte del giornalismo. Giuseppe Gaetano il 26/05/2021 su Notizie.it. Da parte nostra l’augurio di scattarne di belle, di fotografie, negli anni che verranno. Da incorniciare e conservare nella memoria. Il bimbo in mare preso in braccio dal soccorritore a Ceuta, quello morto sulla spiaggia libica, quello che guarda la finestra della cabina di una funivia. Che forse sta per morire. Oggi il peggio per Eitan sembra passato. O forse deve ancora venire. Risvegliarsi a 5 anni senza genitori e fratelli è uno choc che lo segnerà per tutta la vita. Ma quando martedì il Corriere della Sera ha dato via allo spam della sua “ultima immagine” prima della strage – com’è stata presentata a ruota da ogni media – non si sapeva ancora bene se Eitan ce l’avrebbe fatta, e come ne sarebbe uscito. Tra le tante foto di bambini diffuse online ogni giorno, quella nella cabina, dove altre 14 persone hanno trovato la fine, non aggiunge nulla all’informazione: non ha valore documentale, né umano né investigativo. Non è una notizia. In quello scatto, seguito da quel titolo, non c’è rispetto che per il clic. E non è una questione di deontologia, giacché tecnicamente il sopravissuto minore è girato di spalle e irriconoscibile. Sarà pruriginosa, ma è anche una questione di discrezione, tatto, pudore, buon gusto. Se ancora contano qualcosa. Possiamo dire di non esserci accodati, per quel che vale. Forse qualcuno aveva già pronto l’album di famiglia da pubblicare. Invece è andata bene: Eitan è vivo e la sua privacy salva. Certo quell’istantanea spalmata ovunque resterà impressa in Rete e lo rincorrerà, rispuntando continuamente fuori, come il dramma che ha vissuto e vivrà. Potevamo evitargli la “delicatezza” di consegnarla al web. Da parte nostra l’augurio di scattarne di belle, di fotografie, negli anni che verranno. Da incorniciare e conservare nella memoria. E di provare, un giorno, a risalire senza paure su una funivia. Per i giornali, invece, quella della cabina della morte resterà davvero l’ultima, e unica, foto che potranno più pubblicare.

Fabio Giuffrida da open.online.com il 16 giugno 2021. Sono state diffuse le immagini delle telecamere di videosorveglianza che mostrano, per la prima volta, cosa è accaduto davvero nell’incidente della funivia che collega Stresa con il Mottarone. Una tragedia in cui sono morte 14 persone. Come mostra il video, la cabina numero 3 ha praticamente completato il suo tragitto. Poco prima dell’arrivo, però, rallenta: nelle immagini, a quel punto, si vedono i passeggeri all’interno – in tutto quindici, tra cui anche il piccolo Eitan, l’unico sopravvissuto alla strage – attendere la conclusione del viaggio, ignari di quanto sarebbe accaduto poco dopo. Improvvisamente la cabina si blocca, si impenna e inverte la rotta per tornare a scendere, a fortissima velocità, sganciata da uno dei cavi. Fino all’impatto con il pilone e la caduta (che non si vede perché avviene dietro al rilievo). Il filmato fa parte del dossier nelle mani degli inquirenti della procura di Verbania che indagano sul gestore della funivia, Luigi Nerini, il direttore di esercizio Enrico Perocchio, e il capo servizio, Gabriele Tadini. L’accusa è di concorso in omicidio colposo plurimo, lesioni colpose gravissime, falso in atto pubblico e rimozione dolosa di sistemi di sicurezza.

Mottarone, Tg3 e Tg La7 pubblicano il video con la dinamica del disastro. La procuratrice Bossi: “Scelta illegittima e inopportuna”. Il Fatto Quotidiano il 16 giugno 2021. In un filmato registrato dalle telecamere di sorveglianza e pubblicato dai due notiziari si vede la cabina che, a qualche metro dalla stazione di arrivo, si rovescia su se stessa e precipita a velocità folle per un centinaio di metri. Il magistrato inquirente ricorda in una nota come sia "vietata la pubblicazione anche parziale" di quelle immagini, "trattandosi di atti relativi a procedimento in fase di indagini preliminari", che dunque non potrebbero essere riportati integralmente sugli organi di stampa. La spaventosa dinamica della strage della funivia Stresa-Alpino-Mottarone, descritta tante volte a parole, è immortalata in un video registrato dalle telecamere di sorveglianza e pubblicato in esclusiva da Tg3 e Tg La7. La cabina numero tre dell’impianto a fune, intorno a mezzogiorno di domenica 23 maggio, si trova a qualche metro dalla stazione di arrivo. All’improvviso, con un movimento quasi fluido, si rovescia su se stessa: precipita a velocità folle per un centinaio di metri, scarrucola all’altezza dell’ultimo pilone e precipita nel vuoto. Sullo sfondo le acque del lago Maggiore. Altre immagini mostrano una persona in attesa nella stazione, che osservando il disastro, in preda al panico, si precipita di corsa fuori dalla struttura. La pubblicazione del video è stata definita illegittima e inopportuna dalla procuratrice di Verbania, Olimpia Bossi, che conduce le indagini sull’incidente. Nonostante le immagini siano atti “non più coperti da segreto in quanto noti agli indagati”, scrive il magistrato in una nota, ne è “comunque vietata la pubblicazione anche parziale” ai sensi dell’articolo 114, comma 2 del codice di procedura penale, “trattandosi di atti relativi a procedimento in fase di indagini preliminari”, che dunque non potrebbero essere riportati integralmente sugli organi di stampa. “Ancor più del dato normativo – prosegue Bossi – mi preme sottolineare la assoluta inopportunità della pubblicazione di tali riprese “per il doveroso rispetto che tutti, prati processuali, inquirenti e organi di informazione, siamo tenuti a portare alle vittime, al dolore delle loro famiglie, al cordoglio di una intera comunità”. A far precipitare la vettura l’effetto combinato della rottura della fune traente e della disattivazione del sistema frenante d’emergenza per mezzo di “forchettoni” che bloccavano le ganasce. Gli indagati per omicidio colposo, al momento, sono il gestore dell’impianto Luigi Nerini, il direttore dell’esercizio Enrico Perocchio e il capo operativo del servizio Gabriele Tadini. Nelle prime ore di mercoledì i Carabinieri di Verbania, coordinati dalla procuratrice Bossi e dal sostituto Laura Carrera, si sono presentati nella sede della Leitner, la società incaricata della manutenzione dell’impianto, per acquisire i documenti relativi agli interventi svolti negli ultimi anni.

Mottarone, diffuso il video integrale: scoppia l'ira sui social.  Strage Mottarone: diffuso il video della cabina che viaggia a velocità folle prima di schiantarsi contro un pilone. Da notizie.virgilio.it il 16 giugno 2021. Divulgato il video della tragedia della Funivia del Mottarone, in cui nella mattinata di domenica 23 maggio hanno perso la vita 14 persone, dopo che la cabina n.3, spezzatosi il cavo che la trainava, ha iniziato a viaggiare all’indietro a velocità folle, senza essere bloccata dai freni fuori uso per via del “forchettone” . Dalle immagini, pubblicate dal Tg3, si nota la cabina arrivare praticamente a destinazione. Ed è proprio in quel momento che la fune cede e da avvio al drammatico incidente. Un viaggio terrificante lungo circa 300 metri e durato una manciata di infernali secondi, fino all’epilogo tragico contro un pilone della struttura della stessa funivia. Il filmato è stato registrato da due telecamere di sorveglianza della stazione a monte dell’impianto. I due video, uno ripreso dall’esterno della stazione, l’altro dall’interno, sono agli atti dell’inchiesta che sta svolgendo la Procura della Repubblica di Verbania. Nel registro degli indagati ci sono tre persone su cui pendono le accuse di omicidio colposo plurimo, lesioni gravissime e disastro dovuto a rimozione di sistemi di sicurezza. Trattasi del titolare delle Ferrovie del Mottarone, Luigi Nerini, il capo servizio Gabriele Tadini (per ora unica persona in custodia cautelare agli arresti domiciliari) e il direttore di esercizio dell’impianto, Enrico Perocchio.

Ira social: “Che senso ha trasmettere questo video?”

Sui social, tantissimi gli utenti che non hanno apprezzato la scelta del Tg3 di divulgare il video integrale della tragedia. “Ma il senso di trasmettere un video del genere?”; “Pessima cosa del Tg3 condividere interamente il video sul profilo”; “Il video della funivia che precipita? Anche no grazie, non lo guarderò”; “Mi aspetto che venga ritirato. Che pena”. Sono solo alcuni dei tweet – seguiti da molti altri – che hanno trovato poco azzeccata la decisione di trasmettere il video in forma integrale.

E poi: “Perché mostrare quel video? Cosa aggiunge, cosa racconta che già non sia stato ampiamente e non sempre garbatamente raccontato”.

Un altro tweet recita: “Questa cosa che ve la sentite di guardare la gente che muore io non la capirò mai”.

Video Mottarone: le reazioni di politici e giornalisti

Enrico Borghi del Pd ha scritto su ‘Twitter’: “Sono sconcertato dalla diffusione delle immagini del drammatico incidente della Funivia del #mottarone . Lo dico da parlamentare, da uomo originario di quei luoghi e da privato cittadino. Il dolore delle persone va rispettato, mentre in questa società lo trasformiamo in show. No!”.

Questo il tweet di Laura Garavini di Italia Viva: “Trasmettere le immagini del Mottarone vuol dire calpestare la memoria delle vittime e il dolore dei familiari. È un’offesa all’informazione di cui la Rai non può essere complice. Invito tutti a non aprire quel video. Oggi e sempre, fermiamo noi per primi la tv del dolore”.

Il giornalista Clemente Mimum ha commentato: “Ho visto e rivisto i 52 secondi dei due filmati della tragedia di Mottarone. Impossibile non rimanere sconvolti e pensare al terrore che hanno vissuto le 14 vittime. Chissà se qualcuno pagherà?

Il commento di Mario Calabresi: “Un tempo, grazie al cielo, non esistevano telecamere ad ogni angolo di strada e così non sono cresciuto con un’immagine fissa negli occhi. Penso allo strazio di chi rivivrà in continuo l’ultimo attimo di vita di una persona amata. #mottarone”.

Strage Mottarone, unico sopravvissuto il piccolo Eitan: come sta il bimbo. Unico superstite della strage del Mottarone è il piccolo Eitan, 5 anni, che “migliora ed è con la sua famiglia”. “Ed è giusto che la sua famiglia si occupi di lui mentre noi ci occupiamo degli aspetti tecnici di questa vicenda. Abbiamo l’esigenza di accertare quanto prima e nel miglior modo possibile quanto è accaduto”. Così Armando Simbari, legale che segue la vicenda processuale per il piccolo e la sua famiglia. Il bimbo giovedì scorso è stato dimesso dall’ospedale. Prima di entrare in Procura a Verbania il legale ha aggiunto che “è necessario scandagliare tutti i profili, dalla dinamica dell’incidente, alla gestione e manutenzione della funivia”.

Il Tg3 pubblica il video del crollo della funivia. È bufera in Rai. Francesca Galici il 16 Giugno 2021 su Il Giornale. Dal profilo Twitter del Tg3 Rai, il video dell'incidente del Mottarone in pochi minuti è rimbalzato ovunque non senza critiche, tra le quali quelle del pm. Da questa mattina circola sui social il video del momento esatto in cui la cabina della funivia del Mottarone scivola giù quando si spezza la fune traente. Si tratta delle immagini di due telecamere di sorveglianza, riprese dai carabinieri attraverso i monitor nel giorno stesso dell'incidente, trasmesse in esclusiva dal Tg3 Rai. Si vede con precisione quanto è accaduto in quei lunghi secondi, fino a quando la cabina non urta contro il pilone, che fa da trampolino, e precipita al suolo fuori dalla portata della telecamera. In tanti hanno criticato la diffusione del video, che dura poco meno di due minuti, e nel pomeriggio anche il pm di Verbania ha detto la sua, non condividendo la decisione di renderlo pubblico. "Assoluta inopportunità per il doveroso rispetto che tutti, parti processuali, inquirenti e organi di informazione, siamo tenuti a portare alle vittime, al dolore delle loro famiglie, al cordoglio di una intera comunità", ha detto Olimpia Bossi. Il procuratore, quindi, ha aggiunto: "Portare a conoscenza degli indagati e dei loro difensori gli atti del procedimento a loro carico nelle fasi processuali in cui ciò è previsto non significa, per ciò stesso, autorizzare ed avallare l'indiscriminata divulgazione del loro contenuto agli organi di informazione". Un giudizio netto da parte della dottoressa Bossi, che sottolinea "si tratti di immagini dal fortissimo impatto emotivo, oltretutto mai portati a conoscenza neppure dei familiari delle vittime la cui sofferenza come è intuitiva comprensione non può e non deve essere ulteriormente acuita da iniziative come questa". Non è noto chi abbia consegnato queste immagini al Tg3 Rai. Olimpia Bossi ha specificato che il video fa parte degli atti depositati alla convalida del fermo e di applicazione della misura cautelare, ai quali gli indagati hanno avuto accesso per farne copia. Tuttavia, come ha sottolineato il procuratore Bossi, sono "immagini di cui è comunque vietata la pubblicazione, anche parziale, trattandosi di atti che, benché non più coperti dal segreto in quanto nota gli indagati, sono relativi a procedimento in fase di indagini preliminari". Al di là del lato normativo, conclude il procuratore, "mi preme sottolineare l'assoluta inopportunità della pubblicazione di tali riprese che ritraggono gli ultimi drammatici istanti di vita dei passeggeri della funivia precipitata il 23 maggio scorso sul Mottarone". Nel pomeriggio è intervenuto anche Marcello Foa, presidente della Rai: "Sono profondamente colpito dalle immagini trasmesse dal Tg3. È doveroso per il servizio pubblico, in circostanze come questa, valutare attentamente tutte le implicazioni, a cominciare da quelle etiche e di rispetto per le vittime e per i loro familiari, nella consapevolezza del peso mediatico ed emotivo di ogni immagine e di ogni commento". Il presidente, quindi, ha concluso: "Quanto accaduto deve essere di insegnamento e motivo di riflessione per la Rai. Ho sempre rispettato le scelte editoriali dei direttori e mi sono sempre astenuto dal commentarle pubblicamente, ma come presidente della Rai in questo caso non posso restare in silenzio".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Funivia Stresa Mottarone, la pm Bossi dura con il Tg3: "Erano immagini vietate", il sospetto sugli avvocati. Libero Quotidiano il 16 giugno 2021. La pm Olimpia Bossi ha rilasciato un duro comunicato sul servizio mandato in onda dal Tg3 della Rai in cui veniva mostrato il video dello schianto della cabina numero 3 della funivia del Mottarone. Quattordici persone hanno perso la vita in quel tragico indicente dello scorso 23 maggio: le immagini mostrate dal Tg3 sono state estrapolate dall’impianto di videosorveglianza e sono state riprese da quasi tutti le trasmissioni televisive e i quotidiani online. “Preciso che tali immagini, contenute in un file video - si legge nella nota a forma della pm Olimpia Bossi - risultavano depositate, unitamente a tutti gli atti di indagine, all’atto della richiesta di convalida del fermo e di applicazione di misura cautelare, con diritto degli indagati e dei rispettivi difensori di prenderne visione ed estrarne copia, diritti ampiamente esercitati”. Quindi potrebbe essere stato uno degli avvocati a inviare il video al Tg3, o comunque qualcuno che aveva accesso agli atti. “Si tratta tuttavia di immagini di cui è comunque vietata la pubblicazione - ha sottolineato la procura di Verbania - anche parziale, trattandosi di atti che, benché non più coperti dal segreto in quanto noti agli indagati, sono relativi a procedimento in fase di indagini preliminari. Ma ancor più del dato normativo, mi preme sottolineare la assoluta inopportunità della pubblicazione di tali riprese, che ritraggono gli ultimi drammatici istanti di vita dei passeggeri della funivia”. 

La tragedia della funivia e la pornografia del dolore. La procuratrice: «I familiari non avevano visto quelle immagini». Tv e testate web diffondono il video della tragedia. L'ira della procuratrice Bossi: «Atto coperto da segreto». Simona Musco su Il Dubbio il 17 giugno 2021. «Quelle immagini non erano state portate a conoscenza dei familiari», dice con mestizia, in un comunicato secco ma efficace, la procuratrice di Verbania Olimpia Bossi. Immagini che durano poco più di un minuto: la cabina che sale, sembra essere arrivata a destinazione, ma poi scivola velocemente verso giù e cade nel vuoto. E dentro, visibili, le 15 persone che sono precipitate giù, 14 delle quali hanno perso la vita. Un’immagine drammatica che tutti, mentalmente, avevamo ricostruito dopo il resoconto giornalistico della tragedia della strage della funivia del Mottarone. Ma oggi alla descrizione si aggiunge qualcosa di più: il video, pubblicato in esclusiva dal Tg3 e rilanciato da tutte le testate, in una sorta di corsa alla condivisione per non rimanere indietro su nulla. Ma inaspettatamente, forse, i commenti indignati da parte degli utenti social dei canali di ognuna delle testate che hanno fatto questa scelta si sono moltiplicati in pochi secondi. Da lì ne è partita un’altra di corsa: quella a giustificare la propria iniziativa, spiegata con l’obbligo di informare. «Ecco perché abbiamo pubblicato quel video», si legge ovunque, «le immagini sono più potenti di mille parole», si aggiunge qui e lì, «nessuna delle vittime è identificabile», si prosegue. Parole che hanno il gusto di una giustificazione che, comunque, fa acqua da tutte le parti. Ma è Bossi a spiegare quanto fuori luogo, se non illegittimo, sia stato pubblicare quelle immagini, consegnate alla stampa dai carabinieri, secondo quanto sostiene il Post. Le immagini sono state estrapolate dall’impianto di videosorveglianza della funivia e messe a disposizione delle parti già a fine maggio scorso, all’atto della richiesta di convalida del fermo e di applicazione di misura cautelare. «Si tratta, tuttavia, di immagini di cui, ai sensi dell’articolo 114 comma 2 c.p.p., è comunque vietata la pubblicazione, anche parziale, trattandosi di atti che, benché non più coperti dal segreto in quanto noti agli indagati, sono relativi a procedimento in fase di indagini preliminari», spiega la procuratrice. Ma se non bastasse la legge – i giornali non si sono mai fatti problemi, d’altronde, a pubblicare qualsiasi cosa, anche se coperta dal più vincolante dei segreti -, c’è una questione etica che avrebbe dovuto spingere le testate coinvolte ad aspettare un attimo. È sempre Bossi – che pure aveva fondato sulla «risonanza internazionale» e soprattutto mediatica della vicenda il pericolo di fuga dei tre indagati – a spiegare il perché. «Ancor più del dato normativo – si legge in una nota della procura -, mi preme sottolineare la assoluta inopportunità della pubblicazione di tali riprese, che ritraggono gli ultimi drammatici istanti di vita dei passeggeri della funivia precipitata il 23 maggio scorso sul Mottarone, per il doveroso rispetto che tutti, parti processuali, inquirenti e organi di informazione, siamo tenuti a portare alle vittime, al dolore delle loro famiglie, al cordoglio di una intera comunità. Portare a conoscenza degli indagati e dei loro difensori gli atti del procedimento a loro carico nelle fasi processuali in cui ciò è previsto, non significa, per ciò stesso, autorizzare ed avallare l’indiscriminata divulgazione del loro contenuto agli organi di informazione, soprattutto, come in questo caso, in cui si tratti di immagini dal fortissimo impatto emotivo, oltretutto mai portate a conoscenza neppure dei familiari delle vittime, la cui sofferenza, come è di intuitiva comprensione, non può e non deve essere ulteriormente acuita da iniziative come questa».

La procuratrice e il pomposo e del tutto inutile comunicato stampa. Il video della strage del Mottarone e la lezioncina della pm contro gli avvocati. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 19 Giugno 2021. La dott.ssa Olimpia Bossi, loquace Procuratrice della Repubblica di Verbania, vede -come milioni di altre persone- che il drammatico video degli ultimi attimi di vita dei passeggeri della funivia del Mottarone è improvvisamente diffuso sui social. La cosa scatena reazioni forti, in assoluta prevalenza di sdegnata condanna per questa forma di autentica pornografia di una sciagura. C’è anche chi la pensa diversamente, sul presupposto che la conoscenza di un fatto realmente accaduto è almeno neutra, se non addirittura meritevole di apprezzamento. Sono opinioni tutte lecite, ognuno la pensi come meglio crede. Ma tutto è lecito attendersi, fuor che l’incredibile comunicato stampa della Procuratrice capo di Verbania, con il quale in buona sostanza sembrerebbe si sia voluto dire questo: condivido lo sdegno, quel video è sì agli atti della indagine ma sia chiaro che il mio Ufficio non ha nulla a che fare con la sua diffusione, che fermamente condanno. Piuttosto, sappiate che quel video abbiamo dovuto depositarlo e metterlo a disposizione dei difensori degli indagati, che infatti ne hanno chiesto e ricevuto copia. E qui, a seguire, la dott.ssa Bossi parte con una intemerata non richiesta e non dovuta, sul fatto che i diritti di difesa non esistono perché se ne possa abusare. Il diritto ad estrarre copia di un atto serve per conoscerlo e studiarlo, non per diffonderlo sui social. È una mia sintesi, ma credo sia perfettamente fedele al significato testuale e sostanziale del comunicato, d’altronde ampiamente diffuso. Noi avvocati riceviamo spesso queste non richieste lezioncine su cosa sia il diritto di difesa ben esercitato, e quale quello male esercitato, e di come il difensore, per sua naturale ed un po’ perversa indole, tenderebbe ad abusarne appena possibile, sicché questa ennesima, peraltro piuttosto dozzinale, potremmo farcela scivolare addosso senza particolare interesse. Ma qui il tema è un altro: che c’azzecca -avrebbe detto il famoso ex collega della dott.ssa Bossi– questo bignamino sul diritto di difesa, in quel contesto? E prima ancora: come diavolo è saltato in mente alla Procuratrice di fare questo pomposo e del tutto inutile comunicato stampa? L’unica risposta sensata, davvero l’unica, è che quel magistrato abbia voluto dire urbi et orbi, in una forma tanto implicita quanto inequivocabile, che sono stati i difensori degli imputati a diffondere quel video, così dandoli in pasto allo sdegno social-popolare. I tre Colleghi, non a caso, si sono sentiti costretti a replicare in modo molto forte e deciso, respingendo l’inequivocabile addebito. Non me ne vogliano, quegli avvocati, se affermo una banalità di carattere generale: nulla esclude che un difensore, anche contro l’interesse del proprio assistito, divulghi atti di indagine. L’amico giornalista insistente, una calcolata strategia difensiva, o quant’altro. Quello che la dott.ssa Bossi dovrà spiegare bene -perché io dico che dovrà spiegarlo, perché non posso nemmeno immaginare che non gliene venga chiesto conto- è che cosa le abbia consentito di escludere dal novero delle probabilità che il giornalista insistente potesse essere amico, chessò, di un ufficiale di PG che fa le indagini, di un dipendente della segreteria del suo ufficio o di quello del Gip, di un difensore delle parti offese, o di un collega magistrato. Dobbiamo necessariamente pensare che la Pm abbia notizie certe circa la responsabilità di qualche avvocato, perché diversamente quel pistolotto è una intollerabile, gratuita e gravissima provocazione. E aggiungo che perfino se avesse quella certezza, avrebbe dovuto fare solo una cosa: aprire in silenzio una indagine con imputazione provvisoria a carico del sospettato, non certo diffondere comunicati stampa con annesso sermone sul cattivo difensore. A meno che non ci si debba definitivamente rassegnare all’idea che le indagini penali debbano essere non più governate da rigoroso riserbo, ma invece dalla implacabile diretta streaming. In politica, lo streaming si è dimostrato una pagliacciata senza storia; ma nelle indagini penali, è pura inciviltà. Non c’è da qualche parte un superiore gerarchico (qui mi taccio) o disciplinare che abbia qualcosa da dire in proposito? Gian Domenico Caiazza, Presidente Unione Camere Penali Italiane

Tragedia del Mottarone, gli avvocati: «Nessun interesse a diffondere quel video». I legali dei tre indagati non ci stanno: "Il comunicato diffuso dalla procura di Verbania attribuisce, neppure velatamente, la divulgazione di quelle immagini agli indagati e, per essi, ai loro difensori". Simona Musco su Il Dubbio il 18 giugno 2021. Alla fine la colpa è sempre la loro, degli avvocati. È quanto trapela, al di là dei passaggi condivisibili, dal comunicato della procura di Verbania, che nel deprecare la pubblicazione del filmato della tragedia della funivia del Mottarone, tra le righe (ma nemmeno troppo) attribuisce la questione all’ostensione dei filmati estrapolati dal sistema di videosorveglianza anche alle difese. Filmati di cui le difese erano in possesso sin dal 26 maggio – poco dopo la tragedia -, ma che sono stati diffusi solo recentemente, tramite una ripresa effettuata da un cellulare che il Tg3 attribuisce ad un esponente dell’Arma dei Carabinieri. A mettere i puntini sulle i sono i difensori dei tre indagati – Gabriele Tadini, difeso da Marcello Perillo, Enrico Perocchio, difeso da Andrea Da Prato, e il gestore Luigi Nerini, difeso da Pasquale Pantano. «Il comunicato stampa della procura della Repubblica di Verbania – si legge in una nota – è condivisibile quanto allo sdegno dovuto all’illegittima circolazione del video che riprende la tragedia della funivia. Tuttavia non possiamo sottacere che tutto il comunicato attribuisce, neppure velatamente, la divulgazione di quelle immagini agli indagati e, per essi, ai loro difensori. Il reiterato accenno al “diritto degli indagati” “ampiamente esercitato” di prendere visione degli atti; al “divieto di pubblicazione” “benché non più coperti dal segreto” con la chiosa che la conoscenza degli atti da parte dei difensori “non significa autorizzare ed avallare l’indiscriminata divulgazione agli organi di stampa” non lascia dubbi: sono stati i difensori». Affermazioni gravi, specie dopo una campagna di spettacolarizzazione che di certo non deriva dagli indagati. I quali, affermano le difese, «sono gli ultimi ad avere interesse alla diffusione di quel video che, nella sua drammaticità, è sicuramente rappresentativo dell’ipotesi accusatoria. Le difese, dunque, già toccate per l’anomala sostituzione del gip (tema passato in secondo piano dopo la diffusione del video, ndr), respingono con forza quell’accusa certamente diffamatoria se non calunniosa ed invitano gli inquirenti, a ristabilire un clima di serena dialettica evitando apodittiche e maliziose illazioni. Tanto era dovuto nella fervida speranza che cali il sipario mediatico e ci si dedichi definitivamente alle indagini», conclude la nota. Una precisazione dovuta, dopo aver assistito alla “giustificazione mediatica” del pericolo di fuga: bisognava tenerli in carcere, secondo l’accusa, perché l’evento aveva avuto troppa risonanza. La gip Donatella Banci Buonamici si oppose. Cos’è accaduto dopo è storia.

Il video della funivia: diritto di cronaca o giornalismo sciacallo? Era giusto pubblicare quelle immagini? Aggiungono qualcosa alla comprensione pubblica della tragedia o sono solo uno spettacolo morboso e crudele? E non è forse un esercizio ipocrita gridare allo sciacallaggio quando da decenni nuotiamo letteralmente nella “tv del dolore”? Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 19 giugno 2021. Il video della funivia di Mottarone, con le telecamere di sicurezza che inquadrano gli ultimi, drammatici momenti della cabina che cade nel vuoto della valle, ha generato una tempesta di polemiche e di interrogativi sulla deontologia del nostro giornalismo. Era giusto pubblicare quelle immagini? Aggiungono qualcosa alla comprensione pubblica della tragedia o sono solo uno spettacolo morboso e crudele? Non si tratta di un’inutile violenza nei confronti dei parenti delle vittime? O al contrario: nasconderle non significa rinunciare al proprio diritto di cronaca? E non è forse un esercizio ipocrita gridare allo sciacallaggio quando da decenni nuotiamo letteralmente nella “tv del dolore”? Domande che non possono trovare risposte univoche perché la ragione non pende quasi mai tutta da un lato. Nel mondo degli adulti non sempre trovi i buoni schierati tutti da una parte e i cattivi tutti dall’altra, la realtà non è una favola manichea e a volte richiede uno sforzo di immedesimazione. Per esempio: fanno bene a scandalizzarsi i parenti delle vittime: chiunque al loro posto reagirebbe indignato di fronte a quello strazio reiterato. Ma allo stesso tempo le ragioni di chi si è assunto la responsabilità di divulgare il video non sembrano pretestuose. In un certo senso sono nel giusto entrambi. Poi ci sono le valutazioni di merito, di opportunità, di decenza, anche di limite, ma riguardano la sfera individuale, lo stile che il giornalismo si vuole dare, non certo la morale pubblica. Invece, come sempre accade l’opinione si è divisa a metà, due fazioni simmetriche e munite di elmetto duellano da giorni, insultandosi, gridando chi all’indecenza cannibale de mezzi d’informazione chi all’ipocrisia e alla censura. Anche nella nostra redazione la vicenda ha acceso un vivo confronto e, per ragioni di sensibilità, abbiamo scelto di non pubblicare quel video. Ma la deontologia non c’entra. Sarebbe stato del tutto legittimo metterlo in rete, come ha fatto la stragrande maggioranza dei media a cominciare dal servizio pubblico. Accantoniamo per il momento le accuse lanciate dalla procuratrice di Verbania Olimpia Bossi che cita l’articolo 114 del Codice di procedura penale sul divieto di rendere noti atti non coperte dal segreto prima della fine delle indagini preliminari. Tecnicamente è nel giusto (l’Agcom sta peraltro verificando se la Rai abbia rispettato il contratto di servizio), ma quante volte giornali, tv e altri media hanno infranto le regole, magari per proteggere una fonte anonima, o, nel caso contrario, nel divulgare intercettazioni messe in quel caso a disposizione dalle stesse procure? Oppure, come nel caso di Mottarone, nel diffondere una testimonianza visiva che ritengono importante? Probabilmente il video della funivia che sprofonda giù nel vuoto non ha un grande valore giornalistico (di certo ha un valore investigativo per gli inquirenti) ma non è un’imposizione: siamo tutti liberi di non guardare quella sequenza da film horror, di “cambiare canale” come si diceva un tempo. Ma difficilmente cambiamo canale, anzi, non lo abbiamo mai fatto. Dalla tragica morte di Alfredino Rampi avvenuta oltre quarant’anni fa come una diretta televisiva durata oltre 36 ore, lo “spettacolo” della morte ha inondato i nostri schermi, ha accompagnato le nostre serate, esteso a dismisura la nostra soglia di tolleranza. Abbiamo sezionato cadaveri, osservato a loop le scene più spaventose e catastrofiche del nostro tempo, l’uccisione di Muammar Gheddafi, selvaggiamente linciato dalle milizie di Misurata, l’impiccagione di Saddam Hussein trasmessa praticamente in mondovisione o lo scempio del cadavere dei suoi figli Uday e Qusay da parte dei marines americani. Pensiamo alle truculente decapitazioni degli ostaggi di al Qaeda come il povero Daniel Perle, o alle ossessive messe in onda degli attentati dell’11 settembre 2001 contro il World Trade Center di New York. Quante volte abbiamo visto le vittime gettarsi nel vuoto per non venire mangiate dal fuoco che stava divorando le torri gemelle? Poi ci sono i grandi casi di cronaca nera con i relativi “mostri” e le vittime uccise mille volte dalle occhiute ricostruzioni dei programmi più “pulp”, i dettagli morbosi illuminati solo per ottenere audience, i plastici, i criminologi di latta, le raccapriccianti interviste realizzate a caldo ai familiari dei defunti. Uno show ininterrotto in cui la morte è la protagonista assoluta Con l’avvento dei social-network, che trasformano questo show in uno spettacolo globale, pensare di censura per giornali e televisioni è semplicemente impossibile, per non dire ridicolo. Spetta alla sensibilità individuale di chi fa questo mestiere selezionare il materiale che ha tra le mani, separare l’utile dal superfluo, le informazioni dal gossip, le notizie dalle patacche. E assumersi sempre la responsabilità delle proprie scelte.

L’osceno Var della strage del Mottarone e leggi che la stampa la viola regolarmente…La pubblicazione di quei filmati è un atto illegale che deve essere sanzionato Il punto è che tale illecito viene punito con multe risibili. Cataldo Intrieri su Il Dubbio il 19 giugno 2021. Quarant’anni dopo la morte in diretta da Vermicino del povero Alfredino vegliato oscenamente nella sua disperata agonia da un popolo di voyeur, arriva, in parallelo con lo sviluppo tecnologico, il VAR di una strage. Assistiamo tutti ipnotizzati alla ripetizione rallentata degli ultimi istanti delle povere vite umane intrappolate nella funivia e spazzate via, immaginandoci cosa debbano aver provato nel momento in cui si sono sentite mancare la terra sotto di loro, i lunghi istanti del volo finale prima dello schianto. La cosa più oscena non sono tuttavia le immagini ma i commenti con cui tutti i responsabili dei media (tra le poche eccezioni questo giornale) hanno giustificato la scelta “pecorona” di accodarsi al tg 3 nel pubblicare la sequenza. Retorica a fiumi e solenni richiami al diritto di cronaca, senza avere il coraggio di ammettere che l’unica molla era una manciata di click e copie in più cui in questi tempi di magra non si può rinunciare. Spiccano tra le giustificazioni quelle del quotidiano di Torino diretto da Massimo Giannini, che una volta prima della svolta anti-5 stelle  del giornale dove allora scriveva (La Repubblica) guardava con simpatia al populismo giudiziario dei seguaci di Grillo e Casaleggio( non è un mistero che a votarli furono anche insospettabili liberals “ de noantri” come Galli della Loggia, lui almeno confesso).Scrive il commento di accompagnamento de La Stampa “ che la potenza delle immagini…che non lasciano spazio ad irricevibili guardonismi ( sic!) è più forte di mille parole e chiarisce come l’intervento dei freni avrebbe potuto impedire il disastro. “Dopo la morte alla moviola abbiamo la sentenza in presa diretta, senza quelle inutili formalità come perizie e processi, roba da “impunitisti “come direbbe un altro cristallino liberal come Enrico Letta. Secondo Giannini “la scelta di disarmarli (i freni) ha avuto come conseguenza ciò che si vede” e se qualcuno non avesse capito lo spiega lui: il filmato “definisce una responsabilità umana di cui sarà necessario chiedere conto”. Toni che sarebbero stati bene in bocca ad un Saint Just o ad un Viscinski, quando invocavano la ghigliottina ed i gulag per direttissima contro i nemici della rivoluzione, invece li usa il direttore di un giornale democratico e liberale. Per combinazione di taglio nella stessa pagina vi è un commento sulla questione dell’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati che spiega come in realtà il profilo delle responsabilità sia una cosa assai più complessa di come la metta giù l’ottimo Giannini. Ad esempio prima di attribuire la patente di infamia e di colpevoli bisognerebbe stabilire “oltre ogni ragionevole dubbio” che sarebbero bastati i freni ad evitare la tragedia ed ancora come sottolinea l’ex magistrato che l’evento fosse prevedibile per i responsabili. Tutte cose un po’ tecniche e assai difficili (come gli effetti dei vaccini) su cui occorrerebbe si pronunciassero prima non dico qualche straccio di giudice ma almeno un perito. Certo le mani prudono di fronte alle immagini ma la ragione ronza fastidiosamente nella mente umana e dovrebbe frenare l’istinto, almeno per un illuminato liberal. Se non bastasse il parere di Bruti c’è anche l’opinione del procuratore capo di Verbania, Olimpia Bossi, che in un comunicato in cui, tanto per cambiare, riversa sui difensori l’addebito di aver diffuso i filmati (forse per alimentare la “giocosa macchina da linciaggio” dei propri assistiti) ma dice una cosa, una volta tanto, condivisibile. La dottoressa Bossi spiega correttamente che l’art. 114 del codice di procedura penale vieta la pubblicazione non solo degli atti di indagine espressamente coperti da segreto ma anche di quelli depositati ai difensori che non possono comunque essere divulgati alla pubblica opinione. È  una tesi cara agli avvocati ed ai garantisti : mi è capitato di scriverne  in un’altra vicenda assai meno drammatica , quella degli esami taroccati del calciatore Luis Suarez di cui vennero diffusi verbali e filmati mentre erano in atto ancora le prime investigazioni. Qualcuno eccepirà che i filmati non sono atti di indagine priori della polizia ma documenti in possesso di un indagato e come tali pubblicabili secondo anche una sentenza della Cassazione. Non è questo il punto: non si tratta di pubbliche registrazioni utilizzabili da chiunque ma registrazioni ad uso privato come quelle delle video-camere di sicurezza che secondo la legge e le direttive del garante della privacy (protezionedatipersonali.it/videosorveglianza-e-tutela-dei-cittadini) hanno finalità strettamente limitate e non sono divulgabili. Su tale tesi procure ed organi di polizia hanno fatto sempre orecchie da mercante perché avrebbe stroncato sul nascere il fiorente mercato dei verbali clandestini e delle intercettazioni, telefoniche ed ambientali, ai giornalisti amici. Invece è proprio così e correttamente sul punto lo spiega la procura di Verbania: la pubblicazione di quei filmati è un atto illegale che deve essere sanzionato in quanto gli atti di indagine segreti e non devono restare riservati sino almeno alla richiesta di rinvio a giudizio e non pubblicabili neanche per estratti parziale fino a che degli stessi non venga a conoscenza il giudice nel processo. Il punto è che tale illecito viene punito con multe risibili per cui i giornali se ne infischiano e pubblicano impunemente la vita intima come la morte oscena di poveri cittadini, sia imputati che vittime. State certi che di fronte a sequestri di copie e siti, oltre che del pagamento di salatissime sanzioni, i cultori della libertà di stampa sarebbero ben attenti: non sarebbe male che uno degli emendamenti alla riforma penale di Cartabia se ne occupasse. Un’ultima cosa: colpisce stamani la diffusa auto-solidarietà e l’indulgenza plenaria della stampa al gran completo sulla questione. Non mancano speciosi distinguo da pseudo giuristi: il segnale che in questo paese, liberali o meno, alla fine contano interessi di prossimità. Sostiene uno che se ne intende come Giuliano Ferrara che la rivoluzione (liberale e non) in Italia non sia possibile: “ci conosciamo tutti”. Credo ci sia del vero.

Perché ho deciso di pubblicare il video della funivia del Mottarone e non la foto di Eitan prima del crollo. Fabrizio Capecelatro il 17/06/2021 su Notizie.it. Difendo il mio dovere di giornalista di pubblicare il video del disastro della funivia del Mottarone perché spiattella in faccia a me e ai miei lettori le conseguenze della nostra incuria. Come tutti i direttori di giornale, nella giornata del 16 giugno mi sono dovuto interrogare se il video del disastro della funivia del Mottarone diffuso dal Tg3 andasse ripubblicato e, dopo l’insorgere delle polemiche, se non fosse necessario rimuoverlo, scusandoci con i lettori. Ho subito scartato questa seconda ipotesi perché sarebbe stato come voler fare la “verginella” dopo aver partecipato a un’orgia. Quella decisione andava presa prima, quando dalla redazione mi avevano chiamato per sapere se procedere oppure no, e poi la scelta, ponderata, andava mantenuta e difesa. E non ripensata quando è montata, sui social network, la caccia alle streghe di chi, dopo aver visto il video, criticava chi lo aveva pubblicato, sostenuti da un’inutile comunicazione della Procura di Verbania che, dopo non essere riuscita a tutelare una prova agli atti dell’indagine, ne richiedeva la non pubblicazione. Prima di dare il mio consenso alla pubblicazione di quel video su Notizie.it ho ragionato, con la velocità che il giornalismo digitale richiede, su come ci si era comportati in passato nel giornalismo e, così, mi sono ricordato delle immagini, agghiaccianti come quelle mostrate nel video della funivia, delle persone che dalle Torri Gemelle preferirono lanciarsi nel vuoto per avere almeno il diritto di scegliere come morire. Mi sono ricordato i vari video e la foto, divenuta simbolo di quel disastro, del camioncino della Basko fermo pochi metri prima del dirupo causato dal crollo del ponte Morandi. Anche quelle immagini, così come contestato del video della funivia del Mottarone, cosa aggiungevano alla comprensione dei fatti? Innanzitutto è, come detto, una prova agli atti della Magistratura e pertanto ha evidentemente una sua rilevanza nella ricostruzione di quel disastro, in cui sono morte 14 persone. Quel video è, infatti, una testimonianza diretta di quanto accaduto e pertanto, se è utile agli inquirenti per ricostruire, perché non dovrebbe essere altrettanto utile ai lettori per capire? Per capire innanzitutto quali sono le conseguenze dell’incuria che ciascuno di noi può applicare nello svolgimento del proprio lavoro o delle proprie attività quotidiane. Parliamoci chiaro: quello che è successo alla funivia della Mottarone non è una tragedia, ma la conseguenza dei comportamenti scorretti mantenuti dai lavoratori e, probabilmente, anche dalla proprietà della funivia che, un po’ per incuria, un po’ per profitto, hanno aperto un impianto che, alle lacune di quanto accaduto, sicuramente doveva essere chiuso. Allo stesso modo di come il crollo del ponte Morandi fosse conseguenza di un inefficiente sistema di manutenzione delle strade, questo disastro è frutto di precise responsabilità che la Magistratura accerterà. Il primo, però, è ormai certo che sia da attribuire alle grandi società e alla loro ingordigia, mentre questo più probabilmente all’incuria di semplici dipendenti. Oltre all’evidenza che dopo un anno e mezzo di incertezze e paure, in cui da un momento all’altro ci siamo riscoperti vulnerabili e incapaci di domare la natura, siamo stanchi di riscoprire ogni volta che la morte può entrare all’improvviso nella nostra vita, a darci fastidio di quel video è lo spiattellarci in faccia il rischio delle nostre azioni commesse con superficialità e negligenza. Quante volte ciascuno di noi, nello svolgere il proprio lavoro o altre attività, si è detto “ma sì, tanto che vuoi che succeda?”. E così il medico rimanda a casa il ragazzo di 24 anni che accusa un dolore alla gola e alla testa, che poi muore per una leucemia fulminante; il poliziotto non prende la denuncia della donna che ha paura dell’insistenza dell’ex, che poi la uccide; il muratore aggiunge poca calce al cemento per finire prima il lavoro e poi, alla prima scossa di terremoto, la casa crolla. Noi stessi rimandiamo il tagliando dell’auto presi da altri impegni e magari causiamo un incidente, sporgiamo troppo il vaso dal balcone, pensando “ma sì, tanto che vuoi che succeda?”. Poi le cose succedono, all’improvviso, da un momento all’altro, una delle prime domeniche di sole dell’anno, all’indomani delle tanto agognate riaperture dopo un anno e mezzo di lockdown alternato. Ma ormai è troppo tardi. Allora sì, difendo il mio dovere di giornalista di spiattellare in faccia a me stesso e ai miei lettori le conseguenze della nostra incuria, la pericolosità di quel “ma sì, tanto che vuoi che succeda?”. E se questo servirà a sensibilizzarci affinché la prossima volta, prima di pronunciare quella frase, ci pensiamo un po’ su e magari ricontrolliamo meglio il nostro, ci atteniamo alle regole e ai protocolli, allora avrò assolto due volte al mio compito di giornalista: avrò informato, affinché non ricapiti. Soltanto qualche giorno prima, il 26 maggio, mi era stata posta dalla mia redazione una domanda molto simile: “Hanno divulgato la foto del bambino che si è salvato da quel disastro prima che la funivia crollasse. Che facciamo, la pubblichiamo?”. In quel caso risposi di no, pur rinunciando a qualche lettore, perché quello era un inutile accanimento, una perversa bramosia di entrare nell’intimo delle persone, quella era la morte del giornalismo. Ma quella foto, a differenza del video del crollo, non aggiungeva nulla alla ricostruzione dei fatti (e infatti non mi risulta sia negli atti processuali, come il video) e soprattutto non dimostrava nulla, se non che quel bambino era felice prima che l’incuria di noi grandi si abbattesse su di lui.

DAGONOTA il 17 giugno 2021. Non si dovrebbe mai perdere tempo a spiegare perché si dà una notizia. I giornalisti questo fanno, o dovrebbero fare. Ma vista l’assurda e incomprensibile shitstorm piovuta sulle testate che hanno pubblicato il video della tragedia del Mottarone è necessario spendere due parole. I twittaroli che ieri hanno manifestato orrore e indignazione per quel filmato dovrebbero chiedere conto ai giornali delle notizie che non danno e non di quelle che giustamente pubblicano. In secondo luogo: quanti dei censori social, che ieri hanno storto il naso e puntato il ditino evocando addirittura la morte del giornalismo, hanno fatto lo stesso quando le grandi testate hanno mostrato il morente George Floyd o il ponte Morandi che si sbriciolava con 43 persone inghiottite dalle macerie? Che dire della foto del piccolo Aylan Curdi morto sulla spiaggia? Aggiungeva qualcosa al dramma dei migranti? Per noi sì, come “aggiunge qualcosa” ogni testimonianza, immagine o video che racconta la realtà anche nella sua crudezza, perché non usiamo doppie morali. A differenza di chi condivide e diffonde quelle immagini soltanto quando sono funzionali alla loro battaglia ideologica o politica.

Gianluca Nicoletti per “La Stampa” il 17 giugno 2021. Da ieri è oggetto di aspro dibattito il video che documenta gli ultimi attimi prima dello schianto della cabina 3 della funivia del Mottarone. È in discussione l'opportunità di aver diffuso quel filmato nei telegiornali e nell' informazione sul web. Da una parte è invocato il dovere di integrare con quelle immagini una tragedia che è stata per giorni al centro di tutte le cronache. Dall' altra si invoca il rispetto per le 14 vittime di quel disastro, come dei familiari sottoposti all' atrocità di vedere moltiplicato ovunque l'episodio che rappresenta l'epicentro del loro dolore. Sono 59 secondi in cui è, senza dubbio, possibile rivivere emotivamente il passaggio violento dall' essere ignari partecipi di un'escursione, a tracollare sul fondo della cabina che si impenna all' improvviso, per poi ritornare a folle velocità verso valle fino allo schianto contro un pilone. Non si può fare a meno di essere trapassati dall' angoscia per quelle persone che non saranno più vive nel giro di pochi secondi. È veramente di poca importanza cercare di risalire a chi abbia avuto interesse perché quel video fosse diffuso. Qualcuno che ne era in possesso lo ha messo in circolazione, il file era disponibile per tutte le parti coinvolte nell' inchiesta sull' incidente, sia come presunti responsabili quanto come parti lese. Non si può fingere di non sapere quanto sia oramai irreale pensare che, un documento video di questa rilevanza, possa essere ignorato da chi ha il compito di informare. Il video testimonia in maniera inequivocabile quello che per settimane è stato ricostruito attraverso infografiche, non si può certo immaginare che un tassello di realtà così fondamentale potesse essere ignorato. Come ha poco senso disquisire se sia stato più corretto chi si è fatto lo scrupolo di pixellare i volti degli esseri umani, nei primi frame in cui erano chiaramente visibili, o chi invece lo abbia trasmesso senza alcun filtro, considerando tale attenzione solo un maldestro voler edulcorare la propria responsabilità. Sono tutti filoni per accendere interminabili dispute da social opinionismo. È facile immaginare lo spostarsi della discussione su piani ideologici; qualcuno tirerà sicuramente in ballo il politicamente corretto a senso unico, il cinismo dei giornalisti, il disprezzo per la dignità degli esseri umani. Forse basterebbe ricordare che nessun atto che avvicini alla verità può ledere chi perde la vita a causa di un crimine. È vero che la verità si accerta nei tribunali e non nei giornali, è sacrosanto e questo accadrà. È anche vero che fornire ai propri lettori, teleutenti o follower che siano, elementi che aiutino a misurare, nella sua effettiva entità, una sciagura sicuramente causata da negligenza umana è un atto che ribadisce, per le stesse vittime, il diritto ad avere giustizia.

Valeria Braghieri per “il Giornale” il 17 giugno 2021. Erano arrivati. Era il momento in cui ci si gira verso le porte in attesa dell'apertura. Mascherine, zaini sulle spalle e schiena dritta: pronti a scendere. Ma non arriva nessun centimetro di contatto. La cabina tre non tocca la banchina. Si blocca, torna indietro e si impenna. Inizia il suo brevissimo viaggio a ritroso, sparata a tutta velocità, in esilio da qualsiasi geografia e tragitto. Come se stesse prendendo la mira oltre il bersaglio. Urta il pilone, il cavo si stacca e la cabina tre precipita nel vuoto. Con tutti quanti dentro: quindici passeggeri, quattordici morti, tranne Eitan, il bimbo israeliano rimasto orfano e senza fratello. Ce lo siamo sempre immaginati così. Ma vederlo così è tutta un'altra storia. Buca il vuoto e il cielo le si arriccia attorno, come i lembi di un fazzoletto che si chiudono con un peso al centro. Si sente la tensione che precede l’irreparabile. Perché conosciamo già la fine e perché in quella manciata di secondi l'aria si tende di irreale. E poi scricchiola di tragedia. Ce lo siamo sempre immaginati così. Ma vederlo così è tutta un'altra storia. Ieri è stato chiaro davvero cos'è successo il 23 maggio scorso alla funivia del Mottarone. Le immagini raccolte dalle telecamere di videosorveglianza sono andate in onda al Tg3 e sono subito rimbalzate sui siti e sulle altre tv. Non avrebbero dovuto essere rese pubbliche, ma sono «uscite». Non le avevano mai viste neppure i parenti delle vittime. Perché fanno sussultare e svuotano. Il Procuratore della Repubblica, Olimpia Bossi, ieri ha fatto un comunicato stampa, per spiegare che la pubblicazione delle immagini è vietata, trattandosi di atti relativi a un procedimento in fase di indagini preliminari. «Ma ancor più del dato normativo» diceva la Bossi «mi preme sottolineare la assoluta inopportunità della pubblicazione di tali riprese, che ritraggono gli ultimi drammatici istanti di vita dei passeggeri della funivia precipitata il 23 maggio scorso sul Mottarone, per il doveroso rispetto che tutti, parti processuali, inquirenti, e organi di informazione, siamo tenuti a portare alle vittime, al dolore delle loro famiglie, al cordoglio di una intera comunità». Anche la Rai si è «spaccata» sulla decisione del Tg3 di divulgare le immagini. C' è chi ha parlato di «scelta macabra» e lo stesso Marcello Foa, presidente della Rai, si è detto «toccato dalle immagini» e ha spiegato che il servizio pubblico avrebbe dovuto tener conto «dell'impatto emotivo» di quel filmato. Mentre dalla redazione della Terza Rete giustificavano la diffusione del video spiegando che «aggiunge qualcosa in più alla comprensione della tragedia». Opportunità e sensibilità, insomma. Ognuno le proprie. Ma intanto stringe lo stomaco quella cabina che cambia rotta. E quell' impennata, che deve averli scaraventati tutti gli uni addosso agli altri, per poi partire all' impazzata verso lo schianto. Non si sente nulla, ma sentiamo lo stesso le grida fino al terrore che va a comprimere i polmoni e a renderli afoni. E noi non siamo quelle madri, quei padri, quei fratelli... Erano arrivati. Praticamente arrivati. A guardarli oggi, sapendo cosa c' è dopo, viene da tendere le mani da quella banchina mai toccata per afferrarli, agganciarli in qualche modo, tenerli. «Tenere» è il verbo che salva. Sempre. Viene voglia di sdraiarsi sul cemento e di agganciare in qualche maniera disperata quella bara di metallo prima che si lanci a tutta velocità. A guardarli oggi, a fare senso più della morte, è la vita. Vedere la vita che c' era fino a pochi istanti prima. L' uomo con lo zaino sulle spalle e la mascherina sulla bocca che si volta verso l'uscita per scendere. È quello lo sgomento. Lo sgomento è la vita. A far senso è la vita. Vederla ignara, stagliata sul destino.

Da lastampa.it il 23 giugno 2021. Ecco il testo dell’omelia del vescovo di Novara Franco Giulio Brambilla durante la messa che ha celebrato questa mattina – mercoledì 23 giugno – al Mottarone, per le 14 vittime dell'incidente della funivia, avvenuto un mese fa. La messa avrebbe dovuto essere celebrata nella piccola chiesa della Madonna della Neve, poco al di sopra della stazione in vetta della funivia del Mottarone. Le manifestazioni di volontà a  parteciparvi - da parte di autorità, soccorritori e cittadini - sono state così numerose che si è deciso per una celebrazione nel piazzale antistante all’immobile posto sotto sequestro. «Il grave incidente, avvenuto esattamente un mese fa, nei pressi dell’impianto della funivia del Mottarone ha toccato nel profondo tutti noi. Chi abita in questo anfiteatro stupendo si è sentito coinvolto perché il trasporto a fune è un mezzo che appartiene al sistema di collegamenti che per molta nostra gente è lavoro e fa parte dello sviluppo turistico del nostro territorio. Quattordici morti, tra cui alcuni bambini, creano un’angoscia e un dolore indicibili. Questo momento è per chi crede un tempo di preghiera, di affidamento, di richiesta di perdono, per la troppa superficialità con cui talvolta trattiamo la vita. Anche per chi non crede è comunque un gesto per lasciar emergere i sentimenti di condivisione e poter ripartire con grande senso etico e maggior impegno nel proprio cammino. Affidiamo alla Madonna della Neve, venerata nella chiesetta qui vicino, questi defunti, i familiari e coloro che a vario titolo sono stati coinvolti in questa drammatica vicenda. Io stesso ho saputo del tragico evento quasi in diretta, perché ero alle 12,15 collegato con il Parroco di Stresa per il giorno di Pentecoste, e solo dopo pochi minuti alle 12,45 don Gianluca mi ha richiamato dandomi la triste notizia. Lo stesso Papa Francesco, il giorno seguente durante l’Assemblea dei Vescovi, mi ha manifestato un intenso cordoglio, che ha espresso poi nel telegramma che mi ha inviato attraverso il Segretario di Stato, card. Pietro Parolin (Lettura del Telegramma). Vorrei ora solo proporvi due spunti di riflessione per sostenere la nostra preghiera e la condivisione di affetto e di carità con le famiglie delle vittime, così gravemente colpite, ricordando anche la famiglia dei nostri fratelli maggiori ebrei, con il piccolo Eitan. La prima lettura, tratta dal Libro di Isaia, ci presenta una scena, in cui proprio sul monte Sion, a Gerusalemme, tutti i popoli convergeranno verso il Signore. Lì sul monte, Dio preparerà un banchetto abbondante per tutti i popoli perché si affratellino, venga tolto «il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni». Il profeta aggiunge al centro della scena: «Eliminerà la morte per sempre. Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto». Vorrei che tutti sentissimo il balsamo della consolazione scendere su di noi in questa profezia che dischiude il nostro destino futuro. Il monte è il luogo dell’incontro con Dio e in ogni tempo le persone sono salite sul monte per uscire dal lavoro usato e dalla vita di ogni giorno e donarsi tempo e spazio per rigenerare se stessi e incontrare Dio. Anche il Mottarone, un monte dal quale si vedono, in uno spettacolo indimenticabile, fino a sette laghi, era la mèta di queste famiglie nel primo giorno di riapertura dopo il lungo periodo di lockdown, alla ricerca di un momento di serenità e di pace. Avevano scelto un posto in alto per guardare il mondo con l’orizzonte della speranza, per togliere il velo che da oltre un anno gravava sui nostri volti e che ci aveva costretto a vivere segregati nelle nostre case. Un giorno spensierato da passare con i legami familiari, perché sul monte tutti possono salire e la montagna attrae ogni popolo e nazione. Per questo sentiamo come una grande tragedia che questa occasione di distensione e di incontro, di fraternità e di condivisione, si sia trasformata in un abisso di morte, per l’incuria e l’irresponsabilità di chi ha messo a repentaglio vite umane per facili guadagni. È un pensiero che, oltre le responsabilità penali di competenza della magistratura, ci stringe il cuore, perché ci richiama tutti alla responsabilità morale di chi sovrintende alle regole di sicurezza per i mezzi di collegamento e di ogni altro strumento che ha a che fare con la vita. Non si possono mandare allo sbaraglio persone ignare alla ricerca di un momento di serenità, barattando la vita con ogni altro tipo di interesse o di superficialità professionale o amministrativa. Preghiamo, perché ritornando qui ogni anno a ricordare le vittime di questa grande tragedia, possiamo di nuovo dire: «la mano del Signore si poserà su questo monte». Signore, donaci sempre di essere responsabili del nostro lavoro, vigili sulle regole che assicurano la vita delle persone, generosi nel mettere a disposizione risorse che rispettino la sicurezza e sostengano tutto ciò che facilita la comunicazione e la fruizione dei beni della nostra terra. Il Signore ci ha donato un paesaggio incomparabile, non possiamo ferirlo con le nostre azioni improvvide, non possiamo sciuparlo, rimanendo miopi e insensibili. Mettiamo, invece, in opera le condizioni per un’ospitalità autentica, accogliente, come è nella migliore tradizione della gente della nostra terra. I molti che lavorano onestamente per rendere la città di Stresa, con il suo comprensorio, la perla del Lago Maggiore, non possono essere danneggiati da pochi senza scrupoli! Eppure noi sentiamo che le nostre parole chiedono uno scatto etico e non bastano a placare il nostro cuore e ad aprire un orizzonte di speranza. Neppure servono a dare consolazione alle famiglie delle vittime. Quando chiamiamo così – vittime – i morti del Mottarone, abbiamo già perso il loro volto singolare, e non possiamo dire al piccolo Eitan, perché non ci sono più il suo papà, la sua mamma e il suo fratellino. Davanti al loro volto e al loro nome la nostra parola si spegne in gola. Vorremo poter asciugare le lacrime, ma non ne siamo capaci. Sperimentiamo l’impotenza della nostra parola e dei nostri discorsi. Vorremmo almeno nel silenzio dire i nomi di coloro che sono stati strappati al nostro sguardo: Amit Biran e Tal Peleg (papà e mamma) con il piccolo Tom (fratello di Eitan); Barbara Cohen Konisky e Itshak Cohen (i nonni); Serena Cosentino e Mohammadreza Shahaisavandi (fidanzati); Silvia Malnati e Alessandro Merlo (fidanzati); Roberta Pistolato e Angelo Vito Gasparro (sposi); Vittorio Zorloni e Elisabetta Persanini (mamma e papà) con il piccolo Mattia. Il Vangelo di Giovanni, con il racconto della risurrezione di Lazzaro, ci indica forse uno spiraglio, perché ci presenta il gesto eloquente di Gesù di recarsi il terzo giorno a trovare il suo amico che è molto malato. «Le sorelle [Marta e Maria] manda-rono a dirgli: “Signore, ecco, colui che tu ami è malato”». Ma Gesù arrivato trova Lazzaro già morto. L’evangelista inserisce un brano emozionante, che sembra una di-gressione: Marta annuncia a Maria – ecco tornano i nomi dei parenti – che il Maestro  è arrivato, anche se in ritardo. Maria esce in fretta per andare incontro a Gesù, ma questo repentino gesto viene interpretato ancora nella direzione della tristezza delle lacrime: «Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro». Maria in realtà sta andando incontro a Gesù per fargli la domanda delle domande, che fa venire le lacrime agli occhi del lettore di ogni tempo: «Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”». Signore se tu fossi stato qui… Anche noi diciamo: Signore dov’eri? Lo diciamo spesso quando non sappiamo cosa dire, anche quando sappiamo che ne siamo in qualche modo responsabili… Gesù però non parla, ma fa un gesto eloquente, si fa prossimo e piange con noi e come noi: «Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: “Dove lo avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”. Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: “Guarda come lo amava!”». Gesù guardando noi che piangiamo i nomi e i volti di questi fratelli sventurati, scoppia in pianto con noi, prende le nostre lacrime e le fa diventare le sue. Rende prezioso il pianto dei familiari, della gente buona e onesta, perché ci accorgiamo come è mortifero il nostro agire distratto, superficiale, interessato egoista, quando non ci si rende conto che a farne lo spese sono gli innocenti e i bambini, questi volti che potevano essere quelli del mio papà e della mia mamma, dei nostri nonni e dei nostri figli…Qui la nostra parola si ferma. Resta solo il pianto di Gesù che assume le nostre lacrime, le mette nel suo calice d’amore, e le attraversa tutte, perché nessuno mai le possa dimenticare. Poi chiama alla vita l’amico Lazzaro. Noi non ne siamo capaci: possiamo solo attendere che egli ci doni un po’ di consolazione e di speranza. Noi stiamo qui accanto a Gesù, ci stringiamo ai familiari di questi nostri fratelli che ci sono diventati cari, e ascoltiamo Gesù che dice: «Io sono la risurrezione e la vita», perché egli è il Figlio inviato dal Dio Eterno, che è il Dio dei viventi! Da qui in avanti la nostra voce si fa preghiera, silenziosa, sobria, pudica e di poche e misurate parole, perché sia semplice eco della sua Pasqua. Come dice l’angelo della risurrezione alle donne: «Non cercate tra i morti il Vivente, è risorto, non è qui!». Se le nostre lacrime rimangono, esse sono asciugate dalla sua mano pietosa, perché nessuno più dimentichi quanto dolore devastante la nostra incoscienza può provocare sulla faccia della terra. Certo anche noi, come alcuni dei Giudei, possiamo dire protestando: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?». Risposta non c’è: resta il silenzio, perché ciascuno di noi diventi un po’ più responsabile di fronte al legame che tutti ci tiene uniti. Indissolubilmente!

Claudio Del Frate per corriere.it l'11 agosto 2021. «Eitan è stato sottratto da una famiglia che non lo conosceva, che in precedenza non era stata a lui vicina in alcun modo». Questa la dura denuncia di Gali Peri, zia materna del piccolo Eitan, unico sopravvissuto della tragedia del Mottarone nel maggio scorso. Il bambino attualmente si trova in Italia affidato alla zia paterna, Aya Biran. L’avvocato Ronen Dlayahu, che rappresenta gli interessi del ramo familiare in Israele, ha annunciato in una conferenza stampa con la signora Peri di aver avviato un procedimento per l’adozione di Eitan ed il suo ritorno in Israele. Per il legale «Eitan è in ostaggio». «Il diritto di Eitan è che dovrebbe avere una casa dove i suoi genitori volevano che crescesse; come ebreo in una scuola ebraica, e non in una scuola cattolica in Italia» hanno aggiunto. «Hanno preso il controllo del suo corpo, della sua mente e della sua anima, esattamente così, per tenerlo in Italia». «Abbiamo un bimbo israeliano a due ore di volo da noi - hanno aggiunto gli zii in conferenza stampa - e si trova in un Paese dove i suoi genitori non avrebbero voluto che vivesse, di sicuro non nel modo si prevede verrà educato. Non abbiamo bisogno di denaro; è impensabile che il bimbo sia tenuto da una madre che non lo ha mai conosciuto e che prima della tragedia non aveva nemmeno una foto con lui». I parenti lamentano di aver dovuto far ricorso al tribunale per poter incontrare il bimbo «due volte la settimana, per due ore e mezzo». Il bimbo è l'unico scampato allo schianto della funivia sopra il lago Maggiore che il 23 maggio scorso provocò la morte di 14 persone. Eitan e i genitori (entrambi di origine israeliana ed entrambi morti sulla funivia) vivevano in Italia nei pressi di Pavia. Dopo una lunga degenza all’ospedale Regina Margherita di Torino, il bimbo è rimasto in Italia e ora vive con i parenti del padre. Oltre al papà Amit e alla mamma Tal, nell’incidente del Mottarone Eitan aveva perduto il fratellino Tom e i bisnonni Barbara e Yitzhak. L’affidamento, seppur provvisorio, di Eitan al ramo paterno della famiglia era stato deciso dal tribunale dei minori di Torino. La sua adozione in via definitiva è stata chiesta tuttavia tanto dagli zii che vivono in Italia quanto da quelli rimasti in Israele. Da qui la «guerra legale» venuta platealmente a galla oggi con la conferenza stampa tenuta a Tel Aviv. Proprio oggi a Verbania è avvenuta la consegna del denaro raccolto attraverso una sottoscrizione a favore di Eitan avvenuta il giorno del passaggio da Stresa del Giro d’Italia. Era presente il rabbino di Torino Ariel Di Porto. «Il bimbo è stato in ospedale a Torino nei giorni scorsi per togliere i gessi - ha detto il religioso - , sta meglio e questa è una splendida notizia. I segni di ripresa ci sono, il suo percorso sarà lungo ma sta rispondendo bene e ci sta dando speranza di fronte alla tragedia che ha vissuto».

(ANSA l'11 agosto 2021) Cristina Pagni, Massimo Sana e Armando Simbari, legali di Aya Biran Nirko, zia e tutrice del piccolo Eitan, il bambino di 5 anni unico sopravvissuto all'incidente della funivia del Mottarone, si dicono "sbalorditi" per le "surreali dichiarazioni, decisamente inaspettate e fuori contesto" di Gali Peri, zia materna del piccolo. "La nomina della dottoressa Biran Nirko a tutrice di Eitan - aggiungono - è stata disposta e confermata dai giudici tutelari competenti. La tutrice si confronta, per quando dovuto e necessario, con il giudice tutelare per il solo bene di Eitan. Non si comprende sinceramente il perché tanta acrimonia e falsità". Cristina Pagni, Massimo Sana e Armando Simbari, legali di Aya Biran Nirko, zia e tutrice del piccolo Eitan, il bambino di 5 anni unico sopravvissuto all'incidente della funivia del Mottarone, si dicono "sbalorditi" per le "surreali dichiarazioni, decisamente inaspettate e fuori contesto" di Gali Peri, zia materna del piccolo. "La nomina della dottoressa Biran Nirko a tutrice di Eitan - aggiungono - è stata disposta e confermata dai giudici tutelari competenti. La tutrice si confronta, per quando dovuto e necessario, con il giudice tutelare per il solo bene di Eitan. Non si comprende sinceramente il perché tanta acrimonia e falsità".

La guerra sull’affidamento del piccolo di 7 anni. “Eitan è ostaggio in Italia”, il bambino sopravvissuto alla strage del Mottarone conteso dagli zii. Vito Califano su Il Riformista l'11 Agosto 2021. “Eitan è in ostaggio”. “Eitan non è dove i genitori avrebbero voluto che crescesse”. “Eitan vive con persone che non hanno neanche una foto con lui”. Il piccolo Eitan è al centro di una vera e propria guerra legale tra zii paterni e materni emersa oggi in tutta la sua drammaticità. E ha solo sette anni. È stato l’unico sopravvissuto della tragedia del Mottarone dello scorso 23 maggio: nell’incidente e lo schianto, il crollo della cabina della funivia Stresa-Mottarone sulla quale stava viaggiando sono morte 14 persone. A bordo c’erano anche il padre Amit e la madre Tal, il fratellino Tom e i bisnonni Barbara e Yitzhak. Eitan sta meglio, è seguito da psicologi ha appena tolto i gessi e sta rispondendo bene al periodo di convalescenza, ha detto il rabbino di Torino Ariel Di Porto in occasione della consegna, a Verbania, del denaro raccolto attraverso una sottoscrizione a favore del piccolo il giorno in cui il Giro d’Italia è passato a Stresa. Il bambino è stato affidato dal tribunale dei minori di Torino, in via provvisoria, al ramo paterno della famiglia che vive in Italia. Anche il ramo materno ha tuttavia chiesto l’affidamento. A Tel Aviv oggi è stata organizzata una conferenza stampa dalla zia materna, Gali Peri, e dall’avvocato Ronen Dlayahu, che rappresenta gli interessi della parte della famiglia che vive in Israele. “Eitan è stato sottratto da una famiglia che non lo conosceva, che in precedenza non era stata a lui vicina in alcun modo”, ha detto la zia materna. “Il diritto di Eitan è che dovrebbe avere una casa dove i suoi genitori volevano che crescesse; come ebreo in una scuola ebraica, e non in una scuola cattolica in Italia – hanno aggiunto nel punto stampa – Hanno preso il controllo del suo corpo, della sua mente e della sua anima, esattamente così, per tenerlo in Italia”. E ancora, come riporta Il Corriere della Sera: “Abbiamo un bimbo israeliano a due ore di volo da noi e si trova in un Paese dove i suoi genitori non avrebbero voluto che vivesse, di sicuro non nel modo si prevede verrà educato. Non abbiamo bisogno di denaro; è impensabile che il bimbo sia tenuto da una madre che non lo ha mai conosciuto e che prima della tragedia non aveva nemmeno una foto con lui“. I parenti lamentano di aver dovuto far ricorso al tribunale per poter incontrare il bimbo “due volte la settimana, per due ore e mezzo”. Il gip Elena Criotti, lo scorso luglio, ha nominato un pool di periti che in quattro mesi e mezzo dovrà accertare “tutto quello che può aver contribuito a causare l’evento con una attenzione molto dettagliata sia allo stato dell’impianto, alle sue caratteristiche, agli interventi di manutenzione”. Al centro dell’attenzione lo strappo o cedimento della fune. Dalle indagini finora svolte è emerso che il sistema di freni era stato disinserito tramite l’applicazione dei forchettoni che evitare l’attivazione del sistema e quindi il blocco delle corse a causa di alcuni problemi tecnici. Il plenum del Csm intanto, a fine luglio, ha bocciato la revoca del fascicolo sulla tragedia della funivia del Mottarone da parte del presidente del tribunale Luigi Montefusco alla giudice per le indagini preliminari Donatella Banci Buonamici. Le operazioni del pool sono partite il 3 agosto tramite sopralluoghi, con la formula dell’incidente probatorio. Il 30 agosto il via agli esami della scatola nera. Il 16 dicembre la presentazione in aula del lavoro dei periti. L’unico indagato agli arresti domiciliari è il capo servizio della struttura Gabriele Tadini. Altri indagati a piede libero sono il direttore dell’esercizio Enrico Perocchio e l’imprenditore Luigi Nerini.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Antonio Calitri per "Il Messaggero" il 12 agosto 2021. L'unico sopravvissuto della tragedia della funivia del Mottarone diventa protagonista involontario di una guerra legale tra il ramo paterno della sua famiglia che vive in Italia e quello materno, residente in Israele, in lotta per l'affidamento e la sua educazione. Parliamo di Eitan, il bambino di 5 anni che nello schianto della funivia del 23 maggio scorso perse i genitori Amit Biran e Tal Peleg, entrambi nati in Israele e residenti a Pavia e il fratello Tom di due anni, morti insieme ad altre 11 persone presenti quella mattina nella cabina caduta. Trovato ancora vivo in gravissime condizioni, Eitan venne operato d'urgenza all'ospedale Regina Margherita di Torino. Il Tribunale dei minori di Torino che lo sta facendo seguire da medici e psicologi, lo ha affidato in via temporanea alla zia paterna, Aya Biran che vive sempre nel pavese e ha una famiglia con bambini di età simili a quella del nipote, in attesa delle pratiche di adozione presentate sia dagli attuali affidatari che dai famigliari della mamma, che vivono in Israele. Ieri però, mentre a Verbania si svolgeva una manifestazione per la consegna di 30.000 euro di aiuti donati al bimbo dai ciclisti in occasione della tappa di Stresa del Giro d'Italia, da Tel Aviv la zia materna di Eitan, in una conferenza stampa ha annunciato l'inizio di una guerra legale tra i due rami della famiglia per l'adozione e l'educazione del superstite. «Eitan è stato sottratto da una famiglia che non lo conosceva» ha denunciato Gali Peri, sorella della madre del piccolo comunicando che attraverso l'avvocato Ronen Dlayahu ha avviato il procedimento per chiedere l'adozione del bambino e la possibilità di farlo vivere in Israele. Per gli zii materni Gali e Ron Peri, «il diritto di Eitan è quello di avere una casa dove i suoi genitori volevano che crescesse; come ebreo in una scuola ebraica, e non in una scuola cattolica in Italia. È tenuto prigioniero». Poi la zia ha raccontato la «tragedia» che sta vivendo la famiglia Peleg, perché «Eitan è stato portato da sua zia, Aya. Da allora, gli è stato impedito di avere un legame stabile e coerente con noi. Hanno preso il controllo del suo corpo, della sua mente e della sua anima, esattamente così, per tenerlo in Italia» aggiungendo che «abbiamo un bambino israeliano a due ore di volo da noi. Si trova in un paese in cui i suoi genitori non volevano che vivesse, certamente non nel modo in cui dovrebbe essere educato». Gali ha anche denunciato la scorrettezza delle procedure perché avvenute «mentre noi, dopo la tragedia, osservavamo la tradizionale settimana ebraica di lutto profondo. Lo abbiamo appreso solo a posteriori». Intanto ha svelato che per poter far visita al nipote, si sono dovuti rivolgere al tribunale «che ha disposto due visite la settimana, di due ore e mezzo». Non ha approvato l'iniziativa degli zii materni il presidente della Comunità ebraica di Milano, Milo Hasbani, che parla di una vicenda «abbastanza triste, non so che logica ci possa essere a portare il bambino in Israele, in un ambiente un po' diverso. Loro lo giustificano con il fatto che sono i parenti materni e che quindi lo vogliono far crescere lì». In serata la replica di Cristina Pagni, Massimo Sana e Armando Simbari, legali di Aya Biran Nirko, zia e attuale tutrice di Eitan: «Siamo sbalorditi» per le «surreali dichiarazioni, decisamente inaspettate e fuori contesto» di Gali Peri.

