Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2021
L’AMMINISTRAZIONE
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’AMMINISTRAZIONE
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Burocrazia Ottusa.
Il Diritto alla Casa.
Le Opere Bloccate.
Il Ponte sullo stretto di Messina.
Viabilità: Manutenzione e Controlli.
Le Opere Malfatte.
La Strage del Mottarone.
Il MOSE: scandalo infinito.
Ciclisti. I Pirati della Strada.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Insicurezza.
La Strage di Ardea.
Armi libere e Sicurezza: discussione ideologica.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Volontariato e la Partigianeria: Silvia Romano e gli altri.
Lavoro e stipendi. Lavori senza laurea e strapagati.
La Povertà e la presa per il culo del reddito di cittadinanza.
Le Disuguaglianze.
Martiri del Lavoro.
La Pensione Anticipata.
Sostegno e Burocrazia ai “Non Autosufficienti”.
L’evoluzione della specie e sintomi inabilitanti.
Malasanità.
Sanità Parassita.
La cura maschilista.
L’Organismo.
La Cicatrice.
L’Ipocondria.
Il Placebo.
L’HIV.
La Tripanofobia (o Belonefobia), ovvero la paura degli aghi.
La siringa.
L’Emorragia Cerebrale.
Il Mercato della Cura.
Le cure dei vari tumori.
Il metodo Di Bella.
Il Linfoma di Hodgkin.
La Diverticolite. Cos’è la Stenosi Diverticolare per cui è stato operato Bergoglio?
La Miastenia.
La Tachicardia e l’Infarto.
La SMA di Tipo 1.
L'Endometriosi, la malattia invisibile.
Sindrome dell’intestino irritabile.
Il Menisco.
Il Singhiozzo.
L’Idrocuzione: Congestione Alimentare. Fare il bagno dopo mangiato si può.
Vi scappa spesso la Pipì?
La Prostata.
La Vulvodinia.
La Cistite interstiziale.
L’Afonia.
La Ludopatia.
La sindrome metabolica.
La Celiachia.
L’Obesità.
Il Fumo.
La Caduta dei capelli.
Borse e occhiaie.
La Blefarite.
L’Antigelo.
La Sindrome del Cuore Infranto.
La cura chiamata Amore.
Ridere fa bene.
La Parafilia.
L’Alzheimer e la Demenza senile.
La linea piatta del fine vita.
Imu e Tasi. Quando il Volontariato “va a farsi fottere”.
INDICE QUARTA PARTE
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
Introduzione.
I Coronavirus.
La Febbre.
Protocolli sbagliati.
L’Influenza.
Il Raffreddore.
La Sars-CoV-2 e le sue varianti.
Il contagio.
I Test. Tamponi & Company.
Quarantena ed Isolamento.
I Sintomi.
I Postumi.
La Reinfezione.
Gli Immuni.
Positivi per mesi?
Gli Untori.
Morti per o morti con?
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
Alle origini del Covid-19.
Epidemie e Profezie.
Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.
Gli errori dell'Oms.
Gli Errori dell’Unione Europea.
Il Recovery Plan.
Gli Errori del Governo.
Virologi e politici, i falsi profeti del 2020.
CTS: gli Esperti o presunti tali.
Il Commissario Arcuri…
Fabrizio Curcio, capo della Protezione Civile.
Al posto di Arcuri. Francesco Paolo Figliuolo. Commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure sanitarie di contenimento e contrasto dell'emergenza epidemiologica Covid-19.
Fabrizio Curcio, capo della Protezione Civile.
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
2020. Un anno di Pandemia.
Gli Effetti di un anno di Covid.
Il costo per gli emarginati: Carcerati, stranieri e rom.
La Sanità trascurata.
Eroi o Untori?
Io Denuncio.
Succede nel mondo.
Succede in Germania.
Succede in Olanda.
Succede in Francia.
Succede in Inghilterra.
Succede in Russia.
Succede in Cina.
Succede in India.
Succede negli Usa.
Succede in Brasile.
Succede in Cile.
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
Vaccini e Cure.
La Reazione al Vaccino.
INDICE OTTAVA PARTE
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Furbetti del Vaccino.
Il Vaccino ideologico.
Il Mercato dei Vaccini.
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
Coronavirus e le mascherine.
Il Virus e gli animali.
La “Infopandemia”. Disinformazione e Censura.
Le Fake News.
La manipolazione mediatica.
Un Virus Cinese.
Un Virus Statunitense.
Un Virus Padano.
La Caduta degli Dei.
Gli Sciacalli razzisti.
Succede in Lombardia.
Succede nell’Alto Adige.
Succede nel Veneto.
Succede nel Lazio.
Succede in Puglia.
Succede in Sicilia.
INDICE DECIMA PARTE
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Reclusione.
Gli Irresponsabili: gente del “Cazzo”.
Il Covid Pass: il Passaporto Sanitario.
INDICE UNDICESIMA PARTE
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il tempo della Fobocrazia. Uno Stato Fondato sulla Paura.
Covid e Dad.
La pandemia è un affare di mafia.
Gli Arricchiti del Covid-19.
L’AMMINISTRAZIONE
PRIMA PARTE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· La Burocrazia Ottusa.
«Intrappolata» dall’anagrafe. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 23 novembre 2021. Ha divorziato dal marito ma il divorzio non è stato registrato, così non può risposarsi, non può contrarre un mutuo cointestato con il nuovo compagno, non può percepire gli assegni familiari per i figli che vivono con lei. Il 15 novembre scorso, giornata epocale per tanti italiani che hanno finalmente potuto trovare on-line, scaricare e stampare 14 certificati anagrafici (gratuiti) sul sito del ministero dell’Interno non è stato affatto, per Emanuela Valente, una buona giornata. Anzi. Quella che molti lettori e lettrici ricorderanno come l’italiana che per prima ideò, costruì e mise on-line a disposizione di tutti la prima meritoria e sconvolgente banca dati con i nomi delle donne uccise negli ultimi anni «in quanto donna», ha trovato perfino lì, nell’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente, la conferma che ancora nel caso suo non era cambiato assolutamente nulla. Nonostante avesse lasciato l’ex marito da quasi undici anni, avesse ottenuto la separazione da otto e il divorzio (con l’affidamento dei tre figli) da tre e mezzo, dopo una lunga e complicata battaglia legale combattuta a cavallo tra Roma e Parigi risulta ancora così: «Emanuela Valente, coniugata Faro...». Proprio come accadde a centinaia di migliaia di donne, inchiodate per anni ai mariti a suo tempo sposati in matrimoni fallimentari, prima che passasse nel 1970 la legge sul divorzio Fortuna-Baslini. E il divorzio (consensuale!), sancito con sentenza del Tribunale ordinario di Roma 14527/2018, pubblicata e depositata in Cancelleria il 13 luglio 2018? Puff! Sparito. Avrebbe dovuto essere smistato subito, per legge, agli uffici anagrafici di Roma, dove Emanuela è nata. Macché: il plico non è mai arrivato. Men che meno registrato. Colpa del Tribunale? Colpa del Comune di Roma? Colpa del postino o di un piccione viaggiatore lavativo? Boh... Certo è che dopo aver trovato un nuovo compagno che le ha dato un altro bimbo ma che non può sposare, la donna divorziata in tribunale ma maritata all’anagrafe riceve ancora la tessera elettorale col cognome abbinato all’ex marito, non può percepire gli assegni familiari per i figli che vivono con lei, non può chiedere un mutuo cointestato eccetera eccetera... Una vergogna. Aggravata da tutti gli intoppi burocratici messi di traverso alla chiusura della pratica. Roberto Gualtieri ha promesso che con lui sindaco Roma vuole essere una città efficiente in cui si può far tutto «in 15 minuti»? Ecco una buona occasione per iniziare: faccia una telefonata in Tribunale, per favore, e chiuda il tormentone qui. È una storia piccola piccola? Certo, per questo riguarda tutti.
A chi fanno comodo leggi oscure e complicate. Risponde Luciano Fontana su Il Corriere della Sera il 29 novembre 2021. Caro direttore, mi chiedo quale colpa io abbia commesso per vivere in un Paese dove il Governo emana leggi (mi riferisco in questo momento ai vari bonus edilizi) che necessitano di decine di successivi chiarimenti dell’agenzia delle entrate per essere comprese e applicate e che infine vengono radicalmente modificate retroattivamente (decreto antifrodi del 12/11/21) con conseguenze devastanti. Capisco che la credibilità della classe politica italiana sia già nulla e pertanto l’ennesima buffonata non possa peggiorare il giudizio, ma si spera sempre in un miglioramento; purtroppo la luce in fondo al tunnel continua a restare un miraggio. Giulio de Carli
Caro signor de Carli, Il nostro Gian Antonio Stella ha raccontato in maniera mirabile la lingua opaca, le complicazioni e le trappole del «burocratese», il gergo incomprensibile con cui vengono redatti provvedimenti e leggi. È una scrittura che sembra essere fatta apposta per confondere il cittadino. C’è sempre un sovraccarico di chiarimenti e precisazioni che hanno come conseguenza l’errore, il girovagare da un ufficio all’altro o lo sconforto con la rinuncia da parte del beneficiario. Quando, per chiudere il cerchio, non si venga addirittura sanzionati per non aver fatto le cose bene secondo il controllore di turno. Perché accade tutto ciò? Possiamo immaginarne le ragioni e ognuna di loro non ci piace. Le leggi sono spesso un accumulo di spinte diverse da parte di chi le promuove e scrive; si cerca di accontentare tutti, si media fino al pasticcio. In secondo luogo la burocrazia italiana si percepisce come una casta depositaria di una lingua che solo lei riesce a interpretare, spesso con larghi margini di arbitrarietà. Da questa incertezza dell’interpretazione deriva il potere di tenere in pugno il cittadino e la possibilità, qualche volta, che il potere sconfini nella corruzione. Leggi chiare, provvedimenti semplici spazzerebbero via tutto questo. Ma al di là dei proclami sulle semplificazioni ancora non ci siamo. E una buona misura per spingere l’economia, rinnovare gli edifici, aiutare gli italiani, finisce per diventare un passaggio sotto le forche caudine.
Cicchitto: “La legge Severino è la peggiore concessione della politica al giustizialismo…” "La cosa giusta da fare sarebbe smantellare del tutto la legge. Solo un incosciente oggi può fare il sindaco, con questo apparato normativo." Giacomo Puletti su Il Dubbio il 26 novembre 2021. «La rispondo da un telefonino che mi dicono venga usato dai narcotrafficanti colombiani, vista l’impossibilità di applicarvi un trojan, tant’è che tempo fa ho incontrato Luca Palamara e gli ho detto che se fosse stato un tipo retrò come me e avesse usato un telefonino come questo forse avrebbe evitato una parte dei guai e magari sarebbe diventato presidente dell’Anm». Inizia così la nostra conversazione con Fabrizio Cicchitto, colonnello berlusconiano negli anni più duri del giustizialismo e ora presidente di Riformismo e Libertà.
È d’accordo con la proposta del Pd di modifica della legge Severino a tutela dei sindaci ed evitando la loro sospensione dopo una condanna in primo grado?
Con me si sfonda una porta aperta, perché sono radicalmente contrario alla legge Severino in quanto tale. A suo tempo in Forza Italia, durante il governo Monti, fui messo in minoranza dai giuristi professionisti di Berlusconi, perché ritenevo un vulnus in sé il fatto di venir meno ai tre gradi di giudizio, quale che sia il reato. Tra le varie cose che la politica, dagli anni ’90 ormai ridotta in condizioni pessime, ha concesso al giustizialismo in questo Paese questa è la peggiore. Anche se il colpo finale è arrivato con l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti.
I dem puntano a un bilanciamento fra trasparenza della Pa e garanzie per i primi cittadini. Il referendum di Lega e Radicali invece abolisce del tutto la Severino. Si troverà un punto d’incontro?
La proposta del Pd è il minimo che si può fare. La cosa giusta da fare sarebbe smantellare del tutto la legge. Solo un incosciente oggi può fare il sindaco, con questo apparato normativo. Con l’abuso d’ufficio chiunque può portare dei guai al sindaco. È un provvedimento fatto apposta per punire chi non ha fatto assolutamente nulla: insomma la rappresentazione di un proverbio romano che dice “come ti muovi ti fulmino”.
Come si è arrivati a un tale grado di esasperazione da parte dei sindaci, come espresso nell’ultima assemblea dell’Anci dal presidente Decaro?
Ci sono stati tanti casi di condannati poi scopertisi innocenti, anche con grande clamore mediatico. Siamo stati dominati dalle più varie forme di giustizialismo. Prima c’è stato quello maior del 92-94, poi da lì è arrivato quello applicato su Berlusconi, infine quello portato avanti dai Cinque Stelle. Arriviamo insomma da trent’anni di mentalità giustizialista che ora dobbiamo provare a ribaltare.
In che modo?
Credo profondamente nel nostro sistema, che prevede tre gradi di giudizio. Altrimenti arriviamo alla presunzione di colpevolezza che tanti acclamano. Chi dice che abolendo la Severino si rischia di far rimanere impuniti alcuni reati è a favore della presunzione di colpevolezza. Qualcuno, come Davigo, pensa addirittura che qualcuno con la fedina penale pulita sia solo un furbo che l’ha fatta franca. Nella logica intrinseca della Severino c’è la presunzione di colpevolezza e siccome io reputo che anche per i reati più gravi debba valere la presunzione di innocenza, credo che vada abolita.
A livello normativo, ritiene ci sia stato un momento in cui le cose per i sindaci siano peggiorate?
La fisiologia delle autonomie in questo paese dovrebbe essere rivolto a Comuni e Province, mentre la riforma del titolo V ha creato il mostro del presidente di Regione. I sindaci sono le entità più fragili di questo mondo. Il miglior sindaco dei Cinque Stelle, Chiara Appendino, è stata punita per una manifestazione legata a una partita di calcio sicuramente gestita malissimo ma sulla quale lei aveva responsabilità relative. È stata colpita e affondata e il suo è solo uno dei tanti casi.
I sindaci dovranno gestire gran parte dei fondi del Pnrr. In che modo l’attuale quadro normativo rischi di fermare la loro opera?
La gestione dei fondi implica dei livelli di discrezionalità e non ci vuole niente a definire una discrezionalità un reato. L’Italia rischia di essere strangolata da quello che si riteneva essere un grande valore, cioè l’esplosione di giustizialismo. Fino ad arrivare a un sistematico attacco contro qualsiasi potere decisionale. I fondi del Pnrr hanno invece bisogno di uomini e donne che prendano decisioni e lo facciano in modo consapevole.
Prima accennava al giustizialismo contro Berlusconi. Pensa che il Cavaliere possa arrivare al Quirinale?
In una condizione normale no, ma siccome siamo in una condizione del tutto anormale, nel senso che quasi tutte le forze politiche sono caratterizzate da andamenti stravaganti, è possibile anche una cosa di questo tipo.
Da Napoli a Palermo, i Comuni del Sud sono al collasso. E resteranno fuori dal Piano di ripresa. Niente soldi per scuole e strade. Personale ridotto al lumicino. E un terzo degli enti che non riesce a chiudere i bilanci. Così 14 milioni di persone vivono senza i servizi pubblici minimi garantiti nel resto del Paese. L’allarme dei sindaci: “Senza aiuti non potremo partecipare ai bandi con i fondi Ue in arrivo”. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 20 luglio 2021. Palermo, quinto Comune d’Italia con i suoi 673 mila abitanti. Da un anno quasi mille bare sono insepolte perché gli spazi nei cimiteri pubblici sono finiti. Ci sarebbero dei nuovi terreni già opzionati, ma l’ente non ha in cassa nemmeno 200 mila euro, i fondi necessari per acquistarli: inoltre non può chiudere il bilancio di previsione 2021 perché mancano all’appello 80 milioni di euro. Reggio Calabria, 182 mila abitanti, un Comune che sta uscendo a fatica dal dissesto e ha la spesa corrente bloccata: ha solo tre asili nido, realizzati con finanziamenti straordinari, ma non ha certezza sui fondi per pagare gli stipendi agli insegnanti e di sicuro non ne può aprire di nuovi. Caserta, quasi 80 mila abitanti, su 780 dipendenti previsti in pianta organica ne ha in servizio poco più di 200, vigili urbani compresi: mancano tecnici per fare i progetti per nuove iniziative ed esperti per partecipare ai bandi Ue. Casal di Principe, piccolo Comune di 20 mila abitanti, simbolo della filiera di paesi dell’entroterra del Sud che sono la maggioranza degli enti locali in questo pezzo d’Italia: il sindaco chiude sì il bilancio, ma non ha i soldi per garantire l’illuminazione pubblica in tutti i quartieri né per aprire una scuola. I Comuni del Sud stanno affondando. Erano già in crisi prima del Covid-19, la pandemia ha dato il colpo di grazia. Il 30 per cento degli enti locali da Napoli in giù non riesce a chiudere i bilanci per disavanzi di amministrazione. Se a questi si aggiungono i Comuni in dissesto e pre dissesto significa che nel Meridione una popolazione di 14 milioni di abitanti non ha già adesso servizi minimi garantiti e rischia di restare fuori dalla ripresa economica: perché in queste condizioni il Piano nazionale di ripresa e resilienza, che per gli enti locali dovrebbe stanziare circa 30 miliardi di euro, passerà sopra le teste di un terzo degli abitanti del Mezzogiorno. Un esempio plastico di questo futuro imminente e beffardo, considerando che Bruxelles ha dato tanti soldi all’Italia per colmare i divari territoriali, arriva dal bando per realizzare nuovi asili nido pubblicato dal Miur con 700 milioni di euro già opzionati sul Pnrr. I criteri prevedono un premio per chi garantisce un cofinanziamento degli interventi. Risultato? Caserta non arriverà nemmeno a essere inserita in graduatoria, Reggio Emilia potrà realizzare altri asili in aggiunta ai sessanta che ha già operativi.
I NUMERI DEL DISASTRO. La crisi economica e finanziaria dei Comuni, iniziata con il governo Monti e l’avvio dell’austerity, oggi al Sud è arrivata a un punto di non ritorno. I numeri che l’Anci, l’associazione nazionale degli enti locali, ha consegnato al Parlamento nelle recenti audizioni in Camera e Senato lasciano pochi spazi ai dubbi. Su 396 Comuni in dissesto e pre dissesto, ben 304 sono al Sud e nelle Isole. Nel 2019, quindi già prima della pandemia, 1.119 Comuni registravano disavanzi, di questi 803 nel Meridione. Cifre che nel 2021 sono chiaramente aumentate. Numeri impietosi anche sul fronte della riscossione: in Sicilia il 50 per cento non riesce a riscuotere Tari, Imu e multe, in Calabria il 40 per cento, in Campania il 30 per cento. Anche qui, numeri in salita nell’anno della pandemia, visto che l’economia si è fermata. Ma c’è di più: la Corte Costituzionale ha appena bocciato la norma che consentiva agli enti locali di ripianare il debito per le mancate entrate in 30 anni, mettendo nero su bianco che non possono essere le nuove generazioni a farsi carico dei buchi del passato. In questo momento moltissimi Comuni non possono tecnicamente chiudere il bilancio di previsione del 2021 (e siamo a luglio).
ASILI, STRADE, ILLUMINAZIONE. Palermo non solo non ha in cassa 200 mila euro per risolvere un problema come quello delle bare accatastate, ma non riesce, ad esempio, a garantire la manutenzione delle strade: via Volturno, che collega il Teatro Massimo al Tribunale, pieno centro storico quindi, non viene asfaltata da oltre quindici anni. Impensabile così aprire nuovi asili nido o aumentare il tempo pieno nelle scuole. In Sicilia la mensa scolastica è garantita solo nell’8 per cento degli istituti, in Toscana si arriva al 62 per cento. Palermo inoltre non ha dirigenti tecnici, l’ultimo è andato in pensione poche settimane fa. In queste condizioni, come potrà partecipare ai bandi del Piano di ripresa nazionale? Lo scenario non cambia se si sale di qualche chilometro, a Reggio Calabria. Il sindaco Giuseppe Falcomatà ha ereditato un Comune in dissesto e ha evitato il collasso grazie a un aiuto straordinario da 150 milioni per ripianare il debito: «Il Covid ha accentuato le difficoltà dei Comuni del Mezzogiorno, palesando quella che io definisco una discriminazione di cittadinanza. I problemi iniziano già nel 2010, con il criterio della spesa storica inserito tra quelli che stabiliscono quanto lo Stato deve dare ai Comuni: nel 2010 Reggio Emilia aveva 60 asili, Reggio Calabria zero e lo Stato ha continuato a redistribuire le risorse mantenendo questo divario. Anzi lo ha allargato: nel 2010 i trasferimenti statali per il mio Comune erano pari a 80 milioni, oggi sono appena 24 milioni. Nonostante questo abbiamo aperto tre asili nido grazie ai fondi Pac, che dovrebbero essere risorse aggiuntive per colmare i divari e invece diventano somme sostitutive. Ma già penso a come dover pagare gli insegnanti nei prossimi anni». Il sindaco di Catanzaro, Sergio Abramo, riesce a chiudere il bilancio. Ma solo da un punto di vista tecnico, perché poi non ha un euro per fare investimenti: «Il mio Comune ha 15 milioni in meno all’anno come trasferimenti rispetto a una realtà con gli stessi abitanti della Lombardia. Ecco perché i grandi enti della mia regione sono in dissesto: Cosenza, Crotone, Vibo Valentia, Reggio Calabria. Io non ho debiti ma non ho soldi per fare nulla. Non ho nemmeno 100 mila euro per migliorare la manutenzione del verde». Un quadro che non cambia nei piccoli Comuni. Il sindaco di Casal di Principe, Renato Natale, allarga le braccia e al Pnrr nemmeno pensa: «Abbiamo enormi problemi da affrontare senza mezzi. A esempio io ho in gestione oltre 50 beni confiscati all’oppressione mafiosa. Ma questi beni hanno bisogno di interventi per accogliere servizi, come scuole, asili nido, uffici comunali e impianti sportivi. E io non ho un euro. Poi c’è il tema dell’abusivismo edilizio alimentato dal potere mafioso. Io devo abbattere, da solo, 200 beni. E per un abbattimento occorrono 200 mila euro. Per far crollare quattro case ho già dovuto accendere un mutuo con Cassa depositi e prestiti e sono stato costretto a ridurre la manutenzione stradale e a tagliare i fondi per la pulizia delle microdiscariche. Inoltre non ho nessun asilo nido e faremo fare i doppi turni nelle scuole medie perché non abbiamo le aule. Il Pnrr? Siamo tagliati fuori in partenza».
PERDERE IL TRENO DEL PNRR. Il sindaco di Casal di Principe tocca un tasto dolente, perché il vero timore dei sindaci, soprattutto del Meridione, è quello di perdere anche il treno del Piano di ripresa e resilienza. In questo senso campanelli di allarme sono già suonati. A esempio il Miur ha messo a gara 700 milioni per costruire nuovi asili nido, prenotando i primi fondi del Piano di ripresa. Tra i criteri che premiano le domande c’è quello del cofinanziamento, che dà 10 punti, mentre la mancanza di asili rispetto alla media del Paese dà solo 3 punti. È chiaro che così Milano, Bologna, Firenze avranno punteggi maggiori, mentre Napoli, Bari o Palermo resteranno ancora indietro. Non a caso il sindaco di Caserta, Carlo Marino, presidente dall’Anci Campania, nemmeno pensa che il suo Comune arriverà a essere ammesso in graduatoria: «Il problema comunque non è solo economico. Noi avremo difficoltà a salire sul treno del Pnrr anche perché non riusciremo a fare i progetti. Faccio l’esempio del mio Comune. Nel 2016 avevo 570 dipendenti compresa la polizia municipale. Oggi con quota 100 e pensionamenti vari sono a 215 dipendenti e non ho ingegneri informatici o esperti in digitalizzazione: come faccio i progetti con il Pnrr che prevedono fondi proprio per la digitalizzazione o per il risparmio energetico?». Il tema delle difficoltà finanziarie comunque è ormai nazionale. Dice Alessandro Canelli, sindaco di Novara e responsabile Finanze Anci: «La situazione difficile dei Comuni è figlia di una stagione caratterizzata da un atteggiamento dello Stato di forte restrizione dei finanziamenti. Sono diminuite le spese correnti, è sceso il personale, sono calate le spese per investimenti per ben il 25 per cento. In questo scenario sono emerse le difficoltà drammatiche di quegli enti che già non stavano bene. E non è più una questione di mala gestio, è un problema sociale». Il direttore della Svimez Luca Bianchi lancia quindi l’allarme sul rischio beffa del Pnrr proprio per il Sud: «La minore capacità progettuale delle amministrazioni meridionali le espone a un elevato rischio, con il paradosso che le realtà a maggior fabbisogno potrebbero beneficiare di risorse insufficienti. Se si vuole scongiurare questo rischio, va rafforzato il supporto alla progettualità di questi enti. Il tema della capacità di garantire l’effettiva offerta dei servizi rimanda all’esigenza più ampia di definire un percorso sostenibile di perequazione che consenta di superare la pratica della “spesa storica” e di ristabilire uguali diritti di cittadinanza in tutto il Paese e non solo in una sua parte».
Da huffingtonpost.it l'8 giugno 2021. Un bimbo della scuola dell’infanzia si schiaccia due dita in una porta, mentre è all’asilo, a Crema. Nella di irreversibile, per fortuna, il piccolo deve essere curato per alcuni mesi, ma l’incidente non avrà ripercussioni gravi. Ma per questa vicenda parte un’inchiesta. E la sindaca si trova a essere indagata. La questione ha riaperto il dibattito sulla legge sulla responsabilità dei sindaci. Tra i primi a mostrare solidarietà a Stefania Bonaldi il primo cittadino di Bergamo: “Avviso di garanzia a Stefania Bonaldi, sindaca di Crema, perché un bambino dell’asilo si è chiuso due dita nel cardine di una porta tagliafuoco, senza conseguenze permanenti. L’accusa: avrebbe dovuto impedire che la porta si chiudesse automaticamente. Ma si può andare avanti così?”, scrive su Twitter Giorgio Gori.
Caiazza: «Altro che sindaci, l’abuso d’ufficio è il passepartout delle procure». Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 14 Novembre 2021 e su Il Dubbio il 12 novembre 2021. Il leader dei penalisti «loda» l'iniziativa dell'Anci, ma invita anche a una riflessione più ampia: «Il tema è ancora una volta quello di una politica che si è stolidamente consegnata al controllo di legalità preventivo degli uffici di Procura».
«La lodevole iniziativa dell’Associazione Nazionale dei Comuni d’Italia per un drastico intervento del legislatore volto ad eliminare la paralizzante ipoteca del reato di abuso di ufficio sulla quotidiana attività dei sindaci, sembra però alimentare un singolare equivoco, non solo mediatico». È quanto scrive il presidente dell’Unione Camere penali italiane (Ucpi) Gian Domenico Caiazza, dopo l’appello dei sindaci al premier per cambiare il “reato-trappola” che paralizza gli amministratori. Secondo il leader dei penalisti, infatti, «a sentire o leggere molti degli interventi sul tema», tra cui quello che ieri il Presidente della Camera Roberto Fico ha rivolto alla platea di Parma – «sembra quasi che le gravi distorsioni prodotte da questa magmatica fattispecie di reato siano una peculiare esclusiva dei primi cittadini nei comuni italiani». «Il tema è ovviamente molto più vasto – scrive Caiazza – sia perché ovviamente non può non riguardare tutti gli amministratori pubblici, sia perché la riflessione, se vuole essere seria e credibile, dovrebbe estendersi anche oltre l’articolo 323 del codice penale. Sicché dire, come fa il Presidente grillino della Camera, che “oggi ha una logica rivedere” il reato di abuso in atti di ufficio perché “i sindaci sono una grande comunità, hanno grandi responsabilità e bisogna ascoltarli” a me pare solo un modo per eludere la questione vera che occorre affrontare, e che è ben più complessa». Nel merito, spiega Caiazza, «il reato di abuso in atti di ufficio è da sempre la norma che il legislatore ha consegnato, insieme ad altre, agli Uffici di Procura per esercitare un indebito controllo general preventivo sull’attività della pubblica amministrazione e dunque sulla politica. Norme che per la loro indeterminata genericità si risolvono in quella che è stata efficacemente definita (Luciano Violante) come una sorta di “mandato a cercare” eventuali irregolarità o illiceità nella amministrazione pubblica, a prescindere da ben definite e chiare notizie di reato. È a tutti noto che la percentuale di condanne definitive per abuso in atti di ufficio è infinitesimale se raffrontata al numero di indagini che in nome di esso sono state aperte dagli Uffici di Procura di tutta Italia; indagini che hanno di per sé prodotto i propri effetti sostanzialmente sanzionatori già in quella fase, gravando di una pesante ipoteca lo svolgimento del mandato dell’amministratore indagato, quando non ponendolo perciò solo nella necessità di rimetterlo». Insomma, l’abuso d’ufficio è una sorta di grimaldello che le procure utilizzano per cercare dell’altro. Anche alla luce del fatto, prosegue Caiazza, che «l’abuso, data la sua definizione magmatica e residuale (“salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, così esordisce la norma) permette di tenere in vita e legittimare comunque indagini sommariamente avviate per più gravi ipotesi di reato (corruzione, concussione, peculato) che con il tempo si dimostrino infondate: alla fine, male che vada, un abuso in atti di ufficio non potrà negarsi a nessuno». E questo, aggiunge, «è a ben vedere la distorsione più grave determinata dal mantenere in vita quella fattispecie di reato, e che riguarda – in forma ormai perfino più grave – anche una seconda fattispecie di reato, lo sciagurato “traffico di influenze”, introdotto da pochi anni a furor di populismo». «Nessun giurista serio è ad oggi in grado di spiegare con chiarezza quale possa essere in concreto e con certezza questa misteriosa condotta, un miscuglio indefinito tra una corruzione solo immaginata ed un millantato credito però mica tanto millantato. Un mostriciattolo giuridico senza capo né coda che infatti non produce praticamente mai condanne, ma alimenta invece, come e più dell’abuso in atti di ufficio, un indeterminato numero di indagini. E se per questo reatuncolo non sono consentite – deo gratias – intercettazioni telefoniche, non preoccupatevi: se i protagonisti sono più di tre (e tre cristiani li trovi sempre), sarà sufficiente contestare in fase di indagine una associazione per delinquere finalizzata al traffico di influenze per consentirsele», aggiunge il capo dei penalisti. «Dunque, altro che sindaci – conclude Caiazza -. Qui il tema è ancora una volta quello di una politica che si è stolidamente consegnata al controllo di legalità preventivo degli uffici di Procura, in nome di un diritto penale sempre più drammaticamente lontano dal suo ancoraggio ai principi costituzionali e liberali di tipicità e tassatività delle norme incriminatrici. Questo il Presidente Fico non lo sa, ma occorre invece che tutti lo comprendano, se vogliamo affrontare con serietà questa ennesima emergenza democratica»
Il Sì al referendum giustizia. “Via la stagione della legge Severino, l’abuso d’ufficio serve solo a paralizzare gli enti pubblici”, parla Felice Laudadio. Viviana Lanza su Il Riformista l'1 Settembre 2021. “Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190)?” Il quesito numero 6 del referendum sulla giustizia promosso dai Radicali interroga i cittadini sull’abolizione del decreto Severino, cioè di quella norma voluta nel 2012 dall’allora guardasigilli Paola Severino con l’illusione di contrastare in maniera decisa il fenomeno della corruzione. Illusione perché nei fatti, almeno stando alle statistiche, non si è avuto l’impatto che ci si prefiggeva di avere. La legge Severino prevede, in caso di condanna, incandidabilità, ineleggibilità e decadenza automatica per parlamentari, rappresentanti di governo, consiglieri regionali, sindaci e amministratori locali. Ha valore retroattivo e prevede, anche a nomina avvenuta regolarmente, la sospensione di una carica comunale, regionale e parlamentare se la condanna avviene dopo la nomina della persona in questione. Per gli amministratori di un ente territoriale è sufficiente la condanna in primo grado non definitiva perché si applichi la sospensione che può durare fino a diciotto mesi. Insomma, una pesante ingerenza nell’amministrazione della cosa pubblica che nei fatti non si è rivelata l’arma vincente contro la corruzione. Anzi. Nella stragrande maggioranza dei casi la legge è stata applicata contro sindaci e amministratori locali sospesi o costretti alle dimissioni per processi dai quali sono poi usciti assolti. Con il Sì al quesito referendario, dunque, si vota l’abrogazione dell’automatismo contenuto nel decreto Severino. Significherebbe restituire discrezionalità ai giudici così da decidere, di volta in volta, in caso di condanna, se sia necessario o meno applicare anche l’interdizione dai pubblici uffici. «Non sarà un liberi tutti», chiarisce Felice Laudadio, avvocato e docente universitario che con Il Riformista accetta di svolgere una riflessione a sostegno delle ragioni alla base della consultazione popolare promossa dai Radicali. «Il referendum – spiega Laudadio in premessa – ha un contenuto abrogativo ma anche propositivo». E questa premessa vale tanto più per il quesito sull’abrogazione del decreto Severino. «Su questa disposizione una riflessione va fatta perché è chiaro che i reati, con le garanzie del giusto processo, vanno sanzionati ma è necessario che venga espiata una pena collegata all’accertamento della responsabilità con la misura restrittiva prevista dal codice penale», osserva. Se le limitazioni dei diritti politici collegate alla sentenza non definitiva per reati di 416 bis o comunque legati alla criminalità organizzata possono avere un loro fondamento, anche in proporzionalità, rispetto all’obiettivo della lotta alla mafia, nel caso dei reati contro la pubblica amministrazione una riflessione come quella proposta dal quesito referendario è più che mai necessaria. «Non v’è dubbio che la fattispecie corruttiva sia un disvalore nel sistema delle relazioni sociali e umane – afferma il professor Laudadio- ma che determini la perdita del diritto di elettorato attivo e passivo in aggiunta alla sanzione penale collegata alla commissione del reato deve essere oggetto di una riflessione, da parte del legislatore, ispirata ai criterio generale di proporzionalità della limitazione rispetto alla gravità della condotta». Il tema è delicato e spinoso. È di quelli per cui è facile gridare all’untore e al corruttore. «Da trent’anni in questo Paese abbiamo le stesse litanie», afferma Laudadio. «Adesso invece è necessario che il popolo rifletta anche sulla razionalità e sulla proporzionalità di questa misura – aggiunge – spingendo i titolari del potere legislativo a una rilettura ispirata a criteri appunto di razionalità e proporzionalità della legge Severino che, a mio parere, va riscritta rispetto all’attuale contingenza». No agli automatismi di limitazioni e pene accessorie, quindi. Sì a valutazioni caso per caso. «I reati di pubblica amministrazione, la legge Severino li equipara tutti. Una misura data nell’empito del momento», osserva il professor Laudadio sottolineando come i tempi adesso siano cambiati e maturi, anche alla luce dell’esperienza di questi anni, per una riflessione come quella proposta dal referendum. «L’incandidabilità non può essere fissata ex lege ma, come un diritto fondamentale, va ancorata al giusto equilibrato processo». Impossibile, poi, non considerare la complessità e l’inutilità, nella sfera dei reati contro la pubblica amministrazione, del reato di abuso d’ufficio. Secondo dati raccolti dall’Anci, l’associazione nazionale dei Comuni italiani, dei 100mila fascicoli aperti negli ultimi dieci anni il 60% si è concluso con archiviazioni e proscioglimenti chiesti dal pubblico ministero, il 20% si è estinto in sede di udienza preliminare, il 18% è arrivato a dibattimento e solo il 2% dei procedimenti si è concluso con una sentenza definitiva di condanna. «La previsione dell’abuso in atti di ufficio, anche nella riforma che stanno tentando, è di difficilissima applicazione perché bisogna provare il dolo nella violazione di legge, il dolo nell’inflizione dell’ingiusto danno o nell’erogazione dell’ingiusto vantaggio – spiega il professor Laudadio – Quanto alla violazione di leggi e regolamenti a cui fa riferimento, bisogna considerare che in Italia abbiamo qualcosa come centinaia di leggi e regolamenti». «L’abuso di ufficio – osserva – va abrogato. Crea una impasse nell’amministrazione perché terrorizza i dirigenti, i quali non firmano perché temono l’accusa di abuso in atti di ufficio e tutto quello che ne deriva in conseguenza anche della famosa legge Severino». «Non significa un liberi tutti – precisa – ma significa infliggere sanzioni per le condotte di maggiore disvalore sociale (la corruzione, la concussione, il peculato, il falso). L’abuso in atti d’ufficio è oggettivamente un “reato ombra” che crea solo lotte nell’amministrazione e inutili appesantimenti. E come tutti i reati generici, che non hanno una definizione tassativa delle condotte, consente un accesso su condotte che potrebbero essere sanzionabili da parte del giudice amministrativo o da parte del giudice della responsabilità erariale. Il fatto penale – conclude Laudadio – è un discorso che non sta in piedi anche perché i risultati sono evidenti e in un certo numero di inchieste la percentuale è infinitesimale. Valutando costi e benefici, i primi superano ampiamente i secondi».
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Quegli “errori” delle toghe umiliano la democrazia. Dal caso dell’ex consigliere della regione Valle d’Aosta, Marco Sorbara, a quello del senatore Antonio Caridi: quando un politico viene arrestato ingiustamente, noi tutti siamo meno liberi. Davide Varì su Il Dubbio il 12 agosto 2021. Sì, lo ammettiamo, stavolta era sfuggito anche noi. Ma del resto non passa settimana senza che vi sia un’assoluzione, un caso di malagiustizia che, spesso, colpisce parlamentari o semplici amministratori locali. Qualche giorno fa è toccato all’ex consigliere della regione Valle d’Aosta, Marco Sorbara. E diciamo ex perché Sorbara fu rimosso dal suo incarico politico e rinchiuso in galera per 214 lunghissimi giorni, 45 dei quali in isolamento. Senza contare i restanti 600 e rotti passati in custodia cautelare. Ma il 20 luglio scorso la Corte d’ Appello di Torino lo ha assolto perché il fatto non sussiste: “Ops, ci siamo sbagliati caro signor Sorbara, lei ora è di nuovo un uomo libero”. Ma non è così, il signor Sorbara non sarà mai più un uomo libero: troppo profonde e troppo dolorose le ferite lasciate dalla feroce ottusità di questa giustizia. Solo tre settimane fa era accaduto al senatore Antonio Caridi, ricordate? Secondo i magistrati era l’uomo di collegamento tra le cosche e la politica – il famigerato terzo livello politicomafioso, il padre di tutti i teoremi giudiziari – ma in realtà il senatore di FI era del tutto estraneo a quei fatti. Ora Caridi è stato scarcerato, certo, ma neanche lui è un uomo libero: la sua vita è stata schiacciata e la sua carriera è compromessa per sempre. Ma c’è di peggio: quando un politico viene arrestato ingiustamente, noi tutti siamo meno liberi perché viene intaccato il sistema della rappresentanza politica, viene mortificata e annientata la volontà degli elettori. Ma è la giustizia italiana, bellezza: la responsabilità civile è ancora una chimera e l’immunità parlamentare è stata sacrificata sull’altare del populismo penale.
M5S ora è garantista con i sindaci. Grazie Raggi e Appendino!. Il partito che un tempo chiedeva la galera preventiva per chiunque, ora fa proposte concrete per guarire i sindaci dalla “sindrome della firma”. Avranno influito le inchieste a carico di Virginia Raggi e Chiara Appendino? Rocco Vazzana su Il Dubbio il 25 ottobre 2021. Chi l’ha detto che onestà e senso della realtà non possano andare di pari passo? Sembra questo il quesito che da un po’ di tempo accompagna l’agire politico del Movimento 5 Stelle. Anche in materia di giustizia. Così, il partito che un tempo chiedeva la galera preventiva per chiunque, sulla base dell’antico adagio casaleggiano «al minimo dubbio, nessun dubbio», oggi si ferma a riflettere. E a mettere in atto una profonda autocritica sul passato forcaiolo. Prima i timidi ripensamenti su Bibbiano, poi le scuse pubbliche a Uggetti, ora proposte concrete per guarire i sindaci dalla “sindrome della firma”, quella che ti porta a contare fino a mille prima di sottoscrivere un atto qualunque per evitare di finire in prigione o sotto inchiesta. E se già un anno fa il presidente del Consiglio Giuseppe Conte era riuscito a imporre ad Alfonso Bonafede una norma che circoscrivesse l’applicazione dell’abuso d’ufficio a “specifiche regole di condotta”, adesso è il senatore grillino Vincenzo Santangelo a proporre un ddl in commissione Affari costituzionali per chiedere la semplice aggiunta di un comma all’articolo 54 del Testo unico degli enti locali, che specifichi: «Il sindaco, quale ufficiale del Governo, nell’esercizio delle funzioni, risponde esclusivamente per dolo o colpa grave per violazione dei doveri d’ufficio». Una rivoluzione nell’immaginario pentastellato su cui tanto avranno influito le inchieste a carico di Virginia Raggi e Chiara Appendino. Meglio tardi che mai.
Da Vendola alla sindaca di Crema, la scia dei politici fulminati dall’abuso d’ufficio. Nel 2019 Di Maio liquidò con un «basta stronzate» la proposta leghista di limitare il reato. A marzo un sindaco grillino della Sardegna è stato prosciolto grazie al decreto del Conte 2. Errico Novi su Il Dubbio il 26 ottobre 2021. Siamo a ridosso delle Europee 2019. Matteo Salvini propone di limitare l’abuso d’ufficio. L’alleato Luigi Di Maio gli replica con un post facebook terribile: «È un reato in cui cade spesso chi amministra, è vero, ma se un sindaco agisce onestamente non ha nulla da temere. Più lavoro meno stronzate». Arriviamo al 20 ottobre 2021. Al Senato, nella congiunta Affari costituzionali-Giustizia, Andrea Ostellari annuncia l’incardinamento di una proposta che quasi abolirebbe la fattispecie incubo dei sindaci. Al testo leghista sono abbinati uno del Pd, firmato da Andrea Parrini, e un altro, udite udite, del Movimento 5 Stelle, ad opera del parlamentare siciliano Vincenzo Santangelo. Cosa è successo, tra lo “stop bullshit” di Luigi Di Maio e la svolta di Palazzo Madama? Che tante altre piccole gocce hanno fatto traboccare un vaso già al limite. L’abuso d’ufficio continua a spaventare gli amministratori locali, i sindaci innanzitutto, nonostante la sforbiciata inflitta alla norma dal decreto Semplificazioni del 2020, quando a Palazzo Chigi c’era ancora Giuseppe Conte. Nel frattempo, tra le tante assoluzioni tardive maturate anche grazie alla modifica, una ha riguardato per esempio Mario Puddu, sindaco cinquestelle di un comune sardo, Assemini. Era accusato per aver conferito nel 2015 un incarico dirigenziale. La Procura di Cagliari si muove innescata da tre consigliere comunali fuoriuscite dal Movimento, e inevitabilmente agguerritissime. Puddu, come altri, esce indenne dal travaglio processuale a troppi anni di distanza dal fatto, e solo in Corte d’appello: la sentenza liberatoria arriva lo scorso 25 marzo. Una vicenda che ha segnato in modo pesante la politica pentastellata dell’Isola: il sindaco di Assemini era candidato governatore in pectore del Movimento. L’indagine fulminò persino la benedizione di Beppe Grillo. La storia dell’abuso d’ufficio e delle ferite lasciate sulla politica è lunga. Come i tentativi di modifica che la norma ha conosciuto dopo il 1930, quando fu prevista per la prima volta nel Codice Rocco. Si provò a cambiarla nel 1990, nel 1997, poi nel 2012, con inasprimenti, all’interno della legge Severino. Fino all’estate dell’anno scorso e del Conte 2. Che però non ha scongiurato vicende incredibili, come l’indagine sulla sindaca di Crema Stefania Bonaldi, accusata nel giugno scorso di abuso d’ufficio perché tre mesi prima un bambino si era chiuso due dita in una porta tagliafuoco dell’asilo comunale. Ecco, il caso Bonaldi è forse un primo innesco della “rivolta” che ora sembra animare Palazzo Madama. Pochi giorni dopo la notizia diffusa dalla prima cittadina lombarda, un migliaio di sindaci manifestarono davanti a Palazzo Chigi per chiedere di intervenire ancora sul reato-incubo. A venerdì scorso risale l’appello di Enzo Bianco, presidente del Consiglio nazionale Anci, che chiede di liberare gli amministratori locali dalla morsa delle Procure. Forse il colpo di reni si spiega anche con il mutato rapporto fra politica e magistratura, che trent’anni dopo Mani pulite è destinato a incidere anche sulla imminente riforma del Csm. A breve conosceremo la decisione della Consulta relativa a una nuova questione di legittimità sollevata da alcuni Tribunali sulla sospensione prevista per i politici locali in virtù di condanne non definitive: mercoledì scorso si è riunita la Camera di consiglio dei giudici costituzionali, in perfetta coincidenza con la seduta al Senato che ha avviato l’iter della nuova legge. La paura della firma è trasversale da tutti i punti di vista. Le condanne per abuso d’ufficio hanno colpito protagonisti assoluti della scena politica e amministratori di piccoli centri. Nel febbraio 2016 il presidente della Campania Enzo De Luca ottenne in Corte d’appello l’assoluzione dalle accuse di abuso d’ufficio nel processo per la realizzazione di un termovalorizzatore a Salerno. La Procura generale aveva chiesto 11 anni di carcere. Altri governatori sono usciti più o meno faticosamente indenni da processi simili: il pugliese Nichi Vendola se la cavò con un proscioglimento del gip in abbreviato, ottobre 2012, ma l’ex presidente del Molise Michele Iorio venne assolto nel 2018 solo in Cassazione. Si potrebbero cogliere tanti altri esempi, fra le migliaia di inchieste per abuso d’ufficio che ogni anno finiscono al macero tra proscioglimenti, archiviazioni e prescrizioni: secondo dati Istat del 2018, la montagna di oltre 7.000 indagini partorì solo quell’anno il topolino di sole 57 condanne. In un altro piccolo comune, stavolta siciliano, Rosolini, il 12 ottobre sorso la ex presidente dell’Assemblea cittadina Maria Concetta Iemmolo è stata assolta dalle accuse nate da una presunta forzatura su un ordine del giorno del 2013. Otto anni dopo. Magari non avrebbe avuto la carriera di De Luca o di Vendola. Ma ha dovuto comunque penare per veder riconosciuta la propria innocenza. E nemmeno per la sanatoria nel frattempo assicurata dal Dl Semplificazioni. “Il fatto non sussiste”, ha sancito il Tribunale di Siracusa. Si può fare l’amministratore pubblico con una prospettiva del genere?
Accusati, lapidati e poi assolti: l’elenco dei politici rovinati dalla gogna. Centinaia sono i politici costretti a deporre le “armi” della partecipazione diretta per fare i conti con una giustizia a volte lenta e ingiusta. Monica Musso su Il Dubbio il 12 agosto 2021. Poltrone che scottano e vite distrutte. Non esiste una sola regione in Italia che non abbia avuto, almeno una volta, un presidente indagato. Se ne contano oltre 60, negli anni, e a volte a qualcuno è toccato anche varcare le porte del carcere. E centinaia sono i politici, di ogni ordine e grado, costretti a deporre le “armi” della partecipazione diretta per fare i conti con una giustizia a volte lenta e ingiusta.
Il caso Caridi
L’ultimo caso in ordine di tempo è quello dell’ex senatore di Forza Italia Antonio Caridi, assolto dopo cinque anni perché il fatto non sussiste. L’ex politico – perché di politica non ne vuole più sapere nulla – era imputato nel processo “Gotha” assieme ad altre 29 persone. Un processo che si è concluso con 15 condanne e 15 assoluzioni (11 delle quali richieste dall’accusa) e che ha registrato anche la condanna a 25 anni dell’ex parlamentare del Psdi Paolo Romeo, considerato alla testa della cupola di invisibili che avrebbe governato la città per decenni. Per l’accusa Caridi avrebbe «agevolato» la ‘ ndrangheta «mediante l’uso deviato del proprio ruolo pubblico», sfruttando tutte le cariche rivestite, dal Consiglio comunale al Senato. Da qui la richiesta d’arresto, che arrivò al Senato a luglio 2016 come un fulmine a ciel sereno. La giunta per le immunità, il 3 agosto, diede il via libera, dopo due giorni di discussione. Il giorno successivo, in un’aula straordinariamente piena, 154 senatori dissero sì al suo arresto, contro 110 contrari e 12 astenuti. Caridi lasciò Palazzo Madama in lacrime, consegnandosi a Rebibbia e attendendo un anno e mezzo prima di tornare a casa. Un anno e mezzo vissuto in celle da incubo, in attesa di conoscere la sua sorte. Per i giudici che lo hanno scarcerato arrestarlo fu un errore. Avrebbe potuto attendere il processo da uomo libero, ma così non è stato. E ciò nonostante le accuse a suo carico, per il tribunale di Reggio Calabria, fossero infondate.
Per Antonio Bassolino mai una condanna
I casi eclatanti non mancano, come quello dell’ex governatore della Campania, Antonio Bassolino, costretto a 27 anni di processi, con nove assoluzioni e nemmeno una condanna. Isolato dalla politica, emarginato dal proprio partito, quasi come fosse radioattivo. Le prime indagini a suo carico risalgono a quando era sindaco, ovvero al 1993. Almeno cinque o sei inchieste si sono sono chiuse con archiviazioni, per il resto ci sono i 19 processi dai quali è uscito assolto e che lo hanno costretto a passare gli ultimi 20 anni a difendersi per il lavoro svolto come governatore della Campania.
Ci sono anche Vasco Errani e Mario Oliverio
Ma la serie è lunga. Tra gli imputati eccellenti c’è Vasco Errani, ex governatore della Toscana, assolto dall’accusa di falso ideologico perché il fatto non sussiste, dopo un calvario lungo 7 anni.
In Calabria, dove a finire sotto indagine sono stati gli ultimi cinque governatori, c’è Mario Oliverio, assolto a gennaio scorso dall’accusa di corruzione e abuso d’ufficio, avanzata dalla Dda di Catanzaro nell’inchiesta “Lande desolate”. Un’inchiesta, quella del 2018, che costrinse l’allora presidente della Regione a tre mesi di “confino” forzato nella sua casa di San Giovanni in Fiore. Ma non solo: proprio a causa di quell’indagine Oliverio fu costretto a rinunciare alla sua ricandidatura, su pressione della segreteria romana del Pd, che per evitare imbarazzi decise di metterlo fuori gioco, decretando, di fatto, la vittoria del centrodestra. «Due anni di gogna mediatica», commentò dopo la decisione del gup. A febbraio è arrivata, dopo otto anni, l’assoluzione piena per 13 ex consiglieri regionali del Lazio, per fatti che risalgono al periodo compreso tra il 2010 e il 2013. Tra loro anche l’attuale senatore del Pd, Bruno Astorre. «Che vita è se per un avviso di garanzia o un rinvio a giudizio ci si deve dimettere?», aveva dichiarato ricordando la gogna subita, i titoli dei giornali e le accuse degli avversari politici.
L’ex sindaco di Lodi
I più forti, quelli con la copertura mediatica maggiore, magari resistono alla valanga di fango dopo l’iscrizione sul registro degli indagati e durante i processi. Altri, invece, decidono di deporre le armi, a volte definitivamente. Come Simone Uggetti, l’ex sindaco del Pd di Lodi, colui che è riuscito nel miracolo di far scusare Luigi Di Maio per la gogna subita: il politico è stato assolto nei mesi scorsi dall’accusa di turbativa d’asta, dopo cinque anni lunghissimi. Anni in cui la sua vita è cambiata radicalmente, in cui «mi sono dovuto reinventare» e fare i conti continuamente con odio e rancore. Uggetti era stato arrestato nel 2016, dopo la denuncia di una dipendente comunale, che lo accusava di aver interferito illecitamente nella redazione di un bando da 4mila euro per la gestione estiva delle piscine comunali. La questione fu soprattutto politica: i grillini si lanciarono subito sul caso, per colpire soprattutto Matteo Renzi, all’epoca ancora segretario del Pd e presidente del Consiglio. E la gogna grillina era stata esasperante: quasi nessuno, tra i big, si era sottratto al gioco del tiro al bersaglio. L’elenco, dunque, è lungo. E la sensazione è che sia destinato ad allungarsi.
«Liberiamo i sindaci dall’incubo delle indagini». L’appello di Bianco. Abuso d'ufficio, il presidente del Consiglio nazionale Anci Enzo Bianco: «Occorre mettere mano a una riforma della magistratura». Valentina Stella su Il Dubbio il 22 ottobre 2021. «I dirigenti della pubblica amministrazione sono nel terrore per il rischio di incappare nelle maglie della giustizia. Occorre mettere mano a una riforma della magistratura, ripristinare l’autonomia dei sindaci». A dirlo ieri Enzo Bianco, presidente del Consiglio nazionale Anci, intervenendo al convegno ‘Ripartire dalla semplificazione della Pubblica amministrazione, una grande opportunità non solo per i professionisti’, organizzato da Ancot (Associazione nazionale consulenti tributari) e Confederazione Aepi (Associazione europea dei professionisti e delle imprese). Come ricordato in un recente ordine del giorno dell’onorevole di Azione Enrico Costa, «il 7 luglio scorso i sindaci hanno manifestato a Roma “per chiedere di intervenire sul reato d’abuso d’ufficio e rivedere la responsabilità amministrativa e i confini entro i quali un amministratore o un dirigente pubblico possono agire, poiché il reato non è ancora abbastanza tipizzato e da ciò discendono i pericoli di un’eccessiva dilatazione dell’intervento penale”; la manifestazione dei sindaci ha rappresentato un grido di dolore di chi quotidianamente si ritrova in prima linea, subendo esposti, quasi sempre infondati, che vengono poi strumentalizzati politicamente». Secondo gli ultimi dati disponibili dell’Istat, nel 2017 sono stati 6.500 i procedimenti aperti per abuso d’ufficio, di cui solo 57 le condanne definitive; nel 2018 quelli definiti da Gip e Gup sono stati 7.133 e 6.142 sono stati archiviati; «si dimostra – conclude Costa – che i procedimenti aperti per abuso d’ufficio sfociano in condanne definitive in meno di un caso su cento». Nell’accogliere l’odg, il governo si è impegnato a studiare le modifiche alla legge Severino, nel punto in cui prevede la sospensione degli amministratori locali dopo la condanna in primo grado per abuso di ufficio. E in più adesso Partito Radicale e Lega stanno finendo di raccogliere le firme sui sei referendum giustizia, uno dei quali chiede l’abolizione della Severino. Bianco lo avrà sottoscritto?
Il caso a Crema. L’assurdità della sindaca indagata perché un bambino si è rotto un dito a scuola…Giulio Cavalli su Il Riformista il 9 Giugno 2021. Mi raccomando, continuiamo a fingere di non sapere perché qui in Italia quasi nessuno voglia fare il sindaco, quasi nessuno che abbia un ruolo professionale di un certo spessore, nessuno di quelli che hanno capito benissimo l’antifona: perché andare ad infognarsi in un ruolo in cui hai un avviso di garanzia dietro l’angolo (con conseguenze economiche oltre che penali importanti)? Così accade che a Crema la sindaca Stefania Bonaldi si ritrovi con un avviso di garanzia perché un bambino si è schiacciato due dita in una porta tagliafuoco (con effetti non irreversibili) in una scuola materna. Dice la legge che sia lei che avrebbe dovuto controllare che quella porta non si chiudesse. La vicenda fa il paio con il recente caso del sindaco di Lodi Simone Uggetti con una vita rovinata per un appalto da 5mila euro e un’assoluzione arrivata anni dopo ma fa anche il paio con le storie di molti altri sindaci che si sono ritrovati a dover fronteggiare più questioni giudiziarie che politiche. A Torino la sindaca Chiara Appendino è stata condannata a un anno e mezza per la tragedia di piazza San Carlo quando il 3 giugno 2017 si scatenò il panico per dei delinquenti che spruzzarono spray urticante e provocarono due morti e 1500 feriti: la colpa della sindaca è stata di non averlo impedito. Lo stesso è accaduto con il sindaco di Mantova, con Pizzarotti a Parma (6 indagini in 9 anni finite in niente), con l’ex sindaco grillino di Livorno, i casi sono centinaia e si ripetono ogni giorno. Il sindaco di Pesaro Matteo Ricci, presidente delle Autonime locali italiane, non le manda a dire: «È assurdo, basta con queste pazzie contro i sindaci. Come si può indagare un Sindaco per una cosa del genere? Siamo al ridicolo. Davvero poi ci sorprendiamo che scarseggiano i candidati a sindaco? È quanto mai urgente che il legislatore intervenga sulle eccessive responsabilità oggettive che hanno i sindaci, perché non possono ridursi a capro espiatorio di tutti i mali del Paese». «Ogni volta che un sindaco firma un atto rischia di commettere un abuso d’ufficio. Se non firma, rischia l’omissione di atti d’ufficio», aveva sintetizzato bene il presidente dell’Anci Antonio Decaro in una recente intervista. Il tema della responsabilità dei sindaci è un nodo politico grande come una casa e sarebbe davvero uno dei punti da affrontare per un rilancio reale del Paese. E forse questo sarebbe davvero il momento buono visto che praticamente tutti i partiti sono d’accordo.
Giulio Cavalli. Milano, 26 giugno 1977 è un attore, drammaturgo, scrittore, regista teatrale e politico italiano.
«Ora basta!». La rivolta dei sindaci contro le procure. Faremmo male a sottovalutare la storia della sindaca di Crema finita sotto indagine dopo che un bimbo si è schiacciato le dita nella porta dell’asilo comunale. Potrebbe essere il granello di sabbia che fa saltare il sistema? Davide Varì su Il Dubbio il 9 giugno 2021. E se fosse il piccolo granello di sabbia che fa saltare il sistema? O, per essere più drammatici, lo sparo di Sarajevo che nel ’14 incendiò l’Europa? Insomma, faremmo male a sottovalutare la storia della sindaca di Crema finita sotto indagine dopo che un bimbo si è schiacciato le dita nella porta dell’asilo comunale. E faremmo ancora peggio a minimizzare gli sbotti d’ira e di insofferenza arrivati dai sindaci di mezza Italia i quali, appresa la notizia, hanno fatto sapere in coro che questa criminalizzazione quotidiana è diventata insopportabile e intollerabile. E ora mettiamo in fila un po’ di eventi che possono apparire slegati, assembliamoli come fossero le tessere di un puzzle che sembra comporsi giorno dopo giorno sotto i nostri occhi. Iniziamo con la crisi di credibilità della magistratura esplosa col caso Palamara e divampata col caso Storari-Davigo-Amara; poi mettiamoci le scuse pubbliche di Luigi Di Maio che ha chiesto perdono per il linciaggio mediatico contro l’ex sindaco Ugetti (fatto politico rilevantissimo per il leader di fatto del partito cresciuto a forca e manette). Passiamo poi alla diciannovesima assoluzione su diciannove processi subiti dall’ex sindaco di Napoli Bassolino e mettiamoci anche lo scandalo delle intercettazioni trapanesi ai danni di giornalisti e avvocati. E infine arriviamo a oggi: alla rivolta dei sindaci contro una procura che indaga una loro collega per due dita peste. Insomma, la sensazione è che qualcosa si stia muovendo e che questi piccoli eventi siano scosse di avvertimento, segnali di un sistema che sta per saltare. E chissà che quell’avviso di garanzia alla sindaca non diventi il simbolo della fine di un’era: l’era del dominio della magistratura iniziato con le monetine dell’hotel Raphael contro Bettino Craxi e finito ignominiosamente col dito schiacciato di un povero bambino di Crema. E non ci stupiremmo poi tanto se quello che Borrelli definiva il “secolo del potere della magistratura” finisse in questo modo: lo spirito della storia prende forme e strade imprevedibili. O forse qualcosa era prevedibile ma qualcuno lo ha ignorato.
Sindaci, un mestiere pericoloso: il terrore di mettere una firma. Carlo Fusi su Il Quotidiano del Sud il 9 luglio 2021. È PASSATA quasi inosservata, al di là delle meste lamentazioni, al tempo stesso fondate e folkloristiche, di Clemente Mastella sindaco di Benevento riguardo “l’invidia” dei parlamentari, la marcia delle centinaia di primi cittadini che hanno sfilato nel centro di Roma per protestare riguardo la loro condizione d’azione, e i lacci e lacciuoli burocratico-giudiziari che legano loro le mani. È stata una manifestazione circondata dalla distrazione. Eppure il problema esiste e se fino a ieri era urgente, adesso che con il Pnrr gli amministratori – non solo sindaci ma anche presidenti di Regione – avranno responsabilità specifiche nella gestione e allocazione delle risorse, diventa semi-emergenziale. Com’è noto, i sindaci sono il personale politico più vicino alle istanze concrete dei cittadini e molte delle insufficienze e problematicità delle città, soprattutto quelle più grandi, ricadono sulle loro spalle. Non nel senso che ne sono gli artefici, pur se addebiti specifici spesso sono tutt’altro che infondati, ma in particolare perché, seppur eletti proprio con questo mandato, non riescono a risolverle. La situazione è andata via via peggiorando nel corso degli anni. Numerosi casi di mala amministrazione, infatti, hanno rinchiuso l’azione dei primi cittadini in un reticolato di norme e adempimenti tale da diventare ingombrante in modo allarmante. Specificatamente, è invalsa la concezione che ogni delibera o quasi dei municipi potesse essere a rischio malavita o in odore di corruzione. Per cui si sono moltiplicati a dismisura i meccanismi di controllo che, nati da esigenze condivisibili, sono diventati airbag che soffocano ogni intervento e bloccano gran parte delle iniziative. Il risultato è che la discrezionalità politica e la possibilità di scelta è stata quasi annullata, con l’effetto che le amministrazioni in molti casi restano inerti o viaggiano al minimo sindacale perché timorose di incappare nell’incubo dell’abuso di ufficio, di finire sul registro degli indagati, di essere gettati nel tritacarne politico-giudiziario che ne amputa le possibilità di intervento e spesso ne azzera il futuro sia in termini politici che addirittura personali. Come un veleno inarrestabile, quest’inoculazione si è scaricata giù pe li rami su tutta la macchina burocratica dei Comuni: trovare un funzionario che si assume la responsabilità di mettere la firma su un atto amministrativo comportante spese a carico della collettività, è diventato più difficile che vincere al Superenalotto. Né la sindrome controllante è stata superata dall’arrivo nelle sale comunale di ex magistrati, candidati dai partiti spesso come foglia di fico al loro operato oppure frutto di iniziative singole spesso giocate nel chiaroscuro di ricette populiste e promesse intrise di demagogia. Per non parlare di inchieste clamorose come quella di Mafia Capitale che poi non hanno trovato conferme nel processo delle ipotesi accusatorie avanzate, ma hanno comunque contributo loro malgrado a gettare discreto su chi ha gestito il complesso amministrativo. Insomma allo stato dei fatti i sindaci giustamente lamentano che ogni loro atto è a rischio indagine o sospensione, e che così – ripetiamo: al di là dei limiti politici loro e delle maggioranze elette nonché delle eventuali incapacità e inappropriatezze – fare quel mestiere è diventato impossibile. Al punto che una parte non trascurabile delle difficoltà a trovare candidati sindaci di spessore deriva proprio dalla paura dei papabili di finire stritolati. Aprendo così autostrade all’arrivo di personale poco competente o di personaggi con scarsa o perfino nulla caratura amministrativa in un perverso circolo vizioso che pompa scarsa autorevolezza in quello che è un raccordo fondamentale tra cittadini e istituzioni. Adesso poi che le amministrazioni, a tutti i livelli, sono chiamate ad un salto di qualità per rendere effettive e spendere bene le risorse che arrivano dall’Europa, il mastodontico intoppo che si determina a livello locale minaccia di mandare in frantumi anche i piani più ambiziosi ed articolati. Con in più, a livello regionale, i protagonismi dei presidenti che spesso si pongono in un rapporto competitivo e/o concorrenziale con il centro, contribuendo ad accresce la confusione e lo sconcerto nell’opinione pubblica. È una questione che meriterebbe di essere messa in cima alle preoccupazioni delle forze politiche, della maggioranza e del governo. Con tutte le cautele e le garanzie del caso, è forse arrivato il momento di ripristinare o quanto meno riallargare il cerchio della discrezionalità politica e della possibilità di scelta degli amministratori e dei primi cittadini. Che se sbagliano ne pagheranno le conseguenze come è giusto e doveroso, ma che non possono essere penalizzati nelle loro prerogative. Se si ripristina il meccanismo virtuoso della fiducia tra amministrati e amministratori e se la giustizia controlla senza diventare occhiuta e ossessiva, può venirne del bene per tutti. Forse è arrivato il momento di provarci.
Comuni paralizzati dalle inchieste, così è impossibile amministrare. Viviana Lanza su Il Riformista il 10 Giugno 2021. Qual è il perimetro delle responsabilità di un sindaco? La domanda torna di attualità dopo il caso della sindaca di Crema che ha ricevuto un avviso di garanzia perché un bambino si è schiacciato un dito all’asilo. L’episodio ha spinto l’Anci a valutare di presentare una proposta di legge per ridurre gli effetti della Severino ed evitare la cosiddetta “paura della firma” che paralizza le iniziative degli amministratori pubblici ogni volta che la magistratura entra con un’indagine in decisioni che riguardano la pubblica amministrazione. C’è infatti una serie di reati, a partire dall’abuso d’ufficio, che finiscono per condizionare l’andamento della vita pubblica. Il nodo della questione sta nella difficoltà di bilanciare l’esigenza di verifica della regolarità di atti e decisioni che compete all’autorità giudiziaria con la discrezionalità e la possibilità di azione che invece compete al pubblico amministratore. Spesso si crea uno sbilanciamento per cui l’azione giudiziaria interferisce con quella amministrativa e la paralizza. Questo sbilanciamento diventa una spada di Damocle sulla testa di ogni amministratore pubblico. Tanto che quello del sindaco sembra quasi essere diventato un incarico rischioso che può esporre alla gogna mediatico-giudiziaria per un nonnulla. Con il risultato di ritrovarsi per anni nel limbo della giustizia per poi essere assolti. Secondo alcune statistiche raccolte dall’Anci, infatti, nella stragrande maggioranza dei casi le indagini sui sindaci finiscono in una bolla di sapone e solo il 2% dei procedimenti si conclude con una sentenza di condanna definitiva. I primi cittadini, dunque, lamentano di incorrere in responsabilità, anche penalmente rilevanti, sproporzionate rispetto ai poteri loro attribuiti che sono poteri di puro indirizzo politico. Di qui la richiesta di una modifica della legge. «Bisognerebbe domandarsi fin dove si spinge la responsabilità di un sindaco che certo non ne ha sulla funzione gestionale che compete a dirigenti e funzionari – riflette Vincenzo Figliolia, sindaco di Pozzuoli – E bisognerebbe anche comprendere bene alcune norme del codice penale, per esempio per quanto riguarda l’abuso di ufficio. I sindaci hanno una missione delicatissima e una responsabilità enorme e spesso il Parlamento li ha lasciati soli nella grande sproporzione tra responsabilità e problemi reali. Chi non ha mai fatto il pubblico amministratore a livello locale non si rende conto della complessità e dei molteplici problemi che si possono avere dalla mattina alla notte, h24, per occuparsi di tutti, dai servizi alla sicurezza. La mia città, Pozzuoli, ha circa 90mila abitanti, è la quinta della Campania: è come se fossi l’amministratore delegato di un’azienda con 90mila persone. C’è un mondo sulle spalle di un primo cittadino». «Non è un caso che nessun politico voglia fare il sindaco – osserva Ciro Buonajuto, sindaco di Ercolano e coordinatore regionale di Italia Viva – C’è una sproporzione eccessiva tra le responsabilità e le competenze di un sindaco, che si parli di una grande città o di un piccolo centro. Per questo credo che bisogna introdurre delle novità nel Testo unico degli enti locali. Faccio un esempio: l’abuso d’ufficio, reato che ha un perimetro non molto chiaro, scatena il terrore della firma. Tutti hanno paura di commetterlo perché non si comprende bene quale sia la fattispecie concreta che possa definirlo e questo comporta che alla fine il sindaco ha responsabilità incredibili ma competenze limitate. Di fatto la macchina amministrativa la muovono funzionari e dirigenti, non certo il primo cittadino. Ciò che è accaduto al sindaco di Crema ne è la prova: come fa la porta nella quale si è chiuso il dito il bambino a stare sotto il potere di di controllo del sindaco?» «Il rischio di finire sotto inchiesta può condizionare e può diventare un’inibizione, spingendo a pronunciare la fatidica frase “chi me lo ha fatto fare” – dice Vincenzo Catapano, sindaco di San Giuseppe Vesuviano e responsabile degli enti locali per la Lega in Campania – Ho dovuto affrontare sette/otto procedimenti penali, tutti archiviati, uno solo risolto in udienza preliminare pochi mesi fa per abuso d’ufficio e sono stato scagionato da qualsiasi accusa. La riforma sulla separazione delle competenze è stata fatta, la gestione spetta ai dirigenti ma resta facilissimo per un sindaco finire coinvolto in vicende giudiziarie. L’abuso d’ufficio è come il sale in ogni minestra. In otto anni che sono sindaco ho avuto 2mila accessi; tra l’altro la mia città è quella che ha ricevuto più finanziamenti europei per il maggior numero di lavori strutturali in Campania. Attualmente a San Giuseppe Vesuviano ci sono 15 cantieri aperti: altri, al mio posto, si sarebbero scoraggiati e ritirati in buon ordine». «Dobbiamo formalizzarci sui poteri che sono assegnati dalla legge ai primi cittadini – suggerisce Gaetano Cimmino, sindaco di Castellammare e vicepresidente dell’Anci regionale – Un sindaco, nel corso del proprio mandato, è esposto ad ampie responsabilità mentre i poteri sono fermi a quelli di indirizzo politico, perché i poteri gestionali sono demandati ai dirigenti. Va quindi rivista la legge dovrebbe consentire a un sindaco di amministrare ed espletare il proprio mandato in maniera chiara. Se oggi la politica è in crisi e si aggrappa a espressioni di civismo è anche per questo motivo. Noi sindaci non chiediamo immunità o impunità ma solo di essere liberati da responsabilità che non sono nostre. Un’alternativa potrebbe essere quella di consentire al sindaco che si insedia si nominare non solo la giunta, ma anche tutti i dirigenti scelti tra persone di sua fiducia in modo tale da assumersi non solo la responsabilità politica ma anche amministrativa».
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
I sindaci sono bersaglio della magistratura, è vero. Ma…Dopo la vicenda della sindaca di Crema indagata per il dito pesto di un bambino, interviene il presidente dell'Anci. Il Dubbio il 12 giugno 2021. In Italia sta avvenendo un fenomeno strano. In tanti comuni, piccoli e grandi, i cittadini, le associazioni, i partiti sono alla disperata ricerca di qualcuno che voglia candidarsi a sindaco. Il candidato sindaco, esemplare un tempo molto diffuso, pare sia a rischio estinzione. Però, se consideriamo gli ultimi fatti di cronaca, come quello che ha riguardato la collega sindaca di Crema Stefania Bonaldi, indagata per un incidente che ha visto coinvolto un bambino in un asilo nido comunale, come potremmo biasimare chi, in questi giorni, rifugge anche dall’idea di una possibile candidatura? Io, però, non voglio arrendermi e, da rappresentante di tutti i sindaci italiani, ho pensato di scrivere ai non-candidati. So bene il perché non volete candidarvi. Non volete farlo perché qualsiasi cosa accada nel vostro Comune sarà vostra responsabilità. Ogni volta che proverete a pedonalizzare anche solo un isolato stradale, vi troverete a lottare contro la burocrazia dell’adempimento formale che vi farà perdere tempo, pazienza e buon umore. Non volete candidarvi perché vi hanno detto che ogni firma che metterete in calce a un provvedimento è un potenziale avviso di garanzia per il reato di abuso, così come le firme non messe potrebbero avere lo stesso effetto per il reato di omissione. E si sa, un avviso di garanzia, con la conseguente gogna mediatica, fa perdere la serenità per mesi, spesso anni. Non volete candidarvi perché vi hanno detto che per i cittadini se un ospedale non funziona, se aumentano gli scippi, se la gente getta i rifiuti per strada, se piove, se fa troppo caldo, se la squadra cittadina retrocede è sempre e solo colpa del sindaco. Bene, tutto quello che vi hanno detto è vero. Tragicamente vero. Ma io che faccio il sindaco della mia città da sette anni posso dirvi che a questo racconto a senso unico, manca qualcosa. Qualcosa che non è scritto nel testo unico sugli enti locali, né nei i trattati di politica o di pubblica amministrazione. Manca quello che si prova indossando la fascia tricolore. Quello che si prova quando un bambino, durante la recita di Natale, si avvicinerà per chiedervi di parlare con Babbo Natale per avere una giostrina nel parco sotto casa sua, quando una ragazza si rifugerà nell’ufficio del sindaco per chiedergli di intercedere con i suoi genitori che l’hanno allontanata perché lei ama una donna. Quello che si prova guardando occhi e bocche spalancate dei cittadini nell’ammirare stupiti un teatro restaurato o un museo recuperato. In quei momenti l’orgoglio di indossare quella fascia può farti fare di tutto, anche improvvisarti guida turistica, come ho visto fare una volta al sindaco di Rimini, Andrea Gnassi. Fare il sindaco può farti vivere un’emozione grandissima come quella che ha provato il collega Marco Bucci quando ha inaugurato il nuovo ponte dimostrando che questo Paese è capace di rialzarsi anche dopo una immane tragedia. È quello che si prova quando si fa la cosa più bella del mondo: cambiare in meglio la vita dei cittadini. Nessuno più del sindaco può farlo. Non c’è nulla che dia più soddisfazione. Cara non candidata, caro non candidato, ripensaci. Candidati a fare il mestiere più bello del mondo. E se ti stai chiedendo: “Ma ne vale la pena?”, la risposta è sempre la stessa. Sì, ne vale la pena. Ne vale la pena sempre, perché questo è il nostro Paese, è l’Italia in cui siamo nati e siamo cresciuti, è l’Italia che ha bisogno dei sindaci, è l’Italia che troppe volte si appoggia su di noi e poche volte ci ringrazia, è l’Italia che però noi non possiamo mollare. “Dei remi facemmo ali al folle volo”, così Dante scriveva di Ulisse che incitava i suoi alla conquista del mondo sconosciuto. Questa frase spesso mi ha accompagnato nelle mie scelte. Perché ogni giorno forte è la convinzione che la fatica di remare, contro le difficoltà quotidiane, può trasformarsi nella gioia di volare e di raggiungere un nuovo traguardo, piccolo o grande che sia. Per gli occhi di quel bambino della recita di Natale e per il sorriso di quel nonno in smoking all’inaugurazione del teatro comunale. Ne vale la pena. Sì. In Italia sta avvenendo un fenomeno strano. In tanti comuni, piccoli e grandi, i cittadini, le associazioni, i partiti sono alla disperata ricerca di qualcuno che voglia candidarsi a sindaco. Il candidato sindaco, esemplare un tempo molto diffuso, pare sia a rischio estinzione. Però, se consideriamo gli ultimi fatti di cronaca, come quello che ha riguardato la collega sindaca di Crema Stefania Bonaldi, indagata per un incidente che ha visto coinvolto un bambino in un asilo nido comunale, come potremmo biasimare chi, in questi giorni, rifugge anche dall’idea di una possibile candidatura? Io, però, non voglio arrendermi e, da rappresentante di tutti i sindaci italiani, ho pensato di scrivere ai non-candidati. So bene il perché non volete candidarvi. Non volete farlo perché qualsiasi cosa accada nel vostro Comune sarà vostra responsabilità. Ogni volta che proverete a pedonalizzare anche solo un isolato stradale, vi troverete a lottare contro la burocrazia dell’adempimento formale che vi farà perdere tempo, pazienza e buon umore. Non volete candidarvi perché vi hanno detto che ogni firma che metterete in calce a un provvedimento è un potenziale avviso di garanzia per il reato di abuso, così come le firme non messe potrebbero avere lo stesso effetto per il reato di omissione. E si sa, un avviso di garanzia, con la conseguente gogna mediatica, fa perdere la serenità per mesi, spesso anni. Non volete candidarvi perché vi hanno detto che per i cittadini se un ospedale non funziona, se aumentano gli scippi, se la gente getta i rifiuti per strada, se piove, se fa troppo caldo, se la squadra cittadina retrocede è sempre e solo colpa del sindaco. Bene, tutto quello che vi hanno detto è vero. Tragicamente vero. Ma io che faccio il sindaco della mia città da sette anni posso dirvi che a questo racconto a senso unico, manca qualcosa. Qualcosa che non è scritto nel testo unico sugli enti locali, né nei i trattati di politica o di pubblica amministrazione. Manca quello che si prova indossando la fascia tricolore. Quello che si prova quando un bambino, durante la recita di Natale, si avvicinerà per chiedervi di parlare con Babbo Natale per avere una giostrina nel parco sotto casa sua, quando una ragazza si rifugerà nell’ufficio del sindaco per chiedergli di intercedere con i suoi genitori che l’hanno allontanata perché lei ama una donna. Quello che si prova guardando occhi e bocche spalancate dei cittadini nell’ammirare stupiti un teatro restaurato o un museo recuperato. In quei momenti l’orgoglio di indossare quella fascia può farti fare di tutto, anche improvvisarti guida turistica, come ho visto fare una volta al sindaco di Rimini, Andrea Gnassi. Fare il sindaco può farti vivere un’emozione grandissima come quella che ha provato il collega Marco Bucci quando ha inaugurato il nuovo ponte dimostrando che questo Paese è capace di rialzarsi anche dopo una immane tragedia. È quello che si prova quando si fa la cosa più bella del mondo: cambiare in meglio la vita dei cittadini. Nessuno più del sindaco può farlo. Non c’è nulla che dia più soddisfazione. Cara non candidata, caro non candidato, ripensaci. Candidati a fare il mestiere più bello del mondo. E se ti stai chiedendo: “Ma ne vale la pena?”, la risposta è sempre la stessa. Sì, ne vale la pena. Ne vale la pena sempre, perché questo è il nostro Paese, è l’Italia in cui siamo nati e siamo cresciuti, è l’Italia che ha bisogno dei sindaci, è l’Italia che troppe volte si appoggia su di noi e poche volte ci ringrazia, è l’Italia che però noi non possiamo mollare. “Dei remi facemmo ali al folle volo”, così Dante scriveva di Ulisse che incitava i suoi alla conquista del mondo sconosciuto. Questa frase spesso mi ha accompagnato nelle mie scelte. Perché ogni giorno forte è la convinzione che la fatica di remare, contro le difficoltà quotidiane, può trasformarsi nella gioia di volare e di raggiungere un nuovo traguardo, piccolo o grande che sia. Per gli occhi di quel bambino della recita di Natale e per il sorriso di quel nonno in smoking all’inaugurazione del teatro comunale. Ne vale la pena. Sì.
Il sindaco? Chi te lo fa fare? Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 22 Giugno 2021. Da qualche anno le interviste ai sindaci sono diventate la specialità del foglio mensile PRIMOPIANOSCALAc, pubblicato da Telos A&S. Abbiamo dato voce a moltissimi tra loro, dal sindaco di Lima in Perù, alle sindache di Reno in Nevada e di Sydney in Australia, passando per il primo cittadino di Vienna. Non sono mancati i sindaci italiani di grandi e piccoli Comuni, da Milano, Torino, Palermo, Bari, fino a Cerignale e San Lazzaro di Savena. Possiamo dire di avere attivato un osservatorio sul lavoro del primo cittadino, che è la vera scuola della politica. Il sindaco di piccole e grandi realtà ha a che fare con un universo di problemi e di opportunità, che deve saper gestire e cogliere, cercando di collegarle con le politiche nazionali. Lo conferma il primo cittadino di Terni, che abbiamo intervistato questo mese. Leonardo Latini ricorda che “il compito dei sindaci e degli amministratori locali dovrebbe essere anche, anzi forse soprattutto, di rappresentare le esigenze dei territori verso i livelli superiori dell’Amministrazione Pubblica. Dovere dei Governi e degli enti sovraordinati deve essere però quello di ascoltare gli amministratori locali e di far tesoro dei loro consigli e delle loro esigenze, perché il collegamento tra lo Stato centrale e i territori è fondamentale. […] soprattutto sotto il profilo della ripartizione delle risorse che dovrebbe ispirarsi ai principi di una sussidiarietà vera”. E aggiunge che il Presidente del Consiglio dovrebbe essere chiamato il “Sindaco dei Sindaci”, proprio per sottolineare la necessità di una continua interazione tra le due funzioni. Leggi l’intervista. Tuttavia, malgrado l’importanza strategica di questo ruolo, la carriera del sindaco sta attraversando una crisi delle vocazioni, tanto che i partiti faticano a trovare i candidati. Tra i problemi, gli stipendi troppo bassi, soprattutto se commisurati con la mole di responsabilità che il ruolo impone, e il rischio di condanne penali per fatti che il sindaco non è sempre in grado controllare ed evitare. Ha colpito tutti l’avviso di garanzia alla prima cittadina di Crema Stefania Bonaldi, “responsabile” dello schiacciamento della manina di un bambino nella porta tagliafuoco di un asilo. Così come ha fatto riflettere la condanna a un anno e sei mesi di Chiara Appendino per i fatti di piazza San Carlo a Torino del giugno 2017. Episodi che hanno portato il presidente dell’Anci e sindaco di Bari Antonio Decaro a sottoscrivere un appello al Parlamento per la revisione del Tuel, il Testo Unico degli Enti Locali. “Prima o poi qualcuno dovrà rispondere quando l’Italia resterà un Paese senza sindaci”. La provocazione del presidente dell’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani porta la lobbista che è in me a fare una considerazione estrema, ma neanche troppo: rischiamo di svuotare la più grande scuola italiana della politica per colpa di una porta tagliafuoco.
Perché nessuno vuole più fare il sindaco di una grande città. di Ignazio Marino su L'Espresso il 26 maggio 2021. Aumentano le inchieste giudiziarie che coinvolgono i primi cittadini, distruggono reputazioni e li costringono a difendersi per anni. Sono uno degli elementi che tengono lontani gli idealisti dall’impegno politico. La recente condanna a un anno e sei mesi di prigione della sindaca Appendino ci deve fare riflettere su diversi temi. Il primo è la responsabilità delle Procure e dei media nel creare nell’immaginario collettivo l’idea che una persona sia colpevole di un reato già nel momento in cui riceve l’avviso di garanzia, un atto che per legge è disposto dal Pubblico Ministero e notificato all’indagato per invitarlo a nominare un difensore. Essere indagati non significa essere colpevoli ma indica soltanto un coinvolgimento nell’indagine. Peraltro, l’avvio dell’indagine prevede per legge l’onere in capo al Procuratore di raccogliere anche elementi a favore dell’indagato. Vale la pena ricordare che per la Costituzione Italiana l’imputato è innocente sino alla fine dei tre gradi di giudizio previsti dal nostro ordinamento. Invece, basta una banale ricerca su internet per trovare pagine e pagine con i nomi di persone la cui reputazione è stata mediaticamente infangata nel momento dell’apertura di una indagine della magistratura. Un giorno, in Sicilia, ascoltai un commento in cui qualcuno parlando della mafia spiegava che se ti schizzano addosso del fango su un vestito bianco lo potrai anche portare in tintoria, ma qualcuno comunque si ricorderà che quel giorno indossavi un vestito macchiato. Una frase semplice che chiarisce perfettamente il concetto. Il secondo tema è sul ruolo e la responsabilità dei sindaci. Il sindaco di una città metropolitana ha responsabilità enormi, compreso un bilancio annuale in alcuni casi superiore a quello di una grande azienda. Il Sindaco di Roma è responsabile di un bilancio cittadino superiore ai 5 miliardi di euro e, come maggiore azionista, di un fatturato di altri 3,2 miliardi di euro per Acea, la multiutility che distribuisce acqua ed elettricità. Quale amministratore delegato accetterebbe la responsabilità di gestire un’azienda con un bilancio annuo di quasi 10 miliardi, oltre sessantamila dipendenti, diversificata in aree strategiche che vanno dai trasporti sino ai rifiuti tossici di un ospedale, per un salario di 4.500 euro al mese e senza la possibilità di scegliersi una squadra di professionisti che possano assumersi le necessarie responsabilità in ciascuna delle aree di attività dell’azienda? E con il rischio di essere denunciato ogni giorno mentre svolge il proprio lavoro? Chiara Appendino è stata condannata per responsabilità legate alla morte e alle lesioni gravissime di alcune persone in una piazza in cui si scatenò il terrore perché una banda di ladri armati di spray al peperoncino generarono il panico per rubare. Furono individuati e condannati. Marta Vincenzi, già Sindaca di Genova, venne inizialmente condannata a cinque anni di prigione per i drammatici eventi alluvionali del 2011 che portarono alla morte di sei donne, tra cui due bambine. Senza tenere in debito conto che in Italia vi sono 12mila chilometri di fiumi tombati e che a Genova nel secolo scorso è stato tombato il torrente Fereggiano, si è costruito in zone dove non si sarebbe dovuto, si è condonato e così il cemento illecito è divenuto lecito per legge. Come se la legge dell’uomo potesse essere applicata alla natura. La magistratura ha il compito di applicare le leggi, ma se si vuole compiere una riflessione al di là di quella possibile in un tribunale è necessario ammettere gli errori commessi in precedenza e non solo cercare un colpevole nel momento del disastro. Quali possibilità reali ha un sindaco di prevedere o prevenire eventi come quelli di Genova e Torino? Ricordo che dopo aver pedonalizzato via dei Fori Imperiali a Roma nell’autunno del 2014 all’una del mattino un gigantesco pino crollò sulla strada deserta senza causare alcun danno. Alto ventidue metri, con un diametro di oltre un metro e un peso di circa due tonnellate, se fosse caduto una domenica di sole alle undici di mattina avrebbe potuto uccidere diverse persone. Una strage. Fui terrorizzato da questo pensiero: convocai i migliori botanici e decisi di abbattere altri sei pini a rischio su via dei Fori Imperiali. Venni criticato duramente da alcuni gruppi ambientalisti ma avviai lo stesso un lavoro di indagine sistematica per studiare la stabilità delle alberature di Roma e procedere ai necessari abbattimenti. Un lavoro che richiede l’utilizzo di mezzi tecnologici come il resistografo e il tomografo (una sorta di Tac del tronco). Temo che quel lavoro sistematico dopo il 2015 si sia fermato, forse perché costoso o forse perché impopolare. Resta il fatto che migliaia di alberi a Roma sono giunti alla fine del loro ciclo vitale, andrebbero tutti abbattuti e sostituiti invece di sperare che non cadano e di cercare il colpevole quando ciò purtroppo accade. Per circa trent’anni ho eseguito trapianti di fegato. Un intervento oggi assai sicuro ma che nel passato aveva una mortalità elevata e durante il quale il paziente, al tavolo operatorio, poteva perdere letteralmente litri di sangue. Ho sempre fatto il mio mestiere con diligenza e tutto il sapere di cui disponevo e non sono mai dovuto entrare in un tribunale per una denuncia. Per ventotto mesi ho fatto il sindaco e, in relazione a questa carica, sono dovuto entrare nei palazzi della Giustizia come imputato decine di volte. Certo, sono stato sempre assolto con formula piena ma ne ho dovuto sostenere il costo morale e materiale. Addirittura, perché decisi di allontanare le bancarelle degli ambulanti dinanzi al Colosseo, al tempio di Nerva o in piazza di Spagna è stato necessario difendermi sino in Cassazione come semplice cittadino. Solo per quell’azione ricevetti oltre venti denunce che confluirono in un processo penale durato quattro anni e conclusosi in Cassazione con una sanzione monetaria nei confronti di chi mi aveva denunciato. Ma in quelle udienze in tribunale io non ero imputato come Sindaco che aveva preso una decisione per l’interesse della città, bensì come singolo individuo. Rimango orgoglioso di quelle decisioni ma non condivido l’idea che possano essere considerate dalla legge come le azioni di un privato cittadino. Ora che si avvicinano le elezioni dei sindaci nelle principali città metropolitane italiane, mi chiedo quale debba essere il profilo dei candidati. Oltre a competenza e integrità sarà necessario anche sentirsi immuni dal dolore che l’ingresso da imputato in un tribunale provoca a chi non lo ha messo in conto. Servirà anche la disponibilità economica, per farsi carico di una difesa adeguata alle denunce che potrebbe ricevere. Sarà sempre più difficile individuare persone competenti a queste condizioni. Sarà forse più facile trovare idealisti animati da una costruttiva follia reclutati dalla società civile o politici di professione, scaltri e senza scrupoli.
Fausto Carioti per “Libero quotidiano” il 31 maggio 2021. L'ultima storia è quella di Simone Uggetti, che fu sindaco di Lodi. Arrestato in modo spettacolare nel 2016 con l'accusa di turbativa d' asta. Assolto l'altro giorno, ha accolto la notizia in lacrime. In mezzo, un'esistenza e una carriera politica devastate. Antonio Decaro, ingegnere e sindaco pd di Bari, è presidente dell'Anci, l'associazione dei Comuni d' Italia. Il "portavoce del partito dei sindaci", insomma. Storie così ne ha viste tante. «Spesso», dice a Libero, «sbagliamo anche noi politici, che trasformiamo un'indagine in una condanna definitiva. Uggetti è stato assolto, ma quanti lo sanno? Ritrovarsi sui giornali come un malfattore, e dover abbassare lo sguardo mentre incroci i tuoi concittadini, senza aver commesso alcun reato, è la cosa più brutta che possa accadere a chi fa il sindaco».
Pare diventato un mestiere pericoloso, il vostro.
«Lo è. Ogni volta che si trova davanti alla firma di un atto, un sindaco rischia. Se firma, rischia di commettere un abuso d' ufficio; se non firma, rischia di commettere un'omissione di atti d' ufficio».
Abuso d' ufficio, primo rischio professionale per la vostra categoria. Lei conosce tutti gli ottomila sindaci d' Italia. Quanti di loro, quanti dei loro assessori sono indagati per questo reato?
«Gli ultimi dati dicono che tra il 2016 e il 2017 sono state elevate circa settemila contestazioni per abuso d'ufficio. Per ognuna di esse c'è un amministratore indagato. I provvedimenti definitivi di condanna, nello stesso periodo, sono stati meno di cento. La sproporzione è evidente. Quasi tutti gli indagati sono stati prosciolti dall' accusa; molti, addirittura, nemmeno sono stati rinviati a giudizio».
Il testo della legge che prevede il reato di abuso d'ufficio è vago. Articolo 323 del Codice penale: il pubblico ufficiale che «intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni». Voi cosa chiedete?
«Non vogliamo depenalizzare il reato, chiediamo solo che abbia contorni più delineati. Il precedente governo, col primo decreto Semplificazioni, ha delimitato in modo un po' più chiaro i confini. Era il minimo. Aspettiamo di vedere gli effetti, ma c'è ancora molto da fare».
Anche con le altre leggi?
«Sì. Occorre intervenire sulle norme del Testo unico degli enti locali, sulle norme della Protezione civile e sulle norme che regolano le ordinanze dei sindaci. Finché restano come sono, è troppo facile finire indagati per responsabilità che, oggettivamente, non possono ricadere sui sindaci».
Di quali responsabilità parla?
«Oggi un sindaco rischia di trovarsi indagato per inquinamento ambientale o per questioni legate all' ordine pubblico o ai bilanci comunali. Ci sono stati sindaci indagati perché un'automobile è finita in un sottopasso allagato. Alcune norme le abbiamo fatte cambiare, ma ce ne sono ancora molte così. In Piemonte un sindaco è stato indagato perché una persona è caduta mentre stava montando le luci sull' albero di Natale: spettava a lui controllare? Non credo».
Chiara Appendino non si ricandida sindaco di Torino proprio a causa dei processi. Dopo la sua condanna vi mobilitaste tutti.
«Il suo è un caso simbolo: l'ordine pubblico non ricade sotto la responsabilità del sindaco, eppure lei è stata condannata. Ripeto, non vogliamo l'impunità né cancellare i reati. Chiediamo solo di rendere più netti i confini delle ipotesi di reato, così da renderci più liberi di svolgere il ruolo di sindaci».
Sarà anche per questo che i politici di prima fila si guardano bene dal candidarsi a sindaco, a Roma come a Milano e a Napoli.
«Chi trova soddisfazione nella propria attività oggi difficilmente si candida a sindaco. Peccato, perché è un mestiere che ti permette di vivere un'esperienza umana indimenticabile. La situazione è grave soprattutto nei Comuni più piccoli. Le responsabilità sono tante e fino poco tempo fa il sindaco di un piccolo Comune guadagnava 700 euro, meno di quanto avrebbe preso col reddito di cittadinanza. Le pare che abbia senso?».
Nella vostra lista nera c' è pure la legge Severino.
«I sindaci sono gli unici pubblici amministratori che, se condannati in primo grado per abuso d' ufficio, sono sospesi per diciotto mesi. Il sindaco, sempre a causa della legge Severino, è trattato come un appestato anche dopo il mandato. Io, sindaco metropolitano, se fossi dirigente di uno dei Comuni dell'area o un libero professionista che lavora per loro, terminato il mandato non potrei tornare al mio impiego prima di due anni. Il sindaco è l'unica figura istituzionale che non si può candidare in Parlamento se non dimettendosi sei mesi prima. Sembrano norme scritte apposta contro i sindaci».
Marta Cartabia sta lavorando alla riforma della giustizia. Può essere l'occasione per riscrivere le norme che vi rovinano la vita?
«Certo che sì. Abbiamo già scritto al governo. Nei prossimi giorni il consiglio nazionale dell'Anci chiederà a Draghi un intervento deciso».
A Mario Draghi vi siete rivolti anche per le opere previste dal Recovery plan. Paura di non rispettare i tempi?
«Voglio dirlo chiaramente: in queste condizioni, per noi spendere le risorse del Recovery plan entro il 2026 sarebbe impossibile. Abbiamo bisogno di personale, chiediamo assunzioni a tempo determinato sino al 2026. E poi devono cambiare le regole».
Il decreto Semplificazioni varato dal governo non è sufficiente?
«Lì dentro ci sono alcune cose che chiedevamo da tempo, ma non basta. Speriamo che in sede parlamentare, con la conversione del decreto, si osi di più».
Cos'altro serve?
«I nostri problemi riguardano le autorizzazioni e i contenziosi. Per le prime abbiamo chiesto tempi perentori e conferenza dei servizi decisoria in trenta giorni, passati i quali vale il silenzio-assenso».
Soluzione drastica.
«Ma necessaria. E non ci stiamo inventando nulla: una norma simile esiste già per l'edilizia scolastica. Se è valida lì, a maggior ragione può esserlo per le opere del Pnrr, che vanno fatte entro il 2026, se non vogliamo perdere i soldi».
Alcune opere pubbliche hanno un impatto ambientale importante e richiedono autorizzazioni particolari come la Via e la Vas.
«In quel caso, se la conferenza dei servizi non si chiude entro trenta giorni, portiamo la decisione in consiglio dei ministri. Pure questa è una norma che già c' è, per le opere il cui costo è al di sopra di una certa soglia. Chiediamo solo di fare la stessa cosa per le opere del Pnrr».
Resta il problema dei contenziosi sugli appalti, causa principale del blocco dei lavori.
«È legittimo che la ditta che ritiene che le sia stato leso un diritto faccia ricorso. Ma noi non ci possiamo fermare: la sospensiva, il Tar, il consiglio di Stato Se facciamo così, nel 2026 le opere del Pnrr saranno bloccate dai ricorsi».
La soluzione?
«Le pubbliche amministrazioni devono comunque andare avanti con i lavori. Quando il contenzioso si risolve, se chi lo ha aperto vede riconosciute le proprie ragioni, riceve una quota del mancato utile. Siamo in un periodo d' emergenza, usiamo procedure d' emergenza. Con le procedure normali non ne veniamo fuori».
Alcune grandi città si trovano a un passo dal fallimento. La colpa è quasi sempre della gestione disinvolta delle amministrazioni precedenti. Chi deve pagare? I contribuenti della città? Tutti gli italiani?
«Le situazioni nelle quali occorre intervenire riguardano gli oltre mille Comuni in dissesto o pre-dissesto finanziario. Molte risalgono ai decenni passati. I Comuni sono disposti a pagare. Però i piani di risanamento, così, sono inapplicabili».
Perché?
«Quei piani prevedono l'aumento della riscossione e la possibilità di recuperare risorse attraverso la vendita degli immobili. Ma nel 2020 e nel 2021 l'epidemia ha ridotto di molto la capacità di riscuotere. Stesso discorso per gli immobili: se faticavano a venderli prima, figuriamoci in tempi di Covid».
Quindi?
«Chiediamo che i termini per attuare i piani di risanamento siano spostati di due anni. Non mi pare richiesta insensata. Insensato è pretendere che siano ancora valide le vecchie scadenze».
Ci si è messa pure la Corte costituzionale. Ha stabilito che i Comuni non avrebbero potuto usare la liquidità che era stata anticipata dalla Cassa depositi e prestiti per pagare i debiti commerciali con i creditori.
«Quella che la Consulta ha dichiarato illegittima era una norma dello Stato. Tanto è vero che si sono comportati in quel modo 1.400 sindaci italiani. La Cdp assegnò ai Comuni risorse da rimborsare in trent' anni. E ora la sentenza stabilisce che la restituzione deve avvenire in un triennio. Ma riuscirci è impossibile, salta il bilancio».
E allora?
«Abbiamo chiesto allo Stato di accollarsi il debito, i Comuni glielo rimborseranno in trent' anni. Offrono servizi fondamentali ai cittadini, mica possiamo mandarli gambe all' aria».
