Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2021

 

L’ACCOGLIENZA

 

QUARTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

     

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Muri.

Schengen e Frontex. L’Abbattimento ed il Controllo dei Muri.

Gli stranieri ci rubano il lavoro?

Quei razzisti come…

Il Sud «condannato» dai suoi stessi scrittori.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come i francesi.

Quei razzisti come i belgi.

Quei razzisti come gli svizzeri.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i polacchi.

Quei razzisti come i lussemburghesi.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come i norvegesi.

Quei razzisti come i serbi.

Quei razzisti come gli ungheresi.

Quei razzisti come i rumeni.

Quei razzisti come i bulgari.

Quei razzisti come gli inglesi.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come i maltesi.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come i somali.

Quei razzisti come gli etiopi.

Quei razzisti come i liberiani.

Quei razzisti come i nigeriani.

Quei razzisti come i Burkinabè.

Quei razzisti come i ruandesi.

Quei razzisti come i congolesi.

Quei razzisti come i sudsudanesi.

Quei razzisti come i giordani.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i siriani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli emiratini.

Quei razzisti come i dubaiani.

Quei razzisti come gli arabi sauditi.

Quei razzisti come gli yemeniti.

Quei razzisti come i bielorussi.

Quei razzisti come gli azeri.

Quei razzisti come i russi.

 

INDICE TERZA PARTE

 

Quei razzisti come gli Afghani.

La Storia.

L’11 settembre 2001.

Il Complotto.

Le Vittime.

Il Ricordo.

La Cronaca di un’Infamia.

Il Ritiro della Vergogna.

La presa del Potere dei Talebani.

Media e regime.

Il fardello della vergogna.

Un esercito venduto.

Il costo della democrazia esportata.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

Quei razzisti come gli Afghani.

Fuga da Kabul. Il Rimpatrio degli stranieri.

L’Economia afgana.

Il Governo Talebano.

Chi sono i talebani.

Chi comanda tra i Talebani.

La Legge Talebana.

La Religione Talebana.

La ricchezza talebana.

Gli amici dei Talebani.

Gli Anti Talebani.

La censura politicamente corretta.

I bambini Afgani.

Gli Lgbtq afghani.

Le donne afgane.

I Terroristi afgani.

I Profughi afgani.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quei razzisti come i giapponesi.

Quei razzisti come i sud coreani.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come gli indiani.

Quei razzisti come gli indonesiani.

Quei razzisti come gli australiani. 

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i brasiliani. 

Quei razzisti come gli haitiani.

Quei razzisti come i cileni.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come gli statunitensi.

Kennedy: Le Morti Democratiche.

La Guerra Fredda.

La Variante Russo-Cinese-Statunitense.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Olocausto dimenticato. La lunga amicizia tra Hitler e Stalin.

Gli olocausti comunisti.

E allora le foibe?

Il Genocidio degli armeni.

Il Genocidio degli Uiguri.

La Shoah dei Rom.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Chi comanda sul mare.

L’Esercito d’Invasione.

La Genesi di un'invasione.

Quelli che …lo Ius Soli.

Gli Affari dei Buonisti.

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli che…Porti Chiusi.

Due “Porti”, due Misure.

Cosa succede in Libia.

Cosa succede in Tunisia?

 

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

QUARTA PARTE

 

·        Quei razzisti come gli Afghani.

Fuga da Kabul. Il Rimpatrio degli stranieri.

Afghanistan: truppe statunitensi in arrivo a Kabul. (ANSA il 14 agosto 2021) Stanno arrivando a Kabul le truppe statunitensi con il compito di aiutare personale diplomatico e altri americani a lasciare il Paese, mentre i talebani risultano ancora accampati a una cinquantina di chilometri dalla capitale afghana, probabilmente in attesa del completamento delle evacuazioni dalle ambasciate. Lo riporta la Bbc. Il capo delle Nazioni Unite ha avvertito che la situazione sta andando fuori controllo con conseguenze devastanti per i civili. Finora più di 250.000 persone sono state costrette a lasciare le loro case e molti di loro si sono concentrati a Kabul, nei parchi o in alloggi di fortuna. L'ambasciata degli Stati Uniti - riportano vari media internazionali, ha invitato il personale a distruggere ogni materiale sensibile presente nelle strutture, inclusi opuscoli e bandiere che potrebbero essere utilizzati per la propaganda. Anche il Regno Unito ha annunciato l'invio di 600 soldati per aiutare l'evacuazione dei cittadini britannici e dell'ex personale afghano. Come la Germania, manterrà aperta l'ambasciata con il personale al minimo. Danimarca e Norvegia stanno invece chiudendo del tutto le loro rappresentanze diplomatiche. 

Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 15 agosto 2021. La procedura è stata avviata la scorsa notte con la distruzione dei documenti classificati. Ieri pomeriggio è stato attivato il ponte aereo per riportare in Italia il personale dell’ambasciata a Kabul e i connazionali che vogliono rientrare. Via il personale diplomatico e i collaboratori, ma si cerca di portare fuori dall’Afghanistan anche le persone indicate dal ministero della Difesa che negli anni hanno collaborato con le nostre autorità, con il contingente e con l’intelligence e adesso devono essere protette dalla vendetta dei Talebani. Per questo è stato deciso che il rilascio dei visti per chi è già stato autorizzato avverrà direttamente a Roma.

I diplomatici. Una nota della Farnesina comunica che «alla luce del deterioramento delle condizioni di sicurezza in Afghanistan, sono state avviate le procedure per predisporre il rientro in Italia del personale dell’ambasciata italiana a Kabul». Si è deciso di lasciare «un presidio dell’ambasciata italiana presso l’aeroporto di Kabul, dove si stanno trasferendo la maggior parte delle altre ambasciate presenti in Afghanistan. Ai 50 dipendenti della Farnesina che hanno finora tenuto aperta la rappresentanza italiana guidata dall’ambasciatore Vittorio Sandalli, si aggiungono circa 30 collaboratori e i loro familiari. Ma anche i carabinieri del Tuscania che si sono occupati della sicurezza della sede.

La mail agli italiani. La situazione è fuori controllo, per questo il ministero degli Esteri ha deciso di rivolgere un appello a tutti gli italiani che si trovano in Afghanistan. Lo ha fatto con una mail trasmessa dall’Unità di crisi: «Facendo seguito agli inviti formulati a lasciare il Paese, le comunichiamo che, visto il grave deterioramento delle condizioni di sicurezza, viene messo a disposizione dei cittadini italiani un volo dell’Aereonautica militare nella giornata di domani 15 agosto (oggi, ndr) alle 21.30 circa dall’aeroporto di Kabul. Le formuliamo l’invito a lasciare il Paese con questo mezzo. La invitiamo a manifestarci immediatamente la sua adesione. Provvederemo a prendere a stretto giro contatto con lei una volta comunicata l’adesione al fine di raccordarci per l’ingresso in aeroporto».

I 4.000 collaboratori. Sono 238 afghani i collaboratori della Difesa già rientrati in Italia. Altri 390 sono a Herat e si sta cercando il modo di trasferirli a Kabul. Il numero di chi in modi e tempi diversi ha dato supporto al contingente — compresi i familiari — sfiora le 4.000 persone. «Non lasceremo soli gli afghani», ha promesso il titolare della Farnesina Luigi Di Maio. Per questo le autorità militari e i rappresentanti dell’intelligence hanno avviato una ricognizione con tutti i nominativi senza escludere di poter effettuare il trasferimento anche passando attraverso altri Stati in modo da garantire loro sicurezza. È l’operazione «Aquila» che prevede diverse fasi di intervento e mira a proteggere coloro che, soltanto per aver lavorato a contatto con i contingenti militari occidentali, potrebbero subire la ritorsione dei talebani.

L’evacuazione. Già nei giorni scorsi l’intelligence italiana aveva inviato un’allerta evidenziando come numerosi Paesi avessero deciso di ridurre o smobilitare le rappresentanze diplomatiche: «Gli Stati Uniti hanno annunciato l’intenzione di rischierare la propria sede presso la struttura militare di Hamid Karzai International Airport, così come il Regno Unito e la Turchia. Giappone, Germania e Canada si preparano a chiudere, mentre Danimarca e Norvegia hanno preannunciato una chiusura “temporanea”. L’abbandono delle sedi da parte di Stati Uniti e Regno Unito indebolirà la sicurezza nella “green zone”, dove insiste anche la sede dell’ambasciata d’Italia». L’ultimo avviso prima della ritirata finale.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 15 agosto 2021. Alle tre di pomeriggio di ieri, ora afghana, l'ambasciata italiana a Kabul ha iniziato a distruggere i documenti riservati e classificati. È il primo step. Il nostro corpo diplomatico si prepara a lasciare rapidamente l'edificio in Great Massoud Road. L'obiettivo è raggiungere il vicino aeroporto, distante poco più di 5 chilometri. Qui potrebbe proseguire il lavoro dell'ambasciatore Vittorio Sandalli e dei suoi più stretti collaboratori. Intanto stanotte partirà da Kabul un aereo dell'Aeronautica militare per rimpatriare tutti i nostri connazionali che sono stati allertati con una mail dall'ambasciata. Lo scalo è controllato dai turchi. Anche Ankara sta valutando il trasferimento dei diplomatici nell'aeroporto, così come i francesi, gli inglesi e gli americani. «Ci stiamo preparando ad ogni evenienza, anche quella dell'evacuazione. Dobbiamo pensare alla sicurezza del nostro personale», ha spiegato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Lo scenario, in una realtà complessa come Kabul, potrebbe cambiare rapidamente. Basti pensare che fino a giovedì il piano italiano prevedeva lo spostamento del nostro staff nella vicina ambasciata americana. Poi gli Usa hanno deciso di puntare sullo scalo, determinando un cambio di destinazione anche per il nostro Paese. Insomma il modo in cui lasciare la sede, evacuarla e anche dove andare dipendono da come i Talebani entreranno oggi a Kabul. Per esempio, fino a ieri sera, i 5 chilometri di strada che portano dall'ambasciata all'aeroporto erano valutati come sicuri. Già stamattina il quadro potrebbe modificarsi e richiedere, per gli spostamenti, i servizi di scorta dei corpi scelti dell'esercito italiano. Intanto i primi contingenti degli oltre 3.000 soldati americani mobilitati per aiutare ad evacuare l'ambasciata americana di Kabul sono arrivati ieri all'aeroporto. Altri 4.000 marines sono pronti ad intervenire dalle basi nel Golfo. Altre 600 teste di cuoio britanniche sono in arrivo. Si tratta dei militari della 16ma Brigata aerea di assalto. Come confermato dal ministero della Difesa di Londra che prenderà parte all'operazione, che faciliterà anche il trasferimento del personale e gli interpreti afgani loro collaboratori. Sono invece molto complesse le operazioni per portare a Roma gli afghani che hanno lavorato con l'Italia. In patria rischiano la vita, ma chi si trova lontano da Kabul, l'unica città da cui ad oggi si può partire, è in oggettiva difficoltà. Con l'operazione Aquila 1 sono state già evacuate 228 persone, con Aquila 2 sono pronte a partire in 390. Ma la maggior parte di loro si trova ad Herat. La città è in mano ai fondamentalisti islamici e chi ha lavorato con gli occidentali potrebbe essere giustiziato. Per loro l'unica chance è raggiungere nel più breve tempo possibile la capitale del Paese. Ma come fare a spostarsi in un Afghanistan in mano ai Talebani? Stessa situazione che attraversano 335 famiglie che hanno avuto rapporti con il nostro contingente militare (un totale di 2.000 persone). La loro posizione è al vaglio delle autorità italiane, ancora non è stato deciso se potarli a Roma o meno. Tuttavia, anche queste persone, si trovano ad Herat. Più fortunati sono invece i 430 afghani che hanno collaborato con il ministero degli Esteri e la cooperazione italiana. Quasi tutti vivono a Kabul, ad eccezione di una novantina che si trova a Herat. Perciò la rapidità inaspettata dell'evoluzione della situazione è un tema che ha condizionato la nostra strategia sui rimpatri. «I collegamenti con Kabul sono più pericolosi ma la pianificazione è stata modificata e aggiornata ora dopo ora. C'è un impegno massimo per trasportare in Italia chi ha collaborato con noi. Un impegno morale prima che politico. Già in 228 sono giunti in Italia e ora si sta lavorando per accelerare i trasferimenti degli altri, tra cui gli interpreti e i loro familiari. Sono stati amici dell'Italia e li porteremo con noi», promette il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Giuseppe Scarpa

Da "ilmessaggero.it" il 16 agosto 2021. Il livello di disperazione della popolazione afghana dopo la conquista del potere da parte dei talebani traspare bene dalle parole di una giovane ragazza afghana, che ieri ha pubblicato e diffuso online un video. «Non contiamo nulla perché siamo nati in Afghanistan. A nessuno importa di noi, moriremo lentamente nella storia, non è divertente?». Queste le parole della ragazza, pronunciate singhiozzando e piangendo. Non è noto il nome della giovane, ma probabilmente è appartenente alla cosiddetta “generazione Z”, una classe d'età che mai aveva visto in vita loro al potere i talebani e che è cresciuta nell'ormai ex Repubblica afghana. Da ieri invece è stata issata sul palazzo presidenziale la bandiera dei talebani. Dopo la fuga all'estero del presidente Ashraf Ghani, da ieri le milizie islamiste hanno proclamato ufficialmente il nuovo regime, cambiando di fatto nome al Paese. Emirato islamico dell'Afghanistan questa la dicitura ufficiale scelta dai talebani.

Ci sono già state sparatorie, morti e feriti nella capitale, Kabul, ma il pericolo più grande è corso da tutti gli uomini e le donne che negli ultimi due decenni hanno collaborato con la coalizione occidentale. Per loro in queste ore si teme che possano scatenarsi violente rappresaglie.

Le immagini shock: aggrappati agli aerei per fuggire da Kabul. Mauro Indelicato il 16 Agosto 2021 su Il Giornale. L'aeroporto della capitale afghana è stato preso d'assalto nel pomeriggio di domenica dopo l'arrivo dei Talebani in città: in migliaia temono ritorsioni da parte delle milizie islamiste e provano ad imbarcarsi nel primo volo disponibile, ma è caos nello scalo. In migliaia non si fidano degli annunci volti alla “clemenza” da parte dei Talebani. Quando la mattina del 15 agosto le prime avanguardie del movimento islamista hanno raggiunto Kabul, nella capitale afghana si è scatenato il panico. Molte persone hanno iniziato a temere per la propria sorte.

Si tratta soprattutto di collaboratori delle forze occidentali, tra traduttori, interpreti oppure semplici impiegati degli uffici della coalizione internazionale. Il timore per loro è che i Talebani possano avere dei conti in sospeso. Ma oltre ai collaboratori, ci sono altre fasce della popolazione preoccupate dall'avvento repentino degli studenti coranici. A partire dalle donne, quelle che ad esempio negli ultimi anni hanno provato a farsi una propria posizione sociale ed economica indipendente da quella degli uomini. Una circostanza inconcepibile per i Talebani, i quali al contrario vorrebbero tornare ad applicare le regole più rigide della Sharia, la legge islamica. Ci sono poi giornalisti, editori, attivisti e persone che, in generale, hanno provato a dare una sterzata sociale a Kabul in questo ultimo ventennio. Per tutti loro l'unica via di fuga è rappresentata dall'aeroporto. Prendere il primo aereo disponibile per fuggire ed evitare la possibile scure dei Talebani. Il traffico attorno lo scalo di Kabul ieri mattina era bloccato. C'è chi ha proseguito a piedi per chilometri pur di raggiungere il perimetro della struttura. In serata è stato il caos. In migliaia hanno preso d'assalto le scalette degli aerei in partenza, altri si sono assiepati lungo le piste. Una situazione degenerata soprattutto dopo l'annuncio del blocco dei voli commerciali. Dalla capitale afghana partono infatti soltanto aerei militari, gli stessi che stanno permettendo l'evacuazione del personale diplomatico dalle ambasciate occidentali lasciate di fretta e furia nell'ultimo fine settimana. Ma a terra ci sono decine di aerei civili che per gli afghani rappresentano l'ultima speranza per sentirsi al sicuro. Il loro auspicio è che quanto prima possano essere riprogrammati i voli commerciali e quindi andare via. Da Istanbul sono stati attivati diversi ponti aerei visto che la Turchia ha in capo la gestione della sicurezza dell'aeroporto, ma anche in questo caso si tratta soprattutto di voli destinati all'evacuazione di impiegati e diplomatici stranieri. La disperazione ha portato a decine di persone ad aggrapparsi letteralmente agli aerei. Le immagini parlano chiaro: da ora sui social circolano video dove si notano cittadini afghani provare a inseguire velivoli militari Usa lungo la pista, alcuni con le ultime forze rimaste si appoggiano anche ai carrelli degli aerei, un gesto che ben può far comprendere lo stato d'animo di chi sta provando a scappare. Si segnalano anche delle vittime. Almeno 5 secondo diverse fonti locali. Non si comprende se sono persone decedute a seguito della calca tra le piste oppure se si tratta di gente caduta dagli aerei appena decollati. In un video su Twitter si notano persone cadere da un velivolo militare che da poco aveva lasciato la pista dell'aeroporto di Kabul. Scene strazianti che vanno avanti da questa mattina. I Talebani, una volta dentro Kabul, hanno assicurato che chi vuole lasciare il Paese può farlo tranquillamente. Ma gli afghani fuggiti in aeroporto temono si tratti di un bluff. Così come non si fidano degli annunci dei governi occidentali, i quali hanno parlato di ponti aerei attivati per i prossimi giorni e fino a quando lo scalo sarà in sicurezza. Nell'attesa di capire quale sarà il loro destino, le migliaia di persone affluite fin dentro le piste di rullaggio sono in preda al panico. Si cerca un posto dentro un aereo a tutti i costi e per qualsiasi destinazione. Per loro l'importante è non sperimentare su sé stessi le reali intenzioni talebane.

Carlo Verdelli per il “Corriere della Sera” il 17 agosto 2021. È sicuro che non ce la farai, non hai speranze di restare vivo, nessuna. Qualsiasi futuro ti aspetti avrebbe almeno un piccolissimo margine di possibilità. Ma la cosa che stai per fare margini non ne ha, va contro la prima regola iscritta nel codice genetico: conservare la vita a ogni costo, contro ogni evidenza. Eppure sei arrivato a un punto che sta oltre il confine della nostra genetica, un punto nel quale ogni ragionamento o calcolo delle probabilità perdono valore. I fantasmi del presente che ti stanno travolgendo hanno la meglio. E allora ti butti da un grattacielo, sapendo che nessun angelo verrà a prenderti mentre precipiti, oppure ti aggrappi al carrello di un aereo in decollo con la certezza che le tue mani non potranno reggere la furia d'aria che ti costringerà a mollare la presa e a cadere come un sasso che si frantumerà a terra. Karl Marx ha sbagliato quando ha previsto che la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa. Nelle immagini che ci ghiacciano gli occhi in queste ore, c'è sì una storia che si ripete: non come farsa, però, ma come replica di tragedia. Le ombre delle persone che si lanciarono dalle Torri Gemelle si sovrappongono plasticamente a quelle dei corpi in caduta libera dalla carlinga di un grande aereo, grande come quelli che sventrarono New York. Appartengono, quei corpi, ai più disperati nella folla dei disperati di Kabul, che la mattina del 16 agosto hanno preso d'assalto l'ultima via di fuga, prima di arrendersi ai nuovi padroni dell'Afghanistan, anzi dell'Emirato islamico dell'Afghanistan, come denominato dai talebani che ne hanno appena conquistato il completo e spaventevole possesso. Mancava poco meno di un mese per rendere perfetta la chiusura di un cerchio tragico: centro di Manhattan, 11 settembre 2001; aeroporto Hamid Karzai di Kabul, 16 agosto 2021. Vent' anni quasi esatti. In principio, l'attentato che apre, sconvolgendolo, il secolo. In coda, adesso, l'atto finale di un pieno di guerre, di morti, di devastazioni, di illusioni, che è andato accumulandosi finendo come in un paradossale gioco dell'oca alla casella di partenza: con gli eredi di Osama Bin Laden, il leader massimo di Al Qaeda, che si riprendono quello che gli Stati Uniti e l'Occidente unito gli aveva sottratto per ritorsione. Tutto il troppo che sta in mezzo tra inizio e fine di questo capitolo sconvolgente del mondo contemporaneo poggia su due piloni lontanissimi tra loro, separati da una distanza incommensurabile, eppure impastati dallo stesso cemento: esseri umani (americani i primi, afghani gli ultimi) che scelgono di morire prendendo sul tempo la morte, anticipandola, ingaggiando una sfida già persa in partenza col destino. Non si sa ancora, e mai si saprà con certezza, quante sono state le persone che, sentendosi perdute, si sono gettate dai piani altissimi dei due grattacieli di New York. Il simbolo di tutte queste vite sospese in eterno è la figura di un signore che precipita a velocità inconcepibile, a testa in giù, una camicia bianca, le mani lungo i fianchi, una gamba ad angolo sull'altra. La foto che lo ferma per sempre è di Richard Drew. Diventa «The falling man», l'uomo che cade, probabilmente dalla Torre Nord del World Trade Center. Forse è un impiegato del ristorante «Windows on the World», finestre sul mondo, centoseiesimo piano, le fiamme che divorano il palazzo sotto di lui, il panico che divora lui, che resterà senza un nome certo. Aveva una famiglia, dei figli, di che età, e quanti anni aveva lui, che bambino era stato, che programmi si era fatto per il suo futuro? La marea di uomini, tutti maschi, che nella Kabul appena caduta corrono come se avessero perso il senso delle cose dietro un enorme U.S. Air Force già in marcia verso il decollo, con quelli più veloci che si arrampicano sui carrelli delle ruote ancora aperti e si avvinghiano come gechi ai minimi appigli della fusoliera, rappresenta già molto di più dell'annuncio delle morti in volo che poi verranno. È la raffigurazione di una specie di tentato suicidio di massa. Lasciarsi qualsiasi cosa alle spalle, compresa la propria casa e la propria vicenda personale, pur di non essere costretti a tornare in quella casa, nella vita ormai data per perduta, vita propria o dei figli, delle figlie, delle mogli, delle madri. Nella folla smarrita che si accalca per scappare disordinatamente da un domani sfigurato, c'è l'epilogo insostenibile, inguardabile, di una guerra dei vent' anni dove l'ultimo atto si ricongiunge al primo, demolendo i pilastri e il ponte su cui questo abnorme spreco di denaro, di vite e di civiltà ci ha fatto credere di reggere. In una delle sue ultime interviste, il 14 maggio a Riccardo Iacona per Presa diretta, il fondatore di Emergency Gino Strada, che proprio in Afghanistan ha strappato decine di migliaia di vite straziate a morti certe, aveva già dato robuste picconate al ponte delle bugie e anche a quello delle illusioni. «Gli americani se ne vanno con una sconfitta, dopo aver speso più di 2 mila miliardi di dollari, e i talebani sono ancora lì. Gli afghani intanto sono più poveri del 2001, hanno avuto 4 milioni di profughi, un quarto della popolazione, più 150 mila morti, in prevalenza civili. Non si è speso per ricostruire un Paese ma per continuare una guerra. A cosa è servito? Zero». Il dottor Strada è morto il 13 agosto. Non ha visto gli afghani precipitare nel blu ma non ne sarebbe stato sorpreso.

Afghanistan, gli "uomini che cadono" dall'aereo Usa peggio dell'11 settembre. Giovanni Sallusti su Libero Quotidiano il 17 agosto 2021. La storia sta in due fotografie accostate, in mezzo vent' anni di dotte analisi che potete gettare al macero. 11 settembre 2001-16 agosto 2021: la storia non è cronologia, due decenni li puoi comprimere fino ad azzerarli, fino a questo contrasto plastico e simultaneo che a prima vista sembra la ripetizione dell'identico. "Falling men" allora nel cuore ipermoderno di Manhattan, "falling men" oggi all'aeroporto scalcinato della scalcinata Kabul, appena tornata sede di un Emirato nazi-islamico. Com' era all'epoca dell'altra istantanea, il giorno dell'attentato, come non è stata per quasi quattro lustri che diventano una parentesi evanescente tra queste due scene così dannatamente uguali nella loro essenza (dis)umana. 

GESTO DI LIBERTÀ - Qualcuno, con le Twin Towers sventrate, scelse un ultimo, paradossale, quasi blasfemo atto di libertà. Il salto volontario nel vuoto, contro le fiamme, le ossa arrostite e schiacciate dall'acciaio sconvolto, contro l'ineluttabilità dell'agonia. Al diavolo, piuttosto salto. Così è un teorema scaturito da una comoda tastiera, ovvio, per quegli uomini, e in particolare l'uomo immortalato dal fotoreporter Richard Drew, fu molto meno, e molto di più, di un ragionamento, fu uno scatto delle membra e dell'anima, fu afferrare l'ultimo granello di autodeterminazione che rimaneva loro: è finita, ma come lo decido io. Oggi, vien da dire, è persino peggio. Oggi non c'è nessuna scelta, nemmeno estrema, al massimo c'è una scelta estrema frustrata, c'è un'ennesima orribile pernacchia del destino di fronte alla disperazione umana, una minuzia agli occhi ipovedenti del Fato tragico (gli antichi Greci, sempre lì siamo, e forse sempre e solo questa minima consapevolezza possiamo opporre alle bestie islamiste ritornanti). Oggi ci sono uomini che tentano l'impossibile, sfidano la logica e la fisica, si aggrappano alle ruote di un aereo militare americano per volare via, più temerari e folli di Icaro, perché l'eventualità di finire di nuovo sotto la sharia dei Talebani addestrati a oppio e Corano non la contemplano neppure, non è vita e probabilmente nemmeno sopravvivenza. E cadono, ovviamente e irreparabilmente, piombano nel vuoto senza neanche la falsa eleganza percepita del "Falling Man" originario, rovinano al suolo insieme alle loro speranze obsolete. Eppure ci sono state, quelle speranze. Un'evidenza inaggirabile, che riapre il fossato tra le due immagini, tra l'allora e l'adesso. La storia non è nemmeno attimo, la storia succede, e in mezzo è successo tutto, fino a tornare al punto di partenza. Anzitutto, è successa la principale conseguenza della prima foto: la guerra al terrorismo dichiarata da George W. Bush e dall'amministrazione Usa (repubblicana, grazie a Dio, figuratevi l'approccio Biden-Obama a condurre il post-11 settembre), una guerra giusta come scandì in beata solitudine Oriana Fallaci, una guerra contro chi aveva travolto la vita del Falling Man originario e di altri 2976 civili americani. Contro la piovra di Al Qaeda, e contro chi la nascondeva, proteggeva e nutriva: il (primo, tocca purtroppo aggiungere oggi) regime talebano. Una guerra vinta, rispetto agli obiettivi iniziali: lo smantellamento della prima base operativa terroristica nel mondo, lo strangolamento nelle caverne di Tora Bora dell'immonda teocrazia dei mullah e infine anche l'uccisione diretta dell'uomo senza cui non ci sarebbe stato il primo scatto di questa pagina: Osama Bin Laden.

L'EQUIVOCO - Una guerra, poi, incredibilmente persa attorno a un equivoco generoso e idealistico, due aggettivi che in geopolitica suonano molto peggio che altrove: costruire in Afghanistan uno Stato di diritto, un pluralismo laico e liberale, perfino un esercito con canoni moderni. Un pericoloso ossimoro, nel Paese degli altopiani sperduti e dei tribalismi atavici, già noto come "tomba degli Imperi". Un tentativo infine irrevocabilmente fallito. Tuttavia, un fallimento non è nulla, è qualcosa. Torniamo lì, all'ovvietà temporale: in mezzo qualcosa è accaduto. In mezzo, ci sono state donne in giro da sole a volto scoperto, ragazze che andavano ogni giorno a scuola, giovani che conoscevano il diritto di discutere, dissentire, perfino ascoltare la musica bandita dai (primi) talebani in quanto aberrazione infedele. Se vi paiono dettagli, è perché non siete quelle donne, quelle ragazze, quei giovani. Agli afghani disperati che hanno preferito la scommessa pazza di appendersi alle ruote di un aereo occidentale non parevano dettagli, evidentemente. Tra queste due fotografie rimbalza una sola certezza, che di nuovo annulla i vent' anni accumulati: dove sta la libertà, e dove sta la barbarie. A dircelo, ancora una volta, dei falling men che precipitando scrivono la storia. 

Il dramma degli afghani: aggrappati ai carrelli dell’aereo per fuggire da Kabul, poi cadono nel vuoto. Le immagini drammatiche dall’aeroporto Hamid Karzai. Marta Serafini su CorriereTv il 16 agosto 2021. Immagini drammatiche che mostrano il caos all’aeroporto di Kabul scattato dopo che la capitale è caduta sotto controllo dei talebani. Centinaia di persone hanno circondato un aereo cargo militare americano con 800 persone a bordo tra personale statunitense e afghano questa mattina mentre si apprestava a iniziare il rullaggio per il decollo dall’aeroporto Hamid Karzai. Decine di civili si sono aggrappati ai carrelli e alla carlinga, a qualunque appiglio: è quanto si vede in un video di pochi secondi trasmesso da alcuni media, fra cui l’agenzia afghana Pajhwok su Twtter. In altre immagini postate in rete dall’agenzia di news afghana Asvaka New da due diverse angolazioni diverse si intravedono i corpi cadere da centinaia di metri dopo il decollo del C-17 della Us Air Force. Scene terribili che richiamano alla memoria il «falling man» delle Torri Gemelle, l’11 settembre 2001. Questa mattina all’aeroporto di Kabul cinque persone sono morte a terra a causa di spari. Altre immagini diffuse da Tolo News mostrano i soldati statunitensi in assetto da guerra tentare di difendere il decollo del C-17.

La foto simbolo della fuga dai Talebani. Il dramma dell’esodo in Afghanistan, in 640 ammassati nella stiva di un aereo C-17 americano. Fabio Calcagni su Il Riformista il 17 Agosto 2021. Probabilmente sarà una delle foto simbolo della riconquista da parte dei Talebani dell’Afghanistan. È l’immagine diffuso dal sito americano Defense One che immortala l’interno di un aereo militare statunitense C-17 Globemaster III, utilizzato dalle forze armate USA per trasportare truppe o attrezzature militari, carico nella stiva di 640 afghani in fuga da Kabul. Dopo l’ingresso delle truppe talebane nella capitale sono state migliaia le persone che hanno tentato di scappare dal Paese per il timore del nuovo regime, in alcuni frangenti un tentativo finito con la morte: è stato il caso dei cittadini che si sono aggrappati agli aerei in partenza dall’aeroporto di Kabul per il trasporto del personale diplomatico e che sono poi precipitati al suolo da decine di metri di altezza. L’areo al centro della foto, secondo le stime, ha una capienza massima di poco superiore ai 150 posti, quindi non poteva trasportare un numero così elevato di persone. Ma, come ricostruito da Defense One, “è stato l’equipaggio a decidere di decollare” una volta che le persone erano salite a bordo e il portellone era stato chiuso, ha spiegato una fonte al sito. Il C-17 Globemaster III è poi atterrato regolarmente in Qatar, nella base dell’aviazione USA Al Udeid. Per garantire un volo sicuro ad un numero così elevato di persone, i passeggeri hanno dovuto seguire la procedura del “floor loading”, ovvero sedersi a terra e usare le cinghie di carico che vanno da una parete all’altra del velivolo come cinture di sicurezza.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 18 agosto 2021. Secondo quanto emerso sui social media afghani, i due clandestini precipitati dall’aereo americano partito da Kabul erano due fratelli adolescenti. Avevano 16 e 17 anni e di professione vendevano angurie. I due ragazzi, secondo il rapporto della polizia, erano poverissimi: per sopravvivere e provvedere alla mamma, rovistavano nei cassonetti e vendevano frutta. I corpi degli adolescenti - ritenuti fratelli - sono stati restituiti ai genitori, affermano i rapporti. Le identità delle persone cadute dal C-17 sono ufficialmente sconosciute, ma un utente di Twitter ha scritto che erano vicini di casa di sua zia. «Davvero in lacrime in questo momento. I due ragazzini caduti mentre erano aggrappati agli aerei degli Stati Uniti erano i miei vicini di zia. Entrambi i ragazzi di 16 e 17 anni, i corpi sono stati appena portati a casa dai loro genitori», ha scritto l'utente lunedì. «Entrambi i ragazzi vendevano cocomeri nei mercati di Kabul e si nutrivano dei bidoni per sopravvivere e provvedere alla madre. I 2 ragazzi erano gli unici figli della madre. Non ha altra famiglia e non ha idea di come sopravviverà sotto il regime dei talebani». Un altro filmato mostra la prospettiva dall’aereo in partenza: un gruppo di uomini sul passaruota dell'aereo da trasporto militare americano C-17 salutano mentre il mezzo rulla verso la pista. Alcuni di loro sembrano essere giovani. Non si sa cosa ne sia stato dell'uomo che ha filmato il video o di coloro che vi sono apparsi, ma le riprese di un jet simile rivelano come uno dei disperati sia stato schiacciato a morte dal carrello di atterraggio. L'aeronautica degli Stati Uniti (USAF) ha successivamente confermato che, nel vano ruota di un aereo C-17 che ha lasciato Kabul lunedì, sono stati trovati resti umani e ha annunciato un'indagine sull'incidente. L'aereo stava decollando dall'aeroporto internazionale di Hamid Karzai dopo aver consegnato attrezzature per aiutare l'evacuazione degli americani e del personale alleato da Kabul. «L'aereo era circondato da centinaia di civili afgani che avevano violato il perimetro dell'aeroporto», ha affermato l'USAF in una dichiarazione rilasciata martedì sera. «Di fronte a una situazione di sicurezza in rapido deterioramento intorno all'aereo, l'equipaggio del C-17 ha deciso di lasciare l'aeroporto il più rapidamente possibile. Resti umani sono stati scoperti nel pozzo della ruota del C-17 dopo l'atterraggio alla base aerea di Al Udeid, in Qatar». «L'aereo è attualmente sequestrato per dare il tempo di raccogliere i resti e ispezionarlo prima che venga restituito allo stato di volo».  Nel caos a terra, sono state uccise almeno altre cinque persone, tra cui due colpite a morte dalle truppe statunitensi e tre investite da jet in rullaggio.  

Dagotraduzione dal Daily Mail il 19 agosto 2021. Era solo un adolescente il ragazzo afghano rimasto intrappolato nel carrello di atterraggio del volo americano partito da Kabul dopo la presa dei talebani. Zaki Anwari, 19 anni, era un calciatore della nazionale giovanile aghana. Cresciuto sotto il regime di Karzai e Ghani, aveva frequentato una prestigiosa scuola internazionale a Kabul insieme ai figli dei diplomatici. Non aveva mai conosciuto il regime dei talebani, il cui emirato è finito nel 2001, e per questo tentava la fuga. I suoi resti sono stati scoperti nel vano ruota del jet C-17 una volta che è atterrato in Qatar. Oltre al ragazzo altre due persone sono state viste precipitare dall’aereo ormai in quota: a quanto riportato su Twitter da un vicino di casa, si tratterebbe anche in questo caso di due ragazzini, di 16 e 17 anni. I tre, insieme ad altri giovani, si erano issati sui fianchi dell’aereo mentre stava decollando, ma una volta decollato sono caduti nel vuoto da centinaia di metri. L’aeronautica statunitense ha fatto poi sapere che i piloti hanno deciso di decollare perché il jet era circondato e la sicurezza era in pericolo. La morte di Anwari è stata confermata dalla direzione generale dell'educazione fisica e dello sport dell'Afghanistan. Il promettente calciatore si era precipitato all'aeroporto poche ore dopo che Kabul era caduta in mano ai talebani, unendosi a migliaia di altri ragazzi nel riversarsi sulla pista e poi inseguire il jet dell'USAF nonostante risuonassero colpi di avvertimento. L’adolescente aveva frequentato la prestigiosa Esteqlal High School francofona, a Kabul, ed era stato convocato nella nazionale giovanile a 16 anni. In un commovente ultimo post su Facebook, il Anwari aveva scritto: «Sei il pittore della tua vita. Non dare il pennello a nessun altro!».  

Afghanistan, ragazzino morto incastrato nel carrello dell'aereo. Sconvolgente: chi era, perché fuggiva dai talebani. Libero Quotidiano il 19 agosto 2021. L'immagine degli uomini aggrappati all'aereo Usa in Afghanistan e poi precipitati nel vuoto dopo il decollo rimarrà impressa a lungo nelle nostre menti. Si tratta di una vicenda che ha sconvolto l'opinione pubblica mondiale: persone nella disperazione più totale, che al regime talebano - ormai presente in tutto il Paese - hanno preferito un viaggio impossibile. Ma chi erano quelle persone e cosa le ha spinte a un gesto così estremo? Stando a quanto riportato su Twitter da un vicino di casa, scrive il DailyMail, si tratterebbe di due ragazzini di 16 e 17 anni. I due adolescenti si erano issati sui fianchi dell’aereo mentre stava decollando. Dopo il decollo, però, non ce l'hanno fatta e sono caduti nel vuoto da centinaia di metri. L’aeronautica statunitense, dal canto suo, ha voluto precisare che i piloti hanno deciso di decollare, nonostante il grosso rischio per chi si era arrampicato ai lati, perché il jet era circondato e la sicurezza era in pericolo. Era un adolescente anche il giovane afghano rimasto intrappolato nel carrello di atterraggio del volo americano. Non aveva mai conosciuto il regime dei talebani, il cui emirato è finito nel 2001, e per questo tentava la fuga. I suoi resti sono stati scoperti nel vano ruota del jet C-17 una volta che è atterrato in Qatar. Si chiamava Zaki Anwari ed era un promettente calciatore. Si era catapultato all'aeroporto poche ore dopo che Kabul era caduta in mano ai talebani, unendosi a migliaia di altri ragazzi. Aveva frequentato la prestigiosa Esteqlal High School francofona, a Kabul, ed era stato convocato nella nazionale giovanile a 16 anni. In un commovente ultimo post su Facebook, Anwari aveva scritto: "Sei il pittore della tua vita. Non dare il pennello a nessun altro!".

Il 19enne non aveva mai visto i talebani al potere. Zaki Anwari, il giovane calciatore afghano si aggrappa all’aereo e cade nel vuoto. Giovanni Pisano su Il Riformista il 19 Agosto 2021. Venti anni fa, quando gli Stati Uniti e i Paesi occidentali iniziarono la guerra in Afghanistan contro i talebani, Zaki Anwari non era ancora nato. Nascerà nei mesi successivi senza la presenza degli studenti coranici che nei giorni scorsi hanno riconquistato l’intera nazione seminando terrore e caos tra i cittadini afghani. C’è chi è scappato in auto o piedi, raggiungendo il confine e attraversandolo, e chi ha preso d’assalto l’aeroporto di Kabul provando ad imbarcarsi sui voli militari in partenza per l’Europa o per l’America. Tra questi, lunedì 16 agosto, c’era anche Zaki, giovane promessa del calcio giovanile dell’Afghanistan. Aveva 19 anni. Ha provato a mettersi in salvo scappando dal suo Paese. Si è aggrappato a un aereo militare statunitense ma poco dopo è precipitato nel vuoto. La sua morte è stata confermata dalla direzione generale dell’educazione fisica e dello sport dell’Afghanistan. Zaki Anwari, che nelle immagini diffuse sui social viene fotografato con la maglia numero 10 della nazionale giovanile afghana, era uno delle migliaia di afghani che lunedì si erano riversati all’aeroporto internazionale "Hamid Karzai" della capitale. Ha provato ad aggrapparsi al carrello del Boeing C-17 della Usaf. “Anwari è caduto ed è morto” ha confermato la direzione sportiva locale.  “Con grande rammarico e tristezza, abbiamo ottenuto informazioni che Zaki Anwari, uno dei calciatori giovanili della squadra nazionale, ha perso la vita in un orribile incidente”, si legge nel comunicato. “Era in cerca di un futuro migliore in America. Possa la sua anima riposare in pace e la sua memoria essere ricordata” prosegue la nota. Il video del tentativo disperato degli afghani di aggrapparsi all’aereo è emerso poco dopo aver mostrato un C-17 che decolla da Kabul e dal quale si vedono cadere nel vuoto almeno due i corpi. 

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Le "guerre sbagliate". L’orrore nascosto degli altri Afghanistan: il massacro sterminato non raccontato dai giornalisti occidentali. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 25 Agosto 2021. C’è un solo motivo per cui le immagini dei precipitati dagli aerei in fuga dall’Afghanistan sono inedite: e cioè perché nelle altre parti del mondo, dove pure c’è disperazione e impera il terrore, non ci sono operazioni di salvataggio né telecamere disposte a riprenderle. C’è un solo motivo per cui appare strepitoso il gesto delle madri che affidano i loro bambini ai militari: e cioè perché altrove, dove pure l’infanzia è destinata alla sopraffazione, alla fame, alla morte, non c’è nemmeno quel filo spinato a delimitare una zona franca di possibile salvezza. Una buona quota degli ottanta milioni di profughi nel mondo viene da Paesi in cui uomini, donne e bambini sono liberamente imprigionati, torturati, uccisi, senza che quel massacro abbia un confine preciso. Letteralmente, un massacro sconfinato: senza giornalisti che ne raccontino la tragedia, senza l’interferenza delle “guerre sbagliate” dell’Occidente, senza che siano chiamate in causa le responsabilità internazionali ora evocate giusto perché si tratta di rimpallarsele. Ci si pensi: basta che abbiano una destinazione australe o verso Est, ed aerei uguali a quelli da cui precipitavano quegli afghani aggrappati sorvolano ogni giorno la scena infinita delle impiccagioni, delle lapidazioni, dei campi di concentramento, dell’infanzia infibulata, dei bambini addestrati all’uso del fucile nell’attesa che il braccio sia abbastanza forte per adoperare il machete nelle decapitazioni. Il dramma afghano ci rinfaccia in modo esemplare la verità di una situazione più vasta, della quale non dovremmo più far finita di non sapere nulla quando un barcone di disperati si accosta all’Italia. Iuri Maria Prado

LORENZO CREMONESI per il Corriere della Sera il 25 agosto 2021. «Ci ha colpito la loro fame. Tutta questa gente che carichiamo sui nostri aerei arriva davvero affamata. Ovvio che il volo dal Kuwait a Roma è soltanto l'ultimo tratto di un lunghissimo viaggio e noi cerchiamo di aiutarli per quanto possibile». A parlare sono Marco B. di Genova e Daniele B. di Roma, i due piloti 34enni dell'Aeronautica militare che conducono il grosso Boeing KC-767A nel contesto dell'operazione «Aquila Omnia». Li intervistiamo in piena fase operativa, sia in volo, che appena atterrati nella gigantesca base in Kuwait. Qui sta l'hub che funziona da supporto logistico per l'evacuazione degli afghani. Entrambi sono in servizio da una quindicina d'anni e larga parte della loro attività è stata nell'ambito di Isaf e comunque con i contingenti italiani che sino al giugno scorso operavano da Herat. «Ci sono tanti bambini. La nostra capacità massima è di un centinaio di persone. Ma ieri erano 119 dal momento che le mamme si portavano in braccio i figli piccoli, alcuni anche appena nati. Una donna al nono mese di gravidanza è stata assistita dal nostro personale medico a bordo. Oggi si trova in un ospedale di Roma per il parto», raccontano i due piloti. Il loro è uno sforzo continuo. Il ponte aereo viene intensificato, specie in vista della fine delle operazioni entro il 31 agosto. Gli ufficiali italiani hanno volato due volte in 24 ore e presto dovranno ripartire. «Dai volti di questa gente percepiamo il loro dramma. Ognuno è una storia, una fuga, lascia parenti e amici. Sono felici di scappare. Ma anche preoccupati per ciò che resta alle loro spalle. Con loro non possiamo parlare. Ma a bordo c'è un team di sostegno», spiegano. E aggiungono: «Atterrati in Kuwait vengono rifocillati. In genere con cibi secchi per evitare che stiano male in volo. Per i bambini abbiamo latte in polvere. Abbiamo distribuito anche biscotti e cracker. Il tempo del viaggio è lungo. Oltre sei ore con il C130: da Kabul a Islamabad, in Pakistan, per fare carburante e poi in Kuwait. Da qui una tappa sola sino a Roma. Il tutto può durare tra le 22 e le 26 ore». I due piloti ricordano che «si tratta di gente che è in viaggio per strada da settimane. Hanno trascorso giornate intere sotto il sole di fronte all'aeroporto di Kabul». Concordano: «Nei loro occhi c'è la paura, il terrore. Ai bambini diamo anche giocattoli e album da disegnare con i colori. Cerchiamo di aiutarli a superare il trauma». Tra poco ripartiranno. L'aereo viene ripulito e sanificato dopo ogni viaggio. Il tempo di un riposo nei prefabbricati della base e via. Fuori il sole picchia. A mezzogiorno si è vicini ai 45 gradi con il 25 per cento d'umidità: un clima difficile. Ma l'inferno di Kabul è finalmente dietro le spalle.  

Afghanistan, il C-17A imbarca 800 profughi a bordo: la missione eroica dell'equipaggio Usa. Anna Lombardi su La Repubblica il 17 agosto 2021. Se confermato, si tratterebbe di un salvataggio straordinario, letteralmente da record per numero di persone ospitate nel veivolo: l'equipaggio avrebbe preso autonomamente la decisione di portare via più gente possibile nel pieno delle tensioni che ieri hanno mandato in tilt l'aeroporto di Kabul. "Porca Vacca, ci sono davvero 800 persone sul tuo jet...? Ok...". Al comando della base aerea di Al Udeid, in Qatar, hanno reagito così alla notizia che un loro velivolo da trasporto tattico, un C-17A Globemaster, si apprestava ad atterrare con un numero enorme di profughi afghani nella "pancia". Almeno stando all'audio che in queste ore circola via Twitter e che accompagna una foto dove si vede un'enorme numero di persone - uomini, donne e bambini - pressate (ma sorridenti) all'interno del grande aereo lungo 53 metri, solitamente utilizzato per trasportare militari e paracadutisti.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 17 agosto 2021. Sono emerse le prime foto di jet cargo statunitensi stipati con centinaia di rifugiati afghani terrorizzati a bordo dopo che si sono imbarcati nell'aereo prima che il personale militare potesse chiudere le rampe su di loro domenica durante la fuga dai talebani. Gli Stati Uniti hanno finora pilotato almeno due jet cargo C-17 da Kabul e sono previsti altri voli per tutta la notte di lunedì e verso la fine di questa settimana, nonostante il caos a terra di lunedì che ha causato la morte di otto persone e l'interruzione dei voli. Domenica, uno dei primi voli in partenza è stato l'US Air Force C-17 numerato RCH 871, che ha volato da Kabul al Qatar. Mentre si preparava a decollare, centinaia di cittadini afgani terrorizzati sono corsi sull'aereo, sono saliti sulla rampa e si sono sistemati a bordo. Una foto ottenuta da Defense One li mostra tutti allineati, seduti sul pavimento dell'aereo che è attrezzato per trasportare comodamente 150 soldati, ma può trasportare 77.500 chili di carico. Inizialmente, l'audio di un controllore del traffico aereo suggeriva che ci fossero 800 persone a bordo, ma Defense One ha detto che il numero era di 640. I rifugiati, tra cui molte donne e bambini piccoli, sono corsi sulla rampa semiaperta dell'aereo prima del decollo e «l'equipaggio ha preso la decisione di andarsene», portandoli con sé, ha detto un anonimo funzionario della difesa. «Circa 640 civili afgani sono sbarcati dall'aereo quando è arrivato a destinazione», ha detto il funzionario.  Nonostante otto persone siano morte all'aeroporto lunedì e tra le critiche la caduta della città ricorda la caduta di Saigon, il presidente Biden ha difeso la sua decisione di ritirare improvvisamente le truppe statunitensi, dicendo che non sacrificherebbe più vite americane in una guerra civile afgana. È stato ampiamente condannato per come ha ritirato il sostegno degli Stati Uniti dopo 20 anni di aiuto delle forze afghane a stabilizzare la regione. Lunedì Biden ha interrotto brevemente la sua vacanza da Camp David per tenere un breve discorso alla nazione sulla catastrofe in corso a Kabul. «Abbiamo dato loro tutte le possibilità, ma non siamo riusciti a fornire loro la volontà di combattere», ha detto. È stato universalmente condannato per la sua risposta, con alcuni dei media americani che hanno definito la sua decisione di «lavarsi le mani» della situazione «una delle decisioni politiche più vergognose» della storia moderna. Il maggiore generale Hank Taylor ha dichiarato in una conferenza stampa lunedì pomeriggio che le forze armate statunitensi stanno «monitorando attivamente» la situazione. «Abbiamo circa 2.500 soldati che si sono trasferiti a Kabul. Entro la fine della giornata, prevediamo da 3.000 a 3.500 soldati a terra», ha detto. Un C-17 è volato fuori da Kabul lunedì che trasportava marines statunitensi, ha detto. Un altro è attualmente in volo ed è programmato per atterrare a breve. Uno, l'aereo numero RCH 885, è partito da Kabul lunedì con cittadini afgani disperati aggrappati alla fusoliera. Tre sono caduti dall’alto e morti. Il portavoce del Pentagono John Kirby ha affermato che la situazione all'aeroporto non è stata un «fallimento» nonostante migliaia di afgani abbiano inondato l'aeroporto e le truppe statunitensi abbiano sparato a due cittadini afgani armati. «Quando guardi le immagini di Kabul... sarebbe stato difficile per chiunque prevederlo», ha detto. Almeno otto persone sono state uccise all'aeroporto di Kabul lunedì: due uccise a colpi di arma da fuoco dalle truppe statunitensi, tre travolte da jet in rullaggio e tre clandestini caduti dai motori di un aereo dell'aeronautica statunitense che fuggiva.

La vicenda è stata resa nota dall'Air Mobility Command su Twitter. Donna afghana in fuga partorisce su aereo Usa: la storia a lieto fine tra gli orrori di Kabul. Roberta Davi su Il Riformista il 22 Agosto 2021. Tra le immagini strazianti di madri che hanno scelto di affidare i propri figli a sconosciuti soldati stranieri, piuttosto che tenerli con sé in una terra ormai conquistata dai talebani, e di tentativi disperati di fuga dall’Afghanistan, ecco irrompere una toccante storia di speranza. Durante le operazioni di evacuazione da Kabul, una donna afghana ha partorito la sua bambina su un aereo americano poco dopo l’atterraggio presso la base Usa di Ramstein, in Germania. La vicenda è stata raccontata dall’Air Mobility Command statunitense su Twitter.

Il travaglio a 8500 metri d’altezza. La donna è entrata in travaglio a bordo di un aereo da trasporto C-17 durante la seconda tappa del suo viaggio di fuga dai talebani. Il volo era partito da una base in Medio Oriente diretto in Germania: le doglie sono iniziate mentre si trovavano a più di 8.500 metri di altezza. “Il comandante ha deciso di scendere di quota per aumentare la pressione dell’aria nell’aereo, il che ha contribuito a stabilizzare e salvare la vita della madre”, si legge nel tweet dell’autorità statunitense.La piccola è venuta al mondo circondata da pareti di metallo e dalle tute mimetiche dei militari sabato 21 agosto, con il personale dell’86/mo gruppo medico dell’Air Force statunitense che ha fornito assistenza per il parto. Sia la bambina che la madre stanno bene e si trovano in una struttura medica, ormai al sicuro.

Alla ricerca di un futuro migliore. Sono oltre duemila gli sfollati che da venerdì sera sono giunti alla base americana nel Paese tedesco, trasformata in un punto di transito per tutti coloro che sono stati evacuati da Kabul. Ma migliaia di persone sono ancora bloccati in Afghanistan, in attesa della loro opportunità per un futuro migliore lontano dall’Emirato islamico. All’aeroporto della capitale continua a regnare il caos, mentre si aggiorna il bilancio delle vittime all’esterno e nei dintorni dello scalo afghano: sarebbero almeno 20 dal 15 agosto secondo gli ultimi aggiornamenti. Roberta Davi

L'sos per 81 studentesse: dovevano venire in Italia. Nuova stretta sulle donne. Gaia Cesare il 30 Agosto 2021 su Il Giornale. Fermate a Kabul, sono iscritte alla Sapienza. Il regime: basta classi miste e ragazze in tv e radio. I talebani hanno vietato le voci femminili in radio e in tv a Kandahar e hanno annunciato la fine delle classi miste all'università, segno della loro intenzione di continuare ad accanirsi sulle donne e a praticare la segregazione. È anche per questo che assume un significato ancora più simbolico la missione che il nostro Paese si prefigge in Afghanistan. Obiettivo: portare in Italia 118 studenti afghani, fra cui ragazze, iscritte all'Università degli studi di Roma «La Sapienza» e che erano sulla lista del Ministero della Difesa per essere trasferite in Italia ma sono rimaste bloccate a Kabul. Hanno fra i 19 e i 22 anni, provengono quasi tutte dalla capitale e da Herat, la città nel nord-ovest dell'Afghanistan della quale sono originarie anche le calciatrici del Bastan Fc, una delle squadre simbolo di emancipazione femminile in Afghanistan, arrivata al completo venerdì a Fiumicino. Anche loro inseguivano un sogno: studiare in una delle nostre più prestigiose università, dove presto avrebbero iniziato i corsi. «Avevano passato la pre-selezione online - ha spiegato il prorettore dell'ateneo, Bruno Botta - Poi sono andate al consolato per avere il visto e venire in Italia. Ma l'evolversi degli eventi, con gli attentati, ha reso difficile il tutto». Sono rimaste intrappolate nell'inferno di Kabul, arrivate nella capitale afghana qualche ora prima dell'attacco kamikaze in aeroporto, senza poter avere accesso allo scalo. Ottantuno in tutto le studentesse e con loro circa 9 bambini, che insieme agli studenti maschi portano il totale a 118. Le ragazze, in particolare, rischiano di diventare facile bersaglio degli integralisti islamici, che alle donne hanno già intimato di stare a casa e smettere di lavorare. Gli integralisti hanno giustificato la decisione con «ragioni di sicurezza», ma è evidente che il nuovo Emirato islamico non sarà clemente con le donne. I loro destini restano appesi agli annunci definitivi del nuovo governo talebano, in quel recinto ristrettissimo che i fondamentalisti hanno fatto sapere sarà certamente la sharia. «Se dovessero tornare indietro rischiano rappresaglie», ha avvertito il prorettore Botta, che ha lanciato l'allarme al Gr1. La notizia ha subito suscitato grande clamore e il prorettore ha fatto sapere di essere stato contattato dalla Farnesina «per stabilire una strategia per portare questi ragazzi e ragazze in Italia». «L'Unità di Crisi - ha spiegato - ci ha rassicurato dicendo che le ragazze e i ragazzi non verranno abbandonati esi cercherà di trovare una via per portarli qui». In tutto potrebbero essere duecento. «Stiamo lavorando anche per condurre in Italia gli altri 100 che non hanno passato la pre-selezione - insistono dalla Sapienza -. Vogliamo dare anche a loro la possibilità di studiare a Roma. I ministeri stanno tentando ogni via diplomatica per riuscire a condurre in Italia tutto questo gruppo di circa 200 studenti». Solo ieri il ministro dell'Istruzione pro-tempore dei talebani, Abdul Baqi Haqqani, ha annunciato che ragazze e ragazzi all'università d'ora in poi studieranno in classi separate, in conformità con la legge islamica. Ed è sempre di ieri la notizia che i talebani hanno vietato musica e voci femminili in radio e televisione a Kandahar, dopo aver vietato all'accesso al lavoro a diverse giornaliste. Come se non bastasse, dopo l'omicidio del comico afghano Khasha Zwan a luglio, nelle scorse ore i talebani hanno anche ucciso un noto cantante folk, Fawad Andarabi, nella Valle di Andarabi, da cui l'artista prendeva il nome. «Portava soltanto gioia alla sua valle e alla sua gente», ha commentato su Twitter l'ex ministro dell'Interno afghano Masoud Andarabi. Gaia Cesare

"Ora rischiano rappresaglie". Bloccate a Kabul 81 studentesse della Sapienza: “Non sono riuscite ad entrare in aeroporto”. Riccardo Annibali su Il Riformista il 29 Agosto 2021. Erano a un passo dal coronare il sogno della loro vita, studiare in una grande università europea. Poi la presa del potere da parte dei talebani a Kabul e il doppio attentato all’aeroporto, hanno spazzato via le speranze di un’istruzione e di una vita migliore fuori dall’Afganistan. Erano sulla lista degli afghani da recuperare ma dopo l’attentato dell’Isis non sono riuscite a entrare nell’aeroporto e sono rimaste bloccate a Kabul, in Afghanistan. L’allarme del prorettore della Sapienza, dopo l’attentato terroristico che ha causato oltre 170 morti all’aeroporto di Kabul: “Sono dovute tornare indietro 90 persone dirette in Italia – ha affermato Bruno Botta in un’intervista al Gr Rai – tra cui 81 studentesse afghane (Con alcune di loro sono presenti alcuni loro bambini, che portano il computo totale a 90 persone) che a breve avrebbero dovuto iniziare i corsi alla Sapienza. Con loro anche alcuni bambini. “Dopo l’esplosione – ha aggiunto Botta – le cose si sono complicate, siamo in contatto con l’unità di crisi della Farnesina che sta facendo tutto il possibile per aiutarci e ha detto che non lascerà soli gli studenti della Sapienza. La preoccupazione maggiore è per le studentesse andate da Herat fino a Kabul per imbarcarsi e che, se dovessero tornare indietro, rischiano rappresaglie”. A confermarlo anche l’ex rettore dell’Università Eugenio Gaudio, aggiungendo che “si sta lavorando a 360 gradi per sostenere gli studenti afghani iscritti alla Sapienza attraverso fondi con la Fondazione Roma-Sapienza. C’è impegno – ha detto all’Agi l’ex rettore che è anche presidente della Fondazione Roma Sapienza – per aiutare questi studenti in difficoltà”. Riccardo Annibali

Afghanistan, il sogno spezzato degli studenti che dovevano venire in Italia. Valentina Lupia La Repubblica il 30 agosto 2021. Erano a un passo dal sogno, a un passo dall'aeroporto di Kabul da dove avrebbero dovuto prendere un volo che le avrebbe portate lontano dall'incubo talebano, ad accarezzare la speranza, a Roma. E invece, il 26 agosto, 200 tra studentesse e studenti, docenti e le loro famiglie i cui nomi erano segnati sulle liste del notro ministero della Difesa, hanno dovuto fare retromarcia dopo l'attacco kamikaze dell'Isis-K che ha fatto strage nello scalo afghano. "Faremo qualunque sforzo per portare qui queste persone", si impegna Antonella Polimeni, magnifica rettrice dell'università Sapienza di Roma. Doveva essere l'ateneo più grande d'Europa, infatti, ad accogliere gran parte delle duecento persone attese tra le quali 37 studenti e 81 studentesse (una è incinta e altre hanno figli al seguito) che a breve avrebbero dovuto iniziare le lezioni di Global Humanities, corso di laurea che mira a fornire conoscenze e competenze nei campi degli studi umanistici e delle scienze sociali in una prospettiva globale e transculturale. La speranza, però, è che questi 118 giovani - a cui si aggiungono anche alcuni studenti che non avevano passato la selezione e di cui si stanno rivalutando i curricula - possano arrivare qui in Italia. E, magari, sedersi presto tra i banchi dell'ateneo. "Certo, la nuova esplosione di ieri vicino all'aeroporto ci preoccupa", prosegue Polimeni, che però si dice "ottimista". La situazione è delicata, in particolare per le 81 studentesse: "Per il momento sono al sicuro - spiega la rettrice - Una parte di loro proveniva da Herat, ma fortunatamente ora si nasconde a Kabul: tornare indietro sarebbe troppo pericoloso. Sono divise in gruppi da 12/20 con un coordinatore in contatto sia con noi che col governo. Ovviamente quando dico “al sicuro”, intendo che non si trovano in strada, ma in appartamenti provvisori: sono costrette a spostarsi ogni tre giorni, per ragioni di sicurezza". La prima richiesta ai ministeri dell'Interno e della Difesa è partita dall'università il 17 agosto. Supporto è stato chiesto anche al ministero degli Esteri. "I nostri uffici amministrativi dell'area internazionalizzazione - precisa la magnifica rettrice - hanno inviato la documentazione necessaria per far inserire nelle liste per il trasferimento queste persone, i nostri studenti afghani hanno aiutato con le traduzioni, un grande lavoro di squadra. Cosa è successo nel frattempo, fino al 26 agosto? Abbiamo dovuto aspettare che studentesse e studenti di Herat arrivassero a Kabul", a 800 km in un momento in cui spostarsi è non è semplice. "Il 26 agosto, divisi in gruppi, i giovani erano pronti a partire, poi c'è stata l'esplosione", racconta il prorettore Bruno Botta, a cui Polimeni ha dato mandato di mettere su una squadra di esperti che comprende anche il professore Carlo Cereti e la presidente del corso di laurea in Global Humanities, Mara Matta: "La paura c'è ma dobbiamo essere ottimisti - spiega - Il nostro dovere morale ed etico è far sì che la speranza non muoia. La nostra università è aperta, libera, inclusiva". Completamente diversa dall'aria che tira in Afghanistan: studenti e studentesse "continueranno a studiare ma in classi separate, come vuole la sharia", ha annunciato Abdul Baqi Haqqani, ministro dell'Istruzione talebano, riporta Tolo news. Secondo fonti della Farnesina, "l'attenzione nei confronti della vicenda è massima". Oggi è in programma una riunione: "Puntiamo molto sulla missione franco-inglese - dice la rettrice Polimeni - nell'auspicio di qualche corridoio o volo". Ma il tempo stringe e si spera in una svolta.

"Faremo di tutto, spero di incontrarti presto". Studente afghano scrive lettera al rettore di Padova: “Temo di arrivare in ritardo per le lezioni”. Riccardo Annibali su Il Riformista il 29 Agosto 2021. Una commovente email scritta con garbo e gentilezza da un ragazzo afghano al rettore dell’Università di Padova per avvisare che, forse, non riuscirà a raggiungere i propri compagni di corso per l’inizio delle lezioni. Il ragazzo, la cui identità è rimasta nascosta per non metterne a rischio l’incolumità, è solo uno dei 17 studenti afghani dell’Ateneo, che si trovano in questo momento bloccati in patria, dopo che i Talebani hanno preso il potere. Il breve testo scritto in inglese che si compone di una decina di righe è indirizzato alla casella di posta del professor Rosario Rizzuto, attualmente rettore dell’Università che quest’anno compie 800 anni, ma il cui mandato da Magnifico scadrà a ottobre quando gli subentrerà Daniela Mapelli, prima donna a ricoprire questo ruolo, in cui il ragazzo avvisa che “a causa dell’attuale orribile condizione probabilmente non riuscirà a presentarsi in orario per l’inizio delle lezioni”. Uno scrupolo che, considerati il momento storico e le condizioni in cui il giovane si trova, è stato accolto con commozione all’interno degli uffici di palazzo del Bo. Questo il testo integrale tradotto dell’email: “Caro signore, spero che lei stia bene. Sono stato ammesso all’anno accademico 2021-2022 e beneficio di una borsa di studio del governo italiano. Il programma di studi, come mi è stato detto, partirà ad ottobre 2021. Però l’ambasciata italiana, a causa dell’attuale situazione che si è venuta a creare in Afghanistan, è chiusa e il personale ha già lasciato il Paese. Mi è impossibile presentare la domanda di visto nei tempi richiesti e temo che le difficoltà in corso comporteranno un notevole ritardo sull’arrivo a Padova. Ho paura che questa orribile condizione non mi faccia arrivare in tempo per l’inizio delle lezioni. Dunque, vorrei chiederle gentilmente di tenere in considerazione il mio caso”. Il rettore si sta muovendo in questi giorni per mettersi in contatto con tutti gli studenti afghani che sarebbero dovuti approdare quest’anno nell’Università di Padova, anche se quattro risulterebbero ancora dispersi. Così Rizzuto replica: “Siamo perfettamente consapevoli e molto preoccupati di quanto accade in Afghanistan. Ti assicuro che non vediamo l’ora di averti come studente. So che potresti sforare i termini formali per l’immatricolazione a Padova, ma faremo di tutto per aiutarti ad ottenere il visto e a raggiungere in sicurezza il nostro Paese. Chiederemo al nostro governo di inserirti nell’elenco dei cittadini afgani che potranno imbarcarsi sui voli per Roma e ottenere il visto attraverso una procedura semplificata. E spero di avere presto l’occasione di incontrarti personalmente a Padova”. Riccardo Annibali

Donne e creativi, la classe media in fuga da Kabul. Daniele Castellani Perelli La Repubblica il 30 agosto 2021. Le persone scappate in aereo sono giovani, filo-occidentali, hanno famiglia: molte le donne. Un identikit diverso da quello di chi li ha preceduti che dovrebbe rendere la loro integrazione più semplice. Sono più istruiti e più filo-occidentali. Hanno un'età media più alta. Ci sono tra loro tanti professionisti e creativi e, soprattutto, ci sono molte più donne. L'identikit delle decine di migliaia di profughi afghani che grazie alle evacuazioni hanno raggiunto l'Occidente nelle ultime settimane è decisamente diverso da quello di chi li ha preceduti. Sono più istruiti e più filo-occidentali. Hanno un'età media più alta. Ci sono tra loro tanti professionisti e creativi e, soprattutto, ci sono molte più donne. L'identikit delle decine di migliaia di profughi afghani che grazie alle evacuazioni hanno raggiunto l'Occidente nelle ultime settimane è decisamente diverso da quello di chi li ha preceduti. Stavolta non sono migranti economici, ma perlopiù cittadini che hanno lavorato fianco a fianco con gli eserciti o le ong occidentali, temono rappresaglie nei propri confronti e comunque non ci pensano proprio a tornare nell'Afghanistan di 20 anni fa. Non ci sono ancora statistiche ufficiali, ma questo è il quadro dipinto da Didier Leschi, direttore dell'Ofii, l'Office français de l'immigration et de l'intégration, l'ente del Ministero degli Interni che in Francia organizza l'accoglienza dei rifugiati e dei richiedenti asilo. E che è rimasto colpito dal dato sulle donne. Parlando delle persone evacuate dalla Francia, Leschi ha spiegato in diverse interviste ai media che sono per un terzo bambini, e tra gli adulti c'è stavolta un equilibrio tra uomini e donne: "Donne istruite, con posti di responsabilità e la cui situazione sociale e lo stile di vita sono in diretta contraddizione con l'ideologia talebana". Un dato nettamente diverso dal passato, se si considera che prima, in Francia, per il 90 per cento i richiedenti asilo afghani erano uomini (un numero che fino a pochi giorni fa veniva usato come spauracchio dalla destra di Marine Le Pen). Il merito è anche delle campagne delle ong e delle associazioni occidentali, incluse quelle che in questi giorni stanno ancora scendendo in piazza da Washington, con il "Rally for Afghan women" di ieri, a Parigi, con il corteo femminista di sabato, mentre il lobbying di ex stelle dello sport australiano ha per esempio portato in salvo a Canberra 50 atlete afghane. Non è solo il genere a rappresentare però una novità. "Sono medici, artisti, gente del mondo della cultura. Persone che per professione, azioni e prese di posizione erano nel mirino dei talebani", ha spiegato Leschi, che ha seguito in prima linea gli arrivi e descrive i profughi come molto più borghesi rispetto agli afghani, spesso analfabeti, che l'Europa ha perlopiù accolto finora. Hanno un'età media più alta rispetto ai 27 anni dei predecessori, sono persone integrate "che si erano affermate professionalmente e non pensavano di partire". La loro connotazione sociale potrebbe aiutarli ora a integrarsi meglio nelle società occidentali. Tra le quali, secondo Leschi, proprio come i siriani potrebbero un domani preferire la Germania. È una massiccia "fuga dei cervelli" quella a cui stiamo assistendo. E preoccupa ormai i talebani, i quali si rendono conto di aver bisogno di professionisti che sappiano far funzionare il Paese, ingegneri e medici su tutti. Martedì il portavoce Zabiullah Mujahid ha esplicitamente invitato i suoi connazionali a smettere di fuggire: "L'Afghanistan ha bisogno delle loro conoscenze, che non possono finire in altri Paesi".