Sandro Barberis per "La Stampa" il 12 agosto 2021. La zia paterna Aya Biran, a cui è stato affidato Eitan dal tribunale di Torino, ieri ha avuto un incontro di due ore e mezza con il giudice tutelare del piccolo orfano. Un incontro che era già in programma, visto che avvengono regolarmente. Ma ieri al centro della discussione non poteva che esserci anche la dura presa di posizione del ramo israeliano della famiglia di Eitan. Gli zii di Travacò hanno avuto l'affidamento dal tribunale di Torino, che era competente nei giorni in cui Eitan è stato ricoverato all'ospedale Regina Margherita. Ora la pratica è passata al tribunale di Pavia, che ha preso in carico la vicenda. Cristina Pagni, Massimo Sana e Armando Simbari, legali di Aya Biran Nirko, la zia e tutrice del piccolo Eitan, si dicono «sbalorditi» per le «surreali dichiarazioni, decisamente inaspettate e fuori contesto» della zia materna di Eitan, Gali Peri. «La nomina della dottoressa Biran Nirko a tutrice di Eitan - aggiungono - è stata disposta e confermata dai giudici tutelari competenti. La tutrice si confronta, per quando dovuto e necessario, con il giudice tutelare per il solo bene di Eitan. Non si comprende sinceramente il perché di tanta acrimonia e di tante falsità». Le tensioni tra le due famiglie, comunque, erano nell'aria da tempo. Al momento è la famiglia di Travacò Siccomario, quindi il ramo paterno e «pavese» di Eitan, ad avere in carico il bambino che ha compiuto 6 anni a luglio. La zia Aya, 41enne medico dell'Asst di Pavia, e il marito Or Nirko hanno anche due figli della stessa età circa di Eitan. Tra l'altro la famiglia di Eitan, sterminata sul Mottarone, viveva nel quartiere di Borgo Ticino a Pavia: poche centinaia di metri dalla frazione Rotta di Travacò dove ora si trova Eitan. Il riferimento all'educazione cristiana, che non piace ai parenti che vivono in Israele, è legato al fatto che Eitan Biran insieme ai cugini (quindi i figli di Aya) frequenta l'asilo delle suore Canossiane di Pavia. Proprio suore e maestre di Eitan hanno partecipato anche alle iniziative pubbliche in favore del bambino. Iniziative, tra cui una partita di calcio a fine giugno, a cui non hanno partecipato invece i parenti pavesi, ma solo alcuni parenti del ramo materno. La tensione tra le due sponde della famiglia era palpabile da tempo, fin dai giorni di inizio giugno quando le condizioni di Eitan hanno iniziato a migliorare all'ospedale Regina Margherita. Nell'ospedale torinese le due famiglie si erano unite, per il bene del bambino. Ora, però, combattono a colpi di carta bollata.

Sandro Barberis per “La Stampa” il 13 agosto 2021. Eitan, il bambino di 6 anni unico superstite della strage del Mottarone, è stato iscritto alla prima elementare a Pavia. «Siamo pronti ad accoglierlo» spiegano dalla scuola. Frequenterà la prima elementare all'istituto delle suore Canossiane, lo stesso dove frequentava la materna e dove sono iscritti i suoi cugini, i figli della zia paterna Aya Biran e del marito Or Nirko. Persone che quindi Eitan vedeva già prima della tragedia. Volti che ora vede tutti i giorni, in quanto è affidato alla zia Aya. Il 23 maggio il bimbo ha perso padre, madre, fratellino e due bisnonni. Un futuro, quello di Eitan, ancora tutto da definire. Il ramo materno della famiglia, parenti che vivono in Israele, ha usato toni durissimi contro la zia paterna che vive a Travacò. La zia materna Gali Peleg ha parlato di «Eitan ostaggio in Italia, dove non può ricevere una formazione ebraica ma frequenta una scuola cristiana. Il suo posto è in Israele». I parenti israeliani hanno avanzato un'istanza al tribunale per avere l'affidamento del nipotino, con l'avvocato israeliano che accusa Aya «di non permettere, se non saltuariamente, contatti con Eitan al ramo materno». «Per noi Eitan al momento è regolarmente iscritto alla prima elementare. Conosciamo già Aya, i suoi figli sono nostri alunni. Ora ha iscritto Eitan per continuare il percorso all'interno della nostra scuola - spiega la direttrice, madre Paola Canziani -. Sappiamo che il bambino sta meglio, ha ancora qualche problema di deambulazione. A settembre siamo pronti ad accoglierlo». L'eco delle polemiche tra i due rami della famiglia è arrivato anche alle maestre e alle suore Canossiane: «Posso solo dire che il bambino ha fatto tutto il percorso d'asilo qui», spiega la direttrice. L'avvocato Cristina Pagni, che rappresenta Aya ha fatto sapere che ci sono stati numerosi attestati di solidarietà a zia Aya, 41enne medico dell'Asst di Pavia. La legale di Aya dice di «non avere nulla da aggiungere dopo la risposta dell'altro giorno in seguito alle accuse arrivate». Pagni spiega però, tecnicamente, che l'istituto giuridico che permette ad Aya di occuparsi di suo nipote Eitan non è l'affidamento bensì la tutela. «Tutela che è stata confermata proprio negli scorsi giorni dal tribunale - aggiunge -. Eitan e la tutrice sono affidati alla giustizia italiana sotto la guida e il controllo del giudice tutelare». Il pool di legali di Aya Biran (ci sono anche dei penalisti) ha parlato «di espressioni fuori luogo e inappropriate». Le ultime 48 ore hanno riportato al centro dell'attenzione le sorti del bambino. Eitan, che ha compiuto 6 anni a luglio, il 23 maggio era sulla cabina della funivia del Mottarone precipitata nel vuoto spazzando via 14 vite, tra cui tutte quelle della sua famiglia. Eitan era stato ricoverato in gravissime condizioni all'ospedale pediatrico Regina Margherita di Torino. Operato d'urgenza si era poi ripreso e dimesso il 10 giugno. Ora è ancora in fase di guarigione.

Eitan conteso da due famiglie. Ma soltanto per amore. Karen Rubin il 14 Agosto 2021 su Il Giornale. Due donne si rivolsero al re Salomone rivendicando la maternità dello stesso bambino. Il sovrano escogitò un piano per capire chi fosse la vera madre e rivolgendosi alle sue guardie esclamò: «Tagliate in due il bambino e datene una metà all'una e una metà all'altra». Una delle due si rivolse al re: «Date a lei il bimbo; non dovete farlo morire!». L'altra rispose: «Non sia né mio né tuo; tagliate!». Il re prese la parola: «Date il bimbo alla prima; non dovete farlo morire. Quella è sua madre». Ci vorrebbe la saggezza di Salomone per decidere il destino del piccolo Eitan: il bambino, sopravvissuto alla strage del Mottarone, in cui perse la Madre Tal e il padre Amit, è conteso dalla zia Aya, sorella del padre e dalla zia Gali, sorella della madre. La zia materna sostiene che il bambino debba tornare con lei in Israele affinché possa vivere immerso nella cultura ebraica, la zia paterna ricorda come gli 8 anni del bambino siano trascorsi in Italia dove a condividere quotidianità e festività erano la sua famiglia e quella del fratello, giunto in Italia per diventare un medico seguendo un percorso già intrapreso da lei. Il bambino ha subito un trauma difficile da superare e il buon senso indica la strada da seguire, allontanarlo dai luoghi in cui è cresciuto, dai compagni di scuola, dai parenti frequentati fin qui insieme ai suoi genitori è un trauma ulteriore da evitare. Il fatto che il bimbo sia di religione ebraica non obbliga a nessun trasferimento in Israele. A favore del bambino sono stati donati dei soldi ma non sono quelli, come qualcuno ha ipotizzato, ad aver innescato la contesa tra le zie. La famiglia materna ha perso una figlia e il nipote è una parte di lei, da amare e proteggere adesso che la mamma non c'è più. È un conflitto che nasce dall'amore di entrambe le donne per il bambino e chi lo ha generato. Dopo una tragedia può capitare che i minori sopravvissuti non abbiamo nessuno disposto ad occuparsi della loro crescita con una grande disponibilità effettiva. Eitan ha perso le sue figure fondamentali di riferimento ma l'amore, per fortuna, non gli mancherà. Karen Rubin

Da “Ansa” il 13 settembre 2021. Smhuel Peleg, il nonno materno che ha rapito il piccolo Eitan, il bimbo unico sopravvissuto alla strage della funivia Mottarone, è indagato a Pavia per sequestro di persona aggravato. Peleg, ex militare che due giorni fa ha portato il piccolo di 6 anni in Israele dopo una visita concessa dalla famiglia paterna e dopo averlo prelevato nella casa della zia Aya Biran, tutrice legale, è stato iscritto nel registro degli indagati per sequestro di persona aggravato dal fatto che la vittima è un minorenne. Nell'inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Mario Venditti, si scava anche su presunte complicità di altre persone nel blitz che ha portato al presunto rapimento.

Da Corriere.it il 12 settembre 2021. «Parlo solo per chiarire che abbiamo agito per il bene di Eitan». Lo ha detto in una intervista alla Radio israeliana 103 Gali Peleg, zia materna del piccolo sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, che è stato portato in Israele dal nonno, nonostante un giudice l’avesse affidato alla zia paterna in Italia. «Non abbiamo rapito Eitan e non useremo quella parola, l’abbiamo portato a casa e abbiamo dovuto farlo perché non avevamo notizie sulla sua salute e la sua condizione mentale». «Eitan - ha aggiunto - ha urlato di emozione quando ci ha visto ed ha detto "finalmente sono in Israele"». «Non ha cessato di emozionarsi - ha proseguito - e di dire che noi siamo la sua vera famiglia. Ha detto di sentirsi fra le nuvole. Finalmente gli è tornato il colore sul viso». 

Da video.corriere.it il 12 settembre 2021. Ieri c’è stata una «mossa gravissima, un’altra tragedia per Eitan», messa in atto dalla famiglia materna e «voglio anche portare a conoscenza» delle autorità israeliane «che il nonno materno è stato condannato per maltrattamenti in famiglia nei confronti della sua ex moglie, la nonna materna, e tutti i suoi appelli sono stati respinti in 3 gradi di giudizio». Lo ha detto ai cronisti davanti alla sua casa la zia paterna di Eitan, il piccolo sopravvissuto alla tragedia della funivia del Mottarone. La donna accusa il nonno materno di aver portato via Etian, di averlo condotto in Israele. C’è un’inchiesta aperta per sequestro di persona. Aya Biran ha spiegato di essere preoccupatissima perché: «Eitan ora è seguito da un fisiatra e da uno psicoterapeuta e questi trattamenti devono continuare in modo regolare, vanno garantiti, in settimana ci sono due visite programmate per lui, una Pavia e una Torino». Di tenore completamente diverso le parole giunte da Israele dove si troverebbe attualmente Eitan. La zia materna del piccolo dice: «Non è un rapimento, abbiamo agito per il bene del bambino».

Giuseppe Guastella per corriere.it il 12 settembre 2021. Quando hanno cominciato a cercarlo, Eitan probabilmente era già in Israele dove l'ha portato su un volo privato il nonno materno grazie a un colpo di mano che ricorda molto i blitz dei servizi segreti di cui sembra faccia o abbia fatto parte. Unico sopravvissuto alla tragedia della funivia del Mottarone in cui tra i quattordici morti c'erano i suoi genitori e il fratellino, a sei anni appena compiuti Eitan Biran, che i parenti in Israele hanno sempre sostenuto dovesse crescere nella loro terra, ora è costretto ad affrontare anche lo shock di un trasferimento sul quale la Procura di Pavia indaga per «sequestro di persona». Come permesso dal giudice tutelare di Pavia, sabato pomeriggio il nonno materno, Shmulik Peleg, 58 anni, che si era trasferito in Italia dopo la tragedia del Mottarone ha prelevato Eitan dall'abitazione di Pavia della zia paterna alla quale il piccolo è stato affidato dalla magistratura da quando è stato dimesso dall'ospedale dove è rimasto a lungo per le ferite riportate nell'incidente della funivia del 23 maggio. Il rientro era previsto per le 18,30, ma al termine dell'incontro Peleg ed Eitan non si sono ripresentati a casa dei parenti paterni i quali un'ora dopo hanno dato l'allarme. I primi accertamenti della Polizia di Pavia, coordinati dal procuratore facente funzioni Mario Venditti e dal sostituto Roberto Valli, hanno concluso che nonno e nipote si erano imbarcati su un volo privato a bordo del quale il bambino è potuto salire perché - non si sa come - Peleg era in possesso del passaporto del piccolo, che ha permesso l'espatrio. Una conferma dello sbarco in Israele è arrivata per vie diplomatiche ai magistrati pavesi i quali domani apriranno formalmente un fascicolo con l'ipotesi di reato di sequestro di persona. Il bambino è finito al centro di una disputa aperta dalla zia materna da Tel Aviv che ha accusato la zia paterna di voler trattenere con sé Eitan in Italia. «Siamo determinati a circondarlo di calore e di affetto», aveva detto la signora da Tel Aviv, aggiungendo che per la sorella «erano importanti l'identità ebraica e quella israeliana» ma che questa sarebbe stata progressivamente «cancellata» da una permanenza del nipotino in Italia. «La notizia sconvolge tutti e ci crea grande preoccupazione», dichiara l'avvocato Armando Simbari che con Cristina Pagni e Massimo Saba assiste i familiari pavesi: «È stato strappato alla famiglia con cui è cresciuto, ai medici che lo stanno curando con un eventi traumatico che può destabilizzarlo».

Giuseppe Guastella per il "Corriere della Sera" il 13 settembre 2021. La decisone l'ha presa perché secondo lui Eitan era in pessime «condizioni mentali e fisiche». In quel preciso momento Shmuel Peleg ha diretto l'auto verso la Svizzera per imbarcarsi a Lugano su un volo charter privato per Tel Aviv con il nipotino di sei anni che aveva prelevato in casa della zia paterna in uno dei consueti incontri autorizzati dal giudice tutelare di Pavia. Lo racconta lui stesso ai suoi legali in Italia, ma saranno le indagini per sequestro di persona della Procura di Pavia guidata da Mario Venditti a stabilire se si trattava di un piano organizzato da tempo oppure imbastito all'ultimo minuto, in una vicenda che vede contrapposti i familiari che si contendono l'affidamento dell'unico superstite della tragedia della funivia del Mottarone che il 23 maggio costò la vita a 14 persone, tra le quali c'erano i genitori, il fratellino e i bisnonni di Eitan Biran. Dal giorno successivo alla sciagura, Shmuel Peleg, 58 anni, si è praticamente trasferito in albergo in Italia. Arrivato per la triste incombenza del riconoscimento dei corpi dei suoi familiari deceduti, era stato raggiunto dalla moglie separata Ester che poi è tornata in patria. Ex militare dell'esercito israeliano, dopo la pensione è diventato consulente di una azienda elettronica. C'è chi dice che abbia avuto rapporti con i servizi segreti, ma la notizia non trova conferme da parte dei suoi legali, gli avvocati Sara Cazzaniga, Paolo Polizzi e Paolo Sevesi. Alle 11.30 di sabato mattina, Peleg ha bussato alla porta della zia paterna di Eitan, in provincia di Pavia, per prelevare il bambino per uno degli incontri che dovrebbero aiutarlo ad avere una vita per quanto possibile normale, circondato dall'affetto di tutti i parenti che gli sono rimasti. «Ti porto a comperare tanti giocattoli» lo ha sentito dire Aya Biran mentre caricava sulla macchina a noleggio la carrozzina e il girello con cui Eitan è costretto a muoversi per i postumi delle fratture riportate nello schianto della cabina della funivia in cui si è salvato miracolosamente grazie al padre Amit che gli ha fatto scudo con il proprio corpo. Già subito dopo l'incidente i rapporti tra i due rami della famiglia si erano guastati. Da un lato sorella e cognato di Amit Biran, che vivono a Travacò Siccomario (Pavia) e vogliono che il bambino, che oggi sarebbe andato in prima elementare, continui a crescere nel Paese in cui il padre era venuto con la moglie per studiare medicina e ha trovato lavoro. Dall'altro i nonni materni e Gal, sorella di Tal Peleg, madre di Eitan, secondo i quali il piccolo dovrebbe trasferirsi con loro in Israele come, dicono, avrebbero voluto fare i suoi genitori. Questo scontro ha innescato una furiosa battaglia legale con la zia paterna Aya nominata tutrice a tutti gli effetti dal Tribunale per i minori di Torino, secondo i suoi avvocati, ma che per quelli dei nonni materni sarebbe stata investita temporaneamente del ruolo solo per le prime cura da prestare al bambino in ospedale, decisione alla quale si sono opposti e che sarà esaminata il 22 ottobre. Ricorsi, contro ricorsi, cavilli e recriminazioni, specialmente da parte del 58enne Peleg che contesta con gli avvocati la regolarità dell'intero procedimento. Tutti giurano sdegnati di non aver interesse per i risarcimenti corposi che potrebbero arrivare da un processo sulla strage del Mottarone e per le tante donazioni che il bambino riceve da tutto il mondo. Questi pensieri si devono essere rincorsi nella mente di Peleg mentre guidava con accanto il nipotino facendogli prendere la strada per la Svizzera. Ai suoi legali, ha detto che Eitan gli chiedeva insistentemente di tornare e quando lo avrebbe portato in Israele. Sarebbe stato questo a spingerlo alla decisione di tornare in patria per far sottoporre il piccolo a controlli fisici e psichici. È chiaro che non si fida di quelli che vengono fatti in Italia. Shmuel Peleg era in possesso del passaporto israeliano di Eitan che, nato in Israele, ha anche la cittadinanza italiana. «Non sono un rapitore», proclama da Tel Aviv. Non avrebbe commesso violazioni perché non gli sarebbe mai stato notificato alcun divieto di espatrio che riguardasse il bambino, secondo i suoi avvocati che avevano fatto ricorso anche contro la decisione del giudice di Pavia di invitarlo a riconsegnare il passaporto del nipote entro il 30 agosto, cosa che evidentemente non ha mai fatto. Le cose stanno all'opposto per i legali della parte familiare avversa, i quali affermano che nei mesi scorsi il Tribunale di Pavia non solo ha confermato la nomina della zia paterna, ma ha anche stabilito che Eitan non potesse lasciare l'Italia se non «accompagnato dalla tutrice» o con la sua autorizzazione con un provvedimento trasmesso a Questura e Prefettura di Pavia per «essere inserito nelle banche dati delle forze dell'ordine» che controllano le uscite dal territorio italiano. E allora come è stato possibile che il nonno abbia portato Eitan in Israele? «O ha eluso il sistema dei controlli, oppure ha potuto contare su un qualche supporto», commenta l'avvocato Armando Simbari, che assiste la zia paterna.

Eitan, indagata anche la nonna: caccia ai complici del sequestro. Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 13 settembre 2021. Per gli inquirenti qualcuno ha aiutato Shmuel Peleg a fuggire dall’Italia con il nipotino. «Un piano organizzato». Gli avvocati di Peleg: «Ha agito d’impulso». Sospetti sui servizi segreti israeliani. È caccia ai complici, a chi può aver aiutato Shmuel Peleg a fuggire dall’Italia portando con sé il nipotino di sei anni fino in Svizzera e lì imbarcarsi senza che nessuno lo ostacolasse su un aereo privato che qualche ora dopo è atterrato in Israele. Per farlo, il 58enne israeliano, da ieri indagato con l’ex moglie per sequestro di persona aggravato, ha eluso il divieto di espatrio che avrebbe dovuto impedire che il bambino lasciasse il suolo italiano nel pieno di una vicenda che assume sempre più i contorni di un intrigo internazionale.

Le tracce in Svizzera. L’inchiesta della Procura di Pavia guidata da Mario Venditti ha già fatto importanti passi nella ricostruzione di come Peleg si è mosso sabato mattina e presto potrebbe dare luce a nuovi sviluppi. La Polizia sta seguendo le tracce lasciate dall’uomo da Travacò Siccomario fino a Lugano, a 151 chilometri di distanza dal paese in provincia di Pavia dove Eitan stava trascorrendo questo momento difficile della sua breve ma già drammatica esistenza. Non va dimenticato che tutti i protagonisti di questa storia sono vittime dirette o indirette della tragedia della funivia del Mottarone che il 23 maggio scorso è costata la vita di 14 persone che, dopo i lunghi divieti legati alla pandemia, volevano solo trascorrere in montagna la bella domenica di primavera. Nello schianto della cabina, dovuto alla rottura della fune traente e ai freni di emergenza criminalmente disattivati, sono morti i genitori, il fratellino di appena due anni e anche i bisnonni paterni di Eitan, l’unico miracolosamente rimasto solo ferito grazie al padre che gli ha fatto scudo con il proprio corpo.

Una famiglia divisa. Il dramma ha spezzato in due ciò che è rimasto della famiglia di Eitan. Da una parte i parenti materni che vivono in Israele, dall’altra quelli paterni che, sommando strazio a strazio, si stanno consumando in una battaglia legale sull’affidamento del bambino. Anche se c’è chi intravede maliziosamente dietro la faida l’interesse per i cospicui risarcimenti che otterrà il piccolo e le generose donazioni che ha già ricevuto da tutto il mondo. Sospetti che tutti respingono sdegnosamente. In questo scenario va inquadrata l’azione di Shmuel Peleg che ha perso una figlia, il genero e un nipotino. L’uomo, militare dell’esercito israeliano in pensione e consulente di un’azienda di elettronica, si è presentato poco dopo le 11.30 alla porta dell’abitazione della zia paterna di Eitan, Ayan Biran, dove il bimbo ha vissuto da quando è uscito dall’ospedale, per uno dei consueti incontri autorizzati dal giudice tutelare. È l’ultima volta che la zia ha visto Eitan.

«Ha agito d’impulso». Peleg e il nipotino si sono allontanati a bordo dell’auto presa a noleggio da Peleg all’aeroporto di Malpensa al suo arrivo in Italia. Ai suoi legali, gli avvocati Sara Carsaniga, Paolo Polizzi e Palo Sevesi, ha detto che appena si è convinto che il bambino era in «cattive condizioni mentali e fisiche», ha deciso di sottrarlo a quel procedimento giudiziario sulla sua tutela che ritiene zeppo di irregolarità e portarlo in un ospedale di Tel Aviv. «Le azioni di prepotenza sono sempre sbagliate», affermano i suoi legali, secondo i quali il loro assistito ha agito «d’impulso» dopo «aver tentato invano per mesi di portare la voce della famiglia materna nel procedimento civile di nomina del tutore», ma sono convinti che possa ritornare «ad avere fiducia nelle istituzioni italiane». In un paio d’ore, Peleg ha percorso l’autostrada varcando il confine con la Svizzera quasi certamente a Chiasso. Evidentemente senza alcun controllo, nonostante il Tribunale di Pavia avesse diramato in Svizzera e in tutta l’area Shengen un divieto di espatrio che riguardava il bambino. Nessun problema nemmeno all’aeroporto di Lugano dove nonno e nipote hanno preso il costoso volo decollato nel pomeriggio.

Complicità. Gli inquirenti sono convinti che una fuga del genere non possa essere pianificata ed organizzata all’ultimo momento da un nonno disperato e soltanto con la complicità della ex moglie Esther Choen, che al Mottarone ha perso i genitori e aveva detto di essere tornata in Israele prima di sabato. I sospetti puntano anche a personaggi legati ai servizi segreti israeliani ai quali sembra appartenesse un fratello della Choen. Per fare chiarezza, il procuratore Venditti e il sostituto Valentina De Stefano potrebbero presto avviare una rogatoria in Svizzera.

Giuseppe Guastella per il "Corriere della Sera" il 15 settembre 2021. Un mese prima del rapimento del piccolo Eitan la Questura di Pavia monitorava gli incontri periodici tra Shmuel Peleg e il nipotino su sollecitazione della Procura della Repubblica la quale aveva aperto un'indagine dopo una segnalazione del giudice tutelare che, al termine di un'udienza burrascosa, aveva assegnato definitivamente alla zia paterna Aya Biran la tutela del bambino. La legge non avrebbe permesso più di un controllo discreto e periodico che sabato scorso Peleg, soldato israeliano in pensione, ha aggirato agevolmente facendo perdere le tracce sue e del nipotino che ha rapito durante uno degli incontri consentiti dal giudice. C'erano stati momenti di forte tensione il 6 agosto in aula quando il giudice Michela Fenucci aveva dovuto sedare gli animi dei parenti materni di Eitan Biran, unico superstite della tragedia della funivia del Mottarone in cui il 23 maggio ha perso tra i 14 morti i suoi genitori, il fratellino di 2 anni e due bisnonni. La tensione tra i due gruppi, devastati dal dolore per la perdita dei loro cari, da tempo aveva superato il livello di guardia. La nonna, Esther Athen Cohen, anche lei indagata per sequestro di persona con l'ex marito Shmuel Peleg nell'indagine aperta dalla Procura guidata da Mario Venditti, aveva urlato accusando Aya Biran, tra l'altro, di vergognarsi di essere ebrea. Aveva poi chiesto di trascorrere con il nipote più tempo di quello che le era concesso, sostenendo che il piccolo è legato più a loro che al ramo paterno e che le limitazioni tagliavano «come un coltello nella carne viva» il rapporto con il nipotino. «Vorremmo portarlo in Israele e che crescesse da ebreo», aveva affermato anticipando quanto avrebbe poi dichiarato da Tel Aviv sua figlia Gali. Una delle principali contestazioni era la nomina di Aya a tutore di Eitan decisa dal Tribunale di Torino quando, subito dopo l'incidente, era necessario affrontare le cure per il bambino ferito. Scelta fermamente contestata dai nonni, dalla zia Gali e dai loro avvocati secondo i quali «non esiste nessuna decisione di nomina o di conferma a tutore a Pavia e, ad oggi, non esiste un affidamento del minore perché la competenza è del Tribunale dei minori, che non è stato investito della questione», contesta l'avvocato Sara Carsaniga, secondo la quale Torino nominò Aya Biran limitatamente per le incombenze di quel momento drammatico. Il giudice ha anche disposto che Peleg riconsegnasse entro il 30 agosto il passaporto israeliano del nipote, per il quale veniva emesso un divieto di espatrio. Tensioni che il giudice ha comunicato a Venditti il quale ha subito aperto un fascicolo a modello 45, cioè senza ipotesi di reato e senza indagati, allertando la squadra mobile della Questura di Pavia che, dice una fonte, in quella situazione giuridica, ad esempio, poteva far controllare periodicamente dalle pattuglie la casa di Travacò Siccomario ma senza poter pedinare Peleg. L'uomo non ha mai dato adito a sospetti, afferma un investigatore convinto che questo facesse parte del sua piano per il rapimento. Talvolta ha riportato Eitan a casa in ritardo. ma non così grave da allarmare la zia. E infatti, sabato scorso la donna ha atteso una trentina di minuti prima di chiamare la polizia intorno alle 19. A quell'ora Eitan e il nonno erano già atterrati a Tel Aviv con un aereo privato decollato da Lugano. 

Davide Frattini per il "Corriere della Sera" il 13 settembre 2021. La Renault rossa resta nel piazzale davanti a casa dove Etty l'ha parcheggiata in primavera. Dice di non riuscire a spostarla, non se la sente di restituirla al concessionario - è ancora nuova - significherebbe lasciare uno spazio vuoto sull'asfalto ad allargare quello che nella sua vita sembra impossibile riempire. La nonna materna aveva incontrato Eitan alla fine di agosto, una delle visite previste dal tribunale italiano, un abbraccio - aveva raccontato allora al quotidiano Israel Hayom - «monitorato da una videocamera piazzata sul televisore da Aya», la zia paterna che adesso da Pavia accusa Shmuel Peleg, il nonno ed ex marito di Etty, di aver rapito il piccolo nel pomeriggio di sabato. Quello sul futuro del bambino di sei anni sembra diventato anche uno scontro tra culture, ideologie, tra quelle che lo scrittore Etgar Keret chiama «le tribù di Israele». Ne accennava la stessa Etty nell'intervista al giornale locale: «Mia figlia Tal soffriva per i rapporti con la famiglia di Amit, si sentiva sottovalutata. Non so per quale ragione ci disprezzino, forse perché noi siamo sefarditi». Come a dire, è la vecchia storia: gli ashkenaziti - la cosa più vicina a un'aristocrazia in una nazione nata e cresciuta socialista - guarderebbero con la loro «alterigia europea» gli immigrati dai Paesi arabi, importatori di altri modi, abitudini, attitudini. Differenze anche politiche: «Non ho mai nascosto le mie idee di destra», proclama Etty sottintendo che i Biran stanno dall'altra parte. Così l'orgoglio di volere che Eitan cresca in Israele - «Tal e Amit avevano deciso di tornare a vivere qui l'anno prossimo, per questa ragione avevo comprato l'auto» - e di impedire che vada in una scuola cattolica: «Deve essere educato senza dimenticare la tradizione del popolo a cui appartiene». Così l'orgoglio di elencare - come forse ha fatto tante volte alle cene tra le due famiglie - i successi dei figli: Tal che stava per laurearsi in psicologia, Guy che fa il manager all'El Al (la compagnia aerea di bandiera), Gali che lavora per una società di consulenza finanziaria, Aviv che comincerà a studiare legge. Cinque anni fa Etty si è risposata con un ex marine conosciuto in Alaska, vivono a Ramat Aviv, sobborgo elegante a nord di Tel Aviv. In contrasto con l'immagine presentata in Italia e sulle tv israeliane di difficoltà economiche nel sostenere la battaglia legale. Durante l'estate la famiglia ha lanciato alcune raccolte fondi per pagare le spese e i viaggi tra Pavia e Torino. Quella attraverso Gius Mehalev (in ebraico «reclutamento dal cuore») «è stata interrotta dopo aver raggiunto la cifra prefissata, mezzo milione di shekel» (oltre 130 mila euro) spiega Noa Harish, la fondatrice del sito di crowdfunding. È stato nonno Shmuel - in passato condannato per maltrattamenti contro Etty - a gestire le operazioni, si era trasferito in Italia dopo l'incidente sul Mottarone. Mentre la secondogenita Gali ha continuato da Tel Aviv a essere la portavoce dei Peleg: «Lo abbiamo riportato a casa - ha dichiarato ieri -, Aya non ha una vera relazione con lui. Quando ci ha visto, Eitan ha urlato per l'eccitazione e ha detto che finalmente era in Israele». Non spiega come ci sia arrivato, se il nonno lo abbia imbarcato su un jet privato - di sabato i voli di linea verso il Paese sono quasi inesistenti -, se qualche organizzazione li abbia aiutati, gruppi ultranazionalisti come Lehava che combattono qualunque forma di assimilazione degli ebrei, dai matrimoni misti all'educazione dei bambini.

Da corriere.it il 14 settembre 2021. La polizia israeliana ha interrogato Shmuel Peleg, nonno di Eitan Biran, riguardo le accuse di aver «rapito il nipote e portato in Israele». Lo ha fatto sapere la polizia stessa aggiungendo che dopo l’interrogatorio Peleg è stato posto agli arresti domiciliari. Il provvedimento degli arresti domiciliari è previsto fino a venerdì. A interrogare Shmuel Peleg è stata l’unità speciale 433.

DAVIDE FRATTINI per corriere.it il 14 settembre 2021. Quando hanno sentito Benny Gantz accusare dal palco il rivale Benjamin Netanyahu «di aver passato il tempo a sorbirsi cocktail e a praticare l'inglese mentre io stavo sdraiato nel fango delle trincee con i miei soldati», gli analisti di cose politiche hanno subito capito che quelle parole erano l'intruglio preparato dal nuovo stratega. Che ha consigliato l'ex capo di Stato Maggiore (e adesso ministro della Difesa) nelle ultime tre campagne elettorali, ne ha resi più spicci i modi e più incisivi gli attacchi. Perché Ronen Tzur non si tira mai indietro dalle sfide - su Twitter si trattiene ancora meno e 5 anni fa ha scritto «Il libro del XXI secolo: Mein Trumpf» per poi essere costretto a scusarsi con il presidente americano - o se si tratta di provare a ripulire l'immagine di Dan Gertler, uomo d'affari israeliano che se l'è sporcata «ammassando una fortuna con accordi corrotti per sfruttare le miniere nella Repubblica democratica del Congo», secondo le accuse del Dipartimento del Tesoro statunitense. È questo esperto di pubbliche relazioni, cresciuto nel partito laburista di cui è stato anche parlamentare, che i Peleg hanno assunto per gestire la pressione mediatica e giudiziaria, inevitabili dopo che nonno Shmuel ha incontrato Eitan in Italia e l'ha portato con un volo privato in Israele, contravvenendo al divieto di espatrio per il bambino deciso dal Tribunale di Pavia. La famiglia del lato materno (oltre a Shmuel, l'ex moglie Etty e i tre fratelli di Tal, la madre del bambino morta nell'incidente sul Mottarone) ripete che non si è trattato di un rapimento - come accusa la zia Aya Biran, sorella del padre, e a questo punto la Procura: «È tornato a casa, deve crescere ed essere educato qui». Il telegiornale locale ha parlato di un documento redatto dagli esperti legali del ministero della Giustizia e degli Esteri. Sosterrebbero che Israele debba fare di tutto per rimandare Eitan in Italia perché è stato portato via contro la volontà del tutore legale, la zia Aya. Fonti del governo smentiscono al quotidiano Jerusalem Post l'esistenza di questo parere e i diplomatici israeliani spiegano di «non considerare di propria competenza il caso». Che sta comunque diventando internazionale dopo le reazioni dell'Italia. Tzur ha la capacità di muoversi su diversi fronti - anche globali - e ha rappresentato Arnon Milchan, il produttore hollywoodiano e auto-rivelato trafficante d'armi segreto per lo Stato ebraico, coinvolto nelle inchieste contro Netanyahu per i regali (tra sigari cubani e casse di champagne rosé) all'ex primo ministro (Milchan non è sotto accusa al processo ripreso in questi giorni). La sua società Rosenbaum Communication - ha rivelato nel 2019 il giornale Yedoth Ahronoth - aveva ideato una strategia (mai messa in atto dalla squadra di avvocati difensori) per impedire l'estradizione di Malka Leifer, fuggita dall'Australia in Israele nel 2008 dopo essere stata accusata di violenza sessuale e abusi sulle allieve della scuola religiosa ultraortodossa di cui era preside. Il piano di Tzur prevedeva una campagna contro Ayelet Shaked, l'allora ministra della Giustizia, operazione definita nei memo interni «mandorla (shaked in ebraico) marcia» e i tentativi di screditare gli psichiatri che avevano dichiarato Leifer sana di mente, in grado di sostenere il processo a Melbourne. Gli israeliani hanno concesso l'estradizione della donna solo lo scorso gennaio dopo 13 anni.

Giuseppe Guastella per il "Corriere della Sera" il 14 settembre 2021. È caccia ai complici, a chi può aver aiutato Shmuel Peleg a fuggire dall'Italia portando con sé il nipotino di sei anni fino in Svizzera e lì imbarcarsi senza che nessuno lo ostacolasse su un aereo privato che qualche ora dopo è atterrato in Israele. Per farlo, il 58enne israeliano, da ieri indagato per sequestro di persona aggravato dalla minore età della vittima, ha eluso il divieto di espatrio che avrebbe dovuto impedire che il bambino lasciasse il suolo italiano nel pieno di una vicenda che assume sempre più i contorni di un intrigo internazionale. L'inchiesta della Procura di Pavia guidata da Mario Venditti ha già fatto importanti passi nella ricostruzione di come Peleg si è mosso sabato mattina e presto potrebbe dare luce a nuovi sviluppi. La Polizia sta seguendo le tracce lasciate dall'uomo da Travacò Siccomario fino a Lugano, a 151 chilometri di distanza dal paese in provincia di Pavia dove Eitan stava trascorrendo questo momento difficile della sua breve ma già drammatica esistenza. Non va dimenticato che tutti i protagonisti di questa storia sono vittime dirette o indirette della tragedia della funivia del Mottarone che il 23 maggio scorso è costata la vita di 14 persone che, dopo i lunghi divieti legati alla pandemia, volevano solo trascorrere in montagna la bella domenica di primavera. Nello schianto della cabina, dovuto alla rottura della fune traente e ai freni di emergenza criminalmente disattivati, sono morti i genitori, il fratellino di appena due anni e anche i bisnonni paterni di Eitan, l'unico miracolosamente rimasto solo ferito grazie al padre che gli ha fatto scudo con il proprio corpo. Il dramma ha spezzato in due ciò che è rimasto della famiglia di Eitan. Da una parte i parenti materni che vivono in Israele, dall'altra quelli paterni che, sommando strazio a strazio, si stanno consumando in una battaglia legale sull'affidamento del bambino. Anche se c'è chi intravede maliziosamente dietro la faida l'interesse per i cospicui risarcimenti che otterrà il piccolo e le generose donazioni che ha già ricevuto da tutto il mondo. Sospetti che tutti respingono sdegnosamente. In questo scenario va inquadrata l'azione di Shmuel Peleg che ha perso una figlia, il genero e un nipotino. L'uomo, militare dell'esercito israeliano in pensione e consulente di un'azienda di elettronica, si è presentato poco dopo le 11.30 alla porta dell'abitazione della zia paterna di Eitan, Aya Biran, dove il bimbo ha vissuto da quando è uscito dall'ospedale, per uno dei consueti incontri autorizzati dal giudice tutelare. È l'ultima volta che la zia ha visto Eitan. Peleg e il nipotino si sono allontanati a bordo dell'auto presa a noleggio da Peleg all'aeroporto di Malpensa al suo arrivo in Italia. Ai suoi legali, gli avvocati Sara Carsaniga, Paolo Polizzi e Palo Sevesi, ha detto che appena si è convinto che il bambino era in «cattive condizioni mentali e fisiche», ha deciso di sottrarlo a quel procedimento giudiziario sulla sua tutela che ritiene zeppo di irregolarità e portarlo in un ospedale di Tel Aviv. «Le azioni di prepotenza sono sempre sbagliate», affermano i suoi legali, secondo i quali il loro assistito ha agito «d'impulso» dopo «aver tentato invano per mesi di portare la voce della famiglia materna nel procedimento civile di nomina del tutore», ma sono convinti che possa ritornare «ad avere fiducia nelle istituzioni Italiane». In un paio d'ore, Peleg ha percorso l'autostrada varcando il confine con la Svizzera quasi certamente a Chiasso. Evidentemente senza alcun controllo, nonostante il Tribunale di Pavia avesse diramato in Svizzera e in tutta l'area Shengen un divieto di espatrio che riguardava il bambino. Nessun problema nemmeno all'aeroporto di Lugano dove nonno e nipote hanno preso il costoso volo decollato nel pomeriggio. Gli inquirenti sono convinti che una fuga del genere non possa essere pianificata ed organizzata all'ultimo momento da un nonno disperato e, sostiene Or Niko, marito di Aya, con l'aiuto della ex moglie Esther Choen, che al Mottarone ha perso i genitori ma che sarebbe tornata in Israele prima di sabato. I sospetti puntano anche a personaggi legati ai servizi segreti israeliani in rapporti diretti o indiretti con l'uomo. Per fare chiarezza, il procuratore Venditti e il sostituto Valentina De Stefano potrebbero avviare una rogatoria in Svizzera. 

Giuseppe Guastella per il "Corriere della Sera" il 16 settembre 2021. Come si è mosso Shmuel Peleg dal 24 maggio, quando si precipitò in Italia per lo strazio di riconoscere i corpi dei suoi familiari morti il giorno prima nella tragedia del Mottarone, fino a sabato scorso, quando ha rapito il nipotino di 6 anni per portarlo con sé in Israele? Accertarlo è l'obiettivo delle indagini della Procura di Pavia, assieme a quello di scoprire le complicità che potrebbero avergli consentito di arrivare indisturbato fino all'aereo privato decollato dalla pista dell'aeroporto di Lugano per Tel Aviv. I risultati degli accertamenti potrebbero presto dare una svolta decisiva all'inchiesta diretta dal procuratore facente funzioni Mario Venditti e dal sostituto Valentina De Stefano. Da quel tremendo giorno, Peleg, tenente colonnello in pensione dell'esercito israeliano, è stato sempre in Italia, tranne alcuni giorni intorno al 27 e 28 maggio quando è dovuto tornare in patria per i funerali della figlia Tal, del genero Amit Biran (genitori di Eitan), del nipotino Mosche Tom di appena due anni (l'altro figlio della coppia) e degli ex suoceri, tutti morti nello schianto della funivia costò la vita a 14 persone e nel quale Eitan si salvò grazie al padre che gli fece scudo con il proprio corpo. La polizia sta acquisendo la documentazione sulla presenza del 58enne in un albergo nei pressi della Stazione Centrale di Milano pare frequentato da personaggi legati ai servizi segreti e nel quale Shmuel Peleg ha soggiornato per circa un mese prima di trasferirsi in un bed&breakfast. Sono in corso le acquisizioni anche dei tabulati dei telefonini dell'uomo e della ex moglie Esther Athen Coen, 57 anni, che più volte è stata in Italia dopo la tragedia ed è indagata con Peleg per sequestro di persona aggravato.  È sospettata di aver partecipato all'organizzazione del rapimento, ma i pm stanno accertando se abbia viaggiato anche lei fino in Svizzera con Peleg e il nipotino da Travacò Siccomario (Pavia) dove, alle 11 e 30 di sabato mattina, il bambino è stato prelevato dal nonno per uno dei consueti incontri autorizzati dal giudice tutelare. Ci sono poi da esaminare le immagini delle telecamere di sorveglianza dei tratti autostradali fino al confine con la Svizzera e i dati dei passaggi ai caselli. Sono due, però, le questioni cruciali alle quali l'inchiesta vuole trovare una spiegazione definitiva. Shmuel Peleg aveva il passaporto israeliano di Eitan che non aveva riconsegnato alla zia Aya, tutrice del piccolo, nonostante l'invito che gli aveva fatto formalmente il giudice tutelare di Pavia Michela Fenucci. Con quel documento, prima questione, è riuscito a varcare senza problemi la dogana assieme al nipote, probabilmente quella di Chiasso, e ad imbarcarsi sul volo per Tel Aviv senza che nessuno lo bloccasse, come sarebbe dovuto avvenire (oltretutto il solo passaporto non basta a far espatriare un minore in mancanza di un documento che attesti che il maggiorenne che lo accompagna è espressamente autorizzato a portarlo con sé). Ma soprattutto, seconda questione, come ci è riuscito visto che era in vigore uno specifico divieto di espatrio per Eitan Biran diramato in tutti i Paesi del trattato di Schengen e in Svizzera dopo che la Procura aveva allertato Questura e Prefettura di Pavia temendo che Shmuel Peleg e l'ex moglie potessero tentare di trasferire il bambino in Israele, visto che nelle tumultuose udienze di fronte al giudice tutelare avevano espresso il desiderio che il nipote crescesse con loro in patria. Martedì scorso la Polizia israeliana ha ordinato a Peleg di non lasciare l'abitazione in attesa di chiarire la sua posizione. Intanto, in una nota all'ambasciata a Roma, il ministero degli Esteri scrive di contare «sulla collaborazione di Israele per una soluzione concordata della vicenda, nell'interesse superiore del minore». Immediata la risposta israeliana: «Agiremo in cooperazione con l'Italia».

Paolo Salom per il Corriere.it il 16 settembre 2021. Un passato criminale di tutto rispetto: il «curriculum» del secondo marito di Esther Cohen detta Etty, la nonna materna di Eitan Biran, aggiunge l’ennesimo colpo di scena a una vicenda che è apparsa assurda sin dal principio. Dunque, per riassumere: Shmuel Peleg, il nonno con una condanna per maltrattamenti familiari (da cui il divorzio dalla consorte e madre della sue figlie) rapisce il piccolo Eitan, il nipote scampato al disastro del Mottarone, per «sottrarlo» all’influenza a suo dire negativa della zia paterna. Ma chiarisce: non è un rapimento, lo abbiamo riportato a casa, dove potrà crescere finalmente sereno. Già, ma con chi? Shmuel nel frattempo è finito ai domiciliari, mentre la sua ex moglie, nonna Etty appunto, d’accordo con lui in ogni aspetto dell’operazione, è indagata in Italia per complicità nel sequestro ed espatrio clandestino di un minore (il nipote) reato grave, tanto che è stato articolato in una convenzione internazionale (dell’Aja) firmata nel 1991 anche da Israele. Come se non bastasse emerge ora - ma possibile che i protagonisti di questo tristissimo caso non l’avessero messo in conto? - che Chaim Kammerer, secondo marito di Etty, ha trascorso negli Stati Uniti, il suo Paese di nascita, oltre sedici anni in prigione per numerosi e ripetuti reati che vanno dallo spaccio di droga all’aggressione a mano armata. «Il suo vero nome non è Chaim — dicono fonti in Israele —. Lui si chiama in realtà Christopher». Un nome cambiato per (forse) annebbiare i trascorsi da pregiudicato e rifarsi una vita in Israele? In ogni caso, basta fare un giro sui social per trovare post molto esplicativi scritti da «Chaim» in persona. Come quello pubblicato l’11 aprile di un anno fa insieme a delle immagini di piante di marijuana, le sue: «La mia coltivazione… in genere dalle 5 alle 10 piante di sativa (una varietà di cannabis, ndr) alte fino a due metri. E io non fumo nemmeno la marijuana. In genere la smercio o la regalo. Quando è diventato legale coltivarla ho smesso, perché non mi divertivo più». Se poi si vanno a esaminare i trascorsi legali (in America sono pubblici e possono essere consultati online), si scopre che Christopher — criminale dai molteplici alias — tra il 1988 e il 1999 ha rimediato diverse condanne: per droga, traffico di esseri umani e «aggressione con arma letale non da fuoco», per un totale di 16 anni e 4 mesi. Immaginiamo pure che abbia cambiato strada, a un certo punto della sua vita. Di più: diamo per scontato che incontrando Esther Cohen abbia deciso di diventare un cittadino modello. Resta comunque da capire su che basi i due nonni di Eitan abbiano presentato la propria candidatura per l’affido di un nipote la cui unica speranza per riagguantare un briciolo di normalità è nell’assenza rigorosa di ulteriori traumi e situazioni familiari incerte. Cosa diranno i giudici israeliani, meglio una vita in una piccola città italiana con gli zii (incensurati e entrambi con un lavoro stabile) che lo hanno visto crescere, o con una famiglia lacerata, polemica, capace di gesti inconsulti e con trascorsi legali da dimenticare?

Eitan, il nonno e la fuga in auto. A Lugano fu fermato per un controllo. Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 18 settembre 2021. La procura lavora su possibili coperture e complicità. Alla guida della Golf un misterioso israeliano. Il controllo è stato fatto vicino all’aeroporto di Lugano, poco prima della partenza con il volo privato alla volta di Israele. Nessun ostacolo al confine con la Svizzera, tutto liscio all’aeroporto di Lugano, ora si scopre che Shmuel Peleg ha superato indenne perfino il controllo di una pattuglia della polizia elvetica che lo ha fermato mentre fuggiva su un’auto guidata da un misterioso autista israeliano e sulla quale c’era il nipotino che aveva rapito nel Pavese e nei cui confronti era stato diramato un’allerta internazionale per impedire che lasciasse l’Italia. Man mano che le indagini sul rapimento di Eitan Biran vanno avanti, si addensano sempre più i sospetti che Peleg abbia potuto contare su una rete di complicità per portare a termine il rapimento del nipotino di 6 anni, unico sopravvissuto della tragedia della funivia del Mottarone, per il quale la Procura di Pavia lo accusa di sequestro di persona aggravato insieme con la ex moglie, Esther Athen Coen, 57 anni.

Ufficiale dell’esercito. Tenente colonnello dell’esercito israeliano in pensione dopo 25 anni di servizio nei reparti delle telecomunicazioni, consulente di un’importante azienda elettronica nel suo Paese, 58 anni, Peleg preleva Eitan alle 11,30 di sabato scorso dall’abitazione di Travacò Siccomario (Pavia) in cui il piccolo vive con la famiglia della zia Aya, alla quale è stato affidato dal giudice tutelare dopo l’incidente in cui ha perso il padre, la madre Tal (figlia di Peleg), il fratellino di 2 anni e due bisnonni. Se le cose non prendessero poi una piega del tutto diversa, dovrebbe trattarsi di uno degli incontri periodici autorizzati dal giudice Michela Fenucci per garantire al bambino, che è stato investito da un trauma enorme, l’affetto di tutti i suoi parenti. Come il nonno materno che dal 23 maggio, giorno dell’incidente del Mottarone, ha trascorso lunghi periodi in Italia per stargli accanto anche nell’ospedale di Torino, dove per più di un mese è stato ricoverato le fratture che aveva riportato nello schianto della cabina della funivia. L’uomo è stato registrato per brevi permanenze, uno o due giorni, il 24 e il 30 maggio in due alberghi di Torino e il 3 luglio in un hotel nei pressi della stazione Termini di Roma. Non c’è alcuna registrazione, invece, per i lunghi periodi che ha trascorso a Milano, sembra in un albergo vicino alla stazione centrale di Milano che si dice sia frequentato da personaggi legati ai servizi segreti, e in un bed&breakfast.

La ricostruzione. Invece di riportare il bambino dalla zia entro le 18,30 come previsto, l’incontro di sabato si trasforma in un ritorno in patria. Gli investigatori, diretti dal procuratore facente funzioni Mario Venditti, stanno acquisendo i tabulati del cellulare di Shmuel Peleg, le immagini delle telecamere di sorveglianza e i dati dei passaggi autostradali per ricostruire i contatti dell’ex ufficiale prima del rapimento e i movimenti del veicolo nei 150 chilometri che separano Travacò Siccomario da Lugano. L’auto è una Volkswagen Golf blu noleggiata il giorno prima all’ufficio della Europcar dell’aeroporto di Malpensa. Peleg risulta entrato in Italia l’ultima volta il 2 settembre scorso, quando è stato identificato agli «Arrivi» di Malpensa. Se non è tornato in aeroporto il 10 ottobre, la Golf potrebbe essere stata affittata da un’altra persona che rischierebbe l’accusa di complicità nel sequestro. Già dalla metà di agosto la Procura di Pavia, su indicazione del giudice tutelare, aveva segnalato alla Polizia e alla Prefettura il rischio che Peleg, che contesta energicamente l’affidamento di Eitan alla zia Aya, potesse abbandonare l’Italia portandosi dietro il nipote.

L’allerta. Nonostante un preventivo allerta diramato in area Shengen e in Svizzera, intorno alle 13,30 la Golf varca senza alcuna difficoltà il confine italo-svizzero, forse alla dogana di Chiasso. Dopo una trentina di chilometri, viene fermata dalla Polizia svizzera nei pressi dell’aeroporto di Lugano-Agno per quello che sembra essere un normale controllo. Vengono identificati Peleg, Eitan e il conducente, G. A. A., 50 anni, un cittadino israeliano sul quale non risultano annotazioni nelle banche dati in uso alle forze dell’ordine italiane. Sono le 14,10, Peleg ha fretta. È in ritardo sull’orario d’imbarco del costoso volo privato per Tel Aviv fissato per le 13,45. Oltre al suo passaporto israeliano, esibisce quello del nipotino, lo stesso del quale la zia paterna aveva denunciato la scomparsa. Quando disse che il documento lo aveva lui, il giudice lo invitò a consegnarlo ad Aya Biran entro il 30 agosto. Non l’ha mai fatto. Nessuna verifica neppure ai controlli all’imbarco, dove Peleg si presenta con un minorenne senza avere un documento che gli consenta di portarlo con sé. Alle 18,25 il Cessna 680 atterra a Tel Aviv.

Davide Frattini per il “Corriere della Sera” il 18 settembre 2021. I palazzoni bianchi, eleganti e cementificati, possono sembrare un'Oasi del giardino - come si chiama questo quartiere - solo se paragonati all'asfalto dell'autostrada che passa dietro. È dall'appartamento in cui è relegato da martedì - e fino a domani - che Shmuel Peleg parla alla giornalista del Canale 12, intervista trasmessa in uno dei programmi più seguiti, l'approfondimento del venerdì sera. La polo azzurra, inquadrato nella casa a Petah Tikva che la polizia israeliana gli ha imposto di non lasciare, si commuove spesso. Resta convinto di aver agito bene («quando crescerà, Eitan mi dirà: nonno mi hai salvato») e rispettando le norme (in Italia è indagato per sequestro di persona aggravato): «Ho ricevuto un parere legale prima di agire, i passaporti sono stati controllati regolarmente». Racconta di aver affittato un aereo privato verso Israele «per essere il più veloce possibile» e per non esporre il piccolo «a persone estranee». Lo ha fatto - spiega - «dopo aver perso la fiducia nella giustizia italiana». Eitan è adesso con lui, una foto li ritrae insieme sul balcone: «È felice e si trova nel posto dove deve essere», i suoi genitori - Tal, la madre, è figlia di Shmuel - «avevano già fatto progetti per tornare qui. Adesso deve crescere con l'altra mia figlia Gal». La reporter Efrat Lachter gli fa notare che ad Aya, zia paterna, è stata data la tutela del bambino: «Io non ho mai rinunciato alla tutela, per me doveva essere un'opzione temporanea. Non mi sono occupato della procedura, peraltro tutta in italiano, non mi è stata spiegata bene. In quei giorni dovevo riportare in Israele i cadaveri di mia figlia e dei miei parenti». Piange: «La mia famiglia è a pezzi, la mia vita è cambiata. Ho perso cinque persone per colpa di gestori avidi e irresponsabili. Come possono insinuare che lo stia facendo per i soldi? Propongo che gli indennizzi vengano bloccati fino ai 18 anni di Eitan». Da questo emotivo faccia a faccia in prima serata partono le mosse mediatiche di Ronen Tzur, lo stratega assunto dai Peleg, che si è trovato a gestire casi ben più controversi, ha rappresentato anche Moshe Katsav, il capo dello Stato costretto a dimettersi nel 2007 dopo la condanna per violenza sessuale. Nelle ultime tre campagne elettorali è stato il consigliere di Benny Gantz, l'ex capo di Stato Maggiore e attuale ministro della Difesa. Tzur sa di dover conquistare prima di tutto il pubblico israeliano, di dover alzare la pressione interna per rintuzzare i possibili interventi del governo. Un diplomatico italiano ha incontrato ieri il piccolo nell'appartamento del nonno: «È apparso in buone condizioni di salute» spiegano all'Ansa fonti dell'ambasciata a Tel Aviv. In Israele dovrebbero arrivare domani Aya - «sediamoci a parlare come avremmo dovuto fare da subito» le si rivolge nell'intervista Shmuel - e il marito Or Nirko nei prossimi giorni. Ripetono di essere molto «preoccupati per la salute, anche mentale, di Eitan». L'avvocato Shmuel Moran ha spiegato di voler chiedere subito l'affidamento alla zia paterna. L'udienza al tribunale di Tel Aviv è prevista fra due settimane, Aya spera di ottenere il via libera a rientrare in Italia con Eitan sulla base della Convenzione dell'Aja e quello che prevede «per la sottrazione internazionale di minori».

Eitan Biran rapito, lo zio: «Gli stanno facendo il lavaggio del cervello». Davide Frattini su Il Corriere della Sera il 18 settembre 2021. Haggai, fratello della zia e tutrice legale del piccolo che ora si trova in Israele, ha incontrato il bambino questa mattina per un’ora a casa del nonno materno. «Lavaggio del cervello». «Incitamento». A questo punto per la famiglia Biran non è più questione di «condizioni di buona salute» che riconosce al piccolo Eitan. Haggai – fratello di Aya, la zia e tutrice legale, e del padre Amit, morto nell’incidente sul Mottarone – vive in Israele e ha incontrato il bambino questa mattina per un’ora a casa del nonno materno Shmuel Peleg, che sabato scorso lo ha prelevato dall’Italia e portato in Israele. Quello che viene presentato dai Peleg come un gesto distensivo – «sono potuti stare insieme, hanno giocato in privato, gli abbiamo anche offerto di chiamare Aya» – è stato visto dall’avvocato che assiste qui la zia come un’altra mossa «di una famiglia che diffonde comunicati sulla vita del bambino come se partecipasse a un reality show». Così la reazione: «A tratti Eitan ha pronunciato frasi fuori contesto, messaggi che gli sono stati impiantati. È in atto un lavaggio del cervello». La famiglia Biran è infuriata per l’intervista concessa dal nonno al Canale 12, come ha spiegato dall’Italia lo zio Or Nirko, marito di Aya: «Eitan non capisce che cosa stia succedendo, è convinto che il nonno lo abbia portato in Israele per una vacanza. Quando scoprirà la verità, ci saranno conseguenze psicologiche». Shmuel – che è agli arresti domiciliari fino a domani, dopo essere stato interrogato dalla polizia israeliana e in Italia è indagato per sequestro di persona – resta convinto di aver agito bene: «Un giorno Eitan mi dirà: nonno mi hai salvato».

Davide Frattini per il "Corriere della Sera" il 20 settembre 2021. Gli agenti della sicurezza l'hanno scortata fuori dall'aeroporto Ben Gurion perché il caso del piccolo Eitan sta diventando in Israele anche disputa politica e, a parole, anche violenta. Aya - dice il marito Or Nirko dall'Italia - «ha avuto bisogno della protezione per le minacce e gli insulti scritti contro di lei sui social media» da quelli convinti che un bambino ebreo debba crescere solo qui. Adesso la zia paterna- il fratello Amit è morto nell'incidente sul Mottarone - deve rispettare la quarantena di almeno una settimana prevista per chi arriva dall'estero. Potrà però essere presente alla prima udienza per discutere l'affidamento, un'eccezione concessa in situazioni speciali. Al suo fianco l'altro fratello Haggai. I legali della famiglia Biran sono riusciti ad anticipare l'udienza a giovedì, mentre prima era prevista per il 29. A questo incontro preliminare chiederanno che il bambino di sei anni venga subito riunito ad Aya - il tribunale italiano le ha dato la tutela legale - in attesa delle prossime sedute: chiedono il rientro in Italia sulla base della Convenzione dell'Aja e di quello che prevede per «il sequestro internazionale di minori», su questo punto si sono rivolti ad Avichai Mandelblit, il procuratore generale dello Stato, di fatto il consulente legale del governo e il rappresentante delle autorità israeliane in tribunale. «Chiediamo il rientro non per domani o dopodomani ma per oggi» dice l'avvocato Avi Chimi alla radio 103FM. «Da quando è nato ha vissuto là, è il suo luogo naturale». Spiegano che «Aya è molto preoccupata per la salute psicologica del bimbo, per quello che gli è stato fatto in questo periodo». Haggai ha potuto vederlo per un'ora sabato mattina e dopo la visita i legali hanno accusato la famiglia materna di «lavaggio del cervello e di inculcare messaggi nella sua testa». Per ora Eitan resta a casa del nonno materno Shmuel Peleg che dieci giorni fa lo ha prelevato e portato in Israele su un jet privato, per questo è indagato dalla Procura di Pavia (sequestro di persona) ed è stato interrogato dalla polizia israeliana. Dopo l'intervista al nonno trasmessa in prima serata venerdì scorso, continua l'offensiva decisa dagli strateghi della comunicazione assunti dai Peleg. Gal - sorella di Tal, anche lei morta sul Mottarone - è stata ascoltata dal quotidiano Israel Hayom , sostenitore della destra e dell'ex premier Benjamin Netanyahu. Annuncia di aver presentato la pratica per l'adozione di Eitan («io e mio marito non abbiamo ancora figli, con noi crescerà circondato dall'amore») e in qualche modo rivela che uno degli obiettivi - quando Shmuel lo ha portato qui - era trasferire le decisioni legali in Israele: «Vogliamo che il dibattito avvenga in una lingua che tutte e due le parti comprendono allo stesso modo». Sa di parlare agli stessi lettori-commentatori che in questi giorni stanno infiammando il dibattito digitale attorno alla vicenda. «Eitan è nato ebreo ed è importante per noi che resti ebreo. Ci accusano di averlo tolto dal suo ambiente naturale, ma non è vero: il fatto che mia sorella e suo marito Amit vivessero vicino ad Aya non significa che fossero legati. Le famiglie erano profondamente divise sulle questioni religiose. I Biran guardavano Tal dall'alto in basso per ragioni etniche tra ashkenaziti e sefarditi. Aya lo ha mandato a una scuola cattolica, siamo rimasti sconvolti». In realtà - spiegano amici dei Biran - Tal e Amit avevano già iscritto il bambino nell'istituto «perché lo consideravano il migliore da quelle parti». Che lo scontro stia diventando ideologico è chiaro a Fania Oz-Salzberger, figlia del romanziere Amos Oz: «Stiamo ricadendo nelle solite spaccature - scrive su Twitter -. La sinistra con i Biran, la destra con i Peleg, il diritto e il rispetto della legge con i Biran, il nazionalismo ebraico con i Peleg. Stiamo sprofondando nell'abisso sulle spalle di un orfano».

Davide Frattini per corriere.it il 21 settembre 2021.Racconta che in questi giorni Eitan ha «festeggiato tre compleanni, continua a chiedere regali». In Israele è iniziato il lungo periodo delle festività ebraiche, le tende di costruite sui balconi o a fianco dei marciapiedi, coperte con tessuti bianchi e foglie di palma. «Andiamo in giro tutto il giorno – dice la nonna Etty Peleg Cohen al Corriere – e ogni sera dorme con mia figlia Gali», la sorella della madre Tal che ha iniziato le procedure di adozione del bambino sopravvissuto all’incidente sul Mottarone. Sui dettagli di come sia arrivato in Israele – il nonno Shmuel Peleg lo ha portato qui su un jet privato decollato da Lugano – non vuole dire nulla, non risponde alla domanda sul terzo uomo individuato dalla polizia italiana che ha affittato e guidato l’auto verso la Svizzera. Anche lei è indagata dalla procura di Pavia per sequestro di persona, in ogni caso spiega di aver perso la fiducia nella giustizia italiana «quando le pratiche per la tutela legale sono state sbrigate nei giorni in cui stavamo rispettando la shiva, la settimana di lutto, prevista dalla tradizione ebraica. Stavo piangendo cinque familiari». Adesso lo scontro con Aya arriva davanti a un giudice israeliano, giovedì la prima udienza. La zia che vive in Italia, sorella del padre morto sul Mottarone, è atterrata domenica a Tel Aviv, i suoi legali chiederanno che il piccolo di sei anni venga subito riunito a lei in attesa della decisione definitiva sull’affidamento. La famiglia paterna Biran accusa i Peleg «di lavaggio del cervello», «di aver inculcato idee» nella testa di Eitan. La nonna materna replica: «Ripete di voler restare in Israele, nessuno lo ha convinto a dirlo. Aya gli ha chiesto in una telefonata se non gli mancassero le sue cugine, ha risposto di sì ma che può vederle qui». La nonna ha già avviato le pratiche per iscriverlo alla prima elementare a Tel Aviv, nel dissidio tra le famiglie c’è anche la decisione di mandarlo in un istituto cattolico per suore, scelta inaccettabile per i Peleg. Eppure amici d’infanzia di Tal e Amit hanno assicurato che sono stati i due genitori – prima della strage – a scegliere la scuola. «Non so rispondere. So che avevano pianificato tutto per tornare in Israele il 22 giugno dell’anno prossimo, dopo che Amit avesse finito il tirocinio in ospedale in Italia, volevano comprare un appartamento, io gli avevo già preso l’auto, è nel parcheggio qui sotto». Ritorna sulla questione delle liti con i consuoceri che avrebbero guardato Tal dall’alto in basso «perché loro sono ashkenaziti venuti dall’Europa e noi sefarditi, gli ebrei immigrati dai Paesi arabi». Eitan ha però ottenuto la cittadinanza italiana grazie a lei, gli antenati passati da Livorno prima di andare in Nord Africa. «Son contenta per me e la mia famiglia di avere un doppio passaporto, ma sono ebrea e israeliana, voglio che mio nipote cresca qui seguendo le tradizioni del suo popolo». 

Davide Frattini per il “Corriere della Sera” il 22 settembre 2021. Racconta che in questi giorni Eitan ha «festeggiato tre compleanni, continua a chiedere regali». In Israele prosegue il lungo periodo delle festività ebraiche, a Sukkot i balconi e i marciapiedi si ricoprono di tende, tessuti bianchi con foglie di palma. «Andiamo in giro tutto il giorno - dice la nonna Esther (Etty) Peleg Cohen - e ogni sera dorme con mia figlia Gali», la sorella della madre Tal che ha iniziato in Israele le procedure di adozione per il bambino sopravvissuto all'incidente sul Mottarone. Adesso lo scontro con Aya arriva davanti a un giudice israeliano, domani la prima udienza: «Devono toglierlo ai suoi rapitori e permettere che torni in Italia dove si deciderà dell'adozione», ha detto Or Nirko, marito di Aya. La sorella del padre morto la mattina del 23 maggio ha lasciato Travacò Siccomario (Pavia) ed è atterrata domenica a Tel Aviv, i suoi legali chiederanno che il piccolo di 6 anni venga subito riunito a lei in attesa del provvedimento definitivo. Sui dettagli di come sia stato portato in Israele l'11 settembre - Shmuel lo ha imbarcato con lui su un jet privato decollato da Lugano - Etty non dice nulla, non risponde alla domanda sul terzo uomo individuato dalla polizia italiana che ha affittato e guidato l'auto verso la Svizzera. Anche lei è indagata dai pm di Pavia per sequestro di persona. Shmuel, suo ex marito, ha dichiarato di aver perso la fiducia nella giustizia italiana.

«Le pratiche per la tutela legale ad Aya sono state sbrigate nei giorni in cui stavamo rispettando la shiva, la settimana di lutto. Stavo piangendo per 5 familiari perduti. Eppure hanno fatto tutto in fretta». La famiglia paterna Biran vi accusa «di lavaggio del cervello», «di aver inculcato idee» nella testa di Eitan. «Ripete di voler restare in Israele, nessuno lo ha convinto. Aya gli ha chiesto in una telefonata se non gli mancassero le sue cugine, ha risposto di sì ma che può vederle qui». Lei ha già presentato la richiesta per iscriverlo alla prima elementare a Tel Aviv e ha ritenuto inaccettabile la scelta di mandarlo in una scuola cattolica in Italia. Ma amici d'infanzia di Tal e Amit hanno assicurato che sono stati loro due, prima della strage, a scegliere quell'istituto. «Non so che rispondere. So che Tal e Amit avevano pianificato tutto per tornare in Israele il 22 giugno dell'anno prossimo, dopo che lui avesse finito il tirocinio in ospedale in Italia, volevano comprare un appartamento, io avevo già preso l'auto per loro, è nel parcheggio qui sotto». Ha parlato di liti con i consuoceri che avrebbero guardato Tal dall'alto in basso «perché sono ashkenaziti venuti dall'Europa e noi sefarditi, gli ebrei immigrati dai Paesi arabi». «Una volta la madre ha tentato di imporre ad Amit la scelta tra mia figlia e loro, la famiglia di origine. Non ci è riuscita ovviamente, si amavano troppo. E so per certo che mia suocera si riferiva a noi con parole denigratorie». Eitan ha ottenuto la cittadinanza italiana grazie a lei, gli antenati passati da Livorno. Perché è così contraria all'idea che viva in Italia? «Sono contenta per me e la mia famiglia di possedere un doppio passaporto, ma sono ebrea e israeliana, voglio che mio nipote cresca qui seguendo le tradizioni del suo popolo».

Davide Frattini per il "Corriere della Sera" il 24 settembre 2021. Shmuel, Etty, Gali. I Peleg arrivano per primi ed entrano insieme nell'aula. Aya Biran è accompagnata dall'avvocato - il marito Or è ancora in Italia - e dice solo poche parole: «Sono preoccupata per Eitan, voglio che ritorni a casa il più presto possibile». È per questa definizione di «casa» che le famiglie si sono presentate ieri mattina davanti alla giudice Iris Ilotovich Segal, che ricopre la carica nella corte di Tel Aviv per la famiglia dal 2017. Dopo due ore e mezza le porte si riaprono con quello che i legali di tutte e due le parti definiscono un compromesso per il bene del bambino sopravvissuto all'incidente sul Mottarone: «Passerà metà della settimana con Aya (oggi sarà con lei, ndr ) e l'altra metà con i Peleg», non specificano dove, di sicuro non in una struttura protetta. Fino all'8 di ottobre quando è prevista l'udienza - già estesa ai due giorni successivi - sull'istanza presentata dalla zia materna (e nominata tutrice legale dal tribunale italiano) che chiede il rientro del piccolo a Travacò Siccomario (Pavia) sulla base della convenzione dell'Aia e di quello che prevede per il sequestro internazionale di minori. È su questo punto - spiega Yuval Sasson al quotidiano Haaretz da ex capo dell'ufficio questioni internazionali per il procuratore dello Stato - che ruotano tutti gli elementi legali. «L'affidamento è complicato. I genitori erano israeliani, Eitan è vissuto in Italia da quando aveva un mese. Ma l'8 ottobre il tribunale dovrà affrontare e poi decidere dove debba essere discussa la custodia. Se c'è stata un'azione come un rapimento, di solito l'approccio è che il bambino venga rimandato nel Paese da dove è stato portato via e lì venga definito a chi affidarlo. In generale Israele vuole rispettare la sovranità dell'Italia e del suo sistema legale perché si aspetta lo stesso trattamento». Aya e Shmuel - indagato dalla Procura di Pavia per sequestro di persona e che è stato interrogato dalla polizia israeliana - sono stati i due parenti ammessi all'udienza a porte chiuse. Non hanno dovuto rispondere a domande della giudice - laureata all'università Bar-Ilan, è stata anche docente - che si è basata sugli interventi e i documenti presentati dai legali. Gli avvocati chiedono ai media di rispettare in queste due settimane la privacy delle famiglie, che si impegnano «al silenzio stampa» dopo un periodo di presenza costante sui media internazionali. Lo stratega della comunicazione assunto dai Peleg è andato all'offensiva da quando il nonno lo ha portato a Tel Aviv sabato 11 settembre con un volo privato via Lugano: interviste nei programmi televisivi più seguiti a lui, alla nonna Etty e a Gali, sorella di Tal, la madre di Eitan morta sul Mottarone. È Gali - uscita dall'udienza tremando e con lo sguardo fisso a terra - ad aver iniziato la pratica di adozione in Israele. Assieme ai genitori (divorziati) ha ripetuto che «Eitan non è stato rapito, è ritornato a casa, deve crescere in questo Paese». I Peleg si sono opposti alla decisione di iscriverlo a una scuola cattolica, la scelta era però già stata fatta dal padre e dalla madre prima della strage sulla funivia. Fino ad ora i Biran avevano potuto vedere il bambino di 6 anni, che è cittadino italiano, solo una volta una settimana fa. Haggai - fratello di Aya e Amit, morto nell'incidente - lo aveva incontrato a casa di Shmuel. Aveva riconosciuto che fosse «in buone condizioni di salute» ma i legali avevano espresso la sua preoccupazione che fosse in atto «un lavaggio del cervello» con idee «inculcate nella testa del piccolo».