“Tar, è boom di cause. Indispensabili meno burocrazia e norme comprensibili”, parla Serlenga (Anma). Viviana Lanza su Il Riformista l'1 Aprile 2021. I numeri della giustizia amministrativa in Campania come in tutto il Paese fotografano una realtà che funziona più speditamente di ogni altro settore del mondo giudiziario. Il calo delle pendenze è stato notevole nell’ultimo anno e si sono ridotti anche i tempi medi di definizione dei ricorsi che in materia di appalti si attestano in genere attorno ai 150 giorni e nel 26% dei casi, attraverso l’uso delle sentenze in forma semplificata, si è arrivati a una definizione in appello in 69 giorni. «Siamo di fronte a un processo funzionante non solo perché è telematico ma anche perché è snello», spiega Gia Serlenga, presidente dell’Associazione nazionale magistrati amministrativi. La giustizia amministrativa è stata pioniera nel processo telematico, già dal 2017 si è partiti con la materializzazione del processo. «È chiaro che la sacralità dell’udienza in presenza non è assolutamente sostituibile, ma siamo in emergenza e dobbiamo reagire», afferma, sottolineando come durante l’anno di pandemia, mentre tutto rallentava, la giustizia amministrativa sia riuscita a non fermarsi. Per questo i magistrati amministrativi si sono tenuti fuori dalla polemica sui vaccini: «L’Anm ha agito troppo di pancia, anche se il rischio contagi esiste anche per la nostra categoria». «Abbiamo dato una forte accelerazione alla materia di rilevanza economica, gli appalti – prosegue Serlenga a proposito dell’andamento della giustizia amministrativa – Potenziando gli organici si potrebbero garantire le stesse performance anche per materie considerate di serie B ma che di fatto incidono su diritti fondamentali come l’immigrazione, l’assegnazione di case popolari, l’urbanistica». Per il prossimo futuro ci si prepara a un boom di contenziosi davanti ai tribunali amministrativi. «Nel 2020 si è registrato un calo medio del 20%, il 2021 è già iniziato in modo diverso. Del resto tutte le crisi portano a un boom, facendo ripartire gli investimenti pubblici si attiverà anche la giustizia amministrativa che è il controllore del potere pubblico». Serve però arrivare preparati al futuro. «È sconcertante il modo attuale di procedere sulla base della pressioni dei singoli gruppi di interesse e senza mai avere uno sguardo all’orizzonte, con totale assenza di progettualità – osserva la presidente Serlenga – Non è più possibile che la mano destra non sappia cosa fa la sinistra. Ai controlli non si può rinunciare, ma non si può nemmeno andare avanti così, con norme scritte male, confusionarie, incomprensibili. Un funzionario pubblico deve poter leggere una norma e capirla. Quindi cominciamo dalla tecnica legislativa, ma avendo le idee chiare altrimenti non ne usciamo». Il nodo sono dunque le norme, troppe e poco chiare. «Sicuramente il codice degli appalti andrebbe rivisto nel senso della semplificazione. Inutile fare i furbi inserendo norme con molti commi». Sburocratizzare è la parole chiave. «Abbiamo avuto la legge sugli appalti del 1865 che con pochissime norme ha funzionato, più o meno bene, esattamente fino agli anni ’90 passando indenne a scoperte epocali. Dalla legge Merloni in poi abbiamo assistito a normative riviste un mese dopo l’altro. L’insegnamento da trarre dalla storia è che non è la quantità di norme che può preservarci dal fenomeno corruttivo. Questo è stato l’errore nel quale si è caduti anche con l’Autorità anticorruzione – sostiene la presidente dell’Anma – Addirittura qualche anno si parlò di sottrarre al Tar la competenza per darla all’Anticorruzione perché l’ottica era che la battaglia fosse quella, appesantire. In realtà servirebbero poche norme, e buone, per disciplinare gli appalti e – aggiunge – va ridisciplinato il profilo della responsabilità di chi opera, quindi dei funzionari. Certo non si può pretendere da un’amministrazione un grande passo in avanti se non si danno all’amministrazione le risorse per compierlo questo passo. Guardiamo alle realtà territoriali che non hanno risorse per fare il salto. Se nel futuro non si riuscirà a sburocratizzare le procedure non avremo mai investimenti». Per il Sud sarebbe una condanna senza appello.
"Atto politico insindacabile". La Corte dei conti sancisce la supremazia sulla giustizia. L'archiviazione dell'inchiesta su Zingaretti e Raggi apre nuovi scenari sulla separazione dei poteri. Massimo Malpica - Gio, 11/03/2021 - su Il Giornale. C'è qualcosa di rivoluzionario nella decisione della procura della Corte dei conti di archiviare l'inchiesta contro Nicola Zingaretti e Virginia Raggi per l'acquisto del palazzone del costruttore Parnasi all'Eur, destinato a diventare sede della Provincia di Roma (all'epoca governata dal segretario dimissionario del Pd). La decisione del viceprocuratore generale Gaia Palmieri, che oltre a quelle del sindaco di Roma e del governatore laziale ha archiviato anche altre 33 posizioni (su 37 indagati in totale) segna un precedente importante nel rapporto tra magistratura (contabile, in questo caso) e politica. Lasciando cadere le accuse sulla base delle deduzioni presentate nella memoria difensiva di Zingaretti dai suoi avvocati, Edoardo Giardino e Valerio Tallini, che hanno convinto il viceprocuratore della insussistenza delle condizioni per arrivare al processo. E tra i punti chiave su cui hanno puntato i legali di Zingaretti, la pietra tombale dell'indagine della Corte dei conti, accolta dalla stessa procura, è stata l'insindacabilità dell'atto politico, relativamente alla scelta da parte della Giunta provinciale di costituire un fondo immobiliare per l'acquisizione di quell'immobile. In pratica, la decisione era squisitamente politica, hanno sostenuto Tallini e Giardino, e il viceprocuratore Palmieri ha sposato la stessa linea, definendo quella scelta della provincia presieduta da Zingaretti, principale oggetto di contestazione della procura della Corte dei Conti, che lo riteneva origine di un danno erariale, «una scelta discrezionale sindacabile dal Giudice contabile entro limiti ristretti». Insomma, dietro al sospiro di sollievo per il governatore laziale e per la sindaca di Roma, emerge l'affermazione di un principio, un paletto, che permette di marcare il confine invalicabile - tra l'azione degli esponenti politici e le contestazioni della magistratura. Se un sindaco decide di finanziare una determinata opera con un determinato strumento, al netto della correttezza dell'iter, dovrebbero essere i suoi elettori a giudicarlo e non un pm o un giudice, che su quella scelta discrezionale non possono sindacare. Un principio che, nel provvedimento di archiviazione parziale, viene stampato nero su bianco dal viceprocuratore Palmieri che, a proposito della scelta di costituire il fondo, come strumento per quell'operazione immobiliare, politicamente discutibile quanto si vuole, scrive che si tratta di «valutazioni discrezionali che, alla luce delle controdeduzioni in atti, non appaiono caratterizzate da irragionevolezza o arbitrarietà, e perciò non sono sindacabili in questa sede». Non ci sono dunque illeciti erariali per i quali indagare ancora Zingaretti o la Raggi, e anzi dalla magistratura contabile arriva un precedente che potrebbe appunto definirsi rivoluzionario per riaffermare il principio della separazione dei poteri. Resta da vedere, ora, se questo confine - tracciato sull'asfalto della strada che ha portato all'archiviazione di Zingaretti e Raggi - verrà rispettato anche quando altri magistrati saranno chiamati a pronunciarsi su vicende che riguardino scelte di indirizzo politico. Magari anche di altre parti politiche.
Il vizio della Pubblica amministrazione: premia chi non decide e ha "le carte a posto". Nel "Decalogo dell'impiegato pubblico" dell'avvocato Celotto una diagnosi impietosa dei peccati segreti della nostra burocrazia. Giuseppe Marino - Mer, 10/03/2021 - su Il Giornale. «Vado all'Urp per incontrare il Rup e ottenere il Durc». È uno dei brillanti esempi con cui Alfonso Celotto spiega un caposaldo della Pubblica amministrazione: «Il linguaggio, deve essere oscuro, meglio se fatto di sigle, una tendenza che risale addirittura al Futurismo, quando le abbreviazioni evocavano la velocità, la rapidità, l'opposto di quel che accade oggi». Avvocato amministrativista, appassionato di diritto costituzionale, capo di gabinetto in vari governi, da Renzi ai gialloverdi, Celotto è però soprattutto il miglior cantore di vizi e vezzi della Pubblica amministrazione al punto che, nella sua incarnazione da scrittore, ha costruito una saga romanzesca il cui eroe immaginario è «Ciro Esposito, direttore della Gazzetta Ufficiale». Il quale, a chi gli chiede come va, risponde: «Ai sensi della normativa vigente». Celotto, come il dottor Esposito, è un estimatore del ruolo della Pubblica amministrazione e sebbene nel suol «Decalogo dell'impiegato pubblico» non risparmi il sarcasmo sulla categoria, ammette che i problemi strutturali e normativi sono ben più importanti della tendenza di una parte dei burocrati a seguire la penultima regola: «Nove, undici, tredici, quindici. Ovvero i quotidiani appuntamenti immancabili con giornale, cappuccino, pranzo, caffè». Il comandamento più importante in realtà è il secondo: «Tieni le carte a posto». «Il sistema -spiega- premia chi non decide. Chi si prende la responsabilità della firma, rischia. E allora crea un paravento di carte, chiede tre pareri a tre enti e così se qualcuno gli chiede conto, può sempre dire che aveva le carte a posto». Il risultato è che tutto rallenta, annega in un mare di procedure, create con l'illusione che il moltiplicarsi dei passaggi e delle certificazioni garantisca contro trucchi e imbrogli. E invece rende impossibile controllare per davvero: così il furbo e il corruttore aggirano senza difficoltà gli ostacoli burocratici, potendo contare anche sui frutti della corruzione, il cittadino comune resta impigliato nella rete. «I due terzi dei casi di corruzione riguardano fatti leciti -spiega Celotto- perché a fronte dell'arbitrio, della procedure complicate, dell'immobilismo diffuso, anche chi ha diritto a volte preferisce ottenerlo come un favore». C'è poi il capitolo delle assunzioni annunciate dal ministro Brunetta per svecchiare il personale. «Sicuramente la pubblica amministrazione ne ha bisogno -spiega Celotto- perché oggi c'è un'età media del personale elevatissima a causa del blocco del turn over, è mancata la formazione e quindi le competenze e soprattutto è diffuso l'approccio per cui i dipendenti pubblici sono tutti uguali, per cui quello che lavora viene trattato allo stesso modo di chi si fa gli affari suoi. Serve personale nuovo, ma anche formazione e i giusti incentivi». Eppure ogni riforma è accompagnata da un grande scetticismo: «L'ultimo governo De Gasperi aveva un ministro per la riforma della Pa e si trovano dure invettive contro la burocrazia già nei discorsi di Mussolini e di Cavour -rievoca Celotto- Nel 1993 quando Sabino Cassese divenne ministro della Funzione pubblica, fece una ricognizione delle riforme della Pa: già allora erano oltre 60. Il problema è proprio che ci sono troppe leggi e troppi enti: per poter cambiare davvero bisogna disboscare. La pandemia ha complicato le cose, ma chissà, magari darà anche la spinta giusta».
Il reato indefinito. Abuso d’ufficio: così i Pm hanno sottomesso la politica. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 7 Marzo 2021. Il reato di abuso in atti di ufficio ha una storia lunga, tormentata e -come dire – vagamente isterica. Nella sua originaria formulazione, la norma era pressoché “in bianco”: il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, al fine di acquisire un vantaggio per sé o per altri, o arrecare ad altri un danno, “abusa del suo ufficio, è punito” eccetera. Le norme penali in bianco sono una sciagura, perché sia il Pubblico Ministero che il giudice possono assegnare loro un significato ignoto al cittadino accusato di aver violato la norma medesima. “Abusa del suo ufficio”, come è ovvio, può significare tutto e il suo contrario. Nel 1990 la norma subì una prima modifica, ma non relativa a quella sua micidiale genericità. La riforma fece solo sì che quel reato inglobasse l’abrogato interesse privato in atti di ufficio, prevedendo un aggravamento di pena se l’interesse ed il danno perseguiti dalla (sempre indeterminata) condotta abusiva fossero di natura patrimoniale. Nel 1997 la norma subì finalmente una prima, importante modifica. La esigenza di specificare, cioè di tipizzare una norma di fatto “in bianco”, ne impose finalmente la riscrittura. L’abuso deve essere caratterizzato dalla violazione di legge e di regolamenti; e la condotta di avvantaggiare indebitamente sé stessi od altri, o di danneggiare terzi, deve essere intenzionale. I nostalgici dell’abuso d’antan (puntualmente in prima linea Piercamillo Davigo dalle colonne dell’amato Fatto Quotidiano) omettono puntualmente di ricordare perché si arrivò a quella prima riforma. Ve lo ricordo io. Quella norma in bianco fu usata dalla magistratura italiana, a partire dai primissimi anni novanta, come una clava. Le indagini per abuso in atti di ufficio impazzarono in tutto il Paese, perché attraverso di esso le Procure di tutta Italia poterono esercitare un potere di controllo pressoché assoluto sulla Pubblica Amministrazione, sulle sue stesse scelte discrezionali, sulle sue dinamiche politiche. Che poi, anni dopo, quelle indagini ed i relativi processi finissero sistematicamente (come le statistiche confermano in modo eclatante) nel nulla, essendo in larga misura il nulla, poco importa. Intanto, le sorti politiche e professionali di sindaci, assessori, giunte regionali, amministratori di aziende pubbliche in genere, le decidono le Procure. Senonché la riforma del 1997 vide vanificati i suoi salutari intenti nel breve spazio di un mattino, perché da subito la giurisprudenza si occupò di annacquarne il senso, pur inequivocabile. Per dirne una: nella nozione di “violazione di legge” va inclusa – stabiliscono i magistrati- anche la violazione del principio costituzionale del buon andamento della Pubblica Amministrazione (art. 97). Dunque non prendiamoci la pena di dover individuare per forza una violazione di legge specifica, come pure la legge imporrebbe: qualunque atto amministrativo che possa essere qualificabile come atto di cattiva amministrazione, torni ad essere penalmente sindacabile. La giurisdizione penale rinunzia ben difficilmente ad un potere così formidabile quale è quello di controllare e sindacare, con la forza devastante della azione penale, la Pubblica Amministrazione. Sia ben chiaro, qui nessuno pretende, come si vorrebbe far intendere, l’impunità per i cattivi amministratori: stiamo discutendo di altro. Corruzione, concussione, peculato, induzione indebita, malversazione, fino ad arrivare all’impalpabile “traffico di influenze”, sono tutte condotte che presuppongono che il pubblico ufficiale abusi del proprio ufficio, cioè dei poteri che da esso derivano; e sono, come è giusto che sia, di già severamente punite. Non c’è nessun bisogno di prevedere una specie di norma di chiusura delle condotte di abuso, utile solo a mantenere sotto il giogo delle Procure ogni atto, ogni intenzione, ogni scelta discrezionale della Pubblica Amministrazione. La ribellione della giurisdizione alla chiara volontà che il Parlamento sovrano espresse con la riforma del 1997 ha finito di fatto per ricostituire le condizioni preesistenti del reato di abuso di ufficio come norma penale in bianco. Al punto che perfino il Governo Conte due, dunque in pieno populismo penale, nel 2020 ha ritenuto indispensabile intervenire di nuovo, ribadendo che il reato di abuso non può mai riguardare un atto discrezionale della Pubblica Amministrazione, salvo che ovviamente quell’atto non integri condotte abusive più severamente punite (corruzione, concussione, peculato eccetera). Il dott. Davigo se ne duole, dice che questa storia della paura di firmare che hanno i pubblici amministratori è inspiegabile, male non fare paura non avere, ed amenità simili. Ora forse capirete un po’ meglio perché il dott. Davigo se ne duole. Io intanto, faccio il facile profeta: diamoci un po’ di tempo, e cominceremo a leggere le prime ordinanze di custodia cautelare che ci diranno: un momento, ma cosa significa in realtà “atto discrezionale”? Cosa dobbiamo davvero intendere per “specifiche norme di legge”, come pretende la nuova, ennesima riforma? e saremo – come si suol dire – da capo a dodici. Accetto scommesse.
Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 6 marzo 2021. Lo spauracchio del reato di abuso d'ufficio, il terrore dei funzionari pubblici di mettere una firma evocato anche dal presidente Draghi nel suo discorso in Parlamento, l'urgenza di abolire il reato per non paralizzare la ripartenza dell'Italia? Sono un po' come per Mark Twain la notizia della propria morte: fortemente sopravvalutata. Almeno stando alla prima spiazzante applicazione di merito della modifica normativa varata nel luglio 2020 dal decreto Semplificazioni (premier Conte, ministro della Giustizia Bonafede), che ora determina la richiesta di archiviazione del sindaco di Busto Arsizio e presidente della Provincia di Varese in un caso di pur provato ostruzionismo a un supermercato Coop. Sì è vero, riassume infatti l'inchiesta GdF nata dalle indagini difensive del legale Coop Giacomo Lunghini, il sindaco Emanuele Antonelli ha intenzionalmente ostacolato la realizzazione di una rotonda prevista invece dalle tavole della convenzione in Comune per l'apertura. Sì è vero, nell'inchiesta «Mensa dei poveri» (sul ras della politica locale Nino Caianiello) c'è un'intercettazione in cui il sindaco sospira «magari riuscissi» a non far fare a Coop la rotonda, e si rammarica che «più di così non si può fare niente, se no mi denunciano, li ho già tirati fino a Natale. Devo cercare di fargli fare i lavori a agosto, così li faccio impazzire... perché vuol dire un altro anno...». Inoltre un architetto, allora consigliere comunale e assessore alle Opere pubbliche, ha testimoniato che «il sindaco non voleva che la rotonda si realizzasse e chiese di trovare un cavillo per rallentare la realizzazione» pur «prevista dalla convenzione sottoscritta», e alla fine trovò una intesa con Coop «ma solo dopo averne rallentato l'iter». Un geometra comunale ha confermato che fu il sindaco a ordinargli (con tanto di foto scattate da casa) un sopralluogo sull'asserito abuso edilizio, in realtà un generatore contemplato dalla convenzione. E un dirigente comunale, che non ci trovò nulla di irregolare, racconta di aver poi subìto tre contestazioni disciplinari, una sanzione economica e il cambio delle mansioni. Ma «la modifica normativa» del reato di abuso d'ufficio «operata dall'art. 23 comma 1 del D.L. 76/2020», prende atto la pm Martina Melita, «ha operato una parziale abolitio criminis» sotto forma di «interpretazione autentica della norma incriminatrice». Mentre prima l'abuso d'ufficio poteva punire ogni caso di violazione di «norma di legge o di regolamento», comprese quindi dei generali principi di imparzialità e buon andamento desumibili dall'articolo 97 della Costituzione, con la modifica del 2020 invece l'abuso d'ufficio può punire esclusivamente violazioni di «specifiche regole di condotta espressamente previste da atti aventi forza di legge per i quali non residuino margini di discrezionalità». La differenza (applicata al caso del presidente della Provincia di Varese dal 2018, nel 2016 eletto sindaco di Busto Arsizio alla guida del centrodestra e a luglio 2020 passato da Forza Italia al partito Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni con cui ha annunciato la ricandidatura) fa sì che la GdF e ora la Procura ritengano da un lato che è «confermata la condotta del sindaco di ostacolare o quantomeno rallentare la realizzazione e l'apertura del supermercato Coop», ma dall'altro lato che questo suo ostruzionismo «non si può dire» abbia «violato specifiche norme di legge o aventi forza di legge». Per il pm ha di certo «violato il principio di imparzialità nell'agire amministrativo di cui all'articolo 97 della Costituzione»: ma questa condotta «non è più prevista come reato» dopo la modifica nel 2020. E col cerino in mano resta, per paradosso, solo il geometra comunale al quale il sindaco ordinò il sopralluogo: «Falso in atto pubblico» per aver poi attestato che il generatore non stesse (e invece stava) nei progetti depositati in Comune.
«Abuso d’ufficio? Per come è adesso tanto valeva abolirlo». Francesca Spasiano su Il Dubbio il 28 Feb 2021. Per il magistrato Giorgio Fidelbo, presidente di Sezione della Corte di Cassazione, la normativa emergenziale dell’ultimo periodo ha prodotto una «politica criminale “all’impronta”». Per il magistrato Giorgio Fidelbo, presidente di Sezione della Corte di Cassazione, la normativa emergenziale dell’ultimo periodo ha prodotto una «politica criminale “all’impronta”». Quasi schizofrenica. O meglio, «strabica». Prendiamo il reato di abuso d’ufficio: secondo Fidelbo, l’intervento riformatore del legislatore ha finito soltanto per «depotenziarlo», realizzando di fatto «un arretramento nel contrasto alla illegalità amministrativa». Al punto che «eliminarlo del tutto potrebbe essere più coerente…».
Presidente, ci spieghi perché.
«Il reato di abuso di ufficio, dopo la recente riforma operata con il decreto legge n. 76 del 2020, è stato stravolto completamente, sicché già è stata operata una sua parziale abolizione. Sono dell’idea che la formulazione precedente, quella nata con la legge del 1997, aveva migliorato sensibilmente la fattispecie penale, modellando un reato con un tasso di tipicità e di articolazione molto superiore rispetto al vecchio abuso d’ufficio, che effettivamente era stato delineato come un gigantesco contenitore, in cui confluivano diverse fattispecie, il che consentiva, effettivamente, applicazioni sorprendenti e non prevedibili da parte del giudice penale, determinando appunto la paralisi del funzionario pubblico».
Lei fa riferimento al decreto semplificazioni dello scorso luglio, con il quale il legislatore ha ristretto l’applicabilità della norma alle “violazioni di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Con quale effetto?
«Se, come sembra, la riforma era diretta ad eliminare del tutto la possibilità che il giudice penale possa attentare alla discrezionalità amministrativa, il risultato potrà essere quello di un sindacato penale rivolto soltanto all’attività vincolata della pubblica amministrazione, coinciderà cioè con il controllo dell’amministrazione nella sua attività meno significativa, quella meramente esecutiva, diretta cioè ad occuparsi di mere bagatelle che fino ad ora il giudice penale non ha mai nemmeno considerato, mentre resteranno penalmente irrilevanti tutta una serie di condotte che la giurisprudenza faceva rientrare nello sviamento di potere: si pensi ai favoritismi indebiti, allo sfruttamento privato, alla prevaricazione arbitraria, tutte situazioni che spesso ritroviamo nelle vicende amministrative. Siamo in presenza di una riforma che persegue un obiettivo di politica criminale che appare incomprensibile, nella misura in cui finisce per innalzare un muro contro la discrezionalità dell’amministrazione, con il rischio di sottrarre al vaglio di legalità le condotte più insidiose da parte del funzionario pubblico. Una politica criminale “all’impronta”, che continua ad essere orientata dall’emergenza e che avvertiamo come strabica: dopo meno di un anno dalla legge n. 3 del 2019, meglio conosciuta come “spazzacorrotti”, che si è posta la finalità di “combattere” la corruzione e, in genere, la criminalità amministrativa con misure assai aggressive, in alcuni casi spostando il baricentro verso la legislazione in materia di criminalità organizzata, senza neppure cogliere la differenza tra i diversi fenomeni criminali, improvvisamente si assiste ad una inversione di tendenza, con un legislatore che ci consegna un abuso di ufficio totalmente depotenziato, realizzando un arretramento nel contrasto alla illegalità amministrativa. Due interventi, entrambi, fuori misura, sicuramente contraddittori».
In occasione di un convegno sul tema, Lei ha sottolineato che il problema dell’abuso di ufficio, più che la sanzione penale, è il danno di immagine prodotto dall’apertura delle indagini che finisce per ostacolare l’attività di politici e amministratori.
«La riforma, che ha quasi eliminato il reato di abuso d’ufficio, non coglie l’obiettivo di mettere davvero il funzionario pubblico al riparo da iniziative giudiziarie. Non è la formulazione della norma che “paralizza” il funzionario, bensì il solo fatto che viene iniziata una indagine, magari per un reato più grave. Anche a voler ammettere che possono esservi stati casi di uso strumentale delle indagini, va comunque detto che le indagini nascono perché c’è una denuncia di un cittadino che ritiene di essere vittima di un abuso, di un sopruso, di un favoritismo a vantaggio di altri e su queste denunce il pubblico ministero non può far altro che aprire un fascicolo e iniziare l’indagine. È anche vero che nel corso delle prime indagini spesso si omettono accertamenti approfonditi e si preferisce rinviare a giudizio l’imputato. Ma è altrettanto vero che le denunce che arrivano nelle procure della Repubblica sono la conseguenza dell’incapacità della pubblica amministrazione di operare con imparzialità ed efficienza, sono il sintomo dell’incapacità dell’amministrazione di assicurare la tutela delle situazioni soggettive e degli interessi che andrebbero presi in considerazione attraverso un’attenta ponderazione e tale incapacità è causata spesso dalla stessa normativa amministrativa che è chiamata ad applicare il funzionario. La prima e più efficiente difesa del cittadino dovrebbe essere rinvenuta nelle norme che l’amministrazione deve applicare, che dovrebbero essere nitide e precise. Solo a queste condizioni le iniziative giudiziarie basate su fattispecie incriminatrici incentrate sulle modalità di esercizio del potere possono e debbono trovare un argine naturale, diversamente questo argine non ci sarà».
In molti casi le accuse per questa fattispecie finiscono con una sentenza di assoluzione. O addirittura non si giunge a processo, anche per la difficoltà di dimostrare il dolo.
«Esiste un rapporto sbilanciato tra indagini avviate e le poche condanne pronunciate. Il numero dei procedimenti per il reato di cui all’art. 323 c. p. pervenuti in Corte di cassazione è sempre stato molto esiguo, con elevatissime percentuali di annullamento. Questo dato è la riprova che la riforma del 1997 aveva realizzato un forte sforzo di tipizzazione della fattispecie penale, in cui tra l’altro l’ambito di applicazione era stato fortemente limitato dalla stessa giurisprudenza, che ha sempre assegnato un rilievo selettivo al dolo intenzionale».
Quale soluzione intravede per il fenomeno della "fuga della firma"?
«Ritengo che il problema sia ancora una volta la pubblica amministrazione, che dovrebbe essere in grado essa stessa di reagire al suo interno a quelle che conosciamo essere forme di abuso di potere, di favoritismi, di preferenze indebite. Ad esempio, potrebbe essere utile ragionare su una proposta che il professore Antonio Pagliaro fece una ventina di anni fa: rivitalizzare l’azione disciplinare, prevedere sanzioni disciplinari proporzionate alla gravità del fatto, costruire un diverso rapporto con il procedimento penale al fine di evitare, ove possibile, l’applicazione della sanzione penale. L’esperienza di altri ordinamenti stranieri dimostra che il funzionamento tempestivo ed effettivo del procedimento disciplinare non rende necessaria la previsione di specifici reati e, quindi, riduce l’intervento del giudice penale sull’amministrazione».
Abuso d’ufficio, quel cappio al collo degli amministratori. Simona Musco su Il Dubbio il 26 Feb 2021. Governatori, sindaci, dirigenti pubblici: chiunque, prima o poi, può incappare nel rischio di finire indagato. E molti evitano di agire per sottrarsi al pericolo. Lo ha detto anche il presidente Mario Draghi: «Occorre evitare gli effetti paralizzanti della fuga dalla firma». Una fuga dettata dalla paura, perché il rischio di finire sotto indagine per abuso d’ufficio, per chiunque svolga il ruolo di amministratore pubblico, è sempre dietro l’angolo. Così si finisce per rimanere immobili: meglio rallentare la pubblica amministrazione che finire in un vortice che rischia di sballottare il malcapitato per anni. Specie se, alla fine, come in molti casi, risulta essere innocente. Da nord a sud, il pericolo è uguale per tutti. E le statistiche non mentono: se si considera il periodo 2016- 2017, sono state circa 7.000 le contestazioni di abuso d’ufficio, con provvedimenti definitivi di condanna pari a 100. Una sproporzione che la dice lunga sulla fumosità del reato. Da quanto emerso nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021, risultano circa 500 iscrizioni tra luglio 2019 e giugno 2020, una sessantina in meno rispetto all’anno precedente. Rimane ancora da capire quali saranno gli effetti delle modifiche intervenute nel frattempo con il decreto- semplificazione del luglio 2020, che ha ristretto l’ambito di applicabilità della norma alle “violazioni di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Insomma, un minimo di libertà agli amministratori è stata restituita. Ma tocca fare i conti con i numeri: finora, circa il 70 per cento delle inchieste finisce nel nulla. Nel frattempo, molti amministratori finiscono nel tritacarne, nella gogna giustizialista, magari gettando la spugna. I casi sono migliaia, molti anche eclatanti. Uno degli ultimi in ordine di tempo è quello dell’ex governatore della Calabria, Mario Oliverio, assolto a gennaio scorso nel processo “Lande desolate”. «Due anni di gogna mediatica», ha commentato dopo la decisione del gup. L’inchiesta, nel 2018, costrinse l’allora presidente della Regione a tre mesi di “confino” forzato nella sua casa di San Giovanni in Fiore. Ma non solo: proprio a causa di quell’indagine fu costretto a rinunciare alla sua ricandidatura, su pressione della segreteria romana del Pd, che per evitare imbarazzi decise di metterlo fuori gioco, decretando, di fatto, la vittoria del centrodestra. Ma i casi sono tantissimi. La grana per Vincenzo De Luca, presidente della Regione Campania, anche lui del Pd, casualmente, era scoppiata proprio alla vigilia della sua ricandidatura a governatore. Ma a pochi mesi da quello scoop, rilanciato a settembre da Repubblica nonostante la notizia fosse ancora coperta da segreto, l’inchiesta è stata archiviata. L’indagine aveva a che fare con l’assunzione di quattro vigili urbani nella segreteria istituzionale del Presidente della Regione Campania, con l’ipotesi di abuso d’ufficio, falsità ideologica e truffa. Pochi giorni fa è arrivata, dopo otto anni, l’assoluzione piena per 13 ex consiglieri regionali del Lazio, per fatti che risalgono al periodo compreso tra il 2010 e il 2013. Tra loro anche l’attuale senatore del Pd, Bruno Astorre. «Che vita è se per un avviso di garanzia o un rinvio a giudizio ci si deve dimettere?», aveva dichiarato ricordando la gogna subita, i titoli dei giornali e le accuse degli avversari politici. Il 27 marzo del 2020 ad essere archiviata è stata la posizione del governatore della Lombardia Attilio Fontana, accusato d’abuso d’ufficio per la nomina di Luca Marsico, avvocato ed ex socio del suo studio. Nel 2015 era toccato al sindaco di Milano Giuseppe Sala, indagato per le vicende Expo. Di mezzo ci sono finiti anche grillini illustri, come il sindaco di Roma Virginia Raggi. I più forti, quelli con la copertura mediatica maggiore, magari resistono alla valanga di fango dopo l’iscrizione sul registro degli indagati. Altri, invece, decidono di deporre le armi e attendere il giudizio. Basta cercare tra gli amministratori locali, infatti, per raccontare storie più drammatiche, come quella dell’ex sindaco di Alcamo, Sebastiano Bonventre, indagato assieme ad alcuni dirigenti comunali e prosciolto dal Gup di Trapani ad ottobre scorso. Dopo, però, aver deciso di dimettersi. Per molti si tratta di una crepa che consente alla magistratura di infilarsi nelle amministrazioni, studiarle da dentro, magari col pretesto di andare a cercare altri reati, come la corruzione. Ma il più delle volte finisce con un unico risultato: la distruzione di un’esperienza amministrativa che, buona o meno, era il risultato di una scelta democratica compiuta dai cittadini. Le voci che si alzano contro questo reato, ora, sono tante. Per Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto a Venezia, andrebbe eliminato. Della stessa opinione l’ex giudice costituzionale Sabino Cassese. L’ex premier Silvio Berlusconi è meno duro: per lo meno, andrebbe rivisto, a fronte di una società in continua evoluzione e un diritto non al passo coi tempi. Le motivazioni sono chiare: non c’è amministratore che non abbia paura di incappare, un domani, in una denuncia. «I tempi si triplicano, nel migliore dei casi: si chiama amministrazione difensiva. Ma il risultato è la paralisi delle amministrazioni, che sono l’alter ego delle imprese», denunciava Nordio al Dubbio. Un concetto condiviso anche da Maria Masi, presidente facente funzione del Cnf, nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei Conti: «Anche la mera prospettiva della sanzione blocca l’iniziativa di dipendenti e amministratori, impedendo interventi incisivi e tempestivi dell’Amministrazione». Eliminare totalmente il reato dal codice penale, secondo Nico D’Ascola, ex presidente della Commissione giustizia al Senato e ordinario di diritto penale, sarebbe insensato e metterebbe a rischio la tutela dei cittadini di fronte all’azione della pubblica amministrazione, spiegava lo scorso anno al Dubbio. La norma «dovrebbe mirare alla giusta criminalizzazione ma solo come extrema ratio, per evitare di incrementare la conflittualità tra politica e magistratura e non bloccare la pubblica amministrazione, punendo solo i comportamenti pienamente dolosi, che violano i poteri conferiti. La mia idea – aveva aggiunto – è che bisogna punire quei comportamenti che producono effetti del tutto contrari ai principi previsti dalla legge violata».
Tar Lazio, Savo: «Sul contenzioso pesa l’inefficienza della Pa legata alla “paura della firma”». Il Dubbio il 23 Feb 2021. Apertura anno giudiziario, la relazione del presidente del Tar del Lazio Antonino Savo Amodio. «L’anno che è appena iniziato risulta particolarmente significativo perché è quello del cinquantesimo anniversario dell’istituzione dei tribunali amministrativi regionali: è sufficiente uno sguardo retrospettivo per rendersi conto di quanta strada sia stata percorsa dalla Giustizia amministrativa, in questo oramai lungo periodo di tempo, verso una sempre più effettiva tutela delle posizioni soggettive incise dai pubblici poteri». Lo ha detto il presidente del Tar del Lazio Antonino Savo Amodio aprendo l’anno giudiziario. Tra le sentenze del 2020, «per tutte, e per gli effetti favorevoli che può produrre per la tutela dei consumatori, voglio citare la sentenza che ha ritenuto legittima la sanzione irrogata dall’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato ad una società, leader mondiale nella produzione di prodotti informatici, per le insufficienti informazioni rese circa gli inconvenienti che potevano derivare dagli aggiornamenti al proprio sistema operativo», ha detto Savo Amodio, il quale, parlando poi del settore degli appalti pubblici, ha ribadito «l’importanza e la delicatezza del relativo contenzioso». Inoltre, ha ricordato, «numerose sono state le questioni di rilievo costituzionale trattate, tra cui quella vertente sull’impugnabilità dei decreti di indizione del referendum sul taglio dei parlamentari e i giudizi in ordine ai provvedimenti del Consiglio Superiore della Magistratura. Significative risultano anche le decisioni in materia di tutela della salute e del patrimonio culturale e paesaggistico». Accanto a questo contenzioso, «di evidente ricaduta economica e sociale», si pongono i ricorsi «che, pur riguardando esclusivamente il singolo amministrato, presentano implicazioni umane e spesso anche giuridiche delicate e significative. Per tutti – ha sottolineato il presidente – quelli relativi all’attribuzione delle ore di sostegno agli studenti disabili». «Indubbiamente la principale novità dell’anno trascorso è rappresentata dai numerosi ricorsi proposti avverso i provvedimenti assunti per far fronte all’emergenza da Covid-19, in particolare i Dpcm, acronimo divenuto oramai quasi gergale», ha sottolineato il presidente del Tar del Lazio. «Due sono le particolari implicazioni processuali riscontrate in ordine a tali impugnative: la loro appartenenza alla sfera della cosiddetta alta amministrazione – ha rilevato – che ha reso oltremodo delicata la ricerca del punto di equilibrio tra effettività della tutela giurisdizionale e rispetto dei limiti della discrezionalità amministrativa, e il rapido succedersi di tali decreti, sempre ad efficacia temporanea». Tali peculiarità, secondo il presidente del Tar, «hanno determinato una non indifferente ricaduta sul sindacato giurisdizionale: basti pensare che, in molti casi, il rispetto dei termini processuali ha reso di fatto impossibile assumere in tempo utile decisioni collegiali, sia pure di natura cautelare, residuando la sola misura monocratica». «A dimostrazione dell’eccezionalità dell’anno trascorso – sottolinea- evidenzio che i decreti cautelari monocratici emessi hanno visto un incremento di quasi il 15% rispetto al 2019 (2.489), avendo costituito, in base alla normativa emergenziale, l’unico strumento di tutela interinale immediata nei mesi di marzo e aprile. Per quanto concerne gli esiti dei giudizi, mi limito a sottolineare la sostanziale equivalenza percentuale delle pronunce di accoglimento, rigetto e definizione in rito dei gravami presentati. Il tempo medio di definizione dei ricorsi – prosegue – si è attestato su poco più di3 anni (1.117 giorni), una variazione di circa 6 mesi in più rispetto al 2019, dovuta al rallentamento dell’attività decisionale imposto dall’emergenza sanitaria». «Il rallentamento dell’attività amministrativa ordinaria del Paese, pur facendo emergere una nuova tipologia di contenzioso – quello dell’emergenza -, ha determinato una riduzione di circa il 28% dei ricorsi depositati nei settori connumeri tradizionalmente più elevati di impugnative (per tutti, quello in materia di istruzione, che comunque resta anche nel 2020quantitativamente il più rilevante)», ha precisato. «Ciò nonostante, il Tar del Lazio è stato destinatario di oltre il 27% del totale nazionale delle impugnative di primo grado – aggiunge -Significativamente, due delle sezioni interne (I ter e III-bis) hanno ricevuto, da sole, nel 2020, più ricorsi di quelli pervenuti nella maggior parte degli altri Tar – Ulteriore considerazione – sottolinea- forse ancor più rilevante, è che, in un’ipotetica graduatoria di tutte le sedi in ordine al numero dei ricorsi depositati, le tre sezioni esterne del Tribunale si collocherebbero al secondo, terzo e quarto posto». «Il dato sull’impugnazione delle sentenze del Tribunale, necessariamente riferito al 2019. Anche quest’anno la percentuale delle pronunce divenute definitive, sia perché non appellate, sia perché confermate in secondo grado, è molto significativa, risultando pari al 93,11% del totale». «Non posso non rilevare l’esistenza di ulteriori fattori che alimentano, mi sentirei di dire in maniera distorta, il contenzioso. Innanzi tutto, l’inefficienza, talvolta spinta fino all’inattività, della Pubblica amministrazione, che preferisce demandare al giudice decisioni che pure istituzionalmente le competono», ha sottolineato Antonino Savo Amodio, secondo il quale è «emblematica in tal senso è la definizione del fenomeno “paura della firma” coniata dalla dottrina e riferita ai funzionari pubblici che sono chiamati ad assumere le decisioni amministrative e che si astengono dal farlo». Altro elemento che incide sul volume del contenzioso «è certamente – ha aggiunto – l’eccessiva domanda di giustizia, originata, oltre che dall’inefficienza anzidetta, dall’inesistenza di opportuni strumenti deflattivi». Da ultimo, «ma non in ordine di importanza – ha concluso Savo Amodio – assume rilievo l’assenza di un effettivo coordinamento e di un dialogo fra la pluralità di centri decisionali, chiamati, in uno stesso procedimento, a tutelare ciascuno uno specifico interesse pubblico; i tentativi del legislatore di fornire una soluzione a tale problema, per tutti, i rimaneggiamenti introdotti, anche dalla più recente legislazione, alla disciplina delle varie tipologie di conferenza di servizi, non hanno finora prodotto effetti significativi».
Diodato Pirone per "Il Messaggero" il 20 febbraio 2021. Il caso ha subito gettato sul cammino del neopremier Mario Draghi una delle mine più insidiose disposte sul campo di battaglia italiano: l'inefficienza della pubblica amministrazione. E Draghi ha voluto cogliere l'inaugurazione dell'anno giudiziario della Corte dei Conti per lanciare - senza frase roboanti, com' è nel suo stile - un primo segnale chiarissimo: nello Stato occorre far finire lo sciopero delle firme, ovvero la ritrosia dei dirigenti pubblici a firmare l'avvio di un progetto di spesa per evitare guai con la Corte dei Conti o con le Procure per via di un reato generico come l'abuso d'ufficio.
L'ORIZZONTE. Draghi ha in sostanza delineato un salto di qualità nella pubblica amministrazione basato su due principi pragmatici. Primo: la collaborazione e non la guerra fra le amministrazioni, comprese quelle chiamate a vigilare sui vigilati. «È necessario - ha detto Draghi - trovare un punto di equilibrio tra fiducia e responsabilità. Occorre, infatti, evitare gli effetti paralizzanti della fuga dalla firma, ma anche regimi di irresponsabilità a fronte degli illeciti più gravi per l'erario». Secondo: la necessità strategica dell'amministrazione pubblica italiana di rimettersi in moto per spendere, e spendere bene, i 200 miliardi europei del Recovery Fund. «Non possiamo fallire - ha detto Draghi - Non solo perché è la crescita e non il tasso di interesse che può sostenere il nostro debito. In realtà andiamo verso un bilancio europeo. Questo significa che cittadini di alcuni Paesi europei accettano di farsi tassare per trasferire risorse agli europei più fragili». Di qui l'urgenza di un salto di qualità della pubblica amministrazione. Come? Innanzitutto riconoscendo che sui dirigenti delle amministrazioni sono state scaricate troppe responsabilità in modo confuso anche se il Decreto Semplificazioni della scorsa estate - ha riconosciuto Draghi - qualche passo in avanti già lo ha fatto. Inevitabilmente il neopremier non è sceso nei dettagli ma l'intervento alla Corte dei Conti sembra prefigurare a breve misure di riordino forse anche sul reato di abuso d'ufficio che nella sua genericità spesso finisce per fermare anche progetti strategici. Sarebbe sbagliato però pensare che l'intervento di Draghi sia stato superficiale o solo enunciativo. Il neopremier ha indicato in modo chiaro un metodo ai giudici della Corte dei Conti ovvero la strada della collaborazione e della consulenza con gli amministratori. «Bisogna - ha detto Draghi - dare maggiore impulso ai processi che, pur nell'ambito dell'indipendenza che la Corte deve preservare nelle sue tradizionali funzioni di controllo e giurisdizionali, valorizzino il suo ruolo di supporto consulenziale rispetto alle Amministrazioni». Sulla complessità delle norme e delle procedure si è soffermato il Presidente della Corte dei Conti, Guido Carlino, sollecitando «la necessità di un rinnovato impegno nella semplificazione della normativa e nello snellimento delle procedure in quanto lazione di contrasto ai fenomeni di dispersione delle risorse pubbliche si confronta con un sistema che spesso determina aggravi per il cittadino e deficit di trasparenza». Le indicazioni di Draghi sono state apprezzate anche da Giuseppe Busia, presidente dell'Autorità Anticorruzione. «La vigilanza collaborativa che il presidente Draghi ha citato, è davvero un approccio nuovo che vogliamo dare all'attività dell'Anac, affiancarci alle pubbliche amministrazioni, aiutarle a usare bene i soldi, farlo con rapidità cercando di garantire, semplificazione e rispetto della legalità». In serata, anche in relazione all'apertura di un fascicolo della Procura di Torino sugli amministratori piemontesi degli ultimi anni sospettati di non aver preso misure sufficienti contro lo smog, è intervenuto il segretario del Pd Nicola Zingaretti: «Vanno colpiti i reali responsabili dell'inquinamento - ha detto Zingaretti - Ma è altrettanto evidente che anche gli amministratori devono poter governare. Senza paure. E' tempo di occuparsene con responsabilità e misura».
Sergio Rizzo per “la Repubblica” il 12 febbraio 2021. Si potrebbe cominciare da un atto elementare: obbligare lo Stato a osservare la legge. Per esempio una del 1990, ribadita poi nel 2000, che vieta agli uffici pubblici di richiedere ai cittadini e alle imprese documenti già in suo possesso. Sarebbe sufficiente applicarla alla lettera per scatenare una rivoluzione virtuosa nella burocrazia. Perché le amministrazioni sarebbero costrette a far dialogare fra loro le rispettive banche dati, che invece causa gelosie restano recinti sigillati. Ecco la prima vera semplificazione, invece dei pomposi disegni di legge con cui ogni governo regolarmente inonda il Parlamento, e altrettanto regolarmente senza alcun risultato. Perché non si può che partire da qualche iniezione di buonsenso nella pubblica amministrazione, se si vuole "tornare alla crescita". Sono le tre parole con le quali Mario Draghi debuttò alla Banca d'Italia nel 2006 e concluse nel 2011 le sue ultima Considerazioni finali da governatore. Un paio di mesi dopo avrebbe firmato insieme a Jean-Claude Trichet, il capo della Bce allora in carica, la famosa lettera nella quale si chiedevano al governo italiano di Silvio Berlusconi riforme urgenti. Finiva così: «Incoraggiamo il governo a prendere immediatamente misure per garantire una revisione dell'amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l'efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze delle imprese». Basta questo per intuire la direzione che potrà prendere l'eventuale governo Draghi se vorrà essere coerente con il proposito di "tornare alla crescita". La stessa, del resto, indicata al momento di arrivare alla Banca d'Italia. Senza troppi peli sulla lingua: «Il sistema giuridico e amministrativo influenza significativamente i costi e la competitività delle imprese. In Italia esso è stato a lungo indifferente alle ragioni del mercato. In una graduatoria della Banca mondiale relativa alle procedure burocratiche e amministrative connesse con l'attività d'impresa, l'Italia occupa la settantesima posizione, penultima fra i Paesi dell'Ocse». A quindici anni di distanza, nella classifica Doing business della Banca Mondiale l'Italia non occupa più il posto numero 70, come denunciò Draghi nelle sue prime Considerazioni finali, bensì il 58. Su 190 economie. Lontanissima comunque dagli altri Paesi europei, perfino dietro Kenya e Kosovo. E lo scenario continua a essere avvilente. Nel capo delle pratiche edilizie siamo alla casella 97. Non va meglio per l'avvio di un'attività imprenditoriale: 98. Né per ottenere crediti bancari: 119. Per non parlare delle difficoltà di una controversia legale in materia contrattuale: 122. Ma il massimo si raggiunge con la burocrazia fiscale. Per onorare i propri obblighi con il fisco un'impresa impiega mediamente 238 ore l'anno: 10 giorni senza mangiare né dormire oppure un mese intero calcolando 8 ore al giorno. Numeri che valgono nel 2020 la posizione numero 128, contro la 118 del 2019 e la 112 del 2018. Senza poi considerare che il prelievo supera il 59 per cento dei profitti. Ma è ancora niente rispetto al costo della burocrazia, che è stato calcolato in 30 miliardi l'anno per tutto il sistema delle imprese italiane. Va da sé che alcuni settori sono più colpiti di altri. Quello delle costruzioni è in una situazione delirante. Basta dire che per bandire una gara d'appalto un Comune deve completare una quarantina di procedure e l'impresa che vuole partecipare è costretta a produrre il triplo dei documenti richiesti in qualsiasi altro Paese europeo. Ogni Comune continua ad avere regole diverse dal comune accanto e la quantità di leggi regionali che impattano sull'attività edilizia si misura in diverse migliaia. Per frenare la deriva burocratica nulla hanno potuto i 41 ministri che dal 1950 si sono alternati alla guida di un ministero capace di cambiare soltanto il proprio nome una dozzina di volte in 71 anni. Senza che sia stato riformato o semplificato alcunché. La produzione legislativa è asfissiante: la banca dati del Poligrafico dello Stato censisce oltre 200 mila provvedimenti attualmente vigenti, a cui bisogna sommare circa 50 mila leggi regionali. Una paurosa mole di norme spesso contraddittorie, che nessuno è mai riuscito a sfoltire, e crea spaventosi ingorghi interpretativi a scapito della certezza del diritto. Le ragioni sono infinite, e immense sono le responsabilità della politica. Cambiare marcia certo si poteva, e senza impelagarsi nelle ipotesi di grandi riforme solo per strappare inutili applausi. Si poteva investire nelle tecnologie e nella formazione, sottoporre i servizi pubblici al giudizio vincolante dei cittadini, favorire il turnover, premiare più il merito che l'anzianità. Tutte cose che però sarebbero costate non poco in termini di consenso. Fortuna adesso vuole che di quel genere di consenso uno come Draghi non ne abbia davvero bisogno.
· Il Diritto alla Casa.
IL DIRITTO DI ABITARE. Un’emergenza chiamata casa: il disastro delle politiche abitative in Italia. Pochi fondi, sussidi a intermittenza, liste di attesa infinite e gente costretta ad occupare tagliata fuori dagli alloggi. Una famiglia su cinque ora non ce la fa. Gloria Riva su L'Espresso il 16 febbraio 2021. L’anziano inquilino dell’appartamento al quarto piano era passato a miglior vita già in primavera. Viveva solo, non aveva figli e giunti all’autunno nessuno si era fatto avanti per reclamare l’eredità di quella casa sulla Tiburtina. Nel frattempo la vita di Marisa e dei suoi due figli scivolava velocemente verso la sopravvivenza: ha vissuto fino al 2015 in un centro per l’assistenza alloggiativa temporanea, ovvero un residence comunale - un ghetto, come lo chiamano gli assistenti sociali -, poi il centro è stato chiuso e per qualche mese ha dormito in auto, finché non le è stato riconosciuto il buono casa. Nell’aprile 2020 le è stata tolta anche questa agevolazione e Marisa, a 42 anni, si è trovata nuovamente per strada. È fra le lacrime che a dicembre ha forzato la serratura di quell’appartamento al quarto piano: «Un minuto dopo ho chiamato la Polizia Locale per autodenunciarmi. Nonostante le difficoltà, ho sempre agito secondo le leggi e non vado fiera di quel gesto, dettato dalla disperazione». Leggi a singhiozzo, fatte di bandi privi di continuità e piani casa a termine, privi di una programmazione a lunga gittata che possa aiutare chi è davvero in difficoltà. Marisa, occupando quell’alloggio, ha inoltre violato l’articolo cinque del decreto legge Renzi-Lupi del 2014 sul Piano Casa, secondo il quale chi occupa abusivamente un immobile non può chiedere la residenza né l’allacciamento a pubblici servizi e «perde moltissimi diritti. In questo caso, questa mamma ha dovuto dire addio al suo posto in graduatoria per l’assegnazione di una casa popolare, che aspetta da dieci anni. E le è stato revocato persino il diritto al medico di base. Quella norma è assurda», spiega Francesca Danese, epidemiologa sociale, ex assessore ai Servizi Sociali del Comune di Roma ai tempi della giunta di Ignazio Marino, che prosegue: «La storia di Marisa, che stiamo cercando di aiutare, non è un caso isolato. Nelle città metropolitane l’emergenza casa sta diventando un problema serio e, solo a Roma, ci sono 200mila persone in difficoltà, 13.544 famiglie in graduatoria per un alloggio pubblico, 10 mila persone (ovvero mille famiglie) che hanno occupato abusivamente un’abitazione. Ogni giorno gli agenti sfrattano almeno dieci famiglie, mentre le domande per il bonus affitto (da 245 euro), istituito per l’emergenza Covid, sono già oltre 50 mila, ma solo 9.700 richieste sono state accolte». Il disagio abitativo non è un fenomeno che interessa solo la Capitale, al contrario, come racconta Danese: «Il problema è gravissimo e consolidato nelle città metropolitane, e nonostante il nostro sia un paese in cui la maggior parte delle famiglie possiede una casa, per la prima volta in assoluto il disagio abitativo si sta estendendo anche alle città di provincia. È colpa dell’impoverimento provocato dal Covid. Inoltre, nonostante il blocco dell’esecuzione degli sfratti per morosità, molti di coloro che avevano un affitto irregolare hanno perso la casa». Proprio il blocco degli sfratti sarà uno dei temi che il prossimo governo a guida Mario Draghi dovrà affrontare: nel decreto Milleproroghe c’è un’estensione di questa norma almeno fino alla fine di giugno, ma molte forze politiche vorrebbero almeno ridimensionarla, come Pd, Leu e M5S, mentre Italia Viva vorrebbe eliminarla. Le associazioni a tutela degli inquilini hanno chiesto «un confronto con le istituzioni per individuare strumenti per soluzioni alloggiative alternative e misure di sostegno a favore degli inquilini e dei proprietari che consentano di governare sui territori le procedure di sfratto in forte crescita e scongiurare un pericoloso aumento del conflitto sociale», scrivono ai gruppi parlamentari Sunia, Sicet, Uniat e Unione Inquilini. In base all’ultima indagine di Federcasa e Nomisma, a causa della pandemia e dei conseguenti divieti una famiglia su quattro ha difficoltà a pagare l’affitto e il 40 per centro prevede di non riuscire a pagarlo nel prossimo anno. A soffrire sono anche le famiglie con un mutuo, le quali hanno generato un ammontare di crediti deteriorati in pancia alle banche di 15,6 miliardi di euro: sono 100mila le famiglie che rischiano di diventare inadempienti e 160mila quelle con la casa pignorata. Complessivamente l’emergenza abitativa riguarda 1,8 milioni di famiglie, cioè una ogni cinque. Quelle che vivono in una residenza pubblica sono 900mila, mentre quelle in graduatoria – e quindi in attesa - sono 350mila: «Le altre 550mila non presentano la domanda per un alloggio pubblico perché sono disilluse, sanno che non riusciranno mai ad ottenerla, nonostante ne abbiano diritto», spiega Luca Talluri, presidente di Federcasa, associazione degli istituti per le case popolari. È invece Caritas ad accedere un faro sull’emergenza casa giovanile, evidenziando come quattro milioni di under 40 vivono ancora con i genitori perché non in grado di far fronte all’acquisto o all’affitto di una casa e il 65 per cento dei giovani che una casa la possiede deve dire grazie a mamma e papà che hanno contribuito alle rate del mutuo, un altro 20 per cento vive un’abitazione ereditata. Eppure la casa continua a non essere una priorità per la politica italiana. Come racconta Carlo Cellamare, docente di Urbanistica a La Sapienza: «L’unico grande piano casa è quello della Legge Fanfani del 1949 che ha istituito il fondo Gescal. Quella stagione si è esaurita nel 1978 con l’ultimo piano decennale. Successivamente, con i governi Berlusconi, la politica dell’abitazione pubblica è stata sostituita da quella del social housing, dei consorzi e delle cooperative private che offrivano abitazioni a un prezzo accessibile, lasciando però intatto il problema dell’emergenza abitativa per i più fragili, che quelle abitazioni non potevano permettersele. Servirebbe un approccio integrato, una politica complessiva a favore della rigenerazione urbana di recupero degli edifici pubblici e privati, serve una politica complessiva che rimetta al centro il tema dell’abitare». L’introduzione del social housing avvenuta negli anni Duemila, e quindi l’idea che ci fosse un’impresa privata a occuparsi dell’emergenza abitativa, ha provocato una distorsione del problema. Si è dato grande rilievo ai 15 mila alloggi creati dal sistema privato, «che sono una goccia rispetto alla domanda di 350mila famiglie in lista d’attesa», commenta Talluri. Con il Recovery Fund ci sarebbe l’opportunità di tornare a parlare di un piano casa ma, al netto della crisi politica che allunga i tempi di qualsiasi iniziativa di programmazione, «nel Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, non esiste un vero interesse. Si punta molto sulle riqualificazioni con il Bonus 110 per cento, che ha indubbiamente il merito di abbattere i consumi energetici delle abitazioni, ma è studiato per famiglie che hanno competenze, capacità e denaro da anticipare e che, quindi, non si trovano in una situazione di disagio abitativo», spiega Cellamare, evidenziando come il bonus rischia di accentuare i fenomeni di disuguaglianza nel paese. L’Italia, del resto, è fanalino di coda in Europa per politiche dedicate alla casa. Basti pensare che in base all’Osservatorio Housing Europe solo il quattro per cento delle abitazioni italiane è di tipo popolare, contro il 15 per cento della Francia, il 24 dell’Austria, il 30 per cento dell’Olanda: «Le politiche abitative europee possono essere divise in quattro gruppi», spiega Cellamare. «Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito sono caratterizzati da un notevole intervento statale e i loro governi spendono oltre il tre per cento del Pil in questo settore; in Austria, Danimarca, Francia e Germania la spesa pubblica per l’edilizia abitativa è fra l’uno e il tre per cento del Pil; Irlanda, Italia, Belgio, Finlandia e Lussemburgo formano un gruppo disparato, ma presentano tutti un numero di alloggi a canone sociale ridotto e una spesa governativa per l’edilizia abitativa inferiore all’uno per cento del Pil; infine Portogallo, Spagna e Grecia dove gli alloggi a canone sociale sono di modesta qualità e e la spesa governativa è minima». Fra i motivi dello sbando italiano nel settore della casa pubblica c’è l’incapacità dell’amministrazione pubblica di gestire le graduatorie e l’edilizia popolare: «A Roma i funzionari che se ne occupano sono solo 40», dice Francesca Danese, che continua: «In generale c’è scarsa formazione, poco personale (complice il blocco delle assunzioni) e anche per questo si generano liste d’attesa inquietanti, al punto che alcune famiglie aspettano un alloggio da oltre 15 anni. Da qui la tentazione di centinaia di persone senza casa di occupare stabili abbandonati. Bisogna ripartire da un piano nazionale di rigenerazione urbana che tenga conto delle mutate esigenze delle famiglie e della demografia. Ad esempio la volumetria delle abitazioni popolari è stabilita in base a un concetto di nucleo famigliare sorpassato, tipico degli anni Sessanta, quando le famiglie erano composte da quattro o cinque persone, mentre oggi ci sono molte persone sole, coppie senza figli, genitori single e, senza una revisione di questi parametri, queste persone difficilmente si vedranno assegnare un’abitazione pubblica, che invece viene data a famiglie migranti, perché più numerose. L’effetto è ovviamente quello di creare tensioni sociali». Un ripensamento che, come viene proposto da Sabina De Luca del Forum Disuguaglianze e Diversità nel riquadro in queste pagine, deve interessare non solo le politiche abitative, ma anche quelle sociali. Perché spesso la mano destra, ovvero l’ufficio urbanistica, non sa cosa fa la mano sinistra, ovvero i servizi sociali, e diventa difficile persino capire quante persone in lista d’attesa percepiscono il reddito di cittadinanza o altri sussidi. Il presidente di Federcasa Talluri invita a fare presto e sfruttare le risorse che verranno dal Recovery Fund, dal momento che la crisi provocata dalla pandemia del Covid-19 sta portando a un aumento della domanda di abitazioni a basso costo: «Serve una strategia nazionale di rigenerazione urbana per aumentare il numero di abitazioni popolari senza un ulteriore consumo di suolo, riqualificando le case già esistenti - demolendole e ricostruendole con un aumento volumetrico -, e sfruttando i palazzi pubblici dismessi, come le Caserme e gli uffici pubblici, per farne nuovi alloggi. Il Recovery Plan e i fondi della Banca Europea degli Investimenti, Bei, consentirebbero un effetto leva per finanziare questa rigenerazione senza pesare totalmente sulle casse dello Stato».
· Le Opere Bloccate.
Intervista di Antonio Giangrande alla radio tedesca ARD. Salerno Reggio Calabria: Eterna Incompiuta.
«Attenzione, spesso si cade nei luoghi comuni. La Mafia e la Corruzione sono icone che dove non ci sono si inventano per propaganda politica o per coprire i propri fallimenti. Spesso dietro quel fenomeno si nasconde l’inefficienza tutta italiana. Il problema è che ci sono persone sbagliate (incapaci più che disoneste) a ricoprire ruoli di responsabilità. Si pensi che addirittura Antonio Di Pietro (il PM di Mani Pulite) ha avuto responsabilità nel dicastero di competenza. I politici dicono cosa fare, ma sono i burocrati che decidono come fare (in virtù delle leggi, come la Bassanini, che hanno dato potere ai dirigenti pubblici). Le leggi artificiose create dagli incapaci politici, perché non hanno fiducia dei loro cittadini, crea caos e nel caos tutto succede. Basterebbe rendere tutto più semplice e quel semplice controllarlo.
Un procedimento pur se corrotto dovrebbe comunque avere una soluzione. La Salerno-Reggio Calabria, a prescindere da mafia o corruzione in itinere, comunque non ha soluzione di continuità: ergo, vi è incapacità, più che disonestà.
E’ come quel luogo comune sugli italiani: si dà l’appuntamento per le otto circa e, se va bene, ci si incontra a mezzogiorno.
Se i politici sono nominati con elezioni truccate, questi non rispondono ai cittadini delle loro malefatte. Se i politici nominati raccomandano i funzionari pubblici con concorsi truccati (compreso i magistrati), questi non rispondono ai cittadini delle loro malefatte. I dirigenti nominati con concorsi truccati non hanno remore a truccare gli appalti. Alla fine, però, i lavori dovrebbero concludersi. Invece tutti se ne fottono del risultato finale, avendo per sé soddisfatto i propri bisogni. A questo punto sono tutti responsabili del fallimento: i politici, i funzionari pubblici (compreso i magistrati per omissione di controllo) e gli imprenditori che delinquono; i giornalisti che tacciono ed i cittadini che emulano.
La mia proposta come presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” attraverso il suo braccio politico “Azione Liberale” è che ogni procedimento amministrativo pubblico ha un suo responsabile che ne risponde direttamente, attraverso la perdita del posto, della buona riuscita per sé e per i suoi sottoposti da lui nominati.
Però, purtroppo, un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”».
Ancora vostro Antonio Giangrande
L’alta velocità tra Salerno e Reggio Calabria costerà miliardi e non sappiamo quando (e se) sarà completata. La linea ferroviaria tra la Campania e lo Stretto avrà tempi lunghi e finanziamenti incerti. Ma molti mettono in dubbio l’utilità stessa del progetto e propongono soluzioni alternative e più rapide. Gloria Riva su L'Espresso il 10 novembre 2021. La chiamavano l’Eterna Incompiuta, l’autostrada che va da Salerno a Reggio Calabria: un coacervo di cantieri aperti e cavalcavia perennemente in costruzione. Poi, nel 2016 l’autostrada s’è compiuta forzosamente, nel senso che il Governo - all’epoca il premier era Matteo Renzi - decise di chiudere il rubinetto dei finanziamenti e lasciare la strada così com’era, sorvolando persino sulla riqualificazione delle tratte più pericolose. Ora, quell’appellativo, l’Eterna Incompiuta, rischia di tornare d’attualità e di essere appioppato alla futura tratta ferroviaria dell’Alta Velocità che collegherà Salerno a Reggio Calabria in quattro ore e quindici minuti per 445 chilometri di lunghezza e un costo complessivo che, ad essere ottimisti, sarà di 22,8 miliardi di euro. Le tempistiche? I primi due lotti dovrebbero essere ultimati entro nove anni, il resto nessuno lo sa. A lanciare l’allarme sono ambientalisti, economisti, docenti di ingegneria dei trasporti e amministratori locali all’indomani del confronto pubblico “I grandi investimenti in Italia. Il caso del collegamento ferroviario Salerno-Reggio Calabria”, organizzato dal Forum Disuguaglianze e Diversità. Dagli interventi del ministro dei Trasporti, Enrico Giovannini, del coordinatore della struttura tecnica del ministero, Giuseppe Catalano e di Vera Fiorani, amministratore delegato di Rfi, Rete ferroviaria italiana, si è appreso che i 12 miliardi stanziati per la linea calabrese serviranno a coprire due dei sette lotti complessivi. Ma per completare l’opera serviranno almeno 22,8 miliardi. «È un bene che il governo abbia deciso di rompere l’isolamento della Calabria, la regione più in difficoltà d’Italia. Ma siamo certi che quella ferrovia è un investimento opportuno, dato il suo costo? Inoltre, non ci sono dati, ma è lecito supporre che potrebbe completarsi non prima della fine degli anni Trenta: è consigliabile investirli così, visti e considerati i tempi assai lunghi e l’immediata urgenza di aiutare questo territorio?», si domanda Gianfranco Viesti, economista dell’Università di Bari. Domande a cui il governo risponderà nei primi mesi del prossimo anno, visto che Vera Fiorani di Rfi assicura che a gennaio sarà ultimato lo studio di fattibilità dei primi due lotti, a cui seguirà il dibattito pubblico. In realtà l’opera è già stata definita: «Sembrerebbe che le decisioni siano già state prese, anche se il progetto completo non è ancora pronto e le alternative di tracciato non sono pubblicamente disponibili. Manca una vera disanima delle alternative progettuali, compreso il tipo di linea, la stima della domanda e un’analisi dei costi e dei benefici», commenta il professor Paolo Beria, docente di Economia dei Trasporti e direttore del Laboratorio di politica dei Trasporti al Politecnico di Milano. Il governo Draghi prevede di investire fortemente sul potenziamento delle linee ferroviarie di lunga percorrenza, mentre dall’elenco delle opere sono pressoché assenti le reti metropolitane - si prevede di realizzarne solo 11 chilometri -, che sarebbero utili a decongestionare le città. Questo perché sull’onda della fretta per la presentazione del Pnrr, sono stati approvati i progetti già avviati e sui quali era possibile investire più velocemente: «L’assenza di Roma, con tutti i problemi viabilistici che ha, è emblematica. Da anni alla capitale sembra mancare capacità progettuale e, non avendo alcun grande progetto nel cassetto, nulla è stato destinato per migliorare la viabilità fra centro e periferia», spiega Beria. Le opere in programma non sono state totalmente finanziate, infatti nell’allegato al Def, il Documento di economia e finanza, da poco pubblicato dalla Ragioneria di Stato, c’è scritto che per le ferrovie italiane saranno investiti 156,7 miliardi, di cui 24,7 finanziati dall’Europa attraverso il Piano di Ripresa e Resilienza e altri 69,1 messi dallo Stato. All’appello mancano oltre 62,8 miliardi, che i futuri governi dovranno reperire, sperando che la ripresa economica sarà tale da consentire al paese da avere sufficiente fieno in cascina per ultimare quelle opere e, contemporaneamente, iniziare a rimborsare il capitale prestato dall’Europa per il Next Generation Eu. Che poi, quei 62 miliardi e più non basteranno neppure, prova ne è il fatto che, fra le note a piè di pagina del Def, si scopre che dal conto complessivo mancano i 12 miliardi extra (sui 22,8 totali) per completare proprio la linea ferroviaria Salerno-Reggio Calabria. Il rischio di non ultimare il grande piano di modernizzazione ferroviaria esiste, eccome. Ma indietro non si torna, perché il governo ha deciso di puntare moltissimo sulle ferrovie all’interno dei piani finanziabili con il Recovery Plan dell’Unione Europea. Tuttavia, secondo il professor Beria del Politecnico di Milano, «la stragrande maggioranza dei progetti non è sostenibile dal punto di vista delle analisi costi-benefici. Ci sono casi di over design, ovvero infrastrutture con performance eccessive rispetto alle necessità, ad esempio in termini di capacità, e spesso anche con un impatto ambientale dubbio. Penso al potenziamento della Roma-Pescara, che prevede gallerie e varianti per un totale di quasi quattro miliardi, mentre con interventi mirati sarebbe possibile potenziare l’attuale linea e ottenere importanti risparmi di tempo, ma dimezzando i costi. Tanto più che mancano tre miliardi di finanziamento. Lo stesso vale per il raddoppio della Orte-Falconara, che costa oltre quattro miliardi, ma solo 1,2 miliardi sono attualmente finanziati. Mancano anche due miliardi per concludere la Torino-Milano-Genova». A Sud, l’opera principale è la Salerno Reggio Calabria: la scelta di estendere l’alta velocità al Centro Sud è dettata dalla necessità di offrire a questi territori le stesse opportunità di cui ha goduto il Nord, grazie allo sviluppo della ferrovia veloce. «Ma si sta da un lato progettando una linea con costi, pendenze e capacità eccessive rispetto al resto della rete ad Alta Velocità del Nord, e dall’altro si rischia di avere una linea che per decenni terminerà a Tarsia, con effetti assai limitati», commenta Francesco Russo, docente di Ingegneria dei Trasporti all’Università Mediterranea di Reggio Calabria, che continua: «Si rischia di commettere nuovamente gli stessi errori del passato». Perché Rfi prevede di realizzare treni veloci capaci di portare non solo passeggeri ma anche merci pesanti. Questo comporta un raddoppio dei costi di costruzione, grandi gallerie, ponti, viadotti pesanti e curve ad ampio raggio: «Il costo dell’alta velocità in Italia è doppio rispetto a Francia e Spagna perché Rfi ha deciso di costruire linee in grado di far passare anche i treni merci, che pesano oltre mille tonnellate, anche se sull’alta velocità non passa neppure un convoglio di questo tipo. Abbiamo sprecato un sacco di soldi e ci domandiamo perché ora dovremmo sprecarne altri, tanto più che il potenziamento della linea tra Sibari, Metaponto, Taranto e Bari per far viaggiare le merci sulla linea ionica e poi su quella adriatica ci è costato un mucchio di soldi e funziona benissimo», dice Russo, portavoce di un gruppo di otto docenti siciliani e calabresi che a marzo dello scorso anno hanno inviato un documento di proposte alternative per le infrastrutture del Sud, nel quale si offrivano suggerimenti per evitare di sperperare il denaro destinato ai trasporti. I docenti consigliano di puntare sull’alta velocità fino a Reggio Calabria usando però una tecnologia più leggera e passando dalla costa, così da dimezzare i costi. Le risorse liberate potrebbero servire per modernizzare i porti di Augusta e Gioia Tauro, per creare le smart road e puntare sull’alta velocità fra Catania e Palermo, dove oggi si viaggia a non più di cento all’ora. Edoardo Zanchini, vice presidente di Legambiente, si fa portavoce di molti amministratori locali, «che ci scrivono chiedendo di non essere tagliati fuori dalla futura linea ferroviaria, specialmente nell’area del parco del Cilento. Questo perché l’alta velocità, così com’è strutturata, collega le grandi città, ma trascura i piccoli centri. Prima di disegnare la nuova linea, sarebbe utile parlare con i territori e le comunità locali per capire di cosa hanno bisogno e quale futuro immaginano per la Calabria. Ecco perché il dibattito pubblico è urgente. Serve un’analisi approfondita da parte di Rfi e possibili alternative a costi più bassi e in tempi minori». Tuttavia, proprio Rfi ha già fatto uno studio delle alternative che però risale al 2005. E all’orizzonte non sembra esserci alcuna intenzione di avviare nuove analisi sul tema. In realtà in Calabria un progetto per un’alta velocità più snella ci sarebbe già: era presente nel Documento di economia e finanza dello scorso anno e prevedeva di potenziare l’attuale tratta che avrebbe collegato Salerno a Reggio in quattro ore e un quarto, senza costruire 160 chilometri di gallerie, concludendo l’opera in pochi anni e spendendo circa otto miliardi, anziché 22,8. Ma l’ad di Rfi, Vera Fiorani, fa notare che lavorare su una linea in attività è molto più complicato e crea enormi disagi di viabilità per parecchi anni rispetto alla creazione di una nuova linea. «Sicuramente l’offerta sulla linea Tirrenica Sud è limitata e inadeguata. Pre-Covid c’erano in totale dieci treni fra Roma e Reggio Calabria, il più veloce dei quali impiegava quattro ore e 51 minuti. I collegamenti per Napoli sono anche meno, per Taranto ci vogliono sette ore e 23 fermate. Ma questa offerta scarsa non dipende dalla linea, che è a doppio binario, quasi tutta viaggia a oltre 180 chilometri orari e lontana dalla saturazione. Per potenziare radicalmente quella linea basterebbe aumentare il servizio e migliorare l’orario», commenta Beria del Politecnico di Milano, che si domanda quale possa essere l’effetto positivo sull’economia calabrese di un progetto che, ad andar bene, sarà ultimato tra quindici anni. «Tanto più che molta della spesa in cemento, gallerie e impianti non andrà ad imprese calabresi», dice il professore del Politecnico, «perché dei miliardi spesi, molto andrà al Nord e all’estero, dove la tecnologia utilizzata viene prodotta».
E ai calabresi? Resterà una mega opera, costata un sacco di quattrini, con molti dubbi sulla reale efficacia della linea a migliorare le condizioni di vita di una popolazione fra le più in difficoltà d’Italia.
50 ANNI DELLA GRANDE OPERA. Cavour e il discorso sul traforo del Fréjus. su Il Corriere della Sera il 17 settembre 2021. È stata la prima galleria ferroviaria ad attraversare una montagna. La prima ad utilizzare la tecnica di scavo della perforatrice automatica pneumatica. Una mostra racconta. - Pubblichiamo di seguito il discorso di Cavour prima del voto per la realizzazione del Fréjus.
«Signori, l’impresa che vi proponiamo, non vale il celarlo, è impresa gigantesca; la sua esecuzione dovrà però riuscire a gloria e vantaggio del Paese. Le grandi imprese non si compiono, le immense difficoltà non si vincono che ad una condizione, ed è che coloro cui è dato di condurre queste opere a buon fine, abbiano una fede viva, assoluta nella loro riuscita. Se questa fede non esiste, non bisogna accingersi a grandi cose né in politica, né in industria. Se fossimo uomini timidi, se ci lasciassimo impaurire dal pensiero delle responsabilità, potremmo adottare il sistema del deputato Moia. Ma non avvezzi a queste mezze misure, non usi a propugnare una politica timida, vacillante e perplessa, vi invitiamo a librare nelle vostre bilance i due soli sistemi razionali: quello dell’esecuzione oppure il rinvio ad altri tempi di questo ardimentoso tentativo. Io mi lusingo, signori, che voi dividerete questa nostra fiducia. Io spero che darete un voto deciso. Se dividerete la nostra credenza, votate risolutamente con noi. Se un dubbio vi tormenta che nelle viscere della montagna che si vuole squarciare si nasconda ogni maniera di difficoltà, di ostacoli, di pericoli, rigettate la legge; ma non ci condannate ad adottare una via di mezzo, che sarebbe in questa contingenza fatalissima. Ho fiducia che voi seguirete sempre una politica franca, risoluta. Se voi ora adottaste la proposta Moia, inaugurereste assolutamente un altro sistema; ed io ne sarei dolentissimo, non solo perché andrebbe perduta questa stupenda opera, ma perché un tal atto sarebbe un fatale augurio per il futuro sistema politico che sarà chiamato a seguire il Parlamento. Noi avevamo la scelta della via; abbiamo preferito quella della risoluzione e dell’arditezza; non possiamo rimanere a metà; è per noi una condizione vitale ineluttabile progredire o perire. Io nutro ferma fiducia che voi coronerete la vostra opera colla più grande di tutte le imprese moderne, deliberando il perforamento del Moncenisio».
UNA NORMA “BLOCCA TAR” DI TRE RIGHE PER IMPEDIRE LA CHIUSURA DEI CANTIERI. In caso di vittoria del ricorrente per gli indennizzi non ricorrono le condizioni per il danno all’erario e quindi la Corte dei Conti non può sollevare indagini. Ercole Incalza su Il Quotidiano del Sud il 31 luglio 2021. Una volta tanto ammettiamo apertamente che stiamo riscoprendo la validità degli strumenti della Legge Obiettivo. Lo so dà fastidio al Movimento 5 Stelle e a tutti coloro che ritenevano “criminogena” la Legge ed il suo contorno amministrativo. Questa mia premessa è motivata da una notizia diffusa ultimamente dal Governo in merito ad una svolta ritenuta davvero rivoluzionaria; in particolare la svolta, sempre a detta del Governo, è contenuta nell’articolo 48 (comma 4) del Decreto Legge Semplificazioni, approvato già dalla Camera dei Deputati. Tre righe che danno la misura del cambio di passo voluto dal Presidente Draghi: i tribunali amministrativi non avranno più il potere di bloccare i cantieri. Tre righe, in un decreto di 67 articoli, per spazzare via il fardello della giustizia amministrativa. In caso di contenziosi amministrativi le opere del Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza (PNRR) e del Programma complementare proseguiranno il loro iter e non subiranno interruzioni. Per gli investimenti previsti dal Recovery, la norma stabilisce che in caso di impugnazione degli atti relativi alle procedure di affidamento, i lavori delle opere andranno avanti, al netto dell’esito del contenzioso. Questa, in fondo, è la garanzia che l’Italia procederà in velocità, senza pregiudicare le legittime tutele per le imprese. Ebbene, se entriamo con maggiore attenzione all’interno della “norma blocca TAR”, varata con tale Decreto Legge, scopriamo che essa richiama l’articolo 125 del processo amministrativo (Decreto Legislativo 104/2010): una procedura, già prevista in casi straordinari, per le opere incluse nel Programma delle Infrastrutture Strategiche previsto dalla Legge Obiettivo e che ora si estende a tutti gli appalti finanziati con i fondi del PNRR e del PNIEC (Il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima 2030). All’impresa, che eventualmente vince il ricorso al TAR contro l’aggiudicazione dei lavori al concorrente, spetta esclusivamente una tutela risarcitoria. Basta sospensione dei lavori. Il cantiere andrà avanti senza perdersi tra ricorsi e carte bollate. Sarà il giudice a stabilire l’ammontare del risarcimento. In tal modo si evita un blocco causato dal folle sistema dei contenziosi; basta leggere i numeri, pubblicati in un’inchiesta di Repubblica, per avere un’idea del macigno dei contenziosi amministrativi: cento settantaquattro ricorsi al giorno, più di mille e duecento a settimana, sessantaquattro mila all’anno. La norma, quindi, si ripropone l’obiettivo di ridurre il potere dei giudici amministrativi. Un potere considerato un deterrente per gli investitori stranieri, spaventati dai ricorsi e dalla lentezza delle decisioni. Ma nascono automaticamente due interrogativi:
Perché il Governo non ha, solo con una circolare, imposto il rispetto dell’articolo 125 del Processo Amministrativo già previsto per le opere incluse nel Programma delle Infrastrutture Strategiche della Legge Obiettivo
Perché prima di formulare la nuova norma il Governo non abbia verificato perché l’articolo 125 non è stato utilizzato in passato
Sarebbe stato sufficiente un approfondimento da parte dei Capi Uffici Legislativi dei vari Ministeri, direttamente e indirettamente interessati, e sarebbe emerso subito che in passato, dopo uno o due primi tentativi, la norma non fu più invocata dalle stazioni appaltanti perché prendeva corpo, e mi sembra che per uno o due casi prese corpo, l’ipotesi del danno all’erario da parte della Corte dei Conti. In quanto, a valle del risultato positivo della impugnativa sollevata da un secondo classificato, quanto riconosciuto come indennizzo si configurava, ripeto, come danno all’erario e, quindi, il responsabile che avallava una simile operazione avrebbe dovuto garantire la copertura di tale indennizzo. Quindi la norma, che ritengo essenziale e sicuramente validissima per velocizzare l’affidamento delle opere, è in grado di ottenere le risorse previste Recovery Fund, deve però chiaramente ribadire che non ricorrono le condizioni per il danno all’erario e che quindi la Corte dei Conti non può sollevare indagini e non può far gravare sulla responsabilità del soggetto aggiudicatore nessuna responsabilità. Ma penso che per cercare di superare dei punti critici che caratterizzano il rapporto tra stazione appaltante e imprese di costruzione, sarebbe opportuno affrontare in modo trasparente una delle cause sistematiche che in passato e ancora oggi mette in crisi l’intero sistema di affidamento delle opere pubbliche, mi riferisco in particolare al tema della “offerta anomala”. Ritengo utile in proposito ricordare la Legge 120/2020 — Conversione in legge, con modificazioni, del Decreto – Legge 16 luglio 2020, n. 76, recante “Misure urgenti per la semplificazione”; all’articolo 1 comma 3, è previsto che “nel caso di aggiudicazione con il criterio del prezzo più basso, le stazioni appaltanti procedono all’esclusione automatica dalla gara delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia, come individuata dall’articolo 97, commi 2, 2 -bis e 2 -ter del Codice, anche qualora il numero delle offerte ammesse sia pari o superiore a cinque”. Tale norma ha lo scopo di evitare i procedimenti di verifica di anomalia delle offerte, abbassando da 10 a 5 il numero minimo di offerte ammesse per l’applicabilità del meccanismo. Ma tale previsione opera automaticamente anche se non prevista nella documentazione di gara? E nel caso di annullamento di un provvedimento di esclusione dalla gara di un’offerta ritenuta anomala cosa accade e quali sono gli obblighi per la stazione appaltante prima di procedere all’aggiudicazione della gara?
A rispondere a questa domanda ci ha pensato il Consiglio di Stato con la sentenza n. 3085 del 14 aprile 2021 pronunciatasi in riferimento ad un ricorso presentato per l’annullamento di una decisione di primo grado dove nell’ambito di una gara l’offerta di un concorrente, a seguito di verifica di congruità, era stata ritenuta anomala e quindi esclusa. Tale esclusione era stata confermata prima dal TAR e poi annullata dal Consiglio di Stato. Nel ricorso al TAR, la seconda classificata. al fine di difendere la sua posizione, ha ripreso ad analizzare la confusa documentazione giustificativa che era stata prodotta dalla concorrente esclusa e poi riammessa, in quanto convinta del fatto che tale annullamento avrebbe imposto alla stazione appaltante un nuovo subprocedimento di verifica di congruità rispetto all’offerta. Secondo il Consiglio di Stato “l’aggiudicazione impugnata non è stata preceduta da una nuova valutazione di congruità, sicché tale profilo si è cristallizzato, e il ricorso tenta di rimettere in discussione la congruità dell’offerta valorizzando sul piano esclusivamente formale la nuova aggiudicazione”. Appare evidente che mentre nel caso dell’esclusione automatica sia necessario includere una norma che eviti l’intervento della Corte dei Conti, nel caso invece relativo alla tematica sollevata dalla “offerta anomala” ritengo sia opportuno chiarire in modo inequivocabile ogni possibile diverso comportamento della stazione appaltante. Queste mie considerazioni sono, senza dubbio, molto tecniche e sicuramente, non essendo io laureato in materie giuridiche, contengono tanti errori soprattutto nella parte espositiva ma ritengo, per la mia pluriennale esperienza diretta ed indiretta nel comparto delle opere pubbliche, che da queste considerazioni si evinca quanto sia difficile liberare questo comparto chiave dell’economia del Paese da vincoli procedurali che, a mio avviso, possono essere superati solo indossando una carica di umiltà ogni volta che tentiamo di liberare l’intero settore da vincoli spesso inesistenti o creati volutamente. Sono sicuro, in tutti i modi, che questi errori, nella comunicazione e nell’approfondimento corretto delle proposte di Legge, errori ommessi dalla squadra del Presidente Draghi, diano molto fastidio al Presidente. La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.
Tobia De Stefano per “Libero quotidiano” il 26 luglio 2021. Se inserite su Google le parole "Il ricorso al Tar sospende i lavori" verrà fuori una serie infinita di opere, alcune piccole e altre di media dimensione, che sono state bloccate per una decisione del Tribunale Amministrativo. Si parte dall'appalto per le nuove sciovie ad Ovindoli, si prosegue con il progetto del molo galleggiante di Mare Morto a Cabras, in Sardegna, e si arriva fino al fermo per l'antenna di Iliad a Teramo, per la ristrutturazione della scuola media di corso Giannone a Caserta e il rifacimento della Salita Canata a Lerici, con tanto di allargamento della carreggiata e costruzione di un parcheggio. Attenzione si tratta di una rassegna stampa minimale che fa riferimento alle ultime settimane, ma se andiamo indietro negli anni ci accorgiamo che la storia del Paese - dalla ricostruzione dell'Aquila post-terremoto all'ammodernamento del porto di Taranto - è stata condizionata dalle sentenze amministrative. Certo i casi sono molto diversi tra loro- oggi il più significativo è probabilmente quello che riguarda il balletto sullo spegnimento del grande forno all'Ilva-, ma il problema resta l'ingerenza dei Tribunali amministrativi in Italia. Un unicum e una discriminante imprevedibile rispetto alla certezza di realizzare una grande opere e ai tempi per posare l'ultima pietra. Lo dicono da anni governi sia di destra che di sinistra e ce lo fanno notare con un certo fastidio gli investitori stranieri che sanno quando un cantiere in Italia apre ma non hanno minimamente idea di quando possa completarsi. Bene. Da questo punto di vista, la norma "blocca Tar" inserita all'ultimo momento nel decreto Semplificazioni rappresenta una vera e propria rivoluzione. Il senso è questo: nel caso di un appalto che porti al ricorso al Tar di un'impresa, la sua eventuale vittoria davanti al tribunale amministrativo non comporta il subentro nel cantiere ma solo a un indennizzo economico. Nella sostanza: i lavori non si bloccano, non si ricomincia tutto dall'inizio. Certo, si tratta di una corsia preferenziale creata ad hoc per le opere relative al Recovery Fund. E anche di una garanzia verso l'Europa per i 209 miliardi del Pnrr. Ma rappresenta comunque una grande svolta almeno nella filosofia del rapporto tra imprenditori e pubblica amministrazione. Il ministro Renato Brunetta, vero sponsor della norma, esulta: «Siamo pieni di soldi, 230-240 miliardi, dovremo gestire centinaia di progetti infrastrutturali nuovi. Ci sarà la banda larga, ci sarà la digitalizzazione di tutti i processi burocratici. E dentro tutto questo la semplificazione sarà il "fast track", vale a dire la velocizzazione... Nel decreto è previsto che in caso di ricorsi al Tar, i lavori delle opere legate al Pnrr proseguiranno senza interruzioni». Certo che prima o poi la discussione si sposterà sulla necessità di allargare la portata del provvedimento. Come evidenziato dal Sole 24 Ore, infatti, la norma trae spunto dall'articolo 125 del codice del processo amministrativo secondo il quale in un appalto per le opere di interesse strategico, i giudici devono pesare l'interesse del ricorrente con quello dell'aggiudicatore «alla sollecita realizzazione dell'opera», mettendo quindi in conto di stabilire un indennizzo per equivalente al posto del subentro, in caso di vittoria dell'impresa impugnante. A questo punto la domanda sorge spontanea: perché possiamo "sterilizzare" il Tar solo per le opere strategiche del Recovery Plan e non abbiamo la stessa opportunità anche per quelle che sono fuori dal grande piano europeo? Nel loro piccolo tutti i cantieri sono strategici.
L’Italia della grande lentezza, il male atavico delle incompiute. L’IMPIETOSO DOSSIER DELLA CORTE DEI CONTI Ancora non si riesce a spendere nei tempi corretti le risorse dell’Europa. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 25 luglio 2021. In vista del Pnrr non c’è molto da sorridere: nell’ambito della programmazione europea 2007-2013, dei 56 “Grandi progetti” approvati, per un valore complessivo di 7,634 miliardi di euro, di cui 5,582 miliardi di risorse europee, al 31 dicembre 2020 solo 34 progetti “risultano ultimati e in uso”, mentre “11 interventi sono in corso di realizzazione” ed “altri 11 (spesso ridimensionati) figurano come progetti ordinari, da realizzare nel corso della programmazione attuale, o sono stati abbandonati”. È quanto certifica la Sezione di controllo per gli affari comunitari ed internazionali della Corte dei Conti nella “Relazione speciale i grandi progetti della programmazione europea 2007-2013”. Il report della magistratura contabile conferma un male atavico italiano: non riuscire a spendere nei tempi corretti le risorse comunitarie. Non certo un buon segnale considerano la pioggia di soldi che, a breve, arriverà dall’Europa e che dovremo spendere rapidamente. Non a caso, la Corte dei Conti ha lanciato il monito: “In prospettiva futura, nel segnalare l’opportunità di porre una maggiore attenzione, a monte degli interventi, all’interlocuzione preventiva con gli attori istituzionali”, c’è la necessità di “una radicale modifica dell’assetto istituzionale per l’impiego dei fondi, in quanto l’attuale struttura di governance risulta troppo dispersa per dare attuazione rapida agli impegni assunti in sede europea”. A distanza di quattro anni dalla data di presentazione delle certificazioni di chiusura del periodo di programmazione 2007-2013 (fissata al 31 marzo 2017), solo i due terzi dei 2Grandi progetti” approvati risultano effettivamente entrati in funzione. Si tratta di opere importanti, tutte di importo superiore ai 50 milioni di euro. L’indagine ha analizzato con schede individuali i 19 “Grandi progetti” completati al 31 marzo 2017, i 10 interventi da completare tra il 31 marzo 2017 e il 31 marzo 2019 (cosiddetti “non funzionanti”) e i 27 progetti la cui esecuzione, rimasta parzialmente inattuata entro la scadenza del ciclo 2007-2013, è stata posta “a cavallo” di due programmazioni. “Accanto ad alcune importanti realizzazioni – si legge nella relazione – si registra la tendenza generalizzata a travalicare i limiti di durata di un ciclo di programmazione, rinviando nel tempo la creazione di valore per i territori interessati. Solo 9 progetti dei 34 funzionanti, hanno, infatti, visto il proprio avvio e completamento entro un unico ciclo di programmazione. Forte è la presenza di progetti retrospettivi (in tutto 15 progetti, di cui 3 non risultano ancora in uso al 31 dicembre 2020), con un peso percentuale del 35,2% sul valore della programmazione. Ad essi si aggiungono alcuni progetti “ereditati” dalla programmazione precedente 2000-2006, che incidono per il 10,7% in termini numerici e per l’1,9% in termini di volume finanziario”. Insomma, ritardi su ritardi, opere che si trascinano nel tempo, addirittura dal 2000. Tra gli obiettivi conseguiti la Corte segnala, ad esempio, “la riduzione dei tempi di percorrenza sulle tratte ferroviarie a lunga distanza e sulle direttrici stradali, il miglioramento della qualità del trasporto locale su ferro; la disponibilità delle infrastrutture in banda larga, lo sviluppo ecosostenibile del territorio”. L’indagine ha permesso di individuare le criticità che hanno rallentato, e in alcuni casi ostacolato, la tempestiva attuazione delle opere: lunghe procedure burocratiche, disomogeneo livello di definizione progettuale, crisi finanziaria delle ditte appaltatrici, contenziosi prolungati. “Problematiche – sostengono i magistrati – che, sotto molti aspetti, sono lo specchio di mali più generali, che affliggono la programmazione e la realizzazione delle opere pubbliche in Italia”. Dei 9 “Grandi progetti” che sono stati avviati e conclusi nei termini, tre sono relativi alla diffusione della banda ultra larga; due sono investimenti industriali; quattro hanno natura infrastrutturale, come la realizzazione di un People Mover tra l’aeroporto e la stazione ferroviaria di Pisa; la ricostruzione della galleria ferroviaria Coreca; ammodernamento della rete ferroviaria Ferrovie del Sud-Est in Puglia; costruzione in lotti funzionali della linea di trazione elettrica Bari-Taranto. I dati del report mostrano “con evidenza la difficoltà di realizzare un’opera infrastrutturale nell’arco temporale di un solo ciclo di programmazione, nonostante il carattere prioritario che le infrastrutture individuate rivestono per lo sviluppo del territorio cui si riferiscono (e potenzialmente dell’intero Paese)”, bacchettano i giudici contabili. Non solo: “E’ stato anche rilevato, “a valle” degli interventi, che la fine lavori spesso non coincide con la fine amministrativa dell’opera. Anche con riferimento ad opere ormai da tempo in funzione, la fase del collaudo non risulta conclusa, e anzi si manifesta spesso lunga e accidentata”. La Corte dei Conti, per superare le criticità, invita ad “una maggiore attenzione all’interlocuzione preventiva con gli attori istituzionali, la cui opposizione risulta in più di un caso aver ostacolato la tempestiva attuazione degli interventi”. I giudici rilevano, tra l’altro, “la necessità di ripensare la struttura di governance. Numerosi sono i soggetti coinvolti nell’attuazione delle politiche di coesione cofinanziate con i fondi Sie” e “occorre interrogarsi sui rispettivi ruoli e sui relativi poteri decisionali e di intervento dei vari soggetti, che rischiano altrimenti di sovrapporsi tra loro o di avere un quadro di competenze poco incisivo”. Ad ogni modo, “appare evidente l’esigenza di una radicale modifica dell’assetto istituzionale per l’impiego dei fondi, l’attuale struttura di governance risultando infatti troppo dispersa per dare attuazione rapida agli impegni assunti in sede europea. Pur rimettendo al livello locale l’espressione delle progettualità di investimento, appare necessario un maggiore coordinamento centrale delle iniziative, sia in termini di programmazione che in termini di realizzazioni”, avverte la Corte dei Conti. L’indagine condotta ha rilevato, in particolare, “la mancanza di un centro di impulso decisionale e attuativo che possa portare un progetto fuori delle secche quando questo si incagli”. Infine, sempre in vista del Pnrr, i giudici fanno notare che l’indagine “ha confermato un problema di carico amministrativo, gravante su strutture locali non dotate di sufficienti competenze tecniche e gestionali, almeno in alcuni contesti territoriali”. Come dire, Comuni e Regioni potrebbero non essere pronte.
Ritardi, errori e costi insostenibili: lo scandalo Pedemontana veneta finisce in Parlamento. È di certo la superstrada più cara d’Europa: 80 milioni al km + Iva. Dopo la denuncia del nostro giornale arriva l'interrogazione della senatrice Vanin. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud il 9 luglio 2021. Il “caso Pedemontana” finisce in Parlamento. Pedaggi alle stelle, costi non più sostenibili, un mix di calcoli errati e di flussi dimezzati. Un flop che rischia di pesare per i prossimi due decenni sulle tasche dei veneti e sui conti della Regione e servirà a stabilire un nuovo primato europeo: 15 miliardi di euro. La superstrada più cara d’Europa. In passato era stato il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D’Inca, a esprimere le sue perplessità per la cifra che in 39 anni la Regione guidata dal presidente Luca Zaia dovrà corrispondere al concessionario, 12 miliardi e 108 milioni, cui si aggiungono i finanziamenti erogati dallo Stato e dall’ente locale. A raccogliere la denuncia, rilanciata dal Quotidiano del Sud, è la senatrice 5Stelle Orietta Vanin che ha presentato un’interrogazione urgente al ministro alle Infrastrutture e alla sostenibilità della mobilità, Enrico Giovannini. L’atto di sindacato ispettivo riassume la gestione travagliata.
LA TELA DI PENELOPE. Progettata come superstrada a pedaggio, finanziata con project financing a prevalente capitale privato e con l’apporto di fondi pubblici della regione Veneto, la Pedemontana Veneta si sta trasformando sempre più in un’idrovora che assorbe risorse. Un cantiere a peso d’oro, una delle infrastrutture più straordinariamente costose: circa 80,14 milioni + Iva al km. Ai costi non corrispondono in alcun modo i benefici: 94,5 km di lunghezza + 68 km di opere complementari, una lunga striscia d’asfalto che, una volta ultimata, sarà data in concessione al privato costruttore per 39 anni. Al netto delle obiezioni degli ambientalisti per l’impatto sul paesaggio, resta l’“effetto Penelope”. «La tela cucina e scucita di un’opera che avrebbe dovuto essere completata entro gennaio 2016, poi slittata a dicembre 2018 e infine a settembre 2020 senza che la Regione Veneto ritenesse di voler incassare le penali per ritardata consegna dell’opera» rileva Enrico Cappelli che, svestiti i panni di senatore 5Stelle, ha lasciato palazzo Madama ed è tornato a occuparsi del suo territorio. Suo l’esposto all’Anac (Autorità nazionale anticorruzione) per stabilire che la metodologia utilizzata per quantificare il canone di disponibilità è inadeguata. Non è infatti ammissibile che slittino i termini di ultimazione lavori senza una corrispondente riduzione del termine di durata della gestione. I ritardi nella consegna dell’opera si riflettono quali mancati introiti della gestione dell’infrastruttura. La Corte dei conti riporta le stesse deduzioni dell’Anac, concordando sul fatto che sarebbe alterata l’allocazione del rischio di costruzione del concessionario.
RIFLETTORI SPENTI. I dubbi sulla Pedemontana si trascinano da anni. Ciò nonostante, l’influenza del doge-governatore tiene spenti i riflettori. Il ministro alle Infrastrutture dovrà rispondere su tutte le questioni più dolenti, elencate una per una. A partire dalla prima, che suona provocatoria, se «sia a conoscenza dei fatti esposti; se sia a conoscenza di altra analoga infrastruttura, in costruzione in Italia, che preveda un esborso pubblico altrettanto straordinariamente elevato». Quindi si chiede se corrisponda al vero che «la Regione Veneto ha ritenuto di non incassare le penali per ritardata consegna dell’opera e se non ritenga che, con l’assunzione da parte della Regione del connesso “rischio di disponibilità”, venga meno un requisito indispensabile per sostenere il progetto di finanza. Infine, se conosca le ragioni che hanno indotto la Regione Veneto a disapplicare la citata delibera Anac nella parte in cui stabilisce che «non è ammissibile lo slittamento del termine di ultimazione dei lavori al 30.9.2020 senza una corrispondente/adeguata riduzione del termine di durata della gestione». La gestione della rete autostradale fa parte ormai del core business della Regione. Non pochi pensano, infatti, che dietro le ambizioni della Cav Spa, la concessionaria per metà della Regione e per l’altra metà dell’Anas che gestisce il Passante di Mestre, vi sia la necessità di finanziare la Pedemontana senza rischiare la bancarotta. Tutto nasce dalle difficoltà per il concessionario privato a far fronte al closing finanziario e dalla decisione di Cdp e Bei di non partecipare al finanziamento. Una scelta dettata da uno studio sulle stime di traffico molto inferiori alle previsioni. Nonostante la stipula del Tac (Terzo atto convenzionale) che ha rivisto le clausole contrattuali, i dubbi su un eccesso di remunerazione del concessionario restano. Senza dire che il nuovo schema contrattuale continuerebbe a essere in contraddizione con la ratio originaria della finanza di progetto (project financing). Il concessionario privato non rischia nulla e incassa il canone. Mentre la Regione, nel corso dei 39 anni, sborsa solo costi di gestione non quantificabili.
LE ALTRE INCOGNITE. A questo si aggiungono altri fattori e uno su tutti: i tempi di realizzazione delle interconnessioni con le autostrade A4, A31 e A27. La piena funzionalità della “Pedemontana Veneta” presuppone l’interconnessione diretta con le autostrade. Non risulta, inoltre, ancora definita la riclassificazione infrastrutturale, non si possono superare dunque i 110 km/h. A Palazzo Chigi è arrivato nei giorni scorsi un dossier dettagliato, un documento riservato che ai leghisti piace poco.
Dice, tra l’altro, che per la tratta già in funzione il pedaggio è di 0,16,420 euro al km per le auto e di circa 0,30 euro per i veicoli pesanti. Carissimo, E che i conti si pareggiano solo se vi circolano 27mila veicoli al giorno, un obiettivo ancora lontano. E Pantalone continua a pagare.