Voci dall'inferno. Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto il 24 Agosto 2021 su Il Giornale. I racconti di chi prova a lasciare Kabul: "Ho visto una donna morire schiacciata dalla folla". “Aveva 35 anni ed era la moglie di un interprete che lavorava ad Herat. È rimasta schiacciata nella calca ed i suoi due figli sono dispersi” è il drammatico racconto di Hamid, uno dei collaboratori del contingente italiano nell’Afghanistan occidentale che è riuscito, dopo cinque giorni di odissea, ad entrare nell’aeroporto di Kabul per mettersi in salvo. Via whatsapp invia al Giornale la foto del sacco bianco e freddo con il corpo senza vita della donna afghana, che è morta soffocata per scappare dal nuovo Emirato talebano. Sorelle separate, da una parte e dall’altra del muro di cinta dell’aeroporto, che significa salvezza o destino infausto. Il capitano dei corpi speciali diventato ufficiale in Italia che si nasconde in un pozzo e per arrivare all’ingresso dell’aeroporto, dove lo aspettano gli italiani, deve nascondersi dietro le donne con i burqa per passare il posto di blocco dei talebani. E chi non viene fatto passare dai miliziani di Allah neanche con il figlio malato di leucemia. Tutte storie vere e drammatiche della fuga verso la libertà seguite e vissute in prima persona passo dopo passo. Dopo la caduta di Kabul del 15 agosto e anche prima abbiamo cercato di dare una mano a interpreti, attiviste, collaboratori degli italiani in 20 anni di intervento in Afghanistan, che chiedono disperatamente aiuto. In una dozzina di casi ci siamo riusciti grazie alla nostra Task force d’evacuazione all’aeroporto di Kabul circondato da una massa umana di 20mila persone e al generale Luciano Portolano, che coordina da Roma le operazioni. Alla guida del Comando operativo di vertice interforze dorme poche ore per notte e spesso, attraverso gli interpreti afghani portati in Italia in sicurezza con la prima ondata dell’operazione Aquila, chiama al cellulare chi non ce la fa più, chi ha perso le speranze o è stato picchiato dai talebani per spronarli a non mollare. Non sempre, purtroppo, va tutto per il verso giusto. Una delle storie più dilanianti è quella delle due sorelle, che assieme hanno tentato disperatamente di arrivare al “gate”, uno degli ingressi dell’aeroporto presidiato dai soldati americani che li aprono e chiudono senza guardare in faccia nessuno. La più anziana, in dolce attesa, era un po’ indietro nel serpentone umano di disgraziata umanità in fuga. La più giovane, di appena 12 anni pochi passi più avanti, era riuscita a passare, ma la sorella è rimasta tagliata fuori per una manciata di metri. Alla fine anche la piccola ha deciso di voltare le spalle alla salvezza ed è tornata indietro per scappare assieme nella valle del Panjshir, l’ultimo lembo di resistenza al potere talebano. Hamid con la sua famiglia ha cercato per cinque giorni di penetrare la cintura umana attorno all’aeroporto. Il momento più terribile è stato quando la calca ha divorato non si sa quanti afghani, anche donne e bambini, morti schiacciati o soffocati. “Era un inferno, non si riusciva a respirare - racconta il nostro interprete - Il caldo e la ressa ci stavano uccidendo”. Alla fine ce l’ha fatta e in queste ore sta volando verso l’Italia con la famiglia. Molti non sono ancora in salvo. Fino ad oggi sono stati imbarcati 3200 afghani. J. è finito subito nel mirino dei talebani, che sono andati a cercarlo a casa per obbligarlo a giurare fedeltà all’Emirato, ma lui era già fuggito verso l’aeroporto. Da giorni è bloccato nella calca con il cugino. I militari italiani hanno l’ordine tassativo, nonostante ci siano anche i corpi speciali, di non uscire dal perimetro di sicurezza per portare dentro i più vulnerabili. Talvolta, però, si trova il sistema per fare l’impossibile. “Sono riuscito ad ottenere dagli americani un corridoio verso uno dei cancelli d’ingresso, ma non è mai facile” spiega il generale Portolano. Più che evacuazione in sicurezza, che sarebbe stata possibile a giugno quando avevamo ancora le truppe ad Herat, tutti sono consapevoli che si tratta del caos, della fuga disperata per la vita. E avere portato in salvo centinaia di afghani in questa situazione è già un miracolo. Qualcuno si arrende: S. è stato fermato in piena notte dai talebani mentre cercava di raggiungere l’aeroporto. Uno dei sette figli è tormentato dalla leucemia e spera di poterlo curare in Italia. “Non dovete passare. Oggi c’è troppa gente andate via” hanno intimato gli studenti di Allah senza alcuna pietà per il ragazzo malato. Diverse donne sono state bastonate brutalmente come rivela l’onlus milanese Pangea, che ieri è riuscita a far evacuare circa 200 persone. “Sono state picchiate dai talebani. Vedere le foto con i loro lividi è stato straziante - ha denunciato l’associazione - I bambini hanno assistito a scene di violenza inaudita e sono molto spaventati”. Un medico ancora nella calca ieri pomeriggio scriveva messaggi disperati: “Mia figlia è svenuta. Stiamo cercando di passare da oltre 24 ore. Siamo sfiniti”. In serata avrebbe dovuto essere messo in salvo con altri afghani in condizioni critiche. Il capitano Mohammadi Aijad, diventato ufficiale all’accademia di Modena, ha combattuto con i corpi speciali fino all’ultimo. I talebani gli avevano già decapitato il fratello e messo una taglia sulla testa. Per giorni si è nascosto in un pozzo fino a quando non ha avuto il via libera per andare in aeroporto con la famiglia. Una notte di tensione con messaggi vocali del seguente tenore: “Abbiamo dovuto cambiare cancello d’ingresso passando attraverso un posto di blocco dei talebani. Nel minivan mi sono nascosto dietro le donne coperte dal burqa. Se mi avessero visto sarei morto”. Ziad, ex tenente dei carabinieri, che vive da anni in Italia è nipote di Bismillah Khan, il ministro della Difesa del governo sconfitto. Quando Kabul è caduta era circondato con lo zio dai talebani. Poi è riuscito a dileguarsi e andare a prendere la famiglia nascosta in casa di amici. Per giorni si è immerso nel girone dantesco della massa umana attorno all’aeroporto. Alla fine è passato e una mattina sul telefonino manda una foto di lui e le sue tre bambine distrutte e sedute per terra, ma finalmente in salvo. Il messaggio non lascia dubbi: “Siamo dentro. Grazie di cuore”.

Afghanistan, scoperto un giro di mazzette: “Unico modo per scappare”, talebani arricchiti sulla pelle dei disperati. Libero Quotidiano il 24 agosto 2021. "Testimoni ci raccontano che uomini e donne che vogliono scappare dall'Afghanistan devono pagare ai talebani per accedere all'aeroporto una tangente di 1500-2000 di dollari". Così Simona Cataldi del Cisda, coordinamento italiano di sostegno alle donne afghane), parla dell'attuale situazione a Kabul. La Castaldi in questi giorni ha seguito in costante contatto con l'Unità di crisi della Farnesina i trasferimenti di persone dal Paese asiatico riconquistato dai talebani all'Italia. "L'aeroporto in questo momento è il posto più insicuro e caotico dove stare - spiega - tra check point e tangenti. Succede sempre quando ci sono questo tipo di evacuazioni che si debba pagare una mazzetta. Così i talebani consentono dei corridoi umanitari ma solo alle loro condizioni e nell'ambito di una trattativa che nulla ha a che vedere col riconoscimento politico e diplomatico. I soldi sono chiesti alle singole persone, non alle organizzazioni a cui eventualmente appartengono", aggiunge la Castaldi parlando con l'Agi. Intanto arriva una buona notizia per i rifugiati. "Airbnb e Airbnb.org annunciano che Airbnb.org fornirà alloggi temporanei a 20.000 rifugiati afghani in tutto il mondo; l’iniziativa sarà finanziata attraverso i contributi ad Airbnb.org da parte di Airbnb e Brian Chesky, così come dai donatori del Fondo per i rifugiati di Airbnb.org", si legge in una nota di Airbnb. "Airbnb e Airbnb.org sono consapevoli di come questa situazione evolva rapidamente. Airbnb.org collaborerà da vicino con i partner e le agenzie di reinsediamento per andare dove c'è bisogno e adattare questa iniziativa e il nostro supporto in base alle necessità. Inoltre, dato l'enorme bisogno, Airbnb esorta i membri della comunità imprenditoriale globale a unire gli sforzi per fornire supporto immediato ai rifugiati afghani", continua il comunicato.

 Marilisa Palumbo per corriere.it il 25 agosto 2021. Seimilacinquecento dollari a persona. Tanto chiede l’immarcescibile Erik Prince, il signore delle guerre private, spuntato all’aeroporto di Kabul per vendere «posti verso la libertà». Con un sovrapprezzo se il malcapitato ha bisogno di aiuto per arrivare allo scalo. Fondatore di Blackwater, una società che forniva guardie di sicurezza alla Cia e al dipartimento di Stato, molti dei quali impiegati accanto all’esercito ufficiale proprio in Afghanistan e in Iraq (e alcuni condannati per avere ucciso civili sul terreno), Prince è stato protagonista di innumerevoli polemiche e scandali. Tra gli ultimi una losca operazione di reclutamento di ex agenti americani e britannici per costruire attacchi a politici progressisti e sindacati americani e – la storia è uscita sul Time appena un mese fa – il piano a dir poco opaco da 10 miliardi di dollari per tirare su un esercito privato in Ucraina. 

La fuga dall’Afghanistan. Molto vicino a Trump, fratello della sua ministra dell’Istruzione Betsy DeVos, Prince ottenne da Steve Bannon l’incarico di presentare un piano per sostituire i soldati Usa impiegati in Afghanistan con un esercito di mercenari (voleva anche mandare dei contractor a fermare i migranti in Libia, qui lo raccontava al Corriere). Non se ne fece nulla, e ora, nell’ultimo atto di questa guerra eterna, ha trovato il modo di fare cassa anche sulla disperazione. Ma nella giungla dell’aeroporto di Kabul, come racconta il Wall Street Journal, che per primo ha dato notizia della presenza di Prince, i bene intenzionati per fortuna sono molti di più dei cinici. Piccole e grandi organizzazioni stanno provando ad aiutare in tutti i modi possibili con le evacuazioni. La Georgetown University, la Johns Hopkins, il Truman National Security Project, l’ex segretario di Stato Hillary Clinton attraverso al Clinton Foundation. E tanti altri. Un po’ come i privati che offrirono le loro barche per salvare le truppe alleate intrappolate a Dunkerque. 

I voli da Kabul. È una corsa contro il tempo: molti voli charter ripartono con posti vuoti, perché è sempre più difficile avvicinarsi all’aeroporto dopo che i talebani hanno annunciato di non voler più far passare afghani. Senza contare le continue difficoltà burocratiche. «E’ il caos più totale – ha detto al WSJ Warren Binford, professore di legge dell’università del Colorado che sta seguendo vari tentativi di evacuazione – Stiamo assistendo a una massiccia operazione di “ferrovia sotterranea” (la rete attraverso cui gli schiavi del Sud fuggivano verso gli Stati dove potevano vivere liberi, ndr), solo che invece di farla funzionare per decenni, ci serve in piedi per ore, al massimo giorni».

La Schindler's List afghana. Orrore totale, "costretti ad assegnare priorità alla gente in modo crudele". Libero Quotidiano il 24 agosto 2021. Si sta creando una sorta di Schindler's list afghana. "Il nostro obiettivo è quello di portare fuori dall'Afghanistan quante più persone possibile, ma le dimensioni del compito sono tali che non tutti riusciranno a lasciare il Paese. Stiamo assegnando priorità alla gente in modo crudele". Lo ha ammesso il ministro della Difesa britannico, Ben Wallace, in una intervista alla Bbc in cui ha precisato che nelle ultime 24 ore sono state evacuate duemila persone e 10mila da aprile. A poche ore dal vertice del G7, Wallace ha detto che è "improbabile" che si vada oltre la data del 31 agosto per il ritiro delle truppe dall'Afghanistan, anche se Londra sta cercando di convincere gli americani a estendere oltre quella data il ponte aereo da Kabul. "Penso sia improbabile - ha detto a Sky News - Non solo per quello che hanno detto i Talebani, ma anche per le dichiarazioni pubbliche del presidente Biden". "Vale sicuramente la pena provarci tutti - ha aggiunto - e lo faremo". Intanto uno scontro a fuoco tra le forze di sicurezza afghane e un gruppo di assalitori di cui non si conosce l'identità è scoppiato all'ingresso nord dell'aeroporto di Kabul. Lo riporta su Twitter l'esercito tedesco riferendo di un soldato afghano rimasto ucciso e di tre feriti. Nello scontro sono state coinvolte anche truppe della Germania e degli Stati Uniti che sono rimaste illese.

Afghanistan, donne frustate e bastonate all'aeroporto: "Eravamo in lista ma ci hanno picchiato". Libero Quotidiano il 21 agosto 2021. Erano in lista per poter andare all'aeroporto di Kabul e lasciare definitivamente l'inferno talebano. La furia dei nuovi padroni dell'Afghanistan, però, non ha lasciato scampo a Nahal e alle sue sorelle. Sono state frustate e insultate proprio davanti ai soldati americani che, dall'altra parte del muro, "stavano a guardare senza fare niente". Alle quattro di venerdì notte la giovane era partita dalla casa in cui era nascosta. L’obiettivo - come racconta il Corriere della Sera - era raggiungere l’aeroporto per salire sul volo di evacuazione organizzato dall'ambasciata italiana. Nahal, infatti, è una ex dipendente della cooperazione italiana. E con lei c'erano anche le sue tre sorelle. Una di loro incinta all'ottavo mese. Adesso devono uscire subito dal Paese per via della loro precedente collaborazione con gli stranieri. "Siamo partite verso le quattro. Ci avevano detto che dovevamo trovarci vicino all’ingresso principale - ha raccontato Nahal -. Quando è arrivato il messaggio siamo scoppiate a piangere dalla gioia". A lei e alle sue sorelle, però, è stato spiegato che devono raggiungere l'aeroporto da sole. "All’ingresso dell’aeroporto ci siamo subito rese conto di quanto fosse difficile passare. Prima di tutto i talebani insultavano e picchiavano con bastoni e fruste chiunque cercasse di entrare. Ma soprattutto la folla e la ressa contro il secondo cancello urlava e spingeva rendendo impossibile l’ingresso", ha proseguito Nahal. Da quando i talebani sono entrati a Kabul, infatti, l'aeroporto viene preso d'assalto tutti i giorni da chi desidera scappare via. Nahal ha provato a proteggere la pancia della sorella incinta: "Mi sono messa a gridare contro alcune persone, supplicavo di non colpirla. Ma anche tra la folla c’erano persone armate di bastoni, non solo tra i talebani". E infine: "Mi sono sentita umiliata, non solo per le botte ma anche perché ci hanno trattato come animali, come se fossimo qualcosa di diverso da un essere umano".

Usa a talebani, lasciate passare afghani con credenziali.  (ANSA il 25 agosto 2021.) Gli Usa stanno "chiarendo" ai talebani che gli afghani con le credenziali devono poter accedere all'aeroporto di Kabul: lo ha detto il portavoce del Pentagono John Kirby durante un briefing, rispondendo ad una domanda dopo che i talebani hanno annunciato che lasceranno passare solo gli stranieri. (ANSA). 

Berlino, talebani lasceranno partire afghani dopo il 31/8. (ANSA-AFP il 25 agosto 2021) I talebani hanno accettato che gli afghani lascino il Paese ancora dopo il 31 agosto, data del ritiro delle truppe occidentali dal Paese. Lo ha riferito l'ambasciatore tedesco Markus Potzel che sta trattando per l'evacuazione dei civili da Kabul.

Afghanistan: Nbc, i talebani a caccia delle donne giudici (ANSA il 25 agosto 2021.) Diversi giudici americani e di tutto il mondo stanno lavorando alacremente per far uscire dall'Afghanistan 250 magistrati donna e le loro famiglie dopo aver avuto notizia che i talebani le stanno dando la caccia casa per casa. Lo riferisce Nbc News, spiegando che molte delle giudici sono state formate negli Usa e hanno emesso dure sentenze sui combattenti talebani durante la guerra in Afghanistan, ma la maggior parte non ha diritto a visti speciali perché non sono mai state sul libro paga degli americani. "I talebani ci cercano porta a porta", ha rivelato una di loro nella provincia di Herat. Patricia Whalen, giudice in pensione del Vermont, è molto preoccupata di riuscire a portarle all'interno dell'aeroporto di Kabul e tenerle lontane dai talebani. Whalen, che dal 2007 al 2012 è stata anche giudice internazionale per i crimini di guerra della Bosnia-Erzegovina, fa parte di un piccolo gruppo di magistrati che stanno lavorando febbrilmente per evacuare le 250 afghane e le loro famiglie.  "I talebani ci cercano porta a porta", ha rivelato una di loro nella provincia di Herat, che non ha voluto essere nominata perché ha paura dei miliziani: "Siamo in pericolo". La donna, 31enne, ha spiegato che non dorme a casa da quando i talebani hanno preso Herat il 13 agosto, e non è neppure andata a lavorare. "La loro idea - ha aggiunto - è che le donne non possano essere giudici".

Afghani picchiati sulla via dell'aeroporto di Kabul. Da ansa.it il 25 agosto 2021. Sono salite ad almeno 82.300, secondo la Bbc e altri media, le persone evacuate finora dall'Afghanistan da Usa, Regno Unito e altri Paesi dopo la presa di Kabul da parte dei Talebani. Nelle ultime 24 ore i militari americani hanno portato fuori quasi 20.000 sfollati, mentre Londra, seconda per numero di soccorsi, è arrivata in totale a quota 10.000 da inizio operazioni. Le persone considerate più a rischio - stranieri esclusi - sono tuttavia calcolate in circa 300.000 solo contando gli ex collaboratori afghani della missione Nato. E portarli fuori tutti entro la scadenza del ritiro confermata ieri per il 31 agosto sarà impossibile.  Secondo quanto riferiscono fonti della Difesa britannica alla Bbc,  cresce il numero delle persone picchiate dai talebani mentre tentano di raggiungere l'aeroporto di Kabul nella speranza di poter lasciare l'Afghanistan. Secondo le stesse fonti, inoltre, la minaccia terroristica resta alta con "un rischio reale di un attacco" nello scalo. In particolare preoccupano le minacce poste dalla branca afghana dell'Isis. Diversi giudici americani e di tutto il mondo stanno lavorando alacremente per far uscire dall'Afghanistan 250 magistrati donna e le loro famiglie dopo aver avuto notizia che i talebani le stanno dando la caccia casa per casa. Lo riferisce Nbc News, spiegando che molte delle giudici sono state formate negli Usa e hanno emesso dure sentenze sui combattenti talebani durante la guerra in Afghanistan, ma la maggior parte non ha diritto a visti speciali perché non sono mai state sul libro paga degli americani. "I talebani ci cercano porta a porta", ha rivelato una di loro nella provincia di Herat. Quasi il 60% degli afghani che sono stati costretti a lasciare le proprie case quest'anno sono bambini: secondo i dati diffusi dall'Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Unocha) in Afghanistan, si legge sulla Bbc, dall'inizio di maggio più di 400.000 persone sono state registrate come nuovi sfollati a causa dell'intensificarsi dei combattimenti in tutto il Paese. In totale quest'anno sono stati sfollati quasi 550.000 afghani.

Francesco Semprini per “la Stampa” il 21 agosto 2021. Ancora morti, delirio all'aeroporto della capitale, paralisi delle attività, sfollati in fuga e restaurazione della Sharia. È il quadro del nuovo Afghanistan dopo la caduta di Kabul nelle mani dei fondamentalisti che ha innescato la fuga di chi vive con terrore il corso della storia e l'attesa della formazione del nuovo governo di intesa a trazione taleban. È di almeno quattro decessi, tutte donne, il bilancio dei disordini di ieri presso lo scalo Hamid Karzai, secondo la testimonianza sul terreno di «Sky News» che riferisce di una ressa letale. La folla continua ad accalcarsi all'aeroporto per cercare di andarsene dal Paese, ma tutti gli osservatori internazionali stimano che le possibilità di fuggire sono sempre meno, e che entro pochi giorni non ci saranno più voli. Gli americani diffondono un messaggio invitando le persone a non andare allo scalo, mentre il capo della diplomazia Ue Borrell commenta: «Impossibile finire l'evacuazione il 31 agosto». Molti funzionari pubblici a Kabul non sono potuti rientrare in ufficio perché gli è stato impedito. I miliziani vogliono aspettare la nomina dei nuovi ministri: «Ci hanno rimandato a casa dicendo di attendere indicazione dagli organi di informazione», affermano dipendenti e funzionari. Da quando i taleban hanno preso il potere il 15 agosto, edifici governativi, uffici passaporti, scuole e università sono rimasti in gran parte chiusi. Negli ultimi giorni hanno operato solo poche società di telecomunicazioni private. Le banche e i bancomat di tutto il Paese sono rimasti chiusi per il settimo giorno consecutivo, non ci sono contanti all'interno degli sportelli, nessuna banca è operativa, così come nessun ufficio Western Union, che le persone all'estero utilizzano maggiormente per trasferire denaro. Il Paese rischia la crisi di liquidità. Ieri nella capitale la maggior parte delle strade era gran parte deserta, ad eccezione dei posti di blocco taleban e delle loro pattuglie. Nella provincia occidentale di Herat, dove era di stanza il contingente italiano, i taleban hanno disposto il divieto di tenere lezioni a classi miste di ragazze e ragazzi nelle università governative e private. La direttrice nazionale del Programma alimentare mondiale in Afghanistan, Mary-Ellen McGroarty, afferma che decine di migliaia di sfollati interni sono destinate ad aggravare la già pesante crisi umanitaria. Ancor di più perché il Paese che sta affrontando una grave siccità e le scorte alimentari stanno già diminuendo in tutto il paese. A questo si aggiungono i timori di Pentagono e Sicurezza nazionale Usa sul fatto che i taleban potrebbero essersi impossessati non solo di armi leggere americane, come fucili d'assalto e mitragliatori, e di veicoli corazzati Humvee, come mostrano diverse immagini, ma anche di diversi elicotteri Black Hawk e di una ventina di aerei da combattimento A-29 Tucano, oltre ad altre armi pesanti e milioni di munizioni. Nel Nord, intanto, le milizie della resistenza hanno ripreso tre distretti della provincia di Baghlan vicino alla valle del Panjshir dove si sono radunati i resti delle forze governative e di altri gruppi di miliziani. Sono loro l'ultimo serraglio di resistenza anti-taleban che fa capo ad Ahmed Massoud, il figlio del "Leone del Panjshir" leader dell'Alleanza del Nord. Massoud ha smentito qualsiasi intenzione di resa. Notizie fatte girare ad arte dalla macchina della propaganda delle fake news dei fondamentalisti, divenuta ormai quarta dimensione delle guerre asimmetriche e non convenzionali. Il ministro della Difesa, il generale Bismillah Mohammadi, che ha promesso di resistere ai taleban, ha dichiarato in un tweet che i distretti di Deh Saleh, Bano e Pul-Hesar nella vicina provincia di Baghlan a Nord del Panjshir sono stati presi. Ad affiancare Massoud e Mohammadi è l'ex vicepresidente Amrullah Saleh a cui, sulla base dei disposti della Costituzione, spetta di sostituire il fuggiasco Ashraf Ghani. Secondo fonti vicine al figlio del Leone del Panjshir nella valle si sono radunati ad ora più di seimila combattenti, composti da resti di unità dell'esercito e delle forze speciali e da avanguardie di milizie locali.

Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 21 agosto 2021. Da quando Kabul è caduta nelle mani dei talebani milioni di afghani terrorizzati cercano di cancellare le loro tracce digitali dai telefonini, dai computer, dal web. Panico comprensibile: in balia di radicali islamici che vent' anni fa avevano vietato perfino la musica, anche avere sullo schermo del cellulare solo il logo di Spotify può essere fatale. Ragazzi cresciuti nei vent' anni dell'occupazione americana, che sono anche i primi dell'era digitale, corrono a ritroso in una paradossale macchina del tempo cancellando dai loro apparecchi anni di messaggi, tutti i loro contatti, gli amici, le foto, i video, le canzoni. È un lavoro immane, svolto con l'aiuto di organizzazioni umanitarie come Human Rights First che hanno messo in rete guide su come cancellare la propria identità digitale basate su un lavoro analogo fatto in passato per i ragazzi di Hong Kong che hanno cercato di resistere alla repressione cinese. Manuali scritti in inglese, arabo e farsi che molti non capiscono perché parlano altri dialetti. Aiutano attiviste pachistane dei diritti umani con traduzioni in lingua pashto e dari. Sforzi commoventi, ma difficilmente basteranno a evitare di far scattare le trappole tecnologiche dei jihadisti: i talebani 2.0 che affermano di essere diventati più tolleranti con la modernità, di sicuro si sono modernizzati quanto a uso delle tecnologie digitali. Già cinque anni fa in un posto di blocco hanno controllato i passeggeri di un autobus usando uno strumento biometrico e ne hanno uccisi 12 identificati come collaboratori degli americani attraverso un database in loro possesso. E a Kabul secondo voci difficili da verificare, i talebani stanno già facendo perquisizioni casa per casa usando strumenti simili. Nei vent' anni della loro occupazione gli americani non hanno solo cercato di esportare democrazia: hanno esportato anche la digitalizzazione di ogni aspetto della vita pubblica. Il che vuol dire impronte digitali, scannerizzazioni dell'iride e riconoscimento facciale per votare, diffusione capillare di carte d'identità digitali zeppe di dati dei cittadini compresi quelli della provenienza etnica, e altro ancora. Come sempre nella cultura digitale della Silicon Valley - i problemi si affrontano solo quando si manifestano e montano le proteste - nessuno si è preoccupato di garantire in modo adeguato la sicurezza di queste banche dati. Solo che a Kabul, a differenza della California, queste sono questioni di vita o di morte. Gli americani hanno creato sofisticati sistemi informatici, affidandone poi la gestione al governo di Kabul: quello che si è liquefatto in poche ore meno di una settimana fa, lasciando database delicatissimi alla mercé dei nuovi padroni del Paese. È per questo che tutti gli sforzi dei singoli di cancellare le tracce digitali rischiano di risultare vani: queste impronte sono ormai ovunque, negli archivi pubblici come nei file privati. E non basta cancellare la propria identità digitale dal telefonino: basterà una foto nella quale si compare a un evento di una ong per passare guai seri. Un cellulare senza dati, poi, rischia di essere considerato dai talebani un'autodenuncia. Per questo molti preferiscono distruggere fisicamente i loro apparecchi. Ma questo è un lusso che molti non si possono permettere, una connessione col mondo che non possono perdere. Chi ha lavorato con gli americani è, poi, davanti a un dilemma: se cancella tutto per non finire nel mirino dei talebani non avrà più nulla per sostenere una richiesta di asilo negli Usa. Le associazioni umanitarie consigliano di fotografare i documenti, postarli su cloud (sperando che sfuggano all'intercettazione dei talebani) e bruciare gli originali cartacei. HIIDE potrebbe diventare il simbolo dell'insipienza tecnoburocratica americana: la sigla identifica un sistema di terminali mobili per l'identificazione dei cittadini creato da varie agenzie del governo Usa. Sono stati usati di villaggio in villaggio e contengono i dati biometrici e anche note biografiche degli abitanti. Secondo il sito The Intercept, americani e afghani in fuga hanno lasciato alcuni di questi strumenti nelle mani dei talebani. La speranza è che non li sappiano usare, il timore è che vengano aiutati da tecnici pachistani.

La minaccia dei Talebani a Biden: sloggiare entro il 31 agosto o ci saranno conseguenze e reazioni. Paolo Lami lunedì 23 Agosto 2021 su Il Secolo d'Italia. Non bastava la figuraccia che Biden ha fatto fare agli Usa sull’Afghanistan con un ritiro pasticcione, disordinato, disastroso e umiliante. Ora ci si mettono anche le minacce esplicite e dirette dei nuovi padroni di casa, quei Talebani che avvertono l’inquilino democratico della Casa Bianca: non oltrepassare il limite del 31 agosto o saranno guai seri. Irriso pubblicamente, Biden deve incassare anche l’ultima minaccia dei Talebani: “E’ una linea rossa. Il presidente Biden ha annunciato che il 31 agosto ritireranno tutte le loro forze militari. Quindi se decideranno una proroga significherà che staranno prolungando l’occupazione mentre non ce ne è alcun bisogno – dice a Sky News Suhail Shaheen, un portavoce dei Talebani, dopo le parole di ieri di Joe Biden. – Se sono intenzionati a proseguire l’occupazione questo provocherebbe una reazione”. Parlando da Doha, il portavoce dei Talebani ha aggiunto: “Se gli Stati Uniti o il Regno Unito dovessero volere più tempo per proseguire i trasferimenti, la risposta è "no"”. “O ci sarebbero conseguenze”, ha minacciato, parlando della “sfiducia che si creerebbe”. “Se sono intenzionati a proseguire l’occupazione – ha avvertito Suhail Shaheen – questo provocherebbe una reazione”. E alla domanda se i Talebani vogliano dire qualcosa alle famiglie di chi in Afghanistan ha perso la vita cercando di aiutare il Paese, Shaheen ha risposto: “Hanno occupato il nostro Paese. Se noi occupassimo il vostro, cosa direste?”. “Penso che tutti abbiano sofferto molto. Spargimenti di sangue. Distruzione. Di tutto. Ma noi diciamo che il passato è passato – ha aggiunto il portavoce dei Talebani. – Ora vogliamo concentrarci sul futuro”. Già, il futuro. Quale può essere il futuro di un Paese che basa la sua economia sulla produzione di oppio ed eroina e che conculca i diritti delle donne e delle minoranze? Un Paese governato da gente che sparava un colpo secco di kalashnikov sulla testa delle afghane e degli afghani dopo un frettoloso e sommario processo per strada?

Andrea Nicastro per corriere.it il 25 agosto 2021. Fino a quando i talebani erano sulla difensiva, esposti ai droni e alle forze speciali in ogni frattura della terra, dicevano che gli occidentali avevano gli orologi e loro il tempo. Il tempo di aspettare, pazientare, soffrire fino alla vittoria. Ora che la più grande superpotenza del mondo ha deciso di perdere e ha abbandonato decine di basi militari sicure come fortezze per arroccarsi in un aeroporto civile indifendibile, anche i talebani si sono ricordati di avere non solo gli orologi, ma anche i calendari. «Non oltre il 31 agosto», hanno detto. L'evacuazione più rapida e colossale della storia deve finire entro il mese. «Altrimenti lo considereremo una provocazione e reagiremo». Un vero ultimatum. Il presidente americano Joe Biden aveva assicurato, con la solita autorevolezza, che se ci fosse stato bisogno di prolungare il periodo di evacuazione si sarebbe «sforata la data del 31 agosto». Invece ora, dopo la risposta talebana, tutti i comandanti militari si affrettano a spiegare che si farà di tutto per «stare nei tempi previsti». Secondo indiscrezioni stampa, lunedì il direttore generale della Cia, William Burns, avrebbe incontrato la figura più visibile del vertice talebano, il mullah Baradar. Non è certo una novità che la Cia parli con i talebani. È stata la Central Intelligence Agency a voler catturare proprio Baradar in Pakistan nel 2010. Ed è stata sempre la Cia a convincere Islamabad a liberarlo nel 2018. Cosa si siano detti non è dato sapere, ma non è difficile da immaginare. Fateci uscire da Kabul senza problemi, altrimenti ve ne faremo pentire. Andatevene senza crearci problemi, altrimenti sarete voi a pentirvi. Paradossalmente, la leva migliore oggi è in mano talebana. Con 5.800 soldati a difendere l'aeroporto, un aereo che decolla ogni 45 minuti, il rischio di non poter salire sull'ultimo volo perché nessuno a terra garantisce la sicurezza, l'America si è esposta a un'ulteriore figuraccia planetaria. Immaginarsi che gli ultimi 300, 400 marines siano fatti prigionieri da migliaia di talebani che semplicemente scavalcano le reti dell'aeroporto civile è un incubo peggiore della cattura dell'ambasciata Usa a Teheran nel 1979. E anche allora, il potere era appena passato da un governo filoamericano ad uno islamico fondamentalista. Non si sa da chi sia arrivata l'idea, ma dopo la riunione Cia-talebani è uscita una soluzione per eliminare dagli occhi del mondo le code di fuggiaschi: da ieri i talebani permettono l'accesso all'aeroporto solo a chi mostra un passaporto straniero. Gli afghani che hanno lavorato o collaborato con le forze straniere non possono neppure avvicinarsi al primo cerchio di sicurezza controllato proprio dagli «studenti del Corano». C'è da immaginare che le file diminuiranno. I talebani sanno essere convincenti. Eccetto la sacca di resistenza della valle del Panshir, i nuovi padroni di Kabul sembrano avere il controllo dell'intero Paese e cercano di rimetterlo in moto. Molti amministratori del governo precedente sono stati confermati, gli impiegati stanno tornando a lavorare. A Kabul sicuramente anche molte donne, altrove è più difficile da verificare. Nominato anche il nuovo ministro della Difesa. È un ex prigioniero della Base Usa di Guantanamo.

Francesco Grignetti per “La Stampa” il 25 agosto 2021. La finestra per fuggire da Kabul si sta inesorabilmente chiudendo. E i primi ad averlo capito sono gli afghani ammassati attorno all'aeroporto, alcuni ormai accampati da giorni. Attorno allo scalo afghano, sono ormai scene da esodo biblico. Caldo, sporcizia, sudore, fame, sete. Nulla viene risparmiato ai disgraziati che cercano di sfuggire alla morsa taleban. Si è saputo di una madre che ha visto il figlio travolto dalla calca. Gli si è spezzata una gamba. Lei pure sommersa dalla folla, non è più riuscita a trovarlo. Ora vaga disperata. Ma sono giorni che si sente di bambini separati dalle famiglie. È un caos indescrivibile. Un'altra famiglia piange in silenzio: è morto uno dei figli, di 11 anni, forse per la fatica, forse di malattia, ma loro hanno dovuto stringere i denti e non perdere il posto perché l'alternativa è la morte sicura per tutti. Nelle ultime ore si è raggiunto il panico, quando hanno tutti capito che la data ultima del ritiro americano non sarebbe cambiata. E sono a migliaia, lì ammassati contro il muro e il fio spinato, che premono e aspettano. Ma pensare che ci siano voli umanitari fino al 31 agosto è sbagliato. Gli ultimi quattro giorni serviranno esclusivamente alle forze armate statunitensi per portare via i loro marines. Ce ne sono 6.000. Occorre tempo anche per questo. E così nella programmazione con gli altri Paesi della Nato, si è stabilito che spagnoli e francesi termineranno i loro voli alla sera del 26. E i rispettivi ministri degli Esteri hanno ammesso: «Non ce la faremo a portare via tutti i nostri collaboratori». Stesso dicasi per i tedeschi. Gli italiani dovrebbero chiudere la loro presenza lì venerdì 27, nonostante il nostro console Tommaso Claudi stia implorando che gli diano più tempo. Il 28 dovrebbe partire l'ultimo volo passeggeri della Difesa da Kuwait City, dove si fa scalo e cambio velivolo. «È una tragedia», dicono quelli - giornalisti, operatori di Ong, militari - che in Italia sono coinvolti da amici e collaboratori afghani, e che in queste vengono tempestati di messaggi sempre più disperati. Anche se sono centinaia quelli che sono già saliti sugli aerei militari, infatti, altrettanti sono quelli bloccati a terra. I più penalizzati sono gli ex collaboratori del contingente militare, che venivano da Herat con le famiglie, hanno rischiato la vita percorrendo ben 1.200 km di autostrada, hanno sfidato tanti posti di blocco dei taleban, chi con la propria auto, chi in autobus, e ora però sono quelli più indietro nella fila. Attorno all'aeroporto, infatti, si è creata una marea umana invalicabile. Tutti sentono di avere il diritto di scappare. Tutti hanno il terrore di quel che accadrà. E chi però rischia di più, cioè chi ha collaborato con gli eserciti occidentali, è isolato nel cerchio più esterno e nemmeno può tornare indietro. «So di alcuni nostri interpreti di Herat che ce l'hanno fatta nella notte a superare i cancelli. Ma altri sono troppo fuori e non so come ce la potranno fare», racconta una persona che è in contatto diretto con molti di loro. I pochi eroici carabinieri del Tuscania, che erano a Kabul per proteggere l'ambasciata e da giorni stanno gestendo l'evacuazione, fino all'ultimo hanno sfidato l'ira degli americani e hanno fatto la spola tra dentro e fuori, varcando il cosiddetto «Abbey Gate», uno dei tre accessi all'aeroporto, per individuare nella calca le persone a cui gli italiani hanno promesso aiuto. Il punto, però, come detto, è che la finestra temporale si sta chiudendo inesorabilmente. Già ieri i marines avevano l'ordine di far passare solo chi ha un passaporto americano o occidentale, oppure il visto. Ma naturalmente con le carte in regola non c'è quasi più nessuno. Non meraviglia, allora, che anche i taleban, da parte loro, adottino la medesima regola. E sembra proprio di vedere un accordo tra le due parti, relativamente a questi ultimissimi giorni. Il ponte umanitario era uno sforzo doveroso. Ma non può nascondere il disastro di questo ritiro. I cui tempi e modi sono stati dettati esclusivamente dagli americani. Il nostro governo non vuole assolutamente polemizzare, ma negli interventi in Parlamento dei ministri Luigi Di Maio e Lorenzo Guerini, ieri, qualche messaggio in codice c'è. Va letto bene tra le righe. Guerini ha tenuto a ribadire, per due volte, che «è stata scarsa se non nulla la resistenza delle forze di difesa afghane, scegliendo di fuggire oltre confine o di arrendersi, abbandonando ai taleban mezzi ed equipaggiamento». E poi: «Numerosi episodi di abbandono di mezzi e materiali». Che però erano tutti armamenti di fonte statunitense. «Nessun sistema d'arma o mezzo militare italiano è stato ceduto alle forze afghane al momento del rientro del contingente». Così come ha lamentato Di Maio: «Non possiamo permettere che il Paese torni rifugio sicuro e terreno fertile per gruppi terroristici». Solo che questa garanzia non si ravvede più tanto nell'intervento muscolare americano, quanto in «alleanze e coinvolgere tutti gli attori, specie quelli della regione, che condividono questa stessa preoccupazione, oltre Russia e Cina». Pare evidente che si pensa a un tavolo che veda insieme Iran, Turchia, Pakistan oltre le due grandi potenze citate. Non propriamente un tradizionale assetto atlantico.

Da lastampa.it il 26 agosto 2021. Spari contro un C-130J dell'Aeronautica militare italiana che era appena decollato da Kabul con a bordo altri evacuati afghani. Nessuna conseguenza per equipaggio e passeggeri. A quanto apprende l'AGI, il fuoco è stato aperto quando il velivolo aveva già staccato le ruote dalla pista dell'Hamid Karzai Airport, con i motori alla massima potenza per consentirne il decollo. Il pilota, un ufficiale donna dell'Aeronautica italiana, è stata rapida oltre che mantenere sangue freddo - si apprende ancora - nell'effettuare una manovra di emergenza che ha messo in sicurezza il C130J in volo, allontanandolo dalla traiettoria dei proiettili, probabilmente di mitragliatrice pesante posizionata all'esterno dello scalo aereo o su un'altura vicina. A bordo giornalisti e 98 civili. Il C130J ha quindi proseguito sulla rotta prevista che l'ha portato alla base aerea di Al Salem, in Kuwait, da dove poi le persone a bordo proseguiranno per l'Italia con KC767. In tutti questi giorni di evacuazione con ponte aereo italiano o di altre nazioni dall'Afghanistan è il primo episodio del genere di cui si ha notizia. A testimonianza di una tensione sempre più marcata nell'area dello scalo. 

Afghanistan, Anna Maria la pilota italiana eroina di Kabul. Spari contro il nostro aereo: così ha salvato tutti. Libero Quotidiano il 27 agosto 2021. Dalle prime notizie diffuse ieri sul decollo condito di spari di un nostro C-130, è trapelato solo il grado e il nome di battesimo della pilota, «maggiore Anna Maria». Ma l'ufficiale italiana è già un'eroina delle nostre forze armate, anche da un punto di vista simbolico. Mentre con la vittoria talebana, per le donne d'Afghanistan svanisce l'aspirazione a diritti e autodeterminazione, l'Italia dimostra che nei Paesi occidentali le donne capaci, intelligenti e coraggiose possono realizzarsi in ogni ambito. Diventando anche pilote militari, come Anna Maria. La quale, se da adulta è divenuta in grado di far volare a 600 km/h un bestione a 4 turboeliche come il C-130J Hercules, lungo 30 metri e con apertura alare di 40 metri, ha probabilmente coronato un "sogno azzurro" che la animava fin dall'infanzia. Ancora non è stata confermata ufficialmente l'identità della pilota. Ma non sembra molto probabile che nel reparto di volo del C-130, la mitica 46° Aerobrigata di base a San Giusto, presso Pisa, ci siano due Anne Marie. Azzardiamo quindi che si tratti della siciliana Anna Maria Tribuna, una «aviatrice di razza» come si sarebbe detto in altre epoche, di cui già in passato si era occupata la stampa, come testimoniano notizie che abbiamo reperito in rete. Nel 2019 l'allora capitano Tribuna si è distinta in missioni in condizioni climatiche difficili come il rifornimento aereo della Base Zucchelli, nella remota Antartide, una "fortezza della scienza" italiana che indaga sui ghiacci polari e sul futuro della Terra. Sembra che il C-130 di Anna Maria sia stato il primo aereo dell'Aeronautica Militare ad atterrare sul ghiaccio, presso la base, dopo 20 anni. Nel 2020, poi, con lo scoppio della pandemia Covid-19, la Tribuna è stata in prima linea nel trasporto aereo dei malati più gravi, e anche dei primi carichi di mascherine, specie quando il virus era ancora semi-sconosciuto e la corsa alle terapie intensive poteva fare la differenza fra vita e morte. All'Ansa aveva dichiarato: «Magari la mattina devo andare in missione in Antartide oppure, come pure non di rado è capitato, devo operare il trasbordo di un paziente in fin di vita. Portare a termine operazioni che devono essere perfette ha anche piccoli insospettabili costi personali, come banalmente quello della valigia da rifare ogni sera. Ma l'orgoglio e la soddisfazione di aver svolto un servizio che è aiuto concreto alla popolazione, ripaga di tutto». E lo ha dimostrato anche nel 2021 nei febbrili decolli e atterraggi sulla pista assediata di Kabul.  

"Si sono vissuti attimi di panico". Colpi di mitragliatrice contro aereo italiano a Kabul, gli 007 smentiscono: spari per disperdere folla. Giovanni Pisano su Il Riformista il 26 Agosto 2021. Colpi di mitragliatrice contro l’aereo militare italiano dopo il decollo a Kabul. Attimi di panico si sono vissuti a bordo del C-130 dell’Aeronautica militare italiana con a bordo cittadini afghani evacuati e giornalisti. Per fortuna non sono stati registrati danni. Solo tanta paura. L’episodio, così come raccontato dai reporter presenti a bordo, è avvenuto nella notte tra mercoledì e giovedì subito dopo il decollo. “Siamo sul Kc767 che porta in Italia noi e 98 civili afgani evacuati in queste ore. Un volo militare, un C-130. Pochi minuti dopo la partenza da Kabul hanno tentato di colpirlo con mitragliatrici pesanti, ma la pilota Annamaria ha reagito prontamente, attuando le manovre per evitare di essere colpiti. Si sono vissuti attimi di panico, per le manovre diversive si è ballato molto. Molte delle persone sono in terra ma in condizioni complicate perché questi voli sono riempiti per permettere di portare via più persone possibile dall’Afghanistan”. È il racconto dell’inviata di SkyTg2 24, Simona Vasta, che si trovava a bordo del velivolo preso di mira molto probabilmente dai talebani, ai microfoni del suo telegiornale. “Si sono vissuti attimi di panico, soprattutto tra i civili afgani, che non sapevano dell’attacco – continua Vasta -. Inizialmente abbiamo pensato a pesanti vuoti d’aria, poi abbiamo saputo dell’attacco, quando eravamo a 4mila piedi dal suolo, a poca distanza da Kabul”. L’inviato di Repubblica Giuliano Foschini aggiunge: “La comandante dell’Aeronautica è riuscita in una manovra d’emergenza che ha messo in sicurezza mezzo e passeggeri. Dentro siamo saltati tutti in alto, ma fortunatamente non ci hanno colpiti e tutti stiamo bene” L’inviato di Repubblica Giuliano Foschini, a bordo del C130, racconta così quanto accaduto. Atterrati alla base aerea di Al Salem, in Kuwait, il viaggio sta proseguendo con destinazione Roma, a bordo di un volo 767.

Ma l’Intelligence smentisce. “Nessuno sparo contro un aereo C-130 italiano” precisano all’Ansa fonti di intelligence secondo cui una mitragliatrice afghana ha sparato in aria per disperdere la folla che stava pressando verso il gate dell’aeroporto e nessun colpo è stato diretto verso l’aereo in decollo. Secondo quanto hanno riferito le fonti, un pick up afgano equipaggiato con mitragliatrici e situato lontano dalla pista, ha sparato alcuni colpi di mitragliatrice calibro 14.5 in alto per disperdere la folla che stava pressando verso il gate. La pilota del C130 italiano ha quindi effettuato un decollo tattico per sottrarsi ad una potenziale minaccia, ma nessuno sparo – ribadiscono le fonti – è stato diretto verso il velivolo italiano. Intanto sono circa 50 le persone morte all’aeroporto di Kabul negli ultimi giorni. Ad annunciarlo l’ambasciatore russo in Afghanistan, Dmitry Zhirnov, stando a quanto riporta Interfax. Con gli ultimi voli avvenuti nelle scorse ore è stato superato il muro delle 100mila persone evacuate da Kabul, in uno dei ponti aerei più grandi della storia. Nelle ultime 24 ore sono infatti state imbarcate circa 13.400 persone, di cui 5.100 su 17 voli militari americani e 8.300 tramite 74 voli della coalizione. Da fine luglio, sottolinea la Casa Bianca, sono state portate via circa 101.300 persone, di cui 95.700 dal 15 agosto, giorno dell’ingresso dei talebani nella capitale afghana.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 26 agosto 2021. Quando calchi finalmente la pista dell'aeroporto avverti subito la vampata di caldo sotto le suole. L'asfalto è bollente. Nell'area dove parcheggia il c-130 dell'aeronautica militare italiana sono fermi almeno 8 cargo grigi panciuti. Si notano le insegne americane e britanniche. Ai lati del nastro d'asfalto il popolo afghano in fuga attende, muto, paziente. I soldati della coalizione, compresi quelli italiani, fanno lasciare a terra, o parzialmente svuotare, i bagagli più pesanti e voluminosi. Tutta questa gente è stata già più volte controllata e perquisita nelle diverse fasi del suo calvario per arrivare al terminal, in coda per la lotteria tra la vita e la morte. Però non si vuole lasciare nulla al caso. Ogni chilo in più significano passeggeri che dovranno restare a terra. I bambini tengono stretto al petto un animale di pezza, una bambola. Le mamme un attimo sembrano protestare. Ma è solo un accenno, un gesto. Poi lasciano fare.  «Questi sono gli ultimi, la nostra missione è agli sgoccioli», dice il tenente colonnello Andrea Brozzetti, che ci viene a prendere sulla pista. «L'importante è partire. Via, andare via al più presto. Non abbiamo più neppure la forza per ribellarci. va bene tutto. Purché si decolli subito. I talebani avanzano, non sappiamo ancora per quanto tempo gli aerei potranno decollare», dice Usma, una ragazza di 19 anni dal sorriso esausto.  «Grazie Italia, grazie italiani», ripete. E vale la pena di ascoltarla, mentre qui, con gli otto membri della sua famiglia, sta per essere accompagnata dai soldati italiani verso gli ultimi metri che la separano dal portellone aperto del cargo militare che tra poco partirà per il Kuwait, alla volta infine di Roma. Solo pochi metri, forse una quindicina, ma da oltre una settimana le sembravano impossibili da superare. «Voi non capite, per voi europei è tutto garantito. Lo date per scontato. Ma per me questi 15 metri rappresentano un futuro di libertà e sicurezza. I talebani forse non mi avrebbero uccisa fisicamente. Ma certamente avrebbero assassinato il mio futuro di donna e di essere umano libero. Voglio venire in Italia, dovevo assolutamente farlo per me e per i miei figli», dice tutto d'un fiato. Non dorme da oltre quaranta ore. «Sono stata salvata dai vostri soldati che mi hanno trovata vicina ad un canale. Non ce la facevo più», aggiunge. Lei parla. Ma intanto il nostro telefono continua a squillare. È il passaparola tra gli afghani. Quando sanno che forse c'è qualcuno di conosciuto all'aeroporto, anche solo per sentito dire, che potrebbe aiutarli forse a superare le barriere di accesso, chiamano. Lo fanno con ogni mezzo. Sanno che il cerchio si sta stringendo. Terribilmente. Da martedì mattina i talebani hanno vietato l'accesso all'aeroporto per i civili afghani, anche quelli muniti di garanzie e accrediti dai Paesi della coalizione. Ciò significa che chi è dentro è dentro, e chi è fuori resta fuori. Lo si notava benissimo anche ieri pomeriggio atterrando. La pista è sgombra, nulla a che vedere col caos di una settimana fa. Non ci sono civili che invadono il terminal, o si aggrappano ai carrelli degli aerei in decollo. Oltre ottomila soldati americani hanno messo in sicurezza il perimetro delle piste. Di fronte al terminal i gruppi delle persone in partenza sono ben ordinati, divisi per voli, controllati a vista da guardie armate che soprattutto si preoccupano di aiutare i vecchi e dare bottiglie d'acqua fresca ai bambini. La calca vera, l'inferno, sta fuori dal perimetro, verso la strada che conduce al centro di Kabul. È nelle mani dei miliziani talebani che, ai posti di blocco, non esitano a menare botte con i calci dei fucili e frustare chi si attarda. Kabul è sempre più una città divisa tra la nuova normalità del centro e la precarietà dell'aeroporto. Il passato della coalizione è già un ricordo destinato a svanire. Dopo il 31 agosto sarà tutto diverso. Il futuro sta già nelle mani dei talebani. Ieri abbiamo visitato brevemente la sala comando americana. «Sappiamo che l'Isis è qui fuori. Ci sono informazioni di attentati in preparazione», ribadiscono allarmati dal servizio di intelligence. In questa frenesia delle partenze, tanti sono ben contenti di parlare con i giornalisti. «I talebani mi danno la caccia. I loro informatori sanno che ho lavorato per una guest house che serviva le ong europee. Questa è la mia ultima possibilità per mettermi in salvo», dice Walid, 32 anni, mentre si avvia a sua volta sul volo italiano. Con Nasratullah discutiamo della credibilità talebana. «Sì, ho visto che loro promettono che saranno diversi, ma lo fanno solo per illudere l'opinione pubblica occidentale. Hanno imbrogliato gli americani nei negoziati di Doha. E adesso hanno bisogno del vostro riconoscimento per governare. Ma a farne le spese saranno gli afghani che restano. Io non credo alle loro promesse e non sono disposto a stare qui per verificarle in diretta». Saleh, una cinquantina d'anni, è venuto con la famiglia dal Loghar, sette persone per un viaggio di tre giorni. Sorride felice. È disposto ancora una volta ad attendere sotto il sole. Suda copiosamente, non gli importa. «Vivremo nella libertà. Non voglio tornare a stare come due decenni fa. Sono contento. Abbiamo venduto tutto pur di partire. Ma ne valeva la pena. Ho tre figli adolescenti, non voglio che soffrano sulla loro pelle ciò che ho sofferto io da giova-ne», spiega. Ogni tanto le voci sono soffocate dal rombo del viavai dei giganti dell'aria. Davanti al padiglione dell'Italian Evacuation Center incontriamo accovacciate alcune giovani donne.  Stanno attendendo di essere accolte e esaminate. «Speriamo bene. Veniamo da Bamiyan, siamo professoresse e artiste. I talebani ci avrebbero vietato ogni attività e chiuse in casa», dice una di loro, Omena Rasai, 27 anni. Dentro la zona italiana tre medici militari si stanno dando da fare. Si vedono diversi bambini. «Abbiamo curato molti casi di disidratazione, la gente arriva stanca, disfatta, al lumicino. Sono consumati dal caldo. Una donna ha quasi partorito qui da noi. I bambini soffrono di dissenteria», spiegano. L'atmosfera appare comunque tranquilla, calma, gruppi di famiglie stanno sdraiate su grandi stuoie stese a terra nella penombra. Tra loro c'è anche il venticinquenne Fawzi Olulbik, uzbeko, comandante di un battaglione dell'esercito che era basato a Mazar-i-Sharif. «I talebani se mi prendono mi uccidono subito. Sono un ufficiale nemico, non avrebbero alcuna pietà», spiega, diretto. La moglie insegnava francese. «Grazie Italia, che ci salva», ripete. Volevo unirmi ai resistenti col figlio di Ahmad Massoud nel Panshir, ma non sono riuscito a raggiungerli. Le strade erano già presidiate dai talebani, dice ancora lui. Poco distante, seduta al tavolino di un caffè del terminal, adesso invaso di valigie, stracci e povere cose, siede Qadra, una ragazza venticinquenne originaria del Nord, ma che da cinque anni studia business administration negli Stati Uniti. «Ero in visita alla mia famiglia ma sono rimasta bloccata. Maledetto il momento che ho deciso di fare questo viaggio; ora devo scappare con mille rischi». Ma non ha dubbi: «Devo andare via subito. Questo Paese non ha futuro. Questo è l'esodo della sua gente migliore. Tra noi ci sono medici, ingegneri, avvocati, tecnici, persone che parlano le lingue. Dopo il 31 agosto l'Afghanistan sarà infinitamente più povero, avrà perso le sue menti, le sue energie migliori. Questa fuga epocale di cervelli, il frutto di una generazione vissuta nella libertà, permetterà ai talebani di governare indisturbati. Prevarranno i vecchi pregiudizi. Le donne saranno trattate come subumani da chiudere in casa. Una tragedia terribile», spiega. Mentre parla smanetta messaggi al marito rimasto negli Stati Uniti. Fortunato lui che è in Louisiana a casa. «Non riesco neppure a spiegargli ciò che capita qui», esclama poi scuotendo la testa. Tra poco dovrebbe imbarcarsi, il suo nome è già stato chiamato, non sembra avere rimpianti. Non si guarda indietro. Vuole chiudersi la porta alle spalle. 

Francesco Grignetti per “La Stampa” il 26 agosto 2021. Nella notte, una missione clandestina attraversa Kabul. C'erano da salvare un sacerdote, cinque suore della congregazione di Madre Teresa e 14 bambini disabili. Da giorni il governo sapeva di questo problema sempre più impellente, che non si riusciva a sbloccare. Già, perché doveva essere la Croce Rossa internazionale a recuperarli. Solo che giorno dopo giorno rinviavano il recupero della missione cattolica. E alla fine, quando ormai si era agli sgoccioli ci ha pensato un nucleo coraggioso di italiani. E ieri il ministero della Difesa ha potuto annunciare: «Sono stati tratti in salvo dai militari italiani». Queste suore più il gruppo delle Piccole sorelle di Gesù hanno rappresentato un presidio di cattolicesimo in ogni tempo. Sia durante l'occupazione sovietica, sia nella guerra civile. «Per tutti questi anni, non hanno mai lasciato Kabul: non durante l'occupazione sovietica, non sotto i talebani e neanche durante i bombardamenti». Le Piccole sorelle di Gesù sono rimaste al fianco degli afghani fin quanto hanno potuto, ha raccontato ad AsiaNews padre Giuseppe Moretti, il cappellano all'ambasciata italiana fino al 2015. E le hanno evacuate nello scorso febbraio. A Kabul, la comunità cristiana è composta da poche decine di persone, soprattutto funzionari e militari delle ambasciate. La congregazione si stabilì in Afghanistan nel 1956, le suore servendo come infermiere negli ospedali statali. Padre Moretti racconta la loro dedizione: «Ricevevano tanti aiuti internazionali, e cercavano sempre di farli avere alle persone di cui avevano cura. Nel 2013, un generale della Nato inviava ogni domenica dei pacchi di viveri, ma le suore, pur vivendo nella povertà, se ne privavano per darli ai più bisognosi di loro». Parlavano la lingua farsi, vivevano come afghane, dormendo su un tappeto a terra e indossando gli abiti tradizionali. Per questo, le sorelle sono state sempre stimate dalla comunità, tanto che negli ultimi anni avevano ottenuto la cittadinanza afghana. Quando fu riaperta l'ambasciata, nel 2001, c'era grande attesa per vedere come era stata lasciata dai taleban. E grande fu la sorpresa scoprendo che era stata rispettata.

Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 26 agosto 2021. L'operazione Apagan potrebbe concludersi già stasera. Il ponte aereo Kabul-Abu Dhabi-Parigi ha portato in salvo quasi 3000 persone da quando i talebani hanno ripreso il potere, 10 giorni fa, e il governo francese non nasconde la soddisfazione per avere cominciato l'evacuazione con molti mesi di anticipo. «Abbiamo oltre 100 persone che lavorano 24 ore su 24 all'aeroporto di Kabul per salvare quante più vite possibili», dice una fonte dell'Eliseo, che ricorda l'impegno di lunga data a favore dei civili afghani che hanno aiutato i francesi. Prima del 2019 sono stati accolti in Francia oltre 800 afghani legati all'esercito francese, e nei primi mesi di quest' anno sono arrivati altri 623 afghani, con i loro famigliari, che avevano collaborato con l'ambasciata. «Gli americani hanno confermato il ritiro completo delle loro forze entro il 31 agosto - ha detto ieri il ministro per gli Affari europei Clement Beaune -, e per questioni di sicurezza non potremo continuare le operazioni oltre quella data». Sul posto a Kabul c'è l'ambasciatore David Martinon, che è considerato da molti come l'artefice del salvataggio. Senza aspettare il caos di metà agosto, intuendo forse che Kabul sarebbe caduta prima di quando pensava la Casa Bianca, dall'inizio del 2021 Martinon (ex portavoce dell'allora presidente Nicolas Sarkozy) ha cominciato a occuparsi dei visti per centinaia di persone vicine all'ambasciata: interpreti e traduttori, cuochi, autisti, personale addetto alle pulizie. La Francia si è fatta carico anche di 260 afghani in contatto con la Delegazione dell'Unione europea. In queste ore raggiungeranno Parigi dopo lo scalo nella base aerea 104 Al Dhafra, che la Francia conserva negli Emirati arabi uniti. Viene fatto il possibile perché non si ripeta, sia pure su scala ridotta, il caso degli harkis , gli algerini pro-Francia che vennero in gran parte abbandonati dopo la fine dell'Algeria francese nel 1962. Dopo la scoperta che tra i rifugiati c'erano cinque persone vicine ai talebani, il portavoce del governo Gabriel Attal ha cercato di rassicurare i francesi: «Ogni persona che entra nel nostro territorio da Kabul è monitorata, lo slancio umanitario non ci fa dimenticare la sicurezza».

Accordo segreto Cia-Talebani alle spalle dei leader del G7. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud il 25 agosto 2021. Il G7 si è aperto ieri con il botto. Una notizia sul Washington Post che doveva restare “segreta” ma che tutti dovevano sapere: il direttore della Cia, William Burns, ha incontrato a Kabul il capo dei talebani, il Mullah Abdul Ghani Baradar, presidente in pectore dell’Afghanistan. Non diversamente dai regimi autocratici che gli Usa criticano, l’amministrazione americana usa i giornali e i media per far sapere le cose che non vuol dire ufficialmente ma rendere ufficiali: i talebani sono ormai riconosciuti da Washington ai più alti livelli. L’ufficialità è una questione di tempo e di dettagli legata probabilmente alle concessioni che faranno i talebani sull’estensione del ponte aereo e il ritiro delle truppe straniere da Kabul. Ma abbiamo già una certezza: se anche si riuscisse a estendere l’ultimatum dei talebani oltre il 31 agosto, gli Usa e la Nato abbandoneranno al loro destino gran parte degli afghani che hanno collaborato con gli occidentali in questi due decenni. Lo ha ammesso ieri il ministro della Difesa britannico Wallace che ha versato lacrime di coccodrillo: questi sono degli ipocriti che avevano davanti perfettamente la situazione, così come gli americani. La notizia dell’incontro non può stupire se non gli sprovveduti politicanti e analisti di casa nostra che per giorni hanno detto e scritto stupidaggini del tipo “non bisogna trattare coi talebani”. Sono gli stessi che battono la grancassa quando il tagiko Massud proclama la resistenza ai talebani: sta negoziando con Kabul la sopravvivenza sua e della sua gente che rischia di vedere tagliate tutte le vie di rifornimento. Gli americani e i talebani si conoscono perfettamente avendo negoziato per due anni a Doha. Baradar è una creatura degli Usa: il Mullah era stato arrestato nel 2010 in Pakistan e sono stati proprio gli Stati Uniti a chiedere la sua scarcerazione a Islamabad nel 2018. Si può quindi affermare che quello tra Burns e Baradar sia stato un incontro tra vecchie conoscenze. Probabilmente i due avrebbero voluto che avvenisse in circostanze diverse ma il crollo delle forze afghane, che si sono arrese senza combattere, ha prodotto una situazione terrificante. In realtà gli Usa volevano andarsene dall’Afghanistan alla chetichella sapendo quanto sarebbe successo. Come settimane fa avevamo segnalato su questo giornale gli Usa se ne erano andati di notte dalla base di Bagram (già centro dell’occupazione sovietica conclusa nel 1989): in poche ore nel cuore pulsante dell’invasione Usa non restava nulla, neppure l’acqua e luce per la prigione. Gli americani l’avevano abbandonata così all’improvviso che tanta gente era entrata nella base rubando quel che poteva prima che arrivassero i talebani. I russi quando si ritirarono lo fecero via terra, di giorno, sotto gli occhi della popolazione e dei reporter di tutto il mondo. Definire la conquista talebana dell’Afghanistan “improvvisa” e “inaspettata” è un insulto alla moltitudine di osservatori – americani e altri – che hanno raccontato la graduale implosione dell’Afghanistan negli ultimi anni. I talebani controllavano il 40 per cento del Paese già sette-otto anni fa, come si può leggere in qualunque articolo di giornale minimamente informato. Non a caso si definiva allora il presidente Karzai il “sindaco” di Kabul, talmente era limitato il suo potere. Burns era consapevole del disastro imminente. Il 23 luglio il direttore della Cia ha affermato che i talebani erano “probabilmente nella posizione militare più forte in cui si trovano dal 2001” e ha riconosciuto la possibilità che “il governo afghano potesse cadere con l’avanzata dei talebani”. Più chiaro di così…Burns stava esprimendo quella che era chiaramente l’opinione della maggioranza tra gli analisti della comunità dell’intelligence statunitense, che, entro il 16 luglio, stavano costantemente dipingendo “un quadro desolante dell’avanzata accelerata dei talebani attraverso l’Afghanistan e della potenziale minaccia che rappresenta per la capitale di Kabul”, avvertendo che presto avere una stretta strangolamento su gran parte del paese sulla scia del ritiro delle truppe statunitensi”. Il 22 luglio, il generale Mark Milley, presidente del Joint Chiefs of Staff, ha fatto eco alle parole di Burns, avvertendo il Congresso della “possibilità di una completa acquisizione dei talebani” dell’Afghanistan, in seguito al ritiro delle truppe americane. Insomma se uno va leggere le carte e le più recenti di dichiarazioni dei capi americani era evidente la loro consapevolezza del disastro imminente. Perché non hanno fatto niente? Perché agli americani e a noi dell’Afghanistan non importa quasi nulla e restituirlo ai talebani costa molto meno che continuare a starci. Così adesso stiamo davanti alla tv dove mostrano i marines che danno da bere ai bambini, sono gli stessi soldati americani e occidentali che in 20 anni hanno fatto 71mila vittime civili nei raid aerei. L’Occidente vuole essere “buono” e umanitario, in realtà ha ancora uno sguardo da colonialista sugli altri. Ci sentiamo superiori quando gli aiutiamo dopo averli uccisi. E ci commuoviamo pure. Ipocriti.

Solo spari nella città ormai spenta. Chiara Giannini il 26 Agosto 2021 su Il Giornale. Fuori è già guerra. L'ultimo spazio libero è lo scalo dove i militari viaggiano senza sosta per portare in salvo il maggior numero di profughi possibile. "Siamo stanchi, ma andiamo avanti con il pensiero di salvare vite umane". Quando arriviamo a Kabul è già notte. Le poche luci della capitale afghana che si scorgono dal C-130 fanno capire che molte cose sono cambiate rispetto a poco più di un paio di mesi fa, quando ancora il Paese degli aquiloni era sotto al controllo della coalizione internazionale e la città risplendeva di mille bagliori. Solo l'aeroporto è illuminato. Ora gli unici rumori che si sentono sono quelli dei motori dei C-17 americani in partenza o in atterraggio, dei CH47 e di quelli che in lontananza sembrano spari. Scendiamo velocemente in fila dall'aereo, non prima di aver indossato giubbotto antiproiettile ed elmetto, fondamentali a causa dei rischi altissimi. La discesa verso Kabul con volo tattico è stata salvaguardata dai fucilieri dell'aria dell'Aeronautica militare, posizionati sul portellone posteriore dell'aereo. Non c'è tempo per i convenevoli, perché attorno all'aeroporto già si consuma quella che è una guerra ancora poco compresa: quella del terrorismo internazionale contro il resto del mondo. Il nuovo Emirato afghano dei talebani di fatto controlla quasi tutto il Paese. La verità è che questa è una corsa contro il tempo, visto che l'ultimo volo italiano dovrebbe partire tra domani e dopodomani e c'è da portare via quanta più gente possibile. In molti non ce la faranno a trovare la salvezza. Sono tutti ex collaboratori e interpreti che negli ultimi vent'anni hanno lavorato per il contingente italiano e con loro ci sono le loro famiglie. Donne e bambini, molti dei quali piccolissimi. Tutti tristi, con uno sguardo difficile da spiegare. Sembrano svuotati, apatici, rassegnati a lasciare la loro terra per un futuro in un Occidente che gli sta garantendo la salvezza, ma la certezza che in Afghanistan non torneranno mai più. È tutta gente che per riuscire a entrare nello scalo di Kabul ha lottato notte e giorno sotto al sole, senza cibo e acqua, con le unghie e con i denti, rischiando di essere uccisa dai talebani, schiacciata dalla folla, travolta. Sono persone che hanno perso i bagagli e in alcuni casi la speranza di riuscirci e, comunque, tutto ciò che avevano. In fila, coi bambini in braccio, si avviano verso il C-130. Salgono uno alla volta sul cargo militare e il personale di bordo li fa accomodare per terra, dove per otto lunghe ore rimarranno in attesa dello scalo in Kuwait, da dove partirà il KC-767 del 14esimo stormo alla volta dell'Italia. Per quanto possibile, donne e bambini vengono posizionati sui sedili laterali. I militari danno loro acqua e biscotti. Il pasto lo faranno solo alla seconda tappa, perché prima ne è prevista una a Islamabad, in Pakistan, per il rifornimento di carburante. Si parte. Il decollo avviene a forte velocità, visto il rischio di lancio di razzi o missili di breve portata da parte dei talebani. L'aereo è dotato di sistemi di difesa passiva, i razzi flair che si attivano in automatico se i radar intercettano l'arrivo di un'offensiva. «Stanchi? - ci racconta un militare della 46esima Brigata aerea -. Un po', ma il pensiero di salvare vite ci dà la forza di continuare. Devo dire che a guardare questa gente provo molta tristezza, perché si capisce che pur nella gioia di essere in salvo non avrebbero mai voluto lasciare la loro terra. Molti bambini piangono, ma noi cerchiamo di regalare loro qualche sorriso». L'atmosfera è surreale. Ovunque militari armati fino ai denti. I fucilieri continuano a difendere il perimetro intorno all'aereo. Tutto intorno ci sono militari internazionali, anche italiani e delle Forze speciali. Coordinati dal Covi (Comando operativo di vertice interforze), guidato dal generale Luciano Portolano, responsabile di tutte le operazioni per la parte italiana, i militari lavorano senza sosta. Qui non si dorme da giorni e non si dormirà fino al rientro. Ai diplomatici e agli uomini e alle donne in divisa ancora rimasti a Kabul non interessa la ribalta delle cronache. «L'importante per noi è solo salvare vite», dicono i militari ancora in Afghanistan. Sul posto ancora la sala operativa italiana che coordina le attività di imbarco e sbarco sia del personale che degli afghani. Sono tutti in prima linea a cercare di compiere il miracolo. È gente che lavora con uno scopo superiore: quello di portare in Italia persone che altrimenti finirebbero nelle mani dei talebani e sarebbero uccise. In una terra che ci ha tolto 53 vite militari e una civile, resta ancora poco da dare. Gli ultimi colpi di coda di una missione lunga vent'anni. È già tempo di ripartire.

Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. Inviata di guerra per passione, convinta che i fatti si possano descrivere solo

(ANSA il 25 agosto 2021) "Sono contento di essere arrivato in Italia perché adesso i talebani girano casa per casa di chi lavora con Nato e Aisa. Gli italiani hanno fatto tanto per noi, è un piacere essere qui, siamo contenti, anche i miei figli. Io ringrazio per tutto i militari e l'Esercito italiano che ci hanno aiutati ad uscire". È una delle testimonianze di uno dei rifugiati afghani - un padre di famiglia - in quarantena nella base logistica dell'Esercito a Colle Isarco, in Alto Adige. La struttura, che già dal marzo 2020 è stata messa a disposizione della Provincia autonoma di Bolzano dal Ministro della Difesa per la gestione della pandemia (ANSA).

Herat è lontana. E i collaboratori della base italiana restano in trappola. Perché non tutti gli ex assistenti afghani sono riusciti a mettersi in salvo con le loro famiglie e cos’è successo dopo la caduta della provincia che per 18 anni è stata sotto il controllo dell’Italia: caos, ritardi e viaggi disperati. Gli errori e gli sforzi di una storia volutamente occultata da Roma. Carlo Tecce su L'Espresso il 26 agosto 2021. A Herat è buio anche di giorno. Adesso che non ci sono più occhi stranieri a illuminare le violenze dei talebani. A circa mille chilometri di strade insidiose se non letali dalla capitale afghana di Kabul, ancora due mesi fa, come per quasi vent’anni, Herat era una zona di controllo dei soldati italiani incaricati di importare e ripristinare una pace duratura o qualcosa di simile. E lì restano braccati centinaia di ex collaboratori, dipendenti, assistenti locali degli italiani, più di un migliaio di afghani se si computano le famiglie, generazioni di traditori per gli studenti coranici, obiettivi sensibili, fragili, immobili, non rassegnati, esposti alle ritorsioni. Il censimento non è ufficiale. Non ha un punto. Non si mette un punto alla disperazione. Ogni giorno l’elenco si amplia, si verifica, si corregge. Per aggiungere il posto a chi ha vinto la morte e si è imbarcato a Kabul. Per barrare il posto a chi a Kabul non ci è mai arrivato. Con cinismo si tratta di altri effetti collaterali di una guerra che tende la mano a un’altra guerra. Herat è un tormento per il ministero della Difesa. «Per me è un dolore professionale perché mi onoro di aver partecipato alla missione Nato e un dolore morale perché mi sento in debito nei confronti degli afghani che ci hanno aiutato. Oggi pensiamo a salvare vite umane, poi ripasseremo gli errori commessi. E soprattutto le lezioni apprese come siamo abituati a fare», dice il generale Luciano Portolano, quarta stella appuntata lo scorso luglio, militare stimato in maniera trasversale, comandante del Comando operativo di vertice interforze (Covi), di fatto il responsabile del ponte aereo fra Kabul e Roma con scalo in Kuwait che in una settimana ha recuperato 3.000 profughi. In Afghanistan la promessa di democrazia si è sbriciolata in pochi giorni e in quei pochi giorni il dramma di Herat si è dipanato per eventi di certo travolgenti, forse prevedibili, almeno arginabili. Quello che è successo, e non smette di succedere nel buio, merita un po’ di luce. 

IL PROLOGO. Quando l’8 giugno il ministro Lorenzo Guerini ha partecipato alla cerimonia dell’ammaina bandiera alla base di Herat per avviare il ritiro dall’Afghanistan dopo 54 caduti, 625 feriti, 50.000 donne e uomini impiegati, 9 miliardi di euro spesi, il Comando operativo di vertice interforze si era già preparato al rientro di oltre 500 afghani legati ai contingenti italiani e accolti a Roma per ragioni di sicurezza. Il piano a «condizioni permissive e non permissive» è rimasto in bozza tra aprile e maggio per le esitazioni americane sui tempi e sui modi di uscita. Com’è noto i ministri tedeschi e italiani erano contrari a un ritiro totale con una data fissata, che poi è la sciagurata opzione ordinata dalla Casa Bianca del presidente Joe Biden in sintonia con gli accordi di Doha (Qatar) fra i talebani e l’amministrazione Trump del febbraio 2020. Una lenta e però non inattesa imposizione per gli altri membri Nato. I comportamenti autonomi (o autarchici) di Washington a volte non consentono agli alleati di garantirsi varietà di scelte, ma da un anno e mezzo il programma afghano era palese. Un aneddoto ne chiarisce il senso: due governi e due anni fa, durante la stagione gialloverde con la prima versione di Giuseppe Conte, il ministro Elisabetta Trenta chiese allo Stato maggiore della Difesa di illustrare il piano di esfiltrazione a «condizioni non permissive», in caso di guerra improvvisa, per la vicina Libia e il lontano Afghanistan. Non c’era niente da illustrare per Herat e Kabul.

Gli americani si infuriarono alla semplice domanda perché la missione afghana non era in discussione anche se Donald Trump reiterava annunci e smentite. Con queste premesse e con i talebani in avanzata da sud, il Covi del generale Portolano ha organizzato l’operazione «Aquila», calibrata rispetto alle indicazioni dei generali di stanza a Herat. Il ministero degli Esteri ha sbrigato le pratiche burocratiche per i visti, il ministero dell’Interno ha effettuato le sue analisi e, con tre voli in giugno, 228 collaboratori afghani, appartenenti alla lista «h1», sono atterrati in Italia. L’ultimo segmento si è aggregato ai soldati italiani sbarcati a Roma il 30 di giugno. Giorno non casuale. Era la vigilia della consegna agli afghani dell’aeroporto di Herat. Gli altri 300 inseriti nella lista «h2» erano in procinto di partire da Herat per Kabul o direttamente da Kabul con voli civili dei turchi. 

L’EPILOGO. In tre settimane i talebani hanno sigillato l’aeroporto e conquistato Herat. E per la lista «h2» l’unico sbocco era Kabul o cercare riparo nei paesi confinanti come l’Iran. La maggioranza della popolazione di Herat è di origine persiana. In agosto il mondo ha guardato sgomento soltanto a Kabul, a quella massa terrorizzata, con in mezzo anche gente di Herat, gli amici degli italiani, che si è spinta contro il muro di cinta e il filo spinato dell’aeroporto in cui a ferragosto si sono asserragliati i militari Nato però non più sotto le insegne Nato, comunque gli stessi che portavano la pace e oggi se ne vanno sprovvisti. La prima contestazione, secondo le testimonianze e le ricostruzioni raccolte, che si può muovere al sistema militare italiano sulla imperfetta gestione di Herat: scaglionare ha rallentato i processi, era preferibile evacuare gli afghani con la base aperta. No, perché senza la copertura logistica, aeronautica e di intelligence degli americani, spiegano le fonti della Difesa, non era possibile prolungare la permanenza nella provincia di Herat. A ferragosto i talebani hanno issato la loro bandiera e gli occidentali si sono affrettati nel proteggere connazionali e collaboratori. Allora il Comando operativo di vertice interforze ha varato “Aquila omnia” che coinvolge 1.500 militari e 8 aerei fra C130J e KC767 con il compito di trasferire in Italia il maggior numero possibile di afghani in un contesto di estremo pericolo. Dopo la «h1» e «h2», le liste si sono allungate sino a «h5». I 500 di Herat sono diventati più di 2.500, quota parziale, e la metà risulta già in Italia. Gli altri, donne, bambini, uomini, sono in fuga per non morire verso ovest o verso est e dunque per l’aeroporto di Kabul attraverso i gironi infernali sorvegliati dai talebani armati. Gli altri, donne, bambini, uomini, conoscono un ufficiale, un tenente colonnello, un generale o proprio Portolano che li accompagnano, a distanza, alla pista per il decollo, mandano fotografie, messaggi, filmati. «Io non dimentico gli amici che mi hanno strappato dalla tragedia. Al momento sono in aeroporto e sto aspettando il volo per la Francia. Non ho parole per ringraziarla, generale. Mi sento sollevato», ha scritto un afghano di Herat a un ufficiale in servizio al ministero della Difesa. Non esiste una procedura per la salvezza. Chi sopravvive, si riprende la vita. Ogni precauzione è saltata. È un rischio, non calcolato, ma non eludibile. La confusione ha mobilitato i politici: la viceministra Marina Sereni ha segnalato i suoi afghani; la parlamentare europea Alessandra Moretti e il sindaco veneziano Luigi Brugnaro si sono contesi il merito di aver sottratto al regime la sorella di un imprenditore veneto; il presidente aggiunto del consiglio di Stato nonché già ministro degli Esteri Franco Frattini si è preoccupato degli alpinisti e poi la deputata Lia Quartapelle, le fondazioni, le associazioni. Anche la solidarietà delle relazioni va apprezzata. Chi non ne ha, di relazioni, è fregato. La seconda contestazione: non era meglio individuare in anticipo gli afghani di Herat da tutelare in uno scenario di dominio talebano. No, nessuno poteva ipotizzare, precisano dalla Difesa, un tracollo così repentino del governo riconosciuto di Ashraf Ghani o poteva calcolare i profughi «volontari» di Herat. La terza contestazione: un gruppo più folto di militari all’aeroporto di Kabul - dopo ferragosto c’erano 120 unità fra scorte ai funzionari italiani come al diplomatico Tommaso Claudi o al generale Giuseppe Faraglia con in supporto le forze speciali, compagine inferiore ai tedeschi, ai francesi, agli inglesi e ovviamente agli americani - poteva svolgere azioni di recupero nella capitale o addirittura a Herat. No, non c’erano le condizioni, ribattono dalla Difesa, per vaste sortite fuori dall’aeroporto. Lo scalo di Kabul era affidato ai turchi, poi sono subentrati gli americani con gli inglesi. I militari italiani sono in un corridoio di una parte a guida americana e attraverso quella porta si sale a bordo dei C130J che fanno la spola fra la capitale afghana e Kuwait City. Per situazioni di emergenza che riguardano gli italiani, anche se i connazionali sono dentro l’aeroporto, altri corpi speciali sono a tre ore di volo. Herat è isolata. Buia. Invece gli sbagli si cominciano a vedere. 

IL POTERE. Questa fase complessa e delicata per la Difesa avviene a pochi mesi da un giro di nomine che sancirà una nuova stagione e che ha già la sua influenza. A novembre va in pensione il generale Enzo Vecciarelli, capo di Stato maggiore della Difesa proveniente dall’Aeronautica, intenzionato a segnare la sua eredità con le promozioni. Per la turnazione delle forze armate, stavolta tocca alla Marina, però l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone conclude la carriera fra un anno e perciò non potrebbe terminare l’intero mandato. Il candidato principale per la successione a Vecciarelli è il generale Pietro Serino, già capo di gabinetto dei ministri Trenta e Guerini e da febbraio capo di Stato maggiore dell’Esercito. E di conseguenza per il ruolo di Serino il ballottaggio sarebbe fra il generale Portolano e il generale Figliuolo: il primo ha il consenso giusto e l’esperienza adatta, il secondo, commissario di governo alla pandemia, non può gareggiare. Oltre allo Stato maggiore della Difesa e allo Stato maggiore dell’Esercito, a novembre lasciano il generale Enzo Rosso, capo di Stato maggiore dell’Aeronautica e il generale Niccolò Falsaperna, segretario generale della Difesa. Le «lezioni apprese» di Herat si tengono ora e saranno preziose per l’autunno.

Il gioco dei traduttori sulle truppe statunitensi in Afghanistan: i talebani promettono la decapitazione. Aldobrandino Golino il 25 Luglio 2021 su lameziainstrada.com. I militanti talebani che entrano nella città di confine di Jalalabad sono la chiave per accedere al Khyber Pass in Pakistan. Europa Press. Una parola più o meno dalla parte del traduttore si riferirà alla morte di un giornalista di guerra o di un soldato. Trovare un traduttore intelligente con una buona padronanza dell’inglese È uno dei primi e più difficili compiti da svolgere per qualsiasi straniero in una situazione di conflitto. Ciò è particolarmente vero per i giornalisti e le truppe di occupazione che si fanno strada e fanno affidamento su queste premesse per muoversi in sicurezza. I traduttori sono essenziali. Sono anche primari Rifiuti non appena lasci il posto. Sta succedendo ora in Afghanistan, è successo prima in Iraq o in Vietnam. I traduttori passano dall’essere lavoratori che guadagnano un po’ più di dollari rispetto agli altri coetanei Esuli, apostati e collaboratori Meritano solo la morte. Questo è quello che è successo questa settimana Sohail Pardas, un ragazzo afgano di 32 anni Quella Ha servito per 18 mesi come traduttore per le forze statunitensi. Era già stato trovato dai talebani e gli avevano detto che lo avrebbero ucciso. Disattento è andato con sua sorella a festeggiare la fine del Ramadan. Lo hanno fermato a un posto di blocco talebano alla periferia di Kabul, gli hanno sparato con la macchina e lo hanno trascinato fuori, ferendolo. Quando lo riconobbero, Gli tagliarono la testa con una spada. Non ce ne sono, secondo l’organizzazione di sinistra 18.000 traduttori In vista della fine del ritiro delle truppe a settembre, Pardes dovrebbe accelerare il rilascio di visti speciali di immigrazione (SIV) da parte dei collaboratori e dell’ambasciata degli Stati Uniti nella stessa situazione. A gennaio, il presidente Joe Biden ha ordinato la fine della guerra più lunga della storia degli Stati Uniti. Quasi tutti i soldati e i paramilitari hanno già lasciato l’Afghanistan I talebani hanno continuato ad avanzare Controlla più della metà dei territori e il 90% dei confini. I servizi di intelligence occidentali ritengono che il governo democratico afghano di Kabul cadrà entro sei mesi dalla partenza delle truppe straniere. La situazione si estende a tutte le truppe Nato che si sono ritirate dall’Afghanistan o lo stanno facendo. Secondo il Ministero della Difesa tedesco, Le domande di visto di 471 lavoratori locali sono state accettate con 1.900 familiari. “Il 95% di loro otterrà i documenti di cui hanno bisogno per viaggiare in Germania”, ha detto alla presenza di Panteswer in Afghanistan. Nelle ultime settimane, I tedeschi affrettarono la ritirata Dopo che i suoi omologhi americani hanno lasciato la base strategica di Bakram, si sono seduti in un luogo chiamato Camp Marmal, senza alcuna preoccupazione per la sicurezza nella terza città più popolosa del paese, Masar-i-Sharif. I talebani stanno entrando. Mercoledì scorso, un militante talebano solitario che indossava un turbante nero è stato trovato nella parte occidentale della città La polizia e tutti gli ufficiali locali sono stati costretti a fuggire senza combattere. I tedeschi sono riusciti solo a mettere in sicurezza il loro sito e non hanno permesso a nessuno dei lavoratori locali che vi lavoravano di entrare. Molti distretti della provincia intorno a Masar-e-Sharif sono già sotto il controllo dei talebani. La via di terra per Kabul è molto pericolosa. L’ultimo aereo da trasporto tedesco A400M è decollato da Camp Marvel due settimane fa. Anche la pietra commemorativa da 27 tonnellate per i giocatori di droni, elicotteri, munizioni e bende caduti è già tornata in Germania. Il 22.500 litri di birra, vino e champagne I soldati non hanno bevuto. Ma 400 locali che hanno prestato servizio negli ultimi 12 anni fornendo, pulendo e traducendo truppe. Questo è il caso esposto dal quotidiano Der Spiegel, 49 anni, Abdul Raouf Nazari, che ha guidato le truppe tedesche attraverso le strette strade del mercato di Mazar-i-Sharif e dei villaggi deserti circostanti, ha lasciato cadere una lettera di ringraziamento per i suoi servizi. “Mi uccideranno. Non ho modo di sopravvivere in Afghanistan” Ha detto a un giornalista di un giornale tedesco. Il mese scorso, alcune ONG, guidate dall’International Refugee Assistance Program e guidate da Oxfam, UNICEF e Amnesty International, hanno rilasciato una dichiarazione congiunta chiedendo aiuto per i lavoratori locali. “In fase di ritiro, Gli Stati membri della NATO devono agire con urgenza per garantire la sicurezza dei cittadini afghani passati e presenti. Il tempo stringe. “Il tempo, ovviamente, non è dalla tua parte. Il processo burocratico per il rilascio dei visti e l’espulsione fisica delle persone di solito dura fino a nove mesi”. Quel tempo non è più possibile “, affermano le ONG. Nel 2014 la maggior parte delle potenze straniere si è ritirata dal Paese e il resto è stato trasformato da ruolo di guerra a consulente. Da allora, Più di 26.000 afgani e le loro famiglie hanno cercato rifugio negli Stati Uniti. Ma ci sono almeno 18.000 persone in Afghanistan che hanno lavorato con gli americani. Inoltre, con le loro famiglie, si stima che saranno necessari circa 70.000 visti, che verranno rilasciati tra qualche giorno in più. Nessuno dice no al gruppo di sinistra Sono già stati implementati più di 300 traduttori Per aver prestato servizio con le forze statunitensi.

La caduta di Saigon nel 1975 e l’esodo caotico dei civili che lavoravano all’ambasciata americana. Una situazione simile si è verificata in Iraq. Servizio di immigrazione degli Stati Uniti Rilasciato 20.993 visti a civili iracheni che lavorano nei siti statunitensi In quel paese. 200.000 sono ancora in lavorazione. Un gruppo di questi lavoratori è già in un campo profughi sull’isola statunitense di Guam. Questo è lo stesso luogo in cui migliaia di vietnamiti hanno trascorso molti anni collaborando con le truppe statunitensi quando si ritirarono da Saigon nel 1973. Il Pentagono ha pianificato di ritirare truppe, carri armati e spie dalle operazioni in ogni conflitto nell’ultimo secolo, ma L’amicizia che rimase dopo la partenza fallì miseramente a proteggere il pubblico. A Saigon e nel Laos, appena usciti, iniziarono le atrocità. Milioni di persone morirono nel Vietnam del Sud, nei campi di lavoro o sulle navi dei rifugiati che si riversarono nel Mar Cinese Meridionale. In Laos, membri della tribù Hmong hanno sostenuto l’intervento degli Stati Uniti Sono stati massacrati dai guerriglieri Viet Cong. Infine, la tragedia di coloro che hanno cercato di fuggire su esili barche e il gran numero di americani, bambini lasciati dai militari, ha costretto il Congresso a intervenire, emanando leggi che ordinavano di far volare le deportazioni indonesiane nei campi di reinsediamento di Guam. Concesso speciale status di immigrato ai discendenti vietnamiti di soldati americani. “Abbiamo preso più di 200.000 persone con visti americani: c’era un forte senso di obbligo morale”, ha spiegato Becca Heller, direttrice del Wars Refugee Assistance Program, un gruppo di giovani e influenti avvocati che intervengono a favore dei deportati politici. . “Ha creato un modo per le persone che non possono ottenere visti regolari, ma per le quali abbiamo un obbligo umanitario. Questo è stato fatto male in Vietnam e dobbiamo fare meglio in Afghanistan e Iraq”. Concludo questa nota il ricordo di Alì, Sono stato il mio primo traduttore in Afghanistan poco dopo la caduta dei talebani nel novembre-dicembre 2001. Studente di medicina presso l’Università di Kabul Autodidatta con un inglese eccellente e film di Hollywood guardati di nascosto. Lavorava con me e altri giornalisti per 100 dollari al giorno, una fortuna in termini afgani. Quando ne ebbe abbastanza, andò a Londra per conseguire un master in pediatria. Non l’ho più sentito.

Aldobrandino Golino. “Studente di social media. Appassionato di viaggi. Fanatico del cibo. Giocatore pluripremiato. Studente freelance. Introverso professionista.”

Flaminia Savelli per “il Messaggero” il 17 agosto 2021. «I talebani stanno cercando i nostri colleghi casa per casa. In migliaia stanno rischiando la vita. La situazione negli ospedali è gravissima». Parla con le lacrime agli occhi Arif Oryakhail, consulente tecnico per la salute pubblica dell'Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo del ministero degli Esteri. È anche il primo medico afghano a toccare il suolo italiano, ieri alle 14.30 a Fiumicino. Stravolto, dopo la fuga da Kabul e un viaggio di oltre 12 ore a bordo di un aereo dell'Aeronautica Militare. Un volo organizzato per il rimpatrio delle prime 74 persone tra diplomatici ed ex collaboratori afghani recuperati nell'operazione Aquila omnia. Le parole del medico Oryakhail spiegano il dramma e il caos che si sono scatenati nel Paese dopo che i talebani hanno annunciato in Afghanistan la rinascita dell'Emirato Islamico. Poi il dolore diventa rabbia: «Ci sentiamo traditi. I nostri collaboratori hanno creduto in noi e ora sono abbandonati e rischiano a vita - racconta il dottore rifugiato che ha collaborato a progetti sanitari - Abbiamo lasciato collaboratori a Kabul e non sappiamo ora come aiutarli, come dobbiamo fare. Donne che non possono muoversi». Pochi istanti dopo a uscire dal Terminal 5 è Giovanni Grandi, il direttore dell'Agenzia italiana per la cooperazione: «Mi è arrivato l'ordine di evacuazione, ho avuto solo il tempo di raccogliere pochi oggetti personali e affidarmi ai militari che ci hanno scortati. Sono state ore difficili - dice - ci hanno prima trasferiti nell'aeroporto militare e poi da lì, abbiamo dovuto aspettare ancora prima di poter rientrare. Sono state ore interminabili. La situazione che abbiamo lasciato - dice tra le lacrime Grandi - è drammatica». Eppure ne è certo: «Il nostro lavoro non è finito. Continueremo a lavorare per l'Afghanistan da qui». Appena qualche istante e il direttore Grandi abbraccia Oryakhail: si stringono, piangono. «Ce l'abbiamo fatta» dicono prima di salutarsi. Tra i primi ad arrivare a Roma c'è anche Domenico Fantoni, esperto di logistica e sicurezza sul lavoro. Era in Afghanistan dal 2006: «Una parte del mio cuore è rimasta lì accanto ai nostri collaboratori. Sono rimaste persone che confidavano in noi e sperano di poter arrivare in Italia. È stata una evoluzione rapida e siamo ancora sconvolti» conferma Fantoni. 

LE FAMIGLIE «Non potevo aspettare, volevo vedere con i miei occhi che stava bene», Antonietta è impaziente mentre tiene per mano la figlia. È la moglie di un diplomatico a bordo dell'aereo militare appena atterrato. Aspetta dietro il cordone della sicurezza organizzato al Terminal con decine di agenti della polizia e militari in divisa. Il racconto delle ultime ore vissute a Kabul, prima del volo, riporta immagini di un paese sprofondato nei disordini e nel caos: «Ci siamo parlati appena è arrivato all'aeroporto militare - spiega - solo lì si è sentito al sicuro. Durante il tragitto, non appena le persone in strada vedevano la Jeep si lanciavano sopra. Tentavano di fermarla, di salire. Cercavano anche loro di scappare via. Mi ha detto che è stato terribile non poterli aiutare, non poter far nulla per tutte quelle persone ora destinate all'incertezza». Si commuove Antonietta, poi prosegue: «Era preoccupato perché la situazione era ormai irreversibile. L'avanzata dei talebani è stata veloce, anche mio marito me lo ha ripetuto al telefono decine di volte. Non si rassegna a questo epilogo». 

AQUILA OMNIA Per i 74 passeggeri a bordo KC 767, una volta a Roma, è scatta la profilassi anti Covid. Dopo il tampone eseguito dalle squadre Uscar, sono stati accompagnati con i pullman dell'Esercito. I 54 diplomatici italiani, se non residenti a Roma, sono stati scortati alla Cecchignola per trascorrere la quarantena prima della destinazione definitiva. I venti passeggeri afghani invece sono stati trasferiti in un centro militare a Roccaraso, in Abruzzo. Anche loro in attesa della destinazione finale. 

Afghanistan, la fuga disperata dai talebani: «Per uno che riusciamo a portarne via troppi resteranno qui». Gli aerei diplomatici che hanno abbandonato la capitale sono stati per molti l’ultima speranza. Ma nella città che è stata consegnata senza resistenza, la gente urla agli Occidentali: “Ci avete traditi”. Francesca Mannocchi su L'Espresso il 17 agosto 2021. Una massa indistinta che si muove caotica intorno all'aeroporto, le auto bloccano le strade, non ci sono più i soldati dell'esercito nazionale. I talebani sono in città, è saltata la linea di comando. Ognuno, come può, tenta di mettersi in salvo. I ministeri si svuotano, così come gli uffici di polizia. I cittadini di Kabul che fino a poche ora prima, con i talebani a Wardak, ultima porta della capitale, ascoltavano con apprensione le notizie per capire quando si sarebbero avvicinati, si sono svegliati con i talebani davanti alla porta di casa. Pronti a dichiarare vittoria. È in quel momento che la libertà di andare via, a Kabul, ha preso due forme. La prima quella delle evacuazioni delle sedi diplomatiche, dei ponti aerei e dei mezzi militari pronti all'aeroporto Hamid Karzai per portare via i diplomatici, staff consolare e civili stranieri, e la seconda quella degli afghani, intrappolati, all'assalto dell'unica via d'uscita rimasta nel paese. Migliaia di uomini e donne, bambini aggrappati ai cancelli, gridavano disperati, una reazione collettiva, incontrollata, mentre i talebani si stavano insediando a Kabul quasi senza incontrare resistenza. La paura degli afghani era diventata rabbia. Assalti ai convogli blindati, lanci di pietre, e urla: "Vergognatevi". E urla più forti: "Dovete portarci via". È in questo clima che l'ambasciata italiana è stata evacuata, il 15 agosto. Troppo pericoloso per il convoglio blindato il tragitto via terra, si decide per il ponte aereo dalla sede diplomatica all'aeroporto. Dalle ricetrasmittenti una voce dice: "Si sta mettendo male". Si stava mettendo male su tutti i fronti. I talebani erano ormai nelle strade, gli afghani sapevano che l'aeroporto era rimasta l'unica via d'uscita dal paese. Tutti avevano capito che quella che si stava consumando non fosse un'entrata pacifica e senza spargimento di sangue come dichiarato dal portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, un'entrata verso la formazione di un governo di transizione.

Afghanistan, il terrore di chi non può scappare: «Noi che abbiamo collaborato con gli occidentali, ora siamo dei condannati a morte». Francesca Mannocchi su La Repubblica il 16 agosto 2021. Gli omicidi di interpreti che hanno lavorato con gli statunitensi erano all’ordine del giorno anche rima della caduta di Kabul. E ora non potrà che peggiorare. «Le truppe occidentali sono arrivate qui promettendoci stabilità e ci hanno lasciato nelle mani degli assassini e dei terroristi che avevano dichiarato di combattere». Il vicolo è stretto, i bambini agli angoli delle strade giocano con dei pezzi di legno muovendoli come spade. Non ci sono vincitori nella loro sfida, come non ci sono vincitori, oggi, in Afghanistan. Solo vittime che si contano, una dietro l'altra: civili intrappolati nelle battaglie, attivisti, giornalisti, e interpreti. Chiunque rappresenti la collaborazione con forze considerate occupanti o nemiche, chiunque rappresenti un diritto che contraddice l'interpretazione dell'Islam dei talebani. A Jalalabad sono le prime ore del pomeriggio, l'aria è rarefatta, le strade quando si trasformano in vicoli sembrano tacere, ma rumoreggiano. Tutti vedono tutti. Tutti possono tradire tutti. E tutti possono essere traditi. È in uno di questi vicoli che il due agosto è stato ucciso Hamdullah Hamdard. Aveva lavorato come interprete per tre anni con le forze Nato in Afghanistan, dal 2008 al 2011. Da tempo provava a chiedere il visto per gli Stati Uniti ma le sue richieste sono state sempre respinte. Due settimane fa è stato ucciso davanti casa sua, di fronte alla sua famiglia, la moglie e i tre figli. Il giorno dopo l'assassinio, gli uomini del quartiere entravano alla spicciolata in casa sua. Tra di loro anche i fratelli di Hamdullah Hamdard. «Hamdullah era fiero del suo lavoro, parlava sempre dell'addestramento a cui aveva partecipato a Logar, dei combattimenti contro i talebani, delle missioni per addestrare le forze afgane, l'ANP e l'ANA - la polizia e l'esercito. Viaggiava con le truppe, incontrava governatori di provincia, governatori dei distretti, la popolazione locale. Mi diceva: ho imparato più sul nostro Paese lavorando con gli americani che attraversandolo da solo». A parlare è Wesequllah Hamdard, il fratello più giovane di Hamdullah. L'ultima cosa che ricorda di suo fratello è un'immagine del giorno che ha preceduto la sua morte. Hamdullah l'aveva svegliato, voleva passeggiare, gli ha chiesto di andare insieme in città. Hanno camminato venticinque minuti fianco a fianco. Uno diretto in ufficio e uno all'università. Hanno parlato della situazione nel Paese, dei civili sfollati dalle battaglie, eppure nessuno dei due ha osato nominare le minacce che gravavano sulle loro vite. Il timore di essere considerati collaborazionisti degli infedeli. Poi in piazza si sono divisi, dandosi appuntamento per la cena con le famiglie, quella sera. Poche ore dopo Wesequllah si stava vestendo per andare alla bottega a comprare il pane quando ha sentito uno sparo, uno dei nipoti ha cominciato a urlare: hanno ucciso papà. Wesequllah è corso e ha visto il fratello sulla strada che porta alla moschea, morto. Ha preso la pistola, è andato tra i vicoli cercando i suoi assassini. Invano. La voce è rotta dal pianto del giorno prima. Anche Wesequllah è stato un interprete, per lui la morte del fratello rappresenta più di un lutto. È un avvertimento. Significa: sappiamo dove siete e possiamo uccidervi quando vogliamo. Per questo ora Wesequllah non fa un passo senza il suo fucile. Ha lavorato nella provincia di Helmand per tre anni, dal 2011 al 2014. Ora studia scienze politiche all'università al-Falah. Il giorno del funerale di suo fratello avrebbe dovuto recarsi all'università per sostenere un esame. Ma non si muove più di casa. Gli Stati Uniti hanno promesso asilo ai propri collaboratori, compresi traduttori e interpreti ma l'iter amministrativo del programma SIV è lunghissimo. Finora sono stati rilasciati 2500 visti e sono circa 18 mila gli afghani e le loro famiglie in attesa di una risposta. I talebani lo scorso giugno avevano invitato gli interpreti afgani che hanno collaborato con le forze internazionali a "pentirsi" e a restare nel Paese, assicurando che non avrebbero corso alcun pericolo: «Un numero significativo di afgani si è smarrito negli ultimi 20 anni di occupazione e ha lavorato con le forze straniere come interpreti, guardie o altro, e ora che le forze straniere si stanno ritirando, hanno paura e cercano di lasciare il paese. L'Emirato islamico vuole dire loro che dovrebbero esprimere rimorso per le loro azioni passate e non impegnarsi più in tali attività in futuro, che equivalgono a un tradimento contro l'Islam e il loro Paese. L'Emirato Islamico li chiama a tornare a una vita normale e a servire il loro Paese». Invece negli ultimi mesi gli omicidi mirati a danno di collaboratori delle forze straniere sono all'ordine del giorno, come quello di Sohail Pardis, anche lui era un ex interprete delle truppe statunitensi. Lo scorso luglio mentre guidava per andare a prendere sua sorella nella provincia di Khost per le celebrazioni dell'Eid che segnano la fine del Ramadan, è stato fermato ad un posto di blocco da un gruppo di talebani lungo la strada del Kabul.

I talebani l'hanno trascinato fuori dal veicolo e l'hanno decapitato. Il giorno del funerale di Hamdullah Hamdard i suoi fratelli si sono seduti in una stanza per pregare insieme, uno di loro è un imam. L'unico a non imbracciare un'arma. Wesequllah invece dall'arma non si separa più. Ha smesso di dormire quando le truppe americane hanno annunciato il loro ritiro e i combattimenti sono ripresi: "Le truppe occidentali sono arrivate qui promettendoci stabilità e ci hanno lasciato nelle mani degli assassini e dei terroristi che avevano dichiarato di combattere. Questo è un tradimento. E allo stesso tempo una condanna a morte per noi. Il nostro governo non ha modo di resistere all'offensiva talebana, e non vincerà questa guerra, solo loro possono salvarci, evacuandoci, ce lo devono". Prima di uscire dalla stanza afferra il suo fucile, lo sistema sulla spalla dicendo: «Non credo che ci rivedremo, sono un prigioniero, o peggio, un condannato a morte».

«Ho fatto tanto per loro. E loro non hanno fatto niente per me». Tre anni di lavoro, una medaglia al valore e una richiesta di visto rigettata. L'Afghanistan nelle parole di un giovane interprete che ha lavorato tre anni con le truppe statunitensi. Il racconto raccolto da Francesca Mannocchi da Kabul. L'Espresso il 13 agosto 2021. Mahmoud Omid ha 31 anni, vive a Kabul. Fino all’anno scorso era un interprete delle truppe statunitensi in Afghanistan. Quando gli chiedi di descriversi dice: Sono nato e cresciuto in un paese in guerra, e probabilmente morirò in un paese in guerra. In casa di Mahmoud non c’è elettricità, arriva solo la sera e non sempre. Vive nella parte settentrionale di Kabul, in una antica casa della sua famiglia. Sua madre non indossa il velo, ha lunghi capelli castani, stretti in una coda intorno al viso lungo, marcato dalle rughe. Era una dipendente statale prima che il regime dei talebani le impedisse di continuare a lavorare negli anni Novanta. «Viviamo al buio – dice – come è buio il nostro futuro.» Mahmoud Omid ha lavorato per tre anni con le truppe americane, era il ponte tra una cultura lontana e la cultura afgana, un mediatore più che un semplice traduttore. La sua base di lavoro era nel New Kabul Compound nella capitale, ma ha preso parte ad alcune missioni operative in altre province come Kandahar e Helmand. «Addestravo, consigliavo e assistevo le forze di sicurezza afghane mediando con le truppe americane» dice Mahmoud «mi definirei un consigliere culturale perché, vedi, la maggior parte degli americani quando sono venuti in Afghanistan non sapevano nulla della nostra cultura, non sapevano come salutare una donna senza porgere la mano, e noi gli insegnavamo che si porta la mano al petto. Non sapevano muoversi in una tradizione che hanno dimostrato di non saper rispettare.». «Cosa hai imparato dalla convivenza di culture così diverse?» «Dagli americani ho imparato cosa sia la libertà, ho imparato a credere nel valore di questa parola. Ora non ci credo più».

Operazione Enduring Freedom era il nome utilizzato dal governo statunitense per designare le operazioni militari avviate dopo gli attentati dell’11 settembre.

Libertà duratura. Quando si è unito all’esercito americano come interprete, Mahmoud desiderava contribuire alla libertà della sua gente, portare un cambiamento al suo Paese. «Invece sono passati vent’anni, i talebani si stanno riprendendo il Paese, l’Isis ancora minaccia il Paese, e i diritti sono di una ridotta elite. Sono arrivati promettendo di vincere la guerra al terrore e portare in Afghanistan una libertà duratura, oggi possiamo dichiararlo un totale fallimento». L’ultima missione di Mahmoud Omid con le truppe statunitensi, la divisione Kabul1, è stata un anno fa. Mostra i suoi amici, soldati americani con cui ha lavorato, tornati a casa in Okhlaoma, in North Carolina. Mahmoud ricorda bene il giorno in cui le truppe con cui lavorava gli hanno detto che se ne sarebbero andati. Stavano mangiando all’interno della base, dalla tv accesa la cronaca dei colloqui tra americani e talebani in corso a Doha, in Qatar. Il capitano della squadra gli ha detto: “Amico presto ce ne andremo, devi stare attento al tuo futuro.” Mahmoud ricorda di aver continuato per giorni ad ascoltare i tg scettico. La pace coi talebani per fermare la guerra?

«Trump aveva fretta di firmare gli accordi e la fretta ha rafforzato i talebani, col risultato che oggi in Afghanistan c’è una guerra piu’ brutale delle altre. Quando è entrato in carica Biden e ha confermato il ritiro senza condizioni i soldati americani alla base mi hanno detto: Fratello, è ora che lasci il paese». Da quel momento è stato un lento smobilitare culminato nell’abbandono della grande base di Bagram all’inizio dello scorso luglio, senza avvisare nessuno, senza passare le consegne alle forze di sicurezza afgane. Entrati senza chiedere permesso vent’anni fa e andati via, come ladri. Alla fine del 2020 Mahmoud ha richiesto il visto SIV, il visto speciale di immigrazione degli Stati Uniti ma quest’anno, il 29 marzo, ha ricevuto una lettera di diniego dall’ambasciata americana.

Domanda rigettata. Ha fatto appello, dopo aver ricevuto numerose lettere di raccomandazione dai soldati statunitensi che hanno lavorato con lui. L’appello è in fase di revisione ma Mahmoud è certo che sarà di nuovo rigettato. «Sono andato all’ambasciata americana a Kabul, come gli altri interpreti. Ci sottopongono al questionario con la macchina della verità, il poligrafo, collegano la mano destra alla macchina, controllano il battito cardiaco. Sei nervoso, mi hanno detto, il tuo battito è irregolare. Sono nervoso? Certo che sono nervoso. Vivo a Kabul, da quando sono nato non ho vissuto altro che guerra. I talebani hanno giustiziato parte della mia famiglia nel nostro villaggio di origine, mia madre è un’attivista e rischia la vita, io sono un’ex interprete degli americani e rischio la vita». Mahmoud aveva superato tre volte la prova del poligrafo all’ambasciata americana, l’ultima, invece, è andata male. «Mi hanno rifiutato perché sono troppo nervoso e il mio battito è irregolare, così hanno scritto, e questo secondo i loro standard fa di me una potenziale minaccia alla sicurezza nazionale americana». Sono già numerosi gli interpreti ed ex collaboratori delle truppe americane che sono stati uccisi nelle ultime settimane, un amico di Mahmoud è stato catturato, torturato e decapitato dai talebani dieci giorni fa: «per loro non conta se hai lavorato per i paesi Nato e le truppe statunitensi un’ora, un giorno o dieci anni, se lo hai fatto sei sulla lista nera degli infedeli che vanno eliminati». Mahmoud non è solo, è uno dei circa 20.000 afgani, insieme a più di 50.000 dei loro familiari più stretti, che hanno chiesto di trasferirsi negli Stati Uniti attraverso il programma SIV, creato dal Congresso come un modo rapido per portare in sicurezza interpreti e appaltatori afgani negli Stati Uniti, ma i severi requisiti di controllo hanno intrappolato migliaia di persone per anni in un limbo burocratico che li espone al rischio di ritorsioni, e alla morte. Oggi Mahmoud vive da prigioniero, resta sempre in casa, non esce, non vede un amico, non riceve nessuno e non si fida di nessuno. La sua vita è lunga tre decenni, la guerra in Afghanistan quaranta, praticamente ininterrotti. I suoi ricordi, dice, sono solo legati al conflitto. Le libertà di cui sua madre è stata privata, i familiari uccisi a Baghlam per aver combattuto i talebani, nel mezzo una generazione di giovani cresciuti pensando che negli ultimi venti anni le cose sarebbero cambiate. Ma sono cambiate solo per un èlite, mentre il resto del paese restava fermo dov’era, progetti di pace lasciati a metà, con una cosa sola destinata a durare in questo paese: la guerra. «Noi siamo i lasciati indietro. Ognuno di noi, dimenticato e rigettato è un tradimento. Hanno usato la nostra tenacia, la nostra conoscenza, la nostra fiducia e ci hanno abbandonato».

Nel 2019 Mahmoud ha partecipato a una missione delicata in una delle 11 divisioni di Kabul. Le forze statunitensi e quelle speciali afghane dovevano incontrare un gruppo di anziani di un villaggio nella provincia di Nangarhar, est del paese. Quando uno degli anziani del distretto si è rifiutato di stringergli la mano chiamandolo ‘infedele’ perché lavorava con gli americani, le truppe gli hanno chiesto di trovare il modo di ottenere il suo numero di telefono per metterlo sotto controllo. «Mi ha detto: non ti stringo la mano, se lo facessi dovrei lavarla migliaia di volte» ricorda Mahmoud, che ha ottenuto il suo numero consegnandolo agli agenti della CIA che lavoravano nella base. L’uomo era un membro della Rete Haqqani, gruppo alleato di al Qaeda e responsabile di alcuni degli attacchi terroristici più gravi compiuti in Afghanistan negli ultimi anni. Dalle conversazioni intercettate sul suo telefono con i gruppi in Pakistan, gli agenti americani hanno trovato tracce di un piano per attaccare i comandanti delle brigate delle forze speciali afghane e di quelle statunitensi. «Il giorno che lo hanno arrestato gli americani mi hanno abbracciato, mi hanno baciato, mi hanno detto: “Da ora in poi tu non sei solo il nostro interprete, sei nostro fratello. Perché hai salvato la vita di tutta la squadra” e mi hanno detto che sarei stato loro fratello qui e negli Stati Uniti, non solo un fratello ma il fratello di tutta la squadra. E mi hanno dato una medaglia, sai?» Mahmoud la tira fuori dal cassetto, lucida, insieme alla targa, omaggio delle truppe statunitensi. Legge a voce alta: “Il dipartimento dell’esercito e il certificato dei risultati conseguito a Mahmoud Omid. Un riconoscimento per il tuo comportamento eccezionale in supporto alla squadra 2211. Il tuo supporto è stato cruciale e ha giocato un ruolo importante per il successo della missione dei nostri consiglieri, più di un semplice interprete, ci hai aiutato a capire e a rimanere vigili e vivi. Non possiamo ringraziarti abbastanza per il tuo tempo e cosa più importante per la tua amicizia.” Amicizia, amicizia, ripete. “Cosa significa la parola amicizia per te oggi, Mahmoud?” «Non lo so più. So solo che ho fatto tanto per loro. E loro non hanno fatto niente per me».

Caro presidente adesso salviamo i nostri interpreti. Fausto Biloslavo il 14 Agosto 2021 su Il Giornale. Caro Presidente Draghi, ci appelliamo a lei che è persona seria e pragmatica a nome di tutti i nostri ex collaboratori in Afghanistan che rischiano di rimanere indietro, di non venire portati in salvo in Italia, nonostante le promesse. Caro Presidente Draghi, ci appelliamo a lei che è persona seria e pragmatica a nome di tutti i nostri ex collaboratori in Afghanistan che rischiano di rimanere indietro, di non venire portati in salvo in Italia, nonostante le promesse. E di finire nelle grinfie dei talebani, che avanzano in tutto il Paese. Se anche solo a uno degli afghani, che sono stati spalla a spalla con i nostri soldati per vent'anni, capitasse qualcosa l'Italia si meriterebbe la medaglia della vergogna e del disonore. Il Giornale si è fatto paladino di questa giusta causa da mesi, voce quasi isolata nel panorama mediatico a parte qualche rara eccezione. Dopo la caduta di Herat delle ultime ore, decine di interpreti sono stati tagliati fuori e colti dalla disperazione. Molti sono scoppiati a piangere davanti a mogli e figli, che si rendono conto come il capo famiglia possa venire decapitato dai talebani in qualsiasi momento come «collaborazionista» degli occidentali e quindi «infedele». In queste ore i messaggi whatsapp che riceviamo da chi è stato anche ferito al nostro fianco sono di questo tenore: «Ci avete tradito, dimenticato, lasciato ingiustamente indietro». Il primo madornale errore della Difesa e dei vertici militari, che in alcuni casi non hanno mai sentito fischiare un proiettile vicino alla testa, è stato di prevedere gran parte dell'evacuazione dopo il ritiro del contingente. Quando il Tricolore è stato ammainato a Herat siamo riusciti a portare in salvo in Italia con l'operazione Aquila 1 appena 228 afghani, i primi collaboratori con i loro familiari. E talvolta li abbiamo accolti in sistemazioni da migranti di serie Z. Almeno sono in salvo, ma altri 389 afghani dovrebbero venire evacuati in agosto. Da oggi, viene assicurato, comincerà il rilascio dei visti e se l'aeroporto di Kabul non chiuderà per l'avanzata talebana dovrebbero imbarcarsi su voli commerciali. Anche l'ultimo dei soldati semplici sa che un'evacuazione si fa in sicurezza quando hai ancora le truppe sul terreno e non dopo. Altrimenti si rischia il caos di questi giorni con l'inarrestabile avanzata talebana. Lentezze burocratiche e nei controlli, scaricabarile fra ministeri coinvolti (Difesa, Esteri, Interno), difficoltà degli afghani di reperire i documenti, a cominciare dal passaporto, hanno lasciato nel limbo dozzine di collaboratori. L'operazione Aquila 2 con gli 81 nuclei familiari previsti (389 persone) forse andrà in porto se i talebani non arrivano prima a Kabul, ma restano ancora fuori in tanti. All'ambasciata sono arrivate ulteriori 300 richieste, molte saranno farlocche, ma altre no, a cominciare da oltre 50 interpreti in gran parte rimasti tagliati fuori a Herat. Questi disgraziati chiedono solo di sapere se sono stati accettati o meno nel piano di salvataggio. Poi sono pronti a rischiare la pelle raggiungendo con le famiglie Kabul via terra, ma con la certezza che avranno un visto umanitario per l'Italia. Dalla Difesa e dall'ambasciata non ottengono risposte. Le stime dei militari ai primi di luglio indicavano un massimo, compresi quelli già nel nostro paese, di 1.200-1.500 persone da evacuare, assieme ai familiari. Adesso si parla di 2mila. Molti non avranno diritto e possono venire stralciati, ma anche se fossero questi i numeri è un problema insormontabile dopo 20 anni di missione? Sulle nostre coste sono sbarcati 1.920 migranti, in soli tre giorni, dal 23 al 25 luglio, senza documenti e senza la minima idea di chi siano veramente, al contrario degli afghani. Li accogliamo sempre. Non possiamo fare velocemente lo stesso con gli afghani, che scappano veramente dai proiettili, approfondendo i controlli in un secondo tempo in Italia? Non c'è più tempo. Inglesi e americani mandano truppe a Kabul per l'evacuazione dei loro cittadini e dei collaboratori afghani, ma noi inviamo al massimo tre militari di supporto all'ambasciata per le pratiche. Il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha ripetutamente promesso che nessuno rimarrà indietro. Non è così e lo dimostra la caduta di Herat. Non siamo l'Italietta, ma un grande Paese, dove il Giornale invita tutti i media a battersi per salvare i collaboratori dei nostri contingenti e delle ong italiane in Afghanistan. E primo fra tutti è lei, Presidente, con i suoi ministri direttamente coinvolti, che deve evitare al nostro Paese la medaglia della vergogna e del disonore.

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sett

Terminato il ponte aereo. Afghanistan, gli Usa lasciano dopo 20 anni: ultimo volo da Kabul, Paese in mano ai talebani. Carmine Di Niro su Il Riformista il 31 Agosto 2021. Venti anni dopo, gli Stati Uniti dicono ‘addio’ all’Afghanistan e alla loro guerra più lunga. Le ultime truppe Usa hanno lasciato il Paese nella notte locale, concludendo così con un giorno di anticipo il frenetico ponte aereo finale lasciando Kabul in mano ai talebani, ritornati vittoriosi dopo una riconquista rapida del territorio dopo il sostanziale via libera arrivato dalla ‘combo’ composta dagli accordi di Doha e dall’ufficializzazione del ritiro americano. Nell’annunciare il completamento dell’evacuazione e dello sforzo bellico, il generale Frank McKenzie, capo del comando centrale degli Stati Uniti, ha affermato che gli ultimi aerei sono decollati dall’aeroporto di Kabul alle 15.29 ora di Washington o un minuto prima della mezzanotte a Kabul. Secondo quanto riferito da McKenzie sono rimasti nel Paese anche alcuni cittadini americani che volevano lasciare l’Afghanistan. Una missione, ha aggiunto McKenzie, che “ha assicurato alla giustizia Osama Bin Laden insieme a molti cospiratori di Al-Qaida”, ma che ha avuto costi disastrosi: “2.461 militari e civili americani uccisi ed oltre 20 mila feriti, inclusi sfortunatamente i 13 marines morti la scorsa settimana”. Un addio festeggiato a Kabul con l’esplosione da parte dei miliziani talebani di colpi di arma da fuoco celebrativi, a segnare la fine di 20 anni di guerra e occupazione. Il ponte aereo ha permesso, da quando i talebani sono tornati al potere due settimane fa, di trasferire fuori dal Paese circa 116mila persone. Talebani che ora, secondo quanto riporta la Bbc, hanno preso il controllo dell’aeroporto. Il portavoce  Zabihullah Mujahid ha detto ai cronisti: “Congratulazioni all’Afghanistan, questa vittoria appartiene a tutti noi. Vogliamo avere buoni rapporti con gli Stati Uniti e con il mondo”. “Nessuno potrà utilizzare l’Afghanistan per lanciare attacchi contro altri Paesi e distruggere la pace”, ha dichiarato ancora Mujahid. “Ora l’autorità è in mano agli afghani – ha proseguito – formeremo un governo islamico e garantiremo la sicurezza”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

La risoluzione a New York. Partenze in mano ai talebani e niente safe zone: fumata nera all’Onu sull’Afghanistan. Vito Califano su Il Riformista il 30 Agosto 2021. È stata approvata nel tardo pomeriggio dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a New York, il documento invocato nei giorni scorsi da Francia e Regno Unito sull’Afghanistan. La tensione nel Paese è ancora altissima, a poco più di due settimane dall’entrata dei talebani a Kabul. Fumata nera sul punto cardine della proposta: ovvero la creazione di una safe zone, una zona protetta all’interno dell’aeroporto della capitale gestita dalle stesse Nazioni Unite, da Turchia e dal Qatar. Un’area che avrebbe dovuto garantire la sicurezza per l’arrivo di beni umanitari e per la partenza delle migliaia di afghani che ancora vogliono lasciare il Paese. E invece niente. Tutto resta nelle mani dei talebani. Dai fondamentalisti – tornati al potere dopo 20 anni, dall’operazione Enduring Freedom, provocata dagli attacchi di Al Qaeda negli Stati Uniti l’11 settembre 2001 – ci si aspetta il rispetto dei diritti umani, in particolare quelli delle donne e il rifiuto del terrorismo. Vent’anni fa Kabul fu obiettivo delle operazioni perché ospitava l’organizzazione fondamentalista di Osama Bin Laden. Tredici Paesi hanno votato a favore della safe zone mentre Russia e Cina si sono astenuti. “La safe zone è molto importante – aveva spiegato il Presidente della Francia Emmanuel Macron al Journal du Dimanche – Donerebbe una cornice Onu per agire nell’urgenza, metterebbe tutti davanti alle proprie responsabilità e permetterebbe alla comunità internazionale di fare pressione sui talebani. È un progetto totalmente realizzabile, non vedo chi potrebbe opporsi alla messa in sicurezza dei progetti umanitari”. Il portavoce della presidenza russa, Dmitri Peskov, aveva anticipato che la discussione era aperta ma che avrebbe dovuto tenere conto della posizione dei talebani. “La Cina ritiene che la comunità internazionale debba rispettare la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’Afghanistan e la volontà del popolo afghano”, aveva dichiarato invece il portavoce del Ministero degli Esteri Wang Wenbin. Gli stessi talebani avevano bocciato l’idea. “La safe zone non è necessaria – aveva dichiarato il portavoce Suhail Shaheen, intervistato da FranceInfo – Siamo un Paese indipendente. Sarebbe possibile una cosa simile a Parigi o Londra?”. Espunta dunque dal testo della risoluzione la richiesta della zona protetta. Cassata. A preoccupare è la minaccia dell’Isis-Khorasan, il gruppo legato al sedicente Stato Islamico, che ha rivendicato l’attacco terroristico di giovedì 26 agosto nel quale sono morte centinaia di persone e il lancio di alcuni razzi intercettati stamattina. Oltre a condannare le operazioni del gruppo fondamentalista il documento chiede di scongiurare il ritorno dell’Afghanistan a essere una culla di terroristi, l’accesso pieno e sicuro per le operazioni umanitarie e la protezione di rifugiati e civili, l’importanza del rispetto dei diritti umani e in special modo di donne, bambini e minoranze. Si incoraggia inoltre una soluzione politica condivisa con l’inclusione delle donne e si chiede di lasciare aperto il passaggio per gli afghani che vogliono ancora lasciare il Paese. Alla vigilia del ritiro completo degli americani – sono partiti in serata da Kabul gli ultimi aerei – sarebbero ancora mezzo milione le persone che vogliono abbandonare il Paese, tra cui 300mila bambini. La Russia ha chiesto una “conferenza internazionale”, per discutere “la ripresa economica e sociale dell’Afghanistan”. La Cina ha attaccato la posizione degli Stati Uniti e degli alleati, accusandoli di aver “scaricato sul Consiglio di sicurezza e sui Paesi vicini” all’Afghanistan la responsabilità della situazione. Il rappresentante di Pechino al Consiglio di sicurezza, spiegando l’astensione della Cina alla risoluzione dell’Onu sulla crisi afghana, ha dichiarato: “La Cina ha partecipato in forma costruttiva, ma i nostri emendamenti, presentati assieme alla Russia, non sono stati accolti, purtroppo. Per questo ci siamo astenuti dal votare la risoluzione – ha aggiunto – Speriamo che si colga il fatto che i Paesi devono imparare la lezione, dopo vent’anni di occupazione in Afghanistan, e capire che ognuno deve decidere in forma autonoma il proprio governo. Questi Paesi che hanno voluto imporre la loro forza sono i responsabili di quello che è successo. Hanno lasciato uno scenario devastato e adesso vogliono scaricare la colpa al Consiglio di sicurezza e ai Paesi vicini”. Secondo quanto riferito da familiari al Washington Post, il secondo attacco degli Stati Uniti con un drone, che ha eliminato presunti kamikaze dell’Isis diretti in auto verso l’aeroporto di Kabul, avrebbe ucciso anche 10 civili afghani di una stessa famiglia, tra cui diversi bambini. Le vittime stavano uscendo da una vettura nel vialetto della loro casa quando il drone ha colpito il bersaglio. Gli Stati Uniti hanno aperto un’inchiesta. Il Pentagono non ha escluso vittime civili e ha annunciato un’indagine. Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha comunque “detto chiaramente ai suoi comandanti che non devono fermarsi davanti a niente” per “inseguire e uccidere” i membri dell’Isis, come riportato dalla portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, in un briefing con la stampa. Clarissa Ward, reporter  della CNN, ha intanto riportato che i talebani avrebbero rivelato che combattenti dell’Isis si sarebbero mischiati con i talebani a Kabul e che adesso è difficilissimo distinguerli.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Alessandro Barbera per "La Stampa" il 31 agosto 2021. Una lunga lista di richieste ai nuovi padroni dell'Afghanistan e nessun accordo sulla zona protetta per chi vuole lasciare il Paese. L'iniziativa di Gran Bretagna e Francia al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite è stata un mezzo fallimento. Mosca e Pechino - entrambi membri permanenti - stanno alzando il prezzo con il resto della comunità internazionale. Ecco come l'ambasciatore cinese annuncia l'astensione sulla risoluzione di Pechino e Mosca: «La situazione in Afghanistan è cambiata drammaticamente e qualsiasi misura del Consiglio deve puntare a ridurre, non aumentare il conflitto. Purtroppo gli emendamenti presentati insieme alla Russia non sono passati». In alcuni passaggi la bozza trattata dagli ambasciatori è piuttosto generica. Si chiede «il sostegno dei diritti umani, compresi quelli delle donne, dei bambini e delle minoranze». L'Onu chiede di «rafforzare gli sforzi per fornire assistenza umanitaria» all'Afghanistan e di «permettere un accesso pieno» a tutte le organizzazioni umanitarie. Il tono si fa severo solo sulla questione terrorismo: il Consiglio di sicurezza «esige dai taleban che il territorio afghano non venga utilizzato per minacciare o attaccare alcun Paese, per ospitare o addestrare terroristi, per pianificare o finanziare atti terroristici». Nella risoluzione non c'è invece alcun riferimento alla «safe zone» annunciata da Emmanuel Macron domenica. Il Consiglio chiede «la rapida e sicura riapertura dell'aeroporto di Kabul» e che i talebani aderiscano agli impegni presi «affinché gli afghani possano uscire dal Paese in qualunque momento». Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio non sembrava granché convinto della proposta francese: «Non possiamo fare corridoi umanitari dall'Afghanistan perché dovremmo dare le liste delle persone ai taleban». Semmai dobbiamo lavorare «per permettere le evacuazioni nei Paesi vicini, in Pakistan, Iran, Uzbekistan, Tagikistan». Ieri notte è partito l'ultimo aereo militare americano, eppure dentro i confini dell'Afghanistan restano migliaia fra occidentali e collaboratori afghani. I taleban sembrano intenzionati a evitare l'isolamento internazionale, ma di qui in poi tutto dipenderà dall'atteggiamento di Pechino e di Mosca verso i taleban e l'Occidente. La proposta di «safe zone» all'aeroporto di Kabul fatta da Macron prevedeva di affidare la gestione dello scalo a Turchia e Qatar. Mosca aveva condizionato il sì a due condizioni, entrambe indigeste a Washington e agli altri alleati occidentali, a partire dall'Italia.

La prima: riattivare gli aiuti congelati da Fondo monetario, Banca mondiale e Federal Reserve. Spiegava ieri l'inviato russo per l'Afghanistan Zamir Kabulov: «Se i nostri colleghi occidentali hanno a cuore il futuro del popolo afghano non dovrebbero creare ulteriori problemi». La sola Federal Reserve, di fatto la cassaforte della banca centrale afghana negli ultimi vent' anni, controlla l'80 per cento delle riserve monetarie.

La seconda condizione russa è invece più politica: lanciare una conferenza internazionale sull'Afghanistan a cui invitare tutti i Paesi confinanti, ovvero le tre repubbliche ex sovietiche (Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan), il Pakistan e l'Iran. Qui c'è un problema per Washington, che negli anni della presidenza Trump ha rotto ogni rapporto con Teheran, e sancirebbe la fine dell'iniziativa italiana per convocare un G20 straordinario a settembre.

La proposta di Mario Draghi è sempre più in bilico. Nei contatti diplomatici di questi giorni Palazzo Chigi ha fatto sapere di essere disponibile ad allargare il tavolo a qualche membro non permanente dell'organismo come il Pakistan, ma non può spingersi fino a invitare il regime degli ayatollah.

Washington, dopo aver fatto irritare pressoché tutti, ora ha ripreso l'iniziativa diplomatica. Il segretario di Stato Antony Blinken ha già convocato una riunione coi colleghi del G7 allargata a Turchia e Qatar. Col passare dei giorni l'emirato emerge come il migliore ponte coi taleban: non è un caso se l'inviato italiano per l'Afghanistan si è sistemato nell'ambasciata di Doha. 

26 anni fa uno dei più atroci crimini di guerra. Massacro di Srebrenica, cosa è successo e perché l’Onu ha fallito. Emma Bonino su Il Riformista il 14 Luglio 2021. Gli anni scorsi, nella ricorrenza della “Giornata in Memoria di Srebrenica”, non abbiamo mai dimenticato di ricordare che al Tribunale dell’Aja erano stati consegnati – non senza difficoltà – i mandanti del massacro dell’11 luglio 1995, Slobodan Milosevic e Radovan Karadzic e Ratko Mladic. Ricordo benissimo quella data, come se fosse ieri. Da poco Commissario Ue per gli Aiuti Umanitari, quel giorno ero di rientro a Strasburgo da una missione nella regione dei Grandi Laghi in Africa e stavo facendo la mia relazione al Parlamento europeo. Quando abbiamo saputo che migliaia e migliaia di persone erano in cammino verso Tuzla, abbiamo deciso di andare subito a vedere cosa stesse succedendo. In piena guerra nella ex Jugoslavia, e con le milizie serbe di Mladic che da tempo avevano sotto tiro le enclave serbo-bosniache musulmane, l’Onu aveva allestito sei “safe area”, zone di sicurezza presidiate dai Caschi Blu che però non avevano il mandato atto a proteggere la popolazione. All’epoca, ancora si credeva che la bandiera dell’Onu potesse essere un deterrente. Srebrenica era una di quelle “safe zone”, una enclave in territorio serbo, Tuzla il campo profughi più vicino. Atterriamo in elicottero, e percorriamo il campo. In un silenzio spettrale, passiamo in lungo e in largo tra le tende, la mensa, l’astanteria, gli uffici, l’ospedale da campo. E a un certo punto mi accorgo di aver visto solo donne, vecchi e bambini. Quante persone ci sono qui?, chiedo. Ero certa, perché mandavamo aiuti, che a Srebrenica ci fossero 42 mila cittadini. A Tuzla fanno i conti, due volte, e ci accorgiamo che ne mancano 8 mila. Tutti uomini, o adolescenti maschi, in età per combattere. Torniamo in mezzo alle tende, parliamo con le donne, e loro ci raccontano che i serbi li hanno divisi, donne vecchi e bambini da una parte, uomini e ragazzi da un’altra.

Penso che devo tornare a Roma e denunciare la cosa. Saliamo sull’elicottero, ma si scatena un temporale, “rischiamo di sfracellarci sulle montagne”, dice il pilota, e torniamo indietro. Da Tuzla, mentre aspettiamo di ripartire, mi metto in contatto con la Croce Rossa. Solo il mese successivo, il Segretario di Stato americano, Madeline Albright, rese note le foto satellitari del massacro, che mostravano i campi degli uomini, brutalmente massacrati, mentre le donne subirono la ferocia dei “guerrieri” che lascio solo immaginare. Il tutto, ahimé, non solo senza una reazione immediata delle forze delle Nazioni Unite a ciò preposte, ma neppure dell’intera comunità internazionale che reagì soltanto a cose fatte, accelerando quantomeno il processo che avrebbe portato agli Accordi di Dayton che fermarono quella fase bellica ma, come sappiamo, non impedirono a Milosevic di perseguire la sua politica egemonica fino alla guerra del Kosovo del 1999. Il doloroso anniversario della strage di Sebrenica mi porta sempre alla mente da un lato la fierezza di avere almeno, e per prima, “suonato il campanello d’allarme”, organizzando poi l’aiuto umanitario per i superstiti, ma anche il rammarico per il comportamento dei caschi blu sul campo, e dell’intero sistema di peace keeping dislocato in Bosnia che fece cilecca, nonché della mancanza di un’azione preventiva efficace che avrebbe potuto scongiurare quella ed altre tragedie di una Guerra civile le cui ferrite non si sono ancora rimarginate. Da questo punto di vista, sono contenta che, poche settimane fa, anche il giudizio d’appello della Corte internazionale erede del Tribunale ad hoc per l’ex Jusoslavia abbia confermato l’ergastolo per il boia di Sebrenica, Ratko Mladic. Credo che agire diversamente sarebbe stato un affronto non solo alla memoria degli oltre 8 mila uomini e ragazzi vittime della strage, ma anche delle milioni di persone che nel mondo hanno perso la vita per atti di violenza ispirati dall’odio etnico. Questo è ciò che dobbiamo alla memoria delle migliaia di vittime di Srebrenica, come pure delle innumerevoli altre vittime della violenza e dell’oppressione ovunque nel mondo. Ma nel frattempo l’istituzione del Tribunale Penale per l’ex-Jugoslavia era stata creata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite su proposta del Governo italiano, di Giuliano Amato, e di quello francese, di François Mitterand. E proprio recentemente Mladic, Karadzic e Milosevic sono stati condannati, un primo passo contro l’impunità. E con Non c’è Pace Senza Giustizia non ci siamo fermati: nel 1999 nasce la Corte Penale Internazionale che tra mille resistenze e difficoltà opera anche ai giorni nostri. Piccoli passi a difesa di grandi valori. Emma Bonino

"Piango gli amici al di là di quel muro". Fausto Biloslavo il 31 Agosto 2021 su Il Giornale. Il generale: provo angoscia per chi non è riuscito a lasciare l'aeroporto di Kabul. Il generale Luciano Portolano, veterano delle missioni più dure, racconta al Giornale la drammatica evacuazione degli afghani. Da Roma, al Comando operativo di vertice interforze, ha gestito in prima persona la difficile operazione dormendo poche ore per notte.

Come si è arrivati all'evacuazione all'ultimo minuto?

«Era stato previsto il trasferimento dei nostri interpreti e collaboratori da Herat a Kabul ed in Italia con aerei civili, ma la situazione è precipitata in tutto l'Afghanistan. Già alla cerimonia dell'ammaina bandiera ad Herat alla presenza del ministro della Difesa Guerini i talebani erano all'interno dell'area che ci era stata assegnata».

Quando i talebani sono arrivati a Kabul cosa avete fatto?

«Ci siamo trovati in una totale emergenza con dei piani di evacuazione che non riflettevano più la realtà sul terreno. Abbiamo rimodulato tutto facendo partire l'operazione Aquila Omnia».

Chi e quanti abbiamo messo in salvo?

«È diventata un'evacuazione di massa che ha portato via non solo interpreti ed ex collaboratori, ma attivisti, sportivi, intellettuali, organizzazioni non governative, religiosi. Sono stati trasferiti in Italia 4980 afghani».

L'aeroporto era circondato da una massa umana di 20mila persone in fuga. Come avete affrontato il caos?

«È stato un momento critico. Siamo riusciti ad aprire un corridoio umanitario, dedicato, verso l'Abbey gate (uno dei cancelli dello scalo, nda), dove purtroppo è avvenuta la strage del terrorista suicida».

Come portavate dentro gli afghani?

«Attraverso le liste di nomi che avevamo e altre che ci sono arrivate contattavano anche da Roma i capi dei nuclei familiari da mettere in salvo con gli interpreti già arrivati in Italia che hanno lavorato al mio fianco. Personalmente mantengo i contatti con 200-250 capi famiglia».

Via whatsapp?

«Ho tutti i messaggi che ci siano scambiati con le paure, i timori, le emozioni, le angosce. Dovevamo guidarli fornendo indicazioni su dove andare e gli orari di accesso per favorire l'estrazione da parte delle squadre sul posto».

In pratica come facevano?

«I nostri uomini con il generale Faraglia li prendevano di peso da un canale, che arrivava fino al gate, una fogna, e li tiravano letteralmente su dal muro di cinta».

Quali casi non dimenticherà mai?

«Ufficiali che erano arruolati nelle forze speciali o interpreti che inviavano comunicazioni drammatiche. Qualcuno si nascondeva nei pozzi con la famiglia, altri nei forni per sfuggire ai talebani. Poi in prossimità del cancello d'ingresso si stabiliva il contatto a tre: noi da Roma, gli afghani da salvare, il personale sul muro per portarli dentro».

E c'erano anche bambini.

«Tanti bambini, anche di sei mesi rimasti nella prossimità del cancello d'ingresso per giorni. Ne abbiamo salvati 1400».

E una volta in salvo qual è stata la reazione?

«Non ha prezzo la gioia dei messaggi di ringraziamento degli afghani che ti scrivono ci avete salvato la vita. La soddisfazione più grande? Essere chiamato brother, fratello, dagli afghani».

Quanti sono rimasti indietro?

«Se contiamo gli studenti, le organizzazioni non governative, altri afghani in pericolo. Direi altrettanti rispetto a quelli evacuati».

E adesso cosa bisogna fare?

«Nessuno verrà lasciato indietro, ma l'importante è non isolare l'Afghanistan. Stiamo creando un database di tutti quelli che hanno ancora bisogno del nostro aiuto. Si sono aperte delle vie di fuga con il Pakistan e Iran».

Quando lo Stato islamico ha attaccato dov'erano i militari italiani?

«Esistevano degli allarmi molto precisi su un imminente attentato. Qualche minuto prima erano proprio nella zona del canale dove è avvenuta la strage. Stavano portando via gli afghani tirati dentro dalla bolgia per scortarli al nostro hangar».

Cosa le rimane di queste settimane di fuoco?

«Da una parte la gioia di avere potato in Italia dei collaboratori che avranno una nuova vita, ma dall'altra l'angoscia di non avere potuto fare di più. Lo dico con un nodo alla gola: al di là del muro dell'aeroporto sono rimasti tanti miei amici».

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”,  il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace. 