“Chi ha rapito Eitan non merita compassione”. Il quotidiano israeliano Haaretz si schiera con gli italiani. Luisa Perri mercoledì 22 Settembre 2021 su Il Secolo d'Italia. I presunti sequestratori di Eitan Biran “non meritano la nostra compassione”. Così s’intitola un commento pubblicato dal sito di Haaretz che attacca le interviste televisive “piene di empatia” fatte questo week end ai Peleg, i nonni materni del bambino, “persone che non meritano una briciola di comprensione”. L’articolo si scaglia contro le domande “ridicole” o “irrilevanti” poste ai due nonni. Sia l’emittente Channel 12 che Channel 13 hanno chiesto se i Peleg non temevano che un giorno il bambino avrebbe scoperto, digitando su Google, i dettagli della battaglia sulla sua custodia. “Ma la domanda – scrive Haaretz– doveva essere un’altra. Dove avete trovato il fegato di sconvolgere la fragile vita di questo bambino che sua zia e la sua famiglia erano riusciti a ricreare, dopo un tale trauma?”. Pubblicato in ebraico e in inglese, il giornale di Tel Aviv è un importante riferimento per politici e intellettuali ed è considerato il quotidiano più autorevole in Israele. “I Peleg, che appaiono totalmente laici, sono veramente preoccupati che Eitan si allontani dal giudaismo o da Israele, o stanno usando questa contorta scusa per volgere a loro favore l’opinione pubblica e, ancora più importante, quella dei giudici?”, si chiede Haaretz. L’avvocato Zion Amir ha usato il cliché del giudizio di Salomone.  Ma questo non è un giudizio di Salomone. È un terribile abuso di un bambino sfortunato”. Sulla questione è intervenuto anche il sindaco di Pavia Mario Fabrizio Fracassi che all’Adnkronos dice: «È importante che il bimbo torni a casa: qui sta bene, ha ritrovato serenità e quando crescerà potrà decidere se rimanere qui o andare in Israele». Contro la zia paterna Aya, tutrice di Eitan, dice il sindaco Fracassi ci sono «accuse infamanti, menzogne e menzogne. I genitori del piccolo hanno scelto la scuola paritaria cattolica – una delle migliori in città – qui il bambino vive e ha i suoi amici. Non è vero che non gli facevano vedere i nonni materni, Aya è una donna forte e ha preso in carico il bambino immediatamente. Eitan riceverà un risarcimento importante, una volta accertare le responsabilità di quella tragedia, ma nulla potrà mai ripagare quelle perdite».

Eitan: l'ex moglie e il mago sul web, i sospetti sui complici del nonno sequestratore. Paolo Berizzi, Sharon Nizza su La Repubblica il 14 settembre 2021. Il bambino scampato alla tragedia del Mottarone ha visto spesso nei mesi scorsi i genitori della madre arrivati da Israele. Ma secondo la zia paterna tornava a casa scosso da quegli incontri. E dai colloqui con un fantomatico "uomo che cambia i baffi". Chissà se tra gli eventuali, possibili complici del nonno salterà fuori che c'era anche "l'uomo che cambia i baffi", così si era presentato a Eitan. Non proprio un "mago", o forse sì. Perché agli occhi e nel mondo svuotato di un bambino di 6 anni proveniente dalla morte, chiamato a riconnettersi con la vita senza più genitori, senza il fratellino, e con due famiglie lontane, nonni e zii che lo tirano per la giacchetta, qualsiasi cosa può sembrare magica: anche uno sconosciuto che spunta dallo schermo di un tablet per tempestarlo di domande.

Estratto dell'articolo di Paolo Berizzi,Sharon Nizza per "repubblica.it" il 14 settembre 2021. Chissà se tra gli eventuali, possibili complici del nonno salterà fuori che c'era anche "l'uomo che cambia i baffi", così si era presentato a Eitan. Non proprio un "mago", o forse sì. Perché agli occhi e nel mondo svuotato di un bambino di 6 anni proveniente dalla morte, chiamato a riconnettersi con la vita senza più genitori, senza il fratellino, e con due famiglie lontane, nonni e zii che lo tirano per la giacchetta, qualsiasi cosa può sembrare magica: anche uno sconosciuto che spunta dallo schermo di un tablet per tempestarlo di domande.

Il cosiddetto mago dei baffi. Era metà luglio o giù di lì. Lui, Eitan, seduto in macchina. Il "mago dei baffi", da remoto. Dopo uno dei tanti incontri coi nonni materni prescritti dal tribunale per "garantire rapporti significativi con tutti i familiari" il bambino conteso rientra nella villetta di Rotta di Travacò e scoppia in lacrime davanti a zia Aya e al marito Or Nirko. "Ci raccontò che l'incontro in web cam con quel signore era stato pesante", dice il marito di Aya (nominata tutrice legale del bambino dopo la tragedia del Mottarone). "Eitan non sapeva chi fosse quella persona che si era qualificata in quel modo fantasioso. Il colloquio era durato due ore: WhatsApp o Zoom, non ricordo. Il bambino era sull'auto della nonna materna".

Il ruolo della nonna materna. La signora Esther Cohen, detta Etti. L'ex moglie di Shmuel Peleg, ovvero il nonno accusato di sequestro di persona aggravato perché sabato scorso prende il nipotino a Pavia e lo porta in Israele con un jet privato decollato da Lugano. Se al piano abbia preso parte - per ora sono voci ancora senza riscontro - anche nonna Etti lo stanno verificando gli agenti della Squadra mobile di Pavia coordinati dal procuratore Mario Venditti e dal sostituto Valentina De Stefano. Ma torniamo al colloquio col "mago". Di quella e di altre "chiacchierate", diciamo, non graditissime a Eitan, zia Aya e Or Nirko avevano informato la giudice tutelare di Pavia: la stessa giudice che l'11 agosto, annusando l'aria, aveva emanato un decreto in cui vietava l'espatrio a Eitan salvo che in presenza o con l'autorizzazione della sua tutrice. (…)

Strage Mottarone, Eitan portato in Israele dal nonno materno. La zia affidataria: "È stato rapito". Aperta inchiesta per sequestro di persona. di Federica Cravero, Sharon Nizza su La Repubblica l'11 settembre 2021. Eitan Biran, il bambino di 6 anni unico superstite della tragedia della funivia del Mottarone, da ieri sera si trova in Israele. Aya Biran, la zia paterna e tutrice temporanea del bambino, ha presentato denuncia alla polizia sostenendo che il bimbo è stato rapito dal nonno materno, Shmuel Peleg.  E la procura della Repubblica, poche ore dopo, ha aperto un fascicolo per sequestro di persona. Eitan aveva lasciato alle 11.30 la casa di Aya in provincia di Pavia, dove vive da quando è stato dimesso dall'ospedale, per quella che avrebbe dovuto essere una consueta giornata da trascorrere insieme al nonno. Sarebbero dovuti rientrare alle 18.30, ma non si sono presentati. "Eitan è tornato a casa": è l'sms che Aya ha ricevuto in serata, dopo ripetute chiamate a vuoto, mentre già era diretta alla stazione di polizia. Non la solita casa, ha capito poco dopo, quando un legale della famiglia Peleg le ha confermato che Eitan è in Israele. Amici della famiglia Biran confermano che i nonni materni erano in possesso del passaporto del piccolo, nonostante il giudice avesse ordinato loro di restituirlo alla famiglia affidataria. Tra le due famiglie su cui si è abbattuta la tragedia del 23 maggio scorso - in cui hanno perso la vita 15 passeggeri della funivia del Mottarone, tra cui i genitori, il fratellino e i nonni materni di Eitan - è in corso una battaglia legale per aggiudicarsi la tutela dell'unico superstite. La famiglia di Tal, la mamma di Eitan, chiede che il bambino viva in Israele, mentre attualmente è stato affidato dal giudice alla zia paterna, che da anni è residente a Pavia. Ad agosto, in una conferenza stampa, Gali Peleg, zia materna di Eitan, aveva lanciato accuse pesantissime: "Eitan è tenuto in ostaggio in Italia". Secondo i Peleg, la giovane famiglia stava programmando di tornare a vivere in Israele una volta che Amit, il padre del bambino, avesse completato gli studi di medicina, e su questa base hanno avviato una procedura per ottenere l'adozione. "Siamo sconvolti. Questo è un atto gravissimo su cui indagherà la magistratura", dice a Repubblica l'avvocato Armando Simbari, che assiste Eitan nel processo penale per la strage del Mottarone. "Già ad agosto c'era stata una forte presa di posizione contro lo Stato italiano e contro la zia paterna di Eitan, alla quale avevamo risposto con un messaggio di grande apertura a tutta la famiglia per il benessere del bambino. Quindi a maggior ragione siamo sconvolti per quello che è accaduto". Il bambino in Italia sta seguendo cure mediche e psicologiche "ed è stato letteralmente strappato con un rapimento internazionale alla famiglia che era stata individuata dal giudice tutelare come quella più adatta per farlo crescere, perché era quella che frequentava quotidianamente da sempre - aggiunge Simbari - . Siamo molto preoccupati per il trauma che questo atto rischia di arrecargli". Proprio a seguito dell'episodio di agosto, il giudice tutelare aveva allertato le autorità doganali e aeroportuali, temendo proprio lo scenario che si è concretizzato ieri. Allerte che sembra non abbiano avuto riscontro materiale, perché fonti del ministero degli Esteri israeliano confermano che Eitan è atterrato via aerea in Israele nel tardo pomeriggio di ieri. Il nonno materno, che ha alle spalle una lunga carriera nella compagnia di bandiera israeliana Elal, non risulta raggiungibile, così come al momento tutta la famiglia del piccolo in Israele.

Paolo Berizzi per repubblica.it il 14 settembre 2021. Shmuel Peleg è stato interrogato a lungo dalla polizia israeliana sulle accuse di "aver rapito e portato in Israele il nipote" e dopo è stato messo agli arresti domiciliari fino a venerdì. Gli è stato anche trattenuto il passaporto. Non avrebbe agito da solo ma con una rete di persone che, a vario titolo, ognuna per interessi diversi - affettivi e forse anche economici - lo hanno aiutato a organizzare e a condurre a termine il suo folle piano: portare Eitan Biran in Israele con quella che i suoi legali chiamano "un'azione di impulso", ma che, secondo la Procura di Pavia, è stata un sequestro di persona in piena regola, aggravato dall'età della vittima. E al sequestro avrebbe partecipato, in qualche modo, secondo gli inquirenti, anche Ester "Etty" Peleg, la nonna materna del piccolo Eitan. La donna questa mattina è stata iscritta nel registro degli indagati dove già compariva il nome del suo ex marito, il 58enne Peleg, ingegnere esperto di telecomunicazioni: i due nonni materni, genitori della madre del piccolo Eitan e del fratellino morto anche lui come i genitori nella strage del Mottarone, sono nel mirino della magistratura (l'inchiesta è condotta dal procuratore Mario Venditti e dal sostituto Valentina De Stefano), ma anche della famiglia paterna di Eitan: la zia Aya Biran, nominata dal tribunale tutrice legale del bambino, e suo marito Or Nirko. Quest'ultimo, in un'intervista all'emittente N12, ha usato parole molto dure nei confronti dei nonni materni: "La famiglia Peleg tiene Eitan come vengono detenuti i soldati israeliani nelle prigioni di Hamas". Aya Biran - riferisce l'emittente israeliana Canale 13 - ha presentato al Tribunale per le questioni familiari di Tel Aviv la richiesta di far rientrare il piccolo in Italia sulla base della Convenzione dell'Aja. E in serata l'ambasciata israeliana ha fatto sapere: "Ci occupiamo del caso Eitan in collaborazione con l'Italia". Il bambino "sta bene", sono le poche parole che vengono riferite da fonti legali vicine alla famiglia materna. Ormai tra le due famiglie è scontro aperto: botta e riposta continui sui media - soprattutto israeliani - , i due pool di avvocati al lavoro tra procure, tribunali e ambasciate. Il braccio di ferro per l'affidamento di Eitan, di fatto, va avanti da giugno. Ma la svolta del presunto sequestro di sabato scorso ha fatto precipitare la situazione e adesso volano gli stracci, tra accuse pesantissime e atroci sospetti. Ma al di là delle versioni fornite dalle due famiglie su Eitan e sulle sue condizioni di salute, completamente opposte, i fatti, al momento, dicono che ci sono due persone indagate per sequestro di persona: e sono i nonni materni del bambino. Nel fascicolo potrebbero finire altri nomi? Non è da escludere. Gli investigatori della squadra mobile lavorano sui giorni che hanno preceduto il decollo da Lugano del jet privato noleggiato per 9 mila euro da Shmuel Peleg e che ha portato nonno e nipotino a Tel Aviv. Il nonno aveva con sé il passaporto israeliano del bambino, ma quel passaporto - lo aveva ordinato il giudice tutelare di Pavia - Peleg avrebbe dovuto restituirlo alla zia tutrice, Aya, entro il 30 agosto: cosa che non è successa. Di più: sempre per ordine del tribunale di Pavia Eitan non poteva espatriare, se non con la tutrice o almeno con la sua autorizzazione.

Mottarone, Eitan portato in Israele: il ruolo della nonna materna. Ma torniamo alla nonna Etty. Già nei giorni scorsi gli agenti della Squadra mobile di Pavia avevano iniziato le verifiche per capire un eventuale coinvolgimento della donna nel rapimento: la nonna, secondo le prime indagini, sarebbe stata in Italia assieme all'ex marito almeno nei giorni precedenti. Il ruolo della donna, dunque, nell'inchiesta della Procura di Pavia per sequestro di persona (aggravato dal fatto che la vittima è un minorenne), è da verificare. Potrebbe infatti aver aiutato l'ex marito a portare il piccolo in Israele, dove è arrivato su un volo privato partito da Lugano. Ieri era stato lo stesso zio paterno di Eitan, sempre lui, Or Nirko, ad accusare la nonna materna di complicità nel sequestro. Anche se, in base ad indiscrezioni raccolte, era stato riferito che la donna sarebbe rientrata in Israele prima del giorno del presunto rapimento. La stessa zia Aya aveva raccontato comunque che il nonno, quando è arrivato a prendere Eitan per la visita che gli era stata concessa, ha parcheggiato lontano dall'abitazione e, dunque, non è chiaro se nell'auto ci fossero altre persone ad attenderlo. L'indagine sui presunti complici va avanti. 

Eitan, la nonna in Israele: "Non è stato rapito, era in pessime condizioni". "Non c'è stato alcun rapimento, il bambino voleva tornare in Israele già da tempo". A ribadire la versione dei fatti della famiglia in Israele era stata proprio la nonna, ieri, parlando a Radio 103. "Le sue condizioni sono pessime e finalmente - la sua versione, confermando che il bambino è in cura all'ospedale Sheba Medical Center di Tel Aviv - dopo 4 mesi i medici vedranno cosa è successo al piccolo. Per 4 mesi non ha visto alcun medico a parte sua zia in Italia che è un medico che si occupa dei detenuti. Per 4 mesi hanno impedito a me e a mio marito Shmuel di consultarci con medici e psicologi"." Adesso - aveva proseguito - è sottoposto a consultazioni mediche molto approfondite allo Sheba, inclusa una cura psicologica che doveva essere fatta da tempo e non è stata fatta". "Eitan è il nostro mondo e noi vogliamo essere sicuri che stia bene. E' l'unica cosa che ci interessa". La donna aveva infine detto che Eitan " non aveva legami con la famiglia di Aya". "Ora - ha concluso - sono io a curarmi di lui". Una versione che dall'Italia viene smentita decisamente. "Il fratello di Aya è andato all'ospedale di Sheba e non ha trovato Eitan", denuncia sempre nell'intervista a N12 Or Nirko, zio di Eitan e marito di Aya Biran, affidataria in Italia di Eitan. Lo zio di Eitan ha citato la Convenzione dell'Aja e ribadito l'accusa di "rapimento" di un bambino che "ha passato tutta la vita in Italia", che "non ha mai vissuto in Israele", dove "non ha amici". "Le autorità di Israele devono sapere che Eitan è stato rapito - ha incalzato - E' prigioniero. La famiglia Peleg si rifiuta di dire dove si trovi". Di qui la pesante accusa: "Come i soldati prigionieri di Hamas, così nascondono Eitan in qualche buco". E ancora: secondo Or Nirko, "questa famiglia" fa "esclusivamente il proprio interesse".

Eitan, gli avvocati del nonno: "Chiediamo a lui con chi vuole stare". "Andrebbe chiesto a Eitan con chi vuole stare, attraverso il suo ascolto e la verifica delle sue reali condizioni attraverso una consulenza tecnica, quindi in contraddittorio". Lo afferma all'AGI l'avvocato Sara Carsaniga, che fa parte del pool di legali che assiste il nonno del bimbo. Il legale ricorda che questa consulenza in precedenza era stata rigettata: "Il contraddittorio in Tribunale è stato sempre a favore di una parte sola".

Da repubblica.it il 16 settembre 2021. Il tema, delicatissimo, dovrebbe essere solo sfiorato. Derubricato alla voce "motivi non solo affettivi". Dopodiché ad aprire - o riaprire, come vedremo - uno squarcio su quello che secondo molti sarebbe qualcosa di più di un retropensiero, ci ha pensato lo zio di Eitan: Or Nirko, marito della zia affidataria Aya Biran. "Non sappiamo per certo se dietro al sequestro ci siano interessi economici - ha detto - . Io presumo che loro (la famiglia Peleg, ndr) non abbiano ancora fatto l'atto per l'eredità del bisnonno, una persona molto ricca, anche lui vittima della tragedia del Mottarone. Può essere che l'erede principale fosse la mamma di Eitan e, di conseguenza, anche Eitan fosse il prossimo in linea di successione di un grande patrimonio". La conclusione del ragionamento è che "sì", il blitz con cui sabato scorso il nonno materno Shmuel Peleg ha prelevato Eitan a Pavia per portarlo in Israele a bordo di un jet privato potrebbe avere avuto un movente legato anche ai soldi. "È una possibilità", afferma Or Nirko. Un attacco nemmeno troppo velato alla famiglia materna di Eitan. Quei Peleg che, da parte loro, già un mese fa avevano fatto la stessa cosa, dando inizio alle schermaglie sui "soldi". Il 19 agosto Esther "Etty" Cohen, la nonna indagata insieme all'ex marito per sequestro di persona aggravato, in un'intervista a Israel Hayom rispose così quando le chiesero se avesse un'idea del motivo per cui la famiglia Biran insistesse ad avere la tutela del piccolo Eitan: "La storia di Eitan ha toccato il cuore di tante organizzazioni e associazioni benefiche in Italia, tra cui la comunità ebraica e persino il Giro d'Italia. Finora sono stati raccolti centinaia di migliaia di euro, senza contare i risarcimenti delle compagnie assicurative. Quindi forse il denaro ha un ruolo qui". Nessun giro di parole. In sostanza, la donna accusò la zia Aya Biran e il marito di volersi tenere Eitan per ragioni economiche. "A me non interessa nemmeno un centesimo - disse - . Per quanto mi riguarda, che tutti i soldi siano pure custoditi per Eitan dalla famiglia Biran. A noi sta a cuore solo il suo bene". Frecciate che si incrociano, insomma. Anche perché al "benessere del bambino", e soltanto a quello, dicono di pensare anche i Biran che vivono a Pavia. Sta di fatto che, dopo il colpo di mano di sabato scorso, si torna a parlare di soldi. Ma a quale e a quanto denaro si riferiscono i parenti del bambino sopravvissuto al disastro della funivia nel quale, il 23 maggio, hanno perso la vita il padre Amit Biran, la madre Tal Peleg, il fratellino Tom e i bisnonni Itshak e Barbara Cohen? Lo zio Or Nirko parla solo della cospicua eredità del bisnonno. Tuttavia, si sa, e la nonna Esther Cohen lo ha ricordato, nella drammatica vicenda della tragedia di Stresa - 14 morti e un solo superstite, Eitan - , c'è e ci sarà anche un aspetto pecuniario legato a un altro fronte: i risarcimenti. Quando la giustizia avrà stabilito le responsabilità della strage del Mottarone - ma in teoria anche prima - i parenti delle vittime dovranno essere indennizzati. Da chi? Sulla carta, dall'assicurazione di Funivie del Mottarone srl, la società del gestore Luigi Nerini. Alcuni dettagli. Proprietaria della funivia è ancora Regione Piemonte (non era stato ancora perfezionato il passaggio al Comune di Stresa). Ma l'atto di concessione a Nerini è arrivato dal Comune dopo bando di gara. Nel contratto è riportata anche la polizza assicurativa. La data dell'atto è il 28 ottobre 2016. "Ho chiesto di poter accedere ai documenti - dice il consigliere comunale ed ex sindaco di Stresa, Canio Di Milia - . Mi hanno detto che non sono disponibili in quanto sequestrati". La conferma arriva dalla sindaca, Marcella Severino: "La procura ha sequestrato tutto". In Comune e anche in Regione sono già arrivate lettere con richieste di risarcimento dai legali di alcune famiglie (quattro; non ci sarebbero né l'una né l'altra famiglia di Eitan). "Ma il Comune è e sarà parte lesa", spiega la sindaca. A quanto potrebbero ammontare, indicativamente, gli indennizzi? Difficile fare stime. La cifra varia in base a una serie di fattori: compresa l'età della vittima. Nel caso dei familiari di Eitan, qualcuno ipotizza che il risarcimento complessivo potrebbe aggirarsi intorno a qualche milione di euro.

Paolo Berizzi per "la Repubblica" il 17 settembre 2021. Una Volkswagen Polo "affrancata" dal controllo satellitare e un jet Cessna 680 Citation Sovereign. Sono i due mezzi - entrambi a noleggio - con cui Shmuel Peleg ha prelevato il nipotino Eitan trasportandolo dalla casa di Rotta di Travacò, in provincia Pavia, a Tel Aviv. Due come i "jolly" - chiamiamoli così - che hanno permesso al nonno sequestratore di mettere a segno il suo blitz internazionale. Il primo: un decisivo cambio di auto. Il secondo: un presunto "buco" nel database europeo (SIS) dove vengono inseriti i dati delle persone segnalate dalle autorità di polizia e alle quali i doganieri - in questo caso dell'aeroporto di Lugano - possono impedire di lasciare un paese Schengen (la Svizzera). Andiamo con ordine. Le indagini condotte dalla Squadra mobile di Pavia e dallo Sco - coordinati dal procuratore Mario Venditti e dal sostituto Valentina De Stefano - stanno facendo luce su quelli che gli investigatori ritengono essere stati i passaggi cruciali del piano di Peleg. Da una parte le "sponde", e dunque gli eventuali complici che quasi certamente ci sono stati (l'altra indagata per sequestro di persona è l'ex moglie di Peleg, Esther Cohen); dall'altra, le "falle". Un combinato disposto che ha spianato la strada al nonno di Eitan. Prima via terra, poi nei cieli.

Ricostruiamo. Si sa ora che l'uomo era tenuto d'occhio dalla polizia da molto prima dello scorso 11 settembre, giorno in cui si concretizza quello che per la Procura è un rapimento aggravato. Nel suo primo periodo italiano - dopo la strage del Mottarone - Peleg noleggia un’auto. Noleggio a lungo termine. La usa per spostarsi tra Milano, dove alloggia, Torino, dove Eitan è ricoverato fino al 10 giugno all'ospedale Regina Margherita, e Rotta di Travacò, dove andrà a far visita al nipotino a casa della zia Aya Biran. Sull'auto a noleggio di Peleg la polizia ha installato un Gps. Serve a tenere l'uomo, cautelativamente, sotto controllo.

Il motivo: le continue tensioni tra le due famiglie di Eitan: gli "italiani" Biran, e i Peleg israeliani. Al centro, ovviamente, la contesa per la tutela del bambino. Una situazione borderline dietro la quale il giudice tutelare di Pavia, Michela Fenucci, aveva intravisto il rischio di un colpo di mano (che poi c'è stato). Dopo l'ennesimo scambio di accuse, il 6 agosto, la procura decide di monitorare ancor più fa vicino Shmuel Peleg: oltre al Gps sull'auto, passaggi di pattuglie. Succede però che verso fine agosto Peleg rientra qualche giorno in Israele. Prima di imbarcarsi all'aeroporto di Malpensa consegna l'auto a noleggio. Addio Gps. L'ex militare specializzato in telecomunicazioni rientra poi in Italia. E noleggia un'altra auto: una VW Polo. Non si sa come né perché, il "pedinamento" finisce qui. Una beffa? Più o meno. Gli itinerari lombardi del nonno materno - che non alloggia più nell'hotel in zona stazione Centrale a Milano -, non sono più tracciabili. È a bordo della Polo che sabato 11 settembre Peleg passa a prendere Eitan a Pavia. Ha in mano illecitamente il passaporto israeliano del bambino che avrebbe dovuto consegnare entro il 30 agosto. Alla dogana di Ponte Chiasso passano lisci: primo ostacolo superato. A Lugano, ad attenderli, l'aereo privato. C'è anche una donna con loro? Non è ancora escluso (e non può essere la nonna materna, rientrata il giorno prima in Israele). Ma il punto cruciale sono i controlli. «Per i minori è previsto il controllo minimo: il solo passaporto», spiegano dall'Amministrazione federale delle dogane. Già. Ma il nome di Eitan Biran doveva essere inserito nel SIS. Il bambino non poteva espatriare: ordine del giudice. Perché ha potuto salire sull'aereo?

Eitan, l’unico sopravvissuto del Mottarone “rapito dal nonno e portato in Israele”. Il giudice l’aveva affidato alla zia a Pavia. Il Fatto Quotidiano il 12/9/2021. Il bambino, 6 anni, non è stato riportato alla famiglia a cui era stato affidato dal tribunale dei minori di Torino dopo uno degli incontri periodici con i familiari della mamma, morta nel disastro della funivia come il resto della famiglia.

Il piccolo Eitan, il bambino israeliano di 6 anni unico sopravvissuto della tragedia del Mottarone, sarebbe stato “rapito” dal nonno materno e portato in Israele. Il bimbo, da mesi conteso tra la famiglia materna e la zia paterna che vive a Pavia ed ha la sua tutela dopo la morte dei genitori, “oggi non è stato riportato all’orario stabilito dopo un incontro con i famigliari della mamma”, spiegano i legali della sorella del papà, Aya Biran Nirko. “Siamo sconvolti e increduli che siano arrivati a tanto”, ha detto all’agenzia Ansa l’avvocato Armando Sibari che, con Cristina Pagni e Massimo Saba, assiste la signora Biran, mentre il capo della comunità ebraica di Milano, Milo Hasbani, “conferma” che il piccolo “è arrivato in Israele”. Eitan – secondo la ricostruzione della tv israeliana Kan – avrebbe lasciato la casa a Pavia con il nonno questa mattina. La zia, non vedendolo rientrare, ha ripetutamente tentato di contattare l’uomo fin quando non ha ricevuto un suo messaggio nel quale si informava – è la ricostruzione dell’emittente – che “Eitan è tornato a casa” in Israele. La stessa fonte ha poi aggiunto che Aya Biran-Nirko ha anche successivamente ricevuto un messaggio dall’avvocato di Shmulik Peleg, il nonno materno, nel quale si confermava che Eitan era arrivato in Israele. Il viaggio dall’Italia, sempre secondo l’emittente, è stato reso possibile dal fatto che il nonno “continuava ad avere il passaporto israeliano del bambino, in contrasto con quanto disposto da un giudice italiano”. La donna ha quindi presentato una denuncia alla polizia italiana affermando che “il bambino è stato rapito dal nonno”, racconta la tv israeliana. Una vicenda dai contorni tutti da chiarire anche in Israele dove il ministero degli Esteri ha fatto sapere che “sta verificando la fondatezza delle informazioni”. Da mesi il piccolo è al centro di una contesa tra la zia materna che vive nello Stato ebraico e quella paterna, a Pavia. Già lo scorso agosto la zia materna Gali Peri in una intervista aveva rivendicato l’affidamento del bimbo sostenendo che Eitan si trovata in Italia “in una famiglia che non lo conosceva, che in precedenza non era stata a lui vicina in alcun modo” e subito dopo aveva aggiunto che il “piccolo era in ostaggio” e sarebbe dovuto tornare in Israele. Gali ed il marito Ron Peri avevano anche annunciato di aver dato istruzione al loro legale, Ronen Dlayahu, di richiedere l’adozione del bambino, affinché crescesse in Israele “così come avrebbe voluto sua madre”. “La nomina della dottoressa Biran Nirko a tutrice di Eitan – avevano sottolineato all’epoca i legali della zia paterna in Italia – è stata disposta e confermata dai giudici tutelari competenti”. Dopo la tragedia della funivia del Mottarone, Eitan – che ha perso la mamma, il papà ed il fratellino – è stato affidato in prima istanza alla zia paterna Aya dal tribunale dei minori di Torino. Una volta dimesso dall’ospedale è stato accolto nella sua casa a Travacò, in provincia di Pavia. Ed è stato disposto che la famiglia materna potesse vedere il bambino due volte alla settimana, per due ore e mezzo ciascuna. Fino ad oggi, quando al termine di una di quelle visite programmate, non è stato riportato a casa.

Da lastampa.it il 13 settembre 2021. Le autorità israeliane dovranno probabilmente «restituire» al suo tutore legale in Italia il piccolo Eitan Birain, unico sopravvissuto della sua famiglia nella tragedia del Mottarone. Un parere legale del governo israeliano emesso da esperti dei ministeri degli Esteri e della Giustizia ha infatti sottolineato che portare Eitan Biran in Israele, contro la volontà del suo tutore legale, costituisce probabilmente un rapimento, secondo quanto riportato da Channel 12 News. Il documento afferma che la mossa messa in atto dal nonno materno di Eitan ha violato la Convenzione dell'Aia sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori, una legge adottata da Israele nel 1991. Secondo la legge, le autorità israeliane devono fare tutto quanto in loro potere per restituire il ragazzo al suo tutore legale in Italia il prima possibile. Il tutore legale di Eitan, Aya Biran-Nirko, la sorella residente in Italia del defunto padre del bambino, ha presentato denuncia alla polizia italiana affermando che il bambino è stato rapito dal nonno materno, Shmuel Peleg. Gli avvocati di Shmuel Peleg, Sara Carsaniga, Paolo Polizzi e Paolo Sevesi cercano intanto di ridimensionare il fatto. Peleg, si legge in una nota, «ha portato Eitan in Israele dopo aver tentato invano per mesi di poter portare la voce della famiglia materna nel procedimento civile di nomina del tutore». «Dopo essere stato estromesso dagli atti e dalle udienze e preoccupato dalle condizioni di salute del nipotino, ha agito d'impulso», aggiungono. Gli avvocati si dicono «fiduciosi che, una volta ripristinata la correttezza del contraddittorio nei vari procedimenti civili, e ottenute rassicurazioni dai medici israeliani, potrà tornare a discutersi del suo affidamento nelle sedi opportune». «Le azioni di prepotenza sono sempre sbagliate - chiariscono - però mettiamoci nei panni di un signore che in terra straniera perde 5 familiari tragicamente, al quale i medici non parlano e gli avvocati dicono che il procedimento civile di tutela di Eitan è stato fatto in modo sommario». E concludono: «Noi ci impegneremo perché vengano riconosciuti i diritti della famiglia materna, dopodiché confidiamo che Shmuel ritorni ad avere fiducia nelle istituzioni Italiane e ci impegneremo in tal senso».

 Francesca Sforza per "la Stampa" il 14 settembre 2021. La vicenda familiare che ha coinvolto il piccolo Eitan Biran si è allargata a tal punto da lambire il rapporto bilaterale tra Italia e Israele, tanto che pur mancando - al momento - gli estremi per eventuali interventi da parte dei governi, le autorità sono state chiamate a rilasciare dichiarazioni ufficiali su quanto intendono fare. «Stiamo accertando l'accaduto per poi intervenire», ha detto il ministro degli esteri Luigi Di Maio rispondendo ieri alle domande dei giornalisti. Fonti diplomatiche israeliane fanno sapere che al momento «la vicenda viene seguita da vicino, ma non esiste una posizione ufficiale, non c'è una linea». L'ambasciatore israeliano a Roma Drod Eydar preferisce non rilasciare dichiarazioni sull'accaduto, limitandosi ad osservare che al momento si tratta di una questione tra due famiglie, che la vicenda è seguita dai canali giudiziari e che occorre attendere prima di pronunciarsi in un senso o nell'altro. Ogni azione israeliana, del resto, non può che essere successiva a quella dell'Italia, che al momento, tramite il Ministero di Giustizia, sta attivando le procedure. Quali, precisamente? Ad oggi "il caso Eitan" è gestito solo da un punto di vista giudiziario, su due binari paralleli, quello civile e quello penale. Il procedimento civile è stato avviato nel momento in cui la tutrice legale del bambino, Aya Biran-Nirko, la sorella residente in Italia del defunto padre di Eitan ha presentato alla procura un'istanza di rientro in base alla Convenzione dell'Aja del 1980, che si occupa delle procedure inerenti gli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori e che ha come obiettivo quello di «assicurare l'immediato rientro dei minori illecitamente trasferiti o trattenuti in qualsiasi Stato contraente» e «assicurare che i diritti di affidamento e di visita previsti in uno Stato contraente siano effettivamente rispettati negli altri Stati contraenti». Essendo Italia e Israele entrambi Stati contraenti, la Convenzione rappresenta in definitiva la piattaforma internazionale più corretta per cercare di risolvere questa disputa. Una volta che Israele avrà ricevuto dal ministero della Giustizia italiano tutta la documentazione, sarà a quel punto la magistratura israeliana a doversi pronunciare su un eventuale rientro di Eitan in Italia. Secondo quanto rivelato dall'emittente televisiva israeliana Channel 12, un documento di alcuni esperti del ministero degli Esteri di Tel Aviv avrebbe già dato un parere positivo al rientro di Eitan, considerando la sottrazione ad opera del nonno materno un sequestro a tutti gli effetti. Ma si tratta di valutazioni che non sono ancora passate al vaglio della magistratura competente, e che dovranno essere confermate prima di diventare esecutive. C'è poi il procedimento penale, avviato sempre dalla zia paterna presso la procura di Pavia, che denuncia il sequestro del bambino per mano del nonno materno. Se un giudice italiano dovesse ravvisare gli estremi per un sequestro, viste le violazioni sull'orario di visite e la mancata restituzione del passaporto del minore da parte del nonno, potrebbe a quel punto chiedere alle autorità israeliane il rientro di Eitan, da effettuare tramite l'Interpol. Malgrado dunque sia piuttosto chiaro che la vicenda sia soprattutto giudiziaria, la politica si sente sotto pressione, perché la storia di Eitan ha tutti gli ingredienti per coagulare su di sé sentimenti ed emozioni dell'opinione pubblica: c'è la questione identitaria - la scuola cattolica a cui Eitan era stato iscritto in Italia e quella ebraica che lo aspetta in Israele - ci sono due Paesi e un bambino conteso, e c'è la realtà di una famiglia dalla doppia radice, che dopo la tragedia del Mottarone si è trovata scissa, spezzata in due, incapace di ricomporre quell'unità che il papà e la mamma di Eitan, morti nell'incidente, avevano immaginato per la vita dei loro figli. In questa fase, la politica non può fare altro che vigilare affinché la macchina giudiziaria non si impantani e promuovere una corretta relazione operativa con Israele. Si tratta di Stati amici, non dovrebbe essere difficile.

Fabiana Magrì per "la Stampa" il 13 settembre 2021. Un lungo edificio di mattoni rossi con tante piccole finestre. Una parete a specchi che sovrasta l'ingresso e tutto intorno il via vai di un'ordinaria domenica israeliana. Lo Sheba medical center di Tel HaShomer, a est di Tel Aviv, è da sempre una delle eccellenze mondiali in ambito sanitario, diventata anche l'ultima tappa del viaggio di Eitan. «La sua casa», come l'ha definita la zia materna Gali nel messaggio inviato per avvisare i parenti paterni che ancora attendevano il suo rientro a Pavia. Una fuga, un ritorno a casa o un rapimento, a seconda delle versioni degli uni o degli altri. Un viaggio, in ogni caso, partito da Pavia e terminato, per adesso, alla periferia orientale di Tel Aviv. Piuttosto che unire i due "clan", quello materno dei Peleg e quello paterno dei Biran, la tragedia che si è consumata il 23 maggio 2021 in Italia, ha innescato una spirale di azioni e reazioni, un vero e proprio effetto a valanga su una serie di dissapori e divergenze culminati nel trasferimento forzato in Medioriente. «Dall'Italia non avevamo più notizie di lui, abbiamo agito per il suo bene» ha ribadito ieri Gali spiegando che «adesso merita una vita normale fatta di amici, sport e famiglia». Poi per spiegare il blitz aggiunge: «Siamo stati obbligati ad agire così, non avevamo notizie sulle sue condizioni mentali e di salute. Potevamo solo vederlo per breve tempo. Lo abbiamo riportato a casa, così come i genitori volevano per lui». E ancora: «Eitan ha urlato di emozione quando ci ha visto ed ha detto "finalmente sono in Israele"». L'esatto contrario di quanto ha raccontato la zia affidataria, Aya, da Pavia. Per provare a capire qualcosa in questa faida famigliare fatta di amori, interessi economici, valori culturali ed educazione religiosa bisogna spostarsi a Ramat Aviv, un sobborgo residenziale al nord di Tel Aviv, dove vive Etty Peleg (57 anni), la nonna materna. Nell'incidente, oltre alla figlia, al genero e al nipotino minore, la signora Peleg Cohen ha perso anche suo padre Itzhak (detto affettuosamente Izzy) e sua madre, cioè il bisnonno paterno dei bambini. Stretti intorno alla madre, a Ramat Aviv, ci sono le sorelle Gali (29 anni) e Aviv (22) e il fratello Guy (32). I tre, oltre a Tal, sono figli di Etty e Shmuel Peleg (58), nati prima del loro divorzio. Sono stati i tre figli, l'11 agosto, a convocare la prima conferenza stampa in Israele, sollevando le gravi accuse iniziali contro Aya Biran. Ed è stato l'ex marito Shmuel, sabato, a prelevare il nipotino Eitan e a portarlo in Israele dove adesso sta ricevendo assistenza medica e supporto psicologico. Shmuel e suo figlio Guy sono i due parenti di Eitan dal lato materno che accompagnarono le bare nel viaggio verso Israele. Con loro, a bordo dell'aereo, c'erano anche il padre di Amit e due fratelli del ragazzo, che vivono ad Aviel, un villaggio agricolo nel nord di Israele, dove si è officiato il funerale della coppia e del bambino piccolo, che adesso sono sepolti lì. Sotto le fronde degli alberi nel cimitero, al riparo dalla calura, erano state ammesse poche centinaia di persone, solo le famiglie del moshav. A cui i famigliari di Amit avevano aperto le porte di casa nei sette giorni successi, quelli della shivà, il lutto ebraico. Quel giorno Etty Peleg non ce l'aveva fatta a partecipare alla funzione ed era rimasta nella sua auto. Il giorno successivo, ai funerali di Izzy Cohen, era stato il padre di Amit a non essere presente. Stava già tornando in Italia e, subito dopo, l'aveva seguito anche Shmuel. In quei giorni di pieno lutto si era appresa la notizia che Aya era stata investita della custodia di Eitan. Ma il suo posto è in Israele, ripete da sempre nonna Etty. Sostiene che Tal e Amit stessero programmando il loro rientro permanente in Israele per l'anno prossimo. Al quotidiano Israel Hayom ha raccontato che avevano perfino comprato un appartamento a Ramat Hasharon, un elegante centro residenziale a pochi chilometri da Ramat Aviv. E poi c'è la questione identitaria, culturale e religiosa, a preoccupare il ramo materno della famiglia. «Tal e Amit si rivolgevano a Eitan e a Tom in ebraico e parlavano di ebraismo e di Israele», si è sfogata con Israel Hayom. Invece, in una delle sue visite ad Aya, alla nonna del bambino è balzata all'occhio l'assenza della mezuzah sulla porta e di qualsivoglia simbolo ebraico in casa. La notizia dell'iscrizione del nipote a una scuola religiosa cattolica ha ulteriormente infastidito la famiglia lontana. «Questa non è l'eredità che Amit e Tal volevano trasmettergli, è proprio l'opposto». Parcheggiata in strada nella via dove vive Etty Peleg Cohen, come lei stessa ha confidato nell'intervista, c'è una Renault rossa nuova di zecca. L'aveva comprata un mese prima del disastro che ha ucciso i suoi cari, in vista di una loro visita in programma a luglio. Dopo l'incidente, proprio non ci pensa a venderla. Aveva promesso che l'avrebbe usata per portare Eitan in giro, con la sua famiglia, nella sua vera patria. 

Niccolò Zancan per "la Stampa" il 13 settembre 2021. Alle undici e mezza di sabato mattina, un bambino di sei anni con le mani strette a un girello è uscito di casa per andare a comprare dei giocattoli con il nonno. Era una promessa. Ha salutato zia Aya, e poi le cugine: «Ci vediamo questa sera, cerco un gioco anche per voi». Quel bambino si chiama Eitan Biran, è l'unico sopravvissuto nello schianto della funivia del Mottarone. Nell'incidente ha perso i genitori, il fratello e i bisnonni: sabato ha perduto anche la sua famiglia affidataria. Perché il nonno materno, l'ex militare israeliano Shmuel Peleg, già condannato per maltrattamenti, lo ha rapito con un'operazione organizzata nei minimi dettagli. «Un blitz in totale disprezzo delle leggi italiane e di quelle comunitarie», dice l'avvocato Armando Simbari. Il nonno ha caricato il bambino in auto, ha passato la frontiera fra Italia e Svizzera e con un volo privato decollato dall'aeroporto di Lugano lo ha portato in Israele. È cosi che il bambino di sei anni si è ritrovato al centro di una guerra fra parenti. Ma la sua casa era qui in Italia, lo aveva deciso un giudice e lo avevano confermato i tutori. La casa di Eitan Biran era questa villetta fra Pavia e le Bassa, nella frazione di Trovacò Siccomario. Era affidato alla sorella di suo padre, la dottoressa Aya Biran. Era questo il posto per ricominciare a camminare. Qui c'era il suo computer nuovo per la scuola, che sarebbe incominciata oggi. Qui incontrava il fisioterapista e una psicoterapeuta specializzata in traumi infantili. E i compagni di classe lo chiamavano per nome, così come suor Paola Canziani della scuola Santa Maria di Canossa: «Era contento di essere rientrato fra noi, di nuovo in mezzo agli altri bambini. Si muoveva ancora con il girello, ma era sorridente. Stava meglio, zia Aya per lui era un punto di riferimento. È uno choc non vederlo in classe». Sempre qui Eitan Biran era cresciuto con i genitori Amit e Tal e con il fratello Tom, nella sua vita da cittadino italiano: era arrivato a Pavia quando aveva un mese e diciotto giorni, tornava in Israele per le vacanze estive. «Eitan ha doppio passaporto», dice la zia Aya Biran. «Quello israeliano era nelle mani del nonno Peleg, che aveva ricevuto l'ordine dell'autorità giudiziaria di consegnarcelo entro il 30 di agosto. Ma anche quell'ordine non è stato rispettato». Ora bisogna dire una cosa importante. Dal giorno della tragedia del Mottarone, era domenica 23 maggio, la dottoressa Aya Biran non ha mai rilasciato una dichiarazione. Per lei sono stati 112 giorni di dolore e silenzio assoluto. Prima all'ospedale Infantile Regina Margherita di Torino, poi di nuovo a casa nella villetta vicino a Pavia. Mai una parola.

«Io sono sempre stata in silenzio per rispettare Eitan, pensando al suo benessere psicologico presente e futuro. Sono stata zitta anche quando sentivo le continue diffamazioni nei confronti della mia persona. Ma adesso non posso più tacere. È troppo grave quello che è successo. La mia famiglia e quella di mio fratello hanno sempre condiviso la vita quotidiana. È falso che io sia una sconosciuta per Eitan. Sono stata nominata tutrice, la nomina è stata confermata dopo molte udienze. Un giudice ha valutato tutto e sentito le parti. Ogni ricorso contro questa decisione è stato respinto».

Aya Biran ha passato la notte di sabato in questura per sporgere denuncia. Adesso è domenica, ora di pranzo. Davanti alla villetta da cui il bambino è stato rapito, per la prima volta, ecco la sua voce: «Siamo molto preoccupati. È un'altra tragedia per Eitan. Un'altra separazione. Io gli lasciavo i miei occhiali quando andavo in bagno per fargli carpire che sarei tornata».

Che cure stava facendo il bambino?

«Dal giorno delle dimissioni, il 10 giugno, è stato seguito da un'equipe multidisciplinare. Ancora in questi giorni vedeva un fisioterapista e una psicoterapeuta. Questa settimana doveva essere sottoposto a visite di controllo in ospedale».

Quando ha visto il nonno per l'ultima volta?

«Martedì 7 settembre. Poi dovevano rivedersi sabato per pranzare insieme e andare a comprare i giocattoli. Eitan è uscito con il girello e la carrozzina, doveva rientrare alle 18.30. Ma non è tornato. Ho iniziato a telefonare: nessuna risposta. Ero angosciata. Poi ho ricevuto un messaggio dalla zia: «Il bambino è a casa». Ma no, che non era a casa. La casa di Eitan è questa». 

Con che auto è arrivato il nonno?

«Non l'ho vista. Aveva parcheggiato là dietro».

Era solo?

«Non posso dirlo. Non ho visto se a bordo ci fosse qualcun altro. Ma è gravissimo quello che ha fatto. Adesso è mio dovere sottolineare alle autorità che Shmuel Peleg è stato condannato per maltrattamenti nei confronti della sua ex moglie in tre gradi di giudizio. Inoltre chiedo alle autorità israeliane di guardare nelle cartelle cliniche pubbliche per scoprire la verità sullo stato di salute mentale e fisica della zia Gali Peleg»

La famiglia Peleg, dal canto suo, aveva dichiarato guerra in una conferenza stampa convocata alla fine di agosto: «Tengono Eitan in ostaggio, come fosse in prigione. Lo stanno completamente alienando. Non ci permettono di vederlo, se non due volte a settimana. Noi vogliamo che viva qui: Eitan deve crescere in Israele e frequentare una scuola ebraica invece di una scuola cattolica. Vogliamo adottarlo». Alle undici e mezza di sabato mattina, senza uno scrupolo nei confronti della legge italiana, l'ex militare Shmuel Peleg è venuto a rapire suo nipote di sei anni con la scusa di un giro in un negozio di giocattoli. 

Fabiana Magrì per "la Stampa" il 17 settembre 2021. Prove generali in tv per i Peleg e i Biran, a nove giorni dall'udienza al Tribunale della Famiglia di Tel Aviv, convocata per il 29 settembre. I due rami della famiglia del piccolo Eitan, unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, si danno battaglia mediatica, stasera, sui canali israeliani N12 e Kan13. L'emittente N12 ha diffuso su twitter due brevi video che anticipano i contenuti di una lunga l'intervista a Shmuel Peleg, il nonno materno di Eitan, raccolta poche ore prima che la polizia israeliana lo interrogasse, martedì scorso, e gli ingiungesse i domiciliari. Misura restrittiva che scade proprio oggi. E che, secondo il portavoce della famiglia Peleg, Gadi Solomon, sentito da La Stampa, «non saranno estesi ulteriormente perché non ci sono i presupposti. Si è trattato di una procedura standard che scatta in queste circostanze». Cioè, intende, la richiesta presentata in Israele da Hagai Biran, il fratello di Aya, entrambi zii paterni di Eitan, di far rientrare il bambino in Italia secondo quanto prevede la convenzione dell'Aia in materia di tutela dei minori. Ma ciò che accadrà davvero oggi a Shmuel Peleg, secondo fonti interne alla polizia, dipenderà dalle indicazioni del Dipartimento Internazionale della Procura di Stato. L'ambiente in cui è stata girata l'intervista è neutro, le inquadrature strette. Peleg, 58 anni, appare pacifico mentre la giornalista gli chiede se si rende conto che quello che ha fatto non è legittimo. «Davvero, non capisco - risponde -. Ho ricevuto un'opinione legale e sono passato attraverso un regolare controllo passaporti». «E non temi - incalza la reporter - il giorno in cui Eitan farà una ricerca su Google e troverà le informazioni su questo sporco affare di famiglia?». Nell'uomo, che meno di quattro mesi fa ha perso cinque membri della sua famiglia, l'emozione prende il sopravvento mentre risponde che è certo che Eitan, da grande, gli riconoscerà di aver fatto tutto per lui. «Mi dirà che l'ho salvato. E mia figlia - aggiunge -, quando un giorno ci incontreremo in cielo, sarà fiera di me per averlo portato a casa sua». La versione di Aya Biran - e forse le risposte alle accuse dei Peleg - è affidata alle telecamere di Kan13 e sarà trasmessa ugualmente oggi. La zia di Eitan è in procinto di atterrare all'aeroporto Ben Gurion. Una volta in territorio israeliano, il suo legale Shmuel Moran intende fare pressione sul Tribunale di Tel Aviv perché si pronunci a proposito dell'istanza avanzata martedì per ottenere che il bambino possa ricongiungersi con lei, già nominata tutrice di Eitan dal Tribunale di Torino. L'iter che partirà il 29 settembre servirà per arrivare a una decisione sull'immediato rientro di Eitan in Italia. Ci si aspettano tempi rapidi, la convenzione dell'Aia prevede un massimo di 6 settimane per deliberare. Inoltre gli zii si sono appellati ai canali diplomatici per sollecitare un'intesa più rapida tra i due Paesi. Nel frattempo, nell'appartamento all'ottavo piano di un grattacielo di Petah Tikva, la cittadina satellite a dieci chilometri da Tel Aviv dove vive Shmuel Peleg, Eitan trascorre le ultime ore della quarantena, come previsto dalle disposizioni in vigore in Israele per gli arrivi dall'estero. Oggi potrà fare il test per il Covid19. E se negativo, potrà uscire dall'isolamento.

Fabiana Magrì per "la Stampa" il 20 settembre 2021. "Sono solo concentrata su Eitan adesso. E non bado a tutto quello che avviene intorno». Gali Peleg, 29 anni, era in silenzio da oltre una settimana. Da quando suo padre Shmuel Peleg - infrangendo la legge italiana - è tornato in Israele con il nipote Eitan, figlio della sorella Tal, unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone. E da quando il consulente per la comunicazione Ronen Tzur - un passato da politico che ha poi scelto di mettere la sua esperienza e competenza al servizio di campagne mediatiche, spesso e volentieri di casi scottanti - ha preso per mano la famiglia Peleg, gestendone i rapporti con la stampa. Ieri ha acconsentito a parlare con La Stampa, lo stesso giorno in cui in Israele è atterrata la cognata Aya Biran, sorella di Amit (morto anche lui il 23 maggio), tutrice legale del piccolo Eitan. L’obiettivo del viaggio della zia paterna del bambino, come diffuso dal suo portavoce, è «riportare Eitan a casa serenamente e senza indugio», perché possa tornare «alla vita di routine e di stabilità, così importante per lui dopo il disastro».

Gali, come vive questa guerra tra famiglie? Come la fa sentire?

«Vorrei credere che riusciremo a raggiungere un qualche accordo, un’intesa. Noi siamo pronti a mettere tutto da parte. Vogliamo mostrare loro (ai Biran, NdR) che per Eitan è meglio stare qui, come volevano i suoi genitori, che gli hanno sempre detto che a breve sarebbero tornati in Israele». 

Lo chiedo perché lei era la portavoce dei Peleg, poi nell’ultima settimana non si è più fatta sentire né vedere…

«Sono solo concentrata su Eitan adesso. Voglio onorare le volontà di mia sorella, avevamo un patto. E non bado a tutto quello che avviene intorno. Voglio godermi ogni momento che passo con lui. Tutto qui». 

Si è trasferita a casa di suo padre Shmuel Peleg, per stare con lui?

«No, vivo a casa con mio marito. Ma vedo Eitan ogni giorno». 

È stata felice quando suo padre le ha detto che avrebbe riportato Eitan in Israele? Ma a questa domanda interviene il portavoce Gadi Solomon che blocca la risposta di Gali e dichiara per lei: «Non lo sapeva, non sapeva che Eitan sarebbe arrivato in Israele. Shmuel non l’ha detto a nessuno».

Perché tutta questa fretta, quando il lutto per tutti voi è ancora così fresco? Non sarebbe stato meglio attendere?

«Lascio agli avvocati il compito di spiegare la vicenda. Ma dal punto di vista emotivo, non potevamo più sopportare di vedere la tristezza di Eitan, non potevamo più contenere il suo dolore. Eravamo preoccupati per gli aspetti mentali. Non abbiamo mai ricevuto un referto psicologico su di lui». 

Quando dice di voler adottare Eitan, cosa si immagina per il suo futuro?

«Voglio adottarlo e crescerlo come figlio mio. Mia sorella era anche la mia migliore amica. Eitan è la cosa che più mi importa, l’unica che interessa a me e alla mia famiglia».

E se tra qualche anno, ancora minorenne, lui volesse tornare in Italia?

«Farò tutto il necessario per il suo bene. So che qua è felice. Vivere in Israele era quello che si aspettava e che i suoi genitori volevano. Per lui farò tutto. Faremo tutto». 

Anche lei, come Tal, ha doppia cittadinanza, israeliana e italiana, vero?

«Sì, sono anche italiana». 

E si sente legata all’Italia?

«L’Italia non è casa mia. La mia famiglia è qui. Qui vogliamo crescere i nostri bambini. Amo l’Italia ma casa mia sarà sempre Israele».

 A chi si sente più legata tra i Biran, a parte Amit?

«Ho un rapporto particolare con Hagai. Vedevo in lui un buon uomo di famiglia, che ama i suoi figli. Tal ci ha raccontato che è un padre straordinario. Anche sua moglie è fantastica. In effetti, è con lei che, dopo i funerali, mi sono sentita molto vicina. Più che con chiunque altro». 

È vero che i soldi raccolti con le campagne di solidarietà sono state usati per finanziare il viaggio di Eitan in Israele?

«No, non per il volo. Restare quattro mesi in Italia senza che nessuno ti sostenga non è un impegno economico da poco, e non sapevamo per quanto tempo saremmo dovuti restare. Ecco perché abbiamo raccolto soldi. Ma per il volo, no».

Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" il 13 settembre 2021. Come ha fatto Shmuel Peleg, il nonno materno di Eitan Biran, unico superstite della strage del Mottarone, a portare il nipote di sei anni in Israele? È quasi impossibile superare i controlli di sicurezza in Italia e sbarcare tranquillamente in uno scalo dello stato ebraico. Soprattutto se il nominativo del minore è inserito, come richiesto dal giudice dopo il 30 agosto, nei database delle forze dell'ordine perché esiste un fondato pericolo che venga fatto espatriare. Una decisione che il magistrato ha preso dopo che il nonno materno si era rifiutato di consegnare il passaporto israeliano alla tutrice italiana, Aya Biran-Nirko, la zia paterna del piccolo. Inoltre Aya Biran sostiene che Peleg sia stato condannato in patria per maltrattamenti all'ex moglie.

IL PIANO Secondo le prime ricostruzioni l'uomo sarebbe partito con un aereo privato dal nostro Paese. Le ipotesi su come questo sia potuto avvenire sono due. E si muovono su binari opposti. Da un lato la noncuranza, la svista clamorosa. Dall'altro un piano rischioso per aggirare Schengen. Iniziamo da quest' ultimo. Nei voli privati, come in quelli di linea, per recarsi nei Paesi fuori dall'area Schengen è necessario esibire il passaporto. Tel Aviv, ovviamente, non fa eccezione. Per aggirare il problema, ufficialmente l'aereo privato indica come meta finale, nel suo piano di volo, un paese europeo. La Grecia o Malta, ad esempio. In realtà, durante il tragitto, il velivolo tira dritto e va su Israele. Il grosso vantaggio di una simile operazione è che a terra, in Italia, i passeggeri che sarebbero dovuti andare ad Atene o a La Valletta, non hanno dovuto superare i controlli severi che vengono eseguiti quando si tratta di andare in Paesi extra Schengen. Nessun esame del passaporto ma una verifica più blanda che incrocia la carta d'identità e il biglietto. Un piano del genere, però, per poter essere realizzato deve contare su appoggi rilevanti. A questo punto tutti i sospetti su un eventuale passato nell'intelligence israeliana di Shmuel Peleg troverebbero, in un progetto di questa portata, delle conferme. L'altra ipotesi riguarda un errore che si sarebbe già verificato in passato.

L'ERRORE Capita che i giudici, nel momento in cui dispongono un divieto di espatrio, non indichino una questura a cui è assegnato l'incarico di inserire materialmente, nell'apposito database, il nominativo del soggetto indicato. Il magistrato fa riferimento alle forze di polizia in generale. Ecco che alla fine nessuna questura o comando si sente investito del compito di doverlo fare con il risultato che nei terminali degli agenti alla frontiera non scatta nessun tipo di alert. Si sono invece dimostrate non verificabili le voci che ipotizzavano l'uso di un aereo di linea con scalo intermedio prima di arrivare in Israele.

IL TAMPONE Ma qualunque sia stato il tragitto, sul tavolo restano molti punti da chiarire. C'è anche la questione del tampone per il covid. In base alle norme attuali per l'ingresso nello stato ebraico è tassativo un tampone Pcr negativo eseguito non oltre le 72 ore precedenti. Perciò Eitan, come il nonno Peleg, avrebbe dovuto farlo e con anticipo rispetto al viaggio poi effettuato per essere in grado di entrare in Israele. Infine è un mistero anche dove il bambino si trovi attualmente, visto che la zia materna Gali Peleg in una intervista alla radio israeliana non ha risposto ad una domanda posta in tal senso.

Da Il Messaggero il 15 settembre 2021. «Il trasferimento dall'Italia a Israele è avvenuto in maniera legale. Dopo una consultazione con esperti di diritto». Pochi dubbi per Shmuel Peleg. Così si è difeso ieri di fronte agli agenti. L'uomo, ex militare, aveva vestito la divisa delle forze armate israeliane. Vicino ai servizi. Non si esclude che avesse avuto ottimi rapporti anche con l'intelligence del suo Paese. Il 58enne ingegnere informatico, che ha lavorato anche per la compagnia aerea El Al, è un uomo risoluto, ma anche un nonno premuroso. Due caratteristiche, unite alle sue vecchie professioni, che l'hanno spinto a compire il gesto spregiudicato: il rapimento del nipote affidato alla zia paterna. Peleg aveva scelto di restare a Pavia quando il piccolo, dopo la strage del Mottarone, era rimasto orfano. Lui, l'unico sopravvissuto di un incidente che aveva inghiottito i genitori, il fratellino e i bisnonni. Insomma chi è Peleg? Un uomo devastato dal dolore per la perdita della figlia, di un nipote e del genero. Aggrappato a Eitan, in questo momento fragile, travolto dal più terrificante dei lutti. Peleg dopo la tragedia non è mai riuscito a trovare un punto d'accordo con i Biran. E quando il magistrato in Italia gli ha ordinato di restituire entro fine agosto il passaporto israeliano del piccolo si è rifiutato. Forse già durante l'estate aveva pianificato il suo blitz.

LE ACCUSE L'uomo è finito iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Pavia. Pensava forse di trovare maggiore comprensione in Patria e invece anche le autorità di Gerusalemme gli hanno dato torto. Gli arresti di ieri ne sono la conferma. Nonno Peleg non vanta nemmeno un passato cristallino, condannato per maltrattamenti nei confronti della ex moglie. «Per questa condanna Shmuel ha presentato 3 istanze nei 3 gradi di giudizio in Israele e i suoi appelli sono sempre stati rigettati», aveva spiegato nei giorni scorsi la zia paterna Aya Biran, la tutrice legale del bimbo. Ma proprio Etty Peleg, ex moglie e nonna materna ha difeso l'operato di Shmuel, tanto da finire anche lei indagata in Italia per lo stesso reato. «Le condizioni di Eitan sono pessime - ha detto nei giorni scorsi - Non c'è stato alcun rapimento, il ragazzo voleva solo tornare in Israele. È nato e cresciuto a casa mia. Finalmente dopo 4 mesi i medici vedranno cosa succede, perché Eitan non ha visto nessun dottore tranne sua zia in Italia». «È un bambino meraviglioso e saggio. Attualmente sta subendo diagnosi molto approfondite a Tel Hashomer per tutto, compreso il trattamento psicologico, che avrebbe dovuto essere fatto molto tempo fa e non è avvenuto. Lui è il nostro mondo e vogliamo sapere che sta bene, questo è tutto quello che ci interessa. Il bambino è felice». Alla base dell'astio tra la famiglia materna e paterna ci sarebbe un contrasto sull'educazione del piccolo, che a Pavia è stato iscritto in una scuola religiosa cattolica. I legali Paolo Sevesi, Sara Carsaniga e Paolo Polizzi ammettono che il loro assistito, Shmuel Peleg, sabato ha agito d'impulso, ma sono certi che si possa tornare a discutere dell'affidamento del bimbo conteso nelle opportune sedi legali. Tutta la vicenda adesso ha subito una forte accelerazione. Probabilmente i nonni materni dovranno lasciare andare via il nipote. In futuro per Shmuel ed Etty sarà complicato vederlo. Così a subire i peggiori danni sarà in questa storia sempre Eitan. Giu. Sca.

GIUSEPPE SCARPA per il Messaggero il 15 settembre 2021. È finito agli arresti domiciliari in Israele, Shmuel Peleg. Il nonno materno di Eitan Biran è stato interrogato dalla polizia con l'accusa di aver «rapito il nipote e di averlo portato dall'Italia in Israele». Fino a venerdì non potrà muoversi dalla sua abitazione a Petah Tikva, non lontano da Tel Aviv, dove vive anche il nipote, come riportano i media locali. Gli investigatori gli hanno sequestrato anche il passaporto. La misura sarebbe una decisione autonoma delle autorità di Tel Aviv. L'arresto non sarebbe stato spiccato su mandato italiano. Nel frattempo, a Pavia, la nonna materna, Etty Peleg, è stata iscritta nel registro degli indagati per sequestro di persona assieme al suo ex coniuge, sul quale a partire da ieri si è mossa anche la magistratura dello Stato ebraico. Una decisione, quella di Gerusalemme, che fa ipotizzare una soluzione del caso nel breve periodo. Insomma, anche gli israeliani sono convinti che i Peleg abbiano forzato la mano strappando all'affidataria in Italia, la zia paterna, Aya Biran, il piccolo di sei anni. Intanto si scopre che la famiglia Peleg aveva raccolto 150mila euro per le spese processuali del nipote.

IL CANALE DIPLOMATICO «È un buon inizio, ora speriamo che Eitan torni presto a casa», commenta lo zio paterno, Or Nirko. La vicenda ha ormai aperto una voragine tra i due rami della famiglia del bambino unico sopravvissuto della tragedia del Mottarone. Quel giorno il piccolo ha perso la madre, il padre, il fratello e i due bisnonni. Se i parenti a Pavia e a Tel Aviv hanno un'oggettiva difficoltà a parlarsi («I Peleg tengono Eitan come un detenuto in una prigione di Hamas», accusa Or Nirko), il canale diplomatico è aperto. Farnesina e Ministero degli esteri israeliano sono in costante contatto. Al lavoro per cercare di risolvere la disputa. L'ambasciatore italiano in Israele, Luigi Mattiolo, conosce entrambe le famiglie e si sta muovendo in prima persona per cercare una soluzione. Il suo collega israeliano a Roma, Dror Eydar, usa toni concilianti, «si spezza il cuore davanti agli ultimi e sorprendenti sviluppi». Le autorità israeliane, precisa l'Ambasciata, stanno seguendo questo caso e se ne occuperanno in collaborazione con l'Italia, a beneficio del minore e in conformità con le leggi internazionali. In un parere legale richiesto dal ministero della Giustizia di Gerusalemme, l'azione compiuta da Shmuel Peleg sarebbe stata classificata come un rapimento, hanno fatto sapere dei giornali locali. Inoltre anche il deputato Roberto Della Rocca, che fa parte del partito israeliano sionista di sinistra Meretz, che sostiene l'attuale governo, spiega che «il nonno materno di Eitan» è «una persona problematica e inaffidabile», che portando il nipote in Israele e sottraendolo al suo tutore legale «ha commesso un reato per la legge italiana e israeliana». Per questo, «sono sicuro che il bambino verrà riportato in Italia nei prossimi giorni, forse dopo lo Yom Kippur», festività ebraica che terminerà la sera di giovedì 16 settembre, «o durante la festa dello Sukkot», che inizia la sera del 20 settembre per terminare il 27. Nel frattempo Aya Biran, affidataria del piccolo, come stabilito dal giudice in Italia, percorre la strada giudiziaria anche in Israele: al tribunale di Tel Aviv è stata depositata «un'istanza preparatrice per un'eventuale attivazione della procedura» sulla base della convenzione dell'Aja sulle sottrazioni internazionali di minori. A spiegarlo è l'avvocato Cristina Pagni, che assiste Aya. «È in corso una valutazione ed è ancora aperto il tema se ad attivare la procedura sarà l'Italia o Israele», ha chiarito il legale. Il marito di Aya ha lanciato un appello: serve, spiega Or Nirko, una «soluzione politica» che potrebbe risolvere la situazione «in modo molto più rapido rispetto a quella giudiziaria». Lo zio spiega che «Eitan è stato tolto brutalmente alle persone più vicine che aveva. Mia moglie doveva lasciare i suoi occhiali o un oggetto vicino a lui quando si allontanava per dimostrarle il suo affetto e che sarebbe tornata».

LA NONNA INDAGATA Il ruolo della nonna materna, nell'inchiesta della procura di Pavia, è da verificare. La donna sarebbe rientrata a Tel Aviv il giorno precedente il rapimento, ma potrebbe, comunque, aver aiutato l'ex a portare il piccolo in Israele, dove è arrivato su un volo privato partito da Lugano. Emergono inoltre dei particolari in merito ai precedenti incontri di Shmuel con il bimbo: «Nel corso di una visita Eitan è stato tenuto per due ore e mezza dentro la macchina della nonna materna e interrogato da una persona sconosciuta». A raccontare questo episodio è sempre Or Nirko. L'uomo che lo avrebbe «interrogato», ha spiegato lo zio, «non si è mai identificato e ha detto che il suo lavoro è cambiare i baffi, gli ha fatto un sacco di domande, Eitan era sconvolto». Una «situazione ricorrente», secondo lo zio, «dopo le visite coi nonni tornava in uno stato emotivo pessimo».

Cristiana Mangani Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 18 settembre 2021. Sembra ancora più piccolo dei suoi 6 anni, Eitan Biran. Cammina con un girello, perché la convalescenza non è terminata. Quando il console italiano arriva nella casa di Petah Tikva, a circa 10 chilometri da Tel Aviv, dove vive con il nonno dal giorno del sequestro, il bambino appare tranquillo, quasi sorridente. Ma il pensiero dell'Italia è forte: «Mi manca la zia», dice. Una nota della Farnesina spiegherà che sta bene, che è in buona salute, ma anche che «non ha la percezione di essere stato rapito», così come aveva rilevato lo zio che vive a Pavia e che gli aveva parlato via WhatsApp, nei giorni scorsi. Unico sopravvissuto della strage del Mottarone, il piccolo sembra vivere come in una vacanza: non va a scuola, anche perché sta facendo la quarantena dopo l'arrivo in Israele dall'Italia, e ha tutti i parenti intorno che si occupano di lui. Ma la nostalgia di Pavia e di quell'altra famiglia, sembra farsi sentire. Il console italiano è stato accolto dal nonno Shmuel Peleg, che ha presenziato all'incontro. Ieri, la misura restrittiva degli arresti domiciliari nei suoi confronti per sequestro di persona è decaduta, e l'uomo è tornato completamente libero. Nel frattempo, rilascia interviste, rivendica la tutela del nipote, e l'opinione pubblica locale comincia a schierarsi con lui. In assenza di un accordo tra le famiglie, i tempi si annunciano molto lunghi e, a quel punto, come sempre accade in questi casi, sarà molto difficile sradicare Eitan dalla nuova realtà, perché - alla fine - per i giudici, conterà il bene del bambino. Gli zii che vivono in Italia, però, non demordono. Aya Biran, che ne ha la tutela, potrebbe partire per Israele già domani. «Probabilmente domenica, se riuscirà a fare tutto in tempo, poi noi nei giorni successivi la raggiungeremo», ha spiegato lo zio paterno Or Nirko. Ma Shmuel Peleg che ha affidato la comunicazione a un portavoce, in una intervista a Channel 12 News, ha continuato a difendere il suo operato: «Ho perso la fiducia nel sistema giudiziario italiano», ha dichiarato. E ha ricordato che nel momento in cui i giudici a Pavia discutevano dell'affidamento del piccolo, lui doveva riportare i «cadaveri della famiglia in Israele. Potevo occuparmi di una procedura di tutela?», insiste. Per lui doveva «essere una cosa temporanea» e non gli sarebbero state spiegate le cose «in maniera completa». «Io non ho mai rinunciato alla tutela su Eitan», sono ancora le sue dichiarazioni. E davanti alle contestazioni di aver rapito il nipote con un'azione quasi militare e in maniera totalmente illegale, insiste: «Ho ricevuto un parere legale e sono andato a prenderlo, ho superato legalmente il controllo dei passaporti». E quando il bambino crescerà e saprà come sono andate le cose e il conflitto all'interno della famiglia, che succederà? «Credo - afferma il nonno materno - che quando Eitan crescerà un giorno mi dirà Nonno hai fatto tutto il possibile per me, mi hai salvato e mia figlia quando un giorno ci incontreremo in cielo sarà fiera di me per aver salvato suo figlio, per averlo portato a casa sua». Il portavoce, poi, si spinge in là e azzarda: «I ministeri degli Esteri operano per cercare un compromesso fra le famiglie». Resta da spiegare chi abbia aiutato questo ex generale dei servizi segreti ad arrivare a Lugano e poi partire da lì con un aereo privato, destinazione Tel Aviv. L'indagine della procura di Pavia e della polizia puntano anche a questo. Ma ci vorrà tempo e l'agitazione tra i parenti cresce. «Il piccolo - spiega lo zio Or Nirko - è nelle loro mani e siamo molto preoccupati per il suo stato mentale». Oltre alla tragedia che ha subito, con il disastro della funivia, la perdita dei genitori, del fratello e dei bisnonni il bimbo «è stato sradicato dalla sua casa». È un bambino che ha subito un «trauma» e ne sta subendo un altro: «Da noi è stato accolto in casa come un figlio, come un fratello per le sue cuginette». La visita consolare organizzata d'intesa con la Farnesina e resa possibile anche grazie alla collaborazione delle autorità israeliane, «era finalizzata a verificare la situazione e il contesto familiare in cui si trova attualmente il minore». «Abbiamo richiesto la collaborazione delle autorità di Israele nell'interesse del minore - spiega il ministro degli Esteri Luigi Di Maio -: ci attendiamo piena cooperazione». 