Come funzionano i subappalti, previsti dal decreto semplificazioni di Draghi. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 29 Maggio 2021. Il Decreto Semplificazioni vede la luce e rimette pace, miracolosamente, alle polemiche tra i partiti. Dopo aver speso molte energie nel batti e ribatti che si è prefissato con Salvini, Enrico Letta inforca la via maestra e rimette i piedi nel piatto delle grandi riforme. Lo fa toccando quattro punti essenziali, con quattro proposte puntuali che il Pd fa proprie. Comincia con una battaglia contro il gruppo misto di Camera e Senato, che «dovrebbe essere un faticoso purgatorio, ma è un paradiso per parlamentari che fanno quello che vogliono e senza alcun controllo». Al suo posto, Letta vedrebbe bene il gruppo dei non iscritti, come nel Parlamento europeo. E poi lancia la suggestione della sfiducia costruttiva, «per sostituire un governo con un altro, come in Germania: non si può fare se non indichi già la nuova maggioranza». E punta poi ad un vulnus lacerante, chiedendo l’applicazione dell’articolo 49 della Costituzione per regolare la vita dei partiti. Un tema che riguarda quasi tutti, ma in maniera eclatante l’alleato a Cinque Stelle. Il Movimento oggi vive l’impasse più grave, non può eleggere il suo leader perché non conosce i suoi iscritti, e va verso un problema immediato non meno serio: chi detiene il simbolo M5S, legalmente, oggi? Perché a Roma, Napoli, Milano c’è da presentare le liste e a farlo potrebbero perfino essere gruppi diversi tra loro, in assenza di una gerarchia, di un regolamento, di una titolarità riconosciuta. C’è poi nei desiderata del leader Pd la necessità di rimettere mano alla legge elettorale. «La malattia democratica si è acuita con le liste bloccate e i criteri di cooptazione e fedeltà». L’acuirsi della malattia nell’ottica dem si riverbera su un consenso elettorale che finisce per premiare la destra. Lega e Fdi, sommati, sono stabilmente sopra il 40% e per provare a batterli serve un centrosinistra largo capace di «incontrarsi con i 5 stelle». Dopo aver incontrato il premier Draghi, Letta sposta dunque l’asse sul futuro («Serve un Pnrr delle riforme»), senza esacerbare le criticità sulla decretazione in corso. Vero, i sindacati sono tornati in piazza, ma più per ribadire l’importanza del ritorno alla concertazione che per alzare barricate. Il giorno dopo l’incontro con il premier, grazie al quale hanno incassato lo stralcio dal decreto semplificazioni del massimo ribasso per gli appalti, i leader sindacali si sono dati appuntamento a piazza Montecitorio – ricevuti poi a palazzo dal presidente della Camera Roberto Fico –per sollecitare il Parlamento a modificare la norma sui licenziamenti. Per il leader della Cgil Maurizio Landini la mobilitazione «continua, perchè la partita non è chiusa». Concluso il presidio dei sindacati, ha preso il via l’atteso Consiglio dei Ministri con il Dl Semplificazione finalmente al voto. Le novità sono importanti e recepiscono tanto la piazza sindacale quanto le trattative bilaterali: il nome del decreto è rispettato, al di là della retorica si vedono misure sulla semplificazione per appalti su opere pubbliche. Sale al 50% la soglia per i subappalti fino al 31 ottobre 2021, sia pure in una “fase transitoria”. Nei bandi di gara e nei contratti pubblici previsti dal Pnrr «è requisito necessario dell’offerta l’assunzione dell’obbligo ad assicurare una quota pari almeno al 30 per cento, delle assunzioni necessarie per l’esecuzione contratto o per la realizzazione di attività ad esso connesse o strumentali, all’occupazione giovanile e femminile». Il decreto prevede l’accesso semplificato per usufruire del beneficio fiscale del Superbonus 110%, attraverso la Comunicazione di inizio lavori asseverata (Cila). Ma c’è anche la garanzia richiesta dal Pd e in particolare da Franceschini: con l’istituzione di una Soprintendenza speciale per il Pnrr, ufficio di livello dirigenziale generale straordinario operativo fino al 31 dicembre 2026, per svolgere funzioni di tutela dei beni culturali e paesaggistici. Infine, luce verde per la «Piattaforma Dgc (Digital Green Certificate) per l’emissione, il rilascio e la verifica delle certificazioni Covid-19 interoperabili a livello nazionale ed europeo è realizzata, attraverso l’infrastruttura del Sistema Tessera Sanitaria e gestita dalla stessa per conto del Ministero della salute, titolare del trattamento dei dati generati dalla piattaforma medesima». Il pass vaccinale internazionale è realtà. Al termine della riunione soddisfazione generale: per Italia Viva «si è raggiunto un risultato insperabile fino a poche settimane fa». Boschi twitta: «Messo il turbo». Il Movimento Cinque Stelle vede riconosciute le sue istanze, Forza Italia gongola e tra i ministri scrive l’happy end Renato Brunetta: «La prima milestone del Piano nazionale di ripresa e resilienza è raggiunta. Nel pieno rispetto del cronoprogramma, il cdm ha approvato il decreto per far marciare veloci i progetti del Recovery Plan».
Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.
Dai trafori ferroviari alle nuove autostrade agli interventi per rafforzare le strutture sanitarie. ... Guido Fontanelli su Panorama il 3 febbraio 2021. Nell'Italia delle 744 opere bloccate (Di mercoledì 3 febbraio 2021) Dai trafori ferroviari alle nuove autostrade agli interventi per rafforzare le strutture sanitarie. Lentezze e mancata efficienza dell'ex governo Conte, rischiano di vanificare anche l'opportunità del Recovery Plan. «Se non razionalizziamo la macchina pubblica e non semplifichiamo la vita alle imprese, questo Paese affonda» denuncia Gabriele Buia, il presidente dei costruttori. Quei 3 miliardi per AlItalia? Dateli ai dipendenti E' un crescendo, un torrente che diventa un fiume in piena. Avevamo contattato Gabriele Buia, 62 anni, presidente dell'Ance, l'associazione dei costruttori edili, per raccogliere un commento sulle esternazioni del premier Giuseppe Conte in tema di appalti e grandi opere. Il risultato è una denuncia sempre più dura contro un sistema di norme e di burocrazia che non solo soffoca le imprese, ma rischia di minare la parte ...
Milena Gabanelli e Fabio Savelli per corriere.it l'11 maggio 2021. Venti anni senza aprire un cantiere. Un’opera strategica nata per sostenere il più importante distretto della ceramica italiano, quello di Sassuolo, e sulla quale, dall’inizio sono d’accordo tutti. Tutti hanno approvato, vidimato, dato il via libera. Parliamo di un raccordo autostradale di 27 km su cui convogliare il traffico pesante fino al casello di Campogalliano, dove la A1 si incrocia con la A22 del Brennero. Una cronistoria «simbolo» che racconta molto di questo Paese ora atteso alla prova del nove: cioè spendere i 53 miliardi agganciati alle infrastrutture entro il 2026. Soldi per la gran parte a debito, ma vincolati all’effettiva messa a terra dei cantieri. Significa che se le opere non si concludono queste risorse vanno restituite a Bruxelles oltre alla quota di debito pubblico in mano agli investitori esteri che lo finanziano per oltre il 30%.
2001: primo ok del Cipe. La storia della Campogalliano-Sassuolo ha inizio nel 1985, quando si decide che bisogna convogliare tutto il traffico pesante in una unica direttrice. Nel 2001 il Cipe la inserisce tra le opere del corridoio dorsale centrale del Paese. Un raccordo da 175 milioni di euro, che è solo l’importo iniziale. L’opera viene inserita nel piano triennale dell’Anas che deve appaltarla nel entro due anni. Nel 2002 ne approva il progetto preliminare trasmettendolo ai vari ministeri. Comunica l’avvio della procedura di impatto ambientale recependo le indicazioni delle Soprintendenze.
Nel 2004 il primo intoppo: il ministero dell’Ambiente comunica ai Trasporti la temporanea sospensione dell’istruttoria perché ravvede un’incongruenza nell’analisi del traffico stimato a supporto della valutazione del progetto. Passa un altro anno per aggiornare lo studio trasportistico, e nel 2005 il Mit trasmette al Cipe la relazione sul progetto preliminare della bretella autostradale che si collega con l’A22 del Brennero e con la Statale 467 Pedemontana. Il costo lievita a 284 milioni di euro a carico dell’Anas, e si indica un tempo di due anni e mezzo per l’esecuzione dei lavori. Nel progetto definitivo però l’importo diventa di 467,1 milioni di euro per tutte le ulteriori opere di allacciamento da realizzare.
2006-2009: arrivano tutte le autorizzazioni. Arriviamo al 2006, e l’Anas comunica di voler ricorrere all’affidamento in concessione. Il Cipe le propone di verificare anche la possibilità di utilizzare la finanza di progetto con capitali privati o di rientrare del costo dei lavori con il pedaggio. Nel 2007 il Cipe approva il piano di investimenti dell’Anas e la include tra le opere da realizzare mediante finanza di progetto perché esiste una specifica proposta dell’impresa di costruzioni Pizzarotti. Il 23 luglio di quell’anno la Commissione di valutazione di impatto ambientale dà parere favorevole. A gennaio 2009 si chiude anche la conferenza dei servizi, che mette al tavolo tutti gli enti locali coinvolti. È la fase in cui vengono raccolte tutte le autorizzazioni, ambientali, beni culturali, archeologiche, soggetti responsabili delle interferenze, i comuni. E con l’intesa Stato-regioni l’opera viene dichiarata di pubblica utilità e pertanto possono partire le attività di esproprio. Sembra il via libera finale, ma non lo è.
2010-2014: dal bando di gara alla concessione. Nel 2010 l’Anas pubblica finalmente il bando di gara per l’affidamento in concessione per 50 anni, con una procedura ristretta delle attività di progettazione. Il canone di concessione è stabilito in 881 milioni di euro. L’A22 presenta domanda di partecipazione alla gara costituendo un’associazione temporanea di imprese. Il Cipe dà l’ok nel 2011 e fissa il limite di spesa a 598 milioni.
Nel 2012 l’attività di vigilanza sulle opere passa dall’Anas al ministero dei Trasporti. A questo punto la palla torna al Cipe per le valutazioni. Ciò ritarda ulteriormente i tempi, perché occorre un nuovo atto aggiuntivo tra governo e regione Emilia Romagna. L’atto viene sottoscritto nel 2013. La commissione di gara intanto indica l’aggiudicatario provvisorio: l’Autobrennero, l’impresa Pizzaroti e Coop7. Anas però deve ancora fare le sue verifiche, e il nuovo ente di vigilanza aggiudicare definitivamente. La formalizzazione finale è del 2014: il ministero dei Trasporti dispone l’aggiudicazione definitiva della concessione all’A22 raggruppata nell’associazione di imprese. Si procede alla convenzione di concessione che prevede un orizzonte di 31 anni. Nello stesso periodo bolle in pentola il decreto che consente di defiscalizzare alcuni lavori. Sono 40 milioni, e le imprese fanno richiesta.
2015-2020: l’avidità, la beffa, e poi il Covid. L’ok del Nars, il nucleo di consulenza sulla regolazione dei servizi di pubblica utilità, arriva nel 2016, ma si deve di nuovo passare dal Cipe che però si oppone «perché il contratto di finanziamento doveva essere stipulato entro 12 mesi dalla firma della convenzione». Cioè nel 2015. Si ricomincia da capo. Il nuovo atto aggiuntivo per ottenere la defiscalizzazione viene sottoscritto nel 2018. Ma bisogna poi attendere la registrazione del decreto da parte della Corte dei Conti. A febbraio 2019 l’ex ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli ferma tutto: chiede l’analisi costi-benefici. A settembre il ministero approva il progetto esecutivo per 406 milioni. Finalmente si parte: la società concessionaria avvia gli espropri, e i lavori stanno per cominciare. Arriva il Covid.
2021: si apre il contenzioso fra pubblico e privati. Nel corso del 2020 la società di gestione della Campogalliano-Sassuolo chiede al ministero la revisione della concessione e le previsioni di traffico ritenute non più adeguate. In tutto questo la vicenda si lega alla concessione dell’Autobrennero scaduta nel 2014, appena prorogata per la quarta volta, e che deve costruire anche la parte ferroviaria del tunnel del Brennero. Anche quest’opera è nella lista dei lavori strategici e prioritari. Per andare avanti senza gara un decreto di novembre 2020 impone una statalizzazione forzata: «Dovete mettere fuori i privati e riscattare le azioni». I privati si mettono di traverso e agitano il contenzioso in tribunale perché detengono il 14,3% del capitale sociale, che secondo loro varrebbe circa 70 milioni, mentre la Corte dei Conti ritiene sia meno della metà. In più i privati rivogliono indietro la loro quota del Fondo Ferrovie: 800 milioni di utili non distribuiti e investiti in titoli di Stato. Ora una parte di questi soldi deve andare a finanziare proprio il tunnel del Brennero. Ma se i soci privati vengono esclusi, bisognerà decidere con quanto liquidarli. Sta di fatto che il decreto di nazionalizzazione potrebbe essere impugnato nei tribunali amministrativi perché contro le norme europee.
Ottomila camion al giorno sulla statale. Intanto, mentre il Ministero dei Trasporti è diventato quello delle mobilità sostenibili, una lunga fila di tir in entrata e uscita dalle fabbriche delle piastrelle, intasano ogni santo giorno la vecchia e la nuova statale per 27 km, con il conseguente impatto ambientale che tale traffico produce. Per aprire i cantieri manca solo la firma del ministro Giovannini. Pensa che oggi abbia più senso potenziare gli scali ferroviari? Vanno trovate le risorse, e ripartire con il giro di walzer. Significa averli operativi fra una decina d’anni se va bene, mentre la direttrice unica è già finanziata e approvata in tutte le sedi. In mezzo c’è il destino del distretto della ceramica, che conta su un fatturato di oltre 5 miliardi, più dell’80% realizzato sui mercati internazionali, ed offre lavoro a circa 30.000 persone incluso l’indotto. Mancando di una infrastruttura di collegamento importante, rischia di perdere attrattiva.
DATAROOM. Autostrade, ferrovie, metro: le 58 opere urgenti in ritardo, con 60 miliardi fermi in cassa. Milena Gabanelli e Fabio Savelli su Il Corriere della Sera il 23 febbraio 2021. L’ultimo atto del governo Conte porta la data del 21 gennaio, con la nomina dei commissari per la realizzazione delle opere urgenti. Si tratta di opere già in cantiere da tempo e definite come «irrinunciabili» ad agosto 2020. Poche settimane prima era stato approvato il decreto Semplificazioni che ha snellito il Codice degli appalti, una riforma che ci consente già di avviare i progetti usando anche le risorse Ue del Recovery Fund e permette di applicare l’articolo 32 del Codice degli appalti europeo secondo il quale è possibile – per comprovate esigenze di urgenza – lavorare con le imprese evitando il passaggio della gara e operando solo sulla base delle manifestazioni d’interesse. Per partire con opere «di elevato grado di complessità progettuale, esecutiva o attuativa» occorre però avere, per ciascuna di esse, un responsabile in carne e ossa che se ne intesti la realizzazione e i controlli. I commissari appunto. Ma perché ci sono voluti sei mesi per sceglierli? Perché la Presidenza del Consiglio ha chiesto al ministro dell’Economia l’analisi costi-benefici, già fatta dal precedente governo con l’allora ministro Toninelli e da tutti gli esecutivi precedenti. Un’analisi che poi non ha modificato una virgola. Si poteva però intanto non sprecare tempo e utilizzare i Responsabili Unici del Procedimento (Rup) per cominciare a bandire alcuni lotti, senza aspettare l’ennesimo giro di giostra, come è stato fatto sulla Napoli-Bari, sulla Palermo-Catania e per la Verona-Fortezza per l’allacciamento col tunnel del Brennero. Ma tant’è.
Chi sono i commissari. I commissari provengono quasi tutti dalle due grandi stazioni appaltanti pubbliche: Rfi e Anas, entrambe del gruppo Ferrovie dello Stato, e su alcune nomine registriamo più di qualche dubbio. Parliamo dell’ex amministratore delegato di Rfi, Maurizio Gentile, scelto per il completamento della linea C della metropolitana, ma indagato dalla Procura di Lodi per il deragliamento di un Frecciarossa il 6 febbraio 2020, in cui morirono due macchinisti, e a processo a Milano per l’incidente di Pioltello, che costò la vita a tre passeggeri. Nello stesso processo è coinvolto Vincenzo Macello, sempre di Rfi, scelto per l’alta velocità Brescia-Verona-Padova. Poi c’è l’amministratore delegato di Astral, Antonio Mallamo, indagato dalla Procura di Cassino per la morte di due automobilisti sulla Casilina sui quali crollò un pino. Alcuni dirigenti di primo piano dell’Anas, come Raffaele Celia, indagato per la frana di Cannobio in Piemonte; Vincenzo Marzi, finito in un’indagine della Procura di Locri sulla violazione delle norme antisismiche nella realizzazione della statale Jonica. Infine l’amministratore delegato di Anas, Massimo Simonini, indagato per reati ambientali, ma soprattutto inadempiente: nel 2020 ha ritardato di un anno le ispezioni obbligatorie su 3500 ponti. Tutti chiaramente innocenti fino a prova contraria, ma per ragioni di opportunità, o di non manifesta capacità organizzativa, Palazzo Chigi avrebbe potuto scegliere altri profili. Sta di fatto che saranno incaricati di stendere i bandi, assegnare gli appalti, prevenire eventuali controversie che potrebbero innescarsi con i general contractor, ragionare sulle eventuali varianti rispettando le risorse dei due contratti di programma.
L’elenco delle opere. Ad agosto, come abbiamo detto, le opere selezionate come urgenti sono 58. Nell’elenco ce ne sono 14 «relative a infrastrutture stradali, sedici a infrastrutture ferroviarie, una relativa al trasporto rapido di massa, dodici a infrastrutture idriche, tre a infrastrutture portuali e dodici a infrastrutture per presidi di pubblica sicurezza». Parliamo, tra le altre, della Statale Jonica (valore 3 miliardi), l’alta velocità Brescia-Verona-Padova (8,6 miliardi), il potenziamento della linea Fortezza-Verona (4,9 miliardi), lo sviluppo della direttrice Orte-Falconara (3,7 miliardi), l’alta velocità Napoli-Bari (5,88 miliardi), la Palermo-Catania-Messina (8,7 miliardi), la metropolitana linea C di Roma (5,8 miliardi). Bene, le commissioni Ambiente e Trasporti della Camera e Lavori pubblici del Senato entro qualche giorno formuleranno il loro parere, prima del decreto della presidenza del Consiglio che dovrebbe dare l’avvio definitivo. A meno che il premier Draghi non decida di sostituire qualche commissario attualmente in pectore. Bene, le commissioni Ambiente e Trasporti della Camera e Lavori pubblici del Senato entro qualche giorno formuleranno il loro parere, prima del decreto della presidenza del Consiglio che dovrebbe dare l’avvio definitivo. A meno che il premier Draghi non decida di sostituire qualche commissario attualmente in pectore.
Le Regioni mai ascoltate. A questo punto tutta la macchina può finalmente partire? No, perché c’è ancora da confrontarsi con le regioni sui tracciati. Il governo dimissionario ha avuto sei mesi di tempo per portarsi avanti su questo fronte, ma non lo ha fatto. Un passaggio indispensabile poiché molte opere hanno dimensioni multi-regionali e c’è bisogno della massima convergenza da parte delle comunità locali. Per questo, secondo Raffaella Paita, presidente della commissione Trasporti alla Camera, conveniva nominare tra i commissari anche qualche sindaco o governatore di regione. La ricostruzione del ponte Morandi è andata via spedita anche perché a Genova è stato coinvolto il sindaco Marco Bucci. Si sono scelte invece solo professionalità tecniche con poca o scarsa conoscenza di come si coinvolge un territorio. A ritardare tutto il processo c’è stato anche un altro passaggio burocratico. A settembre la presidenza del Consiglio ha chiesto al Mef: «C’è la completa copertura finanziaria?». La risposta, prodotta a novembre e consegnata in Parlamento a gennaio, era già nota: alla Statale Jonica manca 1 miliardo, e c’è allo studio una variante tra Catanzaro e Crotone che aggraverebbe il conto di un 1,1 miliardi. Al potenziamento della Salaria mancano 700 milioni. Alla Grosseto-Fano più di 1,5 miliardi. All’alta velocità Brescia-Verona-Padova mancano oltre 2,5 miliardi soprattutto per l’ultimo tratto da Vicenza a Padova. Per partire, nessuna grande opera deve avere tutti i soldi nel cassetto. Si avanza per programmi, ben sapendo dove prenderli. Non si inizia nulla quando invece le risorse non sono ancora state assegnate. È il caso delle tratte di allacciamento al tunnel del Brennero. Sulla Salerno-Reggio Calabria al bivio fino a Battipaglia sono stati stanziati solo 10 milioni.
Eppure i soldi non mancano. Eppure ci sono già 60 miliardi di euro stanziati dai diversi contratti di programma di Anas e Rfi, nelle disponibilità dei ministeri del Tesoro e dei Trasporti, anche attingendo a fondi europei non ancora utilizzati. A gennaio 2019 scrivemmo che il primo governo Conte aveva perso almeno un anno dietro le analisi costi-benefici, e nel mentre la gran parte dei general contractor nazionali è saltata per aria. Negli ultimi dieci anni abbiamo perso almeno 500 mila posti di lavoro nel settore dell’edilizia che ora si sta ravvivando soltanto grazie all’ecobonus. Parliamo di aziende indebolite dai tempi ingiustificabili della burocrazia e dalle modalità delle gare, dove spesso vince chi fa il prezzo più basso, obbligando poi le imprese in sub-appalto a tirarsi il collo. Il Cipe, alle dirette dipendenze di Palazzo Chigi, che dovrebbe fungere da distributore delle risorse, viene interpellato per ogni modifica progettuale anche quando il costo dell’opera resta immutato. È vero che abbiamo creato il polo delle costruzioni consentendo a Salini Impregilo di incorporare Astaldi con l’ingresso di risorse pubbliche di Cassa Depositi, ma come faremo a utilizzare i soldi che ci dà l’Europa se ci abbiamo messo sei mesi per nominare una decina di commissari già noti alla macchina organizzativa dello Stato?
· Il Ponte sullo stretto di Messina.
Ponte sullo Stretto, non costruirlo danneggia l’ambiente. Franco Battaglia su Nicolaporro.it il 19 Settembre 2021. L’incapacità del governo Draghi – come già quella del governo Conte – di gestire la pandemia è ormai acclarata. Mentre gli altri Paesi, anche con copertura vaccinale inferiore alla nostra (73%) – penso a Inghilterra (71%), Svezia (69%) – tolgono le restrizioni, incluse quelle del green pass, Mario Draghi annuncia restrizioni più severe. Ma lo fa apposta? È affetto da incontenibile sadismo? Proviamo a parlar d’altro. Ad esempio di Ponte sullo Stretto. Qualunque mente pensante, guardando la cartina geografica tra Scilla e Cariddi, direbbe «toh, qui manca un ponte». I Verdi, quando erano al governo (quello Prodi, rammentate?) avevano definito l’opera «faraonica e inutile», lasciando così in grande imbarazzo lo stesso Romano Prodi. Il quale, a mio parere, condivide con Silvio Berlusconi la ventura di essere stati, i due, gli ultimi uomini di Stato che l’Italia ha avuto. Di Romano Prodi non condividevo quasi niente, di Silvio Berlusconi quasi tutto, ma chi li ha seguiti sono stati mezze figure inconcludenti privi di senso dello Stato. Mario Draghi compreso, che, non so perché né voglio saperlo, Francesco Cossiga, da Presidente della Repubblica emerito, definì «vile affarista». Tornando al Ponte sullo Stretto, il suo vero impatto ambientale è la sua assenza. Se si fa un giro in internet, si possono ammirare le foto di meravigliosi ponti sospesi e sparsi nel mondo: ad esempio, l’Akashi Kaikyo, con una campata di 2 chilometri, inaugurato 25 anni fa in Giappone; o il Vasco de Gama che, lungo 17 chilometri e inaugurato 23 anni fa, unisce le due sponde del fiume Tago, in Portogallo; o il Great Belt, lungo oltre 13 chilometri, che collega Copenhagen allo Jutland; o l’Oresund, una struttura di 16 chilometri che unisce la capitale danese alla Svezia e che fu inaugurato, molto romanticamente, con un bacio che principessa Victoria di Svezia e Principe Frederik di Danimarca si scambiarono al centro di questa faraonica struttura, costata 7 anni di lavori. Dimentichiamo per qualche minuto di essere nella Repubblica delle Banane, governata prima da Conte e ora da Draghi, e godiamoci un filmato consolante: il resto del mondo non è Italia. Franco Battaglia, 19 settembre 2021
La Pedemontana costata più del ponte sullo Stretto. L'ex senatrice Puppato rincara la dose: «Neanche da ubriachi si poteva firmare un accordo così». Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud l'8 giugno 2021. Una Superstrada di circa 94 km rischia di costare allo Stato 12 miliardi e 108 milioni di euro. Tre volte il costo del Ponte di Messina. È la cifra che la Regione Veneto, spalmata in 39 “scomode” rate, dovrà corrispondere al concessionario. Il calcolo non è nostro. È della Corte dei Conti e risale a qualche mese fa. Il fatto nuovo è che il ministro dei Parlamento Federico D’Incà ora ha posto ufficialmente la questione. «La sostenibilità finanziaria del progetto potrebbe essere messa in difficoltà dai mancati incassi derivanti dai pedaggi che la Regione dovrebbe incassare. Non ci siamo». Stiamo parlando della Pedemontana, costata 2 miliardi 258 milioni, 935 alle casse pubbliche e 1.344 ai privati. Un’idrovora che aspira denaro, completata per ora solo al 70%. Se si pensa che il Ponte sullo Stretto, di cui si parla da mezzo secolo, costerebbe circa 4 miliardi di euro si capirà perché le preoccupazioni suffragate dai calcoli e dalle stime dei tecnici possono trovare una sponda a Palazzo Chigi. Lo scetticismo e i dubbi accompagnano l’opera sin da quando fu inserita nel piano regionale dei trasporti della Regione Veneto, anno domini 1990. Per brevità salteremo gli altri passaggi: revoche, sequestri modifiche al progetto preliminare, fino al bando di project-financing del 2006 e all’aggiudicazione della gara nel 2009. Per accelerare le operazioni l’anno seguente fu addirittura dichiarato lo stato di emergenza nel settore del traffico e della mobilità dei comuni di Treviso e Vicenza ma era ormai chiaro che il livello dell’acqua si stava alzando e si rischiava un secondo Mose. Non per le inchieste o per le mazzette ma per i tempi biblici e i rilievi circa l’utilità dell’opera – un fiore all’occhiello per i leghisti – destinata ad alleggerire dal traffico un territorio simile ad una metropoli diffusa. «Studiammo all’epoca – ricorda Laura Puppato ex senatrice Pd e ex sindaca del comune di Montebelluna – che il 76% del traffico riguardava un raggio di percorrenza inferiore ai 30 km. Da qui la domanda era proprio indispensabile? L’ultima volta che ho percorso la Superstrada, venerdì scorso, negli ultimi 30 km ho incontrato solo tre moto, un furgone e due auto. Si è sbagliato tutto quello che era possibile sbagliare. Neanche da ubriachi si poteva firmare un accordo così». La questione si trascina da anni. La difficoltà per il concessionario privato a far fronte al closing finanziario (reperimento di finanziamenti) a seguito della decisione di Cdp e Bei di non partecipare al finanziamento. Decisione maturata sulla base di uno studio di traffico commissionato ad hoc. Le stime, infatti, sono ampiamente inferiori a quelle poste a base della convenzione e, conseguentemente, i presidi contrattuali che imponevano alla Regione il riequilibrio del piano economico e finanziario sarebbero stati, sotto questo profilo, troppo onerosi per la Regione. Nel 2017, terminata la gestione commissariale con subentro della competenza gestionale della Regione, con la stipula del Tac (Terzo atto convenzionale) ed alla luce delle nuove clausole contrattuali, si è però osservato che avendo fortemente inciso sulle modalità di remunerazione del concessionario (e della Regione che a sua volta avrebbe incassato interamente il pedaggio) restava comunque un eccesso di remunerazione del concessionario, il quale, a fronte di un costo dell’opera inferiore a 3 miliardi avrebbe avuto diritto ad incassare, nell’arco dei 39 anni, da parte della Regione Veneto, un canone di disponibilità pari ad oltre 12 miliardi!
IL CONTRATTO CAPESTRO. L’INCOGNITA DEI PEDAGGI
In termini teorici, il nuovo schema contrattuale, secondo il quale il canone di pedaggio è oggi da incassare dalla Regione è in contraddizione con la ratio originaria della finanza di progetto (project financing) non essendo a sua volta il concessionario privato assoggettato al rischio di mercato (e percependo quest’ultimo in modo certo il cosiddetto canone di disponibilità). In pratica, il concessionario ci guadagna senza rischio d’impresa.
Per contro, gli esborsi monetari a carico della Regione nel corso dei 39 anni di gestione non sono suscettibili di stima certa, poiché la precisa determinazione è rimessa alla formula dell’accordo. Che comprende, ad esempio, il tasso d’inflazione annuo ma soprattutto gli introiti a favore della Regione derivanti dai pedaggi.
Ci sono poi altri fattori che conferiscono instabilità ed incertezza alle stime di traffico: le previsioni dei tempi di realizzazione delle interconnessioni con le autostrade A4, A31 e A27. La piena funzionalità della “Pedemontana Veneta” presuppone la interconnessione diretta con le autostrade. Si dà il caso, però, che la realizzazione dell’interconnessione faccia prevedere ritardi nella esecuzione dei lavori, il cui completamento è allo stato degli atti indicato nel mese di giugno 2023.
VELOCITÀ MASSIMA 110KM/H
Il difetto d’interconnessione con l’A4 e/o il disallineamento dei tempi di realizzazione del raccordo rispetto all’entrata in esercizio della Superstrada giustifica la previsione della diminuzione delle stime di traffico. Da computare, secondo uno studio commissionato dalla Regione nel 2019, nella misura del 13%. E non è finita: la modifica della velocità di percorrenza da 110 km/h a 130 km/h non è stata ancora conseguita dalla Regione. Non risulta ancora definita la richiesta di riclassificazione infrastrutturale, essendo oggi prevista ancora una velocità di percorrenza di 110 km/h. Altro elemento che contribuisce a ridurre gli utenti. Di questo passo sarà molto improbabile che l’ultima tratta venga completata dal consorzio SIS, formato per il 51% dall’italiana Fininc e per il 49% dalla spagnola Sacyr .
Che fare, dunque? Il nastro non si può riavvolgere. È stato tagliato a colpi di inaugurazioni un pezzo alla volta, l’ultimo per il tratto Bassano-Montebelluna. E quasi sempre dalla stessa persona, il governatore veneto Luca Zaia. Finché le critiche arrivavano dall’opposizione e dai comuni amministrati dal centrosinistra, pazienza. È il gioco delle parti. Ma i dubbi arrivano ora da Palazzo Chigi e hanno la sostanza di un dossier completo di annotazioni, volumi di traffico, tariffe. Il pedaggio per la tratta già in funzione è di 0,16,420 euro km per le auto e di circa 0,30 euro per i veicoli pesanti. Troppi. «Ma i conti si pareggiano – ricorda D’Incà – solo se circolano 27 mila veicoli al giorno».
Senza una rivalutazione dei profili di economicità e di congruità, correlati all’aggiornamento delle situazioni di fatto, andare avanti in questo modo sarà come guidare un’auto nella notte a fari spenti. È questo che vogliono i veneti?
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BUON COMPLEANNO “PONTE GIREVOLE”. Il Corriere del Giorno il 22 Maggio 2021. Il progetto fu realizzato dalla Società Nazionale Officine di Savigliano, per tutto quello che riguardava gli organi meccanici ed i comandi elettrici. Il nuovo ponte costruito da un cantiere navale locale, i Cantieri Tosi specializzati nella costruzione di sommergibili venne inaugurato dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi il 10 marzo 1958, e venne intitolato a San Francesco di Paola, protettore delle genti di mare. Ne è passata di acqua sotto i ponti, ma nel suo caso in 134 anni sono passate anche tante navi della Marina Militare da sempre di casa nelle acque dei due mari di Taranto, la quale oggi mentre la città dimentica…con un post su Instagram ha voluto fare gli auguri di buon compleanno al Ponte San Francesco di Paola, meglio conosciuto come “Ponte Girevole” per la possibilità di aprirsi al passaggio delle navi, è la struttura che collega l’isola del Borgo Antico con la penisola del Borgo Nuovo del capoluogo jonico. Grazie al ponte girevole e all’Arsenale Militare della Marina, che venne finanziato grazie ai fondi previsti dalla “legge sugli Arsenali” del 1882 la città Taranto cambiò volto passò all’ economia industriale, con una notevole crescita demografica. Inaugurato il 22 maggio 1887 dall’ammiraglio Ferdinando Acton, il ponte sovrasta il canale navigabile che unisce il Mar Grande al Mar Piccolo. A causa della presenza del ponte, la larghezza nel tratto più stretto del canale è limitata a 58 metri. Realizzato dall’Impresa industriale italiana di costruzioni metalliche di Alfredo Cottrau a Castellammare di Stabia, su progetto dell’ingegner Giuseppe Messina che ne diresse i lavori di costruzione, era originariamente costituito da un grande arco a sesto ribassato in legno e metallo, diviso in due braccia che giravano indipendentemente l’una dall’altra attorno ad un perno verticale posto su uno spallone. Il funzionamento avveniva grazie a turbine idrauliche alimentate da un grande serbatoio posto sul Castello Aragonese adiacente, capace di 600 metri cubici di acqua che in caduta azionavano le due braccia del ponte. La struttura venne successivamente rimodernata negli anni 1957-1958, introducendo un funzionamento di tipo elettrico, ma mantenendo di fatto inalterati i principi ingegneristici della allora costituenda Direzione del genio militare per la Marina. Il progetto fu realizzato dalla Società Nazionale Officine di Savigliano, per tutto quello che riguardava gli organi meccanici ed i comandi elettrici. Il nuovo ponte costruito da un cantiere navale locale, i Cantieri Tosi specializzati nella costruzione di sommergibili venne inaugurato dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi il 10 marzo 1958, e venne intitolato a San Francesco di Paola, protettore delle genti di mare. Il ponte appare in alcuni film, il più antico dei quali è senz’altro “La nave bianca“, girato a Taranto nel 1941. Anche Gabriele d’Annunzio in un suo poema “Laudi del Cielo del Mare della Terra e degli Eroi” cita la struttura. Il ponte girevole è stata anche la destinazione di uno dei frequenti viaggi automobilistici del conte Oddino degli Oddi-Semproni e delle sue due zie, in “Sipario ducale” di Paolo Volponi, romanzo del 1975, ambientato nella Urbino del 1969. Nel 2018 sotto il Ponte Girevole sono state girate numerose scene della serie tv “Six Underground“ diretta da Michael Bay prodotta da Netflix . Nonostante il capoluogo jonico sia stato teatro di numerosi ciak, nella finzione risulteranno ambientati a Beirut. Quella che all’epoca fu considerata un’opera avveniristica, oggi è un pezzo di storia della città dei “due mari” e della Marina, che merita di essere preservato e celebrato. Anche se la politica locale è cieca ed indifferente, quel ponte fa parte della vera storia di Taranto. E lo sarà per sempre.
Ma chi (e perché) non vuole il ponte sullo Stretto di Messina? I casi sono due: il primo nessuno si è posta questa domanda e sarebbe gravissimo. Il secondo: qualcuno se l’è posta ed ha deciso che il Paese non era in grado di intervenire nelle due sue parti e ne doveva sacrificare una, come nei gemelli siamesi. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 22 maggio 2021. Ma il nostro é un Paese serio? La domanda viene spontanea se si guarda alla vicenda ponte sullo stretto di Messina. In un Paese “normale” sarebbe già costruito da decenni. Ma si capisce da questo episodio perché il Paese ancora non ha recuperato i livelli di reddito del 2008 e perché ha la più grande area con il reddito pro capite più basso dell’Unione. Questi cattivi risultati non si hanno per caso. Eppure invece di confrontarsi con i fatti, la vera classe dirigente del Paese, quella che fa opinione nei quotidiani nazionali, quella confindustriale o sindacale, continua con la solita spocchia a dettare ritmi e percorsi ad un Paese ormai al collasso, che perde non solo nella corsa della crescita del reddito con gli altri grandi europei, ma anche in quella della demografia. La domanda importante da porsi, nessuno evidentemente né al Nord né al Sud se l’é mai fatta. Cioè é pensabile un processo di riunificazione del Paese senza far crescere adeguatamente una parte? E quella immediatamente successiva: é possibile pensare ad un processo di sviluppo senza dotare l’area in ritardo di una infrastrutturazione adeguata? I casi sono due: il primo nessuno si é posto questa domanda e sarebbe gravissimo. Il secondo: qualcuno se l’é posta ed ha deciso che il Paese non era in grado di intervenire nelle due sue parti e ne doveva sacrificare una, come nei gemelli siamesi, quando si decide di lasciare gli organi ad uno e sacrificare l’altro. In realtà sarebbe la teoria della locomotiva e dei vagoni. Quella che ancora con una protervia incredibile Guido Tabellini teorizza quando parla di Milano e Napoli o Tito Boeri quando si sofferma sulle università settentrionali e meridionali. In questo clima, quello relativo al ponte sullo stretto di Messina é un episodio surreale. Fatta la scelta di fermare l’alta velocità ferroviaria a Salerno il ponte diventava ed é stato per anni uno specchio per le allodole da mostrare ad ogni elezione, per conquistare gli allocchi, in una prima fase, solo, siciliani. La Calabria é rimasta sempre molto fredda rispetto a quest’opera fino a Jole Santelli. Quando però l’opera cominciò ad avere una possibilità reale di essere portata a termine, con un progetto con tutte le approvazioni, tanto da consentire la posa della prima pietra, ed un finanziamento reale, anche se solo di una parte, il fuoco di fila sul progetto diventò di quelli epocali. Sindaci messinesi, come Renato Accorinti, le solite lobbies dei proprietari dei traghetti, deputati europei come Claudio Fava, oltre alle solite, in genere sparute associazioni ambientaliste, i “no tutto” professionisti, i benaltristi da bar dello sport e qualche dottore in geologia come Tozzi, e molta parte della stampa e della televisione nazionale, si sono attivati per bloccare il progetto sul nascere. E pur in presenza di un avvio di lavori, voluto fortemente da Berlusconi, con la successione del varesino Mario Monti riuscirono a ribloccare il progetto, cosa unica nella storia d’Italia, per una gara internazionale già assegnata e che ovviamente sta portando a strascichi giudiziari. Adesso il dibattito continua e ha del surreale. La De Micheli nomina una commissione per accertare la fattibilità di un collegamento stabile, ripartendo come nel gioco dell’oca, da zero. Trent’anni di costi, di studi, di progetti di studiosi con pedegree inattaccabile ed esperienza internazionale vengono disconosciuti. La commissione creata ad arte per rinviare la decisione non può che pronunciarsi, ma dopo la chiusura del Recovery plan, per l’impossibilità tecnica delle due soluzioni tunnel, cosa che era già scontata e bocciata dagli studi seri già fatti. Ma come il prestigiatore che fa spuntare il colombo dal cilindro prima vuoto, esce dal cappello una nuova soluzione, anch’essa scartata per impossibilità tecnica dagli studi decennali, delle tre campate con due piloni in acqua. Piccolo particolare un tale progetto avrebbe bisogno, nel caso fosse realizzabile, di un periodo di almeno 10 anni per la nuova progettazione e per tutte le autorizzazioni, compreso il cambio del Piano regolatore di Messina. Qualcuno, peraltro, sostiene che così il ponte si avvicina a Messina, come se fosse una passerella per fare incontrare gli innamorati delle due sponde e non un pezzo, peraltro piccolo, del collegamento Hong Kong – Berlino, quel corridoio uno che anche recentemente la Commissione Europea ritiene indispensabile e che, sostiene sempre la commissione, non é stato mai richiesto dal nostro Paese. Insomma un gioco incredibile, surreale, in cui non si decide mai nulla. Eppure il nostro Paese quando si é trattato della Tav, del Mose di Venezia, dei grandi trafori, della stessa A1, dell’alta velocità ferroviaria é riuscito alla fine a trovare il bandolo ed andare avanti. Perché questo non avviene per il Sud? Ritengo che le motivazioni possono essere diverse e si cumulano.
La prima più banale é che investire soldi al Sud significa sottrarle alla cosiddetta locomotiva che di esigenze ne ha tante e sempre nuove.
La seconda e che in molti credono che il Sud sia irredimibile e che quindi é uno spreco di risorse continuare ad investirvi e che in ogni caso il Paese può andare avanti anche senza il Mezzogiorno.
Una terza é che alcuni ritengono sia comodo avere una realtà di compensazione, per i momenti in cui serve manodopera, da rinviare indietro nei momenti di difficoltà come é avvenuto al diffondersi del virus per diminuire la pressione sulle terapie intensive.
La quarta é che mettere a regime Augusta e Gioia Tauro possa mettere in discussione la primazia di Genova, Trieste e anche Livorno. Tutto sommato é molto comodo avere una area che possa essere utilizzata come area di consumo, come serbatoio di manodopera formata, da gestire con accordi scellerati con le autorità locali, sempre un po’ ascare. Sarà anche una visione che nel lungo é castrante per il Paese, ma intanto ha consentito lo sviluppo delle realtà settentrionali e molti si illudono che possa essere valida anche per il futuro.
Un'opera che non può aspettare. Il Sud soffoca, basta rinvii: facciamo il Ponte sullo Stretto. Leandra D'Antone, Alberto De Bernardi su Il Riformista il 18 Maggio 2021. Il Ponte sullo Stretto era necessario, tecnicamente fattibile, molto ben studiato, progettato e valutato attraverso una procedura amministrativa di grandissima trasparenza. Nel 2003 figurava nella Short List di Van Miert tra le 13 opere strategiche prioritarie dell’Unione europea. Non era che un tratto di strada e ferrovia indispensabile a realizzare l’alta velocità fino a tutta la Sicilia nell’ambito del grande Corridoio europeo Berlino-Palermo (per far diventare l’Europa più mediterranea e il Sud più europeo). Insieme all’alta velocità ferroviaria costituiva una scelta di qualità capace di ridurre drasticamente il dominante e massimamente inquinante traffico stradale di persone e merci. Ciononostante non è stato realizzato. Oggi dichiariamo nuovamente che il Ponte è necessario e urgente: abbiamo perduto vent’anni di tempo mentre il Sud è un deserto infrastrutturale. Senza un Ponte come se ne fanno in tutto il mondo, anche verso isole più piccole – ma che in questo caso collegherebbe stabilmente al continente la Sicilia con i suoi 5 milioni di abitanti – perde la sua funzione tutta l’alta velocità ferroviaria fino a Sud. Alta velocità che, applicando le tecnologie e le velocità già da tempo in vigore nel Centro-Nord fino a Napoli, consentirebbe di collegare Roma allo Stretto in tre ore, Roma a Catania in tre ore e mezza, Roma a Palermo in 5 ore. L’economia del Sud è soffocata dalla insopportabile inadeguatezza delle infrastrutture di comunicazioni terrestri e dai conseguenti costi più elevati della mobilità: il Sud è disuguale anche per questo oltre che nei diritti di cittadinanza. Per la mancanza di infrastrutture sociali e materiali i suoi giovani più qualificati emigrano e la popolazione decresce. Intanto, porti strategici come Gioia Tauro – venti anni fa di primato europeo accogliendo le grandi navi container in movimento dal Far West al Far East – hanno perduto importanza. Questa è la conclusione, tanto benvenuta quanto intempestiva, del Gruppo di lavoro istituito lo scorso anno dal Governo Conte 2 presso il Ministero delle Infrastrutture per la valutazione delle diverse possibilità di collegamento stabile nello Stretto di Messina. Il gruppo di lavoro iniziava i suoi lavori proprio mentre lo stesso governo Conte inseriva nel Pnrr la realizzazione al Sud di un’alta velocità finta, denominata Alta velocità di Rete, diversa da quella realizzata nel resto d’Italia, che toccasse al massimo i 200 km orari lasciando sostanzialmente i tempi di percorrenza uguali a quelli già in atto. La relazione tecnica si è basata sulla ricchissima mole di studi strutturali, geologici, sismici e ambientali – oltre che di impatto economico e trasportistico – effettuati dalla Società Stretto di Messina fin dal 1981, anno della sua costituzione con una partecipazione Iri del 51% e quote pari di FS, Anas, Regione Sicilia e Regione Calabria. Si, è vero: sono stati spesi oltre 300 milioni di euro in trent’anni, ma francamente non sembrano molti per la difficoltà, la novità e l’altissima qualità delle ricerche e delle personalità scientifiche migliori al mondo impegnate a confrontare tre modalità di attraversamento con approfondimenti scientifici completi. Erano peraltro stati effettuati con costi aggiuntivi anche gli studi imposti da una forma di ambientalismo ideologico e irrazionale, come quando nel 2011 il Cipe prescriveva la verifica dell’effetto dell’ombra del ponte sulla vita dei pesci! Il Gruppo di lavoro ha dichiarato maggior favore per la realizzazione di un altro progetto: non un ponte a campata unica ma un ponte a tre campate. Insomma, per il Gruppo tecnico il ponte è necessario, ma dobbiamo farne un altro, meno costoso e soprattutto a carico totale dello Stato, anche se non fa parte del Recovery Plan. Ma per un nuovo progetto di ponte occorre ricominciare daccapo con gli studi di fattibilità, i bandi, e tutti i passaggi burocratici che il precedente progetto aveva superato. A parere degli esperti, per la sua eventuale realizzazione occorrerebbero almeno dieci anni. Tutto sembra orientato verso il nulla. Un nulla capace di far dire a molti Cinquestelle di aver cambiato opinione solo perché è cambiato il progetto e di ammorbidire anche l’ostilità strumentale del Pd (che nel 1996, invece, con Prodi, era stato favorevole alla sua realizzazione). Le più efficaci politiche meridionaliste in Italia sono state effettuate negli anni Cinquanta nel segno della salute della moneta e dello sviluppo da un ex Governatore di Banca centrale, Donato Menichella. Nuove politiche meridionaliste nel segno della salute dell’Euro, del rilancio dell’economia europea e del futuro delle nuove generazioni è chiamato oggi a realizzare Mario Draghi. Al suo governo chiediamo ora, con grande fiducia e col massimo delle aspettative, che l’alta velocità ferroviaria nel Sud – da Salerno a Reggio Calabria e in Sicilia – diventi, come nel resto d’Italia, una modalità di trasporto integrata con le altre e concorrenziale con il trasporto stradale ed aereo. Viceversa, il progetto inserito nel Pnrr non va in questa direzione: si allontana dal percorso tirrenico a Praia verso Tarsia per poi rientrarvi dopo Cosenza e include addirittura 180 km di gallerie su 400 km di linea (in più, la cosiddetta alta velocità Palermo-Catania, in corso di realizzazione per ridurre a due ore il tempo di percorrenza di 180 km, raggiunge appena i 90 km orari!). Ci aspettiamo la realizzazione immediata di un’opera – il Ponte sullo Stretto – che non ha alcuna ragione d’essere rinviata. Leandra D'Antone, Alberto De Bernardi
Il ponte sullo Stretto è un mito buono per tutte le stagioni. Non ho niente contro il ponte. Anzi. Ha sempre fatto parte della mia vita. Mia madre da bambino a Reggio Calabria mi portava in via Marina Bassa, dirimpetto a Messina. Il guaio è che i miti una volta creati hanno una potente forza inarrestabile di espansione e non li ferma più nessuno. Aldo Varano su Il Dubbio l'11 maggio 2021. Non ho niente contro il ponte. Anzi. Ha sempre fatto parte della mia vita. Mia madre da bambino a Reggio mi portava in via Marina Bassa, dirimpetto a Messina. M’insegnava a contare usando i vagoni di treni lentissimi (non ancora interrati sotto il Lungomare Falcomatà, forse uno dei più belli d’Italia) che arrivavano dalla Sicilia al porto per risalire la Locride e lo Jonio o viceversa. La conclusione, lei sapeva che l’aspettavo con ingordigia, era sempre uguale: «Tu non farai su e giù col traghetto. Una bella passeggiatina a piedi o in bicicletta sul ponte e sei subito dall’altra parte». Il Ponte, da queste parti, è sempre stato un mito. L’ha creato la natura. A guardare da uno dei due lati, Messina e Reggio, Calabria e Sicilia, sono troppo addosso per non essere attaccate: impossibile non vi sia un modo per andarci a piedi. Per questo reggini e messinesi hanno rubato il mito di Fata Morgana (che è celtico) che illude tutti (specie turisti e forestieri) di poter raggiungere l’altra parte camminando sull’acqua. Il guaio è che i miti una volta creati hanno una potente forza inarrestabile di espansione e non li ferma più nessuno. Solo il tempo, modificando le condizioni storiche li rende banali fino a distruggerli. È andata così anche con Icaro: ha retto millenni fin quando sono arrivati gli aerei ridicolizzandolo. Da quasi mezzo secolo non c’è presidente del Consiglio italiano che non abbia pensato, almeno per un po’ e magari senza dirlo, di potersi consegnare alla storia dei millenni futuri come il costruttore del Ponte. Un rigo prezioso della biografia da consegnare ai posteri. Craxi ma anche D’Alema (che rifinanziarono la Società dello Stretto incaricata del progetto), Prodi e Renzi per non dire di Berlusconi, che si dice abbia personalmente gettato la prima pietra del Ponte esattamente in mezzo allo Stretto per non inimicarsi siciliani o calabresi scegliendo l’altra costa. Piano piano in modo inesorabile la politica s’è impadronita del mito e l’ha usato per ricavarne vantaggi. Soprattutto, per non affrontare i problemi connessi a questo angolo d’Italia. Così ogni volta che è affiorato il disagio sempre più grave del Sud del Mezzogiorno, il Sud del Sud d’Italia sotto un’ipotetica linea tirata tra Salerno e Bari, giù a dire che ci vuole il Ponte. Chi volete che dica di No? Perfino Salvini, col Ff del presidente della Regione Calabria, ha fatto sparire il vecchio slogan “Forza Etna”, che ha infuriato decenni tifando per una potente eruzione del grande vulcano per risolvere i problemi di questa zona, ora invoca e vorrebbe subito inaugurare i cantieri di un Ponte ad unica arcata: quello più spettacolare. Ma è solo pubblicità nella quale sono tutti impegnati, con la sola esclusione degli ambientalisti che lo fanno con la furia di chi non vuole accettare che un modo per attraversare stabilmente lo Stretto prima o poi bisognerà pur tirarlo fuori. E il punto è proprio questo: la foga pubblicitaria e strumentale si conclude nella chiacchiera mentre nessuno sembra essere veramente interessato a fare quel che serve per rendere veramente ineluttabile una qualche forma di attraversamento stabile di quel pezzetto di mare. La prova della verità rispetto al Ponte sta prima e dopo della breve striscia di cemento, intubata o all’aria aperta, necessaria. Oggi per raggiungere lo Stretto da Roma s’impiega un tempo insopportabilmente lungo. Gli investimenti previsti entro i prossimi 12 anni dovrebbero consentire un Roma Villa Sg “soltanto” in poco più di 4 ore piene mentre già da dieci anni fa il Roma Milano impiega tre ore (ma tra 10 anni tra Roma e Milano potrebbero bastare 30 minuti con l’hyperloop: un treno dentro una capsula a induzione magnetica dentro un tubo vuoto). Ma c’è di peggio: tutti gli investimenti per le ferrovie in Sicilia prevedono tempi di percorrenza dei primi decenni del Novecento. A investimenti eseguiti da Catania a Palermo ci vorrebbero due ore. Da Messina a Palermo un’eternità. Ceto politico, imprenditori, dipendenti di fascia alta non prendono un treno dalla Sicilia o per la Sicilia da decenni e non hanno più memoria storica dei disagi da affrontare. A che serve dire di voler attraversare lo Stretto rapidamente se per imboccarlo o una volta attraversato a Nord e a Sud i tempi restano quelli ormai inaccettabili del secolo scorso? Serve ad alimentare un mito che è sempre bello e non costa nulla. O, se proprio si dovesse costruire qualcosa, ad aspettare i turisti giapponesi che verrebbero (forse) a frotte con le loro macchine fotografiche.
Il gioco delle parti del Pd affonda il ponte sullo Stretto. Le conclusioni del Gruppo di Lavoro bocciano il progetto che era stato oggetto di una gara internazionale. Ercole Incalza su Il Quotidiano del Sud l'11 maggio 2021. Ho letto con attenzione la relazione prodotta dal Gruppo di Lavoro istituito dalla Struttura Tecnica di Missione il 27 agosto 2020 sulla base degli indirizzi forniti dall’allora Ministra Paola De Micheli. Nel documento dal titolo “Valutazione di soluzioni alternative per il sistema di attraversamento stabile dello Stretto di Messina”, si precisa che Il metodo di lavoro adottato si è basato sulle seguenti attività che hanno permesso di giungere ad una serie di conclusioni. In particolare il Gruppo di Lavoro ha effettuato le seguenti attività un’analisi socio-economica dell’area dello Stretto di Messina al fine di definire il contesto di riferimento;
2. un’analisi trasportistica in termini di domanda di mobilità, servizi di trasporto ed accessibilità, al fine di valutare le esigenze trasportistiche di un collegamento stabile per lo Stretto di Messina;
3. la definizione del processo decisionale per la selezione dei progetti nel settore dei trasporti, in termini di analisi del quadro normativo in materia di progettazione di fattibilità e dibattito pubblico;
4. un’analisi di benchmark internazionale sui collegamenti stabili delle grandi isole e le aree continentali;
5. un’analisi documentale con riferimento alla storia dei progetti per l’attraversamento stabile dello Stretto, lo stato della programmazione internazionale e nazionale di settore e l’evoluzione delle normative nazionali ed europee sulla progettazione delle gallerie, dei ponti e dei viadotti;
6. lo svolgimento di specifiche audizioni di testimoni selezionati per i loro diversi orientamenti riferiti alle diverse possibili alternative progettuali.
Seguendo questo itinerario di attività il Gruppo di Lavoro è pervenuto alla seguente decisione: “la soluzione aerea a più campate è potenzialmente più conveniente di quella a campata unica. Il Gruppo di Lavoro ritiene di sconsigliare le soluzioni dei tunnel subalveo e in alveo soprattutto per l’elevato rischio sismico ad esse collegate e per la mole di indagini geologiche, geotecniche e fluidodinamiche necessarie per verificare la fattibilità tecnica ma anche per la eccessiva lunghezza necessaria per il tunnel subalveo e la presumibile durata degli approfondimenti necessari per la nuova soluzione del tunnel in alveo, per la quale mancano riferimenti ed esperienze”.
Sempre il Gruppo di Lavoro suggerisce di “sviluppare la prima fase del progetto di fattibilità limitando il confronto ai due sistemi di attraversamento con ponte a campata unica e ponte a più campate. Infine il Gruppo di lavoro precisa che la prima fase del progetto di fattibilità delle diverse soluzioni tecniche possibili dovrà essere sottoposto ad un successivo Dibattito Pubblico come previsto dal Dlgs 50/2016 e dal DPCM n. 76/2018”. Infine il Gruppo di Lavoro “definisce i contenuti e le analisi che andranno previste nella pria fase del progetto di fattibilità anche in coerenza con quanto previsto nel Dibattito Pubblico”.
Le conclusioni del Gruppo di Lavoro praticamente bocciano il progetto del Ponte sullo Stretto che era stato oggetto di una gara internazionale, una gara lanciata da una Società per Azioni formata da Ferrovie dello Stato, ANAS, Regione Sicilia e Regione Calabria; e, in particolare, Ferrovie dello Stato ed ANAS erano state presenti sempre sin dall’inizio della fase progettuale fino all’affidamento alla Società Eurolink, fino alla approvazione definitiva del progetto e avevano seguito tutte le analisi possibili ed immaginabili. Adesso, invece, dei membri del Gruppo di Lavoro provenienti dalla Società Ferrovie dello Stato e dall’ANAS sottoscrivono un parere che impone il riavvio integrale di tutto; in realtà è come se anni di lavoro, anni di approfondimenti fatti da eccellenze professionali a scala mondiale venissero ritenuti inutili e da dimenticare.
Io non voglio assolutamente criticare quanto prodotto da colleghi che stimo e che sicuramente hanno ritenuto opportuno fornire un contributo intellettuale sulla soluzione del collegamento stabile e per questo ritengo però che un contributo intellettuale non possa:
• essere considerato una sentenza decisiva per fare o non fare un’opera
• essere l’occasione per azzerare una proposta progettuale esistente, una proposta che ha superato tutti i filtri necessari per diventare una opera concreta
• essere eletto a modello procedurale quando generato non da una Decreto del Ministro, non da un Decreto del Presidente del Consiglio, non da un atto del Parlamento
Allora mi spiace ancora una volta denunciare apertamente non la responsabilità del Gruppo di Lavoro quanto l’azione dell’allora Ministra De Micheli che, invocando una simile procedura, ha, come riportato nella Determina del settembre 2020, dato precisi indirizzi alla Commissione ed ha praticamente messo la parola fine alla realizzazione dell’opera.
Ora mi aspetto che il Presidente Draghi ponga due quesiti al suo staff di consiglieri:
• che peso ha questo documento, cioè che rilevanza ha una relazione prodotta da una Determina della Struttura Tecnica di Missione del Ministero
• che peso ha non aver effettuato un confronto dettagliato ed analitico con i redattori del progetto esistente e dopo tale confronto dimostrarne la non validità della proposta
Purtroppo sono quesiti che non avranno risposte perché in fondo ha già vinto chi ha scelto nell’agosto del 2020 l’approfondimento non del progetto esistente ma del “collegamento stabile”.
Il Movimento 5 Stelle è stato sempre contrario alla realizzazione dell’opera e quindi ritengo leale il comportamento tenuto in questa fase, mentre dopo l’operato dell’ex Ministra De Micheli, abbiamo capito quanto, in questa occasione, sia stato elevato il tasso di ipocrisia del Partito Democratico. Infatti è incomprensibile che ad una dichiarazione del Ministro Franceschini, allora delegato del Partito Democratico all’interno del Governo, nel mese di luglio 2020, a valle degli Stati Generali coordinati da Colao, una dichiarazione di indispensabilità della realizzazione del ponte “perché sarebbe una follia realizzare l’alta velocità Salerno – Reggio – Palermo senza il ponte”, abbia fatto seguito un comportamento della Ministra De Micheli completamente opposto; come al solito un triste gioco delle parti.
Consiglio infine al Presidente Draghi di chiedere all’attuale Ministro Giovannini:
• perché si è detto sì all’asse ferroviario AV/AC Salerno – Reggio Calabria
• perché si è detto sì all’asse ferroviario Roma – Pescara
• perché si è detto sì all’asse ferroviario Taranto – Metaponto – Potenza – Battipaglia
Perché si è detto sì a tre progetti di cui si dispone solo di studi di fattibilità e si è detto no al ponte di cui si dispone di un progetto pronto per essere cantierato.
Sono queste domande non solo mie ma anche dei funzionari della Unione Europea che stanno esaminando il nostro Recovery Plan.
Il Mezzogiorno ha perso una grande occasione, il Presidente Draghi ed la Ministra del Sud Carfagna sanno bene che questa era ed è una occasione irripetibile. Presidente Draghi le rivolgo una preghiera: non consenta alla sua squadra di Governo di illudere ancora la gente delle due sponde, la gente di Calabria e di Sicilia, la gente del Mezzogiorno ed essendo io meridionale non consenta il ricorso a modalità, a scelte antitetiche alla crescita del nostro territorio, Presidente non lo meritiamo.
Le "idee flessibili" del Movimento. Ponte sullo Stretto, ennesima giravolta grillina: “segnerà la ripartenza”, ma Grillo parlava di “presa per il cu..” Fabio Calcagni su Il Riformista il 10 Maggio 2021. Se a sparare contro è anche il “fuoco amico” del giornalista-influencer Andrea Scanzi, allora la questione è seria. L’ennesima giravolta, praticamente un carpiato con triplo avvitamento, compiuta in queste ora dal Movimento 5 Stelle ha spiazzato anche uno dei commentatori più vicini al mondo pentastallato: domani deputati e senatori grillini terranno infatti un’assemblea congiunta sulla questione del Ponte sullo Stretto, alla presenza del sottosegretario Giancarlo Cancelleri. Sembrano oggi lontanissimi i tempi, era il 2015, quando il Movimento di Beppe Grillo cannoneggiava contro l’infrastruttura che dovrebbe collegare Calabria e Sicilia con post al veleno sul Blog delle Stelle in cui si leggeva che la sua costruzione “è una presa per il culo che serve al Pd per avere un argomento di cui parlare ai talk show e coprire i suoi fallimenti quotidiani, alla mafia per aprire cantieri che non vedranno mai fine e che costerà altri centinaia di milioni ai cittadini assetati”. Parole evidentemente condivise dallo stesso Cancelleri, per ben due volte candidato presidente della Regione Siciliana, nel 2012 e nel 2017. Oggi invece la giravolta al sapore di calcestruzzo, col Ponte che secondo Cancelleri “segnerà la ripartenza dell’Italia”, ha detto il sottosegretario in una intervista a La Stampa. Una posizione che si scontra però col ‘no’ quasi unanime dei parlamentari calabresi M5S, contrari al Ponte sullo Stretto, così come l’ex pasdaran grillino Alessandro Di Battista. L’ex parlamentare, leader dell’area "barricadera" del Movimento e assieme a Casaleggio ‘mente’ della scissione interna ai 5 Stelle, è tornato ad attaccare gli ex compagni di partito. Per Di Battista dietro la costruzione del Ponte sullo Stretto ci sarebbero infatti i boss della malavita, “primi sponsor” del progetto, mentre “chi si oppone un oscurantista, un retrogrado, un inetto. Per l’establishment, il quale si arricchisce molto più con le inaugurazioni che con la messa in sicurezza, chi ricorda lo stato comatoso in cui vertono strade e autostrade, è uno stolto”. Per Dibba “più ascolto politici parlare del Ponte sullo Stretto e più penso che la pandemia non ci abbia insegnato nulla e che, nonostante la retorica, non andrà affatto tutto bene. La pandemia avrebbe dovuto insegnarci che l’attuale modello economico non è più sostenibile”. Come accennato, a criticare la giravolta grillina ci ha pensato anche la firma del Fatto Quotidiano Andrea Scanzi, che ha definito “patetico, nonché caricaturale”, che nel Movimento 5 Stelle “un tempo nemicissimo di tale opera folle siano ora in tanti a esser diventati di colpo possibilisti. Quando non addirittura d’accordo”.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Ponte sullo Stretto, i 5S si dividono. E Casaleggio grida al tradimento. Matteo Pucciarelli su La Repubblica l'11 maggio 2021. Proteste da eletti e iscritti dopo che il viceministro Cancelleri ha aperto all’opera da sempre contestata. Per Conte adesso si apre un nuovo fronte interno. Il complicato rapporto tra la coerenza dei 5 Stelle e le grandi opere — dalla Tav alla Tap, osteggiate finché non è arrivata la prova di governo — si aggiorna con un nuovo e clamoroso capitolo. Dopo che per anni nel Movimento il progetto del Ponte sullo Stretto è stato sbeffeggiato, considerato obsoleto o più semplicemente "una presa per il culo che serve al Pd per avere un argomento di cui parlare ai talk show e coprire i suoi fallimenti quotidiani" (correva l’anno 2015, post ufficiale del M5S), oggi le granitiche certezze sono finite.
Il Ponte sullo Stretto divide pure i grillini. Casaleggio ringrazia. L’ok di Cancelleri al progetto spacca il partito. E Rousseau pubblica un vecchio post NoPonte di Grillo. Rocco Vazzana su Il Dubbio l'11 maggio 2021. Non sempre i ponti riescono a unire. Di certo, non quello sullo Stretto. E senza dubbio non il Movimento 5 Stelle, un partito senza guida, senza freni e senza punti di riferimento da troppo tempo. Così, a scaldare ulteriormente gli animi grillini – e regalare argomenti agli scissionisti di Casaleggio – ci pensa il sottosegretario alle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri, volto popolare dell’attivismo siciliano e storico esponente di quel M5S “No Ponte” che tanta fortuna portò a Beppe Grillo. Sì, perché Cancelleri, lasciando di stucco tutti i parlamentari, ha pensato bene di cancellare con un sol colpo di spugna uno degli ultimi totem della narrazione pentastellata – l’opposizione alla mega opera senza se e senza ma – aprendo senza alcun preavviso alla realizzazione del progetto entro dieci anni. «Dobbiamo dimenticarci il ponte di berlusconiana memoria con una campata sola», dice il sottosegretario. «Ora serve un altro progetto. Io non so se il ponte è una priorità, ma penso a tutti i siciliani che mi chiedono perché l’alta velocità arriva solo fino a Reggio Calabria». La nuova linea dettata da Cancelleri fa balzare sulla sedia gli eletti. Soprattutto i parlamentari calabresi e siciliani, che sul No al Ponte ci hanno messo la faccia per anni, e ora pretendono spiegazioni dal sottosegretario nel corso di una riunione convocata nella serata di ieri. Ma chissà cosa avrà pensato il fondatore, il garante, a sentire un esponente di governo del suo partito, della sua creatura, parlare con tanto entusiasmo di Ponte. Proprio Grillo che nell’ottobre del 2012 aprì la campagna per Regionali siciliane attraversando a nuoto lo Stretto, per denunciare l’inutilità della grande opera. Un’impresa dall’incredibile impatto mediatico per il comico col pallino della politica che non solo portò proprio l’allora candidato governatore Cancelleri a sfiorare il 20 per cento delle preferenze (una novità assoluta per il panorama politico dell’epoca) ma contribuì ad accumulare quel dirompete 25 per cento alle Politiche del febbraio successivo, quando il M5S per la prima volta nella storia della Repubblica entrò in Parlamento. Perché prima ancora che NoTav, NoMuos, NoTap, NoTrivelle, il partito di Beppe Grillo è sempre stato NoPonte. E il “dettaglio” non può certo sfuggire a chi ha solo da guadagnarci a bombardare sulle contraddizioni del quartier generale: Davide Casaleggio. Il figlio del cofondatore non si fa sfuggire un’occasione così ghiotta per colpire sul Blog delle Stelle, ormai diventato a uso e consumo semi esclusivo di Rousseau, l’incoerenza degli ex compagni di strada. L’imprenditore inaugura una nuova rubrica, la “Blog History”, per «combattere il fenomeno della cosiddetta “amnesia selettiva politica” ricordando le battaglie raccontate nel corso degli anni su questo Blog». Dagli archivi della Casaleggio spunta un post del 2016, firmato Beppe Grillo, dal titolo La mia grande opera inutile: il traforo della Sardegna. Nel mirino dell’ex comico c’era Matteo Renzi, all’epoca presidente del Consiglio favorevole al Ponte, insultato con linguaggio aggressivo da Movimento prima versione. «La dichiarazione del Menomato Morale (d’ora in poi ci si riferià a lui come MM) a favore del ponte sullo stretto è un manifesto politico», scriveva il garante cinque anni fa, senza neanche immaginare che un giorno il suo partito, dopo un governo con la Lega e uno col Pd, avrebbe amministrato il Paese anche insieme a Mario Draghi e proposto la realizzazione dell’opera. «È il trionfo del nulla politico che i partiti hanno da offrire in un Paese che ha il record di disoccupazione, soffocato dal debito, con dieci milioni di poveri, che ha perso il 22 per cento della produzione industriale dall’inizio della crisi», spiegava Grillo con una determinazione oggi ripescata dal figlio di Gianroberto per mettere il Movimento alla berlina. «Non può essere una cosa seria. È un gioco a chi dice la boiata più grossa nel momento più drammatico del nostro Paese dal dopoguerra». Casaleggio mette il dito nella piaga pentastellata a poche ore dalla riunione congiunta di deputati e senatori 5S con Cancelleri, giocando di sponda con Alessandro Di Battista che sul No al Ponte ha costruto parte della sua credibilità barricadera. Per il patron di Rousseau è un goal a porta vuota: dividere sui grandi temi un fronte già lacerato e senza prospettive certe. E mentre Conte studia ancora le mosse giudiziarie per entrare in possesso dell’elenco degli iscritti, il proprietario della piattaforma si diverte a demoralizzare l’avversario, lavorando al contempo alla nascita di un nuovo progetto politico “controvento” che riorganizzi i delusi. A Grillo non resta che guardare lo spettacolo dalla platea. Sul palco ci sono altri protagonisti.
Dagonota l'11 maggio 2021. Dopo le dichiarazioni "aperturiste" del sottosegretario grillino alle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri a proposito del ponte sullo Stretto, in tutte le chat del Movimento 5 stelle è scoppiato il putiferio: la sua uscita contraddice totalmente tutto ciò che hanno sempre detto sia il M5s che lo stesso Cancelleri sull'opera. Una storia fatta di accuse e prese in giro a Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, Matteo Salvini e a tutti quelli che sognavano di costruire il ponte. Sui social hanno cominciato subito a girare i video di Cancelleri che invitava il Cavaliere a ficcarsi il ponte in quel posto: "Tutte le volte che sentirete qualcuno dirvi che vuole fare il ponte ditegli di infilarsela...dove vuole quella balla elettorale". I grillini sono furiosi, Beppe Grillo in testa, e le prese per il culo dei fuoriusciti e degli avversari si sprecano. I deputati calabresi, giusto per far capire il clima, hanno pubblicato un comunicato rovente: "È davvero incredibile come ciclicamente si riaccenda il dibattito relativo al ponte sullo Stretto di Messina. Da decenni, periodicamente, qualcuno sente la necessità di far riemergere un progetto di vecchia concezione e di dubbia utilità anziché concentrarsi seriamente sulle reali necessità infrastrutturali del Sud, e della Calabria e Sicilia in particolare", hanno scritto i consiglieri comunali M5S Gioè e Santoro e i parlamentari calabresi del Movimento, Auddino, Dieni, Barbuto, Orrico, Tucci, D'Ippolito, Parentela, Scutellà, Melicchio, Ferrara e Misiti. "Evidentemente non è bastato aver buttato al vento, nel corso dei decenni, centinaia di milioni in inutili progetti spesso non sostenibili e devastanti per il territorio".
Federico Capurso e Ilario Lombardo per "La Stampa" l'11 maggio 2021. Questa sera i parlamentari del Movimento 5 stelle si riuniranno per discutere del ponte sullo stretto di Messina. Un'assemblea indetta in fretta e furia dai vertici grillini per evitare che la spaccatura interna, emersa dopo l'intervista del sottosegretario alle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri su La Stampa, in cui il sottosegretario esaltava la bontà del progetto, finisca per trasformarsi in un'esplosione incontrollata. Forse, però, è già tardi. Nel fronte degli oppositori dell'opera, che si gonfia di ora in ora, alcuni tra i parlamentari più agguerriti sono decisi ad avanzare una mozione di sfiducia nei confronti di Cancelleri. In gergo tecnico, si tratta di una «mozione di censura», la stessa che è stata promossa contro il sottosegretario leghista Claudio Durigon. Questa volta però, clamorosamente, colpirebbe un compagno di partito. Giuseppe Conte per ora non prenderà posizione sul ponte. Vuole aspettare che il gruppo si sfoghi in assemblea. L'argomento, poi, lo aveva affrontato solo pochi giorni fa nel corso dei suoi incontri con i presidenti e i capigruppo delle commissioni parlamentari, organizzati nell'ultima settimana di aprile. A chi lo aveva messo di fronte al tema del ponte sullo Stretto, una delle vecchie battaglie del Movimento, l'ex premier aveva provato a girare al largo: «Non approcciamoci al tema in modo superficiale. Tante volte abbiamo approfondito i dossier e da questi approfondimenti sono poi arrivate valutazioni diverse da quelle iniziali». Un'indicazione di metodo, quella di Conte, per far passare il messaggio che nella nuova fase che si apre per il Movimento ci si dovrà muovere verso posizioni meno ideologiche. Più dossier e meno barricate, dunque, così da evitare altre promesse che non potranno essere mantenute, come accaduto in passato per la Tap, le Autostrade, la Gronda di Genova. Del ponte, dunque, se ne può parlare. Anche se una decisione non è ancora presa. Il nuovo approccio promosso da Conte viene visto però con sospetto da alcuni parlamentari, contrari all'idea di snaturare il Movimento. Un fronte critico composto però in gran parte da nomi che si ritrovano nella lista dei possibili prossimi addii, perché al secondo mandato e quasi certi di non avere un posto nel prossimo Parlamento. Quel che resta sul campo è un'atmosfera tesa, in cui volano insulti sui social. Come accaduto al deputato torinese Luca Carabetta che boccia l'opera definendola un «mostro del passato» e si trova tra i commenti anche quello della collega messinese Angela Raffa, che invece si schiera a favore e replica: «È facile fare post sulla Sicilia quando si è nati e si vive in Piemonte. Noi siciliani quando ordiniamo online su quelle piattaforme tecnologiche che ti piacciono tanto, paghiamo un sovrapprezzo perché il ponte non c'è ed abbiamo tempi di consegna raddoppiati». Lo scontro attira anche gli ex illustri come Alessandro Di Battista: «Riguardo al ponte sullo stretto non ho cambiato idea. Mi indigna solo il fatto che si parli più di tale opera che della revoca delle concessioni autostradali». Gli fa eco anche il senatore Nicola Morra, che si dice «basito, esterrefatto, senza parole» e ricorda l'attraversamento a nuoto dello Stretto da parte di Beppe Grillo, accompagnato da Gianroberto Casaleggio che «lo seguiva su una barchetta». Si rinvanga il passato e nelle chat grilline rimbalza anche il post di tre anni fa in cui Cancelleri, commentando alcune dichiarazioni di Silvio Berlusconi, scriveva: «Eravamo convinti di esserci sbarazzati (del ponte e di Berlusconi) e invece, puntuale a ogni elezione, eccolo ritornare... L'unico ponte che vogliamo è quello che ci collega a un futuro migliore, un futuro a 5 Stelle!». Ma la nuova era del Movimento, forse, passa anche da qui.
«Non si può gettare nel cestino l’opera più importante del Mediterraneo». STEFANIA PRESTIGIACOMO CONTESTA LA RELAZIONE TECNICA La deputata siciliana: «È ridicolo che un Paese che ha investito anni e soldi per la progettazione di una infrastruttura ci debba rinunciare per il parere di un gruppo di studi». Lia Romagno su Il Quotidiano del Sud l'11 maggio 2021. «È ridicolo quello che sta accadendo sul tema del ponte sullo stretto. Un Paese che ha investito anni e soldi per la progettazione di una infrastruttura che si ritiene importante per cambiare il destino del Mezzogiorno, prende il progetto che oltre ad aver ricevuto autorevoli riconoscimenti a livello internazionale, è cantierabile, lo butta nel cestino perché un gruppo di studio dice che a tre campate è più bello». Stefania Prestigiacomo, deputata siciliana di Forza Italia, era ministro all’Ambiente del governo Berlusconi che rilanciò il progetto del Ponte sullo Stretto di Messina, opera dibattuta per decenni, tra continui stop and go secondo l’alternarsi delle maggioranze a Palazzo Chigi. Venerdì scorso il ministro delle Infrastrutture e della mobilità sostenibile, Enrico Giovannini, ha consegnato al Parlamento la relazione della commissione tecnica voluta dal suo predecessore, Paola De Micheli. Il gruppo di lavoro ha promosso il progetto di un collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria, ha esaminato pregi e difetti delle quattro ipotesi in campo, bocciando i due tunnel, in alveo e subalveo, ritenuti troppo esposti al rischio sismico. Restano in campo il ponte ad un’unica campata e quello che ne prevede tre che i tecnici hanno valutato «potenzialmente più conveniente». Un dibattito pubblico dovrebbe ora orientare la scelta del governo. Se la scelta dovesse cadere sul ponte a tre campate, si dovrà ripartire dal via, mettendo da parte un progetto già definitivo, quello con una campata unica a unire le due sponde dello stretto. «È grottesco. È un modo per prender in giro i meridionali e utilizzare gli otto miliardi del ponte diversamente, probabilmente nel Centro Nord», afferma Prestigiacomo secondo cui «questa idea di cambiare il progetto è una azione tombale per il ponte e per le speranze di sviluppo e di reale coesione territoriale della Sicilia. Se il governo avesse veramente intenzione di realizzare il ponte poterebbe sostenere il progetto esistente che è inattaccabile da ogni punto di vista e che ha superato l’iter di autorizzazioni previsto dalla legge che è stato lunghissimo e dettagliato sul piano tecnico, scientifico, ambientale ed economico, incluso il dibattito pubblico». Il governo, sottolinea la deputata azzurra, di fatto non ha ancora ufficializzato la sua posizione: «Vogliamo capire quali sono le reali intenzioni dell’esecutivo. Si è subordinato tutto al parere di una commissione istituita con determina di un direttore. Si tratta di un organo consultivo del precedente ministro, senza alcun rilievo giuridico, una commissione voluta dal ministro per aver un approfondimento. È evidente che siamo davanti ad una scelta che è esclusivamente politica. Se oggi si vuole fare il ponte lo si può fare solo con il progetto già approvato. Se invece non lo si vuole fare si può tornare ai nastri di partenza e ricominciare per non finire mai». «Personalmente – afferma Prestigiacomo – credo sia solo il modo per dirottare altrove gli otto miliardi necessari. Prima il tunnel ora le tre campate». Secondo il parere dei tecnici, qualora si dovesse decidere di portare avanti il “vecchio” progetto del ponte, sarebbe comunque necessario rivederlo. «Mi scusi, ci sono autorevoli pareri che sostengono il contrario. Il punto è che ci sono gli organi preposti, ripeto dalla legge, che certificano la validità dei progetti, non le commissioni di studio. A quegli organi bisogna fare riferimento come per tutte le altre infrastrutture. Se ne possono fare tante di commissioni di questo tipo, e lo dico con tutto il rispetto per le persone che ne hanno fatto parte, sicuramente molto qualificate». «Ricordo che l’idea di istituire questa commissione è nata per sostenere il sì al tunnel ipotizzato dal governo Conte e per valutare se fossero possibili forme alternative al ponte. Ma non ha potuto che dire che il tunnel non si poteva fare. Come si sapeva già da più di venti anni. Ora siamo passati a più campate. Se passasse questa linea dovremmo attendere un’altra pandemia e un altro Recovery plan, ma non noi, i nostri figli o nipoti. Spero che a Palazzo Chigi si rendano conto del vicolo cieco che stanno imboccando».
Ponte, il progetto cambia di nuovo: l’alibi per chi non lo vuole fare. Nino Sunseri su Il Quotidiano del Sud il 9 maggio 2021. A DICHIARARE lo stop al Ponte sullo Stretto nel 2011 fu il governo tecnico di Mario Monti. Dieci anni dopo, nel 2021, un altro esecutivo guidato da una figura estranea ai partiti come Mario Draghi potrebbe riaprire il dossier. Sarebbe un’opera dall’alto valore simbolico per segnare la rinascita del Paese dopo vent’anni di stagnazione culminati nel Covid. Così come l’Autostrada del Sole, costruita in soli quattro anni era stato il traguardo della ricostruzione post-bellica. La porta del Ponte è molto stretta viste le divisioni che attraversano la maggioranza. Questa volta a dare il via libera dovrà essere direttamente il Parlamento dove il dossier approderà in prima battuta il 12 maggio. Ad esaminarla la Commissione Trasporti della Camera guidata da Raffaella Paita. In apparenza la strada sembra spianata. Ma purtroppo è il gioco degli specchi. A marzo c’è già stato un primo voto favorevole. Era stata approvata la proposta nata in casa Pd. A formularla la relatrice Enza Bruno Bossio con l’approvazione del M5s tranne il pentimento successivo. Il testo rimandava la decisione finale al parere del gruppo di lavoro istituito presso il ministero dei Trasporti dall’ex ministra Paola De Micheli. Adesso la risposta è arrivata ed è favorevole. A questo punto scoppia la bagarre. Il parere della commissione, infatti, esclude il tunnel e promuove l’ipotesi del collegamento a tre campate. Sembra un dettaglio ma è la svolta che potrebbe rimettere l’opera in frigorifero per chissà quanto tempo. Il progetto che era stato approvato prima dello stop di Monti prevedeva un collegamento ad una sola campata che copriva i cinque chilometri dello Stretto. Se dovesse passare il programma della commissione sarebbe necessario rifare tutto dall’inizio.
Un’ipotesi che forse non dispiace al ministro Giovannini. Ha ricordato in più di un’occasione che il Ponte non si può fare con i soldi del Recovery perché “non ci sarebbe modo di metterlo in esercizio entro il 2026”. Le indicazioni che arrivano dalla Commissione europea sono chiare: i soldi per le opere pubbliche saranno erogati solo per quelle che prevedono lotti effettivamente fruibili, entro il 2026. E il ragionamento del ministro è che è impossibile realizzare il Ponte entro quella data Ma i partiti che hanno fatto fronte comune per il Ponte sostengono una linea differente. Innanzitutto non è da escludere che, tenendo buono il vecchio progetto, il ponte possa essere completato entro il 2026 considerando che l’Autostrada del Sole, senza le tecnologie moderne è stata costruita in quattro anni. Il riferimento preso ad esempio è la ricostruzione del ponte Morandi crollato a Genova. E non è un caso se sempre nel parere si chiede al governo di adottare “il modello Genova” per velocizzare tutte le opere strategiche. L’altra obiezione all’esecutivo è che il Ponte può uscire dalla logica dell’infrastruttura principalmente viaria dato che intorno alla struttura principale potrebbero insistere infrastrutture, come le ferrovie, accettate e anzi sostenute dall’Europa. Ma è alla questione principale che Giovannini ha sollevato per tenere il Ponte fuori dal Recovery che punta il parere. Nel caso in cui non fosse possibile realizzare il Ponte entro il 2026 potrebbero essere attivi altri lotti funzionali dell’opera, come ad esempio le rampe di accesso, i collegamenti tra la ferrovia e il Ponte, ma anche l’infrastruttura sensoriale per la sicurezza del Ponte stesso. Insomma si potrebbe dire a Bruxelles che entro il 2026 comunque ci sarà un pezzo di Ponte. Il resto potrebbe arrivare con i fondi nazionali oppure sfruttando la disponibilità dei grandi fondi internazionali che investono in infrastrutture. Valga per tutti l’esempio degli australiani di Macquarie pronti a investire in Autostrade per l’Italia dopo aver preso il 40% di Open Fiber. Anche gli americani di Kkr hanno messo una puntata sulla rete di Tim. Su queste premesse le polemiche infuriano. Per il responsabile nazionale Infrastrutture della Lega Edoardo Rixi “Il Ponte sullo Stretto garantirebbe per 4 anni l’assorbimento dell’acciaio prodotto a Taranto oltre a rappresentare una cerniera col continente per l’alta velocità e l’alta capacità ferroviaria”. Insomma, per l’ennesima volta si fatica a trovare la quadra su quella che da più parti è definita come l’unica opera immediatamente cantierabile per il Sud portando l’Alta Velocità da Helsinki a Palermo. Chi non ha smesso di crederci è il gruppo Webuild. Pochi giorni fa l’amministratore delegato Pietro Salini è tornato sull’argomento annunciando che l’opera potrebbe mobilitare fino a centomila posti di lavoro. Come sempre però il diavolo sta nei dettagli: il progetto preparato da Webuild quando ancora si chiamava Impregilo prevedeva una sola campata. Il parere della commissione istituita dal ministero dei Trasporti, invece, preferisce quello a tre campate. Se passa questa linea il Ponte non nascerà mai perché bisognerà fare tutto daccapo.
Il gioco dell’oca dei progetti che non farà mai realizzare il Ponte. Lia Romagno su Il Quotidiano del Sud l'8 maggio 2021. IL COLLEGAMENTO stabile tra la Sicilia e la Calabria va fatto: «Esistono profonde motivazioni per realizzare un sistema di attraversamento stabile dello Stretto di Messina, anche in presenza del previsto potenziamento e riqualificazione dei collegamenti marittimi (collegamento dinamico)». E’ il parere dei tecnici del gruppo di lavoro istituito presso la struttura tecnica di Missione del ministero delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibile, affidato alla relazione che il ministro Enrico Giovannini ha tramesso ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati. I tecnici hanno esaminato pregi e difetti delle ipotesi in campo: i tunnel in alveo e subalveo, su cui hanno espresso dubbi legati al rischio sismico, il ponte ad unica campata e quello che ne prevede tre, ritenendo «che la soluzione aerea a più campate sia potenzialmente più conveniente di quella a campata unica». Una scelta in questo senso porterebbe a ricominciare da zero, considerando che il progetto a una campata può contare su un progetto definitivo, con buona pace quindi chi chi addirittura pensava di poterla affidare al Recovery plan. In particolare, i tecnici ritengono, di «sconsigliare le soluzioni dei tunnel subalveo e in alveo soprattutto per l’elevato rischio sismico ad esse collegato e per la mole di indagini geologiche, geotecniche e fluidodinamiche necessarie per verificarne la fattibilità tecnica, ma anche per l’eccessiva lunghezza necessaria per il tunnel subalveo e la presumibile durata degli approfondimenti necessari per la nuova soluzione del tunnel in alveo, per la quale mancano riferimenti ed esperienze». Il gruppo di lavoro suggerisce «di sviluppare la prima fase del progetto di fattibilità limitando il confronto ai due sistemi di attraversamento con ponte a campata unica e ponte a più campate, anche ipotizzando diverse soluzioni progettuali per i collegamenti a terra e, nel caso del ponte a più campate, per la localizzazione e la struttura». In particolare, il sistema con ponte a campata unica di 3.300 metri, si ricorda, è stato adottato nel progetto definitivo sviluppato nel 2011 dalla Società Stretto di Messina SpA in liquidazione (SdM) e redatto sulla base del progetto preliminare approvato dal CIPE (delibera n. 66 del 1/8/2003). «Il progetto – si sostiene – andrebbe comunque adeguato sia ai risultati delle ulteriori indagini già in parte previste dal progetto definitivo, sia alle nuove Normative Tecniche per le Costruzioni e alle più recenti Specifiche Tecniche di Interoperabilità inerenti al sottosistema infrastruttura e sicurezza delle gallerie ferroviarie, emanate successivamente alla sua redazione». Tra i punti di forza, la relazione indica la disponibilità del progetto definitivo, «ancorché non approvato dal Cipe, che «può consentire una riduzione dei tempi dell’iter approvativo, quindi una maggiore velocità di avvio della fase realizzativa almeno per l’opera di attraversamento stabile». Considera poi la «ridotta sensibilità alla sismicità dell’area e alle conseguenti azioni sismiche», «nessuna interazione con il traffico marittimo, limitato impatto su fondali e flora\fauna marina», la «tecnologia innovativa ed effetto “showcase”», la «salvaguardia delle opere di potenziamento/adeguamento dei collegamenti terrestri con il ponte già realizzate (es. variante di Cannitello)». Il sistema con ponte a più campate, ipotizzabile, ad esempio, a tre campate con due pile in mare, è considerata «una soluzione tecnicamente fattibile, anche grazie agli avanzamenti delle tecnologie di indagine e realizzazione per fondazioni di opere civili marittime a notevoli profondità». Rispetto al ponte a campata unica, si sostiene, il ponte a più campate «potrebbe avere una maggiore estensione complessiva e mantenere al tempo stesso la lunghezza della campata massima simile a quelle già realizzate altrove e, quindi, usufruire di esperienze consolidate, anche dal punto di vista di tempi e costi di realizzazione». Ma «andrebbero approfonditi i temi relativi alla risposta delle pile in acqua rispetto ad eventi sismici e alle forti e variabili correnti marine. Infine, questa soluzione consentirebbe di utilizzare parte degli studi effettuati per la progettazione del ponte a campata unica per la similitudine tecnologica delle due soluzioni». Qualunque sia la scelta finale, per finanziamento dell’opera, il gruppo di lavoro ritiene «più efficiente finanziare il sistema di attraversamento interamente e trasparentemente a carico della finanza pubblica, anche in relazione ai benefici diffusi che l’opera ha sull’intero Paese».
Si fa, non si fa, si rinvia, ci si ripensa. Il paradosso tutto italiano del Ponte sullo Stretto. Ercole Incalza su Il Quotidiano del Sud il 4 maggio 2021. Un’opera approvata da tutti gli organi competenti, si cominciano a realizzare alcune parti dell’opera, però tutto si blocca per una crisi economica e quando tale crisi termina lo Stato ritiene opportuno rimeditare e approfondire la soluzione tecnica. Ora che il ponte sullo Stretto di Messina non è stato più inserito nel Recovery Plan, ora che non è stato neppure inserito nel Piano parallelo, ora che il grido di dolore dei titolari delle due Regioni non è stato, per l’ennesima volta, preso neppure in considerazione dal Governo (tra l’altro neppure se avanzato da una Regione a statuto speciale come la Regione Sicilia), ora che la Unione Europea ha capito che l’Italia non crede in questa opera, non crede cioè in una opera condivisa ed apprezzata dalla stessa Unione Europea, ebbene ora che il film è finito, consentitemi di enunciare il grande paradosso, un grande paradosso che sconvolgerà, a mio avviso, le menti intelligenti, le menti mature del Paese. Il paradosso è questo: immaginate di progettare un’opera, immaginate che l’opera venga approvata da tutti gli organi competenti, immaginate, addirittura, che si comincino anche a realizzare alcune parti dell’opera e immaginate, però, che l’opera si blocchi per una crisi economica e quando tale crisi termina immaginate che lo Stato ritenga opportuno rimeditare e approfondire la soluzione tecnica. Immaginate che si ricominci ad approfondire una soluzione tecnica diversa e quando tale soluzione sia scelta, cioè fra 4,5,6 anni immaginate che ci sia una Ministra De Micheli di turno o un Ministro Giovannini di turno che ritengano opportuno approfondire la ultima soluzione perché essendo passati 4,5,6 anni ci sono nuovi materiali sul mercato, ci sono nuove tecniche costruttive. Non è il gioco dell’oca perché questo che ho descritto è purtroppo una storia vera; sì è un vero paradosso che penso generi solo un senso di vergogna nella gente perché non riesce a capire le motivazioni di un simile paradosso, cioè non riesce a capire, a mio avviso, perché un simile paradosso sia vero. Penso che questa mia banale ma vera denuncia se sarà letta dal Presidente del Consiglio Mario Draghi produrrà quanto meno un senso di sconcerto perché il Presidente sa bene che questa opera è solo osteggiata per motivi di schieramento e non per motivi oggettivi e questo fa paura e preoccupa perché sarebbe bene scoprire chi è o chi sono, stando in Sicilia, i “pupari” che gestiscono questo sconvolgente paradosso. Io ho vissuto in prima persona la difficile esperienza relativa alla approvazione ed all’avvio dei lavori dell’Alta Velocità, ho vissuto i difficili passaggi legati alle conferenze dei servizi con cui sono stati approvati i progetti, conferenze che prima della Legge Obiettivo si concludevano positivamente solo con il voto unanime, ho vissuto la serie di processi penali, però alla fine si sono realizzati già circa 900 Km di nuovi assi ferroviari ad alta velocità e nei prossimi quattro – cinque anni si completeranno ulteriori 250 Km. Altrettanto è avvenuto e sta avvenendo per il nuovo collegamento ferroviario Torino-Lione; anche in questo caso abbiamo assistito ed assistiamo ad un dissenso locale supportato da uno schieramento politico tuttavia l’opera si sta realizzando. Invece per il ponte sullo Stretto vige il grande paradosso; nasce spontaneo chiedersi perché? Forse perché la mancata crescita del Mezzogiorno fa bene ad una parte del Paese. Sono sicuro che il Presidente Draghi comprenda invece che un simile paradosso non fa bene al Paese e questo anomalo e disomogeneo comportamento dello Stato nei confronti del Mezzogiorno incrinerà sempre più la volontà della gente del Sud di sentirsi davvero integrata con il resto del Paese e, come ho detto in un mio recente blog, questo grave comportamento dell’organo centrale rafforzerà sempre più il tipico localismo geografico; cioè il Sud rimarrà sempre più un Sud slegato dal resto del Paese.
(ANSA il 3 magio 2021. Il ministro delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili Enrico Giovannini, in un'intervista a Il Mattino, rilancia il sistema dei trasporti al Sud, a cominciare dall'Alta velocità, attraverso i fondi europei del Pnrr, che prevede l'investimento al Sud del 56% delle risorse totali del Recovery fund assegnato all'Italia, per arrivare anche a un confronto sullo Stretto, dopo la relazione chiesta al Parlamento. Il punto è ora rispettare i tempi e le procedure previste dal'Ue. "Siamo in presenza di un investimento di proporzioni senza precedenti, che avrà importanti effetti sull'occupazione, di una grande opportunità per ridurre le disuguaglianze tra Nord e Sud e anche tra aree urbane e interne - dice Giovannini - Impossibile accusare il governo di disattenzione verso il Mezzogiorno. Per gli investimenti sulla mobilità, la parola chiave è interconnessione, per migliorare la qualità della vita delle persone e aumentare la competitività dei territori". Con particolare attenzione per il rispetto della sostenibilità ambientale: "Utilizzeremo le migliori pratiche metodologie per ridurre l'impatto sugli ecosistemi. A parità di infrastruttura, si preferiranno le imprese che privilegeranno l'economia circolare. Sarà una svolta enorme rispetto al passato". Oltre alla Napoli-Bari, quante e quali delle opere più significative previste per l'Alta velocità al Sud, e non solo, verranno portate a termine entro il 2026? "Alcuni lotti funzionali dell'Alta velocità Salerno-Reggio Calabria - risponde Giovannini - Sappiamo che con le sole risorse del Pnrr non si potrà completare l'intera tratta, ma lo si farà entro il 2030 con quasi 10 miliardi integrativi stanziati dal governo. Ho già trasmesso al Parlamento lo studio di fattibilità che prevede come prioritari i due lotti funzionali, Battipaglia-Praja e Praja-Tarsia, che includono tra l'altro la bretella per Matera e Taranto, e con essi il collegamento ferroviario tra il porto di Gioia Tauro e la rete ferroviaria nazionale, superando gli attuali limiti nel trasporto dei container dovuti all'ampiezza delle gallerie. Questi tre interventi saranno portati a termine entro il 2026". Quanto al Ponte sullo Stretto, Giovannini afferma: "La Commissione istituita dall'ex ministra De Micheli per l'attraversamento stabile dello Stretto ha ultimato i suoi lavori e, come annunciato dal presidente Draghi, la relazione verrà inviata quanto prima al Parlamento. La mancata inclusione dell'opera nel Pnrr dipende dal fatto che i tempi a disposizione per realizzarla, entro cioè il 2026, sono troppo brevi. Questo non vuol dire che, se si decidesse di procedere, non si possano usare altri fondi. La Commissione ha preso in esame diverse tipologie di tunnel e di ponti: sulla base di questo lavoro si aprirà un dibattito politico e pubblico e si esamineranno tutti gli aspetti legati alla fattibilità, non solo economica". Quanto alla scelta di ricorrere ai commissari per accelerare i cantieri, il ministro che, malgrado le norme consentano ai commissari una forte accelerazione, questo non significa che si possono evitare le procedure di valutazione ambientale, delle sovrintendenze e della sicurezza. "I commissariamenti risolvono una parte dei problemi. E qui il tema si intreccia con quello più generale delle semplificazioni delle procedure previsto dal Pnrr'. Un altro nodo riguarda il Codice degli appalti: 'Verrà rivisto complessivamente con una legge delega, com'è stato annunciato. Ma occorrerà del tempo e nel frattempo le opere del Pnrr devono partire. Occorreranno perciò norme specifiche di cui potranno giovarsi anche gli interventi previsti nel Pnrr, ma non solo: per realizzare velocemente gli interventi serve anche una Pubblica amministrazione rafforzata numericamente e soprattutto tecnicamente, come avverrà presto con le 2.800 assunzioni al Sud già previste. La preparazione dei bandi e il controllo sulle opere saranno decisivi e questo non ha nulla a che vedere con il Codice degli appalti".
Emanuele Lauria per repubblica.it il 3 magio 2021. Il ponte sullo Stretto? È utile farlo. La commissione di tecnici istituita dall'ex ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli e confermata dal successore Enrico Giovannini, riapre la partita dell'opera da realizzare sullo Stretto. Nella relazione approvata venerdì dal gruppo di lavoro coordinato dal direttore dell'unità di missione del ministero Giuseppe Catalano, c'è il sostanziale via libera a un collegamento stabile, con l'indicazione favorevole su due progetti: il primo, con uno stato di elaborazione più avanzato, è quello a unica mandata già portato avanti dalla società Stretto di Messina, in liquidazione dal 2013, che aveva individuato come general contractor il consorzio Eurolink capeggiato da Impregilo (oggi Webuild). Progetto attorno al quale, dopo lo stop all'opera voluto dall'ex premier Monti, si è aperto un contenzioso da 700 milioni. Ma, novità rilevante, c'è il semaforo verde dei tecnici anche a un progetto alternativo, un ponte a tre mandate sullo specchio di mare fra Messina e Villa San Giovanni lungo 3,2 chilometri. Anche questa una soluzione a lungo discussa in passato, rilanciata di recente dall'iniziativa di Italferr, seppur rimasta allo stato preliminare: l'infrastruttura realizzata in questo modo sarebbe meno esposta ai rischi di chiusura legati al vento e avrebbe il vantaggio di arrivare direttamente nel capoluogo siciliano e non nella frazione di Ganzirri. Queste sono le opzioni considerate più fattibili sotto il profilo ingegneristico, dei costi e della sicurezza. Preferite, secondo quanto risulta a Repubblica , ad altre come il tunnel flottante e soprattutto il tunnel subalveo - cioè sotto il fondale dello Stretto - che necessiterebbe di gallerie di ingresso troppo lunghe. Sull'opera sottomarina si erano pronunciati favorevolmente l'ex premier Conte ed esponenti di governo dei 5Stelle. La relazione prodotta dalla commissione dopo 8 mesi di attività - 200 pagine, 50 grafici e 50 tabelle - è ora sul tavolo del ministro Giovannini, pronto a girarla al premier Mario Draghi. Nel documento si sottolinea che un collegamento stabile sarebbe un elemento di completamento della rete nazionale dell'Alta velocità, altrimenti destinata a interrompersi a Reggio Calabria, e consentrebbe una riduzione del 30 per cento dei tempi di viaggio. Ma una valutazione definitiva è rinviata alla politica: Draghi, nel corso del dibattito in Senato sul Pnrr della scorsa settimana, non ha espresso contrarietà nei riguardi dell'opera, sottolineando che la relazione dei tecnici sarà sottoposta al giudizio del Parlamento, dove attualmente l'asse pro-ponte sembra maggioritario. Resta un nodo non esattamente secondario, quello dei soldi. L'opera non è stata inserita nel Recovery plan, anche per una questione di tempi. "Per le regole del Pnrr - ha spiegato nei giorni scorsi Giovannini - entro il 2026 i lotti devono essere in esercizio, fruibili. Quella data non è negoziabile". Restano in piedi altre ipotesi, fra le quali il project financing , la concessione a privati che assorbirebbero i costi con l'introito dei pedaggi. Giovannini ha ricordato di "non aver mai espresso punti di vista sul ponte" e anche lui ha rinviato a un dibattito in Parlamento. Si apre un'altra pagina, nella lunghissima storia dell'attraversamento dello Stretto, esattamente un secolo dopo i primi bozzetti. Finora nulla più di un libro dei sogni. Da oggi, chissà.