Afghanistan, Giorgio Mulè svela il "trucchetto" dei nostri soldati: "Così abbiamo fregato i talebani: cosa gli facevamo vedere al posto del visto". Libero Quotidiano il 31 agosto 2021. Ospite de L'aria che tira su La7, nella puntata di oggi 31 agosto, il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè, in tema di Afghanistan, svela uno stratagemma usato dalle forze armate italiane per salvare molte persone in Afghanistan: "Le condizioni all'aeroporto di Kabul erano difficilissime così abbiamo utilizzato i green pass vaccinali al posto dei visti. Li abbiamo inviati a queste famiglie per passare i controlli e i talebani l'hanno bevuta". Prosegue il sottosegretario: "Ci siamo inventati qualsiasi cosa. Senza i nostri militari non avremmo fatto nulla". E ancora, dice Mulè: "L'Italia ha fatto moltissimo in questa fase emergenziale: sono più di 5.000 i cittadini afghani che abbiamo 'salvato' in condizioni davvero al limite. Sono donne, bambini, profughi, vittime di una guerra che nega loro i diritti fondamentali di civiltà. Per questo grande sforzo operativo e umanitario vanno ringraziate le nostre Forze armate e l'intelligence che hanno svolto un lavoro straordinario: oggi alle 17 a Ciampino arriveranno gli ultimi militari di ritorno dall'Afghanistan e saremo lì a ringraziarli e ad accoglierli''.  ''Purtroppo ora a Kabul non volano gli aquiloni ma i razzi", conclude amaro il sottosegretario, "è il risultato della politica dei talebani che si fonda sulla violenza, sulla brutalità, sulla negazione dei diritti. E su questo l'Occidente è chiamato immediatamente ad intervenire e a proseguire innanzitutto un'azione di tipo umanitario e poi anche geopolitico. Il rischio è ben visibile ed è che l'Afghanistan diventi la nuova culla del terrorismo internazionale''. 

Lui è un maggiore dell'esercito afgano, è riuscito a fuggire grazie a un volo italiano. “Con i talebani eravamo condannati a morte”: la fuga di Abdul e Shabnam, salvati dall’Esercito Italiano. Rossella Grasso su Il Riformista il 31 Agosto 2021. “L’ entrata dell’aeroporto di Kabul o, come la chiamano, il Gate è la fine della vita. Arrivi lì e vedi che ci sono più di 10mila persone che vogliono entrare dentro. Di sicuro, c’è che tutte queste persone hanno due scelte: o entrare o morire in Afghanistan”. Inizia così il racconto di Abdul Basit Qasimi, 29 anni, maggiore dell’esercito afgano, fuggito da Kabul, insieme a sua moglie Shabnam Sarwary, 22 anni, grazie al ponte aereo italiano. Il veivolo partito da quel girone infernale che è diventata Kabul pochi giorni dopo la sua caduta in mano ai talebani è come se gli avesse dato una nuova vita e la speranza, vera e concreta, di un futuro. “Se fossi rimasto lì avrei fatto la stessa fine che stanno facendo gli altri militari: li stanno uccidendo uno dopo l’altro”, ha detto Abdul intervistato dal Riformista.

Sono giovanissimi Abdul e Shabnam, se fossero rimasti a Kabul sarebbero andati incontro a morte certa. Invece sono rientrati nella lista dell’Esercito Italiano che ha riportato nella penisola i suoi connazionali perché lui, oggi maggiore dell’esercito, ha studiato all’accademia militare di Modena per due anni, poi la scuola di applicazione di Torino per altri 3 anni. Abdul racconta che il loro è stato un matrimonio militare. “Ci siamo sposati in divisa – racconta – Io e mia moglie siamo andati contro la nostra cultura. Tutti telegiornali erano presenti al mio matrimonio nessuno prima di noi ha fatto una cosa del genere. Erano presenti il Ministro della Difesa, il Capo di Stato Maggiore della Difesa e tutti i generali. Le nostre foto e i video della cerimonia sono ovunque. Durante il matrimonio il Ministro mi ha promosso al grado di maggiore”. Un evento che i talebani non avrebbero perdonato affatto e nemmeno la sua amicizia con gli italiani. “Per me rimanere lì era assolutamente pericoloso – continua il maggiore – Oggi ringrazio di cuore l’Italia e le forze armate italiane perché ci hanno salvato la vita”. Abdul e Shabnam hanno capito che dovevano scappare il prima possibile da Kabul appena i Talebani sono entrati in città. Si sono chiusi in casa per il terrore e lì hanno resistito per qualche giorno. “Un giorno un mio amico è venuto a bussarmi a casa – racconta – voleva che uscissi in strada con lui per guardarci intorno. Avevo paura ma ci sono andato: volevo capire che gente erano questi talebani. Non li avevo mai incontrati nella mia vita, è stato uno shock per me trovarmeli davanti”. “Appena esco da casa, dopo 10 metri mi trovo davanti due talebani con le armi in mano e i capelli lunghi e sporchi come dei mostri – continua il racconto del militare – Più avanti ce n’erano degli altri, uno più spaventoso dell’altro. Sono fuggito a casa e lì ho aspettato nascosto”. Poi finalmente dall’esercito italiano è arrivata la notizia che Abdul e sua moglie potevano tornare in Italia. “Mi hanno detto di farmi trovare davanti all’aeroporto – dice con commozione – Roberto Trubiani, addetto militare italiano, uomo di coraggio e di cuore, ha fatto di tutto per tirarci fuori dal paese. Non smetterò mai di ringraziarlo”. Così inizia il racconto drammatico dell’arrivo al gate e quella fuga tremenda con la paura che vibrava in ogni respiro. “Per entrare (nell’aeroporto, ndr) in tanti rischiano la vita, perché ci sono dei talebani ogni due minuti che sparano o in aria o ai piedi della gente che sta lì. Ci sono bambini che urlano, piangono e alcuni di loro perdono i propri familiari, però per i talebani non ha importanza perché loro non conoscono il valore dell’umanità. Sparare per talebani è un hobby: si divertono”. “Vorrei parlare della mia piccola, grande speranza: verso le 8 del mattino, parto da casa vestito di nero, con la barba non fatta e i capelli spettinati, con un aspetto, insomma, simile a un talebano (cioè sporco e vestito di sporco). Anche mia moglie fa la stessa cosa: esce tutta coperta di un velo nero. Usciamo da casa, prendiamo un taxi e andiamo verso l’aeroporto iniziando a pregare, dicendo: ‘Dio portaci sani e salvi fino all’aeroporto, la nostra ultima speranza è l’aeroporto e incontrare un italiano!’. Siamo arrivati al Gate Baran e vedo che ci sono più di 5mila persone che stanno provando a entrare. È un caos assurdo: fatti 20 passi mia moglie è caduta urlando aiuto. L’ ho aiutata a rialzarsi e l’ho vista con tutta la faccia rossa da quanto era impanicata. C’erano ovunque anziani, bimbi che cadevano, urlavano aiuto o chiedevano acqua”. “A un certo punto, davanti a me ho beccato un talebano che mi ha detto di tornare indietro; volevo spiegare che io avevo tutti documenti, ma lui mi ha tirato un schiaffo e mi ha colpito con il fucile. Mia moglie lo ha supplicato di non picchiarmi ma io non ho insistito perché sapevo che mi sparavano. Sono tornato indietro e ho visto che ad alcune persone che insistevano gli sparavano ai piedi. Mentre ero lì, hanno sparato a 6 persone: alcune di queste sono morte. Ci siamo allontanati più o meno 500 metri dalla porta; era verso mezzo giorno, quando gli americani hanno fatto pausa pranzo e la gente è diminuita un po’ e noi abbiamo cambiato Gate. Siamo andati al Gate Est, da poco aperto: erano più o meno le 13 e c’era poca gente. Mi sono messo in fila con mia moglie e dopo due ore di attesa sono arrivato alla porta e ho fatto vedere il mio passaporto con il visto ad un americano e ci hanno fatto entrare”. “Appena sono entrato dentro ho pensato di avere la possibilità di ricominciare una vita nuova. Dopo appena 10 metri, ho visto due soldati italiani e mi sono detto: “Ecco i nostri fratelli!” e ho iniziato parlare dicendo: “Buongiorno!”. Vorrei ringraziare lo Stato Italiano e il popolo italiano: non potremo mai dimenticare il vostro supporto!”. Ora si trovano in un centro di accoglienza a Chieri in provincia di Torino. Sono arrivati lì senza nulla, non un bagaglio, non un ricambio. Solo tanta voglia di vivere e ricominciare. La solidarietà è arrivata subito dagli ex compagni di corso e dai militari italiani che hanno raccolto beni di ogni tipo da mandargli per rendere migliore la loro permanenza. Intanto la coppia di afgani resiste e spera guardando a un futuro migliore. Abdul si è già rimboccato le maniche per trovare un lavoro in Italia. È un maggiore dell’esercito molto ben preparato e vorrebbe poter continuare a fare il mestiere che tanto ama. Ora Kabul è definitivamente in mano ai talebani. Dopo che l’ultimo militare americano ha messo piede su un aereo volato via, i talebani hanno festeggiato a Kabul con l’esplosione di colpi di arma da fuoco celebrativi, a segnare la fine di 20 anni di guerra e occupazione. Il ponte aereo ha permesso, da quando i talebani sono tornati al potere due settimane fa, di trasferire fuori dal Paese circa 116mila persone. Ma la famiglia di Abdul e Shabnam è rimasta lì. “Vivono con la paura – dice Abdul – Sono molto preoccupato. Cosa faranno?”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Alessio Lana per corriere.it il 31 agosto 2021. La bandiera afghana aveva sventolato alla cerimonia di apertura delle Paraolimpiadi di Tokyo ma nessuno sapeva se i due atleti del Paese sarebbero mai arrivati a destinazione. Visti i disordini all’aeroporto causati dalla presa del potere dei talebani, nessuno avrebbe scommesso che la ventiduenne Zakia Khudadadi, che compete nel taekwondo, e il centometrista ventiseienne Hossain Rasouli ce l’avrebbero fatta. Diversi tentativi di evacuarli non erano andati a segno, migliaia di persone si erano radunate di fronte ai muri di cinta sperando di entrare nell'aeroporto e i talebani controllavano attentamente Airport Road, la strada che porta ai gate. Così autorità e Ong si sono messe in azione seguendo i due passo passo fin dalle loro abitazioni. Il Center for Sport and Human Rights di Ginevra, l’australiana Human Rights for All, il comitato paraolimpico francese e britannico e la federazione internazionale del taekwondo hanno collaborato a livello tecnico e legale per far arrivare i due all’aeroporto, aiutarli a smarcarsi tra la folla, compilare i documenti per il viaggio. Hanno anche offerto consigli. Gli hanno detto, per esempio, di attivare il Gps dei loro smartphone così da segnalare la propria posizione fuori dall’aeroporto e da poter essere guidati dagli attivisti ai gate dove ad accoglierli avrebbero trovato truppe occidentali. Gli hanno poi consigliato di prendere una sciarpa brillante, nascondervi documenti e soldi, e tenerla negli slip. Dopo aver passato il check point talebano dovevano tirarla fuori e agitarla in aria «come pazzi». Questo trucco gli ha permesso di farsi notare dai militari occidentali e di aprirgli le porte dell'agognato aerodromo. Qui però il comitato paralimpico ha perso le loro tracce. Il ponte aereo ha condotto i due prima a Dubai e poi, dopo ore con il fiato sospeso, a Parigi. La capitale francese li ha accolti dandogli vestiti e controlli medici, autorità ed interpreti li hanno aiutati a completare i documenti per andare a Tokyo ma soprattutto li hanno tenuti nascosti per una settimana. Nessuno sapeva dove fossero, meglio tenere lontani i riflettori, e intanto potevano allenarsi all’Institut national du sport, de l'expertise et de la performance, un centro d’eccellenza, e avere il supporto psicologico necessario non solo per competere ma per affrontare una situazione difficile da immaginare. Il Paese che ricordavano stava scomparendo ora dopo ora. Entrambi erano piccolissimi al tempo delle Torri gemelle e Khudadadi, con i suoi 22 anni, probabilmente neanche ricorda com’era l’Afghanistan prima dell’arrivo Usa, venti anni fa. Finalmente sabato notte i due sono arrivati a Tokyo. «È stato molto emozionante vedere che in qualche modo avevamo contribuito a realizzare il loro sogno», ha detto Andrew Parsons, il presidente del Comitato paralimpico internazionale che li ha accolti all’aeroporto, «Erano ovviamente molto stanchi e un po' persi. Tutto era stato così veloce per loro». Purtroppo Rasouli era arrivato tardi per la gara dei cento metri e il comitato gli aveva offerto i 400 metri piani ma l’atleta ha declinato. Quella distanza era una sfida troppo eccessiva e così ha gareggiato nel salto in lungo. Non è la sua specialità ed è arrivato ultimo. La gara di Khudadadi, per la categoria K44, è prevista per giovedì. Difficile fare previsioni ma una battaglia è giù stata vinta: sarà la prima donna afghana a partecipare alle Paralimpiadi dai Giochi di Atene del 2004. Adesso i due vengono tenuti a distanza dai giornalisti. «Gli atleti non vengono qui per avere una copertura mediatica», ha detto Craig Spence, portavoce del Comitato paralimpico internazionale, «sono atleti che realizzano il loro sogno di partecipare ai Giochi paralimpici, e poiché la vita umana, il loro benessere e la loro salute mentale sono la nostra massima priorità, non incontreranno i media durante questi Giochi». Ma Khudadadi e Rasouli sono già due star. Vivranno protetti nel villaggio paralimpico fino alla chiusura delle competizioni, il 5 settembre, e non è chiaro dove andranno dopo quella data ma già diversi Paesi, come l’Australia, si sono offerti di ospitarli.

Marta Serafini per il “Corriere della Sera” il 31 agosto 2021. Fino allo scorso settembre, Sayed Sadaat vestiva in giacca e cravatta, aveva un lavoro e uno stipendio di tutto rispetto, pur vivendo in uno dei Paesi più poveri del mondo, e non poteva certo lamentarsi della sua vita. Oggi l'ex ministro delle Comunicazioni afghano vive a Lipsia e fa il rider, consegnando panini e pizze in giro per la città. A convincerlo, un anno fa, a lasciare il suo lavoro e a riparare in Germania, gli accordi di Doha che sanciscono il ritiro delle forze internazionali dal Paese. Quando Sadaat, 39 anni, capisce che la fine del suo governo è alle porte, prende la decisione. Impacchetta tutto, prende moglie e figli e chiede il visto. Poi, una volta arrivato in Germania, si mette alla ricerca di un lavoro. La lingua e la mancanza di conoscenze lo costringono a ripiegare su un impiego decisamente più umile rispetto a quello che aveva in patria. E così finisce a fare le consegne. In un primo momento tutti lo criticano per la sua scelta. «Mi davano del pazzo», racconta oggi alla Reuters , appoggiato alla sua bicicletta. «Ma non ho decisamente nulla da rimproverarmi. Anzi, spero che anche altri politici afghani seguano il mio esempio e, invece di scappare, si trovino un lavoro all'estero». E se è difficile essere fiduciosi considerato che l'ex presidente Ashraf Ghani è fuggito all'improvviso a bordo di un elicottero carico di banconote, dopo aver consegnato il Paese ai talebani, a fronte di chi ha fatto i bagagli in fretta e furia dopo la caduta del 15 agosto e se l'è svignata in sordina a bordo di qualche volo di evacuazione, c'è chi ha deciso di restare e combattere. È l'ex ministro dell'Interno Masoud Andarabi. Licenziato a marzo da Ghani, oggi può parlare e accusa l'ex presidente di non aver fatto nulla per salvare il Paese. Sui social e in numerose interviste denuncia i misfatti dei talebani e non risparmia critiche al suo ex capo. «Ghani governava senza consultare i membri del suo gabinetto di sicurezza. E' questo processo decisionale ad averci portato nella situazione in cui siamo», spiega al Corriere . A scappare - ma per una ragione decisamente comprensibile - è stata Nargis Nehan, ex ministro del governo afghano e attivista per i diritti delle donne, che è riuscita a riparare a Oslo lasciandosi però alle spalle il padre malato e la sorella. «Non è la prima volta che lascio il mio Paese», ha raccontato in un'intervista a Channel 4. «Durante la guerra civile del 1992-1996 sono stata una dei milioni di rifugiati afghani sfollati in Pakistan». Da qui Nargis ha iniziato a lavorare per i diritti delle donne, con ong e associazioni. Dopo il 1996, tornata in Afghanistan, per conto di una ong svedese ha lavorato con l'Onu per la parità di genere, fino ad arrivare al palazzo di governo. «Ma ora», scuote la testa sconsolata, «devo ricominciare tutto da capo». Continua ad andare in ufficio ogni giorno invece Hazrat Omar Zakhilwal, ex ministro delle Finanze del governo Karzai che ora, tornato nel Paese dall'estero in assoluta controtendenza, cerca di dialogare con i talebani per un governo «più inclusivo». E durante un'intervista alla tv cinese ha affermato di avere fiducia «nella saggezza collettiva di questo Paese» e di sperare che il suo ritorno «possa rassicurare i suoi compagni a prendere posizione affinché l'Afghanistan possa essere stabile e pacifico».

La bufala dei cani militari abbandonati dagli Usa a Kabul. La denuncia era partita dagli animalisti di American Humane: ''Verranno torturati e uccisi''. Dal Pentagono è arrivata la smentita ufficiale. Today il 31 agosto 2021. No, l'esercito americano non ha abbandonato i propri cani in Afghanistan. Il Pentagono ha voluto smentire alcune notizie circolate nelle ultime ore sui social media nelle ultime ore attraverso il portavoce John Kirby: "Contrariamente a informazioni inesatte, l'esercito americano non ha lasciato cani in gabbia all'aeroporto internazionale Hamid Karzai, e in particolare nessun "cane militare". To correct erroneous reports, the U.S. Military did not leave any dogs in cages at Hamid Karzai International Airport, including the reported military working dogs. Photos circulating online were animals under the care of the Kabul Small Animal Rescue, not dogs under our care. Le foto, pubblicate sui social network, mostrano cani collocati in un rifugio per animali afghano e non animali sotto la responsabilità dell'esercito americano, ha aggiunto John Kirby, su Twitter. A rilanciare la notizia era stato il gruppo di animalisti American Humane. Secondo l'amministratore delegato Robin Ganzert, i cani che avevano lavorato al fianco dei militari americani ora sarebbero stati ''torturati e uccisi''. Ganzert si era anche detto pronto non solo ad aiutare a trasportare i cani soldato sul territorio americano ma anche a garantire loro cure mediche per tutta la vita. "Ci disgusta stare seduti a guardare i cani che valorosamente hanno servito il nostro Paese essere condannati a morte o peggio. Per evitare che si verifichi questa tragedia, i K-9 dovrebbero essere messi in salvo. Indipendentemente dall'esito, bisogna impedire che si ripeta questa grossolana svista": così si concludeva l'attacco degli animalisti alla gestione Biden, prima che arrivasse la smentita ufficiale del Pentagono.

Chiara Bruschi per “il Messaggero” il 31 agosto 2021. Aveva minacciato di restare a Kabul se i suoi animali non fossero stati messi in salvo con lui. Pen Farthing, ex Royal marine britannico originario dell'Essex, è riuscito nell'impresa ed è atterrato con circa 140 cani e 60 gatti all'aeroporto di Londra Heathrow. Sono arrivati a bordo di un volo charter affittato grazie al denaro raccolto con una campagna condotta nei giorni scorsi e con il supporto del Ministero della Difesa.

OPERAZIONE ARCA Nella cosiddetta Operazione Arca, però, Farthing non è riuscito a portare con sé 24 membri dello staff della Nowzad, la charity da lui fondata per dare rifugio a cani, gatti e asini. Persone costrette a rimanere nella capitale afghana. «È molto triste che sia stato obbligato a lasciarli indietro - ha raccontato Farthing al The Sun - Alcuni di loro erano venuti all'aeroporto con me ma non è stato loro permesso di superare i controlli. Abbiamo versato tante lacrime quando ci siamo salutati. Sono estremamente triste per loro ma sono sollevato per me e per gli animali». Il fondatore dell'associazione, in missione in Afghanistan nella metà degli anni 2000, ha inoltre fatto sapere di essere in contatto con i suoi ex collaboratori e che farà di tutto per cercare di portarli in salvo. Parole che tuttavia non attenuano le polemiche. Migliaia di persone che in questi venti anni hanno collaborato con le forze occidentali non sono riuscite a lasciare Kabul. L'ex soldato Tom Tugendhat, conservatore e membro del Foreign Affairs Committee, non ha usato mezze misure nel commentare la vicenda: «Considerata la grande difficoltà nel far entrare e uscire le persone dall'aeroporto di Kabul, abbiamo usato molti dei nostri soldati per far passare 200 cani. Perché mia figlia di cinque anni vale meno del vostro cane?, mi ha chiesto un interprete alcuni giorni fa. Non avevo una risposta: cosa avrei potuto dirgli?»

L'ACCUSA Controversa anche la posizione del Ministero della Difesa. Nelle ore decisive di venerdì si era consumato un duro botta e risposta con Farthing. L'ex marine aveva accusato lo staff del segretario Ben Wallace di aver «bloccato» volontariamente l'organizzazione del volo in partenza da Kabul che avrebbe dovuto trasportare il personale della Nowzad e gli animali. Accuse che l'esponente del governo Johnson aveva rispedito al mittente parlando ai media britannici: «Ho dovuto ascoltare parole di abuso ai miei consiglieri, ai miei funzionari, basate principalmente su falsità, che qualcuno di noi, da qualche parte, aveva bloccato un volo. Nessuno ha bloccato un volo». Il ministro aveva poi sottolineato come la vicenda stesse «rubando troppo tempo ai comandanti in loco che invece avrebbero dovuto gestire la crisi umanitaria». Poche ore dopo però la situazione si era sbloccata e il ministero aveva pubblicato un tweet in cui assecondava le richieste di Farthing. Un cambio di rotta che, secondo la stampa britannica, sembra essere stato influenzato dall'intervento di Carrie Johnson, la moglie del primo ministro britannico che, come noto, è una fervente animalista. Voci che Downing Street ha però voluto smentire.

IL CIBO L'ex soldato e i suoi animali sono stati supportati dalle forze militari britanniche durante il passaggio in aeroporto a Kabul e i militari, come precisa il Daily Mail, hanno aiutato a caricare 125 chili di cibo per animali, 72 lattine, 270 litri di acqua, 20 bottiglie di disinfettante e altro materiale per la pulizia. Gli animali, come previsto dalla legge britannica, dovranno restare in quarantena per quattro mesi ma se qualcuno di essi dovesse ammalarsi verrà abbattuto. Un triste destino dal quale questa volta sarebbe impossibile fuggire, come dimostra la vicenda dell'alpaca Geronimo che, proveniente dalla Nuova Zelanda, è risultato positivo alla tubercolosi bovina e nonostante gli sforzi della proprietaria, le petizioni online e una marcia animalista a Downing Street, ha tutt' ora le ore contate.

Marilisa Palumbo per il “Corriere della Sera”  l'1 settembre 2021. La sua immagine, lavata nel verde dell'obiettivo notturno, accanto a quella dei talebani «vestiti da americani» che entrano nell'hangar dell'aeroporto di Kabul abbandonato, sarà per sempre il simbolo della fine della guerra più lunga. Fucile d'assalto abbassato, così come lo sguardo, il generale Christopher T. Donahue, uno degli 800 mila americani ad aver combattuto in Afghanistan dal 7 ottobre del 2001 a oggi, è stato l'ultimo, alle 23.49 locali, a lasciare il Paese dove sono morti 2.461 suoi commilitoni. Donahue, comandante della storica U.S. Army 82nd Airborne Division, era tornato in Afghanistan qualche settimana fa quando l'avanzata impetuosa dei talebani aveva costretto Biden a mandare rinforzi per le operazioni di evacuazione. Ci era già stato tante volte, anche alla guida della task force congiunta a sostegno dell'Operation Freedom' s Sentinel. Ha prestato servizio in Iraq, Siria, Nord Africa ed Europa orientale, ed è stato anche assistente del capo di Stato maggiore: un soldato esemplare della guerra al terrore post 11 settembre. Prima di partire Donahue ha parlato con il comandante talebano con cui si era coordinato in queste settimane e ha mandato un ultimo messaggio nella chat interna dei militari: «Sono orgoglioso di voi». Il ponte aereo «più grande della Storia», come è stato definito da Biden in giù, ha portato fuori dal Paese oltre 123 mila persone. Ora che le operazioni sono finite emergono i dettagli degli accordi presi con i talebani, che avrebbero addirittura scortato da alcuni punti di Kabul gli americani fino agli ingressi dell'aeroporto. Annunciando la fine della guerra il generale Frank McKenzie ha definito «pragmatici» i nuovi padroni dell'Afghanistan, ma cosa succederà adesso che si sono liberati dalla presenza militare statunitense? Indietro, ha detto il segretario di Stato Antony Blinken, sono rimasti «più di 100 e meno di 200 americani». Decine sarebbero i francesi e almeno centomila gli afghani che hanno collaborato con gli alleati. Come portarli fuori in sicurezza? Blinken ha spiegato che ora la missione è diplomatica. Ma sul C-17 che ha portato via Donahue c'era anche Ross Wilson, il più alto diplomatico rimasto a Kabul. Di una delle più grandi ambasciate Usa al mondo (4 mila impiegati tra cui 1.400 americani), non resta niente. Una rappresentanza notevolmente ridotta si è trasferita a Doha. Il Qatar sta giocando un ruolo decisivo in questa partita. Assieme alla Turchia potrebbe prendere la gestione della sicurezza dell'aeroporto. Il problema è che Erdogan vorrebbe mandare del personale militare, e i talebani non vogliono soldati stranieri. Ma le trattative sono in corso. «Quello che stiamo cercando di spiegare loro - ha detto al Financial Times il ministro degli Esteri qatarino, lo sceicco Al-Thani - è che gestire un aeroporto implica molto più che metterne in sicurezza il perimetro». E mantenere l'aeroporto aperto è essenziale per far arrivare sostegno umanitario al Paese e continuare le evacuazioni. A questo proposito l'emirato sta spingendo perché i talebani - come «esige anche la risoluzione dell'Onu approvata con l'astensione di Russia e Cina - tengano fede alla promessa di continuare a far partire tutti coloro che ne hanno diritto. 

Dagospia il 31 agosto 2021. Reuters - Simon Cameron-Moore. Con il suo fucile al fianco, il generale Chris Donahue, comandante della leggendaria 82a divisione aviotrasportata, è l'ultimo soldato americano a imbarcarsi sull'ultimo volo in partenza dall'Afghanistan un minuto prima della mezzanotte di lunedì. Scattata con un dispositivo per la visione notturna da un finestrino laterale dell'aereo da trasporto C-17, l'immagine spettrale verde e nera del generale che cammina verso l'aereo in attesa sulla pista dell'aeroporto Hamid Karzai di Kabul è stata rilasciata dal Pentagono poche ore dopo gli Stati Uniti hanno concluso la presenza militare ventennale in Afghanistan. L'immagine della partenza di Donahue potrebbe essere affiancata a quella di un generale sovietico, che guidò una colonna corazzata attraverso il Ponte dell'Amicizia verso l'Uzbekistan, quando l'Armata Rossa fece la sua ultima uscita dall'Afghanistan nel 1989. A completare un'operazione militare che con l'aiuto degli alleati è riuscita a evacuare 123.000 civili dall'Afghanistan, l'ultimo carico aereo delle truppe Usa decollato col favore della notte. Sebbene sia un'immagine fissa, Donahue sembra muoversi vivacemente, il suo viso inespressivo. Indossa un completo equipaggiamento da combattimento, con occhiali per la visione notturna in cima al suo casco e fucile al suo fianco. Doveva ancora lasciarsi alle spalle l'Afghanistan e raggiungere la salvezza. Al contrario, le immagini del generale Boris Gromov, comandante della 40a armata dell'Unione Sovietica in Afghanistan, lo mostrano mentre cammina a braccetto con suo figlio sul ponte del fiume Amu Darya portando un mazzo di fiori rossi e bianchi. Il ritiro degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica da un paese che è diventato noto come un cimitero per gli imperi è stato condotto in modi molto diversi, ma almeno hanno evitato la disastrosa sconfitta subita dalla Gran Bretagna nella prima guerra anglo-afgana nel 1842. L'immagine costante di quel conflitto è il dipinto ad olio di Elizabeth Thompson "Resti di un esercito" che raffigura un cavaliere solitario esausto, l'assistente chirurgo militare William Brydon, che ondeggia sulla sella di un cavallo ancora più esausto nella ritirata da Kabul. Quando l'Armata Rossa russa se ne andò, un governo comunista filo-mosca era ancora al potere e il suo esercito avrebbe combattuto per altri tre anni, mentre il governo afghano sostenuto dagli Stati Uniti aveva già capitolato e Kabul era caduta in mano ai talebani poco più di due settimane prima della 31 agosto, termine ultimo per la partenza delle truppe statunitensi. Facendo un'uscita ordinata, l'ultimo dei 50.000 soldati di Gromov subì ancora attacchi isolati mentre si dirigevano a nord verso il confine uzbeko, sebbene avessero pagato gruppi di mujaheddin per assicurarsi un passaggio sicuro lungo la strada. La colonna di Gromov attraversò il Ponte dell'Amicizia il 15 febbraio 1989, ponendo fine ai 10 anni di guerra dell'Unione Sovietica in Afghanistan, durante la quale furono uccisi più di 14.450 militari sovietici. Alla domanda su come si sentiva a tornare in territorio sovietico, si dice che Gromov abbia risposto: "Gioia, che abbiamo svolto il nostro dovere e siamo tornati a casa. Non mi sono voltato indietro". L'evacuazione finale da parte degli Stati Uniti di Kabul sarà giudicata da quante persone sono state portate fuori e quante sono rimaste indietro. Ma Donahue e i suoi compagni porteranno immagini strazianti dei loro caotici ultimi giorni a Kabul; genitori che passano loro i bambini attraverso il filo spinato, due giovani afgani che cadono da un aereo che si arrampicava in alto nel cielo e, peggio ancora, le conseguenze di un attentato suicida dello Stato Islamico fuori dall'aeroporto il 26 agosto che ha ucciso decine di afgani e 13 di loro.

 L'ultimo soldato. Fausto Biloslavo l'1 Settembre 2021 su Il Giornale. Il generale Chris Donahu mette fine alla drammatica evacuazione di Kabul e a 20 anni di missione. Ma l'Afghanistan non va abbandonato. O ripeteremo gli errori del passato. L' ultimo soldato americano ha lasciato l'Afghanistan. Non un fantaccino qualunque ma il generale a due stelle, Chris Donahue, comandante dell'82° divisione aviotrasportata che ha tenuto l'aeroporto di Kabul per l'evacuazione più possente e drammatica del mondo libero. La foto verdognola, da visione notturna, rende l'immagine simbolo ancora più drammatica. Il generale con elmetto, mimetica e arma in pugno è in mezzo alla pista e sta salendo a bordo dell'ultimo aereo americano che decolla da Kabul un minuto prima di mezzanotte e del 31 agosto. La foto storica ricorda un'altra disfatta: il ritiro dell'Armata rossa nel 1989 e il generale Boris Gromov, che per ultimo passava a piedi il ponte dell' amicizia sull'Amu Darja al confine con la repubblica uzbeka dell'Urss, dopo interminabili colonne di blindati. I sovietici se ne andavano, sconfitti, dopo 10 anni e 40mila caduti. L'Afghanistan, dopo avere ingoiato nel sangue l'Inghilterra, l'Urss e la Nato, si è dimostrato, ancora una volta, la tomba degli imperi. Il generale Donahue lascia per sempre l'Afghanistan dopo 20 anni di intervento concluso con la fulminea vittoria dei talebani. L'ufficiale, cadetto di West Point, ha alle spalle 17 missioni comprese la guerre in Iraq, Siria e Afghanistan. Dopo l'11 settembre si è presentato volontario nella Delta force, l'élite dei corpi speciali americani. "E' stata una missione incredibilmente dura, piena di molteplici complessità, con minacce attive per tutto il tempo" ha twittato il 18mo Corpo aviotrasportato commentando la foto del generale. Donahue, prima di andarsene ha comunicato la consegna dello scalo al comandante talebano che fremeva per entrare e iniziare la festa. Il motto dell'82ima, che ha una base anche in Italia è fino in fondo. E così è stato nonostante un attacco suicida che ha falciato 13 soldati americani e 160 civili in fuga verso la libertà. Per la Caporetto afghana non ci sarà mai un Piave che porterà alla vittoria. La sconfitta è cocente e bagnata di sangue con la strage kamikaze allo scalo. Vent'anni gettati al vento. Un mese e mezzo dopo il ritiro dell'ultimo soldato italiano da Herat i talebani hanno conquistato Kabul. Una guerra lampo che in soli 9 giorni ha fatto cadere 34 capoluoghi di provincia. La Nato ha sempre combattuto, soprattutto gli italiani, con un braccio legato dietro la schiena a causa del ritornello della missione di pace. L'esportazione della democrazia è stata una boiata pazzesca. Non è un frigorifero o lavatrice che funziona ovunque se la colleghi alla presa di corrente. Il mondo libero non è stato in grado di conquistare i cuori e le menti degli afghani e neppure di sradicare l'inettitudine e la corruzione del governo, che è crollato come un castello di carte assieme alle forze di sicurezza. I diritti acquisiti, le conquiste, come le bambine a scuola, le donne al lavoro, una parvenza di elezioni e di stato di diritto sbandierati all'ammaina bandiera ad Herat dal ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, si sono sciolti come neve al sole davanti all'avanzata fulminea dei talebani. Anche la musica ne ha fatto le spese e un noto cantante folk è stato passato per la armi. I talebani, come hanno sempre detto con inflessibile coerenza, non vogliono la democrazia e ancora meno i valori occidentali, ma solo l'interpretazione dura e pura della sharia, la legge del Corano. Dopo vent'anni di guerra cantano giustamente vittoria all'aeroporto di Kabul innalzando il vessillo bianco con i versetti neri dell'Islam ed i combattenti delle loro unità speciali, le Red unit, vestiti da Rambo grazie all'attrezzatura bellica Usa donata agli afghani. Adesso bisogna voltare pagina e fare tesoro degli errori compiuti per guardare al futuro del paese e dei rapporti con l'Emirato integralista. Il nuovo governo, che verrà annunciato fra non molto, sarà il primo banco di prova, ma al di là dei nomi di facciata per renderlo inclusivo i talebani andranno giudicati sui fatti di ogni giorno. Il paese non va isolato, altrimenti non tireremo mai fuori chi è rimasto indietro, pur avendo collaborato con noi, chi ha sempre guardato all'Italia come esempio e ancora di salvezza, chi non vuole vivere nel Medioevo talebano. La comunità internazionale deve monitorare e vigilare per evitare che l'Afghanistan ridiventi la culla del terrore come prima dell'11 settembre. I segnali sono pessimi e non solo per la costola locale dello Stato islamico che sta rialzando la testa. Ieri è tornato nella provincia natale di Nangarhar, da tempo hub del terrorismo, Amin-ul-Haq, ex capo della sicurezza di Osama bin Laden, che aveva protetto fino all'ultimo lo sceicco di Al Qaida nell'ultima ridotta di Tora Bora. La gente del posto l'ha accolto come un eroe reclamando selfie e baciandogli la mano.

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerr

I talebani celebrano la vittoria: "È una lezione per il mondo". Torna l'alter ego di Bin Laden. Gaia Cesare l'1 Settembre 2021 su Il Giornale. Colpi di kalashnikov sparati in aria e fuochi d'artificio al decollo dell'ultimo aereo americano dall'aeroporto Hamid Karzai di Kabul. Colpi di kalashnikov sparati in aria e fuochi d'artificio al decollo dell'ultimo aereo americano dall'aeroporto Hamid Karzai di Kabul. Un finto funerale per sbeffeggiare le forze alleate inscenato a Khost, dove la folla ha visto sfilare false bare coperte con la bandiera americana, inglese e francese. La bandiera bianca talebana con la testimonianza di fede - «Non c'è nessun Dio al di fuori di Allah e Maometto è il suo profeta» - ha sventolato nelle principali città afghane e in provincia. È l'Afghanistan, anno zero, l'Emiro islamico ritrovato dei talebani, nel giorno in cui l'ultimo soldato americano, il maggior generale Chris Donahue, lascia Kabul e chiude vent'anni di intervento militare, la guerra più lunga della storia americana. Per i talebani e i loro seguaci è l'Independence Day, «un giorno storico e un momento storico», dice il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid dall'aeroporto, circondato dalle teste di cuoio dell'unità d'élite «Badri 313», vestite ed equipaggiate come soldati americani, dalla testa ai piedi. «La sconfitta degli Stati Uniti in Afghanistan rappresenta una grande lezione per tutti gli altri invasori e per le nostre generazioni future» oltre che «per il mondo intero». Gli fa eco Hanas Haqqani, esponente della rete Haqqani, guidata da Sirajuddin Haqqani, vice leader del movimento talebano. Esaltando l'alba del nuovo giorno, l'estremista spiega di come le persone in Afghanistan siano «felici» perché i talebani hanno «portato la pace». Lì fuori, ovviamente, è un'altra storia. Il Paese è al collasso. Chi non è in strada a festeggiare resta chiuso in casa per paura, oppositori e donne. Chi ha qualche risparmio è in fila davanti alle banche nel tentativo di ritirare contante con il terrore della vendetta degli «studenti» del Corano in strada. Privi dei fondi della Banca centrale afghana, con il rubinetto degli aiuti stranieri sospesi e il congelamento dei beni detenuti negli Usa, i talebani potrebbero non avere più denaro per garantire il pagamento dei dipendenti pubblici e il funzionamento delle strutture vitali, acquedotti, rete elettrica e comunicazioni, a rischio collasso. A questo si aggiunge la fuga di cervelli sui voli per l'Occidente, l'isolamento diplomatico e anche il timore di attentati da parte di gruppi integralisti islamici concorrenti. È un disastro, ma potrebbe peggiorare. Anche per questo per i talebani è tempo di finalizzare la formazione del nuovo governo, che lavorerà per strappare il riconoscimento diplomatico in ogni modo, mentre già si esortano le cancellerie straniere a riaprire le ambasciate. Del nuovo esecutivo hanno discusso, chiusi per tre giorni, nella roccaforte di Kandahar, dove si è riunito il Consiglio dell'Emirato Islamico dell'Afghanistan, che avrebbe già preso, secondo Muhajid, «alcune decisioni per garantire servizi alla popolazione» e affrontato questioni sociali, politiche e di sicurezza dell'Afghanistan. Lo scalo di Kabul, fino ad agosto ancora di salvezza per migliaia di afghani in fuga dagli integralisti, riaprirà quando saranno risolti «alcuni problemi tecnici», dicono. In realtà i aspetta di trovare un'intesa con Turchia e Qatar, per la gestione congiunta dello scalo. Nel frattempo i talebani dispiegano le forze speciali: «Presto tutto tornerà alla normalità. Le forze Usa hanno lasciato gran caos. Sono in atto sforzi per riprendere i voli commerciali». Intanto nella regione di Nangarhar arriva Amin ul Haq, ex capo della sicurezza a Tora Bora, il rifugio di Osama Bin Laden nel 2001, prima che il capo di Al Qaida venisse ucciso, dalle forze statunitensi in Pakistan, dieci anni dopo. È il segno dei forti appetiti del radicalismo jihadista in Afghanistan, proprio mentre i leader europei ammettono che è «necessario» dialogare con i talebani. Gaia Cesare

Filippo Rossi per “La Stampa” il 31 agosto 2021. Il ponte bianco si riflette nelle acque dell'Amu Darya, lo storico fiume centro-asiatico che sancisce anche il confine fra Afghanistan e Uzbekistan. È questo il valico che nel 1989 segnò definitivamente il ritiro delle truppe sovietiche dall'Afghanistan. Oggi, la bandiera bianca taleban sventola di fianco a quella uzbeka. Il simbolo di una vittoria sognata per anni. La vernice che rappresentava il tricolore afghano è stata grattata via da un muro delle strutture del posto di frontiera di Hairatan, primo villaggio afghano di là del fiume. Tutto è abbandonato. Nessuno controlla se non qualche mujahid taleban seduto sul prato che presidia, salutando cordialmente. Benvenuti nel nuovo Afghanistan. Oggi, di fatto, terra di nessuno. Sulla strada che dal confine porta alla città di Mazar-i-Sharif, una delle città principali del nord ovest del paese, i taleban hanno parcheggiato veicoli blindati dell'ormai dissolto esercito nazionale afghano come simbolo di vittoria. È l'inizio di una nuova era, positiva o negativa che sia. A due settimane dalla presa di potere, il nuovo regime non ha ancora deciso che forma di governo adottare, lasciando molti dubbi sul futuro alla popolazione. Se una parte di afghani sta cercando disperatamente di lasciare il paese, quelli rimasti, la maggioranza, aspetta con impazienza che le cose migliorino. «Non c'è lavoro, non ci sono soldi. Io non mi oppongo ai taleban, ma non abbiamo di cui vivere» commenta Navid, 32, un tassista di Mazar-i-Sharif. L'economia è in stallo senza esportazioni e uno spazio aereo inagibile per via delle evacuazioni occidentali che hanno paralizzato il paese, la valuta è crollata, il prezzo della benzina è raddoppiato. Una situazione che, insieme all'instabilità politica, soffoca gli afghani ancora di più: «Se prima guadagnavo 20 euro al giorno, oggi ne faccio un quarto» commenta invece Abdul Samad, 21, commerciante di tessuti in un mercato del centro città, mentre vende un tessuto a tre ragazze. A Mazar-i-Sharif le cose sembrano essere tornate alla normalità, anche se la gente dice che molte persone non escono di casa. I negozi sono aperti, le persone sono per strada. Le donne e le ragazze sono vestite esattamente come prima, senza dove indossare chadori (burqa) e senza restrizioni. «Non sappiamo cosa succederà domani, soprattutto con le ragazze» è invece il commento di un anziano per strada. «Non essendoci ancora un governo, è difficile dire cosa faranno loro. Spero possa partecipare alla vita quotidiana e politica». Ma un autista tuona: «Le ragazze non vanno più a scuola e le classi sono già separate». Chi critica lo fa a bassa voce. «Molti hanno paura dei taleban, nessuno parla», continua. È la situazione a creare incertezza: «Ora c'è molta più sicurezza. Prima dell'arrivo dei taleban era molto pericoloso. Speriamo anche che sia parallelamente uno sviluppo economico» dice un ausiliario del traffico, Mohammadullah, 38 anni, tornato a lavorare dopo che i taleban hanno richiesto la sua presenza. Cosa che non tutti hanno fatto. «Io non sono tornato a lavorare», commenta un presentatore televisivo - «vogliono che mi faccia crescere la barba e che cambi. A me non va bene. E non credo alle loro parole». I mujahid taleban sono forse l'attrattiva più interessante di questa nuova realtà. Per decenni sono stati un mito. In pochi li hanno potuti incontrare, parlarci e osservarli da vicino. Ora pattugliano le strade. Alcuni si vestono con equipaggiamento militare rubato dalle basi dell'esercito, ma la maggior parte indossa l'abito tradizionale, il peran tomban, di diversi colori, costantemente con mitragliatrici e giberne che traboccano di proiettili. Ai piedi hanno sandali, il viso incorniciato da barbe e capelli lunghi. Si spostano sui veicoli della polizia e dell'esercito afghano, che hanno sequestrato (secondo gli americani, i taleban sarebbero in possesso di circa 98 miliardi di dollari di materiale bellico Usa) e ai quali hanno aggiunto una bandiera taleban. Sono presenti anche nel santuario di Hazrat Ali, forse il luogo più sacro della città, dove donne, bambini e uomini passeggiano e si divertono. I taleban pattugliano. I più giovani fra loro scattano un selfie scherzando. «Siamo felici che l'Emirato islamico taleban abbia vinto. Ci sarà finalmente la pace» racconta uno di loro, giovanissimo. Forse troppo giovane per ricordare l'invasione Nato di 20 anni fa. Ma subito i comandanti si infastidiscono. I loro soldati non sono autorizzati a parlare. «Non ci fidiamo di loro, hanno già commesso dei reati - commenta F., un altro ragazzo che vuole rimanere anonimo - l'altro giorno sono venuti nella nostra strada gridando che dovevamo andare in moschea e farci crescere la barba. Ora sono solo parole, ma sono sicuro che le cose si metteranno male non appena il paese uscirà dai riflettori dei media internazionali». Riflettori che potrebbero spegnersi nei prossimi giorni, con la fine dell'evacuazione. È questa l'immagine che più colpisce: non sapere cosa succederà domani. E molti temono una recrudescenza del passato.

La Chiesa nel mirino. Fausto Biloslavo il 31 Agosto 2021 su Il Giornale. In clandestinità per non essere uccisi, si ritrovano nei sotterranei. Portato in salvo il barnabita dell'unica cappella in ambasciata e le suore. "Per Kabul non c'è più speranza". «Ai talebani dico: siate umani e rispettate sia gli uomini che le donne. E lo stesso rispetto vale per i luoghi di culto, come la chiesa dentro l'ambasciata» è l'appello che padre Giuseppe Moretti lancia attraverso il Giornale. Veterano barnabita, che ha passato a fasi alterne 18 anni in Afghanistan proprio nella piccola chiesa dentro l'aera della sede diplomatica del nostro paese, oramai abbandonata dopo l'arrivo dei talebani a Kabul. L'unica chiesa in Afghanistan, che chiude a 100 anni dal trattato fra il re Amanullah, il prima monarca dell'indipendenza e l'Italia del 3 giugno del 1921. L'impegno sempre rispettato dai barnabiti «era di non fare proselitismo - spiega Moretti - Il nostro compito è stato guidare i cristiani non afghani» come i diplomatici o le truppe straniere. Il barnabita ammette che «cristiani locali ce ne saranno, ma a chi si converte spetta la condanna a morte» anche prima dei talebani. I credenti di Gesù in Afghanistan, che sarebbero oltre un migliaio, vivono nascosti e professano la fede in segreto. Il Dipartimento di stato americano stima che ci possono essere fra i 500 e 8mila fedeli soprattutto evangelici e protestanti. L'edizione clandestina della Bibbia in farsi, una delle lingue nazionali afghane, circola anche in rete. Il Nuovo testamento è disponibile in pasthun, la lingua dell'etnia maggioritaria talebana. Ali Ehsani, esule afghano in Italia, è un cristiano che negli ultimi giorni ha lanciato l'allarme ai fedeli di Gesù: «Le violenze sono già iniziate. Il padre di una famiglia con cui sono in contatto è scomparso». La moglie e i cinque figli erano terrorizzati e si spostavano di continuo per non venire intercettati dai talebani. «Vorrei far conoscere questa storia a papa Francesco» ha dichiarato l'esule afghano. Grazie alla fondazione Meet Human la famiglia cristiana è stata mesa in salvo dal ponte aereo italiano. Secondo un rapporto della fondazione pontificia, Aiuto alla chiesa che soffre, «i cristiani afghani praticano il culto da soli, o in piccoli gruppi, esclusivamente all'interno di abitazioni private. Secondo le organizzazioni missionarie in tutto il paese vi sono piccole chiese domestiche sotterranee, ognuna delle quali non conta più di 10 fedeli». Una fonte afghana a Kabul spiega che «molti si convertono nella speranza di uscire dal girone della povertà». Nella capitale diversi convertiti lavoravano per le organizzazioni internazionali. «Viviamo una doppia vita. Non possiamo mostrare la nostra fede, verrei ucciso e sarebbe per prima la mia famiglia a pretenderlo» aveva rivelato al Giornale un cristiano di Kabul. Il convertito Abdel Rahman condannato a morte e poi espulso grazie all'intervento del nostro paese era diventato uno strumento di propaganda per i talebani. Nei vent'anni della Nato anche traduttori e collaboratori dei militari stranieri, a cominciare dagli americani della grande base di Bagram, sono stati irretiti dalla conversione. Non esisteva alcun «piano dei crociati», come invece accusavano i talebani. Singoli cappellani militari o soldati portavano con loro qualche volantino, un Vangelo o una Bibbia di troppo. Da Kabul sono stati evacuati mercoledì scorso con il ponte aereo il barnabita Giovanni Scalese parroco della chiesa in ambasciata e cinque suore con 14 bambini disabili che accudivano nella capitale. Le sorelle di Madre Teresa di Calcutta avevano avviato da vent'anni un'organizzazione fondata in risposta all'appello di Giovanni Paolo II di «salvare i bambini afghani». In pubblico non potevano professare la loro fede. Padre Moretti spiega che venivano apprezzate per la «presenza silenziosa, ma operosa». Le suore rientrate in Italia hanno tristemente ammesso: «Siamo distrutte. È tutto finito, non c'è speranza a Kabul». 

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”,  il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace.

L'alto commissario e il sonno europeo. Paolo Guzzanti il 31 Agosto 2021 su Il Giornale. Il signor Josep Borrell, spagnolo, è nientemeno che l'Alto rappresentante della politica estera dell'Unione europea, funzione e ruolo che abbiamo cercato di capire leggendo la sua intervista a Federico Fubini, ieri sul Corriere della Sera. Avevamo da tempo capito che queste figure dai nomi altisonanti e scarsamente significanti del firmamento amministrativo europeo hanno una statura corta e tutt'altro che Alta, se ci si concede il gioco di parole. E questo è uno dei problemi che l'Europa dovrà affrontare man mano se, come parecchi indizi fanno sperare, la lezione amarissima del ritiro americano dall'Afghanistan dovesse avere come conseguenza un ripensamento sia sulla politica estera dell'Unione, che sulla politica della Difesa: ovvero se si debba finalmente fare e far funzionare una forza armata europea capace di esistere e operare senza la presenza americana o della Nato. Una faccenda amara e complessa. Ma per la quale è difficile intravedere una qualche funzione di tale Alto rappresentante, che peraltro esprime idee vaghe e anche confuse dal momento che attribuisce a Biden quel che è di Trump, l'aver stabilito una politica di ritiro totale, mentre rilutta ad attribuire a Biden quel che è proprio di Biden. E cioè aver guidato in una maniera sciaguratamente maldestra il ritiro con tutte le conseguenze che abbiamo e avremo sotto gli occhi, lasciando proprio gli alleati europei a leccarsi ferite di ordine morale oltre che politico e militare. Ci si sarebbe aspettati da una figura che ricopre una così «Alta» carica, se non un programma dettagliato, almeno una «vision», uno straccio di sogno comune che impegni in qualche modo il futuro. E invece purtroppo anche questo ritratto di una politica inesistente mostra la rappresentazione del vuoto benché verboso. Apprendiamo da questo Alto commissario ciò che già sapevamo ma con molte reticenze sull'encomiabile comportamento di chi ha aiutato in Afghanistan milioni di bambine, peccato che «la costruzione di uno Stato moderno non ha avuto tempo di mettere radici profonde». Che peccato, che novità. E come mai? Tutte le risposte sono prevedibili e generiche tipo quella temeraria secondo cui dovremmo nientemeno che «rafforzare l'idea dell'autonomia strategica» che potrebbe metterci «in grado di muoverci anche da soli rafforzando le nostre capacità e la Nato». Parole tutte talmente alte da non consentire la visione della loro traiettoria finale. Per carità, nessuna intenzione di mettere in berlina il signor Josep Borrell che probabilmente ce la sta mettendo tutta. Ma a che cosa dovrebbe servire un tale Alto responsabile se non è alto né responsabile? Non ha senso: una persona, comunque si chiami, che ricopre una carica definita «alta» capace soltanto di belare considerazioni nobilmente innocue, è non solo inutile, ma in qualche modo dannosa perché è parte integrante di un equivoco, fatto di reticenze, banalità e di sostanziale mancanza di coraggio, quella che ha impedito ai governi europei di avere una politica estera comune una forza militare in grado di sostenerla. Paolo Guzzanti

L’Economia afgana.

Catastrofe Afghanistan: non bastavano i talebani adesso il Paese sta morendo di fame per la siccità. Sono 18 milioni le persone che non possono mangiare tutti i giorni e a fine anno saranno 22 milioni. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud l'11 Dicembre 2021. Governare l’Afghanistan vuol dire far piovere. In Afghanistan la terra per la siccità è diventata dura come la pietra e a poco serve lavorarla. Manca l’acqua per irrigarla ma anche quella da bere. Il resto viene da sé. I pascoli sono bruciati, le greggi sono alla fame e con loro milioni di afghani. Si stima che 18 milioni di afghani non riescano a mangiare tutti i giorni e che alla fine dell’anno il numero possa arrivare a 22 milioni. Ma qui si parla soltanto dei talebani e di quello che avviene nelle città. Non c’è solo il caos politico in Afghanistan, c’è un Paese che sta morendo. La gente scappa dalle campagne sperando di trovare nelle città qualche cosa di cui nutrirsi: i profughi interni sono milioni. Non fuggono dai talebani, ma dalla fame. In un servizio di Euronews, viene intervistato Haji Khair Mohammad, un pastore nomade della provincia di Kandahar. Indica i suoi animali e dice che manca il cibo anche per loro: «Per questo sono magrissimi e non danno latte». Molti alla fine muoiono.

L’INTERVENTO FAO

Per conoscere l’Afghanistan bisogna andare nelle campagne. Circa il 70% degli afghani vive ancora nelle aree rurali e il 25% del Pil afghano è prodotto dal settore agricolo, il resto lo fa la coltura dell’oppio, visto che da qui viene l’80 per cento dei consumi mondiali di eroina.

Ma a parte il papavero, l’agricoltura resta il perno principale intorno a cui si sviluppa la vita economica del Paese, per questo la Fao ha deciso di sostenerla distribuendo sementi e formando i contadini: se si vuole aiutare gli afghani a sopravvivere bisogna umilmente partire da qui.

Il rapporto della Fao è disperante: «La situazione è disastrosa, tutti i contadini con cui abbiamo parlato ci hanno detto di aver perso il raccolto quest’anno e sono stati obbligati a vendere il bestiame, non hanno più soldi».

La campagna Fao raggiungerà 1,3 milioni di afghani consentendo ai contadini di non vendere il bestiame. È anche un’operazione rivolta a bloccare il flusso migratorio che parte da queste zone verso l’Europa. Ma non basta, se non vengono sbloccati anche gli altri aiuti internazionali.

DISASTRO ANNUNCIATO

Non possiamo dire che non lo sapevamo. A fine agosto la Fao aveva lanciato un allarme per l’Afghanistan senza pace appena conquistato dai talebani, invocando un aumento graduale degli aiuti umanitari: «Il Paese – diceva pochi mesi fa la Fao- continua a essere colpito da una sempre maggiore siccità che minaccia i mezzi di sussistenza di oltre 7 milioni di persone che vivono di agricoltura e allevamento. Molte di queste persone fanno già parte dei 14 milioni di afghani (uno su tre), colpiti da insicurezza alimentare acuta, che necessitano di aiuti umanitari urgenti».

Le conseguenze combinate della grave siccità, degli effetti economici causati dalla pandemia di Covid-19 e gli enormi sfollamenti avevano già colpito duramente le comunità rurali afghane, in particolare agricoltori e pastori, la spina dorsale dell’economia nazionale. Produzione alimentare e mezzi di sussistenza in agricoltura erano già sottoposti a enormi pressioni dalla siccità. 

Il direttore generale della Fao, Qu Dongyu, ha sottolineato che «nell’attuale crisi umanitaria è fondamentale dare subito un aiuto urgente agli agricoltori e agli allevatori per contrastare gli effetti della siccità e di una situazione che con l’inverno, nelle prossime settimane e mesi, andrà peggiorando in vaste aree rurali dell’Afghanistan. Se non aiutiamo le persone più colpite dalla grave siccità moltissimi si vedranno costretti ad abbandonare le loro terre, aumentando così il numero degli sfollati in determinate aree».

QUANTI SOLDI MANCANO

Questa situazione minaccia di aggravare ancora più l’insicurezza alimentare e rappresenta un’ulteriore minaccia alla stabilità dell’Afghanistan. Quanti afghani sta aiutando la comunità internazionale? Con la semina del frumento autunnale, la Fao puntava a sostenere 250mila famiglie di agricoltori vulnerabili (circa 1,5 milioni di persone). Ma con i fondi disponibili si è potuto aiutarne meno della metà, 110mila.

Per finanziare il piano di emergenza contro la siccità in Afghanistan mancano 18 milioni di dollari. Il costo di un caccia americano F-35 – tanto per avere un’idea – è di circa 100 milioni di dollari. E in Afghanistan nei venti anni di presenza occidentale di bombardieri, che hanno fatto migliaia di morti anche civili, ne sono volati a josa.

A causa della grave siccità è previsto un raccolto inferiore del 20% rispetto a quello del 2020 e inferiore del 15% alla media dei raccolti. Ecco come si muore in Afghanistan. Rispetto al 2020, si prevede un aumento di circa il 28% del fabbisogno di cereali dell’Afghanistan (essenzialmente frumento e farina). Ma il sistema statale tradizionale di distribuzione delle sementi, già quasi collassato in precedenza, sta crollando anche a causa della nuova situazione politica con l’ascesa dei talebani e un’amministrazione pubblica nel caos.

UN’ALTRA CRISI IN VISTA

Si muore di fame oggi e si morirà anche domani. Secondo il rapporto della Fao «gli agricoltori e i pastori colpiti dalla siccità hanno bisogno, in genere, per recuperare quasi totalmente, dai tre ai cinque anni. Un’altra crisi legata alla siccità e ai raccolti di frumento li colpirà molto duramente». Quando vedremo arrivare altri profughi afghani sulle rotte dei migranti non potremo dire «non lo sapevamo».

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Dagotraduzione dal Daily Mail il 24 novembre 2021. Senza lavoro e inghiottito dai debiti, Fazal, operaio della fornace di mattoni afghano, racconta che l'implosione dell'economia del paese gli ha lasciato una scelta difficile: dare in sposa le sue giovani figlie o rischiare che la famiglia muoia di fame. Il mese scorso, ha ricevuto una dote di 3.000 dollari dopo aver consegnato le sue figlie di 13 e 15 anni a uomini con più del doppio della loro età. Se i soldi finiscono, potrebbe dover sposare la sua bambina di sette anni, ha detto. «Non avevo altro modo per sfamare la mia famiglia e pagare il mio debito. Che altro avrei potuto fare?» ha detto alla Thomson Reuters Foundation dalla capitale afghana, Kabul. «Spero disperatamente di non dover sposare la mia figlia più giovane». I matrimoni precoci sono aumentati di pari passo con l'impennata della povertà da quando i talebani hanno preso il potere 100 giorni fa, il 15 agosto, con segnalazioni di genitori indigenti che promettevano persino bambine per futuri matrimoni in cambio di doti. Gli attivisti hanno previsto che il tasso di matrimoni precoci - che era prevalente anche prima del ritorno dei talebani - potrebbe quasi raddoppiare nei prossimi mesi. «Si paralizza (il mio) cuore sentire queste storie ... Non è un matrimonio. È stupro di minori», ha detto Wazhma Frogh, importante attivista per i diritti delle donne afghane. Ha detto di aver sentito parlare di casi ogni giorno, che spesso coinvolgevano ragazze di età inferiore ai 10 anni, anche se non era chiaro se le ragazze sarebbero state costrette a fare sesso prima di raggiungere la pubertà. L'agenzia delle Nazioni Unite per l'infanzia UNICEF ha affermato che ci sono state segnalazioni credibili di famiglie che offrono figlie di appena 20 giorni per un futuro matrimonio in cambio di una dote. Paralizzato dalla siccità e dal collasso economico, l'Afghanistan è destinato a diventare teatro della peggiore crisi umanitaria del mondo, secondo le agenzie delle Nazioni Unite. Con l'arrivo dell'inverno, l’agenzia ha affermato che milioni di persone saranno sull'orlo della fame e il 97% delle famiglie potrebbe scendere al di sotto della soglia di povertà entro la metà del 2022. L'improvviso ritorno al potere del gruppo islamico intransigente ha visto miliardi di dollari in beni afgani congelati all'estero e la maggior parte degli aiuti internazionali bloccati. I prezzi del cibo sono schizzati alle stelle e milioni sono disoccupati o non sono stati pagati. Frogh ha affermato che le famiglie sposano le loro ragazze per ridurre il numero di bocche da sfamare e per ottenere doti, che in genere vanno da 500 a 2.000 dollari, con i bambini più piccoli che attirano somme più elevate. I genitori stanno anche consegnando le figlie per saldare i debiti. Frogh ha citato un caso in cui un padrone di casa aveva preso la bambina di nove anni di un inquilino sconvolto quando non poteva pagare l'affitto. Nel nord-ovest dell'Afghanistan, ha detto che un altro uomo aveva lasciato i suoi cinque figli in una moschea perché non poteva dar loro da mangiare. Le tre ragazze, tutte ritenute sotto i 13 anni, si sono sposate lo stesso giorno. «Il numero di casi è aumentato così tanto a causa della fame. Le persone non hanno nulla e non possono nutrire i propri figli», ha affermato Frogh, fondatrice della Women & Peace Studies Organization, che lavora con le donne leader di base in tutto il paese. «È completamente illegale e non consentito nella religione», ha aggiunto. L'UNICEF ha affermato di aver avviato un programma di assistenza in denaro per aiutare a ridurre i rischi della fame e dei matrimoni precoci e di essere in collegamento con i leader religiosi per fermare le cerimonie che coinvolgono ragazze minorenni. Prima che i talebani prendessero il sopravvento, l'età minima legale per il matrimonio era di 16 anni per le ragazze, al di sotto del minimo riconosciuto a livello internazionale di 18 anni. I talebani però affermano di riconoscere solo la sharia che non prevede un'età minima, lasciandola aperta all'interpretazione. Il muratore Fazal ha affermato che i suoi problemi sono iniziati quando la crisi economica ha interrotto i lavori di costruzione. Come i suoi compagni di lavoro, era stato pagato in anticipo: 1.000 dollari per sei mesi di lavoro. Con l'esaurimento della richiesta di mattoni, il suo capo gli ha detto di restituire il suo anticipo, ma Fazal, che ha dato solo il suo nome, ne aveva già speso gran parte per le cure mediche per la moglie malata. I residenti locali hanno affermato che anche molti altri lavoratori delle fornaci sono stati costretti a sposare giovani ragazze per rimborsare gli anticipi. I dati nazionali più recenti mostrano che il 28% delle ragazze in Afghanistan si sposa prima dei 18 anni e il 4% prima dei 15. Ma Frogh e l'attivista per i diritti delle donne afghane Jamila Afghani hanno previsto che fino a metà delle ragazze potrebbero essere costrette a sposarsi prima dei 18 anni se la crisi dovesse continuare. Le ragazze che si sposano giovani sono a maggior rischio di stupro coniugale, abusi domestici, sfruttamento e pericolose complicazioni della gravidanza. «Rovina le loro vite, la loro salute psicologica, emotiva, fisica e sessuale», ha detto Afghani, presidente della sezione afghana della Women's International League for Peace and Freedom, che conta 10.000 membri in tutto il paese. «Queste ragazze sono spesso trattate come serve, come schiave». Afghani ha detto che gli attivisti sono recentemente intervenuti per fermare il matrimonio di una bambina di nove anni con un uomo di 30 anni per una dote di 50.000 afgani (538 dollari) nella provincia di Ghazni, nel sud-est.  Gli esperti dei diritti hanno affermato che la chiusura da parte dei talebani delle scuole superiori femminili è un altro dei motivi che spinge i genitori a far sposare le loro figlie. «I due più importanti fattori di rischio per favorire i matrimoni precoci sono la povertà e la mancanza di accesso all'istruzione», ha affermato Heather Barr di Human Rights Watch, che ha lavorato con le donne in Afghanistan per più di sei anni.

L’Afghanistan è un paese alla fame. A tre mesi dall’addio dell’Occidente, la fine degli aiuti svela il disastro climatico. Dove c’è guerra c’è siccità. Un terzo della popolazione è a corto di cibo. E un milione di bambini rischia di morire. Foto di Alessio Romenzi. Francesca Mannocchi su L'Espresso il 12 novembre 2021. «Quello che vediamo e analizziamo è che ovunque nel mondo c’è più conflitto e più violenza dove le temperature sono più alte della media», sono parole di Marshall Burke, professore presso il Dipartimento americano di Scienze ambientali del sistema terrestre e membro del Freeman Spogli Institute (FSI), centro studi internazionale su ambiente e insicurezza alimentare. Nel 2013 Burke è stato coautore di uno studio dal titolo «Clima e conflitti», la tesi delle sue ricerche è che i cambiamenti climatici aumentino vari livelli di conflitto, dalla violenza individuale fino a conflitti collettivi, le guerre civili, gli scontri tra nazioni, scrive Burke: «Il clima non è l’unico o il principale fattore di conflitto, ma sulla base dei nostri studi, la comunità internazionale non dovrebbe ignorare la minaccia rappresentata dal riscaldamento globale».

Al suo studio sono seguiti anni di polemiche, gli si contestava che ci fossero dati troppo scarsi, e una risicata letteratura a suffragio delle sue conclusioni, ma anche anni di ricerche e pubblicazioni di università, centri studi, organizzazioni internazionali.

Per tutti la sfida era studiare luoghi in cui il cambiamento climatico stava diventando un moltiplicatore di minaccia, e cioè stava inesorabilmente trasformando i disastri naturali in disastri sociali. Luoghi in cui l’aumento delle temperature, la riduzione delle piogge, la competizione per le risorse d’acqua sta influenzando l’andamento delle guerre e modificando i conflitti e le migrazioni.

Oggetto delle ricerche il Corno d’Africa, il Medio Oriente e, naturalmente, l’Afghanistan, Paese in cui l’intersezione tra clima e conflitto sta determinando minacce sempre più elevate alla stabilità interna e esterna.

I dati dimostrano anche come il cambiamento climatico sia lo schema di disuguaglianze globali: l’Afghanistan dalla metà del XX secolo ha assistito a un aumento medio della temperatura di 1.8 gradi Celsius (3.24 Fahrenheit), rispetto a una media globale dello 0.82. Cioè più del doppio, pur avendo contribuito al cambiamento climatico globale in maniera ridotta (un afgano medio produce 0,2 tonnellate di emissioni di anidride carbonica all’anno, rispetto alle quasi 16 tonnellate dell’americano medio).

Significa che pur avendo inquinato meno, l’Afghanistan è colpito più gravemente di altri dagli effetti del riscaldamento globale, dai disastri lenti provocati dalla siccità, dell’inaridimento del suolo, dell’acqua che scarseggia e dell’assenza di infrastrutture che possano arginare le conseguenze di un fenomeno destinato a peggiorare.

Il Paese non ha sbocchi sul mare, e l’80 per cento della popolazione dipende dall’agricoltura per la sussistenza. Le improvvise inondazioni, i terremoti, gli smottamenti provocati dallo scioglimento dei ghiacciai, uniti alle temperature estreme stanno rendendo ormai da anni sempre più difficile il lavoro nei campi, dunque il sostentamento, cioè il cibo, cioè la sopravvivenza quotidiana.

Lo scorso agosto mentre tutti i titoli dei mezzi di informazione si concentravano sulla riconquista di Kabul da parte dei talebani e sulle migliaia di persone che tentavano di fuggire dall’aeroporto Hamid Karzai terrorizzati dall’instaurazione del nuovo Emirato Islamico, minore attenzione è stata riservata agli effetti di lunga durata delle crisi precedenti, quelle croniche, come la crisi umanitaria prodotta dalla prolungata siccità che da anni non dà tregua al Paese e che, unita alla grave carenza d’acqua, ha portato 14 milioni di persone, cioè un terzo della popolazione, a vivere in una condizione di insicurezza alimentare acuta.

Siccità che, secondo le Nazioni Unite, rischia di trasformarsi da evento episodico a evento annuale entro il 2030.

Tre anni fa l’ultima, devastante, aveva prodotto 400 mila nuovi sfollati interni, cioè persone che avevano dovuto abbandonare i loro villaggi ormai non più coltivabili per spostarsi in altre aree del Paese in cerca di lavoro, e quattro milioni di persone in uno stato di bisogno di aiuti alimentari.

Oggi, con i talebani al potere, le forze guidate dagli Stati Uniti che hanno lasciato il Paese, gli aiuti economici internazionali congelati e l’inverno alle porte, la situazione si è aggravata e il Paese vive un’emergenza umanitaria senza precedenti: tre milioni di bambini sotto i cinque anni rischiano di soffrire di malnutrizione acuta entro la fine dell’anno e, se non arriveranno i trattamenti salvavita immediati, un milione di bambini rischiano di morire di fame nel giro di poche settimane.