Cristiana Mangani per “Il Messaggero” il 19 settembre 2021. Da una parte il nonno paterno e la sua famiglia, dall'altra i parenti della mamma. Una guerra familiare che difficilmente troverà una soluzione pacifica. La storia del piccolo Eitan Biran, unico sopravvissuto della tragedia del Mottarone, sembra complicarsi ogni giorno di più. Il bambino che ha sei anni e fatica ancora a muoversi per i postumi dell'incidente, ieri ha incontrato lo zio paterno, Hagai Biran. «Anche se Eitan appare in condizioni fisiche buone, è preoccupante notare nel piccolo chiari segni di istigazione e di lavaggio del cervello - è l'allarme lanciato dal parente che lo ha visitato nella casa del nonno Shmuel Peleg a Petah Tikva, a pochi chilometri da Tel Aviv -. Lo stanno plagiando, il suo ritorno in Italia appare più urgente che mai», ha affermato. Per gli zii, Eitan ha parlato usando frasi fuori dal contesto e messaggi che - a loro dire - gli sono stati inculcati perché istigato. «Si tratta di un danno vero e proprio», hanno spiegato gli avvocati della famiglia Biran in Israele, Shmuel Moran e Avi Chini -. Contrariamente alla famiglia dei rapitori che riferiscono in tempo reale della vita del minore come se partecipasse a un reality, noi e la famiglia Biran pensiamo che in questo momento la cosa più opportuna e necessaria sia di proteggere la privacy e l'intimità di Eitan». L'intervento dei legali e della famiglia Biran è seguito a una nota che era stata diffusa da Gadi Solomon, portavoce della famiglia Peleg in Israele, nella quale si dava notizia della visita. «Questa mattina - ha detto Solomon - Hagai e sua moglie hanno visitato il piccolo nella casa di Shmuel Peleg. I due sono stati con Eitan in privato e hanno giocato con lui un po' più di un'ora. Durante la visita è stato proposto loro di telefonare ad Aya in Italia o ai genitori di Amit (che vivono in Israele, ndr) ma loro hanno preferito non gravare oltre Eitan». Il nonno materno, dunque, non sembra proprio voler mollare. E mostra una strategia molto accurata: ha aperto la porta della sua casa a chiunque - della famiglia e dell'ambasciata italiana -, volesse vedere il piccolo. E poi, ha fatto dare dal portavoce un puntuale resoconto delle visite alla stampa, con la precisa volontà di mostrare quanto il nipote stia bene e quanto sia contento di rimanere con i parenti della mamma. Chiunque lo ha visto, infatti, ammette che Eitan non ha la percezione di essere stato sequestrato. Nonostante abbia espresso il desiderio di rivedere la zia Aya, alla quale i giudici italiani hanno affidato la tutela, non sembra mostrare sofferenza. Una carta questa che il nonno Shmuel giocherà certamente davanti al tribunale israeliano già il 29 settembre, data fissata per la prima udienza. Quando saranno presenti anche gli zii paterni, Aya Biran e Or Nirko, in partenza per Tel Aviv. Del resto, chi sia Shmuel Peleg si è capito sin dal giorno del rapimento, quando per portare via il nipote dall'Italia ha messo in atto una vera e propria operazione militare. Ex generale del Mossad, il servizio segreto israeliano, ha pianificato nel dettaglio il sequestro del bambino, grazie anche a una rete di complici sui quali stanno indagando la procura di Pavia e la Polizia. Gli inquirenti stanno ricostruendo la rete di appoggi su cui il nonno ha potuto contare. La Polo sulla quale hanno viaggiato è stata parcheggiata in una strada laterale quando Peleg è sceso per andare a prendere il nipote. Inoltre, l'ex 007 deve essere stato ospitato da qualcuno mentre organizzava l'operazione: in Italia dal 4 settembre, ha dormito solo un paio di notti in albergo. E ieri, sul profilo Facebook di Ron, zio materno di Eitan, in un messaggio rivolto a una donna che polemizzava con lui, scriveva: «Aspetta di sapere chi ha dato un supporto e un aiuto al sequestro e starai zitta». Il messaggio è stato poi cancellato. Lo zio Ron è marito di Gali, zia materna di Eitan, che vive in Israele, e che già da mesi aveva lanciato appelli per chiedere che il bambino tornasse a vivere lì. 

Eitan Biran, il piano del nonno per rapirlo: “Arrabbiati perché non iscritto ad una scuola ebraica”. Chiara Nava il 13/09/2021 su Notizie.it. Alla base del rapimento del piccolo Eitan ci sarebbe un contrasto tra le due famiglie sull'istruzione del piccolo. Alla base del rapimento del piccolo Eitan ci sarebbe un contrasto tra le due famiglie sull’istruzione del piccolo. Il nonno Shmuel Peleg ha fatto salire il bambino su un aereo privato per portarlo via con lui. Eitan Biran, nella mattinata di sabato 11 settembre, ha viaggiato in auto fino alla Svizzera. A Lugano il nonno Shmuel Peleg, ex dipendente della compagnia aerea israeliana Elal, ex militare, forse collaboratore dei servizi segreti, lo ha fatto salire su un aereo privato. L’uomo era stato condannato per maltrattamenti nei confronti della ex moglie. Nel pomeriggio di sabato è arrivato a Tel Aviv, dove il piccolo è in cura all’ospedale Sheba. “Il bambino è tornato a casa” ha scritto Peleg ad Aya Biran, la zia che lo aveva in custodia. Tutto questo nonostante un decreto del giudice tutelare di Pavia che vietava l’espatrio. Ora c’è un’accusa di sequestro di persona. Ma per quale motivo è avvenuto questo rapimento? Tutto è iniziato il 23 maggio 2021, quando Tal e Amit Biran, genitori del bambino, sono morti. La Stampa ha spiegato che a Ramat Aviv, sobborgo di Tel Aviv, vive Etty Peleg, nonna materna di Eitan. Nell’incidente della funivia ha perso anche il padre e la madre. A Ramat Aviv vivono anche le figlie Gali e Aviv e il figlio Guy, che hanno accusato Aya Biran. “Siamo stati obbligati ad agire così, non avevamo notizie sulle sue condizioni mentali e di salute. Potevamo solo vederlo per breve tempo. Lo abbiamo riportato a casa, così come i genitori volevano per lui” ha dichiarato Gali. “Eitan ha urlato di emozione quando ci ha visto ed ha detto ‘finalmente sono in Israele’” ha aggiunto. La famiglia Peleg è convinta che Amit e Tal stessero programmando di tornare in Israele. Al quotidiano Israel Hayom ha raccontato che avevano già comprato un appartamento a Ramat Hasharon, per questo dicono che Eitan è “tornato a casa”. Sono convinti di rispettare la volontà dei genitori del bambino. Dietro al rapimento c’è anche una questione identitaria, culturale e religiosa. “Tal e Amit si rivolgevano a Eitan e a Tom in ebraico e parlavano di ebraismo e di Israele” ha raccontato la nonna. In una delle visite ad Aya, la nonna si è resa conto dell’assenza della mezuzah sulla porta e di altri simboli ebraici, come ha riportato La Stampa. Inoltre, il piccolo era stato iscritto in una scuola religiosa cattolica. “Questa non è l’eredità che Amit e Tal volevano trasmettergli” sostiene la famiglia. Il Corriere della Sera ha parlato anche di differenze politiche. “Mia figlia Tal soffriva per i rapporti con la famiglia di Amit, si sentiva sottovalutata. Non so per quale ragione ci disprezzino, forse perché noi siamo sefarditi” hanno dichiarato. Il bambino ora è in Israele ed è stata aperta un’inchiesta per sequestro di persona. Il tribunale di Pavia, che aveva nominato la zia paterna Aya Biran come tutrice legale del piccolo, aveva stabilito che il bambino non potreva espatriare se non “accompagnato dalla tutrice”. L’ordine del giudice è stato violato dalla famiglia materna del bambino. L’avvocato Cristina Pagni, che assiste Aya Biran, ha spiegato che era stato deciso dal Tribunale e inoltrato a Questura e Prefettura di Pavia per essere inserito nelle banche dati delle forze dell’ordine. All’inizio di agosto il giudice aveva disposto la “restituzione” del passaporto israeliano del bambino da parte della famiglia materna, che doveva consegnarlo alla tutrice, cosa che non hanno fatto. “Il passaporto era in mano a Shmuel Peleg per ragioni poco chiare” ha spiegato il legale, che ha informato la Procura dei minori di Milano. 

Eitan, la famiglia: “Ora è in ospedale in Israele per ricevere assistenza medica e psicologica”. Debora Faravelli il 13/09/2021 su Notizie.it. Il piccolo Eitan, giunto in Israele con il nonno, si trova ora in un ospedale vicino a Tel Aviv per ricevere assistenza medica e psicologica. Espatriato insieme al nonno che lo ha sottratto alla cura della zia, il piccolo Eitan è attualmente in cura da medici in un ospedale alla periferia di Tel Aviv. Ad affermarlo è stata la famiglia materna del bambino: “E’ tornato in Israele dopo aver perso tutta la sua famiglia, come volevano i suoi genitori, e non appena arrivato è stato affidato ad uno staff medico presso l’ospedale Sheba”. La stessa zia Gali Peleg ha spiegato che il piccolo sta ricevendo l’assistenza medica e psicologica migliore possibile. La famiglia residente in Israele non ha poi mancato di mettere in dubbio le cure e l’affetto ricevuti in Italia dall’unico sopravvissuto alla strage del Mottarone: “Siamo stati obbligati a portarlo qui, non avevamo più saputo quali fossero le sue condizioni mentali e di salute”. La zia ha aggiunto che poteva vedere Eitan solo per breve tempo e “ci hanno tenuto nascoste le sue condizioni”. Il tutto mentre la Procura di Pavia indaga per sequestro di persona, con il nonno Shmuel Peleg che rischia l’accusa di sottrazione internazionale di minore che può prevedere il mandato di cattura. Secondo i parenti paterni di Eitan l’uomo avrebbe infatti rapito il piccolo in totale spregio a quanto stabilito dall’autorità giudiziaria italiana che aveva vietato l’espatrio.

DAGOREPORT il 13 settembre 2021. Con un volo privato da Lugano a Kabul il nonno materno ha portato via Mustafà dall’Italia. Il bimbo orfano, che era stato affidato dal Tribunale agli zii paterni, è stato rapito dal nonno materno, il musulmano Omar, e portato in segreto a Baghdad “dove sarà – ha dichiarato il nonno – educato secondo i principi della sharia”. Oggi sarebbe stato il suo primo giorno di scuola nell’Istituto superiore cattolico dedicato a Santa Maddalena. Immediate e furibonde le reazioni dal mondo politico. Per il leader della Lega, Matteo Salvini “nel nostro Paese, ormai, è tutto possibile per gli islamici. Questo è il vero volto dell’Islam. Il bambino va fatto immediatamente tornare con le buone o con le cattive. Mustafà è un cittadino italiano, è nato qui e questi vengono a fare i padroni a casa nostra”. Per Giorgia Meloni, di FI, “il ministro Lamorgese si deve immediatamente dimettere: com’è possibile che si rapisca un bambino e lo si imbarchi segretamente su un aereo? Questo è un attacco alla cultura occidentale che non può rimanere impunite: il nonno va immediatamente catturato e processato”. Per Matteo Renzi siamo di fronte “a un fatto di inaudita gravità di fronte al quale dobbiamo intervenire immediatamente per far tornare Mustafà e consegnare alla giustizia italiana il nonno”. Per Enrico Letta è “un fatto gravissimo del quale, però, si deve occupare la magistratura: sino al terzo grado sono tutti innocenti”. Per Conte, “dobbiamo parlare con il nonno, ma non cedere ai ricatti. E’ necessario avviare subito contatti diplomatici”. Unanime lo sdegno sui giornali. Sul “Corriere” Galli della Loggia parla di “linea del Piave che è stata superata”; sua moglie, Lucetta Scaraffia, su un altro quotidiano scrive di “attacco alla cultura cristiana al quale Mustafà era stato indirizzato”. Si intitola: “Ecco di cosa i musulmani sono capaci” l’editoriale di Fiamma Nirenstein su “il Giornale” mentre Sallusti, su “Libero” parla di “deriva islamica causata dalla sinistra”. Anche a sinistra forte è lo sdegno, con qualche sfumatura su “il manifesto” che titola “Volo libero”. Il parlamentare del Pd Fiano ha chiesto che i ministri degli Interni e degli Esteri riferiscano in aula. Intervistata, Liliana Segre ha ricordato i tempi cupi in cui, con analoga violenza i bambini venivano sottratti alle famiglie che non avrebbero mai più rivisto. Questa sera, su la 7, uno speciale condotto da Mentana e Parenzo. Ospite Moni Ovadia.

Caso Eitan, tv israeliana intervista Shmuel Peleg: “Un giorno mio nipote dirà che l’ho salvato”. Ilaria Minucci il 16/09/2021 su Notizie.it. Shmuel Peleg, nonno di Eitan Biran, unico sopravvissuto alla strage del Mottarone, è stato intervistato dalla tv israeliana sul rapimento del piccolo. Shmuel Peleg, nonno materno di Eitan Biran, unico sopravvissuto alla strage della funivia del Mottarone, ha rilasciato un’intervista all’emittente israeliana N12. L’uomo ha rilasciato alcune dichiarazioni relative alla decisione di portare il bambino in Israele, sottraendolo illecitamente alla zia paterna, Aya Biran, sua tutrice legale. L’emittente israeliana N12 ha avuto la possibilità di intervistare Shmuel Peleg, il nonno di Eitan Biran, unico superstite alla drammatica strage della funivia del Mottarone, avvenuta lo scorso 23 maggio. Il contenuto integrale dell’intervista verrà reso noto soltanto a partire dalla serata di venerdì 17 settembre ma, per fomentare la curiosità, N12 ha iniziato a pubblicare alcuni estratti sul suo canale Twitter. In uno degli estratti rivelati dall’emittente israeliana, è possibile ascoltare Shmuel Peleg mentre racconta: “In aereo, Eitan non ha mai smesso di chiedere quando saremmo arrivati e gridava: ‘Voliamo in Israele, voliamo in Israele’”. In relazione al rapimento del bambino, inoltre, in un’altra clip diffusa online, l’uomo ha dichiarato: “Credo che Eitan un giorno crescerà e dirà: ‘Nonno, hai fatto tutto il possibile per salvarmi’”. Infine, rispondendo a una domanda posta dall’intervistatore, Shmuel Peleg ha spiegato che il viaggio per lasciare l’Italia si è svolto in totale regolarità. A questo proposito, il nonno del bambino ha riferito: “Io non riesco proprio a capire quello che mi sta chiedendo. Ho ricevuto un’opinione legale e sono passato per la frontiera con una regolare vidimazione dei passaporti”. Eitan Biran è stato portato in Israele dal nonno Shmuel Peleg nella giornata di sabato 11 settembre, con un volo privato partito dall’Italia e diretto a Tel Aviv. Il bambino è stato allontanato dall’Italia senza preavviso ed è stato forzatamente sottratto alla tutela legala di Aya Biran, zia paterna del bambino residente in Italia. Nel corso degli ultimi giorni, sulla base delle informazioni sinora diffuse, la donna ha avuto la possibilità di instaurare dei contatti telefonici con Eitan e, a breve, dovrebbe partire per recarsi a Israele e incontrarlo. Sul rapimento di Eitan Biran, sono a lavoro gli avvocati della zia Aya Biran. In questo contesto, il 29 settembre è stata fissata un’udienza volta a ottenere l’immediata restituzione del piccolo, che si terrà presso il tribunale di Tel Aviv. Al momento, si sta indagando al fine di svelare quali siano state le motivazioni che hanno indotto Shmuel Peleg a sequestrare il nipote. A questo proposito, il marito di Aya Biran, Or Nico, si è detto convinto che il gesto dell’uomo potrebbe essere stato motivato anche da ragioni di tipo economico: “Non sappiamo per certo se dietro al sequestro ci siano interessi economici. Io presumo che loro non abbiano ancora fatto l’atto per l’eredità del bisnonno, una persona molto ricca, anche lui vittima della tragedia del Mottarone. Può essere che l’erede principale fosse la mamma di Eitan e, di conseguenza, anche Eitan fosse il prossimo in linea di successione di un grande patrimonio”.

In auto a Lugano e un jet privato: 9mila euro spesi per il sequestro. Tiziana Paolocci il 14 Settembre 2021 su Il Giornale. Il passaporto israeliano non era stato riconsegnato. Ha sorvolato tre nazioni il piccolo Eitan, che era uscito di casa felice, convinto di andare a comprare giocattoli con il nonno e rientrare subito dopo. Invece proprio Shmuel Peleg, ora indagato per sequestro di persona, sabato ha preso il nipotino di 6 anni, unico sopravvissuto alla tragedia della funivia del Mottarone, e lo ha portato a Israele. Un ennesimo trauma per il piccolo, contesto tra la famiglia di un papà e di una mamma che ora non ha più. Ma Eitan come è arrivato a Israele? Shmuel Peleg ha pagato profumatamente quel viaggio, che ha solcato il cielo di Italia, Albania e Grecia partendo a bordo di un aereo privato da Lugano fino a Tel Aviv. Novemila euro per tre ore e mezza di volo. A dare l'allarme della scomparsa del bimbo era stata la zia Aya Biran Nirko, la sorella del papà, nominata dal Tribunale tutrice legale dopo la sua morte. Dimesso dall'ospedale pediatrico Regina Margherita di Torino il bimbo era stato affidato a lei e si era trasferito nella casa di Travacò Siccomario, nel pavese. Anche Shmuel Peleg e la moglie avevano deciso di restare in Italia, per star vicino al nipote. Ma lui sabato d'impulso lo ha preso, ha caricato su un'auto noleggiata girello e passeggino con cui Eitan si aiuta, dopo il terribile schianto al Mottarone. «Vado con nonno a comprare dei regali e prendo giocattoli anche per voi», aveva detto il bimbo salutando le cuginette. Invece Peleg aveva già contattato un jet di una compagnia privata per lasciarsi alle spalle l'Italia e quel provvedimento del giudice, che imponeva ai nonni paterni di vedere il nipote solo due volte a settimana per due ore e mezzo ciascuna. Non è facile ricostruire la tratta del jet Cessna 680 Citation Sovereign della società charter tedesca Aerowest, sui cui sono saliti nonno e nipote. Ma sembrerebbe che sia decollato alle 10.26 dall'aeroporto di Hannover, in Germania, con destinazione Lugano, in Svizzera. Alle 11.40 sarebbe atterrato nel Ticino e sarebbe ripartito alle 15 con Eitan e il nonno a bordo. L'aereo avrebbe poi sorvolato Milano, Parma e le Marche, toccando i 784 chilometri orari. Alle 19.25 ora locale sarebbe atterrato all'aeroporto internazionale di Tel Aviv, fermandosi nell'area di sosta dei jet privati. Il costo del viaggio, che per il Cessna è di 2.300 euro l'ora, sarebbe stato di 9mila euro. Sta di fatto che Eitan per la legge italiana avrebbe potuto espatriare solo accompagnato dalla zia, in qualità di tutrice legale o con il suo consenso. Ma il nonno aveva ancora il passaporto israeliano del nipote, in contrasto a quanto disposto dal giudice, che aveva imposto di riconsegnarlo ad agosto. Tiziana Paolocci 

Shmuel, l'ex militare "architetto" della fuga. Tiziana Paolocci il 14 Settembre 2021 su Il Giornale. Vicino agli 007, condannato per violenze. Un ex militare, con un piede nei servizi segreti. Un uomo duro e determinato, ma anche un nonno premuroso, che aveva scelto di restare a Pavia quando Eitan era rimasto orfano, perdendo i genitori, il fratellino e i bisnonni nel crollo della funivia del Mottarone. È un'immagine contrastante quella di Shmuel Peleg (nella foto), dipinta all'indomani del sequestro del nipotino. L'uomo di 58 anni, iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Pavia, era stato arruolato nell'esercito israeliano e poi aveva lavorato in una compagnia aerea. Secondo voci non confermate sarebbe anche collaboratore dei servizi segreti. Certo è invece che in passato era stato condannato per maltrattamenti nei confronti della ex moglie. «Per questa condanna Shmuel ha presentato 3 istanze di appello a 3 gradi di giudizio in Israele e tutti e tre hanno rigettato i suoi appelli, sottolineando la gravità e la ricorrenza degli eventi violenti nei confronti della donna», dice la zia paterna Aya Biran, la tutrice legale del bimbo. Ma proprio Etty Peleg, sostiene con forza l'ex marito. «Le condizioni di Eitan sono pessime - dice -. Non c'è stato alcun rapimento qui, il ragazzo voleva solo tornare in Israele da molto tempo. Anche quando i suoi genitori erano in campagna ha sempre voluto essere qui, in Israele. È nato e cresciuto a casa mia. Finalmente dopo 4 mesi i medici vedranno cosa succede, perché Eitan non ha visto nessun dottore tranne sua zia in Italia». «Ha avuto un'infanzia felice, è il primo nipote da entrambe le parti e ha ricevuto molto calore - aggiunge -. È venuto dall'amore. Un bambino meraviglioso e saggio. Attualmente sta subendo diagnosi molto approfondite a Tel Hashomer per tutto, compreso il trattamento psicologico, che avrebbe dovuto essere fatto molto tempo fa e non è avvenuto. Lui è il nostro mondo e vogliamo sapere che sta bene, questo è tutto quello che ci interessa. Il bambino è felice». Alla base dell'astio tra la famiglia materna e paterna ci sarebbe un contrasto sull'educazione del piccolo, che a Pavia è stato iscritto in una scuola religiosa cattolica. I legali Paolo Sevesi, Sara Carsaniga e Paolo Polizzi ammettono che il loro assistito, Shmuel Peleg, sabato ha agito d'impulso, ma sono certi che si possa tornare a discutere dell'affidamento del bimbo conteso nelle opportune sedi leali. «Peleg ha portato Eitan in Israele dopo aver tentato invano per mesi di poter portare la voce della famiglia materna nel procedimento civile di nomina del tutore - sottolineano - e dopo essere stato estromesso dagli atti e dalle udienze, preoccupato dalle condizioni di salute del nipotino. Noi ci impegneremo perché vengano riconosciuti i diritti della famiglia materna, dopodiché confidiamo che Shmuel ritorni ad avere fiducia nelle istituzioni Italiane e ci impegneremo in tal senso». Tiziana Paolocci 

A Pavia si indaga per sequestro. I sospetti sui servizi israeliani. Andrea Cuomo il 13 Settembre 2021 su Il Giornale. Il legale: un aiuto extra. L'esperto: un blitz da professionisti. Ma la comunità ebraica: "Sono accuse non pertinenti". Un intrigo internazionale che mette contro non solo due famiglie ma due nazioni, due comunità. In mezzo c'è Eitan Biran, 6 anni, l'unico minuscolo sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, a causa della quale morirono i genitori Amit e Tal, il fratellino di 2 anni Tom e i bisnonni materni Barbara e Itshak. Eitan è stato rapito è portato in Israele dal nonno materno Shmuel Peleg, che lo ha sottratto alla zia affidataria Aya Biran-Nirko, sorella del papà e residente in una frazione di Pavia, Rotta di Travacò. In seguito alla denuncia della donna, la procura pavese ha aperto un fascicolo per sequestro di persona. Non c'è pace per Eitan, che nei mesi successivi a quell'orribile 23 maggio è stato al centro di una battaglia per la custodia legale. Dopo il lungo ricovero all'ospedale Regina Margherita di Torino, e in pieno percorso di supporto psicologico, il piccolo è stato affidato alla zia paterna, medico 41enne, che vive con il marito Or Nirko e due figlie che vanno all'istituto delle Canossiane frequentato anche da Eitan, nato e cresciuto in Italia. Una decisione che ha irritato il ramo materno della famiglia, che vive in Israele e che ha avanzato un'istanza per l'affidamento del bambino. E che ha architettato un vero e proprio rapimento: il nonno è andato a prendere il bambino per una visita programmata e non lo ha riportato a casa ma lo ha condotto in aeroporto per prendere un volo privato diretto a Tel Aviv. Senza alcun problema, visto che la famiglia materna è in possesso del passaporto israeliano del piccolo, che la famiglia italiana aveva inutilmente richiesto. Famiglia italiana che per bocca dell'avvocato Armando Simbari, si dice preoccupata per il fatto che il rapimento interrompe «le cure psicologiche e terapeutiche a cui era sottoposto». Oggi inoltre il piccolo avrebbe iniziato l'anno scolastico. E ciò potrebbe creare nel piccolo un nuovo trauma, che annullerebbe il percorso di «normalizzazione» della sua giovane e già tristissima vita. Il sospetto è che Israele abbia agevolato il rapimento. «È evidente che ci sia stato un aiuto extra, se no non sarebbe stato possibile far uscire Eitan dall'Italia tenendo conto di tutto il sistema di allerta che era stato messo in piedi», dice Simbari. E l'esperto in sicurezza Carlo Biffani, interpellato dall'Agi, parla della «possibile vicinanza e prossimità sia del defunto padre che del nonno del bimbo agli ambienti dell'intelligence e della difesa di Israele. Non ci è dato sapere quanto queste informazioni siano veritiere, ma è possibile immaginare che qualora ciò corrispondesse al vero, non sarebbe stato così difficile per il nonno ideare, pianificare e realizzare l'estrazione del minore dal territorio italiano. Appare infatti evidente come debba essere stata fatta in fase di pianificazione, una stima esatta dei tempi e dei modi necessari ad attuare la fuga». Insomma, un'operazione da professionisti, non la follia di un nonno. Ieri il Jerusalem Post ha riportato la posizione del ministero degli Esteri israeliano, che starebbe «verificando l'informazione» del sequestro del piccolo. L'ambasciata israeliana a Roma garantisce che «sta seguendo il caso da vicino, stiamo raccogliendo le informazioni e stiamo seguendo tutti gli sviluppi». Quanto alla Comunità Ebraica di Milano, ha diramato una nota di condanna di un «gravissimo atto che viola le leggi italiane e internazionali» ma il presidente Milo Hasbani biasima i commenti «fuori dal contesto» e il fato che venga «messo di mezzo Israele in modo non pertinente». Andrea Cuomo 

Eitan, famiglie in guerra. "Rapito". "No, salvato". Nino Materi il 13 Settembre 2021 su Il Giornale. Scontro tra parenti. La zia italiana: "Il nonno lo ha portato via, ha precedenti per violenze". Siamo stati facili profeti. Lo scorso 21 agosto, alle prime avvisaglie della «battaglia tra i parenti di Eitan Biran», Il Giornale iniziava il suo resoconto con queste parole: «Ci mancava solo che i familiari del povero Eitan iniziassero a litigare su chi fra i due rami (quello materno, ebraico; e quello paterno, cristiano) sia il più idoneo per gestire il futuro del bimbo rimasto orfano nella tragedia del Mottarone. Si profila all'orizzonte una guerra di religione? Speriamo di no. Ma temiamo di sì». Le cose, dopo poco meno di un mese, sono degenerate oltre ogni peggiore previsione. Il nonno materno di Eitan - il bimbo di 6 anni che lo scorso 23 maggio perse in un istante mamma, papà, fratellino e bisnonni - è arrivato l'altroieri da Tel Aviv a Pavia; ha prelevato il nipotino dalla zia paterna, Aya Biran (alla quale, dopo il crollo della funivia in cui morirono 14 persone, i giudici affidarono il piccolo); lo ha fatto salire sul jet privato con cui poche ore prima era atterrato in Italia ed è volato via: insomma, quasi un rapimento (tanto che la Procura di Pavia ha aperto un'inchiesta per sequestro di persona), in spregio a ogni legge dell'ordinamento giuridico del nostro Paese, ma anche calpestando la buona fede della zia italiana che aveva rispettato i termini dell'«incontro programmato» tra Eitan e il nonno, Shmuel Peleg. Quest'ultimo aveva assicurato alle 11 di sabato mattina: «Lo porto a comprare dei giocattoli. Come d'accordo torneremo alle 18.30». Alle 6 e mezza del pomeriggio Eitan si trovava invece già a Tel Aviv: «La sua vera casa è qui, abbiamo operato solo per il suo bene. La mamma desiderava che il figlio vivesse in Israele, crescendo con la nostra cultura e il nostro credo religioso». Abbiamo presentato istanza di affidamento e siamo certi che sarà accolta». Come possa essere accolta una istanza di affidamento avanzata da chi ha appena sequestrato un bambino, resta un mistero. Ma in questa brutta storia, i misteri abbondano. Ieri Aya Biran si è posta una serie di domande: «Perché il passaporto israeliano di Eitan era ancora nelle mani del nonno? Come mai nessuno ha controllato nonostante i nostri ripetuti allarmi? Shmuel Peleg ha potuto godere di complicità esterne?». Voci non confermate descrivono il nonno israeliano addirittura come un «ex agente segreto del Mossad», nonché «condannato per maltrattamenti alla moglie». Condivisibile lo sdegno di zia Aya: «Quanto accaduto è gravissimo. Confidiamo nella collaborazione tra le autorità italiane e israeliane per riportare Eitan in Italia. Il bambino oggi sarebbe dovuto tornare a scuola, qui ha gli affetti più cari, i cuginetti, gli amici. Io non sono la mamma ma lo amo come fosse mio figlio. Sono stata accanto a lui quando aveva gli incubi notturni. Questo ulteriore choc del rapimento rischia di vanificare l'importante percorso psicologico che stava facendo per dimenticare il trauma dell'incidente. Ora un'altra tragedia si aggiunge al precedente dramma». Con la differenza però che, in questa «tragedia», i responsabili sono proprio le persone che dovrebbero tenere più a cuore le sorti di Eitan. Ma che invece si sono comportati in maniera assurda. Da parte loro nessun pentimento: «Eitan ha urlato di emozione quando ci ha visto ed ha detto finalmente sono in Israele», ha raccontato la zia israeliana, Gali Peleg. Nino Materi 

Eitan rapito, nonno indagato. Lo zio: "La moglie complice". Nino Materi il 14 Settembre 2021 su Il Giornale. Il ramo italiano della famiglia accusa i coniugi Peleg. Il legale: "Agito d'impulso". Paura per la conversione. Nonno Shmuel Peleg indagato per «sequestro di persona aggravato» («Ha agito d'impulso», lo difende l'avvocato); la moglie Etti sospettata di essere sua complice; caccia a possibili fiancheggiatori che li avrebbero aiutati a rapire il piccolo Eitan Biran. Sono queste le tre novità di ieri nella tristissima storia di una faida familiare che rischia di devastare ulteriormente la psiche di un bambino di 6 anni che ancora non si è ripreso dallo choc di aver perso in un attimo genitori, fratellino e bisnonni. Insomma, gli affetti più cari. E cosa fanno ora i, pochi, parenti sopravvissuti? Se lo contendono, come fosse un oggetto. Di più: si è arrivati a rapirlo, trasferendolo in aereo dall'Italia in Israele. Ma cosa può esserci all'origine di un «blitz» tanto giuridicamente criminale quanto umanamente vergognoso? Fin dall'inizio di agosto (quando cioè le due componenti familiari - i Biran e i Peleg - iniziarono a litigare sul destino di Eitan, unico scampato alla strage del Mottarone), apparve evidente come la chiave per comprendere il senso della faida in corso tra nonni e zii fosse quella della «guerra di religione». I genitori di Eitan, di comune accordo, immaginavano per i figli un futuro in terra di Israele nel rispetto della cultura e della religione ebraica. Nessuna forma di fanatismo integralista, ma rigorosa fedeltà ai dettami della dottrina sefardita, professata da entrambi i nonni materni di Eitan: cioè Shmuel e Etti Peleg (il primo da ieri indagato dalla Procura di Pavia per sequestro di minore). Ma cos'è che fa scattare nella mente di questa coppia l'idea (folle) di portar via dall'Italia Eitan per condurlo a Tel Aviv? Il «movente» è - appunto - legato alla fede: la zia paterna, Aya Biran, cui il giudice aveva affidato la custodia di Eitan dopo la sciagura del 23 maggio, è una «Cattolica di tradizione ebraica», movimento d'ispirazione giudeo-cristiana formato da ebrei che si sono convertiti al cattolicesimo. Per questo Aya ha deciso di iscrivere Eitan in una scuola gestita da suore Canossiane. Intollerabile per gli antagonisti del «fronte Peleg». Di qui l'assurda decisione, da parte dei genitori della mamma di Eitan, di rapire il nipotino. Scelta condannata perfino dagli stessi legali dei Peleg, oltre che dal presidente della Comunità ebraica di Milano, ruolo che in passato aveva ricoperto anche il papà di Eitan. La sciagura del Mottarone ha poi cancellato l'intero pianeta d'amore che ruotava attorno a Eitan, minando allo stesso tempo le basi di equilibri familiari mai sufficientemente cementati. Tanto che ieri Or Nirko, marito di Aya Biran, in un'intervista alla radio israeliana 103Fm, ha usato parole durissime: «Shmuel Peleg ha rapito Eitan, ma sua moglie si trovava in Italia e certo lo ha aiutato. Abbandoneremo la lotta legale solo dopo che i rapitori saranno finiti in carcere». Questa delle possibili «complicità» è il nuovo filone di inchiesta della Procura di Pavia che ha messo nel mirino non solo i nonni Peleg. Nessuno vuol pensar male, ma in ballo - in questa brutta storia - c'è pure l'ingente risarcimento economico che toccherà a Eitan per i danni patiti nell'incidente della funivia. Chi gestirà il patrimonio? Intanto i legali del «ramo Biran» hanno attivato la Convenzione dell'Aja sulla sottrazione internazionale dei minori. Si prevedono tempi lunghi. Eitan aspetta. Che qualcuno lo aiuti. Ma davvero. Nino Materi 

Il jet, il documento: così il nonno si è portato via Eitan. Federico Garau il 12 Settembre 2021 su Il Giornale. La famiglia paterna, che avrebbe dovuto riconsegnare il passaporto del piccolo entro il 30 agosto, era ancora in possesso del documento, risultato fondamentale per l'espatrio. Il piccolo Eitan, unico sopravvissuto della sua famiglia alla tragedia del Mottarone, è stato rapito dal nonno materno e quindi portato in Israele a bordo di un volo privato. La denuncia arriva direttamente dalla zia paterna, nonché legittima affidataria del bimbo, Aya Biran-Nirko. "Mio nipote Eitan è stato sequestrato dal nonno materno, Shmuel Peleg, ed è stato portato in Israele", dichiara infatti la donna, come riportato da Next Quotidiano. L'uomo, che si era trasferito in Italia dopo l'incidente, aveva concordato un incontro con il nipotino lo scorso sabato. Il rientro a casa, previsto per le ore 18:30, non è tuttavia mai avvenuto. Allarmata, la zia paterna ha più volte cercato di contattare telefonicamente Shmuel Peleg, che le ha inviato un semplice messaggio con scritto 'Eitan è tornato a casa', vale a dire in Israele. L'allarme alle forze dell'ordine è stato lanciato all'incirca un'ora dopo il mancato rientro di Eitan. Grazie ai primi accertamenti condotti dalla polizia di Pavia, coordinati dal procuratore facente funzioni Mario Venditti e dal sostituto procuratore Roberto Valli, è stato possibile ricostruire quanto fatto da Shmuel Peleg. L'uomo, in possesso del passaporto del nipote, fondamentale per consentirne l'espatrio, sarebbe riuscito ad imbarcarsi a bordo di un volo privato. Poche ore dopo è arrivata anche la conferma ufficiale dell'arrivo dei due in Israele: come anticipato dal Corriere della Sera, domani la procura aprirà un fascicolo con l'ipotesi di reato di sequestro di persona. Il piccolo era da tempo finito al centro di una disputa legale, tanto che la zia materna israeliana aveva accusato i parenti paterni di voler trattenere Eitan con la forza in Italia, col rischio di fargli perdere l'identità ebraica: "Siamo determinati a circondarlo di calore e di affetto". Le pressioni da Tel Aviv avevano fin da subito allarmato i parenti affidatari del bimbo. "Me lo sentivo che quella famiglia avrebbe fatto qualcosa di sporco per aggirare la legge italiana", ha dichiarato lo zio paterno in un'intervista concessa a Il Corriere. "Arrivare però al punto di organizzare un sequestro vero…che dire? Siamo disperati. La sua vita era già fin troppo difficile, non meritava altra sofferenza". Ma come ha fatto il nonno ad ottenere il passaporto di Eitan? "Purtroppo i Peleg avevano in custodia il passaporto israeliano di Eitan", spiega ancora lo zio. "Noi lo abbiamo chiesto indietro e il giudice tutelare aveva stabilito una data per la restituzione, il 30 agosto. Ma non ce lo hanno dato e così, visto che ai nonni materni non è stato revocato il diritto di visita, come avevamo chiesto, è andata come è andata". Pertanto Shmuel Peleg, che come ricordato dallo zio paterno in Israele ha ricevuto pure una condanna per abusi domestici, ha potuto agire indisturbato. "La notizia sconvolge tutti e ci crea grande preoccupazione", dichiara l'avvocato della famiglia Armando Simbari. "È stato strappato alla famiglia con cui è cresciuto, ai medici che lo stanno curando con un eventi traumatico che può destabilizzarlo", conclude.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronaca. 

I cuginetti sotto choc: "Non torna per il gelato?". Nino Materi il 13 Settembre 2021 su Il Giornale. La maestra: "Oggi iniziava le elementari". Gli amici: "Vogliamo giocare con lui". Zia Aya ha altri tre figli, sono tutti quasi della stessa età di Eitan. Anno più, anno meno. Ma, insieme, da dopo la tragedia del Mottarone, hanno formato una «squadra» meravigliosa fatta di affetto e complicità. I componenti del gruppo, si cercano, giocano, ridono insieme. I tre cuginetti di Eitan hanno capito il momento difficile di quel bimbo che, in un colpo solo, ha perso gli affetti più cari: genitori, fratellino e bisnonni. E allora, eccoli pronti a «sostituirsi» (per quello che è possibile) all'amore di chi, quell'amore, non può più darlo. Perché, purtroppo, non c'è più. Ma zia Aya è perfetta nel suo ruolo di «mamma supplente», Eitan stravede per lei, esattamente come stravede per i cuginetti che hanno preso il posto di quell'unico fratellino, sparito pure nella trappola di quella cabina maledetta. Quando il nonno, alle 11, è arrivato in casa Biran-Nirko, a Pavia, per trascorrere una «giornata serena» insieme a Eitan, nessuno ha sospettato nulla: i cuginetti hanno salutato Eitan raccomandandosi di «tornare puntuale per il gelato». Orario fissato: 18,30. Ma a quell'ora non arriva nessuno. Trascorre un'ora, ancora nessuno. Aya cerca di mettersi in contatto col nonno di Eitan ma non riceve risposta. Capisce che qualcosa non va. Denuncia la scomparsa. Qualche verifica ed ecco la risposta: «Eitan è stato portato in Israele». I cuginetti scoppiano in lacrime: «Non tornerà più a mangiare il gelato con noi?». La mamma cerca di rassicurarli, ma anche lei ha le lacrime agli occhi. Oggi era tutto pronto per il primo giorno di scuola. La maestra e i compagni lo aspettavano con ansia: «Speriamo torni presto, vogliamo giocare con lui». «È troppo grande il dolore - dice madre Paola Canziani, superiora dell'Istituto Canossiane di Pavia, dove si trova la scuola d'infanzia frequentata da Eitan -. Si muove ancora con il suo girello, per i problemi provocatigli dall'incidente. Ma era sorridente», aggiunge la religiosa. Che non manca di sottolineare il forte legame tra il bambino e la zia: «Le è davvero molto attaccato, per lui è un punto di riferimento fondamentale. Mi provoca un grande dolore pensare che sia stato portato via così». «Abbiamo appreso con sgomento la notizia del sequestro del piccolo Eitan ed esprimiamo una decisa condanna nei confronti di questo gravissimo atto che viola le leggi italiane ed internazionali - ha sottolineato il presidente della Comunità ebraica milanese, Milo Hasbani -. L'augurio è che il Tribunale dei minori decida per il meglio». Nino Materi 

Gli zii: "Biglietto già fatto per Tel Aviv". E il nonno domani può tornare libero. Nino Materi il 17 Settembre 2021 su Il Giornale. La sorte di Eitan sarà decisa in Israele nell'udienza fissata il 29. È cominciato il conto alla rovescia verso il 29 settembre, quando ci sarà l'udienza al tribunale di Tel Aviv per decidere l'affidamento di Eitan. Da oggi a quella data (che però, probabilmente, si rivelerà solo interlocutoria) mancano 12 giorni. L'«ora X» per l'ipotetico rientro in Italia dell'«orfano del Mottarone» è ancora lontana; vicinissima, invece, resta la faida tra i due «rami familiari» - quello «italiano» di parte paterna, e quello «israeliano» di parte materna - dell'unico sopravvissuto il 23 maggio scorso alla strage della funivia (morirono 14 persone: tra esse i genitori, il fratellino e i bisnonni di Eitan). Una tragedia cui ha fatto seguito, sabato scorso, il rapimento del piccolo da parte del nonno paterno, Shmuel Peleg, che ha prelevato il piccolo dalla casa nel Pavese dove, da dopo l'incidente, viveva con la zia tutrice legale. Un blitz per trasferirlo (al termine di un viaggio dai contorni misteriosi) nel suo elegante appartamento non lontano da Tel Aviv. E proprio in questa casa nonno Shmuel, 58 anni, ex militare dell'esercito con la Stella di David, sta scontando da tre giorni gli arresti domiciliari disposti dall'autorità israeliana a seguito del «sequestro di minore» che lo ha messo nei guai. Tra 48 ore, però, l'uomo potrebbe tornare libero dietro il pagamento di una cauzione. Imbarazzante la situazione che potrebbe venirsi a creare la settimana prossima nel sobborgo di Petha Tikva: da una parte Shmuel Peleg sotto il cui tetto continua a vivere anche il conteso Eitan; dall'altra gli zii materni cui il bimbo è stato sottratto e che ieri hanno annunciato di «aver in mano già il biglietto aereo per Tel Aviv per andarsi a riprendere il nipote». Entrambe le componenti ebraiche delle famiglia (pur con diversi approcci alla medesima dottrina religiosa) si sono costituite parte civile considerandosi «parte lesa» nel contenzioso sull'affidamento; ma - dopo lo sconsiderato blitz realizzato da Shmuel - le chances dei Peleg di ottenere la custodia del nipote si sono ridotte a zero. I Biran sembrano invece decisamente più «favoriti» (si parla ormai di questo dramma umano come se si trattasse di una gara sportiva ndr), anche in forza del profilo rispettoso di leggi e provvedimenti che li ha finora caratterizzati. La Convenzione dell'Aia prevede che «il minore venga sentito e si debba tenere conto della sua opinione, se è abbastanza grande». Eitan rientra o no in questa tipologia? Intanto anche il «gradimento» della comunità ebraica (tanto quella italiana quanto quella israeliana) nei confronti dei Peleg sembra essersi dissolta, soprattutto alla luce di sospetti e illazioni sugli interessi economici legati all'intera operazione. Eitan, infatti, sarà in futuro beneficiario di un ricco patrimonio frutto di più voci: il risarcimento per il danno subito nella sciagura del Mottarone, la ricca eredità dei suoi bisnonni e i soldi delle donazioni. Ovviamente tutti dicono di essere totalmente «disinteressati ai beni di Eitan», dichiarandosi «interessati solo al suo bene». Ma tra «bene» e «beni», spesso, capita di fare confusione. Nino Materi

La trappola del groviglio di odio. Vittorio Macioce il 13 Settembre 2021 su Il Giornale. Eitan ha sei anni ed è un sopravvissuto. Quella domenica sul Mottarone ha perso la sua famiglia: il padre, la madre, il fratello. Eitan ha sei anni ed è un sopravvissuto. Quella domenica sul Mottarone ha perso la sua famiglia: il padre, la madre, il fratello. La prima cosa che disse quando si risvegliò nel reparto rianimazione fu «dove sono mamma e papà». Non è stato facile dare una risposta. Al suo fianco c'era la zia paterna. Si chiama Aya e vive a Pavia. È lei la tutrice legale del bambino. Solo che le cose vanno peggio di quanto la pietà umana possa immaginare. I genitori della madre non sono d'accordo. I rapporti con l'altro pezzo di famiglia sono pessimi. Non trovano e neppure cercano un compromesso. Vogliono Eitan e se lo prendono. Lo rapiscono e lasciano un biglietto per informare che è in viaggio per Israele e l'Italia non sarà la sua casa. C'è un doppio passaporto, un aereo privato, nessun sospetto al momento dell'imbarco e un nonno che recita la parte del buono. Non sarà neppure facile trovare una soluzione in tribunale. Di quale Stato? Di quale famiglia? Sembra tutto surreale, ma purtroppo è la realtà. Il rapimento è stato organizzato dal nonno. La zia di Pavia rivela che è stato condannato per maltrattamenti verso la ex moglie. La zia israeliana, la sorella della madre, fa sapere che questo atto brutale è stato fatto solo per il bene del bambino. È un intreccio che si stringe intorno a Eitan e lo soffoca, lo mercifica, con l'egoismo ottuso che prende il sopravvento su ogni ragione umana. È solo possesso, possesso forse per esorcizzare la tragedia, per imprigionare un frammento di vita. Eitan però non è un feticcio. È un bambino che ha perso tragicamente tutto il suo mondo e non ha voce, non ha parole e quel che resta della sua famiglia è un groviglio di odio. La morte non insegna nulla. Non serve a rendere umano lo sguardo delle persone. La morte incattivisce e forse è stato sempre così. Non fa alzare gli occhi, non smussa le ossessioni dei vivi, non rende tutto più piccolo, irrilevante, non ti porta ad abbracciarti e a superare i rancori. È un'illusione che la morte renda più profonda e saggia la vita. Dovrebbe essere cosi, farti riflettere sulla fragilità del destino e conoscere le strade imprevedibili del caso o farti aggrappare alle cose che davvero contano. Non è così, lo si vede sempre, la tragedia finisce per schiacciare a terra le anime già sfilacciate. Ti fa strisciare nella meschinità. La famiglia, come luogo dello spirito, non ne esce affatto bene da questa storia. Non è un rifugio. Non è una promessa di pace o di serenità. È, in questo caso, un'altra illusione. È il dramma e la beffa di un bambino che l'ha persa due volte. Vittorio Macioce

"Ora va restituito all'Italia". Israele apre, poi dietrofront. Luigi Guelpa il 14 Settembre 2021 su Il Giornale. Ultimatum (smentito) del ministro degli Esteri. Farnesina al lavoro per la soluzione diplomatica. «Le autorità israeliane sono state informate della vicenda, ma il caso non riveste aspetti diplomatici o politici. Quindi non rientra nelle nostre competenze». Con queste parole il ministro degli Esteri israeliano, Yair Lapid, sentito dal Jerusalem Post, prende le distanze dalla vicenda del piccolo Eitan, smentendo la ricostruzione dell'emittente televisiva Channel 12, secondo la quale il governo di Naftali Bennett aveva espresso il parere che il bambino venisse riportato in Italia e restituito al tutore, la zia paterna Aya Biran. La vicenda si tinge di giallo, perché Channel 12 aveva dato la notizia citando funzionari del ministero della Giustizia. Il dicastero guidato da Gideon Sa'ar non sembrava avere dubbi in proposito: «Abbiamo l'obbligo di fare tutto quanto in nostro potere per riconsegnare Eitan, prelevato senza il consenso della sua custode legale in Italia. Se non ci sarà accordo tra le due parti della famiglia, Israele dovrà agire per restituirlo alle autorità italiane», commentavano in mattinata a Channel 12 rappresentanti degli uffici al numero 29 di Salah a-Din Street. Lapid è tutt'altro che uno sprovveduto, sa trattare con disinvoltura con i mezzi d'informazione per via dei suoi trascorsi da giornalista d'alto profilo. È difficile pensare che si sia esposto in prima persona soltanto per bloccare le gole profonde del dicastero di Giustizia. L'impressione è che la vicenda di Eitan verrà affrontata sottotraccia dalle diplomazie di Israele e Italia, senza troppi clamori. Tutto questo per garantire i rapporti amichevoli e collaborativi di lunga data tra i due Paesi. Una stretta sinergia che esiste nell'agricoltura, nella sanità, nella cybersecurity, nella ricerca scientifica, cultura e nell'università. Proprio nei giorni scorsi l'Italia ha deciso di boicottare la quarta Conferenza di Durban in programma il 22 settembre a New York a margine dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La Conferenza, riunita per la prima volta a Durban nel 2001, è stata subito trasformata in un vertice antisemita, e i successivi appuntamenti hanno mantenuto questo deplorevole carattere. Nel 2009, nel corso della Durban 2, il Presidente iraniano Ahmadinejad invocò sul palco la distruzione di Israele e 23 ministri dell'Unione Europea, tra cui l'Italia, decisero di abbandonare la sala. C'è quindi il desiderio di chiudere il caso rapidamente, anche per spegnere una narrazione che purtroppo si sta tingendo di pettegolezzi e sospetti su presunti interessi economici tra le due famiglie che si contenderebbero la custodia per intascare il maxi-risarcimento che Eitan otterrà per la morte dei genitori e del fratello. Il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio dichiara che «è necessario accertare l'accaduto per poi intervenire», ma la macchina diplomatica sull'asse Roma-Tel Aviv si è già messa in moto. L'arbitro della partita, invocato dalla zia paterna, potrebbe essere la Convenzione dell'Aja sui minori sottratti, ratificata da entrambe le nazioni. Il documento ha come fine assicurare l'immediato rientro dei minori illecitamente trasferiti o trattenuti in qualsiasi Stato contraente. Per la Convenzione, il trasferimento o il mancato rientro di un minore è ritenuto illecito «quando avviene in violazione dei diritti di custodia assegnati ad una persona, istituzione o ogni altro ente, congiuntamente o individualmente, in base alla legislazione dello Stato nel quale il minore aveva la sua residenza abituale immediatamente prima del suo trasferimento o del suo mancato rientro». Luigi Guelpa

Eitan, arrestato il nonno e la moglie finisce indagata. Lo zio: "Nascosto in un buco". Nino Materi il 15 Settembre 2021 su Il Giornale. Interrogato dall'"unità speciale 433". E poi fermato. Non potrà muoversi da casa fino a venerdì. Arresti domiciliari, per ora. Poi si vedrà. Interrogato dall'«unità speciale 433». E poi fermato. Non potrà muoversi da casa fino a venerdì. Arresti domiciliari, per ora. Poi si vedrà. Il colpo di scena, sul caso Eitan, arriva da Tel Aviv. Lui, Shmuel Peleg, il «braccio», da ieri è agli arresti domiciliari in Israele. Lei, Etty Peleg, la «mente», è indagata ma ancora a piede a libero. Il blitz, organizzatissimo, che ha portato alla perfetta «riuscita» del rapimento di Eitan, 6 anni, ha due protagonisti: del ruolo avuto da «nonno Shmuel» già si sapeva. Lui, davanti alla polizia israeliana, si è difeso con forza: «Eitan è arrivato qui in modo legale e dopo consultazioni con esperti di diritto». La funzione di «nonna Etty», invece, rimane ancora sullo sfondo, con lei che sarebbe arrivata in Italia nei giorni precedenti il sequestro, per poi tornare (almeno questa è la sua versione ndr) in Israele prima che Shmuel «trasferisse» il nipotino dalla frazione Rotta di Travacò (Pavia) a Tel Aviv. Un «alibi» che però non ha convinto i giudici, che l'hanno infatti indagata per lo stesso reato contestato al marito: sequestro di persona, aggravato dal fatto che la vittima è un minorenne. I due non sono pentiti: «È assurdo parlare di rapimento, abbiamo solo riportato a casa Eitan, salvandolo da un contesto che stava minando la sua salute fisica e mentale». Ma al «ramo materno» della famiglia Peleg si oppone la «componente paterna» della famiglia Biran, che ieri ha ribattuto con toni di inusitata virulenza: «La famiglia Peleg trattiene Eitan come i soldati dell'esercito israeliano sono tenuti prigionieri nelle carceri di Hamas - ha dichiarato Or Nirko (marito di Aya Biran, la zia tutrice legale del bambino conteso) - La famiglia Peleg si rifiuta di dire dove il bambino si trova. Lo nascondono in una specie di buco». Fatto sta che quel bambino - scampato miracolosamente alla morte nella strage del Mottarone dove ha perso in un istante gli affetti più cari (madre, padre, fratellino e bisnonni) - non riesce ora a salvarsi dall'assurda faida che i pochi parenti rimasti gli stanno costruendo attorno; entrambi i «nuclei antagonisti» giurano di «volere solo il bene di Eitan», senza capire che - in concreto - gli stanno facendo del male. Aggiungendo al trauma della funivia, lo choc della contesa per l'affidamento. Una diatriba in cui il diverso modo di intendere la medesima fede ebraica sta giocando un ruolo importante, unitamente a chissà quali altre inconfessabili ragioni. Un capitolo assai spinoso, ad esempio, è quello che riguarda l'ingente patrimonio destinato a Eitan e, ovviamente, congelato finché il bambino non raggiungerà la maggiore età. Quando cioè potrà entrare in possesso dei soldi frutto di ben tre risorse finanziarie: il risarcimento (ancora da definire ma che gli avvocati definiscono «altissimo») per i danni patiti nell'incidente del Mottarone, l'eredità dei genitori e dei bisnonni (morti nel crollo della funivia) e le donazioni giunte all'indomani della sciagura che commosse il mondo. Chi gestirà, nel frattempo, queste finanze? Una nuova udienza per l'affidamento è stata fissata per la metà del prossimo mese: sarà una tappa importante. «Nell'ambito di tale procedimento si dovrebbe chiedere a Eitan dove vorrebbe vivere. Cosa che andrebbe fatta attraverso l'ascolto e la verifica delle reali condizioni del minore, con una consulenza tecnica d'ufficio e quindi in contraddittorio tra le parti: modalità che, invece, è stata rigettata», sostengono i legali della famiglia materna del bambino. Intanto, sul fronte delle indagini, continua la caccia ad altri possibili complici (compreso un fantomatico «uomo coi baffi», ipotizzato ieri da Repubblica) che abbiano fiancheggiato i «nonni Peleg». Ogni tipo di controllo durante le varie fasi del rapimento (dal viaggio in auto in Svizzera al decollo col volo privato da Lugano) è stato aggirato con troppa facilità. Come se «l'ex militare Shmuel» e - presunto - «ex collaboratore del Mossad», potesse contare su misteriosi fiancheggiatori. E qui torna in ballo la suggestione dei «servizi segreti». Solo una «suggestione»? Nino Materi

La frase choc di zio Ron: "Un sostegno segreto dietro la fuga con Eitan". Nino Materi il 20 Settembre 2021 su Il Giornale. Post pubblicato dal cognato di nonno Peleg ma subito cancellato su consiglio dei legali. Troppo «suggestiva» per essere abbandonata. È la pista dei «servizi segreti israeliani» che - un giorno sì e l'altro pure - torna in campo nella partita, sicuramente truccata, del sequestro di Eitan. Lui, 6 anni, l'«orfano del Mottarone» (nella strage del 23 maggio scorso ha perso genitori, fratellino e bisnonni) rimane al centro di una faida familiare che finora non gli ha risparmiato nulla: compreso il trauma (non bastasse lo choc patito su quella maledetta funivia) di un rapimento dai contorni di una spy story alla Tom Clacy. Protagonista Shmuel Peleg, 58 anni, il nonno materno ex - presunto - «collaboratore del Mossad» che, con un blitz «dalla tecnica militare» tanto perfetto da non escludere «aiuti e supporti esterni», in una manciata di ore è riuscito sabato 11 settembre a trasferire in Israele il nipotino, portandolo via dall'Italia dove viveva con la zia paterna sua tutrice legale. Un raid che è costato a Peleg (e anche alla sua ex moglie) l'imputazione di «sequestro di persona aggravato» da parte della Procura di Pavia che, proprio ieri, ha iscritto nell'elenco degli indagati anche l'autista dell'auto su cui «nonno Shmuel» ha trasportato Eitan dalla frazione Rotta di Travacò (Pavia) all'aeroporto di Lugano dove ad attenderli c'era il jet privato con destinazione Tel Aviv. Ora si scopre che anche questo autista misterioso autista israeliano, proprio come il Shmuel Peleg, sarebbe «vicino ai servizi segreti». Se entrambe queste «vicinanze» in odore di 007 con la Stella di David fossero vere, si rafforzerebbe l'ipotesi delle possibili «complicità» in «alto loco» su cui i Peleg avrebbero contato per realizzare il loro piano di kidnapping of child. Uno scenario, al momento più cinematografico che reale, rilanciato però da uno strano post (subito cancellato) pubblicato l'altro giorno da zio Ron Gali appartenente al ramo materno di Eitan (contrapposto a quello paterno) in risposta a una donna che sui social criticava aspramente l'operano dei Peleg. Ecco il messaggio firmato Ron Gali: «Aspetta di sapere chi ha dato un sostegno e un aiuto al sequestro di Eitan. E poi vedrai che starai zitta». Parole criptiche che possono significare tutto e nulla. Resta la domanda chiave: chi, come, dove e quando ha garantito a nonno Shmuel «supporto» e «aiuto»? Da oggi a Tel Aviv è arrivata dall'Italia zia Aya Biran (la sorella del papà defunto di Eitan) cui i Peleg hanno «scippato», con l'inganno, il nipotino che era stato affidato in custodia alla donna dopo la sciagura del Mottarone.

Aya Biran è decisa a riprendersi il bambino per riportarlo a casa nel Pavese dove da mesi viveva serenamente con i suoi due cuginetti; lì, se non fosse stato rapito, avrebbe dovuto iniziare anche a frequentare la scuola cattolica dove era stato iscritto: circostanza motivo di dissidio con l'altra componente ebraica della famiglia, intenzionata invece a far studiare e crescere il nipote in una scuola ebraica di Tel Aviv secondo i dettami più tradizionali della propria dottrina religiosa e culturale. Poi c'è lo spinoso tema del ricco patrimonio di Eitan, al quale tutti dicono di non essere interessati. Ma sarà vero? Intanto le accuse reciproche continuano. I Biran vanno giù duro: «I Peleg gli stanno facendo il lavaggio del cervello. Eitan va salvato al più presto». I Peleg rispondono a tono: «Noi Eitan lo abbiamo salvato. Con i Biran le sue condizioni di salute fisica e mentale erano pessime». L'udienza al tribunale di Tel Aviv per l'affido del piccolo è fissata per il 29 settembre. Fino ad allora, i colpi bassi saranno tutt'altro che proibiti. Nino Materi 

Da "tgcom24.mediaset.it" il 14 settembre 2021. Anche Etty Peleg, ex moglie di Shmuel Peleg e nonna materna di Eitan, è indagata per il sequestro del bambino di 6 anni. Il piccolo, affidato dal tribunale alla zia paterna, è stato portato in Israele con un volo privato l'11 settembre dal nonno. L'allarme dato dalla zia dopo che il nipote non è rientrato a casa al termine di una visita concordata tra le due famiglie. A sostenere la partecipazione anche della nonna materna nel rapimento era già stato nei giorni scorsi, lo zio paterno, Or Nirko,  marito delle zia Aya Biran. "La nonna materna di Eitan, Etty, era in Italia ed è parte del rapimento", aveva infatti detto, spiegando che la donna sosteneva "di essere rientrata in volo in Israele il giorno prima, questo a quanto pare per non essere esposta alla accusa di complicità". L'uomo ha poi aggiunto di "non credere che Eitan arrivi a comprendere di essere stato stato rapito. Mi immagino che la famiglia materna lo abbia persuaso che lui è tornato da una vacanza e che non sappia del reato compiuto a suo danno. Pot ete immaginarvi come ci sentiamo".

Eitan rapito e portato in Israele: "Chi è veramente il nonno". L'ombra del Mossad sul blitz in Italia. Andrea Cappelli su Libero Quotidiano il 13 settembre 2021. Dopo la tragedia che ha sconvolto la sua vita, il piccolo Eitan si trova ora al centro di una vicenda contorta, che chiama in causa dinamiche familiari dai contorni indefiniti. Il piccolo (6 anni), è l'unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, dove il 23 maggio scorso la caduta di una cabina della funivia ha provocato la morte di 14 delle 15 persone al suo interno. Tra le vittime anche i genitori, il fratellino e i bisnonni di Eitan. Nei mesi successivi al dramma si è consumata una controversia tra il ramo materno e quello paterno della famiglia per la custodia del piccolo, che sabato scorso è stato allontanato dalla casa della zia materna (a cui era stato legalmente affidato) e trasferito di gran fretta in Israele dal nonno paterno. In virtù di quest' azione repentina, la Procura di Pavia ha aperto un'inchiesta per sequestro di persona. E ora la comunità ebraica si chiede sgomenta come sia possibile che le autorità abbiano permesso che un bimbo di 6 anni potesse imbarcarsi in questo viaggio senza una delega. Riavvolgiamo il nastro: nelle ore successive al crollo della funivia, il giovane è stato ricoverato all'ospedale Regina Margherita di Torino; una volta dimesso è stato affidato alla zia paterna, Aya Biran-Nirko, medico di 41 anni residente a Travacò Siccomario (Pavia). 

ROUTINE - A spezzare questa routine è stato Shmuel Peleg, nonno materno di Eitan che dopo essere andato a trovare il piccolo sabato scorso (nell'ambito di una visita concordata) non lo ha più riportato indietro. Quella sera il ragazzo è infatti arrivato in Israele assieme al nonno: operazione resa possibile dal fatto che Peleg fosse in possesso del suo passaporto. Stando alle testimonianze dei Biran, il giudice tutelare aveva chiesto la restituzione del documento di Eitan per il 30 agosto ma i Peleg si sarebbero rifiutati di rispettare la consegna: così il nonno ha potuto imbarcare Eitan in un volo privato. Una dinamica che non convince Milo Hasbani, presidente della Comunità ebraica milanese, il quale si chiede «come abbiano fatto le autorità a far uscire un bimbo di 6 anni con un passaporto, da solo e senza una delega». Il fatto che si sia utilizzato un volo privato non sarebbe una spiegazione sufficiente, «considerando che anche i voli con aerei privati hanno regole ben precise». Dalla comunità ebraica milanese arriva anche una «decisa condanna nei confronti di questo gravissimo atto, che viola le leggi italiane e internazionali». A preoccupare il ramo paterno della famiglia è il fatto che Eitan sarebbe stato «strappato alle cure psicologiche e terapeutiche a cui era sottoposto», con il rischio di nuovi traumi. La zia che lo aveva in custodia ha inoltre affermato che Peleg «è stato condannato per maltrattamenti nei confronti dell'ex moglie, la nonna materna», ponendo anche la questione dello stato mentale e fisico della zia materna. Non si è fatta attendere la replica; a parlare è stata Gali Peleg, zia materna: «Non abbiamo rapito Eitan, lo abbiamo portato a casa come i suoi genitori volevano». 

RAMI FAMILIARI - A loro detta, il piccolo avrebbe molti più rapporti con loro che con l'altro ramo della famiglia: «Lei (Aya Biran, nda) non ha foto con lui». Secondo la testimonianza dei Peleg, una volta sbarcato Eitan avrebbe «urlato di eccitazione quando ci ha visto. Lui - ha aggiunto la zia materna hai genitori sepolti in Israele, è con una famiglia che conosce; abbiamo agito per il suo bene». A quanto sembra, uno dei moventi potrebbe essere proprio il timore, da parte del ramo materno, che vivendo in Italia Eitan potesse perdere l'identità ebraica. Nella serata di ieri Cristina Pagni, civilista che segue i Biran non esclude un contributo dei servizi segreti: «L'ipotesi aleggia ma non abbiamo certezza che il nonno ne facesse parte». In attesa di sviluppi resta il commento sconsolato di Aya Biran: «Eitan è cittadino italiano, è arrivato in Italia a un anno, la sua casa è a Pavia dove è cresciuto. Tutto il suo percorso di vita è stato a Pavia. Lo aspettiamo a casa e siamo molto preoccupati per la sua salute».

«Così il piccolo Eitan può tornare in Italia». Parlano gli esperti di diritto di famiglia. La vicenda del bimbo italo-israeliano sopravvissuto alla tragedia del Mottarone rappresenta un caso giudiziario delicatissimo, nel quale si intrecciano aspetti legali e diplomatici. Ne parliamo con il professor Claudio Cecchella e l’avvocata Grazia Cesaro. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 14 settembre 2021. La vicenda del piccolo Eitan, il bambino italo-israeliano, unico sopravvissuto al crollo della funivia del Mottarone, riportato in Israele dal nonno materno apre diversi fronti che inducono a fare alcune riflessioni di carattere giuridico. La Procura di Pavia ha aperto un fascicolo per sequestro di persona aggravato dalla minore età della vittima. Il bambino, sottratto con l’inganno, con la scusa che sarebbe uscito per una passeggiata e per delle compere, non ha fatto più ritorno nella casa di Pavia, dove vive con gli zii paterni e i cugini. Molti interrogativi sorgono sulla facilità con cui Shmulik Peleg è riuscito a condurre il nipote in Svizzera in auto per poi raggiungere con un aereo privato Israele, nonostante un avviso di divieto di espatrio emesso dalla questura di Pavia. Molti dubbi ed ombre avvolgono la figura del nonno materno, che, come dichiarato dalla zia paterna di Eitan, Aya Biran, sarebbe stato condannato proprio in Israele per maltrattamenti nei confronti della ex moglie. Peleg, inoltre, avrebbe avuto un passato (ed un presente?) nei servizi segreti. Di qui la dimestichezza nel pianificare e realizzare la fuga. Ora si attendono riscontri da parte di Israele su come intenda affrontare il caso e rapportarsi con l’Italia. Nella vicenda, destinata a non risolversi in breve tempo, si intrecciano aspetti legali e diplomatici. Un primo elemento che emerge riguarda l’esigenza del nonno e della zia materna di Eitan di educare il piccolo in Israele. Esigenza che ha portato alla commissione di un grave reato in Italia. Claudio Cecchella, ordinario di Diritto processuale civile nell’Università di Pisa e presidente dell’Ondif, ritiene molto delicato il caso giudiziario di Eitan. «Si pone all’attenzione – evidenzia – il tema della sottrazione internazionale del minore, che si verifica quando, contro la volontà di chi è titolare della responsabilità genitoriale, la zia, nel nostro caso per provvedimento giudiziale, il minore viene condotto all’estero o trattenuto all’estero. La vicenda di Eitan è  aggravata dalla inottemperanza ad un provvedimento giudiziale». Il bambino ha passaporto israeliano e questo spiega la facilità del trasferimento, ma è indubitabile la sottrazione e il conseguente illecito. «A questo punto – prosegue Cecchella – la titolare della responsabilità genitoriale può avviare un’azione internazionale per il rientro, secondo la convenzione dell’Aia del 1980, firmata anche dallo Stato israeliano, con una reazione che deve essere tempestiva, perché se ritardata potrebbe consolidare la residenza abituale del bambino nello Stato in cui è stato condotto». L’iter non si presenta però semplice.  «L’azione – rileva il docente dell’UniPisa – va avviata in via amministrativa con l’intervento dell’amministrazione italiana, Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, che prende contatto con quella straniera per promuovere il rientro, dovendo risolvere il tutto in sei settimane.  In alternativa agire direttamente innanzi alla autorità straniera, per giungere ad un ordine di rientro, ovviamente in tal caso con l’intervento di un avvocato anche straniero, via da percorrere se la via amministrativa non da esito. Detto provvedimento non è di affidamento, che resta tema comunque da risolvere su altre basi e che nel caso un giudice italiano ha risolto, attribuendo la responsabilità genitoriale alla zia». L’avvocata Grazia Cesaro spiega che «sono oggi ben 101 gli Stati che hanno ratificato la Convenzione, tra cui l’Italia e Israele, che ha sottoscritto la Convenzione nel 1991».«In Italia Eitan – aggiunge- per quello che ho compreso dai giornali,  è sottoposto alla tutela legale della zia materna, nominata tutore in conseguenza della morte di entrambi i genitori. La stessa ha dunque il potere di agire allo scopo di ottenere il ritorno in Italia di Eitan, condotto all’estero senza il suo consenso. La decisione sul ritorno in Italia di Eitan spetterà al competente Tribunale israeliano, adito per iniziativa della zia o per il tramite dell’Autorità Centrale italiana (Ministero della Giustizia, Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità), oppure con il patrocinio diretto di un legale nominato in loco». Il riconoscimento della figura della zia paterna in Israele è uno snodo di non poco conto. «A mio avviso – spiega Cesaro – uno dei problemi che potrebbe porsi  e potrebbe anche riguardare la riconoscibilità in Israele dei poteri della zia materna. Israele infatti non ha sottoscritto la Convenzione dell’Aja del 1996 sulla protezione dei minori che garantisce il riconoscimento automatico tra gli Stati membri dei provvedimenti assunti nell’interesse dei minori, tra cui la nomina di un tutore legale. In assenza di accordi tra i due Paesi sul mutuo riconoscimento delle decisioni minorili bisognerà dunque affidarsi al diritto internazionale privato israeliano per capire se vi siano i requisiti affinché possa dirsi riconosciuta la competenza dell’Italia, quale Paese di residenza abituale del minore alla morte dei genitori, a nominare la persona responsabile di decidere del futuro di Eitan in luogo dei genitori». Nel 1995 Israele ha modificato le proprie norme interne disciplinanti la procedura civile, per includere una speciale sezione che disciplina i procedimenti giudiziari in esecuzione della Convenzione dell’Aia. «Le nuove norme – conclude Cesaro – prevedono tempi rapidi per il deposito della domanda di ritorno, per la fissazione delle date delle udienze, per l’appello. In via del tutto teorica le norme sarebbero sufficienti per consentire all’autorità giudiziaria di addivenire a decisione entro il termine di sei settimane, come previsto dall’art. 11 Convenzione, tuttavia una serie di fattori può influenzare o meno il fatto che la decisione possa nella realtà dei singoli casi essere effettivamente raggiunta entro questo tempo: bisogna tener conto della complessità del caso e se è necessario affidare ad esperti l’esecuzione di una consulenza tecnica sul  nucleo familiare. L’Autorità Centrale israeliana (Ministry of Justice, Office of the State Attorney, Department of International Affairs) segue da vicino i singoli casi e ha il potere di chiedere conto ai Tribunali di eventuali ritardi».