Ponte sullo Stretto, tutti d'accordo: indispensabile ma meglio non farlo. Ercole Incalza su Il Quotidiano del Sud il 16 aprile 2021. È vero che una delle nostre negatività consolidate sia la carenza della memoria storica ma dalla istituzione della Commissione Colao non è ancora passato un anno. Voglio solo ricordare che il 10 aprile dello scorso anno, l’allora Presidente Conte istituì una Commissione presieduta dal manager aziendale Vittorio Colao, oggi Ministro dell’innovazione tecnologica e la transizione digitale. Per due mesi tale Commissione ha lavorato per fornire al Governo un piano strategico, articolato in ben 102 schede, accompagnate da un dettagliato rapporto di una cinquantina di pagine: «Iniziative per il rilancio, Italia 2020-2022». Sulla base di tale documento il Presidente del Consiglio annunciò la convocazione degli Stati generali. In realtà con tale iniziativa si voleva meglio interloquire con sindacati e con le associazioni sulle misure per il rilancio. E così, il 13 giugno dello scorso anno partirono e si conclusero dopo 9 giorni. Ebbene, dopo questa assise ci furono dichiarazioni davvero entusiasmanti e, al tempo stesso, rassicuranti sulla realizzazione del collegamento stabile tra la Sicilia ed il continente; non riporto tutte le dichiarazioni di tanti Ministri o di tanti opinion leader, preferisco riportare solo quella del ministro Dario Franceschini allora Capo della Delegazione del Partito Democratico all’interno del Governo Conte II; la sua dichiarazione fu esaustiva: “Sarebbe assurdo realizzare l’alta velocità nel Sud del Paese senza prolungare tale asse fino a Palermo e sarebbe assurdo quindi non realizzare contemporaneamente un collegamento stabile tra Reggio e Messina”. Dopo è arrivato l’impegno dell’allora Ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti De Micheli nell’avviare una apposita Commissione che, entro il 15 ottobre del 2020, avrebbe dovuto produrre delle conclusioni in merito alla soluzione più idonea relativa alla realizzazione di un collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria. Poi sono arrivate le Linee Guida della Unione Europea relative alle caratteristiche ed ai vincoli cui dovevano sottostare le proposte progettuali da inserire nel Recovery Plan; da tali Linee Guida è emerso che bisognava proporre opere relative a progetti organici da concludersi entro il 31 dicembre del 2026. A questo punto esaminiamo quale sia stato il comportamento degli altri Stati della Unione Europea e, al tempo stesso verifichiamo invece quale linea sta seguendo il nostro Paese; prendo come esempio la Francia, questo Paese ha approfittato, come la maggior parte degli Paesi della Unione, di questa interessante ed irripetibile fase programmatica per redigere una proposta supportata finanziariamente per 40 miliardi con risorse del Recovery Fund e per 60 miliardi con risorse del proprio bilancio ordinario o proveniente da altri fondi comunitari. In tal modo la Francia ha, correttamente, evitato la soglia temporale del 2026 in quanto le opere, con un arco temporale realizzativo più lungo, hanno trovato copertura su altre fonti e in tal modo si consente il raggiungimento della massima contestualità e della massima organicità all’intero Recovery Plan. Cosa ha fatto il nostro Paese, o meglio cosa sta facendo il nostro Paese; a mio avviso sta prendendo in giro l’Unione Europea e sé stesso. Faccio, in proposito, due esempi di proposte inoltrate all’attenzione del Parlamento da parte del Governo e che ritengo altamente significativi:
1. Asse ferroviario ad alta velocità Roma – Pescara (il cui importo stimato globale supera i 6,2 miliardi di euro), nel Recovery Plan entrano solo interventi ubicati nella tratta Pescara – interporto di Chieti, e altri segmenti in vicinanza del nodo di Roma, per un valore globale di 620 milioni;
2. Asse ferroviario ad alta velocità Salerno – Reggio Calabria (il cui importo stimato globale supera gli 8,5 miliardi), nel Recovery Plan entrano solo interventi relativi alla tratta Battipaglia – Praia a mare per un valore globale di 1,8 miliardi.
Penso che nasca spontaneo un interrogativo che, per ora rivolgo io ai redattori di questa proposta e, sono sicuro, quanto prima tale interrogativo sarà posto dalla Unione Europea: che senso ha realizzare un segmento di un asse ferroviario senza garantire davvero la sua integrale efficienza ed efficacia funzionale. Ancora più preoccupante sarà un secondo interrogativo: perché non si è seguita una simile articolazione programmatica anche per la realizzazione del Ponte sullo Stretto e perché, come d’altra parte anche indicato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze Daniele Franco nell’audizione in Commissione Bilanci della Camera, non si sia fatto ricorso a distinte fonti di copertura (ricordo sempre che ci sono 30 miliardi di euro del Programma del Fondo di Coesione e Sviluppo 2014 – 2020).
Penso però sia giunta, dopo tanti anni di altalene, di comportamenti schizofrenici e di assurdi camaleontismi, l’occasione per chiarire due distinti misteri:
1. Il Governo attuale ha una maggioranza formata dal Partito Democratico, da Italia Viva, da Forza Italia, dalla Lega, da Liberi e Uguali e dal Movimento 5 Stelle; escluso il Movimento 5 Stelle e forse Liberi e Uguali, tutti sono a favore di un collegamento stabile e anche il Partito Fratelli d’Italia, pur stando alla opposizione, è a favore dell’opera. Sarebbe, quindi, opportuno conoscere perché si è deciso di non inserirlo nel Recovery Plan seguendo anche quanto fatto per le tratte ferroviarie ad alta velocità;
2. Cosa rimane in termini di infrastrutture inserite nel Recovery Plan per il Mezzogiorno: in realtà, come da me ricordato da mesi, rimane una somma, vera e concreta in termini di rispetto delle logiche imposte dalla Unione Europea, non superiore ai 6 – 7 miliardi e questo contrasta con quanto assicurato dall’ex Ministro del Sud Provenzano (almeno il 40% delle risorse per le infrastrutture al Sud); contrasta con quanto assicurato dalla ex Ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti De Micheli (almeno una quota del 45 % al Sud); contrasta con quanto assicurato dall’ex Presidente del Consiglio Conte nel suo ultimo intervento in Parlamento (al Sud bisogna garantire più del 50%)
Due misteri che durano da molto tempo e che una volta trovavano risposta nel comportamento della Lega mirato a non trasferire risorse al Sud o nella ignavia di Governi che avevano sottovalutato il ruolo strategico dell’intero Mezzogiorno. Oggi, ripeto escluso il Movimento 5 Stelle da sempre contrario alla realizzazione del ponte ed in genere a tutte le opere infrastrutturali in quanto convinti che in tal modo si incentivavano le organizzazioni malavitose, le forze politiche stanno, purtroppo, ammettendo che il Mezzogiorno è un’ottima occasione per affrontare e dibattere determinate problematiche avendo però sempre cura nel non risolverle. Dovevamo vivere questa grande occasione programmatica e strategica come la redazione del Recovery Plan per capirlo e per scoprirlo. Ho solo una speranza: il Presidente Draghi non credo possa salire su un treno pieno di ipocriti.
Ponte sullo Stretto, dilagano i “no” dei dilettanti: i pareri positivi degli esperti vengono ignorati. Si rischia di perdere un patrimonio di progetti autorevoli provocando pesanti ricadute in termini di sviluppo e coesione territoriale. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 7 aprile 2021. Stranisce che l’atteggiamento nei confronti delle problematiche che riguardano il Sud sia così superficiale e approssimativo anche da parte di personaggi in genere estremamente contenuti e prudenti. L’ultimo della serie il ministro Roberto Cingolani. Si tratta di un fisico, accademico: «Il Ponte sullo Stretto? Mi lascia perplesso. Lì da un lato c’è una situazione di sismicità critica, dall’altro lato penserei più a potenziare le infrastrutture fondamentali per Sicilia e Calabria. Per ora aspetterei, ma non ho studiato il progetto». Così a Radio Capital.
L’APPROSSIMAZIONE. Ora, che si lasci a dichiarazioni in libertà l’avventore del Bar dello Sport non è auspicabile ma è prevedibile. Ma che un ministro di peso come Cingolani si lasci andare a dichiarazioni di tal genere è stucchevole è disarmante. Ma al di là delle dichiarazioni del neo ministro, il tema di fondo riguarda la leggerezza con la quale politici, giornalisti, imprenditori, politologi parlano dei temi che riguardano il Sud. Tutti diventano esperti e si lanciano in giudizi ultimativi rispetto a tematiche, come lo sviluppo, l’infrastrutturazione, le ragioni del ritardo, le esigenze fondamentali. Ciò accade perché tutti sanno che non ci saranno reazioni e, in ogni caso, esse saranno contenute e non arriveranno certamente ai media nazionali. A parte la certezza che cavalcare luoghi comuni sul Sud, come la mancanza di volontà di lavorare, l’essere un po’ approssimativi e superficiali, arruffoni è un po’ ladruncoli trova favorevoli parecchi.
VERITÀ AGGIRATA. Per cui anche Ficarra e Picone possono parlare del ponte come di una barzelletta da avanspettacolo, Dolce e Gabbana si consentono di dire “meglio le navi del ponte sullo stretto”, Giuseppe Sala può affermare: «Smettiamola di parlare di sogni sciocchi come il Ponte sullo stretto». Enumerare poi i conduttori di talk show che interrompono quando il discorso si fa preciso su tematiche che attengono al Sud, come quelle sostenute dall’onorevole Giusy Bartolozzi o da Matilde Siracusano di Forza Italia a Sky tg 24 o dalla senatrice Silvia Vono o dal senatore Davide Faraone di Italia Viva è impossibile, tanto accade spesso. Come pure le battute alla Gabriele Albertini in “Stasera Italia contro Napoli” che Barbara Palombelli tenta invano di contenere, fanno pensare a un razzismo strisciante e diffuso. Giudizi che non tengono conto, per esempio nel caso del ponte sullo stretto, di cosa ha dichiarato la comunità scientifica internazionale.
IL DOCUMENTO FIRMATO DA 40 ESPERTI. In un documento firmato da 40 ordinari di costruzioni (compreso l’ingegnere giapponese Yasutsugu Yamasaki, progettista di ponti sospesi, o l’ingegner Giulio Ballio, professore emerito di Tecnica delle costruzioni, già rettore del Politecnico di Milano) si legge: «Siamo consapevoli che ci compete difendere un progetto se infondatamente bistrattato con conseguenze che potrebbero determinare la dissipazione di un grande patrimonio ingegneristico, scientifico e socioeconomico a oggi consolidato in un progetto definitivo. Siamo altresì consapevoli – continuano – della necessità di richiamare l’attenzione sulla realtà dei fatti, per superare posizioni troppo spesso retoriche e non basate su criteri tecnici e scientifici. Lo straordinario lavoro svolto da un grande team internazionale, a guida italiana, al quale hanno partecipato studiosi e istituzioni scientifiche tra i più autorevoli del mondo, nonché leader mondiali nella progettazione di ponti sospesi e nella realizzazione di grandi opere, rischia oggi di essere definitivamente perso. Trascinando con sé tutte le importanti ricadute in termini di sviluppo e coesione territoriale italiani». Bene: quello che questi accademici, scienziati dicono diventa irrilevante per Cingolani che si consente di aver dubbi perché «lì vi è una criticità sismica». Che poi Salini di We Build rilasci delle dichiarazioni circa i tempi di costruzione, contraddicendo il ministro Enrico Giovannini sulla possibilità che possa essere inserito nel Recovery plan, considerata la scadenza supposta del 2026, non conta. Lui non viene chiamato dai ministri per accertare una realizzabilità tecnica che è stata affermata da un’azienda, eccellenza italiana nel mondo, che costruisce ovunque, ma le cui capacità evidentemente vengono messe in discussione in patria. Che poi Gaetano Armao, vicepresidente della regione Sicilia, oltre che docente universitario, faccia fare una ricerca da Prometeia che dimostra che i costi dell’insularità per la Sicilia sono di sei miliardi all’anno, e che quindi il ponte si ripagherebbe in un solo anno, anche questo diventa irrilevante in un approccio del sentito dire, dei luoghi comuni, delle paure ataviche umane di chi pensa che un ponte a campata unica non possa reggere, visto che deve fare un salto di tre chilometri.
COSTI AMMORTIZZATI. Lo studio della Regione dice: «L’insularità costa 6,54 miliardi di euro annui del Prodotto interno lordo regionale. Tenendo in considerazione i costi dei trasporti e le conseguenze sugli operatori economici e i vari settori di attività, la stima dell’impatto della riduzione dei prezzi sul Pil risulterebbe pari al 6,8 per cento. A rivelarlo è uno studio – “Stima dei costi dell’insularità per la Sicilia” – condotto dal governo Musumeci, con il supporto dell’Istituto di ricerca Prometeia, istituto con credibilità internazionale». Forse è il caso che sul tema di questo secolo del Paese, che è lo sviluppo del Sud, il presidente Mario Draghi faccia adottare ai suoi ministri quella riservatezza che tutto il governo sta adottando per gli argomenti importanti, per evitare di sentire sproloqui inconcludenti, e che poi si occupi personalmente dei dossier più importanti, tra i quali l’alta velocità ferroviaria per il Mezzogiorno e conseguente tracciato montano o marino, compreso il salto dei tre chilometri, per evitare la sensazione che sul parente povero, «ogni villan che parteggiando viene», come dice Dante, possa esprimere giudizi e dare soluzioni, perlomeno avventate se non improvvisate.
ANCHE L’UNIONE EUROPEA LEGITTIMA IL NUOVO PONTE DEL MEDITERRANEO. Scrive il presidente del Comitato europeo delle Regioni, Tzitzikostas: «Condivido le vostre opinioni sull'alta priorità che deve essere data agli obiettivi di coesione sociale e territoriale». Ercole Incalza su Il Quotidiano del Sud il 2 aprile 2021. È davvero importante la nota indirizzata al Vicepresidente ed Assessore all’Economia della Regione Siciliana, Gaetano Armao, dal Presidente del Comitato Europeo delle Regioni, Apostolos Tzitzikostas; in tale nota si esprime la piena condivisione delle politiche di coesione socio – territoriale della Regione Siciliana volte al rilancio economico, attraverso una corretta ripartizione delle risorse del PNR, ed in particolare all’azione di contrasto agli svantaggi economici per i cittadini e le imprese dell’Isola derivanti dalla condizione di insularità. “Condivido le vostre opinioni – scrive il Presidente Tzitzikostas – sull’alta priorità che deve essere data agli obiettivi di coesione sociale e territoriale. In effetti, una corretta ponderazione della ripartizione delle risorse tra le regioni e un pieno coinvolgimento degli enti locali e regionali sono indispensabili affinché il PNR possa garantire il suo massimo impatto.” “Come sapete, – aggiunge Tzitzikostas – durante la sessione plenaria di marzo, abbiamo condiviso energicamente queste prove e le nostre preoccupazioni con il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel e con il vicepresidente esecutivo della Commissione europea, Dombrovskis. Entrambi hanno mostrato piena consapevolezza del ruolo che le regioni e le città devono svolgere nella ripresa dell’Europa. Secondo il regolamento del Recovery and Resilience Facility e le ultime dichiarazioni ufficiali, la Commissione europea sembra veramente impegnata a valutare i piani di ripresa degli Stati membri tenendo conto di come le regioni e le città sono state consultate e di come il loro contributo è stato accolto.” In conclusione della sua nota, la massima autorità di raccordo delle Regioni europee, rimarca il pieno sostegno alle iniziative, peraltro ampiamente condivise a livello comunitario, messe in campo dalla Regione Siciliana: “La ringrazio ancora una volta per il lavoro che presenta e per il contributo che fornirà alla mobilitazione del Comitato su questa sfida decisiva. Avete il pieno sostegno del Comitato per il vostro impegno a ridurre le disparità socio-economiche e a costruire una ripresa sostenibile ed equa, insieme agli enti locali e regionali.” “Accogliamo con grande soddisfazione – ha dichiarato il Vicepresidente ed Assessore all’Economia della Regione Siciliana, Gaetano Armao – l’endorsement del Comitato Europeo delle Regioni alle politiche del Governo Musumeci in ordine al rilancio economico e di contrasto ai costi derivanti dalla condizione d’insularità. Una condizione di svantaggio che uno studio della Regione quantifica in circa 6,5 miliardi di euro all’anno, ovvero una tassa occulta di circa 1300 euro per ogni siciliano. Un ‘costo d’esercizio’ insostenibile che rischia, in combinato con l’incipiente crisi economica e finanziaria causata dalla pandemia, di aggravare ulteriormente l’economia siciliana”. Ho riportato integralmente questo comunicato perché ritengo che sarà davvero difficile per l’attuale compagine di Governo raccontare programmi e scelte strategiche per il Mezzogiorno senza dimostrare contestualmente quando e come attuare davvero le varie iniziative ed il tema legato alla “insularità” diventa non più legato solo ad un danno alla fluidità delle movimentazioni ma un danno diretto alla crescita socio economica della intera realtà siciliana ed è davvero significativa la precisazione che il Presidente Tzitzikostas formula nella sua nota quando ribadisce: “la Commissione europea sembra veramente impegnata a valutare i piani di ripresa degli Stati membri tenendo conto di come le regioni e le città sono state consultate e di come il loro contributo è stato accolto.” Ed allora mi chiedo quali siano state le risposte fornite alla Presidente della Regione Umbria Tesei che, su incarico della Conferenza Stato Regioni, aveva chiesto formalmente di conoscere come lo Stato intendeva coinvolgere le Regioni nella definizione del Recovery Plan. A tale proposito in più occasioni ho ricordato che in base ad una precisa sentenza della Corte Costituzionale si evince che ogni scelta a scala territoriale debba essere supportata da apposita “intesa tra Stato e Regioni” e avevo ricordato che nel caso della Legge 443/2001 (legge Obiettivo) fu necessario produrre un Decreto Legislativo, il 190/2002, attraverso il quale si assicurò il ricorso allo strumento della Intesa Generale Quadro tra Stato e Regioni; uno strumento che veniva sottoscritto dal Presidente del Consiglio, dal Presidente della Regione e dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. Ed allora diventa davvero pericoloso l’attuale comportamento adottato dal Governo nei confronti della Regione Sicilia e della Regione Calabria; cioè la completa assenza di risposte ad un accordo sottoscritto già dalle due Regioni sulla indispensabilità di un collegamento stabile, sulla necessità di dare avvio alla realizzazione di un intervento infrastrutturale pronto già da tempo. Ed allora, in un momento di diffuso attrito tra Stato e Regioni in merito alla gestione della sanità, ritengo opportuno ricordare che nella Costituzione all’articolo 117 tra l’altro viene precisato: “Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: …governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario…” Ed allora non si può sottovalutare questo dettato della Costituzione, non si può, anche in questo specifico caso, aprire uno scontro analogo a quello che stiamo vivendo sulle discrasie emerse sul comportamento delle singole realtà regionali nella gestione delle emergenze legate alla “pandemia”, in questo caso a commettere una forzatura non sarebbero le Regioni ma lo Stato. Voglio far notare che tra le materie di legislazione concorrente non c’è solo il governo del territorio, non ci sono solo i porti e gli aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione ma anche “l’armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica” e, in quanto assolutamente impreparato in questa tematica, non posso però sottovalutare questa specifica voce sulla armonizzazione dei bilanci pubblici in quanto il Recovery Plan ed in modo particolare le infrastrutture in esso contenute, se generano ricadute, se producono convenienze e variano il Prodotto Interno Lordo di determinate realtà regionali, non possono trovare un diretto e misurabile accordo tra le parti. Forse nel caso specifico l’accordo, la possibile intesa, avrebbe senso costruirla non solo tra le due Regioni Sicilia e Calabria ma tra lo Stato e tutte le Regioni del Mezzogiorno che accedono ai Fondi di Coesione e Sviluppo e cioè a tutte e otto le Regioni del Sud. Questa scelta a mio avviso è supportata da due distinte motivazioni:
Le Regioni del Sud utilizzano fino all’80% del Fondo di Coesione e Sviluppo
Le Regioni del Sud potrebbero selezionare e scegliere interventi i cui benefici potrebbero ricadere, in modo diffuso ed organico, sull’intero assetto geo-economico.
Spero che il Governo segua un simile itinerario, spero che le Regioni del Mezzogiorno comprendano la necessità di essere portatori di interessi non legati essenzialmente all’ambito territoriale di propria competenza ma a qualcosa che superi i livelli strategici legati spesso a finalità localistiche prive di un respiro sovraregionale. Penso sia abbastanza chiaro ma l’Unione Europea ci ha ancora una volta ricordato che il Ponte sullo Stretto non è un semplice collegamento fisico ma è una rivoluzione economica dell’intero assetto comunitario; spero che questo Governo comprenda queste ripetute sollecitazioni.
Dopo dieci anni l’appalto per il ponte crollato, la metafora del Sud abbandonato. Nel 2011 cedono due piloni del ponte ferroviario tra Gela e Caltagirone. Solo nei giorni scorsi Rfi ha annunciato lo stanziamento da 10 milioni di euro per la ricostruzione. Intanto per arrivare in treno a Catania (110 km di distanza) occorrono cinque ore. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 29 marzo 2021. Va bene l’elogio del tempo lungo, ma forse qualcuno ha scambiato l’invito a un "pensiero meridiano" del sociologo recentemente scomparso Franco Cassano con una richiesta di lasciare davvero indietro di decenni i servizi ferroviari del Meridione. E consentire ai "fortunati" meridionali di viaggiare con lentezza e riflettere sull’esistenza o sulle sorti del Pianeta. Perché mentre il dibattito sulle grandi infrastrutture nel Meridione è incentrato sull’eterna diatriba sul Ponte dello Stretto, e sugli eterni progetti e cantieri delle linee veloci Napoli-Bari, Salerno-Reggio-Calabria e Palermo-Catania, nei giorni scorsi in Sicilia il governo Musumeci ha annunciato la comunicazione da parte di Rete ferrovie italiane dell’avvio della gara d’appalto da dieci milioni di euro per ripristinare una parte, piccola, del collegamento tra Gela e Catania interrotto dopo il crollo di un ponte all’altezza di Niscemi. Fin qui, nulla di strano. Senonché a ben vedere si scopre che il ponte in questione non è crollato qualche mese fa. Ma dieci anni fa, nel maggio 2011. Nel Sud a binario unico (la gran parte delle linee sotto Roma non hanno i due binari e alcune non sono nemmeno elettrizzate) ci son voluti dieci anni, dicasi dieci, per bandire una gara e programmare almento l’avvio del ripristino della linea che collega un pezzo di Sicilia a Catania. Un pezzo che conta centinaia di migliaia di abitanti tra Gela, Licata, Niscemi e altri paesini della zona. Oggi per andare da Gela a Catania in treno e percorrere una distanza di circa 110 chilometri occorrono anche cinque ore, come raccontato dal TgrSicilia. Tre ore se si sceglie di andare in autobus fino a Caltagirone e da qui proseguire in treno per Catania. Ma attenzione: in realtà per ristrutturate tutta la tratta occorrono 265 milioni e al momento ne sono stati stanziati appena 90 milioni. Rfi ha già avviato la progettazione degli undici viadotti da Gela a Caltagirone ma, mancando ancora i fondi, chissà quando tornerà operativa del tutto questa tratta. Ora, per carità, applicare il modello Morandi utilizzato a Genova(con commissari e procedure semplificate per realizzare l’opera intera in meno di 24 mesi) ad un ponticello crollato a Sud del Sud in un angolo del Paese dimenticato da tutti, nessuno lo chiede. Ma festeggiare perché dopo dieci anni finalmente sono state stanziate le risorse per fare la gara (quindi passeranno ancora anni prima del ripristino della linea) sa davvero di beffa. Ed è difficile consolarsi con questa "fortuna" di potersi muovere con lentezza.
Perché l’Italia non può dire no al Ponte sullo stretto di Messina. Un’opera che ha subito tutti i filtri istruttori di natura tecnica ed economica e che ha portato a termine analisi soprattutto di carattere ambientale. Ercole Incalza su Il Quotidiano del Sud il 17 marzo 2021. Il quotidiano Il Messaggero il giorno 15 marzo ha pubblicato un articolo dal titolo: “Così il treno avvicinerà l’Italia: Salerno – Reggio Calabria, 60 minuti in meno e da Roma a Bari in appena tre ore” e ha riportato il seguente quadro sintetico che pubblichiamo in fondo. Questo quadro è senza dubbio carico di speranza ed anche di certezze perché, va dato atto alle Ferrovie dello Stato, di aver mantenuto quasi sempre gli impegni assunti nel tempo sulla realizzazione delle reti ferroviarie ad alta velocità e, se ritardi ci sono stati, nel maggior parte dei casi si è trattato di un ritardo nei trasferimenti di risorse da parte dello Stato o dei blocchi nell’avanzamento dell’approvazione dei progetti come quello effettuato sempre dal Governo dal 2015 in poi attraverso il metodo del project review. Questo quadro mette sì in evidenza un contenimento dei tempi di percorrenza ma denuncia chiaramente una irreversibile marginalizzazione della Sicilia. I siciliani otterranno una riduzione rilevante dei tempi di collegamento tra Palermo e Catania e per il resto la rete ferroviaria siciliana servirà solo per rispondere alle esigenze di mobilità interna dei siciliani, mentre per le merci, anno dopo anno, la movimentazione su strada annullerà del tutto quella su ferrovia, già oggi, sempre in Sicilia in avanzata fase di azzeramento. Allora a cosa è servito l’impegno della Unione Europea nel redigere il sistema delle Reti TEN – T, a cosa è valso il chiaro obbligo di dare continuità funzionale ai nove Corridoi plurimodali se poi oggi proprio il Corridoio Helsinki – La Valletta, che a tutti gli effetti possiamo considerare la spina dorsale dell’intero assetto comunitario a 27 Paesi, non trova la continuità territoriale tra la Sicilia ed il continente? Tra l’altro non credo sia sufficiente prendere in considerazione solo l’approccio del nostro Governo ancora non convinto della realizzazione di un simile intervento; è bene infatti ricordare che le Reti TEN – T sono state approvate dalla Commissione Europea e dal Parlamento Europeo e quindi rimangono allo stato l’unico riferimento pianificatorio della Unione Europea; un riferimento pianificatorio che non può essere in alcun modo disatteso dagli Stati membri della Unione Europea e, soprattutto, sarà utile conoscere come possa il nostro Paese rispondere correttamente alle finalità del redigendo Recovery Plan caratterizzato da una chiara finalità ad abbattere l’inquinamento atmosferico, come possa il nostro Governo rispondere al nuovo approccio green consentendo, però, contestualmente che oltre 60 milioni di tonnellate di merci, per oltre il 95%, si muovano in Sicilia solo su strada. Cioè come potranno continuare a difendere le loro idee i sostenitori del “collegamento stabile teorico” (dopo dirò cosa intendo per collegamento stabile teorico) quando si troveranno nell’isola di fronte ad una produzione di milioni di CO2 sempre più inarrestabile, quando assisteranno ad una incidentalità stradale sempre più crescente e ad un consumo energetico completamente antitetico con le finalità descritte proprio nelle linee guida e nel Regolamento per la Ripresa e la Resilienza approvato dal Parlamento Europeo? In realtà finora, sia nel Governo Conte II°, sia nell’attuale Governo, abbiamo assistito sì ad un crollo del tabù del collegamento stabile tra la Sicilia ed il Continente (sarebbe più igienico dire l’Europa) ma contestualmente abbiamo assistito prima all’effetto tartaruga della Commissione istituita dalla Ministra De Micheli sulla scelta della possibile soluzione, poi abbiamo assistito alla esigenza di approfondimenti, poi all’ultima dichiarazione del Ministro Giovannini sulla necessità di completare prima le varie reti, le varie infrastrutture direttamente e indirettamente interagenti con il collegamento stabile. Solo per un problema di età dal 1986, dalla data in cui è stato approvato il primo Piano Generale dei Trasporti, ho raccolto tutte le dichiarazioni non di coloro che erano contrari, perché va dato atto la loro onestà mentale è stata sempre trasparente e chiara, ma di coloro che “ritenevano l’opera essenziale ma solo a valle della sistemazione delle reti in Sicilia e in Calabria”, di coloro che “ritenevano opportuno prima della realizzazione di un’opera così impegnativa e senza dubbio essenziale effettuare una verifica approfondita delle ricadute economiche dirette ed indirette”, di coloro che “pur condividendo l’opera ritenevano opportuno effettuare, prima della scelta definitiva, un dibattito pubblico”. Potrei continuare ma penso emerga subito, da questa mia elencazione, che queste dichiarazioni, tutte mirate a realizzare quello che ho definito “collegamento stabile teorico”, non possono più concludersi e definirsi all’interno del Paese ma necessariamente la sede deve essere solo quella della Unione Europea e in quella sede dovranno far valere il proprio ruolo anche le Regioni del Mezzogiorno perché non ha senso ricevere risorse dal Fondo di Coesione e Sviluppo (30 miliardi da spendere ancora entro il 31 dicembre 2023 e circa 50 miliardi nel Programma 2021 – 2027) e poi non consentire al Mezzogiorno di disporre di un cordone ombelicale (il Corridoio Helsinki La Valletta) in grado di essere una arteria fluida capace di dare alla Sicilia e al Mezzogiorno tutti i gradi di libertà per interagire logisticamente con il vasto sistema comunitario. La cosa grave è che non si vuole dire di sì ad un’opera che ha subito tutti i filtri istruttori di natura tecnica ed economica, ad un’opera che ha portato a termine analisi sofisticate soprattutto di carattere ambientale, ad un’opera la cui cantierabilità è testimoniata dal fatto che è già stata spostata una tratta ferroviaria in Calabria per consentire la ubicazione di una delle due pile del Ponte. Allora forse è il momento di chiedere, proprio a questo Governo, che in questi giorni deve portare a termini due difficili scadenze, quali il Recovery Plan ed il Documento di Economia e Finanza, di non essere più sostenitore di coloro che vogliono il “collegamento stabile teorico” ma dica, apertamente che, purtroppo, il ponte incrinerebbe i rapporti con uno schieramento politico che senza alcuna motivazione ma solo come logica di schieramento è contrario da sempre alla realizzazione del Ponte. Il Paese, il Mezzogiorno e soprattutto l’Unione Europea non capiranno una simile decisione ma almeno porremo fine a questa folle ipocrisia non credo congeniale con un Governo presieduto da una personalità come quella di Mario Draghi.
· Viabilità: Manutenzione e Controlli.
Binario d'oro. Report Rai PUNTATA DEL 20/12/2021 di Danilo Procaccianti. Collaborazione di Marzia Amico, Norma Ferrara, Alessia Marzi. Immagini di Cristiano Forti, Dario D'India, Paolo Palermo e Andrea Lilli
Montaggio e grafica Monica Cesarani.
Un viaggio in Ferrovie dello Stato tra polizze misteriose e appalti. Ferrovie dello Stato è una delle prime aziende italiane per numero di dipendenti, ne ha 83.000 ed è una società per azioni controllata al 100% dal Mef, quindi controllo interamente pubblico. Negli ultimi 30 anni con la fiscalità generale sono andati 470 miliardi di euro a ferrovie, un quinto del debito pubblico. Le ferrovie sono pesantemente sussidiate perché considerate un servizio sociale. Eppure ci sono posti in Italia dove il treno è un miraggio. In Sicilia ci vogliono 11 ore per andare da Catania a Trapani, 13 ore da Trapani a Ragusa. Con il PNRR alle ferrovie andranno 25 miliardi. Sono in buone mani? Una recente inchiesta della Procura di Napoli ipotizza il coinvolgimento del clan dei casalesi negli appalti di Rete Ferroviaria Italiana e poi c'è l'inchiesta della procura di Roma sul settore assicurativo di Ferrovie dello Stato, con la polizza misteriosa dell'ex amministratore delegato Gianfranco Battista che ha avuto un risarcimento per malattia di 1.6 milioni di euro. Una cifra enorme e non lontanamente paragonabile ai risarcimenti riconosciuti ai familiari delle vittime della strage di Viareggio.
“BINARIO D’ORO” Di Danilo Procaccianti Collaborazione Marzia Amico – Norma Ferrara – Alessia Marzi Immagini Cristiano Forti – Dario D’India – Paolo Palermo – Andrea Lilli Montaggio e grafica Monica Cesarani
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO 140 telecamere all’improvviso hanno cercato di contattare un sito esterno, un indirizzo ad oggi sconosciuto. Lo hanno fatto anche con una certa insistenza, circa 11mila volte all’ora. Ma per fare cosa? Per distribuire, far uscire dati, immagini, oppure perché c’era qualcuno che da remoto aveva interesse a controllare il sistema di videosorveglianza di un luogo strategico per il nostro paese. Ecco, era un fatto che fino ad oggi era rimasto sconosciuto, Report ne è venuto a conoscenza, e vi daremo più tardi tutti i dettagli. Dopo aver parlato dell’inchiesta sulla più grande stazione appaltante del nostro paese. Rete Ferrovie dello Stato. Ecco, stanno per arrivare 31 miliardi circa dal PNRR, come verranno spesi? Intanto, come è stata gestita Ferrovie dello Stato? Dal 1990 fino al 2016 ci è costata poco meno di 500 miliardi di euro. Altro che Alitalia che da sola nel dopoguerra ad oggi ci è costata quanto un solo anno di Ferrovie dello Stato: dai 10 ai 12 miliardi. Ora Ferrovie dello Stato è una delle aziende più importanti di Italia, con più dipendenti, 83 mila dipendenti e anche se si tratta di una società privata ad azioni, è controllata al 100 per 100 dallo Stato. E contribuisce in maniera sostanziale a Ferrovie dello Stato perché viene giudicato un servizio sociale. Ora però nessuno chiede conto se a tanti contributi corrispondono servizi di qualità. Lo Stato non li chiede. Ferrovie dello Stato perché dovrebbe rendicontare? Anche perché dovrebbero farlo quei manager che poi metterebbero in discussione compensi e buone uscite milionarie. Ora stanno per arrivare 31 miliardi dal PNRR e il nostro Danilo Procaccianti ha fatto la due diligence a Ferrovie dello Stato. Sono emerse delle criticità, dei bandi fatti su misura, delle polizze assicurative un po’, un tantinello troppo alte, poi appalti in odore di camorra. È anche emerso anche un misterioso viaggio di una pennetta su un Frecciarossa Roma-Milano, che conteneva lettere anonime che poi si sono trasformate in interrogazioni parlamentari. Non è che alla fine rispuntano i soliti nomi? Il nostro Danilo Procaccianti.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Abbiamo immaginato di essere turisti in Sicilia. Dopo l’Etna e Catania, vogliamo visitare le bellezze di Trapani e provincia. Decidiamo di spostarci in treno, visto che non stiamo parlando di posti sperduti ma di un importante collegamento tra due capoluoghi di provincia. Facciamo il biglietto alla stazione di Catania, orario di partenza 9.15. Ed ecco la prima sorpresa: non si parte in treno ma con un autobus sostitutivo, ci sono lavori sulla linea. Prima fermata Dittaino, provincia di Enna, si scende dal bus ed ecco finalmente il treno: arriviamo a Palermo alle 12.34. Una volta a Palermo, però, il grosso dovrebbe essere fatto visto che per Trapani mancano solo 100 km. Il nostro treno riparte alle 13.11, ma si ferma a Piraineto, stazione al centro del nulla poco fuori Palermo. Dopo più di due ore di attesa arriva la nostra coincidenza che però non ci porta a Trapani, la linea diretta è infatti interrotta a causa di alcune frane.
GIOSUÈ MALAPONTI – COMITATO PENDOLARI SICILIANI Da febbraio del 2013 diversi smottamenti sul tratto della via Milo che per otto anni ancora giacciono lì senza nessun intervento.
DANILO PROCACCIANTI 2013, ho capito bene?
GIOSUÈ MALAPONTI – COMITATO PENDOLARI SICILIANI Sì, otto anni fa
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Dopo nove anni, solo pochi giorni fa è stato pubblicato il bando di gara per i lavori. E allora, invece che andare dritti per Trapani, scendiamo giù fino a Castelvetrano, cambiamo treno e risaliamo per Trapani, dove arriviamo alle 19.00: 10 ore per fare appena 330 chilometri. Non va meglio all’indomani, quando da Trapani vogliamo andare a Ragusa, altro capoluogo di provincia, altra perla del Barocco siciliano. Si parte alle 6.50 del mattino. Arriviamo a Ragusa alle 22: ben 15 ore di viaggio per fare circa 300 km. Il terzo giorno da Ragusa rientriamo a Catania e proviamo anche l’ebrezza del furgoncino sostitutivo. Una cosa temporanea?
GIOSUÈ MALAPONTI – COMITATO PENDOLARI SICILIANI Esattamente maggio 2011 crolla un’arcata del ponte e, ahimè, da dieci anni il traffico ferroviario fra Caltagirone e Gela è interrotto e si fa con bus sostitutivi. Anche lì, oggi assistiamo a un finanziamento di dieci milioni di euro per la riprogettazione del viadotto.
DANILO PROCACCIANTI Cioè i lavori non sono iniziati?
GIOSUÈ MALAPONTI – COMITATO PENDOLARI SICILIANI No, che io sappia no
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Qui nessun modello Morandi, il ponte è stato fatto saltare nel 2014 e di lavori per la ricostruzione neanche l’ombra. E noi, per fare appena 100 km, ci abbiamo impiegato quattro ore: un disastro che nemmeno i politici possono far finta di non vedere.
DANILO PROCACCIANTI Io ci ho messo 11 ore da Catania a Trapani, 13 ore da Trapani a Ragusa, quattro ore per fare cento chilometri da Ragusa a Catania. Che ferrovie sono queste? Cioè, da terzo mondo?
NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Sì, da terzo mondo ed è quello che ho detto al ministro dei Trasporti. Il guaio è che prima di dirlo a Giovannini, l'ho detto alla De Micheli, che l'ha preceduto, e prima di dirlo alla De Micheli l'ho detto a Toninelli.
DANILO PROCACCIANTI Però lei è il presidente della regione
NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Quindi?
DANILO PROCACCIANTI Cioè, lei è uno che conta, non è un passante
NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Bravo e conto fino a dieci dopodiché dovrei mandare a quel paese i miei interlocutori a meno che lei non creda che io debba avere la vocazione del suicidio, mi metto al centro di un binario appena passa il treno con un biglietto scritto e dire: mi ammazzo perché il governo centrale da 70 anni non potenzia le ferrovie in Sicilia
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Non sarà colpa di nessuno ma su 1369 km di linee ferroviarie in Sicilia, 1146 sono a binario unico e ben 578 km sono ancora non elettrificate: i treni vanno a gasolio
DANILO PROCACCIANTI Quanto abbiamo speso negli anni per le ferrovie italiane?
FRANCESCO RAMELLA - DOCENTE DI TRASPORTI, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO Dal 1990 al 2016 la spesa è di poco inferiore ai 500 miliardi.
DANILO PROCACCIANTI Quindi altro che Alitalia…
FRANCESCO RAMELLA - DOCENTE DI TRASPORTI, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO Ogni anno Ferrovie ci costa come Alitalia in tutto il dopoguerra.
DANILO PROCACCIANTI Parliamo di quanti soldi ogni anno?
FRANCESCO RAMELLA - DOCENTE DI TRASPORTI, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO Siamo intorno ai 10-12 miliardi.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Altro che Frecciarossa e Alta velocità, pensate: proprio pochi giorni fa si è fatto festa con tanto di taglio del nastro e brindisi perché sono arrivati i Frecciabianca, che nel resto d’Italia sono entrati in servizio dieci anni fa_ questi li hanno dismessi dalla Milano Lecce perché hanno fatto il loro tempo.
GIANCARLO CANCELLERI - SOTTOSEGRETARIO PER LE INFRASTRUTTURE E LA MOBILITÀ Se oggi voglio andare da Catania a Roma impiego 10 ore e 30. Con questo simbolo ci impieghiamo invece 7 ore e 10 quindi andiamo avanti compatti e uniti.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Dalle parole del sottosegretario Cancelleri sembrerebbe che questi treni siano più veloci e riducano i tempi di percorrenza in realtà non è così. Guardate: da Palermo a Catania il Frecciabianca impiega 3 ore e 7 minuti, il semplice regionale veloce ne impiega 3 ore e 9 minuti e addirittura il successivo regionale impiega due minuti in meno. Quello che cambia è solo il prezzo, che è il doppio.
DANILO PROCACCIANTI Ma che cos'è questa cosa? Più una roba di marketing, diciamo.
GIANCARLO CANCELLERI - SOTTOSEGRETARIO PER LE INFRASTRUTTURE E LA MOBILITÀ No, non è una roba di marketing perché i siciliani oggi per andare a Roma con l'unico servizio che c'è, l’Intercity, ci stanno 10 ore 30. Con questo qui, che tu lo dici marketing, ci stanno 7 ore e 30.
DANILO PROCACCIANTI Il treno in sé non è più veloce, ha il bar in più
GIANCARLO CANCELLERI - SOTTOSEGRETARIO PER LE INFRASTRUTTURE E LA MOBILITÀ Ti garantisce le coincidenze, nessun altro treno ti garantisce questo ed è una cosa molto importante.
DANILO PROCACCIANTI Sì, però, se questa roba qui la facevamo con un regionale veloce era uguale se mettevamo a posto le coincidenze questo dico, non è il treno che cambia
GIANCARLO CANCELLERI - SOTTOSEGRETARIO PER LE INFRASTRUTTURE E LA MOBILITÀ Però è il servizio Freccia che noi garantiamo anche. Cioè scusa, i siciliani perché non dovrebbero avere diritto ad avere il bar a bordo e il servizio Freccia!
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Anche i siciliani devono avere il bar e ci sembra giusto, tanto paga sempre Pantalone visto che il Frecciabianca, che dovrebbe sostenersi con il prezzo dei biglietti, nel primo mese di vita ha avuto circa 20 viaggiatori a tratta: ne servirebbero 140 per mantenersi. Alla fine, lo Stato tapperà l’ennesimo buco e nessuno chiederà conto.
MARCO PONTI – GIA’ ORDINARIO DI ECONOMIA, POLITECNICO DI MILANO Non c'è una rendicontazione nemmeno minima dei risultati degli investimenti.Lo Stato non chiede quanto traffico è arrivato su quella linea. Se io metto lì dei soldi pubblici, io Stato devo chiedere i risultati che quei soldi dei contribuenti hanno generato alla collettività.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nel PNRR ci sono circa 25 miliardi per le ferrovie e almeno due miliardi andranno in Sicilia. Sembrava una manna dal cielo per colmare il gap infrastrutturale e invece?
NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Hanno previsto soltanto le opere che erano presenti nel piano regionale dei trasporti della legge obiettivo. Hanno recuperato tutti i progetti che avevano nel cassetto, li hanno fatti aggiornare in alcuni mesi e li hanno resi proponibili per il PNRR.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Proprio così, la maggior parte dei soldi sono stati convogliati nella cosiddetta Alta velocità Palermo/Catania e sembra una beffa perché di quest’opera se ne parla da almeno 20 anni: era già stata finanziata e dovrebbe essere addirittura quasi ultimata. I soldi del PNRR sostituiscono finanziamenti esistenti per un miliardo e cento milioni e aggiungono solo 317 milioni di nuove risorse.
NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE REGIONE SICILIANA Nel PNRR ci sono i progetti dello Stato, sono quelli del piano di mobilità del 2001. Sono passati 20 anni, quindi penso che fra dieci, quindici anni avremo le opere realizzate, solo che il PNRR dice che bisogna completarli entro il 2026. Naturalmente io ho tutte le buone ragioni per non farmi illusioni.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Fa bene il presidente Musumeci a non illudersi, sebbene le opere del PNRR andrebbero ultimate entro il 2026, alcune tratte dell’alta velocità Palermo/Catania/Messina, finanziate con il PNRR, saranno completate già da cronoprogramma ufficiale nel 2029, figuriamoci se poi ci saranno ritardi. Insomma, l’opera in sé non sarà molto veloce. Quanto, poi, al risultato finale, si tratta di vera alta velocità?
FRANCESCO RUSSO - DOCENTE DI TRASPORTI UNIVERSITÀ MEDITERRANEA REGGIO CALABRIA A lavori completati si percorrerà la Palermo-Catania in due ore quindi due ore per fare 200 chilometri vuol dire 100 chilometri di media. L'alta velocità è a 300 chilometri quindi non credo che si possa usare la definizione di alta velocità.
DANILO PROCACCIANTI E che tipo di progetto è?
FRANCESCO RUSSO - DOCENTE DI TRASPORTI UNIVERSITÀ MEDITERRANEA REGGIO CALABRIA Un ottimo progetto di intervento straordinario, di manutenzione straordinaria sulla linea
DANILO PROCACCIANTI Che però, diciamo, questa cosa qui si poteva fare vent'anni fa.
FRANCESCO RUSSO - DOCENTE DI TRASPORTI UNIVERSITÀ MEDITERRANEA REGGIO CALABRIA Sì in effetti c’è stato un poco di ritardo sul fare le linee siciliane, trent'anni, diciamo, di ritardo.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Sull’onda della fretta per la presentazione del Pnrr, per la Sicilia sono stati approvati i progetti vecchi che già erano nel cassetto. Basta attraversare lo Stretto, però, e la filosofia cambia radicalmente. Il PNRR prevede infatti una linea alta velocità nuova di zecca tra Salerno e Reggio Calabria, una linea di cui non c’è nemmeno il progetto esecutivo
PAOLO BERIA – PROFESSORE ASSOCIATO ECONOMIA DEI TRASPORTI, POLITECNICO DI MILANO Quello che è circolato finora è una parte dello studio di fattibilità, quindi è evidente che la Salerno-Reggio Calabria non può stare nel Pnrr cioè non ci sta fisicamente perché nel 2026, probabilmente, ci sarà la progettazione completa.
DANILO PROCACCIANTI E già questa è una notizia perché, appunto, dovremmo avere opere pronte, invece lei dice forse il progetto
PAOLO BERIA – PROFESSORE ASSOCIATO ECONOMIA DEI TRASPORTI, POLITECNICO DI MILANO Mi sembra irrealistico che si possa arrivare a completare un'opera di quella entità, stiamo parlando di circa 27 miliardi la previsione, e di una roba da 160 chilometri di gallerie negli Appennini.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il punto è che, proprio per i costi esorbitanti, questa linea rischia di diventare l’eterna incompiuta come è stato per la sua gemella autostradale. L’opera, infatti, dovrebbe costare circa 24 miliardi di euro ma con il PNRR, direttamente, ne arrivano solo 1,8
DANILO PROCACCIANTI Quindi nel Pnrr dovrebbe esserci scritto non “nuova linea Salerno-Reggio Calabria” ma un pezzetto di linea
PAOLO BERIA – PROFESSORE ASSOCIATO ECONOMIA DEI TRASPORTI, POLITECNICO DI MILANO Sì
DANILO PROCACCIANTI E tutto il resto?
PAOLO BERIA – PROFESSORE ASSOCIATO ECONOMIA DEI TRASPORTI, POLITECNICO DI MILANO E il resto, il resto sono quasi dieci miliardi che sono il fondo complementare, sono soldi aggiuntivi peraltro a debito
DANILO PROCACCIANTI E il resto si vedrà.
PAOLO BERIA – PROFESSORE ASSOCIATO ECONOMIA DEI TRASPORTI, POLITECNICO DI MILANO E il resto si vedrà, sì.
MARCO PONTI – GIA’ ORDINARIO DI ECONOMIA, POLITECNICO DI MILANO Questo è il peggiore dei mali e purtroppo è, però, quello che i costruttori desiderano cioè che si aprano i cantieri perché sanno che non si potranno più chiudere.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora se questo è un test su come verranno spesi i soldi del PNRR, insomma si parte con il piede sbagliato. L’esempio della Salerno-Reggio Calabria, la linea ferroviaria sarà finanziata per metà dai soldi del PNRR. Il cronoprogramma? Parliamo di 22 miliardi di euro, prevede che i lavori debbano essere terminati entro il 2016. E sapete dove termineranno? A pochi chilometri da Cosenza, una cittadina, Tarsia, di circa 2 mila abitanti. E il resto? Boh, vedremo. Quello che è certo è che il PNRR sarebbe stata l’occasione giusta per modificare il volto delle Ferrovie Siciliane. E invece in qualche modo sono finiti per finanziare dei progetti già finanziati che rientravano nel piano mobilità del 2001. E allora uno si chiede ma perché se non sono riusciti in vent’anni a chiudere queste opere, lo faranno in 5? Poi nel caso specifico, per esempio, della Palermo-Catania non si tratterebbe appunto di un valore aggiunto il finanziamento, ma della sostituzione di un finanziamento già avvenuto. E anche là insomma, siamo certi che riusciranno a chiudere l’opera nel 2026, perché da cronoprogramma è previsto che i lavori potrebbero finire nel 2029. Cioè 3 anni oltre. E poi anche se riuscissero, non si tratterebbe di alata velocità perché è previsto, stimato che i treni viaggerebbero in una velocità media di 100 chilometri orari, quando l’alta velocità ne richiederebbe almeno 300. Insomma, alla fine faranno con i soldi del PNRR una bella manutenzione della linea. Il vecchio lucidato è accolto come il nuovo in Sicilia e la beffa è avvenuta pochi giorni fa quando è stato presentato il nuovo Frecciarossa che da Milano arriverà a Parigi in sole 6 ore. Costo del biglietto: 29 euro. Mentre invece sono stati portati Frecciabianca in Sicilia, sulla linea Palermo-Catania; costo del biglietto 28 euro. E non erano neppure nuovi perché per dodici anni hanno viaggiato sulla tratta Milano-Bari-Lecce, insomma in Puglia, poi sono stati messi sulla tratta siciliana. Tuttavia sono stati accolti con trionfalismo dalla politica, dall’imprenditoria, dalla nobiltà siciliana perché consente loro di prendere sul treno un caffè… troppo caro gli costa… 14 euro in più… anche se poi impiegano anche addirittura qualche minuto in più a volte del regionale veloce perché poi alla fine la linea quella è. A questo punto c’è da chiedersi, ma un siciliano quando paga le tasse, che cosa paga? Sostanzialmente paga l’alta velocità a chi la percorre tra Milano e Roma. E poi di chi sono le responsabilità quando una linea ferroviaria invece rimane interrotta per dieci anni a causa di una frana o di un ponte interrotto? Sicuramente della politica. È nelle more si fregano le mani quegli imprenditori che con i mezzi di… i bus portano la gente sui percorsi alternativi, passeggeri che dovrebbero prendere il treno. Leader nel campo è Autoservizi Cuffaro, la società che fa riferimento ai fratelli dell’ex governatore Totò Cuffaro. Nel 2020, non bisogna dimenticarselo, Ferrovie dello Stato è stata sicuramente la società appaltante più importante del nostro paese. Da sola ha stanziato 14 miliardi per il 40 per cento degli appalti totali del nostro paese. Ecco, secondo la magistratura napoletana, alcuni di questi sarebbero andati in aziende… ad aziende che sono in odore di camorra. E non è una camorra qualsiasi, ma quella che farebbe riferimento a Sandokan, capo dei Casalesi.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Questo è il palazzo delle Ferrovie dello Stato. Proprio qui sarebbe arrivata la camorra. I Casalesi avrebbero messo le mani sugli appalti. Lo ipotizza un’inchiesta della procura di Napoli. Da alcuni documenti esclusivi siamo risaliti alle registrazioni degli ingressi presso la sede di Ferrovie. In particolare, ci interessa questo nome, Nicola Schiavone. Entra in Ferrovie di continuo, ogni settimana, più volte a settimana. Andava a trovare tutti i dirigenti di Rete ferroviaria italiana, era di casa lì. Ma Nicola Schiavone non è uno qualsiasi perché è compare di Francesco Schiavone detto Sandokan, il boss dei Casalesi a cui ha battezzato il figlio. È stato anche imputato nel processo Spartacus, da cui è uscito completamente assolto
DANILO PROCACCIANTI Chi è questo Nicola Schiavone, l’imprenditore?
ROSARIA CAPACCHIONE – GIORNALISTA E SENATRICE PD 2013 – 2018 Aveva rapporti come subappaltatore per le Ferrovie dello Stato, poi RFI, a un certo punto questi rapporti sono diventati più forti e si sono consolidati
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Un salto che, secondo le ipotesi investigative, sarebbe stato fatto grazie ai soldi dei Casalesi, come ha dichiarato di recente la moglie del capo clan Francesco Schiavone detto Sandokan usando un’efficace metafora: “Nicola Schiavone - dice - usa il lievito madre che tanti anni fa ha preparato mio marito”.
ROSARIA CAPACCHIONE – GIORNALISTA E SENATRICE PD 2013 – 2018 Li ha messi in condizione di lievitare, di crescere, senza mai comparire. Da questo accordo non scritto poi la camorra è arrivata al cuore della finanza nazionale.
GIOVANNI ESPOSITO FARIELLO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE È l'ipotesi che non funziona perché io a sostegno della falsità dell'ipotesi le offro sentenze, accertamenti giudiziari, due procedimenti penali nei quali è stata esclusa in radice l'appartenenza delinquenziale camorristica di Nicola Schiavone.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Le nuove indagini della procura, però, partono da una intercettazione ambientale successiva al processo Spartakus. Nel carcere di Parma dove è rinchiuso al 41 bis, Francesco Schiavone Sandokan parla con la figlia Angela che si sarebbe sposata da lì a poco, gli dice di rivolgersi a Nicola Schiavone per qualsiasi esigenza di natura economica.
DANILO PROCACCIANTI Dottor Schiavone, buongiorno, sono Danilo Procaccianti, sono un giornalista di Report. Siccome mi sto occupando di quella vicenda che la riguarda, insomma.
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Eh, guardi in questo momento mi trova in disagio perché ho gli avvocati sopra che mi stanno aspettando per cui se mi lascia un bigliettino, poi, le daranno conto gli avvocati.
DANILO PROCACCIANTI Però intanto che, insomma, che mi può dire insomma, il suo figlioccio dice che le sue imprese hanno lavorato coi soldi dei casalesi
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Allora, guardi
DANILO PROCACCIANTI Non è vera questa storia?
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Guardi non è vero nulla e parleranno i miei avvocati per me
DANILO PROCACCIANTI che l'ha battezzato, sì è vero?
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Allora non è vero niente, non è vero nulla per cui è inutile che vi mettete a...
DANILO PROCACCIANTI però insomma sono…
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Guardi non essere invadente, io vi do tutta la disponibilità
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nicola Schiavone non vuole parlare ma c’è un altro Nicola Schiavone che invece parla, eccome se parla. Si tratta del figlio di Sandokan, che ha iniziato a collaborare con la giustizia nel 2018. Ha parlato molto del suo padrino imprenditore
NICOLA SCHIAVONE – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA “La crescita economica e sociale dei fratelli Nicola e Vincenzo Schiavone è senza dubbio legata agli aiuti ed al sostegno iniziali che mio padre prima direttamente nei confronti di Nicola e successivamente mio zio Walter nei confronti di Vincenzo, hanno fornito loro. Se dovessi offrirvi un esempio per farvi comprendere di che tipo di personaggio stiamo parlando, potrei paragonarlo a Luigi Bisignani, ovvero a un importante faccendiere, un facilitatore. Ricordo in particolare che in occasione del mio matrimonio mi regalò la somma di ventimila euro in contanti”.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Dai racconti del collaboratore emerge che i rapporti tra l’imprenditore Nicola Schiavone e il clan dei Casalesi sarebbero stati continui negli anni e lo stesso imprenditore si sarebbe anche interessato delle vicende giudiziarie della famiglia Schiavone
NICOLA SCHIAVONE – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA “Con riferimento alla questione degli avvocati ricordo senz'altro che Schiavone Nicola, che come ho già detto è il mio padrino di battesimo, ha pagato per me l'avvocato Esposito Fariello, pagò la somma di lire venticinque milioni”.
DANILO PROCACCIANTI Su queste cose che dite?
GIOVANNI ESPOSITO FARIELLO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE Le affermazioni di questo ragazzo, ragazzo una volta, di questo, questa persona sono prive di qualsiasi verificazione.
DANILO PROCACCIANTI Ma ‘sto Nicola Schiavone quindi, junior, si alza la mattina e parla di Nicola Schiavone senior perché? lo vuole distruggere?
GIOVANNI ESPOSITO FARIELLO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE Questa è la domanda che deve fare a lui
UMBERTO DEL BASSO DE CARO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE Il tema è quello del riscontro. Io dico di una persona: quella persona è stato fortemente aiutato le sue imprese, e scusate ma un'impresa la vogliamo indicare una, un lavoro, ecco
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Non sappiamo se il collaboratore abbia indicato lavori e imprese ma noi attraverso documenti esclusivi abbiamo scoperto che per gli inquirenti Nicola Schiavone risulterebbe il dominus di una serie di imprese a lui non direttamente riconducibili come il consorzio IMPREFER, formato dalle aziende TEC, Macfer, e in passato anche ITEP, imprese intestate a terzi ma di fatto controllate e gestite da Nicola Schiavone DANILO PROCACCIANTI Il punto è che adesso arriveranno tanti miliardi, no
ROSARIA CAPACCHIONE – GIORNALISTA E SENATRICE PD 2013-2018 il rischio serio e concreto è che è stato trovato diciamo per caso Nicola Schiavone con le sue imprese di subappalto con rete ferroviaria ma non sappiamo quanti altri Nicola Schiavone ci sono in giro per l'Italia
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Dell’inchiesta si è saputo perché ormai due anni fa circa sono partite delle perquisizioni nelle case e negli uffici di alcuni dirigenti di RFI, poi licenziati. Sarebbero stati dei consulenti occulti di Nicola Schiavone. Si tratta di Massimo Iorani, Piergiorgio Bellotti, Paolo Grassi e Giuseppe Russo. Sarebbero stati corrotti da Nicola Schiavone per favorirlo nell’assegnazione degli appalti o per far lievitare i costi di alcuni lavori come quelli della stazione di Contursi Terme o di Avezzano, come ci racconta una nostra fonte che preferisce rimanere anonima. FONTE ANONIMA Sì, Schiavone ha incontrato più volte il dirigente Giuseppe Russo, gli chiedeva di scrivere relazioni e perizie per ottenere una lievitazione diciamo economica per quanto riguarda la sottostazione di Contursi. Schiavone riempiva di regali tutti i dirigenti di RFI: cravatte Marinella, biglietti aerei, pranzi costosissimi. Pensate che nell’ufficio di Schiavone c’era proprio una lista con i diversi prodotti da dare poi ai diversi dirigenti di Rfi: che ne so, babà, mozzarelle, conserve di pomodori, un po’ di tutto insomma.
DANILO PROCACCIANTI Nicola Schiavone andava negli uffici dei dirigenti ad alti livelli di RFI per fare che cosa?
UMBERTO DEL BASSO DE CARO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE Il professore Schiavone non è mai stato imprenditore, è stato sempre consulente di società
DANILO PROCACCIANTI Però in questo senso si interessava, cioè se una delle imprese che lui seguiva
UMBERTO DEL BASSO DE CARO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE ma lui la seguiva per le qualifiche DANILO PROCACCIANTI perdeva una gara, poteva andare lì e dire perché è stata esclusa.
UMBERTO DEL BASSO DE CARO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE No, assolutamente no. Lui si interessava della fase preliminare.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Le cose non starebbero proprio così. Massimo Iorani era un dirigente apicale di RFI nella Direzione Acquisti e Direzione Produzione. Era responsabile del procedimento di molte gare d’appalto e responsabile degli accordi quadro. F
ONTE ANONIMA Sì, Iorani era considerato una sorta di consigliere occulto di Schiavone, ecco. Dopo una gara d’appalto in cui l’azienda riferibile a Schiavone aveva perso, fu lo stesso Iorani a suggerirgli a Schiavone di fare ricorso al Tar, e gli diede anche degli appunti per il suo avvocato, ecco.
DANILO PROCACCIANTI Sono Danilo Procaccianti, sono un giornalista, volevo parlare con lei un attimo se era possibile
MASSIMO IORANI – EX MANAGER RETE FERROVIARIA ITALIANA A proposito di che?
DANILO PROCACCIANTI A proposito di quella inchiesta che la riguardava.
MASSIMO IORANI – EX MANAGER RETE FERROVIARIA ITALIANA No, guardi non è il caso
DANILO PROCACCIANTI Sono accuse pesanti insomma
MASSIMO IORANI – EX MANAGER RETE FERROVIARIA ITALIANA Non in questo momento
DANILO PROCACCIANTI Cioè, è accusato di aver favorito Schiavone
MASSIMO IORANI – EX MANAGER RETE FERROVIARIA ITALIANA C'è un pm che da molto tempo ha le carte in mano. Stiamo aspettando con grande pazienza che si decida a leggerle e a fare delle considerazioni. A qualcuno fa comodo buttare la croce addosso a qualcun altro che non c'entra niente. Però io non le posso, non possiamo entrare nel merito con lei, perché è un pour parler, capisce
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Con noi non vuole parlare ma nei documenti del ricorso che vi mostriamo in esclusiva l’ingegner Iorani nega di aver mai favorito Nicola Schiavone ma ammette che l’imprenditore frequentava abitualmente la sede di RFI e tira in ballo l’allora amministratore delegato Maurizio Gentile che, secondo Iorani, si dava del tu con Schiavone e riceveva da lui omaggi in occasione delle festività.
MAURIZIO GENTILE - AD RETE FERROVIARIA ITALIANA 2014-2020 Il Signor Schiavone l'ho incontrato diverse volte, lui veniva in ufficio, faceva il pass. L’ho incontrato in situazioni ufficiali, non l'ho mai incontrato di nascosto, mai parlato di gare, mai parlato di queste cose qui, mai chiesto nulla che fosse fuori le righe, almeno con me.
DANILO PROCACCIANTI Ma è normale che lui venisse tutte quelle volte?
MAURIZIO GENTILE - AD RETE FERROVIARIA ITALIANA 2014-2020 oggettivamente non è normalissimo, no. Diciamo che dal punto di vista del tenere le relazioni era piuttosto insistente, mettiamola così
DANILO PROCACCIANTI Però l'ingegner Iorani nel suo ricorso scrive che Schiavone si dava del tu con Gentile, a Gentile faceva sempre regali
MAURIZIO GENTILE - AD RETE FERROVIARIA ITALIANA 2014-2020 Ma quando mai, ma non è vero. Vede, l’ingegneri Iorani, è stato licenziato per il codice etico. Voglio dire, non è stato in grado di giustificare perché, per come, si sia fatto pagare una vacanza costosa a Positano.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Gli investigatori hanno scoperto che l’ingegner Iorani nel 2018 ha fatto le vacanze sulla costiera amalfitana. Dall’8 al 12 settembre, qui, nel meraviglioso hotel san Pietro di Positano. Poi, dal 12 al 14 settembre, all’hotel Bellevue Syrene di Sorrento. A pagare le vacanze sarebbe stato proprio Nicola Schiavone.
DANILO PROCACCIANTI Avrebbe pagato questa vacanza all'ingegnere Massimo Iorani nella costiera amalfitana
UMBERTO DEL BASSO DE CARO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE Non è oggetto del procedimento DANILO PROCACCIANTI Ma nel merito vi risulta che abbia pagato le vacanze?
UMBERTO DEL BASSO DE CARO – LEGALE DI NICOLA SCHIAVONE Assolutamente no.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ed eccoli in esclusiva i fotogrammi delle telecamere interne dell’albergo in cui si vede Schiavone nel momento in cui avrebbe pagato le vacanze del dirigente di RFI. D’altronde, nel ricorso contro il licenziamento fatto da Iorani è lui stesso che ammette il pagamento della vacanza ma a sua insaputa, lo avrebbe scoperto solo al check-out. Iorani aggiunge di aver manifestato disappunto e imbarazzo e dice di aver poi rimborsato Schiavone con 6mila euro, di cui però non ci sarebbe traccia.
DANILO PROCACCIANTI Il fatto che però ha pagato le vacanze a un dirigente
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Non ho pagato nessuna vacanza, faccia le verifiche
DANILO PROCACCIANTI Come no? Lo dicono gli inquirenti
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Niente, niente, niente non è vero niente.
DANILO PROCACCIANTI Risultano… anche, insomma, non è vero nemmeno questo
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Guardi, non è vero niente, preferisco non parlare
DANILO PROCACCIANTI E il fatto che andava sempre in RFI, lei non aveva di fatto delle imprese
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Io ho titolo per andare in Rfi, sono un consulente di aziende nazionali e internazionali.
DANILO PROCACCIANTI Eh, ma ci andava ogni settimana, ogni settimana era lì, cioè nemmeno chi ha imprese ci va ogni settimana.
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Io, io avevo più aziende di consulenza, facevo consulenze ad aziende nazionali e internazionali
DANILO PROCACCIANTI E quindi ci andava così? Anche il boss dice sto in galera anche per lui, anche questo non è vero?
NICOLA SCHIAVONE – IMPRENDITORE E CONSULENTE AZIENDALE Sì. Mi lasci il suo biglietto. È Report
SEGRETARIA DI NICOLA SCHIAVONE Vada via
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Se le indagini della magistratura confermassero questi indizi, ci troveremmo difronte alla faccia imprenditoriale della camorra. Va detto chiaramente che Nicola Schiavone è stato coinvolto nel processo Spartacus, con l’omonimo Schiavone, Sandokan, ma è uscito completamente assolto. Va detto anche chiaramente che questa è un’indagine di cui vi abbiamo parlato stasera preliminare, ancora nelle fasi preliminari, che nasce esclusivamente quando qualcuno si accorge che un signore con un cognome ingombrante entra ed esce da Rete Ferroviarie Italiane, dalla stazione appaltante più importante del nostro paese, come se fosse a casa sua. Anche con orari improbabili. Il nostro Danilo ha raccolto testimonianze che Schiavone entrava addirittura alle 16 del pomeriggio e usciva alle 6 di mattina. Ma per fare cosa? Si muoveva come se fosse a casa sua, incontrava direttori degli acquisti, incontrava addirittura il top management, l’ex ad Gentile ci ha detto: sì è vero l’ho incontrato, ma non sapevo chi fosse. Il cognome però insomma, una campanellina… l’avrebbe dovuta far suonare. Mentre tutti gli altri dirigenti sono stati indagati, compreso Massimo Iorani, direttore degli acquisti della società. L’attuale invece management di Ferrovie dello Stato ci tiene a far sapere che ora non sarebbe stato più possibile effettuarsi di queste pratiche perché sono stati messi in piedi strumenti e presidi anticorruzione. Le aziende coinvolte legate a Schiavone sono uscite dalla white-list, e quindi sono state eliminate. I dirigenti coinvolti nell’inchiesta sono stati licenziati perché avrebbero violato il codice etico. Ecco, compreso anche, licenziato l’ingegner Iorani, che era quello che si era fatto pagare a sua insaputa dice, le vacanze sulla Costiera Amalfitana e Sorrentina. Solo che è stato licenziato perché non va bene a Ferrovie, è stato incaricato invece il 13 settembre scorso dal comune di Roma come direttore di un’importante opera pubblica. Retribuzione: 86 mila euro. Ora continua anche ad accumulare incarichi, Mauro Moretti, l’ex amministratore delegato di Ferrovie dello Stato italiane, è diventato amministratore delegato di Leonardo, la più importante azienda italiana n tema di tecnologia e armamenti, e oggi è amministratore delegato di PSC, un colosso dell’impiantistica delle infrastrutture e delle costruzioni, colosso internazionale. Ma Moretti, particolare non trascurabile, era amministratore delegato nel 2009, nel giugno del 2009 quando si è consumata la strage di Viareggio.
AUDIO 29 GIUGNO 2009 Pronto, sono il macchinista del treno a Viareggio. Abbiamo deragliato, noi siamo scappati ma è scoppiato tutto.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Era il 29 giugno del 2009, un treno cisterna deraglia all’altezza della stazione di Viareggio. La prima cisterna si squarcia e fuoriesce gas gpl, che dopo un innesco esplode e distrugge un’intera via. Perdono la vita 32 persone, tutte per le ustioni riportate sul corpo. Proprio lo scorso gennaio è arrivata la sentenza di Cassazione ma dopo 12 anni, purtroppo, siamo lontani da un’idea di giustizia.
VIDEO REAZIONI SENTENZA CASSAZIONE DANIELA ROMBI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Ho provato un dolore immenso come, come quando mi dissero che era morta mia figlia. Proprio non ci pensavamo, potevamo pensare a tutto ma l'incidente sul lavoro proprio no. Perché se non è questo un incidente sul lavoro, a me mi dovete dire quale è.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Non riconoscendo l’aggravante dell’incidente sul lavoro, la Cassazione ha mandato in prescrizione il reato di omicidio colposo e il desiderio di giustizia dei familiari delle vittime. Marco Piagentini porta ancora i segni delle gravi ustioni di secondo e terzo grado sul 90% del corpo. Quella notte perse sua moglie e due figli, il terzo figlio, Leonardo, per fortuna fu estratto vivo dalle macerie dopo quattro ore e mezza.
MARCO PIAGENTINI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Io ho un ricordo totalmente vivo e presente perché ero cosciente, vigile. Sto vigile finché non mi hanno estratto dalle macerie. Quindi ricordo ogni singolo istante di quei tre minuti in cui ho cercato di salvare la mia famiglia e che purtroppo non ci sono riuscito.
DANILO PROCACCIANTI Lei quella sera ha perso tutto, le è rimasto un figlio e la voglia di giustizia
MARCO PIAGENTINI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO E abbiamo ottenuto dei brandelli di giustizia. Come lo racconto a mio figlio, no? Dov'è la verità? E quindi la prescrizione la subiamo come un una spugna che cancella tutto quello che è la ricerca della verità.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Con la prescrizione dell’omicidio colposo la Cassazione ha deciso che si deve celebrare un nuovo processo d’appello per la determinazione delle pene per l’unico reato rimasto, il disastro ferroviario. Negli anni sono scomparsi i reati di incendio colposo e di lesioni colpose.
TIZIANO NICOLETTI – LEGALE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO È difficile poter spiegare a una madre che sa che il proprio figlio è morto ustionato che quel reato non esiste, dal punto di vista della giustizia non esiste più. D
ANIELA ROMBI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Ma di che cosa sono morti questi figli? Di che è morta mia figlia e le altre 31 persone? Loro sono responsabili anche dell'incendio che conseguentemente ha ucciso queste 32 persone che ricordiamocelo erano in casa. Sono state cancellate 32 vite per i soldi, per il profitto, per il guadagno.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Salvatore Giannino è il pm che ha sostenuto l’accusa nel primo e secondo grado e adesso sta preparando il nuovo processo d’appello.
DANILO PROCACCIANTI I familiari delle vittime dicono
SALVATORE GIANNINO – SOSTITUTO PROCURATORE LUCCA E hanno ragione
DANILO PROCACCIANTI Senza l’omicidio
SALVATORE GIANNINO – SOSTITUTO PROCURATORE LUCCA Hanno ragione, hanno ragione è un nonsenso perché il fatto è lo stesso. Quelle stesse condotte poste in essere nello stesso tempo hanno fatto sì che morissero 32 persone, ci fosse l'incendio e l'esplosione delle case e ci fosse il disastro ferroviario.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il treno cisterna è deragliato perché un’asse era arrugginito e si è spezzato. Per questo sono stati condannati i proprietari stranieri del carro. E le nostre Ferrovie dello Stato? L’allora amministratore delegato Mauro Moretti disse subito che loro non c’entravano nulla perché il carro lo avevano noleggiato.
DAL TG1 DEL 30 GIUGNO 2009 Mauro Moretti: “Noi facciamo i controlli sui nostri carri, ogni proprietario fa i controlli sui suoi!”
DANILO PROCACCIANTI L'amministratore delegato di allora, di Ferrovie, Moretti, ha sempre detto non dovevamo controllare noi quelle cisterne
SALVATORE GIANNINO – SOSTITUTO PROCURATORE LUCCA Il processo ha stabilito che questo non corrisponde al vero. È sconfessata la linea difensiva che, con cui si sosteneva che la responsabilità fosse solo dei cosiddetti tedeschi
DANILO PROCACCIANTI Moretti ha sempre detto: noi, la società estera ci ha dato un foglio in cui si dice che la cisterna era stata controllata, a noi bastava quello, il processo non ha detto questo
SALVATORE GIANNINO – SOSTITUTO PROCURATORE LUCCA Non hanno controllato neanche quei fogli tanto per cominciare perché in quei fogli i nostri consulenti si sono accorti solo guardando quei fogli che il carro non poteva circolare in sicurezza. Una omissione gravissima per scelta perché la loro politica era proprio questa: io noleggio all'estero e non mi occupo più di nulla.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Mauro Moretti ha sempre rinunciato alla prescrizione ma oggi che la Cassazione ha rinunciato a un processo in corte d’appello la rinuncia di Moretti deve essere ribadita D
ANILO PROCACCIANTI Adesso però la Cassazione dice: se l'ingegner Moretti vuole rinunciare a prescrizione deve tornare in aula e dirlo nuovamente. È così?
MARCO PIAGENTINI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Sì, è proprio così e noi abbiamo sobbalzato sulla seggiola perché noi eravamo in aula, abbiamo udito bene le parole di Moretti di rinunciare alla prescrizione, pur consapevole che quella rinunzia non era solo per il processo in corso in appello ma sarebbe stata valida anche per gli ulteriori successivi gradi di giudizio. La Cassazione gli sta offrendo una via d'uscita. Adesso vediamo se Moretti veramente ha rinunciato alla prescrizione perché è una persona coerente oppure no.
MAURO MORETTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2006 - 2014 No, lasciatemi stare
DANILO PROCACCIANTI No, solo se ci conferma
MAURO MORETTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2006 – 2014 Per cortesia, non toccare
DANILO PROCACCIANTI Ma non la sto toccando, se ci conferma, se conferma
MAURO MORETTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2006 – 2014 Non confermo nulla a nessuno, parlo solo in tribunale
DANILO PROCACCIANTI Cioè, le famiglie aspettano queste notizie, è solo una domanda MAURO MORETTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2006 – 2014 Parlerò in tribunale
DANILO PROCACCIANTI Quindi ci sta pensando, insomma, non è scontato che rinunci alla prescrizione
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Chissà cosa deciderà Moretti che nonostante le condanne in primo e secondo grado non ha mai avuto ripercussioni sulla sua carriera, è rimasto amministratore delegato di Ferrovie fino al 2014, quando è stato nominato ad di Finmeccanica e poi nel 2021 ad di PSC Group. Nel frattempo, l’anno dopo la strage di Viareggio, nel 2010, era stato anche nominato cavaliere
DANIELA ROMBI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Non parliamo poi di Napolitano che è andato all'ospedale a trovare il bambino, unico bambino rimasto vivo di Marco. Questo bambino aveva otto, nove anni gli ha regalato anche il disegno. E neanche un anno dopo fa Cavaliere del Lavoro Mauro Moretti. Cioè io dico: ma lo stomaco dove l'hanno, l'anima, la coscienza dove ce l'hanno?
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora negli anni sono caduti in prescrizione l’incendio e poi anche le lesioni colpose, ora è caduta anche l’accusa dell’aggravante dell’incidente sul lavoro che avrebbe avuto tempi di prescrizione più lunghi, ma caduta questa, ovviamente è cauta in prescrizione l’omicidio colposo. Per tutti tranne che per Moretti che aveva rinunciato ad onor del vero alla prescrizione, ora però la Cassazione avendo mandato in appello in Corte d’appello il procedimento, scrive in sentenza che Moretti dovrà dichiarare nuovamente di voler rinunciare alla prescrizione. Lo farà? Insomma, con noi non ha voluto parlare. Quello che è successo che la piccola procura di Lucca ha messo in atto tutti gli sforzi possibili per evitare la prescrizione ed arrivare ad una verità, ha mandato notifiche nella maniera più veloce possibile all’estero per gli imputati tedeschi, e poi ha cercato di far tradurre nella maniera più veloce possibile anche la sentenza in lingua tedesca. Ma si trattava di materia complessa e delicata. Il primo traduttore ha rinunciato a metà strada, il nuovo ha dovuto ricominciare tutto da capo, e ha impiegato circa un anno. E poi quando nel 2013 è cominciato il processo, lo Stato che avrebbe potuto far sentire la propria vicinanza alle vittime della strage di Viareggio, ha rinunciato a costituirsi parte civile. E ha trattato direttamente il risarcimento con le assicurazioni. Già le assicurazioni hanno da sempre un ruolo importante quando ci sono questi avvenimenti, hanno cercato di svuotare il più possibile il processo trattando con le parti risarcimenti, cercando di accordarsi per far partecipare al processo meno gente possibile. Ora una vita di una familiare morto nella strage di Viareggio vale circa 330 mila euro. Cosa diversa invece se l’assicurazione deve trattare il caso di malattia di un ex ad di Ferrovie, Battisti. Ora è stata pagata una polizza per malattia della bellezza di un milione e 600 mila euro. è una polizza… tutto legittimo, lo diciamo, che però ha scatenato una valanga. E proprio intorno a questa polizza che si scatena una guerra senza esclusione di colpi e anche di lettere anonime che viaggiano misteriosamente in una chiavetta sull’Alta Velocità Roma-Milano. Ecco, quelle lettere anonime che poi vengono trasformate in interrogazioni parlamentari… da chi?
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nella tragedia di Viareggio un ruolo fondamentale lo hanno avuto le assicurazioni, una in particolare, Generali, che è la compagnia assicurativa di Ferrovie dello Stato. Inizialmente, per volere dell’allora ad Mauro Moretti, non furono nemmeno attivate per la tragedia
DANIELA ROMBI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO E disse che loro era, non era responsabilità loro, che questi che avevano fatto i controlli... La colpa era tutta dei tedeschi e quindi non avrebbero mai attivato le assicurazioni D
ANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Successivamente, però, quando si è capito che le cose non erano così semplici come li dipingeva l’ingegner Mauro Moretti, le assicurazioni non solo furono attivate ma assunsero un ruolo centrale nel processo
TIZIANO NICOLETTI – LEGALE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Hanno cercato di risarcire più possibile le parti civili, cioè hanno cercato di togliere dal processo più parti civili possibile.
DANIELA ROMBI - ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO A me vennero anche due anni fa. La prima volta mi davano, boh, 270mila, 370mila euro perché il cadavere della bimba costava 200, la sofferenza, la mamma aveva 50 anni, cioè io dissi al mio avvocato: ma che è una lista della spesa?
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Quello che pochi sanno è che per questo tipo di incidenti esistono delle vere e proprie tabelle che stabiliscono il risarcimento in base al danno subito
TIZIANO NICOLETTI – LEGALE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Per esempio, la perdita di un figlio va in una forbice che va da 160mila euro a 320mila euro.
DANILO PROCACCIANTI Cioè una vita vale al massimo 300mila euro?
TIZIANO NICOLETTI – LEGALE FAMILIARI VITTIME STRAGE DI VIAREGGIO Al massimo 331 mila euro, sì. Sono state riconosciute anche le sofferenze della vittima diretta, che ha sopravvissuto in maniera cosciente quindi consapevoli di essere ustionati, di andare verso la morte e di soffrire. Ecco, questa sofferenza delle vittime è poi stata quantificata: si va su 500, massimo 600mila euro comprensivo appunto della perdita del familiare, delle sofferenze e anche del danno materiale e abitazioni quindi queste sono le cifre.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Tutti questi calcoli non valgono sempre. È il caso di una polizza misteriosa che è costato il posto di amministratore delegato di ferrovie a Gianfranco Battisti. Si è scoperto che alla fine del 2014, quando ancora non era Ad di Ferrovie ma era a capo della divisione alta velocità, ha incassato un risarcimento da un milione e 600mila euro per una malattia invalidante. Una cifra enorme soprattutto se si tiene conto che in quell’anno Battisti non ha mai preso un giorno di malattia.
DANILO PROCACCIANTI Se uno che muore, poveraccio, prende, e ci sono stati anche dirigenti che sono arrivati a 600mila euro, perché si arriva a un milione e seicentomila per una malattia?
GIANFRANCO BATTISTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2017-2021 cioè non è che è un privilegio che ho avuto io, tutti ce l’hanno. Quindi, poi, in base alla gravità della malattia, io ho avuto una malattia. Quando io feci la domanda, la Generali mi ha sottoposto non a una ma a dieci visite di controllo certificate da tre ASL poi, hanno certificato che avevo, che ho una patologia per la quale posso lavorare
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La polizza dei misteri è venuta fuori grazie a un esposto anonimo. Parte un audit interno che si conclude nel maggio del 2017. I risultati sono impietosi: “Il sistema di controllo interno e di gestione dei rischi è risultato caratterizzato da diffuse carenze di disegno e di operatività che lo rendono nel complesso carente”
ANTONIO COVIELLO – RICERCATORE IRISS-CNR Non avere idea, secondo quanto dice il documento, di quello che andava assicurato, come andava fatto, in che modo. Cioè come se dire a una casalinga di fare la spesa e lei la fa in base a quello che prima verifica che c'è in frigorifero o nelle credenze. Mi mancano, non so, il pane il latte lo zucchero eccetera. Non fare questa operazione è come mandare la signora a fare la spesa senza sapere di che necessita quindi può comprare tutto, anche quello che non c'è, o nulla, quello che serve.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’audit interno, insomma, scoperchia un vero e proprio vaso di Pandora tanto che la procura di Roma apre un’inchiesta per corruzione che è ancora in corso e che vede come unico indagato Raffaele D’Onofrio, che fino al 2017 gestiva il settore assicurativo di Ferrovie. Dagli atti emerge che tra il 2011 e il 2019 Ferrovie ha pagato oltre 550 milioni di premi assicurativi. Di questi, l’89,5% sono andati alle Assicurazioni Generali.
DANILO PROCACCIANTI Dottor D'Onofrio?
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Sì?
DANILO PROCACCIANTI Salve, sono Danilo Procaccianti, sono un giornalista della Rai.
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO E allora?
DANILO PROCACCIANTI Siccome mi sto occupando di questa inchiesta sulle assicurazioni, volevo chiedere conto a lei visto che è l'unico sotto inchiesta
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Ho da fare. Quale inchiesta scusi?
DANILO PROCACCIANTI C'è questa inchiesta sulle assicurazioni su Generali. Lei sarebbe l'unico indagato.
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Una cosa vecchia…
DANILO PROCACCIANTI Vecchia? È ancora in corso. E lei che dice?
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Niente
DANILO PROCACCIANTI che Generali aveva il monopolio
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Assolutamente, erano tutte con gare.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Tra le anomalie segnalate nel rapporto c’è anche la sparizione sia dall’archivio informatico che da quello cartaceo di 66 pratiche. Una è proprio quella di Gianfranco Battisti, la famosa polizza da un milione e seicentomila euro
DANILO PROCACCIANTI Tutte queste pratiche sparite
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO No, no, assolutamente
DANILO PROCACCIANTI 66 pratiche sparite
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO No, no, non è sparito, erano in Generali
DANILO PROCACCIANTI perché Ferrovie non ce l'aveva, non c’erano in archivio.
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Questo non lo so, in archivio dovevano starci non so perché non c'erano.
DANILO PROCACCIANTI Però lei era responsabile
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Sì, ma io già ero andato via
DANILO PROCACCIANTI E vabbè, è andato via quando si sono accorti che mancavano
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO non lo so che fine hanno fatto
DANILO PROCACCIANTI Anche, anche quella pratica di Battisti.
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Lo chieda a Generali che ha fatto un'indagine con i medici
DANILO PROCACCIANTI Nell’audit c’è la mancata trasparenza.
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Di che giornale è?
DANILO PROCACCIANTI Sono di Report, di Raitre
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Ciao, salve
DANILO PROCACCIANTI Non le piace Report?
RAFAFELE D’ONOFRIO – EX RISK MANAGER FERROVIE DELLO STATO Sì che mi piace
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Va via Raffaele D’Onofrio e non spiega perché, quando al suo posto sono arrivati altri, le cose sono andate decisamente meglio. Nel 2016, infatti, l’allora ad di Ferrovie Renato Mazzoncini, nominato dal governo Renzi, a gestire il settore assicurativo chiama due manager di comprovata esperienza, Giovanni Conti e Marco Binazzi. Con loro Generali non è più l’unica partecipante alle gare e si risparmiano 42 milioni di euro in due anni. I due, però, invece di essere premiati, vengono mandati via proprio da Gianfranco Battisti, che nel frattempo era diventato amministratore delegato.
MARCO BINAZZI – EX RESPONSABILE ASSICURATIVO FERROVIE DELLO STATO Mi hanno ovviamente proposto piuttosto che un licenziamento, un accordo consensuale. Dal punto di vista dell’immagine sembra che siamo tutti d’accordo, ma non è così ovviamente. È stata “spintanea” no?
DANILO PROCACCIANTI E perché, secondo lei?
MARCO BINAZZI – EX RESPONSABILE ASSICURATIVO FERROVIE DELLO STATO Probabilmente qui sono andato a pestare tanti piedi, non lo so
DANILO PROCACCIANTI Quando arriva però Conti con Binazzi eccetera in qualche modo risanano quel settore assicurativo
GIANFRANCO BATTISTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 Ma che risanano, ma che, io ho tutto scritto, macché è un bluff! Binazzi e quest’altro quando fanno le altre gare danno perimetri completamente diversi. Sono quelli cacciati che poi hanno architettato tutto.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO I due manager da quello che ci racconta Gianfranco Battisti sarebbero stati quindi cacciati perché complici di un piano per farlo fuori, un piano fatto di lettere anonime che sarebbe stato architettato da Gianluigi Castelli, all’epoca presidente di ferrovie e oggi consulente del ministro Colao.
GIANFRANCO BATTISTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 Un giorno entra questo Castelli e mi legge una lettera anonima che dice che io ero raccomandato dal Vaticano, da Confindustria che, però, avevo avuto un indennizzo non dovuto. Solo dopo dice questa è la prima di altre lettere anonime. Arriva una seconda lettera anonima che dice l’indennizzo corrisponde a questa cifra qua. Che succede, che da questa seconda lettera si scatena la guerra. Renzi su Repubblica: “siluro di Renzi all’ad delle Ferrovie”.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ovviamente l’ex premier Matteo Renzi non c’entra sicuramente nulla con questa presunta attività di dossieraggio. Certo è che quando le lettere anonime non erano ancora uscite dai palazzi delle ferrovie, il 12 ottobre 2019 esce un articolo su Repubblica che anticipa un’interrogazione parlamentare dell’onorevole Nobili di Italia Viva che riprende passo passo quelle lettere anonime e fa riferimento proprio al risarcimento da un milione e seicentomila euro.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Chi ha passato le lettere anonime all’onorevole Nobili e soprattutto chi le ha scritte? Qui comincia una vera e propria spy story con al centro una misteriosa chiavetta che avrebbe viaggiato tra Roma e Milano, la trova un capotreno, dentro c’erano le tre lettere anonime e l’avrebbe dimenticata proprio il presidente di Ferrovie Castelli
GIANFRANCO BATTISTI – AD FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 lo chiamo, registrato, lui ammette che è la sua chiavetta
DANILO PROCACCIANTI Cioè lui ammette che era tutta una manovra per fare fuori lei
GIANFRANCO BATTISTI – AMMINISTRATORE DELEGATO FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 Sì, dice che è stato lui a fare le lettere anonime e mi propone di non fare niente in modo che non scoppino gli scandali. E quindi c’era tutta una manovra per ammazzarmi.
DANILO PROCACCIANTI Io ho incontrato l'ex amministratore delegato Battisti e lui mi dice che era lei a scrivere le lettere anonime.
GIANLUIGI CASTELLI – PRESIDENTE FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 che lo provi in qualche aula di tribunale dopodiché ne pagherà le conseguenze.
DANILO PROCACCIANTI lui mi racconta la storia di questa chiavetta che è stata trovata su un treno, la chiavetta sarebbe stata sua e dentro c’erano le lettere anonime
GIANLUIGI CASTELLI – PRESIDENTE FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 non so di che cosa stia parlando. Me ne aveva parlato e fatto un cenno, forse posso anche sapere da dove provenisse quella chiavetta ma non è mia intenzione discuterne con lei.
DANILO PROCACCIANTI Ma lei mi conferma che la chiavetta era sua?
GIANLUIGI CASTELLI – PRESIDENTE FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 Io so che girava una chiavetta, è stata girata una chiavetta: che sia stata attribuita a me o che, questo non posso confermarlo con certezza
DANILO PROCACCIANTI Quindi lei non ha mai ammesso di essere stato il corvo?
GIANLUIGI CASTELLI – PRESIDENTE FERROVIE DELLO STATO 2018-2021 Ci mancherebbe, altro ci mancherebbe altro. La prima lettera anonima era stata inviata non solo agli organi di Ferrovie ma era stata inviata al presidente del Consiglio e a tre ministri. E quindi quali possano essere state poi le fughe di notizie, questo non lo posso sapere
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Una vita vale 330.000 euro, una malattia seppur invalidante 1 milione e 600mila euro. La vita è quella di una figlia morta nella strage di Viareggio. La malattia invalidante anche se non ha fatto mancare un solo giorno dal posto di lavoro è quella dell’ex ad Battisti di Ferrovie. Questo è un po’ un mistero delle valutazioni delle assicurazioni che tuttavia hanno un criterio cinico alla base. Per le polizze assicurative il risarcimento di un manager per una malattia equivale a 3 volte il compenso annuo. E Battisti quell’anno prendeva 500 mila euro. insomma, è tutto legittimo. L’anomalia è la valanga che ne scaturisce da questa polizza assicurativa. Ne scaturisce un’indagine della magistratura, unico indagato Raffaele D’Onofrio. Che gestiva le pratiche assicurative che finiscono nell’occhio di un audit interno. E sarebbero state gestite in maniera impropria, avrebbero addirittura messo a rischio le casse, le risorse dell’azienda, delle Ferrovie dello Stato. Sono finite sotto l’occhio della magistratura i 550 milioni di euro di risarcimenti di premi, di polizze assicurative che sono finite poi nella casse di Generali. Le attuali invece, l’attuale management ci scrive di Ferrovie che prosegue nel campo assicurativo un percorso virtuoso che era cominciato già nel 2016 con l’avvento dell’ad Renato Mazzoncini, che era stato nominato da Renzi. Oggi sono ancora aumentate le compagnie di assicurazione, questa crea una maggiore ovviamente competizione nelle offerte, con conseguenti anche risparmi per le casse delle Ferrovie. Ecco invece riguardo alla sparizione dei 66 documenti, delle 66 pratiche assicurative che sono scomparse dagli archivi tra cui anche quella riguardante la polizza di Battisti di un milione e 600 mila euro, fanno sapere gli attuali manager che sono state presentate delle denunce. Rimane però il mistero di questa chiavetta che ha fatto il viaggio tra Roma e Milano contenente le 3 lettere anonime. Secondo Battisti da noi intervistato l’autore sarebbe il presidente di allora Castelli, che le avrebbe anche preparate e diffuse, e di questo avrebbe prova in una registrazione. Castelli invece da noi intervistato, nega. Il mistero che invece rimane è quello del motivo per cui una di queste lettere anonime, proprio quella riguardante la polizza di un milione e 600 mila euro di risarcimento di Battisti, finisce in un’interrogazione parlamentare. Chi è che consegna questa lettera anonima al parlamentare? Chi è questo parlamentare? È Luciano Nobili di Italia Viva. Lo stesso parlamentare che aveva presentato l’interrogazione su un dossier falso che ci riguardava, che riguardava Report e me in particolare che appunto si è rivelato falso. Lui, abbiamo chiesto una spiegazione, lui che è sempre prolisso, questa volta si cela dietro il riserbo.
L’uomo che fermava i treni. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2021. C’è un signore dispettoso che sale sui treni regionali, aspetta che prendano velocità e aziona il freno d’emergenza. Dall’inizio dell’anno lo ha già fatto più di cento volte, provocando ritardi biblici e perdite di pezzi di vita a migliaia di studenti e lavoratori pendolari. Il suo campo d’azione sono Liguria, Piemonte e Lombardia: una sorta di triangolo ferroviario delle Bermude. Un giorno a Bergamo ha provato ad allargare la sua attività agli aerei, ma arrivato in alta quota si è messo a inveire contro il personale di bordo perché non trovava il freno. L’altra sera, alla stazione di Novi Ligure, lo hanno finalmente arrestato: è un bulgaro senza fissa dimora e, immagino, con qualche disturbo, ma questa è arida cronaca, mentre la storia è chiaramente metafisica. Che cosa spinge un essere umano a compiere cattiverie gratuite in modo compulsivo e a danneggiare gli altri senza trarne alcun giovamento per sé? Il brivido della trasgressione o il piacere di rompere i crostoni al prossimo? Di solito sono i bambini che sabotano le azioni dei grandi, spinti dalla pulsione irresistibile di attirare l’attenzione. Ma il frenatore seriale ha 47 anni e, lungi dal mettersi in mostra, dopo la bravata va a nascondersi nei bagni fino a quando il treno non riparte. Quindi perché lo fa, ma soprattutto perché mi sembra di conoscerlo e di riconoscerlo, ogni volta che sui social leggo qualcuno che insulta qualcun altro senza ragione alcuna?
Striscia la notizia, la "truffa in autostrada": gratuita, invece si paga. La tratta incriminata. Libero Quotidiano il 09 dicembre 2021. Truffa in autostrada? Come minimo, qualcosa non torna: a Striscia la notizia va in onda il paradosso della Liguria. Il tg satirico di Canale 5 fondato e diretto da Antonio Ricci spedisce in Riviera l'inviato Capitan Ventosa, che si mette al volante e affronta la tratta del Ponente ligure. "Dopo il crollo del Ponte Morandi - spiega - sono iniziate tutta una serie di ristrutturazioni di viadotti e gallerie che hanno messo in ginocchio la viablità per anni. Dopo numerose proteste, Autostrade ha reso gratuito il passaggio nelle aree maggiormente colpite" dai disagi, spiega l'inviato di Striscia. Un esempio? La tratta tra Savona e Genova è gratuita, come confermato dal sito stesso di Autostrade calcolandone il pedaggio. "Ma se invece di entrare a Savona entriamo a Spotorno, ingresso successivo, per logica dovremmo pagare solo la tratta tra Spotorno e Savona, 10 chilometri e 1,20 euro. Invece no: si paga la tratta Spotorno-Genova per intero. Ma perché?", chiede Capitan Ventosa. Risultato: 5,30 euro di pedaggio per 57 chilometri. "Ma scusate: se ci sono disagi in quella tratta, chiunque la attraversi a prescindere dall'ingresso autostradale preso dovrebbe essere esentato". A conferma della svista "di sistema", lo stesso accade anche procedendo da Est a Ovest: entrando a Recco, in direzione Savona, si pagano solo i 60 centesimi della tratta Recco-Genova. Ma se si esce a Spotorno, se ne pagano 7,50.
Frecciarossa deragliato "Difetti e zero controlli". Paola Fucilieri l’8 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nel disastro morti 2 macchinisti, 31 feriti. Le accuse ad Alstom e Rfi: in 15 a giudizio. Subito - tra il freddo e il sole della campagna lombarda e dinnanzi alle lamiere della motrice capovolta come un grosso pachiderma d'acciaio ormai del tutto inerme - si era parlato di un pezzo difettoso posto nello scambio e di un errore di manutenzione, avvenuta durante la notte e appena terminata. Ieri la Procura di Lodi lo ha scritto nero su bianco nell'atto di chiusura delle indagini sull'incidente del Frecciarossa 9595 deragliato all'alba del 6 febbraio 2020 a Livraga, nelle vicinanze di Lodi e che costò la vita ai due macchinisti, Mario Dicuonzo e Giuseppe Cicciù, 59 e di 51 anni, oltre a provocare 31 feriti. I reati contestati dal Procuratore della Repubblica Domenico Chiaro e dal pm Giulia Aragno sono disastro colposo e omicidio colposo plurimo. «Maurizio Gentile (all'epoca ad di Rete ferroviaria Italiana, Rfi) - scrivono i pm - omise di adottare le misure di prevenzione necessarie atte a garantire l'integrità fisica dei lavoratori di Trenitalia spa e di tutti i viaggiatori sui treni percorrenti la linea di Alta Velocità binario dispari Milano-Salerno».