Le scorte di cibo continuano a diminuire in Afghanistan anno dopo anno, e solo nel 2021, a causa dei combattimenti, migliaia di agricoltori e coltivatori non sono stati in grado di piantare i raccolti annuali, la metà di quelli coltivati è andato perso, il prezzo del grano è aumentato del 25 per cento.

Manca tutto, dunque. Manca il cibo. Manca l’acqua, mancano le infrastrutture che possano tamponare l’emergenza. Soprattutto dove i conflitti armati si intrecciano col riscaldamento globale.

L’Afghanistan ha vissuto guerre per quarant’anni e la guerra è l’opposto dello sviluppo: i contraccolpi dell’ultima offensiva militare vanno ad aggiungersi a decenni di conflitto che hanno privato l’Afghanistan della capacità di sviluppare infrastrutture necessarie a provvedere ai bisogni della popolazione come dighe e sistemi di irrigazione.

I contadini afgani coltivano ancora la terra con metodi antichi, come nel secolo scorso, lavorano tradizionalmente con i karez, antichi mezzi di irrigazione che trasportano acqua sotterranea dalle montagne evitando l’evaporazione.

In alcuni remoti villaggi sono ancora funzionanti, ma la stragrande maggioranza è andata distrutta in 40 anni di guerra. L’acqua vale più dell’oro: nelle principali città l’acqua potabile è di difficile reperimento, fino ai dati allarmanti sulla capitale: oltre il 70 per cento della popolazione di Kabul non ha accesso all’acqua potabile. Allarmanti e destinati a peggiorare: stando ai dati della John Hopkins University, la domanda d’acqua nel bacino di Kabul aumenterà di sei volte entro il 2050, proporzionalmente all’aumentare della popolazione che arriva dalle campagne nella città, sperando di trovare lavoro.

L’accesso all’acqua per scopi agricoli e dunque la possibilità di coltivare la terra ha inasprito il conflitto per generazioni ed è stata una delle principali ragioni di disaffezione e mancanza di fiducia verso i governi di Hamid Karzai prima e di Ashraf Ghani poi, ritenuti incapaci di migliorare le condizioni di vita dei cittadini e provvedere ai loro bisogni primari.

L’hanno capito i talebani, che negli anni hanno cominciato a usare le risorse naturali come strumento di consenso.

Corruzione e negligenza da una parte, conquista delle risorse vitali dall’altra: un pezzo della strategia dei talebani per la conquista del consenso è consistita, infatti, nel mettere le mani sull’acqua. È stato così nel tentativo di conquistare Herat, nella parte occidentale del Paese, dove i talebani avevano ripetutamente attaccato la diga, e lo stesso è avvenuto a sud, conquistare la diga per controllare Kandahar.

Una strategia ampia che da una parte garantiva l’accesso delle persone a beni primari come l’acqua, e dall’altro sfruttava la crisi sociale per reclutare nuovi sostenitori, lo schema del cambiamento climatico come moltiplicatore del conflitto, appunto.

La povertà, lo stato di bisogno, ha sempre reso più semplice per le organizzazioni fondamentaliste reclutare combattenti nelle comunità rurali, dove le persone non vedono altra prospettiva che impugnare le armi, così per anni i talebani hanno tratto vantaggio dalla crisi: le condizioni sempre più precarie dell’agricoltura affamavano le famiglie, qualcuno decideva di trasferirsi nelle aree urbane in cerca di lavoro, quelli lasciati indietro, soprattutto bambini e ragazzi, restavano esposti all’influenza dei talebani, che hanno reclutato giovani pagandoli una manciata di dollari al giorno, comunque più di quello che avrebbero guadagnato lavorando i campi.

Contestualmente i cambiamenti climatici hanno spinto moltissimi agricoltori ad abbandonare le colture alimentari come il grano a favore del papavero d’oppio più resistente alla siccità, in un Paese che è il più grande produttore mondiale dell’industria dell’oppio.

Cambiamento climatico, assenza d’acqua e risorse vitali, reclutamento, traffici illeciti e consenso.

Anche in questo caso, gli allarmi c’erano stati.

Già nel 2016 le Nazioni Unite avevano avvertito la comunità internazionale: «Il cambiamento climatico renderà estremamente difficile mantenere i risultati raggiunti in termini di sviluppo. Siccità e inondazioni sempre più frequenti e gravi e la desertificazione accelerata influenzeranno i mezzi di sussistenza rurali, l’economia nazionale e dunque la stabilità del Paese».

La stabilità, appunto. Tra le righe, il comunicato delle Nazioni Unite di cinque anni fa, cioè cinque anni prima del ritiro delle truppe occidentali, stava mettendo in guardia la comunità internazionale. Il messaggio era: in un Paese in guerra da quarant’anni, basato su un’economia agricola, in cui le infrastrutture sono danneggiate o inesistenti, non predisporre misure strutturali per contenere gli effetti del riscaldamento globale, significa rendere sacche di popolazione vulnerabili all’influenza dei gruppi armati.

I gruppi radicali costruivano consenso approfittando della crisi, mentre la comunità internazionale tamponava le emergenze con gli aiuti economici che negli anni hanno raggiunto il 40 per cento del Pil.

Praticamente sostenevano l’economia del Paese, pagavano stipendi, cibo, progetti umanitari, sanità.

Oggi il flusso di aiuti si è interrotto, e i soldi non arrivano più.

In risposta alla conquista del potere da parte degli “studenti di Dio” ad agosto gli Stati Uniti e i donatori internazionali hanno sospeso gli aiuti e congelato beni per miliardi di dollari.

Niente più stupendi, niente più supporto per l’agricoltura, niente soldi per pagare le organizzazioni internazionali, niente più denaro contante per gli afghani.

Niente che non si potesse prevedere, con anni di anticipo, ripetuti allarmi, report delle Nazioni Unite, pubblicazioni universitarie, e così via.

Oggi, mentre i governi europei sembrano giocare a una mosca cieca diplomatica, muovendosi a tentoni tra la necessità di negoziare con gli studenti di Dio e l’inopportunità di riconoscere il loro governo, i pastori e i contadini affamati vendono il bestiame e cedono le figlie in sposa in età sempre più giovane in cambio di denaro per potere provvedere al sostentamento del resto della famiglia.

Su questo, i talebani si giocano il consenso. Sono loro, oggi, a dover dimostrare di avere un piano, e saper provvedere al Paese. Trovare soluzioni per sfamarlo.

Oggi che sono al governo, sono i talebani a essere indeboliti dalla crisi e dalla fame. Sono i talebani che rischiano di perdere consenso, a favore di gruppi ancora più estremisti come l’Isis (qui chiamato Iskp) che stanno devastando il Paese con costanti attentati kamikaze.

In uno scenario di questo tipo, il cambiamento climatico e la povertà che ne deriva, sono stati e restano catalizzatori del conflitto, e l’interazione tra cambiamento climatico e strutture di governo deboli, ha spinto e rischia di spingere in futuro le persone verso l’economia illecita, la radicalizzazione. E costringerà milioni di persone ad abbandonare le loro case.

Un paradigma che riguarda l’Afghanistan e molti altri Paesi che vivono in uno stato di guerra: «Se si osserva una mappa dei Paesi più vulnerabili agli impatti del cambiamento climatico, confrontandola con una mappa dei conflitti attivi, sembrano sovrapponibili», dice Tara Clerkin, coordinatore per l’agricoltura e il clima di Irc, International rescue committee.

Cioè dove sono più allarmanti gli effetti della crisi climatica, più allarmanti sono anche gli effetti delle guerre. Continua Tara Clerkin: «Dico spesso che gli agricoltori sono i canarini nella miniera. Hanno sperimentato in prima persona gli impatti climatici per anni e ci hanno avvertito delle crescenti minacce ai mezzi di sussistenza umani. Il problema con questa analogia è che il canarino muore. La comunità globale ha la reale responsabilità di assicurarsi che non permettiamo che ciò accada».

Afghanistan a rischio collasso. I miliardi di Mosca e Pechino per aggirare il blocco degli Usa. Roberto Fabbri l'1 Settembre 2021 su Il Giornale. L'ultimo aereo militare con a bordo le rimanenti truppe americane e l'ambasciatore di Washington ha lasciato Kabul la notte scorsa accompagnato da razzi sparati nel buio e qualche fuoco d'artificio. I talebani festeggiano quella che chiamano «la riconquistata libertà che appartiene a tutti gli afghani» e che invece per la gran parte del loro stesso popolo è soltanto un altro incubo. Il resto del mondo si affanna a gestire il nuovo Afghanistan: l'Occidente scosso dalle ricadute della fallimentare ritirata americana si sforza di trovare unità d'intenti e di azione, magari coinvolgendo nelle trattative con il potere islamico che si insedia a Kabul quella Cina e quella Russia che si sono affrettate a ritagliarsi verso quel potere un ruolo privilegiato e pragmatico fino al cinismo. Pechino e Mosca, invece, cominciano appunto a giocare nell'Afghanistan sgomberato dagli occidentali la loro nuova partita geopolitica: la Cina non ha perso tempo nel denunciare «la sconfitta della pretesa americana di imporre con la forza nel mondo i propri valori» e annuncia «una nuova pagina per l'Afghanistan» in cui si vede in prima fila ma senza truppe sul terreno. Dopo il sostanziale insuccesso della mossa francese all'Onu (Macron puntava a far istituire a Kabul una zona di sicurezza per operazioni umanitarie sotto l'egida delle Nazioni Unite, ma il fronte talebani-Cina-Russia ha costretto a far mettere al voto solo una risoluzione che preme sui talebani perché tengano aperto un corridoio di libero espatrio) Stati Uniti e Paesi europei sono concentrati sulla continuazione delle evacuazioni: almeno 40mila persone che godono di protezione occidentale da far uscire dal Paese. Resta molto forte la pressione sui talebani affinché impediscano che l'Afghanistan torni a essere un santuario per il terrorismo islamico, e sono in corso contatti tra i principali Paesi dell'Ue più la Gran Bretagna per costruire «una presenza europea» in Afghanistan che non implichi di per se stessa il riconoscimento dei talebani. Domani il premier Mario Draghi, sempre impegnato a preparare un prossimo G20 a guida italiana con la questione afghana al centro, incontrerà a Parigi Emmanuel Macron. Sia Macron che la cancelliera tedesca Angela Merkel ritengono i colloqui con il nuovo regime di Kabul necessari, se non addirittura inevitabili. Merkel insiste sugli aspetti umanitari e mette le mani avanti: troppo presto per parlare di collocamento nei vari Paesi europei di «contingenti» di profughi afghani. Ma c'è un altro aspetto da non dimenticare. L'economia dell'Afghanistan, già poverissima di suo, è ora prossima al collasso: le riserve monetarie nazionali (poco meno di 10 miliardi di dollari) sono congelate negli Stati Uniti che si rifiutano di metterle a disposizione dei talebani, gli aiuti dall'estero (circa 450 milioni di dollari di prestito del Fmi attesi in queste settimane, ad esempio) sono bloccati, i capitali sono in fuga, le banche chiuse per esaurimento della liquidità, il che implica una mezza rivolta sociale a Kabul e il vano assalto ai bancomat. I miliardi dello Stato afghano sono investiti in titoli di Stato e oro in America, e la segretaria al Tesoro Janet Yellen ha disposto il loro blocco, sicché i talebani hanno accesso alla miseria dello 0,2 per cento dei fondi nazionali. Si teme un ritorno alla vendita di droga in grande stile e il mercato nero delle armi americane in mano talebana. La Russia ha chiesto a Biden di sbloccare i fondi «per sostenere il corso della moneta afghana al collasso», ma potrebbe essere la più ricca Cina a venire in interessato soccorso dei suoi nuovi amici di Kabul. Roberto Fabbri

I talebani contano sull'oppio. Afghanistan verso il crac: il Paese a un passo dal collasso rischia di tornare un narco-stato. Vittorio Ferla su Il Riformista il 31 Agosto 2021. Le finanze del paese sospese nel limbo. I beni congelati. Le banche chiuse. Gli aiuti dall’estero bloccati. La fiducia degli investitori crollata. I capitali in fuga. Secondo gli esperti, con la vittoria dei talebani e senza un’azione rapida da parte della comunità internazionale, l’economia dell’Afghanistan è diretta rapidamente verso il collasso. All’inizio della settimana scorsa, l’associazione delle banche afghane annuncia la nomina di Haji Mohammad Idris come governatore ad interim della banca centrale. È la prima nomina dei talebani in campo economico. Peccato che nessuno sappia chi sia Idris. Raggiunto dalla Nbc, l’ex viceministro delle finanze Gul Maqsood Sabit, che oggi vive in California dove lavora come docente universitario, cade dalle nuvole. «Idris ha prestato servizio nella Commissione economica dei talebani», spiega Sabit. Ma prima «era un insegnante in una scuola religiosa in Pakistan. Questo è tutto ciò che sappiamo di questa persona che ora gestisce la banca centrale. Probabilmente non ha alcuna esperienza». Per gli analisti economici questa è l’ulteriore prova che l’economia afghana rischia grosso. Dopo la caduta del governo di Ashraf Ghani il 15 agosto scorso, il valore dell’afghano, la valuta del paese, è crollato, perdendo l’8% rispetto al dollaro. Dal 17 agosto, la valuta locale è rimasta stabile perché è stata praticamente congelata: ora è quasi impossibile spostare denaro dentro o fuori dal paese. Con i dipendenti pubblici che non ricevono più lo stipendio e la serrata delle banche, anche il commercio quotidiano è difficile. Martedì scorso, a causa della instabilità politica, la World Bank ha messo in pausa gli esborsi finalizzati agli aiuti e ai progetti di sviluppo in Afghanistan. Per i talebani non è una buona notizia se si pensa che, dal 2002, la Banca Mondiale ha fornito un totale di oltre 5,3 miliardi di dollari per progetti di sviluppo e ricostruzione di emergenza. E che l’economia afghana dipende quasi completamente dagli aiuti esteri. Come ha scritto di recente su Twitter Atif Mian, professore di economia alla Princeton University, «il denaro straniero ha aumentato artificialmente il potere di spesa interno». Nel senso che tale aumento «non era associato a un aumento della produttività interna». I talebani devono ora mettere in piedi un governo che avrà il problema politico del riconoscimento. Senza legittimità internazionale, infatti, non potrà accedere ai miliardi di dollari di fondi di riserva – in gran parte detenuti negli Stati Uniti – o ai cosiddetti diritti speciali di prelievo di 450 milioni di dollari dall’International Fondo monetario. In queste condizioni, l’economia afghana può reggere al massimo un paio di mesi. Ne è convinto, tra gli altri, Hans-Jakob Schindler, ex diplomatico tedesco e funzionario delle Nazioni Unite, oggi è direttore senior del progetto no-profit contro l’estremismo: «A parte la droga, un po’ di estrazione mineraria e un po’ di produzione, non c’era molto da fare senza una iniezione di denaro da parte degli americani e di altre organizzazioni». Senza questo denaro, «il futuro economico a breve termine dell’Afghanistan è disastroso». Né la riapertura del commercio transfrontaliero con il Pakistan potrà fare una grande differenza. «Questo tipo di commercio transfrontaliero può riprendere, ma non è questo che fa funzionare l’economia: gli aiuti esteri sono stati ciò che ha fatto funzionare il paese», assicura Schindler in una intervista alla Nbc. La verità è che, nonostante in questi giorni si assista alla fiera del senso di colpa occidentale, nei due decenni di controllo dell’Afghanistan da parte degli alleati – e grazie agli aiuti internazionali – le condizioni di vita della popolazione sono notevolmente migliorate. Con enormi progressi nell’assistenza sanitaria, nell’istruzione, nell’aspettativa di vita e nella limitazione della mortalità infantile. Ne è convinto, per esempio, Ajmal Ahmady, l’ex governatore della banca centrale afghana appena i jihadisti hanno riconquistato il potere: chiunque sminuisca il miglioramento della vita degli afghani negli anni recenti, «sminuisce il cambiamento che è avvenuto», ha dichiarato al Financial Times. Secondo la Banca mondiale, nel 2019, sono morti circa 60 bambini di età inferiore ai 5 anni ogni mille nati: una cifra che si è dimezzata dall’inizio del secolo. Tra tutti i paesi a basso reddito, l’Afghanistan ha visto la più rapida e rilevante riduzione della mortalità infantile. Nello stesso periodo, la percentuale di bambini sottopeso e di madri morte per il parto si sono più che dimezzate. Anche l’assistenza sanitaria è migliorata: quasi la metà della popolazione ha accesso ai servizi igienico-sanitari, rispetto a un quarto nei primi anni del 2000. Di conseguenza, gli afghani ora vivono quasi 10 anni in più rispetto a due decenni fa. Trend positivi anche nel campo dell’educazione e del lavoro. Rispetto al 2001 sono circa 8,2 milioni di bambini in più a scuola e la percentuale di iscritti all’istruzione secondaria è passata dal 12% nel 2001 al 55% nel 2018. Specie le ragazze hanno beneficiato di questi cambiamenti: il numero di studentesse è aumentato, i tassi di fertilità delle adolescenti sono crollati e molte più donne lavorano. Nel 2020 circa un quinto dei dipendenti pubblici afghani erano donne e un seggio parlamentare su quattro era occupato da donne: nel 2001 neanche una. «Negli ultimi venti anni sono stati fatti enormi progressi nell’istruzione delle ragazze», ricorda Susannah Hares, condirettore delle politiche educative presso il Center for Global Development. Oggi è grande il rischio che questi progressi siano rapidamente annullati: «È probabile che vedremo molte, molte ragazze afgane costrette ad abbandonare la scuola». Per tutti questi motivi, secondo l’ex governatore della banca centrale Ahmady l’inversione dei progressi degli ultimi due decenni avrà un impatto disastroso sulla vita dei cittadini afghani: «Sarà uno shock per la maggior parte di loro». L’assalto all’aeroporto di Kabul di queste settimane, con migliaia di civili in fuga dal paese, spiega meglio di ogni parola la paura di ritornare nel passato più buio. D’altra parte, l’economia dell’Afghanistan resta molto fragile e i tassi di povertà sono ancora elevatissimi. Basti pensare che l’economia locale è quasi interamente basata sul contante e che solo il 10% delle persone possiede dei conti bancari. Secondo Gareth Price, ricercatore senior presso il think tank Chatham House, «nessuno dei principali generatori interni di crescita – in particolare le riserve minerarie – è stato fin qui sfruttato in modo significativo». Forse è anche questo il motivo per cui l’accesso alle miniere fa gola alla Cina in cerca espansione economica. Il tenore di vita ha beneficiato di un’espansione economica a due cifre fino alla metà degli anni 2010. Ma la produzione, nell’ultimo decennio, è rimasta al palo. Appena le risorse provenienti dagli aiuti internazionali si prosciugheranno completamente sotto i talebani, la sopravvivenza dell’economia legale dell’Afghanistan sarà seriamente in dubbio. Secondo l’International Trade Centre, un’agenzia multilaterale, l’Afghanistan ha esportato legalmente solo circa 1 miliardo di dollari di merci nel 2020, meno del vicino Tagikistan, nonostante la sua popolazione sia quattro volte più grande. La metà delle sue esportazioni ufficiali è composta da uva e altra frutta fresca, sebbene l’importanza dell’agricoltura sia diminuita con l’espansione del settore dei servizi. In sostanza, però, è difficile affidarsi alle stime ufficiali di crescita visto che l’economia informale comprende fino all’80% dell’attività economica complessiva afghana. Come avverte Gareth Leather, economista asiatico di Capital Economics, i dati ufficiali contano poco se si pensa che «uno dei più grandi prodotti dell’Afghanistan è l’oppio illegale, che ovviamente non compare nei conti nazionali». La coltivazione del papavero da oppio nelle aree controllate dai talebani è aumentata dopo il 2001. Secondo una stima pubblicata dalla Bbc, i ricavi annuali dei talebani si aggirano tra i 100 e i 400 milioni di dollari. Secondo l’organismo di vigilanza statunitense per la ricostruzione afgana (Sigar) le droghe illecite rappresentano fino al 60% delle entrate annuali. La verità è che l’Afghanistan è il più grande produttore mondiale di oppio, con una raccolta che rappresenta oltre l’80% della fornitura mondiale. Lo United Nation Office of Drugs and Crime sostiene che la produzione di oppio sia pari all’11% dell’economia del paese. Nonostante le rassicurazioni anche recenti del portavoce Zabihullah Mujahid, i talebani raccolgono proprio dall’oppio la gran parte delle loro risorse. Ecco perché, per molti esperti di economia internazionale, l’Afghanistan è già da considerarsi un narco-stato. Vittorio Ferla

Eugenio Occorsio per “la Repubblica - Affari & Finanza” il 30 agosto 2021. Uno dei paradossi connessi all'addio degli americani all'Afghanistan con il disastro che ne è conseguito, è che poche settimane prima - il 28 giugno - il Fondo Monetario aveva completato un approfondito esame della situazione del Paese e ne era uscito un risultato incoraggiante. L'economia continuava a essere dipendente dagli aiuti esterni ma l'entità delle sovvenzioni, che non sembrava in discussione, aveva fatto sì che nel 2020, in cui anche qui la pandemia aveva colpito duro, la perdita del Pil fosse stata di non più del 2%, meno di Europa e Usa. Per quest'anno era previsto un rimbalzo del 2,5% grazie al continuo flusso di fondi americani, a 470 milioni di Diritti speciali di prelievo che il Fondo stava per concedere (ora congelati), ai 12 miliardi di aiuti straordinari che un pool di Paesi donatori aveva deciso di concedere nella conferenza di Ginevra di metà maggio per gli anni 2021-24. Niente più di tutto questo, e l'Afghanistan è entrato nel poco ambito club dei Paesi falliti. È in buona compagnia: questo gotha alla rovescia, in cui già da tempo figurano ospiti quali Somalia, Yemen, Libia o Venezuela, si era arricchito nel 2020, avverte Standard & Poor's, di sei membri, uno dei quali - il piccolo Stato sudamericano del Suriname - è fallito ben due volte in un anno, e un altro - l'Argentina - è una vecchia conoscenza di questi annali perché è al nono fallimento in quarant'anni. Gli altri sono Libano, Zambia, Belize, Ecuador. I motivi vanno dalla pandemia alla volatilità delle materie prime, fino ai crack bancari a catena (è il caso del Libano con l'aggiunta dell'esplosione dell'agosto 2020 con 210 morti). E ora c'è l'Afghanistan. Per tutti, il rating è impietoso: D (default) secondo la definizione di S&P' s e di Fitch, WR (without rating) per Moody's. Nessun creditore al mondo presterà più soldi a questi Paesi perché avrà l'assoluta certezza di non vederseli mai restituire. L'unica speranza di sopravvivenza per le popolazioni - oltre 580 milioni di persone fra Paesi già falliti e new entries - sono gli aiuti umanitari, o la fuga. Dal Venezuela, in bancarotta ufficialmente nel 2019 ma già da molti anni in spaventosa crisi (inflazione nei 12 mesi da luglio 2020 a luglio 2021: +2.763%), sono usciti finora 5,6 milioni di abitanti. Quanti lasceranno l'Afghanistan (dal quale sono usciti già in 3 milioni dall'insediamento del primo Stato islamico nel 1996), nessuno è in grado di dirlo. E in Somalia qualcuno sta tentando di rientrare ma solo perché i tre campi profughi di Dadaab, in Kenia, a ridosso del confine Sud, aperti nel 1991, ospitano 218mila profughi: senonché il Kenia è a sua volta fallito e ha dovuto interrompere gli aiuti (che vengono comunque per la maggior parte dell'agenzia dell'Onu per i rifugiati). Così, sono 32mila i somali che hanno deciso di rientrare nel loro Paese in questi primi mesi dell'anno (secondo Unhcr) con un destino a dir poco incerto: a Mogadiscio non è stato ripristinato nulla di simile a uno Stato: legittimo governo, sicurezza, servizi pubblici, scuola, sanità. Le elezioni promesse dal 2012 sono appena state rinviate di altri due anni, le milizie di Al Shabaab spadroneggiano mentre il Covid dilaga e solo il 20 agosto sono arrivate grazie al Covax (l'alleanza fa Oms e Fondazione Gates) le prime 300mila dosi di vaccini. Povertà e conflitti sono un binomio inscindibile. La World Bank ha provato a fare i conti dei costi dei crack. Per ora ha assegnato all'International Development Association, il suo braccio per le situazioni più disperate, un budget di 15,2 miliardi di dollari nel corrente esercizio, ma calcola che le necessità ammontino ad almeno quattro volte tanto. Ha anche formulato una proiezione al 2030: a fine decennio due terzi delle popolazioni in estrema povertà (cioè che vive con meno di 1,5 dollari al giorno, oggi quasi 800 milioni) vivrà in Paesi tormentati da conflitti. O a ridosso di essi: la crisi del Libano (che la stessa Banca Mondiale ha qualificato come «la più clamorosa bancarotta del mondo da cinquant'anni») è alimentata dalla guerra in Siria che priva Beirut del suo mercato di riferimento. La crisi si è avvitata quando si sono essiccate le risorse di denaro dall'estero (lo chiamavano "la Svizzera del Medio Oriente"), bloccate dalla paura di investire in un Paese dove il 50% delle entrate fiscali serve a pagare gli interessi sul debito (170% del Pil), il deficit corrente è al 27% e la Banca centrale si è resa protagonista di operazioni di ingegneria finanziaria ben oltre il limite dell'incoscienza, vendendo al sistema bancario (il secondo al mondo in relazione al Pil con asset che valevano il 420% del prodotto) fette di debito pubblico in cambio di depositi in valuta estera su cui paga interessi insostenibili. Aggiungiamo un bel po' di corruzione e malaffare, che non mancano mai, ed ecco il crack. Dall'autunno 2019 la lira libanese ha perso il 90%, l'inflazione è all'86%, in due anni sono quadruplicati i prezzi dei beni di consumo. Il Paese non ha più soldi per comprare petrolio e sono agli sgoccioli le forniture veicolate clandestinamente tramite i buoni uffici delle milizie di Hezbollah dall'Iran (che è sotto embargo e infatti su questo l'Ue ha aperto un'indagine) col risultato di quotidiani blackout elettrici e interminabili file ai distributori. Il Fmi vorrebbe intervenire ma la stessa Hezbollah, prima forza politica, lo blocca perché vuole che prima l'America la cancelli dalla lista dei terroristi internazionali. Ancora più intricata la situazione dello Yemen - dichiarato fallito nel 2015 - diviso addirittura in quattro. Non c'è infatti solo il conflitto fra i ribelli Huthi e la coalizione di otto Stati arabi guidati dall'Arabia Saudita (con il supporto logistico degli Stati Uniti), ma una miriade di conflitti locali che hanno creato altre due enclave - compresa una in mano ad Al-Qaeda - del tutto ingovernabili. Ma ovunque una guerra civile è l'anteprima del crack: Etiopia e Myanmar, con le questioni rispettivamente del Tigrai e dei Rohinga, massacrati dall'esercito, sono sull'orlo del baratro. La stessa S&P' s afferma che il 60% dei Paesi emergenti hanno un indebitamento a elevato rischio, "non investment grade". Come sempre le questioni economiche sono alla base di genocidi, guerre, tragedie di popoli: il Tatmadaw birmano controlla il commercio di giada di cui il Myanmar detiene il 70% della produzione mondiale, che vale - secondo inchieste indipendenti - 31 miliardi di dollari: un terzo del Pil dell'intero Paese.

Il Governo Talebano.

Domenico Quirico per "la Stampa" il 24 novembre 2021. Cento giorni dopo il disastro il problema è irrisolto: trattare con il diavolo talebano? Questo avviene ogni qual volta il nemico viene tratteggiato come una delle figure del Male assoluto. Quando si deve rinunciare a questa identificazione, proficua per infiammare la guerra, e si passa alla diplomazia ci si accorge che non esiste Terrorismo senza terroristi, Fanatismo senza fanatici, Integralismo senza integralisti. Ed Emirato afgano senza taleban. Come lo raccontiamo allora dopo questo breve tempo? […] […] Se mai c'erano dei dubbi sul diavolo ora almeno questi sono fugati. Perché i taleban sono stati in questi cento giorni coerenti. Hanno disegnato fortemente i propri contorni. Nei loro piani era il progetto di ereditare intatto l'Afghanistan dal vecchio governo, compresi gli indispensabili aiuti umanitari internazionali. Hanno preso in mano il caos e questo li ha portati molto vicini al disastro. Ma non hanno fatto un passo indietro nei loro santificati soprusi. Chi li dipingeva panglossianamente come mutati dalle comodità del potere, tendenti al moderato, disposti a far le fusa all'Occidente perché assillati dalla necessità di riconoscimento e di aiuti, ha dovuto riporre le proprie carte. Pensavano che la vittoria accade e quindi si consuma. Spiano invece, come cento giorni fa, all'epoca dell'aeroporto di Kabul, i soliti volti tremendi, colmi di un selvatico, tetro potere. L'Afghanistan dei cento giorni appare saldamente talebano e l'unico nemico che li sfida è la versione locale del terrorismo dell'Isis, che sta infoltendo i ranghi. La promessa talebana di garantire almeno la sicurezza in un paese della guerra eterna appare dunque falsa. Purtroppo neppure i più cinici fautori della realpolitik potrebbero mai immaginare di investire sul Califfato indigeno come forza di resistenza. Anzi il loro attivismo sanguinario che mette freddo alla pelle sarebbe una tentazione in più per accomodarsi alla coesistenza con i taleban, jihadisti di una guerra santa micidiale ma paesana, rigorosamente ristretta ai confini nazionali. Non genereranno una vasta prole di fanatici capace di far saltare in aria il pianeta. Non invadono, non ingombrano, restano lì. L'emirato si presenta in pericolosa e rapida discesa verso il collasso, sospeso a una mezza vita anemica. Non ci sono soldi per pagare i funzionari e soprattutto i miliziani. Conseguenza di una economia da venti anni totalmente artificiale tenuta in piedi solo dal sostegno americano e dall'aiuto internazionale. Così, con i fondi della banca centrale bloccati dagli Stati Uniti come misura di pressione e dal fondo monetario, ventidue milioni di afgani sono in situazione di insicurezza alimentare acuta e nove già alla carestia. Ancora una volta come al momento della decisione di riconsegnare il Paese ai taleban l'Afghanistan si presenta innanzitutto, a noi, come un problema morale. Cercare, dopo una sconfitta una soluzione perfetta che garantisca sicurezza, un panorama mondiale immacolato e in più sia coerente con degli assoluti morali, proprio noi che abbiamo tradito gli afgani andandocene, appare come un errore arrogante. Facciamo collezione di ragionamenti pericolosi. E' la tentazione, neppur troppo nascosta, di politicizzare gli aiuti, ovvero subordinarli ad una accettazione di alcuni principi chiave capaci di rendere il diavolo talebano meno impresentabile, ovvero concessioni sulla libertà di donne e minoranze, e attenuazione dei bulloni della sharia sulla società. Si fanno tentativi un po' ipocriti in questa direzione, aiutando ma sotto spoglie anonime, consentendo l'invio di aiuti ma a non impegnative "organizzazioni non governative". Diciamolo: un affaruccio da usuraio, un po' vigliacco. Ai taleban è sufficiente per presentarlo come un implicito "riconoscimento". Non è affatto certo che il rapporto di forza basato sugli aiuti funzioni davvero e non renda semplicemente proprio coloro che dobbiamo aiutare come donne e bambini più esposti a fame e abbandono. I taleban da vincitori non hanno ceduto in nulla e sanno presentare la carestia come l'ennesima aggressione indiretta e vendicativa dell'Occidente a cui hanno saputo tagliare gli artigli. Strada maestra per scatenare un nuovo riflusso di odio contro gli stranieri. Ma alla luce dei primi cento giorni siamo poi sicuri che i taleban siano davvero così ossessionati dal patire quotidiano dei loro trenta milioni di sudditi? Che abbiano per attenuarlo bisogno di noi? I jihadisti, e i taleban lo sono, hanno scarsa attenzione al benessere minuto del popolo. La compassione non fa parte della loro arte di governo. Loro compito è assicurare con gesti inequivoci la virtù necessaria per meritarsi l'apoteosi bigotta non il miraggio della pancia piena o del tasso di sviluppo. Nel loro messianismo implacabile il povero affamato è avvantaggiato nell'ascesa. Al contrario di altre tirannidi apportano alla loro violenza uno scrupolo di purezza e di rigore che la rende ancora più salda, capace di mineralizzare l'uomo. Non facciamoci illusioni sul dinamismo delle vittime, non speculiamo, ferocemente e con troppe speranze, sulle rivolte della fame. Sullo sfondo c'è la Cina che fa fluire per ora un rivolo di aiuti, barattandoli però con forniture utili. Per i taleban. Una tentazione. E una soluzione.

Dalle fosse comuni di Gheddafi ai massacrati di Timisoara: così una fotografia può trasformare la realtà. Farhad Bitani e Domenico Quirico il 28 Ottobre 2021 su La Stampa. Guardi una fotografia e pensi che le parole sono inutili e sono date ai fannulloni solo per passatempo. Una immagine può contenere l’intero dolore del mondo e il guizzo di un obiettivo può sconvolgere più forte di una intera biblioteca di libri; quando escono lo fanno bruscamente, brutalmente come un urlo, una sfida, una offesa. Sono proiettili, coltelli. Fanno a pezzi. Già. Nulla è più vero della fotografia, l’infinito istante contro cui non c’è null’altro da fare che guardare e riflettere. E accusare. Perché le foto accusano, sono prove a carico inconfutabili, si dice, svelano i colpevoli, sono una antologia di indiscutibili di indizi che inchiodano ogni volta gli assassini, i crudeli, i fanatici. Non c’è più nulla in sospeso tra qui e là dove tutto è accaduto. C’è assoluta sicurezza in tutto, come se le immagini sapessero di più di sé stesse e della loro posizione nel mondo. Non si dubita più, perché si dovrebbe? Si sa. C’è una fotografia. Poi ti accorgi che la storia è gonfia di bugie di cui la fotografia è stata strumento. Perché mancava qualcosa di fondamentale: la didascalia, che testimoni il luogo e il tempo in cui era stata scattata, le circostanze, i nomi di coloro che vi erano effigiati, soprattutto chi l’aveva scattata e perché, e chi l’aveva diffusa e data ai giornali. Dalle false fosse comuni di Gheddafi ai massacrati di Timisoara le fotografie ritoccate, costruite, plagiate hanno reso buon servizio ai rivoluzionari e ai controrivoluzionari, ai tiranni e ai loro nemici, alle democrazie e ai totalitarismi. E fa spavento vedere quanto noi occidentali siamo diventati ingannabili, l’occidente che per tanti resta l’eterno nido della conoscenza. Perché in mezzo, tra noi e il ‘’vero’’ fotografico, si infila la propaganda, che svende finte verità, modifica i fatti, li abbiglia a sua immagine e somiglianza. E contro cui l’unica arma che ci resta è la prudenza, il dubbio infinito, il sospetto dell’inquisitore che non ha fretta ma vuole verificare sempre. Non sempre avviene. Per esempio l’Afghanistan del dopo: dopo di noi, dopo l’occidente, dopo la rotta, dopo una democrazia che in fondo non c’è mai stata se non nella sua figurazione propagandistica (fatta anche di immagini ahimè! con cui abbiamo colmato per tranquillizzarci questi venti anni), dopo altre decine di migliaia di innocenti finiti nella sovranazione dei fuggiaschi, dei profughi, dei mendicanti. L’Afghanistan del vuoto perché pieno degli Altri, dei talebani, dei nemici delle donne della tolleranza di tutto. Che ormai sembrano vivere da soli, senza testimoni. Sfondo perfetto per qualsiasi delitto. Fucina di voci, notizie non verificabili, disininformazione, propaganda, da mille parti. Da quel vuoto improvviso di immagini arrivano due fotografie. La prima riprodotta, moltiplicata, esibita, è tremenda: piedi di bimbi che escono da un mucchietto di stracci, fratellini morti per fame, per l’incuria, criminale disinteresse che gli studenti di dio hanno per tutto ciò che non è il loro paradiso di divieti e sharia. I volti non si vedono, non si scorgono gli occhi vitrei e inespressivi dei morti, spalancati nel corpo immobile, di una crudeltà eterna. La foto parla anzi urla: di dolore, di quell’Inumano che chiamiamo così per esorcizzarlo e invece, qui e ora, in questo terzo millennio, è ovunque intorno a noi, è umano, troppo umano. Davanti alla foto si inorridisce, si impreca e depreca, si chiede, che ingenuità! di far quello che non abbiamo fatto firmando la consegna di 34 milioni di persone a questi zeloti della violenza e della fame purificatrice. La foto forse è vera, purtroppo, forse davvero i bimbi sono morti per fame. Ma qualcuno con prudenza si è chiesto, prima di pubblicarla, chi l’ha scattata o inviata? Lo sguardo scende sulla dicitura. Spiega come la foto sia stata ripresa dalle agenzie di stampa dal profilo Facebook dell’ex deputato afgano Haji Muhammad Mohaqeq. Sapete chi è questa persona? Qualcuno prima di rilanciarla come documento indiscutibile di orrore ha fatto almeno qualche ricerca su di lui? Quest’uomo è uno dei più grandi criminali della guerra civile afgana! Tra i più spietati mujaheddin che gli americani hanno poi messo al governo. Durante la guerra civile i suoi uomini piantavano i chiodi nel cranio dei prigionieri. Lui e il suo gruppo nelle vie di Kabul erano capaci delle peggiori violenze. Mohaqeq conosce bene l’orribile pratica del “raqsi morda”, il ballo del morto: quando tagliavano le teste dei nemici, versavano olio bollente nel corpo che, ancora in preda alle convulsioni, per gli ultimi sussulti nervosi, si muoveva, e le accompagnava con la musica delle radio portatili, accese per lo spettacolo. Per non parlare della fine che toccava ai prigionieri che finivano nelle mani dei mujaheddin, lasciati all’interno di container sotto il sole, a 45 gradi, finché non morivano “cotti”. Dunque siamo certi di quella foto? Di cosa stiamo “postando” e incollando sui social? Come è accaduto giorni fa con la giovane pallavolista morta…senza nemmeno una ricerca, senza accertarsi del come e perché fosse morta. Ci siamo chiesti perché questa persona posti su Facebook una foto simile, quali interessi lo muovano…? Perché ha a cuore i bambini afghani? I bambini morivano di fame anche mesi fa, quando l’America controllava il paese, e Mohaqeq era deputato… E non solo i bambini hazara, anche quelli delle altre etnie morivano come mosche! Nessuno si è chiesto se questa foto sia vera… Quando sei alla fame, fare finta di essere bambini morti può farti guadagnare un pasto per tutta la famiglia. Non c’è certezza, non lo sapremo mai. Un’altra foto afghana, questa meno cruenta: il figlio del mullah Omar, Yaqoob, ministro della difesa, in turbante talebano e l’aria di saperla assai lunga, con accanto un generale, in uniforme gallonatissima che sembra una sopravvivenza di ragnatelosi bisnonni. Questa foto è stata messa in rete dai talebani. Semplice cronaca del nuovo Afghanistan? Ti accorgi di un particolare clamoroso: l’uomo, che indossa la divisa del vecchio esercito regolare che si è battuto a fianco degli occidentali contro i talebani, porta un voluminoso paio di baffi sovietici. Ma non ha la barba. Propaganda: serve a suggerire che i talebani non sono affatto fanatici, accanto a loro e in posti di alta responsabilità c’è posto anche per chi seppure un po’ sbattuto, spennacchiato dagli eventi, appartiene all’altro Afghanistan, quello nostro. E quindi…fidatevi di noi.

L’Afghanistan strozzato dalla crisi economica “dimentica” i diritti umani. Arshad Yusufzai su Inside Over il 23 ottobre 2021. Girovagando per le strade abbandonate e deserte di Kabul, appena due giorni dopo la presa della capitale afghana da parte dei talebani, l’unica cosa che era chiaramente visibile era l’incertezza. La popolazione non aveva alcuna idea del futuro del paese, né tantomeno della propria sicurezza personale, alimentare e finanziaria. Proprio come in ogni altro paese sottosviluppato, anche in Afghanistan l’incertezza per la popolazione con un reddito basso ed un’istruzione scarsa o del tutto assente riguarda principalmente la sicurezza alimentare.

L’ombra della crisi finanziaria

Ogni mattina quelle persone escono di casa con l’obiettivo di guadagnare a sufficienza per riuscire a nutrire le proprie famiglie, che spesso sono composte da oltre una mezza dozzina di figli per coppia. Lo stress di dover riuscire a portare a casa il pane ogni giorno oscura la necessità di avere diritti umani di base, quali la libertà di espressione in ogni sua forma, e ovviamente la vita. Tuttavia, in quei primi giorni, l’unica questione tra le file dei talebani che fosse degna di attenzione era quella di stabilire un controllo sulla nazione che si erano presi circa 40 ore prima. Trovandosi per la prima volta alla guida di un paese devastato dalla guerra, i talebani non erano ancora in controllo della famigerata provincia di Panjshir, e c’era sempre un rischio di attacchi da parte di gruppi rivali tra cui l’ISKP, che si trova principalmente nelle province di Nangrahar e Kunar, nell’Afghanistan orientale lungo il confine col Pakistan. Nel corso delle tre settimane successive, il sottoscritto ha presenziato ad una serie di importanti incontri tra rappresentanti più anziani dei talebani di medio ed alto livello. In tali occasioni l’incertezza riguardava piuttosto l’instabilità finanziaria in rapida crescita all’interno del paese. Vedendola come una questione prioritaria, i talebani si dedicavano esclusivamente ad assicurare fondi per pagare gli stipendi ai funzionari statali, che non venivano pagati ormai da diversi mesi, ed ovviamente a governare il paese. Temi quali diritti umani, istruzione femminile e libertà di espressione venivano citati durante le conversazioni soltanto nel momento in cui venivano poste delle specifiche domande al riguardo; mentre il paese stava precipitando repentinamente in una crisi finanziaria, tali questioni sembravano non essere altrettanto importanti.

La questione femminile

Guardando il lato positivo ci sono stati però alcuni passi in avanti: è scomparsa la maggior parte dei checkpoint dalle strade, è aumentato il traffico di veicoli e di persone, e le donne hanno ricominciato a frequentare i mercati; la cosa più bella è stata soprattutto vedere i bambini (e le bambine) tornare finalmente a scuola. Durante un incontro con il vice ministro talebano per l’Informazione e la Cultura, Zabihullah Mujahid, gli posi una domanda sulla ripresa dell’istruzione femminile. Come risposta il vice ministro ripetè la promesse talebana di offrire alle ragazze pari opportunità di formazione, illustrando inoltre le tre fasi del piano didattico che i talebani intendono implementare in tutto il paese. “Stiamo già consentendo ai ragazzi e alle ragazze delle elementari di andare a scuola. Tra questi sono inclusi i bambini fino alla quinta. Gli studenti delle classi 6-12 torneranno a scuola durante la seconda fase; mentre le classi più avanzate, tra cui l’università, ammetteranno solo studenti maschi fino a quando non avremo un sistema separato per le ragazze che includa un corpo docenti, aule didattiche, aule comuni e mezzi di trasporto”, ha spiegato Mujahid. Zabihullah Mujahid ha poi ribadito la posizione dei talebani di permettere alle donne di lavorare in vari settori. “In alcune professioni, come ad esempio quelle medico-sanitarie, le donne hanno un ruolo molto importante da svolgere. Non possiamo dimenticare i sacrifici di madri, sorelle e mogli che hanno perso i propri cari durante questa lunga guerra. L’Islam riconosce pari diritti a uomini e donne, e noi non priveremo metà della popolazione dei propri diritti garantiti dall’Islam. Tuttavia, per far sì che ciò accada servirà del tempo, poiché prima abbiamo altre questioni più urgenti da risolvere” ha aggiunto il vice ministro. La stessa narrativa è stata ripresa ovunque, anche durante un’incontro di alto livello tenutosi il 5 settembre con il Mullah Abdul Ghani Baradar, il quale ha evidenziato nello specifico i limiti finanziari come una delle principali cause del ritardo nelle ammissioni di ragazze all’università. Sarebbe lo stesso motivo per cui anche il rientro femminile al lavoro sta subendo dei ritardi, con i talebani che parlano di una mancanza di fondi per fornire strutture lavorative separate e segregate per le donne.

Il peso dell’evacuazione Usa

In un’altra sessione il giorno seguente, Haji Ibrahim Haqqani (zio del capo dell’Haqqani Network, Sirajuddin Haqqani) ha fatto riferimento allo scarso numero di docenti come altra importante ragione di fondo, sostenendo come l’evacuazione americana dall’Afghanistan sia stata di fatto anche una fuga di cervelli; fino al 31 agosto infatti, anche migliaia di abili professionisti (tra cui dottori, ingegneri, banchieri ed insegnanti) hanno evacuato il paese insieme agli altri civili. “Lo stato attuale sarà chiaro una volta che avremo ripristinato tutti i sistemi per la gestione del paese. Tra le altre cose saremo anche a corto di insegnanti e docenti, specialmente donne” commenta Ibrahim Haqqani. Ibrahim ha argomentato, inoltre, che fosse troppo presto perché i talebani mantenessero le loro promesse sui diritti umani e l’emancipazione femminile poiché erano saliti al potere soltanto da tre settimane, soddisfacendo sì alcune aspettative della comunità internazionale ma non tutte, e che solo per l’istruzione femminile servissero almeno dai 3 ai 6 mesi. I talebani vogliono sistemi educativi e lavorativi segregati per le femmine, all’interno dei quali quest’ultime dovranno studiare e lavorare separatamente dai maschi. Un’altra idea è quella di fornire alle donne sistemi di trasporto separati. Nella proposta dei talebani per il sistema educativo, le docenti insegneranno soltanto a studentesse, e in caso nessuna insegnante fosse disponibile (specialmente nelle classi più avanzate) se ne occuperanno docenti uomini, probabilmente facendo lezione dietro ad un velo o ad un telo. Nonostante i talebani più anziani abbiano ripetutamente impartito chiare istruzioni ai propri soldati affinché si comportino in maniera decente con chiunque, in particolare con le donne, vi è stato comunque un numero di incidenti durante le proteste femminili tenutesi recentemente a Kabul, dove alcuni talebani sono stati visti colpire delle donne con tubi di gomma e puntare armi da fuoco verso di loro.

La nuova visione talebana

Probabilmente alcuni talebani, specialmente quelli che hanno ricevuto un’istruzione più avanzata in Pakistan, Emirati Arabi, Qatar e Turchia, hanno una posizione più moderata in merito a diverse tematiche che dalla prima generazione di talebani erano viste invece come del tutto inaccettabili. Allo stesso modo, in molti ritengono che i talebani che una volta lavoravano nella sede politica di Doha abbiano mitigato la propria posizione su vari temi grazie ad un contatto prolungato con il mondo moderno. Anche se fosse davvero così, i talebani “di ampie vedute” rimangono un numero decisamente esiguo rispetto ad una maggioranza che vuole ancora seguire l’interpretazione più radicale della legge islamica della Shari’a. Un’altra sfida che si sta avvicinando rapidamente riguarda la rigida stagione invernale in Afghanistan, durante la quale i settori agricolo ed industriale del paese rasentano i livelli minimi di produttività, forzando la popolazione a ricorrere a tutti i propri risparmi per sopravvivere a questi lunghi inverni. Tutto questo rende ancora più urgente un tempestivo supporto finanziario da parte degli Stati più abbienti; tuttavia, collegare attività di assistenza umanitaria all’ottemperanza dei diritti umani o dell’istruzione femminile potrebbe risultare deleterio per i circa 39 milioni di afghani. Nonostante le diverse rassicurazioni verbali da parte dei talebani alla comunità internazionale in merito ai diritti umani, all’occupazione e all’istruzione femminile, pare che il mondo dovrà aspettare ancora qualche mese, un anno o anche due prima di vedere un netto cambio di rotta a favore dei diritti umani fondamentali della popolazione in Afghanistan. Per ora il problema più grande che devono affrontare i nuovi leader afghani e anche la popolazione locale è lo sgretolamento delle risorse finanziare del paese. I talebani, insieme a molti afghani, attribuiscono la responsabilità della propria miseria alle potenze che hanno invaso il paese 20 anni fa, e se il mondo non prestasse aiuto all’Afghanistan nemmeno oggi sarebbe un motivo più che valido per accusarlo di nuovo.

Afghanistan, talebani chiedono di intervenire all’Assemblea generale dell’ONU. Ilaria Minucci il 23/09/2021 su Notizie.it. I talebani, recentemente tornati al potere in Afghanistan, hanno inviato una lettera chiedendo di poter intervenire all’Assemblea generale dell’ONU. I talebani hanno chiesto di intervenire in occasione dell’Assemblea generale delle Nazioni Uniti che si sta tenendo a New York nel mese di settembre. La richiesta è stata indirizzata al segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, sotto forma di lettera. Negli Stati Uniti d’America, si stanno tenendo una serie di incontri organizzati per l’Assemblea generale delle Nazioni Uniti. Gli incontri si stanno svolgendo nella città di New York. In questo contesto, il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha ricevuto una lettera con la quale i talebani hanno chiesto di intervenire all’Assemblea Generale. La lettera è stata firmata dal nuovo ministro degli Esteri dell’Afghanistan, Amir Khan Muttaqi, nominato in seguito alla riconquista del potere da parte degli integralisti islamici. Con la missiva, il ministro degli Esteri talebano ha espresso il desiderio di prendere la parola in occasione del vertice internazionali e rilasciare alcune dichiarazioni alla presenza dei leader mondiali. A questo proposito, inoltre, è stato sottolineato che il portavoce talebano di stanza a Doha, Suhail Shaheen, è stato rivestito del ruolo di nuovo ambasciatore dello Stato afghano presso l’ONU e, di conseguenza, sostituirà Ghulam Isaczai che, sinora, ha ricoperto un simile ruolo.

Afghanistan, talebani chiedono di intervenire all’Assemblea generale dell’ONU: la lettera. La lettera è stata formalmente indirizzata al Comitato per le credenziali, composto da nove Paesi, tra i quali figurano la Russia e la Cina. A ogni modo, appare poco probabile che il Comitato per le credenziali riesca a riunirsi prima del prossimo incontro dell’Assemblea generale dell’ONU, fissato lunedì 27 settembre, e valutare la richiesta pervenuta. Pertanto, Ghulam Isaczai, incaricato di pronunciare un discorso durante l’ultima giornata del vertice internazionale, continuerà a essere considerato in via ufficiale l’ambasciatore afghano dinanzi alle Nazioni Unite, nonostante i talebani abbiano riferito che il diplomatico non rappresenta più il Paese.

Afghanistan, talebani chiedono di intervenire all’Assemblea generale dell’ONU: il riconoscimento. Intanto, nella giornata di martedì 21 settembre, i più importanti esponenti del nuovo Governo talebano hanno incontrato svariati funzionari del Pakistan, della Russia e della Cina ossia alcune delle realtà geopolitiche più coinvolte nella nuova situazione regionale che si è sviluppata nel corso delle ultime settimane. L’obiettivo principale dei talebani consiste nell’ottenere il riconoscimento del Governo che hanno istituito da parte degli altri Stati che compongono la comunità internazionale. Da un punto di vista ufficiale, infatti, una simile circostanza non si è ancora verificata e il ritorno al potere degli integralisti islamici non è ancora stato riconosciuto. In tal senso, dunque, nominare autonomamente e direttamente l’ambasciatore dell’Afghanistan all’ONU rappresenterebbe un passo determinante.

Stefano Graziosi per la Verità l'11 settembre 2021. Joe Biden e Xi Jinping sono tornati a parlarsi. Dopo sette mesi dall'ultima telefonata, i due presidenti hanno tenuto ieri un nuovo colloquio, in cui hanno sostenuto la necessità di una cooperazione tra Washington e Pechino. «Il presidente Biden ha sottolineato l'interesse duraturo degli Stati Uniti per la pace, la stabilità e la prosperità nell'Indo-Pacifico e nel mondo e i due leader hanno discusso sulla responsabilità di entrambe le nazioni di garantire che la concorrenza non si trasformi in conflitto», ha reso noto la Casa Bianca, mentre - da parte cinese - è stato evidenziato che Xi ha criticato la politica americana per aver creato delle difficoltà nel rapporto tra Washington e Pechino. Salta sicuramente all'occhio che, nei resoconti della telefonata, siano emerse delle informazioni piuttosto vaghe. Il che è un po' strano per un colloquio che, secondo quanto riferito, sarebbe durato ben 90 minuti. È tra l'altro difficile non immaginare che la telefonata abbia del tutto ignorato la crisi afgana, specialmente in vista del G20 previsto per il mese prossimo. Vale la pena sottolineare che Pechino ha cercato di presentare il colloquio come un sintomo della debolezza americana. Un articolo pubblicato ieri dal Global Times (organo del Partito comunista cinese) era infatti significativamente intitolato: «La seconda telefonata tra Xi e Biden è un segno positivo in mezzo ai rapporti tesi; segnala la crescente ansia degli Stati Uniti di cercare l'aiuto della Cina». Non solo: sempre il Global Times, l'altro ieri, aveva pubblicato un altro articolo, in cui si riportava che, secondo il portavoce dei talebani Suhail Shaheen, i miliziani dell'Etim (organizzazione nemica di Pechino, dai pregressi legami con i «barbuti») avrebbero lasciato l'Afghanistan e che il neonato governo di Kabul sarebbe pronto ad aprirsi a nuove figure. Insomma, sembrerebbe che la Repubblica popolare voglia convincere (o autoconvincersi) di trovarsi in una posizione di forza. Peccato per lei che la situazione è forse un tantino più complicata. Cominciamo col dire che i talebani non hanno mai brillato per affidabilità. E non sarà un caso che anche l'Iran stia iniziando a nutrire preoccupazioni per la composizione del nuovo governo di Kabul (quell'Iran che, ricordiamolo, soprattutto negli scorsi mesi si è notevolmente avvicinato a Pechino). Partecipando mercoledì a un meeting con le controparti di Cina, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan e Pakistan, il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amirabdollahian, ha dichiarato: «L'esperienza ha dimostrato che un governo non inclusivo non fa nulla per aiutare la stabilità, la pace e il progresso in Afghanistan, quindi la nostra aspettativa dai ministri degli esteri è di annunciare la necessità della formazione di un governo inclusivo con una voce unificata». Ricordiamo che, nonostante una storica inimicizia, il comune avversario statunitense avesse portato negli anni le Guardie della rivoluzione islamica a sostenere i talebani. Le parole di Amirabdollahian mostrano adesso però che Teheran non è troppo fiduciosa nei confronti dei «barbuti»: in particolare, Al Jazeera ha lasciato intendere che gli iraniani temono l'assenza di rappresentanti sciiti nel governo. In tutto questo, uno storico alleato dell'Iran come la Russia aveva annunciato che non avrebbe preso parte alla cerimonia di inaugurazione del nuovo esecutivo afgano. Una cerimonia che tuttavia, secondo quanto riferito ieri dall'agenzia di stampa russa Tass, sarebbe stata annullata. Un ulteriore problema è poi quello dell'Etim. Il sospetto è infatti che le promesse dei talebani su questa spinosa questione possano rivelarsi scritte sulla sabbia. Un rischio sottolineato, giusto ieri, dal South China Morning Post, che ha riferito come la suddetta garanzia di Suhail Shaheen risulta sostanzialmente impossibile da verificare. Sempre ieri, The Diplomat sottolineava che, con la vecchia guardia dei talebani al potere, sarà molto difficile per Pechino rafforzare la propria influenza politica ed economica sul Paese. Inoltre, che la Repubblica popolare tema la minaccia jihadista è testimoniato anche dal portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, che ha accusato ieri l'intervento americano in Afghanistan di aver comportato un «significativo aumento delle organizzazioni terroristiche». In un simile quadro, i cinesi avrebbero disperato bisogno di un Afghanistan stabile. Uno scenario, questo, tutt' altro che certo. Il Paese è attraversato da proteste, tanto che ieri le Nazioni Unite sono intervenute per condannare le violente repressioni messe in atto dai talebani. Inoltre, sempre l'Onu ha sottolineato che l'Afghanistan rischia seriamente una crisi umanitaria sia in termini economici che sanitari. Insomma, i cinesi devono affrontare non pochi problemi. E non è affatto detto che gli americani abbiano realmente tutta questa voglia di cooperare con loro sul dossier afgano. D'altronde, per Washington vedere Pechino impelagata nelle tortuosità afgane è un'occasione allettante. Indubbiamente rischiosa. Ma senz'altro allettante.

Mattia Sorbi per repubblica.it l'11 settembre 2021. È crisi umanitaria nel Panshir. Le strade della valle per quasi tutta la giornata sono state chiuse dai talebani impedendo alla popolazione di scappare verso Kabul. Le auto dei profughi hanno formato chilometri di coda, con diversi fuggitivi uccisi dai talebani. Quel che resta della residenza guidata da Ahmad Massud, il figlio del mitico Leone del Panshir, parla di «genocidio e pulizia etnica» con rastrellamenti «casa per casa, di villaggio in villaggio per uccidere i giovani». Le notizie non sono confermate, in tutta la provincia di Bazarak sono assenti elettricità e comunicazioni. Certo è che la popolazione sta tentando un vero e proprio esodo - che invece i talebani vogliono impedire per non ritrovarsi con la valle spopolata - con la fuga non solo verso Kabul, ma anche sulle montagne dove si rifugiano migliaia di persone. Si parla anche in questo caso di vittime, colpite dai colpi dell'artiglieria talebana ancora in battaglia con i superstiti della resistenza di Massud. Lungo la strada per la capitale, invece, testimoni parlano di persone uccise. Secondo il quotidiano turco Vatan Today gli studenti coranici starebbero costringendo centinaia di civili dentro a dei container, per farli morire asfissiati. Altra notizia non confermata, con i talebani che anzi smentiscono. Una fonte conferma invece che i guerriglieri talebani uccidono i civili nei villaggi, specialmente bombardando le montagne o talvolta, se sospettati di aiutare l'esercito nazionale, sul posto di lavoro, ma ha smentito qualsiasi forma di massacro di massa. È accertata la morte di Roulllah Saleh, il fratello maggiore del vice presidente Amrullah Saleh, numero due del governo Ghani schieratosi con Massud dopo la presa di Kabul. Roullah Saleh è stato fatto scendere dall'auto in coda verso Kabul e giustiziato dai talebani. A Kabul invece un portavoce dei talebani, Sayed Zekrullah Hashim, ha affermato che «una donna non può fare il ministro, sarebbe metterle sul collo un peso che non può sostenere. Non è necessario che le donne siano nel governo, loro devono fare figli». L'inviato dell'Onu in Afghanistan, Ghulam Isaczai, ha esortato, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a non riconoscere alcun governo a Kabul. «Vi chiedo di non riconoscere alcun governo in Afghanistan a meno che non sia veramente inclusivo e non sia formato sulla base del libero arbitrio del popolo». Secondo Isaczai le recenti proteste a Kabul sarebbero un chiaro messaggio «ai talebani che il popolo non accetterà un sistema totalitario». Posizioni che dovranno convergere, alla luce delle dichiarazioni del Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres che un'intervista alla France Press ha dichiarato: «Il nostro dovere è quello di estendere la nostra solidarietà a un popolo che soffre enormemente, dove milioni e milioni di persone rischiano di morire di fame. Bisogna mantenere un dialogo con i talebani, in cui noi riaffermiamo i nostri principi in maniera diretta». Da parte sua il Pakistan ha negato di aver sostenuto l'offensiva dei talebani contro il Panshir. Il portavoce del ministero degli Esteri, Asim Iftikhar, ha respinto tutte le accuse, definendole «parte di una campagna maliziosa» orchestrata dall'India. Si tratta di un «tentativo disperato di diffamare il Pakistan e fuorviare la comunità internazionale», si legge nel comunicato.

Afghanistan, tra gli hazara di Kabul. «Ci attaccano. Per i talebani siamo schiavi degli infedeli». Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera il 12 settembre 2021. La minoranza sciita vive nel terrore di nuove persecuzioni. Gli hazara hanno oggi una dannata paura dei talebani. Si è chiuso il cerchio: dalle memorie dolenti delle persecuzioni del passato, seguite dalla ventennale parentesi felice della promozione sociale in una comunità di eguali garantita dalla coalizione internazionale, al ritorno improvviso delle angosce per un futuro di segregazione e oppressione. «In tre settimane, dalla caduta di Kabul il 15 agosto, siamo precipitati al fondo della scala sociale afghana. I talebani si vendicheranno. Hanno vinto e noi sciiti siamo ormai alla loro mercé», dicono giovani e anziani. Li abbiamo incontrati nel quartiere di Barci, abitato da un milione e 800mila hazara, la loro roccaforte nella capitale, che oggi conta in tutto quasi sei milioni di persone. Zigomi alti, occhi a mandorla, barbe rade, sono tra coloro che più tenacemente cercano di non togliere camicie e pantaloni di taglio occidentale per tornare a vestire i shalwar kameez tradizionali imposti dai nuovi padroni. «Ci fermano ordinando di lasciare a casa gli abiti degli infedeli. Ma in verità lo fanno perché siamo hazara», ricordano in coro. Le donne rifiutano il burka e preferiscono scialli sgargianti, che non coprono tutto il viso. Le loro fattezze asiatiche si distinguono nettamente da quelle delle barbe lunghe e i nasi aguzzi degli ariani pashtun con gli ampi turbanti in testa. Sembravano distinzioni superate dalla modernità. Ma il ritorno dei talebani le riporta fortemente in auge. I poco meno di 7 milioni di hazara (il 20% della popolazione del Paese) temono come la peste i circa 14 milioni di pashtun. Chi pensava che le dinamiche della diffidenza sociale, così ben raccontate nel Cacciatore di Aquiloni di Khaled Hosseini, fossero ormai morte, scoprirebbe venendo a Barci quanto invece sono adesso più vive che mai. «I giornalisti picchiati a sangue mentre filmavano le proteste delle donne erano hazara. E così pure i manifestanti arrestati. Le miliziacce dei contadini pashtun arrivati dalle provincie rurali ci individuano subito come nemici e inferiori. I loro criteri seguono canoni razziali. Considerano ogni hazara come un alleato degli americani, uno schiavo degli infedeli», racconta Hazem, docente di economia. Non serve che sui muri di Kabul le loro pattuglie abbiano appena scritto slogan in cui bollano la persecuzione razziale come «antislamica». Gli hazara li considerano «pura propaganda». Come reagire? Qualche giovanissimo accenna alla possibilità di unirsi alle milizie hazara del comandante Alipoor, tra le montagne del Wardak. Ma per ora restano pochi. L’imam 25enne Mohammad Zakharia Rasooli ci racconta nella penombra della sua moschea quanto gli agenti dei servizi talebani siano attenti a controllare il dissenso. «Mi hanno già cercato e portato in caserma tre volte. Nei miei sermoni avevo appellato all’unità della nostra comunità e messo in guardia contro i delatori. Sapevano tutto di me e delle mie attività, chiaramente tra noi c’è una spia. Ma mi hanno offerto di collaborare con loro. Esigevano che firmassi un documento in cui mi impegnavo a non criticarli mai più. Ho rifiutato, mi hanno minacciato di morte. Poi però si sono resi conto che ciò avrebbe generato una vampata di rivolte nel quartiere e hanno deciso di liberarmi. Per loro resto un osservato speciale», dice. Lui è rimasto colpito dalla loro organizzazione. Nulla a che vedere con le milizie primitive di due decenni fa. «Hanno agenti che intercettano le nostre telefonate, seguono la nostra attività sui social. Qui ci sono stati alcuni arresti mirati. Gente presa a casa di notte e di cui si sa più nulla. Dalle province giungono voci di torture ed esecuzioni. I talebani gli hanno anche contestato il suo ultimo libro, che riguarda il ruolo della donna nella Ashura, la principale festività religiosa sciita. «Ho ricordato loro che le donne nella vita del Profeta sono state molto importanti. Ne è nata una discussione accesa», ricorda. Nella vicina moschea «Imam Zaman» indicano la lapide con i 52 nome di sciiti uccisi da un kamikaze di Isis il 18 ottobre 2017. Da allora gli attentati contro gli hazara non hanno fatto che crescere causando centinaia di vittime. «I talebani proteggono Isis, sebbene dichiarino il contrario», dice Boniat Alì, un 36enne che partecipa ai servizi di controllo sulla porta.

Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 9 settembre 2021. Come data per ufficializzare il nuovo governo hanno scelto l'11 settembre, giorno in cui cade il ventesimo anniversario delle Torri Gemelle. Una risposta molto chiara alle democrazie americane e occidentali. I talebani sono pronti a inaugurare il nuovo esecutivo e lo fanno forti dell'endorsement della Cina e della Russia che ha già comunicato la sua presenza diplomatica per la cerimonia che si terrà dopodomani. Da Pechino si sono detti pronti a dialogare con i neo ministri e hanno annunciato aiuti per 31 milioni di dollari. «La Cina rispetta la sovranità, l'indipendenza e l'integrità territoriale dell'Afghanistan - ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri, Wang Wenbin -. Siamo disposti a mantenere le comunicazioni con il nuovo governo e i leader afghani», ha sottolineato Wenbin. La Cina ha anche messo in guardia sulla mutata situazione in Afghanistan che ha complicato il contesto dell'antiterrorismo internazionale e regionale e su «alcuni terroristi internazionali in Afghanistan che stanno pianificando di infiltrarsi nei Paesi vicini». I LEADER In una intervista ad Al Jazeera, il primo ministro ad interim, il mullah Hassan Akhund, ha dichiarato in serata: «Il tempo degli spargimenti di sangue è finito. I leader dei talebani hanno una grande responsabilità nei confronti del popolo afghano». Akhund ha quindi lanciato un appello ai funzionari e agli esponenti dell'ex governo chiedendo loro di tornare, e assicurando che «la loro sicurezza sarà garantita». Ma se la Cina approva la lista dell'esecutivo, che vede nomi di ricercati dall'Fbi e di personaggi riconosciuti come terroristi dall'Onu, Europa e America insistono sull'approccio attendista prima di impegnarsi, soprattutto perché il nuovo governo afghano è composto da ranghi lealisti con estremisti affermati in tutti i posti chiave, e non ha donne nell'organico.  «Dobbiamo parlare con chi è al potere» - ha dichiarato l'Alto rappresentante Ue, Joseph Borrell - principalmente per garantire gli sforzi di evacuazione, ma anche per prevenire una crisi umanitaria. Ma ciò non implica in alcun modo il riconoscimento politico internazionale dei talebani. Saranno giudicati sulla base delle loro azioni piuttosto che sulle promesse».  Gli Usa, poi, «faranno tutto ciò che è in loro potere» per riprendere i voli di evacuazione dall'Afghanistan, ha chiarito il segretario di Stato Antony Blinken nella riunione con i ministri degli Esteri di Nato e G7, spiegando che finora i talebani non stanno permettendo la loro partenza, «perché mancano alcuni documenti». Il portavoce della Casa Bianca Jen Psaki ha aggiunto: «Non consentiremo l'atterraggio nelle nostre basi militari all'estero di aerei provenienti dall'Afghanistan con centinaia di passeggeri afghani senza documentazione e adeguati controlli di sicurezza». E questo è facilmente spiegabile con il timore che negli stessi voli possano arrivare dei terroristi.  Intanto, la situazione nel Paese comincia a delinearsi. E infatti, tra le prime decisioni prese, i talebani hanno stabilito che saranno vietate le manifestazioni non autorizzate e che le donne dell'Afghanistan non potranno fare più sport, perché «non è necessario». E perché durante l'attività sportiva «potrebbero scoprire il volto e il corpo». A comunicarlo è stato il vice capo della commissione culturale, Ahmadullah Wasiq, che giustifica all'emittente australiana Sbs la scelta. «Non credo che alle donne sarà permesso di giocare a cricket perché non è necessario che giochino a cricket - ha detto Wasiq -. Nel cricket potrebbero affrontare una situazione in cui il loro viso e il loro corpo non saranno coperti. L'Islam non permette che le donne siano viste così». Siamo nell'«era dei media - ha proseguito -, ci saranno foto e video. E la gente le guarderà. L'Islam e l'Emirato Islamico non consentiranno alle donne di giocare a cricket o di praticare un tipo di sport in cui vengono esposte». Le donne, dal canto loro, stanno provando a resistere, e per il terzo giorno consecutivo sono scese in strada a Kabul per protestare. Ma sono state disperse in malo modo. «L'Afghanistan non può ridiventare un terreno fertile per il terrorismo e una minaccia alla sicurezza internazionale - è intervenuto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio - Dobbiamo garantire che i talebani rispettino il loro impegno di impedire che i gruppi terroristici operino nel Paese. La Coalizione Internazionale per combattere Daesh potrebbe fornire una piattaforma per discutere di qualsiasi azione che potremmo intraprendere in futuro». Cristiana Mangani

Lorenzo Cremonesi per corriere.it il 9 settembre 2021. Un mondo senza sport femminili, senza musica che non siano le nenie religiose, senza giochi, senza volti di donne, senza immagini, ma dominato da uomini barbuti che sorvegliano rigorosi fantocci di burqa blu o, ancora meglio, neri dalla testa ai piedi. Soltanto tre settimane fa i nuovi padroni talebani, ebbri di vittoria, promettevano magnanimi che il nuovo Afghanistan del ritorno dei mullah sarebbe stato accondiscendente nei confronti della società civile sviluppatasi negli ultimi vent’anni sotto l’influenza culturale e sociale della coalizione occidentale a guida americana. Ebbene, non era vero. Gli ultimi due giorni sono stati una drammatica doccia fredda per chiunque si fosse lasciato illudere. Martedì la presentazione del loro nuovo governo ha riportato in auge figure e modi di pensare legati a filo doppio alla loro teocrazia radicale tra il 1994 e il 2001. L’incubo che l’Afghanistan torni ad essere una base logistica del terrorismo internazionale diventa concreto. E ieri l’ulteriore passo all’indietro. «Le donne non potranno giocare a cricket, né praticare alcun altro sport che esponga i loro corpi e li mostrino ai media. Ma in realtà, che necessità c’è che le donne facciano sport? L’Islam vieta che il corpo della donna sia visto in pubblico», ha dichiarato Ahmadullah Wasiq, che è il numero due della Commissione culturale talebana. Ad ascoltarlo tornano alla mente tutti i lenti progressi compiuti dalle donne, ma in realtà dall’intera società afghana, in quei primi anni post-2001. Allora la nascita di una nuova squadra di basket femminile, l’apertura di ogni palestra alle donne, le neo-giornaliste assunte nel proliferare di giornali, radio e televisioni, l’apparire sul mercato del lavoro di professioniste pronte a prendere il proprio posto in uffici che sino ad allora erano stati solo per uomini, sembravano successi destinati a durare, a cambiare il Paese per sempre. Le cronache degli ultimi giorni provano che non è così. I talebani hanno vietato da ieri anche le manifestazioni non autorizzate, ordinando di essere informati 24 ore prima circa gli scopi e gli slogan delle proteste. Gli Stati Uniti e l’Europa, incluso il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, hanno espresso preoccupazione per il nuovo governo: «Non è inclusivo», ha detto il segretario di Stato Usa Antony Blinken in una riunione ministeriale virtuale cui hanno partecipato 22 Paesi.«I talebani saranno giudicati dalle loro azioni: qualsiasi legittimità dovrà essere guadagnata». L’illusione di un progresso irreversibile si schianta in un deserto di delusioni e paure per il futuro. Questo senso di rottura radicale col recente passato diventa un collettivo trauma identitario e trova la sua espressione plastica nelle tende che adesso vengono tirate nelle classi scolastiche per dividere le donne dagli uomini. Abbiamo visitato alcune università private che sono state riaperte l’altro ieri (quelle pubbliche restano chiuse). «Le nostre facoltà di Legge formano giudici e avvocati. Valorizziamo i diritti civili. Io stesso faccio parte della commissione che sino al 15 agosto era incaricata di supervisionare la stesura della nuova Costituzione afghana. Ora tutto questo non ha più valore. I talebani imporranno la loro lettura radicale della legge religiosa islamica. Ci considerano nemici, siamo inutili nel loro Stato. Tanti giovani studenti mi dicono che non intendono continuare i nostri corsi. A che servono? Non troverebbero lavoro», spiega Yarmohammad Baqri, 61enne rettore della Ibn Sina University.