Sopravvissuto alla strage del Mottarone ora il piccolo è al centro della contesa. Eitan conteso tra le famiglie, la zia paterna: “L’hanno rapito, fatelo tornare”. Il nonno: “No, ora è a casa”. Rossella Grasso su Il Riformista il 13 Settembre 2021. Non c’è pace per il piccolo Eitan Biran, il bambino di 6 anni, unico superstite della sua famiglia alla strage del Mottarone. Ora le famiglie, paterna e materna, si contendono il suo affido in un brutto botta e risposta a distanza. Il piccolo era stato affidato alla zia paterna che vive a Pavia. Ma il nonno paterno lo ha prelevato da quella casa durante uno dei consueti incontri autorizzati dal giudice tutelare. “Siamo sconvolti, l’hanno rapito”, ha detto la zia paterna Aya Biran. Subito è arrivata da Israele la replica della zia materna Gali Peleg, che ad agosto ha annunciato di aver avviato le pratiche per l’adozione del nipotino: “No, non l’abbiamo rapito: l’abbiamo portato a casa. Siamo stati obbligati, non abbiamo più saputo quali fossero le condizioni mentali e di salute del bambino”. Ancora Aya, la tutrice: “Eitan stava facendo un percorso di recupero: adesso questo percorso è stato interrotto”. No, ribatte Gali Pelag in un’intervista alla radio israeliana: “Il nostro amato Eitan è tornato in Israele dopo aver perso tutta la sua famiglia, così come volevano i suoi genitori. Dal momento in cui è arrivato qui, è in cura presso l’ospedale Sheba Tel Hashomer dove è trattato da uno staff medico di primo livello, a causa delle condizioni complesse e delicate in cui si trova”. Sono soprattutto le due zie a contendersi il nipotino rimasto orfano in un’assurda guerra fatta di giudici, avvocati e denunce. Una pena infinita per il piccolo già traumatizzato. “Prima il bambino era in condizioni mentali non buone. Al termine delle nostre visite piangeva, chiedeva se aveva fatto qualcosa di male”, ha attaccato Gali Peleg. “Eitan stava benissimo qui con noi, giocava con le sue cuginette ed era pronto ad andare a scuola”, ribatte Aya. Ora la famiglia materna mette anche in dubbio le cure e l’affetto che l’unico sopravvissuto alla strage del Mottarone ha ricevuto in Italia e sostiene che in Israele possa essere curato meglio. In Italia la procura di Pavia indaga per sequestro di persona, con il nonno Shmuel Peleg che rischia l’accusa di sottrazione internazionale di minore che può prevedere il mandato di cattura. L’uomo aveva già violato le disposizioni delle autorità italiane non restituendo entro il 30 agosto il passaporto del piccolo, che è cittadino italiano. Ad una domanda sulla tutela del bambino data dal giudice italiano alla zia paterna Aya, Gali Peled ha risposto: “A me il lato legale non interessa. Abbiamo agito per il bene del bambino. Noi non ci interessiamo della convenzione dell’Aja. Solo il bene di Eitan ci interessa. Cosa avremmo potuto mai dirgli se, da grande, ci avesse rinfacciato di non averlo riportato in Israele, o almeno di aver tentato?”. Sulla possibilità di farlo tornare in Italia, Gali Peleg è stata netta: “Il lato legale non ci interessa. Volevamo raggiungere una intesa con Aya. Volevamo che Eitan avesse una unica famiglia”. Una guerra familiare dolorosa e che probabilmente sarà anche molto lunga. Sta di fatto che a Eitan spetterà il risarcimento per l’incidente che costò la vita al fratello, ai genitori e ai bisnonni.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

La procura ha aperto un fascicolo per sequestro di persona. “Nonno di Eitan condannato per maltrattamenti”, la denuncia della zia: il bimbo scampato al Mottarone in Israele. Vito Califano su Il Riformista il 12 Settembre 2021. La Procura di Pavia ha aperto un fascicolo per sequestro di persona a seguito della denuncia di Aya Biran: la donna è la zia di Eitan, il bambino di sei anni, unico sopravvissuto alla strage della funivia del Mottarone dello scorso maggio, che ieri non è tornato a casa a Pavia dopo essere stato per una giornata con il nonno materno Shmuel Peleg. L’uomo, 58enne, avrebbe portato con un volo privato il bambino in Israele. La notizia è stata confermata dai due legali che seguono la zia paterna Aya Biran, l’avvocato Armando Simbari, e la nuova protutrice di Eitan, l’avvocatessa Barbara Bertoni. Il piccolo era da mesi in mezzo a un tira e molla tra i due rami della famiglia per l’affidamento. “Ieri è avvenuto un evento gravissimo, un’altra tragedia per Eitan” che, “come programmato, è stato preso dal nonno materno Shmuel per una giornata in compagnia dei nonni. Ha lasciato la casa solo con i suoi vestiti estivi, il girello e la carrozzina dicendo alle cugine “ci vediamo stasera” e promettendo di comprare anche a loro un giocattolo. Eitan non è tornato mai a casa”. Queste le parole della donna ai giornalisti riuniti in un punto stampa. Il piccolo sta meglio, dopo una lunga convalescenza, si sta riprendendo bene ma è seguito da un fisiatra e una fisioterapista e costantemente deve sottoporsi a delle visite, ha aggiunto la donna. Questa settimana ne avrebbe avute due, a Torino e a Pavia. Il piccolo domani avrebbe dovuto iniziare la prima elementare. Era stato iscritto alla scuola dai suoi genitori a gennaio 2020, nello stesso istituto dove aveva frequentato la scuola materna. Aya Biran non ha nascosto la sua preoccupazione: “Eitan è cittadino italiano, non solo israeliano. Pavia è la sua casa dove è cresciuto, noi lo aspettiamo a casa. Siamo molto preoccupati per la sua salute. Eitan è arrivato in Italia che aveva solo un anno e 18 giorni, ha vissuto tutta la sua vita in Italia”. Altri aspetti preoccupano la donna: “Con questa mossa unilaterale e gravissima della famiglia Peleg, vedo come mio dovere sottolineare alle autorità Israeliane quanto già conosciuto al sistema giuridico italiano, sempre per il benessere di Eitan: il nonno materno Shmuel Peleg è stato condannato per maltrattamenti nei confronti della sua ex moglie, la nonna materna. Per questa condanna Shmuel ha presentato 3 istanze di appello a 3 gradi di giudizio in Israele e tutti e 3 hanno rigettato i suoi appelli, sottolineando la gravità e la ricorrenza degli eventi violenti nei confronti della ex moglie”. La donna ha quindi esortato le autorità israeliane a “guardare in profondità nelle cartelle cliniche pubbliche e non private per scoprire la verità sullo stato di salute mentale e fisico della zia materna, Gali Pelel Peri”. Il Corriere della Sera scrive persino che Eitan Biran, lo zio di Eitan, avrebbe fatto o farebbe parte dei servizi segreti. Il blitz comunque è stato eclatante. La magistratura aveva affidato il bambino alla zia paterna e il giudice tutelare di Pavia permesso le visite dei familiari della famiglia materna. Il piccolo doveva rientrare verso le 18:30, ieri pomeriggio, un’ora dopo è scattato l’allarme. Gli accertamenti della Polizia hanno portato alla scoperta: lo zio era in possesso del passaporto e i due si erano imbarcati per Tel Aviv. Fonti diplomatiche hanno confermato lo sbarco. La zia ha anche sottolineato come Peleg avrebbe dovuto consegnare il passaporto del nipote come ordinato dal giudice, ma la richiesta è stata ignorata. La giudice avrebbe ordinato la consegna entro il 30 agosto 2021. Non è chiaro perché il nonno materno fosse in possesso del documento. Gali Peleg, zia materna del piccolo, alla Radio israeliana 103, ha rassicurato sulle condizioni di salute del piccolo e dichiarato: “Siamo stati obbligati, non avevamo più saputo quali fossero le sue condizioni mentali e di salute. Potevamo solo vederlo per breve tempo. Ci hanno tenuto nascoste le sue condizioni di salute. Lo abbiamo riportato a casa, così come i genitori volevano per lui“. La donna ha aggiunto che il piccolo avrebbe urlato di emozione: “Finalmente sono in Israele”. E ancora: “A me il lato legale non interessa. Abbiamo agito per il bene del bambino. Noi non ci interessiamo della convenzione dell’Aja. Solo il bene di Eitan ci interessa. Cosa avremmo potuto mai dirgli se, da grande, ci avesse rinfacciato di non averlo riportato in Israele, o almeno di aver tentato?”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Israele nega coinvolgimento sul caso. Eitan, il nonno indagato per sequestro: giallo sul parere legale del governo favorevole alla "restituzione" del piccolo. Vito Califano su Il Riformista il 13 Settembre 2021. Potrebbe essere già a un punto cruciale la vicenda di Eitan Birain, il bambino di sei anni, unico sopravvissuto della strage della funivia del Mottarone, portato in Israele dal nonno materno Shmuel Peleg, 58 anni. La Procura di Pavia ha aperto un fascicolo per sequestro di persona aggravato, con indagato lo stesso Shmuel Peleg. Una notizia commentato così dai legali dell’uomo: “Dopo essere stato estromesso dagli atti e dalle udienze e preoccupato dalle condizioni di salute del nipotino, ha agito d’impulso”». Peleg, si legge in una nota, “ha portato Eitan in Israele dopo aver tentato invano per mesi di poter portare la voce della famiglia materna nel procedimento civile di nomina del tutore”. Il team di legali si dicono “fiduciosi che potrà tornare a discutersi del suo affidamento nelle sedi opportune”. “Le azioni di prepotenza sono sempre sbagliate – chiariscono – però mettiamoci nei panni di un signore che in terra straniera perde 5 familiari tragicamente, al quale i medici non parlano e gli avvocati dicono che il procedimento civile di tutela di Eitan è stato fatto in modo sommario. Noi ci impegneremo perché vengano riconosciuti i diritti della famiglia materna, dopodiché confidiamo che Shmuel ritorni ad avere fiducia nelle istituzioni Italiane e ci impegneremo in tal senso”.

IL GIALLO DEL DOCUMENTO ISRAELIANO – Le autorità israeliane nel pomeriggio hanno smentito la ricostruzione dell’emittente Channel 12, secondo la quale il ministero degli Esteri e quello della Giustizia avevano espresso il parere legale che il bambino venisse riportato in Italia e restituito al tutore legale, ovvero la zia paterna Aya Biran. A riportare la notizia è il quotidiano israeliano Jerusalem Post, che riferisce come entrambi i ministeri abbiano negato lo ‘scoop’ dell’emittente tv. In particolare un portavoce del ministero degli Esteri ha sottolineato che il caso non riveste aspetti diplomatici o politici e quindi non rientra tra le loro competenze, pur essendo le autorità informate degli sviluppi della vicenda. Channel 12 questa mattina aveva fatto riferimento ad un parere legale del governo israeliano emesso da esperti dei ministeri degli Esteri e della Giustizia in cui si evidenziava che la ‘mossa’ messa in atto dal nonno di Eitan avrebbe violato la Convenzione dell’Aja sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori, adottata in Israele nel 1991 e che le autorità avrebbero fatto tutto quanto in loro potere per restituire il bambino al tutore legale in Italia il prima possibile.

LA CONTESA LEGALE – Il piccolo era stato affidato dal Tribunale dei minori di Torino alla zia paterna Aya Biran, medico, 41enne, che vive a Travacò Siccomario, in provincia di Pavia, con il marito Or Nirko e due figlie che frequentano la stessa scuola di Eitan. La scuola dove oggi il bambino avrebbe dovuto cominciare la prima elementare. Lo scorso 23 maggio il bambino era sulla linea della funivia Stresa-Alpino-Mottarone, in provincia di Verbano-Cusio-Ossola, quando un incidente ha causato la morte di 14 persone tra cui il padre Amit Biran, 30 anni, della madre Tal Peleg, 26 anni, i bisnonni Barbara Konisky e Yytzhak Cohen, di 71 e 81 anni. Il bambino è stato l’unico superstite della tragedia. Ha affrontato una lunga convalescenza ed è ancora sottoposto a frequenti visite. Le sue condizioni sono migliorate ma è comunque costretto a uscire con una carrozzina e il girello. Da mesi è ormai al centro di una contesa tra le due famiglie per l’affidamento. Sabato scorso Shmuel Peleg, 58 anni, ex militare, nonno paterno, avrebbe prelevato il piccolo poco dopo le 11:00 di mattina. Avrebbe dovuto riportarlo a casa entro le 18:00. Nel giro di un’ora è scattato l’allarme. Peleg sarebbe andato in Svizzera, a Lugano. Era in possesso del passaporto israeliano di Eitan, nato in Israele ma cresciuto fin da neonato in Italia. Un volo charter privato ha portato i due a Tel Aviv. I legali della zia paterna e la stessa zia paterna sostengono che il passaporto doveva essere riconsegnato dal nonno il 30 agosto. E che il piccolo non avrebbe potuto lasciare l’Italia senza la tutrice o senza la sua autorizzazione. L’avvocato di Aya Biran Cristina Pagni ha fatto sapere di voler attivare la Convenzione Internazionale dell’Aja. La zia ieri aveva segnalato che “il nonno materno Shmuel Peleg è stato condannato per maltrattamenti nei confronti della sua ex moglie, la nonna materna. Per questa condanna Shmuel ha presentato 3 istanze di appello a 3 gradi di giudizio in Israele e tutti e 3 hanno rigettato i suoi appelli, sottolineando la gravità e la ricorrenza degli eventi violenti nei confronti della ex moglie”. Alcuni giornali hanno scritto che l’uomo potrebbe far parte o avrebbe fatto parte dei servizi segreti. La nonna materna, al Jerusalem Post, ha detto che Eitan “voleva tornare in Israele da tempo. Sua zia e suo zio in Italia hanno proibito a me e mio marito di incontrare i suoi medici e terapisti”. Gali Peleg, zia materna del piccolo, alla Radio israeliana 103, aveva rassicurato ieri sulle condizioni di salute del piccolo e dichiarato: “Siamo stati obbligati, non avevamo più saputo quali fossero le sue condizioni mentali e di salute. Potevamo solo vederlo per breve tempo. Ci hanno tenuto nascoste le sue condizioni di salute. Lo abbiamo riportato a casa, così come i genitori volevano per lui“. La donna ha aggiunto che il piccolo avrebbe urlato di emozione: “Finalmente sono in Israele”, una volta sbarcato. E ancora: “A me il lato legale non interessa. Abbiamo agito per il bene del bambino. Noi non ci interessiamo della convenzione dell’Aja. Solo il bene di Eitan ci interessa. Cosa avremmo potuto mai dirgli se, da grande, ci avesse rinfacciato di non averlo riportato in Israele, o almeno di aver tentato?”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

"Gli aeroporti svizzeri autorizzati sono 3 e non c'è Lugano". Caso Eithan: il giallo del volo di ritorno, Anzaldi: “Poteva partire solo con ok del Governo israeliano”. Riccardo Annibali su Il Riformista il 14 Settembre 2021. Sul caso di Eitan Biran, il bambino di sei anni unico sopravvissuto della strage della funivia del Mottarone portato in Israele dal nonno materno Shmuel Peleg, aleggia più di un mistero. Dopo l’apertura del fascicolo da parte della Procura di Pavia per sequestro di persona aggravato, Michele Anzaldi (Iv) richiede un’interrogazione ai ministri dell’Interno, degli Esteri e delle Infrastrutture e Trasporti su “come sia stato possibile che un bambino minorenne, su cui vigeva un divieto di espatrio in assenza dei tutori legali, sia potuto salire su un volo privato diretto in un paese straniero”. Il nodo centrale, secondo Anzaldi, sarebbe proprio l’impossibilità di volare da un aeroporto svizzero non autorizzato a far decollare aerei che atterrino nello stato di Israele. Il Ministero dei Trasporti israeliano – scrive Anzaldi che ha presentato un’interrogazione ai ministri Di Maio, Lamorgese e Giovannini – stila una lista di aeroporti internazionali dai quali sono consentiti i voli di linea e non di linea nel Paese. Per quanto riguarda la Svizzera gli aeroporti autorizzati sono solo tre: Zurigo, Basilea e Ginevra. Non figura, quindi Lugano”. “Come ha fatto, allora – domanda Anzaldi – quel volo a partire da Lugano e arrivare a Tel Aviv? A meno che il volo non abbia ricevuto un’autorizzazione speciale del Governo israeliano e in quel caso ci sarebbero addirittura complicità governative. Non avrebbe dovuto essere consentito neanche se a bordo ci fossero stati passeggeri regolari. In questo caso abbiamo avuto, invece, addirittura la presenza di un minore non accompagnato dai suoi tutori legali. Un caso doppiamente grave. Per questo è urgente che il Governo italiano, anche avviando le necessarie interlocuzioni con le autorità straniere coinvolte, dica che cosa è successo”. Come ricostruito, sabato 11 settembre il piccolo Eitan Biran è stato portato in Israele dal nonno materno, sebbene gli affidatari legali del bimbo fossero gli zii paterni. L’11 agosto scorso il giudice tutelare di Pavia aveva emanato un decreto con cui vietava l’espatrio a Eitan, salvo che in presenza o con l’autorizzazione della sua tutrice, la zia paterna. Il decreto sarebbe stato quindi trasmesso alla Prefettura e alla Questura di Pavia con l’ordine di diramarlo a tutti i punti di frontiera e di inserirlo nelle banche dati delle forze di polizia che controllano le frontiere. Gli zii paterni hanno denunciato quello che ritengono un vero e proprio "rapimento", dicendo di voler attivare la Convenzione internazionale dell’Aja sulle sottrazioni internazionali di minori. Il viaggio di Eitan in Israele sarebbe avvenuto, come ricostruito ancora dagli organi di stampa, attraverso un volo privato da Lugano a Tel Aviv, sebbene peraltro Lugano non figuri tra gli scali autorizzati per motivi di sicurezza dal Governo israeliano per i voli diretti con l’aeroporto di Tel Aviv. “Se il Governo non ritenga doveroso e urgente attivarsi per accertare come sia stato possibile che un bambino minorenne, su cui vigeva un divieto di espatrio in assenza dei tutori legali, sia potuto salire su un volo privato diretto in un paese straniero, ricostruire con esattezza il percorso seguito dal piccolo Eitan e se abbia utilizzato mezzi di trasporto pubblici, come ad esempio treni ed appurare eventuali responsabilità nei mancati controlli e verifiche” richiede Anzaldi. Riccardo Annibali 

La strage del Mottarone. Eitan, il nonno agli arresti domiciliari in Israele: anche la nonna materna indagata per sequestro. Redazione su Il Riformista il 14 Settembre 2021. La polizia israeliana ha arrestato e posto ai domiciliari Shmuel Peleg, nonno di Eitan Biran accusato dalla magistratura italiana di aver rapito il bambino, unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, con destinazione Israele. L’uomo era stato interrogato nel pomeriggio dalla polizia, dall’unità speciale 433: il provvedimento degli arresti domiciliari è previsto fino a venerdì e gli è stato trattenuto il passaporto. “A me risulta che gli sia stato chiesto di restare a disposizione della polizia”, ha invece commentato la notizia Paolo Sevesi, legale di Shmuel Peleg. Allo stato, scrive l’Ansa, non pare che la decisione delle autorità israeliane sia legata a un mandato d’arresto italiano. Le indagini sul caso del bambino di 6 anni scampato alla strage dello scorso 23 maggio arrivano dunque ad una prima svolta: il nonno materno è accusato di aver portato via da Pavia il bambino. Oltra a lui è indagata anche la nonna materna, Ester Cohen Peleg. Secondo il legale del nonno, il bambino, che si trova ancora in Israele, “sta bene”. Opposte le parole dello zio italiano, Or Nirko, marito della zia paterna Aya Biran, tutrice legale del piccolo. “La famiglia Peleg detiene Eitan come i soldati dell’Idf sono tenuti prigionieri nella prigione di Hamas”, ha detto in un’intervista a N12, aggiungendo che si rifiutano “di dire dove si trova il bambino, lo nascondono in una specie di buco”. Per questo i nonni paterni si sono mossi per vie legali presentando istanza di rientro al tribunale di Tel Aviv, che non dovrebbe trovare opposizione. “Le autorità israeliane stanno seguendo questo triste caso e se ne occuperanno in collaborazione con l’Italia, a beneficio del minore e in conformità con la legge e le convenzioni internazionali pertinenti”, fa sapere l’ambasciata israeliana in una nota in cui si precisa che si seguiranno “la legge e le convenzioni internazionali pertinenti”, con un richiamo chiaro alla Convenzione dell’Aja.

Dagonews il 14 settembre 2021. Il piccolo Eitan, rapito dal nonno e portato in Israele, sta giustamente ricevendo dalle istituzioni tutta l'attenzione possibile. Ma pare che lo stesso non valga per gli altri minori sottratti ai genitori. Il 2 settembre (dieci giorni prima che scoppiasse il caso di Eitan) il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, ha rifiutato un incontro all'associazione "Figli sottratti", che raccoglie i genitori che si sono visti portare via un figlio all'estero, per il "periodo ricco di impegni". La Segreteria non ha neanche pensato di affidare l'incontro a un membro del gabinetto, a un collaboratore, che avrebbe potuto raccogliere le istanze dell'associazione. Che beffardo e infido il destino: la Cartabia non aveva tempo per i figli sottratti e pochi giorni dopo scoppia il caso Eitan. Chissà se nell'agenda del ministro ora si troverà uno spazio…

La richiesta di incontro al ministro Cartabia dell'associazione "Figli Sottratti". Egregio Ministro, sono Paolo Pozza presidente dell'associazione Figli Sottratti, la ns. associazione si occupa di sottrazione internazionale di Minori ed è composta da genitori che hanno subito la sottrazione dei propri figli da parte dell'altro genitore. Le chiedo un incontro per parlare delle possibili soluzioni per questo problema sociale che negli anni ha riguardato migliaia di bambini italiani che non sono più tornati a casa e che hanno perso qualsiasi contatto con il genitore italiano nonostante tutti gli sforzi fatti per rivedere i propri figli. Contiamo sulla sua sensibilità e attendiamo un appuntamento per parlare delle soluzioni concrete del problema. Buona giornata Paolo Pozza

Risposta della Segreteria del ministro. Gentilissimo, pur prendendo atto della Sua richiesta, siamo spiacenti di comunicare che, visto il periodo particolarmente ricco di impegni, per la Signora Ministra al momento non è possibile fissare ulteriori impegni in agenda, pur considerando la delicatezza dei temi da Lei evidenziati. Un cordiale saluto, La Segreteria

Eitan, prima udienza del processo: raggiunta intesa tra le famiglie per gestione condivisa. Debora Faravelli il 23/09/2021 su Notizie.it. Le famiglie Peleg e Biran hanno raggiunto un'intesa durante la prima udienza del processo: gestiranno Eitan in maniera condivisa fino all'8 ottobre. Durante la prima udienza del processo sul caso di Eitan, l’unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone rapito e portato in Israele dal nonno, le due famiglie materna e paterna hanno raggiunto un’intesa per la gestione della routine del piccolo, che rimarrà a Tel Aviv fino all’8 ottobre. Ad annunciarlo sono stati gli avvocati della famiglia Biran usciti dal tribunale, che hanno anche fatto sapere che si tratta di una intesa volta a mantenere la privacy del bambino che ha bisogno di tranquillità. Entrambi i nuclei hanno infatti chiesto il totale silenzio stampa sulla vicenda: “Non pubblicheremo nessuna informazione né sul contenuto dell’udienza né sulle condizioni di salute di Eitan e chiediamo alla stampa di fare altrettanto“. Il giudice Iris Ilotovich Segal ha dunque stabilito che Eitan resti in Israele fino all’8 ottobre, giorno in cui riprenderanno le udienze per tre giornate consecutive. Fino a quel momento il bimbo potrà vedere entrambe le famiglie e trascorrerà metà del tempo con i Peleg e metà con la zia paterna Aya Biran, tutrice legale. Secondo quanto appreso dovrebbero essere tre giorni a testa per ciascun ramo familiare. Prima di entrare in aula, Aya si era detta preoccupata e volenterosa di vedere Eitan a casa: “Voglio solo entrare e iniziare la giornata, sono preoccupata“. Il processo si è svolto a porte chiuse con presenti soltanto la zia e il nonno presso il quale si trova il bambino.

Eitan "diviso" a metà. Per ora resta in Israele. Chiara Clausi il 24 Settembre 2021 su Il Giornale. Il giudice impone la custodia condivisa tra le due famiglie in guerra. E il silenzio stampa. La quiete dopo la tempesta, anche se la strada è ancora lunga da percorrere e tutta in salita. A quasi due settimane dal rapimento del piccolo Eitan, c'è una prima intesa tra le famiglie Biran e Peleg per «gestire» la routine dell'unico sopravvissuto della tragedia del Mottarone. Nel braccio di ferro tra la zia paterna, Aya Biran, e il nonno materno, Shmuel Peleg, la giudice Iris Ilotovich Segal si è espressa a favore di una custodia temporanea «condivisa» del bimbo, che per ora resterà in Israele e passerà tre giorni con ciascun ramo familiare, fino alla prossima udienza fissata per l'8 ottobre. Nel frattempo - hanno aggiunto gli avvocati - le famiglie hanno chiesto il totale silenzio stampa per proteggere il bambino. Le intese raggiunte prevedono - hanno poi precisato i legali - che venga mantenuta «la privacy del bambino, che in questo momento ha bisogno di tranquillità». «Non pubblicheremo nessuna informazione né sul contenuto dell'udienza né sulle condizioni di salute di Eitan e chiediamo alla stampa di fare altrettanto». La giudice ha consentito la presenza in aula solo di Shmuel Peleg e di Aya Biran, il resto della famiglia è stato fatto uscire. L'udienza si è svolta a porte chiuse. I legali del nonno materno però hanno fatto trapelare la soddisfazione per la decisione: «Per la prima volta un tribunale ha posto al centro l'interesse del minore. Non è una partita tra Israele e Italia: Eitan ha due famiglie e ha diritto di godere in modo egualitario di entrambe», ha sottolineato l'avvocato Sara Carsaniga. «Questo bambino non ha una famiglia di serie A e una di serie C», ha poi precisato. Poi Carsaniga ha posto dei dubbi anche su un altro aspetto: «La zia Aya ha portato via Eitan dall'ospedale a casa senza un provvedimento del giudice». E ha continuato: «È una storia molto complessa che inizia con la zia che, dopo il ricovero in ospedale di Eitan, lo porta a casa ma ci vuole una decisione del giudice perché ciò avvenga e questa decisione non esiste». La decisione del Tribunale di Pavia di nominare la zia Aya tutrice legale, per Carsaniga, «non rispettava l'interesse del minore». «Il giudice israeliano - chiarisce l'avvocato - ha applicato la Convenzione dell'Aja. I miei assistiti sono contenti perché non hanno mai pensato di escludere la zia Aya. Sono i Biran, invece, che volevano escludere l'altro lato della famiglia». Nessun commento dalla zia che ieri mattina, prima di entrare in aula per l'udienza, aveva espresso così il suo dolore: «Non voglio altro che il ritorno di Eitan a casa il prima possibile. Sono preoccupata per lui». In tribunale, oltre ai due principali contendenti, si è presentata anche Gali, sorella della madre di Eitan, che con il marito Ron Peri ha espresso il desiderio di adottare il nipote. Proprio su chi siano gli affidatari e quale sia il luogo di residenza del bambino si gioca ora la partita. Per la famiglia paterna, i Biran, Eitan è stato rapito dal nonno e deve essere riportato in Italia dove è sempre vissuto. I Peleg invece sono convinti che non ci sia stato alcun rapimento perché i suoi genitori volevano riportarlo in Israele che è la sua vera casa. Il nonno e la sua ex moglie e nonna del piccolo, Etty Peleg Cohen - presunta complice - sono entrambi indagati per sequestro di minore, insieme all'autista dell'auto che li ha condotti dall'Italia alla Svizzera per imbarcarsi alla volta di Tel Aviv. Tutti i parenti sono apparsi terribilmente provati e commossi per la vicenda processuale. Chiara Clausi

Da "Oggi" il 29 settembre 2021. «Eitan viene manipolato dai nonni che l’hanno rapito: quando gli zii affidatari gli parlano in videochiamata risponde stranito, ripete a macchinetta frasi non sue. Poi si guarda attorno nella stanza, come a cercare conferma di aver ben eseguito gli ordini. È straziante». Dopo la decisione del tribunale israeliano di trattenere in Israele il piccolo sopravvissuto della tragedia del Mottarone, una fonte rivela a OGGI, in edicola da domani, la sofferenza di Eitan Biran, il piccolo sopravvissuto alla tragedia del Mottarone rapito dal nonno materno Shmuel Peleg. L’articolo in uscita domani su OGGI rivela poi dettagli inediti sull’organizzazione del sequestro, a partire dalle pressioni dei nonni rapitori per procurarsi il passaporto del bambino. «Il piano era in preparazione da mesi: un’israeliana che vive in Italia ha sporto denuncia spiegando che già a luglio era stata contattata da un uomo che le aveva offerto molti soldi per collaborare al sequestro», rivela a OGGI un’amica di famiglia, a Pavia. «Nelle ultime settimane prima della fuga, poi, i nonni portavano Eitan in giro per il metrò di Milano per saggiare la sua reazione a luoghi sconosciuti e lo riconsegnavano agli zii Aya e Or sempre più tardi, perché il giorno del rapimento non si mettessero in allarme».

Eitan, la nonna furiosa: "L'Italia ha ucciso tre generazioni della mia famiglia, non posso perderlo". Libero Quotidiano l'08 ottobre 2021. "L'Italia è responsabile della morte di mio padre, mia figlia e mio nipote. Non possono perdere anche Eitan". Lo ha detto Ester Coen Peleg, la nonna materna del bambino unico sopravvissuto alla strage del Mottarone. Al termine dell'udienza sulla vicenda in Israele la donna, che non è stata ammessa al dibattimento in aula, ha detto: "Cosa mi è rimasto, lo capite?". "Sapete perché sono fuori dall'aula? Perché una donna giudice in Israele ha detto che, siccome non era ammesso al console italiano di entrare in aula, ha negato il permesso anche a me. Io sono la nonna", ha sottolineato la donna. Esther Cohen Peleg ha poi aggiunto che lo stesso "è successo anche in Italia nel momento in cui io ero a lutto per mia figlia e non mi hanno dato possibilità di esprimermi". Le udienze riprenderanno domani sera alla fine del riposo ebraico. Gli avvocati di entrambe le parti, al termine della sessione non hanno voluto rilasciare alcun commento. Esther Cohen Peleg ha poi aggiunto che lo stesso "è successo anche in Italia nel momento in cui io ero a lutto per mia figlia e non mi hanno dato possibilità di esprimermi".  Il portavoce della famiglia Biran, in una nota diffusa prima dell'avvio dell'udienza, ha detto che quella di oggi "non riguarda la questione del bene del bambino, né il suo affidamento, né quant'altro". L'udienza, ha aggiunto, "sarà centrata solo sulla questione della restituzione del bambino rapito sulla base della convenzione dell'Aja". 

I giudici devono decidere se il bambino deve tornare in Italia. “L’Italia ha ucciso la mia famiglia, lasciatemi Eitan”, il grido della nonna all’udienza a Tel Aviv. Elena Del Mastro su Il Riformista l'8 Ottobre 2021. “L’Italia è responsabile della morte di mio padre, di mia figlia e dell’altro mio nipote. Non può prendersi anche Eitan”. Furi al Tribunale per la Famiglia di Tel Aviv la nonna Esther Cohen grida per far sentire la sua voce visto che non l’hanno fatta entrare per assistere alla seconda udienza per stabilire a chi sarà affidato il piccolo, unico superstite della strage del Mottarone. La seconda udienza è stata lunga e combattuta e soprattutto a porte chiuse. In aula si sono fronteggiati la zia paterna di Eitan, Aya Biran Nirko, sua tutrice legale, e il nonno materno Schmuel Peleg, che ha portato in Israele il bambino l’11 settembre. Un gesto per il quale è indagato a Pavia per sottrazione di minore in concorso con la nonna Esther Cohen e con un terzo cittadino israeliano, che lo avrebbe aiutato a raggiungere in auto la Svizzera, dove nonno e nipote hanno preso un aereo privato per Tel Aviv. Proprio per stabilire se la decisione del nonno, che ha portato via il nipote all’insaputa della zia, abbia violato la Convenzione dell’Aja e se il bambino debba rientrare in Italia, la giudice ha ascoltato gli esperti nominati da entrambe le famiglie. Intervenuti dall’Italia in video conferenza, dopo aver stilato nei giorni scorsi dei pareri pro veritate, hanno illustrato le ragioni per le quali Eitan dovrebbe fare rientro a Pavia, dov’è cresciuto e dove abitava con i genitori e dove abitano gli zii paterni, o al contrario restare in Israele, dove risiede il resto della sua famiglia. La zia Aya, il nonno e gli altri familiari verranno sentiti nel corso delle prossime due udienze, già fissate per domani sera, dopo il riposo ebraico e domenica. Fuori dall’aula, invece, è rimasta la nonna Esther Cohen, che ha protestato per essere stata esclusa dall’udienza e si è sfogata con i giornalisti, dicendo che non le è stata data la possibilità di esprimersi e ricordando che nel crollo della funivia ha perso tutta la famiglia e se Eitan dovesse rientrare a Pavia rischierebbe di perdere anche lui. “Siamo una famiglia in lutto, abbiamo perso tre generazioni e adesso state distruggendo anche l’immagine di mia figlia”, ha detto. Il bambino ha anche la cittadinanza italiana grazie a lei, che ha lontane origini livornesi. Durante il lockdown la nonna materna ha trascorso molti mesi con la figlia, il genero che studiava medicina come la sorella, anche lei medico e laureata a Pavia, Eitan e il fratellino, che non è sopravvissuto. Gli avvocati di entrambe le parti, al termine della sessione di oggi, non hanno voluto rilasciare alcun commento. Al termine delle due udienze, in programma nei prossimi due giorni, la giudice potrebbe richiedere ulteriori approfondimenti oppure prendere del tempo per rendere nota la sua decisione.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Nonna di Eitan contro la zia "italiana" "Si è impadronita di gioielli e soldi". Nino Materi il 16 ottobre 2021 su Il Giornale. Siamo arrivati perfino alla denuncia per «furto di gioielli». Se questi sono i «segnali di pace», figuriamoci quando arriveranno i segnali di guerra. Ormai volano gli stracci - e anche qualcosa di peggio - tra il «ramo Peleg» e il «ramo Biran» che si contendono da mesi il povero Eitan. Lui, un bambino di 9 anni, già segnato dal destino, e ora ancor più segnato da una faida familiare dai contorni sempre più cinici. Colpi bassi a ripetizione. Dopo il rapimento del piccolo si pensava di aver toccato il fondo. Ma in questa storia al peggio sembra non esserci mai fine. E dire che i nonni materni e gli zii paterni - cioè i due fronti contendenti in lizza per «il bene» (si fa per dire) del bimbo - avevano giurato di «comportarsi civilmente» e di «collaborare nell'interesse del bimbo». Buoni propositi che i fatti si sono incaricati di smentire clamorosamente. Ieri l'ultimo, imbarazzante, colpo di scena. Etty Peleg Cohen, nonna materna di Eitan, ha denunciato alla polizia di Tel Aviv Aya Biran Nirko, zia paterna di Eitan, unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone in cui ha perso i genitori, il fratellino e i bisnonni. Secondo quanto riferito dalla tv israeliana N12 cui la denuncia ai danni della zia che ha in custodia il bambino si riferisce all'«uso illegale di cellulari ritrovati nell'abitazione dei genitori di Eitan; al furto di gioielli, Ipad, macchine fotografiche e all'uso illegale dei contenuti del computer». Sullo sfondo la causa in corso in Israele per decidere il futuro del bimbo: il giudice di Tel Aviv dovrà dire se Eitan può rimanere a Tel Aviv dopo che il nonno materno lo ha rapito dall'Italia o se il bambino dovrà tornare a Pavia nella casa della zia paterna. Nella denuncia della nonna materna si afferma anche che «la famiglia Biran Nirko ha attivato una raccolta di fondi in rete destinati presumibilmente al benessere e al trattamento psicologico di Eitan», ma che tali soldi sarebbero «stati utilizzati per le spese legali». L'emittente ha ripreso una dichiarazione della donna all'uscita dal posto di polizia di Tel Aviv. «Sono la nonna di Eitan - ha detto nel servizio - e faccio di tutto per proteggerlo. Spero che riusciremo a tenerlo qui in Israele e che il bambino viva nella sua patria e con il suo popolo». N12 ha riportato anche una reazione degli avvocati di Aya Biran Nirko secondo cui la «denuncia è infondata»; «Quando una persona è sconvolta non bisogna giudicarla. Siamo dispiaciuti per la condotta della nonna», hanno aggiunto gli avvocati Avi Chimi e Shmuel Moran. Etty Peleg è l'ex moglie di Shmuel Peleg, accusato di aver portato illegalmente Eitan in Israele. I due sono indagati in Italia, insieme all'uomo alla guida dell'auto che l'11 settembre ha portato nonno e nipote a Lugano, da dove si sono imbarcati alla volta di Tel Aviv. Il giudice israeliano applicherà quanto previsto dalla Convenzione dell'Aia, per il rientro immediato in patria dei bambini rapiti? La decisione è attesa nei prossimi giorni.

Davide Frattini per il “Corriere della Sera” il 16 ottobre 2021. La giudice ha ascoltato i testimoni per tre giorni di fila la settimana scorsa, fino a notte fonda e anche il sabato sera alla fine del giorno di riposo sacro per gli ebrei. I legali hanno presentato le memorie giovedì, ora il tribunale si è dato una settimana per decidere. Una procedura accelerata perché la vita di Eitan possa tornare per quel che è possibile a una piccola stabilità quotidiana. Così gli strateghi che consigliano la famiglia Peleg, lato materno, hanno ideato un'altra mossa che toglie alla battaglia per l'affidamento del bambino qualsiasi possibilità di compromesso o intesa, un ultimo colpo per provare a dirottare - o almeno a rinviare - dove e con chi il bimbo di sei anni vada a vivere. La nonna Esther Cohen Peleg (tutti la chiamano Etty, è la madre di Tal morta nell'incidente sul Mottarone) ha sporto denuncia alla polizia di Tel Aviv contro Aya Biran: sostiene - racconta il telegiornale del Canale 12 - che la zia paterna avrebbe rubato gioielli, un tablet e macchine fotografiche dall'appartamento dei genitori di Eitan (il padre Amit, anche lui scomparso nella strage del 23 maggio, è fratello di Aya) e che avrebbe usato il loro computer e i telefonini illegalmente. La accusa anche di aver utilizzato i soldi raccolti con il crowdfunding in Italia per l'assistenza legale invece che per le cure psicologiche a Eitan. L'obiettivo sembra chiaro: gli avvocati della famiglia Biran - che respingono la denuncia come infondata - si sono rivolti alla Corte per la famiglia a Tel Aviv e hanno chiesto che applichi la Convenzione de L'Aia e ciò che prevede sul sequestro di minori: Eitan è stato portato in Israele l'11 settembre dal nonno materno Shmuel, ex marito di Esther, su un volo privato via Lugano senza avvertire e avere avuto il consenso di Aya che è tutrice legale del bimbo dopo una decisione del tribunale italiano. Su questo punto - spiegano gli analisti locali - è difficile che la giudice Iris Ilotovich Segal non dia ragione ai Biran. Ecco allora la denuncia alla polizia contro Aya che rischierebbe di non poter lasciare il Paese con un'indagine in corso, mentre tra le richieste al tribunale di Tel Aviv c'è il ritorno immediato di Eitan in Italia con lei. I Peleg e i loro consulenti cercano di controllare la narrativa attorno alla storia. È stato il nonno Shmuel - indagato in Italia per sequestro di persona e interrogato anche dalla polizia israeliana - ad andare in tv per una lunga intervista in cui ha detto di aver portato via il nipote «dopo aver perso la fiducia nella giustizia italiana». Ancora più pesante la nonna Etty che uscita dal tribunale ha urlato: «L'Italia ha ucciso mio padre, mia figlia e l'altro mio nipote, adesso non può prendersi Eitan». In queste settimane il piccolo ha passato metà del tempo a casa del nonno - «è felice e non vuole andarsene» ha detto lui - e metà con Aya che è arrivata da Travacò Siccomario, provincia di Pavia - dove il bambino è cresciuto, è anche cittadino italiano - per partecipare alle udienze e stargli vicino. Prima di questa condivisione il fratello di Aya era riuscito a vederlo una volta: i legali dei Biran avevano dichiarato che Eitan «era in buona salute» ma che era in atto «un lavaggio del cervello» da parte dei Peleg.

Da adnkronos.com il 25 ottobre 2021. Eitan Biran lascerà Israele e tornerà in Italia dalla zia. Il bambino di sei anni, unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, è al centro di una contesa giudiziaria tra la famiglia materna e quella paterna. Questa la decisione del tribunale della Famiglia di Tel Aviv, secondo quanto riferito dal Jerusalem Post. Shmuel Peleg, nonno di Eitan, dovrà pagare 70mila Shekel (circa 18mila euro) di spese processuali, come ha stabilito il tribunale nell'ambito della sentenza. Eitan, secondo il tribunale, ha "legami più forti e si sente più a suo agio con la sua famiglia italiana e l'ambiente circostante di quanto non ne abbia con la sua famiglia israeliana e l'ambiente circostante". Secondo il giudice, riporta il sito del Jerusalem Post, il nonno del bambino ha violato la Convenzione dell'Aja portando in Israele il bambino senza copertura giuridica. Il tribunale ha anche sottolineato come l'Italia sia per Eitan "il suo ambiente di vita abituale".

LA ZIA - ''Grande contentezza'' è stata espressa da Aya Biran, la zia paterna di Eitan. Lo dichiara ad Adnkronos l'avvocato Cristina Pagni, uno dei legali di Aya Biran, che insieme alla collega Grazia Cesaro esprime ''contentezza per l'esito favorevole in Israele che conferma che la Convenzione dell'Aja è stata applicata in maniera corretta e secondo le sue finalità''. Pagni ha appreso la notizia dalla sua assistita, che le ha descritto un ''momento di gioia'' per la decisione del tribunale che permetterà al nipote di rientrare in provincia di Pavia. Anche la zia ha espresso soddisfazione per ''l'applicazione della Convenzione dell'Aja in maniera corretta''.

La zia di Eitan: «Ora siamo felici, ma vogliamo tornare con lui tra la nebbia di Pavia». Paolo Salom su Il Corriere della Sera il 26 ottobre 2021. Aya Biran-Nirko, la zia del sopravvissuto al Mottarone: «Mio nipote ha bisogno di un po’ di silenzio. Qui siamo ospiti di amici». In Lombardia fa freddo e non c’è il sole? «Non importa, è casa nostra». «Qui è una giornata meravigliosa, stiamo per accompagnare sei bambini in piscina. Ma non vediamo l’ora di tornare alla nostra casa. Non importa se ormai c’è la nebbia, fa freddo e non vedremo il sole fino alla prossima primavera. Pavia è la nostra casa». Aya Biran-Nirko, la zia di Eitan, risponde al cellulare nel pomeriggio di Tel Aviv, città ancora generosa di sole e vita all’aria aperta. «Siamo ospiti di amici» ci dice Aya, mentre in sottofondo si sentono le grida di contentezza dei ragazzi che non vedono l’ora di uscire e andare a divertirsi. «Qui si sentono in vacanza», spiega la zia con una voce che tradisce l’emozione del momento ma anche la fatica delle ultime settimane di battaglia legale : «Devo ancora leggere il dispositivo della sentenza. Ma sì, certo: siamo davvero felici». Se lo aspettava questo risultato positivo , la sentenza che le permette di rientrare in Italia con Eitan? Sin dal primo giorno in Israele, dove Aya si era precipitata in seguito al «rapimento» del nipote, la sua posizione è sempre stata quella della «fiducia». Fiducia nei magistrati italiani ma anche piena consapevolezza della professionalità e imparzialità di quelli israeliani. Ora, con il primo, fondamentale risultato ottenuto a Tel Aviv, si può tornare a sognare «la calma, l’anonimità e, soprattutto, il silenzio intorno a Eitan». Risentiamo Or, il marito di Aya, e scopriamo che sono sotto «assedio» a casa del loro avvocato israeliano: «A casa nostra ci sono soltanto due gatti ma ho saputo che anche lì è pieno di reporter». È, questa attenzione mediatica, quello che più spaventa la famiglia. «Noi capiamo le ragioni di questo interesse nei nostri confronti. Ma Eitan ha esigenze molto precise. Ha bisogno della massima dose di tranquillità. Per lui ogni cambiamento è un trauma. Ora dobbiamo preparare il ritorno in Italia. Ha bisogno di “digerire” la novità. Lo sapevamo e siamo attrezzati: ma non è facile dopo tutto quello che è successo e che non sarebbe mai dovuto accadere». La linea di Or e Aya è sempre stata quella di proteggerlo da tutto questa esposizione mediatica, sin dai tempi dell’incidente. Le cose sono andate in maniera differente, come sappiamo, per l’intervento del nonno Peleg. Un uomo che certo ha sofferto tantissimo, anche lui. Ma che ha interrotto un percorso di recupero del piccolo Eitan, un bambino passato attraverso un’esperienza traumatica senza precedenti. Ed è questo il senso delle parole, riportate dagli avvocati, espresse subito dopo la pubblicazione della sentenza, ieri: «Non ci sono né vincitori né vinti, c’è solo Eitan. Tutto quello che vogliamo per lui è che ritorni presto nella sua casa, ai suoi amici a scuola, alla sua famiglia e specialmente alle sue cure terapeutiche di cui ha così tanto bisogno». Tutto questo non sarà immediato. Perché i nonni materni, i Peleg, hanno ancora la possibilità di impugnare la decisione della giudice Iris Ilotovich Segal. Certo, è drammatico pensare a una «guerra» prolungata che — dopo la tragedia del Mottarone — promette soltanto nuovo dolore a una famiglia che ha perduto volti amati, progetti di vita, relazioni e, soprattutto, un futuro. Aya questo lo sa, lo ha sempre saputo. Il suo lavoro di psicologa nel carcere di Pavia le ha conferito una immensa capacità di ascolto. Sin da subito — pur nel profondo strazio della perdita (il papà di Eitan era il suo «fratellino») — la zia Aya ha compreso che Eitan poteva emergere da uno choc così grande soltanto con un lungo lavoro terapeutico, proprio quello che — con grande fatica — era iniziato nella cameretta alla periferia di Pavia, tra i giochi e il disordine «creativo» del bambino e delle sue cuginette. E poi la scuola: quella scuola tanto contestata dai nonni Peleg. Un istituto gestito dall’ordine religioso delle suore Canossiane. Può un bambino ebreo essere educato in una scuola cattolica? La zia Aya ne è sempre stata sicura: «In classe ci sono soltanto alunni. L’identità di Eitan non è in pericolo, in nessun modo».

Una giudice a Tel Aviv. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 26 ottobre 2021. La sentenza con cui la giudice israeliana Iris Ilotovich-Segal ha dato ragione al ramo italiano della famiglia del piccolo Eitan ci ricorda qualcosa che forse stavamo un po’ dimenticando: la grandezza e l’unicità (anche la solitudine) della democrazia. Una democrazia potrà commettere un sacco di sciocchezze e di soprusi, e in effetti ci riesce benissimo, in Israele come altrove. Ma, con buona pace di chi rimpiange o auspica i regimi forzuti, rimane l’unico che garantisce la separazione dei poteri. Il nonno materno aveva sottratto Eitan ai parenti di Pavia perché intendeva farlo crescere in Israele, educandolo nei valori della tradizione. Ebbene, la magistrata di Tel Aviv sua connazionale non ha consultato la tradizione, ma i codici. E ha deciso che il bambino, sopravvissuto alla tragedia della funivia che lo ha reso orfano, deve vivere con chi ne ha la tutela, cioè con la zia di Pavia. Immaginate lo stesso processo in qualche altro Stato dell’area mediorientale — dall’Egitto di Regeni e Zaki in giù —, per tacere di quelli più a Est che fanno battere il cuore ai sovranisti nostrani. Un nonno che avesse preteso la custodia del nipote brandendo i totem del nazionalismo e della religione avrebbe vinto a mani basse, e forse la controparte non sarebbe stata neanche ammessa in giudizio. Comunque la si pensi sulle sue politiche, valgono per Israele le parole con cui Churchill definiva, appunto, la democrazia: il peggiore sistema che esista, esclusi tutti gli altri.

Davide Frattini per il “Corriere della Sera” il 26 ottobre 2021. Sono le origini della nonna Etty ad aver garantito la cittadinanza italiana al piccolo Eitan, gli antenati passati da Livorno prima di andare in Nord Africa e da lì immigrare in Israele. «Sono contenta di quel doppio passaporto per la mia famiglia, ma sono ebrea e israeliana, voglio che mio nipote cresca qui secondo le tradizioni del suo popolo». Lo ha ripetuto nelle interviste, lo ha urlato fuori dall'aula del tribunale, ancora più agitata, agguerrita e determinata dell'ex marito Shmuel che pure è stato il parente coinvolto nelle udienze. Lui, una condanna in passato per maltrattamenti contro Etty, ha raccontato di essere «un uomo che non ha più nulla da perdere», come se fosse inevitabile che gli toccasse quella missione per portare via dall'Italia il bambino di sei anni, metterlo su un aereo privato all'aeroporto di Lugano e arrivare con lui nell'appartamento di Petah Tikva, quartiere Oasi del giardino, più palazzoni bianchi e cemento che piante. Una missione da «salvatore» come si è autodefinito - «da grande Eitan mi ringrazierà» - per cui è indagato dalla Procura di Pavia ed è stato interrogato dalla polizia israeliana. «La sentenza è un disastro nazionale» ha attaccato Etty che è apparsa ai telegiornali con «un appello al popolo». «Lo Stato di Israele ha deciso di portarmi via mio nipote, che è l'ultima parte rimasta di mia figlia, una scelta dettata da considerazioni politiche per i rapporti con l'Italia. La giudice non ha affrontato la questione del futuro e del benessere di Eitan. Perché non hanno chiesto a lui dove vuole vivere? Combatterò fino all'ultima goccia di sangue per il suo diritto a crescere qui come avrebbero voluto i genitori». È attorno a questo desiderio di Tal e Amit, la madre e il padre di Eitan morti sul Mottarone, che gli strateghi assunti dai Peleg hanno costruito la comunicazione: «Avevo già acquistato un'auto per quando sarebbero ritornati. Adesso è ferma nel parcheggio» ha raccontato Etty. La questione è stata portata anche davanti alla giudice Iris Ilotovich Segal, al punto che durante la prima udienza la nonna si è precipitata in tribunale e ha inveito contro Avi Himi, uno dei legali dei Biran: «Siamo una famiglia in lutto, abbiamo perso tre generazioni e adesso state distruggendo anche l'immagine di mia figlia». Come a dire a lui e agli altri avvocati che seguono il lato paterno: state uccidendo Tal una seconda volta. Forse perché hanno cercato di dimostrare con i documenti e le testimonianze che la coppia non voleva tornare e che erano stati loro due a iscrivere Eitan in una scuola cattolica e non - come hanno sostenuto i Peleg - la zia Aya dopo la strage sulla cabinovia. È stata sempre Etty a presentarsi dieci giorni fa in un comando della polizia a Tel Aviv per accusare Aya di aver rubato gioielli, iPad, macchine fotografiche dall'appartamento di Tal e Amit. La denuncia è stata un ulteriore tentativo di impedire a quella che è la tutrice legale del bambino di tornare in Italia con lui. 

Il giudice ha deciso: Eitan tornerà in Italia. Valentina Dardari il 25 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il bimbo di 6 anni, unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, tornerà a vivere dalla zia paterna. Eitan tornerà in Italia e vivrà con la zia paterna. Secondo quanto riportato dai media israeliani, sembra essere questa la decisione presa dal giudice del Tribunale della Famiglia di Tel Aviv. A dare la notizia per primo è stato il Jerusalem Post. Eitan Biran, il bimbo di 6 anni risultato l'unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, dopo una contesa giuridica tra la famiglia materna e quella paterna potrà quindi fare ritorno nel nostro Paese. E vivrà a casa della sorella del padre, Aya Biran, a Pavia.

Eitan e il ritorno immediato

Sembra inoltre che il nonno materno del bambino, Shmuel Peleg, che lo scorso 11 settembre aveva riportato in Israele il nipote di nascosto, a bordo di un aereo privato decollato da Lugano, dovrà farsi carico delle spese processuali, che si aggirano attorno ai 70mila Shekel, circa 18mila euro. Eitan, che quel tragico 23 maggio aveva perso la mamma, il papà, il fratellino e i bisnonni, tornerà in Italia, riconosciuta dalla corte israeliana come sua dimora abituale. Ricordiamo che il bambino è iscritto alla scuola elementare nel nostro Paese. Il giudice Iris Ilutovich Segal ha scritto nella sentenza, in cui impone il rientro immediato in Italia di Eitan in base alla Convenzione dell'Aja, accogliendo così il ricorso della zia, affidataria legale: "Il tribunale non ha accolto la tesi del nonno che Israele è il luogo normale di vita del minore né la tesi che abbia due luoghi di abitazione". Il nonno materno è indagato nel nostro Paese per sequestro di persona. L'uomo infatti, ancora in possesso del passaporto israeliano del bambino, lo aveva prelevato da casa e lo aveva portato in Svizzera, a bordo di un'auto presa a noleggio. I due erano poi decollati da Lugano e con un jet privato avevano raggiunto Israele. La sentenza del giudice è arrivata dopo circa due settimane dalla fine delle udienze in Tribunale a Tel Aviv.

Il sospetto della contesa

Sembra che la contesa tra le due famiglie riguardasse anche il patrimonio di diversi milioni di euro derivanti dai risarcimenti che arriveranno a Eitan quando termineranno le indagini sulla tragedia dello scorso maggio. Oltre alla ingente somma di tutte le donazioni e le raccolte fondi per aiutare il bambino rimasto orfano che sono sttae fatte in questi mesi. Tra queste, tramite il sito israeliano Giusmehalev, una ha portato 150mila euro nelle tasche della famiglia Peleg. La somma, secondo un legale, doveva servire per il sostentamento in Italia e le spese processuali del bambino. 

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni. 

Faida su Eitan, l'ira dei nonni. "La zia non ce lo fa più vedere". Manila Alfano il 27 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il giudice israeliano ha dato ragione ad Aya, che però non ha ancora riconsegnato il piccolo. Il legale: "Non si fida". Però adesso un po' di pace per Eitan, il bambino diventato orfano a sei anni dopo aver perso entrambi i genitori e il fratellino nell'incidente sul Mottarone, ci vorrebbe proprio. E invece la faida familiare per Eitan continua, feroce e assatanata combattuta a colpi di ripicche, rapimenti, contro rapimenti. I nonni materni contro gli zii paterni, Israele da una parte, l'Italia dall'altra. In mezzo, tirato strattonato e reclamato c'è lui. Ieri l'ennesima e triste puntata di questa lite che si è divorata i confini del buon senso, del lecito. La zia paterna, Aya Biran, si è presa Eitan e ha spento il cellulare, chiuso i contatti con i nonni paterni che lo aspettavano. «Non si fida di loro e li ritiene pericolosi», ha detto il suo avvocato. Un gesto ancor più insensato visto con la lente della razionalità, perchè arriva proprio dopo la sentenza del tribunale israeliano che le aveva appena dato ragione. Il piccolo sarebbe dovuto infatti tornare con lei a Pavia dove vivevano. Poteva essere una decisione che metteva un punto e invece niente: forse la troppa paura di perderlo di nuovo, forse i confini del buon senso e del lecito ormai troppo sfumati da mesi di lotte. «Eitan è a Tel Aviv ma la zia non lo fa vedere ai nonni» hanno spiegato i legali. Il giudice israeliano ieri mattina ha dunque emesso un provvedimento in cui intimava di far incontrare entro le 16 i Peleg il bimbo che in questa fase dovrebbe stare ancora con gli zii e i nonni in modo alternato. Il diktat del giudice sarebbe però stato ignorato anche se riferisce una fonte, il piccolo non sarebbe sparito ma si troverebbe in città e dovrebbe incontrare a breve Gali Peri, la zia materna. I nonni materni di Eitan hanno subito denunciato la scomparsa del bimbo, e hanno raccontato di aver perso i contatti con Aya Biran lunedì pomeriggio: «i nonni non riescono a parlare con la zia Aya, che non risponde al telefono. Avrebbe dovuto riportare il bambino a casa del nonno Schmuel Peleg, in base alle disposizioni del tribunale israeliano, ma non lo ha fatto», ha detto l'avvocato Sara Carsaniga, che fa parte del pool di avvocati che assistono i nonni materni Schmuel Peleg e Esther Cohen. «La nonna ha fatto denuncia alla polizia israeliana, che sta avviando le ricerche del bambino. I nonni si sono anche rivolti al Tribunale di Tel Aviv», per denunciare il comportamento della zia paterna, che ha contravvenuto alle disposizioni del giudice. Da quanto si è saputo, lunedì pomeriggio la zia Aya avrebbe presentato una memoria tramite il suo avvocato israeliano per dire che il nipote avrebbe corso dei rischi in compagnia dei nonni materni Schmuel Peleg e Esther Cohen, dicendo di ritenerli «pericolosi» per l'equilibrio del nipote. Il nonno «si è rivolto al Tribunale di Tel Aviv per ristabilire la custodia congiunta del bambino». «Aspettiamo una decisione», ha aggiunto Solomon precisando che «quello che è successo lunedì è quello che accadrà se Aya Biran riporterà il bambino in Italia. Di certo cercherà di escludere i nonni materni dalla sua vita». Manila Alfano

Eitan, il nonno e i tanti motivi di uno sbaglio. Fiamma Nirenstein il 27 Ottobre 2021 su Il Giornale. Non ho nessuna intenzione di sostenere che Shmuel Peleg abbia ragione, e nemmeno la moglie Esther, anche se il loro strazio è così sincero ed evidente. Non ho nessuna intenzione di sostenere che Shmuel Peleg abbia ragione, e nemmeno la moglie Esther, anche se il loro strazio è così sincero ed evidente. Le loro ragioni di genitori, figli e nonni deprivati di tre generazioni di affetti, cui ora viene strappato anche l'ultimo virgulto, spezzano il cuore ma non giustificano il rapimento. La legge è chiara: non si può ottenere la custodia di un bambino rapendolo e il tribunale israeliano ha fatto bene ad agire secondo la legge. Così del resto fa abitualmente: Israele è un Paese ubbidiente alla legge internazionale, al contrario di quello che si vocifera. Spiegare però non vuol dire giustificare; è giusto comunque cercare di capire perché Peleg abbia violato le norme in modo, alla fine, masochistico. Per farlo si può avventurarsi cautamente senza conoscere il soggetto, fra le possibili colonne psicologiche di una persona come lui, sempre tenendo ferma l'idea che il suo gesto forzoso è frutto di un tratto particolare. E tuttavia, pensiamo. Israele non è un Paese qualunque; non è come se Eitan fosse stato trasportato che so, dalla Danimarca all'Olanda. Ci sono voluti secoli, decine di migliaia di morti, guerre senza fine, fame incommensurabile, lavoro miracoloso, rischi e audacie inimmaginabili per farne un Paese dove il popolo ebraico finalmente «torna». Questa è la parola chiave. Ci si torna anche quando non ci è mai stati, è il Paese del ritorno del popolo ebraico, religioso o laico, dall'esilio. Per Peleg è del tutto logico, anche contro il senso comune, che Eitan «torni» a casa; e «casa» è per lui in Israele, qui è la sua naturale radice secondo la logica di un uomo della sua generazione, la sua vita. Esther, la moglie, ha anche spiegato che qui il bimbo ha una famiglia molto vasta e adorante con cui è stato sempre in contatto, dove la figlia voleva tornare, e che, secondo lei, nel suo abbraccio di Shabbat, di ogni festa comandata, è l'indispensabile cemento per guarigione di Eitan dal dolore. «Famiglia» è una parola chiave in Israele. La terza parola chiave per capire (non per giustificare) è «conversione»: non necessariamente e non soltanto conversione religiosa, ma ogni cancellazione forzosa, ambientale, dovuta a assimilazione o a educazione, o a forzatura, dell'identità di un ebreo. Questo è insopportabile per chi appartiene a un popolo che si è tentato di cancellare tante volte, di convertire, di assimilare, di considerare superato, archeologico, destinato a sparire. Magari in Italia Eitan riceverà un'educazione ebraica nel senso del popolo ebraico... Ma è ovvio, per il nonno, che il suo nido naturale sia Israele, che esiste per questo: gli ebrei sono stati minacciati di scomparsa totale molte volte, in molti esilii, e restare un popolo unito è stata la grande sfida fino nella Shoah. Cristiani, musulmani e anche Napoleone hanno immaginato che fosse indispensabile per gli ebrei cambiare strada. Ma un ebreo anche se non è religioso resta fedele al suo popolo. È un istinto indispensabile alla sopravvivenza. Infine il gesto pazzoide dell'aereo privato: per carità, nessuna giustificazione. Ma si chiama sfida estrema. Israele a fronte di avventure fatali si è avventurato spesso in gesti in cui l'audacia sfida il senso di realtà, tipo l'operazione segreta che ha riportato gli ebrei etiopi in Israele. Niente in comune, sia chiaro, ma spero così di spiegare una mentalità di sopravvivenza. Peleg ha sbagliato, ma non è stato solo: i giudici italiani, la zia, tutti hanno tirato la corda sin dall'inizio nell'affidare, nel pretendere, nello strapparsi una creatura che ha bisogno solo di un amore che metta tutti d'accordo. La storia biblica di re Salomone insegna. Le due famiglie si devono avvicinare, per Eitan. Fiamma Nirenstein

Il nonno ha violato la Convenzione dell'Aja. “Eitan tornerà in Italia”, sarà affidato alla zia Aya: la decisione del tribunale di Tel Aviv. Redazione su Il Riformista il 25 Ottobre 2021. L’unico sopravvissuto alla tragedia della funivia del Mottarone, Eitan Biran tornerà in Italia dove c’è la sua residenza abituale. Il 23 maggio nell’incidente sono morti la madre, il padre, il fratellino e i bisnonni. La decisione di affidarlo alla zia Aya Biran è stata presa dal giudice del tribunale della famiglia di Tel Aviv. Eitan, che ha sei anni e che in Italia era iscritto alle scuole elementari, era stato portato in Israele dal nonno paterno Shmuel Peleg con un volo privato decollato da Lugano, ed era al centro di una contesa giudiziaria tra la famiglia materna e quella paterna. Il nonno sarà anche costretto a pagare le spese processuali. Il nonno e la nonna paterni sono indagati dalla Procura di Pavia con l’accusa di sequestro. La giudice Iris Ilotovich-Segal ha respinto la tesi del nonno materno, Shmuel Peleg, secondo cui Israele e’ il luogo normale di residenza del bimbo cosi’ come la tesi che abbia due luoghi di residenza, Israele e Italia. La corte ha rigettato anche la tesi di Peleg convinto che Israele sia il luogo dove debba crescere Eitan dal momento che i suoi genitori, morti nella tragedia della funivia, volevano tornare a vivere nello Stato ebraico. La giudice ha messo l’accento sulla continuita’ nella vita del minore, arrivato in Italia appena nato e li’ vissuto finora. Shmuel Peleg, nonno di Eitan dovrà pagare 70mila Shekel (circa 18mila euro) di spese processuali. E intanto potrebbe impugnare il ricorso. Un’ipotesi che potrebbe far allungare i tempi del rientro del bambino: ”Ci sono una serie di questioni tecniche e operative che sono in fase di definizione con le autorità locali”, ha detto il legale Cristina Pagni, dicendo che ”aspettiamo i dettagli della decisione di una lunga sentenza che andrà tradotta”. “Non ci sono ne’ vincitori ne’ vinti, c’e’ solo Eitan. Tutto quello che vogliamo per lui è che ritorni presto nella sua casa, ai suoi amici a scuola, alla sua famiglia e specialmente alle sue cure terapeutiche di cui ha cosi’ tanto bisogno”. Hanno detto gli avvocati della zia paterna Aya Biram che ha espresso “grande gioia”. Eitan ha “legami più forti e si sente più a suo agio con la sua famiglia italiana e l’ambiente circostante di quanto non ne abbia con la sua famiglia israeliana e l’ambiente circostante”. Secondo il giudice, riporta il sito del Jerusalem Post, il nonno del bambino, Shmuel Peleg, ha violato la Convenzione dell’Aja portando in Israele il bambino senza copertura giuridica. Il tribunale ha anche sottolineato come l’Italia sia per EITAN “il suo ambiente di vita abituale”. “Io e la collega Grazia Cesaro siamo contenti per la decisione favorevole del Tribunale di Tel Aviv e del fatto che i principi e lo spirito della Convenzione dell’Aja abbiano trovato applicazione” ha spiegato il legale civilista Cristina Pagni, che rappresenta in Italia, con la collega Cesaro (sul fronte penale c’e’ l’avvocato Armando Simbari), la zia paterna di Eitan, Aya Biran. “Aspettiamo di capire quando sara’ possibile il rientro del bimbo in Italia, lo sapremo forse in serata”, ha chiarito il legale e cio’ anche in relazione al fatto che i nonni materni avranno possibilita’ di impugnare la sentenza del giudice israeliano. Oltre ad aver disposto il rientro in Italia di Eitan, la Corte di Tel Aviv ha indicato come di fondamentale importanza “concentrarsi sulle condizioni mediche ed emotive“ del piccolo e “dargli il sostegno, le cure e l’abbraccio di cui ha bisogno a causa della tragedia che ha colpito lui e la sua famiglia” è scritto nella sentenza del tribunale israeliano. I giudici inoltre ritengono che sia ancora possibile ricomporre “la frattura familiare” che si è creata dopo la tragedia, proprio per il bene del bambino a cui si dovrebbe far sentire la “connessione” tra i due nuclei familiari.

Raffaele Genah per "il Messaggero" il 27 ottobre 2021. Altro che tregua in attesa della decisione sul ricorso. Ventiquattr' ore dopo la sentenza che ha deciso il suo rientro in Italia, intorno ad Eitan infuria la guerra. Il nonno Shmuel Peleg e la ex moglie Etty Cohen, non si rassegnano e travolti dal dolore e dalla rabbia non hanno perso tempo. E prima ancora del ricorso contro la decisione del tribunale della famiglia hanno già presentato una denuncia contro la zia tutrice, Aya Biran, che ieri sera non ha consentito che il bambino trascorresse un periodo con i nonni, come era stato deciso con un accordo tra le parti, per un affido temporaneo congiunto in attesa della sentenza. Secondo i Peleg si tratta di una grave violazione da parte degli zii paterni che vogliono in questo modo allontanarlo dal resto della famiglia. Accordo che sarebbe a loro dire tuttora valido in attesa del pronunciamento definitivo sul ricorso, entro una settimana, da parte delle Corte distrettuale di Tel Aviv.

IN ATTESA DEL RICORSO Di contro, i Biran ritengono l'accordo superato nei fatti con la sentenza che consente loro di riportare il bambino nella loro casa a Travacò Siccomario nel pavese. E rincarano la dose: visto che Shmuel Peleg, come dice anche la sentenza, aveva violato la legge fuggendo con il piccolo in Israele, e lo aveva sottratto illegalmente alla custodia della tutrice, ora chiedono che le visite di Eitan ai nonni avvengano sempre in presenza di una figura di garanzia. Difficile immaginare quanto Eitan possa avere finora percepito di tutto quello che gli sta accadendo intorno, come se non bastasse la tragedia che gli ha sconvolto la vita portandogli via i genitori e il fratellino. A parole tutti dicono di voler pensare e di agire solo per il bene del piccolo. Ma il dolore che accomuna e acceca queste due famiglie ha precipitato la situazione ormai all'estremo, e chissà quando- e in che modo- i due rami decideranno di deporre le armi. Ci vorrà almeno una settimana per la decisione sul ricorso di Shmuel Peleg, poi se il verdetto non sarà ribaltato, la zia potrebbe fare rientro in Italia ed Eitan cominciare il suo percorso scolastico e riabilitativo.

(ANSA l'1 novembre 2021) - Il nonno materno di Eitan, Shmuel Peleg, ha presentato ricorso alla Corte distrettuale di Tel Aviv contro la sentenza del Tribunale della famiglia che ha riconosciuto le ragioni di Aya Biran - zia paterna del piccolo - nell'ambito della Convenzione dell'Aja sulla sottrazione dei minori. Lo ha fatto sapere Gadi Solomon portavoce della famiglia Peleg. Nel ricorso si denuncia che il Tribunale nella sua sentenza non ha tenuto conto "delle circostanze eccezionali di fronte alle quali si trovava" ed ha ignorato "le azioni unilaterali della zia Aya Biran".

Davide Frattini per il "Corriere della Sera" il 12 novembre 2021. Dalla mattina alla sera. Tanto è bastato ai giudici della corte di appello per confermare la prima sentenza: Eitan Biran deve ritornare in Italia. Il tribunale a Tel Aviv ha respinto il ricorso del nonno materno Shmuel Peleg e ha stabilito ancora una volta che il bambino di sei anni «è stato rapito dal suo luogo abituale di residenza»: ordina che debba rientrare in provincia di Pavia «entro quindici giorni». I genitori di Tal, la madre scomparsa nella tragedia sul Mottarone, possono contestare davanti al tribunale italiano, come hanno già deciso di fare, la decisione di affidarlo alla zia paterna Aya Biran. I legali israeliani dei Peleg - Shmuel e l'ex moglie Eshter - stanno ancora valutando la sentenza pubblicata nella notte per decidere se andare alla Corte Suprema, hanno sette giorni per presentare l'appello. I giudici del tribunale distrettuale riconoscono «tutto il dolore dei due nonni», ma ribadiscono che il minore è stato allontanato illegalmente. Alla zia Aya - sorella di Amit, il padre di Eitan, anche lui scomparso il 23 maggio - chiedono di fare il possibile perché i parenti dell'altra famiglia non perdano i contatti con il bambino e di garantire la possibilità che possano vederlo a Travacò Siccomario dove vive e dove si erano trasferiti da Israele anche i suoi genitori. Nel ricorso gli avvocati di Shmuel e Esther contestavano anche il comportamento di Aya che dopo la prima sentenza non aveva permesso loro di vedere Eitan senza supervisione. «Non ci fidiamo più», avevano replicato i suoi legali. Erano stati loro a presentare a Tel Aviv la petizione per violazione della Convenzione de L'Aia e di quello che prevede sul sequestro di minori. L'11 settembre il nonno aveva incontrato il piccolo a casa della zia in Italia ed erano usciti per fare un giro. Che si è rivelato lungo. Aiutato da un altro israeliano - per entrambi la Procura di Pavia ha emesso un mandato di cattura internazionale - lo aveva portato in auto a Lugano e dalla Svizzera erano decollati su un jet privato verso Tel Aviv. Da allora Eitan è in Israele, ha passato i giorni in attesa della prima sentenza in condivisione tra le due famiglie, adesso è con Aya. I giudici d'appello hanno fissato il termine dei quindici giorni e allo stesso tempo sospeso l'esecutività della sentenza per una settimana in attesa dell'eventuale passaggio all'Alta Corte. I Peleg ripetono che «Eitan è un bambino ebreo e deve crescere in Israele secondo la tradizione del suo popolo». I nonni materni hanno accusato Aya di averlo iscritto in una scuola cattolica anche se - confermano gli amici di Amit e Tal - erano stati il padre e la madre a scegliere l'istituto prima della tragedia sulla funivia del Mottarone. Esther ha rilasciato interviste alle televisioni locali, ha detto di sentirsi tradita dallo Stato israeliano dopo la prima sentenza, ha accusato l'Italia di averle ucciso la figlia e di volerle sottrarre il nipote. 

Dopo la fuga in Israele, la coppia non si arrende. Eitan e la guerra in famiglia, i nonni contro la zia tutrice: “La nomina va sospesa”. Redazione su Il Riformista il 9 Novembre 2021. Non si placa la guerra all’interno della famiglia di Eitan, il bimbo di sei anni, unico sopravvissuto alla strage della funivia del Mottarone del 23 maggio scorso dove sono morte 14 persone tra cui la madre, il padre, il fratellino e i bisnonni del piccolo. Da mesi è conteso tra la famiglia materna, in Israele, e gli zii paterni, a Pavia, a cui era stato affidato.

I legali di Shmuel Peleg e Etty Peleg, i nonni materni, hanno chiesto al Tribunale di Pavia che la zia paterna Aya Biran venga rimossa dall’incarico di tutrice con immediata sospensione e che venga nominato pro-tutore un avvocato ‘terzo’. E’ quanto apprende l’agenzia Ansa in merito all’udienza che si è tenuta oggi, martedì 9 novembre, scaturita dal reclamo contro la nomina che ha originato anche un procedimento davanti al Tribunale per i minorenni di Milano. Gli avvocati dei nonni hanno anche chiesto che gli atti sulla nomina della zia siano inviati alla Procura di Torino per profili di falsità. Una contromossa quella della coppia che arriva a poche settimane di distanza dalla decisione del giudice del tribunale della famiglia di Tel Aviv di affidare Eitan alla zia Aya, residente a Pavia. Eitan, che in Italia era iscritto alle scuole elementari, era stato portato in Israele lo scorso 11 settembre dal nonno paterno con un volo privato decollato da Lugano, ed era al centro di una contesa giudiziaria tra la famiglia materna e quella paterna. La coppia è anche indagata dalla Procura di Pavia con l’accusa di sequestro. La giudice Iris Ilotovich-Segal ha respinto la tesi di Shmuel Peleg, secondo cui Israele è il luogo normale di residenza del bimbo così come la tesi che abbia due luoghi di residenza, Israele e Italia. La corte ha rigettato anche la tesi di Peleg convinto che Israele sia il luogo dove debba crescere Eitan dal momento che i suoi genitori, morti nella tragedia della funivia, volevano tornare a vivere nello Stato ebraico. La giudice ha messo l’accento sulla continuità nella vita del minore, arrivato in Italia appena nato e lì vissuto finora. “Non ci sono né vincitori né vinti, c’è solo Eitan. Tutto quello che vogliamo per lui è che ritorni presto nella sua casa, ai suoi amici a scuola, alla sua famiglia e specialmente alle sue cure terapeutiche di cui ha così tanto bisogno” avevano dichiarato, dopo la sentenza del tribunale israeliano, gli avvocati della zia paterna Aya Biram che ha espresso “grande gioia”.