Sempre secondo i magistrati lodigiani, la società «Almston» inoltre avrebbe fornito al gestore Rfi un «telaio che presentava un difetto di montaggio interno consistito nella inversione dei cavi 16 e 18, nonostante fosse stato collaudato e certificato». L'atto è stato notificato anche all'ad della società Michele Viale. I destinatari dell'avviso di conclusione indagini notificato ieri, oltre alle due società, sono in tutto 15 persone. Insieme a Gentile e Viale, ci sono i nomi di alcuni dirigenti di Alstom come Maurizio Pula nel cda di Alstom e responsabile del segnalamento ferroviario dell'unità produttiva di Firenze, quindi Tiziana Impera e Francesco Muscatello, all'epoca rispettivamente direttore per l'Italia della sicurezza funzionale e system program manager sempre di Alstom. È stata stralciata invece la posizione di sei persone in vista dell'istanza di archiviazione, tra cui quella di Marco Donzelli, responsabile dell'unità territoriale di Bologna per Rfi. Più nel dettaglio, secondo quanto ricostruito in Procura a Lodi, la causa del deragliamento sarebbe stata la posizione sbagliata di uno scambio, dovuta a «un difetto di produzione presente all'interno» di una sua componente, l'«attuatore telaio aghi» fornito da Alstom a Rfi. Scambio «interessato poco prima» dell'incidente «da lavori di manutenzione programmata». Il Frecciarossa, che aveva «ricevuto il segnale di via libera per viaggiare sul corretto tracciato», quello normale, «alla massima velocità» ovvero 295 chilometri all'ora, sarebbe quindi deragliato per via dello scambio trovato aperto nel tracciato ferroviario, e quindi a rovescio, facendo sì che il treno dovesse cambiare direzione. Quello scambio, o deviatoio, avrebbe invece dovuto essere chiuso e il convoglio procedere diritto fino a Bologna. Nell'atto di chiusura indagine si parla di condotte omissive e di «negligenza e imperizia» nei controlli e di «violazione delle norme anti-infortunistiche e inerenti la sicurezza della circolazione ferroviaria». Paola Fucilieri
Rinaldo Frignani per corriere.it il 2 ottobre 2021. «Copiose richieste di risarcimento per danni patrimoniali nei riguardi sia dei denunciati sia dei sanzionati amministrativamente a causa dei ritardi provocati alla circolazione stradale, ma anche e soprattutto a quella aerea, oltre che per il danno provocato all’Amministrazione e agli stessi poliziotti che sono stati refertati in ospedale». Così venerdì mattina la Questura di Roma a margine della notizia della denuncia di nove persone per i tafferugli del 24 e 25 settembre scorsi sia sull’autostrada Roma-Fiumicino, nei pressi dello scalo «Leonardo da Vinci», nel corso delle proteste dei dipendenti Alitalia, sia a San Giovanni, alla fine dell’ultimo sit-in dei no green pass, con scontri con le forze dell’ordine durante un tentativo di corteo lungo via Appia. Fra i denunciati anche Giuliano Castellino, leader romano di Forza Nuova, per violazione della sorveglianza speciale alla quale è sottoposto. Per la prima manifestazione e il conseguente blocco della circolazione stradale, e aerea, come hanno sottolineato da San Vitale, i denunciati sono sei. La Digos ha accertato le loro responsabilità: quattro sono accusate di resistenza e lesioni a un pubblico ufficiale, uno solo di resistenza e l’ultimo anche di blocco stradale, che prevede anche una multa fra i mille e i 4mila euro. Gli investigatori sottolineano anche come «le sigle sindacali, che hanno regolarmente indetto la manifestazione presso il sito aeroportuale, munite di tutti i permessi, ne hanno preso formalmente le distanze, stigmatizzando questi comportamenti violenti e mostrando gratitudine alle forze di polizia, per aver garantito l’ordine pubblico nel pieno rispetto del diritto di manifestare, e vicinanza agli agenti feriti, in una lettera inviata al questore Mario Della Cioppa». In via Appia, invece, oltre a Castellino, che in quanto sorvegliato speciale secondo la Digos non avrebbe potuto partecipare alla manifestazione, gli agenti hanno denunciato altre due persone, una per aver incitato la folla a dare vita a un corteo non autorizzato «ed esserne stato materialmente il promotore», e l’altra per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale. Altri 26 partecipanti al corteo saranno invece multati per aver «arbitrariamente bloccato la circolazione stradale lungo via Appia, da piazza di Porta san Giovanni a piazza Re di Roma, per cui è prevista una sanzione amministrativa che va da mille a 4mila euro. Per la resistenza a pubblico ufficiale invece è prevista la pena della reclusione da 6 mesi a 5 anni».
Giulio De Santis per corriere.it l'1 ottobre 2021. Francesco Caporale, 49 anni, è morto per essere caduto con la moto in una delle «numerose buche» in via Salaria, presenti nonostante le segnalazioni dei vigili urbani. Buca killer profonda 3 centimetri rimossa subito dopo l’incidente. A doverla «riempire e livellare» prima della tragedia avrebbero dovuto essere due funzionari del Simu (il dipartimento comunale Sviluppo e infrastrutture manutenzione urbana), ieri condannati a un anno e quattro mesi con l’accusa di omicidio colposo per aver omesso di avviare i lavori di manutenzione. La sentenza è stata innanzitutto pronunciata nei confronti di Marco Domizi, direttore della manutenzione stradale del Simu. L’altro imputato è Guido Carrafa, responsabile della manutenzione del «lotto 3» di Roma Capitale all’epoca della tragedia. «È una sentenza storica perché mai a Roma sono stati condannati dei funzionari per non aver coperto una buca», sottolinea Manuela Barbarossa, presidente dell’Avis (Associazione vittime della strada) che, attraverso l’avvocato Giuseppe Bellanca, ha assistito i familiari di Caporale costituitisi parte civile. «Domizi ha avviato le pratiche previste dal suo ruolo. Pertanto andava assolto», ribatte l’avvocato Fabio Federico, difensore del funzionario. La caduta mortale in via Salaria – strada che rientra nella categoria della grande viabilità, la cui custodia, pertanto, è di competenza esclusiva del Simu - risale alle 2,50 del 22 dicembre 2016. Nelle ore successive Domizi e Caraffa procedono «al riempimento e corretto livellamento della buca» ma, rimarca il pm nel capo di imputazione, con «mezzi, personale e materiale» che anche prima del sinistro «non mancavano». C’’è un secondo aspetto, che per l’accusa inchioda i due funzionari. La manutenzione è un «atto dovuto» a prescindere da eventuali solleciti. Ora è opportuno ritornare ai giorni precedenti il 22 dicembre di cinque anni fa. Da tempo, in quel periodo, i vigili urbani segnalano in via Salaria a vari uffici comunali «la presenza di numerose buche sull’asfalto». Le raccomandazioni in particolare finiscono sulla scrivania della III sezione Manutenzione stradale, dipartimento Simu. Avvisi che però rimangono lettera morta, almeno secondo l’accusa. Mai infatti viene avviata alcuna pratica per il rattoppo della strada. Così Caporale, alla guida della sua Suzuki N1200, percorrendo via Salaria non nota la presenza della buca killer che, anche per via dell’ora tarda, «non è facilmente avvistabile ed evitabile». Fattori che rende l’avvallamento «insidioso», sostiene la Procura. Caporale finisce con le ruote nella buca, perde il controllo della moto e sbatte con la testa contro il guardrail. Rimanendo ucciso.
Da repubblica.it il 9 settembre 2021. Piccola disavventura per Roberto Mancini dopo la bella serata di Reggio Emilia in cui la sua Italia ha travolto la Lituania 5-0 nelle qualificazioni ai Mondiali del prossimo anno. Dalla città del Tricolore il ct azzurro stava rientrando a Milano ma ha dovuto cambiare il piano di viaggio dopo aver trovato l'autostrada chiusa. Una cosa che non è andata giù al Mancio, che nelle sue storie su Instagram ha denunciato l'accaduto con un breve filmato accompagnato da un post molto duro: "Queste sono le autostrade italiane. Arrivi a mezzanotte dalla A7 allo svincolo A26 e trovi la autostrada chiusa senza un cartello che segnala la chiusura. Vergognatevi. Ma in tanti dovete vergognarvi".
Mancini resta bloccato e attacca Autostrade per l'Italia: «Vergognatevi». Il Quotidiano del Sud il 10 settembre 2021. Post-partita complicato ieri sera per il ct azzurro Roberto Mancini dopo la vittoria per 5-0 sulla Lituania nelle qualificazioni mondiali. Il tecnico jesino, infatti, è rimasto bloccato in autostrada mentre tornava a casa e sui social si è sfogato, con tanto di video della sua disavventura. “Queste sono le autostrade italiane – ha scritto in una story su Instagram – Arrivi a mezzanotte dalla A7 allo svincolo A26 e trovi l’autostrada chiusa senza un cartello che segnala la chiusura. Vergognatevi, ma in tanti dovete vergognarvi”.
Tony Damascelli per “il Giornale” il 10 settembre 2021. Reduce dal trionfo sulla Lituania, Roberto Mancini ha vissuto una notte da incubo. Letta e scritta così, si potrebbe pensare a un agguato, a un'aggressione violenta, al gesto di un folle, a una rapina a mano armata. In verità si tratta di qualcosa di ben più serio: la chiusura, per lavori, dell'autostrada A26 al bivio di Novi Ligure. E qui il commissario tecnico campione d'Europa ha perso il controllo, non dell'autoveicolo ma dei nervi. Ha preso a insultare e si è scatenato con una storia su Instagram dai toni e contenuti non proprio in linea con un uomo di fede e di eleganza come il marchigiano: Queste sono le autostrade italiane. Arrivi a mezzanotte dalla A7 e allo svincolo per l'A26 trovi l'autostrada chiusa senza un cartello che segnala la chiusura. Vergognatevi, ma in tanti dovete vergognarvi. Vergogna. La rabbia viene condita da un porca tr... che in fondo ribadisce lo slogan di Lino Banfi censurato da Tim e il Moige. La controparte, nel senso di Autostrade per l'Italia, ha risposto con furbizia, complimentandosi per i risultati sportivi, ricordandogli che l'avviso di chiusura alle ventuno era segnalato dalle nove del mattino sui pannelli luminosi e invitandolo a conoscere le lavoratrici e i lavoratori che di notte faticano in quelle gallerie e in quei cantieri. Piccola storia che illustra come gli abitanti del mondo calcio scoprano la realtà dei cittadini comuni i quali ugualmente rivolgono inviti a madonne e divinità vari ma non ricevono nemmeno una cartolina di risposta e restano in coda, cercando una soluzione alternativa. La quale esisterebbe pure e Roberto Mancini ne è a conoscenza: lui avrebbe dovuto comportarsi come quel gruppetto di azzurri che, con la giustificazione taroccata che si usava a scuola dei bei tempi, se l'è data prima della partita contro la Lituania. A quell'ora, prima delle ventuno, l'autostrada era libera, senza chiusure e le lavoratrici e i lavoratori stavano davanti alla tivvù a tifare per gli azzurri. Informato degli sviluppi della vicenda, il cittì ha commentato: «Faccio i complimenti ai ragazzi ma dei singoli non parlo».
Daniele Dell'Orco per “Libero quotidiano” il 10 settembre 2021. Dopo essere diventato l'eroe della nazione a seguito del trionfo azzurro ad Euro 2020, il ct Roberto Mancini ha deciso di concedersi qualche vezzo da vero capopopolo che tanto piace alla gente. Dalle passeggiate in bermuda ad Ancona, alla fila dal panettiere nella sua Jesi, fino alle imprecazioni contro i (presunti) disservizi di Autostrade per l'Italia. È successo nella serata di mercoledì, dopo la grande vittoria della Nazionale a Reggio Emilia - 5-0 contro la Lituania in una gara di qualificazione ai Mondiali 2022. Dalla città del Tricolore il ct azzurro stava rientrando festante a Milano in macchina, quando all'improvviso ha dovuto cambiare piani per via della chiusura di un tratto autostradale a suo dire non segnalata. Incarognito come ogni vero automobilista italiano sa essere in casi del genere, si è sfogato su Instagram condividendo una storia in cui denunciava l'accaduto con un breve filmato accompagnato da un post molto duro: «Queste sono le autostrade italiane. Arrivi a mezzanotte dalla A7 allo svincolo A26 e trovi la autostrada chiusa senza un cartello che segnala la chiusura. Vergognatevi. Ma in tanti dovete vergognarvi». Il tutto condito anche da un insulto, «porca troia!», urlato praticamente in diretta. Una disavventura che gli ha guastato un po' l'umore e gli ha fatto dimenticare la gioia per aver conquistato l'ennesimo record portando a 37 la striscia di risultati utili consecutivi per la sua Italia con 28 vittorie e 9 pareggi. A questa invettiva di stampo un po' grillino, totalmente priva del suo proverbiale aplomb imparato negli anni di lavoro in Inghilterra, l'azienda ha risposto, sempre via Instagram, con un post di smentita che inizia con i complimenti a Mancini per la vittoria sulla Lituania e il successo agli Europei e prosegue col dettaglio sui lavori: «La chiusura della A26- si legge -, inclusa in un programma di lavori riguardanti le gallerie, è stata attivata ieri dalle ore 21, in direzione Genova, a partire dal bivio per Novi Ligure/A7 fino al bivio per la A10. L'informazione della chiusura, inserita anche come previsione nella home page del nostro sito, è risultata sempre esposta sui pannelli luminosi in avvicinamento al tratto interessato, sia dalla A7 che dalla A26. In particolare la chiusura è stata preannunciata fin dalle ore 9 del mattino e in continuità segnalata a partire dalle 21 per tutta la durata dell'evento. Prendiamo in ogni caso spunto dal suo messaggio e cercheremo di migliorare ancora di più l'informazione di servizio». Infine, un tocco più umano che sa di ammonimento nei confronti dell'"insensibile" Mancini, con tanto di invito: «I nostri tecnici e operai stanno facendo sforzi inauditi per portare avanti un lavoro che non è visibile a chi viaggia, ma che consiste nella completa ristrutturazione delle gallerie per allungarne la durata di decine di anni. Uno sforzo che comporta inevitabili disagi, che noi per primi vorremmo evitare a viaggiatori e cittadini, ma che è necessario per ammodernare le infrastrutture di questo Paese, che risalgono in larga parte agli anni '60/'70. Dentro quelle gallerie lavorano ogni giorno e notte centinaia di uomini e donne che danno il massimo per rispettare i tempi di consegna. Le andrebbe di venire a conoscerli? Saremmo infatti lieti di invitarla a fare un sopralluogo dentro questi cantieri. Troverà tanta passione e impegno, oltre che accesi tifosi suoi e della Nazionale che, invece che vergognarsi, la accoglieranno in modo affettuoso. Che ne pensa? La aspettiamo!». Considerata la legittima voglia del commissario tecnico di rientrare a casa prima possibile dopo oltre una settimana di ritiro, viaggi tra Coverciano, la Svizzera e Reggio Emilia, tre partite anche delicate e tutto il carico di stress e aspettative che comporta essere freschi campioni d'Europa, una svista potrà essere certamente capitata. E magari non si sarà accorto delle comunicazioni sui ledwall. Allo stesso modo, i lavori in autostrada bisognerà pur farli, peraltro alla mezzanotte di un mercoledì di metà settembre che sa molto di buon senso. Ma dopo il crollo del ponte Morandi, mesi e mesi di campagne d'odio contro gli ex concessionari, i Benetton, e i classici stereotipi che vedono le nostre autostrade come tutt' altro che curate ed efficienti rendono fin troppo semplice abbandonarsi a qualche insulto di troppo quando capita l'imprevisto, anche ora che la gestione è passata al consorzio formato da Cassa depositi e prestiti con i fondi Blackstone e Macquarie. Succede un po' a tutti. È successo anche a Mancini.
Dagospia il 9 settembre 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, Mancini ha fatto benissimo a lamentarsi della autostrada A7. Ci passo ogni settimana perché ho una casa in campagna: per mesi è stato aperto un cantiere proprio sugli ultimi due chilometri, all’ingresso per Milano (tratto di competenza di Milano Serravalle, ndR) creando un imbuto colossale: non ho mai visto nessuno lavorarci il sabato e la domenica. In tutto il mondo, sulle autostrade, si lavora giorno e notte sette giorni su sette (facendo i turni, ovviamente). Pierluigi Panza
Alessio Ribaudo per corriere.it l'11 settembre 2021. Senza troppi giri di parole, come nel suo stile, Flavio Briatore si è scagliato ieri contro chi gestisce le autostrade in Liguria sul popolare social network TikTok. Il noto imprenditore piemontese, trapiantato a Monaco, rimasto imbottigliato nel traffico dell’A10 non ha retto e con il suo smartphone ha girato un video che, in poche ore, è diventato virale.
Lo sfogo. «Le autostrade italiane fanno schifo e chi amministra le autostrade fa schifo - ha attaccato Briatore - e non solo non dovremmo pagare il ticket, ma dovremmo chiedere i danni». Il settantunenne, che come team manager in Formula 1 è riuscito a vincere tre titoli con due piloti e due squadre diversi, ha proseguito nel suo sfogo: «È tutta l’estate che è così e non vedo nessuno lavorare nei cantieri». Briatore, nel video, racconta di aver visto un cartello in cui si segnalavano cinque chilometri di coda per lavori: «Ma noi non abbiamo visto operai per 200 chilometri, ti fanno passare da una corsia all’altra, ti bloccano, ma non c’è nessuno». Poi ha tagliato corto: «Chi le amministra fa schifo e non è possibile, trattano la gente come fossero degli stracci».
Il precedente. Il tratto autostradale ligure, per via dei lavori di manutenzione, è uno dei più trafficati d’Italia. Nei giorni scorsi anche l’allenatore Roberto Mancini si era lasciato andare a dure critiche sui social di ritorno da Reggio Emilia dove aveva giocato la nazionale. «Queste sono le autostrade italiane, arrivi a mezzanotte dalla A7 allo svincolo A26 e trovi l’autostrada chiusa senza un cartello che segnala la chiusura - era sbottato sul suo profilo Instagram taggando il gestore Autostrade per l’Italia -. Vergognatevi ma in tanti dovete vergognarvi». Parole a cui l’azienda aveva replicato: «Chiusura annunciata e segnalata, venga a trovarci».
(ANSA il 22 luglio 2021.) E' di una vittima - l'autista del minibus precipitato, di cui non sono ancora state rese note le generalità - e di 28 feriti registrati al pronto soccorso dell'ospedale di Capri il bilancio dell'incidente verificatosi stamattina. Per la maggior parte si tratta di persone ferite in modo lieve, che non si trovavano sull'automezzo ma sono state investite da detriti provocati dalla caduta. Quelli in condizioni più gravi sono i passeggeri del minibus. Due dei feriti, tra cui un ragazzo, sono già stati trasferiti in elicottero a Napoli, rispettivamente nell'ospedale del Mare e al pediatrico Santobono. Altri due feriti sono attualmente assistiti in camera operatoria in attesa di trasferimento, altri stanno ricevendo cure e sono in fase di stabilizzazione emodinamica e assistenza respiratoria, sempre in attesa di trasferimento. Delle persone coinvolte nell'incidente quattro sono di nazionalità straniera, francese e libanese. (ANSA).
(ANSA il 22 luglio 2021) Una persona è deceduta in seguito all'incidente del minibus precipitato a Capri. Secondo quanto al momento accertato dalla Polizia ci sarebbero oltre a feriti lievi anche 3-4 casi gravi. Da Napoli sono partiti elicotteri sia della Polizia che della Guardia di Finanza per trasferire sull'isola medici e riportare in città, all'ospedale del Mare, i casi gravi. Finora due i trasferimenti eseguiti. (ANSA).
Dagospia il 22 luglio 2021.- COMUNICATO STAMPA DELL’ASL NAPOLI 1 CENTRO. Incidente sull’Isola di Capri. In merito al grave incidente occorso oggi sull’Isola di Capri, l’ASL Napoli 1 Centro fa sapere di aver immediatamente attivato, attraverso l’Unità Operativa Servizio 118 Napoli 1 e in sinergia con il sindaco di Capri, il piano operativo per fronteggiare l’emergenza sanitaria venutasi a creare. Con l’ausilio di due elicotteri, (Polizia di Stato e Guardia di Finanza) messi a disposizione tramite la Prefettura di Napoli, è stato trasferito personale sanitario e presidi medici necessari ad integrare quanto già presente presso l’Ospedale Capilupi di Capri che è il primo riferimento per l’accoglienza dei feriti. All’elicottero del Servizio Regionale di Emergenza 118, abilitato al trasporto dei pazienti, è stata affiancata un’ulteriore unità di elisoccorso con capacità tripla di trasporto feriti. Il decesso di una persona è stato accertato sul luogo dell’incidente. I pazienti trasportati presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale Capilupi (codici gialli e rossi) presentano politraumi a dinamica maggiore con fratture multiple dello scheletro in più distretti, sospette lesioni vascolari dei distretti toraco-addominali, policontusioni multiple, escoriazioni multiple, ferite lacero contuse multiple. I feriti registrati al PS allo stato sono 28, dei quali 2 sono già stati trasferiti rispettivamente presso l’Ospedale del Mare e l’Ospedale Santobono. Altri due feriti sono attualmente assistiti in camera operatoria in attesa di trasferimento, altri stanno ricevendo cure e sono in fase di stabilizzazione emodinamica e assistenza respiratoria, in attesa di trasferimento. Delle persone coinvolte nell’incidente 4 sono di nazionalità francese e libanese. I pazienti che necessitano di essere trasferiti su Napoli, all’Ospedale del Mare, verranno spostati con l’ausilio dei due elicotteri del Servizio Regionale Emergenza 118 Napoli 1.
Melina Chiapparino per "il Messaggero" il 23 luglio 2021. «Ho sentito l'autobus traballare e ho avuto tanta paura». Mentre pronunciava queste parole con un filo di voce, Gaia, distesa su un lettino nel pronto soccorso dell'ospedale del Mare, cercava lo sguardo della madre. «Non riesco a ricordare cosa sia accaduto, ho visto tutta la gente a terra» ha raccontato la 14enne di Pavia con metà volto tumefatto e l'occhio destro fasciato. Trasportata nel presidio di Ponticelli, dopo la prima assistenza all'ospedale Capilupi, a Capri, è stata ricoverata, insieme ad altre 13 persone, in un reparto aperto appositamente per i feriti nell'incidente. «Abito con la mia famiglia a Pavia ma veniamo ogni estate a Capri e la nostra vacanza era cominciata da poco» ha continuato incredula la 14enne.
I SOCCORSI Da primo pomeriggio fino alle 20 di ieri, è stato continuo il via vai dell'elicottero del Servizio Regionale di Emergenza 118 e di un secondo mezzo per l'elisoccorso che hanno trasportato all'ospedale del Mare i pazienti spaventati e confusi, per i quali la direzione strategica dell'Asl napoletana ha predisposto un servizio di assistenza psicologica, cominciato fin dalle prime ore di ricovero. «Ho sentito delle scosse come di un terremoto e ho stretto al mio petto i miei due figli» ha raccontato una signora che ieri non smetteva di pregare. «Mi sono affidata alla Madonna», ha spiegato commossa. Nell'area dedicata al ricovero dei pazienti trasportati da Capri si sono intrecciate le storie di chi si è sentito miracolato e fortunatamente per tutti gli assistiti non ci sono state prognosi di rischio vita ma, nella maggior parte dei casi, i feriti hanno riportato politraumi, escoriazioni, fratture e ferite lacero contuse multiple. «Stavo raggiungendo con delle amiche il b&b dove trascorrere le nostre vacanze, ero sull'autobus e non avrei mai pensato di ritrovarmi in un incubo» ha raccontato una delle ragazze soccorse.
IL TERRORE «Sembrava fosse venuto giù un palazzo», hanno raccontato invece nella piazza di Marina Grande le persone che hanno assistito al volo del minibus. «È stata una scena agghiacciante - racconta Luca, uno dei conducenti dei taxi del porticciolo caprese - alcuni bambini avevano le ossa che sporgevano dalle gambe, molte persone erano insanguinate, gridavano disperate». Non tutti si sono subito resi conto della portata della tragedia. «Chi poteva - raccontano due anziani signori - si è messo in salvo da solo uscendo con difficoltà dal minibus e arrampicandosi verso le uscite. L'autobus è caduto sul fianco dal lato del conducente e quindi la porta siamo riusciti ad aprirla dal lato opposto. Ma non abbiamo subito compreso che, all'interno, ci fosse anche una persona deceduta».
(ANSA il 24 luglio 2021.) "Dagli accertamenti eseguiti oggi è emerso che le cause del decesso sarebbero riconducibili a "lesioni multiple agli organi toraco-addominali": al momento, quindi, sembrerebbe escluso che il decesso sia stato causato da un malore o da una patologia". A rendere noti i primi esiti dell'autopsia eseguita sulla salma di Emanuele Melillo, l'autista 33enne del minibus deceduto nel grave incidente stradale avvenuto a Capri è l'avvocato Giovanna Cacciapuoti, legale della famiglia della vittima. "Ad ogni modo - continua la penalista - bisogna attendere l'esito degli esami istologici al cuore e al cervello, e di quello tossicologico, per avere un quadro più chiaro". L'incarico per l'autopsia è stato conferito in mattinata al medico legale Marta Moccia, negli uffici della Procura di Napoli. Le operazioni peritali, alla presenza del consulente di parte dottor Francesco Paciolla, sono iniziate intorno alle 13, nel Secondo Policlinico di Napoli, e si sono concluse intorno alle 15. Il sostituto procuratore di Napoli Domenico Musto si è pronunciato contro l'istanza di cremazione della salma che, a questo punto, non verrà restituita alla famiglia per la tumulazione e resterà sotto custodia nel Secondo Policlinico in attesa di eventuali ulteriori approfondimenti che, al momento, non possono essere esclusi. La relazione del consulente nominato dalla Procura verrà consegnata entro 60 giorni. (ANSA).
Anna Paola Merone per corriere.it il 29 luglio 2021. Nella strada stretta che a Napoli, da via Tribunali, porta a casa Melillo è un via vai continuo di persone. Nel cuore del centro storico della città c’è una mobilitazione generale per portare una parola di conforto, un saluto, un messaggio di cordoglio, un fiore alla famiglia del conducente del bus morto a Capri nel corso di un incidente sul quale la Procura di Napoli ha aperto un fascicolo per disastro colposo. Oggi sarà eseguita l’autopsia sulla salma, per avere qualche risposta alle molte domande che riguardano le cause che hanno provocato la tragedia. Fino ad ora si sa solo che Emanuele Melillo, che aveva 33 anni, è morto mezz’ora dopo l’incidente. Mentre si stava predisponendo il suo trasferimento in ospedale. «È stato mio zio ad avvertirmi — racconta Amelia, la sorella di Emanuele —. Lavora anche lui a Capri, alla funicolare, ed è stato fra i primi ad accorrere sul luogo della tragedia. Ha chiamato me sul cellulare per dirmi che mio fratello era coinvolto in un brutto incidente. Io l’ho richiamato in continuazione, ma lui non aveva il coraggio di dirmi che non c’era più niente da fare. Poi, alle mie insistenze, mi ha detto di farmi coraggio. Per tutti». E Amelia il coraggio se lo dà, fra fiumi di lacrime e decisioni ferme. La prima delle quali riguarda la compagna di Emanuele, Rosaria Aridità, e il bimbo che le sta crescendo in grembo. «La sosterremo in ogni modo — dice —. Questa casa è la loro casa. Lui vivrà in questo bimbo, lei è di tre mesi e non sappiamo ancora se è un maschietto o una femminuccia, che consideriamo come l’eredità che ci ha lasciato». Emanuele aveva già una bimba, Zaira, che ha 11 anni. «Noi — aggiunge Amelia — abbiamo avvisato subito la sua mamma che sceglierà come dirle che il papà non c’è più, magari con il supporto di uno psicologo. Zaira va tutelata: se per noi quello che è successo è drammatico, immaginiamo per una bambina». Amelia con compostezza prova a tenere insieme i pezzi di una famiglia distrutta. Ha 43 anni ed è la prima di tre figli. Dopo di lei c’è Marco, che ha 41 anni. Emanuele che era il piccolo di casa, arrivato dieci anni dopo. «Era bello come il sole, generoso, con un sorriso che illuminava tutto. Era un uomo ricco di slanci di generosità, pronto ad impegnarsi come volontario per la Croce Rossa e per i più deboli. Andava e veniva da Capri tutti i giorni — ricorda Amelia —. Estate e inverno su e giù e, quando il tempo non permetteva la partenza delle navi, lui restava a dormire sull’isola in un sacco a pelo in un deposito dei bus. Si dedicava al lavoro senza risparmio ed è capitato che la società fosse in ritardo con i pagamenti e lui lavorasse gratis, senza lamentarsi». I suoi genitori, Nazzareno e Antonella e i suoi fratelli, chiedono la verità sulla sua morte. «Era in perfetta forma, il ritratto della salute — dice Amelia — stava benissimo. Aspettiamo i risultati dell’autopsia perché vogliamo capire cosa e successo e perché. Tante volte ci siamo ritrovati a leggere su un giornale di una famiglia che perde un figlio, ma questo dolore atroce vissuto non è spiegabile. E almeno vogliamo sapere il motivo di tutto questo. Siamo rimasti senza il sorriso, la bontà, la positività di un ragazzo amato e rispettato da tutti. Il suo motto era: chi siamo noi per giudicare, solo Dio può farlo. E noi seguiremo la sua parola e il suo esempio». Gli amici hanno promosso una sottoscrizione per i suoi figli, perché possano guardare avanti e affrontare il futuro senza affanni.
Leandro Del Gaudio per ilmattino.it il 29 luglio 2021. Ha fatto di tutto per salvare la vita sua, dei passeggeri e di quanti erano nelle vicinanze. Ha fatto di tutto per reagire a un probabile guasto tecnico (una ruota che slitta e sbanda), per fermare la marcia del mezzo e per impedire la tragedia che si stava consumando sotto i propri occhi. Di sicuro, è stato vigile fino alla fine, tanto da inarcarsi sulla sinistra, appoggiando la testa sul finestrino del lato guida, per controsterzare, per provare - con uno sforzo impossibile - a deviare il corso del bus che stava precipitando dal lato destro della carreggiata. È questa la testimonianza resa da uno dei passeggeri che viaggiava nel bus che giovedì scorso è crollato su un lido di Capri, provocando la morte del conducente, il 33enne Emanuele Melillo, il ferimento di decine di persone, tra passeggeri e operatori del lido sottostante. Una testimonianza destinata a finire agli atti dell’inchiesta condotta dal pm Giuseppe Tittaferrante, magistrato in forza al pool guidati dall’aggiunto Simona Di Monte. Disastro colposo è l’ipotesi battuta in queste ore dalla Procura di Napoli, che ieri ha effettuato un sopralluogo sul posto dell’incidente. Una visione dello stato dei luoghi, anche in vista della rimozione del bus (che dovrebbe essere effettuata grazie a elicotteri dell’Esercito) e del dissequestro del lido coinvolto dall’incidente (i cui titolari, rappresentati dal penalista Antonio Di Nocera, sono ovviamente estranei alle ipotesi investigative). Ma torniamo alle indagini, al lavoro finora svolto, sette giorni dopo l’incidente mortale. Agli atti le testimonianze raccolte dai media e dalle forze di polizia giudiziaria, che sembrano andare tutte nello stesso senso: la conferma di quanto emerso finora dai primi esiti autoptici, che escludono l’ipotesi del malore. Ma restiamo alla versione resa da uno dei passeggeri. Ha superato la sessantina ed era a bordo del minibus. Si definisce un miracolato, perché sopravvissuto a quella che sembrava una tragedia irreparabile per tutti i passeggeri. Ha raccontato cosa è accaduto in quegli istanti ed è pronto a ripetere la sua versione dei fatti anche dinanzi alla polizia giudiziaria: «Non c’è stato malore - chiarisce il teste, smentendo la tesi dell’infarto che pure era circolata sulle prime -, il conducente non ha avuto un mancamento, ma ha resistito fino alla fine, ha provato con tutte le sue forze a raddrizzare la corsa del mezzo, che nel frattempo era sbandato». Ma cosa ha fatto deviare il corso? Perché un mezzo che procede in salita, in modo lento, sbanda e va a sbattere sulla ringhiera? «Era come se la ruota fosse uscita fuori dall’asse, come se avesse urtato contro un marciapiede», chiarisce il teste. Poi c’è anche un altro passaggio, degno di essere considerato nel corso delle indagini, legato al tentativo dell’autista di rimettere in carreggiata il bus dopo la prima sbandata. Spiega il teste: «Ho guardato l’autista, come se avessi voluto chiedergli cosa stesse accadendo. L’ho visto manovrare con forza il volante, tanto che si è appoggiato sulla sua sinistra per fare leva con il corpo e provare a far girare il volante. Non ce l’ha fatta. Siamo precipitati e, solo alla fine, il bus si è girato su se stesso». Una vicenda che ora attende gli esiti delle indagini, mentre la famiglia di Emanuele Melillo chiede di conoscere la verità sull’incidente mortale. Difesa dalla penalista Giovanna Cacciapuoti, la moglie della vittima ha anche offerto il codice di accesso del telefonino cellulare del marito, anche per sgomberare il campo da ogni ipotesi di distrazione al volante. Ma su cosa battono ora le indagini? Si riparte dalle testimonianze, si punta a verificare eventuali guasti tecnici o difetti di manutenzione. Si lavora in due direzioni: da un lato sulle condizioni della ringhiera di protezione, in un tratto di strada in salita e in curva; dall’altro sulle condizioni delle ruote e del motore del minibus. A quando risaliva la revisione del mezzo? E da chi era stata effettuata? È una delle domande che spingono gli inquirenti ad acquisire atti negli uffici di città metropolitana (per le condizioni delle strade) e del comune di Capri (a proposito di bus e revisioni).
Altro che malore: "Ecco perché il bus è uscito di strada". Francesca Galici il 29 Luglio 2021 su Il Giornale. I testimoni a bordo del bus precipitato a Capri e l'autopsia escludono il malore dell'autista: probabile un guasto tecnico. Sotto accusa anche la ringhiera arrugginita. Il bus precipitato a Capri lo scorso 22 luglio è ancora lì, adagiato sul fianco in fondo alla scarpata dal quale è scivolato mentre effettuava servizio tra il porto e Anacapri. Gli inquirenti devono ultimare la perizia sul mezzo e, anche quando questa sarà finita, rimuoverlo non sarà facile. Dovrà probabilmente essere utilizzato un elicottero per spostarlo da quell'infausta posizione, impossibile da raggiungere con argani e gru. Ora, però, la rimozione non è una priorità. È necessario accertare i motivi che hanno portato il bus fuoristrada e gli investigatori per farlo stanno ascoltando anche i testimoni, soprattutto i passeggeri che erano a bordo del mezzo e che sono sopravvissuti. Sono proprio loro ad aver probabilmente dato le informazioni fondamentali per risolvere il caso, descrivendo agli inquirenti il comportamento tenuto dall'autista in quei secondi drammatici prima della caduta. L'unica vittima dell'incidente è stata proprio Emanuele Melillo, il conducente del bus. L'autopsia per il momento ha escluso che possa essere stato un malore la causa della sua morte, sopraggiunta per i traumi causati dell'incidente. Serviranno degli esami più approfonditi per avere la certezza ma gli inquirenti sembrano essere orientati verso il guasto tecnico. Si stanno esaminando il motore e il sistema frenante del mezzo per verificarne il corretto funzionamento e i passeggeri che si trovavano a bordo di quel bus sono fondamentali in questo lavoro di ricostruzione. "Era come se la ruota fosse uscita fuori dall’asse, come se avesse urtato contro un marciapiede", ha dichiarato un testimone, secondo quanto riportato sul quotidiano Il Mattino. Lo stesso testimone, che era a bordo quando il bus è precipitato, ha spiegato: "Non c’è stato malore, il conducente non ha avuto un mancamento ma ha resistito fino alla fine, ha provato con tutte le sue forze a raddrizzare la corsa del mezzo, che nel frattempo era sbandato". Il passeggero si trovava a breve distanza da Melillo mentre lui provava a evitare la tragedia: "L’ho visto manovrare con forza il volante, tanto che si è appoggiato sulla sua sinistra per fare leva con il corpo e provare a far girare il volante. Non ce l’ha fatta. Siamo precipitati e, solo alla fine, il bus si è girato su se stesso". Sotto l'occhio attento della procura, che ha aperto un fascicolo per disastro colposo, è finita anche la ringhiera, sfondata dal bus prima che questo precipitasse sullo stabilimento sottostante. I sindacalisti dell'Usb Lavoro privato, che hanno effettuato un sopralluogo sul posto nei giorni successivi all'incidente, hanno rilevato alcune anomalie sul dispositivo di protezione: "La ringhiera mostrava impietosamente i segni del tempo, con ruggine in più punti, ad evidenziare lo stato di pericolosità per la sicurezza stradale e della pubblica incolumità". Da un video di sorveglianza registrato dalle telecamere della vicina tenenza della guardia di finanza si nota il bus che arriva a velocità non elevata, senza manovre improvvise, e si appoggia alla ringhiera, che cede senza opporre resistenza al mezzo.
Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.
La famiglia: sedicenti benefattori ci chiamano per aiutarci. Bus precipitato a Capri, dramma nel dramma: la compagna di Melillo ha perso il bambino. Redazione su Il Riformista il 30 Luglio 2021. Dramma nel dramma dopo la tragedia di Capri costata la vita Emanuele Melillo, il 33enne napoletano alla guida del minibus precipitato nel vuoto a Marina Grande. La compagna dell’autista, incinta da quattro mesi, ha perso il bambino. Rosaria Ardita, 30 anni, ha iniziato a stare male subito dopo la notizia della morte di Melillo. Un dolore troppo forte che ha avuto conseguenze sulla gravidanza della donna. Da poche settimane la coppia era andata a vivere insieme e a fine giugno il giovane autista aveva annunciato l’arrivo del figlioletto. La famiglia, inoltre, secondo quanto riferisce l’Ansa, sta ricevendo numerose telefonate di sedicenti benefattori che stanno offrendo assistenza gratuita. Intanto sono in programma martedì 3 agosto i funerali di Melillo, l’autista che lo scorso 22 luglio ha interessato un autobus di linea dell’azienda Atc con a bordo 11 passeggeri, precipitato nel vuoto finendo la propria corsa sulla spiaggia, a ridosso di un lido nella zona di Marina Grande. Melillo è l’unica vittima di un incidente, le cui cause sono tutte da accertare, che ha provocato anche 23 feriti, alcuni di loro in modo grave ma nessuno in pericolo di vita. L’ultimo saluto al giovane autista-eroe, che da pendolare ogni giorno si spostava sull’isola Azzurra per lavoro, si terranno alle 16 nella Chiesa di San Lorenzo in piazza San Gaetano, nel cuore del centro storico di Napoli. Nella giornata di ieri, giovedì 29 luglio, il sostituto procuratore di Napoli Giuseppe Tittaferrante ha dato il via libera alla sepoltura dopo i numerosi esami eseguiti sul corpo di Melillo per chiarire quanto prima le cause che hanno portato al suo decesso. Inizialmente si era pensato a un malore, un infarto mentre era alla guida. Ipotesi questa smentita dai primi esiti dell’autopsia. “Dagli accertamenti eseguiti è emerso che le cause del decesso sarebbero riconducibili a ‘lesioni multiple agli organi toraco-addominali‘: al momento, quindi, sembrerebbe escluso che il decesso sia stato causato da un malore o da una patologia” ha chiarito la scorsa settimana Giovanna Cacciapuoti, legale della famiglia della vittima. Ad ogni modo, come spiega l’avvocato, “bisogna attendere l’esito degli esami istologici al cuore e al cervello, e di quello tossicologico, per avere un quadro più chiaro”. Esami questi che sono stati ultimati nella giornata di giovedì 29 luglio alla clinica Pineta Grande di Castel Volturno (Caserta). L’ipotesi su cui è a lavoro la procura di Napoli è quella di omicidio colposo. Continuano gli accertamenti sul mezzo e su quel tratto di strada per escludere il guasto meccanico. Si verifica che le revisioni siano in regola, si controllano i documenti della società privata Atc, al vaglio anche i turni di Emanuele, i giorni in cui ha lavorato, i riposi oltre alle condizioni del minibus, in particolare ruote e motore, che secondo alcuni colleghi di Melillo era “obsoleto”. Accertamenti anche sulla ringhiera di protezione divelta dal mezzo guidato da Melillo, poi precipitato nel lido sottostante. Minibus che resta ancora da rimuovere perché bloccato nella scarpata tra il corridoio di passaggio verso la spiaggia libera del porto e lo stabilimento balneare “Da Gemma”. Nei prossimi giorni dovrebbe intervenire per la rimozione un elicottero specializzato del Saf: la Procura avrebbe infatti scartato l’ipotesi di effettuare l’incidente probatorio sul retro del lido. Quando la ‘carcassa’ del minibus verrà agganciata dall’elicottero, dovrebbe quindi essere trasportata sulle banchine del porto di Capri e da lì trasportata da una imbarcazione fino a Napoli, dove il mezzo resterà a disposizione degli inquirenti per le perizie. “Mio fratello era sano come un pesce, non soffriva di niente, era un leone. Ora vogliamo la verità”, ha dichiarato a Repubblica Amalia, 43 anni, sorella di Emanuele. Non riesce a rassegnarsi, dopo la notizia dell’incidente: “Mi ha chiamato un parente che lavora a Capri, mi ha detto prega, la vita di tuo fratello è appesa a un filo. Ho pregato ma non è servito”. Ripete più volte che Emanuele era un gran lavoratore, “uno stakanovista, non si lamentava mai, quando era maltempo e non riusciva a rientrare, ha dormito più di una volta con il sacco a pelo in un garage, pur di lavorare. Ha lavorato anche gratis, quando l’azienda era in difficoltà, ha fatto mille mestieri, voleva fare l’infermiere”. “Era come se la ruota fosse uscita fuori dall’asse, come se avesse urtato contro un marciapiede”. È questa la versione resa da uno dei passeggeri del minibus di Capri. “Non c’è stato malore, il conducente non ha avuto un mancamento, ma ha resistito fino alla fine, ha provato con tutte le sue forze a raddrizzare la corsa del mezzo, che nel frattempo era sbandato”.
Grazia Longo per “La Stampa” l'1 agosto 2021. «A dolore si è aggiunto altro dolore. Dopo la morte di Emanuele mi ero aggrappata a questo bambino con tutte le mie forze: se fosse stato maschio l'avrei chiamato come lui, se invece fosse stata una femminuccia Emanuela. Era un modo per tenere il mio amore sempre con me, e invece non è stato possibile. Prima ho perso Emanuele e ora ho perso il nostro bambino tanto desiderato». Piange e non si dà pace Rosaria Ardita, 30 anni, compagna di Emanuele Melillo, l'autista del minibus dell'Atc di Capri che lo scorso 22 luglio è volato giù, a Marina Grande, come un birillo sul retro delle cabine del lido "Le ondine di Gemma" a due passi dai bagnanti. Qualcuno di questi è rimasto ferito dal volo dei pezzi di legno e ferro, mentre i passeggeri del pulmino, compresi due bambini di 10 e 11 anni, hanno riportato fratture multiple, e hanno trasformato in un incubo una giornata di vacanza. In tutto 23 persone hanno dovuto ricorrere alle cure dell’ospedale. E l'altro ieri, esattamente una settimana dopo il drammatico incidente, Rosaria ha dovuto fare i conti con un'altra atroce sofferenza: l'interruzione della gravidanza. Era incinta da tre mesi, e due mesi fa aveva appena messo su casa insieme ad Emanuele. Fidanzati da due anni, avevano infatti deciso di compiere il grande passo e andare a vivere insieme nel centro storico di Napoli, nel quartiere di San Gregorio Armeno. «Mio fratello era un gran lavoratore - ricorda Marco Melillo, 41 anni - ma non era ancora assunto in pianta stabile all'azienda dei trasporti. Aveva contratti stagionali e d'inverno, quando il mare era grosso e non poteva rientrare a Napoli, dormiva nel deposito a Capri. Ha fatto un sacco di sacrifici per crescere una figlia avuta da una precedente relazione, mia nipote di 11 anni, bella come il suo papà. E ora era tutto felice perché sarebbe diventato padre una seconda volta. Lui e Rosaria erano molto legati, e lei ora che ha perso il bambino è doppiamente a pezzi. Una tragedia nella tragedia». Lo shock per Rosaria è stato troppo forte. «Siamo molto tristi per lei e anche per noi - prosegue Marco -, perché pure io, i miei genitori e mia sorella non vedevamo l'ora che nascesse questo bambino. Siamo circondati da persone che ci confortano e ci sostengono, ma il vuoto lasciato dalla scomparsa di Emanuele è incolmabile». E alla disperazione si aggiunge l'ansia di verità e giustizia. Ancora da chiarire sono, infatti, le cause che hanno determinato l'incidente: il mezzo era in salita e viaggiava al massimo a 20 chilometri all'ora, quando all'improvviso ha sbandato, è andato a sbattere contro una ringhiera di metallo a protezione della scogliera che ha ceduto e a quel punto il minibus è piombato giù. Che cosa si nasconde dietro allo sbandamento? Inizialmente si è pensato ad un infarto, ad un malore, escluso però dall'autopsia. Si è quindi forse trattato di un guasto al pulmino? E come mai la ringhiera che doveva reggere l'urto è crollata? E ancora: com'è possibile che il cemento in cui era incastrata la barriera crollata abbia ceduto così in fretta? «Se mio fratello ha sbagliato, ha pagato con la morte - conclude Marco Melillo - ma se, e sottolineo se, la responsabilità dell'incidente è di qualcun altro, questo qualcuno deve pagare con la galera». E l'avvocato Giovanna Cacciapuoti, che assiste la famiglia della vittima, aggiunge: «Sono in corso accertamenti tecnici disposti dalla procura sul minibus e sulle capacità di contenimento della ringhiera. C'è un passeggero che ha testimoniato di aver visto Emanuele provare a controsterzare per evitare lo scontro con la ringhiera, ma qualcosa non ha funzionato».
Marito e bimbo: il doppio lutto di una donna. Valeria Braghieri l'1 Agosto 2021 su Il Giornale. Era l'estate della sua vita. Malgrado la variante Delta, gli incendi, il pil che arranca. Era l'estate della sua vita. Era appena andata a convivere, era incinta come voleva, dell'uomo che voleva. Era estate. E c'erano i post su Facebook di loro due assieme, con l'amore che gli scintillava fresco negli occhi, ad annunciare ad amici, parenti e sconosciuti: «Aumentano i Melillo». Presto sarebbero stati tre, che è il numero di quando si comincia in due. E profumava tutto di domeniche e di futuro. E di cose da comprare e di nomi da trovare e di ecografie e progetti. Prove di vita piena. Fino allo scorso 22 luglio, con quel pullman che precipita giù dalla scarpata e straccia il silenzio di Capri. Alla guida del pullman c'è il suo compagno, Emanuele Melillo, che muore schiantandosi tra il beach club Da Gemma e il corridoio d'accesso alla spiaggia libera di Marina Grande. Finiscono i giorni buoni di Rosaria Ardita e iniziano quelli feriti. Il volo nel vuoto, i feriti, il suo compagno morto, le televisioni, i giornali, un elicottero che forse dovrà provvedere al recupero del mezzo, le ipotesi sulla dinamica, l'autopsia, il funerale da organizzare... la variante Delta, gli incendi, i quaranta gradi all'ombra... Questa maledetta estate. I turisti, il sole, la scogliera... Rosaria perde il suo compagno. L'anima si mette a tremare e il bambino le lascia il corpo. In una settimana perde tutto. L'uomo della sua vita e il resto della sua vita. Dall'altro ieri non ha più il suo bambino. Prima Emanuele, poi il seguito di Emanuele. Da tre a uno in sette giorni. In sette giorni l'estate della sua vita le ha azzerato la vita. Non ha ancora seppellito il suo compagno (i funerali di Emanuele si terranno il 3 agosto alle 16, nella Basilica di san Lorenzo Maggiore in piazza San Gaetano, a Napoli) e non ha ancora capito perché sia morto (pare abbiano escluso l'ipotesi del malore e le indagini autoptiche stanno ancora analizzando le vere cause dell'incidente), che si trova a dover dire addio al figlio che aveva in pancia. Un congedo a due. Spoglio e intollerabile. Un addio che ti urla da dentro. In una settimana la vita si è messa a sbranare. A voler avere la meglio in tutti i modi, che sono sempre i peggiori. Ha iniziato a sentirsi male subito Rosaria. Dalle immagini di quelle lamiere trasformate in bara. Con dentro Emanuele. Che sulla scogliera ha lasciato tutto: lei, il figlio che non è nato e la figlia che aveva già avuto. Maledetta estate. Per Emanuele e la sua famiglia è in corso una raccolta di fondi, sono già stati versati quattordicimila euro, ma l'intento è di arrivare a quota centomila. Ma c'è da domandarsi per finanziare quale vita, per andare avanti dove, e perché. Dopo quella curva che ha tolto l'orizzonte. Maledetta estate. Valeria Braghieri
Da "il Messaggero" il 26 luglio 2021. Se arrivasse anche da noi, in due ore e mezzo potrebbe percorrere tutta l'Italia. Per adesso il treno è solo cinese: sfruttando la levitazione magnetica (da cui la definizione di Maglev) raggiunge i 600 km all'ora ed è quindi il più veloce del mondo. Presentato a Qingdao, nella provincia dello Shandong, è stato sviluppato dalla compagnia statale China Railway Rolling Stock Corporation e sembra galleggiare grazie a una forza elettromagnetica che lo fa planare sopra i binari. Presentando il prototipo nel 2019 la Cina aveva annunciato di avere piani molto ambiziosi per circuiti di trasporto della durata massima di 3 ore tra le principali aree metropolitane del Paese. Per adesso l'unica linea Maglev collega l'aeroporto di Pudong di Shanghai con la stazione di Longyang Road in città. Il viaggio di 30 km dura circa sette minuti e mezzo, con il convoglio che raggiunge i 430 km/h.
Ruggine, corrosione e cemento sbriciolato: il drammatico degrado delle strade d’Italia. Calcinacci, restringimenti, lavori abbandonati. Da Nord a Sud, manca l’ordinaria manutenzione per garantire la sicurezza. A tre anni dalla tragedia del ponte Morandi i riflettori sulla cura delle infrastrutture si sono spenti. E, in vista della ripresa, il Paese si sgretola. di Fabrizio Gatti su L'Espresso il 28 maggio 2021. Tre anni non sono bastati. Dai pellegrinaggi dell’allora ministro Danilo Toninelli sotto piloni e viadotti per mostrarne il degrado, la gestione di strade e autostrade fa ancora fatica a garantire l’ordinaria manutenzione. Dove erano necessarie poche mani di intonaco, ora ferri e calcestruzzo si rompono con la fragilità del pane secco. Ai piedi dei delicati punti di appoggio si accumulano grandinate di calcinacci. E i cantieri aperti per centinaia e centinaia di chilometri, a volte nemmeno prevedono la fine dei lavori. Sarà un’estate al rallentatore. Da Cesena a Orte. Da Roma a L’Aquila e Pescara. Da Firenze a Livorno. Da La Spezia a Genova e Torino. Ma anche lungo l’autostrada A1. Escluse le principali direttrici del centro-nord da poco ampliate, al risveglio economico una via crucis attende il traffico pesante e l’esodo verso le prime vacanze con in tasca il certificato Covid-free.
L’IMBUTO CHE DIVIDE L’ITALIA. Ci siamo messi in coda anche noi, dentro le spirali di questi interminabili imbuti che restringono e dividono l’Italia. Erano passate poche ore dalla tragedia genovese del Ponte Morandi, crollato la vigilia di Ferragosto del 2018, quando le telecamere cominciarono a indirizzare l’attenzione sotto tutti i ponti indeboliti dall’incuria e dal furbesco tentativo di alcune società di ritardare la manutenzione ordinaria perché diventasse straordinaria. La prima va infatti pagata dal gestore, la seconda dallo Stato. Oggi si riconosce facilmente dove sono passati ministri e magistrati: lì le armature dei piloni sono ricoperte da uno strato di intonaco fresco. Ma scendendo dai viadotti, dove nessuno è più venuto a controllare, si scoprono le vere condizioni del cemento che ha ereditato dal boom economico italiano, che ora fa i conti con il tempo. Colate sbriciolate da rughe e crepe, arrossate dalla ruggine del ferro, sfilano al ritmo binario battuto sui giunti dalle ruote pesanti dei Tir, decine di metri sopra di noi. Tum-tum, tum-tum. Come alla sommità del pilone centrale del viadotto Puleto, lungo la superstrada E45 che per migliaia di imprese ha la stessa vitale importanza dell’Autostrada del Sole. Oppure sotto il monumentale viadotto Pietrasecca, lungo l’autostrada A24 Roma-L’Aquila. E ancora sotto la A25 Pescara-Roma, a Cerchio e Cocullo, che è stato il set del videoselfie del ministro Toninelli. Qualche pilone qui, tra le potenti faglie sismiche di Avezzano e Sulmona, è stato riparato. Gli altri, dopo tre anni, ancora no. Il Pil di queste regioni, dal Lazio, all’Abruzzo, all’Umbria, alla Toscana, su fino all’Emilia Romagna, viaggia in fila nei restringimenti a doppio senso di marcia. Ore e ore di coda. E adesso che il governo di Mario Draghi ne riparla, che senso avrebbe concentrare dieci miliardi per un solo ponte tra Messina e Reggio Calabria, se poi nel resto d’Italia dobbiamo guidare con i limiti di velocità tra i venti e i quaranta orari?
L’OTTOVOLANTE E45 CESENA-ORTE. Non appena si esce dallo svincolo di Cesena Nord e si punta verso le colline, è subito chiaro cosa significhi l’ultima lettera che accompagna il Pnrr, il piano nazionale di ripresa. R come resilienza: che in psicologia è sì la disponibilità delle persone a superare un periodo di difficoltà, ma in ingegneria è la capacità dei materiali di assorbire un urto senza rompersi. Ecco, appunto. La superstrada E45 accoglie il semiasse con due buche, il cartello dei 40 obbligatori e un doppio senso di marcia. Se vi manca il mito della Salerno-Reggio Calabria, ormai rimodernata, lo ritrovate qui. Giusto un titolo sui giornali locali di qualche giorno fa conferma il nesso tra urti e resilienza: «E45, cinghiale si scontra con un’auto: donna ferita». Il cinghiale è morto investito la sera del 18 maggio dalle parti dello svincolo di Borrello, direzione sud. Meno di dodici ore dopo, la superstrada è di nuovo chiusa per un palo abbattuto da un’auto, finita fuori strada sotto la pioggia. L’asfalto drenante quassù non è mai arrivato. Gli abitanti dei paesi lungo il tracciato da due anni si sfogano con un pizzico di resiliente ironia sulla pagina Facebook Vergogna E45.
«Con il nostro primo esposto del 2013 alla Procura abbiamo denunciato anche il fatto che non ci fosse viabilità alternativa tra Valsavignone e Canili perché il tratto della statale 3 Tiberina, appartenente al comune di Pieve Santo Stefano, è chiuso da ventun anni», racconta Erika Dori, una delle coordinatrici della pagina: «Abbiamo chiesto fin dall’inizio la messa in sicurezza della E45, il ripristino della vecchia strada e di vigilare su come vengono eseguiti i lavori, per la sicurezza in primis e perché il danno economico negli anni è stato enorme». La gestione della E45, conosciuta sulle mappe anche come strada statale 3 bis Tiberina, è affidata all’Anas. E non sempre la manutenzione è stata all’altezza. Nel gennaio 2019 la Procura di Arezzo ha fatto sequestrare l’intero viadotto Puleto: anni di abbandono avevano sbriciolato la parte superficiale del cemento e fatto affiorare l’armatura. Ma chiudere il Puleto significa tagliare in due questo pezzo d’Italia, perché l’unica strada alternativa è proprio quella bloccata da oltre vent’anni da una frana, da Canili a Valsavignone, al confine tra Emilia Romagna e Toscana. Camionisti e automobilisti, in quei giorni invernali di caos, venivano gentilmente invitati a percorrere la A1 Autostrada del Sole o la A14 Adriatica. Due deviazioni da centinaia di chilometri. Oggi al viadotto non più sotto sequestro ci si arriva dopo un paziente slalom tra cantieri e gallerie chiuse per manutenzione. A Mercato Saraceno un cuore nostalgico ha infilato una bandiera rossa su un traliccio in disuso e vi ha appeso la gigantografia di Enrico Berlinguer con dedica: «Ci manchi». Ancora adesso, otto anni dopo il primo esposto alla magistratura, in caso di incidente o semplicemente di un camion guasto, non esistono né corsia di emergenza né percorsi alternativi: la vecchia statale Tiberina è sempre chiusa e la bis, quando si blocca, ti imprigiona. Sul Puleto, per non affaticarlo troppo, si passa su un’unica corsia e, quando non c’è coda, il limite di velocità è da crampo al piede destro: da quaranta bisogna scendere a venti chilometri orari. Almeno sul cartello: nella realtà restano quaranta, perché se osi andar più piano, il Suv appena dietro ti si incolla con gli abbaglianti accesi fin dentro l’abitacolo. I bordi del ponte sono consumati. Ma i piloni sono stati intonacati da poco. Soltanto il delicato punto di appoggio del viadotto su una delle pile centrali è ancora nudo: dalla sommità il calcestruzzo è caduto e i ferri dell’armatura sono esposti come le ossa di uno scheletro. L’email all’Anas per avere una spiegazione non ha ottenuto risposta. La corsia unica e il limite dei venti all’ora proseguono per tutta la lunghezza del viadotto successivo, il Tevere IV, che non è affatto in buona salute. Si sobbalza sui giunti, sospesi sul panorama mozzafiato. Anche questo monumento dell’ingegneria italiana soffre la corrosione. L’acqua salata ha consumato i blocchi di appoggio, come se fossimo in riva al mare e non in mezzo agli Appennini. È l’effetto dei mezzi spargisale, indispensabili per fondere il ghiaccio d’inverno.
Sul Tevere IV i lavori sono in corso da mesi. Avviata il 16 maggio 2019, la ristrutturazione di piloni, solette e giunti è sospesa da febbraio di quest’anno, per permettere l’asfaltatura urgente della superstrada. Stato di avanzamento in due anni: 1,74 per cento. Va un po’ meglio sul viadotto Puleto: 27,28 per cento dall’8 luglio 2019. Ma non è possibile sapere quando finirà: «Il termine dei lavori è in corso di ridefinizione», spiega la scheda tecnica pubblicata da Anas. È una prassi. Su 53 interventi di manutenzione programmata e attualmente in corso lungo la E45, per 23 non ne viene indicata la conclusione. Si arriva a Narni e poi a Orte che è quasi buio, a una velocità media da vicolo urbano.
PM SULLA ROMA-L’AQUILA-PESCARA. Già a Castel Madama, appena fuori Roma, si incontra il primo cantiere per la manutenzione della soletta di un viadotto. E dopo lunghi tratti a una sola corsia, allo svincolo di Tornimparte prima dell’uscita per L’Aquila, Strada dei parchi, l’ente gestore, ha demolito un ponte che non garantiva la necessaria capacità antisismica. Al suo posto stanno costruendo una struttura in acciaio corten, resistente alla corrosione e alle deformazioni provocate dai terremoti. Il 9 giugno la società concessionaria della A24 e A25 finirà in tribunale. Sarà il giorno dell’udienza preliminare, dopo la richiesta di rinvio a giudizio della Procura de L’Aquila per i manager a cominciare dal patron, il costruttore Carlo Toto. Sono accusati di aver messo a rischio «la sicurezza del trasporto autostradale, determinando uno stato di estremo deterioramento e il conseguente pericolo di crollo totale o parziale delle pile e degli impalcati di nove viadotti su venticinque». Il tramonto sotto la rupe di Pietrasecca, alle porte dell’Abruzzo, è uno spettacolo. Il sole basso addolcisce perfino l’ingombro dell’omonimo viadotto che come un millepiedi di milleottocentottanta metri risale lungo tutta la valle. Ma soprattutto, nei suoi chiaroscuri, mette in evidenza le crepe nei piloni, gli spigoli gonfi che cadono a pezzi, i ferri corrosi. Avezzano è appena al di là della montagna. Se si dovesse ripetere il catastrofico terremoto del 1915, nessuno sa come si comporterebbero queste strutture malandate che sono la principale via di accesso ai soccorsi. Un recente carotaggio sul viadotto Cartecchio a Teramo, pubblicizzato dalla società di Carlo Toto, dimostra che sotto lo strato di corrosione, cemento e armatura sono in ottimo stato. Ma dove i tondini esterni sono marci, comprese le staffe orizzontali che li dovrebbero trattenere, quale sarà l’effetto delle azioni sismiche sulla loro resistenza? A prima vista il viadotto Cerchio sulla A25, qualche chilometro oltre Avezzano, è perfetto. Il nuovo intonaco ricopre completamente i piloni lungo i suoi 425 metri. Da quando sono terminati i lavori, però, uno strato di macerie si è già accumulato alla base di uno di questi. Cadono dal groviglio di ferri arrugginiti che si staccano dai punti di appoggio di due impalcati, a destra e a sinistra, su cui poco fa è passata una colonna di Tir. Trenta minuti di autostrada più avanti, il viadotto Cocullo conferma la grave crisi nel sistema di vigilanza del ministero delle Infrastrutture. Tre anni dopo il disastro di Genova e la denuncia di un ministro, soltanto qualche pilone è stato ricoperto. Il resto è esattamente come allora. «Hanno lavorato un po’, poi sono andati via», racconta Giovanna, una pensionata che ogni sera porta qui il cane a passeggiare: «Un mese fa hanno scaricato del materiale. Ma non ho visto più nessuno. Spero che finiscano presto, prima che ci cada una pietra in testa». La grandinata di calcinacci è ovunque per terra, ai piedi dei piloni più corrosi. La superficie di calcestruzzo si sbriciola con la semplice pressione della mano. I ferri si spezzano come fossero cartone. Da una crepa, si affaccia curiosa e assonnata una lucertola. Sotto la campata successiva una colonia di formiche sbuca indaffarata dalla trama ferrosa delle armature. Tum-tum, tum-tum, mentre il cuore del viadotto continua a battere là in cima.
TUTTI IN FILA DA FIRENZE A TORINO. Si viaggia comodi solo intorno a Roma. Ma è pura illusione. Da Orte Scalo, l’Autosole torna alla stessa larghezza dell’anno di inaugurazione: da tre a due corsie. È buio, piove a dirotto. E anche da queste parti l’asfalto drenante non sanno cosa sia. Sotto le ruote dei camion in colonna lo strato d’acqua esplode in sbuffi di nebbia impenetrabile. A Firenze il raccordo per l’autostrada A11 è chiuso per lavori. Bisogna uscire, ma nessun cartello indica la deviazione. È quasi mezzanotte. Il coprifuoco ha svuotato gli incroci e perfino il navigatore si perde. Ecco alla fine, la barriera di Prato. Biglietto, sbarra alzata e subito ci accoglie un cambio di carreggiata a quaranta all’ora. In fondo all’autostrada che porta i fiorentini al mare, lo svincolo per Viareggio e Genova è illuminato dai lampeggianti di un trasporto eccezionale. Non si passa. Su un rimorchio stanno trainando un pesante yacht largo due corsie. Cinquanta all’ora e tanta pazienza. Finalmente La Spezia. La città più orientale della Liguria è, suo malgrado, la capitale dei ponti caduti. Almeno qui la roulette del destino non ha preteso vittime. Il 12 maggio è venuto giù il nuovo ponte levatoio della darsena di Pagliari, a ridosso del porto. L’8 aprile 2020, per una buca scavata dalla corrente, si è disintegrato il viadotto sul fiume Magra tra Santo Stefano e Albiano. Si riparte per Genova. L’autostrada A12 è praticamente su due sole corsie. Una verso Ponente, l’altra verso Levante. Gallerie da rinforzare, ponti da consolidare. Il degrado ha presentato il conto. Coda di chilometri a Nervi. Sul nuovo viadotto di Renzo Piano i limiti sono 80, poi 60, poi un primordiale 40 all’ora. Sarà sempre così, anche senza lavori, perché il progetto ha ricopiato il vecchio tracciato. Da Genova a Savona si può comunque accelerare. Ma dallo svincolo per Torino di nuovo tutti in fila. Ancora viadotti a fine carriera, operai affacciati sul vuoto, limiti di velocità e corsie ridotte per scongiurare il sovraccarico catastrofico che diede il colpo di grazia al Ponte Morandi. Arriviamo che è sera allo svincolo per l’aeroporto di Torino Caselle, lungo l’autostrada A5 per Aosta. Poco prima dell’uscita si passa sotto il cavalcavia della provinciale 500. Lo sorreggono otto cilindri di calcestruzzo divorati alla base: tre hanno già perso diversi centimetri di diametro e la parte esterna dell’armatura è ormai ridotta a scaglie di ruggine. Nemmeno qui ci sono segni di manutenzione. Eppure è impossibile non vederli.
Estratto dell’articolo di Andrea Greco per "la Repubblica" il 10 giugno 2021. Non è da tutti farsi rimborsare progetti favolosi dallo Stato per centinaia di milioni. Specie dopo non averli saputi sostenere finanziariamente. Sarc, società fondata da Vito Bonsignore e altri soci nel 2014, ce l' ha fatta l' agosto scorso, incassando 36 milioni dall' Anas per cederle il progetto della quattro corsie a pedaggi tra Ragusa e Catania. Oggi, se il ministro dei Trasporti Enrico Giovannini vorrà, Bonsignore potrebbe ottenere cinque volte tanto, addossando al concessionario pubblico la faraonica Orte-Mestre, 10 miliardi di lavori tutti da fare ma 180 milioni da pagare, per il tentativo, a Ilia Or-Me, altra società che fa capo alla holding Mec dei Bonsignore. C' è una leggina ad hoc, inserita nel decreto Milleproroghe 2019 e subito "sfruttata" da una delibera del Cipe un anno fa, che lo consente: e trasforma in milioni le rivendicazioni di privati costruttori che non riescono neppure ad avviare i lavori. C' è, anche, la prima linea dell' Anas che spinge: guidata dall' ad Massimo Simonini, l' ex dirigente fatto capo dal ministro M5s Danilo Toninelli e ora in scadenza con tutto il cda. Benché prima vorrebbe rappacificarsi con Bonsignore e il progetto di cui da una decina d' anni si favoleggia, con il titolo di "A2", l' autostrada che duplichi quella del Sole sull' Alto Adriatico. Tra l' altro a pagare l' obolo sarebbe la gestione di Luigi Ferraris, neo ad di Fs: da due anni Anas è passata sotto l' egida delle Ferrovie, e anche Simonini dopo la sostituzione di Gianfranco Battisti (altra scelta dei M5s) è a rischio di conferma. (…)
"Non doveva essere su quel treno", il disastro tra la nebbia. Angela Leucci il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il 7 gennaio 2005 si consumava la tragedia di Crevalcore: "Le responsabilità solo su chi non c'è più". L’incidente ferroviario di Crevalcore è stato sicuramente tra quelli che hanno scosso maggiormente le coscienze collettive sul concetto di precarietà della vita, portato all’aggiornamento dei sistemi di sicurezza, provocato ripercussioni anche indirette su superstiti, familiari e amici delle vittime. Perché è questo che accade dopo una grande tragedia. Una tragedia che in questo caso ha portato alla morte di 17 persone e al ferimento di altre 80. Lavoratori, pendolari, che quel giorno avevano scelto il trasporto pubblico oppure erano soliti spostarsi in questo modo.
Il viaggio
È il 7 gennaio 2005: il treno passeggeri Ir2255 sta effettuando la tratta tra Nogara e Tavernelle Emilia della linea Verona-Bologna. A bordo ci sono 200 persone, per lo più lavoratori pendolari. “Mauro non doveva andare a lavorare - ha detto a Il Resto del Carlino Nadia Zecchi, vedova di Mauro Bussolari, dipendente di una causa farmaceutica e una delle 17 vittime - Ma andò lo stesso perché doveva sistemare alcune questioni d’ufficio a Verona. E rientrò in treno perché c’era una grandissima nebbia, per evitare di fare il tragitto in automobile”. La nebbia è in effetti una delle chiavi per comprendere la vicenda: quella mattina nei pressi di Bolognina di Crevalcore c’era una fitta nebbia, e questo può aver influito sull’errore umano alla base del disastro ferroviario.
L’incidente
Sono le 12.53 quando avviene il tragico schianto frontale. Come riporta il sito Ferrovie, si stava procedendo all’incrocio tra il regionale e un treno merci, il 59308, che proveniva dal Sud Italia. I due convogli stanno procedendo in senso opposto, su un binario unico: all’epoca erano possibili degli scambi veloci attraverso un sistema di segnalazione, ovvero “il treno incontra nell'ordine prima il segnale di avviso del posto di movimento (che serve da preavviso al segnale di protezione) disposto al verde (avviso di via libera in corretto tracciato senza limitazioni di velocità), poi il segnale di protezione disposto al giallo (avviso di via impedita a 1.200 metri con riduzione di velocità per potersi arrestare entro lo spazio previsto) e successivamente il segnale di partenza disposto al rosso (conferma di via impedita)”. Ma questi segnali, che in effetti avevano funzionato, non vengono rispettati da macchinisti, aiuto macchinisti e dal capotreno: da subito ci si chiede se i segnali non siano stati visti a causa della nebbia, dato che la visibilità stimata era tra 50 e 150 metri. Così i due treni stanno procedendo con una velocità superiore a quella cui dovrebbero e finiscono per scontrarsi: in uno dei vagoni passeggeri si apre uno squarcio, ma non sono solo loro a pagare con la vita per l’errore umano. Tra le 17 vittime e gli 80 feriti ci sono infatti sì molti passeggeri, ma anche i macchinisti di entrambi i convogli. Si chiamavano Ciro Cuccinello, Equizio Abate, Vincenzo De Biase, Paolo Cinti, Francesco Scaramuzzino, Donatello Zoboli, Diana Baraldini, Claudia Baraldini, Daniel Buriali, Andrea Sancini, Maurizio Mussolari, Banka Bairam, Alberto Mich, Bruno Nadali, Anna Martini, Mario Santi e Matteo Sette.
Le responsabilità
Nel 2011 si concluse il processo a carico di 7 persone, tra dirigenti e funzionari della Rete Ferroviaria Italiana. Le indagini su Crevalcore si erano chiuse appena un anno prima. Il processo assolse le Ferrovie, imputando le sole responsabilità al macchinista e al capotreno, i compianti Vincenzo Debiase e Paolo Cinti: secondo i magistrati, non videro i semafori rossi a causa della nebbia.
“Quel verdetto è vergognoso - disse all’epoca Alessandra, mamma del ventenne Daniel Buriali, la vittima più giovane - una presa in giro. Sulla tratta Verona-Bologna non c'era il dispositivo di sicurezza che blocca automaticamente il treno se passa con il rosso e mi si vuol far credere che la colpa era dei macchinisti? […] Allo Stato italiano chiedo giustizia quella vera. Non mi basta quella sentenza. Vorrei vedere in faccia i capi delle Ferrovie e vorrei che loro vedessero me. Vorrei fissare i loro occhi, senza tante parole”.
Oltre la tragedia
Come spesso accade in questi casi, c’è stato un cambiamento radicale in termini di organizzazione e sicurezza: la linea è oggi a doppio binario, e possiede un diverso sistema di sicurezza, il Sistema di Controllo della Marcia Treno, che mantiene la vigilanza elettronica sul personale di macchina, cercando quindi di prevenire possibili errori umani. Vicino all’ex stazione di Bolognina c’è oggi inoltre il Parco 7 gennaio 2005, con una stele in cui sono annotati i nomi delle 17 vittime. I superstiti furono invece al centro di un case study psicologico di cui si è occupata l’Università di Bologna: essere sopravvissuti alla tragedia ha rappresentato per loro l’esplosione della sindrome da stress post-traumatico ma anche ma anche lo sviluppo del “senso di colpa del sopravvissuto”, che nasce dalla convinzione di non essere riusciti a fare abbastanza per salvare gli altri.
"Abbiamo deragliato", poi il boato: così a Viareggio morirono in 32
“Dalle parole dei sopravvissuti - si legge nell’articolo di Pietrantoni, Palestini, Prati e Cigognani apparso nel 2008 sulla rivista Psicologia Contemporanea - emergono una sensazione di choc e incredulità (parole come ‘agghiacciante’, ‘irreale’ sono molto frequenti) e successivamente le reazioni tipiche della ‘fase dell’inventario’ in cui i sopravvissuti verificano le conseguenze dell’evento su se stessi e sui loro cari: ‘Un miracolo. Ancora non ci credo di essere riuscita a salvarmi’; o ancora: ‘Uno sembrava illeso. Però correva in circolo e non si fermava mai. E ripeteva grazie, Madonna. Quando mi sono avvicinato mi ha abbracciato e ci siamo messi a piangere’. Dai resoconti dei superstiti, emerge l’attuazione anche in un contesto così drammatico di comportamenti prosociali e altruisti, spesso però senza successo considerata la dinamica dell’incidente: ‘C’era un uomo, infatti, ed era incastrato. Urlava, ma non siamo riusciti a tirarlo fuori’”.
A cinque giorni dal disastro di Crevalcore, un macchinista, Alberto Guerro, si suicidò. Era amico dei colleghi sul treno merci: come riporta Repubblica, c’è chi lo ritiene la 18esima vittima del disastro, poiché il suicidio potrebbe essere stato innescato dal dolore per la perdita e legato a un precedente deragliamento subito in prima persona. Ma naturalmente si possono fare solo supposizioni in merito, senza averne certezza.
Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.
Carlo Vulpio per il “Corriere della Sera” il 25 ottobre 2021. Finirà rubricata come una tragica fatalità. Ma poiché è di quelle «fatalità» che si potrebbero evitare con poco, anche semplicemente con la presenza di qualcuno - un sorvegliante, un poliziotto, un casellante ferroviario come quelli che c'erano una volta -, non è stata una fatalità. Angela Giancaspero, studentessa di 16 anni, è morta sabato sera intorno alle 20,30 nella stazione delle Ferrovie dello Stato di Acquaviva delle Fonti, travolta dal treno Lecce-Milano. Non è ancora chiaro per quale ragione, ma a un certo punto Angela si è staccata dal drappello dei suoi amici ed è andata a sedersi sulla banchina del secondo binario, proprio sulla famosa linea gialla che non deve essere mai oltrepassata e proprio con le gambe penzoloni sulle rotaie. Si è seduta e si è immersa nell'ascolto della sua musica, con le cuffie alle orecchie e il cappuccio della felpa in testa. Non ha sentito il fischio del treno e nemmeno ha potuto vedere Raffaele, 23enne di Gioia del Colle, che dall'altra parte della banchina si sbracciava per segnalarle il pericolo. In un attimo, il treno l'ha travolta, martoriandone il corpo sulla banchina, sotto la scritta bianca e blu della stazione. I suoi amici terrorizzati hanno chiamato subito un'ambulanza, che, pur avendo Acquaviva delle Fonti uno dei più grossi ospedali della regione, è arrivata - riferiscono testimoni oculari - dopo 45 minuti. Certo, non ci sarebbe stato nulla da fare, ma un'ambulanza non può arrivare con tanto ritardo. Così come è inconcepibile che una stazione delle Fs di una città di ventimila abitanti sia di fatto una vera e propria terra di nessuno in cui chiunque possa fare ciò che vuole. Non un poliziotto, non un dipendente Fs, solo due dipendenti (precari) di una ditta di Torino che fanno i turni al mattino e al pomeriggio per mantenere in uno stato di decenza un luogo in disfacimento, dove funzionano soltanto le macchinette dei biglietti e l'altoparlante che da remoto dice le solite cose, ma con la voce registrata aggiornata che ammonisce di mettere la mascherina. Per il resto, qui si spaccia, si beve, si spaccano i servizi igienici e si abbandona ogni tipo di rifiuti, mentre il «nuovo corso» delle Fs, come altrove, ha chiuso la sala d'attesa, le biglietterie e tutti i locali che fanno di una stazione una stazione, lasciando che chi la frequenta se la sbrighi da solo. Com' è accaduto all'addetta (precaria) alle pulizie, aggredita due volte con un coltello da un nigeriano, arrestato solo dopo la seconda denuncia della donna. Angela Giancaspero - che era della vicina Cassano delle Murge e ad Acquaviva frequentava l'istituto «Rosa Luxemburg» - è stata imprudente, ma, come dice Davide Carlucci, sindaco di Acquaviva, «noi con questa stazione abbiamo da sempre un grosso problema di sicurezza che riguarda soprattutto i ragazzi come Angela e quei soggetti marginali che in un luogo abbandonato come questo fanno ciò che vogliono». In altre parole, se ci fosse stato qualcuno a impedire che Angela si sedesse sul bordo della banchina non ci sarebbe stata alcuna tragica fatalità. Angela, fa notare il sindaco, è stata travolta proprio di fronte ad alcuni locali abbandonati di proprietà di Rete ferroviaria italiana, per i quali è pronto dal 2014 un progetto del Comune, già finanziato, che vorrebbe trasformarli in una velostazione e così animare il luogo, sottrarlo alla sua spettralità. Niente, Rfi ha bloccato tutto perché teme di dover pagare l'Imu. Mentre Fs non aveva nessuno che potesse ordinare ad Angela: «Via da lì». C'è stato solo il «pianto del treno», cioè lo straziante fischio prolungato del treno successivo, che, com' è usanza, ha salutato Angela.
"Ho scavalcato le persone a pezzi", quella strage che si poteva evitare. Mariangela Garofano il 23 Maggio 2021 su Il Giornale. Cinque anni fa, il 12 luglio 2016, si consumava uno dei disastri ferroviari più gravi del nostro Paese, che costò la vita a 23 persone, i cui parenti ancora oggi chiedono che sia fatta giustizia. “Scalza, ho tolto le macerie e le lamiere e mi sono messa a gridare. Ho scavalcato le persone a pezzi…”. Queste le agghiaccianti parole di una donna, superstite del più violento incidente ferroviario accaduto in Puglia. Sono le 11.06 del 12 luglio 2016, quando si avverte un boato provenire dalla campagna tra Andria e Corato. È un fragore di lamiera che stride, ed è così forte che lo sentono fino al centro di Corato. Quando i soccorsi arrivano sul posto si trovano davanti una scena apocalittica, surreale. Ci sono pezzi di lamiera ovunque, sparsi in mezzo agli ulivi, fino a 100 metri di distanza. E poi le urla: grida di dolore provengono da tutta la campagna. Le forze dell’ordine e i soccorritori impiegano un istante a constatare che il tremendo fragore proveniva da due treni della Ferrotramviaria, che si sono scontrati frontalmente. Dei due convogli ora resta un groviglio d’acciaio, a testimonianza della violenza dell'impatto. Il treno che veniva da Corato è adagiato sopra l'altro treno, come se la velocità dello scontro lo avesse fatto volare in aria. Siamo al chilometro 51 del tratto ferroviario Bari-Barletta, dove il restringimento dei binari costringe i convogli a transitare su un binario unico. I vigili del fuoco e i soccorritori arriveranno da ogni parte del sud Italia per aiutare: da Bari, Foggia, perfino da Matera, Caserta e Avellino. Viene approntato un ospedale da campo per prestare i primi soccorsi ai feriti, e l'appello dell'Avis e degli ospedali a donare il sangue per i feriti più gravi, viene accolta da tutta la Puglia. Per trentadue ore si lavora incessantemente per estrarre fuori dalle macerie il maggior numero di passeggeri, ma da subito ai soccorritori è chiara la portata del disastro: uno dei treni ha solo due vagoni su quattro intatto, l'altro uno. Il bilancio è di ventitré morti e cinquantuno feriti, giovani che si stavano godendo un viaggio estivo, pendolari che si recavano al lavoro, ma anche pensionati e madri di famiglia.
Le vittime. A perdere la vita sul colpo saranno i due macchinisti, Pasquale Abbasciano, che all’epoca era prossimo alla pensione, e Luciano Caterino, di soli 37 anni. È stato grazie all’anello di fidanzamento che è stata riconosciuta Jolanda Inchingolo, una giovane di 25 anni prossima alle nozze. Giuseppe Acquaviva, agricoltore, non viaggiava su uno dei treni, stava lavorando nei campi nei pressi dello scontro, ed è rimasto ucciso dalle lamiere, schizzate in aria nell’area circostante, dopo la collisione. E poi Francesco Tedone, appena sedicenne, rientrato da un anno in Giappone, che quel giorno stava andando ad Andria per perfezionare l'iscrizione al quinto anno di scuola superiore. Ventitré nomi, ventitré vite spezzate da quello che da subito fu definito un errore umano nella gestione del traffico ferroviario, aggravato da una serie di altri fattori come la mancata formazione del personale e il mancato ammodernamento della rete ferroviaria. Patty Carnimeo, 30 anni, saliva su quel treno per recarsi al lavoro a Bari tutti i giorni e lo fece anche quel maledetto 12 luglio, lasciando una bimba di due anni. Sono tanti i nomi delle vittime di un disastro che si sarebbe potuto evitare. I familiari oggi cercano ancora la verità, come si legge sulla pagina Facebook Astip (Associazione Strage Treni in Puglia 2016), dove puntualmente vengono forniti aggiornamenti sul processo in corso. Ma soprattutto chiedono giustizia per i propri cari che non ci sono più.
La dinamica dell’incidente. Ma cosa ha portato i due treni a scontrarsi e soprattutto, a viaggiare contemporaneamente? È evidente che quella mattina del 12 luglio di 5 anni fa ci fu un problema nelle comunicazioni, e che uno dei due convogli non sarebbe dovuto transitare su quel maledetto binario. Nella parte della rete ferroviaria a binario unico vige il regime di circolazione a blocco telefonico. Questo significa che ogni capostazione, prima di autorizzare la partenza di un treno atteso nella sua stazione, ottenga il “via libera” dal capostazione della stazione in cui il treno dovrà effettuare la fermata successiva. Un sistema ormai superato, che avrebbe dovuto essere sostituito dal blocco automatico da tempo. “Fa dunque particolarmente accrescere la rabbia e senso di ingiustizia - si legge sul blog Giustizia per Andria-Corato - sapere che la Regione Puglia avesse stanziato finanziamenti per realizzare l’ammodernamento della tratta per contribuire alla sicurezza della stessa e che i vertici societari invece avessero convogliato quei fondi alla produttività della infrastruttura e quindi agli utili che poi hanno incassato i soci”. Quel giorno qualcosa si è inceppato, e il treno proveniente da Andria è partito in contemporanea a quello in arrivo da Corato, dando luogo a uno dei disastri ferroviari più gravi mai avvenuti in Italia. Il destino beffardo ha fatto sì che non vi fosse la minima possibilità da parte dei due macchinisti di evitare lo scontro. L’incidente infatti ebbe luogo su una curva affiancata da alberi di ulivo, che resero impossibile ai macchinisti accorgersi dell’altro treno in arrivo.
Le indagini. Subito dopo l’incidente, la procura di Trani ha avviato le indagini per i reati di omicidio colposo plurimo e disastro ferroviario. La società Ferrotramviaria è stata accusata di non aver disposto l’adeguamento tecnologico sulla tratta Bari-Barletta, nonostante negli anni vennero aperti fascicoli inerenti a molti altri “incidenti sfiorati” sulla medesima tratta. La Bari-Barletta, su cui transitavano ogni giorno decine e decine di convogli, non era sicura e questo non era una novità. I fascicoli aperti, e mai segnalati all’Ustif, l’ufficio addetto ai controlli sulle tratte regionali, parlano di “grave e concreto rischio per la salute” causato dalle condizioni della tratta in questione. Dopo vari rinvii a giudizio, il 13 maggio di quest’anno è ripreso il processo, che vede imputati 17 impiegati dalla Ferrotramviaria, tra dirigenti e dipendenti. Sotto accusa anche dirigenti del Ministero dei Trasporti e dell’Ustif, accusati di disastro ferroviario, omicidio colposo e lesioni gravi colpose, omissione dolosa di cautele, violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro e falso.
Mariangela Garofano. Il giornalismo è la mia passione fin dai tempi dell’università. Per ilGiornale.it scrivo di cronaca e spettacoli. Recensisco romanzi per alcuni blog letterari da diversi anni. Da sempre appassionata di scrittura e libri, ho svolto il lavoro di correttore di bozze. Per amore della lettura, ho gestito anche una libreria a Bologna
Da "liberoquotidiano.it" il 16 maggio 2021. Kat Kamalani, assistente di volo e star di TikTok, ha rivelato un “segreto” del suo mestiere su cosa fanno realmente i membri dell’equipaggio quando salutano i passeggeri mentre si recano ai loro posti. “Avete mai camminato su un aereo e visto gli assistenti di volo in piedi proprio qui a salutarvi? O gli assistenti di volo che camminano su e giù per il corridoio?" si è chiesta Kat in un video che ha fatto oltre due milioni di visualizzazioni. Nel video la ragazza ha ammesso che il segreto dietro il saluto c'è l'obiettivo di trovare “persone abili” sul volo, cioè persone che sono in grado di assistere gli assistenti di volo in caso di emergenza. Kate si riferisce all'acronimo ABP, cioè persone tra cui medici, infermieri e personale militare, che sarebbero in grado di assisterli in caso di crisi, per esempio durante una violazione della sicurezza o un’emergenza medica. “Ma stiamo anche controllando un’altra cosa. Stiamo cercando oggetti che non dovrebbero essere a bordo dell’aereo, come ad esempio liquidi. Inoltre, prestiamo attenzione al traffico di esseri umani, succede spesso nel settore e la sicurezza dei nostri passeggeri è la nostra priorità numero uno. In sintesi, cerchiamo cose che sembrano fuori posto“, ha sempre svelato l'assistente di volo. Un follower gli ha anche detto di essere un medico e le ha chiesto come potrebbe riconoscerlo. “Oh, lo sappiamo“, ha risposto Kamalani nei commenti, aggiungendo un’emoji ammiccante. Infine, in un altro video di qualche tempo fa, l'assistente di ha affermato di non bere mai l'acqua calda disponibile a bordo degli aerei e ha anche non consigliato alle persone di farlo, spiegando che l'acqua calda proviene dai serbatoi dell'acqua della macchina che vengono puliti raramente. Auguri per il prossimo volo con Kate Kalamani.
Jenner Meletti per "il Venerdì - la Repubblica" il 21 aprile 2021. Casalecchio di Reno (Bologna). Il camionista romeno Constantin aspetta che il cuoco spadelli la Regina pappardella (euro 10,90) e la metta in un contenitore. «Vado a mangiarla nella mia cabina. Non mi piace stare in mezzo agli altri. Ma un pasto caldo al giorno devo farlo». Decine di tavoli, nel ristorante La Fucina. Uno solo è occupato da due persone. Stanno mangiando il Mezzo pollo con patate, euro 13,90. Il Covid sta davvero cambiando il mondo. Fino a poco più di un anno fa facevi la fila al bar del pianoterra, per un caffè o le sigarette. Ti fermavi davanti al bancone per scegliere fra Capri, Milanese, Rusticone o Schiacciata, tutti a 5,90 euro. Dovevi aspettare alle casse del ristorante e del supermercato. Adesso, al bar al pianoterra del Cantagallo Ovest, c’è solo una signora polacca, Anastazja: «Devo andare al Cantagallo Est. Fra poco passa il furgone». Ha un valigione che potrebbe contenere un lottatore di wrestling. «Lavoro a Reggio Emilia. Mando a casa tutto ciò che serve a mio marito e ai nostri quattro figli. Il furgone parte da Roma e va a Cracovia. Domattina la valigia sarà a casa mia». Non devono spaventare i parcheggi, i bar e i ristoranti quasi vuoti. Semplicemente qui tutti sono in trincea, aspettando la fine della pandemia. E non vogliono cedere, anche se gli addetti sono il doppio dei clienti. Se abbassi la serranda non sai se o quando potrai rialzarla. E non puoi certo abbandonare questo Autogrill (fino al 1977 Mottagrill, voluto da Angelo Motta, industriale dei panettoni) che nel giorno in cui fu aperto, il 29 aprile di sessant’anni fa, venne esaltato come «il maggiore d’Italia e il più grosso d’Europa». Il passato, a volte, può dare speranza. Dalle grandi vetrate che sovrastano le corsie dell’A1, come in un film vedi passare la storia d’Italia. Dai giorni in cui “si andava a Messa in autogrill” e poi si pranzava nel ristorante “con cucina e girarrosto a vista” fino ai mesi prima del Covid, quando qui arrivavano fra i 6.500 e 7.000 clienti al giorno. Tutto iniziò con una benedizione, quella del cardinale di Bologna Giacomo Lercaro, arrivato al Cantagallo con il sottosegretario alla Pubblica istruzione Giovanni Elkan. «Anche Gesù» disse Sua eminenza «nella parabola sul Buon Samaritano parlò di un piccolo posto di ristoro sulla strada per Gerico. Qui tutto è comunque più grande, moderno». Duecento posti al ristorante, le sfogline che preparava no in diretta tortellini e tagliatelle. Si poteva entrare senza prendere l’autostrada, superando un tornello. La chiesetta fu aperta il 15 aprile 1966 e dedicata a Sant’Angelo per ricordare Angelo Motta, il grande benefattore. «Quel giorno» ricorda monsignor Ernesto Vecchi, già vescovo ausiliario di Bologna, «c’ero anch’io, ero segretario del cardinal Lercaro. Il Mottagrill era davvero una piccola città. Oltre alla chiesetta, con Messa celebrata ogni domenica alle 11, c’erano l’ufficio postale e quello dell’ente per il turismo, un’agenzia della Banca Commerciale, la libreria e l’edicola. C’era anche un grande negozio dell’Oreal con le ragazze e Mike Bongiorno che faceva la pubblicità. Avevo trent’anni e mi chiedevo: cosa dirà il cardinale di fronte a prodotti di cosmesi e di bellezza? Lercaro sembrò leggermi nel pensiero. “Non preoccuparti”, disse. “Nella Bibbia ci sono tante pagine dove si parla di acconciature femminili e di belletti”». Andare al ristorante del Cantagallo diventa una moda. Si lasciano la Seicento o la Lambretta nel parcheggio esterno e per qualche ora si vive in autostrada senza pagare il pedaggio. Ci passano tutti, nell’autogrill più famoso d’Italia. Il ristorante viene riempito di fiori per l’arrivo di Sofia Loren. Attori e cantanti quasi ogni notte, da Benigni a Morandi. Lasagne o tortellini per Enrico Berlinguer, Giovanni Spadolini, Ugo La Malfa. Tutti i 150 dipendenti entrano invece in sciopero quando a fine giugno 1973 si presenta Giorgio Almirante del Msi con signora e scorta. Niente caffè e niente pieno di benzina. Il giorno dopo un gruppo di fascisti danneggia bar e ristorante. «Siamo stati i primi», dice Demetrio Chiurco, responsabile area ordinaria Autogrill, «a legare le nostre cucine al territorio. Al Cantagallo, ad esempio, sono sempre state presentate le eccellenze locali. Centinaia di migliaia di viaggiatori per la prima volta hanno visto come si facevano i tortellini. E c’era anche lo spettacolo, quando venivano affettate le grandi mortadelle o si aprivano le forme di parmigiano. Gli americani ci facevano i filmini. Cantagallo è stata ed è una comunità. I bar erano come quelli di paese. Trovavi gli stessi camerieri per due chiacchiere e un caffè. Sia per il camionista partito da Varsavia che per il ciclista arrivato da Sasso Marconi. Il ponte di settanta metri mantiene il suo fascino. Dopo il pranzo in tanti scattano foto o selfie con le montagne dell’Appennino sullo sfondo». Quattro anni prima del Cantagallo, il 3 febbraio 1957, fu trasmesso il primo Carosello. «Umberto Eco» scrive Simone Colafranceschi in Autogrill, una storia italiana, edizioni il Mulino «disse che con Carosello il pubblico non subisce ma desidera e richiede la pubblicità. Ecco, qualcosa di simile sarebbe accaduto sulle autostrade: un territorio vergine e dunque un luogo ideale per fondare le nuove città, emblema di una nuova civiltà dei consumi». Consumi e velocità, ma non solo. Al Cantagallo puoi trovare anche una sorpresa: la chiesa dell’Angelo è diventata un piccolo santuario. C’è infatti un’urna trasparente che raccoglie le “richieste di preghiera” lasciate dai viaggiatori. Nell’ultimo sabato di ogni mese i biglietti vengono raccolti e letti nella vicina chiesa di San Biagio. «Sono più di duemila all’anno» racconta il parroco don Sanzio Tasini, «e il numero non è diminuito in questi tempi di autostrade al minimo, anzi. Tante le preghiere delle badanti, per i loro figli lasciati a casa, per il marito senza lavoro». Il Cantagallo Est, come Teano Est sull’A1 da Napoli a Roma, è un crocevia di badanti. Aspettano pullman e furgoni dal Sud e partono verso il Brennero, l’Austria, la Slovenia e poi verso tutti i Paesi dell’Est. Al Cantagallo Ovest si aspettano i pullman per Firenze, Roma, Napoli. L’appuntamento in autostrada e non in città taglia ogni sosta di almeno un’ora. «Noi chiediamo che la chiesetta sia segnalata meglio. Vorremmo tornare ai tempi in cui accanto al luogo di preghiera c’erano i tavoli per un riposo o un picnic senza frenesia. In viaggio si trovava anche il tempo di pregare» spiega il parroco. La signora Carla, con un gruppo di preghiera, ogni mese legge le invocazioni a “Maria Madre dell’Amore” nella chiesa di San Biagio. “Il mio papà adesso è lì con Te”. “Ti prego per mio zio che ora è in cielo”. Forse sono vittime del Covid. “Dacci la gioia di essere genitori, assistici in questo viaggio della speranza”, scritto da chi va a cercare un aiuto all’ospedale Sant’Orsola di Bologna. Tanti biglietti lasciati da camionisti italiani e stranieri. “Da Palermo a Monaco di Baviera. Proteggimi, fammi tornare a casa dalla mia famiglia”. La signora Anastazja adesso è al Cantagallo Est. «Il furgone è appena passato. Ora aspetto mia cognata, che è andata a “svoltare“ a Sasso Marconi. Presto sarà qui. La prossima volta spero di salire anch’io sul furgone. Non torno a casa da due anni».
Salvatore Merlo per “il Foglio” il 6 agosto 2021. Un grande manager di carriera americana, cresciuto alla Procter & Gamble, poi chiamato alla Fiat da Marchionne, il dirigente aziendale che fece la fortuna del Telepass e che poi trasformò l’aeroporto rudere di Fiumicino nel migliore aeroporto d’Europa, è stato linciato mercoledì da M5s, Lega, Pd, FI e FdI. Scelto di fatto da Palazzo Chigi secondo principi di competenza e mercato per salvare il carrozzone sfasciato di Anas, l’altro giorno Ugo de Carolis è stato spinto dai partiti a rinunciare all’incarico di amministratore delegato di questa povera azienda colabrodo. Secondo il seguente pseudo ragionamento di Danilo Toninelli, che ha ricompattato il populismo gialloverde con il concorso gregario del Pd: “Parliamo di un uomo di fiducia dei Benetton e dell’ex ad di Autostrade Giovanni Castellucci”. Poiché nulla importa che De Carolis non abbia mai lavorato in Autostrade, né mai si sia occupato di ponti e viadotti Aspi, tanto meno del Morandi, e che insomma nulla ha avuto a che fare con la tragedia di Genova, il problema di De Carolis – a quanto pare – è quello di essere stato un amministratore delegato all’interno della enorme galassia finanziaria e industriale che fa riferimento alla famiglia Benetton. Circa seicento manager, tredicimilacinquecentocinquanta dipendenti in Italia e trentunomila nel resto del mondo. Seguendo questo bislacco filo logico (logico si fa per dire), chiunque abbia lavorato con Benetton o Castellucci (pure i negozi di maglieria?), avrebbe sostanzialmente collaborato e cooperato a una specie di obiettivo societario globale che consisteva nel far crollare il ponte Morandi. Non responsabilità personale, ma responsabilità oggettiva. Tipo la Salem del 1642 (1692, ndD), ma con Toninelli giudice religioso: bruciamo sul rogo i Benetton e chiunque sia stato con loro. Pure il cane. Cucinavi a casa Benetton? Tizzone ardente. Hai guidato la macchina di Luciano? Ti impaliamo. Hai gestito l’Aeroporto di Roma? Ti tagliamo un dito. Verrebbe da ridere, se non ci fossero risvolti penosi. Si segnala infatti una prima vittoria del populismo senza cervello sul governo di Mario Draghi, che non ha saputo difendere una sua scelta. E si evidenzia la subalternità del Pd agli sciroccati del M5s. Tutti sanno che gli unici manager capaci, non solo in Italia ma nel mondo, sono quelli che vengono dal privato. Che seleziona secondo princìpi di risultato. Per questo era stato chiamato De Carolis. Perché la missione è complicata. Serviva uno che non sprecasse l’occasione offerta dai miliardi di euro del Pnrr che finiranno ad Anas, il decrepito falansterio che conta negli ultimi tre anni più crolli di ponti di quanti non ne siano avvenuti in 20 anni di Autostrade. Il semestre bianco comincia male.