Contano circa 1.600 iscritti, il 35 per cento donne, ma ieri erano presenti in tutto solo una quarantina. Lui stesso mi legge le nove disposizioni appena rese note dal nuovo ministro dell’Educazione talebano. Prevedono la totale separazione tra donne e uomini. «Se ci sono più di 15 studentesse è obbligatorio organizzare classi separate. Se il loro numero è minore occorre tirare un telo divisorio dai compagni maschi. Le ragazze devono entrare in classe cinque minuti prima dei ragazzi e uscire cinque minuti dopo, per evitare occasioni d’incontro. Le classi femminili dovrebbero avere insegnanti donne. Se mancassero, dovrebbero allora trovarsi professori anziani, mai giovani», recita dal testo. Nell’università Tolo-e-Aftab (l’Alba) sono quattro studentesse ventenni a mostrare come funziona la tenda divisoria. In alcune classi i bidelli la stanno ancora montando. Nella loro è color blu scuro, corre lungo il soffitto e arriva sino al pavimento. «Questa tenda è una vera vergogna. Un abuso. Disturba la nostra concentrazione e non vedo alcun motivo di tenerci separate dai nostri compagni maschi», dice Nadia, iscritta al primo anno della facoltà di Economia. Fasilat vede nella tenda l’ennesimo segnale della politica talebana, che toglie alle donne qualsiasi prospettiva di carriera. «Non ci lasceranno lavorare. Studieremo, ma sarà inutile, saremo discriminate per sempre. I talebani non permetteranno che le nostre lauree ci diano accesso a posizioni di rispetto», spiega. Il rettore Mohammad Arunstanzai mostra dal portatile le nuove disposizioni che pubblicano anche le immagini di lunghi vestiti neri destinati ad essere presto obbligatori per le studentesse. «Ma questo è l’abuso dell’Islam. Non c’è nessun verso del Corano che costringa ad indossare tali brutture», reagisce a caldo Nadia. Le compagne annuiscono. Il rettore scuote la testa e confessa di temere per il futuro dell’intera università. «Abbiamo oltre 2.000 iscritti, di cui almeno 500 ragazze. Ma oggi si sono presentate solo 10 studentesse e 40 studenti. Tanti ci dicono che intendono lasciare. La crisi economica costringe le famiglie a mandare i figli a lavorare. L’università sta diventando un lusso inutile». Tra le spese supplementari imposte dalle regole della separazione tra i sessi c’è anche quella del personale universitario. Lui è stato costretto a trovare una stanza riservata alle 10 docenti, che non possono più stare con i 65 colleghi. E lo stesso vale per il personale della segreteria. I muratori hanno modificato la porta di accesso al loro ufficio. Sembra quella di una cella, con gli studenti costretti a comunicare con loro attraverso una fessura. Le donne stanno sedute nella penombra col capo coperto. Sembrano fantasmi.

(ANSA-AFP il 7 settembre 2021) I talebani a Kabul hanno sparato per disperdere una manifestazione di protesta contro il Pakistan. Lo rivelano fonti giornalistiche sul posto. La manifestazione di una settantina di persone, in maggioranza donne, ha protestato davanti all'ambasciata pachistana. ToloNews su Twitter parla di "centinaia di manifestanti oggi a Kabul" che "gridano slogan contro il Pakistan". Nelle foto di ToloNews si vedono in prima fila diverse donne che reggono uno striscione. (ANSA-AFP).

Afghanistan, due giornalisti picchiati dai talebani per aver ripreso una manifestazione: “Siamo stati torturati”. La Repubblica il 9 settembre 2021. La libertà di stampa era solo una delle tante promesse al vento dei talebani tornati al potere: il nuovo regime non vuole testimoni tra i piedi. Lo hanno capito a loro spese anche due giovani giornalisti afghani, Taqi Daryabi, fotoreporter di 22 anni, e Nematullah Naqdi, cameraman di 28, che volevano seguire per il loro giornale Etilaat Roz (uno dei principali quotidiani dell'Afghanistan) una manifestazione di donne che protestavano per i loro diritti davanti a un commissariato di Kabul. Prima le minacce per strada e il tentativo di togliere loro la telecamera - che i due reporter sono però riusciti a consegnare di nascosto a una dimostrante -, poi sono stati trascinati di forza dentro lo stesso commissariato e picchiati per ore. “Ci hanno catturati – racconta Taqi Daryabi - e poi picchiati fino a farci svenire. Ci hanno colpito con dei bastoni con tutta la loro forza. Dopo le botte, ci hanno trascinati in una cella assieme ad altre persone”.

Afghanistan, ecco i talebani "buoni": giornalisti sfigurati, come li hanno ridotti perché facevano loro lavoro. Libero Quotidiano il 09 settembre 2021. Rinchiusi e malmenati per ore per aver raccontato la protesta di un gruppo di donne nella capitale. Due giornalisti afghani sono stati picchiati e detenuti per ore dai talebani, colpevoli di aver documentato la protesta di un gruppo di contro il regime a Kabul. I giornalisti hanno mostrato i lividi lasciati dai bastoni con cui sono stati brutalmente picchiati. Il due giornalisti si chiamano Taki Daryabi, 22 anni, Nematullah Naqdi, 28 anni, e lavorano per il quotidiano Etilaat Roz. Lo si vede nel video pubblicato dal sito del Corriere della Sera. Nel video si vedono i due giornalisti del quotidiano Etilaatroz con lividi e contusioni dopo il loro arresto avvenuto nella capitale Kabul. Uno di loro, Taqi Daryabi, ha riferito alla Bbc di essere stato portato in una stazione di polizia dove è stato preso a calci e picchiato. Mercoledì anche ai reporter della Bbc è stato impedito di lavorare. I due, che lavorano per uno dei principali quotidiani dell'Afghanistan, raccontano di essere andati ad una manifestazione di donne che protestavano per i loro diritti davanti a un commissariato di Kabul. Prima le minacce per strada e il tentativo di togliere loro la telecamera - che i due reporter sono però riusciti a consegnare di nascosto a una dimostrante -, poi sono stati trascinati di forza dentro lo stesso commissariato e picchiati per ore. “Ci hanno catturati – racconta Taqi Daryabi - e poi picchiati fino a farci svenire. Ci hanno colpito con dei bastoni con tutta la loro forza. Dopo le botte, ci hanno trascinati in una cella assieme ad altre persone". Scene ormai che sono sempre più quotidiane nella capitale dell'Afghanistan.

Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 10 settembre 2021. I loro corpi parlano da soli delle violenze subite. Spalle, schiena, braccia, glutei, fianchi, retro delle cosce, polpacci sono coperti di ecchimosi ed ematomi. Hanno i volti gonfi. Taki Daryabi, che ha 22 anni, mostra anche larghe lacerazioni sotto il mento. È stato colpito agli zigomi, pochi millimetri dagli occhi. Il suo collega Nematullah Naqdi, 28 anni, ha un'ampia garza incerottata sulla guancia destra. Picchiati a sangue, frustati, colpiti con i fucili, presi a calci per una decina di minuti da una quindicina di talebani infuriati. Non per la strada, ma nel chiuso di una stazione di polizia, dove poi sono rimasti prigionieri per quattro ore, prima di poter tornare al loro giornale e da lì medicati quindi in ospedale. Li incontriamo negli uffici di Etilaat Roz (Informazioni Quotidiane), il giornale per cui lavorano: Taki come fotografo, Nematullah da reporter. Ancora si muovono a fatica, per fare le scale devono essere aiutati. «Se non fosse per gli antidolorifici dovremmo rimanere stesi a letto», ammettono. Sono anche frastornati dall'improvvisa pubblicità. Noi giornalisti stranieri siamo venuti numerosi per intervistarli. E loro si tolgono i vestiti quasi in automatico per mostrare i segni delle botte. Incarnano con le loro ferite la smentita più clamorosa delle promesse talebane sulla «futura libertà di stampa» nell'Emirato dei mullah. «È avvenuto ieri mattina (due giorni fa per chi legge ndr ), dai social avevamo saputo che ci sarebbe stata una nuova manifestazione di donne nel Distretto numero tre della capitale. Siamo arrivati presto, abbiamo incontrato una trentina di loro che stavano preparando cartelli e volantini. Quando hanno iniziato a sfilare sono arrivati i talebani armati. Mi hanno catturato una prima volta. Sono riuscito a divincolarmi. Le donne si sono messe attorno per proteggermi. E questo perché i talebani picchiano e persino minacciano di uccidere gli uomini che li contestano. Con le donne sono relativamente più leggeri. Poi però mi hanno preso una seconda volta e non c'è stato scampo», spiega Taki. Lo trascinano nella vicina stazione di polizia. S' illude che si limiteranno a registrare le sue credenziali. Ma subito lo chiudono in una piccola stanza per imbottirlo di botte. «Sono svenuto una prima volta. Mi hanno buttato in faccia un secchio d'acqua e hanno ripreso. Ho perso di nuovo i sensi. Uno di loro mi aveva legato mani e piedi, premeva la suola di una scarpa sul collo mentre gli altri bastonavano. Poi ho visto che picchiavano anche Nematullah», continua. Il direttore del giornale, Zaki Daryabi, 33 anni, sottolinea che almeno 5 dei suoi 45 giornalisti sono stati arrestati negli ultimi giorni. «Per noi è l'eclissi dell'era della libertà di stampa in cui siamo cresciuti negli ultimi vent' anni. Siamo tutti minacciati, non ci resta che denunciare pubblicamente gli abusi nella speranza che la comunità internazionale possa aiutarci», spiega. Ma è ben consapevole del fatto che le pressioni delle democrazie possono ben poco contro la brutalità dei nuovi padroni dell'Afghanistan. «Temo che dei nostri e vostri appelli a loro importi molto poco. Sono un regime allo stesso tempo teologico e politico. I loro poliziotti e militari si presentano come custodi della vera fede. Criticarli è come criticare Allah», dice sconsolato. Nei locali di Tolo Tv, la più importante televisione nazionale nota per i reportage graffianti e il coraggio nel denunciare scandali e corruzione, impera già un nuovo clima di remissiva sottomissione. Una volta le porte erano aperte ad ogni ora del giorno. Ieri abbiamo dovuto attendere a lungo davanti al cancello, quindi siamo arrivati alla redazione grazie a vecchie conoscenze. Tutte le sedi regionali sono chiuse. Almeno una decina dei reporter più coraggiosi sono scappati all'estero. Tanti altri non vengono a lavorare. «Abbiamo dovuto assumere una decina di giornalisti, ma sono tutti giovani senza esperienza. Inevitabilmente i programmi ne soffrono», ammette Ismatullah Niazi, uno dei nuovi dirigenti che non nasconde l'imbarazzo. Le reporter donne sono quasi sparite. I notiziari spesso si limitano a leggere i comunicati dei capi talebani. «Mandiamo meno troupe a lavorare sul campo. La pubblicità è caduta ai minimi storici, mancano i fondi per viaggiare. Non è neppure chiaro che regole sulla stampa imporranno i talebani. Non ci resta che sperare e attendere», ci dice ancora. Un loro fotografo, Wahid Ahmadi, non si tira indietro però nel condannare i talebani. «Tre giorni fa mi hanno arrestato per sei ore. Un talebano mi ha detto: "Noi abbiamo sofferto vent' anni per combattere la jihad. Ora tocca a voi soffrire e se fosse necessario saremmo anche pronti a uccidere tutti i giornalisti". Con me era stato arrestato anche un giornalista norvegese. Ho sentito due talebani dire che volevano ucciderlo perché infedele».

Afghanistan, l'inviata Rai sfida il talebano: "Perché non mi guardi in faccia quando parlo?", attimi di paura. Libero Quotidiano il Lucia Goracci è l’inviata del Tg3 in Afghanistan, dove sta raccontando la nuova vita del Paese passato sotto il dominio dei talebani. Le immagini dell’ultimo servizio mandato in onda testimoniano come i nuovi padroni dell’Afghanistan girino tra le strade armati fino ai denti per garantire “la sicurezza contro la sedizione”. “Ma perché non mi guarda mai quando mi parla?”, domanda a un certo punto la giornalista a un talebano. “Non mi è permesso di parlare con le donne”, è la risposta: e quindi in realtà si rivolge a lei senza rivolgersi a lei. Sono strani questi talebani, ma soprattutto pericolosi dato che hanno avuto accesso a tutte le armi lasciate dagli americani. La giornalista del Tg3 ha avuto un bel coraggio a rivolgersi in questi termini a uno di loro, anche se poi ha precisato che “almeno per ora, noi giornalisti stranieri non veniamo malmenati né arrestati”. Si percepisce però una costante tensione: “Anche il mercato sembra avere orecchie e occhi pronti a spiarci. I murales sono stati coperti con scritte "con l’aiuto di Dio abbiamo sconfitto l’America". Le donne scivolano lontano dalle nostre domande”. Qualcuna di età più giovane si ferma a lamentarsi: “Si sono presi il nostro Paese e ora non possiamo neanche mostrare i nostri volti”. “L’Afghanistan è finito, non ci è rimasto più nulla” è la triste constatazione di un altro cittadino. In realtà si sbaglia: sono rimasti i talebani che hanno tante armi e nessun problema a usarle…

“Io arrestato e liberato dai talebani”. Fausto Biloslavo su Inside Over l'8 settembre 2021. (Dal nostro inviato a Kabul) La sparatoria infuocata e le botte che disperdono il corteo di uomini e donne coraggiosi che manifestano contro il nuovo Emirato e per la democrazia non è la fine, ma l’inizio di una disavventura nelle mani dei talebani. Sapevo bene come andava a finire e non potevo tagliare la corda, ma dovevo filmare le fucilate dei talebani. Durante gli spari un miliziano dell’Amyati mili, le forze di sicurezza del nuovo Emirato equipaggiate come gli americani, si avventa sul mio telefonino, che ha filmato tutto. La lotta è furiosa, ma non mollo la presa e mi lancio in mezzo alle donne terrorizzate e accovacciate a terra perché so che non mi correrà dietro in mezzo a decine di afghane velate e urlanti per la paura. Adesso arriva la parte più difficile: vestito alla talebana spero di dileguarmi grazie al caos. Gian Micalessin è cinque metri più avanti con il nostro fido interprete afghano. Un barbuto comandante talebano mi squadra in cagnesco e grida: «Giornalista!». I suoi uomini mi afferrano e non c’è verso di esibire passaporto italiano e permesso dell’Emirato islamico. I talebani mi rinchiudono in uno dei loro fuoristrada trasformato in cellulare dove incontro un altro «catturando», il giornalista norvegese Anders Hammer. Un talebano gli ha assestato una brutta botta sul braccio con il calcio di kalashnikov. Dopo il primo momento del bastone arriva la carota con un altro comandante che arriva e accende l’aria condizionata per farci stare meglio. Fuori dal finestrino va in scena il caos di pestaggi, arresti e ammanettanti dei manifestanti. Anche altri giornalisti sono stati fermati e mi trasferiscono sul retro di un fuoristrada zeppo delle falangi dell’Emirato. Un talebano mi guarda come se volesse tagliarmi la gola. Un altro mi aiuta a stare più comodo. La colonna dei prigionieri arriva in una base della capitale dove, appena scesi a terra, ci sequestrano l’attrezzatura e ci provano anche con la mascherina. Non è la prima volta che vengo arrestato in Afghanistan o in situazioni critiche e per questo avevo già nascosto il telefonino con le immagini in una scarpa. Seduti tutti in fila a terra vedo che i manifestanti hanno i polsi segati dai legacci di plastica. Qualcuno è insanguinato e pieno di lividi per i pestaggi. Quasi tutti giovani, anche se circola voce che alcuni manifestanti siano stati pagati da non ben identificate «forze straniere», forse gli indiani. L’obiettivo era provocare la reazione armata il giorno della proclamazione del nuovo governo, duro e puro, dell’Emirato. Un talebano mi porta una bottiglia d’acqua, ma accanto ho un ragazzo con i polsi legati dietro la schiena e i segni delle botte, che sta soffrendo di più per la sete. Gli verso l’acqua in bocca e non finisce più di ringraziare. Uno degli organizzatori della protesta, ammanettato, si alza in piedi e protesta per l’arresto. Il comandante talebano che ci stava facendo la predica si avvicina e lo prende per i capelli con violenza. Poi lo fa portare via sibilando: «Ti ammazziamo». Il tempo passa e i talebani si accorgono che fra i fermati ci sono anche degli afghani che erano in fila per riscuotere i pochi soldi concessi dalle banche. I poveretti si sono trovati per caso in mezzo alla manifestazione interrotta dalla sparatoria. Li dividono dagli altri chiedendo come prova il conto corrente. Dopo un paio d’ore ci trasferiscono, quattro giornalisti, nel salotto del comandante, un giovanotto alto con turbante nero che parla inglese. E dichiara subito che la manifestazione di protesta non «era autorizzata». Gli spiego che stavo filmando proprio i suoi uomini a un posto di blocco quando è arrivato il corteo. E lo abbiamo solo seguito fino alla sparatoria. Il giornalista norvegese si lamenta del braccio ammaccato e il comandante sostiene che i suoi uomini «devono avervi scambiati per manifestanti». In realtà c’era la «caccia» ai giornalisti per non far circolare le immagini della repressione violenta. Alla fine quasi si scusa per l’arresto, ci riconsegna l’attrezzatura e insiste per un invito a pranzo, che decliniamo con gentilezza. Di nuovo libero penso: per fortuna hanno sparato sopra le teste dei manifestanti e non ad altezza d’uomo.

Roy: “I talebani non si vergognano di aver nascosto Bin Laden”. Pietro Del Re su La Repubblica il 10 settembre 2021. Intervista con l'orientalista francese nel ventennale dell'11 settembre nel pieno della crisi afghana: "Gli studenti coranici sono sempre gli stessi e ancorati alla cultura tribale. Nel mondo libero c’è molta ipocrisia". «I talebani non si sentono colpevoli di nulla, neanche di aver ospitato l’Al Qaeda di Osama Bin Laden», dice l’orientalista e politologo francese, Olivier Roy, professore all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole. Autore di numerosi saggi, tra i quali Afghanistan: l’Islam e la sua modernità politica, Roy fu amico del comandante Shah Ahmed Massud, che raggiunse più volte nelle montagne della valle del Panshir.

Il governo dei talebani "proclama" la fine del Novecento americano. L’11 settembre 2001 gli Stati Uniti hanno mostrato al mondo tutta la loro fragilità. Nei 20 anni successivi hanno confermato che il loro primato economico e militare non è sinonimo di incontrastata leadership politica. Michele Marchi su Il Quotidiano del Sud l'11 settembre 2021. A venti anni esatti dal giorno dell’imponderabile, quando la fantascienza si tramutò in realtà, i talebani inaugurano il loro esecutivo a Kabul e gettano non pochi interrogativi sulla stabilità di un’area che dal Mediterraneo orientale giunge sino all’Oceano Indiano. Come abbiamo letto con diverse sfumature e sensibilità, a volte preoccupate e altre con una buona dose di compiacimento, si chiude il ventennio della “guerra al terrorismo” e dell’“esportazione della democrazia” ed è contestualmente proclamata la fine del “lungo Novecento americano”. Come di recente ricordato da Mario Del Pero, uno dei più acuti conoscitori di politica estera statunitense, nel ventennio intercorso tra il drammatico 11 settembre 2001 e le scene di fine agosto 2021 provenienti dall’aeroporto di Kabul, Washington ha mostrato una progressiva e definitiva erosione dei tre assi portanti alla base della sua risposta all’attacco portato sul suolo statunitense. Eccezionalismo, logica di potenza ed unilateralismo hanno mostrato i loro limiti e la loro inefficacia per poi giungere a questo 11 settembre 2021: con il decollo dell’ultimo aereo statunitense da Kabul si chiude qualsiasi ipotesi di leadership globale così come emerso dal dopo Guerra fredda. Se proviamo però ad allargare un po’ lo sguardo e ad estenderlo all’intero “secolo americano”, cioè il Novecento, è impossibile esimersi dal sottolineare l’indubbio primato economico, tecnologico e di conseguenza anche militare di Washington, al quale ben presto si deve aggiungere un pervasivo utilizzo del soft power della cosiddetta american way of life, fatta di trionfo dei consumi di massa quanto del modello cinematografico hollywoodiano. A questo primato corrisponde però una leadership politica statunitense a livello internazionale molto più riluttante, perlomeno sino all’ingresso di Washington nel secondo conflitto mondiale. Si tende a dimenticare quanto tardivo e complicato per l’internazionalista Wilson fu l’ingresso statunitense nel primo conflitto mondiale e quanto si fece sentire l’assenza americana nei decisivi anni Venti e Trenta, con l’Europa che preparava la seconda catastrofe mondiale. Se si accetta questa logica si può allora racchiudere il vero e proprio trionfo della leadership politica globale statunitense al trentennio del XX secolo che va dal 1941 al 1971, cioè dalla decisione di entrare nel secondo conflitto mondiale a seguito dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, a quella di Nixon di chiudere formalmente con il sistema di Bretton Woods, uno dei cardini dell’internazionalismo rooseveltiano, vero ed unico esempio della volontà di leadership politica americana nel corso del “lungo Novecento”. Nessuno vuole in questa sede affermare che dal 1971 gli Stati Uniti si siano ritirati e progressivamente chiusi in un eccezionalismo ispirato alla dottrina Monroe. Si vuole soltanto sottolineare che da quel momento, unito alla successiva exit strategy in Vietnam e all’avvio del processo di regolarizzazione delle relazioni con la Cina, da Washington è partito un importante segnale nella direzione di quell’Europa che in due occasioni era stata salvata e che, nel secondo caso, era stata ricostruita e all’interno della quale erano state gettate le basi di una progressiva unificazione, economica ma in prospettiva anche politica. Questo richiamo al processo di integrazione, formalmente apertosi nel 1951 con la nascita della Ceca (non dimentichiamolo parte del progetto dell’internazionalismo statunitense), permette di spostare l’attenzione proprio sul punto di vista europeo. Vi è stata la percezione che la leadership politica statunitense avrebbe anche potuto andare verso una fase di futuro disimpegno e che il cosiddetto Empire by invitation avrebbe potuto perdere molte delle sue caratteristiche così favorevoli per il Vecchio Continente? La risposta europea è stata ambivalente. Da un punto di vista economico l’Europa ha avviato una sua peculiare reazione alla fine di Bretton Woods e il percorso che ha portato all’introduzione della moneta comune ne è l’esito virtuoso. Non altrettanto si può affermare da un punto di vista politico e strategico. Il rilancio reaganiano degli anni Ottanta (euro-missili e guerre stellari), il crollo del Muro di Berlino e quello successivo dell’Urss e le garanzie offerte dalla Nato di fronte all’impotenza europea nel proprio “cortile di casa” balcanico, hanno finito per spazzare via qualsiasi ipotesi di creazione di una forma, anche embrionale, di autonomia strategica da parte dell’Ue. In definitiva e in maniera forse un po’ brutale, vista da questa prospettiva l’affrettata chiusura del dossier afghano da parte di Biden costituisce soltanto il gradino più basso di un processo di disimpegno statunitense le cui origini affondano nel 1971. Il peccato originale delle principali leadership politiche europee è quello di non essersi spese per accostare al meritorio lavoro svolto sul piano economico-finanziario un altrettanto e forse anche più necessario lavoro di razionale e coerente costruzione di una strategia diplomatica e militare. L’impotenza mostrata nei Balcani, le divisioni di fronte alla seconda guerra in Iraq, il pasticcio in Libia e quello altrettanto inguardabile in Siria sono tutti tasselli che fanno parte di questa tragica inconsistenza strategica dei Paesi europei uniti all’interno del processo di integrazione. L’11 settembre 2001 gli Stati Uniti hanno mostrato al mondo tutta la loro fragilità. Nei 20 anni successivi hanno confermato che il loro primato economico e militare non è sinonimo di incontrastata leadership politica, sia perché in un mondo asimmetrico ma fortemente integrato (basti pensare al livello di integrazione economico-finanziaria tra Washington e Pechino) il passaggio non è automatico, sia perché la leadership statunitense è sempre più riluttante. Se ci spostiamo sulla nostra sponda dell’Atlantico e guardiamo l’Europa dell’ultimo cinquantennio, non possiamo che registrare alcune manovre tattiche ma nessuna davvero strategica. E come ricorda il generale Sun Tzu: “La strategia senza tattica è la via più lunga per giungere alla vittoria. Una tattica senza strategia è il rumore della sconfitta”. Kabul 2021 conferma il ritiro statunitense, e non solo dall’Afghanistan, almeno quanto l’assenza di battito del “cuore europeo”. Cos’altro dovrà accadere per tentare una sua ultima, disperata, manovra di rianimazione? La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio.

"Sono gli stessi di vent'anni fa, solo il loro look è cambiato". Chi è Tooba Lofti, la 34enne che organizza le proteste contro i talebani in Afghanistan. Antonio Lamorte su Il Riformista il 10 Settembre 2021. Tooba Lofti viene dal Panjshir, ha 34 anni, e sta organizzando un piccolo movimento di protesta che si sta opponendo al ritorno al potere dei talebani in Afghanistan. E questo mentre fanno il giro del mondo le fotografie di due giornalisti, un reporter e un fotografo, della testata Etilaaz Roz (Informazioni Quotidiane), segnati da ecchimosi ed ematomi. Erano stati fermati durante una manifestazione contro il ritorno al potere degli “studenti di dio”. Sono stati portati in una stazione di polizia. È la mano dura dei talebani contro le manifestazioni. Di questo movimento di protesta parlano diversi media in tutto il mondo. Si oppone all’ingerenza dell’Isi, i servizi segreti del Pakistan, in Afghanistan; ai divieti per le donne di lavorare; all’Emirato Islamico. “Le loro dichiarazioni concilianti finora sono state soltanto dichiarazioni, senza nulla di concreto. Questi talebani sono gli stessi talebani di vent’anni fa, soltanto il loro look è cambiato”. Tooba Lofti lavorava in una ong e ha un negozio di cambiavalute. Non ha intenzione di fuggire all’estero. Si è raccontata in una lunga intervista a Daniele Raineri de Il Foglio, giornalista di lungo corso di esteri e inviato di guerra. La 34enne organizza le proteste su whatsapp e i social media. A giocare un ruolo centrale nelle proteste, a partire dalla presa di Kabul lo scorso 15 agosto, è anche Rawa, l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane. Lofti è addirittura ottimista sulla resistenza ai fondamentalisti e si aspetta un aiuto dall’Europa e dagli Stati Uniti: “Non siamo più le donne di vent’anni fa, gli Stati Uniti, la Nato e l’Europa qui hanno raggiunto molti risultati positivi e non vorranno vederli sparire. Ci vorrà tempo, la dittatura non sarà un successo e dopo pochi anni comincerà una lotta contro di essa, e se non ci sarò io, ci sarà qualcun altro”. Ed è sicura: “I paesi che ci hanno abbandonati prima o poi pagheranno un prezzo”. Proprio oggi uno dei portavoce del governo, Sayed Zekrullaj Hashim, ha ribadito a Tolo News la linea: “Una donna non può fare il ministro. È come se le mettessi sul collo un peso che non può sostenere. Non è necessario che le donne siano nel governo, loro devono fare figli”. I talebani hanno anche chiarito che le donne non potranno più praticare sport in quanto espone i loro corpi. Il governo ha anche annunciato che chi vorrà manifestare d’ora in avanti dovrà ottenere un’autorizzazione specifica del ministero e chiarire in anticipo gli slogan. Ai giornalisti è inoltre vietato riprendere le “manifestazioni illegali”. Sanzione: equipaggiamenti con videocamere, telefoni e computer sequestrati. Di fatto hanno vietato di documentare le proteste. I giornalisti stranieri devono inoltre ricevere un’autorizzazione specifica dal ministero dell’Informazione per muoversi nella capitale e lavorare. E per andare nel Panjshir, la provincia nell’Est della quale i talebani hanno annunciato la conquista, ma dove una resistenza continua a combattere, serve un’ulteriore autorizzazione. Tooba Lofti spera comunque che la gente in piazza possa continuare a scendere e la partecipazione aumentare. E questo nonostante tante delle persone che erano scese in piazza con lei sono state arrestate e di loro, dice, non si sa più nulla. “Quando stavamo andando via, ho chiesto ai talebani cosa succederà alle persone che portavano via, hanno detto: li uccideremo tutti”. È diversa invece la situazione nei centri rurali dove, a differenza delle grandi città, non si sono verificate simili mobilitazioni così come non si erano verificati quei passi avanti nei diritti e nelle libertà dopo la caduta dell’Emirato nel 2001.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

«Insegno a donne e bambini. I talebani mi uccideranno per questo ma lo faccio per il mio Afghanistan». La resistenza di Matiuallah Wesa sotto il regime: «La conoscenza è l’unica arma possibile. E all’Italia dico: sostenete il nostro popolo e il sapere». Simone Alliva su La Repubblica il 9 settembre 2021. «Se mi ammazzeranno non importa. È una responsabilità l’educazione delle donne e dei bambini. È un dovere». Responsabilità. Matiullah Wesa 29 anni ripete questa parola più volte al telefono. «Lo faccio per senso di responsabilità», insiste. Nato e cresciuto nel distretto di Maruf, provincia di Kandahar attraversa l’Afghanistan per riaprire le scuole e costruirne di nuove, insegnare ai bambini ma soprattutto alle bambine («Sono il futuro»). Al momento si trova nella provincia di Kunar situata nella parte sud-orientale dell'Afghanistan al confine con il Pakistan, qui, dove i talebani addestrano i bambini-soldato, continua la sua campagna per PenPath, l’associazione che ha fondato nel 2009 per promuovere l’educazione di donne e bambini.

La voce è ferma e non si incrina neanche quando racconta della sua infanzia: all’età di otto anni un gruppo di talebani armati entrò nella sua scuola che non era altro che un ammasso di tende messo in piedi da suo padre, ricorda la pistola puntata contro l’insegnante e poi le fiamme. I talebani avevano dato fuoco a ogni cosa. Anche alla sua casa e all’attività di famiglia che consisteva nella produzione di frutta secca. La sua ong è il risultato di una staffetta con passaggio di testimone, destinata ad affrontare le stesse sfide di suo padre e di suo nonno che hanno fatto campagna per l'istruzione sotto il regime dei talebani alla fine del 1990. In un incrocio di sguardi che posano sul futuro, Wesa attraversa il paese per salvare le donne con l’unica arma possibile: la conoscenza.

Matiullah Wesa, si trova al sicuro? Cosa sta facendo a Kunar?

«Continuiamo la nostra campagna con i capi delle tribù e i capi religiosi. La preoccupazione per il futuro dell’Afghanistan è totale in questo momento, ma noi siamo qui per infondere speranza. Parliamo di scuole, università. La speranza è tutto quello che abbiamo si può infondere alle ragazze e alle donne attraverso la conoscenza. Siamo a lavoro per salvare le nuove generazioni. In questo momento stiamo distribuendo dizionari, libri, libri per bambini, quaderni». 

E i talebani ve lo consentono? Qual è la situazione?

«Con i miei volontari siamo arrivati al check-point. Ci hanno chiesto chi fossimo e cosa dovessimo fare. Hanno controllato i nostri documenti, quello che portavamo con noi e ci hanno detto che non c’erano problemi. Ci hanno lasciato andare».  

E si fida?

«Noi dobbiamo lavorare e continuare la nostra missione. È nostra responsabilità. È un dovere di donne e uomini. Siamo consapevoli delle difficoltà e se qualcosa dovesse andare storto lo segnaleremo sui social, lo condivideremo sulle testate internazionali che vorranno aiutarci. Internet ci da una mano. Non resteremo in silenzio. Il mio compito è preciso: negoziare con gli studiosi religiosi e i leader delle tribù per il diritto all’educazione di questi bambini. È nostro dovere, capisce? Sa ci sono dei momenti in cui bisogna dare speranza al futuro, questo è il nostro Paese, non possiamo abbandonarlo». 

Con la sua ONG “PenPath” cosa avete ottenuto fino ad oggi e quali sono i prossimi obiettivi?

«Ci sono 39 biblioteche, 46 nuove scuole e abbiamo riaperto 100 scuole chiuse. Abbiamo esteso il diritto all’istruzioni a 54 mila bambine e bambini nei posti più remoti dell’Afghanistan. E poi abbiamo creato un servizio di libreria mobile. Funziona così: dei volontari salgono sulle loro motociclette attraversano le terre devastate dalla guerra e consegnano i libri ai bambini.  Vogliamo cambiare la nostra società, le nostre persone. Chiedere pace, educazione, diritti umani. È tutto qui. Vogliamo educazione e scuole. Dal 2017 a oggi siamo riusciti a ottenere il sostengo dalle tribù e dai leader religiosi. I nostri volontari continuano ad andare porta a porta nei villaggi dimenticati per introdurre soprattutto le giovani donne allo studio. E ho scoperto che c’è tantissima voglia di conoscenza, abbiamo circa duecento volontari e tantissime richieste di persone che vogliono unirsi per sollevare il nostro paese».  

Ha parlato dell’educazione delle donne. Lei insegna a tantissime ragazze.  Il portavoce dei talebani Suhail Shaheen ha dichiarato a Sky News che le donne afghane potranno accedere all'istruzione, compresa l'università. 

«Noi monitoriamo la situazione. Siamo in contatto con moltissime donne e al primo problema renderemo tutto pubblico. Facciamo un lavoro di vigilanza. Non resteremo in silenzio». 

Non ha paura? Non teme ripercussioni? 

«Io non appartengo a nessuno. Solo alla gente di Kabul che vuole l’educazione. Non è facile lavorare qui. So che chiedere l’educazione per le ragazze porta moltissimi problemi. Di recente ho ricevuto un messaggio: «Fermati, perché se non ti fermi ti uccideranno». Sa cosa? Non importa. Forse mi uccideranno ma avrò lottato per il futuro. E quindi per risponderle: no, non mi preoccupa. Voglio l’educazione, sono responsabile per me e il mio paese. Non voglio lasciare l’Afghanistan, non voglio scappare. Non mi preoccupa la mia vita, mi preoccupa il mio Paese. Ho fatto lezioni a tre chilometri dalle zone di guerra e dagli scontri. La mia organizzazione era a Kabul quando sono arrivati i talebani. Sentivo le bombe, le urla ma non mi sono fermato. Non possiamo fermarci. La nostra generazione può cambiare questo Paese e fermare queste violenze». 

E la comunità internazionale può fare qualcosa? 

«Sostenerci. Non sostenete le organizzazioni violente, sostenete l’educazione. Sostenete le nostre scuole, le nostre università. Noi non chiediamo pistole, bombe, armi ma libri, penne, quaderni, università, tende o edifici. Ho un messaggio per l’Italia: sostenete il nostro popolo e il sapere. La violenza terminerà solo così. La conoscenza è potere. L’unico modo per uscire da qui è restare e studiare».  

Da "corriere.it" l'8 settembre 2021. I posti più importanti a jihadisti e terroristi ricercati dall’Fbi e nessuna donna: dopo diversi giorni di incertezza, i talebani hanno sciolto le riserve sui primi nomi del nuovo governo ad interim. L’annuncio è arrivato dal principale portavoce, Zabihullah Mujaahid, in una giornata in cui si sono registrate nuove proteste nelle strade. Il mullah Mohammad Hasan Akhund, nella lista Onu dei terroristi, è stato nominato primo ministro ad interim del nuovo governo «provvisorio» dei talebani. Suo vice il mullah Abdul Ghani Baradar, co-fondatore del movimento, negoziatore con gli Usa a Doha e capo politico in pectore del gruppo. Lo ha reso noto in conferenza stampa il portavoce degli studenti coranici Zabihullah Mujahid (nella foto sopra) che ha comunicato i primi nomi del nuovo esecutivo afghano. Il mullah Yaqoob, figlio del fondatore dei talebani, il mullah Omar, sarà ministro della Difesa mentre Sirajuddin Haqqani, ricercato dall’Fbi, ricoprirà l’incarico di ministro dell’Interno. Agli Esteri Amir Khan Muttaqi, alto ufficiale già ministro in passato (Istruzione e cultura) e negoziatore a Doha. Si profila dunque un governo dominato dalla vecchia guardia talebana. 

Le altre nomine. A completare il nuovo governo dei Talebani sono il Mullah Hidayatullah Badri nel ruolo di ministro delle Finanze, Shaykhullah Munir titolare dell’Istruzione, Sher Muhammad Abbas vice ministro degli Esteri e Khalil-ur-Rehman Haqqani ministro dei Rifugiati. Qari Fasihuddin è stato invece scelto come capo di Stato Maggiore dell’esercito.

Agenda. Il nuovo esecutivo «dovrà affrontare i problemi immediati, soprattutto la povertà», ha detto il portavoce Mujahid, dopo avere annunciato la lista dei ministri. «Il problema della sicurezza è risolto, perché non c’è più la guerra», ha aggiunto. 

Il nuovo premier. Originario di Kandahar, Hasan Akhund guida da vent’anni il Consiglio direttivo (Rahbari Shura) del movimento. Dal 2001 è considerato uno dei «più pericolosi terroristi talebani» dalle Nazioni Unite, sanzionato dal Consiglio di sicurezza, ed è considerato un terrorista anche dall’Ue e dal Regno Unito. Il mullah è stato ministro degli Esteri sotto il regime dei talebani tra il 1996 e il 2001, governatore di Kandahar e consigliere politico del mullah Omar, di cui era uno stretto collaboratore. 

Il vicepremier.

Il vicepremier Abdul Ghani Baradar, nato nel 1968 nella provincia di Uruzgan (Sud), cresciuto a Kandahar, considerato il genero del mullah Omar, ha combattuto contro i sovietici negli anni ‘80. E’ stato liberato su richiesta degli americani nel 2018 e ha firmato gli accordi di Doha. Baradar è considerato l’artefice della vittoria militare del 1996, quando i talebani presero il potere. Nei cinque anni di regime talebano, fino al 2001, ha ricoperto una serie di ruoli militari e amministrativi e quando l’Emirato cade, occupa il posto di vice ministro della Difesa. Nel 2010, quando è stato arrestato a Karachi, in Pakistan, Baradar era allora il capo militare dei talebani. Durante il suo esilio, durato in tutto 20 anni, ha saputo mantenere la leadership del movimento. Ascoltato e rispettato dalle diverse fazioni talebane, è stato successivamente nominato capo del loro ufficio politico, stabilito in Qatar, da dove Baradar ha portato avanti i negoziati con gli americani, che hanno portato al ritiro delle forze straniere dall’Afghanistan e ai fallimentari negoziati di pace con il governo afghano.

All’Interno. Sirajuddin Haqqani, capo del dicastero dell’Interno,è il numero 2 dei talebani e il leader della potente rete che porta il nome della sua famiglia. La rete Haqqani, fondata dal padre come jihad anti-sovietica, è ritenuta terroristica da Washington, che l’ha sempre considerata una delle fazioni più pericolose per le truppe Usa e Nato durante due decenni. La rete è nota per il suo utilizzo dei kamikaze, che hanno messo a segno gli attentati tra i più devastanti perpetrati in Afghanistan negli ultimi anni.

Agli Esteri. Il titolare degli Esteri è Amir Khan Muttaqi, uno dei negoziatori dei talebani a Doha, anche lui membro del primo governo del regime. 

Alla Difesa. Il nuovo ministro della Difesa è Mohammad Yaqoob, figlio maggiore del mullah Omar. Fino a cinque anni fa non aveva mai voluto ricoprire ruoli di leadership. Poi è partita la scalata che lo ha portato nel 2020 a diventare il capo delle operazioni militari ed è considerato uno dei vice più importanti di Hibatullah Akhundzada, sostenuto dell’Arabia Saudita e dal Pakistan (si è laureato a Karachi). 

Andrea Nicastro per il “Corriere della Sera” l'8 settembre 2021. I «nuovi talebani moderati» sono gli stessi intollerabili e terroristi di 20 anni fa. Hanno solo qualche chilo e qualche pelo bianco in più. Li abbiamo combattuti per 20 anni e adesso ci dovremo sedere con loro a trattare se non vogliamo che l'Afghanistan cada nella fame, ci sommerga ancora di più di eroina e produca milioni di profughi pronti a bussare alle porte dell'Europa. Sempre senza considerare la possibile riapertura delle scuole per shahid, gli attentatori suicidi. Il crollo del governo filoamericano di Kabul e, prima, la decisione unilaterale di Washington di ritirarsi dal Paese mostrano il cartellino del prezzo. Ed è salatissimo. Il governo annunciato ieri è solo provvisorio. Ma l'impianto è evidente. Al di sopra di qualsiasi carica politica c'è il capo del movimento degli studenti del Corano, Mullah Hibatullah Akhundzada. Un leader «religioso» che ha l'ultima parola su tutto perché unica stella polare del governo è la concezione talebana della sharia, la legge islamica, risciacquata in urf, dowd e deen (costumi, tradizione e fede) del Pashtun Wali (il Codice tribale). Il modello istituzionale sembra simile a quello iraniano. Invece della Guida Suprema della Repubblica islamica di Teheran qui c'è un capo che forse avrà prima o poi il titolo di Emiro, ma che è comunque il vertice di una serie di equilibri tribali e militari che ricalcano quelli di chi ha combattuto per venti anni per tornare al potere. Avrebbe dovuto essere un governo «inclusivo», aggettivo suggerito dai negoziatori Usa per tranquillizzare le varie minoranze etniche e religiose del Paese, invece, è una sorta di mono colore: una sola etnia, quella pashtun, e un unico gruppo di potere, quello che ha sostenuto la guerriglia, gli attentati e le stragi di civili in tutti questi anni. Non c'è neanche un esponente del governo filoamericano. Neppure il ministro degli Esteri che aveva cantato le lodi dei talebani appena fuggito il suo presidente. Neppure l'ex presidente Hamid Karzai che era rimasto a Kabul per trattare. Coraggiosamente, bisogna ammetterlo, visti i precedenti degli studenti coranici. L'ultima volta che i talebani avevano incrociato in città un ex presidente era il 1996 e l'ex di turno era il filosovietico Doctor Najib. Andarono a prenderlo nel compound dell'Onu, dove aveva garantita la protezione internazionale, lo castrarono, lo trascinarono attorno al palazzo per tre volte e poi lo appesero a una garitta. Quella piccola costruzione di cemento era ancora lì quando Karzai serviva il Paese da presidente. La vedeva quando rientrava a palazzo scortato dal suo piccolo esercito di guardie del corpo americane. Chissà quante volte gli saranno venuti i brividi a guardare quella garitta? Eppure Karzai ha deciso di restare. E' stato costretto tre giorni agli arresti domiciliari a casa del suo ex vice e rivale Abdullah Abdullah, altro coraggioso che non è fuggito. Per il momento sono vivi. Vivi, ma esclusi da tutto. Se il nuovo governo voleva essere un segnale di apertura nei confronti della comunità internazionale, ha mancato l'obiettivo. Sarà imbarazzante, di più, umiliante, sedersi a trattare con personaggi che sono nella lista del terrorismo internazionale da 20 anni o più. Ministri che hanno vestito la tuta arancione nelle carceri di Guantanamo o nelle celle segrete di Bagram, ricercati da Fbi, Unione Europea e Nazioni Unite.  La Cia ha ancora una taglia di cinque milioni sulla testa del novello titolare dell'Interno. Erano il Male e ora sono il governo. Un governo di mullah. Ovviamente, bisogna dirlo?, senza neppure una donna. Non una tra i 33 ministri e vice ministri del nuovo esecutivo. In compenso è ritornato il famoso ministero per la repressione del vizio e la promozione della virtù. Era da quel dicastero che uscivano le regole più assurde del vecchio Emirato. No alla tv, non ai rasoi da barba, no alle scarpe bianche che occhieggiano da sotto i burqa o quegli erotici richiami che sono i tic tac dei tacchi delle donne quando camminano nascoste sotto al naylon della loro prigione. Per il momento, il nuovo emirato sembra chiedere «solo» donne invisibili con veli anche diversi dal burqa, donne separate dai maschi a scuola o al lavoro e niente musica. Chissà cosa inventerà lo sceicco che ne è il nuovo titolare. Il nuovo premier afghano è mullah Mohammad Hasan Akhund, discendente in linea diretta da Shah Durrani colui che unì le tribù afghane nel 1700. Fino a ieri, mullah Akund era «presidente» della Rehbari Shura, Concilio supremo, camera di compensazione del movimento. Sostanzialmente non cambierà mestiere, continuerà a fare da pietra di volta nel tenere assieme le diverse fazioni. Durante il primo Emirato (1996-2001) era stato ministro degli Esteri e vice premier. E' nella lista delle persone sanzionate dalle Nazioni Unite: in teoria non può viaggiare, avere conti in banca e così via. In pratica dovrà comprare un'agenda per decidere quale mediatore internazionale incontrare. Suo vice è un ex galeotto, incarcerato per otto anni in Pakistan su richiesta degli Stati Uniti, mullah Baradar. Era un compagno di giochi del mullah Omar e con lui ha percorso l'intera storia del movimento, dagli esordi come «preti giustizieri» alla gloria del primo Emirato alle fatiche dell'esilio. Appeso il kalashnikov al chiodo, da quando ha responsabilità politiche preferisce sistemare le cose a parole piuttosto che con le bombe. Per questo gli americani l'hanno tirato fuori di cella e gli hanno chiesto di sondare i suoi sodali in vista di una ritirata dei marines. Mullah Abdul Ghani Baradar è tornato libero nel 2018 e ha firmato gli accordi di Doha nel 2020. Il presidente Trump gli ha parlato al telefono. Il suo commento: «a good man», un brav' uomo. In effetti ha fatto quel che gli è stato chiesto e, ufficialmente, nessun talebano ha sparato alle spalle degli americani in ritirata. Vuol dire che mullah Baradar è riuscito a convincere anche i duri ad aderire al patto con gli infedeli occupanti. Un uomo, magari non buono, ma di mediazione. Difesa e Interno, due posti chiave da cui controllare le braccia armate del Paese, vengono spartiti tra i due gruppi più potenti del movimento. La Difesa va alla shura di Quetta, il consiglio del nucleo originario dei talebani fuggiti in esilio. E' fatto dai pashtun del sud, i più tradizionalisti dal punto di vista dei costumi. La loro leadership è passata in via ereditaria dal padre fondatore mullah Omar, al figlio 32enne Yaqub, anche lui ovviamente mullah.  L'Interno va invece al network Haqqani, un gruppo alleato dei primi talebani, ma diventato sempre più potente negli anni grazie al contrabbando, ai finanziamenti dai servizi segreti pachistani e ai legami con il terrorismo internazionale. Sirajuddin Haqqani, il ministro, è nella top list dei ricercati dell'Fbi. I 5 milioni per chi darà informazioni su di lui, oggi, hanno troppi pretendenti.

La presidenza a Muhammad Hassan Akhund. Afghanistan, ufficiale il nuovo governo: Baradar vice, il figlio del mullah Omar alla Difesa. Serena Console su Il Riformista il 7 Settembre 2021. Dopo venti giorni dalla conquista del paese, i talebani hanno annunciato il nuovo governo dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. Decisiva la conquista del Panjshir, la roccaforte ribelle guidata dal Ahmad Massoud. In conferenza stampa, il portavoce dei talebani, Zabibullah Mujahid, ha reso noto la composizione del nuovo governo ad interim. A guidare l’esecutivo sarà il mullah Muhammad Hassan Akhund, il leader religioso dei talebani che ha preso le redini del movimento nel 2016. Il suo vice sarà Abdul Ghani Baradar, il capo politico che ha negoziato con gli Stati Uniti per l’accordo di Doha. A capo della Difesa Mohammad Yaqoob, il figlio del mullah Omar noto anche con lo pseudonimo di Mullah Yaqoob. Il dicastero dell’Interno passerà nelle mani di Sarrajuddin Haqqani, l’uomo su cui l’Fbi ha posto una taglia di cinque milioni di dollari come ricompensa per la sua cattura, relativo al programma Rewards for Justice del governo degli Stati Uniti. La diplomazia sarà affidata ad Amir Khan Muttaqi, anche lui a Doha a negoziare con gli Stati Uniti; il dicastero delle Finanze sarà gestito da Hadaytullah Badri, che dovrà gestire la grave crisi economica che pesa su circa 35 milioni di afghani. Non sorprende l’assenza di donne nell’esecutivo, nonostante i proclami di un governo “inclusivo”.

Cina e Russia invitati speciali. I talibani hanno invitato sei paesi a partecipare alla cerimonia per l’insediamento del nuovo governo in Afghanistan, la cui presenza risulta cruciale nella regione. Oltra al Pakistan, Qatar, Iran e Turchia, ci sono anche Cina e Russia. Nel frattempo, Mosca ha fatto sapere che non prenderà parte alla riunione ministeriale sull’Afghanistan di domani. In precedenza la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, aveva evidenziato come non ci fosse chiarezza da parte dei partner occidentali sul formato dell’incontro: Parigi e Berlino, infatti, si erano limitati a parlare di un vertice, mentre Tokyo aveva chiaramente parlato di G7.

Violenza sulle donne scese in strada. Prima dell’annuncio del nuovo governo c’è stata una violenta repressione delle proteste a Kabul ed Herat. Ancora una volta, le donne scese in strada hanno conosciuto la brutale forza degli studenti coranici. Centinaia di persone hanno intonato slogan anti-Pakistan, relativi al probabile intervento di Islamabad nella valle del Panjshir per sostenere i talebani. Per sedare le proteste e disperdere i manifestanti afghani, i talebani hanno sparato in aria colpi di arma da fuoco. Con l’annuncio del nuovo governo si teme per la condizione delle donne nel paese. Sebbene inizialmente i talebani avessero proclamato la formazione di un governo inclusivo, negli ultimi giorni hanno dimostrato di non essere cambiati e di mantenere un approccio duro, repressivo e violento contro le donne.

“Possibile presenza congiunta Ue/Onu in Afghanistan”. Il ministro degli Esteri italiano, Luigi di Maio, in un informativa al Senato ha presentato l’idea di una presenza congiunta Ue/Onu nel paese che è nelle mani dei talebani. “Stiamo riflettendo sulla creazione di una presenza congiunta in Afghanistan con funzioni prevalentemente consolari e che serva da punto di contatto immediato. Si tratterebbe di una soluzione innovativa, per la quale sarà necessario un efficace coordinamento preventivo, sia per gli aspetti di sicurezza sia per la necessità di definire un mandato chiaro. Qualunque modalità prescelta dovrà in ogni caso essere inclusiva, condivisa con tutti i Paesi potenzialmente interessati a contribuire“. Serena Console

Il leader della Rete che ha preso Kabul. Chi è Sirajuddin Haqqani, il nuovo ministro dell’Afghanistan ricercato per 5 milioni di dollari dagli Usa. Antonio Lamorte su Il Riformista il 7 Settembre 2021. Ricercato dall’Fbi per terrorismo con una taglia di cinque milioni di dollari e appena insediatosi come ministro dell’Interno. Sirajuddin Haqqani è entrato nel nuovo governo dei talebani in Afghanistan. L’annuncio del ristabilito Emirato Islamico è arrivato oggi pomeriggio. Nominato primo ministro a interim del governo provvisorio Mohammad Hasan Akhund, nella lista Onu dei terroristi. Suo vice il mullah Abdul Ghani Baradar, co-fondatore del movimento, negoziatore con gli Stati Uniti degli accordi di Doha sul ritiro a inizio 2020 e capo politico del gruppo estremista. L’annuncio del nuovo esecutivo era stato rinviato da giorni. È arrivato oggi pomeriggio, durante la conferenza stampa con il portavoce degli studenti coranici Zabihullah Mujahid. Il nome sul quale si stanno concentrando maggiormente i titoli dei giornali in queste ore è quello di Sirajuddin Haqqani, ricercato dall’Fbi e ricompensato di un incarico di primo livello dopo anni di guerriglia. La Rete Haqqani è un gruppo attivo dagli anni ’80 nella regione di Loya Paktia nel sud-est del Pakistan. Si è unita ai talebani sin dalla fondazione del gruppo nei primi anni ’90. Dal 2004 si mise agli ordini della cosiddetta Shura di Quetta, il consiglio dei mullah che dopo l’invasione degli alleati si organizzò attorno ai suoi leader. Il fondatore Maula Jalaluddin Haqqani è morto nel 2018, era il padre dell’appena insediato ministro, che come il padre si è formato nella madrasa Darul Uloom Haqqania di Akora Khattal, vicino Peshawar – che ha dato il nome alla Rete. Gli Haqqani dal 2006 hanno preso la responsabilità del fronte di Kabul. Con Serajuddin alla guida del gruppo, dopo che il padre si ammalò, la Rete si rese sempre più autonoma rispetto alla Shura. La riconciliazione solo nel 2015 quando il leader Akhtar Mohammad Mansur ha nominato Serajuddin suo vice. “Le tattiche degli Haqqani sono sempre state strettamente ‘asimmetriche’: attacchi di guerriglia, mine e attacchi terroristici. Gli Haqqani si sono anche distinti per la loro ‘professionalizzazione’ degli attacchi suicidi e nel corso del tempo hanno conquistato un quasi monopolio di questa tattica all’interno dei talebani”, ha scritto su La Repubblica Antonio Giustozzi, visiting professor del King’s College di Londra, in un ritratto del terrorista. Serajuddin ha anche intensificato i rapporti della Rete con la jihad globale, come con Al Qaeda e il sedicente Stato Islamico. La NATO ha sempre considerato la Rete una delle forze più pericolose nella guerra e infatti è stata proprio questa fazione a guidare la presa di Kabul lo scorso 15 agosto.

La scheda FBI. Sul sito del Federal Bureau of Investigation è ancora visibile la scheda di Sirajuddin Haqqani, nato tra il 1973 e il 1980, tra l’Afghanistan e il Pakistan. Sulla sua testa la taglia di cinque milioni di dollari. È “ricercato per essere interrogato in relazione all’attacco del gennaio 2008 a un hotel a Kabul, in Afghanistan, che ha ucciso sei persone, tra cui un cittadino americano. Si ritiene che abbia coordinato e partecipato ad attacchi transfrontalieri contro gli Stati Uniti e le forze della coalizione in Afghanistan. Haqqani sarebbe stato anche coinvolto nella pianificazione dell’attentato al presidente afghano Hamid Karzai nel 2008”. 

Il nuovo governo. A prevalere nel nuovo esecutivo sembra essere la vecchia guardia del gruppo fondamentalista. I talebani sono cresciuti nella lotta mujaheddin contro l’Armata Rossa dopo l’invasione da parte dell’Unione Sovietica nel 1979 e quindi dopo la guerra civile avevano instaurato l’Emirato Islamico dal 1996 al 2001, quando l’invasione degli Stati Uniti dopo gli attacchi dell’11 settembre spazzarono via gli estremisti. Dopo 20 anni proprio l’ala originaria del gruppo sembra essere tornata al potere. A quanto emerso dalla conferenza stampa il nuovo esecutivo affronterà i “problemi immediati, soprattutto la povertà” mentre “il problema della sicurezza è risolto, perché non c’è più la guerra”. Il capo del governo, Hasan Akhund, è originario proprio della città dove gli “studenti di dio” si sono formati a metà degli anni ’90, Kandahar. Ha guidato per vent’anni il Consiglio direttivo del movimento ed è stato ministro nel governo talebano prima dell’invasione degli Usa. All’interno della squadra anche il mullah Yaqoob, figlio del fondatore dei talebani, il mullah Omar, che sarà ministro della Difesa. Il ministro degli Esteri sarà l’alto ufficiale e già ministro, oltre che tra i negoziatori a Doha, Khan Muttaqi.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Otto Lanzavecchia per formiche.net l'8 settembre 2021. A tre settimane dalla presa della capitale e dall’annuncio della rinascita dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, i talebani hanno annunciato la costituzione del governo di transizione. La comunicazione è stata preceduta da una serie di proteste in strada, a cui hanno partecipato molte donne che chiedevano di non essere emarginate dalla vita del Paese, e a cui i militanti integralisti – che pure avevano rassicurato la popolazione di essere cambiati e che le donne avrebbero avuto un certo grado di libertà e partecipazione – hanno risposto con le pallottole. Il nuovo esecutivo sarà guidato dal mullah Mohammad Hassan Akhund, originario della regione del Kandahar, culla dei talebani negli anni Novanta. Considerato tra i fondatori originari del gruppo e inserito nella lista dei terroristi stilata dalle Nazioni Unite, da vent’anni Akhund è a capo del Rehbari Shura, il “consiglio supremo” degli integralisti islamici. Si ritiene che Akhund, già ministro degli esteri e poi vicepremier del precedente regime talebano, sia una figura più religiosa che militare. È considerato vicino al leader spirituale del gruppo, lo sceicco Hibatullah Akhundzada, che probabilmente in futuro vestirà la carica di leader supremo (in maniera non dissimile dall’ayatollah iraniano Khamenei). Al fianco del mullah Akhund siederà un altro cofondatore dei talebani, Abdul Ghani Baradar, il quale finora ha ricoperto il ruolo di capo politico e volto pubblico del gruppo. Il nuovo vicepremier ricevette il titolo onorifico di mullah e il nome Baradar, “fratello”, direttamente dal fondatore del gruppo e leader del precedente governo, il mullah Omar. Dopo la caduta del regime nel 2001 Baradar fu tra i leader talebani a fuggire in Pakistan, dove fu catturato dagli americani nel 2010. Venne rilasciato nel 2018 dall’amministrazione di Donald Trump per consentirgli di partecipare alla firma degli Accordi di Doha, che sancirono la data originaria del ritiro delle forze occidentali. Tra le altre nomine vanno segnalati i due vice del leader supremo, rispettivamente il nuovo ministro della difesa Mohammad Yaqoub (figlio più anziano del fu mullah Omar, componente del Rehbari Shura e capo della commissione militare dal 2016) e il nuovo ministro dell’interno Serajuddin Haqqani, a capo del famigerato, storico distaccamento talebano noto come “rete Haqqani” e most wanted dell’Fbi. “Sappiamo che la gente del nostro Paese stava aspettando un nuovo governo”, ha detto il portavoce Zabihullah Mujahid all’annuncio dei nomi. “Il gabinetto non è definitivo, è solo transitorio. Proveremo a includere persone dalle altre parti del Paese”, ha aggiunto, conscio dell’elemento etnico e del fatto che il gruppo avesse segnalato, a poco tempo dalla presa della capitale, di voler formare un governo “inclusivo”; “il nostro governo non sarà basato sull’etnia. Non permetteremo questo tipo di politica”. Come ampiamente previsto, nessuna donna è stata inclusa nel processo di formazione del governo. L’annuncio era stato anticipato di dodici ore dall’invito di partecipare alla cerimonia di formazione del nuovo governo, esteso dagli integralisti a Cina, Iran, Pakistan, Russia, Turchia, Qatar. Difficile che altri Paesi, o anche solo questi sei, riconoscano a breve il nuovo esecutivo talebano. 

Chi sono i talebani.

Da leggo.it l'1 novembre 2021. La furia omicida dei talebani in Afghanistan non si ferma. Tre miliziani hanno sparato e ucciso due giovani e ferito altri 10. Il motivo? Stavano ascoltando della musica, una pratica proibita da alcune frange di islamisti radicali, a una festa di nozze. È accaduto a Surkh Rod, nell'est dell'Afghanistan. A Kabul il portavoce del governo talebano ha fatto sapere che l'esecutivo si oppone a tali atti di violenza. E, secondo quanto riferisce la Bbc, due degli uomini che hanno sparato sono stati arrestati.  Il terzo attentatore, invece, sarebbe ricercato. «Le indagini stanno continuando. Finora non è chiaro come sia successo - ha detto in una conferenza stampa il portavoce del governo Zabihullah Mujahid -. Tra le fila dell'emirato islamico nessuno ha il diritto di far allontanare qualcuno dalla musica o altro, solo di cercare di persuaderlo. Questo è il modo principale. Se qualcuno uccide da solo, anche se è un nostro uomo, è un reato e per questo sarà processato».

Elogi di mujaheddin, poesie, aneddoti: cosa leggono i talebani. Biografie di combattenti, raccolte in versi, memorie. Tra censure e divieti, ecco come i fondamentalisti afghani alimentano il loro immaginario. «Quando beviamo l’acqua, grazie al potere di Dio, miracolosamente diventa dolce». Giuliano Battiston su L'Espresso il 25 ottobre 2021. «Sono nato nel piccolo villaggio di Zangabad nel 1968. Zahir Shah, il re pashtun che ha governato tra il 1933 e il 1973, era ancora sul trono». È l’inizio della biografia di mullah Abdul Salam Zaeef, tra i fondatori del movimento dei talebani, funzionario di alto livello del primo Emirato islamico d’Afghanistan tra il 1996 e il 2001. Combattente contro i sovietici negli anni Ottanta del secolo scorso, protagonista della progressiva ascesa dei talebani negli anni Novanta, come ambasciatore dell’Emirato a Islamabad, in Pakistan, nel 2001 è testimone diretto dei momenti che portano al rovesciamento militare dell’Emirato, dopo gli attentati dell’11 settembre. Sbattuto nel carcere di massima sicurezza di Guantanamo, rilasciato nel 2005 senza accuse formali, diversi anni dopo incontra a Kandahar, nel profondo sud dell’Afghanistan, due ricercatori stranieri, Alex Strick van Linschoten e Felix Kuehn. I due, alle prese con un progetto di catalogazione e raccolta di fonti primarie sui talebani, lo convincono a redigere una biografia. Nasce così “My Life with the Taliban. Abdul Salam Zaeef”. Pubblicata nel 2011 dalla casa editrice Hurst, è rilevante ancora oggi. A partire dalle pagine conclusive: «Il più grande sbaglio dei politici americani finora è la loro profonda mancanza di comprensione del loro nemico». Raccontati perlopiù dai media, i talebani in questi lunghi anni di clandestinità e guerriglia, costata la vita a decine di migliaia di afghani, si sono raccontati poco all’esterno. Ma hanno “parlato” molto al proprio interno. Lo dimostra un altro libro curato da Alex Strick van Linschoten e Felix Kuehn, “The Taliban Reader. War, Islam and Politics” (Hurst 2018). Circa seicento pagine di documenti, per la maggior parte pubblicati sui canali di comunicazione del gruppo, prima cartacei poi digitali, tra resoconti personali, brani di biografie, interviste, dichiarazioni ufficiali e necrologi. Una lente privilegiata per comprendere l’evoluzione del movimento, a partire dagli inizi. 

IL JIHAD CONTRO I SOVIETICI

In chiave storica, ciò che più ha segnato l’identità e la coesione dei giovani studenti religiosi che nel 1994 avrebbero dato vita al movimento dei talebani è il jihad contro i sovietici, scrivono i curatori di “The Taliban Reader”. Vale anche per mullah Zaeef, che nel 1983, a soli 15 anni, torna a Kandahar per combattere i russi, rientrando in Afghanistan dal Pakistan dove era rifugiato. «Sono partito per Chaman in un bus con nient’altro che i vestiti e 100 rupie pachistane in tasca», scrive. I mujaheddin non sono soltanto afghani. Ci sono anche quelli che oggi definiamo foreign fighters, i combattenti stranieri. In Afghanistan vengono chiamati gli “arabo-afghani”. Tra loro c’è un giovane algerino che fino al 1983 non sapeva «neanche dove fosse l’Afghanistan». Poi «presi in mano l’equivalente arabo del National Geographic, Majalla al-Mujtama’, gestito dalla Fratellanza musulmana del Kuwait, e trovai una fatwa», scrive Abdullah Anas in “To the Mountains. My Life in Jihad from Algeria to Afghanistan” (Hurst 2019, scritto con Tam Hussein). La fatwa è redatta da un gruppo di autorevoli studiosi islamici, tra cui il clerico palestinese Abadallah Azzam, l’inventore della carovana del jihad, l’internazionale jihadista. Per tutti i musulmani maschi, andare a combattere il jihad in Afghanistan è un obbligo religioso. Sono gli anni in cui a Peshawar Azzam e Osama bin Laden gestiscono una sorta di anagrafe dei combattenti stranieri. I più conosciuti sono “gli arabo-afghani”. Abdullah Anas nelle sue memorie ne smonta il mito. «Molti dei fratelli arabi sono fogli bianchi. Il loro cuore era pieno di zelo, la loro testa era piena di Sylvester Stallone e visioni del paradiso». La maggioranza di loro ha letto un testo cruciale di Abdallah Azzam: una raccolta di aneddoti miracolosi. I mujaheddin dispongono della fede. Dalla loro parte c’è Allah. In “I Am Akbar Agha” (First Draft Publishing 2020), libro di memorie scritto dal combattente Sayyed Mohammad Akbar Agha, l’autore racconta il viaggio da Quetta, in Pakistan, verso il deserto meridionale afghano di Registan. Le condizioni climatiche sono estreme. C’è un fiume, ma l’acqua è amara, ripetono i residenti. «Quando beviamo l’acqua, grazie al potere di Dio, miracolosamente diventa dolce», ricorda Akbar Agha. Il topos letterario più comune riguarda però i corpi dei mujaheddin morti in battaglia. «Alcuni martiri odoravano naturalmente, senza che venissero usati profumi. Inoltre, era miracoloso che i loro corpi restassero intatti nelle loro tombe». Dall’esperienza del jihad anti-sovietico sarebbero nate poi tutte le principali tendenze del jihadismo contemporaneo, ricostruiscono gli autori di “The Arabs at War in Afghanistan” (Hurst 2015): Leah Farrall, una ex analista dell’intelligence per il controterrorismo della Polizia federale australiana, e Mustafa Hamid, ex combattente, autore di altri dodici libri tra biografia e cronaca storica. 