Giuseppe Guastella per "corriere.it" il 10 novembre 2021. Mandato di cattura internazionale per Shmuel Peleg, 63 anni, e per Gabriel Abutubul Alon, un 50 enne legato ad un’agenzia di contractor Usa: in appena due mesi di indagini della Polizia, la Procura di Pavia accusa i due israeliani del «piano strategico premeditato» con il quale hanno rapito nel Pavese per portarlo con loro in Israele Eitan Biran, il nipotino di Peleg, unico sopravvissuto della tragedia della Funivia del Mottarone. L’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Pavia Pasquale Villani sta viaggiando sui canali interazionali verso Israele, dove un giudice ha già restituito Eitan alla zia paterna Aya Biran, e Cipro, dove risiede Alon. Le carte riportano le lunghe e complesse indagini dirette dal procuratore facente funzioni di Pavia Mario Venditti che svelano i particolari di un’azione portata a termine con tecniche paramilitari e di intelligence, ma anche, è il forte sospetto, grazie a complicità determinanti.  

Il Mottarone, le famiglie, i tribunali

L’11 settembre scorso, Shmuel Peleg, 63 anni, tenente colonnello in pensione dell’esercito israeliano, consulente di una società di telecomunicazioni, alle 11,30 preleva Eitan dalla casa di Travacò Siccomario (Pavia) in cui vive con la famiglia della zia Aya, alla quale era stato affidato dal giudice tutelare Michela Finucci dopo l’incidente in cui il 23 maggio ha perso il padre, la madre Tal (figlia di Peleg), il fratellino di 2 anni e due bisnonni. È uno degli incontri autorizzati per consentirgli di riprendere, per quanto possibile, una vita normale circondato dall’amore di chi gli vuole bene. Ma dall’incidente del Mottarone, in cui morirono 14 persone, la famiglia si è spaccata tra i parenti della madre, i Peleg, che vorrebbero che Eitan, che da quando ha due mesi vive in Italia, venga tolto alla zia ed affidato a loro per tornare in Israele, e quelli del padre, Aya Biran e il marito, ai quali il piccolo è stato affidato affinché continui a crescere con le due cuginette. La contrapposizione si è incattivita nelle udienze a Pavia (è proseguita anche a Tel Aviv dopo il rapimento) al punto che il giudice ad agosto aveva vietato che Eitan potesse essere portato fuori dall’Italia senza il consenso di Aya obbligando il nonno a riconsegnare il passaporto israeliano del nipote (ha doppia nazionalità). 

Da Pavia alla Svizzera

Alle 11,26 Peleg fa salire Eitan su una Golf che ha noleggiato il giorno prima alla Malpensa in cui si trova anche Alon. Un personaggio già identificato ad agosto in un’udienza di fronte al giudice Fenucci. Si era prima presentato come «legale israeliano» tra gli avvocati di Peleg e della ex moglie Esther Cohen (indagata per sequestro), ma quando il giudice gli aveva chiesto il tesserino «il balzano avventore, traccheggiava per poi definirsi con formula più vaga come il “consulente legale di una società di Tel Aviv”», annota il gip. Fu cacciato dall’aula. La polizia ha accertato che è stato più volte in Italia negli ultimi mesi con Peleg e la sua ex moglie. Usa l’indirizzo mail gabrielatbalckwater.army, dominio che fino al 2011 era il nome di «Academi», compagnia militare privata Usa impiegata in Iraq ed Afghanistan. 

I movimenti al confine italo-svizzero

Gli investigatori della Squadra mobile diretta da Giovanni Calagna hanno ricostruito i movimenti della Golf da Travacò Siccomario fino al confine italo-svizzero di Chiasso, superato senza subire controlli anche perché, come si legge nelle carte, per un problema tecnico il divieto di espatrio, nonostante risultasse il contrario, non era stato inserito nelle reti di allerta Shenghen, cui la Svizzera aderisce. Nessun approfondimento neanche quando l’auto viene fermata alle 14,10 dalla Polizia cantonale elvetica nei pressi dell’aeroporto Lugano-Agno. Gli agenti identificano i passeggeri e li fanno proseguire «in maniera del tutto inopinata», sottolinea il gip, anche se risulta una denuncia di smarrimento del passaporto israeliano di Eitan, bimbo che è in compagnia di due adulti che non risultano suoi parenti. Via libera anche in aeroporto. I tre si imbarcano su un Cessna 680 della società tedesca Aronwest proveniente da Hannover, noleggiato per 42 mila euro che alle 15 decolla per Tel Aviv dove arriva circa tre ore dopo. Eitan, ormai solo, ha tentato con coraggio di «abbarbicarsi — scrive il gip Villani — a quel che rimaneva del suo mondo: la zia tutrice, lo zio, i cuginetti, i piccoli amici di Travacò. È in questo contesto, che Peleg, col determinante apporto di Alon, lo rapisce strappandolo alle relazioni più care e prossime e rassicuranti».

Eitan, mandato di arresto internazionale per il nonno che lo ha portato in Israele. La Repubblica il 10 novembre 2021. L'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Pavia: "Potrebbe rapirlo ancora". L'accusa è di aver ordito e portato a termine un "piano strategico e premeditato" per rapire il bambino. Un altro mandato per l'uomo che ha guidato l'auto fino a Lugano. I legali di Peleg fanno ricorso al riesame. Un mandato di arresto internazionale per il nonno di Eitan, Shmuel Peleg, 50 anni, e per il suo autista Gabriel Abutbul Alon. Sono accusati di aver ideato e realizzato un "piano strategico" premeditato per rapire il bambino di sei anni, unico sopravvissuto alla tragedia della funivia del Mottarone, e portarlo in Israele. L'ordinanza di custodia cautelare è stata firmata dal gip di Pavia Pasquale Villani e trasmessa alla procura generale di Milano e ora, come scrive La Stampa, sarà diretta in Israele. E' una svolta nelle indagini sul sequestro del bambino che è stato prelevato dalla casa della zia paterna Aya Biran lo scorso 11 settembre e portato in auto da Travacò Siccomario, nel Pavese, fino a Lugano per poi essere imbarcato su un aereo privato diretto a Tel Aviv. Nell'inchiesta è indagata anche la nonna materna, Esther Cohen, ma nei suoi confronti non è stato chiesto l'arresto. Shmuel Peleg, attraverso il suo avvocato Paolo Sevesi, ha già depositato ricorso al Tribunale del Riesame contro l'ordinanza di custodia cautelare in carcere. Intanto la notizia del mandato di arresto internazionale arriva alla vigilia dell'udienza domani, presso il tribunale di Tel Aviv, che deve esaminare il ricorso presentato dai nonni materni contro la sentenza che ha stabilito che la zia può riportare il bambino in Italia. E ieri i legali dei nonni materni hanno chiesto al Tribunale di Pavia che la stessa zia venga rimossa dall'incarico di tutrice con immediata sospensione e che venga nominato pro-tutore un avvocato 'terzo'. Intanto a spiegare il mandato di cattura internazionale la convinzione che se restasse in libertà Peleg potrebbe rapire ancora Eitan. Il pericolo di reiterazione del reato è contestato nell'ordinanza emessa dal gip di Pavia, su richiesta della Procura insieme al pericolo di inquinamento probatorio mentre dai primi accertamenti risulta che l'autista israeliano che ha aiutato Peleg lavorava per una agenzia di contractor con sede negli Usa. A rendere complicate le indagini hanno contribuito anche "i presunti trascorsi di appartenenza militare degli indagati, nonchè il fatto che si muovessero in modo 'ombroso' sul territorio italiano con l'utilizzo anche di più autovetture a noleggio e comunicando tra loro con utenze telefoniche estere", scrive la procura di Pavia in una nota relativa al mandato di arresto a carico di Peleg e Alon. "Il disegno criminoso" dei nonni Peleg, spiegano gli inquirenti, "trae origine dalla profonda convinzione che il nipote dovesse essere affidato alla famiglia materna e trasferito definitivamente al suo paese d'origine, Israele". "Aspettiamo di vedere cosa succederà a livello internazionale, ossia la risposta delle autorità israeliane sul mandato d'arresto internazionale e poi procederemo con la chiusura indagini e con la richiesta di processo", ha detto il procuratore facente funzioni della Procura di Pavia Mario Venditti precisando che l'ordinanza di custodia cautelare che attiva il mandato d'arresto dovrebbe essere già stata "trasmessa" dalla Procura generale di Milano al ministero della Giustizia.

C.Gu. per "il Messaggero" l'11 novembre 2021. Due mandati di cattura internazionali emessi dalla Procura di Pavia (uno nei confronti del nonno di Eitan e l'altro dell'autista che li ha portati in macchina fino a Lugano), il ricorso subito depositato dai legali di Shmuel Peleg contro l'ordinanza di custodia cautelare in carcere, l'immediata trasmissione dalla Procura generale di Milano al ministero della Giustizia della «richiesta di estradizione» da Israele verso l'Italia del nonno materno dell'unico sopravvissuto alla strage della funivia del Mottarone e del conducente dell'auto, definito dagli investigatori «soldato» di un'agenzia di contractor.

ESTRADIZIONE Con Israele si applica la convenzione europea di estradizione del 1957 di Parigi, ma il Paese ha apposto una riserva in base alla quale non estrada i propri cittadini. La guerra di famiglia per decidere il futuro del bambino di 6 anni, che nella cabina accartocciata ha perso genitori, fratello e nonni paterni, è una partita su vari livelli giudiziari. Nel caso più che probabile che venga negata l'estradizione del nonno di Eitan, precisano fonti di via Arenula, l'Italia attraverso il ministero della Giustizia potrebbe chiedere a Israele di perseguirlo penalmente sul suo territorio per i reati contestati dai magistrati di Pavia. Ma anche questa strada si profila irta di ostacoli, poiché in Israele è già stato aperto un procedimento analogo a carico di Shmuel Peleg. Nell'ordinanza di custodia cautelare il gip rimarca il rischio di reiterazione del reato: grazie alle sue «capacità criminali» Peleg potrebbe rapire di nuovo Eitan, nel primo blitz sono state «impiegate tecniche (o forse anche solo mere e non confessabili cointeressenze) di intelligence parallela». Il giudice parla di «un certosino piano di esfiltrazione destinato, dapprima, a eludere ogni possibile investigazione o accertamento da parte delle forze di polizia» sui movimenti di Peleg «e poi ad attuare» il rapimento di Eitan «con un'azione all'un tempo fulminea e irresistibile». Valga per tutti al riguardo, si legge ancora, «il rilievo che questi riusciva a far superare al bambino il controllo al posto di frontiera aerea di Lugano a dispetto del fatto che sul passaporto israeliano del minore», che il nonno avrebbe dovuto restituire alla zia tutrice su ordine del giudice di Pavia, pendeva «visibile sugli archivi telematici in uso alle forze di polizia di diversi Paesi una denuncia di smarrimento del documento presentata dalla tutrice Aya Biran». Il gip inoltre fa notare che sempre l'11 settembre, giorno del rapimento, «vi fu un controllo alle 14.10 della polizia cantonale del Ticino presso l'area aeroportuale Lugano-Agno a carico di Peleg», che si trovava a bordo della macchina noleggiata «con suo nipote» e Abutbul. Ciò che «sconcerta di quel controllo», scrive il giudice, è che fu «verificato direttamente anche il passaporto israeliano del bambino», ma i tre vennero lasciati andare. Oggi si torna in aula a Tel Aviv per la prima udienza del processo d'Appello per decidere, in base alla Convenzione dell'Aja, se Eitan debba tornare in Italia.

Giuseppe Guastella per il "Corriere della Sera" il 18 novembre 2021. «È una disgrazia enorme»: con la voce rotta dalla commozione Shmuel Peleg risponde da Israele a Massimo Giletti che lo intervista a Non è l'Arena . Accusato di aver rapito nel Pavese il nipote per portarlo con sé in Israele sottraendolo alla custodia della zia Aya Biran, alla quale era stato affidato dal Tribunale di Pavia, per la giustizia italiana il 58 enne ex colonnello dell'esercito israeliano è un latitante inseguito da un mandato di cattura internazionale. «Non ho preso Eitan illegalmente. Seguo la legge, educo i miei figli a seguirla». «Mi sono consultato con i miei avvocati», rivendica ripetendo quanto aveva detto subito dopo il sequestro da Tel Aviv. Peleg ribadisce di ritenere che la procedura di affidamento seguita immediatamente dopo la tragedia del Mottarone, in cui Eitan fu ferito e perse i genitori e il fratellino, ad Aya Biran, sorella del padre del bambino, non è stata regolare perché svoltasi in italiano. Aveva compreso che sarebbe stata una decisione temporanea, ma quando gli hanno spiegato che era definitiva «ho capito che dovevo fare qualcosa», spiega a Giletti precisando: «Se avessi saputo che c'era qualcosa di illegale non l'avrei fatto». Intanto i suoi avvocati proseguono su fronti diversi la battaglia legale. A Milano l'avvocato Paolo Sevesi ha chiesto al Tribunale del riesame di annullare l'ordinanza di custodia cautelare per sequestro di persona emessa dal gip di Pavia. Altri procedimenti su affidamento e adozione Eitan sono aperti a Pavia e nel Tribunale per i minorenni di Milano. A Tel Aviv i legali israeliani hanno fatto ricorso alla Corte Suprema contro le due sentenze che anche lì hanno affidato Eitan ad Aya stabilendo che il piccolo deve ritornare con lei In Italia e i tempi di un eventuale rientro si allungano. Peleg «ha dimenticato che occorre occuparsi del bene del bambino e continua ad impedire ad Eitan di tornare al tessuto sociale ed educativo da cui è stato rapito», commentano gli avvocati di Aya.

Giuseppe Guastella per il "Corriere della Sera" il 18 novembre 2021. «È una disgrazia enorme»: con la voce rotta dalla commozione Shmuel Peleg risponde da Israele a Massimo Giletti che lo intervista a Non è l'Arena . Accusato di aver rapito nel Pavese il nipote per portarlo con sé in Israele sottraendolo alla custodia della zia Aya Biran, alla quale era stato affidato dal Tribunale di Pavia, per la giustizia italiana il 58 enne ex colonnello dell'esercito israeliano è un latitante inseguito da un mandato di cattura internazionale. «Non ho preso Eitan illegalmente. Seguo la legge, educo i miei figli a seguirla». «Mi sono consultato con i miei avvocati», rivendica ripetendo quanto aveva detto subito dopo il sequestro da Tel Aviv. Peleg ribadisce di ritenere che la procedura di affidamento seguita immediatamente dopo la tragedia del Mottarone, in cui Eitan fu ferito e perse i genitori e il fratellino, ad Aya Biran, sorella del padre del bambino, non è stata regolare perché svoltasi in italiano. Aveva compreso che sarebbe stata una decisione temporanea, ma quando gli hanno spiegato che era definitiva «ho capito che dovevo fare qualcosa», spiega a Giletti precisando: «Se avessi saputo che c'era qualcosa di illegale non l'avrei fatto». Intanto i suoi avvocati proseguono su fronti diversi la battaglia legale. A Milano l'avvocato Paolo Sevesi ha chiesto al Tribunale del riesame di annullare l'ordinanza di custodia cautelare per sequestro di persona emessa dal gip di Pavia. Altri procedimenti su affidamento e adozione Eitan sono aperti a Pavia e nel Tribunale per i minorenni di Milano. A Tel Aviv i legali israeliani hanno fatto ricorso alla Corte Suprema contro le due sentenze che anche lì hanno affidato Eitan ad Aya stabilendo che il piccolo deve ritornare con lei In Italia e i tempi di un eventuale rientro si allungano. Peleg «ha dimenticato che occorre occuparsi del bene del bambino e continua ad impedire ad Eitan di tornare al tessuto sociale ed educativo da cui è stato rapito», commentano gli avvocati di Aya.

Sospettato di aver fatto parte di un’agenzia americana di contractor. Eitan, arrestato l’uomo accusato di aver aiutato il nonno nel rapimento del bimbo sopravvissuto alla strage del Mottarone. Vito Califano su Il Riformista il 26 Novembre 2021. L’uomo che avrebbe partecipato al rapimento del piccolo Eitan Biran, il bambino unico sopravvissuto della tragedia della funivia del Mottarone dello scorso maggio (14 morti, tra cui i genitori e il fratello piccolo), è stato arrestato a Limisso, la cittadina sul mare a Sud nella parte greca dell’isola di Cipro. Gabriel Abutbul Alon era destinatario di un Mandato di arresto europeo (Mae) attivato nei suoi confronti dal procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti e dal pm Valentina De Stefano. La notizia è stata data da Il Corriere della Sera. Shmuel Peleg, nonno 58enne del piccolo Eitan, ex militare israeliano, lo scorso 11 settembre avrebbe secondo le indagini prelevato il bambino a casa della zia paterna, Aya Biran, cui era stato affidato dal Tribunale dei minori. Quindi il viaggio fino in Svizzera e il volo per Tel Aviv a bordo di un aereo privato che sarebbe stato noleggiato dallo stesso Alon. La polizia cipriota ha rintracciato l’uomo semplicemente seguendo le tracce del suo telefonino. È sospettato di aver fatto parte di un’agenzia americana di contractor attiva in teatri di guerra come Iraq e Afghanistan. L’uomo era già apparso sulla scena della vicenda prima della richiesta del Mandato di arresto europeo. Si era presentato in un’udienza a Pavia sull’affidamento lo scorso agosto come “legale israeliano” tra gli avvocati di Peleg e dell’ex moglie Esther Cohen, indagata anche lei per il sequestro. Fu allontanato dall’aula perché non risultò essere un avvocato. La sua mail recava il dominio che fino a dieci anni fa era il nome della società di mercenari statunitensi “Academi”. Secondo le indagini l’uomo avrebbe aiutato Shmuel Peleg nell’organizzazione del prelievo del bambino. Il viaggio fino in Svizzera in una Golf noleggiata. Nessun controllo al confine tra Italia e Svizzera a Chiasso e neanche nei pressi dell’aeroporto Lugano-Agno. A inizio ottobre il mandato internazionale di cattura per Peleg firmata dal gip Villani. Il bambino di sei anni, ancora alle prese  con le conseguenze fisiche e psicologiche del tragico incidente, è stato affidato anche in Israele alla zia Aya Biran e presto dovrebbe tornare in Italia. “Eitan non sta con me. Mi è permesso di incontrarlo qualche ora a settimana e in questi momenti sento che l’ho deluso” perché “era felice il primo mese con tutta la famiglia qui in Israele – ha detto Peleg in un’intervista esclusiva a Non è l’Arena su La7 – Ho preso Eitan l’11 settembre dopo che mi sono consultato con i miei avvocati e ho ottenuto il consiglio legale. Ho scoperto che non c’è nessuna cosa contraria alla legge. Tutto quello che ho fatto è alla luce del sole“.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Eitan, le foto del complice del nonno: «Quattro passaggi di frontiera prima della fuga, volevano testare i controlli». Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 27 Novembre 2021. Tra l’8 e il 9 settembre Gabriel Alon Abutbul, arrestato a Cipro e Shmuel Pelege, nonno del bambino sopravvissuto al Mottarone, hanno attraversato varie volte il valico con la Svizzera. Inoltrata la domanda di estradizione. Per due giorni, l’8 e il 9 settembre scorsi, Shmuel Peleg e Gabriel Alon Abutbul hanno saggiato le misure di controllo in quattro valichi al confine tra l’Italia e la Svizzera prima di scegliere quello di Como-Chiasso attraverso il quale l’11 settembre hanno raggiunto l’aeroporto di Lugano-Agno con il piccolo dal quale sono decollati con un volo privato per Tel Aviv. Volevano capire se erano seguiti dalla Polizia prima del blitz? Volevano valutare quale via di fuga scegliere? Di certo c’è che i due israeliani si sono mossi come due soggetti consapevoli di stare per commettere un crimine odioso. Alon è stato arrestato giovedì sera a Limisso , la cittadina sul mare a Sud nella parte greca dell’isola di Cipro in cui risulta risiedere e dove sarebbe rientrato dopo il sequestro con lo stesso volo privato usato per portare a Tel Aviv il piccolo Eitan Biran, che a sei anni è l’unico sopravvissuto della tragedia della funivia del Mottarone in cui, tra le 14 persone morte, il 23 maggio c’erano anche i suoi genitori, il fratellino di 2 anni e un bisnonno. Peleg ed Alon, secondo il procuratore facente funzioni di Pavia Mario Venditti e il sostituto Valentina De Stefano, hanno organizzato e programmato il sequestro probabilmente già subito dopo che il bambino fu affidato il 24 maggio alla zia paterna Aya Biran, quando era ancora ricoverato nell’ospedale di Torino in cui è rimasto ricoverato per un mese dopo l’incidente. Per Peleg e per la sua ex moglie Esther Cohen quell’affidamento era intollerabile: volevano con tutte le loro forze che Eitan venisse a vivere con loro in Israele, dove era stato solo per i primi due mesi di vita con i genitori che poi si sono trasferiti in Italia. Per settimane, Peleg e Cohen hanno incontrato ripetutamente il nipotino, prelevandolo dall’abitazione della zia a Travacò Siccomario dove era in convalescenza, riportandolo ogni volta regolarmente dopo qualche ora. Fino all’11 settembre. Nei giorni precedenti, Alon aveva affittato il Cessna di una compagnia tedesca che con un volo privato, costato ben 46 mila euro, avrebbe poi trasportato i due uomini e il bambino in Israele e poi, il solo Alon, a Cipro. Alon ha incontrato diverse volte in Italia Peleg e la signora Cohen, a partire quantomeno dall’estate scorsa. Il 6 agosto si presentò anche ad una delle udienze legate ai ricorsi degli avvocati dei nonni contro l’affidamento di Eitan, ma fu allontanato dall’aula quando il giudice tutelare di Pavia si rese conto che non era un avvocato. L’uomo, che usa l’indirizzo mail gabriel@blackwater.army, dominio che fino al 2011 era il nome della società di mercenari Usa «Academi», torna in Italia l’ultima volta alle 2,29 della mattina dell’8 settembre dall’aeroporto di Malpensa, come certifica la telecamera di sorveglianza che lo filma mentre supera il varco di ingresso. Poche ore dopo è già attivo. Gli uomini della squadra mobile di Pavia, diretti da Giovanni Calagna, accertano che nelle ore successive lui e Peleg, a bordo di una Hunday noleggiata dal nonno di Eitan, attraversano più volte il confine italo-svizzero in entrambe le direzioni. Alle 11.41 entrano in Svizzera dal valico di Gaggiolo, che ripercorrono al contrario poco più di due ore dopo, alle 14,01. Il giorno successivo, 9 settembre, transitano di nuovo per Gaggiolo alle 16,21 per tornare in Italia da Pizzamaglio alle 18,36. Subito dopo fanno il percorso inverso: vanno nel paese elvetico alle 19,12, stavolta passando per Ponte Chiasso, e rientrano una ventina di minuti dopo, alle 19,34, dal valico di Stabio-Gaggiolo. Il viaggio definitivo dell’ 11 settembre passerà proprio per Chiasso, ma i due uomini e il nipotino di Peleg viaggeranno su una Golf. La Hunday precedente, infatti, era stata riconsegnata alla società di noleggio con un pretesto, secondo gli investigatori che sospettano che Peleg e Alon volessero disfarsi di una macchina che temevano fosse controllata, come infatti era, da un dispositivo installato dalla Polizia. In ruolo di Alon, dicono le indagini, non sarebbe solo quello di complice, ma quello di braccio destro di Peleg con compiti organizzativi e operativi nel sequestro di Eitan. Da lui «è arrivato un contributo decisivo al rapimento di Eitan», afferma Venditti, aggiungendo che «il nonno di Eitan si è affidato a lui per organizzare la pratica relativa al prelevamento del bambino a Travacò Siccomario, al viaggio fino a Lugano e poi per l’espatrio verso Israele». Tornato a Cipro, però, non è andato a casa sua «ma si è reso irreperibile all’indirizzo ufficiale, infatti dormiva presso un hotel», spiegano gli investigatori, lo stesso albergo in cui è stato catturato dal Team Fast della polizia cipriota che lo stava monitorando attraverso le tracce lasciate dal suo telefonino. «Abbiamo inoltrato domanda di estradizione ordinaria e i tempi dipenderanno dalla giustizia cipriota. Però potremmo anche interrogarlo a Cipro, direttamente noi o tramite rogatoria», precisa Venditti. Diversa, invece, la questione per quanto riguarda la posizione di Peleg. Alle autorità israeliane è arrivata la richiesta di estradizione trasmessa dalla procura generale di Milano dopo l’emissione dell’ordinanza di cautelare da parte del gip di Pavia nei confronti di Peleg e di Alon. A differenza di Alon, la cui posizione seguirà le procedure del Mandato di arresto europeo, per Peleg si tratta di un mandato di arresto internazionale che, però, ha scarse probabilità di essere eseguito dato che Israele non lo fa mai nei confronti dei propri cittadini. Intanto si è in attesa che la Corte suprema israeliana decida definitivamente sull’affidamento alla zia Aya Biran di Eitan permettendo il ritorno del bambino a Travacò Siccomario.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 30 novembre 2021. Eitan Biran tornerà in Italia entro il 12 dicembre. La Corte Suprema israeliana ha messo la parola fine alla vicenda. Il piccolo, unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, tornerà a casa della zia paterna Aya Biran a Travacò Siccomario, in provincia di Pavia. Il paesino in cui venne sequestrato poco più di due mesi fa dal nonno materno Shmuel Peleg e dal suo complice, l'ex militare Gabriel Alon Abutbul. Quest' ultimo ieri è stato scarcerato a Cipro dove era detenuto con l'accusa di aver partecipato al rapimento di Eitan. I giudici di Gerusalemme con una sentenza a lungo attesa hanno respinto il ricorso del nonno Peleg. Per l'uomo la magistratura italiana ha spiccato un mandato di cattura internazionale.

LA SENTENZA

Il giudice Alex Stein ha ribadito che in base alla Convenzione dell'Aja - alla quale Israele ha aderito - si è trattato di «un rapimento» verso cui la Carta internazionale prevede «tolleranza zero» e che impone «la restituzione immediata» ai tutori. Quindi ha smontato uno dei cardini dei legali di Peleg, ovvero che la casa di Eitan sia Israele. Al contrario, ha stabilito che è indiscutibile che «il luogo normale di vita del minore sia in Italia dove ha trascorso quasi tutta la sua esistenza». Se poi c'è terreno giuridico per discutere del «bene» del minore, il luogo deputato a farlo - per il giudice - non è Israele bensì l'Italia. Così come tocca alle «autorità giudiziarie italiane» stabilire se ascoltare il minore «nel processo di adozione o in un altro processo che riguardi il suo bene». Infine, il giudice Stein ha sottolineato che il nonno materno non ha provato, nel suo ricorso alla Corte, che il ritorno di Eitan in Italia «rischia di provocare» al minore «danni mentali e fisici significativi». Per questo ha disposto il ritorno del piccolo a casa della zia paterna Aya Biran, come stabilito dalle 2 precedenti sentenze del Tribunale della famiglia e della Corte distrettuale di Tel Aviv. Ha poi condannato nonno Peleg, come le volte scorse, al pagamento delle spese processuali: 25 mila shekel, pari a 7 mila euro.

LE REAZIONI

Una decisione «legalmente, moralmente e umanamente corretta», l'hanno salutata Shmuel Moran e Avi Chimi legali di Aya Biran, affidataria del minore. «Eitan - hanno detto - potrà ora tornare alla sua famiglia in Italia, compresi i suoi nonni, i genitori del suo defunto padre, e a tutte le strutture da cui è stato tolto: mediche, psicologiche ed educative». E si sono augurati che i Peleg «in considerazione delle loro azioni e delle conseguenze penali delle loro azioni» sapranno «fermare le battaglie legali». Un appello, tuttavia, destinato, a quanto sembra, a cadere nel vuoto. La prima reazione dei Peleg ha infatti ribadito che la battaglia per riportare Eitan in Israele continuerà «con ogni modo legale». «Lo Stato di Israele - hanno denunciato - ha rinunciato oggi ad un bambino ebreo, suo cittadino indifeso, senza che la sua voce venisse ascoltata, per farlo vivere in terra straniera lontano dalle sue radici, dalla sua famiglia amata, da dove sono sepolti i suoi genitori e suo fratello minore. Facciamo appello alle autorità italiane per riesaminare l'affidamento». La conclusione della vicenda di Eitan non chiude ovviamente la parte giudiziaria che riguarda il nonno. Su di lui pende il mandato d'arresto internazionale della Procura di Pavia che Israele deve esaminare nei prossimi giorni e che può portare alla sua estradizione in Italia. Diversa, per ora, la sorte del suo «complice» nel rapimento di Eitan, l'israeliano Gabriel Alon Abutbul che fece da autista nella fuga verso la Svizzera da dove partì l'aereo privato per Tel Aviv. Arrestato il 25 novembre a Cipro - dove risiede - è stato scarcerato dai giudici isolani con obbligo di firma. 

Eitan torna in Italia: respinto il ricorso del nonno. Luca Sablone il 29 Novembre 2021 su Il Giornale. La Corte Suprema di Israele respinge il ricorso presentato dalla famiglia Peleg: il bimbo di sei anni rientrerà in Italia entro 15 giorni insieme alla zia paterna. Ma il nonno non si arrende. La Corte Suprema di Israele ha respinto l'ultimo appello presentato dalla famiglia Peleg, sancendo così una decisione cruciale su un caso che ha fatto molto discutere: Eitan Biran, l'unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, tornerà il Italia con la zia paterna Aya. Dovrà farlo entro 15 giorni a partire da oggi, ovvero entro il prossimo 12 dicembre. Viene dunque confermata la sentenza emessa a inizio mese da parte del Tribunale della famiglia di Tel Aviv, che aveva stabilito che il bimbo di sei anni dovesse vivere con la zia paterna Aya alla quale era stato affidato dal Tribunale di Torino.

Il piccolo, secondo la Cassazione, ha "vissuto in Italia quasi tutta la sua vita" e proprio per questa ragione non lo si può allontanare dalla sua residenza abituale. È stato riconosciuto che i precedenti tribunali avevano stabilito che i suoi genitori avessero deciso di stabilirsi in Italia a tempo indeterminato, cioè "per un lungo periodo di tempo e senza fissare una data per il loro ritorno in Israele". Nella sentenza si legge inoltre che non è stat fornita "una motivazione valida per cui il ritorno in Italia possa provocare al piccolo un danno psichico o fisico".

Le reazioni

Eitan ha perso i genitori e il fratellino dopo la tragedia del 23 maggio, quando la funivia del Mottarone è precipitata schiantandosi ad altissima velocità. Il minore è finito al centro di una vera e propria disputa legale per la sua custodia, ma oggi la Corte Suprema di Israele si è espressa chiaramente in merito. Shmuel Moran e Avi Chimi, i legali della zia, definiscono la sentenza della magistratura israeliana "legalmente, moralmente e umanamente corretta" che mette fine "a un evento dannoso e inutile".

Il nonno non si arrende

Di parere opposto la famiglia Peleg, che di fronte alla sentenza della Corte Suprema reagisce con una posizione dura: l'accusa rivolta allo Stato d'Israele è di aver "rinunciato a un bimbo ebreo indifeso e un cittadino israeliano senza che la sua voce venisse ascoltata". In tal modo, sostengono i Peleg, è stato lasciato "in terra straniera, lontano dalle sue radici, dalla sua amata famiglia e dal posto dove sono sepolti i suoi genitori e il fratello".

"Per Eitan niente pietà trattato da oggetto". Nonno a rischio arresto

La famiglia Peleg però non ha alcuna intenzione di arrendersi e, attraverso il portavoce Gadi Solomon, fa sapere che continuerà a perseguire le vie della giustizia per provare a riportare Eitan in Israele. In tal modo si vorrebbe "impedire la rottura del legame con la famiglia della sua defunta madre Tal, impostagli da sua zia". È stato chiesto alle autorità italiane di "riesaminare il processo decisionale viziato, che ha costretto Eitan a essere nuovamente strappato alla sua famiglia".

Scarcerato Alon

Intanto Gabriel Alon Abutbul, accusato di aver aiutato il nonno di Eitan a rapire il nipote, è stato scarcerato dall'autorità giudiziaria di Cipro. L'uomo era stato arrestato lo scorso 25 novembre su mandato d'arresto internazionale a Cipro: la sera del'11 settembre avrebbe portato il nonno e il piccolo a Lugano per imbarcarsi verso Tel Aviv. Adesso dovrà sottoporsi all'obbligo di firma due volte al giorno in attesa che il giudice cipriota si pronunci sulla sua estradizione, chiesta dalla procura di Pavia che sta indagando sul rapimento del bambino.

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabatterie e… PC. 

Ritorno a Pavia entro il 12 dicembre. Eitan torna in Italia, giudici bocciano il ricorso del nonno che attacca: “Israele ha rinunciato a bimbo indifeso”. Redazione su Il Riformista il 29 Novembre 2021. Il piccolo Eitan dovrà tornare in Italia nel giro di due settimane, entro il prossimo 12 dicembre. E’ quanto stabilito dai giudici israeliani della Corte Suprema che hanno respinto il ricorso presentato dal nonno, Shmuel Peleg. Il bimbo di sei anni, unico sopravvissuto alla strage della funivia del Mottarone del 23 maggio scorso (dove sono morte 14 persone tra cui la madre, il padre, il fratellino e i bisnonni del piccolo), è da mesi al centro di una disputata tra le due famiglie per la custodia. Da una parte quella materna, in Israele, dall’altra gli zii paterni, a Pavia, a cui era stato affidato. Il giudice della Corte Suprema, Alex Stein, ha ricordato che il principio base della Convezione dell’Aja prevede “tolleranza zero verso i rapimenti ed evidenzia la necessità di una restituzione immediata. Non è discutibile – ha sottolineato – che il luogo normale di vita del minore sia in Italia dove ha trascorso quasi tutta la sua esistenza”. Adesso Eitan tornerà a Pavia insieme alla zia Aya Biran, sua tutrice legale, a distanza di quasi tre mesi. Lo scorso 11 settembre infatti era stato portato in Israele dal nonno paterno con un volo privato decollato da Lugano. La coppia è anche indagata dalla Procura di Pavia con l’accusa di sequestro. Una decisione che ha scatenato la reazione del nonno materno che attacca: “Lo Stato di Israele oggi ha rinunciato a un bambino ebreo indifeso e cittadino israeliano senza che la sua voce fosse ascoltata, a favore di vivere in una terra straniera, lontano dalle sue radici, dalla sua amata famiglia e dal luogo dove i suoi genitori e fratellino sono sepolti”. “Continueremo a lottare in ogni modo legale per riportare Eitan in Israele – hanno fatto sapere i Peleg tramite il portavoce Gadi Solomon – e impedire la rottura del legame con la famiglia della sua defunta madre Tal, impostagli da sua zia. Chiediamo alle autorità italiane di riesaminare il processo decisionale viziato, che ha costretto Eitan a essere nuovamente strappato alla sua famiglia”. La sentenza della magistratura israeliana a favore del rientro in Italia di Eitan Biran è “legalmente, moralmente e umanamente corretta” commentano i legali Shmuel Moran e Avi Chim, avvocati della zia paterna Aya Biran. Intanto Gabriel Alon Abutbul, l’ex militare israeliano complice di Schmuel Peleg nel rapimento dell’11 settembre scorso del nipote Eitan, è stato scarcerato dall’autorità giudiziaria di Cipro dietro il pagamento di una cauzione di 200mila euro. L’uomo, nei confronti del quale era stato eseguito un mandato di arresto europeo, adesso dovrà sottoporsi all’obbligo di firma 2 volte al giorno, in attesa che il giudice cipriota si pronunci sulla sua estradizione, chiesta dalla procura di Pavia che sta indagando sul rapimento del bambino. L’uomo è stato arrestato nella sua casa di Limassol il 25 novembre scorso. Gli investigatori, che hanno eseguito un mandato d’arresto europeo emesso dalla Procura di Pavia, lo hanno individuato seguendo il segnale del suo telefonino. Adesso Abutul, accusato di aver aiutato Schmuel Peleg a portare il nipote a Tel Aviv, via Lugano, senza il consenso della zia paterna e tutrice Aya Biran, dovrà presentarsi nuovamente il 2 dicembre davanti all’autorità giudiziaria cipriota e la sua estradizione verso l’Italia, se verrà accolta, potrebbe richiedere ancora diverse settimane prima di essere eseguita.

Giuseppe Guastella per corriere.it il 4 dicembre 2021. «Sono contento di essere tornato a casa». Sono queste le prime parole che il piccolo Eitan ha detto all’agente che lo ha accompagnato a casa, nel paesino di Travacò Siccomario (Pavia), dopo il suo rientro in Italia. Felicità e commozione tra i familiari per quella che sembra, almeno apparentemente, la fine del calvario per il bambino di 6 anni che, dopo aver perso i genitori e il fratellino nella tragedia del Mottarone, si è ritrovato in mezzo a un’aspra controversia tra le famiglie da parte di padre e madre e a vivere in un Paese che aveva lasciato quando aveva poco più di un anno e dove poi ha trascorso le vacanze. Il piccolo è tornato in Italia, dove vivrà «stabilmente», ieri sera dopo essere stato rapito e portato in Israele lo scorso settembre dal nonno materno Shmuel Peleg. I legali hanno rinnovato l’appello «per permettere ad Eitan di riprendere la sua vita di bambino di 6 anni». Ora, hanno detto, «si spengano i riflettori sulla sua vita privata» e «si apra una nuova fase» che gli consenta «un percorso di crescita più sereno, ancora più necessario se si considera la terribile tragedia che l’ha coinvolto». 

L’atterraggio a Orio al Serio

L’aereo da Tel Aviv che alle 22 di ieri sera è atterrato all’aeroporto di Orio al Serio riconduce il piccolo Eitan nel Paese in cui i genitori i genitori volevano che crescesse ed allo stesso tempo ripristina lo stato di diritto violato dal gesto di un nonno disperato che, sequestrando il nipote, ha dimostrato di credere più nella legge della forza che nella forza della legge. Dopo 84 giorni in Israele, il bimbo di sei anni unico sopravvissuto della tragedia della funivia del Mottarone deve essere aiutato da tutti a superare, per quanto possibile, il tremendo trauma che ha subito il 23 maggio con la morte del padre, della madre, del fratellino e di uno dei bisnonni nello schianto della cabina della funivia che ha tolto la vita anche ad altre 11 persone. Per questo, già dal momento in cui il volo Ryanair è atterrato sulla pista nel Bergamasco, le forze dell’ordine hanno garantito uno scudo che ha protetto la privacy del bambino, della zia Aya Biran, del marito di lei e delle loro due figliolette che lo hanno accompagnato.

Massima protezione della privacy del bimbo

Tutti sono stati fatti salire su un’auto scortata che è partita alla volta di Travacò Siccomario, il centro vicino a Pavia dove vivono gli zii di Eitan e dove, come stabilito da un giudice, vivrà il piccolo che, terminata la quarantena preventiva anti covid, finalmente potrà cominciare la prima elementare nella scuola delle suore Canossiane alla quale lo avevano iscritto i genitori prima di morire. Non ci saranno festeggiamenti, almeno per il momento, anche per rendere ad Eitan il ritorno in Italia più vicino a qualcosa di normale e non l’epilogo di un sequestro ordito e portato a termine dal nonno Shmuel Peleg. Perché è di questo di cui la procura di Pavia, con l’aggiunto Mario Venditti e il sostituto Valentina De Stefano, accusa il 58enne ex colonnello dell’esercito israeliano e il suo complice, il contractor Gabriel Abutbul Alon, 50 anni, anche lui israeliano,inseguendoli con un mandato di cattura internazionale: Peleg è libero nel suo Paese, ma se lo lascia può essere arrestato; Alon è stato fermato e scarcerato su cauzione a Cipro dove risiede. L’Italia ha chiesto che vengano estradati. La rapida reazione della magistratura di in una vicenda che ha fatto il giro del mondo è dovuta alle indagini della squadra mobile di Pavia che subito ha raccolto gli elementi a carico dei due accertando che, prelevato Eitan in casa della zia l’11 settembre, avevano raggiunto Lugano in auto imbarcandosi su un volo privato per Tel Aviv. Peleg si dispera dopo che la Corte suprema gli ha dato torto per l’ennesima volta confermando l’affidamento del nipotino ad Aya, già deciso a Pavia nella lunga guerra legale ancora in corso che lo contrappone ad Aya. Il gesto dell’ex militare non è stato diverso da quello di troppi padri e madri che strappano i figli all’altro genitore senza che, però, la giustizia italiana intervenga con analoga rapidità. Anche per questo i legali di Aya Biran, Grazia Cesaro e Cristina Pagni, sono soddisfatti di una conclusione giunta grazie alle «norme che proteggono i bambini», un «buon esempio di collaborazione tra Stati, un monito contro il fenomeno della sottrazione internazionale di minori».

(ANSA il 17 Dicembre 2021) - Il Tribunale per i minorenni di Milano, nell'ambito del procedimento sul reclamo presentato dai nonni materni di Eitan contro la nomina della zia paterna Aya come tutrice legale, ha deciso di nominare come "tutore" in "sostituzione" della zia "un professionista estraneo ad entrambe le famiglie di origine", mantenendo "il bambino collocato presso la zia". Lo ha comunicato il presidente del Tribunale per i minorenni Maria Carla Gatto chiarendo che la decisione è stata presa data "l'elevatissima conflittualità, manifestatasi successivamente all'iniziale nomina del tutore" che "ha reso necessaria l'individuazione di un soggetto terzo". "Il Tribunale per i minorenni di Milano - spiega il presidente Gatto - all'esito dell'udienza del 9 dicembre 2021 avente ad oggetto il reclamo avverso il provvedimento del Giudice tutelare di Pavia, proposto dai nonni materni del minore Eitan, ha nominato come tutore di quest'ultimo, in sostituzione della zia paterna, un professionista estraneo ad entrambe le famiglie di origine, mantenendo il bambino collocato presso la zia". "L'elevatissima conflittualità - chiarisce il magistrato - manifestatasi successivamente all'iniziale nomina del tutore, ha reso necessaria l'individuazione di un soggetto terzo, visto che la contesa parentale insorta indubbiamente contribuisce a complicare ogni scelta personale, relazionale, economica ed educativa che dovrà essere assunta nel prioritario interesse del bambino, già così drammaticamente segnato dai tragici vissuti personali". 

Tragedia Mottarone, ex dipendente segnalò problemi già nel 2019: minacciato di licenziamento. Redazione Tgcom24 il 30 settembre 2021. Minacciato di licenziamento dopo avere segnalato nel 2019 problemi di funzionamento della funivia del Mottarone. E' quanto ha riferito un ex dipendente, Stefano Carlo Gandini, agli inquirenti che indagano sull'incidente costato la vita a 14 persone. Gandini si è presentato alla polizia giudiziaria della procura di Verbania il 7 giugno e ha consegnato un file audio con alcune conversazioni. L'ex dipendente ha raccontato che nel maggio del 2019 notò delle noie alla cabina 3, quella precipitata. Inconvenienti a un discriminatore e perdite di olio dalla centralina dei freni. Ne parlò ai superiori e il caso fu segnalato al caposervizio, Gabriele Tadini (l'unico indagato agli arresti domiciliari). "Nelle  registrazioni - ha fatto mettere a verbale - si sente anche Nerini intervenire nel suo ufficio ove ha minacciato di licenziarmi". Il giorno seguente Tadini gli disse di "stare tranquillo, 'tanto la funivia non cade'". "Ad agosto - conclude Gandini - trovai un nuovo lavoro e preferii licenziarmi". L'episodio non è connesso con l'incidente del 23 maggio 2021, anche se a precipitare, quel giorno, fu proprio una cabina contrassegnata con il numero 3. Ma secondo gli inquirenti potrebbe fare chiarezza sul grado di consapevolezza di tutti gli indagati e sul modo in cui si affrontavano i problemi. 

Legali difesa: "Nessuna responsabilità Nerini e Perocchio" Davanti al Tribunale del riesame di Torino si è discusso dell'appello della procura di Verbania contro la scarcerazione di due degli indagati, il responsabile dell'impianto Luigi Nerini e il direttore di esercizio Enrico Perocchio. "Per garantire il funzionamento della funivia del Mottarone molte deleghe erano state affidate dai vertici al caposervizio Gabriele Tadini. E il personale seguiva delle regole precise imposte da lui". Questo uno dei punti al centro del dibattito focalizzato sulle esigenze cautelari e non sulla gestione complessiva della funivia.

Si tratta di un capitolo dell'inchiesta che riguarda la rimozione volontaria di cautele e, in particolare, la decisione (attribuita a Tadini) di bloccare il sistema frenante con i cosiddetti "forchettoni". Nerini e Perocchio furono scarcerati dal gip del tribunale di Verbania per la mancanza di gravi indizi di colpevolezza. Secondo le difese anche le nuove testimonianze raccolte dagli inquirenti (compresi i file audio delle conversazioni avute nel 2019 dall'ex dipendente) non permettono di cambiare lo scenario. Quanto a Perocchio non è possibile nemmeno parlare di rischio di reiterazione del reato perché lo scorso giugno il tecnico è stato (a titolo cautelativo sospeso dall'Ustif e ha temporaneamente lasciato i suoi incarichi, tra cui quello di direttore di esercizio degli impianti di Rapallo e del Pisa Mover. 

Mottarone, un dipendente rivela: "Cosa vidi nel 2019..." Francesca Galici il 29 Settembre 2021 su Il Giornale. Ex dipendente delle Ferrovie del Mottarone segnalò malfunzionamenti alla cabina 3 ma venne minacciato di licenziamento: "Tanto non cade". Emergono nuovi dettagli sulla tragedia del Mottarone, che lo scorso 23 maggio è costata la vita a 14 persone. In queste ore è stata resa nota la testimonianza di un ex dipendente delle Ferrovie del Mottarone, che il 7 giugno è stato ascoltato dagli inquirenti impegnati nell'indagine sulla caduta della cabina. Ne ha dato notizia il Tg3, che ha anche mostrato alcuni stralci della testimonianza fornita al pm Olimpia Bassi. Stefano Carlo Gandini, questo il nome dell'ex dipendente, ha rivelato agli investigatori di aver segnalato ai suoi superiori dell'epoca già due prima un problema di malfunzionamento della funivia, che poi quel tragico 23 maggio è precipitata portando con sé la vita di 14 persone. A supporto del suo racconto, Gandini ha consegnato agli uomini della procura di Verbania anche materiale audio e una foto della cabina 3, proprio quella coinvolta nell'incidente. Nella sua testimonianza, l'ex dipendente ha riferito che a seguito delle sue rimostranze ai suoi superiori circa i gravi problemi della cabina sarebbe stato minacciato di licenziamento. Stefano Carlo Gandini, assunto nel dicembre 2017 e a lavoro nell'impianto fino al 2019, aveva come "diretto superiore Gabriele Tadini", uno degli indagati. L'ex dipendente ha dichiarato davanti al pm che le cabine hanno viaggiato numerose volte con i forchettoni inseriti. Nel verbale della procura, Gandini dichiara che già nel 2019 aveva "iniziato a riscontrare problemi alla cabina 3, e nello specifico (...) varie perdite di olio dalla centralina dei freni di emergenza". La sua deposizione continua: "Ho segnalato tali problematiche al capo servizio Gabriele Tadini anche al fine di annotarle sul registro, cosa che però non mi è stata mai permessa". Addirittura, Gandini afferma di aver registrato pezzi di conversazione con i suoi superiori, nei quali "si sente anche Luigi Nerini (il gestore della Stresa-Mottarone, ndr) intervenire nel suo ufficio ove minaccia di licenziarmi". Era il 28 maggio 2019 quando, a seguito della discussione avuta il giorno prima, Gandini incontra Nerini che gli dice: "Stai tranquillo, tanto la funivia non cade". Intanto, si è conclusa a Torino l'udienza al tribunale del Riesame relativa all'appello della procura di Verbania contro la decisione di scarcerare, a maggio, i primi indagati per la strage della funivia del Mottarone, Luigi Nerini ed Enrico Perocchio. A quanto si apprende la procuratrice Olimpia Bossi avrebbe ribadito la richiesta di misure cautelari per i due, che erano stati scarcerati con decreto dell'allora gip Donatella Banci Buonamici, mentre per il terzo indagato, Gabriele Tadini, erano stati decisi i domiciliari. "Siamo sereni e fiduciosi", ha dichiarato il legale di Perocchio, Andrea Da Prato. Il tribunale si è riservato la decisione.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Da "tgcom24.mediaset.it" il 2 luglio 2021. Si allarga l'inchiesta sulla strage del Mottarone in cui sono morte 14 persone. Oltre al gestore della funivia Luigi Nerini, al direttore d'esercizio Enrico Perocchio e al capo servizio Gabriele Tadini si sono aggiunti altri 11 indagati, tra cui due società, Ferrovie del Mottarone e Leitner: quest'ultima si occupava della manutenzione dell'impianto. Nell'elenco degli indagati figura tra gli altri Rino Fanetti, "dipendente Leitner" che "in data 22 novembre 2016 ha eseguito la testa fusa della fune traente superiore della cabina 3". Ci sono poi Fabrizio Pezzolo, rappresentante legale della Rvs Srl, che si occupava della "manutenzione delle centraline idrauliche" e il suo dipendente Davide Marchetto, "responsabile tecnico degli impianti a fune". Vanno aggiunti Alessandro Rossi della Sateco srl, "che ha effettuato in prima persona le prove magneto-induttive a novembre 2019", e Davide Moschitti, che per conto della stessa azienda ha operato il controllo nel novembre 2020. 

Indagato poi Federico Samonini, legale rappresentante della Scf Monterosa srl, "che ha fatto interventi di manutenzione e controllo visivo delle teste fuse" e le ha sostituite a scadenza, ad eccezione della testa fusa della cabina numero 3 precipitata, la cui sostituzione era prevista per novembre 2021. Sotto accusa inoltre Seeber Anton, attualmente presidente del Consiglio di amministrazione della Leitner, e Martin Leitner, consigliere delegato. Coinvolto poi Peter Rabansen, "dirigente/responsabile dell'assistenza clienti Leitner e delegato per l'ambiente e la sicurezza relativa agli impianti a fune". La società Leitner ribadisce "ancora una volta la massima disponibilità a collaborare con gli organi inquirenti", si legge in una nota. "Avendo in essere un contratto di manutenzione con la società Ferrovie del Mottarone - continua il comunicato -, l'iscrizione da parte della Procura di Verbania nel registro degli indagati di alcuni suoi dirigenti e collaboratori è un atto dovuto". Inoltre Leitner sottolinea "la ferma consapevolezza, che trova riscontro nell'ampia documentazione a disposizione della magistratura, di aver effettuato l'attività di manutenzione e i relativi controlli nel rispetto del contratto e delle norme vigenti". Contestato il reato di attentato alla sicurezza dei trasporti - Tra i reati contestati, anche quello di attentato alla sicurezza dei trasporti nella richiesta di incidente probatorio notificata agli indagati, firmata dal procuratore di Verbania Olimpia Bossi e dal pm Laura Carrera. Gli altri reati, già noti nelle indagini, sono la rimozione o omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, aggravata dal disastro, e un reato di falso contestato al solo Tadini, caposervizio unico rimasto ai domiciliari. 

Ivan Fossati Niccolò Zancan per “la Stampa” il 3 luglio 2021. Chi doveva vigilare sulla manutenzione della funivia? Chi doveva controllare l'usura delle funi e lo stato di conservazione della cosiddetta testa fusa? Perché gli interventi per riparare il sistema dei freni d' emergenza non erano serviti? L' inchiesta per la strage del Mottarone, costata la vita a quattordici passeggeri, da ieri ha fatto un salto di livello: da tre a dodici indagati. La notifica è arrivata con la richiesta di incidente probatorio accolta dal giudice per le indagini preliminari, cioè con quell' atto irripetibile che durerà mesi in cui tutti i periti, quello nominato dal giudice e quelli di parte, cercheranno di stabilire esattamente cosa è successo sull' impianto chiamato negli atti FNB (AB20), il secondo troncone della funivia che parte dalla stazione dell'Alpino e arriva al Mottarone a 1385 metri di altitudine. Non sono più soltanto i nomi fin qui conosciuti, e cioè il caposervizio Gabriele Tadini, il direttore d' esercizio Enrico Perocchio e il gestore Luigi Nerini. Si aggiungono tecnici e dirigenti della Leitner di Vipiteno, società leader degli impianti a fune che doveva garantire la manutenzione. Sono stati iscritti nel registro degli indagati anche Anton Seeber e Martin Leitner, rispettivamente presidente del Cda e consigliere delegato della società. Gli ultimi lavori di ammodernamento dell'impianto furono eseguite proprio dalla Leitner nel 2016. Da allora, il gestore Luigi Nerini pagava un canone annuale da 130 mila euro sempre alla Leitner per la manutenzione. Fra i lavori più delicati, c' è quello della realizzazione e del controllo della testa fusa: quel punto in cui la fune traente si aggancia alla cabina. Secondo la procura di Verbania, lo strappo potrebbe essere avvenuto proprio lì. È il punto critico di ogni impianto di risalita. Tanto che deve essere controllato sovente. Ecco perché fra i nuovi indagati c' è il dipendente di Leitner Rino Fanetti, proprio colui che realizzò la testa fusa nel 2016. Un lavoro che va rifatto ogni cinque anni, doveva essere eseguito nuovamente a novembre. Ma la fune traente si è spezzata. Ed è proprio su quella fune e sulla carcassa della cabina numero 3 che si concentreranno le attenzioni dei periti, incaricati nell' incidente probatorio che dovrebbe incominciare l'8 luglio. La Leitner ha scritto un comunicato stampa: «Nella ferma consapevolezza, che trova riscontro nell' ampia documentazione a disposizione della magistratura, di aver effettuato l'attività di manutenzione e i relativi controlli nel pieno rispetto del contratto e delle norme vigenti in materia, ribadiamo ancora una volta la nostra massima disponibilità a collaborare con gli organi inquirenti, anche con l'ausilio di periti che andremo a individuare tra riconosciute figure professionali nell'ambito funiviario per contribuire a far quanto prima chiarezza». Tutte le persone che hanno avuto a che fare con quell' impianto sono state iscritte nel registro degli indagati anche a loro tutela, cioè per poter partecipare agli accertamenti irripetibili che verranno fatti. Uno di questi è Federico Samonini, titolare Scf Monterosa, a cui spettava il controllo visivo della testa fusa: «Sì, era compito mio. La testa fusa della cabina precipitata era da cambiare il prossimo novembre. Sono già stato sentito dai carabinieri, qualche settimana fa. In piena trasparenza e collaborazione ho riportato tutto quello che ho fatto per l'impianto che da Stresa sale al Mottarone. Ho fornito tutta la documentazione. Penso che la mia iscrizione nel registro degli indagati sia un atto dovuto».  Forse le perizie tecniche verranno fatte nel bosco, oppure in un capannone in cui verrà trasportato tutto il materiale. Lo deciderà il gip dopo aver ascoltato i periti. Non è facile trasportare la cabina numero 3 finita ai margini del bosco. Ma quello che si capisce è che le attenzioni, adesso, sono tutte rivolte al motivo che ha originato la tragedia: perché la fune traente ha ceduto? Il resto della storia è noto: il capo servizio Tadini aveva dato ordine di lasciare inseriti i forchettoni che bloccavano i freni d' emergenza. Lo aveva fatto perché l'impianto continuava a essere difettoso, nonostante due interventi eseguiti dai tecnici della Rvs di Torino. Anche il tecnico Davide Marchetto, chiamato proprio per quegli interventi, il primo il 4 febbraio e il secondo il 30 aprile, è stato iscritto nel registro degli indagati. Già interrogato dalla procuratrice Olimpia Bossi, aveva spiegato la riparazione sulla cabina numero 3: «Era un problema relativo alla pompa della centralina del freno. In pratica un malfunzionamento determinava che il freno rimanesse chiuso bloccando la funivia. La pompa andava sostituita e così abbiamo fatto, la cabina ha ripreso a circolare regolarmente». Era febbraio. Ma a maggio lo stesso problema si è ripresentato. Da cosa dipendeva quell' anomalia?

Da "adnkronos.com" il 30 settembre 2021. La cabina 3 della funivia del Mottarone, precipitata lo scorso 14 maggio con 15 persone a bordo e al cui schianto sopravvisse solo il piccolo Eitan, già nel 2019 aveva problemi all'impianto frenante. Lo svela un ex dipendente che ascoltato dalla procura di Verbania lo scorso giugno ha consegnato delle registrazioni audio - conservate sul cellulare - che fanno riferimento al 27 maggio 2019. "Nelle registrazione - si legge a verbale - ci sono le discussioni con il vice capo servizio Silvio Rizzolo che mi diceva di aver già relazionato a Gabriele Tadini (capo servizio della funivia ai domiciliari) e Luigi Nerini (il gestore dell'impianto indagato). Nelle registrazioni si sente anche il Nerini intervenire nel suo ufficio ove ha minacciato di licenziarmi". La colpa, a dire dell'ex dipendente, è quello di aver riscontrato nel 2019 problemi alla cabina 3, "nello specifico sul quadro di bordo usciva pressione minima valvola di non ritorno" riscontrati anche "vari trafilamenti (perdite) di olio dalla centralina dei freni di emergenza". Proprio per “risolvere” i problemi ai freni la mattina dell'incidente la cabina 3 viaggiava con i forchettoni inseriti, così facendo la cabina priva del freno di emergenza è precipitata quando si è rotta la fune trainante per cause in fase di accertamento. Consegnata anche una foto della cabina 3, "con Tadini (Gabriele, il capo servizio dell'impianto della funivia, ndr) e forchettoni inseriti (anno 2019)" foto e video del giro di prova all'interno della cabina e "documentazione fotografica centralina impianto frenante (27 maggio 2019)", impianto sotto la lente degli esperti. Stefano Carlo Gandini, assunto nel dicembre 2017 e a lavoro nell'impianto fino al 2019, aveva come "diretto superiore Gabriele Tadini", uno degli indagati. In particolare, l'uomo racconta come il 28 maggio 2017 insieme al capo servizio Gabriele Tadini (agli arresti domiciliari dopo l'incidente) abbiano effettuato il controllo della cabina 3. "Lo stesso - si legge nel verbale dell'ex dipendente - mi disse che andava tutto bene, di stare tranquillo “tanto la funivia non cade”, ed inoltre mi rassicurò sul fatto che avrebbe annotato tutto sul libro di vettura, creandolo ex novo, cosa che non è mai stata fatta". I libri di vettura "sono a mio modo obbligatori ma non sono stati mai creati. Analogamente anche nel registro di controllo nulla è stato annotato". Sulle 'difformità' riscontrate sulla cabina il giorno precedente l'ex dipendente fece una nota "da me sottoscritta e consegnata a Luigi Nerini (gestore dell'impianto, indagato) per il successivo inoltro anche all'ingegnere Perocchio (Enrico, indagato). Non so che fine abbia fatto tale documento, io non ne ho mai sentito parlare", racconta l'ex dipendente che nello stesso periodo aveva anche ricevuto una lettera di pre-licenziamento.

Mottarone, la gip che scarcerò gli imputati ora guiderà il tribunale. Valentina Dardari il 23 Ottobre 2021 su Il Giornale. Donatella Banci Buonamici era stata esonerata lo scorso giugno ed era finita sotto indagine preliminare da parte del Csm. La gip Donatella Banci Buonamici, che a giugno era stata silurata dall'indagine sulla tragedia del Mottarone ed era finita sotto procedimento disciplinare al Csm, il Consiglio superiore della magistratura, secondo quanto riportato da Repubblica nelle prossime settimane guiderà il Tribunale di Verbania, subentrando all’attuale presidente, Luigi Montefusco, prossimo alla pensione. Domanda di pensionamento anche per il gip Elena Ceriotti che era a sua volta subentrata alla Banci Buonamici.

La tragedia del Mottarone

L’inchiesta sul Mottarone, tragedia che il 23 maggio 2021 era costata la vita a 14 persone a bordo della funivia schiantata al suolo, tornerà quindi nelle mani della giudice, la prima delle indagini preliminari. Il presidente Montefusco aveva nominato lei, nonostante fosse presidente di sezione, per fronteggiare alcune assenze di altri colleghi, quando arrivò il fascicolo con la richiesta di convalida dell’arresto dei tre indagati. Tutto bene fino a quando la Banci Buonamici non decise di scarcerare il gestore Luigi Nerini, il caposervizio Gabriele Tadini e il direttore d'esercizio Enrico Perocchio. In totale disaccordo con la procuratrice capo Olimpia Bossi. Secondo la Banci i tre indagati non meritavano di stare dietro le sbarre, almeno finché non vi sarà una sentenza di condanna.

Poco dopo la giudice venne esonerata dal caso, ufficialmente perché non erano state rispettate le indicazioni tabellari sull'assegnazione dei fascicoli. Al Csm ci sono adesso due procedimenti disciplinari aperti, uno per Banci Buonamici e l’altro per Montefusco. Il secondo però si estinguerà nel momento in cui il presidente andrà in pensione, il prossimo primo dicembre, congedandosi dalla magistratura, dopo 28 anni al tribunale di Verbania. Prima però dovrà fare fuori le ferie arretrate. Dovrà quindi essere il magistrato con maggiore esperienza, appunto la Banci Buonamici, a prenderne il posto, in attesa della nomina di un successore. Che potrebbe comunque richiedere tempo. Anche Elena Ceriotti aveva fatto richiesta di prepensionamento a luglio e dovrebbe andare in pensione da gennaio.

I tempi si allungano

Sarà quindi necessario nominare un terzo gip per seguire le indagini del Mottarone. Si dovrà infatti capire chi era a conoscenza del disinserimento del freno di emergenza della funivia, l’ormai famoso "forchettone", e se ci fossero responsabilità sul controllo dell’impianto. Il prossimo 6 dicembre è fissata l’udienza per l’incidente probatorio, con tanto di relazioni dei vari periti chiamati a studiare gli aspetti tecnici e informatici del caso. Ma adesso è in forse anche quella. Le parti coinvolte nel tragico incidente sono i 14 indagati, le decine di parti offese dei familiari delle vittime, oltre che di procura e tribunale. La testa fusa, il pezzo più importante da analizzare, è ancora incastrata nell’albero contro cui ha sbattuto violentemente la funivia. Inizialmente la vettura doveva essere rimossa l'11 ottobre, ma così non è stato e anzi, sembra che il recupero slitterà addirittura dopo il 3 novembre.

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni. 

Funivia, la Gip “garantista” Banci Buonamici a capo del Tribunale. Il presidente del Tribunale di Verbania Luigi Montefusco andrà in pensione assieme alla gip Elena Ceriotti, alla quale è stato assegnato il fascicolo "scippato" alla giudice Donatella Banci Buonamici. Il Dubbio il 23 ottobre 2021. Il presidente del Tribunale di Verbania Luigi Montefusco andrà in pensione dal primo dicembre. E al suo posto subentrerà la giudice Donatella Banci Buonamici. Parliamo della stessa gip a cui è stato “scippato” il fascicolo sulla strage della funivia dopo la decisione di scarcerare due degli indagati e di mandare il terzo ai domiciliari. Una scelta che fece gridare allo scandalo e alla quale, una settimana dopo, seguì la sostituzione della giudice da parte del presidente Montefusco, proprio nel giorno in cui la stessa avrebbe dovuto decidere sulla richiesta di incidente probatorio. Montefusco, secondo quanto riporta la Stampa, sarebbe in ferie da ieri e «potrebbe non rientrare più in servizio». Ma prima di assentarsi avrebbe depositato il provvedimento con cui conferma l’assegnazione del fascicolo alla gip Elena Ceriotti, che lo scorso luglio ha chiesto di andare in pensione da gennaio del prossimo anno. Alla giudice, «titolare per tabella del ruolo» ed esonerata a febbraio scorso da Banci Buonamici dalle funzioni di gip per la «grave situazione di sofferenza» del suo ufficio, è stato assegnato il caso lo scorso giugno. Una scelta messa in discussione anche dai due togati del Csm Sebastiano Ardita e Nino di Matteo, che hanno bocciato lo “scippo” del fascicolo. Ora sarà Donatella Banci Buonamici a dirigere il tribunale e a dover fare i conti con un altro cambio per l’inchiesta: sarà infatti necessario trovare un terzo gip per le indagini sull’incidente del 23 maggio scorso. Il 6 dicembre è prevista un’udienza per tirare le fila delle prime consulenze affidate ai periti della procura e ai consulenti dei 14 indagati per fare chiarezza sulle cause dell’incidente del Mottarone, ma data la complessità dell’indagine i tempi sono destinati ad allungarsi rendendo così necessario dover assegnare il fascicolo a un nuovo giudice. La notizia arriva a cinque mesi esatti dalla tragedia della funivia del Mottarone, costata la vita a 14 persone, con unico sopravvissuto il piccolo Eitan di cinque anni. E i tempi delle indagini sembrano protrarsi inesorabilmente, soprattutto per questioni tecniche. Da ormai dieci giorni i vigili del fuoco del comando provinciale del Vco stanno portando avanti gli interventi preparatori per la rimozione del relitto della cabina numero tre, alla cui analisi i periti attribuiscono fin dal primo giorno dopo lo schianto una importanza decisiva. Ieri è stata preparata la base su cui, secondo quanto si è appreso, dovrebbe essere appoggiata la parte superiore della cabina, sezionata e stabilizzata nei giorni scorsi: questa è a parte del relitto che più interessa ai tecnici perché è quella direttamente collegata alla «testa fusa», rimasta incastrata nel tronco di un albero vicino.

Mottarone, caos a Verbania: non ci sono abbastanza giudici per il processo. La gip alla quale è stato affidato il fascicolo sottratto a Banci Buonamici andrà in pensione a gennaio. E i giudici sono troppo pochi per evitare situazioni di incompatibilità. Simona Musco su Il Dubbio il 26 ottobre 2021. Il processo sulla strage del Mottarone rischia di arrivare ai nastri di partenza senza giudici. Con la conseguenza che per formare un collegio per il processo, a Donatella Banci Buonamici, presidente facente funzione del tribunale di Verbania dopo il pensionamento di Luigi Montefusco, toccherà pescare tra i colleghi del settore civile. È questo il clamoroso risvolto dell’assegnazione definitiva del fascicolo a Elena Ceriotti, la giudice alla quale a giugno è stato affidato, con un provvedimento giudicato illegittimo dal Csm, il fascicolo precedentemente in mano a Banci Buonamici e che dal 3 gennaio andrà in pensione. Una decisione, la sua, comunicata al presidente Montefusco in estate, ma della quale il resto del tribunale non sarebbe stato informato. Il fascicolo, dunque, rimarrà nelle sue mani per appena due mesi, quando, al massimo, si porterà a conclusione il solo incidente probatorio chiesto dalle difese. In seguito toccherà riassegnare il caso ad un nuovo gip e ciò creerà ulteriori situazioni di incompatibilità, in un tribunale che tra ufficio gip/gup e dibattimentale può fare affidamento, dal 2022, soltanto su cinque magistrati, presidente inclusa. La vicenda era già finita al centro di violenti polemiche che hanno portato all’apertura di due procedimenti disciplinari davanti al Csm, uno a carico di Banci Buonamici e l’altro a carico di Montefusco. Il 6 dicembre è prevista un’udienza per tirare le fila delle prime consulenze affidate ai periti della procura e ai consulenti dei 14 indagati per fare chiarezza sulle cause dell’incidente, ma data la complessità dell’indagine – la fase gip si concluderà probabilmente solo tra un anno – i tempi sono destinati ad allungarsi, rendendo così necessaria l’assegnazione ad un nuovo giudice, che dovrà prendere in carico tutti i fascicoli di Ceriotti. L’alternativa migliore sarebbe stata dunque quella di lasciare il fascicolo in mano a Banci Buonamici, che avendo gestito il caso in fase di convalida del fermo risulta già incompatibile per le fasi successive. D’altra parte, era stato il Csm a stabilire che l’autossegnazione del fascicolo, al netto delle altre irregolarità, non era da ritenersi illegittima. «Non emergono elementi da cui desumere che l’autoassegnazione abbia avuto finalità diverse dalla funzionalità dell’ufficio», aveva sentenziato la prima Commissione di Palazzo dei Marescialli. Una convinzione certificata dal plenum, durante il quale i togati Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita avevano stigmatizzato la scelta di sottrarre il fascicolo alla giudice, definendola «un grave vulnus all’organizzazione dell’ufficio idonea ad incidere sull’andamento del processo, dal momento che erano stati già adottati provvedimenti sulla libertà personale». Alla giudice rimarrebbe la possibilità di autoassegnarsi nuovamente il fascicolo a gennaio, evitando dunque ulteriori incompatibilità, ma date le polemiche passate tale opzione risulta più che improbabile. Toccherà, dunque, pescare nel bacino dei giudici disponibili – Rosa Maria Fornelli, Beatrice Alesci, Annalisa Palomba e Antonietta Sacco -, tra le quali verrà designata anche la gup. E così per la formazione del collegio rimarranno disponibili solo due giudici, con la necessità di far ricorso ai colleghi della sezione civile per coprire il terzo posto. Ma al di là del caso Mottarone, la situazione rischia di complicare tutto il carico di lavoro futuro del tribunale, che allo stato attuale non presenta problemi di arretrato, azzerato lo scorso anno. Da gennaio, infatti, toccherà ridistribuire tutto il ruolo del dibattimento, comprese le udienze già fissate dalla sostituta di Ceriotti, che molto probabilmente sarà Palomba. Una situazione, dunque, che rischia di avere conseguenze negative anche per altri processi importanti, come quelli relativi a EniChem e Montefibre, sulle morti da amianto. Contattata dal Dubbio, Banci Buonamici ha evidenziato la grave situazione in cui si verrà a trovare il tribunale ed ha ipotizzato di chiedere al Csm una copertura dei posti che rimarranno vacanti. «La situazione in cui ci troveremo a lavorare da gennaio è difficile», si è limitata a dire. E a ciò si aggiunge l’attenzione mediatica che da mesi si è riversata sul tribunale di Verbania, soprattutto a seguito della scelta di Banci Buonamici di non convalidare gli arresti dei primi tre indagati, finiti in carcere con un provvedimento motivato dal «clamore internazionale» suscitato dalla vicenda.