Maurizio Belpietro per “La Verità” il 5 aprile 2021. Vi ricordate di Francesco Maria De Vito Piscicelli? Se il nome non vi dice nulla vi rinfresco la memoria. Il signore in questione è un imprenditore che nel febbraio di 11 anni fa venne arrestato per gli appalti della ricostruzione dopo il terremoto in Abruzzo. Non fu però per le accuse di corruzione che il suo nome finì sui giornali, ma per la pubblicazione della trascrizione di una conversazione tra lui e il cognato. Al telefono, mentre gli italiani seguivano con dolore le operazioni di soccorso nelle zone stravolte dal sisma, i due se la ridevano. Il congiunto di Piscicelli raccomandava di partire subito in quarta, cioè di darsi da fare con gli appalti: «Perché non c'è un terremoto al giorno». Nel senso che una «fortuna» del genere non capita spesso. E l'altro rispondeva: «Io ridevo stamattina alle 3 e mezzo dentro il letto». In pratica, la tragedia aveva messo allegria a Piscicelli. Il cinismo dei due imprenditori felici per una calamità in cui perirono oltre 300 persone suscitò un'indignazione collettiva e non ci fu giornale che non avesse messo in prima pagina la notizia dei due avvoltoi che si felicitano fra loro per la catastrofe. Vi chiedete perché tirare fuori ora questa vecchia storia? Perché ho la sensazione che l'indignazione proceda a singhiozzo: se c'è di mezzo uno sconosciuto come Piscicelli, ci si può sdegnare per il disprezzo della vita umana, se invece si parla di qualcun altro, magari della famiglia Benetton, si procede con cautela, moderando le parole. Anzi: cancellandole. Già avevamo notato l'atteggiamento prudente della grande stampa due anni e mezzo or sono, quando venne giù il ponte Morandi. Per far spuntare in prima pagina il nome degli imprenditori di Ponzano c'erano voluti giorni: tranne La Verità e forse un altro quotidiano, raccontando la strage in cui morirono 43 persone i giornaloni riuscirono a non citare i padroni di Autostrade, quasi che la società fosse una specie di public company, cioè di azienda con tanti piccoli azionisti. In realtà, come tutti sanno, il socio di riferimento era uno solo, ossia la holding dell'impero dei maglioni che per anni, grazie alla riduzione degli investimenti in manutenzione, aveva incassato dividendi miliardari. Ma se alla fine, dopo un disastro in cui 556 persone persero la casa, con molta timidezza il nome dei Benetton fu fatto, adesso si procede con cura, cercando di non mettere troppo in imbarazzo i signori di Ponzano, evitando cioè di disturbare la vendita di Autostrade a Cassa depositi e prestiti, operazione che, guarda caso, si sta concludendo proprio ora. Vi chiedete che cosa ci sia di nuovo da aggiungere a una vicenda che già è stata scandagliata anche da una raffica di indagini? Beh, di nuovo c'è quel che abbiamo raccontato l'altro giorno e di certo è una novità. Il settimanale Panorama, scartabellando fra le carte dell'inchiesta della Procura di Genova, ha pubblicato le conversazioni tra i vertici del gruppo, ovvero tra l'amministratore della holding di famiglia e gli amministratori di Atlantia. È il 31 dicembre del 2019 e Gianni Mion parla con Carlo Bertazzo e Fabio Cerchiai, rispettivamente amministratore delegato e presidente della società che controlla Autostrade. Poche ore prima, sull'autostrada dei trafori che porta a Genova, dal soffitto di una galleria, è crollato un enorme blocco di cemento e solo per un soffio non ci sono stati morti. Dopo il disastro del ponte Morandi, ci si aspetterebbe che i tre dimostrino preoccupazione per la sicurezza degli automobilisti. Invece, a quanto pare, i manager del gruppo sono preoccupati solo delle loro vacanze. Riporto direttamente il brano di Panorama, che molti lettori già conoscono perché La Verità lo ha scritto due giorni fa. «Cerchiai è pensieroso: "per andare giù devo fare tutte le gallerie". Risate. Bertazzo fa riferimento a un censimento del Mit sui tunnel non a norma: "Mi son preso paura quando m' ha detto 200 gallerie su 270 in Italia". Irrompe Mion: "Devi andare in aereo, devi andare in aereo". Cerchiai sta al gioco: "Vado in aereo, difatti, sì". Altra ilarità. Chiude Mion: "Eh sì, però, se vai in galleria puoi fare tu il monitoraggio". Nuove risate». Tutto ciò, ribadisco, dopo il crollo del ponte Morandi con 43 vittime. E dopo la strage del bus caduto dal viadotto dell'autostrada Napoli-Canosa in cui, anche per scarsa manutenzione, morirono 40 persone e otto rimasero ferite. Certo, il cinismo di Piscicelli era insopportabile: un insulto ai morti del terremoto. Ma anche quello dei manager di casa Benetton è un insulto alle vittime della mancata manutenzione. E tuttavia, l'indignazione della grande stampa per quelle risate non c'è stata. I tre scherzano perché un pezzo di galleria è caduto e dicono di non voler viaggiare in autostrada per paura, ma sono gli stessi che sulle autostrade incassano fior di pedaggi, mandando altri sotto le gallerie. Non so voi, ma a me è parsa subito una notizia da prima pagina. Ai giornaloni no, tanto che hanno evitato di pubblicarla. Zitti zitti, perché una delle famiglie più ricche d'Italia non può certo essere trattata come un Piscicelli qualunque. E poi, come la mettiamo con la bella pubblicità multirazziale e multimilionaria fatta dai Benetton?
Claudio Antonelli per “la Verità” il 23 aprile 2021. Il 30 novembre scadranno i termini della seconda offerta per rilevare da parte di Cassa depositi e prestiti la maggioranza della rete autostradale. Una telenovela (al di là del recente ruolo di Cdp) che vede lo Stato e la famiglia Benetton litigare dall' indomani del crollo del ponte Morandi e dei funerali di ben 43 persone. Una telenovela che ha visto il governo incapace di sfilare la concessione e pronto a trattare con i soci di Atlantia che fino a oggi hanno sempre mantenuto una posizione di forza. Basti pensare che la prima offerta inviata da Cdp poco più di un mese fa è stata snobbata dai produttori di lana di Ponzano Veneto. Le intercettazione finite sui giornali e presenti nelle oltre 100 pagine di ordinanza di arresto degli ex manager di Aspi non possono però cadere nel vuoto. L' ammissione da parte dei rappresentanti della famiglia Benetton di aver risparmiato sulle spese destinate alla manutenzione a fronte di un progressivo incremento dei dividendi apre un solco profondo nella politica. In tutta quella parte della sinistra che ha sostenuto sempre e spada tratta il gruppo di Ponzano Veneto. Sebbene la gestione delle tariffe e i ritorni sugli investimenti fosse smaccatamente sotto gli occhi di tutti, adesso c' è la famosa smoking gun che servirebbe per separare il destino dei Benetton da quello di Autostrade per l' Italia. Se questo accadrà e in breve tempo è invece un altro paio di maniche. La sinistra autostradale, quella delle porte girevoli con le società del gruppo, sta andando in testa coda, ma è ancora presto per capire se basterà per avviare un cambio di passo. Il ministro ai Trasporti, Paola De Micheli, si è limitata a dire che la trattativa per il futuro di Aspi afferisce a Cdp. Come se il suo ministero e il resto del governo fossero degli ingenui passanti. La De Micheli ha fatto parte della fondazione Vedrò di Enrico Letta chiusa nel 2013 per evitare «conflitti di interessi» con la presidenza del Consiglio. Non è una notizia ricordare che Autostrade è stata a lungo finanziatrice di Vedrò. Simonetta Giordani nel 2006 lavora per Aspi. Quando l' esponente della Margherita siede a Palazzo Chigi, chiama la Giordani a fare il sottosegretario ai Beni culturali. L' anno dopo passa la mannaia di Matteo Renzi e la manager per un po' ricopre l' incarico di consigliere in Fs, finché torna in Atlantia, dove viene incaricata della gestione degli affari istituzionali. Lo stesso Letta entra nel cda di Abertis e se ne esce poco prima che il gruppo dei Benetton lanci l' Opa sulla società spagnola. Tempismo perfetto. Che però non sposta il tema. Oggi una delle figura che suggerisce nell' orecchio alla De Micheli è Fabrizio Pagani, lettiano di ferro, sherpa nel G20, capo segreteria per il ministro Pier Carlo Padoan. Che cosa stia suggerendo in queste ore per uscirà dal cul de sac in cui si è infilato mezzo Pd non lo sappiamo. Intanto ieri ci sarebbe stata una riunione tra i capi di gabinetto dei ministeri interessati alla partita e l' ad di Atlantia Carlo Bertazzo, il quale se ne sarebbe andato con ben poche rassicurazioni. Di certo, l' altra metà del Pd comincia a vedere con un po' di fastidio persino le storiche relazioni e porte girevoli con Autostrade. Paolo Costa, ad esempio. Tra il 1997 e il 1998 ricopre l' incarico di ministro dei Lavori pubblici, per poi diventare ministro delle Infrastrutture nel 2006, prima che lo stesso incarico vada ad Antonio Di Pietro. Costa è vicino a Romano Prodi. Tra il primo e il secondo incarico romano, fa il sindaco di Venezia. Nei 24 mesi trascorsi al ministero dei Lavori pubblici contribuisce a preparare al fianco del Professore la privatizzazione della rete autostradale e getta le basi dell' intero sistema di concessioni. Che verrà modificato più volte negli anni, senza però venire mai stravolto. A dicembre del 2019 la Corte dei conti se ne esce con una relazione pesantissima. Stronca il sistema di calcolo delle concessioni. «Fin dagli anni Novanta, le autorità indipendenti lamentano la mancata apertura al mercato delle concessioni e l'opacità nella loro gestione, non essendo state le convenzioni di affidamento, fino all' anno passato, rese pubbliche». Tradotto, secondo i magistrati contabili siamo di fronte a pochi investimenti, manutenzione scarsa, modelli tariffari tutti da rivedere e clausole contrattuali vantaggiose per i privati. Eppure si arriva a ieri, giorno in cui la De Micheli va in Aula e promette di prendere in considerazione l' ultima relazione dell' autorità dei trasporti che fa a pezzi il nuovo Pef di Aspi. «Valuteremo», dice senza però prendere impegni. Se il piano investimenti è sovrastimato, il valore della società sale. Inutile dire chi ci guadagna. Non certo Cdp. E così si torna al punto di partenza. Il Pd comincerà a prendere le distanze oppure attenderà la Commissione Ue che prima o poi sul braccio di ferro delle concessioni autostradali dirà la sua? Dopo aver ascoltato le imbarazzanti intercettazioni sicuramente sarà equidistante e forse farà da sponda ai grillini che ieri hanno rialzato la testa. Giancarlo Cancelleri, vice ministro dei 5 stelle, ha di nuovo sollecitato la chiusura dell' operazione Cdp-Aspi entro l' anno o la revoca della concessione. Ma quale sarà il pensiero del suo collega di governo, il ministro alla Sviluppo economico Stefano Patuanelli, dal quale in molti si aspettano una smentita o una presa di distanza proprio dall' ex capo di Autostrade, Giovanni Castellucci? A pagina 87 dell' ordinanza dei pm di Genova si legge l' intercettazione telefonica tra il manager e l' allora capo di Air Dolomiti, controllata da Lufthansa), Joerg Eberhart. «Il ministro ha chiesto di incontrarmi [...] all' inizio mi aveva chiesto di aiutarlo su Alitalia e se ero disponibile». A proseguire nella lettura si comprende che i pm ritengano quanto Castellucci sia effettivamente attivo per trovare incarichi o soluzioni per la su ex società. L' intercettazione è di ottobre 2019 ed escludono che stia millantano. Il nome di Patuanelli non è mai citato, ma il riferimento a lui è chiaro. Dunque, o rettifica e smentisce Castellucci altrimenti tutto lo storytelling dei 5 stelle viene meno. Come si fa a urlare in piazza e poi fare intelligenza con il nemico? Andrebbe chiarito con una certa urgenza.
Tommaso Fregatti e Matteo Indice per "La Stampa" il 3 giugno 2021. In una riunione riservata del novembre 2010, fu l'amministratore delegato di Autostrade in persona, Giovanni Castellucci, a ribadire che l'unica via per mettere in sicurezza il Ponte Morandi sarebbe stata l'accelerazione del restyling ai tiranti del pilone numero 9, quello poi collassato. E però l'intervento, mentre lui rimaneva alla guida del concessionario, è stato fatalmente rinviato di anno in anno, finché il viadotto non è crollato il 14 agosto 2018, uccidendo 43 persone. Tra i documenti che maggiormente inguaiano l'ex numero uno di Aspi c'è il resoconto di un summit ristretto che la Finanza ha ripescato esaminando decine di computer, ora depositato insieme agli altri atti dell'inchiesta sulla strage. «Il 10 novembre 2010 alle 15.30 - scrivono i militari ai pm - nella sede di Autostrade per l'Italia in Roma, via Alberto Bergamini 50 si teneva la convocazione del "Comitato completamento lavori", per discutere l'ordine del giorno sul punto "Informativa sul viadotto Polcevera"». «Su invito dell'amministratore delegato Giovanni Castellucci», prende la parola Gennarino Tozzi, ingegnere. Tozzi conosce bene il ponte. E spiega che nel 1993, su uno dei piloni principali, sono stati inseriti cavi esterni ai tiranti poiché quelli interni, annegati nel calcestruzzo e quindi invisibili da fuori, erano corrosi. E dichiara: «In base ad attività di ispezione lo stato di conservazione evidenzia problemi strutturali». Entra in scena Castellucci, palesando agli occhi di chi indaga la propria consapevolezza sull'urgenza della ristrutturazione: «L'amministratore delegato - precisano i finanzieri dopo aver esaminato i verbali della riunione - fa presente che la decisione risolutiva sarebbe quella di anticipare gli interventi di rinforzo strutturale degli stralli (nome tecnico dei tiranti, ndr) dei residui sistemi bilanciati (con questa locuzione si intendono i piloni 10 e 9, che non furono oggetto delle migliorie compiute nel 1993, ndr)». A parere degli inquirenti Castellucci aveva insomma tutto chiarissimo, sapeva già nel 2010 che la tenuta del Morandi era a rischio al punto da dichiarare che la via da prediligere per scongiurare progressioni nefaste era il restyling proprio dei tiranti. Ma cosa ne è stato di quell'urgenza? Tra una mail interna e l'altra i sottoposti dissertano all'infinito dei costi altissimi e dell'ipotesi Gronda, la bretella che dovrebbe alleggerire il nodo autostradale cittadino. E trascorrono sei anni senza che sul viadotto Polcevera s'intervenga sul serio, nonostante l'ad sia lo stesso che aveva certificato la necessità di rifare gli stralli. Il 15 febbraio 2016 nuovo meeting dedicato alla sicurezza del Morandi. E Castellucci, risulta ancora dal verbale, spiega che la complessiva messa in sesto dell'opera rientra in un «piano accelerato». Cos'è un «piano accelerato»? «Come previsto dalle norme sulle ispezioni delle strutture e infrastrutture autostradali - precisa la Finanza - si intendevano quelle attività di ripristino da svolgersi con procedura immediata». È però impressionante, ed è rimarcato nelle informative, quanto i tempi dell'intervento siano stati via via posticipati (le «interferenze al traffico» si sarebbero protratte complessivamente per 8 mesi): i lavori, nella prima bozza del Catalogo rischi, dovevano concludersi «nel 2017»; poi «entro il 2018», quindi «entro il 2019» finché - edizione 2017 del medesimo Catalogo - non si arriva al termine «del 2020». Evidentemente troppo tardi.
Toninelli: “Ho quasi finito il mio libro, racconterò tutto sul Ponte Morandi”. Giampiero Casoni il 24/04/2021 su Notizie.it. Toninelli: “Ho quasi finito il mio libro, racconterò tutto sul Ponte Morandi. Ho vissuto in prima persona quei momenti drammatici e subito attacchi". Danilo Toninelli occhieggia dalla sua pagina Facebook e chiosa il suo post con un goloso: “Ho quasi finito il mio libro, racconterò tutto sul Ponte Morandi”. A metà fra spottone e intrigo l’ex ministro pentastellato alle Infrastrutture posta una foto iconica. Nello scatto è in pieno “furor” produttivo e, al computer, mostra la bozza del suo prossimo (nel senso temporale di imminente) libro sul crollo del Ponte Morandi a Genova. Lo fa con la schermata aperta in bella vista su un fantomatico capitolo dal titolo “Decreto Genova”. E a corredo della foto il post: “Oggi (il 23 aprile – ndr) è la Giornata mondiale del libro. E il libro che sto scrivendo da mesi è quasi finito. Dopo le ultime tremende notizie dell’inchiesta sul Ponte Morandi sono ancora più motivato a pubblicarlo”. Perché Danilo Toninelli è motivato ancor più? Lo spiega proseguendo: “Ho vissuto in prima persona quei momenti drammatici e sono stato il primo a denunciare lo scandalo che si celava dietro la gestione miliardaria del concessionario. Per questo ho subito ogni genere di attacco, ma grazie a questo oggi abbiamo visto ricostruire in tempi record il nuovo ponte di Genova”. Al di là della verità inattaccabile per cui Toninelli ha avuto un ruolo importante nella ricerca della verità su quella tragedia il tono è comunque molto “da retroscena per tornare sulla scena” ma tant’è: i libri bisognerà pur renderli accattivanti, dato che in barba alle varie giornate mondiali in Italia non li legge quasi più nessuno. E i commenti social a corredo del post rispecchiano perfettamente la natura divisoria del personaggio. Fra essi ne abbiamo scelti due che danno la cifra in maniera perfettamente bipartisan del gradimento che il cimento di Toninelli sta riscontrando nel popolo del web, ecco il primo: “Da genovese ed estimatrice di quello che è stato il miglior Ministro del MIT non vedo l’ora di acquistarlo e di leggerlo”. Questo invece, per quanto attiene la parte decisamente più “scettica” nei confronti della fatica letteraria dell’ex ministro, il secondo: “In confronto Cent’anni di Solitudine ricorderanno le avventure della Pimpa! Le librerie fremono per avere il tuo capolavoro sugli scaffali!”.
Giampiero Casoni. Giampiero Casoni è nato a San Vittore del Lazio nel 1968. Dopo gli studi classici, ha intrapreso la carriera giornalistica con le alterne vicende tipiche della stampa locale e di un carattere che lui stesso definisce "refrattario alla lima". Responsabile della cronaca giudiziaria di quotidiani come Ciociaria Oggi e La Provincia e dei primi free press del territorio per oltre 15 anni, appassionato di storia e dei fenomeni malavitosi. Nei primi anni del nuovo millennio ha esordito anche come scrittore e ha iniziato a collaborare con agenzie di stampa e testate online a carattere nazionale, sempre come corrispondente di cronaca nera e giudiziaria.
Matteo Indice per “la Stampa” il 23 aprile 2021. Il ponte è crollato perché nessuno ha rinforzato in mezzo secolo il punto più critico e l' obiettivo era risparmiare sulle manutenzioni, onere così invasivo da indurre il gestore «a considerare la possibilità di demolire il manufatto nel 2003». Le omissioni sono diventate macroscopiche con la privatizzazione del concessionario, che ha massacrato gli investimenti in prevenzione nonostante i suoi azionisti si spartissero utili vicini talvolta al miliardo annuale. Non solo. Il rischio che i tiranti si spezzassero era noto «già nel 1975» in un dossier diffuso a vari livelli societari, al punto che il premio assicurativo per l' eventuale scempio era via via lievitato, «con un incremento esponenziale da 100 a 300 milioni dal 2016». E ancora: nel 1993, a un convegno in Cina, il dirigente Michele Donferri Mitelli (oggi indagato) spiegava che il viadotto di Genova aveva «corrosione diffusa» proprio nei tiranti. Lo mettono nero su bianco il procuratore aggiunto Paolo D' Ovidio e i sostituti Massimo Terrile e Walter Cotugno, nell' avviso di conclusione dell' indagine preliminare inviato a 69 persone fra manager e tecnici di Autostrade per l' Italia e Spea Engineering (entrambe del gruppo Atlantia, la seconda delegata ai monitoraggi) e del ministero delle Infrastrutture, accusati per la strage in cui morirono 43 persone il 14 agosto 2018 a Genova. Gli addebiti sono a vario titolo di omicidio stradale plurimo, crollo doloso, falso, attentato alla sicurezza dei trasporti. Scrivono quindi i pm: «Tra il battesimo del 1967 e il crollo, per ben 51 anni, non era stato eseguito il minimo rinforzo sugli stralli (nome tecnico dei tiranti, ndr) del pilone numero 9 (poi collassato, ndr). E, nei 36 anni e 8 mesi intercorsi fra il 1982 e il disastro, gli interventi strutturali compiuti sul viadotto Polcevera avevano avuto un costo complessivo di 24.578.604 euro. Di questi il 98,01% erano stati spesi dal concessionario pubblico e solo 488.128 euro (l' 1,99%) dal privato. La spesa media annua del pubblico era stata di 1.338.359 euro (3.665 al giorno), quella del privato di 26.149 (71 euro al giorno), con decremento del 98,05%. La situazione non era giustificabile, per il medesimo gestore privato, con l' insufficienza delle risorse finanziarie, dal momento che aveva chiuso tutti i bilanci dal 1999 al 2005 in forte attivo, con utili compresi tra 220 e 528 milioni, e tra il 2006 e il 2017 i medesimi utili di Aspi sono variati tra un minimo di 586 e un massimo di 969 milioni, distribuiti agli azionisti in percentuale media attorno all' 80% e sino al 100%». Esaurita la premessa, i magistrati descrivono le responsabilità specifiche dell' ex amministratore delegato di Aspi, Giovanni Castellucci. «Poneva in pericolo la sicurezza e cagionava, non impedendolo, il crollo della pila 9 e del collegato tratto di circa 240 metri dovuto alla rottura per corrosione dei cavi portanti all' interno dello strallo lato mare/Genova». E strettamente collegata è l' accusa ad Autostrade nel suo complesso, inquisita in base alla legge sulla responsabilità amministrativa per «omicidio colposo in violazione delle norme sulla sicurezza nei posti di lavoro e falso informatico reati commessi nel suo interesse e a suo vantaggio, consistente nel risparmio derivante dai mancati o comunque insufficienti investimenti nelle attività di sorveglianza della rete e nel conseguente incremento degli utili distribuiti ai soci, anche da persone che rivestivano funzioni apicali di amministrazione e direzione». E in primis si riferiscono di nuovo «all' ad Giovanni Castellucci, al responsabile dell' ufficio centrale operazioni Paolo Berti» e al capo nazionale manutenzioni «Michele Donferri Mitelli». Tra i big ministeriali nel mirino, poiché avallarono un progetto di restyling contenente dati inquietanti, figura tra i più alti in grado il provveditore alle opere pubbliche per Piemonte e Liguria Roberto Ferrazza. E fra gli addebiti rivolti a chi lavorava nella galassia del Mit c' è pure quello d' aver sorvolato su un «documento informale» del consulente Antonio Brencich, che descriveva «degrado impressionante». Egle Possetti, portavoce dei familiari delle vittime, auspica «tempi stretti» per il processo e chiede di riflettere ancora sulle concessioni ad Aspi.
(ANSA il 22 aprile 2021) Già nel 1990 e nel 1991 Autostrade Spa sapeva che nella pila 9, quella crollata il 14 agosto 2018, vi erano "due trefoli lenti e due cavi scoperti su quattro". E' quanto emerge dall'avviso di conclusioni indagini che gli investigatori del primo gruppo della guardia di finanza sta notificando in queste ore ai 69 indagati più le due società Aspi e Spea. Le accuse sono di attentato alla sicurezza dei trasporti, crollo colposo, omicidio colposo e omicidio stradale e rimozione dolosa di dispositivi per la sicurezza dei posti di lavoro.
Andrea Pasqualetto per il "Corriere della Sera" il 21 luglio 2021. «Nessuno degli imputati ha preso iniziative, in una situazione nella quale qualsiasi segnalazione di degrado del ponte Morandi avrebbe evitato con certezza il disastro o l'avrebbe limitato». Nell'atto d'accusa della Procura di Genova c'è il sospiro di chi pensa, dopo quasi tre anni d'indagine, che sarebbe bastato poco per salvare le 43 vittime del crollo. L'indice è qui puntato su dirigenti, manager e tecnici di Autostrade per l'Italia (Aspi) e Spea che dovevano gestire, sorvegliare e riparare il ponte. «Ma sono responsabili anche tutti coloro che in Anas e nel ministero delle Infrastrutture non hanno garantito la vigilanza su di loro... E chi, chiamato a esaminare il progetto di ristrutturazione, ha omesso di comunicare le condizioni di impressionante degrado in cui versava il viadotto». In tutto fa 59 imputati, per i quali i pubblici ministeri hanno chiesto il processo firmando una richiesta di 2.260 pagine. L'udienza preliminare, nella quale il giudice deciderà se e quando rinviarli a giudizio, inizierà il 15 ottobre e dovrebbe terminare in dicembre. Nel ponderoso atto d'accusa, oltre a quanto è stato più volte scritto circa gli allarmi e le mancate manutenzioni dovute a una politica aziendale orientata alla massimizzazione dei profitti, spuntano i progetti abortiti. Interventi cioè di rinforzo strutturale del Morandi rimasti solo sulla carta. «Se realizzati avrebbero evitato sicuramente il crollo». Il primo risale al 2011. Era stato avviato dall'ingegner Francesco Pisani, collaboratore del «maestro» Riccardo Morandi che progettò il ponte. «Era finalizzato a rinforzare gli stralli della pila 9 (quella crollata, ndr ) ma fu inspiegabilmente abbandonato, preferendo un modestissimo intervento di ripristino, peraltro mai realizzato», scrivono i magistrati. La spiegazione, in realtà, è chiara: «Il costo del ripristino era 150 mila euro, quello del progetto Pisani circa 23,8 milioni». Il secondo è invece datato 2014 «ed era stato affidato all'ingegner Bernardini». Sempre sugli stessi stralli, la cui rottura secondo i periti ha innescato il collasso. «Ma anche quello fu inspiegabilmente abbandonato all'inizio del 2016». Il procedimento sforna numeri eccezionali: 135 faldoni, oltre 200 testimoni, migliaia di intercettazioni. E le parti offese: 357. Sono i 291 parenti delle vittime e le 66 persone rimaste ferite o che hanno avuto importanti danni psicologici, per aver perso la casa o per aver visto la morte in faccia. Fra gli altri, l'autista del camion Basko, Luigi Fiorillo, che si fermò miracolosamente sull'orlo del baratro. «Ha subito il trauma della voragine. Aspi gli ha offerto 30 mila euro, ha detto no, vuole il processo», spiega l'avvocato Pietro Bogliolo che lo assiste. Bogliolo è il legale anche della famiglia Granieri che era in automobile subito dietro al camion: «Proposti diecimila euro... briciole, rifiutati». Poi c'è Giancarlo Lorenzetto, che guidava il supertir finito al centro della polemica per i 440 quintali di carico che secondo alcuni consulenti di Aspi potrebbe c'entrare qualcosa con il crollo. Lui è precipitato ma si è salvato. «Mi sono ritrovato appeso alla cintura di sicurezza, per fortuna che l'avevo allacciata. Poi ho avuto coliche renali, stress, mi è venuto di tutto», aveva detto in un'intervista. Il documento della Procura si chiude con una sorta di SOS. Si tratta di una scaletta in ordine cronologico che mette in guardia sul rischio prescrizione dei vari reati che vengono contestati. Dal 2023 inizieranno a saltare le omissioni d'atti d'ufficio, dal 2024 la frode informatica, dal 2026 gli omicidi e le lesioni colpose, nel 2031 l'attentato alla sicurezza dei trasporti... I primi reati, minori, sono destinati a cadere. È infatti difficile che si possano celebrare i tre gradi di giudizio entro il 2024. E qualcuno adesso agita anche lo spauracchio della riforma Cartabia, che è destinata ad accorciare i tempi dei giudizi in Corte d'appello e in Cassazione. «Premesso che il testo della riforma non è ancora definitivo, la norma non dovrebbe essere applicata in modo retroattivo, il che escluderebbe il processo del ponte Morandi», taglia corto uno dei legali di Autostrade.
Ponte Morandi, l’accusa: «Autostrade sapeva dei cavi corrosi ben prima del crollo». Anni di clamorose negligenze emerse dalle intercettazioni, nessuna manutenzione al viadotto per 51 anni: la procura chiude le indagini per il crollo che causò la morte di 43 persone. I pm: «Erano a conoscenza del rischio già dal 1990». I familiari: «Si poteva chiudere quel ponte anche solo un mese prima, e salvare chi non c’è più». Matteo Macor su L'Espresso il 23 aprile 2021. La pila 9 di ponte Morandi, quella che il 14 agosto del 2018 si sbriciolò su se stessa trascinando tra le macerie 43 vite innocenti, prima del giorno del disastro non aveva ricevuto «il benché minimo intervento manutentivo di rinforzo». Neanche un giorno di manutenzione in 51 anni, dalla mattinata dell’inaugurazione del viadotto, nel 1967, al mattino che fece puntare su Genova gli occhi sconvolti del mondo. È una delle tante, sconvolgenti verità emerse dalle indagini preliminari del processo sul crollo del ponte sul fiume Polcevera, concluse questa settimana dopo due incidenti probatori e due anni e otto mesi di lavoro. Uno «sforzo enorme», dicono dalla Procura genovese, finito oggi - in attesa delle richieste di rinvio a giudizio - con la notifica dovuta di fine indagini a 69 persone, più le società Autostrade per l'Italia e Spea. Tra queste dirigenti, tecnici, consulenti coinvolti a vari livelli nella lunga storia di mancate manutenzioni e controlli insufficienti che ha portato il vecchio Morandi a spezzarsi, per i quali i capi di imputazione variano tra il disastro e il crollo dolosi, l’attentato alla sicurezza dei trasporti, l’omissione di cautele per prevenire il disastro, omicidio colposo, falso e pure l’omicidio stradale e lesioni. Frutto di un quadro d’inchiesta che porterà all’inizio del processo «entro l’estate», promette il procuratore capo Francesco Cozzi, e dal quale già emergono rivelazioni preoccupanti. Intrecciata da subito con altri filoni d’indagine, da quello parallelo sui pannelli antirumore fuori norma all'inchiesta sui report truccati sugli altri viadotti, tra gli indagati dell’inchiesta sul crollo del Morandi ci sono oggi società private e lavoratori pubblici, manager e funzionari. Per primi i nomi noti legati ad Autostrade per l’Italia (l'ex amministratore delegato della società Giovanni Castellucci, dietro di lui gli allora numeri due e tre di Aspi: Michele Donferri Mitelli e Sergio Berti), ma anche figure di vertice di Spea (la società delegata al controllo della rete autostradale in tutta Italia per conto di Aspi, nel 2018 guidata da Antonino Galatà) e uomini chiave del ministero delle Infrastrutture, l’unico organo che avrebbe dovuto vigilare (ma non ha fatto, per gli inquirenti) sull’operato della concessionaria che aveva in gestione il viadotto crollato. Facce diverse di uno stesso mondo che in questi mesi le indagini hanno prima cercato di comprendere, e poi messo nero su bianco su una mole impressionante di atti. Compresa quella consulenza tecnica della Procura, fino ad oggi rimasta segreta, che meglio di ogni altra cosa - parlando di «incosciente dilatazione» dei tempi da parte delle società indagate davanti alle misure in tema di sicurezza - pare spiegare le negligenze all’origine del crollo. Se 32 mesi dopo la chiusura delle indagini cristallizzano oggi un passaggio giudiziario formale, a raccontare l'assurdità di una tragedia e le incredibili proporzioni delle possibili colpe che andranno a processo, del resto, basterebbero alcuni dei particolari della vicenda che vengono rivelati oggi. Quel «rischio di crollo per ritardati interventi di manutenzione», con relativa indicazione a «elevare il massimale assicurativo da 100 a 300 milioni di euro» che già nel 2013 - otto anni prima del 14 agosto 2018 - Aspi scriveva nel “Catalogo dei rischi operativi”, un documento di pianificazione interna. Il fatto che già nel 1990, ad esempio, Autostrade Spa avesse certificato che in quella stessa pila destinata a crollare 28 anni più tardi erano ammalorati i trefoli e scoperti due cavi su quattro, nervature fondamentali dell’infrastruttura. E poi ancora, la totale «inidoneità a fornire una rappresentazione completa e veritiera dei difetti esistenti» del manuale di sorveglianza e il cosiddetto “catalogo difetti” approvato da Aspi per monitorare il ponte, che - si legge nelle carte della Procura - «erano espressione della filosofia manutentiva praticata dalla società, che prevedeva che il degrado non fosse prevenuto o affrontato e risolto sul nascere, ma fosse lasciato avanzare e progredire». O il fatto che fino al 2008 (e poi dal 2016 al 2018) nessun sistema di monitoraggio strumentale fosse mai stato installato sul viadotto, a parte quello destinato a tenere sotto controllo la pila 11. O il meccanismo con cui Spea - viene spiegato - «sottostimava sistematicamente i difetti che rilevava, attribuendo voti inferiori a quelli previsti dal manuale, in modo da non costringere Aspi a procedere a interventi manutentivi in tempi brevi, mantenendo inalterata, attraverso disinvolte operazioni di "copia-incolla" e contro ogni legge fisica, la descrizione e la valutazione di gravità dei difetti anche per molti anni». Anni e anni di clamorose negligenze, suggerisce la Procura, riassunti alla perfezione da una delle ultime intercettazioni emerse dalle carte. Un messaggio di Whatsapp, inviato da Michele Donferri a Paolo Berti, numeri 2 e 3 di Aspi nel 2018, in cui la verità delle condizioni del Morandi già morente vengono messe in chiaro, senza sconti: «I cavi sono corrosi». Era il 25 giugno di due anni fa, neanche un mese e mezzo prima della tragedia di Genova. Berti aveva scritto a Donferri della proposta di iniettare aria deumidificata per “curare” i cavi del viadotto, una soluzione, a quel punto, già impraticabile. La prova - commenta oggi Egle Possetti, la portavoce del comitato che riunisce i familiari delle 43 vittime del disastro, - «che più mi fa male, che più mi strazia il cuore». «Oggi sappiamo che si poteva chiudere quel ponte anche solo un mese prima, e salvare chi non c’è più - sospira, lei che sul Polcevera ha perso la sorella, il cognato e due nipoti - Anche solo pochi giorni prima della tragedia, anche solo una persona tra quelle che sapevano che il Morandi fosse marcio, avrebbe potuto evitare quello che è successo. Sarebbe bastato chiuderlo il mattino del 14 agosto, sarebbe bastato solo uno, a uscire dal coro e lanciare l’allarme. Probabilmente il ponte sarebbe venuto giù comunque, ma da solo, senza nessuno sopra. E invece no, le responsabilità sono corali, in tanti sapevano, tolleravano, e questa corresponsabilità così larga è la cosa più inaccettabile. Oggi speriamo solo in una giustizia che ci meritiamo, e in un processo che non abbia tempi troppo lunghi, perché sarebbe l’ennesimo macigno sulla nostra memoria».
Tommaso Fregatti per "La Stampa" il 22 aprile 2021. Sessantanove persone a rischio processo, insieme a due società: Autostrade per l’Italia e Spea Engineering, una nuova perizia in mano alla Procura che parla di «incosciente dilazione dei tempi, immobilismo, confusione e accavallamento di ruoli nella catena di comando della società concessionaria» e altre accuse messe nero su bianco sempre più gravi per gli indagati. E cioè, oltre ai reati dolosi, la nuova contestazione di omicidio stradale. Dopo quasi mille giorni - 968 per la precisione - da quella tragica mattina del 14 agosto 2018, ieri il pubblico ministero Massimo Terrile ha firmato l’atto di chiusura delle indagini sul crollo del viadotto Morandi e la morte di 43 persone. Questa mattina partiranno nei confronti degli indagati gli avvisi di conclusione indagini preliminari che saranno notificati dai militari della guardia di Finanza diretti dai colonnelli Ivan Bixio e Giampaolo Lo Turco tra oggi e domani. Si tratta del preludio della richiesta di rinvio a giudizio. Il procuratore capo Francesco Cozzi ha voluto sottolineare «come non sia stato perso neppure un giorno nell’inchiesta». Le novità principali riguarda un nuovo indagato e il reato di omicidio stradale. Per i pm che indagano sul crollo del ponte Morandi è stato come un maxi incidente dove hanno perso la vita ben 43 persone. La condotta negligente dei responsabili ha provocato una strage. Per questo, dopo una lunga serie di riunioni, i magistrati coordinati dall’aggiunto Paolo D’Ovidio hanno ipotizzato la nuova accusa. Che effetto potrebbe avere sul processo? «Alzare le pene finali», viene ribadito in Procura. Accanto all’omicidio stradale plurimo sono contestati il reato doloso di attentato alla sicurezza dei trasporti, il crollo e vari reati di falso. La chiusura delle indagini ha come base la perizia degli esperti dell’accusa. Nelle conclusioni del documento viene riportato come ci sia stata «un’incosciente dilazione dei tempi rispetto alle decisioni da assumere ai fini della sicurezza». Ma non solo. «C’è stata - scrivono - confusione e accavallamento di ruoli nella catena di responsabilità dei vari soggetti coinvolti, ovvero Aspi, Spea, Autorità preposte alla vigilanza e al controllo, consulenti e tecnici esterni». Una confusione che ha avuto un ruolo nel cedimento: «Tale decisione avrebbe dovuto comportare scelte importanti, quali l’attivazione immediata di una serie di controlli a rilevamento continuo o, più semplicemente, l’immediata chiusura al traffico del viadotto e l’inibizione all’accesso e ai transiti delle zone sottostanti, anche solo a scopo precauzionale».
Ponte Morandi, verso il maxi processo in estate a Genova per 69 indagati. Marco Lignana su La Repubblica il 22 aprile 2021. I pubblici ministeri Massimo Terrile e Walter Cotugno hanno chiuso le indagini sulla tragedia che è costata la vita a 43 persone. Durissime accuse: "Già dal 1990 Autostrade sapeva che il viadotto era a rischio". "Non abbiamo perso un giorno", dice il procuratore capo Francesco Cozzi. Due anni e otto mesi dopo il crollo di ponte Morandi, i pubblici ministeri Massimo Terrile e Walter Cotugno hanno chiuso le indagini sulla tragedia che è costata la vita a 43 persone. E aggiunge Cozzi: "Pensiamo che il processo si possa celebrare entro l'estate. Non è stato perso nemmeno un giorno senza lavorare a questa indagine. La complessità della vicenda, due incidenti probatori, hanno portato a questi tempi. È stato un lavoro straordinario - ha detto -. Questo è un passaggio importante ma è il punto di vista della procura, dello Stato. Ora si apre una fase in cui le difese spiegheranno le proprie ragioni". "Come servitore dello Stato - ha detto Cozzi - sono onorato ad avere coordinato questa indagine. Lo dovevamo alle vittime e per tutelare interessi pubblici e privati".
Gli atti. La Procura sta notificando a 69 persone, più le società Autostrade per l'Italia e Spea, gli "Acip" (avviso di conclusione delle indagini preliminari). L'atto che precede le richieste di rinvio a giudizio: "Se ci sono stati dei rallentamenti, non sono mai dipesi da noi", rivendica Cozzi. Oltre al documento che sarà recapitato a tutti gli indagati - i pm per il momento non hanno archiviato alcuna posizione - c 'è una mole impressionante di atti a disposizioni delle difese. Tra questi, la consulenza tecnica della Procura, finora rimasta segreta. Che mette in evidenza la "incosciente dilatazione" dei tempi rispetto alle decisioni da prendere sulla sicurezza da parte di Aspi e Spea. Oltre alle "comunicazioni incomplete ed equivoche" sui report sullo stato di salute del viadotto. Analisi in parte condivise dai periti del Gip al termine dei due incidenti probatori. Così come è condivisa da accusa e periti del giudice la causa del crollo: la rottura di uno degli stralli della pila 9, quello verso Sud-Est.
Le accuse. Oltre alle accuse di omicidio colposo plurimo, disastro, attentato alla sicurezza dei trasporti, falso, le contestazioni della Procura dovrebbero riguardare anche l'omicidio stradale. Un reato valutato fin dall'inizio delle indagini dai pm Terrile e Cotugno, e che ora dovrebbe comparire nero su bianco. Oltre ai 68 nomi già noti, c'è un nuovo indagato, le cui responsabilità sono emerse soltanto negli uitimi mesi. Una posizione, a quanto filtra, comunque marginale. Procura e finanzieri del Primo Gruppo e del Nucleo Operativo Metropolitano, diretti dal colonnello Ivan Bixio e dal tenente colonnello Giampaolo Lo Turco, hanno fin da subito in tre direzioni. In primis Autostrade per l'Italia, a partire dall'ex amministratore delegato Giovanni Castellucci e ai dirigenti allora subito sotto di lui, Michele Donferri Mitelli e Sergio Berti. Gli stessi manager poi arrestati nell'ambito dell'indagine parallela sulle barriere antirumore pericolose e fuori norma. Ma fin da subito sono emerse le responsabilità di Spea, la società "gemella" di Aspi delegata al monitoraggio e al controllo della rete in tutta Italia. Anche il suo ex amminsitratore delegato, Antonino Galatà, è stato colpito da una misura cautelare, la sospensione dai pubblici uffici per dodici mesi, e stavolta nell'ambito dell'inchiesta sui report truccati sugli altri viadotti. Infine, la Procura ha messo sotto indagine anche alcuni uomini chiave del ministero delle Infrastrutture. Perché se è vero che, secondo i pm, dirigenti e tecnici di Autostrade e Spea hanno fatto il bello e il cattivo tempo sulla pelle degli automobilisti, è altrettanto vero che l'unico organo deputato a controllare la concessionaria era il ministero. Quel lavoro di controllo, però, per gli inquirenti non è stato fatto.
I tempi. Se la pandemia ha giocoforza rallentato i tempi dell'indagine - basti pensare alle riunioni fra i tecnici durante l'incidente probatorio, alcune rimandate più volte, altre svolte a distanza - nelle ultime settimane si è tornati a correre: "Anche le udienze dello stesso incidente probatorio in tutto sono durate soltanto sette giorni, andando oltre le nostre aspettative", confida Cozzi. Fin dalle prossime ore nella tensostruttura "anti-Covid" allestita nell'atrio del tribunale di Genova inizierà il via vai degli avvocati degli indagati, che potranno accedere agli atti attraverso il "cervellone", il software usato anche dall'Fbi che permette di indicizzare e collegare elementi (per la Procura indizi) provenienti da diverse fonti. Soltanto di materiale informatico agli atti ci sono 55 terabyte, che per capirsi corrispondono a oltre 82 mila cd-rom, o più di 7 milioni di foto.
Le carte. Già nel 1990 e nel 1991 Autostrade Spa sapeva che nella pila 9, quella crollata il 14 agosto 2018, vi erano "due trefoli lenti e due cavi scoperti su quattro". E' quanto emerge dall'avviso di conclusioni indagini che gli investigatori del primo gruppo della guardia di finanza sta notificando in queste ore ai 69 indagati più le due società Aspi e Spea. Le accuse sono di attentato alla sicurezza dei trasporti, crollo colposo, omicidio colposo e omicidio stradale e rimozione dolosa di dispositivi per la sicurezza dei posti di lavoro. "Le indagini diagnostiche - si legge nel documento - degli anni 1990 (19-29 novembre) e 1991 (12-13 giugno) sugli stralli della pila 9, pur eseguite in modi parziali e inadeguati, avevano individuato, sull'unico strallo a mare lato Savona esaminato, 2 trefoli "lenti" e del tutto privi di iniezione, e, sull'unico strallo lato Genova lato monte esaminato, 2 cavi scoperti su 4, privi di guaina perché completamente ossidata, privi di iniezione perché asportata dal degrado originato dalle infiltrazioni dell'acqua meteorica e, soprattutto, alcuni trefoli rotti, con pochi fili per trefolo ancora tesati". Il manuale di sorveglianza e il catalogo difetti approvato da Aspi erano "del tutto inidonei a fornire una rappresentazione completa e veritiera dei difetti esistenti" ed erano espressione della "filosofia manutentiva praticata dalla società che prevedeva che il degrado non fosse prevenuto o affrontato e risolto sul nascere, ma fosse lasciato avanzare e progredire". Vi era da parte di Aspi una "presunzione, del tutto infondata sotto il profilo tecnico-scientifico, di essere sempre in grado di controllarne l'evoluzione nel tempo, in modo da poter intervenire il più tardi possibile, ma, comunque, prima che potessero verificarsi conseguenze troppo gravi ed economicamente dannose, come il crollo del 14 agosto 2018". Spea, dal suo lato "sottostimava sistematicamente i difetti che rilevava, attribuendo voti inferiori a quelli previsti dal manuale, in modo da non costringere Aspi a procedere a interventi manutentivi in tempi brevi, mantenendo inalterata, attraverso disinvolte operazioni di "copia-incolla" e contro ogni legge fisica, la descrizione e la valutazione di gravità dei difetti anche per molti anni, senza fornirne descrizioni tecnicamente idonee e sufficientemente circostanziate per consentire l'individuazione della loro esatta ubicazione e dell'epoca della loro prima rilevazione". Fino al 2008- si legge ancora nelle carte - "nessun sistema di monitoraggio strumentale era mai stato installato sul viadotto, a parte quello destinato a tenere sotto controllo la pila 11, oggetto dei lavori di rinforzo degli stralli, che, installato nel 1995 e rivelatosi un fallimento, veniva abbandonato nel 1998". Dal 2008 "era diventato operativo un (modesto e inidoneo) sistema di monitoraggio statico, limitato al solo impalcato compreso tra i sistemi bilanciati, installato da TECNO-EL, che condivideva con ASPI i relativi dati sulla base di un contratto che ASPI decideva di non rinnovare alla scadenza del 30.6.2014; in data 7.7.2016, i cavi di questo sistema venivano accidentalmente tranciati nel corso di lavori e, da allora, il sistema non veniva più ripristinato". Inoltre, proseguono i magistrati, "nel periodo immediatamente precedente il tranciamento dei cavi (maggio-luglio 2016), il sistema di monitoraggio installato da TECNO-EL aveva evidenziato che gli inclinometri posizionati sulle pile 9 e 10 - ma soprattutto i primi - a differenza di quelli posizionati sulla pila 11, segnalavano movimenti anomali e inattesi dell'impalcato, che avrebbero imposto immediati approfondimenti sulle condizioni della struttura allo scopo di individuarne le cause, ma che venivano totalmente ignorati da Aspi e Spea". In 51 anni, dall'inaugurazione nel 1967 al crollo, non è "mai stato eseguito il benché minimo intervento manutentivo di rinforzo sugli stralli della pila" 9, scrivono i pm. Inoltre, "nei 36 anni e 8 mesi intercorsi tra il 1982 e il crollo, gli interventi di natura strutturale eseguiti sull'intero viadotto Polcevera avevano avuto un costo complessivo di 24.578.604 euro": il 98,01% stati spesi dal concessionario pubblico e l'1,99% dal concessionario privato. "La spesa media annua del concessionario pubblico era stata di 1.338.359 euro (3.665 al giorno), quella del concessionario privato di 26.149 euro (71 al giorno)".
(Il Sole 24 Ore Radiocor Plus il 22 aprile 2021) - Milano, 22 apr - Tra l'inaugurazione del Ponte Morandi, avvenuta nel 1967, e il suo crollo - dunque per 51 anni - non è stato eseguito il benchè minimo intervento manutentivo di rinforzo sugli stralli della pila 9, cioè quella collassata il 14 agosto 2018. Inoltre, nei 36 anni e 8 mesi intercorsi tra il 1982 e il crollo stesso, gli interventi di natura strutturale eseguiti sull'intero viadotto Polcevera hanno avuto un costo complessivo di 24,57 milioni, di cui il 98% spesi dal concessionario pubblico e il 2% dal privato (Aspi), per una media dunque per quest'ultimo di 71 euro al giorno. E' quanto emerge dall'avviso di conclusioni indagini che gli investigatori del primo gruppo della guardia di finanza hanno notificato a 69 indagati, tra cui l'ex numero uno di Aspi Giovanni Castellucci, più le due società Aspi e Spea. Le accuse sono, a vario titolo, di attentato alla sicurezza dei trasporti, falso, crollo colposo, omicidio colposo plurimo, omicidio stradale e rimozione dolosa di dispositivi per la sicurezza dei posti di lavoro. Secondo i pm, l'entità delle spese in manutenzione del concessionario privato non è "giustificabile con l'insufficienza delle risorse finanziarie necessarie, dal momento che aveva chiuso tutti i bilanci dal 1999 al 2005 in forte attivo (utili compresi tra 220 e 528 milioni di euro circa) e che, tra il 2006 e il 2017, l'ammontare degli utili conseguiti da Aspi è variato tra un minimo di 586 e un massimo di 969 milioni di circa, utili distribuiti agli azionisti in una percentuale media attorno all'80%, e sino al 100%". Allo stesso tempo i magistrati fanno notare come dal 2016 ad oggi la concessionaria aveva tuttavia triplicato il massimale assicurativo relativo al viadotto Polcevera da 100 a 300 milioni, indotta dal fatto che - sottolineano - il ponte "almeno sino al completamento dell'intervento di retrofitting sugli stralli delle pile 9 e 10 - presentasse criticità e problemi, i cui rischi, in termini di stabilità e sicurezza dell'opera, non era possibile determinare con precisione, ma che certamente andavano aumentando con il passare del tempo".
Andrea Giacobino per "Affari & Finanza - la Repubblica" il 22 aprile 2021. L'ex titolare della Candy entra nella società di private equity, che ha rinviato il lancio del primo fondo. E intanto risistema le attività nel mattone L' ex top manager che voleva farsi imprenditore ha ceduto il passo all' ex imprenditore che vuole diventare manager. È anche questo il senso del passaggio avvenuto qualche giorno fa a Milano quando si sono riuniti gli azionisti della Koinos Capital Partners Sgr, società di gestione di fondi lanciata nel 2019 da Gianni Mion, già top manager dei Benetton e presidente di Edizione, holding della dinastia di Ponzano Veneto. Durante l' assemblea è stato annunciato che in consiglio d' amministrazione veniva cooptato Beppe Fumagalli, l' imprenditore monzese già proprietario col fratello Aldo del gruppo di elettrodomestici Candy, venduto tre anni fa per 475 milioni di euro al colosso cinese Qingdao Haier. L' ingresso nel board della società di gestione anticipa il secondo step: Fumagalli rileverà il 31,5% della sgr in mano a Mion e il 7,5% di Carmine Meoli, ex consigliere di Autogrill, diventandone così il primo azionista. E si troverà in mano una realtà finalizzata al private equity che avrebbe dovuto lanciare già a inizio 2020 un fondo con una dotazione di 80 milioni di euro per puntare ad acquisizioni di Pmi. Mion e i suoi, però, non hanno avuto fortuna e ora Fumagalli, alla vigilia dei suoi 60 anni, metterà in campo l' esperienza di investitore proprio nel private equity, che in tandem col fratello ha sviluppato negli ultimi tre anni dopo la vendita di Candy. I due Fumagalli marciano separati per colpire uniti: il veicolo di Aldo è Alisei Forinvestments, quello di Beppe si chiama Buenafortuna Capital. I due sono soci paritari in Albe Finanziaria: nata nel 2017 con un patrimonio netto di soli 18 mila euro, l' ha visto crescere in tre anni oltre i 180 milioni nel bilancio chiuso a fine 2019 (grazie alla contabilizzazione di parte della vendita della Candy), dove figurano 54 milioni di investimenti e ancora 90 milioni di liquidità. Il principale asset è il 42% di Emera, veicolo nel cui consiglio d' amministrazione i fratelli sono entrambi presenti e primo azionista col 18% di Eurotech, la quotata della Carnia diventata un gigante nella produzione di computer miniaturizzati e che ha appena nominato Paul Chawla nuovo amministratore delegato. Con Albe Finanziaria, poi, i Fumagalli nello scorso settembre hanno comprato per 16 milioni proprio da Candy le due società agricole Cea e Capodimonte. I due fratelli coi rispettivi veicoli hanno investito in fotocopia rilevando quote identiche di Boox, Genenta Science, The Equity Club, Itaca Equity Holding e Techwald Holding. Boox è un "salottino" che ha il 12% del sito Tanni dedicato alla vendita di vino e liquori, oltre a un chip del 3,5% in Velasca, il marchio di scarpe su cui ha puntato anche Angelo Moratti. Genenta Science sviluppa terapie cellulari e tra i soci vede l' ospedale San Raffaele di Milano, i Ferragamo, i Riello e i Rovati. The Equity Club e Itaca Equity Holding sono i due club deal lanciati rispettivamente da Mediobanca e Gianni Tamburi mentre Techwald Holding è una società torinese di investimenti in aziende farmaceutiche di avanguardia, guidata da Alessandro Piga. Mentre Aldo Fumagalli come persona fisica ha appena rilevato il 70% della squadra monzese Pro Victoria Pallavolo che milita nel campionato di serie A1 femminile, entrambi i fratelli attraverso la più piccola delle loro società in comune, denominata Beldofin, qualche settimana fa hanno comprato per 6,6 milioni il 50% restante dell' immobiliare Barbara Srl dalle sorelle Elisa e Laura. Con le quali, in ogni caso, restano nel mattone con la Roda, il cui asset principale è la proprietà del golf club di Puntaldia, il green in Sardegna a nove buche.
Sandro Iacometti per "Libero Quotidiano" il 21 aprile 2021. Un operaio, un capomastro, un capocantiere? Difficile dirlo, ad oltre mezzo secolo di distanza. Sta di fatto che qualcuno nel 1967, a pochi mesi dal collaudo dell'opera commissionata dall'Anas e realizzata dalla Società italiana per Condotte d'Acqua, ha riempito la parte terminale di un tirante della pila 9 del Ponte Morandi (quello, per intendersi, che il 14 agosto del 2018 è andato in pezzi, provocando il cedimento della struttura e la morte di 43 persone) con pezzi di legno, iuta e carta da imballaggi. Tecnica consolidata? Innovazione ingegneristica? Macché, materiale di fortuna per tentar e di rimediare ad un errato posizionamento di cavi metallici e guaine all'interno del getto di calcestruzzo che ha provocato cavità e difformità in grado di compromettere l'integrità, la resistenza e la protezione alla corrosione dell'intero blocco. È da questo difetto di costruzione che bisogna partire per capire fino in fondo non solo cosa sia successo al Viadotto di Polcevera quella maledetta vigilia di ferragosto, ma anche cosa sia successo prima. Quando, come sostengono gli stessi periti del tribunale di Genova, si potevano mettere in atto azioni e comportamenti che, «con elevata probabilità, avrebbero impedito il verificarsi dell'evento». Sì, avete capito bene. La tragedia, forse, poteva essere evitata. Vediamo perché. Che il cedimento sia stato determinato dal collasso di quella parte della struttura sembra assodato. «La causa scatenante il crollo», si legge nella perizia del secondo incidente probatorio depositata il 21 dicembre 2020, «è la corrosione della parte sommitale del tirante Sud-lato Genova della pila 9». Una corrosione, attenti bene, «che ha avuto luogo in zone di cavità e mancata iniezione formatesi all'atto della costruzione» e che è cominciata «sin dai primi anni di vita» dell'opera. Prima domanda: chi sapeva? Che i cavi primari di uno degli stralli (così si chiamano i tiranti) fossero totalmente fuori posto e, per questo motivo, in uno stato di avanzato ammaloramento e che la parte terminale fosse piena di robaccia (tecnicamente "materiali estranei") è stato accertato ufficialmente solo qualche mese fa, nel corso delle analisi effettuate dai tecnici nominati dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Genova. Ma che il fatto fosse ignoto a chi ha posato le prime pietre è tutto da verificare. Scrivono i periti: «Il 132 (la sella lato Sud posta in sommità della antenna della pila 9 che fungeva da supporto ai tiranti), fra tutti i reperti analizzati, ha evidenziato la presenza di un rilevante difetto di costruzione. Considerata l'entità del difetto e gli effetti che esso produsse, sicuramente esso fu ben visibile e percepibile da parte degli operai e del direttore del cantiere, se il difetto fosse stato condiviso con il progettista e con il direttore dei lavori non si può sapere, però, considerato che esso può essere stata la causa di alcune modifiche introdotte nella costruzione dei tiranti, non si può escludere che la circostanza fosse stata condivisa con il progettista e con il direttore dei lavori per decidere le azioni da intraprendere». Ipotesi impossibili da confermare, almeno in base a quella poca documentazione dell'epoca scovata a fatica dalla Gdf negli archivi dell'Anas, di Aspi, nelle direzioni territoriali delle società coinvolte e, in alcuni casi, anche nei cassetti delle famiglie dei progettisti. Quello che si sa con certezza è che in fase di collaudo l'unicità assoluta dei cavi fornita dalle decine di centimetri di solido calcestruzzo precompresso che li circondano. Da un punto di vista pratico, quelle evidenze spingono Zannetti a chiedere che le pile e i tiranti vengano interamente ricoperti con vernici idrorepellenti. Negli stessi anni, anche lo stesso Morandi si arrende all'evidenza. In un articolo del '79 ammette che «le fessure possono a lungo termine provocare danni alla conservazione della armatura a causa dell'infiltrazione di umidità ed altre cose». Identico il consiglio: è opportuno sigillare e coprire le superfici esterne. Passano gli anni e la situazione peggiora. Nel 1981 Morandi scrive una relazione sullo stato di conservazione del viadotto in cui evidenzia, tra le altre cose, «danni al calcestruzzo con distacchi di parti di esso per effetto di ossidazione delle armature», «fessurazioni di solette, pareti, pilastri, tiranti», «aggressione di natura fisico-chimica delle superfici esterne del calcestruzzo». Pure lui, questa volta, vede sulle antenne e sui tiranti «qualche traccia di infiltrazione d'acqua con macchie di ruggine». Complessivamente, il ponte è oggetto di un processo di degradazione «tale da temere nel prosieguo qualche incidenza alla sua consistenza statica». Quanto ai tiranti, Morandi conferma la necessità di rivestirli «con vernice impermeabilizzante ad alta resistenza chimica» e ne consiglia anche una accurata ispezione con i raggi x (che d'altra parte non avrebbero mai rilevato il difetto della pila 9). Non è tutto. Chiede anche che vengano completate le iniezioni all'interno delle guaine «qualora queste risultino mancanti o difettose». Il che implica, scrive il perito delle parti civili, «che avesse per lo meno il dubbio che in fase di esecuzione le cose non fossero andate per il verso giusto». Non è finita. Nel 1985 scende in campo il capo della manutenzione di Autostrade Gabriele Camomilla, che confonde un po' le acque. L'ingegnere stende una dettagliata relazione sugli interventi da fare con tre priorità. Verificare lo stato di conservazione degli stralli è l'ultima. Anche lui, comunque, dopo aver suggerito di eseguire dei saggi per «valutare lo stato dei cavi solo se i calcestruzzi saranno risultati più o meno nelle condizioni di funzionamento previste», sostiene che «sarà probabilmente necessario un provvedimento di protezione (verniciatura) con materiali elastici». Sebbene, avverte, «limitatamente alle zone più degradate». Camomilla, malgrado proprio a lui l'allora Società Autostrade Concessioni e Costruzioni abbia affidato la sicurezza del ponte, sembra il meno preoccupato, ma è l'ennesimo tecnico che invoca l'impermeabilizzazione. Conseguenze? Nessuna. Interventi? Idem. Fossero o meno i tecnici a conoscenza del vizio originario e fossero o meno tutti preda di un timore reverenziale nei confronti del maestro, la storia del ponte arriva al suo primo bivio. Zannetti prima, lo stesso Morandi poi e infine Camomilla lasciano intendere che il ponte potrebbe avere problemi ai tiranti e dicono che necessita di una impermeabilizzazione. Operazione che, con tutta probabilità, avrebbe potuto ritardare di molto la corrosione dei cavi primari all'interno della pila 9. Perché nessuno (all'epoca Autostrade, società dell'Iri, è concessionaria e l'Anas concedente) muove un dito? Mistero.
Alessandro Fulloni per "corriere.it" il 17 aprile 2021. «Papà, ma io non ero manco mai andato a Genova... a vedere questo ponte». Sono le 7 e 01 del 28 marzo 2019 e Roberto Salvi, membro operativo del «risk management» di Autostrade per l’Italia, telefona al padre Luciano per confidargli ciò che il giorno prima ha raccontato agli investigatori della Guardia di Finanza di Genova che lo hanno ascoltato a lungo. Quello che i due non sanno è che la loro conversazione è intercettata. A leggerlo adesso il contenuto (rivelato, tra gli altri, nell’edizione del Fatto Quotidiano di venerdì in un articolo di Marco Grasso) si rivela piuttosto surreale.L’indagine è quella sul crollo del ponte Morandi che il 14 agosto 2018 ha provocato 43 morti. Roberto Salvi (chiariamolo subito: non è indagato) ha svolto a lungo un compito di non poco conto per Atlantia: è stato uno degli estensori dei cataloghi nei quali sono classificati i pericoli per tutte le infrastrutture gestite sulla rete Aspi. Tra cui, appunto, il viadotto sul Polcevera. Che lui però non ha mai visto. E questo nonostante nel monitoraggio — trovato dalle Fiamme Gialle nel registro elettronico di Atlantia — si parlasse di «rischio crollo per ritardate manutenzioni» già dal 2013. Al papà lo ha ripetuto più volte: «Io non ero manco mai andato a Genova...». Quando qualcuno gli chiese di fare «un’analisi sui rischi catastrofali... ho detto ok... ma lì mi son posto il problema... quali possono essere eh... non lo so...». Riflettendo tra sé e sé, il «chief financial officer and risk manager» di Autostrade tech, fa qualche congettura al telefono sotto controllo: «Per esempio potrebbe essere quello della caduta di un aereo sull’autostrada... che scavando scoppia una conduttura e tutti i lavoratori muoiono eh... magari un ponte che cade...». Per avere le idee più chiare, Salvi andò «da quello che si occupa dei ponti» per chiedergli «ma secondo te, c’è qualche ponte... potrebbe esserci una catastrofe?». La risposta, dice Salvi al telefono con il padre, fu più o meno questa: «“Ma sì, vabbé i ponti sì, ma catastrofe, cose eccetera... l’unica catastrofe è questa qua... guarda”... mi apre il computer, mi fa vedere... “vedi questo qua...”». Ecco, «questo qua» è riferito al Morandi: che «“passa sopra la ferrovia, sopra i palazzi e ti rendi conto da solo che se cadesse qualcosa...” e beh, allora questo lo posso mettere come controlli ... cioè è nata così». Insomma: come riassumono gli investigatori, il documento di rischio è stato partorito in questo modo, con Salvi che a «vedere il ponte Morandi non c’è mai stato». Ma le Fiamme Gialle precisano anche che «per quanto riguarda i documenti presi e il discorso del rischio» il dirigente ha affermato «che in base a quanto scritto era poi l’azienda che doveva fare le valutazioni in merito». Al padre, Roberto indica tre colleghi (con «nome e cognome» scanditi pure alla Finanza): «Ragazzi... questi potevano fare le verifiche, perché non le hanno fatte? Perché non hanno scelto quel tema nel piano di audit? Diranno perché ho avuto altre priorità... perfetto! Chi te le ha date le altre priorità?». E ancora: se c’erano dei «rischi alti» con «che criterio hai fatto questo e non hai fatto quello?». Non finisce qui. Dopo aver detto a papà Luciano che i superiori si sono comportati all’insegna della «negligenza metodologica», Salvi osserva: «Questi vogliono fare i direttori, pigliarsi la macchina tremila di cilindrata, pigliarsi i soldi e poi dopo non vogliono pigliarsi le... ma rispondessero pure loro». Dalle carte, si scopre pure che il «rischio crollo del Polcevera in caso di ritardata manutenzione» di cui il catalogo parlava nel 2013 diventa un più generico «rischio crollo» nell’aggiornamento del 2015. Edulcorazione spiegata da Salvi come frutto di un «ragionamento metodologico»: la prima versione era «limitativa» e nella seconda «ci comprendi tutte le possibilità». Dal maresciallo apprende che i sensori che avrebbero dovuto monitorarne i cedimenti, dal Morandi «erano spariti». Erano quelli dal costo irrisorio e che probabilmente vennero strappati via per errore dagli operai di un cantiere. Lui sgrana gli occhi: «Non lo sapevo... non avevo il compito di verifiche sul campo... Altrimenti avrei cambiato le mie valutazioni».
Da “Anteprima. La spremuta di giornali di Giorgio Dell’Arti” il 17 marzo 2021. «Noi abbiamo lavorato come c’han sempre detto... ovvero alla cazzo perché se va a vedere un ponte di giorno... eh ci siamo mai andati di giorno? No… perché non han chiuso prima? Per il traffico, eh beh, chiudi tre ore e ci vai… Cioe, vai a vedere un ponte di notte? Chiudi e lo vai a vedere di giorno, non vai di notte con le lampade». E arrabbiato Marco Trimboli, tecnico della Spea, la società del gruppo Benetton che si occupava della manutenzione del viadotto crollato il 18 agosto del 2018 facendo 43 vittime. Ne parla al telefono con il collega Massimo Ruggeri, entrambi indagati nell’ambito del procedimento sul disastro, senza immaginare che dall’altra parte del filo, ad ascoltarli, c’erano gli uomini della Guardia di Finanza di Genova che indagavano sulla vicenda. E un’intercettazione del 29 ottobre 2018, anticipata dal Secolo XIX. Stessi toni usano gli ex dirigenti di Autostrade per l’Italia, Paolo Berti e Michele Donferri Mitelli. Quest’ultimo, responsabile delle manutenzioni, a un certo punto sbotta: «Ma io non so... cosa mandavano i ciechi! Mandavano i ciechi a fare ispezioni questi! I ciechi!». Si tratta di conversazioni considerate rilevanti dagli inquirenti che le hanno messe a disposizione delle difese. Gli stessi inquirenti, guidati dal procuratore Francesco Cozzi, che in queste ore hanno fatto l’elenco delle accuse provvisorie nei confronti dei 68 indagati per il disastro, come chiesto dal gip Angela Nutini, che sta gestendo la vicenda intercettazioni.
Francesco Bonazzi per “la Verità” l'11 giugno 2021. Tre uomini dello Stato che per la famiglia Benetton valgono tanto oro quanto pesano. Tre grand commis capaci di resistere al cambio di tre governi in una sola legislatura. I loro nomi sono Alberto Stancanelli, Luigi Carbone e Roberto Chieppa. Tre esperti di diritto amministrativo, che da anni fanno la spola tra i ministeri e Palazzo Chigi e che per due anni hanno trattato con gli uomini di Ponzano Veneto l'affare Autostrade. Un affare per il venditore Atlantia, visto che lo Stato, come ha spiegato La Verità domenica scorsa, ha offerto 21,3 miliardi per rilevare Aspi, andando a spendere 7,37 miliardi in più di quanto avrebbe dovuto versare se avesse semplicemente esercitato il diritto di recesso. E se Stancanelli e Carbone, in quanto capi di gabinetto dei due ex ministri competenti sul dossier, ovvero Roberto Gualtieri (Mef) e Paola De Micheli (Mit), avevano più di un buon motivo per sedersi a quel tavolo, Chieppa invece era ed è il segretario generale di Palazzo Chigi. E la sua presenza era decisamente impropria. Ma in quanto braccio destro dell'ex premier Giuseppe Conte, doveva controllare e gestire le trattative per conto del sedicente «avvocato del popolo». Ai tempi del primo governo Conte, il premier e i principali esponenti del Movimento 5 stelle, da Luigi Di Maio a Stefano Patuanelli e Danilo Toninelli, avevano più volte minacciato la revoca delle concessioni ad Aspi, dopo che il 14 agosto 2018 il ponte Morandi era crollato per somma incuria e aveva ucciso 43 persone. Il giorno dopo la tragedia, di ritorno dalla camera ardente di Genova, Conte proclamò: «Revocheremo le concessioni ad Autostrade, perché non possiamo aspettare la giustizia». E il 14 agosto dello scorso anno, nel secondo anniversario della tragedia, raccontò ai parenti delle vittime: «Non voglio essere polemico, sicuramente è stato un negoziato faticosissimo e durissimo. Ancora aspettiamo di mettere le firme sull' accordo finale». Mentre Di Maio, anche dopo la scelta di restare al governo con un Pd storicamente legatissimo ai Benetton, faceva ancora la faccia feroce: «La revoca rimane sul tavolo, non è mai stata è esclusa». Ma la «non esclusione» era solo l'ennesimo gioco di prestigio verbale, dopo il capolavoro del «procedimento in corso per la caducazione delle concessioni» tirato fuori da Conte (primo ottobre 2019). La verità è che la revoca è sempre stata una minaccia finta e che avrebbe scatenato una guerra giudiziaria con Atlantia dai costi imprevedibili. Per questo, anziché ricoprire di miliardi la dinastia dei golfini, sarebbe bastato esercitare il diritto di recesso e poi aspettare serenamente che i manager dei Benetton se la vedessero con la giustizia. Il fatto più grave, però, è che la trattativa è stata gradualmente allontanata dai riflettori, dal Parlamento, dalla politica. E si è svolta, con il pieno assenso di Conte, su tavoli come secretati. E l'ha gestita Chieppa, che non era un capo di gabinetto come i colleghi Carbone e Stancanelli, ma il segretario generale della presidenza del Consiglio, il quale per legge si occupa del personale di Palazzo Chigi, del suo funzionamento e della gestione amministrativa. Invece, incontrando regolarmente il capo di Atlantia, Carlo Bertazzo, Chieppa si è occupato anche di trattare con dei concessionari sospettati di strage colposa. Il trio di mandarini ha anche scritto l'accordo del 14 luglio 2020 con il quale Atlantia si impegnava a vendere l'88% di Aspi a una cordata guidata da Cdp e composta dai fondi esteri Macquarie e Blackstone. Chieppa ha poi messo la firma sotto la lettera del 20 settembre scorso, con la quale il governo intimava ad Atlantia di rispettare quell' accordo, in una fase in cui sembrava che i Benetton volessero scatenare un'asta con gruppi privati sul prezzo di Aspi. Una lettera così «dura», che hanno poi ripetuto il giochetto con la fantaofferta spagnola di Florentino Perez. E sempre il terzetto di grand commis ha seguito le trattative con Atlantia sul prezzo da pagare. Anche qui, nulla è accaduto alle spalle dell'avvocato del popolo. Del resto, Chieppa era in tutto e per tutto il suo grande orecchio, anche se al Copasir stanno ancora aspettando che si presenti a riferire sulla misteriosa vicenda del finto hackeraggio dell'account Facebook di Conte, accaduto a metà gennaio. Il prezzo riconosciuto ai privati si base sull' offerta del consorzio è calibrato sulla promessa strappata dai consulenti di Blackstone e Macquarie, ovvero Fulvio Conti e Claudio Costamagna, di avere una remunerazione del 10%, e verrà pagato dagli automobilisti. I margini sono garantiti dal Piano economico finanziario di Aspi, che la De Micheli aveva prontamente firmato, ma che va approvato dal Cipe. Quando il Cipe era diretto dal sottosegretario Riccardo Fraccaro (M5s), il timbro sul Piano non è mai arrivato. Ora la patatona bollente è nelle mani di Teresa Bellanova, viceministro alle Infrastrutture. Dopo il famoso «accordo» di luglio, l'allora ministro delle Politiche agricole dichiarò: «La soluzione alla vicenda Autostrade che il Consiglio dei ministri ha individuato nella notte [] avvalora la necessità di un percorso accorto nella relazione tra pubblico e privato e va nella direzione da noi auspicata: una soluzione bilanciata che fa salvo l'interesse della collettività e la credibilità dell' Italia come sistema Paese». Adesso che la pasionaria renziana ha l'occasione di poter fermare un regalo da sette miliardi ai Benetton, cinque dei quali grazie a un escamatoge fiscale, si apprezzerà la sua nozione di «soluzione equilibrata». Lo stesso vale per Matteo Renzi, che due anni fa vigilava sul rischio «regali ai concessionari» e oggi gira alla larga dal dossier. Una trattativa, quella Stato-Benetton, condotta ben al riparo da occhi indiscreti.
Marco Fagandini,Matteo Indice per “la Stampa” il 16 ottobre 2021. L'udienza che doveva rappresentare un concentrato di tecnicismi assume infine connotati (soprattutto) politici, più precisamente di pura realpolitik. Per la strage del Ponte Morandi - 43 vittime il 14 agosto 2018 a Genova, nel crollo del viadotto sull'A10 - la presidenza del Consiglio dei ministri e il ministero delle Infrastrutture, attraverso l'Avvocatura dello Stato, chiedono di costituirsi parti civili. Lo fanno contro tutti gli imputati per lo scempio di tre anni fa, tranne Autostrade per l'Italia, che è indiziata in quanto società ai sensi d'una legge specifica. È una scelta chiara e nettissima e matura a valle di due passaggi nodali: l'ingresso dello Stato stesso in Aspi attraverso Cassa depositi e prestiti, che dev' essere solo suggellato ma è ormai un dato di fatto; e soprattutto l'accordo stragiudiziale raggiunto negli ultimi giorni fra concessionario, ministero ed enti locali (Comune di Genova e Regione Liguria) che prevede un miliardo e mezzo di ristori al territorio in prevalenza sotto forma di finanziamenti a infrastrutture(vedi approfondimento nella pagina accanto). Lo Stato, quindi, entra nel processo e mette nel mirino pure una decina di suoi dirigenti e funzionari, poiché una parte degli imputati sono tuttora in servizio proprio al ministero, accusati di non aver vigilato accuratamente sulle omissioni del gestore privato; tuttavia non può farlo contro un'azienda che rappresenterà a breve una parte di se stesso e risarcirà in modo significativo il territorio che ha ferito. A loro volta, Comune e Regione chiedono al momento di poter procedere contro tutti, Autostrade inclusa. Ma in particolare la Regione, con una serie di dichiarazioni pubbliche, fa capire senza troppi fronzoli che non appena i soldi arriveranno, la costituzione nei confronti di Aspi sarà ritirata. La declinazione precisa delle scelte governative sul processo Morandi modifica in serata l'atteggiamento dei familiari di chi nel disastro perse la vita. Egle Possetti, presidente del Comitato ricordo vittime del Ponte Morandi, uscendo dal tribunale alla conclusione dell'udienza aveva espresso parole di apprezzamento: «Sappiamo che la decisione è maturata nelle ultimissime ore, è un segnale per noi importante» aveva rimarcato. Quando ha preso corpo la notizia dell'esclusione di Autostrade dai soggetti contro i quali si muove l'esecutivo, la posizione è radicalmente mutata: «Una vergogna, un passaggio inquietante preludio ad accordi con cui si manda al macero la memoria di 43 persone, lo Stato nega la sua funzione di equità». Sul piano strettamente giudiziario va invece ricordato che ieri si è materializzata l'indiscrezione trapelata nei giorni scorsi. Gli avvocati di otto ex dirigenti di Autostrade per l'Italia - tra loro i difensori dell'ex amministratore delegato Giovanni Castellucci - hanno ricusato la giudice dell'udienza preliminare Paola Faggioni. Lo stesso magistrato era stato infatti il gip che aveva disposto misure cautelari nei confronti di quelle otto persone in un procedimento parallelo, sull'installazione di barriere fonoassorbenti pericolose. Nel motivare i provvedimenti, Faggioni aveva inserito alcune considerazioni sul comportamento degli indagati nella gestione del Ponte Morandi, motivo per il quale ai loro occhi ha maturato un pregiudizio e non è «equanime». Sul caso si pronuncerà entro dieci giorni il presidente della Corte d'Appello: se l'istanza sarà accolta, Faggioni dovrà essere avvicendata, l'udienza preliminare ripartirà daccapo e i tempi slitteranno. In attesa del pronunciamento, e per dare alle difese la possibilità di replicare ai vari soggetti e alle associazioni che hanno chiesto appunto di costituirsi parte civile, ci si rivedrà in tribunale l'8 novembre. Il processo è a carico di 59 fra dirigenti e tecnici, o ex, di Autostrade, Spea e ministero delle Infrastrutture, con accuse a vario titolo di omicidio colposo plurimo, falso e attentato alla sicurezza dei trasporti e nel mirino ci sono in primis le mancate manutenzioni.
Ne valeva la pena? La cacciata dei Benetton da Autostrade ci è costata 7,9 miliardi: tutti i buchi lasciati da Conte. Claudia Fusani su Il Riformista il 4 Giugno 2021. Ci sono storie che sono “capolavori” di spreco e non-sense. Condividono un fattore comune: portano la firma di quelli che dicono No, spesso a prescindere, altrettanto spesso per questioni di principio che poi si rivelano, alla prova dei fatti, dannose e controproducenti. «Abbiamo cacciato i Benetton fuori da Autostrade. Detto/fatto» hanno gridato, dopo i 40 morti del ponte Morandi, i leader del Movimento 5 Stelle di volta in volta in compagnia di chi tra le altre forze politiche spingeva di più, in quel momento, sul pedale del populismo. Dopo tre anni i Benetton sono stati in effetti cacciati e per farlo il paese ha pagato 7,9 miliardi. Ne valeva la pena? «Nessun gasdotto per nessuna ragione mai toccherà la terra di Puglia» è stato il grido che ha portato in Parlamento, già dal 2013, molti parlamentari grillini che credevano di essere diventati “politici” e “portavoce” dando vita ai Comitati No-Tap, la Trans Adriatic Pipeline, il gasdotto che parte a Kipoi (confine tra Grecia e Turchia dove è collegato con un altro gasdotto), attraversa la Grecia settentrionale, l’Albania e sbuca sulla bellissima spiaggia di San Foca, cuore del Salento pugliese. Insomma una infrastruttura strategica di cui l’italiana Snam è proprietaria al 20% che non solo avrebbe messo l’Italia al centro del mercato del gas, ma ci avrebbe aiutato a calmierarne il prezzo. Il problema di queste storie è che quando smettono, per un motivo o per l’altro, di smuovere consenso vengono dimenticate. Un peccato perché regalano una morale preziosa. Un post del sottosegretario alle Infrastrutture Teresa Bellanova (Iv, anche Renzi e il sottosegretario Scalfarotto sono intervenuti sul punto) ha aiutato ieri a rinfrescare la memoria: il gasdotto funziona e si è confermato una infrastruttura strategica; la costa non ha subito alcun danno ambientale e i famosi ulivi, ben 200 che dovettero essere espiantati per il cantiere e poi piantati di nuovo, sono vivi e vegeti e anche gli unici, nella zona, a non aver sofferto per la Xylella. Peccato per il tempo e anche per i soldi persi. «Dicevano che avremmo distrutto la costa, sradicato gli ulivi, devastato il territorio» scrive Bellanova. «Ancora una volta il tempo ci ha dato ragione: la TAP funziona e si conferma un’infrastruttura strategica per la diversificazione energetica, il Mezzogiorno e l’Italia. Il territorio è rimasto intatto, l’ambiente è salvaguardato e tutelato, gli ulivi sono stati ripiantati, il mare, splendido, è stato premiato anche quest’anno con la Bandiera Blu». Fosse solo per il tempo perso, uno potrebbe allargare le braccia e consolarsi col fatto che ogni tanto capita di prendere abbagli. Il dramma è che i No-Tap, complice anche qualche governo, hanno perso ben 55 milioni che, spiega Bellanova, «sono il valore degli investimenti per il territorio messi in campo dal Consorzio Tap al tempo dei governi Renzi e Gentiloni». Tap aveva acconsentito, in cambio del disturbo arrecato dal cantiere, a costruire una pista ciclabile, pagare corsi di formazione e altri interventi per il recupero di quel tratto di costa. Risorse, dice Bellanova, «volatilizzate per colpa dei signori del No per cui il-Tap né-ora-né-mai e a causa dei giri di valzer del primo governo Conte che deve ancora spiegare come e perché dai 55milioni si era passati a 30 e poi anche i 30 sono finiti nel dimenticatoio». La questione fu questa: accettare quei soldi voleva dire accettare anche l’infrastruttura. A cui poi lo stesso Conte fu costretto a dire sì. Come in seguito è successo anche per la Tav. Un altro capolavoro di quelli-che-dicono-No e che poi restano prima prigionieri e poi vittime della loro stessa propaganda riguarda Autostrade. Il grido di guerra “fuori i Benetton da Autostrade” ha rimbombato nelle nostre orecchie in questi tre anni. All’inizio di più, col tempo sempre meno. La scorsa settimana quando “finalmente” i Benetton sono stati messi alla porta come promettevano i 5 Stelle ma anche Fratelli d’Italia e talvolta pure la Lega, il grido di battaglia è diventato flebile. Eppure doveva essere il momento dei cartelli e dello champagne in piazza. Ad esultare, invece, sono stati proprio i Benetton perché se Atlantia, società da loro controllata, ha ceduto Aspi (Autostrade per l’Italia) alla cordata guidata da Cassa Depositi e Prestiti e i fondi Macquarie e Blackstone, Atlantia, e quindi i Benetton, si ritrova in cassa 7,9 miliardi. Con la cessione dell’88% di Aspi, Atlantia ha ceduto anche l’obbligo a realizzare nuovi investimenti, opere di manutenzione e migliorie strutturali. Investimenti per miliardi di euro, già in programma e che adesso si dovranno accollare i nuovi proprietari. Tutte cose che potevano, anzi dovevano, essere realizzate in questi tre anni dove invece il grosso è rimasto congelato perché lo “Stato doveva far fuori i Benetton da Autostrade”. Ancora una volta, ne valeva la pena? Non sarebbe stato più conveniente, dopo la tragedia del ponte Morandi, pretendere subito da Aspi titolare della concessione fino al 2038 un maggiore impegno a risarcire danni e dolore? Quelli del No proliferano anche grazie alla giungla della burocrazia, all’intreccio di veti, autorizzazioni e permessi che non sempre sono sinonimo di interventi produttivi e nel rispetto dell’ambiente. Un paese veramente semplificato, cioè deburocratizzato, dovrebbe diventare ostile alle mafie e ai clan. Ma anche a quelli del No.
Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.
Maurizio Belpietro per “la Verità” il 6 giugno 2021. Siccome i circa 10 miliardi di dividendi incassati nel corso degli anni non parevano sufficienti a soddisfare la voracità dei Benetton, lo Stato ha deciso di ricomperarsi a caro prezzo la concessione di Autostrade, pagando il gruppo veneto con altri miliardi e facendosi carico dei numerosi, e costosi, investimenti necessari per mettere in sicurezza la rete viaria italiana. Ma, come se non bastasse aver pattuito una buonuscita che consentirà alla famiglia di Ponzano di mettersi in tasca quasi 2,5 miliardi, ai fratelli a colori è stato fatto un altro regalo, con un maxi sconto fiscale. La storia è raccontata nei dettagli in queste pagine dal nostro Francesco Bonazzi il quale, non essendo abituato ad accontentarsi né dei comunicati ufficiali né delle versioni di comodo, ha preferito fare due conti, scoprendo come ciò che i 5 stelle presentano come una grande vittoria dello Stato sia, per le casse del medesimo, una pesante sconfitta. Sintetizzo in breve ciò che il collega racconta più diffusamente senza dimenticare alcun dettaglio. La sostanza è questa: se, dopo il crollo del ponte Morandi, il governo avesse fatto ciò che Giuseppe Conte aveva promesso, ovvero avesse receduto dalla concessione ad Autostrade (la famosa «caducazione» evocata a cadaveri ancora caldi da colui che ancora si definiva l'avvocato del popolo) lo Stato avrebbe dovuto sborsare 19,1 miliardi. Una cifra mostruosa che in molti, e noi tra questi, avremmo ritenuto non dovuta, visto com'era mantenuto un bene finanziato con le tasse dei contribuenti. Ma a prescindere dal fatto che tale somma dovesse essere pagata o meno, una buona parte sarebbe tornata nelle casse pubbliche sotto forma di tasse. Bonazzi ha calcolato che le imposte introitate dal fisco sarebbero state pari a 5,3 miliardi e dunque, Benetton e soci avrebbero messo in tasca 13,8 miliardi. Troppi? Sì. Un' enormità soprattutto considerando ciò che è successo sul Morandi. Tuttavia, non aver innescato il recesso, ma avere avviato una procedura che condurrà all'acquisto di Autostrade da parte di Cassa depositi e prestiti e di alcuni fondi d'investimento, comporterà per lo Stato una spesa maggiore e per i Benetton un incasso superiore al previsto. Non ci credete? Basta fare due conti, come li ha fatti Bonazzi. In caso di recesso, come abbiamo visto, la spesa netta per il governo sarebbe stata di poco inferiore ai 14 miliardi. Per effetto invece dell'offerta presentata da Cassa depositi e prestiti e dai soci, a Benetton e compagni andranno 9,1 miliardi, a cui forse si aggiungeranno 400 milioni di indennizzo Covid. In totale, dunque, lo Stato pagherà 9,5 miliardi e mezzo, in apparenza molti meno rispetto al costo della «caducazione» della concessione. O per lo meno questo è ciò che sembra. Infatti, ai soldi che ufficialmente sono iscritti per l'operazione bisogna aggiungere 8,8 miliardi di debito, che prima pesavano sulle spalle della famiglia veneta e da domani ricadranno su quelle degli acquirenti, vale a dire degli italiani. Già qui si capisce che l'affare sia molto meno conveniente di quanto si dice, ma se a ciò si aggiunge che i soli indennizzi per il crollo del Ponte Morandi rischiano di costare allo Stato 3,4 miliardi, a cui si dovranno probabilmente aggiungere i costi legali, beh si capisce che l'affare non lo ha fatto il Paese, ma i fratelli dei maglioni a colori. Mettendo insieme le cifre, tra quelle che saranno liquidate alla famiglia veneta e quelle che si rischia di dover liquidare tra investimenti e danni, si arriva a 21,3 miliardi, 7,3 in più dell'ipotesi iniziale di «caducazione» della concessione. Non è finita. Se già c' è da farsi venire un travaso di bile per il regalo fatto ai Benetton, a mandare su tutte le furie qualsiasi persona di buonsenso è il fatto che, a seguito delle plusvalenze, il gruppo veneto pagherà qualche cosa di più di alcune briciole. Infatti, mentre ai comuni mortali è applicato un salasso, in questo caso ci si dovrebbe fermare al 5 per cento della plusvalenza, che tradotto in valori assoluti significherebbe all' incirca un centinaio di milioni su un guadagno di circa 2 miliardi.
Francesco Bonazzi per “la Verità” il 6 giugno 2021. «Chi commenta dicendo che abbiamo regalato soldi ai Benetton sbaglia. Ai Benetton abbiamo tolto parecchi miliardi che sono quelli in più che avrebbero incassato se avessero mantenuto la gestione dei 3.000 chilometri di autostrade per gli altri 20 anni previsti». Parola del grillino Danilo Toninelli. In questi giorni, l'ex ministro delle Infrastrutture del Conte uno, saltato come un birillo più che altro per propri demeriti, e prontamente rimpiazzato dalla piddina Paola De Micheli, è impegnato a promuovere su Facebook il proprio libro denuncia. S' intitola Non mollare mai e l'ha dovuto pubblicare con la vituperata Amazon, scelta che gli sta costando anche un mezzo processo da parte dei suoi seguaci. Gli altri esponenti del M5s, dopo l'assemblea di Atlantia di lunedì scorso che ha accolto l'offerta presentata dalla cordata di Cdp per Autostrade per l'Italia, sono stati più prudenti. Bocche suturate anche nel Pd e in tutta la «sinistra autostradale», quella solida corrente transgenica che parte dalla sinistra Dc di Fabrizio Palenzona e Romano Prodi e arriva al Pd di oggi con Enrico Letta e Graziano Delrio. Per due anni e mezzo hanno lasciato sfogare forcaioli e tribuni del popolo, si sono capiti al volo con un principe del cavillo come Giuseppe Conte, hanno fatto terrorismo sui costi di una lite con i Benetton e alla fine, alla faccia di Toninelli, il regalo c' è eccome. Ed è anche di quelli grossi. Si tratta esattamente di un cadeau da 7,3 miliardi, come si ricava non da atti segreti, ma da documenti pubblici come la convenzione Mit-Aspi e il Piano economico finanziario (Pef) che Autostrade ha presentato al ministero e che il Cipe deve ancora approvare. Come aveva svelato Panorama il 9 dicembre scorso, la vera trattativa per la clamorosa nazionalizzazione si è svolta tra l'amministratore delegato di Atlantia, Carlo Bertazzo, il capo di gabinetto della De Micheli, Alberto Stancanelli, e il capo di gabinetto dell'allora ministro dell'Economia Roberto Gualtieri, ovvero Roberto Chieppa. A comprare, però, sono Cdp, Macquarie e Blackstone. Che in cambio riceveranno margini del 10% l'anno, grazie ai soliti aumenti tariffari. Per oltre due anni e mezzo, mentre Aspi continuava come nulla fosse a incassare i suoi bravi pedaggi, si è agitato lo spauracchio della revoca delle concessioni. Lo hanno fatto anche Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, seppure quest' ultimo, tanto per essere comprensibile al popolo di cui si era nominato «avvocato», arrivò a parlare di «caducazione». Sempre comunque aggiungendo che il contenzioso con Atlantia era potenzialmente assai costoso. Il picco di allarmismo lo ha raggiunto Matteo Renzi, il fan più esagitato dei Benetton. Il 13 luglio 2020, ovvero alla vigilia dell'ultimo Consiglio dei ministri dove Aspi ha rischiato la revoca, Renzi spara: «Oggi i populisti vogliono la revoca perché è caduto il ponte e perché Benetton ha preso troppi soldi. Questo puoi farlo al bar: la verità è che con la revoca si danno i miliardi a Benetton. E sapete perché non hanno mai scritto il documento di revoca? Perché ci sono scritti sopra i miliardi che devono dare a Benetton. Questo giochino rischia di costare ai nostri figli 20/30 miliardi. Intanto si licenziano delle persone e si bloccano i cantieri». Può darsi che i calcoli dell'ex Rottamatore fossero anche corretti, ma il segreto per arrivare è: basta impostare male il problema. Perché qui, anche dopo i 43 morti del Morandi, non di revoca, ma di recesso si doveva parlare. E i conti sarebbero stati assai meno pesanti rispetto alla nazionalizzazione più o meno forzosa che va in scena oggi. La revoca non prevede che il concedente (qui, lo Stato), accusi di alcunché il concessionario (Aspi). Insomma, nessuna «demagogia», ma semplice diritto a tirarsi indietro, secondo le regole stabilite dalla concessione stessa. La convenzione Aspi-Mit è pubblicata sul sito del ministero e possono leggerla tutti i deputati. Quella attualmente in vigore è stata firmata il 12 ottobre 2007 (secondo governo Prodi) ed è stata aggiornata il 24 dicembre 2013 (governo di Enrico Letta. Come si può immaginare, non sono documenti ostili ai Benetton. Ebbene, all' articolo 9 bis la convenzione prevede che in caso di revoca il concessionario abbia diritto a un indennizzo «pari al valore attuale netto dei ricavi della gestione», ovvero al netto di costi, oneri, investimenti e imposte prevedibili nel periodo mancante alla fine della concessione. Usando le tabelle del Pef in vigore, la somma da dare ad Aspi arriverebbe a 13,8 miliardi netti. Su questa cifra, lo Stato recupererebbe poi 5,3 miliardi di imposte con un'aliquota al 27,9% (24% di Ires e 3,9% di Irap), che escludiamo dal conteggio perché è una partita di giro. Ora, abbandonata questa strada per nulla punitiva per i Benetton, andiamo a quello che secondo Toninelli «non è un regalo». Il consorzio guidato da Cdp (il nuovo ad, Dario Scannapieco si è insediato il giorno dopo il voto dell'assemblea Atlantia) ha offerto ad Atlantia 9,1 miliardi (considerando la valorizzazione al 100%, pari a 7,9 miliardi per l' 88% della società). A questi vanno sommati 8,8 miliardi per l'accollo dei debiti di Aspi e 3,4 miliardi per gli indennizzi diretti in ragione del crollo del ponte sul Polcevera. Il tutto, senza contare i rischi legali per indennizzi indiretti, oggi non quantificabili, visto che mancano le sentenze penali. Alla fine, la strada scelta dal precedente governo, al momento confermata anche da quello attuale, ci costa ben 21,3 miliardi. In modalità «vendita», i Benetton ne incasseranno 2,4, sui cui dovranno solo pagare il 5% di tasse, in base al regime fiscale agevolato sulle plusvalenze, ovvero un centinaio di milioni. Insomma, con il recesso, il valore netto riconosciuto ai Benetton per uscire da Aspi sarebbe stato pari a 13 miliardi e 818 milioni. Mentre con l'acquisto da parte dello Stato si arriva a 21 miliardi e 190 milioni. Il regalo ai Signori del casello, a futura memoria anche della Corte dei conti e del Cipe che ora deve vidimare il nuovo Pef (senza il quale la remunerazione di Macquerie e Blackstone sarebbe incerta), arriva a 7 miliardi e 370 milioni. Ci si finanzierebbero i Ristori II, III e forse pure IV. Tanto per fare del «populismo», come direbbe il Renzi.
Non è garanzia di migliori risultati. La nazionalizzazione di Autostrade chiude una brutta storia ma…Enrico Musso su Il Riformista il 22 Giugno 2021. Con la rinazionalizzazione di Autostrade per l’Italia si conclude una travagliata e infelice storia italiana cominciata il 14 agosto 2018 con il crollo del viadotto Morandi. Il governo Conte Uno – espressione delle forze politiche più stataliste e anti-mercato del parlamento italiano, M5S e Lega – si intestò la battaglia per ottenere lo scalpo dei concessionari privati, condannati dopo un processo sommario di poche ore svoltosi in favore di telecamere e conclusosi in tempo per i funerali delle vittime. Giuseppe Conte dichiarava, fra le macerie fumanti, «non possiamo aspettare i tempi della giustizia italiana», come se lui fosse stato un turista canadese in vacanza e il problema dei tempi della giustizia non lo avessero riguardato affatto. Là dove era possibile e sensato pretendere dal concessionario – in quanto tale, cioè a prescindere dalle responsabilità – il ripristino a proprie spese del manufatto, si preferì intraprendere la strada, più redditizia dal punto di vista elettorale, della (annunciata) revoca della concessione. Aprendo così a un contenzioso dall’esito incerto e comunque costosissimo per il contribuente, che ci rimise di tasca propria i quattrini per la ricostruzione. La strada era così impervia che fu abbandonata: servì per indebolire Aspi sui mercati azionari ed esibire facce da duri nei talk show. Ma poi si preferì trattare per togliere Aspi dalle mani dei Benetton “con le buone”, e cioè comprandola. Così che alla fine è il contribuente a dare altri soldi ai Benetton, e non viceversa. L’inadeguatezza delle manutenzioni – che attende conferma nel processo ma appare oggettivamente probabile – ha permesso alla politica di additare come unico colpevole la privatizzazione, causa di tutti i mali dalle guerre puniche in poi. E di propugnare così l’immediato ritorno a una taumaturgica nazionalizzazione, vero obiettivo del governo più statalista della storia repubblicana (si veda anche il caso Alitalia). È opinabile che il ricorso ai privati – vista come salvifica da Prodi & C. negli anni ’90 quando si dovevano colmare le fosse di bilanci pubblici devastati da decenni di clientelismo – sia il modo più efficiente ed efficace di gestire un’infrastruttura di trasporto con caratteristiche di quasi monopolio. Serverebbe infatti gare trasparenti, contratti di servizio, controlli e sanzioni efficaci, e non – come è avvenuto in Italia – affidamenti diretti senza gare e reiterate proroghe concesse per tempi molto lunghi con il pretesto di nuovi investimenti funzionalmente connessi. Una gestione pubblica delle autostrade è quindi del tutto plausibile, soprattutto in paesi dove gli apparati pubblici presentano un accettabile grado di efficienza (forse in Canada, appunto). Il ritorno del pubblico, tuttavia, non garantisce di per sé migliori risultati, e neppure il superamento dei problemi posti dalla privatizzazione: le tariffe sotto Cdp saranno le stesse di prima, l’obiettivo del profitto sarà perseguito anche dai nuovi manager, l’asimmetria di informazioni fra concessionario e concedente non sarà colmata. Permette invece di nascondere sotto il tappeto le colpe politiche sul Morandi: il rifiuto di una nuova infrastruttura (osteggiata dal M5S e da altre forze politiche) che avrebbe “scaricato” il viadotto dal conclamato eccesso di traffico che ne causò l’ammaloramento, e la devastante burocrazia che rallentò per anni i lavori straordinari che erano stati certificati come urgenti. Si poteva partire dalle macerie del Morandi per intervenire su tre gravi mali italiani: le privatizzazioni senza regole né gare e né controlli, che favoriscono la ricerca criminale del profitto a tutti i costi e gettano discredito sulle virtù della concorrenza; la politica cinica che segue la “pancia” di vere o presunte constituencies elettorali; la burocrazia onnipresente e tentacolare come il rampicante rossastro della Guerra dei Mondi del romanzo di H.G. Wells (e del film di Spielberg). Si rischia invece di ridare forza a un altro grande topos della nostra economia malata: l’inefficiente gestione pubblica di gangli vitali dell’apparato produttivo del paese. Ovviamente, speriamo di sbagliarci. Enrico Musso
Estratto dell'articolo di Giacomo Amadori e Alessandro Rico per “Panorama” il 31 marzo 2021. Sotto le macerie del Ponte Morandi di Genova non sono rimaste solo 43 vite di cui pochi ricordano i nomi, ma anche la credibilità di una schiatta di maestri tessitori che per quasi quarant'anni ha attraversato da protagonista la scena imprenditoriale italiana, ma che oggi è trattata alla stregua di una bottega di magliari. Il cognome Benetton, secondo gli esperti di onomastica, dovrebbe derivare dalla forma dialettale contratta dell'accrescitivo del nome Benedetto. Benedettoni, dunque. Ma ormai di benedetto c'è ben poco. E a restituire la giusta luce all'immagine offuscata non basterebbe neppure il fotografo di corte, quell'Oliviero Toscani cacciato con disdoro dai suoi mecenati per aver pronunciato la vile infamia: A chi interessa che caschi un ponte. A oltre trenta mesi dal crollo che ha spezzato in due Genova scopriamo che i peggiori giudici dei Benetton sono i Benetton stessi o i loro più fidati collaboratori. Come raccontano le intercettazioni depositate dalla procura guidata da Franco Cozzi nei vari filoni del procedimento avviato dopo il crollo. Montagne di trascrizioni scodellate nei vari riesami e ore di audio che gli avvocati stanno ascoltando in una stanza dedicata al nono piano del Tribunale del capoluogo ligure. Chi sono davvero i Benetton? Chi sono gli imperatori delle concessioni autostradali, i giganti del tessile, i magnati che hanno diversificato il loro business acquistando catene come Autogrill o investendo nelle assicurazioni (Generali) e nel credito (Mediobanca)? Un ritratto autentico lo forniscono, alcune conversazioni registrate dalla Guardia di finanza, discorsi proferiti da membri della famiglia o dagli uomini a loro più vicini (tutti, precisiamo, non indagati), a partire dal top manager Gianni Mion. Questo settantasettenne padovano dalla chioma candida è il dirigente che ha traghettato gli affari dei Benetton dal mondo concreto delle filande a quello volatile e ingrato dell'alta finanza e dei trasporti, dalle strade ai cieli, approfittando delle privatizzazioni selvagge dei bei tempi dei governi di centrosinistra, alla cui tavola i Benedettoni hanno mangiato a quattro palmenti. Mion è stato per la famiglia di Ponzano Veneto quello che per gli Agnelli sono stati Cesare Romiti o Vittorio Valletta: per decenni ai vertici della holding Edizione, nella quale ha operato dal 1986 al 2016 e, poi, di nuovo dal 2019 al 2020. Torniamo alle intercettazioni finite nel fascicolo in mano all'aggiunto Paolo D'Ovidio e ai pm Massimo Terrile e Walter Cotugno. È il 31 dicembre del 2018, da quattro mesi è crollato il viadotto sul Polcevera, gestito da Autostrade per l'Italia (Aspi). Da allora, la politica sta provando a togliere (un esproprio per dirla con uno dei loro amici) alla dinasty trevigiana la gestione della rete viaria a pagamento. Mion è al telefono con Fabrizio Palen zona, già vicepresidente di Aeroporti di Roma (Adr, altra società della galassia Benetton, che controlla lo scalo di Fiu micino), membro del cda di Mediobanca (di cui Edizione detiene il 2,1 per cento) e presidente dell'Aiscat, l'associazione che riunisce le società concessionarie di autostrade.