PAROLA DI MULLAH

Nella sua biografia, mullah Zaeef, futuro ambasciatore dei talebani in Pakistan, racconta l’entusiasmo per la vittoria contro i sovietici, che si ritirano nel 1989. Gli studenti religiosi tornano nei loro villaggi, nel triangolo fertile tra i due rami del fiume Arghandab, nella provincia meridionale di Kandahar. Ma la guerra civile tra i gruppi mujaheddin dissemina odio e sangue. Anche le comunità rurali sono minacciate. Occorre reagire. Dopo mesi di incontri e discussioni, nasce il movimento dei talebani. «Il momento fondativo di quel che sarebbe diventato il movimento dei “talebani” si è tenuto nel tardo autunno del 1994. Qualcosa come quaranta-cinquanta persone si sono riunite nella moschea bianca di Sangisar», scrive mullah Zaeef. L’ascesa è graduale, ma implacabile: da Kandahar a Zabul, poi l’Helmand e l’Uruzgan, Herat nel settembre 1995, Jalalabad e Kabul nel settembre 1996. Viene instaurato il primo Emirato. I talebani sono ancora poco conosciuti. È necessario spiegarne nascita, obiettivi, metodi. A Kandahar, tramite la radio ufficiale La voce della sharia, è lo stesso Amir ul-mumineen, l’Emiro dei fedeli e dei combattenti mullah Omar, a rispondere. «La gente potrebbe chiedersi: Quando è cominciato il movimento? Chi c’era dietro? Chi lo finanzia? Chi lo dirige e gestisce? L’inizio del movimento risale a quando ho riposto i miei libri nella scuola di Sangisar, ho preso con me un’altra persona e abbiamo camminato fino all’area di Zanjawat. Lì ho preso in prestito una motocicletta da un certo Surur e siamo andati a Talikan. Questo è stato l’inizio del movimento». L’inizio della fine, invece avviene quando, conquistata Jalalabad, ereditano un ospite particolare, Osama bin Laden, cacciato dal Sudan. I rapporti non sono facili. Nel novembre 1996, raccontano gli autori di “The Arab at Wars”, «un elicottero è in attesa all’aeroporto di Jalalabad». Osama bin Laden è stato convocato da mullah Omar, che governa l’Afghanistan da Kandahar. Lo sceicco saudita è convinto che i talebani vogliano giustiziarlo. Ha contravvenuto ai loro ordini, proclamando nell’agosto precedente la sua “Dichiarazione di guerra contro gli Stati Uniti”. Osama Bin Laden esce indenne dall’incontro con mullah Omar, dopo una reprimenda. Tre anni dopo, pianifica e compie gli attentati alle Torri gemelle e al Pentagono. I talebani non erano al conoscenza del piano, ma ne pagano le conseguenze, riepiloga mullah Zaeef nelle sue memorie. Seguono gli anni del jihad, della resistenza alla nuova occupazione. 

POESIA DI RESISTENZA

Per capire come i talebani vivano quegli anni, vale la pena leggere “Poetry of the Taliban” (a cura di Alex Strick van Linschoten e Felix Kuehn, con introduzione di Faisal Devij, Hurst 2009). Una raccolta di 235 poesie scritte, recitate o cantate dai “turbanti neri” dagli anni Novanta del secolo scorso, fino al 2008. Costante è la percezione che la lotta contro gli stranieri sia legittima, l’occupazione un’ingiustizia. Come nella poesia in cui si contrappongono le luci di Bagram, la base militare cuore dell’intervento militare della Nato, alle case bombardate degli afghani durante l’Eid, la festività islamica: «Durante il vostro Natale, Bagram è accesa e luminosa, durante il mio Eid, perfino i raggi del sole sono morti. All’improvviso, le vostre bombe portano la luce. Nelle nostre case, perfino le lampade a olio sono spente». Dall’agosto scorso, i talebani sono tornati al potere. Il ministro della Cultura è mullah Khairullah Khairkhwa, anche lui tra i fondatori del movimento, nel 1994. È alle prese con un ambizioso progetto di incontri culturali e poetici, a livello nazionale. Per i poeti dissidenti, la censura. O la galera.

I talebani nelle ex basi italiane: “Così colpivamo i vostri soldati”. Fausto Biloslavo, Gian Micalessin su Inside Over il 17 settembre 2021. Adraskan (Afghanistan) «Ho combattuto per anni contro i soldati italiani. Abbiamo piazzato trappole esplosive per far saltare in aria i vostri blindati. E attaccato questa base con razzi e colpi di mortaio. Non siamo nemici del vostro popolo, ma dovevamo difendere l’indipendenza dell’Afghanistan» spiega senza peli sulla lingua il comandante dei talebani Amrullah. Barbone nero come il turbante ha conquistato la base di Adraskan, a sud di Herat, dove i carabinieri addestravano per anni la polizia afghana e le truppe che si sono sciolte come neve al sole davanti all’avanzata talebana. La prima tappa di un «war tour» nelle nostre ex roccaforti lungo la strada che porta a Kandahar, la capitale spirituale dei talebani. Gli italiani avevano soprannominato il tratto che da Herat arriva fino al confine con la provincia di Helmand, l’ «autostrada per l’inferno» a causa delle trappole esplosive che i talebani, come Amrullah, piazzavano di continuo. Quando ci presentiamo all’ingresso della base di Adraskan i giovani jihadisti di guardia sono stupefatti. In realtà il comandante non vedeva l’ora di raccontare ai giornalisti la battaglia finale: «Abbiamo scatenato una valanga di fuoco. Potevamo fare tabula rasa e uccidere tutti, ma gli anziani e i familiari ci hanno chiesto clemenza. Alla fine i governativi hanno ceduto le armi». La piazzaforte utilizzata per anni dai carabinieri è un cimitero di mezzi sforacchiato dai proiettili o carbonizzato da armi pesanti. Il comandante sostiene che un paio di grandi prefabbricati anneriti dalla battaglia erano gli alloggi degli italiani, che però avevano lasciato da tempo Adraskan. Su un’altana di sorveglianza lungo il perimetro della grande base resiste ancora, seppure centrato da un colpo, un vetro antiproiettile incastrato fra i sacchetti di sabbia. Uno dei talebani anziani racconta come colpivano la base: «Lanciavamo razzi Rpg dai dossi là fuori contro queste postazioni. Gli italiani hanno inviato i blindati verso di noi, ma uno è saltato in aria su una mina e si sono ritirati». Verità o leggenda che sia i combattenti ci accolgono a braccia aperte e il comandante ripete che «la guerra è finita. Ora abbiamo bisogno del vostro aiuto per rimettere in piedi il paese». La lama d’asfalto si immerge in un paesaggio affascinante e selvaggio: picchi montuosi all’orizzonte, deserto di pietra, case di fango e paglia fra il nulla. I convogli italiani sfrecciavano in colonna a tutta velocità con i soldati tappati nei blindati Lince e incollati alle cuffiette con il brano degli Ac-Dc «Highway to hell», che dava il nome alla strada maledetta. La seconda tappa del «war tour» è la base di Shindand, costruita ai tempi dei sovietici come perno delle operazioni aeree in Afghanistan occidentale. L’installazione militare è enorme, ma semi abbandonata. Durante la missione italiana l’Aeronautica è stata impiegata a Shindand con un distaccamento di elicotteri. La lunga pista utilizzata dai caccia bombardieri è deserta. Negli hangar sono rimasti solo due mezzi inutilizzabili. Alcuni ridotti a un groviglio di lamiere dimostrano che si è combattuto, ma non troppo. «Con questi elicotteri ci bombardavano, ma non penso riusciremo a ripararli e farli alzare in volo» spiega il comandante Makhporullah davanti ai pachidermi volani immobilizzati a terra. L’ex autostrada per l’inferno non è più disseminata dai crateri delle esplosioni degli ordigni improvvisati. L’uomo in ralla, fuori dalla botola dei Lince, era la vedetta che salvava la vita a tutti individuando terra smossa sul ciglio della strada, fili elettrici semi nascosti o altri segnali di allarme per le famigerate trappole esplosive. Nella provincia di Farah, base Tobruk a Bala Baluk, è stata per anni un caposaldo italiano da dove uscivano le colonne impegnate nelle battaglie contro i talebani. L’avamposto, passato di mano agli afghani, è completamente distrutto. All’interno c’è un cimitero di mezzi delle forze armate di Kabul. Le altane dove i paracadutisti avevano inciso i nomi dei reparti cadono a pezzi. Il comandante Haji Ekmad prima ci accompagna dentro la base, ma poi riceve via telefonino il contrordine. Però racconta degli attacchi. «Abbiamo lanciato macchine minate contro gli italiani e combattuto con loro per anni quando erano in questa base. Siamo pronti a rifarlo con la stessa forza e determinazione se torneranno in Afghanistan» dichiara il capoccia talebano, che non gira neppure armato. E aggiunge: «Non riceviamo un salario e mangiamo patate, ma siamo stati in grado di combattere per 20 anni. E alla fine abbiamo vinto. Non ci interessano soldi o vita agiata. Il nostro obiettivo è l’Islam».

Chi sono i talebani e cosa vogliono gli studenti coranici. La storia del gruppo radicale islamista che sta riconquistando l'Afghanistan, a vent'anni dall’intervento militare americano. Il Post.it il 28 agosto 2021. Nelle ultime settimane il gruppo radicale islamista dei talebani ha riconquistato ampie zone dell’Afghanistan, grazie alle poche resistenze del malconcio esercito afghano e al progressivo ritiro dei soldati americani. La guerra in Afghanistan, quella che portò le truppe statunitensi nel paese, iniziò vent’anni fa, in risposta agli attentati compiuti a New York e Washington da al Qaida, gruppo terroristico che allora era protetto dal regime dei talebani, che stava governando l’Afghanistan in maniera autoritaria dal 1996. L’intervento militare americano provocò il rovesciamento di quel regime, ma non la fine dei talebani, che si riorganizzarono pazientemente e aspettarono il momento giusto per rifarsi sotto: cioè quando i paesi occidentali se ne sarebbero andati, lasciando il governo afghano in balìa di se stesso. Quel momento sembra essere arrivato, e sta producendo quello a cui stiamo assistendo in questi giorni: una ormai inevitabile riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani. Il gruppo dei talebani venne formato nel 1994 nella città di Kandahar, in Afghanistan, dal mullah Mohammed Omar, che aveva combattuto tra i mujaheddin, guerriglieri di ispirazione islamica, nella guerra contro i sovietici che avevano occupato il paese dal 1978 al 1989. Come il mullah Omar, anche il resto dei talebani proveniva prevalentemente da tribù di etnia pashtun e aveva studiato nelle madrasse, le scuole coraniche pakistane (da cui il nome talebani, che significa “studenti” pashtu, la seconda lingua più parlata in Afghanistan dopo il dari). Il primo gruppo del 1994 era formato da circa 50 studenti, ma in poco tempo ne vennero reclutati molti altri. Il suo iniziale obiettivo era quello di ripristinare la pace e la sicurezza dopo il ritiro dei sovietici, e instaurare nei territori che controllava un’interpretazione molto radicale della sharia, la legge islamica. L’ascesa dei talebani fu favorita anche dalle divisioni tra i mujaheddin, che dopo avere combattuto contro i sovietici tornarono a essere molto divisi, e a scontrarsi per ottenere il potere. I talebani, che nel frattempo erano diventati un gruppo armato con un’azione particolarmente efficace, conquistarono rapidamente Kandahar, la città dove si erano formati, e poi Kabul, la capitale. La loro azione fu favorita dall’appoggio della popolazione, che in quel periodo particolarmente caotico per la storia del paese era in parte rassicurata dal ruolo che erano riusciti a ritagliarsi nei territori che controllavano. Il gruppo di fatto si era sostituito al governo, svolgendo parte delle sue funzioni: aveva cercato di stimolare la ripresa economica, ripristinato i collegamenti stradali distrutti, contrastato atti di corruzione e illegalità. I talebani avevano anche imposto la sharia nella sua forma più rigida, con punizioni ed esecuzioni pubbliche per chi violava la legge, e l’obbligo per gli uomini di farsi crescere la barba e per le donne di indossare il burqa. Quando presero il controllo di Kabul, nel 1996, i talebani fondarono l’Emirato Islamico dell’Afghanistan – senza un vero e proprio capo politico, ma con la forte leadership del mullah Omar – e due anni più tardi arrivarono a controllare il 90 per cento del paese, tranne alcune piccole regioni a nord-est controllate dalla cosiddetta “Alleanza del Nord”. L’Emirato venne riconosciuto solo da Emirati Arabi Uniti, Pakistan e Arabia Saudita: questi ultimi due paesi continuarono a fornire ai talebani aiuti logistici, economici e umanitari. I talebani vietarono la televisione, la musica e il cinema, oltre che la coltivazione del papavero da oppio, di cui l’Afghanistan era ricchissimo, perché contrario alla legge islamica. Ciononostante, la produzione di oppio continuò in maniera illegale, seppur in numeri assai ridotti, anche grazie al tacito assenso dei talebani che grazie alle estorsioni imposte ai coltivatori si arricchirono notevolmente. Il nuovo regime introdusse inoltre norme molto restrittive delle libertà personali delle donne: oltre all’obbligo di indossare il burqa, fu loro vietato di guidare bici, moto e auto, di utilizzare cosmetici e gioielli e di entrare in contatto con qualsiasi uomo che non fosse il marito o un parente. Tra gli atti più noti compiuti dai talebani ci fu la distruzione dei Buddha di Bamiyan, nel marzo del 2001, cioè di due enormi statue di Buddha scolpite nella roccia della valle di Bamiyan, circa 250 chilometri da Kabul, più di 1.500 anni fa. La distruzione venne ordinata perché le statue erano considerate raffigurazioni di idoli, quindi contrarie alla legge islamica. Dal 1996 i talebani ospitarono inoltre in Afghanistan le basi dell’organizzazione terroristica al Qaida, fondata all’inizio degli anni Novanta dal saudita Osama bin Laden, figlio di un ricchissimo costruttore yemenita. Bin Laden aveva avuto in precedenza un ruolo nella resistenza dei mujaheddin contro i sovietici, contribuendo al loro finanziamento con i soldi dell’impresa di costruzioni di famiglia. Il 7 agosto del 1998 al Qaida fu responsabile degli attentati alle ambasciate statunitensi di Kenya e Tanzania, a cui gli Stati Uniti risposero bombardando quattro siti militari in Afghanistan. Negli anni seguenti bin Laden continuò a godere della protezione dei talebani e ad avere le basi della sua organizzazione in Afghanistan: fu da lì che organizzò gli attentati dell’11 settembre del 2001 contro gli Stati Uniti. Il 7 ottobre successivo Stati Uniti e Regno Unito dichiararono guerra all’Afghanistan, per distruggere al Qaida e rovesciare il regime dei talebani. Nel giro di poche settimane il regime fu rimosso dal potere e molte importanti figure di al Qaida e dei talebani fuggirono nella zona vicina al confine col Pakistan, se non direttamente oltre confine. Fu proprio in Pakistan che il gruppo riuscì a riorganizzarsi, grazie soprattutto all’appoggio dei servizi segreti pakistani. Da dopo l’11 settembre il consiglio supremo dei talebani è stato la Shura di Quetta, dal nome della città in cui l’organo ha la sua base, Quetta, nella regione del Belucistan, in Pakistan. Dopo la morte del mullah Omar, avvenuta nel 2013 ma resa ufficiale solo nel 2015, a capo del gruppo c’è stato prima Akhtar Mansour, ucciso da un drone americano in Pakistan nel 2016, e poi Hibatullah Akhundzada, che di Mansour era il vice e che durante il regime dei talebani era stato il responsabile della Giustizia. Il gruppo in questi anni è riuscito a rimpiazzare in maniera continua i propri membri uccisi in guerra, anche nei periodi più sanguinosi del conflitto. Questo continuo reclutamento, così come il pagamento delle spese sostenute dai miliziani, si deve anche alla struttura che i talebani si sono dati dopo l’11 settembre. Oggi infatti è molto più decentrata e i leader delle singole unità o singole province hanno ampi margini di autonomia, compreso appunto il reclutamento. La fragilità del governo afghano riconosciuto dalla comunità internazionale ha fatto sì che in molte zone dell’Afghanistan i talebani siano diventati una specie di “governo ombra”: hanno iniziato per esempio a riscuotere le tasse, mandandone circa il 20 per cento alla leadership centrale in Pakistan e tenendo il resto per sostenere la guerriglia, e si sono dedicati all’estrazione illegale delle risorse dalle miniere del paese, alla tassazione dei beni e soprattutto allo sfruttamento dei proventi del traffico dell’oppio. Nonostante vent’anni di invasione statunitense, insomma, i talebani non sono mai stati sconfitti realmente, tanto che l’accordo di pace raggiunto con gli Stati Uniti nel febbraio del 2020 è stato giudicato da molti una vittoria del gruppo islamista. L’accordo, firmato a Doha, in Qatar, prevedeva il ritiro graduale dei circa 13mila soldati americani in Afghanistan, ma secondo il governo locale era stato concluso troppo frettolosamente dall’amministrazione dell’allora presidente statunitense Donald Trump, concedendo troppe cose ai talebani e senza molte garanzie. Tra le altre cose, come conseguenza dell’accordo erano stati liberati 5mila prigionieri talebani. In cambio, il gruppo aveva promesso di diminuire il numero di attacchi impegnandosi a non trasformare il paese in un luogo sicuro per i terroristi jihadisti. Mentre il ritiro è stato confermato dal nuovo presidente statunitense Joe Biden, i colloqui di pace tra governo e talebani sono sembrati fin da subito molto difficili se non impossibili da portare a termine. Il presidente Ashraf Ghani, appoggiato dagli Stati Uniti, è stato accusato di non avere un piano per fronteggiare i talebani e di avere preso decisioni frettolose e poco efficaci: mesi fa per esempio licenziò in tronco una parte della sua struttura di comando e creò un nuovo organo, il Consiglio di stato supremo, che da allora non si è quasi mai riunito. La debolezza del governo afghano, unita a un esercito armato e addestrato male e all’improvvisa mancanza del supporto militare americano, ha lasciato spazio ai talebani per avanzare quasi senza incontrare resistenza nella loro opera di riconquista del paese. Le ultime vittorie sono particolarmente significative. Il 12 agosto hanno conquistato le due principali città nell’ovest e nel sud del paese: Herat, un importante centro economico e culturale, e Kandahar, città centrale per l’economia del sud. Ormai rimangono quindi solo poche grandi città sotto il controllo del governo centrale, e nel giro di poche settimane i talebani potrebbero completare la riconquista del paese. 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 4 settembre 2021. Sulla tv di stato afghana, i talebani hanno mandato in onda il filmato di una parata di armi, giubbotti per attacchi suicida e bombe, alternandoli a filmati in cui i combattenti davano prova delle loro tecniche. Una voce fuori campo intanto presentava «l’industria militare dei mujaheddin» per «distruggere i veicoli ordinari e blindati del nemico». La processione, che si è svolta a Kandahar davanti ai leader talebani, seduti a guardare in uno stand improvvisato, è durata 40 minuti. I talebani hanno anche pubblicato un video di propaganda in cui combattenti jihadisti e si esibiscono nelle arti marziali e in tecniche di combattimento. Nel filmato, sfondano tavole di legno a calci, distruggono oggetti in ceramica a pugni e mettono in scena intense scene di combattimento di karate. Nel video, diffuso dai leader talebani sui social, si vedono anche altri combattenti esercitarsi con le armi da fuoco.   

I mullah 2.0: in tv col mitra e folle lapidate. Ma si esercitano con elicotteri e aerei hi-tech. Manila Alfano il 31 Agosto 2021 su Il Giornale. Un arsenale di ultima generazione dietro la solita immagine tradizionalista. Vent'anni dopo i talebani hanno imparato ancora meglio la lezione: l'immagine conta. E allora eccoli lì, schierati davanti alle telecamere con i fucili messi bene in evidenza mentre si lasciano intervistare. Una scenografia horror perfettamente studiata ad arte per creare quell'effetto al limite del surreale dove nessun elemento è lasciato al caso, a partire dall'intervistatore, del suo aspetto. Per raccontarsi al mondo hanno scelto un giornalista in abiti occidentali, non uno di loro ad accentuare la distanza tra due mondi, vestito di tutto punto, in giacca e cravatta con la sua brava penna appesa al taschino. Uno solo dei talebani è seduto davanti a lui, al tavolo. Probabilmente il capo, dietro il plotone di estremisti barbuti e con turbante che lo fissano seri. Armati fino ai denti. Il video diffuso nelle ultime 22 ore è diventato virale sui social afghani. Messaggio arrivato forte e chiaro dunque. Come se la loro fama non fosse ancora nota. «Televisione nella nuova era dei talebani», è scritto. Ai combattenti il presentatore chiede cosa pensino del ritiro americano. «Gli invasori occidentali finalmente se ne vanno con i loro alleati. Grazie a Dio, noi torniamo a controllare il nostro Paese in nome dell'Islam», replicano loro. Parlando di libertà di stampa e diritti per le donne, ancora i talebani ripetono che saranno regolati dalla «sharia». Non proprio una garanzia. «Presto i nostri leader ci diranno cosa dobbiamo fare seguendo i dettami della legge religiosa». Intanto sono schizzate le vendite dei veli integrali e le donne sono sparite dalle strade, hanno abbandonato le scuole, le università, i posti di lavoro. Anche le giornaliste di Tolo Tv, sono state costrette a rinunciare. Ma nessuno sa cosa stia succedendo davvero. I gruppi di combattenti sarebbero già andati casa per casa nei villaggi a rastrellare giovani spose bambine. Il panico è il comune denominatore per tutti. Le folle vengono disperse a colpi di sassaiole. C'è fame di soldi, e le banche sono prese d'assalto, e rischiano di replicare le scene dell'aeroporto di Kabul. Centinaia di persone si accalcano davanti alle banche, i bancomat sono vuoti da giorni. Una carrellata inquietante di dejà vu se non fosse per un particolare: hanno armi talmente sofisticate che tra loro c'è chi non sa ancora usarle. Migliaia di fucili, munizioni, aerei e altri equipaggiamenti di ultima generazione da miliardi di dollari, 32 elicotteri, 23 aerei leggeri d'attacco ma è probabile che abbiamo altri armamenti. Alcuni vestono le tenute dei marines. È l'eredità lasciata sul campo dai militari americani, il crollo lampo delle forze di sicurezza afghane poi, ha fatto sì che gli integralisti si impossessassero di un arsenale così moderno e diversificato. Ce li ricordavamo con fucili datati a bordo di pickup scassati, ma quell'immagine non c'è più. I talebani, si affrettano a far sapere dalla Casa Bianca, non hanno avuto la necessaria formazione di cui aveva goduto l'esercito locale. Ma è un ostacolo troppo misero per far stare tranquillo l'Occidente. Manila Alfano

Chi era il Mullah Omar. Mauro Indelicato su Inside Over il 29 agosto 2021. Il Mullah Omar è ricordato sia come fondatore dei Talebani, il movimento integralista diffuso in Afghanistan, che come capo del Paese asiatico tra il 1996 e il 2001. Nonostante le sue rare apparizioni in pubblico, la sua figura ancora oggi è vista come quella più importante e carismatica tra i sostenitori talebani. Ricercato dagli statunitensi dal 2001, la morte del Mullah Omar avviene nel 2013 ed è resa nota dagli stessi integralisti soltanto nel 2015.

La provincia di origine del Mullah Omar. Il vero nome è Mohammed Omar. Il titolo di Mullah arriva poi in un secondo momento, quando all’inizio degli anni ’90 i suoi seguaci lo nominano come “guida spirituale”. Omar nasce nel 1959 nel villaggio di Nodeh. Si tratta di una località non distante dalla città di Kandahar, la più grande del sud dell’Afghanistan. All’epoca nella zona non sono presenti scuole. A dominare la scena qui sono i Pasthun, etnia più diffusa nel Paese e a cui lo stesso Mohammed Omar appartiene. I codici sociali delle tribù Pasthun vengono rispettati anche dalla sua famiglia, composta soprattutto da braccianti. Quando è ancora adolescente, Omar perde il padre e diventa a tutti gli effetti il capofamiglia. Deve essere lui a provvedere al sostentamento dei fratelli e dei parenti. Così come anche delle sue mogli. Sono tre le donne che sposa e da loro ha sei figli. Il modo di vivere della sua provincia è uno degli elementi destinati a caratterizzare l’opera politica e ideologica di Omar.

L'adesione alla guerra anti sovietica. Nel 1979 inizia l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Unione Sovietica. Nel Paese affluiscono migliaia di combattenti islamisti per iniziare la guerriglia contro la presenza dei soldati di Mosca. Non si conosce bene né il momento e né il motivo che spingono il poco più che ventenne Omar ad aderire alle campagne contro l’Urss. Ma è in questo periodo che inizia la sua radicalizzazione. Aderisce infatti all’Harakat-i Inqilab-i Islami, ossia il Movimento rivoluzionario islamico. Si tratta di una delle più grandi formazioni di futuri jihadisti che, in nome della guerra santa, combattono i sovietici. Omar si distingue come uno dei miliziani più tenaci. Secondo le cronache emerse dalle trincee afghane, durante la guerra viene ferito quattro volte. In uno di questi episodi perde l’occhio destro. Omar rimane a combattere contro i sovietici fino alla fine della missione di Mosca, conclusa con un ritiro dall’Afghanistan nel 1989. Dopo il conflitto, il futuro Mullah viene segnalato in Pakistan. Probabilmente nella città di Quetta inizia a studiare in una delle tante madrase ed acquisisce maggior formazione integralista. É qui che nasce il suo pensiero ideologico e politico, vocato a una rigida interpretazione dell’Islam e a un’applicazione ferrea della Sharia, la legge islamica.

La fondazione dei Talebani. Nei primi anni ’90 Omar ritorna a Kandahar. Secondo una ricostruzione fatta delle forze di intelligence, nella sua provincia natia inizia ad insegnare nelle scuole coraniche. Non scrive manoscritti e non lascia traccia del suo pensiero, se non nelle sue lezioni che tiene nel sud dell’Afghanistan. Il suo nome circola nelle varie madrase e tra i vari imam della zona. In quel periodo il Paese è nel caos. Dopo la cacciata sovietica rimane in piedi un governo filorusso retto dal presidente Najibullah, il quale però è circondato da diversi signori della guerra e da molte milizie islamiste. Un contesto quasi di anarchia, dove abbondano la corruzione e il malaffare. Leggenda narra che alla notizia del rapimento di quattro giovani donne nei pressi di Kandahar da parte di un locale signore della guerra, Mohammed Omar chiama a raccolta alcuni combattenti per andare a liberare le vittime e punire gli aguzzini. In tal modo il futuro Mullah diventa molto popolare e attorno a lui inizia ad avere dei seguaci, soprattutto dalle scuole coraniche. Allievi chiamati “Talebani”, termine che in pasthun indica per l’appunto “studenti”. Al di là della veridicità o meno della storia, il gruppo attorno a Omar si consolida con l’idea di combattere la corruzione e il malcostume. Diversi studenti dal Pakistan e dal sud dell’Afghanistan si uniscono al gruppo, il quale fa parlare di sé a partire dal 1994. Omar viene insignito del titolo di guida e adesso diviene noto con la nomina di Mullah. I Talebani, imbracciate le armi, iniziano a combattere per diffondere il proprio ideale permeato dalla visione religiosa e ideologica di Omar. A loro fianco ci sono molte tribù Pasthun, che vedono negli studenti coranici un riferimento in chiave etnico e nazionalistico. L’obiettivo talebano è formare un emirato in Afghanistan. Nel 1994 viene conquistata buona parte della provincia di Kandahar. Tutto questo grazie anche all’appoggio che arriva soprattutto dal Pakistan, così come dall’Arabia Saudita. Soldi e armi permettono al movimento di avanzare e dilagare in tutto il Paese.

I Talebani conquistano Kabul. Il 27 settembre 1996 i seguaci del Mullah Omar entrano a Kabul. In questo momento inizia la storia del primo emirato islamico dell’Afghanistan. Il titolo di emiro è affidato proprio ad Omar. Il Mullah diventa formalmente capo di Stato, anche se il governo talebano è riconosciuto soltanto da tre Paesi: Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. La sua è una carica tanto politica quanto religiosa. Ma soprattutto il Mullah Omar diventa un riferimento spirituale di tutti coloro che appoggiano l’ideologia talebana.

Il Mullah Omar guida l'Afghanistan da Kandahar. Anche se la capitale è Kabul, il Mullah Omar rimane nella sua provincia di origine. Raramente gli afghani lo vedono. Le Tv sono vietate, lui non va in giro, non si reca in visita in altre città, né tanto meno lancia molti discorsi. Amministra i Talebani e l’Afghanistan da un ufficio di Kandahar, vedendo ogni giorno soltanto pochi collaboratori. Quelli più stretti, tra cui il Mullah Baradar, considerato suo vice e suo braccio destro. Durante il suo governo, viene applicata un’interpretazione molto rigida della Sharia. Le donne devono indossare il burqa e non possono uscire da sole, in molte scuole la loro presenza è preclusa. Sono vietate le televisioni, le radio, le esibizioni musicali. Gli uomini devono portare una barba lunga almeno tre dita. Un dossier importante che gestisce dal suo quartier generale è quello relativo alla presenza di Osama Bin Laden. Il fondatore e leader dell’organizzazione terroristica Al Qaeda è in Afghanistan da prima della presa di potere dei Talebani. I rapporti tra il Mullah Omar e lo sceicco del terrore non sembrano molto cordiali. Ma al tempo stesso Bin Laden porta nel Paese i propri soldi per costruire strade ed edifici e la sua presenza è quantomeno tollerata. Tutto si rivela poi controproducente all’indomani dell’attentato delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Per l’attacco agli Usa viene accusato proprio Bin Laden e il regime talebano viene messo sotto controllo.

L'intervento Usa del 2001. Alcuni documenti negli anni successivi mostrano contrattazioni risalenti già al 1998 tra la cerchia del Mullah Omar e l’intelligence Usa per la consegna di Bin Laden, ma ogni trattativa risulta poi naufragata. Per questo il 7 ottobre 2001 gli Stati Uniti attaccano l’Afghanistan. L’obiettivo di Washington è appoggiare l’opposizione armata dell’Alleanza del Nord e spodestare i Talebani dal Paese. Il Mullah Omar continua a seguire anche questa situazione dalla sua Kandahar. Kabul capitola il 12 novembre 2001, pochi mesi dopo la stessa sorte tocca alla sua provincia di origine. Il Mullah Omar perde il titolo di emiro dell’Afghanistan, ma continua a essere in latitanza il capo dei Talebani. Diventa uno degli uomini più ricercati dagli Stati Uniti, subito dopo lo stesso Osama Bin Laden. Sulla sua testa pende una taglia da 25 milioni di Dollari.

Gli ultimi anni e la morte. Di lui, dopo il 2001, non si sa più nulla. I Talebani catturati in Afghanistan dagli americani lo continuano a indicare come il vero leader. Non si sa però se nel frangente rimane nel Paese oppure se trova rifugio in Pakistan. Un mistero ancora più accentuato dalla totale assenza di suoi video o messaggi. Tra il 2010 e il 2011 viene dato per morto in due diverse circostanze. In entrambi i casi però si tratta di notizie non confermate. Anzi i Talebani ne approfittano per smentire e per sottolineare come il Mullah Omar sia sempre alla guida del gruppo. Una svolta sul mistero della sua sorte si ha il 29 luglio 2015, quando il governo afghano dichiara di essere certo della morte del leader degli islamisti. Pochi giorni dopo sono gli stessi Talebani a confermare: il Mullah Omar è morto due anni prima, nel 2013, a causa di una tubercolosi. Ufficialmente come luogo della sua morte viene indicato il Pakistan, dove forse si reca poco prima del decesso per curarsi. Di fatto il Mullah Omar muore da latitante. Non si sa dove si trova il suo luogo di sepoltura, anche questo un mistero forse custodito soltanto dal figlio Yaqoob, diventato negli anni successivi il leader militare dei Talebani.

Sami-ul-Haq, il padre dei Talebani. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 29 agosto 2021. I talebani degli anni Venti del Duemila, i talebani 2.0 di Hibatullah Akhundzada, stanno portando avanti un’ingegnosa ed accattivante opera di pulizia della propria immagine che, cominciata all’alba della cattura di Kabul, è stata formulata con l’obiettivo precipuo di persuadere la comunità internazionale ad accettare lo status quo post bellum – una misura propedeutica ad un riconoscimento ufficiale della loro legittimità. A meno di imprevisti, tra i quali figurano gli scenari della guerra civile e dell’insurgenza concentrata, la curiosa opera di personal branding dei talebani potrebbe e dovrebbe funzionare, conducendo il secondo Emirato dell’Afghanistan a conseguire una legittimazione limitata nel mondo – non si dimentichi che il primo Emirato, quello del mullah Omar, era stato riconosciuto da Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti – e, dunque, a divenire una destinazione di investimenti internazionali ed una stazione centrale delle rotte commerciali che traversano la trepida Eurasia. Che i talebani della contemporaneità siano più avvezzi all’utilizzo dei social, comunque, è irrilevante. Il loro non è che un camuffamento, una trasformazione apparente. Perché dietro ai tweet e ai salti in giostra, invero, si cela il medesimo scopo del passato: il dominio esclusivo dell’Afghanistan, una nazione al cui interno non tollereranno ingerenze esterne di nessun genere. E per comprendere chi sono i talebani, di oggi come di ieri, sviscerare il loro sistema di credenze non è sufficiente. Quest’attualità che sa di ritorno al passato rende obbligate la riscoperta e la riesumazione di tutti quei personaggi storici dai quali gli studenti del Corano traggono ispirazione – come il leggendario emiro Dost Mohammad Khan –, che li hanno guidati – come il mullah Omar – e che li hanno plasmati, dandogli una forma, uno scopo e qualcosa in cui credere – come i due loro padri, il generale Akhtar e l’imam Sami-ul-Haq.

Le origini. Sami ul Haq nasce il 18 dicembre 1937 ad Akora Khattak, che oggi è Pakistan ma che all’epoca era India britannica. Nato e cresciuto in una famiglia conservatrice e religiosa, Haq era un figlio d’arte. Suo padre, invero, era Moulana Abdul Haq, un imam piuttosto popolare tra i musulmani di Akora Khattak. Haq padre era uno zelota dell’islam deobandita – aveva studiato e ricevuto formazione presso la Darul Uloom Deoband, il cuore pulsante della scuola deobandita – e aveva fondato un proprio istituto di formazione allo scopo di popolarizzarlo nella sua terra natale. Un istituto, ribattezzato Darul Uloom Haqqania, che avrebbe frequentato anche il piccolo Haq. Il futuro padre dei talebani avrebbe appreso ogni cosa dal proprio carismatico genitore – la lingua urdu, la lingua araba, la conoscenza mnemonica del Corano –, ereditandone anche il culto di quella patria in divenire che era il Pakistan. Un bagaglio, quello trasmessogli dal genitore, che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. E un istituto, il Darul Uloom Haqqania, che si sarebbe rivelato fondamentale durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan.

Il "padre dei Talebani". Sami-ul-Haq, capitalizzando politicamente il proprio cognome, sarebbe divenuto uno dei personaggi più importanti del Pakistan indipendente. Fervente patriota, nonché deobandita indefesso, Haq avrebbe plasmato la società e la politica del Pakistan curando personalmente l’espansione della rete Darul Uloom Haqqania – di cui ne assunse il comando alla morte del padre – e ricoprendo un ruolo direttivo all’interno del Jamiat Ulema-e-Islam, uno dei partiti politici più sciovinisti della scena nazionale. L’influenza culturale di Haq, ben conosciuta nelle alte sfere della politica pakistana, si sarebbe rivelata estremamente utile negli anni dell’invasione sovietica dell’Afghanistan. Contattato dal generale Akhtar nell’ambito dell’operazione Ciclone, Haq sarebbe divenuto la guida spirituale dei mujaheddin e il Darul Uloom Haqqania la loro alma mater, cioè la loro nave-scuola. Haq avrebbe introdotto i combattenti in arrivo da ognidove all’islam deobandita, arricchito per l’occasione di elementi politici – l’anticomunismo – e culturali – i valori senza tempo del pashtunwali –, seguendo il percorso formativo di una serie di personaggi che, di lì a breve, avrebbero costituito la prima generazione di talebani. Tra i tanti combattenti che avrebbero seguito le lezioni di Haq, invero, figurava anche Mohammed Omar, il futuro mullah degli studenti del Corano. Omar, studente modello, sarebbe stato a lungo celebrato da Haq, in quanto da lui ritenuto il suo allievo migliore, e fra i due, al termine del ciclo di studi, sarebbe nata un’amicizia genuina, sincera e molto stretta. Perché se Omar era in debito con l’ex maestro per le conoscenze acquisite sull’Islam, sul nazionalismo pashtun e sulle relazioni internazionali, Haq avrebbe dovuto all’ex allievo la ritirata sovietica da Kabul, il successivo stabilimento di un Emirato islamico in loco e la trasformazione definitiva dell’Afghanistan nella prolungazione vitale del Pakistan.

L'eredità di Haq. Ribattezzato dal giornalismo pakistano il “padre dei talebani” per via del ruolo determinante giocato nell’indottrinamento dei mujaheddin ai tempi dell’invasione sovietica e della prima generazione di studenti del Corano, incluso il mullah Omar, Haq sarebbe stato ricompensato egregiamente per i servigi resi a Islamabad e avrebbe continuato a fare proselitismo attraverso il Darul Uloom Haqqania e i propri libri. Scrittore prolifico – autore di più di venti libri, tra i quali si ricordano “Islām aur ʻasr-i hāz̤ir” (Sull’islam e il mondo moderno) e “Afghan Taliban War of Ideology: Struggle for Peace“, e redattore capo del mensile Al-Haq –, il dopoguerra del papà dei talebani sarebbe stato caratterizzato dall’entrata in Senato e dall’assunzione della direzione del potente Consiglio di Difesa del Pakistan (Difa-e-Pakistan Council). Quest’ultimo è l’organizzazione ombrello che rappresenta la lobby antiamericana del Paese e ha svolto una funzione-chiave nel complicato processo di allontanamento da Washington, accompagnato e seguito dall’avvicinamento a Pechino; perciò non sarebbe né errato né esagerato considerare Haq il “papà della svolta cinese” di Islamabad. E forse, ma non è per forza detto, è nella scomodità di un personaggio come l’influente Haq che va ricercato il movente del suo assassinio, avvenuto il 2 novembre 2018. Assassinio inizialmente ricondotto a questioni private per via delle modalità che lo hanno contraddistinto – accoltellamento in casa –, ma che nel tempo si è trasformato in una matassa inestricabile per gli investigatori, incapaci di trovare sia un movente sia un colpevole. Soltanto un mese prima, in ottobre, Haq si era incontrato con l’allora presidente afghano Ashraf Ghani. I due avevano discusso dello stallo afghano ed è noto che Haq avesse avanzato una proposta indecente al capo di Stato: avviare un tavolo negoziale con i talebani, renderli partecipi del processo di pace e considerarli quali possibili co-costruttori della nazione, pena il proseguimento della guerra suscettibile di culminare in una loro possibile vittoria. Forse è proprio lì, in quel luogo che ha ospitato la Haq-Ghani, che gli inquirenti avrebbero dovuto (e dovrebbero) concentrare la ricerca del movente. Perché forse qualcuno, eliminando Haq, confidava di allontanare lo spettro di un accordo tra Ghani e i talebani. E che sia andata così o meno, in effetti, importa poco: la storia ha dato ragione a Haq, i cui figli, il 15 agosto 2021, sono entrati (di nuovo) a Kabul.

Maria Grazia Cutuli per “Epoca” (ottobre 1996). "Che ci fa una donna qui? Come vi è saltato in mente di portarla?". Lo "studente coranico", il Taleb che vigila al primo check point fuori Kabul, turbante bianco e bazooka in mano, lancia uno sguardo minaccioso all' interno del taxi. Me ne sto rannicchiata dentro una tunica, con la testa coperta da un velo, pentita di non aver indossato la "burqa", il mantello integrale, prescritto dalla legge islamica. La sentinella ripete: "Con lei non passate". Dieci minuti di litigio. Poi, finalmente, il via libera. E' il giugno 1995. Sono arrivata nella capitale dell'Afghanistan, per tentare di raggiungere i Talebani, gli "studenti" reclutati dalle scuole coraniche, che da aprile tengono sotto tiro la periferia della città. L' assedio (destinato a finire nella notte tra il 26 e il 27 settembre 1996, con centinaia di morti e la caduta di Kabul, vedi riquadro a pagina 81) è solo agli inizi. Ma la prima linea, che corre tra colline aride e postazioni di artiglieria, segna già la divisione tra due mondi. Dietro di noi, l'Islam "illuminato" delle forze governative fedeli al presidente Burhanuddin Rabbani. Davanti, i territori dove gli "studenti coranici" hanno dato ampia prova della lora intransigenza. Arriva voce di donne picchiate a sangue per aver mostrato il volto, di uomini bastonati per aver giocato a scacchi, guardato la televisione, ascoltato la radio; si rincorrono notizie di lapidazioni, impiccagioni, di mani e piedi mozzati...Non è la prima volta che vengo a contatto con i Talebani. Avevo parlato con un loro portavoce a Peshawar, in Pakistan. Una frase scappata di bocca a un funzionario dell'Onu ("sì, ci risulta che qui in città gli "studenti" abbiano un ufficio mobile, segreto") mi aveva messa sulle loro tracce. Li avevo trovati grazie al personale del Consolato americano, una sorta di filiale della Cia che a Peshawar, leggendaria capitale del terrorismo internazionale, retrovia dei mujaheddin durante l'invasione sovietica dell'Afghanistan, funziona a meraviglia. "Volete incontrarli?", aveva detto un diplomatico, mentre scribacchiava su un biglietto. "Fate questo numero di cellulare". Normale che gli Stati Uniti, sospettati di essere tra gli sponsor degli "studenti islamici", siano in contatto con loro. Ma, a giugno dell'anno scorso, sembra invece il Pakistan lo Stato interessato a mandare in avanscoperta le milizie coraniche. Soprattutto per liberare le grandi vie commerciali afghane dal controllo delle altre fazioni. Una prima telefonata. Un altro numero, poi un altro ancora. Alla quarta o quinta chiamata, la risposta: "Tra mezz' ora". E subito lo "spelling" di una strada alla periferia di Peshawar. L' "ufficio mobile" era all' interno di un palazzo formicaio, dentro una stanzetta dalla moquette logora e le pareti in finto legno. Ad accogliermi, Muhammad Tariq Khattak, un signore calvo, barbuto, dall' aria distinta, e il suo interprete: "Io sono solo un portavoce", aveva detto. "I comandanti si trovano a Kandahar, quartier generale delle nostre forze in Afghanistan". Khattak aveva spiegato l'origine della "guerra santa": "Alcuni dei Talebani sono soldati che hanno combattuto contro i russi. Altri sono "mullah" (cioè preti islamici) che hanno fondato le "madrasse", le scuole coraniche. Abbiamo un esercito di 30 mila uomini, jet, elicotteri, armi pesanti". Anche se, aveva aggiunto, "siamo riusciti a conquistare due terzi dell'Afghanistan senza sparare un colpo". Questo era successo grazie all'appoggio delle popolazioni rurali del Sud che sono della loro stessa etnia, pashtun. "Che cosa vogliamo fare? Sconfiggere il governo di Kabul che sta ingannando il popolo afghano e liberare il Paese dal traffico di droga". Pie intenzioni: peccato che gli "studenti", se da una parte proibiscono il consumo di stupefacenti, dall' altra gestiscono le più vaste coltivazioni d' oppio dell'Asia centrale. Sul fronte di guerra il comando dei Talebani si trova a una cinquantina di chilometri da Kabul, a Maidan Shar, un villaggio semideserto e polveroso. E' ospitato dentro una costruzione con un portale ad arco, semidiroccata, che si erge gialla e piena di tracce di proiettili in mezzo a una spianata. I soldati di campagna non si perdono in convenevoli. Nemmeno un saluto. Con me ci sono il tassista, l'interprete e un fotografo italiano. Ci portano immediatamente in una stanza, ingombra di giacigli, e ci chiudono dentro, mentre una sentinella ci tiene d' occhio dai vetri rotti della finestra. Il comandante, Mohammed Rabbani (oggi a capo del consiglio di sei "mullah" che governa Kabul), è assente. Ma un suo vice, Hafiz Neda Mohammed, un giovane dalla barba rada, vestito di bianco, accetta di rilasciare un'intervista all' interprete afghano (con le mie domande), mentre io resto chiusa nell' altra stanza: "Grazie a Dio abbiamo la "sharia" che non ci autorizza a parlare con le donne", sbuffa. "Mi fa infuriare il fatto che da Kabul, dove dovrebbe esserci un governo islamico, ci mandino una femmina". L' interprete controbatte: "Si tratta di una giornalista...". Ma il "mullah" fa una smorfia di disgusto: "E' forse mia sorella? La "sharia" dice che un uomo può rivolgere la parola solo alle parenti strette". E il rispetto dei diritti umani? "Esistono solo i diritti sanciti dalla "sharia". Le donne sono libere di parlare con i mariti, di studiare in scuole separate, di andare in ospedali separati, non certo di farsi vedere in giro nei bazar e negli uffici". Anche quando parla di restaurare gli "atti islamici" la musica non cambia. In altre parole: "L’ordine sancito dal Corano e dall' Hidith, la legge di Maometto, come è stata applicata dai quattro califfi durante il loro regno, alla morte del profeta. Un governo come quello dell'Arabia Saudita". Poi si corregge: "Volevo dire, come quello che abbiamo instaurato nei territori controllati da noi. C'era la guerra prima. Banditi e fazioni taglieggiavano e rapinavano tutti. Noi abbiamo portato ordine e pace". Avete proibito il gioco degli scacchi, il calcio, la tivù, la radio, dice l'interprete. "Perdite di tempo", urla il vicecomandante, che è un "mullah", cresciuto a Karachi in Pakistan. "Il nostro dovere è pregare, studiare, combattere". Una delle sentinelle entra nella nostra stanza. E' un soldato sui 18 anni, dalle guance tonde e lo sguardo accigliato. Originario di Kandahar, racconta al tassista (ignorandomi) di essersi trovato a Kabul nel 1992, durante la caduta di Najibullah. "Che cosa non hanno visto i miei occhi! I mujaheddin si scannavano come belve. No, non potevo vivere tra gente che tradisce l'Islam così". Il giovane guerriero si è rifugiato a Quetta, in Pakistan. Lì ha frequentato una delle tante "scuole coraniche", istituzioni di stampo medievale, finanziate dalle associazioni integraliste, ma anche da potenze come l'Arabia Saudita, dove gli allievi si indottrinano ai rigori dell'Islam e si addestrano all' uso delle armi. "Quando i Talebani hanno cominciato la marcia verso Kandahar, sono saltato su una jeep, ho preso il kalashnikov e sono partito per la guerra". Non fa in tempo a raccontare altro. Il vicecomandante ci manda via. Si comincia a combattere. Sulla strada per Kabul, arrivano un paio di missili. Siamo nel pieno della "guerra santa", anche se nella capitale, in questo giugno 1995, il pericolo dei Talebani è ancora sottovalutato. La gente li liquida come omosessuali ("Taleb" è diventato sinonimo di "frocio"), riferendosi alla promiscuità che lega i capi ai giovani soldati e alla loro avversione per le donne. E lo stesso comandante Massud, il "leone del Panshir", eroe della resistenza contro i sovietici, oggi capo delle forze militari del presidente Rabbani, mi dirà qualche giorno dopo: "La loro è una forza morale, non militare. Hanno conquistato le regioni del Sud con la "sharia", ma non possono prendere Kabul. Qui la gente non tollererebbe mai il taglio della mano o del piede, la lapidazione per le donne...". Si sbaglia Massud. La cronaca di oggi, il cadavere di Najibullah che penzola sulla piazza principale della capitale, il terrore per le strade, la gente bastonata, le donne recluse in casa, ha dimostrato che i Talebani sanno fare di peggio.

Bernardo Valli per “L’Espresso” il 23 agosto 2021. I Talebani ("studenti in teologia") erano una formazione molto attiva ma non tanto organizzata di musulmani radicali quando mi aggiravo in territorio pakistano, al confine con l'Afghanistan negli anni Ottanta. Mohammed Omar, indicato come il loro fondatore, li avrebbe battezzati e rafforzati durante la guerriglia contro i russi. I quali erano sul piede di partenza dopo dieci anni di occupazione e quando non si profilava ancora la guerra americana, cominciata nel 2001 come reazione all'attentato alle torri gemelle di New York. Nel frattempo, i Talebani si erano rafforzati al punto da poter governare gran parte del Paese, dopo essersi distinti dagli altri gruppi di resistenza impegnati contro gli invasori sovietici. Erano accampati alla frontiera afghana che superavano per andare ad alimentare la guerriglia antisovietica. Era facile distinguerli dagli altri gruppi di resistenti. Erano più disciplinati e diffidenti con gli estranei. Una volta individuati, sia pure ancora senza nome, avevano un'identità in quella striscia di confine. Il contatto si rivelava più facile del previsto. Erano guerriglieri, terroristi, con una propensione alla diplomazia spiccia. Che usavano con me, giornalista straniero maschio, ma non per la giornalista francese, femmina, mia compagna di lavoro. A lei i futuri Talebani non rivolgevano mai la parola. Neppure uno sguardo. Un'occhiata a una femmina era come una bestemmia. Le femmine non meritavano attenzione quando erano in pubblico. Bisognava comportarsi come se non esistessero. Entrambi, la mia collega e io, sapevamo che nelle zone controllate dai Talebani, allora piccole isole nel cuore dell'Afghanistan, era proibito alle ragazze di frequentare le scuole. Erano confinate in casa, dove non venivano loro risparmiate severe punizioni, anche corporali, se ascoltavano musica o indossavano abiti che non le coprivano abbastanza. Ma in quel momento, negli anni Ottanta, non pensavo al loro fanatismo. Se ne parlava senza darvi troppa importanza. Contava l'aperto aiuto del Pakistan ai Talebani. Continuato fino ai nostri giorni. Gli americani, da amici nascosti, sarebbero diventati occupanti, i nuovi invasori. La loro, era un'altra superpotenza destinata a perdere un conflitto con un Paese del Terzo Mondo, un tempo praticamente amico, se non alleato, perché nemico dei propri nemici. L'alleanza con quei musulmani radicali, ancora impegnati nella lotta contro i sovietici, cercava di essere clandestina. Non era troppo sbandierata ma decisiva perché avrebbe contribuito in seguito alla sconfitta dell'Armata rossa, al ritiro dall'Afghanistan della potenza comunista, nonostante disponesse nel paese di alleati anche ideologici. Un'umiliazione politica e militare dell'Urss che fu una delle cause, tra le tante, della sua dissoluzione. Ricordo quel primo contatto con i Talebani, dei quali allora conoscevo ben poco. Mi colpì il loro rigido atteggiamento nei confronti della cronista francese che cercava invano di incrociare il loro sguardo. Sono regole che si sono poi allentate in molte regioni, ormai tutte in mano ai Talebani, diventati la forza militare senza veri rivali nel Paese. Anche negli anni americani, durante i soggiorni in Afghanistan, ho avuto contatti con loro, senza che i miei interlocutori dichiarassero la loro affiliazione. Gli americani se ne sono andati, gli ultimi se ne stanno andando. Uno pensa al Viet Nam. I musulmani di stampo radicale sono diventati una potenza della regione. Hanno rapporti con i Paesi vicini, l'Iran e naturalmente il Pakistan. Ma anche con la Cina e con la Russia un tempo nemica. L'Afghanistan, mosaico di gruppi etnici, ha sconfitto, ha costretto a ritirarsi dal suo territorio le più grandi potenze. Nell'epoca coloniale annientarono una colonna britannica che cercava di inoltrarsi nel Paese per assumerne il controllo. Poi nel 1979 è intervenuta l'Unione Sovietica che ha rimpatriato i suoi soldati dopo avere tentato di aiutare invano gli alleati afghani per dieci anni. Gli americani hanno resistito di più: dal 2001 al 2021. In questi giorni i Talebani stanno estendendo il loro potere all'intero Afghanistan. Una terra tra le più povere, tra le più arretrate, ha messo alla porta due tra le nazioni più armate del pianeta. L'Unione sovietica, anche in seguito al fallimento afghano, ha smarrito la sua rivoluzione, ed è ritornata a essere la Russia. E gli Stati Uniti sono in un questo momento castigati. Sono prudenti poiché lasciano di gran fretta il campo in cui erano impegnati. I loro alleati afghani (300mila negli effettivi ufficiali) esibivano cifre false. Molti battaglioni che esistevano sulla carta ricevevano aiuti americani senza avere un solo soldato.

Dagotraduzione da MarineCorpsTimes il 23 agosto 2021. Dopo la loro ascesa al potere, i talebani non hanno perso tempo e hanno lanciato subito una nuova campagna di propaganda. In particolare, in una foto pubblicata questa settimana si vedono i membri del battaglione Badri 313 che sembrano evocare l’iconica immagine del 1945 di Joe Rosenthal dei militari statunitensi che alzano la bandiera sul monte Suribachi durante la battaglia di Iwo Jima. Nell'immagine dei talebani, i combattenti appartenenti al Badri 313, che alcuni chiamano l'unità di comando d'élite dei talebani, indossano uniformi mimetiche, stivali da combattimento, equipaggiamento tattico e occhiali per la visione notturna. Fotografie simili rilasciate nei giorni scorsi mostrano combattenti talebani che trasportano armi ed equipaggiamenti rilasciati dagli Stati Uniti o dalle nazioni alleate, tra cui carabine M4 e quelli che sembrano essere mirini ottici da combattimento avanzati Trijicon, o ACOG. Le immagini si allontanano molto dalle rappresentazioni tradizionali dei combattenti talebani, che raramente apparivano con armi pesanti o in completo abbigliamento militare, bottino lasciato dall'esercito afghano. «Quando un gruppo armato mette le mani su armi di fabbricazione americana, è una specie di status symbol», ha detto giovedì a The Hill Elias Yousif, vicedirettore del Security Assistance Monitor del Center for International Policy . «È una vittoria psicologica. ... Chiaramente, questo è un atto d'accusa nei confronti dell'impresa di cooperazione per la sicurezza degli Stati Uniti in generale. Dovrebbe davvero sollevare molte preoccupazioni su quale sia l'impresa più ampia che si svolge ogni singolo giorno, sia che si tratti del Medio Oriente, dell'Africa sub-sahariana, dell'Asia orientale». Yousif ha aggiunto che gran parte dell'attrezzatura rimarrà probabilmente inutilizzata, data la scarsità di addestramento del gruppo quando si tratta di pilotare una collezione di velivoli che, a luglio, includeva 45 elicotteri UH-60 Black Hawk e quattro aerei da trasporto C-130. «Non abbiamo un quadro completo, ovviamente, di dove sia finito ogni articolo di materiale per la difesa, ma certamente una buona parte è caduta nelle mani dei talebani», ha detto ai giornalisti la scorsa settimana il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan. «E ovviamente, non abbiamo la sensazione che ce lo consegneranno prontamente all'aeroporto».  Il cupo messaggio di Sullivan è stato rafforzato dall'apparizione del battaglione Badri, che prende il suo nome dalla vittoria del profeta Maometto del VII secolo durante la battaglia di Badr. 

Afghanistan ai talebani, torna il mullah Baradar: "Non ci aspettavamo questo successo". Libero Quotidiano il 21 agosto 2021. "Non ci aspettavamo, che avremmo avuto un tale successo in Afghanistan. È stato possibile solo con l'aiuto di Allah Onnipotente. Allah ci ha concesso vittorie e risultati che non hanno equivalenti nel mondo e quindi abbiamo assistito a questo giorno". Il cofondatore e numero due dei talebani, il mullah Abdul Ghani Baradar, è arrivato sabato a Kabul per colloqui con altri membri del movimento e politici per stabilire un nuovo governo afghano. Ascoltato e rispettato dalle varie fazioni talebane, è capo del loro ufficio politico, situato in Qatar. Da lì, ha guidato i negoziati con gli americani che hanno portato al ritiro delle forze straniere dall'Afghanistan. Quindi ai colloqui di pace con il governo afghano, che però non hanno portato a nulla.

Haqqani, il terrorista che dividerà il potere con i talebani. Antonio Giustozzi su La Repubblica il 26 agosto 2021. Serajuddin Haqqani è leader del gruppo responsabile di gran parte degli attentati a Kabul degli ultimi anni. La Rete Haqqani ha rapporti con Al Qaeda e Stato islamico. Di Serajuddin Haqqani si è detto molto, soprattutto riguardo ai suoi stretti rapporti con i gruppi della jihad globale (Al Qaeda e Stato Islamico) e a quelli con i servizi pachistani, nonostante l’apparente contraddittorietà di queste relazioni incrociate. Di certo, Serajuddin ha controllato per 15 anni la campagna di attacchi terroristici a Kabul. Il 15 agosto, i suoi uomini hanno preso Kabul e tutti si aspettano che dopo questo exploit il suo network venga ricompensato nella divisione delle spoglie che sta per cominciare.

L’Afghanistan verso il nuovo governo: ecco chi gestirà il potere. Mauro Indelicato su Inside Over il 25 agosto 2021. Da un lato i talebani sembrano voler prendere tempo: “Il nuovo governo arriverà soltanto quando gli americani lasceranno l’aeroporto di Kabul”, hanno dichiarato all’unisono diversi portavoce del gruppo integralista. Dall’altro però, sono gli stessi studenti coranici a dare per imminente la nascita del nuovo esecutivo. Probabilmente a Kabul i colloqui stanno andando avanti anche in queste ore. E non solo tra diversi esponenti afghani. Nelle scorse ore ad esempio si è diffusa la notizia, non confermata ma nemmeno smentita, di un incontro tra il direttore della Cia, William Burns, e il capo politico del movimento, Abdul Ghani Baradar. Qualcosa si sta muovendo, in attesa di capire chi realmente prenderà le redini della politica nel tormentato Paese asiatico.

Governo affidato a un consiglio di 12 membri. Baradar si trova a Kabul da diversi giorni. A ferragosto è stato lui a parlare da Doha subito dopo l’arrivo dei talebani nella capitale afghana. Da lì ha lanciato una sorta di “quadro programmatico” per i mesi successivi. Subito dopo è volato a Kandahar, base politica del movimento islamista, prima di giungere a Kabul. Baradar non è soltanto il capo politico, ma anche l’uomo di maggior fiducia del Mullah Omar, fondatore del gruppo. Gli americani li conosce molto bene. Sono stati loro prima a volerlo in carcere nel 2010 dopo la sua cattura in Pakistan, poi invece a promuoverlo come principale mediatore talebano in vista del ritiro delle truppe statunitensi. Per questo da molti Baradar è indicato come il vero futuro capo dello Stato. Anche se è ancora molto difficile capire se gli studenti del Mullah daranno al “nuovo” Afghanistan una tradizionale conformazione statale. Per loro il Paese si è trasformato in un emirato, a capo ci sarà quindi un emiro e non necessariamente una figura politica. Molto probabilmente non ci sarà nemmeno un governo per come è comunemente inteso. Fonti russe parlano di un consiglio composto da 12 membri, in cui inserire alcune delle più importanti personalità politiche afghane. Tra queste lo stesso Baradar. La creazione di un consiglio sarebbe la soluzione in grado di garantire quella “inclusività” chiesta a livello internazionale e promessa dagli stessi talebani. Fare in modo cioè che nel futuro assetto afghano, a prescindere dalle scelte che verranno fatte dagli islamisti, ci sia una larga rappresentanza. Non solo quindi gli studenti coranici, non solo membri dell’etnia Pasthun, ma anche ex ministri, ex presidenti ed esponenti di etnie minoritarie.

Chi farà parte del consiglio. Come detto, Baradar è il primo nome indicato per l’ingresso nel futuro consiglio afghano. Al suo fianco dovrebbero esserci, sempre secondo fonti russe, altri esponenti di spicco dei miliziani. A partire dal Mullah Yaqoob, figlio del Mullah Omar e attualmente a capo della commissione militare talebana. Possibile anche la nomina di Khail-ur-Rahman Haqqani, a capo della brigata Haqqani e quindi del gruppo che dal 15 agosto è responsabile della sicurezza di Kabul. Il suo nome potrebbe far storcere il naso a molti, visto che è inserito nella lista dei terroristi più pericolosi ricercati dagli Usa. Fuori dalla cerchia talebana, dovrebbero esserci due vecchie conoscenze dello Stato afghano collassato a ferragosto. Hamid Karzai, primo presidente eletto e capo dello Stato fino al 2014, dovrebbe far parte del consiglio. Così come il suo ex antagonista, Abdullah Abdullah. Entrambi dal 15 agosto hanno assunto un importante ruolo di mediatori tra i talebani e i vari gruppi con cui si sta cercando di formare un esecutivo. Dovrebbe essere della partita anche l’ex ministro degli Esteri, Hanif Atmar. Così come, a sorpresa, anche il leader del Partito dell’Islam, tra i principali oppositori dei talebani, Gulbuddin Hekmatyar. Quest’ultimo ha avuto ruoli importanti sia nella guerra contro i sovietici che nel successivo conflitto civile di inizio anni ’90 ed è stato spesso etichettato come tra i principali “signori della guerra”. Sono ancora in corso consultazioni per gli altri nomi da inserire nel consiglio. Ma al momento non si sa il vero ruolo dell’organo che dovrebbe nascere a breve. Se cioè avrà funzioni di esecutivo oppure se sarà una sorta di consiglio presidenziale. Né, tanto meno, è ancora noto se il consiglio dei 12 sarà soltanto transitorio oppure se rappresenterà un apparato definitivo del nuovo Afghanistan.

Giordano Stabile per “la Stampa” il 22 agosto 2021. Il capo politico dei taleban Abdul Ghani Baradar arriva a Kabul e mette le basi del secondo Emirato islamico dell'Afghanistan. Se l'ideologia è la stessa del regno del terrore del mullah Omar, la forma sarà diversa, in modo da offrire all'Occidente almeno la parvenza del promesso "governo inclusivo", che non sia una semplice replica della dittatura jihadista del 1996-2001. Baradar era anche allora il numero due, il braccio destro dell'emiro, oltre che ministro della Difesa. Ma i tre anni passati a Doha, in Qatar, a trattare con gli americani, gli hanno fornito un'infarinatura di inglese e di linguaggio istituzionale: da braccato dalle forze speciali alla foto assieme a Mike Pompeo. La sua idea è cooptare i vecchi mujaheddin anti-sovietici, poi signori della guerra fra il 1992 e il 1996, ed esponenti della repubblica appena abbattuta, su tutti l'ex presidente Hamid Karzai e l'ex premier Abdullah Abdullah. Sul fronte esterno può contare sull'appoggio di Mosca. Ieri l'ambasciatore Dmitry Zhirnov ha detto che «non ci sono alternative» ai taleban. Baradar lavora anche per se stesso, punta a diventare "presidente" in uno Stato che non prevederà democrazia né elezioni ma che dividerà il potere in due strati. Al vertice massimo l'emiro Haibatullah Akhundzada e il Consiglio della Shura a supervisionare il rispetto della sharia. Sotto, un governo presidenziale a gestire gli affari correnti. Ha aperto il dialogo perché ha due problemi urgenti da risolvere. Da una parte deve facilitare l'evacuazione degli occidentali ancora presenti a Kabul, centinaia se non migliaia. Prima se ne vanno, prima le truppe della Nato lasceranno l'aeroporto. Il secondo obiettivo è impedire che si coaguli, anche minima, la resistenza armata. Baradar, che ha visto il primo Emirato cadere in sei settimane sotto i colpi dell'Alleanza del Nord, non vuole ripetere l'esperienza. Nella valle del Panshir, il figlio del leggendario comandante Massud, Ahmad Massud, ha raccolto reparti dell'esercito fedeli al vicepresidente Amrullah Saleh, assieme a mujaheddin leali alla memoria del padre e lanciato "la resistenza". Poca roba, ma se il malcontento cresce fra i tagiki potrebbe diventare una minaccia seria. Bisogna "includere", cooptare. A fargli da sponda c'è uno dei personaggi più usurati, Gulbuddin Hekmatyar, soprannominato «il macellaio di Kabul» dopo che nel 1993 le sue milizie in lotta con il comandante Massud distrussero un terzo della città. L'uomo ha fatto molte capriole. Nel 1979 entra nell'operazione "Ciclone" finanziata dalla Cia contro i sovietici. Dopo il 1996 si accorda con i talebani, poi li segue in Pakistan e nel 2004 dichiara la jihad contro i vecchi alleati americani. Oggi Hekmatyar si è messo alla testa di un trio con Karzai e Abdullah per trattare la spartizione del potere. Classe 1947, è il più navigato e quello che ha i rapporti di più lunga data con l'Isi, i famigerati servizi pachistani. Anche Islamabad non intende ripetere l'errore del 2001 e preme sulla leadership taleban perché mostri moderazione. Karzai, ex uomo più elegante del mondo e presidente dal 2001 al 2014, è un pashtun influente al Sud, soprattutto fra "i signori dell'oppio". I taleban potrebbero averne bisogno per blindare il controllo di Kandahar. In cambio Karzai vuole garanzie sui suoi affari dall'emiro Akhundzada, molto geloso nel gestire il business della droga. Abdullah, madre tagika e padre pashtun, è influente al Nord, ha partecipato alla resistenza antisovietica da medico, sotto il comandante Massud. Ha provato tre volte a farsi eleggere presidente, e due volte è stato fermato dai brogli. Dopo la fuga del presidente Ashraf Ghani si è fiondato negli spazi politici della transizione, e parla con tutti. Ha incontrato persino Khalil Haqqani, un altro "macellaio", leader della branca più sanguinaria dei Taleban. Haqqani, fra i terroristi super ricercati dagli Stati Uniti, con una taglia da 5 milioni di dollari sulla testa, è entrato venerdì a Kabul. Esponente dell'ala "pachistana" dei taleban, è in concorrenza con Baradar, che guida l'ala "qatarina". Haqqani ha preso in mano la gestione della sicurezza nella capitale e si sta creando una sua rete di alleanze. Ieri ha ricevuto il giuramento di fedeltà del fratello di Ashraf Ghani, Hashamt Ghani Ahmadzai. Abdullah lo ha invitato nella sua residenza, e gli ha offerto di mediare con Ahmad Massud, asserragliato nell'imprendibile valle del Panjshir. È quella la grana più urgente, per i nuovi padroni del Paese. Oltre alle proteste delle donne a Kabul, che ieri sono tornate a sfidare gli studenti barbuti. «Non rinunceremo alle conquiste di questi vent' anni», ha ribadito l'attivista Fariha Esar. Sarà questo il primo test su quanto "inclusivi" siano davvero i nuovi taleban.