Strage Mottarone, i due scarcerati vanno ai domiciliari: il Riesame sconfessa la gip di Verbania che li aveva messi in libertà. Federica Cravero su La Repubblica il 28 ottobre 2021. Accolto il ricorso della procuratrice Bossi: misure cautelari anche per il gestore della funivia Nerini e il direttore Perocchio così come per il caposervizio Tadini. Dopo cinque mesi sono stati disposti gli arresti domiciliari per Enrico Perocchio e Luigi Nerini, rispettivamente direttore d'esercizio e gestore della funivia del Mottarone, dove il 23 maggio 14 persone sono morte nella caduta di una cabina. Sussistono infatti, secondo il tribunale del Riesame di Torino, le esigenze cautelari - in particolare quella del pericolo di reiterazione del reato - nei confronti anche dei due, che erano stati arrestati poco dopo l'incidente assieme al caposervizio Gabriele Tadini. La gip Donatella Banci Buonamici in quel momento non aveva convalidato i fermi ma aveva rimesso in libertà Nerini e Perocchio. Una decisione che aveva avuto pesanti strascichi, al punto che la giudice era stata poi sollevata dal caso e sostituita dalla collega Elena Ceriotti. Invece per Tadini era stata riconosciuta l'esigenza dei domiciliari, avendo lui tra l'altro confessato di aver avuto un ruolo determinante nella strage per aver disattivato i freni di emergenza con i cosiddetti "forchettoni". Erano state la procuratrice capo di Verbania, Olimpia Bossi, e la pm Laura Carrera a fare appello al Riesame contro la decisione della gip e cinque mesi dopo la linea della procura è stata avallata anche dai giudici torinesi. A distanza di così tanto tempo, durante la discussione davanti al Riesame, la procura non aveva più sostenuto l'ipotesi iniziale del pericolo di fuga, tuttavia aveva insistito sulla possibilità che replicassero delle condotte illecite. A fondare le accuse contro Nerini e Perocchio era stata la chiamata in correità di Tadini che secondo il tribunale della Libertà aveva fatto "un racconto articolato in molteplici e dettagliati contenuti descrittivi, circostanziato, senza iati narrativi né salti logici, coerente, ragionevole, privo di contraddizioni oltreché reiterato nella medesima struttura sostanziale sia davanti al pm che al gip". Inoltre Tadubu , "caposervizio da oltre 30 anni presso quell'impianto, ha riferito il funzionamento e i problemi tecnici con una completezza che rivela una conoscenza profonda della struttura". E ancora: "Tadini ha affermato senza contraddizioni che era perfettamente consapevole del fatto che non era consentito nel modo più assoluto viaggiare con i forchettoni inseriti e che per tale motivo non era neppure ipotizzabile che ciò venisse annotato nel registro giornaliero. Allo stesso modo ha detto di avere informato, sebbene non quel giorno né il giorno prima, Nerini e Perocchio e ha circostanziato tali comunicazioni". I giudici di Torino inoltre evidenziano che "l'esercente era costantemente presente sull'impianto ed era il referente gerarchico di Tadini, mentre Perocchio aveva la responsabilità funzionale che promana dal ruolo". "L'ipotesi fatta sin dall'inizio dall'accusa trova conferma. Il Riesame riconosce la validità della nostra impostazione". Lo afferma il procuratore di Verbania Olimpia Bossi, che aggiunge: "Soddisfatta? Non si può esserlo di fronte ad una tragedia come quella del Mottarone, oltre al fatto che siamo sempre in una fase cautelare". La misura non verrà comunque applicata immediatamente: i legali dei due indagati potrebbero fare ricorso. Quella al momento definita è comunque una fase cautelare, dunque non una sentenza sulle responsabilità che dovranno essere affronatate in un futuro processo: "Ai fini dell'adozione di una misura cautelare - spiegano i giudici del Riesame - è sufficiente qualunque elemento probatorio idoneo a fondare un giudizio di qualificata probabilità sulla responsabilità dell'indagato". Dunque i domiciliari sono misura ritenuta necessaria per evitare la reiterazione del reato e anche il pericolo di inquinamento probatoriodal momento che "Nerini è anche gestore di una seggiovia e una slittovia" e "Perocchio svolge la stessa attività anche su altri impianti. Ed è irrilevante la circostanza che a Perocchio sia stato sospeso in via cautelativa, fino a nuova comunicazione, il patentino di idoneità".

Mottarone, il Riesame scagiona i dipendenti sui forchettoni: non potevano disubbidire. Giampiero Casoni il 30/10/2021 su Notizie.it. Mottarone, il Riesame scagiona i dipendenti sui forchettoni: non potevano disubbidire né avrebbero mai potuto comprendere la portata della decisione. Sulla tragedia della funivia del Mottarone arriva un elemento di merito “indiretto”, indiretto perché arriva dal Tribunale del Riesame che di merito non si occupa ma che scagiona i dipendenti sui forchettoni: non potevano disubbidire. Il fondamentale passaggio cognitivo è contenuto nell’ordinanza che mette ai domiciliari gestore e direttore dopo il caposervizio Tadini che aveva ammesso le sue responsabilità e che sotto misura cautelare già c’era.  Tragedia della funivia, il Riesame scagiona i dipendenti sui forchettoni: non avevano né autorità né competenze per intuire il danno. Il dato è che in merito al terribile incidente dello scorso 23 maggio l’elemento della mancata rimozione dei forchettoni che forse innescò la strage non è attribuibile ai dipendenti. Perché? Perché a disporre di lasciarli inseriti fu Gabriele Tadini e loro non avevano né mezzi né skill per capire cosa avrebbe comportato la mancata rimozione. Autorità e skill che invece avrebbero avuto Luigi Nerini, gestore dell’impianto, ed Enrico Perocchio, direttore di esercizio. Il Riesame ha anche censurato la decisione della Gip di Verbania Buonamici di aver scarcerato i due senza tener conto di alcuni elementi. Sulla scorta della valutazione bis la coppia è andata ai domiciliari. La Gip avrebbe “peccato” in procedura anche nella decisione di censurare l’audizione di un teste chiave, a suo dire incriminabile e quindi non escutibile.  Dato che gli interrogatori di quella persona e di Tadini erano in sincrono e in sedi diverse l’uomo poteva benissimo essere interrogato. Ad ogni modo Tadini disse ai giudici che  la decisione di mantenere i forchettoni che hanno poi causato la rottura della fune e il conseguente crollo della cabina numero 3 era stata “condivisa da tutti”. 

Da huffingtonpost.it l'1 giugno 2021.  “Credo nell’esistenza e nell’immortalità dell’anima. Mike è presente con la sua energia intorno a me”. A parlare sulle pagine di Repubblica è Daniela Zuccoli, 71enne vedova di Mike Bongiorno, morto l′8 settembre del 2009 per un infarto. La Zuccoli afferma che la presenza di Mike si avverte, “e poi lui vede prima di noi, indirizza i nostri destini. Domenica scorsa, per esempio, è successo”: “Mio figlio Miki ha preso la funivia di Stresa mezz’ora prima che precipitasse la stessa cabina sulla quale era salito. Ha raggiunto il Mottarone per fare la discesa in mountain bike. Non posso non pensare che Mike lo abbia custodito”. A chi le sottolinea che possa essere “semplicemente una questione di sliding doors”, la vedova del conduttore risponde: “No, la verità è che nessuno muore davvero. Diventiamo universo, ci trasformiamo in energia e questa energia poi si tramuta in un corpo un numero indefinito di altre volte finché non ci ripuliamo fino in fondo”. Alla domanda “crede nella reincarnazione”, Daniela Zuccoli replica: “Non lo so, mi piace immaginare che siamo come uno zaino che ogni volta si fa più leggero fino a vuotarsi completamente, tanto da meritarci finalmente la pace”.

Mike Bongiorno, la moglie Daniela Zuccoli: "Mezz'ora prima che la funivia precipitasse, così da lassù ha salvato nostro figlio". Libero Quotidiano il 31 maggio 2021. Vive e "parla" ancora con il marito Mike Bongiorno (morto per un infarto l'8 settembre del 2009 nella suite di un albergo di Montecarlo) la moglie Daniela Zuccoli. Settantuno anni e 26 di differenza con il celebre conduttore, si dice convinta che lui protegga lei e la sua famiglia. E ha protetto suo figlio Miki domenica 23 maggio quando c'è stata la tragedia della funivia Stresa-Mottarone: "Non ci sono medium, fantasmi, tavolini che ballano. Coltivo una spiritualità di tipo cattolico, credo nell'esistenza e nell'immortalità dell'anima. Mike è presente con la sua energia intorno ame", spiega la Zuccoli in una intervista a La Repubblica. Lo sente da "una tensione sotto lo sterno, che si manifesta in due modi differenti. La prima fa male, è la sensazione dei rari abbandoni. La seconda rilassa e commuove, quando significa che Mike mi approva. E poi lui vede prima di noi, indirizza i nostri destini. Domenica scorsa, per esempio, è successo". Quindi racconta la moglie di Mike: "Mio figlio Miki ha preso la funivia di Stresa mezz' ora prima che precipitasse la stessa cabina sulla quale era salito. Ha raggiunto il Mottarone per fare la discesa in mountain bike. Non posso non pensare che Mike lo abbia custodito". Secondo Daniela Zuccoli non è destino. "No, la verità è che nessuno muore davvero", osserva. "Diventiamo universo, ci trasformiamo in energia e questa energia poi si tramuta in un corpo un numero indefinito di altre volte finché non ci ripuliamo fino in fondo". Insomma, una sorta di credo nella reincarnazione anche se la moglie di Mike Bongiorno non riesce a definirla esattamente così: "Non lo so, mi piace immaginare che siamo come uno zaino che ogni volta si fa più leggero fino a vuotarsi completamente", spiega, "tanto da meritarci finalmente la pace". 

Da tgcom24.com il 25 maggio 2021. L'operatore televisivo Nicola Pontoriero è deceduto nella zona del Mottarone, dove domenica è precipitata una cabina della funivia causando la morte di quattordici persone. Pontoriero, 62 anni, era sui sentieri che portano alla cima della montagna quando ha avuto il malore. I tentativi di rianimarlo - informa il 118 - si sono rivelati inutili. L'operatore tv è morto per un sospetto arresto cardiaco, avvenuto in prossimità del luogo dell'incidente alla funivia. Sul posto era presente il personale del soccorso alpino della guardia di finanza, che ha effettuato le prime manovre di rianimazione cardiopolomonare. In seguito è giunta l'eliambulanza del Servizio di Elisoccorso Piemontese, la cui equipe sanitaria ha proseguito le operazioni fino alla constatazione del decesso. Nicola era sempre il primo ad arrivare quando si trattava di andare a caccia di notizie o di raccontare una storia. E arrivava per primo, con "la telecamera già accesa" come si dice in gergo nel nostro lavoro. Perché Nicola non era solo un tele-cineoperatore ma per esperienza, professionalità, saggezza, ti potevi rivolgere a lui proprio come a un collega giornalista. Ciò che lui sapeva raccontare con le immagini, ti bastava seguirlo con due righe di testo, e il pezzo era già pronto, quasi “montato in macchina”, pronto per andare in onda. Poi c'era Nicola l'amico di sempre, compagno di tante avventure e di tante giornate trascorse in strada, per avere quell'esclusiva, quell'intervista, quelle immagini, appunto, che in scaletta facevano la differenza. Quando qualche volta sembrava che la cassetta fosse destinata a rimanere vuota, cercavi il suo sguardo da fratello maggiore e lui riusciva a trovare le parole per convincerti a non mollare, in un mestiere in cui sai che non devi mai cedere alla tentazione di guardare l’orologio. Quante volte ha avuto ragione lui, quante volte la sua caparbietà, la sua tenacia da capo troupe ha consentito a noi giornalisti di incassare i complimenti del Direttore, per questo o per quel servizio. Anche stavolta, sul Mottarone, Nicola Pontoriero era arrivato tra i primi, non aveva mollato e si era speso con tutto se stesso per portare a casa, insieme alla collega che era con lui in troupe, il migliore pezzo possibile. E' morto sul campo, come scriverebbero quelli bravi, facendo il suo lavoro, il nostro lavoro, con passione, con umiltà e professionalità, come solo quelli bravi sanno fare. Si è fermato solo quando il suo cuore si è fermato, un cuore generoso che in questi lunghi anni abbiamo imparato ad amare e a conoscere. Ci resterà il suo sorriso, dietro un paio di baffi ormai bianchi, la sua ironia e la sua voglia di arrivare sempre per primo sui fatti. "A telecamera accesa". Già, la telecamera di Nicola, che se fosse una maglia di calcio, bisognerebbe ritirarla come si fa con la maglia dei campioni e metterla in bacheca. Ciao Nicola, sarai sempre in onda, in ogni nostra troupe, in ogni servizio. Il direttore di News Mediaset Andrea Pucci, il direttore del Tgcom24 Paolo Liguori, i dirigenti e tutti i lavoratori di Mediaset, i giornalisti e tutti i colleghi che lo hanno conosciuto e apprezzato, si uniscono al dolore che ha colpito la famiglia Pontoriero per questo grave lutto.

"Dio è felice quando gli italiani muoiono". L'odio social dei francesi. Serena Pizzi il 24 Maggio 2021 su Il Giornale. Dopo la tragedia di Stresa, i francesi hanno iniziato a bombardare i social con messaggi disgustosi: "Italiani uccisi dopo il cocainagate all'Eurovision". Mentre ancora l'Italia festeggiava la vittoria dei Maneskin all'Eurovision Song Contest e si difendeva dalle accuse choc della Francia ("Siete dei cocainomani"), siamo stati travolti da una tragedia. Un cavo della funivia del Mottarone, in Piemonte, si è spezzato a 100 metri dalla vetta e la cabina è precipitata. 14 persone sono morte, tra cui due bambini di 2 e 9 anni. Un bimbo di appena 5 anni, invece, è ricoverato a Torino in codice rosso. Una catastrofe. Una sciagura. Un dramma che avrebbe dovuto sconvolgere tutti e che invece ha raccattato per strada i soliti sciacalli. Fa un po' specie dover scrivere di questo. Fa specie perché, mentre due persone sono appesa al filo della vita e altre 14 sono morte, qualche centinaio di inetti gode per il brutto fatto di cronaca accaduto a Stresa. Ci spieghiamo meglio. Ieri pomeriggio, i principali organi di informazione europei hanno parlato della morte dei nostri concittadini. Tutto normale, verrebbe da dire, se non per un dettaglio. Dopo qualche ora, i social sono stati bombardati da vergognosi messaggi (andare su Twitter - digitare "télephérique italie" - per credere). Trascriviamo. "Dio è felice quando gli italiani muoiono". "Dio ha ucciso 13 figli di puttana italiani oggi. Grazie Dio. Baci". "Caduta la funivia a Stresa: una giusta punizione del karma dopo il cocainagate dei Maneskin all'Eurovision". "Questo è il karma, ahahah". "Gli italiani sono disoccupati", scrive uno. L'altro risponde: "Si eliminano anche velocemente". "L'euforia dell'Eurovision distrutta dalla caduta di una funivia. Ballavano lì dopo la vittoria e così le corde di sono rotte. Ecco. La Francia ha dovuto lasciare la vittoria a una canzone vuota". "La funivia è gestita dalla mafia?". Potremmo continuare a riempire righe su righe di insulti. Sui social ce ne sono a bizzeffe, di frasi simili. Per fortuna c'è anche qualche perla rara (francese) che non sta a questo gioco al massacro. "Mi dispiace così tanto - scrive un ragazzo su Twitter -. Quelle persone non rappresentano la Francia. Sono felice per la vittoria dell'Italia quest'anno e spero di poter viaggiare lì per sostenere la Francia (o forse un altro Paese, chi lo sa ahah). Non hai rubato la tua vittoria, te lo sei meritato. Forza Italia". Ovviamente, sotto a tanta violenza si è scatenato il finimondo ed è ripartita la "guerra" Francia-Italia. I nostri cugini rosiconi ce l'hanno a morte con noi per la vittoria dell'Eurovision e ci augurano le peggiori cose (ma vi sembra normale arrivare a tanto?!?). Gli italiani rispondo a tono e purtroppo - a volte - si abbassano a certi livelli di cattiveria. Una "guerra" di insulti che non porta a nulla, che non riporterà in vita i 14 morti e che non darà forza ai due in ospedale né alle famiglie che hanno perso tutto. E se la "guerra" tra noi e loro è fine a se stessa, dobbiamo riflettere su tanta cattiveria. È davvero possibile che una competizione musicale, con una mancata vittoria (della Francia), con accuse infamanti verso un cantante e una nazione intera (ci danno dei drogati) possa portare a tanto odio? È possibile che esista anche solo un francese (anzi, diciamo più in generale un uomo) capace di godere sulle spalle della tragedia altrui? Se la risposta è sì, non è di certo un uomo.

L'aereo, il cavo, la caduta: così in 20 morirono sul Cermis. Paolo Mauri il 30 Maggio 2021 su Il Giornale. Il 3 febbraio del 1998 venti persone trovarono la morte sulla funivia dell'Alpe del Cermis quando un caccia EA-6B dei Marines tranciò i cavi di sostegno. Il Vmaq-2 era uno stormo dei Marines normalmente basato presso la Marine Air Station di Cherry Point, North Carolina. In quell'inverno del 1998 era schierato ad Aviano (Pn), dove era arrivato ad agosto dell'anno precedente per pattugliare i cieli della Bosnia con la missione “Deliberate Guard”. Lo stormo utilizzava i velivoli EA-6B “Prowler” per effettuare missioni di guerra elettronica (o Electronic Warfare in gergo militare). I primi giorni di febbraio di quell'anno rappresentavano gli ultimi del suo dispiegamento di sei mesi in Italia, e allo stormo furono assegnate alcune missioni di addestramento a bassa quota prima di tornare in Patria. Il Prowler, lungo 18 metri con un'apertura alare di 16, è un aereo a quattro posti progettato per bloccare i radar e le comunicazioni nemiche e prevenire attacchi contro aerei da combattimento. A differenza dei caccia, l'EA-6B è un aereo subsonico relativamente lento, soprannominato “Sky Pig” dai suoi piloti, essendo derivato da un aereo da attacco ben noto che è stato la spina dorsale dell'Us Navy e dell'aviazione dei Marines per decenni: l'A-6 “Intruder”. In quel 3 febbraio i destini dei 4 aviatori dei Marines si incroceranno, tragicamente, con quelli di 20 persone che erano giunte in un angolo particolare delle Dolomiti per godersi la neve e i suoi paesaggi mozzafiato: l'Alpe del Cermis.

Il volo di addestramento. Tutta la zona è costellata di impianti di risalita e durante la stagione invernale è molto frequentata dai turisti, non solo italiani. Quel giorno il tempo è sereno e si presenta perfetto per sciare e volare. Sulla base Usa di Aviano, l'EA-6B Prowler, nominativo di chiamata “Easy 01”, si appresta a decollare. L'equipaggio è composto dal capitano Richard J. Ashby, dal navigatore, il capitano Joseph Schweitzer, e da altri due parigrado addetti ai sistemi di guerra elettronica: William Rancy e Chandler Seagraves. Il velivolo deve effettuare una missione a bassa quota di routine. Una missione senza storia, come tante altre effettuate nei cieli d'Europa. Il piano di volo prevedeva il passaggio sopra Cortina d’ Ampezzo, l’attraversamento dell’Alto Adige, lo sconfinamento in Lombardia fino a Ponte di Legno, la discesa verso la pianura Padana, a Casalmaggiore. Quindi il ritorno a nord, passando per Castelnuovo veronese, il Lago di Garda, la risalita attraverso la Valle dei Laghi, lo sbocco nella valle dell’Adige per il passaggio in val di Cembra sino a Stramentizzo, dove l'aereo doveva puntare puntato verso la Marmolada e poi scendere in Veneto e far ritorno in Friuli. La missione, come detto, deve essere effettuata a bassa quota: il limite viene fissato a mille piedi (300 metri) anche se una disposizione italiana dal 1997 vietava il volo sotto i 2mila piedi (600 metri) nel sorvolo del Trentino alto Adige. La velocità massima consentita è di 450 nodi (ottocento chilometri all'ora). L'EA-6B decolla alle 14.35 da Aviano e quasi da subito il pilota non rispetta le limitazioni: risulta infatti che per lunghi tratti Ashby spinge il Prowler a una velocità di 540 nodi (mille chilometri all'ora) portandolo a una quota molto al di sotto non solo di quanto consentito dalle regole italiane (600 metri), ma anche di quanto previsto dal piano di volo (300 metri). L'aereo sfreccia basso e veloce, zigzagando tra le valli alpine. Possiamo immaginare la sensazione di potenza mista all'adrenalina che pervade il pilota durante un volo simile. È innegabile che sia un sentimento comune a qualsiasi aviatore si trovi in quella stessa situazione: le montagne innevate, splendide nella loro maestosità, le valli strette, l'alta velocità. Un mix “adrenalinico”, come dicevamo, irresistibile, e la disciplina viene presto dimenticata. Una disciplina troppo spesso dimenticata, come vedremo. A un certo punto Ashby devia dalla rotta prestabilita per imboccare la Val di Fiemme: una decisione fatale.

Troppo veloce, troppo basso. L'EA-6B vola basso, troppo basso, quasi sfiorando le cime degli alberi. Alle 15.06 la torre di controllo di Aviano perde il contatto radio con il Prowler, che si trovava a volare sotto le vette che incorniciano le valli. Alle 15.13 il destino di 20 persone che stanno scendendo dall'Alpe del Cermis sulla funivia del comprensorio sciistico si incrocia, fatalmente e tragicamente, con quello dei 4 militari dell'aviazione dei Marines. Il “Prowler” del capitano Ashby, che forse sciaguratamente sta cercando di passare sotto i cavi dell'impianto di risalita, o forse non si è accorto della loro presenza, li trancia di netto con l'ala destra nonostante il tentativo, inutile, di evitarli. L'aereo in quel momento vola a una velocità di 540 miglia orarie (870 chilometri all'ora) e a una quota compresa tra 260 e 330 piedi (80 e 100 metri). La gialla cabina della funivia, con a bordo 20 persone, precipita per oltre 80 metri in un volo di sette interminabili secondi andando a schiantarsi sul fianco innevato della montagna. Nessuno di essi sopravvive. Alle 15.21, il Prowler emerge dall'ombra delle montagne e si ristabilisce il contatto radio. Un controllore del traffico aereo italiano ad Aviano sente dalla radio dell'equipaggio che l'aereo ha colpito qualcosa, probabilmente un cavo. In aeroporto viene dichiarata l'emergenza come se si fosse trattato di un “bird strike”, ovvero quando gli aeromobili subiscono lievi danni dopo essersi scontrati con un uccello in volo o ne hanno risucchiato uno nei motori. Alle 15.26 “Easy 01”, perdendo liquido idraulico, atterra ad Aviano. L'equipaggio evacua l'aereo così rapidamente che uno dei quattro si storta una caviglia saltando sull'asfalto. I meccanici della base riferiscono che il “Prowler” è stato seriamente danneggiato in quattro punti. Sul bordo anteriore dell'ala destra, che evidentemente aveva tagliato i cavi, si notano due squarci a diverse decine di centimetri di distanza, ciascuno profondo circa quindici centimetri. Anche la coda è rimasta gravemente danneggiata, probabilmente, come ritengono gli investigatori, quando il più pesante dei due cavi si è spezzato agendo come una frusta. Frattanto, i soccorritori che giungono sul luogo del disastro non possono fare altro che estrarre dalle lamiere contorte della cabina i cadaveri di 7 turisti tedeschi, 5 belgi, 3 italiani (tra cui il manovratore), 2 polacchi, 2 austriaci e un olandese.

Si mette in moto la giustizia italiana. Quella sera sui telegiornali nazionali passano le immagini del disastro, e un fotogramma in particolare, quello di un cavo tranciato di netto, fa scattare la macchina della giustizia e quella della diplomazia. Il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton telefona a un Romano Prodi – allora a Palazzo Chigi – a dir poco furente. Clinton nei giorni successivi, sarà anche costretto, dai sentimenti antiamericani sollevatisi in Italia, a porgere pubbliche scuse. Il procuratore della Repubblica di Trento Francantonio Granero parte alla volta di Aviano dalla Val di Fiemme, e insieme al sostituto Bruno Giardina ottiene dai militari americani di far visionare il “Prowler” alle autorità italiane. Gli inquirenti riescono a entrare nell’hangar, ma la scatola nera non c'è più: rispunterà qualche giorno dopo coi dati cancellati. Un tentativo palese di depistaggio, effettuato anche dagli stessi piloti del velivolo, che avevano ripreso il volo incriminato con una cinepresa amatoriale fatta sparire all'atterraggio per sostituirne la cassetta con una “vergine”: quella su cui sono incise le immagini dell'incidente viene distrutta tre o quattro giorni dopo (presumibilmente intorno al 7 febbraio) dallo stesso capitano Schweitzer, che la getta in un falò quando si accorge che la situazione personale dei piloti si sta aggravando. Più tardi, ad agosto, quando questa storia viene scoperta, Schweitzer, messo alle corde dalla testimonianza di Seagraves, ammette che nel filmato erano presenti immagini del passaggio a volo capovolto sulla cresta delle montagne e altri segmenti del tragico volo, dicendo di averla distrutta perché preoccupato che tali elementi sarebbero stati “interpretati male” dagli investigatori. La magistratura italiana, così come l'opinione pubblica, preme affinché l'equipaggio dell'EA-6B venga processato in Italia, ma esistono gli accordi internazionali, e uno di questi – lo Stanag 3531 in ambito Nato – prevede, come indirizzo di carattere generale, che la responsabilità della condotta dell’investigazione di sicurezza del volo venga delegata alle autorità militari dello Stato che ha impiegato l’aeromobile, pur indicando come titolare primario per l’investigazione lo Stato ove sia avvenuto l’incidente, e che, solo nel caso in cui quest’ultimo non sia in grado di svolgere l’inchiesta, la responsabilità venga riattribuita allo Stato sul cui territorio sia accaduto l’incidente. Aereo americano, processo americano. A marzo del 1999 la corte marziale statunitense assolve il pilota Richard Ashby, sulla cui testa pendevano 20 capi di accusa tra cui omicidio colposo, violazione di consegna e distruzione di proprietà, dopo 7 ore di camera di consiglio. Gli avvocati di Ashby sostengono che l'impianto di risalita non era sulle mappe militari del capitano, un punto su cui i pubblici ministeri e gli avvocati della difesa si trovano d'accordo. La difesa riesce a provare anche che il radar-altimetro non funzionava bene – ma il sospetto è che lo avessero spento – e che un'illusione ottica faceva sembrare che l'aereo stesse volando più in alto di quanto non fosse. Inoltre, i testimoni hanno riferito che l'equipaggio del “Prowler” potrebbe non essere stato informato che la limitazione dell'altitudine di volo nell'area era stata aumentata da mille a 2mila piedi (305-610 metri). Ashby e Schweitzer vengono comunque processati e condannati per intralcio alla giustizia per aver distrutto il nastro con una prova ritenuta fondamentale: il primo viene condannato a sei mesi e al congedo con disonore, venendo scarcerato per buona condotta dopo cinque, il secondo invece patteggia e in questo modo, dopo essere stato anch'esso congedato, riesce a evitare il carcere.

L'esito della Commissione parlamentare d'inchiesta. L'impatto mediatico è comunque forte e la vicenda scopre un vaso di Pandora che le autorità militari americane avrebbero preferito restasse chiuso. Le indagini, certificate anche dalla Commissione parlamentare di inchiesta italiana, dimostrano delle “falle” nella catena di comando statunitense e il quasi sistematico non rispetto delle norme di sicurezza del volo da parte dei piloti statunitensi, sul cui agire i comandi americani chiudevano più di un occhio. Le indagini della Commissione permettono infatti di raccogliere una serie di indizi che fanno ritenere i reparti di volo dei Marines in Italia avvezzi a essere indisciplinati quando si trovavano a operare fuori da uno specifico contesto bellico. Usi a voli a bassissima quota in violazione delle regole di sicurezza e, fattore ancora più sconcertante, che la rotta Av047, quella del volo della tragedia, fosse sfruttata, per le possibilità panoramiche e spettacolari che offriva ai piloti. Nella fattispecie sembra che proprio la deviazione dalla rotta stabilita in quel giorno di febbraio fosse stata fatta dal capitano Ashby per effettuare un passaggio particolarmente spettacolare e così festeggiare il prossimo rimpatrio. I comandanti erano dunque consapevoli, e responsabili, della condotta dei propri piloti e le tolleravano per malinteso spirito di gruppo. Questo assunto trova conferma nel sollevamento dall'incarico del tenente colonnello Muegge, comandante del Vmaq-2, che è stato trovato colpevole di violazione di consegna da parte della corte marziale statunitense. All’epoca dell’incidente, si legge ancora nel rapporto della Commissione, ci sono state carenze e complessità nella catena di comando americana e nella sua azione di supervisione, evidenziando carenze nella diffusione delle regole di volo italiane tra il personale americano, oltre alla scarsa chiarezza e incisività dei collegamenti tra comandi italiani e americani nelle nostre basi. Questa situazione sembra aver favorito una prassi volta a effettuare attività di volo a bassa quota al di fuori delle regole. Questo spiega sia perché le quote di volo non venissero sistematicamente rispettate, sia perché i comandi americani preferissero usare carte topografiche proprie, in loco di quelle fornite dall'Aeronautica Militare, che, nella fattispecie, indicavano la presenza della funivia.

Giustizia non è stata fatta. Cosa resta alle famiglie? Cosa rimane da dire alla giustizia italiana? Poco o nulla. A febbraio del 1999 il governo italiano paga 65mila dollari alle famiglie di ogni vittima. Più tardi, a maggio dello stesso anno, il Congresso degli Stati Uniti respinge un disegno di legge che avrebbe istituito un fondo di risarcimento di 40 milioni di dollari per le famiglie delle vittime. Successivamente, a dicembre, il Parlamento italiano approva un ulteriore risarcimento di 1,9 milioni di dollari per vittima, di cui, secondo i trattati Nato, gli Stati Uniti sono obbligati a versarne il 75%. Anni dopo, nel 2011, uno scoop de La Stampa, che ottiene dei documenti dei Marines riservati, ci porta a conoscenza del pieno riconoscimento delle responsabilità dei piloti già un mese dopo l'incidente. “La causa di questa tragedia è che l'equipaggio ha volato molto più in basso di quanto autorizzato a volare, mettendo a rischio se stesso e gli altri”, si legge, ma non è servito a nulla, come non sono serviti quei soldi di risarcimento per una giustizia che non è stata fatta.

Paolo Mauri. Nato a Milano nel 1978 trascorro buona parte della mia vita vicino Monza, ma risiedo da una decina d’anni in provincia di Lecco. Dopo il liceo scientifico intraprendo studi geologici e nel frattempo svolgo il servizio militare in fanteria a Roma. Ho scritto per Tradizione Militare, il periodico dell’Associazione Nazionale Ufficiali Provenienti dal Servizio Attivo (Anupsa). Attualmente scrivo per Gli Occhi della Guerra e ilGiornale.it. Appassionato di fotografia, storia e forze armate pratico la scherma a livello agonistico e sono anche istruttore regionale presso il Circolo della Scherma Lecco dove ricopro la carica di dirigente e addetto stampa

Da lastampa.it il 22 novembre 2021. Il più grande aereo passeggeri bimotore mai prodotto da Boeing ha fatto il suo primo debutto internazionale al Dubai Airshow 2021, dando al pubblico uno sguardo al nuovo aereo di punta sia all'interno che all'esterno a poco meno di due anni dal suo primo volo nel gennaio 2020. Il progetto è uno dei più ambiziosi di Boeing e mira a creare un'offerta bimotore con una capacità paragonabile a quella del 747 combinata con efficienze di un 787 Dreamliner. Quando il 777X entrerà in servizio, Boeing smetterà di produrre il 747 e per la prima volta dagli anni '50 non avrà jet a quattro motori. Ci vorranno ancora almeno due anni prima che un passeggero possa mettere piede a bordo del 777X. Boeing attualmente prevede di effettuare la prima consegna a un cliente ancora non identificato alla fine del 2023. Il costo è di 442 milioni di dollari. Boeing ha lanciato il programma 777X nel novembre 2013 con due aerei, il più grande 777-9 e il più piccolo 777-8. Ogni aereo è in grado di far volare circa 400 passeggeri per più di 7.000 miglia nautiche.

·        Il MOSE: scandalo infinito.

Mose, scandalo senza fine. Alberto Vitucci su L'Espresso il 27 settembre 2021. Per completare l’opera saranno necessari altri due anni e oltre un miliardo di euro in più. I tecnici denunciano “sprechi e cialtronerie”. Altri due anni di ritardo sulla fine dei lavori. Un miliardo di spesa in più. I cantieri fermi da mesi e la manutenzione che non parte, con la corrosione sott’acqua che avanza. Lo scandalo Mose non finisce mai. Le tangenti, gli sprechi, i ritardi, gli errori. Adesso l’incuria e la mancata manutenzione, che ne mettono a rischio il funzionamento nel prossimo futuro, proprio mentre la stagione delle acque alte si avvicina e Venezia è ancora indifesa. L’ultima vergogna sono tubi e materiali metallici arrugginiti e accatastati all’aperto nell’isola del Mose di Treporti. Proprio quella che aveva ospitato un anno fa l’“inaugurazione” in pompa magna alla presenza dell’ex premier Conte. Tubazioni, barre, giunti in carbonio abbandonati alla salsedine. All’aperto, senza un magazzino che li protegga. Sono preziosi materiali di ricambio, comprati dal Consorzio Venezia Nuova per sostituire quelli ammalorati e lasciati lì, nell’isola del Mose a San Nicolò. Adesso i ricambi sono messi peggio degli originali. Sono stati fatti sparire in gran fretta, quasi tutti da buttare.  Un danno da decine di milioni di euro. Possibile che nessuno se ne sia accorto? Nel novembre scorso l’ingegnere specialista in corrosione Susanna Ramundo, consulente del ministero delle Infrastrutture, aveva inviato una relazione preoccupata sul tema. «I ricambi sono da buttare», scriveva al Provveditore che le chiedeva un parere. Segnalando «cialtronerie e disattenzioni». «Tubi antincendio corrosi, giunture completamente scrostate e ammalorate». E poi le cataste di metallo all’aperto, in mezzo alla laguna salmastra. In pochi mesi tutto è diventato inservibile. Con uno spreco di decine di milioni di euro. Di chi la responsabilità? Da due anni a guidare il Mose è stata scelta una commissaria straordinaria, Elisabetta Spitz, che ha sostituito i commissari nominati dall’Anac dopo lo scandalo del 2014. La situazione non è cambiata. Anzi, i cantieri in laguna sono stati bloccati, anche per la crisi finanziaria di quello che era il monopolista più potente d’Italia, il Consorzio Venezia Nuova. Ma gli sprechi continuano. Tanto che la provveditora Cinzia Zincone, ricevuto il rapporto, aveva inviato una relazione alla Procura della Corte dei Conti, affinché indagasse   sulle responsabilità. La Guardia di Finanza ha aperto un’inchiesta, la Procura indaga. Ma i rapporti tra Spitz e Zincone sono improvvisamente peggiorati. Fino all’epilogo di Ferragosto. Zincone «sospesa» per due mesi per aver parlato con un giornalista. Poi accusata di usufruire di un alloggio demaniale (la casetta del custode nella darsena del Magistrato alle Acque). Infine di aver liquidato, come sollecitato dal governo, aziende che avanzavano soldi dopo aver concluso i lavori e rischiavano il fallimento. Decisione che ha destato stupore e proteste. A firmarla, la nuova direttrice generale del ministero, Ilaria Bramezza, direttrice del Comune di Venezia quando sindaco era Paolo Costa, ex ministro dei Lavori pubblici, e poi della Regione con Luca Zaia. Sospensione decisa senza nemmeno sentire l’“imputata”, che non trova precedenti neanche negli anni bui dello scandalo delle tangenti Mose. Da cui Zincone, dirigente apicale dello Stato vicina alla pensione, non era stata nemmeno sfiorata. Allora? Si dice che la questione sia soprattutto economica. Per il Mose è arrivato un altro miliardo di euro da spendere, il che porta il totale per la grande opera a 6 miliardi e mezzo.  Uno in più del previsto. La commissaria Spitz preferirebbe dirottare le risorse solo al completamento della grande opera. Zincone aveva aperto un dialogo con gli enti locali, i comitati e la società civile. Per indirizzare maggiori risorse agli interventi di compensazione in laguna, richiesti dall’Unione europea e mai avviati. C’è anche la questione aperta dell’Autorità per la laguna. Le nomine in arrivo per il nuovo organismo che dovrebbe governare la salvaguardia, sostituendo il Provveditorato, il Consorzio e gli enti locali. Il mondo ci guarda. Dopo tanti rinvii e ritardi, la promessa solenne era quella di concludere i lavori del Mose e consegnare l’opera collaudata entro il 31 dicembre 2021. In questi giorni, con la firma di un nuovo “Atto aggiuntivo” alla Convenzione del 1991, si è stabilito che se ne parlerà forse, a fine 2023. 40 anni dopo il progetto, 20 anni dopo la posa della prima pietra. Intanto il contatore gira, le spese aumentano - il commissario costa un milione in consulenze - e la corrosione sott’acqua, denunciata più volte dall’Espresso, va avanti indisturbata. Venezia è ancora esposta alle acque alte. I test dello scorso anno hanno dato esito positivo, ma dovranno essere ripetuti in condizioni di mare estremo. E qui si apre un altro capitolo. Perché quel maledetto 12 novembre del 2019 le paratoie del Mose, che sembravano pronte, non sono state alzate? La città forse non sarebbe stata travolta dall’acqua alta più alta di sempre dopo quella del 4 novembre del 1966 (189 centimetri). Il motivo è scritto in un rapporto firmato da Francesco Ossola, ex amministratore straordinario e responsabile tecnico del Mose dal 2015, scelto adesso da Spitz come consulente tecnico e della sicurezza. Nel verbale di ispezione datato 6 novembre 2019 (sei giorni prima della catastrofe) si legge che durante quelle prove «volavano bulloni». Molti non erano stati fissati né controllati. Dunque il Mose non era pronto a essere sollevato. Anzi, sarebbe stato pericoloso se messo in funzione. E Venezia andò sott’acqua. La lista delle “criticità” si allunga di giorno in giorno. Allora l’ingegnere Ramundo esperta di corrosione aveva scritto: «Le tubazioni di fissaggio sono tutte bucate. L’acciaio al carbonio non verniciato all’interno produce ossidi di ferro che vengono trasportati e corrodono tutto, comprese le costosissime valvole di acciaio Super Duplex». Nessuna risposta. C’è anche l’inquinamento “batteriologico”: «Nei serbatoi d’acqua non è mai stato aggiunto nessun biocita», scrive Ramundo, «e quindi si sviluppa anche la corrosione microbiologica. Le tubazioni del sistema antincendio sono realizzate in carbonio non verniciato all’interno. E le joint box che servono per portare i segnali di protezione catodica allagate e non funzionanti». Errori e lavori malfatti. Segnalazioni che Ramundo e la stessa Zincone mettevano a verbale nelle lunghe riunioni del Cta, il Comitato Tecnico amministrativo del ministero che deve dare il via ai progetti.  «L’abbiamo detto e nessuno ha fatto nulla», dice. Anche Zincone, ora precipitosamente allontanata dopo la sua denuncia alla Corte dei Conti - e l’intervista alla Nuova Venezia in cui ribadiva quanto scritto al ministero, cioè che l’avvento del commissario non era servito a nulla - aveva chiesto per ben quattro volte di effettuare lo “stato di consistenza” alle bocche. Ispezione concessa solo nel giugno scorso, dopo il sopralluogo della Guardia di Finanza. Ramundo si era dimessa nel marzo scorso per protesta. Dopo aver inviato una durissima lettera di denuncia. «La corrosione sott’acqua va avanti e non si è fatto nulla», aveva scritto, «le strutture sono ammalorate e in qualche caso a rischio. La corrosione dell’acciaio sott’acqua potrebbe anche provocare il cedimento della struttura». Ramundo, che ha firmato anche le perizie per il crollo del ponte Morandi a Genova, lo sa bene. La corrosione va fermata. Ma il tempo passa, e la situazione si fa sempre più critica. Dopo i miliardi spesi, commissari che si moltiplicano con i loro costi, scandali e nuove promesse, il Mose si conferma come la più grande incompiuta d’Italia. La vedremo finita, se va bene, nel 2024Altri due anni di ritardo sulla fine dei lavori. Un miliardo di spesa in più. I cantieri fermi da mesi e la manutenzione che non parte, con la corrosione sott’acqua che avanza. Lo scandalo Mose non finisce mai. Le tangenti, gli sprechi, i ritardi, gli errori. Adesso l’incuria e la mancata manutenzione, che ne mettono a rischio il funzionamento nel prossimo futuro, proprio mentre la stagione delle acque alte si avvicina e Venezia è ancora indifesa. L’ultima vergogna sono tubi e materiali metallici arrugginiti e accatastati all’aperto nell’isola del Mose di Treporti. Proprio quella che aveva ospitato un anno fa l’“inaugurazione” in pompa magna alla presenza dell’ex premier Conte. Tubazioni, barre, giunti in carbonio abbandonati alla salsedine. All’aperto, senza un magazzino che li protegga. Sono preziosi materiali di ricambio, comprati dal Consorzio Venezia Nuova per sostituire quelli ammalorati e lasciati lì, nell’isola del Mose a San Nicolò. Adesso i ricambi sono messi peggio degli originali. Sono stati fatti sparire in gran fretta, quasi tutti da buttare.  Un danno da decine di milioni di euro. Possibile che nessuno se ne sia accorto? Nel novembre scorso l’ingegnere specialista in corrosione Susanna Ramundo, consulente del ministero delle Infrastrutture, aveva inviato una relazione preoccupata sul tema. «I ricambi sono da buttare», scriveva al Provveditore che le chiedeva un parere. Segnalando «cialtronerie e disattenzioni». «Tubi antincendio corrosi, giunture completamente scrostate e ammalorate». E poi le cataste di metallo all’aperto, in mezzo alla laguna salmastra. In pochi mesi tutto è diventato inservibile. Con uno spreco di decine di milioni di euro. Di chi la responsabilità? Da due anni a guidare il Mose è stata scelta una commissaria straordinaria, Elisabetta Spitz, che ha sostituito i commissari nominati dall’Anac dopo lo scandalo del 2014. La situazione non è cambiata. Anzi, i cantieri in laguna sono stati bloccati, anche per la crisi finanziaria di quello che era il monopolista più potente d’Italia, il Consorzio Venezia Nuova. Ma gli sprechi continuano. Tanto che la provveditora Cinzia Zincone, ricevuto il rapporto, aveva inviato una relazione alla Procura della Corte dei Conti, affinché indagasse   sulle responsabilità. La Guardia di Finanza ha aperto un’inchiesta, la Procura indaga. Ma i rapporti tra Spitz e Zincone sono improvvisamente peggiorati. Fino all’epilogo di Ferragosto. Zincone «sospesa» per due mesi per aver parlato con un giornalista. Poi accusata di usufruire di un alloggio demaniale (la casetta del custode nella darsena del Magistrato alle Acque). Infine di aver liquidato, come sollecitato dal governo, aziende che avanzavano soldi dopo aver concluso i lavori e rischiavano il fallimento. Decisione che ha destato stupore e proteste. A firmarla, la nuova direttrice generale del ministero, Ilaria Bramezza, direttrice del Comune di Venezia quando sindaco era Paolo Costa, ex ministro dei Lavori pubblici,  e poi della Regione con Luca Zaia. Sospensione decisa senza nemmeno sentire l’“imputata”,  che non trova precedenti neanche negli anni bui dello scandalo delle tangenti Mose. Da cui Zincone, dirigente apicale dello Stato vicina alla pensione, non era stata nemmeno sfiorata. Allora? Si dice che la questione sia soprattutto economica. Per il Mose è arrivato un altro miliardo di euro  da spendere, il che porta il totale per la grande opera a 6 miliardi e mezzo.  Uno in più del previsto. La commissaria Spitz preferirebbe dirottare le risorse solo al completamento della grande opera. Zincone aveva aperto un dialogo con gli enti locali, i comitati  e la società civile. Per indirizzare maggiori risorse agli interventi di compensazione in laguna, richiesti dall’Unione europea e mai avviati. C’è anche la questione aperta dell’Autorità per la laguna. Le nomine in arrivo per il nuovo organismo che dovrebbe governare la salvaguardia, sostituendo il Provveditorato, il Consorzio e gli enti locali. Il mondo ci guarda. Dopo tanti rinvii e ritardi, la promessa solenne era quella di concludere i lavori del Mose e consegnare l’opera collaudata entro il 31 dicembre 2021. In questi giorni, con la firma di un nuovo “Atto aggiuntivo” alla Convenzione del 1991, si è stabilito che se ne parlerà forse, a fine 2023. 40 anni dopo il progetto, 20 anni dopo la posa della prima pietra. Intanto il contatore gira, le spese aumentano - il commissario costa un milione in consulenze - e la corrosione sott’acqua, denunciata più volte dall’Espresso, va avanti indisturbata. Venezia è ancora esposta alle acque alte. I test dello scorso anno hanno dato esito positivo, ma dovranno essere ripetuti in condizioni di mare estremo. E qui si apre un altro capitolo. Perché quel maledetto 12 novembre del 2019 le paratoie del Mose, che sembravano pronte, non sono state alzate? La città forse non sarebbe stata travolta dall’acqua alta più alta di sempre dopo quella del 4 novembre del 1966 (189 centimetri). Il motivo è scritto in un rapporto firmato da Francesco Ossola, ex amministratore straordinario e responsabile tecnico del Mose dal 2015, scelto adesso da Spitz come consulente tecnico e della sicurezza. Nel verbale di ispezione  datato 6 novembre 2019 (sei giorni prima della catastrofe) si legge che durante quelle prove «volavano bulloni». Molti non erano stati fissati né controllati. Dunque il Mose non era pronto a essere sollevato. Anzi, sarebbe stato pericoloso se  messo in funzione. E Venezia andò sott’acqua. La lista delle “criticità” si allunga di giorno in giorno. Allora l’ingegnere Ramundo esperta di corrosione aveva scritto: «Le tubazioni di fissaggio sono tutte bucate. L’acciaio al carbonio non verniciato all’interno produce ossidi di ferro che vengono trasportati e corrodono tutto, comprese le costosissime valvole di acciaio Super Duplex». Nessuna risposta. C’è anche l’inquinamento “batteriologico”: «Nei serbatoi d’acqua non è mai stato aggiunto nessun biocita», scrive Ramundo, «e quindi si sviluppa anche la corrosione microbiologica. Le tubazioni del sistema antincendio sono realizzate in carbonio non verniciato all’interno. E le joint box che servono per portare i segnali di protezione catodica allagate e non funzionanti». Errori e lavori malfatti. Segnalazioni che Ramundo e la stessa Zincone mettevano a verbale nelle lunghe riunioni del Cta, il Comitato Tecnico amministrativo del ministero che deve dare il via ai progetti.  «L’abbiamo detto e nessuno ha fatto nulla», dice. Anche Zincone, ora precipitosamente allontanata dopo la sua denuncia alla Corte dei Conti - e l’intervista alla Nuova Venezia in cui ribadiva quanto scritto al ministero, cioè che l’avvento del commissario non era servito a nulla -  aveva chiesto per ben quattro volte di effettuare lo “stato di consistenza” alle bocche. Ispezione concessa solo nel giugno scorso, dopo il sopralluogo della Guardia di Finanza. Ramundo si era  dimessa nel marzo scorso per protesta. Dopo aver inviato una durissima lettera di denuncia. «La corrosione sott’acqua va avanti e non si è fatto nulla», aveva scritto, «le strutture sono ammalorate e in qualche caso a rischio. La corrosione dell’acciaio sott’acqua potrebbe anche provocare il cedimento della struttura». Ramundo, che ha firmato anche le perizie per il crollo del ponte Morandi a Genova, lo sa bene. La corrosione va fermata.  Ma il tempo passa, e la situazione si fa sempre più critica. Dopo i miliardi spesi, commissari che si moltiplicano con i loro costi, scandali e nuove promesse, il Mose si conferma come la più grande incompiuta d’Italia. La vedremo finita, se va bene, nel 2024.

Enrico Tantucci per “La Stampa” l'8 agosto 2021. È costato oltre 6 miliardi di euro e non è ancora terminato, anche se nell'autunno e inverno scorsi ha già difeso Venezia almeno una ventina di volte dall'acqua alta, alzando le sue paratoie ancora in fase sperimentale. Ma adesso rischia nuovamente di fermarsi per la grave situazione debitoria del Consorzio Venezia Nuova, l'associazione di imprese che aveva avuto dallo Stato l'incarico di costruirlo, che ha portato allo stato di agitazione dei dipendenti delle imprese consorziate e di quelle esterne, appena proclamato, con la cassa integrazione dietro l'angolo e gli stipendi non pagati. Stiamo parlando del Mose, il sistema di dighe mobili alle bocche di porto progettato proprio per difendere Venezia dalle alte maree sempre più frequenti e sempre più elevate, per effetto dei cambiamenti climatici in atto. Anche la scorsa notte, in pieno agosto, le previsioni parlavano di un'altezza massima di 105 centimetri sul medio mare intorno alle 23, un livello mai registrato in questo periodo dell'anno. Il piano di salvataggio Ma i lavori sono fermi, perché del Mose si discute in questo momento soprattutto in Tribunale. Accanto a un commissario straordinario per il completamento dell'opera, Elisabetta Spitz, il Governo ha nominato infatti un commissario liquidatore del Consorzio, Massimo Miani, che dovrebbe appunto riportare sotto controllo la situazione debitoria e poi sciogliere l'associazione di imprese, una volta completata l'opera. Ma le imprese non sono più disposte a lavorare se non si saldano prima i debiti pregressi, che ammontano a circa 280 milioni di euro, 120 dei quali riferiti a crediti del Provveditorato alle Opere Pubbliche del Triveneto, gli altri alle imprese. Non ha avuto successo il tentativo di Miani di seguire in Tribunale la strada dell'articolo 182 bis della legge fallimentare per la ristrutturazione del debito per risolvere i problemi del Consorzio Venezia Nuova, perché non accettato da una parte delle imprese, che hanno rifiutato la proposta della rifusione del 70 per cento del debito per le imprese consorziate e dell'80 per cento di quelle non consorziate. Lamentando di non essere mai state convocate dal commissario liquidatore in precedenza per aprire una trattativa. Il Tribunale di Venezia ha dunque respinto la proposta e la strada obbligata per il commissario liquidatore del Consorzio è stata quella di una richiesta di concordato preventivo, per mettersi al riparo dai pignoramenti, con la nomina da parte del Tribunale di altri due commissari. Miani da parte sua, negando di non aver cercato un accordo con le imprese, lamenta anche la pesantissima situazione debitoria ereditata al suo arrivo: «Oltre ai debiti con le imprese e con il fisco ci sono numerosi contenziosi in atto. Il mio obiettivo è quello di voltare pagina, risolvere la situazione debitoria e liquidare il Consorzio, che non può continuare a erogare risorse all'infinito, e consentire che il Mose sia finalmente concluso. Se così sarà, credo che sarà un buon servizio reso alla città e alle stesse imprese». Ma la via obbligata resta quella di un accordo stragiudiziale sul debito tra Consorzio Venezia Nuova, provveditorato alle Opere Pubbliche e imprese, molte delle quali già in causa con la società. Il tempo stringe e all'accordo lavora sotto traccia anche il ministro della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta, veneziano che segue da vicino le vicende della sua città. I pericoli Ma intanto la situazione si è fatta esplosiva, mettendo a rischio non solo l'ultimazione del Mose, ma anche i sollevamenti autunnali e invernali delle dighe mobili, di cui la città ha assoluto bisogno per difendersi dall'acqua sempre più alta. Per questo è stato proclamato dai sindacati lo stato di agitazione per i lavoratori di Consorzio Venezia Nuova, Thetis e Comar - altre imprese consorziate - per i quali la cassa integrazione scatterà già dal 23 agosto. «Al di là delle inaccettabili ricadute sui lavoratori - scrivono nel loro documento - rischiamo il blocco totale dei lavori del Mose, nonché la mancanza di controlli sull'inquinamento della laguna di Venezia. Cresce, inoltre, il rischio che vengano meno le condizioni, all'avvicinarsi dell'autunno, per l'alzata in sicurezza delle paratoie con gli immaginabili quanto inaccettabili pericoli per la città». Senza accordo sui debiti, tremano il Consorzio Venezia Nuova, le imprese i lavoratori e anche tutta la città, sommersa dall'acqua senza più difese.

Alberto Zorzi per corriere.it il 21 maggio 2021. Dal 3 ottobre e per i quattro mesi successivi si è alzato 20 volte per difendere Venezia dall’acqua alta. Ma il Mose sta facendo fatica a «proteggere» il Consorzio Venezia Nuova dall’ondata di debiti che rischia di travolgere il pool di imprese che l’hanno realizzato. I conti li ha fatti il liquidatore Massimo Miani, che dal suo arrivo a novembre ha messo tutto in fila e ha deciso di portare in tribunale un accordo di ristrutturazione del debito, anche per stoppare la raffica di decreti ingiuntivi e pignoramenti (almeno una decina, pare) che stavano iniziando ad arrivare.

Decreto ingiuntivo. Tra questi anche quello del commercialista romano Giampaolo Cocconi, che con il suo studio ha curato dal 2014 la contabilità del Cvn e poi anche della controllata Comar, la società degli appalti: in questi anni ha fatturato quasi 3 milioni di euro, tanto che Miani avrebbe avviato delle verifiche, e ora è creditore per 383 mila euro nei confronti del Cvn e per 17 mila euro verso Comar. Essendo il Consorzio «blindato» dalla procedura di cui sopra, nei giorni scorsi lo studio Cocconi ha chiesto e ottenuto un decreto ingiuntivo proprio contro Comar: ma quando si è tentato di eseguire il pignoramento in banca si è scoperto che nei conti correnti non c’erano abbastanza soldi. Per capire la situazione del Cvn basta leggere tutti i documenti della procedura, che Miani ha fatto pubblicare integralmente sul sito ufficiale. Ci sono tutte le tabelle che faranno parte del bilancio consuntivo 2020 e i dati sono drammatici. Al 31 dicembre scorso, per colmare tutti i debiti, il Consorzio avrebbe avuto bisogno di 201 milioni di euro, ma a far tremare i polsi è soprattutto la perdita d’esercizio: quasi 149 milioni di euro, rispetto ai 29 del 2019. Proprio nei giorni scorsi Miani aveva scritto una lettera a tutti i consorziati – sia alle grandi imprese ormai «in sonno» come Mantovani, Grandi Lavori Fincosit e Condotte (tutte sottoposte a procedure concorsuali pure loro), che alle «piccole» che stanno lavorando – chiedendo di coprire il buco di bilancio accumulato dal 2014 al 2019, per un totale di 58 milioni.

I creditori. Cifre che ovviamente le Pmi non hanno, tanto meno il quadruplo. Anzi lamentano di avanzare oltre 20 milioni di euro di lavori e progetti già eseguiti. Ma anche su questo Miani è stato tranchant: ha fatto scrivere una lettera dall’avvocato Stefano Ambrosini, in cui propone di pagare il 30 per cento dei crediti ai consorziati e ai collaudatori, il 40 alle imprese che hanno vinto gli appalti. «Così rischiamo il fallimento», hanno risposto i privati. Tra l’altro, evidenzia Miani, tutti questi conti non calcolano l’ipotesi di perdere le 4 maxi-cause che pendono sopra il Cvn e che valgono complessivamente 550 milioni di euro. Le riserve contestate dalle imprese assommano a 286 milioni (114 della sola Mantovani), ma anche su questo i contenziosi saranno scontati. Il creditore principale è proprio lo Stato, soprattutto quel Provveditorato alle opere pubbliche che è il committente del Mose. Palazzo X Savi avanza 145 milioni di euro, 117 dei quali riguardano anticipi per sistemare lavori fatti male o carenze progettuali: alcuni accenni di corrosione, la conca di navigazione sbagliata, la lunata crollata, per esempio. Soldi che il Cvn dovrebbe recuperare facendo causa alle imprese, ma con la quasi certezza di recuperare poco o nulla. Poi ci sono 15 milioni dovuti al fisco, 6 alla Corte dei Conti, 44 milioni ai consorziati e 45 agli altri. Proprio per questo oggi è previsto un doppio vertice: Miani, il commissario del Mose Elisabetta Spitz e il provveditore Cinzia Zincone prima incontreranno il sindaco Luigi Brugnaro e il ministro Renato Brunetta, poi saranno a un tavolo in Prefettura convocato da Vittorio Zappalorto, con anche i rappresentanti delle imprese. Proprio ieri Brugnaro ha lanciato un nuovo appello: «È tempo che vengano erogate con urgenza le risorse mancanti per finire l’intera opera del Mose e i progetti di riqualificazione della laguna di Venezia».

Povero San Marco. Report Rai PUNTATA DEL 31/05/2021 di Luca Chianca. A luglio scorso Report aveva partecipato al primo test per il sollevamento del Mose, l'opera che dovrebbe salvare Venezia dall'acqua alta. Finalmente dopo 17 anni dalla posa della prima pietra tutte le barriere mobili si sono alzate contemporaneamente. Un evento senza precedenti a cui hanno partecipato ministri, politici e forze armate. Di fatto una vera e propria inaugurazione, con tanto di benedizione, dopo anni di lavori e commissariamenti. A distanza di quasi un anno Report è tornato sull'Isola Novissima che divide la bocca di San Nicolò da quella di Treporti, documentando con immagini esclusive come i cantieri siano di fatto fermi perché le ditte che devono completare l'opera non ricevono soldi da dicembre scorso. Cosa sta succedendo all'opera che avrebbe dovuto salvare San Marco e la sua Basilica dall'acqua alta?

POVERO SAN MARCO di Luca Chianca collaborazione Alessia Marzi Immagini di Matteo Delbò Montaggio Emanuele Redondi

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È la forma di resilienza della parte sana del nostro paese, quella produttiva che ci salverà. È stata documentata dalla telecamera del nostro straordinario Dario D’India. Ora che cosa è successo, che dopo che abbiamo speso sei miliardi di euro circa per il Mose, Piazza San Marco, simbolo di Venezia e la sua basilica il gioiello, sono ancora oggi indifesi. C’era un progetto iniziale per difendere tutta l’Insula dall’acqua alta, ma le risorse se le sono succhiate quelli del Mose. Ora che cosa è successo, che si è ricorsi al progetto provvisorio, costo: quattro milioni di euro. Prevede l’innalzamento di barriere di vetro, hanno subito uno stop di un anno, ora i beni culturali hanno dato il via, ma con una prescrizione. Quando si arriverà al progetto definitivo, costo 40 milioni di euro, che prevede non abbiamo ancora capito bene, insomma, quali tecnologie, ma si parla di tappi che coprono i cunicoli sotto piazza San Marco per impedire l’accesso all’acqua, le barriere e i quattro milioni verranno rimossi. Il nostro Luca Chianca.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quando il 12 novembre 2019 è arrivata l'acqua “granda” a Venezia, piazza San Marco e la sua Basilica, simbolo della bellezza architettonica dell'Italia nel mondo, sono state inondate.

LUCA CHIANCA Ha riempito tutta la cripta?

MARIO PIANA - PROTO SAN MARCO Ha riempito per 70 centimetri circa la cripta.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Alcuni dei preziosissimi mosaici sono andati quasi distrutti.

MARIO PIANA - PROTO SAN MARCO E questi sono tra i danni più gravi che l'ultima acqua alta ha provocato, è un pavimento che ovviamente era già danneggiato prima, ma questo si è fortemente aggravato.

LUCA CHIANCA Qui l'acqua c'era.

MARIO PIANA - PROTO SAN MARCO È arrivata fino a qua. Ha sommerso questo ma è anche sgorgata dalla pavimentazione stessa dai mosaici spinta dal basso e dalla forza di gravità.

LUCA CHIANCA Qui si vede il sale a terra.

 MARIO PIANA - PROTO SAN MARCO Sì, sì cristalli li togliamo ogni settimana facciamo gli impacchi questi sono cristalli di cloruro di sodio.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Sale che distrugge tutto. Anche le delicate lastre di marmo che ricoprono le pareti.

MARIO PIANA - PROTO SAN MARCO E sono lastre che hanno uno spessore minimo di 3 centimetri: tutte queste parti sono ridotte quasi alla metà del suo spessore.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La cosa inspiegabile è che a proteggere questo enorme patrimonio non c'è quasi nulla perché le barriere del Mose, l'opera pubblica costata quasi 5,5 miliardi di euro da sole non proteggono la Basilica di San Marco. Qui a Venezia lo sanno tutti, e l'ex sindaco Cacciari lo aveva detto chiaramente già a metà degli anni '90.

MASSIMO CACCIARI – SINDACO VENEZIA 1993-2000/ 2005-2010 I soldi sono andati tutti al Mose.

LUCA CHIANCA È pazzesca questa cosa.

MASSIMO CACCIARI – SINDACO VENEZIA 1993-2000/ 2005-2010 A me lo dice?

LUCA CHIANCA Che il luogo simbolo della città non venga difeso da un'opera che costa 5 miliardi e mezzo…

MASSIMO CACCIARI – SINDACO VENEZIA 1993-2000/ 2005-2010 A me lo dice? A me lo dice? Ma era evidente che non poteva essere difesa. Molto semplice perché se il Mose deve servire a difendere l'acqua alta a San Marco deve stare alzato sempre, molto semplice perché la basilica di San Marco va sotto a 70 cm.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Mentre il Mose si alza solo se l'acqua è tra i 110 e i 130 cm. Per salvare tutta l'insula di San Marco ci vuole un altro progetto che a quanto pare ha bisogno di altri 40 milioni di euro che però avrà bisogno di almeno tre, quattro anni prima di vedere la luce.

CINZIA ZINCONE - PROVVEDITORE ALLE OPERE PUBBLICHE DEL TRIVENETO Non mi guardi così…

LUCA CHIANCA Eh rimango proprio...

CINZIA ZINCONE - PROVVEDITORE ALLE OPERE PUBBLICHE DEL TRIVENETO Ma sapesse quale…

LUCA CHIANCA Ma è difficile così.

CINZIA ZINCONE - PROVVEDITORE ALLE OPERE PUBBLICHE DEL TRIVENETO …Sentimento affligge anche noi, qui, ci vuole tempo perché…

LUCA CHIANCA Si sta sgretolando, cioè si sta sgretolando proprio la basilica.

CINZIA ZINCONE - PROVVEDITORE ALLE OPERE PUBBLICHE DEL TRIVENETO Ci sono mille situazioni che devono partecipare a questa approvazione, non le parlo dei beni culturali, non le parlo della commissione salvaguardia, non le parlo dei vigili del fuoco, non le parlo del ministero dell'ambiente, non le parlo di nessuno di questi.

LUCA CHIANCA Che ci sono anche questi.

CINZIA ZINCONE - PROVVEDITORE ALLE OPERE PUBBLICHE DEL TRIVENETO Però tutti insieme fanno anni.

SIGFIRDO RANUCCI IN STUDIO Sfiancata dalla burocrazia e forse anche un po' depressa il provveditore, che è poi l’occhio del Ministero dei lavori pubblici delle opere in laguna, quando dovrebbe essere invece anche l’occhio un po’ stimolante. Però è depressa perché dopo aver speso sei miliardi di euro per il Mose, il simbolo di Venezia, piazza San Marco e il suo gioiello, la Basilica sono praticamente indifese, ecco. Questo perché come abbiamo detto le risorse se le è succhiate tutte il Mose che invece è il simbolo della corruzione. Quando nel 2014 sono scattati gli arresti di politici, magistrati, forze dell’ordine, anche dei controllori è emerso anche il mostro: 43 milioni di fatture inventate, false, quelle che si sono scoperte, oltre 20 milioni di euro di tangenti, anche qui, quelle che sono riuscite a scoprire. Ma il paradosso qual è, che oggi, che di tangenti probabilmente non ne girano, e dopo sette anni di commissariamento da parte di uomini dello stato, quindi c’è stato un controllo più ferreo dello Stato, i lavori sono praticamente fermi. In questi sette anni si sono alternati vari commissari, alla guida del Consorzio, c’è stato il commissario Magistro però poi piano piano si è sfilato, si è allontanato anche l'avvocato Fiengo e l'ingegner Ossola, nel 2019 è stato anche nominato anche il nuovo commissario, la dott.ssa Spitz per sbloccare i cantieri. Oggi l’ultimo commissario liquidatore del Consorzio Venezia Nuova è il dottor Miani. Ma alla fine di tutto questo cosa emerge, che c’è una faccia ufficiale del Mose, e una per amici. Il nostro Luca Chianca è riuscito a vederle entrambe queste facce. Il 10 luglio scorso, dopo 30 anni finalmente si sono sollevate le barriere del Mose. Era un semplice test, ma aveva il sapore di una grande inaugurazione. In 90 minuti si sono sollevate lentamente queste barriere, alla presenza dell’ex premier Conte, di ministri, di politici di tutti gli schieramenti, di uomini delle forze dell’ordine, di giornalisti. È scattato un applauso, ma quell’entusiasmo è rimasto, insomma, si è fermato in gola.

ALBERTO VITUCCI – GIORNALISTA VENEZIA NUOVA E tutti hanno applaudito giustamente è stato anche un atto liberatorio, finalmente, dopo sei miliardi e 30 anni di lavori il Mose è venuto su, piccolo particolare non è sceso perché sotto, dove deve scendere, era pieno di sabbia, cioè la manutenzione di quest'opera è praticamente più importante dell'opera stessa.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO In questo video esclusivo girato dalla guardia di finanza nell'aprile scorso, si capisce di che grane stiamo parlando. Queste sono le paratoie della bocca di Lido, le stesse del test di luglio scorso. Immerse costantemente nell'acqua salmastra della laguna, se non vengono mantenute rischiano la corrosione.

ALBERTO VITUCCI – GIORNALISTA VENEZIA NUOVA Sì, è un problema di cui si sa da molti anni, esploso negli ultimi mesi perché questa corrosione, in mancanza di interventi di manutenzione previsti per altro anche dal progetto avanza e si aggrava. LUCA CHIANCA Eppure questa manutenzione non viene fatta da un bel po'.

ALBERTO VITUCCI – GIORNALISTA VENEZIA NUOVA Non è mai stata fatta, non da un bel po'.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Dopo gli arresti del 2014, a capo del Consorzio Venezia Nuova, nato per realizzare l'opera per conto dello Stato, vengono nominati due commissari, l'avvocato Fiengo e l'ingegner Ossola. Dopo l'alluvione del 2019, viene nominato un altro commissario: Elisabetta Spitz, voluta per sbloccare i cantieri. Dopo il test di luglio scorso, c'è un rimpasto. Fiengo si dimette, mentre Ossola esce dal consorzio e va a lavorare con la Spitz e nel Consorzio, per finire i lavori, mettono un commissario liquidatore, Massimo Miani. Cinzia Zincone, invece, è il provveditore che controlla l'avanzamento dei lavori e paga il Consorzio Venezia Nuova per conto dello Stato. Torniamo dove c'eravamo lasciati a luglio, al test sull'isola di lido. Ci facciamo accompagnare dall'ufficio stampa del Consorzio Venezia Nuova che deve finire i lavori per conto dello Stato.

LUCA CHIANCA È cambiato il commissario e sono cambiate anche le modalità di comunicazione qua eh?

MONICA AMBROSINI - UFFICIO STAMPA CONSORZIO VENEZIA NUOVA Bel il momento è anche molto delicato, quindi, non abbiamo dichiarazioni e quindi nessuna intervista.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Negli anni del vecchio commissariamento siamo venuti più volte sui cantieri e nessuno ci aveva negato un'intervista. Il clima evidentemente è cambiato e il capo dell'ufficio stampa è stato mandato via. Lo stesso ingegnere che ci ha accompagnato due anni fa ha l'ordine di non rispondere.

LUCA CHIANCA Che fai c'accompagni e basta?

ALESSANDRO SORU –INGEGNERE RESPONSABILE CANTIERI CONSORZIO VENEZIA NUOVA Vi accompagno.

LUCA CHIANCA Qui però è dove è stata fatta la famosa inaugurazione in pompa magna, no?

ALESSANDRO SORU –INGEGNERE RESPONSABILE CANTIERI CONSORZIO VENEZIA NUOVA Esatto.

LUCA CHIANCA Che il Mose era praticamente finito.

MONICA AMBROSINI - UFFICIO STAMPA CONSORZIO VENEZIA NUOVA Il Mose ha fatto il suo dovere, eh, quest'inverno.

LUCA CHIANCA Però non è finito?

MONICA AMBROSINI - UFFICIO STAMPA CONSORZIO VENEZIA NUOVA Non sono finite delle cose ma comunque è entrato in funzione 20 volte.

LUCA CHIANCA La consegna slitta.

MONICA AMBROSINI - UFFICIO STAMPA CONSORZIO VENEZIA NUOVA Mmm…

LUCA CHIANCA Io so che qui non c'è nessuno in cantiere adesso se fossi venuto la mattina non avrei trovato nessuno.

MONICA AMBROSINI - UFFICIO STAMPA CONSORZIO VENEZIA NUOVA Luca ti prego lasciamo tranquillo Alessandro, se vi interessa fare un sopralluogo facciamo un sopralluogo e vediamo le cose.

LUCA CHIANCA Vabbè.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E così ci hanno fatto vedere solo quello che volevano gli attuali vertici, come la Control room, da dove si monitorano tutte le paratoie nella laguna.

LUCA CHIANCA La control room, questa è fatta.

ALESSANDRO SORU –INGEGNERE RESPONSABILE CANTIERI CONSORZIO VENEZIA NUOVA Sì.

MONICA AMBROSINI - UFFICIO STAMPA CONSORZIO VENEZIA NUOVA il Mose funziona mancano delle parti degli impianti ascensori, anti-intrusione…

LUCA CHIANCA Antincendio. MONICA AMBROSINI - UFFICIO STAMPA CONSORZIO VENEZIA NUOVA Antincendio.

 LUCA CHIANCA Le gallerie non hanno l'impianto di areazione.

MONICA AMBROSINI - UFFICIO STAMPA CONSORZIO VENEZIA NUOVA Di condizionamento?

LUCA CHIANCA Eh.

MONICA AMBROSINI - UFFICIO STAMPA CONSORZIO VENEZIA NUOVA Non ancora.

LUCA CHIANCA Deve andare a regime…

 MONICA AMBROSINI - UFFICIO STAMPA CONSORZIO VENEZIA NUOVA È in gara.

LUCA CHIANCA Anche perché altrimenti cosa succede? Si corrode tutto, giusto? E si sta corrodendo tutto sotto.

MONICA AMBROSINI - UFFICIO STAMPA CONSORZIO VENEZIA NUOVA Non ho una risposta per questo.

LUCA CHIANCA Andiamo, dove andiamo, a vedere…facciamo un giro… No perché così quasi per me è più imbarazzante per me.

MONICA AMBROSINI - UFFICIO STAMPA CONSORZIO VENEZIA NUOVA Pensa per noi.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quando usciamo dalla Control Room chiediamo di vedere il gruppo elettrogeno che dovrebbe entrare in funzione se per emergenza va via la corrente, ma non siamo autorizzati.

ALESSANDRO SORU –INGEGNERE RESPONSABILE CANTIERI CONSORZIO VENEZIA NUOVA Nessuno di voi è abilitato ad entrare in un locale di media tensione.

UOMO Le persone normali non possono andare ci vuole pass pad abilitato, capito?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La nostra visita organizzata prosegue solo negli impianti già finiti, e così per vedere quello che realmente manca torniamo il giorno dopo, documentando con immagini esclusive la situazione reale di mattina nel cantiere di Lido.

OPERAIO Qui è dove è stato fatto il comizio con il presidente Conte nell'inaugurazione del 2020.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Poco più in là il cantiere è completamente abbandonato. E quest'area, che dovrebbe essere smantellata, si presenta ancora così.

OPERAIO Questo è sempre l'impianto provvisorio, che era stato fatto nel 2013, che adesso deve essere smantellato per ripristinare la parte definitiva delle condotte, qui siamo nel tunnel che collega la spalla ovest all'isola, deve essere ancora completata la passerella di camminamento e qualche tubazione anche da terminare.

 LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E così andiamo a vedere come è messo il gruppo elettrogeno, dove durante la visita ufficiale non ci avevano permesso di entrare.

OPERAIO Quello blu è un gruppo elettrogeno da due mega che attualmente è solamente posato.

LUCA CHIANCA È posato ma non è collegato.

OPERAIO Sì. Sì, i tubi sono scollegati, i tubi sono scollegati, dal punto di vista elettrico ha tutto il packaging posato a terra quindi ancora da istallare.

LUCA CHIANCA Quanti ce ne dovrebbero essere qui?

OPERAIO Due in questo semi-edificio e due nel semi-edificio B.

LUCA CHIANCA E quindi funziona solo uno?

OPERAIO Adesso è funzionate solo uno.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Lo facciamo vedere al Provveditore alle opere pubbliche, il controllore dell'opera, rappresentante del ministero a Venezia.

LUCA CHIANCA Questo qua.

CINZIA ZINCONE - PROVVEDITORE ALLE OPERE PUBBLICHE DEL TRIVENETO Ok.

LUCA CHIANCA Questo è staccato completamente, questo sta qui così.

CINZIA ZINCONE - PROVVEDITORE ALLE OPERE PUBBLICHE DEL TRIVENETO Quello sta lì così allora, e parliamo, appunto, ascensori, impianto antincendio, impianto di ventilazione e condizionamento, quindi impianti importanti devono ancora essere completati, ma soprattutto è la loro messa a sistema.