Mion sbotta: Noi dobbiamo fare qualcosa su Aspi che bisogna che diamo garanzie, ma non solo garanzie, tanto i Benetton l'hanno capito tutti che non capiscono un cazzo e che siamo degli inetti, no?. Un epitaffio sulla storia dei suoi datori di lavoro.
Poco dopo, soggiunge: [...] la prova di inettitudine è certificata da parte dell'azionista di riferimento, no?. È una climax di invettive: Loro, i signori del ponte, si incazzano quando parlano (si parla, ndr) sempre di Benetton, quello scrive la lettera perché non c'entra un cazzo... ma non c'entri un cazzo perché non capisci niente! Perché allora... i tuoi dividendi li dovevi devolvere in beneficienza perché non ti riguardavano, no? Cioè insomma una figura da cazzo così è.... L'epistola cui fa riferimento Mion è quella spedita da Luciano Benetton, uno dei fondatori del gruppo ed ex senatore repubblicano, a diversi quotidiani nazionali, poche settimane prima: Nessun componente della famiglia Benetton ha mai gestito Autostrade, aveva cercato di auto assolversi l'imprenditore. Ma quello che era stato il manager di fiducia della famiglia, al telefono, pur dicendosi de ciso a sparare tutto quello che abbiamo da sparare per salvare dignità, azienda e investimento, riconosce che questi qua, cioè gli stessi Benetton, sono quelli che se lo meritano di meno. Al telefono con Fabio Cerchiai, presidente di Atlantia (la controllante di Aspi), il 3 gennaio 2020, Mion finisce per restituire un desolante ritratto dell'intero management della società: Non son boni [...] francamente, insomma la patente di incapaci l'abbiamo già portata a casa, no?. Però non è solo il Romiti di Edizione a demolire la casata. Persino il rampollo Alessandro, secondogenito di Luciano, pare non avere una buona opinione dei famigliari, soprattutto dei cugini. Con loro, Christian, Franca Bertagnin e Sabrina, Alessandro era entrato in rotta di collisione nel 2016, uscendo dal cda del gruppo. (...) Sul dossier Autostrade, Alessandro fa lo scaricabarile: [...] non me ne occupo e sono cazzi loro, ci sono i miei cugini. L'imprenditore ritiene ci sia una sola via d'uscita: [...] c'è un problema di credibilità compromessa che non è recuperabile... ok? [...] per salvare Atlantia noi dovremmo uscire da Aspi.... Ma come si fa a rinunciare alla gallina dalle uova d'oro?
Perché le autostrade fruttano incassi da capogiro. Quel denaro che, sempre stando a Mion, intercettato il 2 febbraio 2020, è l'ossessione dei Benetton: Le manutenzioni, confessava il manager, le abbiamo fatte in calare, più passava il tempo, meno ne facevamo... così distribuiamo più utili e Gilberto e tutta la famiglia erano contenti. Un concetto ribadito da Carlo Bertazzo, nuovo a.d. di Atlantia, l'8 febbraio 2020. Conversando con il presidente Cerchiai, egli riporta un'opinione che ha ascoltato da almeno due fonti: I Benetton hanno di fatto ingessato la società in quanto volevano solo dividendi, dividendi, dividendi. Sono proprio i dividendi, a un certo punto, a imbarazzare Ermanno Boffa, consigliere d'amministrazione di Atlan tia e marito di Sabrina Benetton (uscita dal cda pochi giorni fa, per essere stata sottoposta a pressioni di ogni tipo, dopo la tragedia del Morandi). Nel 2020, al telefono con Mion, Boffa sottolinea che sarebbe devastante se venisse fuori che i Benetton si sono distribuiti 200 milioni di euro nel loro momento peggiore, cioè successivamente alla strage sul Polcevera. Grazie ai bilanci si può ricostruire l'immenso flusso di denaro che, negli anni, è transitato sui conti correnti degli azionisti delle società della famiglia di Ponzano Veneto. Nel 2010, l'ammontare dei dividendi di Atlantia superava i 516 milioni. Nel 2016, era salito a oltre 775. Il balzo più clamoroso avviene nel 2017, con oltre 2 miliardi e 567 milioni di euro. L'anno della tragedia di Genova, la slot machine di Aspi si ferma a circa 456 milioni. In nove il totale fa quasi 7 miliardi e mezzo. Così, sempre citando Mion, il defunto Gilberto e tutta la famiglia erano contenti. Dalle telefonate emerge chiaramente come la famiglia veneta e i suoi collaboratori cerchino di interpretare come aruspici ogni palpito o sospiro della politica. Un esempio lo abbiamo quando Mion parla del prezzo delle azioni dei Benetton che Cassa depositi e prestiti (controllata dal ministero dell'Economia e delle Finanze) avrebbe dovuto acquistare, per prendere il controllo del 51 per cento di Aspi: Bisogna anche fare la verifica se ci vogliono o non ci vogliono, perché se non ci vogliono, basta che mettiamo a posto le aziende e poi ognuno per sé e Dio per tutti... perché [...] non c'è dubbio che è stata la Cassa depositi che ha insufflato tutti sti 5 stelle per un anno e mezzo per cacciarci a calci nel culo. Ecco perché, tra i bersagli della vis polemica di Mion, figurano i grillini, tifosi sfegatati della revoca delle concessioni: Pensavano che bastasse parlare del ponte e di Benetton e si aumentavano i voti del 15 per cento... non mi sembra che abbiano avuto il 15 per cento in più dei voti e anche lì si conferma che tutto sto battage che hanno montato, anche in termini elettorali, non gli porta assolutamente niente, perché la gente ha capito che è tutta una stronzata. Ma una ciambella di salvataggio, come molte volte in passato, il gruppo veneto confidava arrivasse dagli ambienti della sinistra. E per questo cercava segnali nelle mosse della ministra, cioè Paola De Micheli, la titolare piddina del dicastero delle Infrastrutture e dei Trasporti nel governo giallorosso. Mion osserva: Ieri è andata a vedere i lavori da 200 e fischia milioni di investimenti che sta facendo Adr, cioè Aeroporti di Roma. Il manager è speranzoso: Quindi è un messaggio, no? È un messaggio per dire, beh, le cose stanno accadendo, no? Capito? [...] il Pd è lì che si barcamena fra questi scemi dei 5 stelle e poi il fatto che questa qui sia andata in Adr, è un fatto significativo secondo me... perché insomma, voglio dire, non è che t'ha messo lo stigma del lazzarone da tutte le parti... no?. Ma se i Benetton non capiscono un cazzo, nelle intercettazioni ce n'è anche per manager e tecnici. Per esempio, in un'altra telefonata, Mion umilia l'ex a.d. Castellucci e critica pesantemente Spea engineering Spa, la società del gruppo Atlantia che avrebbe dovuto occuparsi dei controlli strutturali sulla rete autostradale. È a questa che attribuisce le più gravi responsabilità delle omesse verifiche: [...] però non è solo Castellucci francamente, perché la verità è che c'era questa società che si chiama Spea, no? Fatta tutta di ingegneri [...] qualcuno a suo tempo degli interni mi aveva detto... "guarda che lì c'è una banda di lazzaroni". In uno scambio di vedute con Bertazzo, il 31 dicembre 2019, Mion discute proprio di come far fuori Spea. E, su questo dossier, contesta la gestione di Cerchiai: [...] lui deve dire [...] "questa società qua, gestita in questo modo, non la voglio!" [...] Se non lo dice che cazzo sta a fare? Sta a coprire!. Non è finita: Si capisce che Cerchiai sta solo a proteggere sé stesso... ma insomma basta!. E ancora: Cerchiai e Castel lucci sono responsabili, direi che sono responsabili in ugual misura! [...] Uno perché era pazzo e quell'altro perché è paraculo!. Atlantia è tutto un casino, sospira Alessandro Benetton, dialogando con il manager Corsico: Cerchiai ha fatto tutto fuorché il presidente. Ma, come specifica il rampollo, egli era assolu tamente contiguo al sistema pur non direttamente coinvolto e consapevole. Insomma, la fotografia dell'impero industriale e finanziario dei Benetton, scattata dai suoi stessi protagonisti, è choccante, come un'istantanea di Toscani. Emblematica la chiosa di Mion: [...] diciamo, tutto quello che nei primi dieci anni si è costruito... nei secondi dieci anni si è distrutto. Un'ultima intercettazione rende bene l'idea di come, nel regno dei Benetton, non si salvino né i sovrani, né i consiglieri. Il 31 dicembre 2019, Mion, Bertazzo e Cerchiai, i vertici delle società del gruppo, organizzano una call a tre. Poche ore prima, sull'A26, nei pressi di Masone (Genova), dal soffitto di una galleria si è staccato un enorme blocco di cemento. Il problema dei tre sembra quello di evitare di prendersene uno in testa andando in vacanza alla volta di mari esotici e montagne innevate. Cerchiai è pensieroso: Per andare giù devo fare tutte le gallerie.... Risate. Bertazzo fa riferimento a un censimento del Mit sui tunnel non a norma: Mi son preso paura quando m'ha detto 200 gallerie su 270 in Italia.... Irrompe la battuta di Mion: Devi andare in aereo, devi andare in aereo. Cerchiai sta al gioco: Vado in aereo, difatti, sì. Altra ilarità. Chiude Mion: Eh sì però, se vai in galleria puoi fare tu il monitoraggio. Nuove risate. Cheese... mancava solo Oliviero per una bella foto in posa.
AUTOSTRADE, I BENETTON SI ARRENDONO. SABRINA LASCIA IL CDA ATLANTIA: «DISAGIO». La rottura a sorpresa, legata anche alla vicenda del Ponte Morandi, agevola l’accordo con Cdp per la vendita di Aspi. Nino Sunseri su Il Quotidiano del Sud il 16 marzo 2021. Si rompe il fronte della famiglia Benetton, rendendo più agevole l’accordo con Cdp per la vendita di Autostrade per l’Italia. Con una decisione a sorpresa, ma a lungo meditata dicono fonti vicine alla famiglia, Sabrina Benetton, si è dimessa dal consiglio d’amministrazione di Atlantia, la holding controllata dalla dinastia cui fa capo la concessionaria autostradale. Una decisione dall’alto valore simbolico, considerando che Sabrina, pur non avendo deleghe operative, era l’unico consigliere a portare il nome Benetton. Ma soprattutto è un’esponente di primo piano della seconda generazione in quanto figlia di Gilberto, il primo dei quattro fratelli fondatori che, dopo aver assunto la presidenza del gruppo, aveva guidato la diversificazione. I maglioncini di Luciano e di Franca perdevano peso a favore di autostrade, ristorazione (Autogrill) e aeroporti.
LO STRAPPO. La decisione, si legge in una nota, è «maturata anche alla luce degli accadimenti (recenti o meno) relativi alla controllata Autostrade per l’Italia, e al disagio anche reciproco che necessariamente determina la posizione di azionista di rilievo nel socio di maggioranza». Uno strappo importante nella famiglia delle autostrade italiane, all’indomani dell’approvazione dei conti 2020 di giovedì scorso, che riflette le crescenti difficoltà legate non solo alla trattativa con il consorzio a guida Cassa depositi e prestiti per Aspi, ma anche alla vicenda del Ponte Morandi. La decisione di Sabrina non ha avuto conseguenze in Borsa, visto che il titolo Atlantia è rimasto stabile a 16,1 euro. Costituisce comunque la conferma dei rumors che da settimane parlano di crescenti divergenze tra la famiglia Benetton, primo azionista di Atlantia al 30,2% con la holding Edizione – e il consiglio di amministrazione della società. In particolare con l’amministratore delegato Carlo Bertazzo e il presidente Fabio Cerchiai. Sarebbero proprio i vertici della società che, nel quadro della trattativa con il consorzio a guida Cdp (che comprende anche gli statunitensi di Blackstone e gli australiani di Macquarie), avrebbero spinto per avere condizioni più favorevoli per gli azionisti. A cominciare dal prezzo finora sempre definito inadeguato. L’ultima offerta, arrivata nella serata del 23 febbraio, metteva sul piatto un ammontare di poco superiore ai nove miliardi, definito inadeguato dai vertici di Atlantia che, insieme al Fondo Tci (secondo azionista con una quota del 10%), spingono per una valutazione di almeno 11 miliardi.
TRATTATIVA ALLUNGATA. Una posizione che ha sicuramente allungato la trattativa acuendo le tensioni tra le parti coinvolte, che mantengono i contatti – la settimana scorsa la cordata ha chiesto una ulteriore proroga dei termini fino al 27 marzo – ma con i nodi del prezzo e della manleva che rimangono irrisolti. Prosegue quindi, come confermato anche da Carlo Bertazzo agli analisti finanziari la scorsa settimana, la trattativa per trovare un accordo che, come ribadito dagli analisti di Equita «eliminerebbe il rischio politico, risolverebbe il problema del debito della holding e assicurerebbe flessibilità finanziaria ad Atlantia per nuovi investimenti, compreso il sostegno ad Abertis, il cui debito resta elevato». Sabrina Benetton era entrata nella stanza dei bottoni di Atlantia circa un anno e mezzo fa, subito intenzionata a dare un segnale di discontinuità nel rapporto tra la famiglia e Autostrade, convinta che la tragedia del Morandi dovesse implicare un cambio di passo netto anche nei posti di comando.
ROTTURA NELLA DINASTIA. La decisione di Sabrina sancisce anche la rottura all’interno della dinastia. La sua decisione, infatti, ha avuto l’appoggio di Alessandro, figlio di Luciano, altro volto storico della prima generazione. Sono stati loro, Sabrina e Alessandro, a spingere per la sostituzione del manager storico dei Benetton, quel Gianni Mion che ha guidato il gruppo in quel sistema di scatole cinesi che da Atlantia porta poi al controllo di Autostrade. C’è anche da aggiungere che Mion era stato richiamato dalla famiglia dopo più di tre anni. Aveva litigato proprio con Gilberto ed era uscito. Alla morte del capostipite la famiglia, incapace di esprimere una leadership condivisa, aveva richiamato Mion. Tranne poi licenziarlo un’altra volta per far posto a Enrico Laghi come presidente di Edizione. Con l’addio di Sabrina al tavolo del consiglio di amministrazione Atlantia non c’è più un componente che porta il cognome Benetton. Edizione ha un altro consigliere, ma non è la stessa cosa.
Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 19 marzo 2021. C'è Franca Benetton che «dice delle cose e dopo cinque minuti dice l'opposto, non stimola gli investimenti, le piacciono anche i dividendi...»; c'è suo cugino Alessandro che «adesso vuole i soldi perché lui ha un progetto, dice che è imprenditore e che gli altri non capiscono niente, mamma mia, pensano solo ai c... loro»; c'è Sabrina, quella del recente strappo con Atlantia, che scalpita e «incontra Franca ma i loro discorsi non sono mai molto concreti»; e c'è lui, Gianni Mion, storico braccio destro della famiglia Benetton, fino allo scorso novembre al timone della holding del gruppo di Ponzano (Edizione) alla quale fanno capo Atlantia e Autostrade per l'Italia (Aspi), che lo dice chiaro: «Scappo e buonanotte». E così ha fatto, anche se accompagnato da qualcuno. Due anni di intercettazioni sul disastro del Morandi, eseguite dalla Guardia di finanza e depositate dalla Procura di Genova, restituiscono un'immagine non proprio unita dei Benetton e svelano i retroscena di vari avvenimenti, dalle responsabilità sul crollo del ponte Morandi alla guerra per il controllo di Aspi a quella familiare dei Benetton, fino alle recenti dimissioni dal cda di Atlantia di Sabrina. «È una débâcle completa della famiglia», sintetizza il professor Giorgio Brunetti, economista e membro esterno di vari consigli di amministrazione del gruppo di Ponzano, in una conversazione con lo stesso Mion del febbraio 2020. La parabola ha un punto di discesa: il 14 agosto 2018, crollo del Ponte Morandi, gestito da Aspi, 43 vittime. «È emerso che noi per molti anni le manutenzioni non le abbiamo fatte in misura costante, nonostante la vetustà aumentasse», dice Mion a Ermanno Boffa, marito di Sabrina, che sempre nel febbraio dello scorso anno gli chiede se ha incontrato l'allora premier Conte. «Non ancora, perché stiamo preparando un documento in cui diciamo che siamo disponibili a cedere il controllo... Vogliamo programmi d'investimento secondo gli schemi raccomandati dal procuratore Cozzi». Cozzi, che per il disastro ha iscritto 68 persone nel registro degli indagati e si appresta a chiudere l'inchiesta ribadendo la necessità di rendere prioritaria la sicurezza nelle scelte d'investimento. Sicurezza che lo stesso Mion, in una conversazione a tre con l'avvocato Sergio Erede e Bertazzo, illustra così: «Quando io ho chiesto all'ingegner Castellucci e ai suoi dirigenti chi certificasse la stabilità di questo ponte e l'agibilità, mi è stato detto: ce lo autocertifichiamo». Sul banco degli imputati mette Spea, la società del gruppo che si occupava delle manutenzioni: «Sono una banda di cialtroni e un'associazione a delinquere... diciamo che in Autostrade, in Spea, in quel mondo là non si salva nessuno». Dopo il crollo del ponte, altro punto di caduta dell'impero è stata la scomparsa di Gilberto Benetton, due mesi dopo il disastro. Gilberto, padre di Sabrina, era l'anima finanziaria del gruppo, il collante, artefice della diversificazione e della crescita esponenziale delle attività. «È anche inutile che ci mettiamo a cercare un altro Gilberto - dice Boffa a Mion - perché fra tre generazioni siamo ancora qui a cercarlo». La situazione per Mion è preoccupante: «C'è poco da fare, il clima è questo e adesso bisogna inventarsi qualcuno che affianchi i Benetton perché il vero problema è la loro inettitudine...», dice in dicembre ad Aldo Laghi che gli subentrerà alla guida di Edizione holding. Alla fine si torna sempre lì: le scarse manutenzioni e il mantra dei dividendi. «Io batterò solo su questo con la Franca - assicura Boffa -. Cioè, vuoi un futuro? Il futuro è già oggi, è sulla politica dei dividendi, ci tieni anche all'immagine... cioè tu immagina se viene fuori che i Benetton si sono distribuiti 200 milioni nel momento peggiore della loro vita». Mion condivide: «Anche l'altro giorno parlavo con la Franca e mi dice: "Ma perché ce l'hanno con noi, mica abbiam fatto niente". No, dico, vi siete solo arricchiti... inconsapevolmente, a vostra insaputa, vi siete arricchiti... Alessandro adesso vuole i dividendi». Risultato: Mion si dimette, Sabrina saluta tutti e Aspi è ancora un intrigo di palazzo.
Matteo Indice per "La Stampa" il 9 marzo 2021. Le riunioni tra i massimi dirigenti tecnici di Autostrade per l'Italia e della controllata Spea Engineering sono state registrate clandestinamente da due dei partecipanti per un anno, 42 volte tra la fine del 2016 e la conclusione del 2017, quindi prima del crollo del Ponte Morandi. In più summit si fa riferimento esplicito all'avanzato stato di corrosione dei tiranti del viadotto collassato il 14 agosto 2018 a Genova (43 vittime) e si profilano gravi rischi per la tenuta dell'infrastruttura. Ecco perché gli audio rappresentano secondo la Procura una delle prove-cardine sulla consapevolezza dei pericoli e sul fatale rinvio delle manutenzioni da parte di Aspi. In altre occasioni emergono la cronica sottostima della pericolosità di altri ponti (dettaglio che ha dato il là a un'inchiesta autonoma in Toscana) e le anomalie in diversi tunnel. I colloqui sono stati scoperti dalla Guardia di Finanza nei «device», dispositivi elettronici, di due degli oltre 70 indagati per il disastro di tre anni fa, accusati a vario titolo di omicidio colposo plurimo, crollo doloso e attentato alla sicurezza dei trasporti. Marco Vezil, ex responsabile verifiche tecniche di Spea, ha registrato 38 incontri; Massimiliano Giacobbi, ex direttore tecnico della medesima Spea, 4 appuntamenti ai quali Vezil non era presente. Ciascuna registrazione, si scopre oggi, ha durata variabile, fra una o due ore complessive, talvolta frammentata in segmenti da 20-30 minuti. Le riunioni si tenevano perlopiù nel centro direzionale Aspi di Campi Bisenzio (in provincia di Firenze appunto, motivo per cui una parte delle segnalazioni è stata inoltrata ai magistrati toscani) e il numero dei partecipanti era sempre piuttosto ristretto, da 3-4 a un massimo di 10. Il personaggio-chiave, presente a quasi tutti i colloqui, è l'ex supercapo nazionale delle manutenzioni di Autostrade, Michele Donferri Mitelli, indagato per il massacro di Genova e in altri filoni collegati. L'ex amministratore delegato Giovanni Castellucci, a sua volta inquisito, viene evocato più volte ma non è fisicamente in sala, mentre in un'occasione si sente la voce di Carmelo Gentile, docente del Politecnico di Milano, che realizzò una consulenza allarmante sul viadotto. L'elemento più interessante, si rimarca fra gli investigatori, è rappresentato dalle ricorrenti discussioni sul progetto di retrofitting del Morandi. È il restauro eseguito negli Anni 90 su uno solo dei tre piloni principali e sarebbe dovuto partire - tardivamente - nell'autunno del 2018 sugli altri due, a chiosa di un iter a dir poco tortuoso. È in quei frangenti che emergono le preoccupazioni diffuse sull'avanzamento della corrosione, con oltre un anno e mezzo di anticipo sulla strage. La matrice primaria del crollo, secondo i periti del tribunale, è infatti il cedimento d'uno «strallo», uno dei tiranti diagonali che dalla sommità delle pile scendevano fino all'impalcato (la strada) sorreggendola. L'anima in acciaio, circondata dal calcestruzzo e quindi non visibile dall'esterno, si è progressivamente deteriorata, fino a spezzarsi e a generare l'effetto domino che ha disintegrato l'opera. Ai problemi degli stralli si fa cenno in modo esplicito durante i meeting, e in un paio di circostanze le considerazioni sono pesantissime. Un altro aspetto rischiarato dalle intercettazioni clandestine (il principale autore, Marco Vezil, viene definito dagli ex colleghi «un animale che non butti giù nemmeno se gli spari») è la cronica sottovalutazione dei livelli di rischio sui viadotti diversi dal Morandi. Tra gli scambi più illuminanti ne viene allegato uno del 24 ottobre 2017, captato di nascosto con uno smartphone. Donferri detta la linea e chiede di rivedere il voto assegnato a una serie d'infrastrutture: «Cosa sono - dice - tutti 'sti 50 (il numero indica un coefficiente di rischio, più alto è e più urgenti sono le manutenzioni da eseguire, ndr)? Me li dovete togliere... Adesso riscrivete e fate Pescara (il rimando è a un viadotto nella zona, ndr) a 40... il danno d'immagine è un problema di governance». In quelle conversazioni emerge inoltre come Donferri avesse obiettivi di risparmio legati a una maxi-operazione finanziaria del gruppo, la cessione d'un pacchetto azionario da 1,49 miliardi.
Ponte Morandi nato malato. Strangolato dai cavi marci. I segnali d'allarme c'erano dall'inizio. A provocare la catastrofe l'incuria di Autostrade e parastato. Luca Fazzo, Venerdì 05/02/2021 su Il Giornale. Genova. Il «tumore». Ormai gli avvocati della megainchiesta sul crollo del ponte Morandi lo chiamano così. Il «tumore» è il groviglio di cavi d'acciaio che nel 1965 venne piazzato a reggere la pila 9 del viadotto sul Polcevera, e che fin da subito si trovò immerso nell'acqua, negli acidi, nella salsedine: e cominciò a incancrenire come una metastasi. Sono espressioni crude. Ma quella andata in scena in questi giorni nel tendone del tribunale genovese sembra davvero una autopsia. Sul tavolo c'è un cadavere. Non di un uomo: il gigantesco cadavere del ponte crollato il 14 agosto 2018. Sezionato, analizzato.
Come tutti i cadaveri, anche quello del Morandi parla. Il tumore è lì, sul tavolo dei periti: il «reperto 132», il pezzo della pila 9, lato sud, che alle 11,36 cede di schianto. Su questo ormai sono tutti d'accordo, consulenti dell'accusa e della difesa. Ma come nei processi per colpe mediche, dove si parla di esseri umani lasciati morire senza cure o con le cure sbagliate, la domanda cruciale è: il malato si poteva salvare? I sintomi si coglievano, erano affrontabili? Ed è qui che le versioni divergono, e la battaglia dei settantuno indagati - con i pubblici ministeri, e poi tra di loro, gli uni contro gli altri - si annuncia aspra e interminabile, col rischio che l'immane complessità della materia porti tutto avanti nel tempo. Anche per questo, le famiglie di trentanove dei quarantatré morti hanno scelto di mollare, prendere i soldi, uscire per sempre dal tormento senza fine delle sentenze giuste o sbagliate, dei ricorsi, delle prescrizioni. A combattere sono rimasti in tre. Marcello Bellasio, che perse due figli; Nadia e Egle Possetti, che persero la sorella; e il papà di Giovanni Battiloro. A loro, spiegano, i milioni di Autostrade non interessano. Vogliono capire perché, per colpa di chi. Non si sono accontentati della perizia disposta dal giudice, quella discussa per tre giorni questa settimana, e su cui dal 18 febbraio avvocati e periti torneranno a litigare. Bellasio e le Possetti hanno voluto un loro consulente, uno di cui si fidassero. Si chiama Paolo Rugarli, è un ingegnere milanese, ha depositato 373 pagine con la sua risposta alle domande del giudice. Ed è accaduta una cosa singolare. Sulla ricostruzione di Rugarli - una ricostruzione impietosa, di cui qua accanto si riportano i passaggi principali - si sono ritrovati in buona parte anche gli imputati legati ad Atlantia ovvero ai Benetton, i manager entrati in scena con la privatizzazione di Autostrade nel 1999, a partire da Giovanni Castellucci, prima amministratore e poi presidente. Anche con loro, con le omissioni per ignavia o per soldi della gestione privata, la ricostruzione di Rugarli ha la mano pesante. Ma ha un pregio: guarda anche all'indietro, riavvolge il filo della tragedia fino agli esordi del ponte, alla progettazione, alla costruzione, ai segnali d'allarme iniziati prima ancora che sui 1.182 metri progettati dal grande Enrico Morandi passasse la prima auto. E sugli anni successivi, gli anni dell'Anas, delle autostrade pubbliche, del parastato sprecone e miope. Il ponte, dice Rugarli, nacque già malato. E la sua morte, cinquant'anni dopo, fu la conseguenza inevitabile di una serie di colpe imperdonabili da parte praticamente di chiunque, in un ruolo o nell'altro, vi abbia messo le mani. Anche la Procura di Genova ha, sulla carta, nel mirino quel periodo. Ma Castellucci e gli altri sono convinti (e gli indizi ci sono) che alla fine rischiano di essere gli unici chiamati a pagare. Non ci stanno. E la mano decisiva forse gli arriverà dal perito delle loro vittime.
L'incidente probatorio sulla maxi perizia. Il Ponte Morandi è crollato perché costruito male, ecco le prove. Paolo Comi su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. Il ponte sarebbe stato costruito “male”. Le indagini sul crollo del ponte Morandi, avvenuto il 14 agosto del 2018 e dove persero la vita 43 persone, sono ad una svolta. Questa settimana è iniziato l’incidente probatorio sulla maxi perizia di circa 500 pagine disposta dal giudice Angela Nutini. La Procura del capoluogo ligure ha iscritto nel registro degli indagati 71 persone tra ex dirigenti, ad iniziare dall’ex ad Giovanni Castellucci, e tecnici di Autostrade e di Spea (la società incaricata delle manutenzioni), nonché dirigenti del Ministero delle infrastrutture e del Provveditorato. Fra le accuse, omicidio colposo plurimo, crollo doloso, attentato alla sicurezza dei trasporti, falso, omissione d’atti d’ufficio, rimozione o omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Per la Procura di Genova il crollo del ponte sarebbe stato dovuto all’assenza di manutenzione “straordinaria e ordinaria”. Secondo i periti, in particolare, «la causa scatenante il crollo è la corrosione della parte sommitale del tirante della pila 9», che «ha mostrato un’evidente e gravissima forma di corrosione nella zona di attacco con l’antenna», una corrosione che «ha avuto luogo in zone di cavità e mancata iniezione formatesi nella costruzione del ponte». I periti hanno anche evidenziato che il processo di corrosione «è cominciato sin dai primi anni di vita del ponte ed è progredito senza arrestarsi fino al momento del crollo determinando una inaccettabile riduzione dell’area della sezione resistente dei trefoli che costituivano l’anima dei tiranti, elementi essenziali per la stabilità dell’opera». La relazione ricorda poi che nel 1993, quando fu effettuata una importante manutenzione del ponte, «non sono stati eseguiti interventi che potessero arrestare il processo di degrado in atto e/o di riparazione dei difetti presenti nelle estremità dei tiranti che, sulla sommità del tirante Sud-lato Genova della pila 9 erano particolarmente gravi». Sempre secondo i periti, se i controlli e manutenzioni fossero stati fatti nel modo corretto, «con elevata probabilità avrebbero impedito il verificarsi dell’evento». Chi doveva occuparsi della manutenzione del ponte «avrebbe dovuto avere una conoscenza adeguata di come l’opera era stata costruita, valutando la rispondenza con i documenti progettuali, cosa che avrebbe permesso di individuare il grave difetto costruttivo nell’ultimo tratto del tirante, in corrispondenza della sommità dell’antenna, consentendo di prevedere e tenere sotto controllo il processo di degrado», hanno quindi concluso i periti incaricati dal Tribunale di Genova. Uno scenario che, però, stride con quanto accaduto negli ultimi anni. Molti professionisti che si sono interessati del ponte hanno, infatti, sempre dato una valutazione molto “tranquillizzante”. L’ingegnere Francesco Pisani, allievo di Riccardo Morandi, che eseguì il progetto di rinnovo del ponte nel 1993 attestò il buono stato complessivo dell’infrastruttura, avallando anche il sistema di retroriflettenza scelto come modello di controllo. L’ingegnere Francesco Martinez y Cabrera, titolare della Cattedra di Ponti e Grandi strutture presso la facoltà di Ingegneria del Politecnico di Milano, che nel 1993 aveva effettuato il collaudo del ponte, fissò al 2030 la nuova attività ispettiva. Anche il Cesi (Centro elettrotecnico sperimentale italiano), uno delle più importanti società di ingegneria, nel 2016 aveva espresso una valutazione positiva. E, per finire, il professor Carmelo Gentile nel 2017, pur sollevando dubbi su delle corrosioni di cavi secondari, non aveva ravvisato criticità imminenti per il ponte. Già nel 1993, anno in cui si decise di privatizzare la rete autostradale, il ponte Morandi era purtroppo gravemente corroso, avendo esaurito tutti i margini di sicurezza. Complicato accorgersene con i normali monitoraggi dinamici. I difetti di costruzione erano localizzati ad un metro di profondità e le ispezione visive sarebbero dovute essere precedute da scassi locali di almeno 40 cm, difficili da realizzare. L’unica soluzione era, dunque, il “retrofittig”, già in programma. Che il ponte destasse preoccupazioni, comunque, era stato anche Morandi a sottolinearlo in due distinti rapporti nel 1979 e nel 1981. Esiste un «diffuso stato di ammaloramento», aveva scritto l’ingegnere, proponendo alcune modifiche di intervento «non sempre accolte».
Il report di 500 pagine. Ponte Morandi, corrosione e manutenzione inadeguata: così è crollato, la relazione dei periti. Redazione su Il Riformista il 21 Dicembre 2020. Corrosione e controlli e manutenzione inadeguate. E’ quanto si legge nella relazione di 500 pagine dei periti del Gip Angela Nutini sulle cause che hanno provocato il crollo del Ponte Morandi di Genova dove il 14 agosto 2018 hanno perso la vita 43 persone. La causa scatenante “‘è il fenomeno di corrosione a cui è stata soggetta la parte superiore del tirante Sud- lato Genova della pila 9” si legge nel report redatto nell’ambito del secondo incidente probatorio, quello che dove stabilire le cause del crollo. La procura di Genova aveva formulato 40 quesiti a cui i super esperti hanno risposto. Oltre alla corrosione, a determinare il crollo sono stati anche “i controlli e le manutenzioni che se fossero stati eseguiti correttamente, con elevata probabilità avrebbero impedito il verificarsi dell’evento”. “La mancanza – scrivono i periti del Gip- e/o l’inadeguatezza dei controlli e delle conseguenti azioni correttive costituiscono gli anelli deboli del sistema; se essi, laddove mancanti, fossero stati eseguiti e, laddove eseguiti, lo fossero stati correttamente, avrebbero interrotto la catena causale e l’evento non si sarebbe verificato”. Inoltre – si legge sempre nella relazione – “non sono stati individuati fattori indipendenti dallo stato di manutenzione e conservazione del Ponte che possano avere concorso a determinare il crollo, come confermato dalle evidenze visive emerse dall’analisi del filmato Ferrometal”.
Marco Fagandini e Tommaso Fregatti per “La Stampa” il 22 dicembre 2020. Il crollo del ponte Morandi e la morte di 43 persone si sarebbero potuti tranquillamente evitare. Se solo «fossero stati svolti i regolari controlli e le attività di manutenzione che avrebbero certamente individuato uno stato di corrosione cominciato sin dai primi anni di vita del ponte e che è progredito senza arrestarsi fino al momento del crollo». Ma non solo. Viene smentita la tesi della difesa che aveva puntato sulla presenza sul ponte, il 14 agosto del 2018, giorno della strage, di una super bobina, quale concausa del collasso. «Non sono stati individuati fattori indipendenti dallo stato di manutenzione e conservazione del ponte che possono aver concorso a determinare il crollo». Sono alcune delle conclusioni dei periti nominati dal giudice Angela Maria Nutini, nell'ambito del secondo incidente probatorio. Un atto considerato super-partes. La perizia è maturata nel contraddittorio delle parti e costituirà una prova nel processo. I quattro periti hanno risposto ai quesiti, spiegando le ragioni per cui il viadotto è crollato. Parlano di «mancanza e/o inadeguatezza dei controlli e delle conseguenti azioni correttive che costituiscono gli anelli deboli del sistema. Se fossero stati eseguiti correttamente l'evento (e cioè il crollo, ndr) non si sarebbe verificato». Secondo gli esperti «sono state trascurate negli anni le innumerevoli indicazioni del progettista Morandi, con particolare riferimento al degrado degli acciai dei tiranti». Lo stesso ingegnere aveva continuato a evidenziare, sino al 1985, un «diffuso stato di ammaloramento e proposto modifiche di intervento non sempre accolte». Mentre «il gestore dell'opera avrebbe dovuto avere una conoscenza adeguata di come l'opera era stata costruita - scrivono i periti -, cosa che avrebbe permesso di individuare il grave difetto costruttivo nell'ultimo tratto del tirante Lato Genova/Sud, consentendo di prevedere e tenere sotto controllo il processo di degrado riscontrato». Grazie anche all'analisi del video della telecamera di Ferrometal (azienda poco distante dal Morandi) «è possibile stabilire (reperto 132) l'esatto punto di partenza del crollo, che coincide con la rottura del tirante Sud che si trova sul lato di Genova». La corrosione dei cavi dei tiranti era così importante che sarebbero bastate «ispezioni visive dirette con scassi locali ed endoscopi». Ma si aggiunge che «il punto di non ritorno, oltre il quale l'incidente si è sviluppato inevitabilmente, è da individuarsi nel momento in cui, per effetto della corrosione, si è innescato un fenomeno evolutivo che ha determinato un elevato tasso giornaliero di rottura dei fili, che avrebbe portato inevitabilmente al collasso anche per effetto dei soli carichi permanenti (la struttura stessa, ndr)». Aspi, per la perizia, ha sempre attuato un monitoraggio "statico": «Quel sistema era solo formalmente conforme alla normativa vigente e alla migliore pratica a causa del basso numero dei sensori e all'assenza di interpretazioni delle letture (dei dati riportati, ndr) in funzione delle criticità da monitorare». Solo in due occasioni, invece, era stato eseguito un «monitoraggio dinamico», ma senza poi seguirne le indicazioni: «Non è stato dato seguito alle raccomandazioni del Cesi di Milano che aveva consigliato l'installazione di un sistema di monitoraggio dinamico permanente». Le indagini commissionate da Aspi «non hanno consentito di pervenire ad un adeguato livello di conoscenza dell'effettivo stato di degrado dei cavi dei tiranti». E nel mirino dei periti finisce anche l'intervento di retrofitting che avrebbe dovuto mettere in sicurezza il viadotto a ottobre 2018, due mesi dopo il crollo. Intervento già al centro di nuove accuse, per falso, da parte della procura. «Le stime della corrosione già nel 1993 - scrivono i periti - con riferimento alle pile 9 e 10 risultavano rispettivamente pari all'8,6% e al 20,54% e sono in palese contraddizione con quella riportata nel progetto di retrofitting (che arriva ben 24 anni dopo, ndr), generalmente pari al 10-20% indistintamente per le due pile, che implicherebbe il completo arresto del progredire del fenomeno di corrosione in un quarto di secolo». Gli esperti ritengono la stima di Aspi sul retrofitting «chiaramente assurda e inaccettabile». E accusano la concessionaria «di aver ritardato l'intervento che, svolto con adeguato anticipo, avrebbe evitato il crollo». Dallo studio emergono anche problemi strutturali per carenze progettuali e difetti costruttivi, ma non alla qualità dei materiali. Aspi ha sostenuto che il Morandi sarebbe crollato per un «vizio occulto». I giudici sposano in parte la tesi. Ma evidenziano come sarebbero stati sufficienti «controlli e manutenzione per evidenziare questi difetti».
Marco Fagandini Tommaso Fregatti per "la Stampa" il 25 giugno 2021. La procura di Genova chiede che 59 dei 69 indagati per la strage del Ponte Morandi siano processati. Così come le due società chiamate a rispondere ai sensi della legge sulla responsabilità amministrativa, ovvero Autostrade per l'Italia e Spea, il soggetto che all'epoca monitorava le infrastrutture del concessionario. Le posizioni degli altri dieci indagati invece vengono stralciate, per essere sottoposte a un'ulteriore valutazione, prima di decidere se archiviarle o meno. Le tempistiche programmate dagli inquirenti sono state rispettate. «Non è stato perso neppure un giorno a disposizione per l'inchiesta», aveva detto il procuratore capo Francesco Cozzi. E il piano di arrivare alle richieste di rinvio a giudizio prima della pausa estiva si concretizzerà in queste ore, quando saranno notificati materialmente i documenti. A quel punto si chiarirà anche quali sono i dieci nomi "congelati" dai magistrati. Poco più di due anni e nove mesi sono serviti agli investigatori, coordinati dal procuratore aggiunto Paolo D'Ovidio e dai sostituti Massimo Terrile e Walter Cotugno, per fare luce su quel 14 agosto del 2018. Quando il viadotto Morandi era crollato ed erano morte 43 persone. Per gli inquirenti, quei 59 indagati già sapevano delle fragilità del viadotto. Ma non avrebbero fatto niente o quasi per monitorarne lo stato di salute effettivo. E per rinforzarlo come sarebbe stato necessario, a partire dallo strallo sud della pila 9, il primo a cedere. Il mantra era ridurre le spese in manutenzioni e sicurezza per aumentare i guadagni di Aspi, sostengono i finanzieri agli ordini dei colonnelli Ivan Bixio (Primo Gruppo) e Giampaolo Lo Turco (nucleo metropolitano), che hanno esaminato fra le migliaia di documenti dell'inchiesta anche anni di bilanci. Illuminanti, per gli inquirenti, sono state anche le due perizie, una sulle condizioni del viadotto e una sulle cause del crollo, disposte dal giudice per l'udienza preliminare Angela Maria Nutini ed eseguite in incidente probatorio (e quindi terze rispetto alle parti). Per i quattro autori della seconda, il crollo si sarebbe evitato se «fossero stati svolti i regolari controlli e le attività di manutenzione che avrebbero certamente individuato uno stato di corrosione cominciato sin dai primi anni di vita del ponte e che è progredito senza arrestarsi fino al momento del crollo», si legge nelle sintesi della perizia. Fra i 69 indagati ci sono figure di primissimo piano dell'epoca di Aspi, come l'ex amministratore delegato Giovanni Castellucci, il responsabile dell'ufficio centrale operazioni Paolo Berti e quello nazionale delle manutenzioni Michele Donferri Mitelli. Ci sono poi responsabili e tecnici di Spea e dirigenti ministeriali nel mirino, coloro che per la procura avrebbero dovuto vigilare e non lo fecero. Tra questi ultimi il provveditore alle opere pubbliche per Piemonte e Liguria Roberto Ferrazza. I reati contestati a vario titolo sono omicidio stradale plurimo, crollo doloso, falso e attentato alla sicurezza dei trasporti.
La Procura di Genova sul disastro del 14 agosto 2018. Ponte Morandi, 59 richieste di rinvio a giudizio: “Immobilismo e consapevolezza del rischio”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 25 Giugno 2021. La Procura di Genova ha inviato 59 richieste di rinvio a giudizio nell’ambito delle indagini sul crollo del Ponte Morandi di Genova. La tragedia il 14 agosto 2018. Morirono 43 persone nel crollo del viadotto. Oltre alle 59 richieste, 10 posizioni stralciate, tre indagati sono deceduti invece negli ultimi anni. Chiesto il giudizio anche per Aspi e Spea. L’udienza preliminare dovrebbe tenersi intorno a settembre. L’inchiesta è stata coordinata dal Procuratore aggiunto Paolo D’Ovidio e dai pm Walter Cotugno e Massimo Terrile. Destinatari della richiesta anche manager ed ex vertici della società Autostrade e di Spea. Tra i 59 nomi anche l’ex ad di Atlantia Giovanni Castellucci, l’ex ad di Spea Antonino Galatà, i manager Paolo Berti e Michele Donferri Mitelli. Le richieste, a quasi tre anni dalla tragedia, hanno attraversato due incidenti probatori, perizie, indagini. Le accuse, a vario titolo: omicidio colposo plurimo, attentato alla sicurezza dei trasporti e omicidio stradale, crollo doloso e omissione dolosa di dispositivi di sicurezza sul lavoro. Per gli inquirenti, come riporta l’Ansa, ci sarebbero stati “immobilismo” e “consapevolezza del rischio” per la sicurezza sul viadotto. “Il momento emotivamente più critico è stato quello del 14 agosto 2018, quando ho ricevuto la notizia – ha detto all’Agi il procuratore aggiunto Paolo D’Ovidio che coordina l’inchiesta sul crollo del Ponte Morandi – C’è massima soddisfazione, con la consapevolezza che i miei colleghi hanno fatto un lavoro straordinario”. Tra le posizioni stralciate quelle di Roberto Acerbis, Vittorio Barbieri, Galliano Di Marco, Giovanni Dionisi, Carlo Guagni, Giorgio Peroni, Luigi Pierbon, Alessandro Pirzio Birolli, Giorgio Ruffini, Alessandro Severoni. Tre i nomi invece espuntati, per decesso nel corso delle indagini: quello di Luigi Forti, Celso Gambera e Graziano Baldini. La società Spea è stata da due anni esautorata e i controlli delle infrastrutture affidati a società esterne di ingegneria. Potenziati i sistemi di controllo e prevenzione. Il traffico ha riaperto dalla serata del 4 agosto 2020. Il nuovo viadotto, progettato da Renzo Piano, è stato intitolato a San Giorgio. La gestione della struttura è stata restituita dal sindaco e commissario straordinario Enrico Bucci ad Autostrade per l’Italia Spa (Aspi).
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Fabio Savelli per il "Corriere della Sera" il 28 giugno 2021. «Incoscienza, negligenza, immobilismo, comunicazioni incomplete e fuorvianti» per oltre 50 anni della vita del ponte. L' accusa nei confronti di 59 imputati per il crollo del viadotto Morandi a Genova il 14 agosto 2018 racconta una sterminata galleria di errori ed omissioni che portarono ad una tragedia in cui persero la vita 43 persone. Famiglie distrutte. Una città, una Regione e non solo messe in ginocchio. Tra gli accusati il numero uno di Atlantia e anche della società Autostrade che avrebbe dovuto garantire la sicurezza di chi era in viaggio. Giovanni Castellucci che, a quasi tre anni dalla tragedia ed a indagini finalmente concluse, ha deciso di rispondere alle domande che in questi mesi in molti si sono e ci siamo fatti. I numeri dell'accusa parlano chiaro, del totale dei lavori fatti sul viadotto dal 1982 a oggi per il 98% sono stati eseguiti dal concessionario pubblico, e solo per meno del 2% da quando è diventato privato. 50 anni di inerzia: i cavi della pila collassata «non sono stati oggetto di alcun sostanziale intervento di manutenzione».
«Prima di ogni altra cosa mi permetta di esprimere ancora il dolore per quanto è successo, una tragedia immane che mi, e ci, ha segnato tutti profondamente: ai familiari delle vittime rinnovo tutta la mia sincera vicinanza. Venendo alla sua domanda, a indagini concluse e atti depositati emerge anche un'altra verità rispetto a quanto fin qui rappresentato: gli incidenti probatori hanno evidenziato che già nel 2000, quando la società fu privatizzata, il margine di sicurezza dello strallo del pilone 9 nel punto di rottura (cd reperto 132) si era ridotto dell'80%, nonostante l'importante ciclo di manutenzione del 1993 eseguito dallo Stato prima di consegnarci il Ponte. Perché il difetto di costruzione era occulto. Ma anche prima della tragedia i lavori sul ponte erano continui: il giorno dopo la caduta Il Secolo XIX titolò "crolla il ponte dei cantieri infiniti". Erano interventi di miglioramento della struttura e non correttivi perché nessuno dei tecnici ipotizzava la presenza del difetto di costruzione, per questo figurano alla voce investimenti e non manutenzioni».
Le ricordo che lei era a capo della società che gestiva quel viadotto su cui passavano migliaia di auto e camion al giorno. Per lei può essere pacifico che non si conoscesse il difetto, ma la tragedia c' è stata e sempre secondo l'accusa «c' era un diffuso stato di corrosione delle armature», per il quale non avete fatto nulla per evitarlo.
«Per me non c' è nulla di pacifico. Ma lo stesso incidente probatorio ha evidenziato che i cavi degli stralli avevano una ossidazione superficiale o al massimo modesta, tanto è vero che non sono stati nemmeno analizzati nel dettaglio; sul reperto 132, invece, la corrosione profonda era stata provocata da una serie di errori di costruzione: cavi portanti affastellati, bolla d' aria nel getto di calcestruzzo, guaine di protezione troppo corte, materiali estranei, fessurazioni diffuse. Il tutto sotto quasi mezzo metro di cemento armato. Un difetto occulto, ma viene da chiedersi se non sia stato addirittura occultato, dato che quello fu l'unico pilone a non essere mai stata sottoposto alla prova di carico obbligatoria per legge. Tecnici qualificati nel 1993, e cioè in occasione della precedente ristrutturazione, decisero per il pilone 9 solo l'impermeabilizzazione, con una prognosi di rivalutazione al 2030. Impostarono anche un sistema di monitoraggio attraverso una tecnologia elettrica che però non identificò il difetto, perché, come riportato dai periti, il modo più sicuro per individuare il problema sarebbe stato di demolire tutto il cemento armato e mettere a nudo i cavi profondi. Ma si sarebbe dovuto sapere dove e cosa cercare».
Sta dicendo che è colpa dello Stato? O dei «tecnici qualificati» come li chiama lei che nel 1993 fecero la prognosi? Peccato che siano passati quasi 25 anni. E su quel ponte siano passati milioni di veicoli.
«Guardi, è un fatto che nella consulenza tecnica di una delle parti offese viene riportata un'affermazione forte: nel 1993 fu "decretata la sorte" del ponte. E a sovrintendere quei lavori c' erano un collega di Morandi e l'ordinario del Politecnico di Milano. Quella stessa relazione dice anche che nessun tecnico ha mai preso in considerazione un crollo per la corrosione dei cavi primari: quelli più profondi e protetti che tenevano in piedi il ponte».
Veramente la conclusione delle indagini teorizza la presenza di una tendenza a risparmiare sulle manutenzioni e dare più dividendi agli azionisti. E lei capisce che se le accuse venissero confermate dai giudici, sarebbe una politica che facciamo fatica a commentare.
«I dividendi annui inseriti nel piano finanziario dopo la mia uscita e nonostante le nuove regole tariffarie sono circa il doppio di quelli distribuiti durante la mia gestione. Quanto alla spesa su ponti, viadotti e sicurezza dopo la privatizzazione del 2000 era più che raddoppiata. Ed era tutto alla luce del sole».
Le accuse si basano anche sulle telefonate fatte da Mion, storico amministratore delegato fino al 2016 della holding dei Benetton, che, intercettato, parla espressamente di riduzione delle manutenzioni.
«Non è vero e i numeri, pubblici, lo dimostrano. Tenga conto che le migliaia di intercettazioni fatte dopo la tragedia, su persone indagate o che potevano diventarlo, erano anche suscettibili di strumentalità per scagionarsi, accusare, compiacere, senza rispondere di quanto dichiarato. Prese complessivamente vi si legge tutto e il contrario di tutto. Più in generale vorrei ricordare che i rapporti miei e dei miei manager con Edizione Holding, con Gilberto Benetton, l'ad Mion, il dg Bertazzo e con il cda erano continui: mai una tensione o divergenza su dividendi o manutenzioni».
Insomma, la colpa è sempre di qualcun altro.
«Veramente mi pare il contrario, ovvero che si vogliano addossare le responsabilità a me. Dopo la privatizzazione abbiamo lavorato e investito tanto proprio sul tema della sicurezza. Tutor, asfalto drenante, cantieri notturni e tanto altro avevano ridotto radicalmente il numero di morti sulla strada: circa 300 vite risparmiate ogni anno. Eravamo considerati un modello in tema di sicurezza. E anche su Aeroporti di Roma avevamo applicato lo stesso metodo con successo trasformandolo in un punto di riferimento in Europa. Piuttosto mi stupisce il tentativo di tutti coloro che avevano un ruolo per assicurare la sicurezza e i controlli di trasformare dopo la tragedia quella che era la condivisione totale in ignoranza di tutto. Certo che mi domando se nel mio ruolo avrei potuto fare qualcosa di diverso, però tutti i giornalisti bene informati sanno che negli atti depositati ci sono i miei continui inviti ad affrontare il tema delle manutenzioni e del controllo del ponte in maniera organica e risolutiva nonostante le rassicurazioni dei tecnici interni ed esterni. Ma questo purtroppo non ha evitato la tragedia. E la documentazione raccolta dagli inquirenti solleva tanti legittimi interrogativi sulla gestione degli ultimi 50 anni che dovranno essere chiariti anche nel mio interesse. Il processo dirà qual è la verità, a cui tutti hanno diritto e per rispetto di coloro che della tragedia hanno tanto sofferto».
· Le Opere Malfatte.
Carlo Macrì per il "Corriere della Sera" il 4 novembre 2021. Che la malta cementizia per consolidare le parti cadenti del ponte Morandi, 113 metri d'altezza, che collega Catanzaro all'autostrada del Mediterraneo attraverso la superstrada dei Due Mari, fosse di qualità scadente, erano in tanti a saperlo. A cominciare dall'ingegnere dell'Anas Silvio Baudi, progettista e direttore dei lavori. I fratelli Eugenio e Sebastiano Sgromo, 52 e 55 anni, titolari della Tank di Lamezia Terme, la ditta che si è aggiudicata i lavori di manutenzione del Morandi per 25 miliardi di euro, avevano avvertito il tecnico confessando di aver utilizzato la malta «Azichem», anziché la «Basf». L'avevano fatto per risparmiare sui costi, perché inguaiati finanziariamente. «Io Azichem l'ho già utilizzata su una superficie pressoché liscia e ha fatto guai. Non so se è stata messa male, ma ha fatto guai, si è staccata» è stata la replica dell'ingegner Baudi. «È una porcheria questo prodotto, fa c... - sentenziava il capo cantiere Gaetano Curcio, geometra dell'Anas -. Noi al Morandi con questo materiale l'abbiamo fatto... e casca tutto». È lo spaccato inquietante che emerge dalle intercettazioni dell'operazione Brooklyn della Guardia di finanza di Catanzaro che ieri ha portato in carcere i titolari della Tank, il maresciallo della Finanza Michele Marinaro, amico fidato degli Sgromo, considerato dagli inquirenti la talpa all'interno della Procura di Catanzaro e la dipendente della ditta Rosa Cavaliere (ai domiciliari), intestataria fittizia dei beni dei due imprenditori che, già indagati in altre inchieste, avevano timore del sequestro e della confisca dei loro beni. Il giudice delle indagini preliminari Paola Ciriaco che ha accolto le tesi della Procura distrettuale ha invece applicato l'interdizione dalla professione per nove mesi all'ingegner Silvio Baudi e per sei al geometra Curcio. Il gip ha disposto anche il sequestro, con facoltà d'uso, del viadotto Morandi (il vero nome è Bisantis, ndr), costruito nel 1962 con le stesse tecniche del ponte di Genova. L'Anas in una nota ha fatto sapere che «sta fornendo tutta la necessaria collaborazione alle autorità inquirenti». Inoltre «conferma la sicurezza statica delle opere, poiché il sequestro riguarda il risanamento di alcune porzioni delle infrastrutture, senza impatto per la viabilità». La Tank dei fratelli Sgromo è un'impresa che i magistrati considerano «vicina» alla cosca Iannazzo di Lamezia Terme. Gennaro Pulice, laurea in Giurisprudenza e Scienze giuridiche, killer dei Iannazzo, oggi collaboratore di giustizia, ha riferito che molti lavori appaltati dagli Sgromo sono poi finiti in subappalto ai Iannazzo. Tra questi la caserma dei carabinieri e l'aeroporto internazionale di Lamezia Terme. Gli imprenditori lametini si sentivano al sicuro, anche perché potevano contare sulle «soffiate» del maresciallo Marinaro che, attraverso un giornalista, passava loro informazioni riservate. In cambio il sottufficiale, un passato alla Dia di Catanzaro, ha ottenuto il trasferimento alla sede di Reggio Calabria dei Servizi segreti, ufficio informazioni.
Inchiesta Ponte Morandi, a Catanzaro resta la paura ma monta la rabbia. Andrea Trapasso su Il Quotidiano del Sud il 5 novembre 2021. Un’opera maestosa a cui tutti hanno guardato e guardano con stupore e meraviglia. Non solo per chi giunge per la prima volta nel capoluogo di Regione, ma anche per i catanzaresi stessi – dei quali da 59 anni è uno tra i simboli nel mondo – l’impatto, arrivando dalla galleria del Sansinato o dalla zona Sud della città è sempre nuovo e sempre straordinario. Quel ponte che sovrasta tutto e tutti e che sembra sfidare le leggi della fisica rimane un qualcosa a cui guardare con grande ammirazione. Ma oggi, all’indomani dell’inchiesta “Brooklyn” che ha messo in luce il presunto utilizzo di materiali scadenti negli interventi di manutenzione straordinaria, verso il viadotto “Morandi-Bisantis” di Catanzaro si sono risvegliati, da parte un po’ di tutti, sentimenti di diffidenza e di paura. Come del resto era successo a più riprese negli ultimi anni. Tra il 2016 e il 2017, quando iniziarono a essere evidenti alcuni chiari segnali di ammaloramento che interessavano alcuni dei piloni che sostengono la maestosa arcata del viadotto. E che spinsero Anas, anche su pressioni del sindaco Sergio Abramo, a intraprendere quei lavori di manutenzione “esterna” oggi ancora in via di svolgimento e finiti purtroppo al centro dell’inchiesta giudiziaria. E ancor di più successe nell’agosto 2018, all’indomani del crollo del ponte di Genova che condivideva con l’opera catanzarese il progettista, l’ingegnere Riccardo Morandi, appunto. Iniziarono a circolare foto, seguirono tavoli tecnici in Comune, in città arrivò anche l’allora ministro alle Infrastrutture Danilo Toninelli, nell’ambito di un’attività di monitoraggio di tutti i ponti italiani. Tuttavia, dalla stessa Anas e dalle autorità arrivarono ampie rassicurazioni: il ponte Bisantis ha sì bisogno di “cure” vista la sua “anzianità”, si dovrà sì intervenire nel prossimo futuro anche sul piano dell’adeguamento sismico (e su ciò è in corso una progettazione che vede anche la collaborazione dell’Unical) ma è stabile e sicuro. A riprova di ciò fondamentali sono stati i risultati emersi dai carotaggi effettuati negli ultimi anni sulla resistenza a compressione media del calcestruzzo, pari a 504 Kg a centimetro quadro (ben oltre la media richiesta), che dimostrerebbero la compattezza e la longevità dei materiali usati, ormai quasi 60 anni fa, per la costruzione. E anche oggi, nelle ore successive allo scoppio del “bubbone” dell’indagine condotta dalla Guardia di Finanza, Anas e tutte le altre istituzioni hanno inteso tranquillizzare tutti: non esistono problemi di stabilità del viadotto, tanto che sia quest’ultimo che la galleria del Sansinato (anch’essa finita sotto i riflettori degli inquirenti e sequestrata) sono rimasti aperti al traffico. Ferme restando le dovute ulteriori indagini che dovranno essere condotte per fugare ogni dubbio. Ma l’impatto mediatico della vicenda ha di fatto risvegliato la tensione tra i cittadini. Che di punto in bianco si sono visti sbattere il “loro” ponte sulle prime pagine di tutti i media nazionali. Sui social, al netto degli immancabili post satirici e ironici, sono palpabili tanto i sentimenti di rabbia e indignazione («Maledetti criminali», «Catanzaro va amata e protetta dalle persone senza scrupoli», «Il profitto è sempre più importante delle persone» per citare qualche commento) che quelli di vera e propria paura di quanti temono che il viadotto possa rappresentare un pericolo. E intanto anche la politica ha iniziato a “mobilitarsi”. Oltre ai commenti della prima ora, molti dei quali volti proprio a richiedere approfondimenti decisi sulla questione, ieri mattina i consiglieri comunali di Catanzaro, Giuseppe Pisano e Sergio Costanzo, hanno ufficialmente chiesto a Eugenio Riccio, presidente della commissione Lavori pubblici, di convocare al più presto una riunione dell’organismo consiliare invitando a partecipare i dirigenti regionali dell’Anas. «C’è l’assoluta necessità che i vertici dell’Azienda spieghino nel dettaglio se sussistono pericoli per la stabilità del ponte e, ovviamente, per l’incolumità pubblica. È un atto dovuto nei confronti della città e dei catanzaresi dopo che l’inchiesta Brooklyn ha scoperchiato una serie di allarmanti illeciti», hanno sottolineato Pisano e Costanzo. «Non abbiamo dubbi – concludono – che il consigliere Riccio procederà nel minor tempo possibile a convocare la riunione con l’indispensabile presenza di Anas: sulla vicenda, della quale tutto il capoluogo è parte in causa, c’è bisogno della massima trasparenza». E mentre il consigliere comunale Antonio Corsi attacca duramente Anas («Troppo comodo per l’Anas – afferma – cavarsela con una nota in cui dice che collaborerà con gli inquirenti. Le responsabilità dell’Azienda sono enormi e credo che il presidente dell’Anas, Gemme, e l’amministratore delegato, Simonini, debbano con immediatezza rimuovere la dirigenza calabrese per il mancato controllo su quello che succedeva nel cantiere del Morandi»), Enzo Scalese, segretario generale della Cgil Area Vasta, Simone Celebre Fillea Cgil Calabria ed Emanuele Scalzo Fillea Cgil Area Vasta chiedono che «vengano disposti ed estesi maggiori controlli in tema di appalti pubblici e dell’applicazione della normativa di prevenzione antimafia, a partire dall’apertura delle fasi di gara e affidamento fino alla consegna ed ultimazione dei lavori».
La grande fuga. Report Rai PUNTATA DEL 31/05/2021 di Max Brod. Vicino alle nostre case, sotto il manto stradale, passano chilometri di tubazioni del gas. Quando si verificano delle perdite da queste condotte, il metano può arrivare anche dentro alle abitazioni e provocare gravi incidenti. Per questo motivo i tubi vanno posati a profondità di legge e gli scavi per ripararli vanno poi riempiti con materiali specifici. Ma avviene sempre così? Report ha girato l'Italia per capire come stanno le cose, scoprendo tubazioni superficiali e gestori che hanno dovuto correre ai ripari dopo la posa delle condotte. E i Comuni quanto controllano? Il problema della profondità sembra importare a pochi nonostante ciò che racconta chi sulle strade lavora tutti i giorni: le tubazioni superficiali sono all'ordine del giorno.
LA GRANDE FUGA di Max Brod collaborazione di Greta Orsi immagini di Paolo Palermo, Fabio Martinelli, Cristiano Forti e Andrea Lilli ricerche immagini di Eva Georganopoulou montaggio di Andrea Masella
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Chi controlla a quale profondità vengono interrati i tubi del gas? La domanda sembra banale, non lo è perché per questione di centimetri possono essere evitati degli incidenti che possono anche trasformarsi in tragedia. Il nostro Max Brod.
MAX BROD FUORI CAMPO Le fughe di gas sono un fenomeno costante. Nel 2019 ci sono stati 157 incidenti con 23 deceduti e 308 infortunati, quasi uno al giorno. La maggior parte degli eventi avviene nelle abitazioni. Ma anche la rete di tubi che scorre sotto la sede stradale è stata coinvolta in gravi incidenti.
FABIO GIOVINAZZO – RESP. NAZ. SETTORE SOCCORSO DEI VVF Chiaramente poi il gas si muove dove trova spazio e può capitare che possa eventualmente risalire attraverso wc in casa.
MAX BROD FUORI CAMPO Nel 2019 a Rocca di Papa, in provincia di Roma, il palazzo del Comune è esploso a causa di una fuga che si era originata proprio durante dei lavori di scavo. Muore anche il sindaco: era stato l’ultimo a uscire per assicurarsi che fossero tutti in salvo. Proprio per tutelare la sicurezza, la rete di tubi che veicola il gas deve essere posata, seguendo norme specifiche.
GIOVANNI PICCOLI – GESTORE PUBBLICO RETI GAS AGORDO (BL) Questo è il tubo di allacciamento appena posato è in acciaio ha un rivestimento in polietilene. La pala sta aggiungendo la sabbia allo scavo in modo da permettere progressivamente la copertura della tubazione.
MAX BROD Adesso cosa succede?
GIOVANNI PICCOLI – GESTORE PUBBLICO RETI GAS AGORDO (BL) Fase di posa del nastro segnalatore per permettere di rilevare la presenza della tubazione senza danneggiarla.
MAX BROD Perché è importante mettere a profondità i tubi?
GIOVANNI PICCOLI – GESTORE PUBBLICO RETI GAS AGORDO (BL) Quando le tubazioni sono poste troppo in superficie questo le fa durare meno, le sottopone a stress ai carichi dei mezzi che passano e qualche volta le saldature rompono e può fuoriuscire il gas.
MAX BROD FUORI CAMPO La profondità è importante anche per un altro aspetto, che riguarda tutti quelli per un motivo o per un altro potrebbero trovarsi a lavorare sulla strada.
NICOLA FIORE – RESP. LABORATORIO STRADE SAPIENZA UNIV. ROMA Se dovessi mettere questo tubo qui e poi dovessi effettuare operazioni di manutenzioni non del tubo ma della strada e allora rischio in effetti di rompere il tubo.
MAX BROD FUORI CAMPO È proprio ciò che è successo a Lecce quando nel 2013 durante degli scavi in un cantiere si trancia per errore un tubo del gas, il traffico si blocca e accorrono i vigili. Nessuno si fa male, ma il rischio c’è stato.
MAX BROD È questo il tubo rotto?
SERGIO DE NUZZO – INGEGNERE IMPRESA DI COSTRUZIONE Sì sì. Il foro è stato circa una ventina di metri a monte e quindi la tubazione era la stessa.
MAX BROD Questo qui è l’asfalto dove passano le macchine?
SERGIO DE NUZZO – INGEGNERE IMPRESA DI COSTRUZIONE Esattamente.
MAX BROD Distanza dall’asfalto è…
SERGIO DE NUZZO – INGEGNERE IMPRESA DI COSTRUZIONE 40-50 centimetri.
MAX BROD È normale che un tubo sia a quella profondità?
SERGIO DE NUZZO – INGEGNERE IMPRESA DI COSTRUZIONE Certamente no, una tubazione così grossa dovrebbe avere almeno un metro. MAX BROD FUORI CAMPO La procura archivia l’inchiesta aperta per capire se ci fossero responsabili. Secondo la normativa tecnica, salvo eccezioni, i tubi dovrebbero essere posizionati ad almeno 90 cm di profondità se la pressione è di media intensità, ad almeno 60 centimetri se la pressione è di bassa intensità. Il codice della strada, poi, parla di 100 cm per tutte le tubazioni. Qui siamo in giro sui cantieri di Roma.
MAX BROD Il gas vi è mai capitato di beccarlo? OPERAIO 1 Sì come no.
MAX BROD Sì? OPERAIO 1 A volte se non è segnalato.
OPERAIO 2 Se tolgo il pezzo di nastro del gas e gli passo sopra... non è che lo rimetto.
OPERAIO 1 In zona nomentana ma stava a una quarantina.
MAX BROD Quaranta centimetri?
OPERAIO 3 Io una volta stavo a via Ostiense con la fresa per fresare l’asfalto stava sotto l’asfalto.
OPERAIO 4 Il tubo perdeva praticamente togliendo il tappo che sarebbe l’asfalto è uscito il gas.
OPERAIO 5 Quando vanno a buttare lo scavatore fanno buu e lo beccano.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Come è emerso il problema? Con la liberalizzazione del mercato delle reti del Gas. A quel punto gli amministratori comunali potevano anche interrompere la concessione, a volta anche cinquantennale, e potevano trattare un prezzo del riscatto della rete stabilendo un valore, un valore residuo, cioè basato sull’effettivo stato della rete del gas. Ma non sempre si mettevano d’accordo con i gestori della rete, e quindi cosa succede: doveva intervenire un terzo, spesso si è andati a finire in un arbitrato e si andava a scavare per verificare, vedere con i propri occhi quale fosse lo stato dei tubi. Ecco lì a quel punto sono emerse delle sorprese, sorprese anche che avevano una ricaduta sulla sicurezza dei cittadini. A quel punto, come si sono comportati gli amministratori?
MAX BROD FUORI CAMPO L'avvocato Gaspare Bertolino ha tutelato molti comuni nei contenziosi con i gestori del gas.
GASPARE BERTOLINO – AVVOCATO CIVILISTA Almeno un centinaio in Lombardia, Veneto, Piemonte, ed Emilia-Romagna.
MAX BROD Su dieci sondaggi in media quanti venivano fuori irregolari?
GASPARE BERTOLINO – AVVOCATO CIVILISTA Qualche irregolarità c’era sempre.
MAX BROD Quanti di questi Comuni hanno rimesso a posto poi queste reti?
GASPARE BERTOLINO – AVVOCATO CIVILISTA Nessuno a mia conoscenza.
MAX BROD Cioè lei mi sta dicendo che ci sono in giro almeno un centinaio di Comuni che in questo momento potrebbero avere reti non a norma?
GASPARE BERTOLINO – AVVOCATO CIVILISTA Bah forse sono ottomila.
MAX BROD FUORI CAMPO A Sabbioneta, provincia di Mantova, la controversia va avanti per anni. Il Comune sostiene che parte dell’impianto abbia una profondità non a norma e pretende una riduzione del valore della rete, anche se l’ex gestore 2i Rete Gas respinge questa tesi, la strategia funziona.
MAX BROD Quella di cercare di capire se le reti sono a norma oppure no era una strategia vincente per contrattare sul prezzo?
ALDO VINCENZI – SINDACO SABBIONETA (MN) 2014-2019 Siamo riusciti a far risparmiare alle casse comunali 350mila euro.
MAX BROD FUORI CAMPO Diverse relazioni dell’ufficio tecnico del Comune, però, certificano le profondità irregolari, e Vincenzi deposita addirittura una denuncia parlando “di pericolo per la pubblica incolumità”. Ma poi si mette d’accordo con il gestore della rete Gas. E il problema sicurezza sparisce.
MAX BROD Una volta ritornati proprietari delle reti, avete rimesso a posto?
ALDO VINCENZI – SINDACO SABBIONETA (MN) 2014-2019 Di fatto quei carotaggi che sono stati fatti nel 2014, delle difformità non le hanno mostrate.
MAX BROD Però nel 2016 lei c’aveva queste in mano.
ALDO VINCENZI – SINDACO SABBIONETA (MN) 2014-2019 Sì.
MAX BROD La relazione tecnica del comune, qui le difformità ci sono.
ALDO VINCENZI – SINDACO SABBIONETA (MN) 2014-2019 Dove c’erano le difformità credo siano state modificati.
MAX BROD Questo però non è sicuro di questo. Si sentirebbe tranquillo oggi ad abitare in via san Remigio, in via Sollazzi, cioè dove sono state trovate tubazioni non a norma?
ALDO VINCENZI – SINDACO SABBIONETA (MN) 2014-2019 Sinceramente io questo aspetto non lo ricordo.
MAX BROD FUORI CAMPO Chi si ricorda invece, è chi quelle relazioni le scrisse.
MAX BROD Dottoressa ma poi che lei sappia, qualcuno è andato a rimettere a posto sui quei punti?
UFFICIO TECNICO COMUNE DI SABBIONETA (MN) No, ma certo che no.
MAX BROD Quindi scusi scherzavate quando andavate a fare una denuncia querela sulla sicurezza delle reti?
ALDO VINCENZI – SINDACO SABBIONETA (MN) 2014-2019 Allora, non scherzavamo, però, la fotografia della rete che abbiamo è una fotografia di rete sicura.
MAX BROD FUORI CAMPO Sarà anche sicura ma appena finita l’intervista tornano i dubbi.
ALDO VINCENZI – SINDACO SABBIONETA (MN) 2014-2019 Mi ha messo delle pulci, io sono il primo a dire che si poteva probabilmente fare qualcosa in più.
MAX BROD FUORI CAMPO Si poteva fare per esempio come Rivarolo del Re, provincia di Cremona, a cinque chilometri di distanza. Qui si fa un accertamento tecnico preventivo ed ecco che cosa si scopre.
MAX BROD Qui il tubo era a che profondità?
MARCO VEZZONI – SINDACO RIVAROLO DEL RE 2004-2019 Sui 60-70 cm.
MAX BROD Doveva essere?
MARCO VEZZONI – SINDACO RIVAROLO DEL RE 2004-2019 I 90 di legge.
MARCO VEZZONI – SINDACO RIVAROLO DEL RE 2004-2019 Dei 27 chilometri di rete c’è una non conformità che va dal 35 al 50%. MAX BROD FUORI CAMPO Anche qui alla fine si trova un accordo economico con 2i rete gas, ma questa volta con un obbligo in più.
MARCO VEZZONI – SINDACO RIVAROLO DEL RE 2004-2019 Se la rete non vale come dicevi perché non è a posto la conseguenza è che me la metti a posto.
MAX BROD FUORI CAMPO Sia a Rivarolo che a Sabbioneta il gestore era 2i Rete Gas, uno dei principali in Italia.
MAX BROD Ma perché scappa così? Volevamo solo capire come è possibile che una questione che riguarda la sicurezza come quella di Sabbioneta sia finita con uno sconto e basta. A Rivarolo avete rimesso a posto, Sabbioneta avete transato, vorremmo solo capire quante reti con problemi di profondità state gestendo, tutto qua…
MAX BROD FUORI CAMPO Questi non sembrano casi isolati, a confermarcelo è un ex dirigente in pensione di uno dei più grandi distributori di gas italiani.
MAX BROD È cosa risaputa che una parte delle reti non sia a norma?
EX DIRIGENTE AZIENDA DISTRIBUZIONE GAS Si sa, parlo soprattutto del periodo successivo al 2002, è da lì che sono cominciati i sondaggi in contraddittorio.
MAX BROD Quando i comuni facevano i sondaggi i problemi li trovavano?
EX DIRIGENTE AZIENDA DISTRIBUZIONE GAS Ma qualcosa si è sempre trovato.
MAX BROD FUORI CAMPO I Comuni possono fare verifiche sulla Rete. Ma chi dovrebbe farlo per contratto. È il gestore. A Viadana, provincia di Mantova, sono in guerra da anni con Italgas che ha in carico 170 km di tubi.
GIUSEPPE SANFELICI - RESPONSABILE UFF. TECNICO COMUNE VIADANA (MN) Nel 2019 durante dei lavori di manutenzione della rete di acquedotto abbiamo visto che una tubazione era a 60 cm, una tubazione di media pressione nel centro della frazione di Cogozzo.
MAX BROD Voi avevate fatto altri sondaggi?
GIUSEPPE SANFELICI - RESPONSABILE UFF. TECNICO COMUNE VIADANA (MN) Sì, avevamo fatto 15 sondaggi. Abbiamo riscontrato sempre profondità inferiori ai 100 cm, in alcuni casi anche 60 cm, abbiamo trovato anche tubi del gas affiancati ai tubi dell’acqua.
MAX BROD FUORI CAMPO Su questo avremmo voluto intervistare i responsabili di Italgas.
UFFICIO STAMPA ITALGAS Ma che vuoi sapere? Tutte le cose che volevi sapere te le abbiamo dette.
MAX BROD Eh ma no, se un ente pubblico si presenta all’Anac, parlando di problemi di sicurezza, la cosa di cui mi stupisco è che Italgas non trovi 10 minuti per risponderci su questa questione.
UFFICIO STAMPA ITALGAS Max, la rete di Viadana è sicura.
MAX BROD FUORI CAMPO A Viadana però continuano a dire di trovare problemi.
MAX BROD Che tipo di riempimento avete trovato qui?
GIUSEPPE SANFELICI - RESPONSABILE UFF. TECNICO COMUNE VIADANA (MN) Abbiamo trovato in prevalenza sabbia e abbiamo solo pochi centimetri di ghiaia mista qua nella parte più superficiale.
MAX BROD Invece il riempimento regolare come si fa?
GIUSEPPE SANFELICI - RESPONSABILE UFF. TECNICO COMUNE VIADANA (MN) Bisogna fare 20-30 cm di sabbia e poi il resto con la ghiaia che vedete qua sul camion a sinistra.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO A Sabbioneta, nel mantovano i tubi li gestiva 2i rete Gas, ma dal 2011 non è proprietaria delle reti, il nuovo gestore, Edigas, ci scrive che "le misure riscontrate non si discostano in maniera significativa da quelle previste dalla normativa e non c’è un potenziale pericolo". 2i rete Gas, invece, ci scrive che sulla questione della profondità "Non risultano altre contestazioni o lamentele che siano – invece - sfociate in contenziosi". Il contenzioso invece è aperto a Viadana, dove c'è in corso un contezioso con Italgas che ci scrive che ha ispezionato “158 mila metri di rete, eseguendo interventi per 3.160 metri”. “Le ispezioni effettuate dal comune - dice Italgas - sono da ritenersi inattendibili” secondo Italgas, perché sarebbero state effettuate in assenza il contraddittorio, con il gestore. Mentre sulle reti di Cogozzo, dice: "Non risultano difformità relative al tratto citato" e che in maniera più generica, “i re-interri come segnalati e denunciati dal tecnico comunale sono stati effettuati tutti secondo la normativa”. Ora i gestori delle reti hanno anche un controllore, avrebbero un controllore, che è l’Autorità di regolazione per l’energia e l’ambiente, che però vigila e controlla, ma non sullo stato e la profondità dei tubi. Una fotografia importante e interessante sullo stato dei tubi del gas in Italia. Potrebbe emergere dalle gare d’ambito: che cosa sono? Adesso quando si affidano dei tubi non si fa più una gara che riguarda un Comune, ma più Comuni, un’area praticamente vasta. L’Italia è divisa in 177 gare d’ambito, ecco, da questo, che vanno però a rilento, e da questo emerge già un particolare: che per esempio anche una città come Milano corre dei potenziali rischi, perché gli amministratori non conoscono effettivamente a quale profondità sono stati messi i tubi della vecchia rete.
STEFANO BESSEGHINI - PRESIDENTE AUTORITA’ REGOLAZIONE ENERGIA RETI E AMBIENTE Chi fa lo stato di consistenza della rete deve preoccuparsi di fare una dichiarazione veritiera.
MAX BROD Sì, però in questo caso il controllore è il controllato e se io chiedo al gestore se ha costruito bene o se le sue reti sono a norma, il gestore cosa deve fare mi dice sono a norma.
STEFANO BESSEGHINI - PRESIDENTE AUTORITA’ REGOLAZIONE ENERGIA RETI E AMBIENTE Beh sì, diciamo si prende una responsabilità non banale.
MAX BROD FUORI CAMPO A Milano, uno dei pochi ambiti ad essere arrivato in fondo alla gara del gas, ecco come ci rispondono quando chiediamo della profondità dei tubi.
MARCO GRANELLI - ASSESSORE A MOBILITÀ E LAVORI PUBBLICI COMUNE MILANO Stiamo ancora lavorando proprio per cercare di avere il più possibile una sorta di catasto del sottosuolo.
MAX BROD Vi è mai capitato di trovare una tubazione del gas non a profondità di norma?
FILIPPO SALUCCI - DIRETTORE AREA TRANSIZIONE AMBIENTALE COMUNE MILANO Noi abbiamo un’attività continua di monitoraggio di tutto ciò che sta nel sottosuolo, situazioni di questo tipo non le abbiamo mai verificate.
MAX BROD FUORI CAMPO Le verifiche saranno anche continue, però, quando chiediamo i dettagli della gara d’ambito sul gas, ci dicono così.
MAX BROD Se avete mai affrontato la questione della profondità di posa delle tubazioni?
FILIPPO SALUCCI - DIRETTORE AREA TRANSIZIONE AMBIENTALE COMUNE MILANO No. Però noi abbiamo un impianto molto vecchio per cui non siamo entrati troppo nel merito, quindi valuteremo questo tema solo in relazione a quando si proporrà come intervento di manutenzione straordinaria.
MAX BROD FUORI CAMPO Eppure una rete più è anziana più avrebbe bisogno di essere controllata, perché più a rischio, come ci spiegano sui cantieri milanesi.
ADDETTO UNARETI Ti dico che l’80% è rete vecchia.
MAX BROD Durante i lavori stradali si beccano per sbaglio i tubi del gas?
ADDETTO UNARETI Sì, li trovi perché non sono segnalati, capito?
MAX BROD Queste qui sono le famose reti vecchie del gas di Milano?
CAPO CANTIERE Stiamo scavando sopra il tubo rimuovendo il vecchio e alla stessa posizione posiamo il nuovo.
MAX BROD E quanti anni aveva?
CAPO CANTIERE Questa qua sarà del ’59 -’60.
MAX BROD E come mai lo cambiate?
CAPO CANTIERE Per manutenzione, anche perché iniziava un po’a perdere. Potrebbero anche esserci infiltrazioni d’acqua perché il catrame magari non riesce più a isolarlo.
MAX BROD FUORI CAMPO Se una fuga di gas è grave, anche la magistratura indaga, ma se non lo è, chi verifica le responsabilità di quanto successo?
MAX BROD Un organo terzo, che quando c’è una fuga controlla se quella fuga era stata negligenza o semplicemente il caso, non esiste?
STEFANO BESSEGHINI - PRESIDENTE AUTORITA’ REGOLAZIONE ENERGIA RETI E AMBIENTE Beh dipende da che tipo di esiti ha avuto. Se non coinvolge cose o persone, non viene neppure registrato come incidente gas. MAX BROD Il Comitato Italiano Gas infatti nel 2019 individua solo 11 incidenti sulle reti di distribuzione. Perché non conta tutte le fughe, ma solo quelle con morti feriti o più di cinquemila euro di danni.
MAX BROD Non è un evento che non è successo, è un evento che per fortuna è andato bene.
STEFANO BESSEGHINI - PRESIDENTE AUTORITA’ REGOLAZIONE ENERGIA RETI E AMBIENTE Il problema che si è fortunosamente evitato per l’operatore potrebbe presentarsi in maniera non fortunosa, quindi non ha nessun interesse a trascurare la situazione.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Di fatto quando si tratta di casi di dispersione di fuga di gas, magari durante dei lavori stradali, spariscono dalle statistiche, non dovrebbero secondo noi, perché come sono emersi in questi giorni quattro, cinque episodi di cronaca, ecco, è andata bene, però sono il segnale, potrebbero almeno essere il segnale di qualcosa che non va. Magari di cartine sulla distribuzione della rete che non sono fatte in maniera precisa, delle ditte che lavorano male o addirittura dei tubi che sono stati installati troppo in superficie. Ora, tutta questa tipologia di incidenti potrebbe invece essere significativa se si dovesse ripetere con una certa frequenza: di un pericolo di qualcosa che potrebbe anche degenerare. Ecco, sorprende che in materia di gas, almeno di tubi, gli amministratori navighino bendati.
“Chiudete subito viadotti e gallerie della Palermo-Messina”: il carteggio shock svela in che condizioni è l’autostrada. L’Espresso ha letto i documenti che si rimpallano il ministero dei trasporti, le prefetture e il Consorzio autostrade siciliane (che assicura: “Nessun pericolo”). Intanto le procure hanno sequestrato trenta cavalcavia. Benvenuti nell’arteria che si dovrebbe collegare al Ponte sullo Stretto. Antonio Fraschilla su L'Espresso l'1 giugno 2021. In Italia c’è un’autostrada che cade a pezzi, con procure che hanno già sequestrato trenta sovrappassi e una recente ispezione del ministero delle Infrastrutture che chiede adesso di chiudere anche otto gallerie e due viadotti. L’autostrada che frana è la Palermo-Messina, la più inaugurata d’Italia, uno dei fiori all’occhiello dei governi berlusconiani con il buon Silvio più volte fotografato a tagliare nastri anche per aprire il viadotto “Inganno”, mai nome più profetico. Decenni di incuria, incassi dai pedaggi serviti per pagare negli anni passati un esercito di casellanti ed ecco che i nodi vengono al pettine. L’autostrada, iniziata negli anni Sessanta e completata sulla soglia degli anni Duemila al costo di quasi 5 miliardi di euro, per il ministero in ampi tratti andrebbe chiusa, e subito. Questa arteria è proprio quella che dovrebbe collegare la Sicilia al Ponte sullo Stretto. L’agenda dei politici locali e nazionali è occupata dalla grande infrastruttura faraonica e multi miliardaria, ma più prosaicamente gli stessi politici sembrano essersi dimenticati dell’autostrada che a quel Ponte si dovrebbe agganciare. La Palermo-Messina è un colabrodo: secondo le stime dell’ente regionale che gestisce il tratto occorrerebbe un miliardo di euro per metterla in sicurezza. Ma per l’autostrada non si chiedono soldi, mentre l’Espresso è venuto in possesso di un carteggio riservato tra ministero Infrastrutture, Prefetture e vertici del Consorzio autostrade siciliane (Cas), con rimpalli di responsabilità perfino su chi dovrebbe prendere la decisione di chiudere i tratti incriminati. Un carteggio già sulle scrivanie delle procure territorialmente competenti, che in questi ultimi dodici mesi hanno sequestrato una trentina di sovrappassi e alcuni viadotti: «Ma più di questo non possiamo fare, il nostro mestiere non è quello di avviare i lavori necessari», dicono allargando le braccia dietro le loro scrivanie i procuratori di Messina e Barcellona Pozzo di Gotto, Maurizio De Lucia ed Emanuele Crescenti.
La relazione shock. Il 21 marzo scorso l’ispettore Placido Migliorino consegna alle autorità una relazione di 46 pagine dopo quattro giorni di verifiche e controlli. In quelle pagine annota non solo una serie di irregolarità, come diverse «barriere che non risultano ancorate agli impalcati» o che «in tutta l’autostrada ispezionata è stata constatata, in più punti, la presenza di barriere incidentate che rappresentano un grave pregiudizio alla sicurezza della circolazione autostradale». Migliorino segnala anche gravi criticità strutturali e chiede la chiusura al traffico di intere porzioni dell’arteria. Come la galleria San Giovanni, dove potrebbero esserci «possibili distacchi di pezzi di calotta». Per questo, si legge nella relazione, «si ritiene che non sussistano le condizioni per poter garantire il transito della circolazione». Alle stesse conclusioni l’ispettore è arrivato per altre sette gallerie: Perara, Baglio, Telegrafo, Mongiove, Torretta, Calavà e Petraro. Ma non finisce qui. Nella relazione finale l’ispettore Migliorino chiede la chiusura anche di due viadotti: il Pollina e il Furitano. Il primo è lungo un chilometro ed è costituito da 14 campate. Un’opera importante. Migliorino ha scoperto che dal 2005 il Pollina non ha un certificato di collaudo statico. Sembra incredibile, ma è così. Nel 2004 una parte dei piloni vennero interessati da una frana che ha rotto anche dei muri di contenimento. In quegli anni berlusconiani si doveva andare di fretta, il presidente del Consiglio con il suo console in Sicilia, Gianfranco Micciché, dovevano fare le foto di rito per l’inaugurazione spettacolo (Berlusconi si mise anche a fare il casellante il giorno del taglio del nastro): così i collaudatori diedero un via libera parziale, legato al ripristino dei muri di contenimento e a verifiche sulla frana in corso. Nessuno ha poi fatto nulla e così, scrive adesso Migliorino, «l’opera è ancora oggi sprovvista del necessario certificato e non può essere mantenuta in esercizio». Sul Furitano invece l’aggancio alla collina, alla “spalla”, si è abbassato di 50 centimetri e ne restano «appena dieci».
Il carteggio riservato. Migliorino consegna la relazione e inizia uno strano carteggio. Il primo aprile il Cas risponde al ministero inviando i pareri di tre docenti universitari che, pur ribadendo la necessità di analisi più approfondite, sostengono non vi siano rischi di cedimento. Il 3 aprile Migliorino ribatte: «La missiva di riscontro non ottempera alle richieste ma propone alcune considerazioni finalizzate a giustificare atteggiamenti attendisti». Il 7 aprile il direttore del Cas Salvatore Minaldi replica: «Gli interventi di mitigazione del rischio individuati sono allo stato idonei ad assicurare le esigenze di circolazione. Va tenuto in conto il principio della proporzionalità. A tale principio deve attenersi una chiusura al traffico, visto i disagi alla popolazione e possibili profili di danno erariale per l’ente a causa dei mancati ricavi». Ma nella stessa lettera Minaldi scrive: «Rimetto alle competenti prefetture la valutazione in ordine alla ricorrenza dei presupposti per l’adozione di un provvedimento di sospensione della circolazione». I prefetti saltano sulla sedia e per primo, l’8 aprile, risponde quello di Palermo, Giuseppe Forlani: «I profili di competenza prefettizia non ricomprendono situazioni tecnico-strutturali. Il pericolo per l’incolumità pubblica in questo caso è infatti direttamente riconducibile alle condizioni delle opere d’arte ispezionate e non alla circolazione stradale». Il prefetto Forlani anzi chiede al Cas di essere informato preventivamente in caso di chiusura dell’autostrada. Passano i giorni, le settimane. Ma non accade nulla: «Io attendo ancora risposte concrete alle richieste di chiusura di tratti dell’autostrada», dice all’Espresso Migliorino, «mi hanno mandato atti che non hanno a che fare con i punti da me contestati e per i quali ho chiesto la chiusura. A Genova dopo una analoga mia relazione hanno chiuso i viadotti, in Sicilia no e sinceramente non so perché: ma lì c’è una situazione di alto rischio. Non stupiamoci se vengono giù viadotti e gallerie». Nel frattempo tutta l’autostrada è stata chiusa per i trasporti eccezionali oltre le 50 tonnellate. Per il ministero «una scelta inutile, perché due camion in coda da 40 tonnellate pesano di più».
Da “Libero quotidiano” il 13 maggio 2021. È crollato a La Spezia il ponte levatoio della Darsena di Pagliari. Per fortuna non ci sono stati feriti. Si tratta di un ponte gestito dall'Autorità Portuale della città, di servizio ad una Darsena per imbarcazioni da diporto. «Il ponte», - ha spiegato il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti - è crollato, pare, per il cedimento di un pistone del meccanismo di apertura e chiusura. Dopo il passaggio di una barca, un ingranaggio del movimento avrebbe ceduto». Inaugurato nel 2010, il ponte era lungo 21 metri. Rientrava nel progetto di realizzazione della darsena di Pagliari, costato 9 milioni.
· La Strage del Mottarone.
Cronaca di una tragedia annunciata. Report Rai PUNTATA DEL 27/12/2021 di Walter Molino Collaborazione di Federico Marconi
Storia di una concessione pubblica tra carenze di manutenzione e di personale.
23 maggio 2021, è passato da poco mezzogiorno, la cabina numero 3 della Funivia del Mottarone precipita nel vuoto. Muoiono 14 persone, l’unico superstite è il piccolo Eitan, 5 anni. È la più grande tragedia mai avvenuta su una funivia. L’inchiesta della Procura di Verbania accerta che la cabina è caduta perché si è spezzata la fune traente e i freni di emergenza risultavano disattivati. Sono passati sei mesi dalla strage del Mottarone, la cabina numero 3 è stata recuperata solo poche settimane fa con un’operazione spettacolare dei Vigili del Fuoco, ma il collegio dei periti nominati dal Tribunale, che dovranno accertare le cause della rottura della fune, sono appena all’inizio delle loro analisi e hanno già chiesto una proroga di sei mesi. Ma perché quella fune di acciaio si è spezzata? L’inchiesta di Report approfondisce tutti gli aspetti legati ai controlli e alla manutenzione, sottolineando le carenze di personale e di risorse degli organi statali di vigilanza del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Organi che avrebbero dovuto vigilare anche sui conflitti d’interesse. Grazie a documenti inediti e testimonianze esclusive, Report ricostruisce anche la storia della concessione pubblica dell’impianto, gestito fin dagli anni ‘70 da società riferibili alla famiglia di Luigi Nerini.
CRONACA DI UNA TRAGEDIA ANNUNCIATA di Walter Molino collaborazione Federico Marconi immagini Cristiano Forti montaggio Giorgio Vallati
CARABINIERI DI VERBANIA Verbania, Carabinieri.
OPERATRICE 118 Guardi, è caduta una cabina alla funivia di Stresa. Ma è sopra in cima al Mottarone quindi…
CARABINIERI DI VERBANIA Ma Alpino o Mottarone?
OPERATRICE 118 Che casino, che casino…
CARABINIERI DI VERBANIA Vai verso Stresa, poi ti dico! Al momento so che è caduta la cabina della funivia ma non so dove. OPERATRICE 118 Pare che la cabina sia caduta in mezzo al bosco, non è nemmeno raggiungibile da un mezzo via terra. All’interno c’erano almeno sei persone, non si sa che in condizioni, sicuramente sono gravissimi.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO 23 maggio 2021, è passato da poco mezzogiorno. La cabina numero 3 della Funivia che da Stresa porta in cima al Mottarone precipita nel vuoto. Muoiono 14 persone, tra cui due bambini. Un solo superstite, il piccolo Eitan, 5 anni, che nella tragedia perde entrambi i genitori, il fratellino e i bisnonni.
CRISTIANO L’ALTRELLA – VOLONTARIO VIGILI DEL FUOCO Siamo stati i primi ad arrivare. Uno scenario del genere non mi era mai successo ma… lo sconforto era forte e la rabbia di non essere riuscito a fare di più. Finché campo ce l’avrò negli occhi.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO A provocare l’incidente è stata la rottura del cavo trainante della funivia che si è staccato dalla testa fusa, il cono di acciaio che collega il carrello al cavo traente. Ma perché non sono scattati i freni di emergenza che dovrebbero attivarsi proprio in queste circostanze? I carabinieri convocano i responsabili dell’impianto: Luigi Nerini è l’amministratore della società Ferrovie del Mottarone. La sua famiglia gestisce la funivia fin da quando venne costruita nel 1970. L’ingegner Enrico Perocchio è il direttore di esercizio, responsabile della sicurezza. Gabriele Tadini è il capo servizio e storico factotum della funivia. Perito elettrotecnico, lavora in funivia da 36 anni. Ed è proprio lui a fare la rivelazione più sconvolgente.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Qual è questa dichiarazione lo vedremo. Gabriele Tadini è un caposervizio ed è uno dei responsabili, protagonisti di questa tragedia. Si arrangiava un po’ in tutte le maniere pur di far funzionare le funivie, a prescindere, pure quando c’erano delle anomalie. L’altro protagonista è Enrico Perocchio, direttore d’esercizio, da lui dipendevano la sicurezza e la manutenzione che era stata appaltata al colosso Leitner. E poi c’è Luigi Nerini che parla per la prima volta dopo la tragedia, è l’amministratore delle funivie di Ferrovie del Mottarone, da cui dipendono appunto le funivie, la cui famiglia di Nerini gestisce dagli anni ’70. È una vera miniera d’oro, capace di trasportare nei momenti pre-Covid fino a 100mila persone ogni anno. Ci si imbarca sul lago Maggiore, da Stresa, e poi si arriva sulla cima del Mottarone. E lì si può godere di un paesaggio mozzafiato: hai la possibilità di vedere i sette laghi che sono tra il Piemonte e la Lombardia. Hai davanti il Monte Rosa, le Alpi marittime e addirittura la pianura padana. Poi hai accesso a 17 piste di sci, quattro per le escursioni. Insomma: un paradiso. Solo che quel 23 maggio è scoppiato l’inferno. Ecco, dietro a tragedie come queste c’è sempre una fatalità. Ma se ci vai a vedere dentro c’è una storia di confitti, o anche coincidenze di interessi, di superficialità, di omessi controlli. A Stresa un po' tutti hanno lavorato, magari a livello stagionale, all’interno delle funivie del Mottarone e c’era la consapevolezza che la sicurezza venisse gestita con una certa superficialità, leggerezza. Il nostro Walter Molino ha incontrato due testimoni, due di quegli ex dipendenti, che hanno mostrato e ve li faremo vedere dei video e della documentazione inedita. E alla fine di questa inchiesta sorge un dubbio: ma come viene gestita la sicurezza nelle nostre funivie e negli impianti sciistici. Quanti Nerini, quanti Perocchio, quanti Tadini ci sono a controllare le 1700 funivie del nostro paese? Il nostro Walter Molino.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il capo servizio Tadini confessa la terribile verità: è stato lui a disattivare i freni di emergenza della cabina tramite l’uso di due forchettoni. E così se il cavo si spezza, la cabina scivola via.
GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA – RICOSTRUZIONE AUDIO Come tutte le mattine, intorno alle 9, ho fatto fare alle cabine un giro di prova. Mi sono accorto di qualche anomalia sull’impianto frenante della cabina numero 3. Sentivo un rumore provenire dalla centralina dei freni, dovuto presumibilmente alla perdita di pressione del sistema frenante. Per impedire questo problema ed evitare arresti intempestivi della cabina ho evitato di togliere il forchettone che inibisce il sistema frenante.
ROBERTO MARCHIONI – COMANDANTE VVFF VERBANIA Quelli sono i freni di emergenza. In caso di emergenza i freni intervengono, stringono queste ganasce intorno alla fune portante e la cabina si ferma. WALTER MOLINO I freni non sono stati scattati perché c’erano i forchettoni.
ROBERTO MARCHIONI – COMANDANTE VVFF VERBANIA Quell’oggetto metallico rosso. WALTER MOLINO Quello lì rosso.
ROBERTO MARCHIONI – COMANDANTE VVFF VERBANIA 3 Esatto. Quel forchettone tiene aperte le ganasce…
WALTER MOLINO E impedisce ai freni di chiudersi.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Dopo la confessione del capo servizio la Procura ordina il fermo dei tre indagati: il reo confesso Tadini, il direttore d’esercizio e suo superiore Enrico Perocchio e il gestore Luigi Nerini.
OLIMPIA BOSSI – PROCURATRICE CAPO DI VERBANIA Tadini non è stato ritenuto attendibile …
WALTER MOLINO Quando diceva che Nerini e Perocchio sapevano..
OLIMPIA BOSSI – PROCURATRICE CAPO DI VERBANIA Esatto.
WALTER MOLINO Lei invece ci crede che lo sapessero.
OLIMPIA BOSSI – PROCURATRICE CAPO DI VERBANIA Ci sono altre fonti dichiarative, testimoni, dipendenti che hanno detto la stessa cosa.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Due giorni dopo però il colpo di scena. Il Giudice per le indagini preliminari Donatella Banci Buonamici dispone la scarcerazione dei fermati. Tadini va ai domiciliari ma per Nerini e Perocchio non ci sarebbero gravi indizi di colpevolezza e tornano in libertà. Ma potevano non sapere? I testimoni convocati dai magistrati confermano che l’uso dei forchettoni per non far attivare i freni fosse noto ai superiori di Tadini.
EMANUELE ROSSI – MACCHINISTA (RICOSTRUZIONE AUDIO) La decisione di mettere i forchettoni è stata solamente del capo servizio, ma credo abbia informato del problema ai freni sia il direttore di esercizio che il gestore.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO L’agente di stazione Fabrizio Coppi aggiunge un particolare importante.
FABRIZIO COPPI – AGENTE DI STAZIONE (RICOSTRUZIONE AUDIO) Questi dispositivi vengono messi la sera all’ultima corsa, quando la vettura arriva nella stazione di rinvio vuota.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Ma questo video, girato da un suo collega qualche anno prima della tragedia, dimostra che venivano inseriti anche durante il giro di prova con l’agente di vettura a bordo.
TESTIMONE 2 – EX DIPENDENTE FUNIVIA (RICOSTRUZIONE VIDEO) Io mi sono rifiutato una volta, forse al primo tronco, che ho fatto anche la ripresa col telefonino. Io ho avuto paura perché mi ha detto vaffanculo, ti mando via a calci nel culo, la vettura deve viaggiare. WALTER MOLINO FUORI CAMPO 4 Tadini ordinava di tenere i forchettoni, gli operatori dovevano eseguire, pur sapendo di commettere una grave imprudenza.
FABRIZIO COPPI – AGENTE DI STAZIONE (RICOSTRUZIONE AUDIO) La vettura non può viaggiare con il forchettone inserito. Ricordo di averlo chiesto proprio a Tadini quando mi ordinò di non rimuovere il forchettone dalla cabina 3. Ma lui mi rispose: “Prima che si rompa una traente o una testa fusa ce ne vuole”.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Ad ogni guasto l’impianto si doveva fermare. Il capo servizio Tadini doveva informare il direttore d’esercizio Perocchio e questi chiamare la manutenzione. Tempi morti. Meglio andare coi forchettoni e non perdere i 5 mila euro di incasso al giorno.
WALTER MOLINO Gabriele Tadini è il colpevole di questa storia
MARCELLO PERILLO – AVVOCATO TADINI Lo ha confessato, lo ha ammesso per la questione della disattivazione dei freni, la questione dei famosi forchettoni sicuramente sì.
WALTER MOLINO Lei è sicuro che Tadini condividesse l’uso dei forchettoni con Perocchio e Nerini?
MARCELLO PERILLO – AVVOCATO TADINI Loro sapevano. Infatti più volte a domanda’ del giudice che chiedeva se ci fosse stata proprio una comunicazione diretta specifica del giudice il dottor Tadini ha detto non sono sicuro non lo so.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Dalla riapertura post lockdown del 26 aprile alla tragedia del 23 maggio, la società di Nerini ha incassato 140 mila euro. Alcuni dipendenti però hanno riferito ai magistrati che alla cassa si faceva moltissimo nero. Come conferma il nostro testimone.
TESTIMONE 1 – EX DIPENDENTE FUNIVIA (RICOSTRUZIONE VIDEO) La funivia è sempre stata una miniera d’oro. Il nero l’han sempre fatto. Prima c’erano i biglietti con lo scontrino, dopo han messo queste tesserine elettroniche e non ti dico il casotto che facevano. Quando uno restituiva la scheda la rivendevano, le schede rivendute due o tre volte nella stessa settimana.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Schede d’ingresso rivendute più volte, accordi con tour operator e agenzie di viaggio per non fatturare i biglietti di gruppo. Tutto da dimostrare ma se così fosse, si tratterebbe di decine e decine di migliaia di euro incassati in nero da un privato che ha in concessione un bene pubblico. Negli ultimi anni di gestione prima del Covid, gli utili della società Ferrovie del Mottarone erano in crescita costante 230 mila euro nel 2017, 350 mila nel 2018, più di 400 mila nel 2019.
OLIMPIA BOSSI – PROCURATRICE CAPO DI VERBANIA La scelta era quella di far funzionare l’impianto, nella convinzione che tanto la fune non si sarebbe spezzata. WALTER MOLINO FUORI CAMPO 5 Bisognerà aspettare cinque mesi perché il Tribunale del Riesame accolga il ricorso della Procura: secondo i giudici la gestione della sicurezza sulla funivia del Mottarone era “spregiudicata e superficiale”, la custodia cautelare per Nerini e Perocchio era giusta, ma nel frattempo i due indagati sono rimasti sempre a piede libero.
WALTER MOLINO Lei teme che in tutto questo tempo il fatto che siano rimasti in libertà sia Nerini che Perocchio possa avere in qualche modo minacciato le vostre indagini?
OLIMPIA BOSSI – PROCURATRICE CAPO DI VERBANIA (sorride in silenzio)
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Va beh, insomma, il sorriso della procuratrice capo di Verbania è più eloquente di una richiesta di custodia cautelare. Allora, una cabina, la numero 3 della funivia del Mottarone, crolla, cade, precipita con 15 persone a bordo. Questo perché si è rotta la fune nel punto della testa fusa, cioè nell’apice, in quel cono di acciaio che collega il carrello alla fune trainante della funivia. Ecco, in quel caso là, per evitare che quella cabina precipitasse bisognava che entrassero in funzione i freni, il sistema di freno di emergenza. Ma non poteva entrare in funzione perché era stato bloccato da un forchettone. Lo aveva fatto il caposervizio Gabriele Tadini, perché aveva registrato delle anomalie nel tempo di questo sistema frenante, per evitare che entrasse in funzione, senza una giusta causa, mentre stava svolgendo una normale corsa, ci ha infilato dei forchettoni. Costo: 50 euro. Che però gli hanno consentito di continuare a incassare centinaia di migliaia di euro. Tadini ha anche detto del fatto che avesse dovuto inserire i forchettoni anche il direttore di esercizio Perocchio e anche l’amministratore Nerini. I magistrati gli hanno creduto. Gli hanno anche chiesto l’arresto. Poi ci è stata la scarcerazione, è stato richiesto nuovamente l’arresto e adesso è tutto pendente in Cassazione. Ora però bisognerà capire perché la fune si è rotta all’altezza della testa fusa. Il tribunale ha nominato due squadre di periti, una proprio per esaminare lo stato della testa fusa, l’altro gruppo di periti si dovrà concentrare sulla scatola nera presente nella cabina. Che però è rimasta per tanto tempo nel bosco, le operazioni di recupero sono state lunghissime. E per arrivare ad una verità occorrerà ancora molto altro tempo. L’incidente probatorio è stato fissato, l’udienza è stata fissata a luglio prossimo. Insomma ci vorrà ancora molto tempo per arrivare a scoprire una verità quando invece forse la tragedia del Mottarone era la cronaca di una tragedia annunciata.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO La cabina n. 3 della funivia del Mottarone è stata recuperata soltanto l’otto novembre scorso, a quasi sei mesi dalla tragedia. La gru volante dei vigili dei fuoco l’ha depositata su un mezzo per trasporti eccezionali, poi è stata rinchiusa in questo capannone della Protezione civile. I periti hanno dovuto estrarre la testa fusa dal tronco di abete in cui si è conficcata nell’impatto. Ma dall’incidente probatorio del 16 dicembre scorso, non è arrivata alcuna risposta.
WALTER MOLINO Ma perché da quando è stata portata qui la testa fusa ancora non è stata aperta?
DONATO FIRRAO – PROF. EMERITO POLITECNICO DI TORINO - CONSULENTE DELLA PROCURA Vuolsi così colà dove si puote, ciò che si vuole, e più non dimandare.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO 6 Questa è la volontà di chi decide, spiega con una citazione dantesca il professor Firrao, consulente della Procura e tra i massimi esperti di tecnologia dei metalli. E chi decide è il collegio dei periti che per analizzare la testa fusa ha chiesto una proroga e la prossima udienza dell’incidente probatorio si terrà addirittura il 14 luglio prossimo.
ANNA GASPARRO – AVVOCATO PARTE CIVILE E PARENTE DI DUE VITTIME La comunicazione di quella data fa male perché è normale che dopo un anno e due mesi… noi aspettiamo solo giustizia perché noi abbiamo lasciato i nostri cari nel pieno delle loro vite. Mio cugino aveva 45 anni, la moglie 40, compiva proprio quel giorno. WALTER MOLINO FUORI CAMPO L’unica conclusione al momento riguarda la fune traente. I periti nominati dal Tribunale ne hanno tagliato ed esaminato 15 metri senza riscontrare anomalie.
DONATO FIRRAO – PROF. EMERITO POLITECNICO DI TORINO – CONSULENTE DELLA PROCURA Fuori verbale: avessero esaminato 25 altri pezzi, avrebbero trovato lo stesso risultato. Quelli erano stati controllati con la magnetoinduzione ed erano stati valutati per bene. Di più non posso dire.
WALTER MOLINO La fune andava bene.
DONATO FIRRAO – Professore emerito Politecnico di Torino – Consulente della Procura In quei tratti lì che sono stati provati, e ne avrebbero potuti provare anche 10 altri, andava bene. Ma non è lì che si è rotta.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO La fune traente che si è spezzata era stata installata nel 1997, è lunga circa tre chilometri e pesa quasi sei tonnellate. I periti avrebbero potuto esaminarla anche tutta, dice il professor Firrao, ma il risultato sarebbe stato lo stesso perché gli esami magnetoinduttivi erano già stati fatti. Per capire cosa è successo è urgente aprire la testa fusa, ma a sei mesi dalla tragedia c’è ancora da aspettare.
WALTER MOLINO Come facciamo a verificare lo stato di salute di funi che teoricamente potrebbero durare quasi in eterno?
PAOLO PENNACCHI – INGEGNERE POLITECNICO CONSULENTE DELLA PROCURA Si fanno degli esami di tipo magnetoscopici, sono delle specie di carrelli che si muovono sulle funi con un elaboratore. È responsabilità delle persone che poi fanno queste cose.
WALTER MOLINO La fune si è spezzata più o meno all’altezza della testa fusa.
PAOLO PENNACCHI – INGEGNERE POLITECNICO CONSULENTE DELLA PROCURA La testa fusa è la parte di estremità della fune traente, questo elemento evidenziato in blu. La fune si è spezzata all’ingresso di questa cosa qua.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO 7 L’ultimo esame sulla fune traente è stato eseguito dalla Sateco, un fornitore di Leitner che lavora su 3 mila impianti in 11 paesi. WALTER MOLINO Il vostro ultimo controllo sulle funi è quello del 5 novembre 2020, esecuzione esame magnetoinduttivo su tutte le funi.
ALESSANDRO ROSSI – AMMINISTRATORE SATECO (AL TELEFONO) Nel caso di quella fune c’erano dei probabili fili rotti interni, singoli, sparsi lungo la fune, come rilevati dai nostri esami, è una cosa normale che su una fune ci possano essere dei fili rotti. Eravamo ben lontano dai criteri di scarto. La parte terminale, quella che si dice dentro il canotto della testa fusa, non è ispezionabile col metodo magnetoinduttivo. WALTER MOLINO E come si fa a ispezionare la testa fusa?
ALESSANDRO ROSSI – AMMINISTRATORE SATECO (AL TELEFONO) Si guarda, e si cambia ogni cinque anni. I riferimenti su chi deve fare queste cose sono abbastanza chiari, insomma no?
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, il riferimento è chiaro, dice Rossi, l’amministratore della Sateco, la società che per la Leitner, che gestisce tutta la manutenzione ha monitorato lo stato del cavo della funivia. Ha anche rilevato alcuni fili rotti all’interno del cavo, ma nella normalità per un cavo che è in esercizio da circa 20 anni. Inoltre dice Rossi guardate che il problema non è sul cavo ma è in prossimità della testa fusa, e quella può essere ispezionata soltanto a vista e poi deve essere cambiata ogni cinque anni. Questo secondo, almeno, le regole del ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Ogni cinque anni. Tuttavia ci sono dei regolamenti e delle direttive europee che raccomanderebbero invece il cambio della testa fusa ogni quattro anni. Quella del Mottarone aveva quattro anni e mezzo di vita. Però l’ispezione a vista l’avrebbe dovuta fare il caposervizio Gabriele Tadini, come speriamo la facciano tutti i capi servizio delle 1700 funivie nel nostro paese. Però questo pone il tema su come funzionano i controlli e le manutenzioni. Per conto della funivia del Mottarone, la manutenzione abbiamo visto spetterebbe alla società Leitner, che però si serve di ditte fornitrici: la Sateco per monitorare il cavo, la Rvs per quello che riguarda le riparazioni. Doveva occuparsi anche di riparare il sistema dei freni di emergenza, quello della cabina 3. Nel contratto dovrebbe farlo intervenire la Leitner immediatamente, nel giro di otto ore. Il nostro Walter Molino ha recuperato una e-mail che dimostra che questo è avvenuto con giorni e giorni di ritardo. Inoltre quelle anomalie che sono state riscontrate vanno, devono essere registrate sul diario di bordo. Il nostro Walter Molino ha incontrato invece due ex dipendenti della funivia del Mottarone. Ha raccolto le loro testimonianze e con documentazione e video inediti ne esce fuori una rappresentazione della gestione della sicurezza fatta con una certa allegria, giusto per utilizzare un eufemismo
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Qui a Stresa, turisti a parte, ci si conosce tutti. E tutti hanno un padre, un figlio, un cugino che ha lavorato con Nerini e parlare coi magistrati non è cosa semplice. Di notte, sulle sponde del lago Maggiore, incontriamo qualcuno che su quella funivia ci ha lavorato a lungo.
TESTIMONE 1 – EX DIPENDENTE FUNIVIA (RICOSTRUZIONE) 8 Noi abbiamo un registro giornale, come sulle navi. Ogni giorno si segnalavano le anomalie, i dati… Io negli ultimi anni ho cominciato a fotografare sti registri perché avevo paura che facessero dei verbali falsi.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Queste sono le foto scattate dal nostro testimone. Decine, centinaia di pagine che potrebbero raccontare molto sulla gestione della sicurezza di un impianto che trasportava ogni anno migliaia di passeggeri.
TESTIMONE 1 – EX DIPENDENTE FUNIVIA (RICOSTRUZIONE) Un giorno, guasto uguale a quello che avevano in quel periodo. Avviso giù, dico: “C’è il freno che non va, aspetta a fare i biglietti”. Il capo servizio in questo caso sospende l’impianto, se non sei in sicurezza non viaggi. Mi chiama il gestore dal telefono interno: “Eh, no io qua ho una coda fino…”
WALTER MOLINO Nerini.
TESTIMONE 1 – EX DIPENDENTE FUNIVIA (RICOSTRUZIONE) Il sistema era: per non fermare il servizio tu viaggiavi con quella cabina vuota. Se ti torna indietro e dal palo va a finire in stazione a piena velocità, magari con la gente che ti sta aspettando, succede un disastro anche lì. Lui dice: “Ah si, vabbè mettiamo i ceppi…”. Io dico: lì non manovro, per me non esiste. Dopo un quarto d’ora mi vedo arrivare Tadini alle spalle: “Sono arrivato io, puoi andare a casa”.
OLIMPIA BOSSI – PROCURATRICE CAPO DI VERBANIA Ma questa gente qua, che sa, ma perché non lo viene a dire a noi? Vai dai Carabinieri e digli: “guarda io ho visto questo, questo e questo”. Sennò io come faccio a saperlo?
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Agli arresti domiciliari c’è rimasto per sei mesi soltanto Gabriele Tadini. Ma perché il capo servizio si è assunto una responsabilità così grande?
GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA Io mi sono preso le mie responsabilità, poi guardi in questo momento non me la sento di rispondere.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Per non fermare la funivia Tadini ha inserito i forchettoni ma avrebbe invece potuto disporre che insieme ai passeggeri viaggiasse un agente di vettura. Un manovratore capace di intervenire a bordo in caso di blocco dei freni.
MARCELLO PERILLO – AVVOCATO DI TADINI Però probabilmente il vetturino costa e il forchettone non ha prezzo.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il forchettone è un pezzo di metallo che pesa cinque chili, vale una cinquantina di euro ed è costato la vita a 14 persone. Ma è vero che la presenza di un manovratore a bordo non è più obbligatoria nelle cabine con capienza fino a 25 persone. Quelle della funivia del Mottarone potrebbe portare fino a 40 passeggeri, ma già prima del Covid la capienza era stata ridotta a 15. Era una precauzione presa per le anomalie ai freni? L’ex agente di stazione Coppi dichiara che c’era anche stata per un momento l’idea di chiudere l’impianto per risolvere il problema.
FABRIZIO COPPI – AGENTE DI STAZIONE (RICOSTRUZIONE AUDIO) Questa avaria, nonostante ci sia stato l’intervento di una ditta specializzata continuava a manifestarsi, ragion per cui Tadini voleva chiudere l’impianto per procedere alla riparazione. Ma avendo riaperto la stagione da circa un mese dopo il fermo dovuto al Covid, con l’arrivo del flusso turistico a livello economico sarebbe stato catastrofico bloccare l’impianto.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il problema alla centralina dei freni della cabina 3, lo conoscevano tutti. Almeno dal mese di febbraio, più di tre mesi prima della tragedia. Questa è la relazione di intervento del 4 febbraio 2021 effettuata dalla RVS, società specializzata di Torino e fornitrice di Leitner. Sostituzione cartucce, filtri e pompa, vengono ricaricati gli accumulatori e controllate le perdite d’olio. Secondo quanto racconta Tadini ai magistrati, il problema alla centralina si ripresenta già una settimana dopo ma i tecnici della manutenzione torneranno al Mottarone solo il 3 maggio.
LUIGI NERINI – GESTORE DELLA FUNIVIA Io personalmente ero tranquillo perché avevo due professionisti che mi seguivano la parte tecnica e una ditta leader mondiale. Più tranquillo di così.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Era tranquillo Luigi Nerini. I giudici lo vorrebbero agli arresti ma i suoi avvocati hanno fatto ricorso in Cassazione e nell’attesa si è rintanato nella sua villa. Parla per la prima volta dopo la tragedia.
LUIGI NERINI – GESTORE DELLA FUNIVIA Se ci fossero state delle manutenzioni da fare erano già pagate, perché io versavo 150 mila euro alla Leitner, contratto casco. Se c’è da cambiare un bullone, loro devono intervenire in otto ore.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Nerini ha ragione. Nel 2016 ha stipulato un contratto con Leitner, leader mondiale degli impianti a fune che ha curato i lavori di ristrutturazione dell’impianto. 1 milione 651 mila euro per la manutenzione ordinaria e straordinaria. Circa 150 mila euro all’anno per un contratto casco, tutto compreso e prevede un servizio di pronto intervento garantito entro 8 ore.
WALTER MOLINO Con quel tipo di contratto, da 150mila euro comunque, Leitner forse non è così motivata ad intervenire tutte le volte perchè ogni volta che esce perde soldi rispetto a quei 150 mila.
LUIGI NERINI – GESTORE DELLA FUNIVIA Allora l’avido non sono io. Probabilmente è qualcun altro.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Nonostante l’intervento sulle centraline dei freni fosse richiesto con urgenza il 17 aprile i tecnici della ditta delle manutenzione RVS risaliranno al Mottarone soltanto il 3 maggio, altro che 8 ore. E l’intervento non riuscì neppure bene. Il factotum delle funivie Tadini racconta ai magistrati che il problema alle centraline si ripresenterà appena qualche giorno dopo.
OLIMPIA BOSSI – PUBBLICO MINISTERO Il 3 maggio c’è stato il secondo intervento di RVS sulle centraline. Come è andato?
GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA (RICOSTRUZIONE AUDIO) Dopo qualche giorno ho cominciato di nuovo a sentire lo stesso scherzo, era sempre più frequente… ho richiamato l’ingegner Perocchio e gli ho detto: “Qua ho ancora questo problema”. Mi fa: “Allora ti manderò fuori ancora il tecnico”. Sarebbe stato il terzo intervento.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO La RVS di Torino è uno dei principali fornitori di impianti oleodinamici nel settore delle funivie. È qui che sono stati realizzati i sistemi frenanti della funivia del Mottarone.
WALTER MOLINO Cercavo l’amministratore, il signor Pezzolo.
VOCE DAL CITOFONO Mi dice che adesso è impegnato.
WALTER MOLINO Avrei bisogno di parlargli di una questione legata alla storia della funivia del Mottarone.
VOCE DAL CITOFONO Direzioneatat***.it
WALTER MOLINO FUORI CAMPO All’email RVS ha fatto rispondere dal suo avvocato, ma solo per dire che tutti gli impegni con Leitner sono stati rispettati. Nel frattempo però Tadini era costretto ad arrangiarsi, su richiesta dello stesso direttore dell’impianto Perocchio.
GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA (RICOSTRUZIONE AUDIO) Io dico: devo andare avanti, intanto come faccio? “Arrangiati” mi ha detto. Ve’ che finisce che metto su i ceppi sui freni”.
OLIMPIA BOSSI – PUBBLICO MINISTERO Lei ha detto a Perocchio: “Finisce che metto su i ceppi?”
GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA (RICOSTRUZIONE AUDIO) Si.
OLIMPIA BOSSI – PUBBLICO MINISTERO E Perocchio cosa le ha risposto?
GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA (RICOSTRUZIONE AUDIO) Non mi ha risposto.
OLIMPIA BOSSI – PUBBLICO MINISTERO Quante volte ha usato questo sistema dei ceppi?
GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA (RICOSTRUZIONE AUDIO) Dalla riapertura del 26 aprile almeno una decina di volte.
WALTER MOLINO Lei effettivamente era al corrente che l’ultimo intervento della RVS non aveva risolto il problema alla centralina dei freni?
ENRICO PEROCCHIO – DIRETTORE DI ESERCIZIO FUNIVIA Non voglio e non è corretto, in questo momento della mia vita, della mia situazione, rilasciare dichiarazioni. Io con la coscienza mi sento a posto perché sennò non sarei riuscito neanche a sopravvivere.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il 2 settembre scorso si presenta ai Carabinieri di Verbania Stefano Gandini, un ex dipendente stagionale della funivia. Ai militari consegna un cd con alcune registrazioni che ha fatto di nascosto col suo telefonino. E quando gli investigatori le ascoltano, rimangono sgomenti.
STEFANO GANDINI – EX DIPENDENTE FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Potete venire a vedere la cabina? Perché perde olio!
SILVIO RIZZOLO – EX VICE CAPO SERVIZIO FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Cosa vuol dire perde olio…
STEFANO GANDINI – EX DIPENDENTE FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Stamattina o trovato una pozzanghera di olio sul tetto della cabina. Perdeva olio. Scriviamo sul libro giornale… oggi non prendo in carico la cabina.
SILVIO RIZZOLO – EX VICE CAPO SERVIZIO FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Devi dire dov’è sto olio? Devi dire dov’è sto olio! STEFANO GANDINI – EX DIPENDENTE FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Sui fazzoletti che ho appena pulito porca troia! Mettete i ceppi, fate quello che ritenete più giusto, io non prendo la cabina n.3 oggi, quando il direttore d’esercizio l’ingegner Perocchio, mi prende in mano la vettura e mi dice che è tutto a posto io parto.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO In questa registrazione che Report vi può fare ascoltare in esclusiva, l’ex dipendente della Funivia Gandini si rifiuta di salire a bordo della cabina num.3 perché ha riscontrato lo stesso problema segnalato da Tadini, una perdita di olio alle centralina dei freni. Quello che è inquietante è che questo fatto è avvenuto il 27 maggio 2019. Esattamente due anni prima della tragedia.
STEFANO GANDINI – EX DIPENDENTE FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Non mi sento di portare 40 persone a cabinata su questo impianto.
ALESSANDRO ZURIGO – DIPENDENTE FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Dicono che va ben?
STEFANO GANDINI – EX DIPENDENTE FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Ti dicono sempre che va bene, tanto poi ci sei su te! Chiamiamo il Ministero, esce fuori il Ministero, mi verifica la cabina.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Gandini si sfoga con i suoi colleghi, scrive una lettera al direttore di esercizio e viene immediatamente convocato nell’ufficio di Nerini.
LUIGI NERINI – AMMINISTRATORE FUNIVIA DEL MOTTARONE Stefano, io ne ho pieni i coglioni qui di certi comportamenti. Il capo servizio ha detto che la vettura si può usare e tu la usi… Vuoi piantare rogne? Non ci sono problemi tanto tu un posto di lavoro nel raggio di 300 chilometri non lo trovi più, qui lo dico e qui lo confermo.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Anziché preoccuparsi dell’avaria che mette a rischio la sicurezza dei passeggeri Nerini minaccia di licenziare il suo dipendente. Gandini l’indomani torna al lavoro e discute con il capo servizio Tadini.
GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Gli ho fin fatto mettere su temporaneamente i ceppi per controllare, quando ho visto che era tutto a posto glieli ho fatti togliere. Ma vabbè la vettura è a posto.
STEFANO GANDINI – EX DIPENDENTE FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Mi fai avere la dichiarazione di conformità dei lavori che sono stati fatti…
GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Ma noooo! Quale conformità!
STEFANO GANDINI – EX DIPENDENTE FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) E noooo! E no e dai!!! Ma ho capito, anche al ponte Morandi hanno detto che è a posto, poi guarda che fine ha fatto, non esageriamo!
GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Nooo! Non esageriamo, non parliamo del ponte Morandi cazzo!
STEFANO GANDINI – EX DIPENDENTE FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Se scende il freno non riesco a riarmarlo.
GABRIELE TADINI – CAPO SERVIZIO FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Non posso mica chiudere l’impianto per una cazzata così.
STEFANO GANDINI – EX DIPENDENTE FUNIVIA (AUDIO ORIGINALE) Va bene, non rischio la vita!
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO “Non rischio la vita”. Queste erano le parole dell’ex dipendente Stefano Gandini che due anni prima che avvenisse la tragedia aveva anche lanciato una tremenda profezia: “Finisce come con il ponte Morandi”. Quando aveva annunciato ai suoi capi le anomalie del sistema frenante della cabina 3, e anche l’uso dei forchettoni e quelle anomalie che avrebbe voluto mettere nero su bianco sul diario di bordo, aveva annunciato quest’intenzione a Nerini, Nerini ha minacciato di licenziarlo. Ora che ci fossero i problemi al sistema frenante della cabina 3 a Stresa, lo sapevano anche i sassi. Tanto che la ditta che veniva a fare le riparazioni per conto della Leitner, la Rvs, era intervenuta più volte sul sistema frenante, e le anomalie si ripresentavano. Al punto che Tadini a un certo punto è stato costretto a mettere i forchettoni, e ha anche avvisato il direttore d’esercizio Perocchio. Insomma, qui il tema si pone sulla manutenzione. La Leitner è adesso indagata nella persona del suo amministratore delegato Anton Seeber, insieme ad altri due tecnici. Uno è quello che ha costruito la testa fusa. Nel 2015 infatti è stata proprio la Leitner a ristrutturare l’impianto, quando aveva costituito un’associazione temporanea d’impresa con Nerini proprio per 13 aggiudicarsi un bando. Un bando che è convenuto a tutti e due perché la Leitner ha inglobato un ricco contratto di manutenzione, Nerini ha potuto continuare a fare quello che ha sempre fatto con la sua famiglia, cioè a gestire le Funivie dal 1970 quando sono state costruite per la prima volta. Una pausa solo di tre anni, dal 1997 al 2001, che è stata gestita la funivia da un consorzio pubblico. Solo che quando c’è stato da investire pesantemente sull’impianto, è sempre intervenuto il denaro pubblico. È successo nel bando del 2014, quando una società della Regione Piemonte aveva scritto le condizioni per partecipare al bando, aveva fissato una scadenza del 2030, ma aveva fissato soprattutto la scadenza del 2029 per cambiare i cavi della funivia. Era un esborso importante, per questo poi le gare sono andate deserte. Ma in quell’anno c’erano le elezioni a Stresa, e il sindaco Canio Di Milia non ha voluto lasciare la funivia chiusa. E allora che cosa fa: interviene direttamente con le casse del Comune, rende il bando più appetibile, pone delle condizioni più favorevoli. Aggiunge un milione al milione e 750 che aveva già messo la Regione, quindi alla fine diventano due milioni, quelli dell’intervento del Comune. Soprattutto dal bando sparisce l’obbligo di rispettare la clausola di protezione per i lavoratori. Insomma, chi vince il bando può guadagnare di più, è anche più libero di licenziare. E a quel punto Nerini e Leitner si possono presentare.
CANIO DI MILIA – EX SINDACO DI STRESA Si è fatto di tutto per far ripartire questo impianto perché in quegli anni lì in città c’era chi sosteneva che la funivia si dovesse chiudere. Basta… costerà tanto sta funivia. Ed è vero, costa tanto al Comune di Stresa.
WALTER MOLINO Poi il Comune ci ha messo un milione in più…
LUIGI NERINI – AMMINISTRATORE FUNIVIE DEL MOTTARONE Il Comune non mi dà nessun contributo. Mi sta solo restituendo i soldi che ho anticipato io per il Comune. Queste cose non vengono dette però. Il Comune doveva mettere per il bando 1 milione 800 mila euro.
WALTER MOLINO E glieli sta dando anno per anno.
LUIGI NERINI – AMMINISTRATORE FUNIVIE DEL MOTTARONE Io li ho anticipati di tasca mia, quindi il Comune sta solo restituendo i miei soldi. Punto. Non mi sta dando neppure un centesimo.
WALTER MOLINO Ma una volta che il Comune avrà finito di restituirle tutti questi soldi, lei però ci avrà guadagnato. 250, 300 mila euro di ricavi annui, negli ultimi due anni più o meno.
LUIGI NERINI – AMMINISTRATORE FUNIVIE DEL MOTTARONE Hmm.. ni. Scrivono sempre quello che vogliono.
WALTER MOLINO Dicono che pure lei scriveva quello che voleva nei bilanci. I biglietti in nero…
LUIGI NERINI – AMMINISTRATORE FUNIVIE DEL MOTTARONE Io pagavo decine di migliaia di euro di tasse, quindi…
WALTER MOLINO FUORI CAMPO 14 L’associazione temporanea d’impresa formata da Leitner, all’80 per cento, e la Ferrovie del Mottarone di Nerini, al 20, non ha concorrenti e si aggiudica la gara. Con un ribasso dello 0,1%.
WALTER MOLINO Quindi il socio forte in quella fase è Leitner.
DANIELE TERRANOVA – AVVOCATO TRIBUTARISTA Ferrovie del Mottarone vuole fare il gestore ma per prendere la concessione ha bisogno di un socio finanziariamente forte, che è Leitner. Qual è il senso economico per Leitner? Aggiudicarsi poi un contratto per la manutenzione degli impianti.
PIERO VALLENZASCA – EX CONSIGLIERE COMUNALE DI STRESA Il privato non ha messo niente. 1 milione 750 mila euro che sono i soldi in capitale che mette la Regione, e poi prendiamo i 2 milioni spalmati in 13 anni che ci mette il Comune, poi il privato si fa finanziare per il resto da un istituto di credito e con i trasferimenti del Comune paga capitale, annualità e interessi. E alla fine non ci mette un euro. WALTER MOLINO Un altro elemento è la cancellazione, dal primo al secondo bando, della clausola sociale. Non obbligate più il concessionario a tutelare, a mantenere i posti di lavoro.
CANIO DI MILIA – EX SINDACO DI STRESA Si, si! Qui parliamo di una decina di dipendenti. Cioè non parliamo di cinquecento…Volevano essere liberi nel poter partecipare al bando e non avere condizioni di questo tipo.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Più liberi di licenziare ma con più soldi per il personale. Si, perché se tra il primo e il secondo bando sparisce la clausola di protezione per i lavoratori, nel Piano economico finanziario i soldi per il personale passano da 5,3 a 6,4 milioni di euro. Ma se i dipendenti sono diminuiti e non servono più neanche gli agenti di vettura, dove vanno a finire tutti questi soldi?
WALTER MOLINO Non è che Nerini vi ha un po’ presi per il collo come amministrazione comunale
CANIO DI MILIA – EX SINDACO DI STRESA Nerini, mi ricordo, quelle volte che si è discusso… non voleva partecipare alla gara della funivia eh!
WALTER MOLINO A chi lo diceva?
CANIO DI MILIA – EX SINDACO DI STRESA Lo diceva sempre a tutti
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il 6 maggio 2015 l’ultimo consiglio comunale prima di andare a nuove elezioni, delibera l’aumento di 1 milione di euro del contributo comunale. Ma non tutti ritengono che quello sia un atto legittimo. WALTER MOLINO 15 C’è qualcuno che dice: attenzione. Mancano meno di 45 giorni alle nuove elezioni, un impegno così importante è giusto che lo prenda il prossimo consiglio comunale e questo consigliere che lo dice è lei. Riteniamo opportuno non prendere parte alla discussione. Lei è ancora convinto di questa cosa che pensava nel 2015?
ALESSANDRO BERTOLINO – VICE SINDACO DI STRESA Domanda… Che un consiglio dovesse esprimersi così a ridosso della scadenza io non lo trovo corretto. WALTER MOLINO Alessandro Bertolino a quel tempo era consigliere comunale di opposizione, oggi invece è il vice sindaco leghista di Stresa. WALTER MOLINO Secondo lei perché Canio Di Milia ha insistito così tanto? L’ultima seduta del consiglio, perché?
ALESSANDRO BERTOLINO – VICE SINDACO DI STRESA Non lo so probabilmente voleva chiudere la partita, voleva mettere un cappello, abbiamo fatto anche questo, ci portiamo a casa un pacchetto di voti in più.
WALTER MOLINO Nerini faceva riferimento un po’ a questo gruppo di maggioranza si può dire?
ALESSANDRO BERTOLINO – VICE SINDACO DI STRESA Lui era dieci anni che trattava con loro, erano dieci anni che la controparte eran loro.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO La controparte cambia ma Nerini resta. Nonostante la grave inadempienza sia drammaticamente dimostrata dalle 14 vittime, il Comune di Stresa ha impiegato quasi sei mesi per notificare la revoca della concessione alla società di Nerini che adesso si prepara a fare ricorso.
MARCELLA SEVERINO – SINDACO DI STRESA Dal 23 maggio a oggi noi non abbiamo neanche versato un euro, quindi non c’era l’urgenza diciamo di andare a tutelare questa cosa.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO A Nerini vanno anche i contratti di affitto compresi nella concessione: per esempio quello dell’Idrovolante, il bar-ristorante annesso alla stazione di partenza della funivia: 30 mila euro l’anno.
MARCELLA SEVERINO – SINDACO DI STRESA L’idrovolante verserà il canone a noi, assolutamente.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO E invece, anche dopo la tragedia, il canone di affitto dell’Idrovolante ha continuato a incassarlo Nerini.
WALTER MOLINO Dopo la tragedia voi avete continuato a pagare l’affitto.
GESTORE IDROVOLANTE 16 Si, c’era una scadenza… io ho sentito il mio commercialista, lui ha sentito il commercialista della controparte, cioè del Nerini e dopo un po’ è arrivata la fattura. E io non avendo avuto indicazioni l’ho pagata. WALTER MOLINO E dal Comune nessuno si è fatto sentire
GESTORE IDROVOLANTE No, no niente
MARCELLA SEVERINO Nerini a oggi è un indagato.
WALTER MOLINO La cabina è caduta, il servizio è sospeso, non c’è neppure il servizio sostitutivo nonostante questo sia assimilabile al servizio pubblico locale.
MARCELLA SEVERINO – SINDACO DI STRESA Guardi lì potremmo aprire una parentesi, l’attrazione era la funivia, anni fa era stato fatto un servizio sostitutivo ma non c’erano utenze
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Come se lo spiega che questa concessione ce l’ha avuta sempre Nerini?
MARCELLA SEVERINO – SINDACO DI STRESA Bella domanda.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Eh, mi dia anche una risposta.
MARCELLA SEVERINO – SINDACO DI STRESA Chi lo sa. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bella domanda. Che però rimane senza risposta. Il suo attuale vicesindaco in quota Lega, Alessandro Bertolino, era all’epoca della concessione del Bando consigliere comunale. Aveva abbandonato l’aula in segno di protesta perché secondo lui il fatto che il sindaco avesse incrementato la quota del Comune per agevolare la ristrutturazione dell’impianto in prossimità delle elezioni, nei 45 giorni prima che si andasse a votare, fosse un’operazione illegittima, una forzatura fatta solo per incassare un pacchetto di voti. Invece la sindaca ha impiegato ben 6 mesi per chiedere la revoca della concessione a Nerini. Questo ritardo ha consentito a Nerini di incassare intanto una rata semestrale di circa 15mila euro dal bar Idrovolante che è annesso alla stazione della funivia. E sempre la sindaca di Stresa ha chiesto un parere alla Corte dei Conti perché non vuole pagare la spesa di 18mila euro all’agenzia funebre che ha recuperato i corpi delle vittime della tragedia del Mottarone. L’ha chiamata l’autorità giudiziaria si giustifica così la sindaca. Ora probabilmente anche questa vicenda finirà in tribunale, non vogliamo pensare che l’epilogo possa essere che a qualcuno venga in mente di presentare il conto alle famiglie delle vittime. Sarebbe una beffa dopo la cronaca di una tragedia annunciata, ma anche quella di un conflitto di interessi annunciato. L’ha scoperto l’ultimo il nostro Walter Molino riguarda il direttore di esercizio Enrico Perocchio, che quando è stato ingaggiato da Nerini è 17 anche dipendente della Leitner, cioè della società che fa manutenzione sull’ impianto. Ma chi doveva controllare se n’è accorto? In questo caso doveva essere l’Ustif.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO A vigilare per conto dello Stato sulla sicurezza degli impianti è l’USTIF, Ufficio speciale trasporti a impianti fissi, un organo periferico del Ministero delle Infrastrutture. Alla sede dell’USTIF di Torino non ci hanno voluto ricevere, ma dopo la nostra visita il direttore Ivano Cumerlato ci ha telefonato.
IVANO CUMERLATO DIRETTORE USTIF TORINO (AL TELEFONO) Io non ho paura perché so di aver fatto tutto quello che è necessario per far sì che la sicurezza fosse assicurata su quell’impianto.
WALTER MOLINO L’USTIF deve dare il nulla osta per la nomina del direttore d’esercizio.
IVANO CUMERLATO DIRETTORE USTIF TORINO (AL TELEFONO) Si, esatto.
WALTER MOLINO L’ingegner Perocchio è direttore d’esercizio della funivia ma è anche un dipendente della Leitner che ha un contratto di manutenzione per la funivia. Non c’è un conflitto d’interessi?
IVANO CUMERLATO DIRETTORE USTIF TORINO (AL TELEFONO) Cioè, io pensavo veramente… visto che il contratto di manutenzione noi non dobbiamo averlo per forza…
WALTER MOLINO Lo sapeva benissimo che era un dipendente della Leitner.
IVANO CUMERLATO DIRETTORE USTIF TORINO (AL TELEFONO) Si, questo qua si.
WALTER MOLINO Secondo lei l’ingegner Perocchio è stato all’altezza del suo compito? IVANO CUMERLATO DIRETTORE USTIF TORINO (AL TELEFONO) Non è che possa dire che l’ingegner Perocchio sia il non plus ultra, sicuramente ci sono tecnici che conoscono bene l’impianto altrettanto quanto lui. ENRICO PEROCCHIO – DIRETTORE DI ESERCIZIO FUNIVIA Non c’è conflitto d’interessi ma non voglio rilasciare dichiarazioni, non è corretto in questo momento
WALTER MOLINO Ma se non c’è conflitto d’interesse chi è che chiamava Leitner per fare gli interventi di manutenzione?
ENRICO PEROCCHIO – DIRETTORE DI ESERCIZIO FUNIVIA Ho detto che preferisco non rilasciare dichiarazioni.
DARIO BALOTTA - OSSERVATORIO NAZIONALE LIBERALIZZAZIONE E TRASPORTI Il Ministero ha alzato bandiera bianca. Senza uomini, senza autonomia di risorse e soprattutto senza autonomia politica, perché il problema non è di andare in una casa qualunque a fare dei controlli. Il problema è andare in case importanti che esercitano importanti pressioni politiche e qualche volta il Ministero non riesce a entrare come dovrebbe entrare. WALTER MOLINO FUORI CAMPO I controlli dell’USTIF sono di due tipi: quelli calendariati, cioè a scadenza fissa, e quelli a sorpresa. Un ex dipendente ci racconta come funzionavano.
TESTIMONE 1 – EX DIPENDENTE FUNIVIA (RICOSTRUZIONE VIDEO) Sapevamo le date dei controlli. Tante volte li andavamo pure a prendere a Torino. Per tenerli buoni li andavamo a prendere, li portavamo a mangiare… La settimana prima ci eravamo già preparati. Il sistema era quello, se ci stavi. Io non ho più fatto collaudi per esempio. Non mi lasciavano più lì quando veniva l’USTIF. Mi chiamavano a casa e mi dicevano: non venire perché l’impianto è chiuso.
WALTER MOLINO USTIF dovrebbe fare anche dei controlli a sorpresa. IVANO CUMERLATO DIRETTORE USTIF TORINO (AL TELEFONO) Se ci viene un dubbio la facciamo. WALTER MOLINO Come poteva venirvi questo dubbio?
IVANO CUMERLATO DIRETTORE USTIF TORINO (AL TELEFONO) Abbiamo un sacco di impianti e siamo in tre soltanto.
WALTER MOLINO In Piemonte quante funivie ci sono?
IVANO CUMERLATO DIRETTORE USTIF TORINO (AL TELEFONO) Eh ci sono… duecento impianti circa. WALTER MOLINO E voi siete soltanto in tre!
IVANO CUMERLATO DIRETTORE USTIF TORINO (AL TELEFONO) Come si fa ad assumere un ingegnere e pagarlo 1500 euro al mese. Io sono entrato nel Ministero dopo essere stato insegnante nella scuola.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Con queste competenze è entrato l’USTIF. E ora è una delle 3 persone che in Piemonte devono vigilare su 200 impianti. Grazie a queste carenze i controlli del Mistero si risolvono in una semplice comunicazione che il controllato manda al controllore, come dimostra questa email inviata da Perocchio all’USTIF per comunicare che l’ultimo controllo sulle funi è andato bene. Ma dal 1° gennaio USTIF sarà assorbita da ANSFISA, l’agenzia nazionale per la sicurezza delle infrastrutture istituita dopo la tragedia del ponte Morandi. A dirigerla si sono già avvicendati tre direttori. L’ultimo è Domenico De Bartolomeo, nominato dal governo Draghi. Abbiamo chiesto anche a lui se non ci fosse 19 un conflitto d’interessi nel fatto che Perocchio vestisse i doppi panni di direttore d’esercizio della funivia e dipendente della Leitner che per quella funivia ha un contratto di manutenzione.
DOMENICO DE BARTOLOMEO – DIRETTORE ANSFISA Il direttore d’esercizio, in quanto libero professionista, lo dice la parola stessa, deve essere libero da qualsiasi tipo di interesse diretto o indiretto.. anche così in relazione a quelli che possono essere stati dei contatti pregressi con la società che fa la manutenzione.
WALTER MOLINO Non è che era dipendente prima.
DOMENICO DE BARTOLOMEO – DIRETTORE ANSFISA Aaaah, allora a maggior ragione, secondo me non ci sono assolutamente i presupposti. WALTER MOLINO Lei avrà il potere di nominare i responsabili USTIF dei vari distretti.
DOMENICO DE BARTOLOMEO – DIRETTORE ANSFISA Si, però sono nomine che sulla base dell’attuale quadro normativo non mi consentono degli spazi di manovra.
WALTER MOLINO Lei ha o no il potere di rimuovere quel dirigente o funzionario che sia?
DOMENICO DE BARTOLOMEO – DIRETTORE ANSFISA Guardi, potere o non potere io lo farò.
DOMENICO DE BARTOLOMEO – DIRETTORE ANSFISA Il numero delle funivie è un numero importante. Che tra l’altro io neanche immaginavo, nel senso che, da sciatore della domenica, pensavo che gli impianti a fune fossero soltanto in alcune zone d’Italia.
WALTER MOLINO 1700 funivie. Fino ad ora queste 1700 funivie sono state vigilate e controllate da USTIF. Quanti addetti ci sono in Piemonte?
DOMENICO DE BARTOLOMEO – DIRETTORE ANSFISA Allora… il numero esatto non glielo so dire. Ma credo che siano pochissime unità.
WALTER MOLINO Glielo dico io. Sono tre.
DOMENICO DE BARTOLOMEO – DIRETTORE ANSFISA Eh eh, pochissime unità.
WALTER MOLINO Queste tre unità che devono controllare 200 funivie sono troppo pochi.
DOMENICO DE BARTOLOMEO – DIRETTORE ANSFISA E sono pochi sicuramente. Però glielo dico, non è che diventeremo tantissimi. Forse potranno diventare quattro.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Abbiamo capito che in tema di controlli non è che cambierà granché visto che le risorse umane quelle sono. Adesso con il nuovo anno anche l’Ustif entrerà a far parte dell’Agenzia che controlla le infrastrutture. E alla fine quando sarà a regime avrà 668 dipendenti che devono controllare 6700 km di autostrade,132 mila km di strade provinciali, 35 mila km di rete ferroviaria. Ora dovranno controllare anche le 1700 funivie. Insomma “non pensavo ce ne fossero tante”. dice il direttore della nuova agenzia. Ora come funzionavano i controlli per quel che riguarda le funivie del Mottarone ce l’ha raccontato un ex dipendente. Che ha detto al nostro Walter Molino che i controlli erano scarsi e quei pochi che c’erano venivano anche annunciati con largo anticipo. Tanto che poi se ne andavano anche a mangiare. Insomma, e poi chi è che andava a controllare? Per carità sarà anche uno bravo ma andava un ex insegnante, e lui stesso dice guardate che un ingegnere bravo se gli offri 1500 euro di stipendio non ci viene a fare i controlli. Tuttavia, lui ha controllato chi doveva controllare che la testa fusa non avesse fatto il suo tempo. Di sicuro ha giudicato non influente pur non giudicandolo una cima il direttore d’esercizio, il conflitto di interessi che riguardava il direttore d’esercizio, cioè colui che era stato ingaggiato da Nerini per far funzionare e mettere in sicurezza le funivie, che però era pagato, dipendente della stessa società che faceva la manutenzione. Ora, può funzionare la filiera di controlli in questa maniera. Quando tu hai dall’altra parte quella avidità ancestrale di chi gestisce queste attività che magari non è che non ferma l’impianto perché deve comprare un pezzo per la manutenzione che costa qualche centinaio di euro, non ferma l’impianto perché è una perdita importante di esercizio. Ora, insomma tutto questo avviene quando ci si adagia sulla filosofia di vita “Io speriamo che me la cavo”.
Claudio Del Frate per corriere.it il 23 maggio 2021. La funivia che collega Stresa con il Mottarone è precipitata e al momento ci sono almeno 13 vittime. Sul posto sono presenti squadre dei Vigili del fuoco e del soccorso alpino e non si esclude che vi siano anche dei bambini coinvolti. Secondo le prime testimonianze una delle cabine è precipitata poco dopo le 12.30 in prossimità di un pilone, in uno dei punti più alti dell’impianto, in prossimità della vetta del Mottarone: l’incidente sarebbe stato provocato dal cedimento di una fune.
Le vittime. Sulla cabina della funivia precipitata e che dal lago era diretta verso la montagna, c’erano- secondo quando si apprende - 15 persone (la capienza è di 35). I due bambini portati in codice rosso, con le eliambulanze, all’ospedale Regina Margherita di Torino hanno 9 e 5 anni; entrambi restano in condizioni critiche. Uno dei due bambini, quello di 5 anni ha le gambe fratturate, diversi traumi ma è cosciente; l’altro invece è in rianimazione ed è stato sottoposto alla Tac e successivamente intubato. Secondo il soccorso alpino di Verbania tra i morti ci sarebbero anche turisti tedeschi. Secondo la sindaca di Stresa Marcella Severino tra i morti ci sarebbero degli italiani residenti in provincia di Varese, un turista inglese e anche un bimbo di 2 anni. Le di recupero sono rese più difficili dal fatto che la cabina è caduta in un bosco in una zona impervia. Un mezzo dei vigili del fuoco che stava salendo sul luogo della tragedia si è ribaltato: non ci sono feriti.
La dinamica. La dinamica dell’evento è ancora tutta da chiarire. La sindaca di Stresa Marcella Severino ha riferito il racconto di alcuni testimoni. Questi «hanno sentito un forte sibilo e poi hanno visto la cabina retrocedere velocemente per poi essere sbalzata via al momento dello schianto contro il pilone». Sempre la sindaca, che è salita sul luogo della tragedia, ha detto al telefono di aver visto «il cavo tranciato di netto». «La cabina della funivia è caduta da un punto relativamente alto e si è adagiata sul terreno ai piedi di un grande bosco. Ora appare sostanzialmente distrutta a terra quasi completamente accartocciata, quindi la caduta è stata evidentemente significativa» ha raccontato Walter Milan portavoce del Soccorso Alpino parlando in diretta con Rainews 24.
I controlli. La funivia parte da Stresa, sulla sponda piemontese del lago Maggiore e raggiunge una montagna sovrastante in un punto panoramico a circa 1.500 metri di altitudine: è una meta frequentatissima dai turisti sia in estate che in inverno, quando entrano in funzione alcune pista da sci. L’impianto era stato riaperto ieri, al termine del secondo lockdown ed era stato sottoposto a lavori di ristrutturazione nel 2016. Nella circostanza era stata eseguita anche una magnetoscopia sulle funi, una sorta di esame ai raggi x per verificarne la tenuta. . I lavori di revisione tecnica dell’impianto sono costati 4 milioni e 400 mila euro, finanziati dalla Regione Piemonte, dal Comune di Stresa, e dalla società di gestione. «L’impianto era assolutamente sicuro, era stata fatta la revisione generale, quindi un ciclo di manutenzione completo» ha detto Valeria Ghezzi, presidente di Anef, l’Associazione Nazionale Esercenti Impianti a Fune .
Draghi e Mattarella. A nome di tutto il governo il presidente del consiglio Mario Draghi ha espresso «il cordoglio alle famiglie delle vittime, con un pensiero particolare rivolto ai bimbi rimasti gravemente feriti e ai loro familiari». Anche il presidente della repubblica Sergio Mattarella ha espresso il suo dolore. «A questi sentimenti si affianca il richiamo al rigoroso rispetto di ogni norma di sicurezza per tutte le condizioni che riguardano i trasporti delle persone».
PRECIPITA CABINA DELLA FUNIVIA STRESA-MOTTARONE: 14 MORTI, 1 BAMBINO GRAVE. Il Corriere del Giorno il 23 Maggio 2021. A bordo dell’impianto si trovavano almeno 15 persone e sono 13 le vittime. Ricoverato All’ospedale Regina Margherita di Torino un bambino di nove anni in rianimazione e l’altro di cinque. Il premier Draghi: “Cordoglio di tutto il governo”., Messaggio di cordoglio del Capo dello Stato Mattarella: “Il tragico incidente alla funivia Stresa-Mottarone suscita profondo dolore per le vittime e grande apprensione per quanti stanno lottando in queste ore per la vita. Esprimo alle famiglie colpite e alle comunità in lutto la partecipazione di tutta l’Italia”. Una cabina dalla funivia Stresa-Mottarone nel Verbano con a bordo almeno 15 persone è precipitata. Secondo le testimonianze del 118 e dei soccorritori i morti nell’incidente sono al momento 14. Due bambini sono stati soccorsi dal 118 e trasportati in elicottero fino all’Oval Lingotto dove con le ambulanze sono stati portati all’ospedale infantile Regina Margherita. Le loro condizioni sono molto gravi e sono stati trasportati. Il primo bambino di 6 anni Eitan Moshe ha riportato trauma cranico, toraco-addominale e fratture agli arti inferiori, ma sarebbe cosciente. Il più grande dei due bambini, che avrebbe intorno ai 10 anni, che era rimasto ferito ed era stato trasportato all’ Ospedale Regina Margherita di Torino non ce l’ha fatta. I due bambini, di 6 e 10 anni, coinvolti nell’incidente della funivia Stresa-Mottarone erano sulla cabina della funivia ed adesso lottano per la vita. Non sono state ancora rese note al momento le identità o le nazionalità. Il primo bambino, quello di 5 anni, è arrivato nel pronto soccorso alle 14.45. Era cosciente quando l’ambulanza lo ha trasferito dall’elicottero con cui è arrivato dal Mottarone, fino all’ingresso dell’ospedale. Il secondo bambino, che avrebbe 9 anni è grave avendo riportato un grave trauma cranico e fratture alle gambe. Arrivato in condizioni critiche in ospedale dopo circa mezz’ora. I medici gli hanno subito praticato il massaggio cardiaco dopo che il suo cuore ha smesso di battere, e sono riusciti a rianimarlo. Quindi è stato sottoposto alla tac ed intubato. “La situazione dei due bambini è critica – ha detto Giovanni La Valle direttore sanitario della Città della Salute – più grave quella del bambino un po’ più grande che, presumibilmente, ha circa 9-10 anni” ed ha avuto anche un arresto cardiaco. “Il bambino più piccolo che è arrivato cosciente e parlava italiano, ed ha un’età di circa 5 anni, in questo momento è in sala operatoria per stabilizzare le fratture. Le prossime 12-15 ore saranno fondamentali”. La cabina della funivia è crollata poco prima delle 13. Al momento non si conoscono ancora le cause ma la cabina, arrivata in prossimità dell’ultimo pilone, quindi in uno dei punti più alti del tragitto verso la montagna nei pressi del Lago Maggiore, è caduta, si ipotizza per il cedimento di una fune. Una testimone, Grazia Aguzzi racconta “Verso le 12.30 si è sentito un botto pazzesco, poi si è sentito come qualcosa che stesse rotolando e poi un’altra botta pazzesca. Infine tutto era in silenzio”. Un’ altra testimone Vanessa Rizzo, che lavora all’adiacente maneggio dice: “Abbiamo sentito un piccolo boato e poi abbiamo visto i cavi volare per terra. Abbiamo visto le altre persone che scendevano con l’altra cabina: le hanno fatto scendere con le scale. Quando sono arrivati i vigili del fuoco non potevano passare perché i cavi erano proprio sulla strada”. “L’impianto era assolutamente sicuro, era stata fatta la revisione generale, quindi un ciclo di manutenzione completo ma effettivamente qualcosa è accaduto. Ora bisognerà capire cosa realmente è successo, fare ipotesi oggi non va bene per il rispetto alle vittime a alle persone eventuali responsabili”. afferma Valeria Ghezzi, presidente di Anef, l’Associazione Nazionale Esercenti Impianti a Fune in merito alla tragedia sul Mottarone (Verbania) dove si è staccata una cabina della funivia causando il decesso di 9 persone e 3 codici rossi. “Mi sento di escludere che causa della tragedia sul Mottarone sia da ricercare in un guasto elettrico”, dice il tecnico elettronico specializzato nella costruzione di impianti di risalita del comprensorio sciistico del Civetta nelle Dolomiti Bellunesi. “Dal punto della sicurezza impiantistica, ovvero impianto elettrico dell’intero impianto di risalita, a monte, a valle, dentro la cabina e sui piloni, mi sento di garantire che non possono esserci problematiche che portano ad incidenti come quello di oggi. La sicurezza viaggia su due canali, ovvero una serie di micro – interruttori di relè e logica digitale che operano in autonomia e non può essere che entrambi siano entrati in guasto nello stesso momento”. “Un cavo di acciaio che dovrebbe essere il cavo portante della cabinovia caduta sul Mottarone – si è staccato e a seguito di questo saranno successe azioni concatenanti che hanno portato allo sgancio della cabinovia dal resto dei cavi che sono rimasti integri”. Si tratta di “due file di cavi” e “sarà da chiarire” perché la cabinovia – rimasta chiusa durante il lockdown e riaperta da poco – è caduta nel vuoto “all’altezza dell’ultimo pilastro”. Lo afferma Giorgio Santacroce, tenente colonnello del Nucleo operativo dei Carabinieri di Verbania, intervenuto sull’incidente della funivia caduta sul Mottarone dove hanno perso la vita 13 persone, tra cui “qualche straniero”. “Ma sull’identificazione preferiamo mantenere ancora la riservatezza”, aggiunge. “E’ un po’ presto per dare delle spiegazioni sulla dinamica dell’incidente. L’impianto è sotto sequestro, non abbiamo ancora sentito il gestore della funivia, prima completiamo la fase di soccorso”, afferma il tenente colonnello Santacroce, sottolineando che “la cabina può portare anche più persone: in questo periodo di Covid i posti sono ridotti”, ma 15 persone erano “regolari”. La Funivia del Mottarone è stata chiusa nel 2014 per garantirne una revisione generale, ed è stata riaperta il 13 agosto 2016. La manutenzione straordinaria ha previsto una serie di interventi tra cui la sostituzione dei motori, dei quadri elettrici, dell’apparato elettronico, dei trasformatori. È stata eseguita anche una magnetoscopia sulle funi, una sorta di esame ai raggi x per verificarne la tenuta. Le cabine sono state smontate, ricondizionate e rimontate con impianto acustico e videocamera di sorveglianza a bordo. I lavori di revisione tecnica dell’impianto sono costati 4 milioni e 400 mila euro, finanziati dalla Regione Piemonte, dal Comune di Stresa, e dalla società di gestione. Il procuratore di Verbania Olimpia Bossi ha disposto il sequestro dell’impianto della funivia del Mottarone. Dai primi accertamenti sembrerebbe confermato che un cavo della funivia si è tranciato di netto, mentre bisognerà perché la cabina si sia staccata nonostante i sistemi di sicurezza.
Il cordoglio del Quirinale e di Palazzo Chigi. “Il tragico incidente alla funivia Stresa-Mottarone suscita profondo dolore per le vittime e grande apprensione per quanti stanno lottando in queste ore per la vita . Esprimo alle famiglie colpite e alle comunità in lutto la partecipazione di tutta l’Italia. A questi sentimenti si affianca il richiamo al rigoroso rispetto di ogni norma di sicurezza per tutte le condizioni che riguardano i trasporti delle persone” dice in una nota il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il presidente del consiglio Mario Draghi che segue ogni aggiornamento in costante contatto con il ministro Enrico Giovannini, con la Protezione Civile e le autorità locali, ha manifestato la solidarietà del Governo: “Ho appreso con profondo dolore la notizia del tragico incidente della funivia Stresa – Mottarone. Esprimo il cordoglio di tutto il Governo alle famiglie delle vittime, con un pensiero particolare rivolto ai bimbi rimasti gravemente feriti e ai loro familiari”. “Un dramma terribile, ho già parlato con il prefetto e la direttrice dei Vigili del Fuoco e la Protezione Civile. Stiamo cercando di comprendere quanto è accaduto, ma è un dramma veramente terribile”. È quanto dichiara il ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, Enrico Giovannini, interpellato dall’AGI. Il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti: “Sono colpito e profondamente addolorato per la tragedia della funivia Stresa-Mottarone. Una montagna che mi è familiare e che oggi è lo scenario di un evento terribile: sono vicino alle famiglie delle vittime e prego, in particolare, per la salvezza dei due bambini che ora sono in ospedale”. Ci sono anche sei lombardi tra le vittime dell’incidente della funivia al Mottarone. Le famiglie sono state avvisate in serata dopo gli accertamenti del caso. Nella lista a disposizione delle autorità ci sono tre residenti a Pavia, i genitori e il loro bambino di due anni: si tratta di Amit Biran, 30 anni, Tal Peleg, 27 anni (nati entrambi in Israele) e Tom Biran, 2 anni, nato a Pavia, abitanti in via Ca’ Bella. C’è inoltre una coppia di fidanzati di Varese, Silvia Malnati 27 anni, abitante in via Rovereto, e Alessandro Merlo, 29 anni, residente in via Pergine. Il sesto nome è quello di Vittorio Zorloni, 55 anni, residente a Vedano Olona in via Matteotti. Le altre vittime sono di Diamante, in provincia di Cosenza (Serena Cosentino, 28 anni, e l’iraniano Mohammadreza Shahisavandi, 33 anni); due sono di Castel San Giovanni (Piacenza), Angelo Gasparro, 45 anni, e Roberta Pistolato, 40 anni. L’elenco si completa con l’israeliano Tshak Cohen 83 anni, residente in Israele. Si sta accertando la parentela con la famiglia pavese. Allo stato ci sono due vittime da identificare, e un ferito grave, il figlio di 6 anni dei Biran, Eitan Moshe.
L’elenco completo dei nomi delle vittime
– Biran Amit, nato in Israele il 2 febbraio 1991 e residente a Pavia
– Peleg Tal, nato in Israele il 13 agosto 1994 e residente a Pavia
– Biran Tom, nato a Pavia il 16 marzo 2019 e residente a Pavia
– Cohen Konisky Barbara, nata in Israele l’ 11 febbraio del 1950
– Shahaisavandi Mohammadreza, nato in Iran il 25 agosto 1998, residente a Diamante (Cosenza)
– Cosentino Serena, nata a Belvedere Marittimo (Cosenza) il 4 maggio del 1994 e residente a Diamante (Cosenza)
– Malnati Silvia, nata a Varese il 7 luglio del 1994, residente a Varese
– Merlo Alessandro, nato a Varese il 13 aprile del 1992, residente a Varese
– Zorloni Vittorio nato a Seregno, Milano, l’8 settembre del 1966, residente a Vedano Olona (Varese)
– Gasparro Angelo Vito, nato a Bari il 24 aprile 1976, residente a Castel San Giovanni (Piacenza)
– Pistolato Roberta, nata a Bari il 23 maggio del 1981, residente a Castel San Giovanni (Piacenza)
Ancora non è nota l’identità dei due bambini coinvolti.
Riccardo Bruno, Andrea Camorani, Alessandro Fulloni, Eleonora Lanzetti, Carlo Macrì per corriere.it il 24 maggio 2021. Tom, due anni. Mattia, cinque. Poi Itshak, 81. E Silvia e Tal, 27 e 26. Famiglie in gita con i figli piccoli, mamme e papà, bisnonni e nipoti, coppie di fidanzati, giovani che si stavano affacciando nel mondo del lavoro, progettando il proprio futuro. Erano insieme su quella cabina che saliva verso il Mottarone, uniti in una giornata che doveva essere di festa e che invece si è trasformata in tragedia a pochi metri dalla cima, quando il panorama sembrava allontanarli da tutti i mali del mondo.
Chi erano le vittime. Storie di chi adesso non c’è più: come Serena Cosentino, 27 anni compiuti lo scorso 4 maggio, di origini calabresi, una laurea in Scienze naturali e una specializzazione in Monitoraggio e riqualificazione ambientale conseguita alla Sapienza con 110 e lode. Da due mesi aveva vinto una borsa di studio del Cnr e si era trasferita a Verbania per indagare sulla presenza di microplastiche nel Lago Maggiore. Serena era appena guarita dal Covid, per festeggiare in questa domenica di bel tempo e di vincoli ormai allentati era arrivato da Roma il fidanzato, Mohammed Reza Shahisavandi, 30 anni, iraniano, che studiava nella Capitale e si pagava gli studi lavorando in un bar. Si era laureata con 110 e lode e da marzo, dopo un’esperienza a Londra, lavorava in una sede del Cnr a Verbania Serena Cosentino, 27 anni, una delle vittime. La ragazza era di Diamante, località turistica dell’Alto Tirreno Cosentino, che aveva lasciato prima per studiare a Roma, poi per lavorare. Nella cittadina calabrese era vissuto anche il fidanzato, Shahaisavandi Mohammandrez, 23 anni, di origine iraniana prima di trasferirsi a Roma da dove l’aveva raggiunta per trascorrere con lei la domenica. In paese ricordano bene entrambi. Serena era conosciuta per la sua inclinazione per gli studi. A Diamante vive la sua famiglia: il padre, tecnico antennista, la madre, due sorelle gemelle più grandi di lei che esercitano la professione di nutrizioniste e coltivano la passione per la pallavolo, ed un fratello più piccolo. Per un periodo la famiglia aveva avuto in gestione un bar, dove sia Serena sia il fidanzato avevano lavorato. Secondo quanto si apprende, la famiglia del ragazzo vive in Iran. Anche Amit Biran, 30 anni, e la moglie Tal Peleg, 26, erano stranieri, israeliani, che vivevano in Italia con i figli Tom ed Eitan, 2 e 5 anni. Solo Eitan è ancora vivo ma in condizioni gravissime nel reparto di Rianimazione dell’ospedale Regina Margherita di Torino. Con loro hanno perso la vita il nonno di Tal, Itshak Cohen, 81 anni, e sua moglie Barbara Konisky, 71 anni, arrivati da Tel Aviv per trascorrere una vacanza con loro. Amit Biran aveva studiato medicina a Pavia e aveva trovato un’occupazione come tirocinante alla clinica Maugeri della città. Collaborava anche con la Comunità ebraica di Milano, dove lo ricordano come un ragazzo sempre disponibile e «con una carica di simpatia e di allegria contagiosa». La moglie, laureata in psicologia, si era finora dedicata ai suoi bambini e contava di iniziare a lavorare l’anno prossimo quando il più piccolo avrebbe iniziato ad andare all’asilo. Poco fuori Pavia vivono anche la sorella di Amit, Aia e il cognato Nirko. «Abbiamo sentito le notizie, e ci siamo subito messi a leggere cosa fosse successo — raccontano —. Sapevamo che Amit e la sua famiglia fossero andati da quelle parti, ma non pensavamo di vedere i loro nomi tra le vittime di questa tragedia. Siamo sconvolti e preghiamo affinché il piccolo Eitan possa sopravvivere e tornare da noi». Amit e Tal si erano trasferiti da un paio di settimane in un appartamento più grande e avevano lasciato la loro casa alle spalle del fiume. «Una famiglia meravigliosa, con una vita davanti — commentano i vecchi vicini di via Cà Bella —. Proprio ieri erano qui, stavano tinteggiando casa per lasciarla pronta ai ragazzi che l’avevano appena presa in affitto. Siamo sconvolti. Non possiamo credere di non poter più vedere il piccolo Tom giocare qui in cortile». Poi le altre vittime della sciagura. A Piacenza, due sposi di 40 e 45 anni: lei dottoressa. Roberta Pistolato (che proprio ieri, con la gita in funivia, ha festeggiato il compleano) e lui guardia giurata, Angelo Vito Gasparro. E anche un’ altra coppia, stavolta a Varese: Alessandro Merlo e Silvia Malnati, 29 e 27 anni, fidanzati da quasi dieci anni, condividevano la passione per il lavoro, lo studio e i viaggi. Gli amici li ricordano come «due ragazzi affiatati e gioiosi», tanto da pensare di costruire un futuro più stabile insieme, forse anche dopo la laurea di Silvia, lo scorso 23 marzo. Sorridente, e con un vestito a pois, la corona d’alloro — come la si vede ritratta nelle immagini del suo profilo social — Silvia aveva festeggiato postando come commento una frase di Goethe: «Qualunque cosa tu possa fare, qualunque sogno tu possa sognare, comincia. L’audacia reca in sé genialità, magia e forza. Comincia ora». Sabato la decisione di fare un giro in Piemonte, in una zona a due passi da Varese e a portata di mano, fra montagna e lago. Ma la notizia della tragedia è arrivata presto in città. Il sindaco Davide Galimberti ha parlato di «una tragica domenica per cui non ci sono parole. Solo il profondo dolore per tutte le vittime e un grande pensiero a chi sta lottando per la vita a seguito dell’incidente sulla funivia Stresa Mottarone». Della famiglia Zorloni, di Vedano Olona, ancora nel Varesotto, si sa poco. Se non che il piccolo Mattia, cinque anni, è morto all’ospedale Regina Margherita di Torino dove è giunto in eliambulanza ancora in vita. I suoi genitori, il papà Vittorio, 55, e la mamma Elisabetta Samantha Personini, 38, sono entrambi morti all’istante, dentro le lamiere della cabina precitata. Si sarebbero dovuti sposare il 24 giugno e il sindaco Cristiano Citterio, «sconvolto, incredulo, addolorato», su Facebook scrive queste parole: «Tragedia immane che sconvolge una comunità intera».
Qui a seguire i nomi delle vittime della tragedia di Mottarone
Biran Amit, nato in Israele il 2 febbraio 1991 e residente a Pavia
Peleg Tal (coniugata Biran), nata in Israele il 13 agosto 1994 e residente a Pavia
Biran Tom, nato a Pavia il 16 marzo 2019 e residente a Pavia
Cohen Konisky Barbara, nata in Israele l’ 11 febbraio del 1950
Cohen Itshak, nato in Israele il 17 novembre 1939
Shahaisavandi Mohammadreza, nato in Iran il 25 agosto 1998, residente a Diamante (Cosenza)
Cosentino Serena, nata a Belvedere Marittimo (Cosenza) il 4 maggio del 1994 e residente a Diamante (Cosenza)
Malnati Silvia, nata a Varese il 7 luglio del 1994, residente a Varese
Merlo Alessandro, nato a Varese il 13 aprile del 1992, residente a Varese
Zorloni Vittorio nato a Seregno, Milano, l’8 settembre del 1966, residente a Vedano Olona (Varese)
Persanini Elisabetta, nata nel 1983
Zorloni Mattia, 5 anni, figlio di Vittorio Zorloni e Elisabetta Persanini
Gasparro Angelo Vito, nato a Bari il 24 aprile 1976, residente a Castel San Giovanni (Piacenza)
Pistolato Roberta, nata a Bari il 23 maggio del 1981, residente a Castel San Giovanni (Piacenza)
Valentina Errante per "il Messaggero" il 24 maggio 2021. Un cavo tranciato di netto. Per stabilire perché i sistemi di sicurezza della funivia Stresa-Mottarone non siano entrati in funzione e la cabina sia caduta nel vuoto per 15 metri, rotolando poi a valle, occorreranno perizie e alcuni mesi. Il procuratore di Verbania, Olimpia Bossi, ha disposto il sequestro dell'impianto di proprietà del comune ma gestito dalla società Ferrovie del Mottarone, della famiglia Nerini. Ma sotto accusa, ancora una volta, finisce la manutenzione, affidata all' altoatesina Leitner, specializzata in tecnologie funiviarie a livello mondiale, e responsabile dei controlli straordinari, mentre la gestione ordinaria è in carico alla società locale. Si va a ritroso, per ricostruire la storia di una struttura inaugurata nel 1970 per sostituire il vecchio trenino. Bisognerà stabilire perché il cavo portante si sia staccato e perché la cabinovia sia stata sganciata dai due cavi rimasti integri, senza che intervenisse neppure l'impianto frenante. L' ultimo intervento era stato nel 2014, una profonda revisione. Tanto che, per due anni, l'impianto era rimasto chiuso. Un' altra lunga chiusura per manutenzione c' era stata alla fine degli anni 90. Nel luglio 2001 la funivia si era bloccata, in quel caso, nel primo tratto dopo la partenza da Stresa ed era stato necessario l'intervento dei soccorritori per portare in salvo una quarantina di turisti. Per questo gli impianti erano stati di nuovo controllati. Sostituzione dei motori, dei quadri elettrici, dell'apparato elettronico, dei trasformatori. L' ultimo intervento all' impianto era durato due anni e aveva comportato una profonda ristrutturazione della funivia. Era stata eseguita anche una magnetoscopia sulle funi, una sorta di esame ai raggi x per verificarne la tenuta. Le cabine erano state smontate, ricondizionate e rimontate con impianto acustico e videocamera di sorveglianza a bordo. I lavori di revisione tecnica dell'impianto erano costati 4 milioni e 400 mila euro, finanziati dalla Regione Piemonte, dal Comune di Stresa, e dalla società di gestione. La riapertura era avvenuta ad agosto del 2016, ma poi, tra ottobre-dicembre dello stesso anno, erano state anche rinnovate le stazioni di riferimento della funivia. Il presidente di Leitner, Anton Seeber, conferma: La revisione dell'intero impianto è stata realizzata nell' agosto del 2016. Ogni anno a novembre si sono succeduti con regolarità i controlli alle funi e sempre con esito positivo». Secondo il ministero per le Infrastrutture, che ha il compito di vigilanza sui trasporti, dopo la riapertura, nel 2016, i controlli sono stati ripetuti a luglio 2017 e, successivamente tra novembre e dicembre 2020, sono stati eseguite specifiche sui cavi. In particolare, controlli magnetoscopici sulle funi portanti, traenti e sulla fune di soccorso. Infine, a dicembre 2020, chiarisce il ministero, è stato effettuato, da una società specializzata, l'esame visivo delle funi tenditrici. Nel luglio del 2001 la cabina della funivia era ferma a 25 metri di altezza con 40 turisti a bordo. Un' improvvisa mancanza di tensione aveva provocato il brusco arresto dell'impianto: l'oscillazione della cabina, che saliva da Stresa alla stazione intermedia dell'Alpino, aveva causato l' accavallamento delle funi traente e portante. Di conseguenza si era bloccato il primo tronco dell'impianto tra Stresa e l' Alpino di Stresa. Per quattro ore erano rimasti sospesi nel vuoto. Alla fine passeggeri erano stati imbracati e calati a uno a uno con un verricello, attraverso un'apertura predisposta sul fondo della cabina passeggeri, intanto gli uomini del Soccorso alpino e dei vigili del fuoco tagliavano le piante del bosco sottostante per consentire l'atterraggio. Così nel 2002 la funivia era stata sottoposta a una revisione straordinaria eseguita dalla ditta Poma Italia (ora Agudio).
La tragedia della funivia: "Il controllo dei cavi nel 2020, dovevano durare altri otto anni". Diego Longhin su La Repubblica il 23 maggio 2021. La fune strappata, la cabina che non si blocca: le indagini della procura dovranno chiarire le cause della strage. “Revisioni fatte a cadenza regolare”, dice la società di gestione. Nel 2016 spesi più di 4 milioni per interventi straordinari. Perché quella fune si è strappata? Perché la cabina non è rimasta appesa al cavo portante? Perché è scivolata colpendo il primo pilone e scarrucolando nel vuoto a non più di cento metri dalla stazione di arrivo del secondo tronco della funivia Stresa-Mottarone, trascinando con sé la vita di tredici persone? A queste domande dovranno rispondere i tecnici che la procura di Verbania nominerà per chiarire cosa sia successo ieri alle 12.30 sull'impianto che si affaccia sul Lago Maggiore. "Le manutenzioni e i controlli sono stati effettuati regolarmente", dice il legale della società di gestione, Ferrovie del Mottarone che fa riferimento alla famiglia Nerini, l'avvocato Pasquale Pantano. E la Leitner di Vipiteno, società che si occupa della manutenzione, dice che "l'ultimo controllo magnetoscopico della fune è stato effettuato a novembre del 2020 e gli esiti dello stesso non hanno fatto emergere criticità". Un esame che sottopone i cavi a una sorta di raggi X per vedere le condizioni interne delle corde di acciaio che nel caso dell'impianto del Mottarone sono doppie: una traente, trascina su e giù la cabina, l'altra portante. La sostituzione dei cavi era prevista per il 2029, fra otto anni. "Sarà tutto oggetto di verifiche di carattere tecnico nei prossimi giorni", sottolinea Olimpia Bossi, procuratore della Repubblica a Verbania. "Stiamo facendo accertamenti e verifiche tecniche. È certo che la funivia avesse quasi terminano la sua corsa, elemento che aggiunge grandissima tristezza. Nella tragedia per fortuna la capienza delle cabine era limitata causa le norme anti-Covid", dice la pm. L'impianto è stato posto sotto sequestro, così come la documentazione tecnica e delle manutenzioni periodiche. L'ipotesi di reato, per ora senza nessun indagato, è omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. Si potrebbe profilare un altro reato: l'attentato alla sicurezza dei trasporti. È prevista la visita della Commissione istituita dal ministero dei Trasporti per verificare cosa sia successo. La funivia Stresa-Mottarone è di proprietà del Comune di Stresa, mentre prima del 2016 era di proprietà della Regione. Complesso che rientrava nei servizi di trasporto pubblico, al pari di un metrò, e non solo di quelli turistici. Collega la località del Lago Maggiore con le frazioni di Alpino e Gignese, sui monti. Trasporta circa 80-100 mila persone l'anno. Costruita nel 1967 e inaugurata nel 1970 per sostituire la vecchia ferrovia a cremagliera chiusa nel 1964. La sindaca di Stresa, Marcella Severino, sottolinea che il tecnico incaricato della manutenzione della funivia "ha detto che tutto era in ordine". Proprio sabato le ultime verifiche "i collaudi prima della riapertura". La sindaca conferma che "la fune è tranciata di netto". Quale la causa? C'è chi parla di un fulmine. La funivia aveva visto importanti interventi di manutenzione straordinaria negli anni. Resto basita". Ultime revisioni? Quelle più consistenti nel 2001, dopo un periodo di degrado che aveva portato alla chiusura, e poi nel maggio 2016, dopo due anni di stop. Intervento per adeguare i sistemi alle nuove norme con un investimento di 4,4 milioni. Diverse le opere realizzate, dalla sostituzione delle apparecchiature elettriche al rifacimento delle quattro cabine, dalla sostituzione dei trasformatori di alimentazione con un sistema ridondante, che permette l'esercizio in caso di guasto. Sostituiti anche i rulli di scorrimento sui piloni e le pulegge del sistema di soccorso. L'impianto è stato dotato pure di uno smorzatore delle oscillazioni per ridurre i rischi di accavallamento funi. Nel 2016 è stata fatta anche la magnetoscopia, l'esame ripetuto lo scorso anno senza risultati negativi. La presidente Anef, associazione di categoria delle imprese che gestiscono gli impianti di risalita è senza parole: "Sono gli impianti più sicuri al mondo - dice Valeria Ghezzi - gli ultimi incidenti in Italia, sul Cermis, risalgono al '76, per un errore umano, e al 1998, quando un caccia tranciò i cavi della struttura".
Dai controlli al cavo spezzato: gli enigmi della tragedia. Rosa Scognamiglio il 24 Maggio 2021 su Il Giornale. Cosa è successo sul Mottarone? Perché il cavo si è spezzato? Sono queste le domande a cui dovranno tentare di dare una risposta gli investigatori nelle prossime settimane. Perché si è spezzata la fune traente? Perché i freni di emergenza non hanno funzionato? Sono queste le domande a cui dovrà dare risposta il procuratore di Verbania, Olimpia Bossi, nel tentativo di far luce sul disastro del Mottarone: 14 persone sono morte e l'unico sopravvissuto, un bimbo di appena 6 anni, è rimasto gravemente ferito. Cosa è andato storto? Ma soprattutto, l'incidente si poteva evitare? Certo è che l'ipotesi di una "tragica fatilità" non è contemplata nel fascicolo delle indagini per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. Tante, troppe cose non tornano. Al punto che i magistrati potrebbero anche valutare il reato di attentato colposo alla sicurezza dei trasporti.
La maxi revisione del 2014 e i controlli. Chiusa per una revisione generale nel 2014, la funivia del Mottarone ha riaperto nel 2016, ben due anni dopo i lavori di manutenzione e ammodernamento affidati alla società Leitner. Il 13 agosto del 2016, per l'esattezza, c'è stata l'inaugurazione e, tra i mesi di ottobre e dicembre, si è provveduto a rinnovare anche le relative stazioni di riferimento della funivia. Ora, la prima domanda è: gli interventi sono stati realizzati tutti a regola d'arte? Per poterlo stabilire "bisognerà aver un quadro chiaro delle competenze", spiega il procuratore Olimpia Bossi al Corriere della Sera. Sì perché il "quadro delle competenze" non è ancora chiaro o, almeno, non del tutto. Per certo, non è stato ancora perfezionato "al momento" il passaggio di proprietà tra la Regione e il Comune di Stresa. E oltre al gestore del della funivia - le Ferrovie del Mottarone - ci sono la società che si è occupata dei lavori di ammodernamento, l'azienda che certifica annualmente la funzionalità della struttura e la ditta che provvede alla manutenzione ordinaria e straordinaria dell'impianto. Tutti, al momento, potrebbero essere coinvolti nelle indagini.
La cabina. I rottami della cabina, quel poco che avanza dopo lo schianto contro il pilone, sono sotto sequestro. I vigili del fuoco provvederanno a recuperare la carcassa di ferraglia per sottoporla all'attenzione degli investigatori e dei consulenti della procura. La speranza è che tra quei relitti emergano elementi utili alle indagini. "Qualunque ipotesi va valutata. - afferma Olimpia Bossi - Al momento, gli unici elementi che abbiamo sono la rottura del cavo trainante e il mancato funzionamento del freno sul cavo portante. Cercheremo di dare una risposta completa nel più breve tempo possibile".
I testimoni. I testimoni del disastro, già sentititi dai carabinieri, riferiscono di aver sentito "un forte rumore, come se un freno metallico stridesse sulla fune d’acciaio, quella portante sulla quale scorrono le ruote del carrello al quale è appesa la cabina". Qualcuno avrebbe notato del fumo, circostanza che proverebbe il mancato funzionamento dei freni. Allora, cosa non ha funzionato? "La cosa che mi ha turbato di più è il contrasto stridente nello scenario che mi si parava di fronte: da un lato la bellezza straordinaria del panorama e dall’altro la tragedia della morte - continua il procuratore - Probabilmente servirà molto tempo per arrivare a chiarire ogni aspetto della tragedia. I tecnici dovranno fare molti sopralluoghi nell’area dove è caduta la cabina, una zona molto impervia, e in tutte le strutture dell’impianto".
La nota di Leitner. Intanto, l'azienda altoatesina Leitner, responsabile della manutenzione dell'impianto funiviario Stresa-Mottarone, dopo la tragedia di ieri, si dichiara a disposizione della magistratura, precisando che "i controlli giornalieri e settimanali previsti dal regolamento d'esercizio e dal manuale di uso e manutenzione sono in carico al gestore". In una nota la società rende noto l'elenco dei controlli e delle manutenzioni degli ultimi mesi, "secondo le prescrizioni della normativa vigente, sulla base del contratto di manutenzione sottoscritto con la società di gestione Ferrovie del Mottarone". Il 3 maggio 2021 manutenzione e controllo delle centraline idrauliche di frenatura dei veicoli; i controlli non distruttivi su tutti i componenti meccanici di sicurezza dell'impianto previsti dalla revisione quinquennale, in scadenza ad agosto 2021 sono stati anticipati dal 29 marzo a 1° aprile 2021; il 18 marzo 2021 prove di funzionamento dell'intero sistema d'azionamento; il 4 e 5 marzo lubrificazione e controlli dei rulli e delle pulegge delle stazioni; il 1° dicembre 2020 'finti tagli' (prova che prevede una simulazione della rottura della fune traente e conseguente attivazione del freno d'emergenza); il 5 novembre 2020 controllo periodico magnetoinduttivo delle funi traenti e di tutte le funi dell'impianto con esito positivo.
Non ci abitueremo all'insicurezza. Vittorio Macioce il 24 Maggio 2021 su Il Giornale. È una domenica qualunque e nessuno immagina di viverla senza rete. Abituarsi alla paura è una follia. È che a volte ti sembra davvero difficile riuscire a calcolare il rischio. È una domenica qualunque e nessuno immagina di viverla senza rete. Abituarsi alla paura è una follia. È che a volte ti sembra davvero difficile riuscire a calcolare il rischio. Manca poco a mezzogiorno e appena 300 metri ti separano dalla stazione di arrivo. Il Mottarone è lì, bello e maestoso, come un principe in mezzo ai laghi. Non ci pensi mai a quello che può accadere. Stresa è villeggiatura e sa di Grand Tour e di ville ottocentesche. È una striscia sul golfo del lago Maggiore e guarda le isole Borromee, la più grande si chiama Madre. Stresa è l'inizio di un viaggio che ti porta su, fino alla vetta del monte. Qui fino al 1970 c'era una vecchia ferrovia con i vagoni che andavano a elettricità e ondeggiavano lenti e incerti. Poi venne la funivia e non c'era da avere paura. Nel 2014 sono cominciati i lavori di manutenzione. Le cose invecchiano ed è meglio tenerle a bada. Curarle. Sostituzione dei motori, quadri elettrici, trasformatori e magnetoscopia sulle funi, una sorta di esame a raggi x per verificarne la tenuta. Le cabine erano state smontate, ricondizionate e rimontate con impianto acustico e videocamera di sorveglianza a bordo. I lavori sono costati 4 milioni e 400 mila euro, finanziati dalla Regione Piemonte, dal Comune di Stresa, e dalla società di gestione. Nel 2016 si ricomincia. Tutto a posto. Non c'è appunto da avere paura. A dicembre 2020 altri controlli sulle funi. La funivia funziona tutti i giorni dell'anno. Non è stagionale, non è solo turistica. È quotidiana. È come prendere il treno, l'autostrada, il viadotto. È qualcosa che fai senza interrogarti troppo. Se poi è festa ti viene solo da lasciarti alle spalle le fatiche della settimana. Cosa può accadere? «Gli impianti a fune- dicono i tecnici- sono tra i mezzi di trasporto più sicuri in assoluto». La paura forse è proprio questo: percepire il rischio lì dove non te lo aspetti. È domenica e ti viene voglia di respirare. Ti chiedi se pure quassù bisogna tenere la mascherina. È chiaro che sì. Non si sa mai. Che ti costa essere prudente? Fa sempre un po' impressione guardare giù, ma le funivie non sono mica una magia. È tutto pensato. È tecnica. È calcoli. È ingegneria. La cabina non è neppure piena. C'è spazio e si può stare lontani un metro uno dall'altro. La capienza massima è quaranta persone. Si è di meno, in quindici. Ci sono anche due bambini. Poi tutto viene giù. È un sibilo che sembra un urlo. Viene giù quello che è stato costruito per stare su. Viene giù la vita, si spezza il destino, si schianta la cabina con a bordo i passeggeri che hanno preso il biglietto sbagliato e i morti sono quattordici. Un bambino, due anni, non ce l'ha fatta. Il cuore ha ceduto. L'altro, ancora più piccolo, è molto grave. Che è successo? Un cavo, proprio nel punto più alto, si è staccato e non ha funzionato neppure il sistema di sicurezza che avrebbe dovuto impedire comunque alla cabina di finire a terra. No, non sono due fatalità. Non puoi maledire il cielo. È che i meccanismi che dovevano salvare le vite non hanno funzionato. È il segno, tragico, di una sciatteria. Il gestore della funivia è frastornato: «Noi le manutenzioni le abbiamo fatte». Allora ti chiedi: perché? Perché una gita, una vacanza, una villeggiatura, finisce in questo modo? Perché ora la «normalità» ti fa paura? La risposta la darà chi la deve dare. Ci sarà un processo e probabilmente sarà lungo. I controlli, ripetono, ci sono stati. Ora bisogna capire come sono stati fatti. Quello di cui si può parlare adesso è un'inquietudine che si ripete. È la stessa di quando è crollato il ponte Morandi. C'è qualcosa in questa terra che si è perso. È la cura. È lo scrupolo. Non è il momento questo di puntare l'indice, però il sospetto che qualcosa nelle manutenzioni non sia così accurato si fa forte. Non è una garanzia. È come se in molti, moltissimi, lavori si fosse perso quel senso del dovere, quell'attenzione, perfino quel pessimismo che ti fa pensare al peggio e ti suggerisce di non lasciare nulla alla fortuna. Forse in pochi fanno troppe cose o magari si è troppo distratti, tra telefonate, mille video da vedere, stanchezza, mancanza di concentrazione o menefreghismo, fatto sta che troppo spesso si lavora male. Il lavoro è irresponsabile e non ti salva la vita. Non ti fidi più, di nulla. Non ti fidi della solita strada e ancora di meno di quella che non conosci. Non ti fidi di quello che vedi e di quello che non vedi, il tangibile e l'invisibile. Non ci fai pace, non te lo spieghi. Da ogni parte non fanno che parlare di sicurezza. È la parola evocata e sbandierata, eppure non ci siamo mai sentiti così insicuri. Scettici e sfiduciati e come compagna di viaggio la solita paura. Tutti andiamo in giro con le spalle scoperte.
Quelle famiglie in gita sul Lago Maggiore per respirare la libertà. di Federica Cravero, Lucia Landoni su La Repubblica il 23 maggio 2021. Cinque i gruppi saliti sulla cabina della funivia precipitata, di cui due coppie con figli piccoli. Erano arrivati da Varese, Piacenza, Verbania, Pavia. Ecco le loro storie. I genitori e il fratello di Silvia escono dalla caserma dei carabinieri di Stresa con lo sguardo perso nel vuoto. "Si era appena laureata, era andata a fare una gita con il fidanzato. Noi abbiamo saputo dello schianto leggendo i siti internet", raccontano scossi. In caserma hanno avuto la conferma del sospetto che hanno cercato di allontanare per ore, nonostante fosse impossibile raggiungere al telefono i due fidanzati, nonostante ovunque risuonassero le notizie della tragedia. Silvia Malnati aveva 26 anni, Alessandro Merlo 29. Entrambi abitavano a Varese. "Qualunque cosa tu possa fare, qualunque sogno tu possa sognare, comincia", aveva scritto Silvia citando Goethe sui social quando il 23 marzo si era laureata in Economia e management, momento immortalato dalla corona d'alloro e il sorriso di una nuova fase della vita che inizia. Per il momento era contenta di aver trovato lavoro, impiegata da poco alla profumeria Kiko a Milano.
La ragazza di Diamante e il fidanzato iraniano. Diamante è lontana più di mille chilometri dal Mottarone. Mille chilometri che adesso ripercorreranno le salme di Serena Costantino, 27 anni, e del fidanzato iraniano Mohammadreza Shahaisavandi di 23. Entrambi erano residenti nella località calabra ma vivevano fuori. Lei si era trasferita da poco a Verbania, dopo aver vinto il 15 marzo una borsa di ricerca con il Cnr e l'Istituto di ricerca sulle acque, dopo aver studiato alla Sapienza a Roma. Aveva appena disfatto le valigie e si stava abituando alla nuova vita, mentre nella capitale viveva ancora il fidanzato, che studia all'università e si paga gli studi lavorando in un bar. Ma si erano rivisti per il fine settimana per colmare la distanza che li separava. Ora alle autorità spetterà il difficile compito di avvertire la famiglia del ragazzo, che vive ancora in Iran. Mentre in Calabria il lutto ha toccato l'intera regione e le condoglianze sono arrivate anche dal presidente Giovanni Arruzzolo: "Siamo sgomenti".
Angelo e il regalo di compleanno a Roberta. Quarant'anni, una data da ricordare con una bella gita su quella funivia che dall'isola Bella sale fino alla cima del Mottarone. Aveva preparato tutto per festeggiare in vetta, proprio il giorno del suo compleanno, Roberta Pistolato con il marito Angelo Vito Gasparro, di cinque anni più grande di lei. Erano partiti dall'Emilia, due giorni di svago. Lo raccontavano a tutti: l'ultimo messaggio alla sorella, che vive in Puglia, alle 11 del mattino: "Stiamo salendo in funivia". Erano cresciuti entrambi a Bari e da qualche anno si erano trasferiti a Castel San Giovanni, provincia di Piacenza. Lui guardia giurata, lei medico: negli ultimi tempi si era impegnata nella campagna vaccinale anti-Covid, sia negli hub che a domicilio per raggiungere i pazienti fragili e anziani. Per questo in tanti hanno voluto ricordarla, non appena la notizia ha raggiunto gli ambienti sanitari in cui si era inserita: "Era una professionista disponibile e cordiale che ha sempre dimostrato spirito di servizio", scrive l'Ausl di Piacenza.
Vittorio, Elisabetta e il piccolo Mattia. "Una tragedia immane, da cui come vedanesi siamo ancora più toccati perché ha devastato un'intera famiglia della nostra comunità". Così Cristiano Citterio, il sindaco di Vedano Olona (nel Varesotto), commenta il crollo della cabina della funivia sul Mottarone in cui hanno perso la vita tre suoi concittadini. Tra le vittime ci sono il 54enne Vittorio Zorloni, la moglie Elisabetta Persanini (38 anni) e il figlio Mattia ( 5 anni). "Sono in contatto con i carabinieri e sto aspettando ulteriori aggiornamenti. Al momento so solo che Vittorio era partito per una gita con la famiglia, come tantissimi altri italiani avranno fatto in questa domenica di libertà dopo i lunghi periodi di lockdown - continua il primo cittadino - I parenti sono già partiti per andare sul posto ed effettuare il riconoscimento delle salme. Tutta la comunità vedanese si stringe intorno a loro in questo momento di terribile dolore".
Il destino di Amit e Tal via da Israele col sogno di dimenticare i razzi. Erano appena rientrati da Israele, dalla guerra, dai razzi e dai lutti senza fine. Anche se il cuore e la testa di Amit erano sempre là, su quel conflitto che ha anche riempito gli ultimi post del suo profilo Facebook. Hanno trovato la morte in una giornata di sole, durante «una gita in montagna che — racconta Milo Hasbani il presidente della comunità ebraica di Milano — avrebbe dovuto restituire a tutti un po’ di spensieratezza». Un’intera famiglia annientata: Amit Biran, 30 anni, che si era trasferito a Pavia nel 2018 per studiare Medicina, la moglie, Tal Peleg, di 27, e Tom, il figlio più piccolo di appena due anni, che era nato proprio in Italia, nella città che la coppia aveva scelto per vivere. Con loro, anche due parenti venuti da Israele a trovarli. L’unico sopravvissuto, il bambino più grande di cinque anni. Che sta ancora lottando. Quando è arrivato, in condizioni molto gravi, all’ospedale infantile Regina Margherita di Torino, dicono i medici, piangeva disperato e continua a ripetere solo: "Lasciatemi stare, lasciatemi stare". Nella tragedia sono morti anche i suoi bisnonni Itshak Cohen, 82 anni, e la moglie Barbara Cohen Konisky, 70 anni.
Funivia Stresa Mottarone, ecco perché è la strage di chi era tornato a vivere. Renato Farina su Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. Da dove cominciare il racconto dei nostri quattordici morti di Pentecoste, accartocciati nella funivia che collega Stresa alla cima del Mottarone, provincia di Cuvio-Verbania? Non dall'orrore di quei cadaveri raccolti dai vigili del fuoco e dagli uomini del soccorso alpino, che le immagini raffigurano straziati e immobili, con le braccia aperte dalla costernazione. È più umano partire dagli ultimi istanti di vita, pensiamo sia giusto per loro, si capirà che non volevano brividi di avventura, ma la quiete di una bellezza gustata insieme, senza timore di stringersi un po', nel vero primo giorno della liberazione, una sorta di seconda nascita. Viene in mente il racconto di Hemingway: «Breve la vita felice di Francis Macomber». La funivia e il panorama del Lago Maggiore Quindici facce allegre nel giorno di festa, guardavano salendo in cielo il più bel panorama del mondo, mentre il sole brillava (occhi su). Sotto di loro le isole Borromee, quella è l'Isola Bella, quell'altra è quella dei Pescatori (occhi giù), gocce di smeraldo nell'azzurro del lago Maggiore, eccetera. E poi Il contrasto tra la luce e le tenebre non potrebbe essere più netta. Non è una memoria di viaggio questa, ma la cronaca di uno schianto in un giorno entusiasta, nell'ora culminate. Ore 12, ci sono le borse per il picnic, gli zainetti tra i piedi, il cellulare zigzaga. Mancano trecento metri alla stazione di arrivo. Poi chi vorrà potrà prendersi anche la seggiovia, per l'ultimo tratto, ma non esageriamo, il resto sul sentiero e il prato. Il Mottarone che vuol dire Monte Rotondo non ha asprezze, è un balcone che ha la dolcezza di una veranda sul giardino. Pazienza che si arriva, o forse si vorrebbe durasse tutta la vita questo navigare nell'infinito, dove l'aria somiglia alle acque materne della pace. Pace? Un istante e lo strappo secco del tirante, il precipizio. Sembrava così leggera quella scatola colorata, così bella la vita. Tutto vero, resta vero, ma oggi è più vera la morte di quattordici persone come noi, che finalmente respiravano l'idea che si vive di nuovo. Due bambini, pare di cinque e nove anni, sono stati trasportati all'ospedale di Torino: uno purtroppo non ce l'ha fatta, l'altro lotta per vivere. Chi era con lui, madre, padre, zio, non è lì accanto a vegliare, l'urto tremendo da cui è sopravvissuto lo ha reso orfano. Si sono messi in fila verso le dodici e trenta. Chi vive in Lombardia e Piemonte lo sa (ma forse lo sanno dovunque nel mondo) prima di partire da Stresa per il panorama forse più bello del mondo, si parte per una gita che conduce allo spettacolo dei fiori sul lago Maggiore. Non ne esistono di paragonabili sotto le Alpi. Quelli di Villa Taranto a Pallanza, poi dieci minuti di auto, ed a Stresa il giardino botanico Alpinia. Piante rare, colori più seducenti che i pesci del Mar Rosso. Ma i bambini puntano al trasbordo sulla scopa volante. Non solo a loro, ma a tutti i passeggeri, quando si sono aperte le porte della cabina bianca e rossa della funivia che porta da Stresa al Mottarone sembrava di aver scassinato per sempre il carcere del lockdown e via, e su, ad ammirare la chiostra alpina e i laghi, infine sedersi sull'erba, godersi il panino e ad est il Maggiore a ovest quello di Orta. Prima però venti minuti di trasvolo sognante, era la promessa. Quante precauzioni anche ieri, per salire in funivia. L'addetto faceva in modo che la naturale tendenza a tamponarsi nelle code onde far prima non accorciasse le distanze sociali. La trafila consueta, in questo caso era piacevole persino vedersi puntare quella quella pistola di plastica sulla fronte per misurare la febbre. Trentasei e tre, va bene. Va bene un cavolo, se eravamo tutti trentotto la si scampava. La capienza del vagoncino è stata per sicurezza (che ironia) ridotta alla metà dei posti standard, onde non respirarsi addosso microbi malvagi. Paradosso: quei quindici-venti che non sono saliti per le norme anti pandemia, sono gli unici a cui il Covid ha salvato la vita. Questa Pentecoste è speciale, occasione di purificazione della mente e dei polmoni dopo gli incubi del confinamento. Dal 19 maggio i turisti possono riattraversare i valichi delle Alpi, affacciarsi al nostro sole. La prima gita, con il fruscio dei cavi, con la lieve danza da trapezisti causa il vento, sospesi senza rete ma prudenti, navigando sopra i boschi, un po' astronavi od ospiti di una mongolfiera, senza rombi di motori, ma il vociare multilingue. Fantastico. Ci si appaia al falco pellegrino, non però come quei matti in deltaplano o parapendio, ma saldi e attaccati alla potente tecnologia, revisionata, radiografata dalla ditta sudtirolese, il massimo. Ora, con i corpi negli obitori, apprendiamo che negli anni '60 il vecchio trenino a cremagliera