LUCA CHIANCA Ma soprattutto mancano gli operai a mettere a sistema e finire ‘sti lavori.

CINZIA ZINCONE - PROVVEDITORE ALLE OPERE PUBBLICHE DEL TRIVENETO Sì questo è…

LUCA CHIANCA I cantieri sono vuoti.

CINZIA ZINCONE - PROVVEDITORE ALLE OPERE PUBBLICHE DEL TRIVENETO Sì.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Nella stessa situazione si presentano anche i cantieri a Chioggia, quelli più a sud della laguna.

LUCA CHIANCA Tutte le opere che vediamo qui sono tutte opere da finire.

UOMO Sì, assolutamente sì.

LUCA CHIANCA Qui quanta gente dovrebbe lavorare?

UOMO Qui a Chioggia oltre 100 persone 120 persone.

LUCA CHIANCA Da quant'è che è fermo così?

UOMO La situazione si è progressivamente aggravata a partire da dicembre.

LUCA CHIANCA La sblocca cantieri però di fatto ‘sti cantieri non li ha sbloccati? Questo lo possiamo dire però.

CINZIA ZINCONE - PROVVEDITORE ALLE OPERE PUBBLICHE DEL TRIVENETO Ma come facciamo a dirlo nel momento in cui il Mose si è alzato. Adesso i cantieri sono fermi.

LUCA CHIANCA Quindi è consequenziale la cosa, mi perdoni, però è così, eh, no?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quello che sicuramente ha bloccato la macchina sono i mancati pagamenti nei confronti delle ditte che lavorano sui cantieri. Alcune hanno vinto gare pubbliche e non prendono soldi da mesi.

ROBERTO PICIOCCHI - AMMINISTRATORE UNICO DEL BO SPA Noi realizziamo ascensori e montacarichi nelle bocche di porto del Mose.

LUCA CHIANCA La gara era per un ammontare di?

ROBERTO PICIOCCHI - AMMINISTRATORE UNICO DEL BO SPA Quattro milioni e rotti.

LUCA CHIANCA Quanti gliene hanno dati di questi quattro milioni fino adesso?

ROBERTO PICIOCCHI - AMMINISTRATORE UNICO DEL BO SPA Niente.

MICHELE MASCIA - MATI GROUP Abbiamo lavorato durante il lock-down proprio fiduciosi del commissario, della Spitz, che era quella che c'ha dato maggiore fiducia.

LUCA CHIANCA La sblocca cantieri?

MICHELE MASCIA - MATI GROUP La sblocca cantieri.

LUCA CHIANCA Voi avete fatturato quanto?

MICHELE MASCIA - MATI GROUP 18 milioni e mezzo circa di euro.

LUCA CHIANCA Quanti ve ne hanno pagati?

 MICHELE MASCIA - MATI GROUP Mancano 5 milioni di euro.

LUCA CHIANCA Voi come fate a stare in piedi?

DEVIS RIZZO – PRESIDENTE KOSTRUTTIVA Noi non stiamo in piedi, noi in una situazione in una tempesta perfetta come questa abbiamo la sorte segnata. Se non vengono pagate le imprese che lavorano che devono eseguire le opere è evidente che non procedono.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il consorzio Venezia Nuova non paga i fornitori perché il nuovo commissario liquidatore, Massimo Miani, ha trovato i conti in rosso. I rubinetti dello Stato sono chiusi da anni, e per questo ha mandato lettere ai consorziati chiedendo quasi 58 milioni di euro per mantenere il consorzio in vita, con la richiesta aggiuntiva di rinunciare al 70% dei pagamenti per i lavori già fatti.

LUCA CHIANCA Che sta succedendo? Qui c'è una situazione molto problematica no? Sembra che sia tutto fermo.

MASSIMO MIANI - COMMISSARIO LIQUIDATORE CONSORZIO VENEZIA NUOVA È fermo perché ci sono dei problemi.

LUCA CHIANCA ci dica quali sono i problemi perché da quando è arrivato lei, è arrivata la Spitz di fatto si sono bloccati i cantieri.

MASSIMO MIANI - COMMISSARIO LIQUIDATORE CONSORZIO VENEZIA NUOVA I problemi arrivano da prima che arrivassi io. Io sono arrivato 5 mesi fa e ho trovato unna situazione molto molto complicata.

LUCA CHIANCA Che situazione ha visto nei contri? Quali sono i problemi di questo Consorzio?

MASSIMO MIANI - COMMISSARIO LIQUIDATORE CONSORZIO VENEZIA NUOVA I problemi è che c'è un deficit importante?

LUCA CHIANCA Di quanti soldi?

MASSIMO MIANI - COMMISSARIO LIQUIDATORE CONSORZIO VENEZIA NUOVA Di parecchi milioni di euro.

 LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Si parla di circa 200 mln di euro che la vecchia amministrazione straordinaria ha accumulato negli anni, secondo Miani. Ma mentre uno dei due commissari è andato via, l'altro, l'ingegner Ossola, uscito dal Consorzio, oggi è il consulente della Spitz, per 1.100 euro al giorno.

LUCA CHIANCA Miani dice ci sono dei buchi no, c'è un rosso all'interno del Consorzio, fatto da chi?

ELISABETTA SPTIZ – COMMISSARIO STRAORDINARIO PER IL MOSE Certo.

LUCA CHIANCA Probabilmente fatto dai commissari precedenti, uno dei due Ossola lei se lo prende e diventa il suo consulente?

ELISABETTA SPTIZ – COMMISSARIO STRAORDINARIO PER IL MOSE Scusi, i buchi nascono da ante 2014, non c'entrano niente i commissari.

LUCA CHIANCA Non c'entrano nulla, in sette anni non siamo riusciti…

ELISABETTA SPTIZ – COMMISSARIO STRAORDINARIO PER IL MOSE loro i non hanno sanato i buchi ma non li hanno creati.

LUCA CHIANCA Però mi spiega Ossola che di fatto era stato messo da parte le i lo riprende e se lo porta come consulente.

ELISABETTA SPTIZ – COMMISSARIO STRAORDINARIO PER IL MOSE Io ritengo che l'ingegner Ossola sia un tecnico di altissimo livello necessario per garantire il completamente delle opere.

LUCA CHIANCA Pagato 1.100 euro al giorno come prestazione professionale?

ELISABETTA SPTIZ – COMMISSARIO STRAORDINARIO PER IL MOSE Mi sembra la prestazione professionale inferiore a quello che il provveditorato paga ai suoi consulenti.

LUCA CHIANCA Ah. Cagnolino eccezionale. ELISABETTA SPTIZ – COMMISSARIO STRAORDINARIO PER IL MOSE Grazie.

LUCA CHIANCA È normale che la Spitz, la nuova commissaria, se lo porti dentro come consulente?

CINZIA ZINCONE - PROVVEDITORE ALLE OPERE PUBBLICHE DEL TRIVENETO Che le devo dire, io non l'avrei fatto però…

LUCA CHIANCA Tra l'altro mi risulta che i suoi guadagni siano di circa 1.100 euro al giorno.

CINZIA ZINCONE - PROVVEDITORE ALLE OPERE PUBBLICHE DEL TRIVENETO Questo non lo so.

LUCA CHIANCA Dico son questi i tariffari?

CINZIA ZINCONE - PROVVEDITORE ALLE OPERE PUBBLICHE DEL TRIVENETO Ma sa se ce l'avessi io questo tariffario nel giro di sei mesi poi scapperei dall'Italia e me ne andrei alle Maldive, però, evidentemente… SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, però l’ingegner Ossola ha però un tetto da 150 mila euro l'anno. La Sptiz però non dice il vero quando dice che quello è un compenso in linea con gli altri consulenti, perché quelli del provveditorato hanno un tetto da 15 mila euro l'anno. Questo che significa però, che l’ingegner Ossola è un ingegnere veramente bravo se viene retribuito così e ci congratuliamo con lui. Ma non è il suo compenso il problema, il problema è proprio che le opere sono ferme, e sono ferme le ditte, i fornitori e i consorziati sono sull’orlo del fallimento. Ora ci scrive il ministero che la posizione debitoria del Consorzio Venezia Nuova e di Comar, che è la società che realizza le opere, oscilla tra i 250 e i 300 milioni di euro, mentre il Deficit patrimoniale è di oltre 200 milioni. È un po’ surreale, dopo aver speso 5,5 miliardi di euro. Ora, le ditte sono in attesa che vengano sbloccati quei 538 milioni di euro dal Cipe, che sono i soldi che sono stati risparmiati sugli oneri sui costi dei mutui che sono stati realizzati per il Mose. E nel frattempo, il nuovo commissario liquidatore del Consorzio Venezia Nuova, che non paga i fornitori, ha scritto ai consorziati e chiede indietro 58 milioni e uno sconto del 70% sulle fatture. Per fare questo ha incaricato lo studio Ambrosini, che ha avuto anche altri incarichi, quello di alcune consulenze, di seguire 17 cause, di ristrutturare il debito. Ma ha avuto anche il compito di scrivere ai consorziati di ridare indietro i soldi. Ora, che cosa ha scoperto Report? Che allo studio Ambrosini, il nuovo commissario Miani ha comunque pagato un anticipo di 277 mila euro. Ecco proprio a lui che ha scritto ai consorziati di restituire i soldi. Insomma, poi, il compenso non è certamente questo, per Ambrosini, quello finale sarà in base ai risultati che avrà ottenuto. Inutile dire, insomma, che se questo è il contesto, la situazione è abbastanza bollente.

Esclusivo – «Il Mose è già marcio» denunciano gli esperti. E si dimettono. Materiali scadenti, ruggine, buchi nelle tubature. Tutto quello scritto da L’Espresso nel 2016 sulla corrosione della mega opera viene confermato. E dopo una spesa di sei miliardi, 35 anni di lavori, e un’attività di appena due, esplode l’emergenza. Alberto Vitucci su L'Espresso il 2 aprile 2021. Mose a rischio corrosione. La più grande opera pubblica italiana che dovrebbe difendere Venezia, costata fin qui sei miliardi di euro e già inaugurata in pompa magna nel luglio scorso, soffre di un male oscuro. Nelle sue viscere, 15 metri sotto il livello del mare, avanza la corrosione. Ossidazione, ruggine e infiltrazioni d’acqua salata circondano e minacciano le dighe mobili e il loro punto più delicato, le cerniere. Ce ne sono 156, due per ogni paratoia nelle tre bocche di porto di Lido, Malamocco e Chioggia che mettono in comunicazione la laguna con il mare. Sono ancorate ai cassoni in calcestruzzo sul fondo della laguna e comandano il movimento delle dighe che si alzano quando sono riempite d’aria e si abbassano con dentro l’acqua. Un sistema progettato negli anni Ottanta, lavori avviati nel 2003 e non ancora conclusi. Dopo lo scandalo esploso nel 2014, gli arresti per corruzione, i ritardi e gli sprechi del Consorzio Venezia Nuova, il concessionario monopolista istituito per legge nel 1984, si sono scoperte molte falle nel sistema. Opere malfatte, buchi nelle tubature, conche di navigazione sbagliate e danneggiate dalla prima mareggiata. E poi la corrosione. Si sapeva da tempo che qualcosa non andava. Lo avevamo denunciato con Gianfrancesco Turano sull’Espresso, cinque anni fa. La Mantovani, azionista del Consorzio che aveva costruito le cerniere sotto accusa, aveva sporto denuncia. Il settimanale era stato assolto, per aver «correttamente esercitato il diritto di cronaca». E il problema non è stato risolto. Nemmeno dopo la nomina di un commissario straordinario, l’ex dirigente del Demanio Elisabetta Spitz, nel novembre del 2019. Nel luglio scorso la grande cerimonia di inaugurazione, alla presenza del premier Giuseppe Conte, ministri e burocrati di Stato. Le paratoie si sono alzate tra gli applausi. Poi non sono tornate giù, per via della sabbia che si deposita sul fondo e della mancata manutenzione. In autunno il Mose è stato alzato venti volte in presenza di acqua alta. Festa e tripudio. Ma il male sott’acqua continua a crescere. E l’emergenza corrosione è esplosa. Con un gesto non frequente nel panorama del nostro Paese, i due ingegneri metallurgici esperti in corrosione consulenti del ministero delle Infrastrutture, si sono dimessi dal loro incarico. Susanna Ramundo, romana, ingegnere corrosionista, consulente dell’Unione europea, e Gian Mario Paolucci, professore padovano tra i massimi esperti italiani in materia hanno scritto una durissima lettera di denuncia. «La corrosione avanza e non si fa nulla. Ce ne andiamo». «Mi sono dimessa perché ho perso», dice adesso Ramundo, che ha accettato di parlare con l’Espresso. «Non sono riuscita a tradurre banali concetti tecnici in azioni per chi poteva e doveva decidere. Nel 2016 abbiamo evidenziato le criticità dell’opera e proposto le soluzioni correttive. È tutto depositato, chiedete l’accesso agli atti del Cta, il Comitato tecnico del Provveditorato alle Opere pubbliche che decide il finanziamento dei progetti. Leggete bene. Ci sono parole e silenzi. I silenzi vanno letti più delle parole». Non si è fatto nulla, accusa l’ingegnere, per fermare la corrosione e porvi rimedio. «Gli errori progettuali sono tanti, ad esempio la selezione dei materiali del sistema di tensionamento, quello che sorregge le paratoie e vive sott’acqua, fa tremare i polsi», scandisce Ramundo. Non acciaio Superduplex, resistente e più costoso, ma l’acciaio al carbonio, che si ossida all’aria. Il sistema cerniera del Mose è composto da un elemento fisso (femmina) ancorato al cassone sul fondo della laguna, e un elemento mobile (maschio, lo stelo tensionatore) sulla paratoia. «Le femmine sono in acciaio al carbonio poi verniciato ma le vernici non sono coperture sigillanti. Le auto hanno cinque anni di garanzia contro la corrosione, perché dopo quel periodo la protezione offerta dagli strati di verniciatura si esaurisce ed è possibile la permeazione di agenti corrosivi. Nel caso del Mose questi elementi sono a immersione completa in mare, quindi altri avrebbero dovuto essere i materiali di queste componenti ciriticissime, maggior cura si sarebbe dovuta porre al sistema della loro protezione catodica», spiega l’ingegnere. Non basta. Secondo l’esperta del ministero anche l’altro elemento (lo stelo tensionatore) è stato realizzato con acciaio rivestito di nichel. «Che invece di proteggere la lega sottostante contribuisce alla sua corrosione elettrochimica, detta galvanica. In ambiente umido questo processo provoca la dissoluzione del materiale meno nobile che risulta essere proprio lo stelo». Dunque? «Tutto il sistema andrebbe rivisto integralmente. È previsto nel bando di gara europeo 54 da 34 milioni di euro, fermo da un anno e mezzo perché non si permette alle aziende di effettuare i sopralluoghi». Fatto sta che la situazione oggi nelle gallerie sott’acqua è drammatica. «Hanno scelto un materiale non idoneo, ad essere buoni. E non si sono condizionati gli ambienti delle gallerie per anni. Con i risultati che vediamo oggi: la soluzione salina ha agito indisturbata su tutti i componenti e sulle strutture delle gallerie. È lo stesso meccanismo che mette a rischio anche i mosaici della Basilica di San Marco». Errori progettuali, incuria, manutenzione dimenticata. «Pensano alla manutenzione come il dover ripristinare componenti dopo che si sono usurate, invece si deve studiare il rischio di rottura. Per quello bisogna rifare tutto il sistema di aggancio. Per garantirne la vita e l’affidabilità del sistema», continua l’ingegnere. Dunque c’è anche un rischio di possibile cedimento. «Sono molto preoccupata. Abbiamo stimato una vita residua per gli steli della bocca di Treporti di soli 30 anni, contro i 100 garantiti dal progetto. Avevamo raccomandato ispezioni subacquee almeno un paio di volte l’anno». Invece? «Niente. E i tempi della corrosione non sono quelli della burocrazia». Uno dei tanti buchi neri del grande progetto, accusa Ramundo, è che nelle varie commissioni che hanno approvato l’opera non ci sono esperti di corrosione. Un grave errore è stato quello di sottovalutare questo aspetto, che adesso mette a rischio la tenuta del sistema. E non riguarda solo il Mose. «La corrosione e il degrado hanno portato al crollo del ponte Morandi e di molte altre infrastrutture in Italia. È un problema da affrontare seriamente e alla svelta. Occorre assumere giovani ingegneri specializzati in corrosione. Il Mose non si salva con gli avvocati con gli esperti e i consulenti che poi se ne vanno, ma con una struttura di controllo efficace e specializzata», ricorda Ramundo. Possibile che nessuno in quarant’anni di studi e lavori abbia mai pensato a questo aspetto decisivo per il futuro dell’opera? «Ho documenti firmati da ingegneri del Politecnico di Milano che ci hanno contestato, negando che quel fenomeno potesse accadere. Noi siamo andati avanti lo stesso. Ma adesso tutto è tornato indietro, come in un film riavvolto. Per questo ci siamo dimessi». Un altro punto è rappresentato dal tipo di cerniera. Saldata e non fusa, affidata senza gara dal Consorzio di Mazzacurati all’impresa Fip, gruppo Mantovani, allora prima azionista del Consorzio a inizio anni Duemila. Scuote la testa l’ingegner Ramundo: «Facile immaginare che in ambiente marino sarebbe auspicabile evitare saldature che rappresentano punti di debolezza del materiale». Adesso è tardi. Per rimediare bisognerà sostituire tutte le parti danneggiate. E il tempo scarseggia. Secondo il cronoprogramma ribadito dal commissario del Mose e dal ministero i lavori dovrebbero concludersi il 31 dicembre. Ramundo sorride: «Davvero? E di quale anno? Con che affidabilità? Quale assicurazione lo prenderà in carico? Ho solo domande su questo punto, non vedo certezze. E non so più che dire. Più che dimettermi, che dovevo fare?».

«Il Mose è lo scandalo mondiale sulle opere pubbliche più grande della nostra storia recente». Disastro annunciato: hanno pagato, si fa per dire, i corrotti. Ma gli incompetenti non saranno chiamati a risponderne. Massimo Cacciari su L'Espresso il 5 aprile 2021. Occorre purtroppo continuare a parlare del Mose poiché si tratta del più grande scandalo mondiale in tema di lavori pubblici nell’intera storia del secondo dopoguerra. E di una vergognosa devastazione di risorse del nostro Paese che dura ormai da un trentennio. La parte destinata a corruzione e tangenti, passata quasi in giudicato, è quella quantitativamente meno rilevante. Sono le deficienze complessive del progetto, sotto tutti i profili, che sono costate miliardi di euro e continueranno a costarli, se si vuole in qualche modo «salvare» l’opera, almeno nel senso che di quando in quando le paratoie possano sollevarsi. Di tutto potrei stupirmi fuorché della denuncia della dottoressa Ramundo e del professor Paolucci. Loro illustri colleghi avevano già ricordato cose analoghe fin da quando il progetto delle dighe mobili venne approvato. Che dico approvato! Esaltato, magnificato, sostenuto contro ogni evidenza da tutti i governi e tutti i ministri dei Lavori Pubblici succedutisi nel Bel Paese tra anni ’90 e nuovo millennio. Con la complicità della totalità o quasi dei media nazionali. E contro le posizioni, i documenti, le analisi, gli studi promossi dalle Amministrazioni comunali che ho diretto, 1993-2000, 2005-2010. Chi è interessato, può facilmente rintracciare tutta la documentazione, presentata a Comitati tecnici, Consigli superiori dei Lavori Pubblici, Corte dei Conti, provveditori e ministri di ogni colore. Tutti sapevano, o sarebbero stati tenuti a sapere. Votai contro, unico, in Comitato inter-ministeriale per la salvaguardia di Venezia, mettendo agli atti le ragioni del mio radicale dissenso, e mi arresi. Il fronte era invincibile, dal Governo alla Regione, Galan e Zaia, dalle Associazioni di categoria tutte, alla Confindustria, alla stragrande maggioranza di tecnici impiegati dal Consorzio, a tv e giornali (con la lodevole eccezione della Nuova Venezia),e via cantando. Capitolo ben triste della storia civile patria. Il problema della corrosione, drammatico come si evince dalle parole di Ramundo e Paolucci, è uno dei tanti irrisolti. Vi è quello del traffico portuale. Vi è quello del soggetto che dovrebbe gestire il sistema e decidere del suo funzionamento in condizioni critiche. Vi è quello straordinario della manutenzione in generale. Quando il sottoscritto chiedeva disperatamente ne venisse esplicitato il costo, si parlava di 30-40 milioni all’anno, ora questa cifra dovrà essere almeno raddoppiata. Chi scoverà queste risorse per i prossimi anni, nella situazione in cui si trova il Paese? E senza manutenzione il Mose semplicemente si disfa, come risulta chiaro dalle lettere di dimissioni dei due ex consulenti. Chi dovrà pagare per questo annunciato disastro? Finora hanno pagato, si fa per dire, soltanto corrotti e corruttori. Ma incompetenti lautamente remunerati e compagnia bella non devono pagare? Chi ha fatto il collaudo non si è accorto della qualità dei materiali utilizzati? Chi doveva dirigere il tutto non ha avuto notizia della mancata manutenzione? Come salvare il salvabile? Un’unica via: trovare i soldi necessari per fare tutto quello che Ramundo e Paolucci direttamente e indirettamente richiedono e affidare a loro o a gente seria come loro, che non deve obbedire a nient’altro che alla propria coscienza, il lavoro da fare e la gestione dell’opera.

Mose, storia di uno spreco infinito. Pochi appalti a gara, nessuna trasparenza, soldi sperperati. E qualcuno che ha guadagnato miliardi a spese dello Stato. Il presidente dell’anticorruzione Cantone punta il dito su un sistema che non è mai cambiato. Gianfrancesco Turano e Alberto Vitucci su L'Espresso il 2 aprile 2021. Una lettera di sei pagine datata 2 febbraio riscrive la storia del Mose, il sistema delle dighe mobili per la salvaguardia di Venezia. Il mittente è Raffaele Cantone, presidente dell’autorità anticorruzione (Anac). Il destinatario è il prefetto di Roma, Franco Gabrielli. Il suo predecessore, Giuseppe Pecoraro, ha firmato quindici mesi fa il commissariamento del Consorzio Venezia Nuova (Cvn), il mostro a due teste che dalla capitale alla Serenissima ha gestito per trent’anni 5,5 miliardi di euro pubblici spediti in laguna ad arricchire un pugno di imprese: la Mantovani di Padova, la romana Condotte e Fincosit Grandi Lavori dei fratelli veronesi Mazzi. Il breve memoriale dell’anticorruzione conferma quello che alcuni giornali, fra i quali “l’Espresso”, avevano ipotizzato. L’inchiesta penale che ha colpito le aziende del Consorzio e oltre quaranta fra manager e politici non ha cambiato la sostanza, il metodo e le modalità degli investimenti nelle opere contro l’acqua alta. Le stesse imprese che hanno fatto il bello e cattivo tempo durante la gestione del doge Giovanni Mazzacurati, storico presidente del Cvn, e di Piergiorgio Baita, plenipotenziario della Mantovani, hanno continuato a seguire il modello fissato dai governi della Prima Repubblica, padri poco nobili di uno spreco infinito. Pochi appalti a gara, alla faccia delle procedure di infrazione dell’Ue, e un sistema perfetto per incamerare i ribassi d’asta, lucrare sulle forniture e sulle differenze di prezzo. Un fiume di soldi manca all’appello a fronte di lavori fatti male. I calcoli sull’«utile ingiustificato» evidenziano una cifra di almeno 53 milioni di euro, ai quali vanno sommati altri milioni di euro pagati per la cosiddetta “progettazione costruttiva”. E c’è una relazione diretta fra questi margini e i 40 milioni di «fondi occulti destinati anche al pagamento di tangenti». Sono queste le conclusioni del documento di diciotto pagine firmato dai tre commissari che dal dicembre del 2014 governano il Consorzio: Luigi Magistro, Giuseppe Fiengo, e Francesco Ossola. Il rapporto, inviato all’Anac dopo sei mesi di indagini interne, ha convinto Cantone a chiedere il commissariamento della Comar, dopo il Cvn. La richiesta è stata accolta e firmata dal prefetto di Roma Gabrielli l’8 gennaio. Comar non è un’azienda qualunque, ma la vera centrale degli appalti, creata nel 2009 con un semplice atto interno firmato dal presidente del Cvn Giovanni Mazzacurati, finito ai domiciliari nel luglio 2013, e dai vertici delle tre principali imprese azioniste del Mose (Condotte, Grandi Lavori Fincosit e Mantovani). Comar è un’invenzione semplice ma geniale. È un consorzio, come il Cvn. Ma il Cvn, almeno formalmente, era sottoposto al controllo dell’esecutivo attraverso il Magistrato alle acque, cioè il Ministero delle infrastrutture. Comar, fotocopia del Cvn in termini azionari, è indipendente da una vigilanza che, in ogni caso, non è stata ferrea se è vero che fra gli indagati dell’inchiesta veneziana figurano due ex presidenti del magistrato alle acque: Patrizio Cuccioletta, che ha patteggiato una condanna a due anni e 750 mila euro, e Maria Giovanna Piva, ancora sotto processo. Passando al setaccio carte e documenti, i tre commissari hanno rivelato che la Comar ha incassato decine di milioni di euro con il sistema dei ribassi d’asta e grazie a un aggio del 2 per cento per la “progettazione costruttiva”, a fronte di un altro 10 per cento dovuto al Consorzio per ogni lavoro e al 12 per cento previsto per legge come margine dovuto dallo Stato al Cvn. Le conclusioni di Magistro, Fiengo e Ossola hanno indotto Cantone a inviare l’intera documentazione alla Procura e alla Guardia di Finanza con un’iniziativa che potrebbe avere conseguenze clamorose anche sul piano penale. «Non spetta allo scrivente», dichiara Cantone nella sua richiesta di commissariamento, «stabilire se questo sistema, per come è stato congegnato, sia servito a perseguire quelle medesime attività illecite che sono state accertate con riferimento al Cvn. Se la Comar non è mai stata coinvolta nelle indagini giudiziarie, è d’altro canto vero che di essa sono socie imprese i cui vertici sono stati pienamente coinvolti nelle indagini della Procura di Venezia». Gli amministratori di Comar erano Stefano Tomarelli (Condotte), arrestato nel giugno 2014, Baita (Mantovani), arrestato a febbraio del 2013, e Salvatore Sarpero (Grandi Lavori Fincosit). Cantone si chiede quale sia il compito di questa società che aveva come unico scopo sociale di avviare le gare d’appalto richieste dall’Unione europea per evitare la procedura di infrazione. «È difficile individuare», prosegue la relazione del presidente Anac, «un ruolo utile e funzionale della Comar che non avrebbe potuto essere svolto direttamente dal Consorzio». Comar appare come una «delegata alla gestione, un’appendice esterna del Consorzio». Una fotocopia, appunto. Ma una fotocopia che produce milioni di utili visto che, quando le gare sono state fatte, il Cvn ha consentito a Comar «il diritto a incamerare eventuali ribassi d’asta con ciò eliminando il vantaggio per lo Stato». «Il paradosso», prosegue Cantone, «è che Comar continua ad essere gestito dalle stesse imprese che sono state escluse dalla gestione del Cvn dopo il commissariamento». In quanto a paradossi, siamo solo all’inizio. Comar, che doveva svolgere il ruolo di centrale appaltante per le gare del Mose, ha ricevuto il «lucroso incarico» senza alcuna gara e nasce, sempre secondo Cantone «con una logica e una finalità che appaiono purtroppo coerenti e in linea con l’illecito modus operandi messo in campo nel corso degli anni dal Consorzio Venezia Nuova e descritto compiutamente nelle ordinanze cautelari emesse dall’autorità giudiziaria». Vale la pena ripercorrere la storia della Comar per capire come il lavoro di indagine fatto dai commissari e dall’Anticorruzione abbia scoperchiato un’attività dai risvolti sorprendenti. Nel 2001 l’Unione europea archivia la procedura di infrazione aperta contro l’Italia dopo gli esposti degli ambientalisti per il regime di monopolio in cui si svolgevano i lavori della salvaguardia della laguna. Viene firmato un accordo con il governo che prevede l’introduzione delle gare su una parte di quegli interventi. In particolare, sulle difese dei centri abitati lagunari per 2.445 milioni e sugli impianti elettromeccanici del Mose per 721 milioni. In realtà l’ammontare dei lavori messo a gara sarà notevolmente inferiore. I soldi per le difese dei centri abitati non sono mai stati stanziati, i 721 milioni si riducono a 400. Di questi poi non tutti andranno a gara. Alcuni, come le cerniere del Mose, saranno affidati direttamente dalla Comar alla Fip, società di Selvazzano di proprietà del gruppo Mantovani. Nel frattempo lo Stato assegna al Consorzio altri 781 milioni per le bonifiche di Marghera, ancora una volta senza gara. È questa, scrivono i commissari nel loro atto di accusa, la prima “distonia” rispetto alle indicazioni dell’Ue. In sostanza Comar non si limita a fare le gare ma assume un ruolo strategico, con la possibilità di incamerare i ribassi d’asta. Il vantaggio delle gare per lo Stato è così annullato. Quanto ci hanno guadagnato Comar e i suoi azionisti? Solo per i ribassi d’asta generali 14 milioni ai quali vanno sommati 39 milioni per il ribasso sui costi delle paratoie. In aggiunta ci sono i milioni di euro del 2 per cento sulla progettazione costruttiva. Così tra il 2003 e il 2014 il Consorzio versa alle tre principali consorziate un importo pari a circa 60 milioni di euro. I lavori che dovevano andare a gara restano saldamente nelle mani delle tre sorelle, Mantovani, Condotte e Fincosit che mantengono, si legge nella relazione, una doppia contabilità, «una a valori reali, una a valori virtuali». I prezzi registrati non corrispondono quasi mai ai prezzi ottenuti al libero mercato. La differenza rimane in casa. La storia degli sprechi e dei costi impazziti sarebbe incompleta se non si abbinasse alle criticità tecniche. Oltre ai costi elevati ci sono i malfunzionamenti, i cassoni esplosi, le paratoie in opera già coperte di ruggine. «La porta a mare della conca di Malamocco», segnalano i commissari, «ha subito ingenti danni alla prima mareggiata di forte intensità. Le indagini in corso stanno facendo emergere errori di progettazione. Di tali errori dovrebbero essere chiamati a rispondere Technital (gruppo Mazzi) e Comar». Un capitolo a parte merita il jack-up. È una nave attrezzata per la posa e il trasporto delle paratoie che, a scadenze periodiche, vanno tolte dai fondali e portate alla manutenzione in Arsenale alimentando costi di gestione nell’ordine di decine di milioni all’anno. Il presidente del Magistrato alle Acque Cuccioletta e il Cvn avevano stabilito nel 2009 di costruire due jack-up con una spesa di 50,5 milioni di euro per nave. La gara è bandita dalla Comar. La prima viene annullata, la seconda va deserta. A quel punto Comar affida i lavori direttamente alla società Cav, presieduta da Baita e controllata dal gruppo Mantovani. Cav però non è in grado di completare la nave e si associa con la Fip, un’altra impresa della Mantovani. Il saldo finale è che l’unico jack-up ultimato non ha mai preso il largo. Da un anno è fermo in attesa di collaudo. La gara, che prevedeva un ribasso da 7 milioni, tutti destinati a Comar, è stata sospesa e la valutazione affidata a un consulente tecnico. Nel braccio di ferro tra i commissari del Consorzio e Mantovani, che accusa il Cvn di tutti i problemi e lamenta costi aggiuntivi, la mancanza della nave potrebbe bloccare la posa delle paratoie. E dunque ritardare ancora i lavori del Mose che dovrebbero finire dopo numerosi rinvii, nel 2018. L’accusa dei commissari è esplicita. «Come sta ora accadendo, le principali imprese del Cvn finiscono con il detenere una sorta di potere di veto. O si sta alle loro condizioni o l’opera non sarà mai terminata». Più chiaro di così.

·        Ciclisti. I Pirati della Strada.

Uccise 8 ciclisti, nuovo incidente mortale per il marocchino. Federico Garau il 9 Settembre 2021 su Il Giornale. Il 34enne, senza patente e sotto l'effetto di sostanze stupefacenti, piombò su un gruppo di ciclisti amatori uccidendone otto e ferendone gravemente due. Si era già reso protagonista di un incidente mortale undici anni fa, quando a bordo di una Mercedes 220 travolse dieci ciclisti amatoriali, uccidendone ben otto e ferendo in modo grave gli altri due. Lo scorso lunedì 6 settembre lo stesso uomo, il 34enne di nazionalità marocchina Chafil Elketani, è uscito di strada al volante di una Toyota Corolla presa a noleggio, andandosi a schiantare contro un guard rail: a causa del terribile impatto ha perso la vita un suo connazionale di 31 anni. Rimasto ferito, Chafil Elketani è stato trasportato in ambulanza presso l'ospedale di Catanzaro, dove si trova tuttora ricoverato. La procura della Repubblica ha iscritto il 34enne marocchino nel registro degli indagati, con l'accusa di omicidio stradale. Non si tratta del primo provvedimento preso nei suoi confronti dato che, per la strage dei ciclisti amatoriali di cui si era reso responsabile nell'ormai lontano 5 dicembre 2010 lungo la strada statale 18 Tirrenica, Elketani aveva dovuto scontare cinque anni di detenzione in carcere. Come ricordato da "Il Corriere", allora non era ancora stato istituito il reato di omicidio stradale. In quella tragica circostanza, il 34enne, che guidava sotto l'effetto di sostanze stupefacenti, era addirittura senza patente: il documento, infatti, gli era stato ritirato sette mesi prima per opera della prefettura di Potenza, a causa di un sorpasso in un tratto di strada con striscia continua.

Ciò nonostante, il marocchino aveva continuato a guidare come se niente fosse, rendendosi protagonista di altre infrazioni, esattamente come accaduto nel tragico pomeriggio di quel 5 dicembre 2020. Allora fu un sorpasso in curva a provocare l'incidente che costò la vita a 8 ciclisti lungo la strada che da Lamezia conduce a Gizzeria. L'ultimo episodio, invece, si è verificato sulla statale 280 nelle vicinanze di Marcellinara, intorno alle ore 23:00. Stavolta sarebbe stata l'elevata velocità a determinare l'uscita di strada e lo schianto, in seguito al quale è deceduto il connazionale 31enne del responsabile. Le indagini, compresi gli esami per determinare se anche in questa circostanza Chafik Elketani si fosse messo al volante sotto l'effetto di droghe, sono tuttora in corso. Come spiegato da "Il Corriere", l'uomo è nipote di quel "Ringo" noto per essere il leader della comunità di marocchini che detiene il controllo pressoché totale del commercio ambulante in tutto il territorio regionale della Calabria.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronaca.

Edoardo Di Salvo per lastampa.it il 10 settembre 2021. 11 anni dopo e a poche decine di chilometri di distanza. Sembra un salto indietro nel tempo quello vissuto da Chafik Elketani, 32 anni. L’uomo, originario del Marocco, era alla guida dell’auto che travolse 10 ciclisti uccidendone 8 e ferendone gravemente due, a Santa’Eufemia in provincia di Lamezia Terme. Un sorpasso in curva, una manovra sconsiderata come era solito fare, che gli erano costate il ritiro della patente alcuni mesi prima. Elketani era sotto effetto di droghe, accerterenno le forze dell’ordine in un secondo momento. Le strade interne e strette del lamentino non hanno perdonato. La Mercedes travolge il gruppo di cicloamatori, otto perdono la vita e due rimangono gravemente ferite.  Nel 2010 non esisteva il reato di omicidio stradale, e se la cava con una condanna a otto anni, questa la sentenza della Procura di Lamezia Terme. Dopo cinque anni esce dal carcere. Lunedì scorso la storia si ripete. Elketani sta percorrendo la statale 280 in zona Marcellinara, a Catanzaro, poco dopo le 23. Siamo a meno di trenta chilometri dal luogo della strage del 2010. La Toyota Corolla viaggia veloce, probabilmente troppo, e si schianta contro il guard rail, uscendo fuori dalla carreggiata. Nuovo dramma, anche questa volta la strada non perdona. Nello scontro muore un amico di Elketani, un 31enne anch’egli marocchino, lui se la cava con qualche ferita. Viene trasportato all’ospedale di Catanzaro dove si trova tuttora ricoverato. Non è ancora chiaro chi dei due fosse alla guida. Dagli esami si capirà se anche questa volta la droga ha avuto un ruolo. Ora l’uomo dovrà rispondere di omicidio stradale davanti alla Procura di Catanzaro. La famiglia di Elketani ha il predominio nel settore del commercio ambulante all’ingrosso, ed è una delle più in vista nella comunità marocchina della zona.

Lucia Landoni per repubblica.it il 30 agosto 2021. Non è un pilota professionista e si era messo al volante solo per fare un tranquillo giro in città, eppure è comunque riuscito a stabilire un record: quello di automobilista più anziano multato a Castano Primo (nell'hinterland milanese). Il protagonista del curioso episodio - raccontato sui social dal sindaco Giuseppe Pignatiello - è un 96enne, che "pur di non rinunciare al proprio giretto quotidiano, circolava con un'auto senza assicurazione né revisione". La Polizia locale l'ha fermato e, una volta accertata la regolarità della sua patente, ha avvisato i figli dell'uomo. Dopo di che i vigili hanno dovuto necessariamente provvedere al sequestro del mezzo, nel rispetto della legge. "Si tratta del più anziano contravventore del codice stradale mai registrato nella nostra città. Ma per fortuna non parliamo di un bandito in fuga o di un pericoloso delinquente, bensì di un vecchietto molto arzillo - continua Pignatiello -. Dopo essere stato fermato dalla Polizia locale, si è subito attivato per regolarizzare la propria posizione e rimettere in circolazione la vettura". Quella che il primo cittadino ha definito "una bizzarra vicenda" ha suscitato dibattito su Facebook: "Un pericolo in più in circolazione. Io toglierei la patente a tutti gli ultraottantenni" scrive un'utente e un'altra addirittura suggerisce di "mettere lo stop dai 70 anni". Ma c'è anche chi fa notare che "ci sono settantenni che al volante valgono più di certi ventenni" e che "ho visto tanti giovani guidatori molto imbranati", quindi "chi siamo noi per giudicare? Io toglierei la patente a chi non sa usare il cervello". Nella disputa social è intervenuto anche il sindaco: "Ci sono i controlli per capire chi è in grado di guidare e chi no. La nostra Polizia locale ha fermato e multato l'anziano in questione. Da qui a fare un'analisi psicofisica di una persona credo ce ne passi. Conosco persone che fanno errori e non per questo hanno difficoltà psicofisiche". Pignatiello ha poi concluso augurando "al "nonnino" altri anni e chilometri di buona salute".

Lettera di Pierluigi Panza a Dagospia il 30 agosto 2021. Il “vecchio al volante” ha suscitato lo sdegno social degli smanettoni: “fermatelo”! Può essere corretto fermarlo o meglio, come ha dichiarato il sindaco, “ci sono i controlli per capire”… ma se c’è una generazione che, genericamente parlando (ovvio che ci siano eccezioni) guida male è proprio quella dei nativi digitali, dei millenial dei venti-trentenni di oggi. E ci sono ragioni culturali e pratiche che spiegano il perché del pericolo costante che essi creano. I ragazzi anni Settanta e Ottanta, condizionati da film, romanzi e canzoni dell’epoca (ricordate “viaggiare a fari spenti nella notte per vedere come va a finire”, di Battisti?) vedevano nel guidare l’auto uno dei simboli di emancipazione. Si guidava di nascosto dai genitori già prima dei 18 anni ed era un vanto prendere la patente “da privatista”. Le auto di allora erano assai più difficili da guidare: in alcune dovevi fare ancora la doppietta per cambiare marcia! Per loro, diventando adulti, la guida è andata sempre semplificandosi. Inoltre, sono stati abituati ad avere un’auto propria, magari scassata ma che conoscevano perfettamente nelle reazioni, e abituati a guidarla quotidianamente per andare al lavoro. Per loro, guidare e respirare è quasi lo stesso. Pei i venti-trentenni di oggi (quelli che chiedono lo stop al nonnetto) è tutto il contrario, per questo guidano malissimo. L’auto non è più un mito e molti di loro, fatta la scuola-guida dove passano tutti, se possono evitano di usare l’auto e, certamente, quotidianamente prediligono altri mezzi. Imparano a guidare su auto facili e ottengono la patente dopo pochi chilometri di corso: questo li rende impreparati a percorsi o situazioni di difficoltà (i fari spenti, il ghiaccio, un tempo le marce che non entravano ecc…). Vivono con il telefonino in mano e non smettono di messaggiare mentre guidano o si fermano al semaforo: ciò è molto pericoloso poiché la guida richiede un impegno esclusivo. Ovviamente usano il telefonino come navigatore e ciò crea ulteriore distrazione. Non mettono mai la freccia, aspetto grave, specie se guidi un suv poiché quello dietro non vede niente. Molti usano l’auto in sharing: ma questa non è la tua auto, non ne conosci le reazioni e ciò rende la guida meno sicura in quei pochi chilometri. Molti usano l’auto poco, proprio se non c’è altro mezzo, e quindi non hanno esperienza e chilometri alle spalle. Il risultato, in genere, è che non tengono mai la destra (che è obbligatorio da regolamento stradale), sono tutti sulla corsia centrale nelle autostrade a tre corsie perché hanno timore di incontrare un camion da superare, vanno piano non per prudenza, ma perché sono distratti dal cellulare, trovandosi spesso ad avanzare distrattamente nel centro della strada senza mai guardare il retrovisore! Di fatto, guidando e facendo sempre, intanto, qualcos’altro, indifferenti a cosa sta avvenendo intorno a loro. Non è detto che il nonnetto sia più pericoloso di loro per gli altri.

Andrea Gaiardoni per “il Venerdì di Repubblica” il 24 agosto 2021. L’Italia ha un primato poco invidiabile: è l'unico Paese d'Europa che riesce a litigare, e a dividersi, sulle piste ciclabili. Trasformando in feroce scontro politico un argomento che dovrebbe portare un miglioramento della qualità della vita di tutti. Eppure non c'è angolo d'Italia dove non fioriscano polemiche: da Milano a Livorno, da Roma a Cagliari, da Genova a Bari. In quest' ultimo periodo, le restrizioni legate alla pandemia hanno spinto i Comuni a favorire l'uso della bici come alternativa all'utilizzo dei mezzi pubblici. E così, di percorsi dedicati alle due ruote, ne sono spuntati a iosa. Alcuni raccogliendo applausi, altri, invece, dure critiche legate a percorsi tortuosi, restrizione delle carreggiate e una serie di ostacoli sul percorso. Perché spesso la pista a due ruote ha "rubato" spazio alle auto suscitando inevitabili mugugni. Che a destra hanno trovato una sponda immediata. Trasformando la questione in una sorta di scontro ideologico tra chi sostiene che le ciclabili siano «roba da radical chic» (copyright Matteo Salvini) e chi a sinistra le esalta come la nuova frontiera della mobilità.

L'invasione delle auto. A questo punto però conviene partire dai dati. Di certo le nostre città sono soffocate dal traffico: l'Italia è seconda in Europa per tasso di motorizzazione (solo in Lussemburgo è più alto): in media 65 auto ogni 100 abitanti. Milano è la più virtuosa con 54 mentre Roma è al 62 per cento, il doppio rispetto a Berlino, Amsterdam, Parigi. Altro dato: per il 96 per cento del tempo le auto in città restano ferme. E allora? Non sarebbe il caso di potenziare il trasporto su due ruote? «È un tema che in Italia non stiamo affrontando seriamente», sostiene Matteo Dondé, architetto e urbanista. «L'abbiamo trasformato in argomento di campagna elettorale. Solo da noi la bici è considerata di sinistra e l'auto di destra. In Europa qualsiasi amministrazione favorisce la mobilità attiva, perché vuol dire rendere il traffico più efficiente e le città più vivibili. Una ricerca sostiene che gli automobilisti più felici d'Europa siano gli olandesi, uno dei Paesi con meno macchine. Noi, semplicemente, ne abbiamo troppe: non ci stiamo più». Provate a dirlo a Vittorio Feltri, candidato consigliere comunale per Fratelli d'Italia, che ha già dichiarato che il suo obiettivo sarà «eliminare le piste ciclabili, per restituire a Milano un'immagine migliore». Divisi sotto alla madonnina E proprio nel capoluogo lombardo, dove in autunno si terranno le elezioni amministrative, si litiga sulla ciclabile di corso Buenos Aires, introdotta nel 2020, con transiti giornalieri che sfiorano i diecimila al giorno. Il sindaco uscente (e ricandidato) Beppe Sala (ex Pd, ora Europa Verde) ha deciso di togliere i parcheggi per aumentare la sede stradale riservata al transito sia delle auto sia delle due ruote. «Nessun ripensamento: in agosto i lavori per sistemare alcuni tratti più delicati» ha promesso. Ma i commercianti di corso Buenos Aires fanno muro: il 92 per cento ritiene che la ciclabile abbia avuto un impatto negativo sia sulla mobilità sia sugli affari. E l'81 per cento chiede che venga spostata su un asse parallelo. Musica per le orecchie della destra. Tanto che la Lega ha perfino organizzato una raccolta firme in vista di un eventuale referendum: «Non siamo contrari per principio, io stesso uso la bici» spiega Stefano Bolognini, assessore leghista in Regione Lombardia. «Ma a Milano alcune ciclabili decise dal Comune, senza ascoltare il parere delle municipalità, hanno ridotto le corsie per le auto, tolto parcheggi, creato incolonnamenti e disagi. È evidente come in alcune scelte l'ideologia prevalga sul buon senso». Dunque l'Italia s' è imbottigliata sulle ciclabili. Che a volte, va detto, sembrano disegnate senza alcun criterio di sicurezza o dettate da scelte discutibili. Come quella sulle sponde del Tevere dalla giunta Raggi che ha provocato più di un'ironia. O quelle che a Livorno hanno visto saldarsi un'alleanza tra Cinque Stelle e destra contro la giunta di centrosinistra. Oppure Cagliari, dove ne hanno fatto una che è larga esattamente come la corsia per le auto che gli scorre accanto. A Jesi, invece, è il Pd ad attaccare il Comune (di destra) per avere realizzato le piste nei quartieri congestionati di traffico. Senza contare le proteste che ciclicamente si alzano da chi su quei tratti di strada protetta ci pedala giornalmente. «La salute è un bene comune, non ci si può dividere su questi temi», commenta Alessandro Tursi, presidente della Fiab (Federazione italiana ambiente e bicicletta). «Abbiamo una classe politica insipiente: chi è all'opposizione si oppone a prescindere. Per cavalcare il dissenso e per fare incetta di like. Ma è un successo provvisorio». Mentre all'estero... C'è poi un aspetto più generale che riguarda la sicurezza. «In Spagna, da maggio, nelle strade urbane di tutte le città c'è il limite a 30 km/h» continua l'architetto Dondé. «Stessa norma a Parigi, entro fine agosto. Noi invece siamo ancora il Paese dove il pedone ringrazia l'automobilista quando attraversa sulle strisce: dimostra che per noi, culturalmente, la strada è proprietà delle auto». D'accordo con la riduzione delle auto anche Fiab: «È una tossicodipendenza» sostiene Tursi. «Affrontare il problema del traffico con più strade e più parcheggi è come sperare di sconfiggere l'obesità aumentando di un buco la cintura. Siamo in epidemia da iper-motorizzazione. Più il Paese è motorizzato e più ci sono morti sulle strade». 

Marina Mingarelli per ilmessaggero.it il 26 giugno 2021. Dopo il danno la beffa. Un ciclista di 50 anni, che nel marzo scorso è stato travolto da un mezzo pesante e per questo ha riportato gravi danni fisici permanenti, nei giorni si è visto recapitare una multa di 45 euro perché al momento dell'incidente la sua bicicletta era sprovvista di campanello. I fatti risalgono allo scorso 25 marzo. L.D.M. queste le iniziali del ciclista investito, praticava ciclismo a livello professionale. Quel giorno si stava allenando in vista di una gara e stava percorrendo la zona industriale di Ferentino, quando all'altezza della rotatoria situata all'ingresso della superstrada per Sora, è stato agganciato da un tir. L'autotrenista non si era accorto di nulla e ha trascinato il ciclista per almeno venti metri. Sono stati momenti drammatici in cui si è pensato veramente che si fosse consumata l'ennesima tragedia sull'asfalto. Per estrarre l'atleta che si trovava incastrato sotto i pneumatici del camion, è stato necessario l'intervento dei vigili del fuoco del comando provinciale. Il ciclista venne trasportato in eliambulanza all'ospedale San Camillo di Roma. Le sue condizioni sembravano disperate: 17 costole rotte, i tendini di un braccio gravemente lesionati, così come gli arti inferiori. Il 50enne per fortuna, dopo un lungo ricovero, ce l'ha fatta, ma non senza conseguenze. I danni causati dell'incidente purtroppo sono stati irreversibili. L'uomo non potrà mai più montare in sella ad una bici. I medici sono stati costretti ad amputagli due falangi alla mano destra. Un trauma psicologico oltre che fisico per una persona che viveva di sport. Il conducente del tir, un ragazzo campano di 45 anni, è stato iscritto sul registro degli indagati per lesioni gravissime. Ma a quanto pare questo non è stato l'unico risvolto degli accertamenti svolti il giorno dell'incidente. La bicicletta del 50enne ciociaro era sprovvista di campanello e per questa ragione l'atleta è stato multato. Lo ha scoperto nei giorni scorsi quando gli è stato recapitato a casa il verbale: 45 euro. Gli avvocati Giuseppe Lo Vecchio Alessia Turriziani che rappresentano la persona investita hanno già preannunciato che avverso tale sanzione presenteranno ricorso negli opportuni uffici.

Senza luci e campanello sulla bici in allenamento: multa per Anna Trevisi. Ecco cosa dice la legge…Da bicitv.it il 19 febbraio 2018. Ieri ha fatto scalpore su alcuni siti specializzati e sui social la notizia che la ciclista venticinquenne emiliana Anna Trevisi sia stata multata dalle forze dell’ordine, mentre si trovava in allenamento con la sua bicicletta da corsa sulle strade del Lago di Garda, perchè sprovvista di campanello e luci. La sanzione ammonta a 143 euro. A darne notizia sul suo profilo social è stata la team manager della squadra femminile veronese. Approfittiamo di questo fatto di cronaca per approfondire la questione e fare un po’ di chiarezza a beneficio di tutti quanti usino abitualmente la bicicletta per passione o allenamento. La legge è in vigore già da tempo e il fatto che in pochi la facciano rispettare non significa che non vada seguita. La questione verte sull’articolo 68 del Codice della Strada che regolamenta, tra i vari commi, anche le “Caratteristiche costruttive e funzionali e dispositivi di equipaggiamento dei velocipedi”. A norma di legge le biciclette devono essere munite di pneumatici, freni indipendenti per ciascuna ruota, campanello e luci, da utilizzare quando si circola da mezz’ora dopo il tramonto a mezz’ora prima dell’alba. E, in ogni caso, anche in queste ore la bici può circolare, se condotta a mano.

Di seguito vi proponiamo l’articolo del Codice della Strada. 

Art. 68. Caratteristiche costruttive e funzionali e dispositivi di equipaggiamento dei velocipedi.

“Nuovo codice della strada”, decreto legisl. 30 aprile 1992 n. 285 e successive modificazioni. 

TITOLO III – DEI VEICOLI 

Capo II – DEI VEICOLI A TRAZIONE ANIMALE, SLITTE E VELOCIPEDI 

Art. 68. Caratteristiche costruttive e funzionali e dispositivi di equipaggiamento dei velocipedi. 

1. I velocipedi devono essere muniti di pneumatici, nonché: 

a) per la frenatura: di un dispositivo indipendente per ciascun asse che agisca in maniera pronta ed efficace sulle rispettive ruote; 

b) per le segnalazioni acustiche: di un campanello; 

c) per le segnalazioni visive: anteriormente di luci bianche o gialle, posteriormente di luci rosse e di catadiottri rossi; inoltre, sui pedali devono essere applicati catadiottri gialli ed analoghi dispositivi devono essere applicati sui lati. 

2. I dispositivi di segnalazione di cui alla lettera c) del comma 1 devono essere presenti e funzionanti nelle ore e nei casi previsti dall’art. 152, comma 1. 

3. Le disposizioni previste nelle lettere b) e c) del comma 1 non si applicano ai velocipedi quando sono usati durante competizioni sportive. 

4. Con decreto del Ministro dei lavori pubblici sono stabilite le caratteristiche costruttive, funzionali nonché le modalità di omologazione dei velocipedi a più ruote simmetriche che consentono il trasporto di altre persone oltre il conducente. 

5. I velocipedi possono essere equipaggiati per il trasporto di un bambino, con idonee attrezzature, le cui caratteristiche sono stabilite nel regolamento. 

6. Chiunque circola con un velocipede senza pneumatici o nel quale alcuno dei dispositivi di frenatura o di segnalazione acustica o visiva manchi o non sia conforme alle disposizioni stabilite nel presente articolo e nell’articolo 69, è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 24 a euro 97. 

7. Chiunque circola con un velocipede di cui al comma 4, non omologato, è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 41 a euro 168. 

8. Chiunque produce o mette in commercio velocipedi o i relativi dispositivi di equipaggiamento non conformi al tipo omologato, ove ne sia richiesta l’omologazione, è soggetto, se il fatto non costituisce reato, alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 419 a euro 1.682.

Da “Swg” il 25 maggio 2021. L’USO DELLA BICI. Per diversi motivi, durante il periodo della pandemia si è verificato un forte aumento dell’uso delle biciclette da parte degli italiani. Se questo incremento della popolazione dei ciclisti è destinato a mantenersi anche dopo la fine dell’emergenza sarà da vedere, ma per il momento le intenzioni sembrano queste. Anche perché le pedalate stanno entrando sempre più a far parte della quotidianità della gente. Non sono soltanto un’attività sportiva come altre, bensì per molti rappresentano un importante mezzo di trasporto. Il successo della bicicletta è dovuto alla combinazione di benefici che il suo utilizzo offre: l’attività motoria è salutare, l’assenza di emissioni preserva l’ambiente, gli spostamenti su distanze brevi sono efficaci e per molti è anche un divertimento. A contribuire al boom nella fruizione delle due ruote è stata anche la pedalata assistita che ha consentito a molti di superare le perplessità legate alla fatica. Per pochi si tratta di un «tradimento» dello spirito del ciclismo, mentre per la maggioranza le e-bike possono essere una grande opportunità. In tutto questo la nota dolente è un sistema di piste ciclabili che viene ritenuto largamente inadeguato, nodo che arriva al pettine in maniera più evidente nel momento in cui la quota di ciclisti è cresciuta sensibilmente.

Domenico Pecile per il “Corriere della Sera” il 25 aprile 2021. Studentessa modello nella quarta liceo di Scienze applicate all'istituto Arturo Malignani di Udine. Benvoluta, sempre sorridente. Tenace, bella e piena di interessi. Ma soprattutto amante della bicicletta, come suo papà e suo fratello, al punto da essere ormai considerata una promessa del ciclismo femminile italiano. E invece, in sella, Silvia Piccini è morta. Inseguendo quella passione che le era scoppiata dentro da piccola e che l'aveva subito fatta innamorare delle due ruote. Il suo palmarès racconta di quali fossero le sue potenzialità sportive, fa immaginare un futuro di gare e successi. La sua corsa si è fermata a 17 anni. Silvia - madre di Santo Domingo e papà friulano, un fratello e una sorellina - è stata vittima di un incidente stradale martedì pomeriggio. La sua bici è stata travolta da un'auto lungo quelle strade della collinare, in provincia di Udine, che percorreva da anni praticamente a memoria e che erano diventate la sua palestra naturale. Era partita in sella appena prima delle 16 per il consueto allenamento. La tragedia è accaduta a pochi chilometri da casa. A speronarla è stata un'auto condotta da una donna. La ragazza dopo l'urto è stata trascinata per alcuni metri finendo poi nel fosso che fiancheggia la strada. I soccorsi sono stati immediati. In breve tempo la 17enne è arrivata all'ospedale di Udine per essere ricoverata in terapia intensiva. Parenti, amici e tutto il mondo del ciclismo regionale sono rimasti appesi alla speranza. Il sindaco del Comune di Sedegliano, Dino Giacomuzzi, si era detto sconvolto per l'accaduto, mentre tutte le società del Friuli-Venezia Giulia e del Veneto (di recente la ragazza era passata all'Uc Conscio sul Sile, società trevigiana di Casale sul Sile) avevano dato vita a un tam-tam per scambiarsi notizie, in attesa che arrivasse quella buona, che qualcuno dall'ospedale dicesse che Silvia ce l'aveva fatta. Per lei avevano tifato anche campioni del professionismo come Alessandro De Marchi e Jonathan Milan, cresciuti ciclisticamente in Friuli. Ma ieri notte, dopo due giorni di agonia, Silvia Piccini, la ragazza a cui tutti pronosticavano un futuro roseo, diviso tra studio e sport con risultati eccellenti su entrambi i fronti, è deceduta. Durissimo il commento del friulano Daniele Pontoni, ex campione del mondo di ciclocross e vincitore di dieci titoli nazionali: «Non commento l'incidente, ma mi sembra evidente, visto il preoccupante aumento di episodi simili, che i ciclisti sono ormai come birilli sulle strade». Eppure, il fratello minore di Silvia, pure lui ciclista in erba, ha già mandato a dire che continuerà a correre in bici, anche per onorare la sorella che gli aveva trasmesso la passione.

Ciclista 17enne investita a Udine: Silvia Piccini è morta a due giorni dall’incidente. Rossana Pucceri il 24/04/2021 su Notizie.it. La giovane ciclista di 17 anni Silvia Piccini è morta in seguito alle gravi ferite riportate in un incidente stradale a Udine in cui è rimasta investita. Silvia Piccini, 18 anni ancora da compiere, non è sopravvissuta al tragico incidente che l’ha vista coinvolta due giorni fa, tra Rodeano e San Daniele. La giovane, di cui è stata dichiarata la mote cerebrale, viveva a Sedegliano. Nel pomeriggio di martedì 20 aprile, lungo la strada che da San Daniele del Friuli conduce a Rodeano, Silvia, studentessa modello della quarta liceo di Scienze applicate dell’Istituto Arturo Malignani di Udine, in sella alla sua bicicletta da corsa durante il consueto allenamento, è stata speronata da un’automobile Audi A1 rossa, guidata da una donna. Dopo l’urto la ragazza è stata trascinata per alcuni metri sull’asfalto finendo poi in un fosso che fiancheggia la strada. Sul posto sono immediatamente intervenuti i Vigili del Fuoco e i soccorsi con un’ambulanza e l’elisoccorso del 118, che l’hanno trasportata ferita all’ospedale di Udine, dove si è reso necessario il ricovero in terapia intensiva. La famiglia, gli amici e tutto il mondo del ciclismo regionale nonché l’intera comunità di Sedagliano hanno sperato sino alla fine nel risveglio della giovane, purtroppo però per lei non c’è stato nulla da fare ed è stata dichiarata la morte cerebrale. Per la giovane, che di recente era passata a una società sportiva trevigiana di Casale sul Sile, si erano mobilitate tutte le società del Friuli-Venezia Giulia e del Veneto, in attesa di ricevere notizie rassicuranti. Sull’accaduto è intervenuto anche l’ex campione del mondo di ciclocross e vincitore di dieci titoli nazionali Daniele Pontoni, evidenziando come i ciclisti siano diventati ormai come birilli sulle strade. Nonostante il drammatico episodio, il fratello minore di Silvia, anche lui ciclista, ha già fatto sapere che continuerà ad andare in sella, anche per onorare la sorella che gli aveva trasmesso la passione. Rossana Pucceri

La tragedia di Silvia Piccini, morta in bici travolta da un'auto a 17 anni. L'Assocorridori: "Facciamo causa allo Stato".  Cosimo Cito su La Repubblica il 23 aprile 2021. Silvia Piccini, morta a 17 anni. La giovane friulana è spirata in ospedale dopo due giorni di agonia, esattamente 4 anni dopo la morte di Michele Scarponi. Salvato, presidente dell'ACCPI: "Troppe parole, pochissimi fatti dalla politica e dalle istituzioni". Quattro anni. E in mezzo il nulla. E sulle strade, in bicicletta, si continua a morire. Il 22 aprile è una data maledetta e si è caricata ancora di un lutto atroce. Nel 2017 l’addio a Michele Scarponi, travolto da un furgone a poche centinaia di metri da casa, a Filottrano. Ieri sera, ancora, maledettamente il 22 aprile, la 17enne Silvia Piccini ha smesso di lottare contro la morte.

Ciclista uccisa, l’associazione ciclisti fa causa allo Stato. Antonio Ruzzo il 23 aprile 2021 su Il Giornale. “Oltre che triste oggi sono infuriato. Ricordo le promesse delle autorità fatte sulla tomba di Scarpa, che non si sono tramutate in azioni concrete per fermare la strage quotidiana sulle strade del nostro Paese. Chi ha sprecato parole per racimolare consenso senza poi muovere nemmeno un dito per cambiare questo inaccettabile status quo è un delinquente. I politici che continuano a ignorare i nostri appelli sono complici delle morti che ogni giorno si verificano in strada. A chi toccherà domani?». Cristian Salvato, presidente ACCPI, l’Associazione Corridori Ciclisti Professionisti Italiani,  dopo l’ennesimo incidente che ha causato la morte di Silvia Piccini, l’atleta di 17 anni investita in provincia di Udine, annuncia porterà davanti ai giudici di un tribunale lo Stato italiano. “La violenza verbale e fisica contro i soggetti più deboli, come lo sono sulla strada i ciclisti urbani e sportivi non può essere più tollerata in una società civile -continua Salvato– Per questo abbiamo deciso far causa allo Stato Italiano per inadempienza e mancanza della tutela dei propri cittadini: chiediamo un metro e mezzo di vita e il rispetto delle vita umana, non la luna…”. E visto che in tutti questi anni e dopo una lunga scia di morti in Italia nulla cambia,  l’ACCPI ha deciso di appellarsi alla Corte Europea. «Ci siamo rivolti alle massime autorità del nostro Paese, abbiamo svolto a nostre spese campagne informative, promosso iniziative per favorire l’educazione stradale ma a quanto pare non basta- spiega il presidente dell’Associazione ciclisti professionisti-  L’ennesima tragedia ci spinge a non demordere e a perseguire il nostro obiettivo, ad ogni costo. Vogliamo infrangere il muro di accettazione, di abitudini, di omertà e di silenzi colpevoli. Continueremo a combattere la violenza con la forza del diritto e della legge contro chi odia e disprezza la vita altrui anche solo per ignoranza…”

Michela Allegri per “Il Messaggero” l'11 aprile 2021. Ecco l'altra faccia della medaglia di lockdown, restrizioni alla libertà di movimento e zone rosse causa pandemia: sono calate le percentuali relative a incidenti stradali, furti e rapine, addirittura sono scesi i numeri dei reati in generale, compresi quelli che si riferiscono ad aggressioni e violenze. Ma un triste dato è rimasto in crescita costante: quello degli incidenti che riguardano i ciclisti. Sono 44 gli appassionati di due ruote morti in strada solamente nel primo trimestre del 2021. Tradotto: si conta un morto ogni 48 ore. Un dettaglio che stupisce, visto che si tratta di un periodo che è stato contraddistinto da parecchie limitazioni alla circolazione a causa della pandemia da coronavirus, con chiusure mirate, divieti e molte regioni colorate di rosso. I decessi sono stati 14 nel mese di gennaio, 17 in febbraio, 13 in marzo. E si tratta di un numero più elevato rispetto agli stessi periodi del 2019 - quando gli incidenti mortali erano stati 37 - e anche del 2018 - quando si erano contati 33 decessi -. I casi di pirateria sono stati sei in tutto. I numeri sono stati diffusi dall'Osservatorio ciclisti dell'Asaps, l'Associazione sostenitori della Polizia stradale. L’aumento degli incidenti mortali rispetto a due anni fa, quando ancora non c'erano limitazioni agli spostamenti, lockdown, zone rosse, è stato del 19 per cento. Una percentuale che spinge a fare una riflessione sulle carenze di sicurezza nelle nostre strade. La regione nella quale si sono registrati più incidenti mortali, 11 in tutto, cioè il 25 per cento del totale, è l'Emilia-Romagna, dove la bicicletta è il mezzo più utilizzato dalla popolazione negli spostamenti quotidiani. A seguire ci sono la Lombardia con 6 incidenti, il Piemonte con 5, la Puglia con 4, e poi la Campania, il Lazio, l'Abruzzo e la Sicilia con 3 morti. Le situazioni di pericolo riguardano soprattutto i viaggi in strada e gli incroci con gli altri veicoli. Le vittime sono state travolte da un'automobile in 29 casi. In altri 9 si sono scontrate con un autocarro e in un solo caso con una moto. Le uscite di strada autonome sono invece state cinque. Un altro dettaglio deve essere sottolineato: gli over 60 si confermano la categoria più a rischio incidente. Le vittime in questa fascia di età sono infatti state ben 21, quasi la metà del totale. «Un ciclista morto ogni due giorni, con le restrizioni alla mobilità, è un dato preoccupante - commenta il presidente dell' Asaps, Giordano Biserni -. Un aumento del 19 per cento rispetto al 2019, ultimo anno di vera libertà di movimento, deve far scattare un campanello d'allarme generale». Adesso il timore è per i mesi estivi, con meno restrizioni e più uscite, e un ritorno del traffico a livelli quasi normali. «Cosa accadrà nei mesi estivi, quando, si spera, saremo più liberi di circolare, se oggi piangiamo già 44 morti? - aggiunge Biserni -. Le norme che dovrebbero tutelare maggiormente i ciclisti ci sono, ma, forse, è proprio la cultura di ogni utente della strada, automobilista e ciclista, che deve cambiare prima che si sia troppo tardi». Una delle cause principali di incidenti è un'abitudine diffusa e pericolosa: l'utilizzo del cellulare alla giuda. «Quanti incidenti ed investimenti di ciclisti sono causa ad esempio della distrazione da cellulare? - si domanda il presidente del Asaps -. Come sempre serve anche una maggiore presenza di divise sulla strada, ogni giorno».

Massimo Sanvito per “Libero quotidiano” l'1 febbraio 2021. Il Codice della Strada applicato ai ciclisti è un po' come la professoressa che a inizio anno promette "3" sul registro a chiunque fiati durante la lezione. Un po' come il caffè d' asporto da bere a casa e non all' esterno del bar in tempo di Covid. Un po' come il portiere che non può trattenere la palla in mano per più di sei secondi. Regole scritte su carta intestata che però nel mondo reale nessuno (o quasi) rispetta. Vuoi perché è molto difficoltoso il controllo, vuoi perché spesso e volentieri si tende a chiudere un occhio, li si considerano peccati veniali.

E allora perché codificarli con tanto di sanzioni annesse?

La maggior parte di chi viaggia in sella, che sia il biciclettaro di città o quello della domenica a ricerca di sfide, vìola sistematicamente una sfilza di regole che forse in pochi conoscono ma che sono sacrosante. Per esempio, i ciclisti che in gruppo occupano l' intera carreggiata e costringono gli automobilisti a sorpassi rischiosi per non grippare il motore andando a venti all' ora dietro di loro, sono punibili con multe dai 25 ai 99 euro. Al massimo ci si può affiancare solo in coppia, nei centri abitati, mentre all' esterno di questi è consentita solo la fila indiana, tranne se c' è un bimbo minore di dieci anni. Alzi la mano, poi, chi non vede ogni giorno bici sfrecciare sui marciapiedi o aggirare il semaforo rosso attraversando sulle strisce pedonali che - lo dice la parola - sono per chi gira a piedi. Per la prima infrazione si va dai 41 ai 168 euro, per la seconda si parte dai 25 e si sale fino a 169 in base alle casistiche.

E ancora: le luci. Chi pedala la sera quando fa buio o la mattina quando ancora non si intravede il giorno è obbligato a rendersi visibile. Dopo il tramonto e fino a mezz' ora prima dell' alba. Ci mancherebbe altro vien da dire, peccato che però non sempre sia così. I ciclisti notturni devono indossare giubbotto o bretelle catarifrangenti all' esterno dei centri abitati e nelle gallerie, pena multe dai 24 ai 97 euro. Mentre chi circola in città o in paese deve montare su bici con luci anteriori e posteriori, catarifrangenti sui pedali e laterali, oltre al campanello.

Spreco di denaro. Le multe? Dai 25 ai 100 euro. E si sale con le cifre in caso di cuffie, auricolari o cellulari maneggiati senza tenere il manubrio: se si tengono entrambe le orecchie occupate il Codice della Strada prevede sanzioni da 160 a oltre 600 euro. Per scamparla bisogna tenerne una libera in modo da percepire eventuali pericoli, colpi di clacson, frenate, il segnale di un passaggio a livello. Ma non è finita qui. Perché i ciclisti che non usano le piste ciclabili quando potrebbero farlo rischiano sanzioni da 25 euro e visto che molte amministrazioni green progressiste stanno riducendo carreggiate e azzerando marciapiedi per creare spazi appositi per le bici sarebbe anche cosa buona e giusta usarle. Altrimenti cosa le hanno fatte a fare le ciclabili? Per bellezza? Per sprecare un po' di soldi pubblici?

Poi ci sono quelli che passano col rosso (quasi tutti in bici da corsa) per non spezzare il ritmo e togliere le scarpette incastrate ai pedali, manco fossero i Pantani o i Cipollini dei tempi d' oro, che rischiano dai 163 ai 652 euro, quelli che viaggiano senza mani o in due in equilibrio a dir poco precario (da 25 a 100 euro), quelli che trasportano oggetti che sporgono troppo stile trapezisti del circo Orfei (da 81 a 326 euro). Il mondo dei ciclisti che calpesta il Codice della Strada è molto variopinto. Ce n' è per tutti i gusti. Eppure, nonostante questa sfilza di regole, le multe sono poche. Pochissime. Basta pensare che a Milano, dove tra zone 30 che spuntano come funghi, ztl massicce e ciclabili in mezzo al traffico (mancano solo sulle tangenziali) i ciclisti sono un esercito di tutto rispetto, questi la passano quasi sempre liscia: ogni anno, infatti, sono circa 150/200 quelli puniti per infrazioni. Pugno leggermente più duro a Torino, dove si tocca quota 300. O a Firenze, dove si viaggia tra le 350 e le 400 multe annue. Di altre grandi città si sa poco o nulla, segno che il fenomeno delle violazioni su due ruote senza motore è ormai consolidato e quindi accettato come fosse normale.

Irraggiungibili. Ma perché non si multa? Il motivo principale è l' assenza della targa sulle biciclette, per cui o becchi il ciclista indisciplinato sul fatto (difficilissimo) oppure tanti saluti. Non c' è telecamera o autovelox che tenga. Gli occhi elettronici pizzicano e bastonano auto e moto ma sono ciechi dinnanzi alle malefatte delle biciclette, autentici fantasmi, invisibili, sfuggenti, ma sempre presenti. Altri numeri fanno però riflettere sulla pericolosità di comportamenti scorretti che si portano dietro grossi rischi.

i sinistri Secondo i dati dell' ultimo rapporto del Consiglio europeo della sicurezza dei trasporti, nel 2018 in Italia ogni quattro incidenti uno riguardava ciclisti o pedoni. Nello stesso anno sono morti 219 ciclisti, di cui la metà over 65. Cifre sottostimate secondo l' organo europeo, che però danno contezza di un problema che esiste. Sia chiaro: automobilisti e motociclisti spericolati ce ne sono e anche troppi, ma la disparità di sanzioni è evidente. Certo, applicare il Codice della Strada alla lettera per i ciclisti farebbe fioccare contestazioni su contestazioni che ingolferebbero uffici già intasati dalla burocrazia, forse ci vorrebbe una specifica sezione di polizia, ma è altrettanto vero che quando c' è in gioco la pelle delle persone non dovrebbero esistere deroghe non scritte. Tante regole, poche multe: un binomio che non ha ragione d' essere.