Cristiano Tinazzi per “il Messaggero” il 22 agosto 2021. «Sicurezza delle persone, processo politico inclusivo, rispetto dei valori nazionali, inclusa la bandiera». Questi alcuni dei temi sui quali si sta lavorando a Kabul in queste ore. Con un obiettivo: formare il nuovo governo che guiderà il Paese. E proprio ieri, su questo fronte, c'è stata un'importante accelerazione con l'arrivo nella capitale del mullah Abdul Ghani Baradar, numero due del movimento e capo dell'ufficio politico. Il vice leader e cofondatore del movimento talebano non metteva piede in Afghanistan da vent' anni. Baradar è infatti rientrato il 17 agosto scorso dal Qatar (dove dirigeva l'ufficio politico del movimento), dopo due decenni di assenza dal Paese. Arrestato nel 2010 nel vicino Pakistan, tenuto in prigione per otto anni, è stato rilasciato nel 2018 quando gli Stati Uniti hanno intensificato i colloqui con i Talebani con l'obiettivo di lasciare l'Afghanistan. Nel febbraio 2020 è stato protagonista degli storici negoziati con gli Usa che hanno portato alla firma dell'Accordo per portare la pace in Afghanistan. Baradar ha anche incontrato lo scorso luglio in Cina il ministro degli Esteri Wang Yi. Diversi altri leader talebani sono arrivati intanto a Kabul da Doha, dove in precedenza avevano partecipato ai negoziati con gli Usa. Ad accoglierli, riferisce la Bbc, anche Abdullah Abdullah, l'ex inviato per i colloqui di pace del governo. Sul suo profilo Facebook, Abdullah ha pubblicato una foto in cui lo si vede mentre saluta l'ex ambasciatore talebano in Arabia Saudita Shahabuddin Delawar, l'ex ministro degli interni talebano Mullah Khairullah Khairkhwa, Abdul Salam Hanafi e altri. Altre immagini, aggiunge la stessa fonte, mostrano gli stessi leader che parlano con Hamid Karzai, presidente dell'Afghanistan dal 2001 al 2014 e rimasto a Kabul quando i talebani hanno preso il potere. Il post di Facebook afferma che durante l'incontro sono stati discussi «l'attuale situazione nel Paese, la sicurezza delle persone, il processo politico inclusivo, il rispetto dei valori nazionali, inclusa la bandiera». Il capo dell'Alto consiglio di riconciliazione Abdullah Abdullah e l'ex presidente afgano Hamid Karzai stanno continuando a organizzare una serie di colloqui per tentare di portare a termine questo processo politico di integrazione con i Talebani (che ieri hanno incassato il giuramento di fedeltà da parte del fratello dell'ex presidente Ghani) per la formazione di un governo che rappresenti tutte le realtà del Paese. I Talebani però non sono un monolite. Sulla sua pagina Facebook Abdullah ha riferito di aver incontrato alcuni loro leader, tra cui Shahabuddin Delawar, Abdul Salam Hanafi, Khairullah Khairkhaw e Abdul Rahman Fida. Si è discusso, ha scritto, dell'attuale situazione nel Paese, della sicurezza e di un processo politico inclusivo. Resta sulla carta la questione della minoranza Hazara e quella relativa alla presenza di donne. Nella compagine governativa. Karzai e Abdullah hanno anche incontrato Abdurahman Mansoor, nuovo governatore della capitale, per parlare della sicurezza in città. Tutti assicurano che l'obbiettivo primario è quello di riportare pace e sicurezza, ma l'aeroporto della capitale è ancora nel caos. Almeno tre morti ieri per la calca. Decine di migliaia di persone cercano di andarsene dal Paese e ci sono ancora migliaia di stranieri che devono essere imbarcati. Un testimone ha riferito che colpi d'arma da fuoco continuano ad essere sparati quasi incessantemente fuori dal complesso che ospita lo scalo. Tutto questo mentre arriva la prima fatwa dei Talebani: nelle università pubbliche e private della provincia di Herat, nella parte occidentale del Paese, non sarà più permesso alle ragazze frequentare classi miste. Intanto, sul fronte della resistenza, Massoud Jr ha smentito le voci di ritirata: «Non molleremo». 

Andrea Nicastro per il “Corriere della sera” il 22 agosto 2021. L'ex presidente Karzai ha avuto guardie del corpo americane per anni. Lui, di etnia pashtun, non si fidava dei soldati afghani, in massima parte tajiki. Il mullah Baradar vive un imbarazzo simile. Di etnia pashtun, della tribù popalzai, Baradar non poteva fidarsi di arrivare in una capitale controllata dal clan Haqqani, sempre talebani, sempre pashtun, ma di una tribù diversa, la jadran. Così, prima ha fatto tappa nel suo bastione a sud (Kandahar) e solo quando un numero sufficiente di popalzai si è sistemato a Kabul è comparso. Sei giorni dopo la vittoria. Baradar è il terrorista che gli Usa hanno tirato fuori di prigione per trattare. È il negoziatore che ha garantito l'uscita di scena di Washington. È il talebano che tante capitali sperano controlli il futuro Afghanistan perché sotto la barba incolta hanno visto uno che conosce il mondo e ne apprezza le comodità. Il problema è che Baradar non è un Cesare trionfatore. Non voleva l'avanzata fulminea di settimana scorsa. Dall'hotel cinque stelle di Doha, offerto dal Qatar, avrebbe voluto procedere come deciso con gli americani: lentamente, senza attriti con la superpotenza in ritirata. Voleva più tempo perché il governo afghano mediasse mantenendo il consenso internazionale e con quello gli aiuti economici. Invece, ora, con quel liquefarsi dell'esercito regolare, con la fretta dei suoi barbuti combattenti di approfittarne, tutto rischia di saltare. Il Paese può scivolare nell'anarchia, avere milioni di profughi e, magari, qualche incidente spingere la Casa Bianca a mostrare di nuovo chi è più forte. Mullah Baradar ha curriculum e titoli perfetti per fare da sintesi alle tante anime talebane sotto la guida del capo supremo mullah Haibatullah Akhundzada. Una possibilità di chiudere i 40 anni di guerra afghana c'è. Indigesta, ma c'è. Baradar ha già fallito quattro volte: le prime due con la forza, le altre con la diplomazia. Perché questa diventi quella buona deve ancora superare parecchi ostacoli. Il suo pedigree di talebano è indiscutibile. Compagno di giochi del futuro Mullah Omar, si chiama Abdul Ghani Baradar Akhound, ha 53 anni e ha sposato una sorella dell'amico scomparso. Omar e Baradar combattevano assieme i sovietici e, cacciati gli «infedeli», pensavano di sistemarsi come mullah (preti) di una madrassa (scuola coranica). Invece il caos postsovietico divenne intollerabile. Dalla loro piccola scuola escono per punire i signorotti che vessavano la popolazione. Diventano popolari. Nel 1994 con altri due amici fondano il movimento degli «studenti del Corano», il Pakistan fa loro reclutare all'interno dei suoi confini e con quell'esercito invasato conquistano l'Afghanistan. Dal 1996 al 2001, Baradar ricopre varie posizioni nell'Emirato, ma mai di vertice. Resta un tessitore con la fiducia del capo. Quando gli Usa scatenano i bombardamenti per vendicare gli attentati di Al Qaeda alle Torri Gemelle, Baradar contatta Karzai, uno della sua stessa tribù che però stava con gli americani. Vuole patteggiare la resa. Washington non ascolta e il tentativo fallisce. Baradar scappa in Pakistan, forma la shura (assemblea) talebana di Quetta. Nel 2009 capisce che la guerra sarà lunga e difficile. Scrive un libretto per i combattenti: non rubare, non stuprare, non fare vittime civili, la guerra si vince con il consenso della gente. È il momento del terzo tentativo di finire la violenza afghana: chiama ancora Karzai, ormai diventato presidente. Lo fa attraverso il fratello di questi, trafficante di droga. Chiede di trattare, Karzai accetta, ma pachistani e americani non si fidano (o non vogliono la pace) e lo arrestano. Dal 2010 al 2018 resta prigioniero ed è scarcerato solo quando il presidente Donald Trump decide lo stop alla missione in Afghanistan. In due anni, Baradar fa quello per cui è stato liberato. Convince tutti i gruppi talebani che la pace conviene. Ci riesce anche mostrando loro di potersi autofinanziare. È sua l'idea dei semi di papavero da oppio geneticamente modificati che raddoppiano il raccolto. Riceve una telefonata direttamente da Trump, ma resta diffidente, non firma per primo il foglio dell'intesa con Washington. Garantita la fine dell'occupazione pensa al dopo. Viaggia a Mosca, Teheran, Pechino. Ovunque riceve disco verde: il nuovo Emirato non ha nemici. Basta che i soliti tajiki della valle del Panshir non facciano gli eroi. Basta che gli amici di Al Qaeda del network Haqqani non facciano attentati. Basta che l'Occidente non inorridisca subito, adesso che le telecamere sono ancora accese, per l'idea di mondo che hanno i talebani. Basta che tanti imprevisti non accadano e Mullah Baradar porterà la pace in Afghanistan. Pace sotto un burqa di oscurantismo.

Guerra tra correnti talebane per comandare il governo. L'Ue: nessun riconoscimento. Gian Micalessin il 22 Agosto 2021 su Il Giornale. Arrivati a Kabul i leader più estremisti. Ma senza un giorno "inclusivo" a rischio legittimazione e fondi internazionali. Meglio i soldi della comunità internazionale o una zelante adesione ai principi del defunto Mullah Omar? Davanti questo bivio anche la travolgente vittoria dei talebani sembra esitare. E la formazione del governo chiamato a guidare il nuovo Emirato Islamico diventa il nodo della discordia capace di esporre le divisioni interne del movimento. Un movimento dove, beninteso, non esistono agnelli, ma soltanto interessi di potere confliggenti. Quelli innanzitutto del 61enne emiro Hibatullah Akhundzada, dal 2016 leader spirituale del movimento con il titolo di «comandante dei fedeli» ereditato dal defunto mullah Omar. Da questo fanatico islamista, a cui il capo di Al Qaida Ayman Zawahiri, dedicò all'indomani della nomina una «bay'a», ovvero un giuramento di fedeltà, è difficile attendersi concessioni. Legato a doppio filo al Pakistan, da dove non è mai uscito, è il punto di riferimento di quei talebani duri e puri decisi a liquidare come un tradimento sia un' intesa con gli esponenti del deposto regime, sia un emirato dove il potere non sia nelle mani di una magistratura islamista di rigida ispirazione talebana. E l'arrivo a Kabul, con il compito di garantire la sicurezza, di Kalil Haqqani, uno dei «padrini» di quel clan familiare degli Haqqani collegato ad Al Qaida e grande intermediario tutti gli affari e traffici alla frontiera con il Pakistan, è un altro segnale. Attraverso di lui l'ala dura talebana, manovrata in parte dai servizi segreti di Islamabad, si prepara a indirizzare i negoziati per la formazione del nuovo esecutivo. Proprio per questo la nascita di un presunto governo «inclusivo» sotto la presidenza del numero due talebano Mullah Abdul Ghani Baradar con la presenza, irrilevante, di qualche «badogliano» come l'ex presidente Hamid Karzai o il negoziatore tagiko Abdullah Abdullah non è affatto scontata. Questo non significa che il candidato alla presidenza sia un moderato. Amico d'infanzia di un Mullah Omar che lo soprannominò Baradar, ovvero «fratello», Mullah Abdul Ghani è stato uno dei quattro fondatori del movimento nel 1994 per diventare, nel 2018, il protagonista indiscusso delle trattative sul ritiro con gli americani. Ma Baradar può anche contare sull'appoggio di potenze come la Cina o di plutocrazie islamiste come quel Qatar che non ha esitato ad allestirgli un aereo militare farlo arrivare da Doha a Kandahar all'indomani della caduta di Kabul. Ma proprio questo punto rischia di far saltare il banco talebano. Senza un governo inclusivo, come ribadiscono sia la Commissaria dell'Unione Europea Ursula von der Leyen, sia il Segretario di Stato americano Antony Blinken, sia il premier inglese Boris Johnson l'Emirato non otterrà alcun riconoscimento. «Nessun riconoscimento dei talebani, chi nega i diritti non avrà un euro», ha detto ieri la presidente dell'europarlamento. Senza quel riconoscimento, oltre a venir cancellati i 450 milioni di dollari di aiuti del Fondo Monetario Internazionale erogabili dal 23 agosto, verrà bloccato anche l'accesso ai 9 miliardi di dollari di riserve valutarie depositate presso la Federal Reserve di New York. Ma i 36 milioni di afghani rimasti nel paese non vivono, più come nel 1996, con meno di un dollaro al giorno. E gli stessi talebani hanno abbandonato l'austerità delle origini per convertirsi alla rete e ai telefonini. Dunque mandar avanti il paese potrebbe non essere facile. Anche perché gli attuali 8 miliardi annui d'importazioni , i talebani contrappongono, secondo le stime Onu, un fatturato, basato su traffici di oppio, estorsioni, rapimenti e attività criminali che va dai 300 milioni al miliardo e 600 milioni di dollari annui. Un po' poco per sfamare il paese. Anche con l'aiuto di Allah, dei petroldollari del Qatar e la svendita a Pechino di tutte le risorse minerarie.

Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria passando per le guerre della Ex Jugoslavia, del Sud Est asiatico, dell’Africa edell’America centrale. Oltre agli articoli per “Il Giornale” – per cui lavoro dal 1988 – ho scritto per le più importanti testate nazionali ed internazionali (Panorama, Corriere della Sera,Liberation, Der Spiegel, El Mundo, L’Express, Far Eastern Economic Review). Sono anche documentarista ed autore televisivo. I miei reportage e documentari sono stati trasmessi dai più importanti network nazionali ed internazionali (Cbs, Nbc, Channel 4, France 2, Tf1, Ndr, Tsi, Canale 5, Rai 1, Rai2, Mtv). Ho diretto i video giornalisti di “SeiMilano” la tv che ha lanciato il videogiornalismo in Italia. Ho lavorato come autore e regista alle prime puntate de “La Macchina del Tempo” di Mediaset. Ho lavorato come autore di “Pianeta7”, un programma di reportage esteri de “La 7”. Nel 2011 ho vinto il “Premio Ilaria Alpi” per il miglior documentario con un film prodotto da Mtv sulla rivolta dei giovani di Bengasi in Libia. Nel 2012 ho vinto il premio giornalistico Enzo Baldoni della Provincia di Milano.

Luigi Guelpa per “il Giornale” il 20 agosto 2021. Zabihullah Mujahid è tutt' altro che uno sprovveduto. Alto un metro e ottanta, 34enne, barba d'ordinanza e sguardo che buca lo schermo, non ha molta dimestichezza con il kalashnikov, ma è il perfetto esempio del «talebano 2.0». La tecnologia, così come la propaganda media e social, sono diventate il nuovo strumento di guerra dei fondamentalisti afghani. Mujahid non è il classico self made man, si occupa di comunicazione almeno dal 2007, ed è stato in Siria, dove ha prima appreso nozioni di giornalismo, arrivando poi a collaborare con la rivista Dabiq, dal 2014 al 2016 organo ufficiale del Califfato Islamico. Di sicuro ha contribuito alla stesura dell'ottavo numero dal titolo «Consolidamento ed Espansione», così come la sua firma appare nel 15esimo, quando farnetica sull'importanza di «rompere la Croce per assicurarsi che il Vaticano diventi musulmano». Dal punto di vista mediatico l'Isis è stato precursore del progetto che i talebani, un po' a sorpresa, stanno portando avanti dalla presa di Kabul. Gli uomini di Al Baghdadi arrivarono persino a confezionare pellicole sulle esecuzioni che non avevano nulla da invidiare, per girato, grafica, effetti scenici e sonori, ai più famosi giochi della Playstation. Mujahid ha imparato, studiato, appreso e messo a disposizione le conoscenze acquisite ai due suoi principali collaboratori: Shail Shaheen e Muhammad Naeem. Sono nomi difficili da memorizzare, ma impareremo presto a farlo, essendo tutti e tre compulsivamente presenti su twitter, instagram e in tv. In passato i talebani inviavano alle redazioni delle più importanti emittenti del mondo video di propaganda o di esecuzioni di ostaggi in formato vhs. Erano contenuti artigianali, spesso non pubblicati per l'estrema violenza. Il filtro occidentale si è interrotto grazie all'utilizzo delle nuove tecnologie che ad esempio hanno consentito a Shaheen nei giorni scorsi di contattare in diretta la Bbc presentandosi come portavoce ufficiale, incaricato dei rapporti coi media internazionali. Shaheen ha garantito che «la presa di Kabul non è avvenuta nel sangue. Le vite e le proprietà dei cittadini sono al sicuro. Siamo i servitori del popolo e dell'Afghanistan». Affermazioni condite da un video in cui si vedono le ragazzine di Herat che tornano a scuola indossando hijab bianchi e tuniche nere, non come negli anni Novanta, quando venne imposta una versione integralista della sharia, che negava per gran parte l'istruzione e il lavoro alle donne. A loro favore gioca la diffusione di internet in Afghanistan, che è in forte crescita. Nel 2018 la rete era a disposizione dell'11,5% della popolazione, oggi sfiora il 15%. La piattaforma preferita rimane Twitter, dove Mujahid appare come Official Twitter Account of the Spokesman of Islamic Emirate of Afghanistan e racconta con dovizia di particolari le avanzate dei talebani postando video e comunicati. Nelle immagini si vedono aree distrutte o villaggi in fiamme, ma non cadaveri di persone. Se Mujahid «cinguetta» in arabo, Shaheen lo fa in inglese. Il suo compito principale è quello di fare terra bruciata attorno alle divulgazioni anti-talebane. A ferragosto twittava che «è falso e infondato che stiamo uccidendo, facendo prigionieri, forzando le persone a darci in sposa le proprie figlie». Affermazioni che però fanno a pugni con quelle delle principali associazioni umanitarie che proverebbero l'esatto opposto. Il lavoro di Muhammad Naeem, il vero esperto d'informatica della triade, è molto più sottile e subdolo. Da un lato scova e oscura i profili delle donne afghane istruite, quelle che da anni, proprio attraverso i social, avevano smascherato gli atteggiamenti violenti dei jihadisti. Dall'altro gestisce e pilota account di cittadini comuni trasformandoli in megafono della propaganda.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 19 agosto 2021. I giovani combattenti talebani in Afghanistan hanno abbandonato l'aspetto austero dei loro predecessori in favore di abiti più trendy completi di occhiali da sole, scarpe da ginnastica eleganti e berretti da baseball marchiati con la bandiera dei talebani. Durante il primo periodo al potere dei talebani - dal 1996 al 2001 - i loro combattenti erano noti per il loro aspetto irsuto e severo, con l'abito tradizionale indossato con la barba folta. Ma i combattenti di oggi - che sono stati ironicamente soprannominati "talebani 2.0" per il loro fascino mediatico e le vane pretese di avere una visione più progressista delle donne - hanno adottato un modo di vestire molto più moderno e occidentalizzato, anche se reprimono l'influenza occidentale nel paese. Le fotografie scattate a Kabul nei giorni scorsi mostrano combattenti talebani che indossano occhiali da sole da aviatore, cappellini da baseball e merchandising adornato con la bandiera dei talebani. Alcuni sono persino ben rasati, e hanno abbandonato la barba richiesta dalla rigida legge islamica. Posano sfacciatamente ai posti di blocco, agli angoli delle strade e fanno predoni in mezzo alla strada in gruppi intimidatori mentre continuano a cementare il loro potere nella capitale Kabul. Gli utenti dei social media si sono così ritrovati a deridere i combattenti come fashion victims "avant-garde" che lavorano con "designer" per creare i loro look. Un utente ha commentato: «Sembra che i talebani abbiano anche assunto uno stilista per vestirli. Mostrano tutti i segni di supercriminali. Poiché tutti hanno fallito, è rimasto solo un uomo per fare il lavoro @AustinPowers». Un altro ha aggiunto: «Si tratta di un taleb o di qualcuno che è scappato da una passerella dell'avanguardia parigina?» Un terzo ha aggiunto: «Adoro davvero le ultime tendenze della moda talebana».

 Jacopo Storni per corriere.it il 19 agosto 2021. Quando abbiamo visto i talebani dalla finestra, siamo scappati di corsa. Stavano controllando tutti gli appartamenti della nostra zona e sicuramente sarebbero arrivati anche a noi, se ci avessero scoperto probabilmente ci avrebbero ucciso. Quando sono andati via, ci siamo nascosti nella casa dei nostri parenti. Abbiamo recuperato i nostri computer, i nostri tablet, le nostre foto, poi abbiamo bruciato tutto». Nesrine (nome di fantasia) parla dall’appartamento di sua cognata dove è nascosta insieme al marito. Lei lavora per un’associazione locale per i diritti umani e per l’emancipazione femminile, lui è un giornalista. In queste ore, come molti altri afghani, stanno distruggendo la loro identità: documenti, profili sui social network, contratti di lavoro, articoli di giornale. Tutto al macero pur di non rivelare al nuovo regime l’attività che stanno svolgendo e che potrebbe compromettere la loro vita. La linea telefonica viene e va perché il suo cellulare ha la batteria continuamente scarica: «In casa non abbiamo elettricità e di conseguenza non abbiamo neppure l’acqua». A volte anche comprare da mangiare può costituire un problema, soprattutto perché molte persone hanno paura di uscire. «Io e mio marito siamo prigionieri in casa - racconta Nesrine -. Abbiamo paura ad uscire perché potrebbero scoprire il nostro attivismo in difesa della libertà e della democrazia». Una libertà conquistata con fatica negli ultimi anni: «Avevo 8 anni quando i talebani sono stati cacciati dall’Afghanistan, da allora lotto con tutta me stessa per offrire al mio Paese un presente e un futuro di pace e stabilità, ho fatto tanti sacrifici, ma adesso tutti questi sacrifici sono stati cancellati dalla mattina alla sera. Il governo afghano che ha preceduto l’arrivo dei talebani ci ha traditi, non si è impegnato e così ha sacrificato la vita di molte persone che avevano realmente creduto nel cambiamento. Siamo improvvisamente tornati indietro di vent’anni». Nesrine non crede alle paventate aperture dei talebani: «Quando vedo i loro volti per strada scorgo nei loro occhi un atteggiamento aggressivo, se per caso incroci i loro sguardi sembra che tu sia il loro più grande nemico, in questi giorni le strade sono silenziose e la gente ha paura». Adesso Nesrine insieme al marito sta provando a contattare le ambasciate internazionali in America e in Europa per chiedere un visto e lasciare l’Afghanistan. «È la nostra unica possibilità di salvezza, però al momento nessuno ci ha risposto».

Da corriere.it il 20 agosto 2021. Sui social è stato diffuso il video scioccante che mostra la figura inginocchiata, ammanettata e bendata di Haji Mullah Achakzai, capo della polizia della provincia di Badghis, vicino a Herat. L’uomo è stato poi ucciso da una raffica di proiettili. Il comandante sarebbe stato arrestato dai talebani dopo aver conquistato l’area vicino al confine con il Turkmenistan, durante la loro avanzata la scorsa settimana. L’autenticità del video sarebbe stata confermata da ufficiali di polizia e del governo, secondo quanto ha affermato un consigliere di sicurezza afgano, Nasser Waziri. Achakzai, circa 60 anni, era un nemico dichiarato dei talebani ed era conosciuto come un combattente esperto nel lungo conflitto tra il gruppo e le forze del governo civile afghano. Intanto, diversi funzionari del governo afgano precedentemente in carica sono stati arrestati dai talebani dopo che i ribelli islamisti hanno preso domenica scorsa la capitale Kabul, e si trovano tuttora in stato di detenzione. Lo denunciano i familiari delle persone arrestate, secondo quanto riferisce l’emittente afghana «Tolo News». L’ex governatore di Laghman, Abdul Wali Wahidzai, e Lotfullah Kamran, capo della polizia della stessa provincia, si sono arresi ai talebani cinque giorni fa ma sono ancora detenuti dai talebani, hanno detto i parenti. «I talebani hanno rilasciato tutti i funzionari governativi, ma Kamran no», ha detto un parente, Abdul Ghani. Manca all’appello anche l’ex capo della polizia di Ghazni, Mohammad Hashem Ghalji, secondo quanto ha denunciato il figlio.

Le violenze in Afghanistan. “Poliziotta uccisa dai talebani, era incinta”, l’esecuzione di Banu Negar davanti ai parenti. Vito Califano su Il Riformista il 5 Settembre 2021. I talebani avrebbero ucciso una poliziotta a Firozkoh, capoluogo della provincia di Ghor, nelle zone montuose nel centro dell’Afghanistan. Si chiamava Banu Negar, un’agente che lavorava nella prigione locale. La notizia è stata ripresa dalla Bbc e confermata a quanto risulta da molteplici testimonianze. Una violenza che sta facendo il giro del mondo. La donna era incinta di otto mesi. A quanto ricostruito finora l’agente sarebbe stata uccisa da una squadra di sicari mandata direttamente a casa sua. Una sorta di esecuzione, che si è consumata di fronte ai parenti della donna. Un delitto che smentisce la promessa secondo la quale gli estremisti tornati al potere dopo vent’anni dalla caduta dell’Emirato Islamico non avrebbero perseguitato le forze dell’ordine del vecchio regime di Ashraf Ghani. Circolano sui social locali, ripresi dalla Bbc, le immagini del muro della casa della vittima macchiato di sangue e del viso della donna sfigurato dai proiettili. A far sapere che la donna era incinta la stessa famiglia. A quanto emerge Negat era “doppiamente colpevole” di essere donna e poliziotta, “collaborazionista”, del governo legato agli invasori statunitensi. È un altro episodio che sottolinea il clima sempre più incandescente dalle parti di Kabul. I talebani hanno fatto slittare la formazione del governo ma hanno comunque chiarito che non ci saranno ministre donne. Sabato scorso, decine di donne a Kabul, ma anche in altre città, sono scese in strada a manifestare. La marcia a viso scoperto verso il palazzo presidenziale nella capitale. La risposta dai talebani non ha lasciato spazio ad ambiguità: lacrimogeni e bastonate. Le manifestazioni delle donne sono state così disperse. L’ultima roccaforte a resistere ai talebani è il Panjshir, nel nord del Paese. I ribelli sarebbero circondati ma hanno smentito di essere stati sconfitti. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha fatto sapere oggi che l’ambasciata italiana in Afghanistan sarà spostata a Doha, in Qatar, dove a inizio 2020 gli Stati Uniti di Donald Trump avevano firmato l’intesa del ritiro con i talebani.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 24 agosto 2021. A fine luglio i talebani hanno rapito e ucciso Nazar Mohammed, meglio conosciuto come Khasha Zwan, comico afghano. In questi giorni è diventato virale il video girato poche ore prima l’esecuzione del comico, in cui si vede l’uomo continuare a deridere i talebani nonostante lo stiano trascinando via da casa per fucilarlo. Nel filmato si vede Zwan seduto nel retro di un’auto, accanto a lui un talebano che brandisce un kalashnikov. Secondo Human Rights Watch, Zwan è stato ucciso dai talebani alla fine di luglio a Kandahar dopo che quella città era caduta in mano ai jihadisti. Era noto per le scenette in cui prendeva in giro i talebani attraverso canti e balli, tra cui alcuni che caricava sul suo account TikTok. Nel video dei suoi ultimi momenti, Mohammad continua a fare battute sul gruppo dopo la sua cattura, tanto che il combattente talebano alla sua destra inizia a schiaffeggiarlo in faccia. L'uomo alla sua sinistra invece ride per tutto il tempo prima di cambiare minacciosamente la sua pistola con un'arma da fuoco ancora più grande. Nazar è stato poi ucciso dopo essere stato colpito più volte. Secondo i rapporti, le foto lo mostravano appoggiato contro un albero e poi sdraiato a terra con la gola tagliata. I talebani inizialmente hanno negato il coinvolgimento nella morte della star prima di ammettere la responsabilità - e hanno confermato che i due uomini nell'auto erano talebani. Il gruppo ha detto che i sospetti sono stati arrestati e saranno processati in un tribunale talebano.  Il gruppo ha affermato che Nazar, della provincia di Kandahar, era coinvolto nella tortura e nell'uccisione dei talebani, aggiungendo che avrebbe dovuto affrontare un tribunale talebano invece di essere immediatamente messo a morte. Nazar ha lavorato in precedenza per la polizia nazionale afgana, il che lo ha reso un bersaglio degli omicidi per vendetta, ed era noto per le sue battute crude e le canzoni divertenti. La sua brutale uccisione alla fine di luglio ha suscitato timori di omicidi per vendetta.  Zwan ha lasciato moglie e figlie. Dopo la sua morte, Ziauddin Yousafzai, la cui figlia Malala Yousafzai è sopravvissuta a un colpo alla testa da parte di militanti talebani in Pakistan nel 2012 - è stato tra coloro che hanno reso omaggio sui social media. Tra gli altri che hanno denunciato la morte c'era Sarwar Danesh, il vicepresidente afghano prima che i talebani prendessero il controllo di Kabul questo mese. Ha detto che schiaffeggiare Zwan era lo stesso che schiaffeggiare tutto il popolo afghano e ha detto che la sua uccisione era contro la cultura afghana. È stata anche una delle prime grandi ammaccature nel tentativo del gruppo di insorti di definirsi talebano 2.0.

Storia di un comico morto sorridendo in faccia ai suoi aguzzini talebani. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 10 settembre 2021. Questa settimana non una foto: troppo doloroso – anche fuori fuoco – sarebbe stato vedere in carne e ossa il volto sorridente di un uomo ucciso a sangue freddo, proprio a causa della sua ironia. Un uomo che si sarebbe macchiato di un’unica “colpa”: aver deriso i talebani. Tutte le altre che gli vengono attribuite sono solo fango. In questo ritratto di Farand Arts, ecco Khasha Zwan, nome d’arte di Nazar Mohammad Khasha, cittadino di Kandahar, comico. Ucciso lo scorso luglio, è ormai noto come il comico che è morto ridendo in faccia ai talebani, come mostra un video di questi giorni. Tutto è accaduto lo scorso luglio, ma qui ce ne siamo accorti solo con i talebani nel pieno controllo di Kabul. A luglio e a Kandahar, dove erano già entrati. Qualche giorno fa è stato diffuso sul web un video che riprendeva un uomo sulla sessantina, Nazar Mohammad Khasha, conosciuto come Khasha Zwan, noto a Kandahar come comico. Il video è straziante: mostra Khasha Zwan con le mani legate dietro la schiena, è ammanettato, viene caricato in auto tra due talebani che lui inizia a prendere in giro. Il miliziano alla sua sinistra ride fino a quando, invece, quello alla sua destra (armato di kalashnikov e smartphone), stizzito, inizia a schiaffeggiarlo, costringendolo al silenzio. Il corpo di Zwan viene trovato senza vita, torturato; i talebani, in un primo momento, negano ogni responsabilità. Poi però, dopo la diffusione del video in cui Zwan irride i suoi aguzzini, rivendicano l’uccisione di un uomo “colpevole” di aver deriso il sacro potere taliban. Questa è l’unica “colpa” di cui Khasha Zwan si sarebbe “macchiato”: aver deriso i talebani. Tutte le altre, che gli vengono attribuite post mortem, sono solo fango gettato su un corpo mortificato. Questa settimana non una foto, dunque: troppo doloroso – anche fuori fuoco – sarebbe stato vedere in carne e ossa il volto sorridente di un uomo ucciso a sangue freddo, proprio a causa della sua ironia. Poi accade che, quando il video dell’arresto di Khasha Zwan diventa virale, bisogna diffondere una verità alternativa. E così, tra i soliti spazi dell’estremismo rossobruno, rimbalza la bufala, condivisa da ignare persone e da colpevoli mistificatori, secondo cui Khasha Zwan sarebbe stato un torturatore.

COME PUÒ ACCADERE CHE UN UOMO UCCISO A SANGUE FREDDO SIA ACCUSATO DI ESSERE «PEDERASTA E TORTURATORE»?

E chi lo dice? Gli stessi che l’hanno schiaffeggiato e sgozzato: i talebani. E quindi accade che le persone si trovano a credere a coloro che hanno pestato, sgozzato, insabbiato e poi rivendicato l’omicidio di una persona che ora cercano di infangare. Ma come può accadere che un uomo arrestato e ucciso a sangue freddo sia accusato di essere «un pederasta e un torturatore»? La bufala, diffusa da fonti talebane, nasce da una notizia: Khasha Zwan era diventato un agente della polizia locale di Kandahar, scelta che per sopravvivere hanno fatto in molti negli anni di guerra. Ora, siccome la polizia di Kandahar è stata accusata di violenze e abusi nei confronti della popolazione civile, la propaganda taliban ha traslato questa accusa su Khasha.

Meccanismo semplice e tipico: dare la colpa al singolo per vicende che riguardano una categoria. Siti complottisti hanno sostenuto questa tesi riportando come fonte il Washington Post, che non parla di Khasha come un criminale, ma dice testualmente: «Non è chiaro il suo rapporto di poliziotto con la comunità ». Quindi il Washington Post riporta le affermazioni di un ex soldato dell’esercito afghano, secondo il quale Khasha era al comando di una unità locale della polizia di Kandahar. Di contro, il Washington Post cita anche le parole di artisti che hanno condannato l’uccisione di Khasha come un deliberato attacco alla libertà di espressione. Sondare tutte le prospettive, riportare tutte le ipotesi, anche quelle prive di fondamento, è una pratica che talvolta – come qui – produce disinformazione. Non tutto ciò che accade può avere somma zero. Non tutte le testimonianze hanno lo stesso grado di attendibilità. Perché credere ai talebani? Perché qualsiasi cosa provenga da chi si dice antiamericano – siano pure i talebani – è vista con favore.

PERCHÉ CREDERE AI TALEBANI? PERCHÉ QUALSIASI COSA PROVENGA DA CHI SI DICE ANTI AMERICANO È VISTA CON FAVORE

Detesto la politica militare estera Usa, ma non mi sognerei mai di considerare i talebani una alternativa. Combatto da sempre la logica furba delle false scelte, che obbliga a prendere posizione tra Assad e Isis, tra Saddam e i marines. In queste ore non si deve scegliere con chi stare, ma sforzarsi di comprendere. Per prima cosa, che non si giustificano le esecuzioni sommarie. Che bisogna provare la colpevolezza, non l’innocenza. E che questa è l’esecuzione di una condanna a morte senza processo. Nel video del suo arresto, Khasha Zwan diceva ai due miliziani «avete i baffi sul culo», ridicolizzando il sommo simbolo di virilità… è morto perché le sue battute, passando di bocca in bocca, scacciavano la paura dai volti degli afghani sciogliendoli in sorrisi. Khasha Zwan è morto facendo battute, sorridendo in faccia ai suoi aguzzini, con la potenza anarchica dell’ironia spesa sino alla fine.

Le immagini che volevano umiliarlo gli hanno invece riservato un posto nella Storia. Gli ultimi istanti di vita del comico afgano: battute e sorrisi prima di essere sgozzato dai talebani. Riccardo Annibali su Il Riformista il 26 Agosto 2021. Ecco come muore un comico, le ultime immagini di Khasha Zwan che col potere della satira ha ferito profondamente il fondamentalismo talebano. Il video ripreso dalla fotocamera di un cellulare, lo vede consegnato ai miliziani che dopo pochi secondi lo schiaffeggeranno e sgozzeranno. Sorride come ha sempre fatto in questi ultimi frame che lo ritraggono ancora vivo. Perché è un comico e perché oltre a ridere dei suoi aguzzini ride anche della morte a cui sta andando incontro. Kasha Zwan è di nuovo protagonista in queste ore, a più di 30 giorni dalla sua morte, per il video emerso online che lo ha fatto conoscere al mondo. Cinquanta secondi che sbugiardano già “al pronti via” le parole del nuovo regime talebano il giorno dell’ingresso nella capitale Kabul. Oggi i talebani hanno interesse che i media rimangano per dare prova di una nuova cultura, ma la verità è spesso un’altra. Il percorso che porta al potere è fatto di sangue e violenza, torture e immagini raggelanti. Kasha Zwan è morto consapevole che i suoi giustizieri e torturatori erano arrabbiati, perché fino all’ultimo momento li ha presi per i fondelli. È il lavoro di un comico, scherzare sulle cose, su tutte le cose. Anche sulla morte, anche sulla sua. Perché se è vero che sarà sempre una risata a seppellire “i regimi”, il ricordo di Zwan, il comico che ha fatto ridere anche i suoi boia, probabilmente non si spegnerà mai. Quelle immagini che volevano umiliarlo invece gli hanno riservato un posto nella Storia. Perché quando nel video parla l’uomo alla sua sinistra ride, e l’altro alla sua destra armato di Kalashnikov e smartphone, stizzito, inizia a schiaffeggiarlo, costringendolo al silenzio. Una brutalità che da l’idea di quanto un uomo armato abbia sofferto le parole di un comico. Zwan è stato trovato in campagna, sgozzato e torturato. I talebani, in un primo momento, hanno negato la responsabilità della sua morte, poi, dopo la diffusione di questo video, hanno rivendicato l’uccisione di un comico colpevole di aver deriso il sacro potere taliban. Considerato da sempre un nemico da abbattere è infatti tra i primi ad essere epurato perché le sue battute passando di bocca in bocca, scacciavano la paura dagli afgani. Ecco come muore un comico, ridendo in faccia ai suoi assassini. Con la potenza anarchica dell’ironia spesa sino alla fine. Riccardo Annibali

Afghanistan: cantante folk ucciso dai talebani. Da ansa.it il 29 agosto 2021. L'ex ministro degli Interni afgano, Masoud Andarabi, ha denunciato l'uccisione da parte dei talebani del cantante folk Fawad Andarabi. Lo riporta il Guardian citando un tweet del politico. Il "brutale omicidio", ha riferito, è avvenuto è avvenuto ad Andarab, nella parte meridionale della provincia di Baghlan. Il musicista è stato prelevato da casa sua e colpito dai talebani. "Non ci piegheremo alla loro brutalità", ha scritto l'ex ministro. 

Mauro Indelicato per "ilgiornale.it" il 31 agosto 2021. Un uomo in giacca e cravatta che legge un comunicato e delle domande e, dietro di lui, due miliziani talebani armati in modo piuttosto evidente che sembrano voler “marcare” stretto il giornalista. È stata questa l'immagine da ieri diventata virale sui social arrivata da una tv in Afghanistan. A diffonderla è stato il giornalista della Bbc Kian Sharifi, il primo a parlare di “scena surreale” all'interno dell'edificio di Peace Studio, una tv con sede a Kabul dove nel pomeriggio di domenica un conduttore stava presentando Parvaz, uno dei programmi più seguiti. La prima immagine ha mostrato il giornalista con alle sue spalle due uomini con in braccia dei fucili. La foto però altro non è un che frame di un video ben più lungo in cui, allargando poi il campo visivo, si notano almeno altri otto talebani imbracciare le armi. Seduto al fianco del giornalista vi è invece un esponente del movimento integralista. È lui il “protagonista”, l'intervistato dal presentatore costretto a subire la minaccia di otto combattenti posizionati alle sue spalle. L'immagine che ne è uscita fuori ha dell'incredibile: sotto l'insegna di “Peace Studio” ci sono gli uomini armati il cui sguardo è rivolto verso il giornalista. Ancora più surreale il tono della conversazione. Nonostante la presenza dei fucili in studio, il talebano intervistato parla di “tranquillità”, di ordine ristabilito e di vittoria contro le forze occidentali. Prima ancora però i miliziani hanno fatto leggere al giornalista un comunicato in cui si è invitato il pubblico a “collaborare con l'Emirato Islamico” e a non aver paura. La scena, oltre che per la sua drammaticità, è diventata virale per quello che può testimoniare della situazione attuale della tv in Afghanistan.

Una tv destinata a cambiare. I talebani, una volta entrati a ferragosto a Kabul, hanno dichiarato di voler rispettare la libertà di stampa e che nulla sarebbe cambiato. Il giorno dopo, quando su Tolo Tv una giornalista afghana ha intervistato un membro talebano, sembrava che la situazione potesse minimamente sembrare "tranquilla". Ben presto, però, i fatti hanno smentito tutto. Lei, la protagonista di quell'intervista, oggi ha dovuto lasciare Kabul. Behesta Arghand, questo il suo nome, alla Cnn ha riferito di aver abbandonato l'Afghanistan per paura delle ritorsioni talebane. La tv afghana dalle scorse ore non può più trasmettere voci femminili. Difficilmente negli studi si vedranno da ora in poi donne presentare programmi o leggere telegiornali. La presenza di uomini armati nel programma di ieri inoltre potrebbe essere servito come monito. I talebani cioè, da padroni di Kabul, potrebbero sentirsi legittimati a controllare anche fisicamente le televisioni e i contenuti dei programmi.

Afghanistan, Beheshta Arghand, la giornalista di Tolo News lascia Kabul: "Temo i talebani". Libero Quotidiano il 30 agosto 2021. Il volto femminile di Tolo News, Beheshta Arghand, ha rinunciato a proseguire il suo lavoro di giornalista e ha deciso di lasciare Kabul, secondo quanto riporta un articolo  della Cnn. Due settimane fa la reporter aveva fatto parlare i media di tutto il mondo con la sua intervista a un alto esponente talebano e anche perché il primo notiziario del Paese aveva riportato una donna a condurre sul suo schermo. Non solo. Due giorni dopo quella intervista la Arghand aveva fatto un altro scoop, riuscendo a intervistare Malala Yousafzai, l'attivista pakistana e premio Nobel sopravvissuta nel 2012 a un tentato omicidio da parte dei talebani pakistani. La Arghand stava cercando di continuare a svolgere la sua professione ma il suo lavoro è stato sospeso: ha deciso di lasciare l'Afghanistan facendo riferimento ai pericoli che stanno affrontando i giornalisti e l'intera popolazione. In un messaggio inviato alla Cnn via WhatsApp, infatti, Arghand ha ammesso: "Ho lasciato il Paese perché, come milioni di persone, temo i talebani". Da parte sua, il proprietario di ToloNews, Saad Mohseni, ha commentato che il caso di Arghand è emblematico della situazione in Afghanistan: "Quasi tutti i nostri noti reporter e giornalisti se ne sono andati", ha detto Mohseni all'emittente Usa. "Stiamo lavorando come matti per sostituirli con nuove persone". Fare il giornalista è diventato un mestiere troppo pericoloso a Kabul. Soprattutto per le donne.  

Afghanistan, il kamikaze pentito scappato in Italia: "Chi sono veramente i talebani". Libero Quotidiano il 26 agosto 2021. "Gli unici giocattoli che avevamo erano armi vere. La violenza permeava le nostre vite. Tutti i giorni vedevo persone frustate, picchiate a morte, impiccate". Lo racconta Walimohammad Atai, classe 1996, oggi educatore pedagogico in una comunità per minori in Italia, traduttore e interprete giurato per i nostri tribunali, che ha raccontato la sua storia nel libro Il martire mancato e ne parla in una intervista al Giornale. "Mio padre era un medico che i talebani li ha contrastati politicamente e per questo è finito impiccato, il corpo fatto a pezzi e chiuso in un sacco. Mio zio materno era invece un comandante talebano. Frequentai così due scuole coraniche. Poi venni reclutato da un centro di addestramento per kamikaze, in Afghanistan e poi in Pakistan. Ero stato scelto, insieme a quattro ragazzi più svegli e attivi, da un gruppo di arabi arrivati apposta. Ero incaricato di costruire bombe. Ma tutto cambiò quando scoprii da mia nonna paterna che mio padre era stato ucciso dalle persone che erano con me in madrasa", racconta. "Con l'aiuto della famiglia paterna, istruita e illuminata, imparai inglese e informatica e cominciai a insegnarli ai coetanei. I soldati americani ci aiutarono, procurando penne e sedie. Ci fu subito un attentato, con una bomba in cui due miei studenti furono uccisi. Nulla è cambiato. Sono peggio del '96, i talebani hanno solo imparato a parlare ai media. Le donne per loro non sono esseri umani, sono spazzatura, bestie riproduttive", ricorda angosciato. Che reazione le fa il ritorno degli integralisti e il ritiro americano? "Sono andati distrutti vent' anni di lavoro. Tutto è stato trasformato in macerie in cinque giorni. Come fosse stato un gioco. L'Occidente ci ha tradito. A questo punto poteva fare anche prima l'accordo con i talebani. Hanno perso miliardi di dollari, le vite dei loro soldati e quelle degli afghani. Per rimetterci nelle mani dei terroristi. Se americani e alleati vogliono salvarci, mettano in sicurezza il nostro Paese. Altrimenti anche quei bambini sono solo armi di propaganda. Anche perché l'istruzione è diventata una questione di vita o di morte per il mio popolo".

"Io, kamikaze mancato vi racconto l'orrore della vita sotto il regime". Gaia Cesare il 26 Agosto 2021 su Il Giornale. L'interprete da tempo rifugiato in Italia: "Ogni giorno assistevo a frustate e lapidazioni". Ricorda ancora di quando, da bambino, la sua gioia più grande, come quella dei coetanei, era usare le pietre che aveva raccolto con cura, scelte una per una, per partecipare alle lapidazioni in strada, in un villaggio del distretto di Goshta, est di Kabul, Afghanistan. «Gli unici giocattoli che avevamo erano armi vere. La violenza permeava le nostre vite. Tutti i giorni vedevo persone frustate, picchiate a morte, impiccate». Non gli veniva nemmeno consentito di giocare con la sorella, «perché relazionarsi con persone del sesso opposto era peccato». Eppure Walimohammad Atai, classe 1996, oggi è un educatore pedagogico in una comunità per minori nel nostro Paese, traduttore e interprete giurato per i nostri tribunali, che ha raccontato la sua storia nel libro «Il martire mancato» (edito da Multimage), un racconto puntiglioso e agghiacciante della vita sotto i talebani, anche dopo l'arrivo delle forze occidentali. Una storia a lieto fine, la sua, dopo la fuga a 15 anni via Iran e Turchia, e l'arrivo a 17 in Italia, dove ottiene lo status di rifugiato politico.

Quando decise di ribellarsi ai talebani?

«Quando scoprii la storia di mio padre, un medico che i talebani li ha contrastati politicamente e per questo è finito impiccato, il corpo fatto a pezzi e chiuso in un sacco».

La storia di suo padre le era stata tenuta nascosta?

«Sì, da mia madre e mio zio materno, che era invece un comandante talebano. Furono loro a farmi frequentare due scuole coraniche. Poi venni reclutato da un centro di addestramento per kamikaze, in Afghanistan e poi in Pakistan».

Volevano che dedicasse la sua vita alla guerra santa e diventasse un martire?

«Sì, ce n'era uno in ogni famiglia del mio villaggio. Io ero stato scelto, insieme a quattro ragazzi più svegli e attivi, da un gruppo di arabi arrivati apposta. Ero incaricato di costruire bombe. Ma tutto cambiò quando scoprii da mia nonna paterna che mio padre era stato ucciso dalle persone che erano con me in madrasa».

Che fece allora?

«Con l'aiuto della famiglia paterna, istruita e illuminata, imparai inglese e informatica e cominciai a insegnarli ai coetanei. I soldati americani ci aiutarono, procurando penne e sedie».

Gli integralisti la presero subito di mira?

«Ci fu subito un attentato, con una bomba in cui due miei studenti furono uccisi».

Lei come si salvò?

«Ero in bici a comprare del latte. Sentii il boato».

Cosa le insegnavano in madrasa?

«Che siamo ospiti in questo mondo e dobbiamo fare quello che vuole Allah, uccidere gli infedeli e fare la jihad per andare in paradiso».

È vero che dicevano: «Le donne devono stare solo in casa o nella tomba»?

«Certo. E nulla è cambiato. Sono peggio del '96, hanno solo imparato a parlare ai media. Le donne per loro non sono esseri umani, sono spazzatura, bestie riproduttive».

Che reazione le fa il ritorno degli integralisti e il ritiro americano?

«Sono andati distrutti vent'anni di lavoro. Tutto è stato trasformato in macerie in cinque giorni. Come fosse stato un gioco. L'Occidente ci ha tradito. A questo punto poteva fare anche prima l'accordo con i talebani. Hanno perso miliardi di dollari, le vite dei loro soldati e quelle degli afghani. Per rimetterci nelle mani dei terroristi».

Le cose erano cambiate in questi anni? Un'illusione?

«Qualcosa era cambiato. È nato un nazionalismo, gli afghani vivevano sotto una bandiera, molte donne nelle città studiavano e lavoravano, c'era di nuovo una rete commerciale, stavamo diventando a fatica un Paese riconosciuto».

Tutto è perduto? O vede speranza in quei bimbi salvati all'aeroporto?

«Se americani e alleati vogliono salvarci, mettano in sicurezza il nostro Paese. Altrimenti anche quei bambini sono solo armi di propaganda».

Da dove può ripartire l'Afghanistan martoriato?

«L'istruzione è diventata una questione di vita o di morte per il mio popolo». Gaia Cesare

Paolo Mastrolilli per “La Stampa” il 24 agosto 2021. Il capo taleban, diciamo un sergente, si rivolge al sottoposto: «Vai a mettere la bomba là sotto, dietro la curva. Non la vedranno». Il soldatino obietta: «Può aspettare fino a domattina». Il capo insiste: «No, non può. Gli americani potrebbero arrivare prima, e noi abbiamo bisogno che l'esplosivo sia giù per ammazzarne il massimo possibile». Il sottoposto punta ancora i piedi: «Credo che aspetterò». Il superiore si irrita: «No, non aspetterai! Vai giù e piazza la bomba». Il soldatino, che nella mente di un lettore italiano avrà assunto la fisionomia di Alberto Sordi nella "Grande Guerra", capisce che si mette male: «Devo proprio andare?». Il sergente perde la pazienza: «Sì! Vai e fallo!». Il sottoposto tenta un'ultima insubordinazione: «Non voglio». Il superiore allora fa il comprensivo: «Fratello, perché no? Noi dobbiamo combattere la jihad!». Il soldatino allarga le braccia: «Fratello... è troppo freddo per fare la jihad». Non è il canovaccio di una commedia di serie B sulla guerra in Afghanistan, ma una vera conversazione avvenuta fra due taleban sulle montagne gelate del loro paese, ascoltata e registrata da Ian Fritz. Ian ha servito dal 2008 al 2013 nell'Air Force, per fornire alle truppe americane i "threat warning". Sorvolava i teatri di guerra su aerei speciali, attrezzati per intercettare le comunicazioni radio dei taleban. Era uno di circa venti soldati addestrati a comprendere il Dari e il Pashto, principali lingue locali, e perciò era stato assegnato all'Air Force Special Operations Command. Ascoltava il nemico, sentiva cosa preparava, e poi informava i superiori sul suo stesso aereo, attrezzato per bombardare subito chi poneva pericoli. «Ho volato su 99 missioni di combattimento - ha scritto Fritz sulla rivista Atlantic - per un totale di 600 ore. Forse 20 di queste missioni e 50 di queste ore hanno riguardato vere battaglie. Altre 100 ore hanno prodotto informazioni di intelligence utilizzabili a fini pratici. Il resto erano chiacchiere. Ma queste cose fluivano naturalmente dal grande talento verbale dei taleban, il discorso motivante. Nessun incontro fra commessi viaggiatori, set cinematografico o spogliatoio sportivo ha mai visto il livello di preparazione iper entusiastica che i taleban dimostravano prima, durante e dopo ogni battaglia. Forse dipendeva dal fatto che erano ben addestrati, e avevano fatto la guerra tutta la vita. Forse credevano genuinamente alla santità della loro missione. Ma più li ascoltavo, e più capivo che questa perpetua sbruffonaggine era qualcosa che dovevano fare per continuare a combattere. Altrimenti come avrebbero potuto lottare con un nemico che non esitava ad usare bombe disegnate per distruggere un edificio allo scopo di uccidere anche un solo uomo?». Per spiegarsi, Fritz racconta un episodio avvenuto il giorno prima del suo ventiduesimo compleanno. I bombardieri americani avevano appena scaricato un ordigno da oltre 220 chili di esplosivo su un campo di battaglia, «polverizzando 20 uomini. Io - ha ricordato su Atlantic - pensai che ne avessimo ammazzati abbastanza. Ma non era così. Quando altri due elicotteri d'attacco erano arrivati, li avevo sentiti urlare: "Continua a sparare. Si ritireranno!". Mentre noi attaccavamo, loro ripetevano: "Fratelli, stiamo vincendo. Questo è un giorno glorioso". Non importava che stessero combattendo con fucili vecchi di trent'anni contro elicotteri e caccia. Non contava che cento di loro fossero morti. I taleban conservavano i loro spiriti alti, si incoraggiavano, insistevano che stavano vincendo». Nella primavera del 2011, Fritz aveva accompagnato le Special Forces in un villaggio dove avevano subito un agguato. Gli afghani parlavano come contadini che seminano, gli americani erano certi che nascondessero armi. L'aereo di Ian aveva sparato, un uomo aveva perso una gamba, e tutti gli altri lo avevano soccorso fino a quando era morto, invece di difendersi. «La mia sensazione era che stessimo sempre conducendo le stesse missioni, negli stessi posti, ri-liberando i villaggi già liberati tre anni prima». Una volta aveva accompagnato una squadra in un paesino a parlare con gli anziani per scavare un pozzo. Era andato tutto bene, ma al momento della partenza, i taleban avevano attaccato: «Fratello, ne hai beccato uno. Vai avanti, continua a sparare. Possiamo prenderne altri!». La conversazione si era interrotta li, perché l'aereo di Ian aveva bombardato i taleban che sentiva parlare. La storia di Fritz insegna due cose. Primo, queste missioni di intelligence ora nessuno le condurrà più, facilitando la vita ai terroristi. Secondo, il destino della guerra era segnato, anche se le missioni fossero continuate: «Quando tornavano a casa, i taleban andavano nel villaggio vicino, non come noi a 6.000 miglia di distanza. Forse erano veri contadini, forse no. In ogni caso, le nostre bombe significavano che sempre più giovani del loro paese si sarebbero uniti ai taleban. In quelle conversazioni che ascoltavo, mi dicevano una cosa che molti altri si rifiutavano di sentire: l'Afghanistan è nostro».

Afghanistan, irruzioni nelle case e omicidi: il terrore della resa dei conti. Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera il 20 agosto 2021. In Afghanistan chiunque abbia collaborato con la coalizione internazionale si sente un animale braccato. Le finestre di opportunità per partire si stanno inesorabilmente chiudendo col trascorre delle ore. Sono le cronache delle perquisizioni casa per casa, degli arresti e omicidi mirati da parte delle squadracce talebane sino al centro di Kabul ad alimentare la sindrome del fuggifuggi a tutti i costi. Un brivido di panico si è diffuso ieri mattina, quando i voli sono stati congelati per alcune ore. «I talebani agiscono di notte, ma adesso anche in pieno giorno. Sanno benissimo dove cercare, hanno i nostri nomi, i nostri indirizzi, i dettagli delle nostre famiglie. Siamo convinti che i loro servizi di intelligence siano aiutati da quelli pakistani, che negli anni hanno sempre visto chiunque lavorasse per la coalizione a guida Nato e lo stesso governo Ghani come collaborazionisti al soldo di Washington e Nuova Delhi», ci racconta per telefono Salim, un ricercatore universitario, che da tre giorni cerca di raggiungere il terminal dell’aeroporto. Sono in tanti tra la classe medio-alta della capitale ad insistere sulle liste di nomi e indirizzi di «collaborazionisti» ricercati. Sui social girano le foto di automobili sospette riprese a Kandahar con ben visibili le targhe del Pakistan. La mancanza di contanti, le banche chiuse, i salari bloccati (ieri si è fermata anche Western Union) contribuiscono alla febbre delle partenze. I portavoce della Nato segnalano che nell’ultima settimana il ponte aereo ha portato in salvo oltre 18.000 persone. Tra loro anche i circa 1.200 saliti sui voli italiani (da giugno sono in tutto 1.500). E l’attività potrebbe andare avanti ben oltre la fine di agosto. Molti mancano all’appello. Si è scoperto che anche tanti internazionali, tra loro americani, canadesi, tedeschi, si trovavano nelle province al momento della travolgente avanzata talebana meno di due settimane fa. Per loro raggiungere Kabul sta rivelandosi una sfida impossibile. Le strade del Paese sono insicure, gruppi di banditi si sovrappongono alle milizie. I comandanti talebani a parole garantiscono che si eviteranno le violenze. La realtà dal campo prova tutto l’opposto. Un rapporto di Amnesty International diffuso nelle ultime ore dettaglia l’esecuzione di 9 uomini hazara (di religione sciita detestata dai pashtun sunniti) nel villaggio di Mundarakht tra il 4 e 6 luglio. Anche l’associazione internazionale Giornalisti senza Frontiere racconta dello sterminio della famiglia di un reporter locale che la lavorava per la pubblicazione tedesca Deutsche Welle. «I talebani avevano il suo nome e sapevano dove abitava. Ma lui aveva già preso il volo da Kabul offerto dall’esercito tedesco. Lo hanno cercato, quando non lo hanno trovato si sono vendicati sui suoi parenti», specificano. Sono noti i casi di almeno altri 3 reporter locali ricercati nelle loro abitazioni. Chi cerca di scappare sa bene che al momento la strada più sicura resta quella dell’aeroporto della capitale. I talebani controllano ormai tutte le frontiere e i loro accessi attraverso le regioni rurali. Pare che circa 20.000 persone siano assiepate sui punti di passaggio verso il Pakistan. L’Iran ha chiuso i confini. A Kabul una folla di parecchie migliaia di persone (c’è chi ne segnala sino a 50.000) continua a premere per raggiungere il terminal. «Ho provato tre volte. Ma resta troppo pericoloso. Proverò semmai a prendere la via del Pakistan tra qualche mese», ci ha detto ieri Mohammadot, un autista che per due decenni ha lavorato per le organizzazioni non governative internazionali. Tanti si adattano a bivaccare in luoghi di fortuna in attesa di passare. Circa 3.000 sono assiepati nel terminal. Valige, scarpe abbandonate, un acre olezzo di escrementi ammorba l’aria. Pare che alcuni bambini piccoli si siano persi nella calca. «Tornare indietro e ritentare è un terno all’otto. Nulla garantisce che la strada sia ancora aperta domani», aggiunge Mohammadot. Nelle ultime ore i testimoni sul posto indicano che i talebani si sono dimostrati più propensi a lasciare passare coloro che sono in possesso dei permessi Usa. Ma il comportamento delle loro pattuglie appare erratico. In alcuni casi bloccano e schedano come «collaborazionisti» proprio coloro che hanno la luce verde americana. In altri li accompagnano sino alle pattuglie avanzate dei Marines.

Omicidi e vendette: in Afghanistan finisce le "tregua" talebana. Lorenzo Vita il 20 Agosto 2021 su Il Giornale. I rapporti che giungono dall'Afghanistan mostrano una realtà molto diversa da quella promessa dai talebani nel nuovo Emirato islamico. L'Afghanistan vive il quinto giorno di potere in mano ai talebani. Gli "studenti coranici" promettono calma, amnistie e di evitare qualsiasi rappresaglia. Mostrano il loro volto migliore confidando nel riconoscimento internazionale. Ma il Paese sembra essere ben diverso dall'immagine che gli insorti vogliono dare al mondo. Mentre continuano i tentativi di fuga di migliaia di civili, le proteste sono esplose, pur isolate, in diverse parti dell'Afghanistan. Ieri, in concomitanza con la festa dell'Indipendenza, si sono registrati alcuni morti e diversi feriti per le strade di Jalalabad, Asadabad e Kabul. Sventolare una bandiera che non sia quella dei talebani, oggi, è un crimine che si può pagare con la vita. In risposta a queste manifestazioni, i talebani hanno organizzato parate militari nelle città di Kandahar e Qalat. Per le strade, riporta Agenzia Nova, i miliziani hanno mostrato le armi sequestrate all'esercito afghano, facendo sfoggio dell'arsenale che è passato adesso tra le mani degli "studenti coranici".

Le rappresaglie e i primi omicidi. Il mondo continua a interrogarsi sul comportamento da tenere con la nuova dirigenza talebana. L'Europa appare tramortita da quanto accaduto a Kabul nei giorni scorsi e solo ora prova - con tentativi maldestri - di evitare di abbandonare gli afghani al loro destino. Risposta tardiva, mentre giungono le tragiche notizie di primi rastrellamenti alla ricerca di collaboratori delle forze occidentali e omicidi mirati, come quello del comandante dell'esercito Haji Mullah Achakzay e di un familiare di un giornalista della tedesca Deutsche Welle. Quello che traspare dall'Afghanistan sembra ben diverso da quanto promesso dai leader del nuovo Emirato islamico. È di oggi anche il report di Amnesty International sulle brutali uccisioni e torture avvenute a luglio nella provincia di Ghazni contro uomini di etnia hazara. Il ritorno a casa per recuperare viveri dopo essere fuggiti in montagna è costato loro la vita. A essere i primi bersagli delle rappresaglie talebane, oltre ai collaboratori delle truppe Nato, sono gli esponenti delle autorità locali, accusati di essere legati al precedente governo e agli occupanti. Secondo Tolo News, una delle principali reti del Paese, sarebbero diversi i comandanti locali della polizia o i funzionari diventati irreperibili o catturati dai talebani.

Il rischio di un esodo. Esiste quindi una realtà ben diversa da quella descritta dai talebani e dai loro sostenitori. Rispetto all'immagine di una Kabul in un caos controllato, dove regna la paura ma in cui sembra esserci un'apparente calma, il Paese subisce il suo destino. Dove i riflettori si spengono, si attiva la vendetta. Ed è anche per questo che ora la comunità internazionale si sta muovendo per salvare chi ha collaborato con le forze Nato e chi sceglie di fuggire per non vedere i propri figli condannati a un destino drammatico. La stessa volontà che ha mosso le madri che nei giorni scorsi hanno lanciato i bambini oltre il filo spinato dell'aeroporto chiedendo ai soldati britannici di imbarcarli sul primo volo verso l'Occidente. Una fase estremamente complessa per il rischio di una bomba migratoria che l'Europa teme di dover gestire da sola e su cui la diplomazia è già al lavoro. Ma le disattenzioni e l'assenza di coordinamento dimostrata durante l'avanzata talebana, quando tutto questo era quantomeno preventivabile, lasciano molti dubbi sulle possibilità che Ue e Paesi alleati trovino accordi e una strada condivisa per evitare l'esodo.

Lorenzo Vita. Classe 1991, laurea in Giurisprudenza, master in geopolitica e corsi su terrorismo e guerra ibrida. Amo la storia, il mare, sogno viaggi incredibili e ho nostalgia del grande calcio e degli stadi pieni. Una passione mi ha cambiato la vita: raccontare quello che succede nel mondo. E l'ho trasformata in lavoro. Così, nel 2017, sono entrato nella redazione de ilGiornale.it. Vivo diviso tra Roma e Milano, nell'eterna lotta tra cuore e testa. Ho scritto un libro: "L'onda turca"

La stretta integralista. Cos’è la sharia, la "legge islamica" che intrappola le donne afghane nella stretta integralista. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Agosto 2021. La bambina di sei sette anni con lunga treccia che si arrampica sul muretto agile e veloce come una leprotta e si tuffa tra le braccia di uno dei pochi soldati occidentali ancora rimasti a Kabul. E poi le donne che gettano i loro bambini piccolissimi, e soprattutto le bambine, al di là del filo spinato. Per sottrarre all’orrore di una vita futura, in regime di Talebani, le ragazzine e le donne tutte, ma anche i bambini che spesso erano diventati oggetti di trastullo sessuale per uomini, annientati nella personalità e destinati a un futuro di prostituzione maschile. Chi sta cercando di scappare dall’Afghanistan vuole sottrarsi a qualcosa che ha già vissuto e non ha dimenticato negli ultimi vent’anni di speranza. Le donne e le ragazze, prima di tutto. Ci si può fidare di chi, come il portavoce dei Talebani Zabihullah Majahid, ha esibito “garanzie” che puzzavano di imbroglio già mentre ogni parola usciva dalla sua bocca? Non ci saranno discriminazioni, ha assicurato, le donne potranno uscire di casa e anche andare al lavoro. Poi ha messo lì un “MA” grande come un grattacielo: ma nel rispetto della sharia, ha detto. Sappiamo tutti che la sharia è la legge islamica che domina qualunque altra norma, più forte delle costituzioni, e che orienta le decisioni di governi e parlamenti. È il documento fondamentale con cui, usandolo come un elastico, si danno e si tolgono i diritti. Quelli delle donne, soprattutto. C’è un punto fondamentale, che pare invincibile, quello che, considerando impuro il corpo della donna (in quanto induce l’uomo a “peccare”), lo rende prigioniero non solo del burka e del niqab, ma soprattutto degli uomini di casa. È tra quelle mura che la donna deve stare, salvo che non venga accompagnata da uno dei suoi “proprietari” e paludata dalla testa ai piedi. Di lavorare, studiare e guidare l’auto neanche parlarne, ai tempi dei Talebani. E guai a mostrare il corpo malato a un medico di sesso maschile. I più radicali erano arrivati a imporre alle “proprie” donne di famiglia di coricarsi vestite: fosse mai capitato un terremoto o un incendio e qualcuno avesse dovuto constatare la morte di un corpo femminile seminudo… I Talebani sono arrivati a Kabul con un anticipo che ha lasciato smarriti un po’ tutti. E il primo giorno abbiamo assistito sgomenti, soprattutto noi donne, a quel vero assalto che torme di afghani, tutti uomini, stavano dando agli aerei diretti al mondo occidentale. Uomini così disperati da mettere in discussione la propria vita, e infatti alcuni l’hanno persa. Ma dove erano le donne, ci siamo domandate, in quale trappola da topi erano state lasciate? E il sospetto era forte, che quelle parole morbide che in realtà non avevano rassicurato nessuno, del portavoce dei Talebani, fossero dirette solo al mondo esterno, mentre all’interno del Paese già giravano le liste con i nominativi delle donne nubili dai 12 ai 45 anni. Donne da far proprie, da possedere con i matrimoni forzati o gli stupri. In nome della sharia, magari. Intanto alcune famiglie di cittadini e cittadine afghane sbarcavano anche in Italia, le immagini diffuse da ogni rete tv. Sono collaboratori della nostra ambasciata, dei consolati e di altri uffici che si sono radicati in Afghanistan nel corso di vent’anni. C’è un particolare che colpisce: quasi nessuna delle donne è vestita come le italiane, un gruppo di ginecologhe e altre professioniste. Non è un fatto formale, tant’è che molti commentatori, ma soprattutto commentatrici, si stanno chiedendo in questi giorni se davvero questi due decenni abbiano inciso nel profondo della parte più retrograda della cultura islamica. Se lo è domandato, in modo anche autocritico, perché è vero che sappiamo ben poco di quel che è capitato alla maggior parte delle donne in tutto questo tempo, Natalia Aspesi su Repubblica: «Davvero sino a pochi giorni fa non erano velate? Davvero riempivano le università? Davvero sposavano chi volevano? Davvero erano libere?». Non sono domande da poco. Il sospetto è che siano ben poche quelle in grado di rispondere in modo affermativo ai quesiti. Le “privilegiate” della città, non quelle delle piccole comunità rurali. Per le rivoluzioni culturali forse vent’anni sono ancora pochi. Chissà se davvero si riuscirà a parlare anche di questo al G20 di santa Margherita Ligure del prossimo 26 agosto, anche se in realtà il tema è quello dell’empowerment lavorativo ed economico. Naturalmente l’urgenza oggi è prima di tutto quella di tirar fuori queste donne dalla trappola per topi in cui sono state infilate, aiutandole a partire o difendendole là dove sono. «L’Europa deve agire. L’Italia deve reagire». Come hanno scritto 78 associazioni in un documento unitario.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Nell’Inferno dei Talebani. L’Afghanistan ripiomba nel Medioevo barbaro dopo la fuoriuscita di Americani e Occidentali. Carlo Franza il 21 agosto 2021 su Il Giornale.  Bestie talebane, così le ha apostrofate il collega Nicola Porro nel suo blog “Zuppa di Porro”, il 15 agosto 2021. Pienamente d’accordo.  Questi talebani rozzi e  barbuti hanno appena conquistato Kabul la capitale e l’Afghanistan. Mi sono chiesto ed è domanda che rivolgo ai politici, agli Analisti e all’Intelligence, come sia stato possibile che un’orda di 85.000 (ripeto ottantacinquemila) talebani abbiano potuto avere la meglio su 38.000.000 di afghani?  Chi sono i talebani? I talebani (che davvero significa “seminaristi”, o comunque “studenti delle scuole della fede islamica ”, talib è il singolare, taliban il plurale) a quel tempo nel 2001  erano  -e sono ancora oggi- una banda ogni giorno più folta che si mostrava all’apparenza come una qualche armata Brancaleone d’Oriente, ma che in realtà era compatta e omogenea, tutti pashtun del Sud afghano, tutti misticamente segnati dall’appartenenza ad Allah, tutti indifferenti alla morte che li avrebbe portati nel paradiso della loro fede. Ed era questa compattezza, questa determinazione mistica, che li faceva imbattibili, capaci di sconfiggere gli scalcagnati eserciti dei “signori della guerra” locali. Alla fine, tuttavia, la loro arma vincente, quella che gli diede a poco a poco, di vallata in vallata, il controllo dell’intero Afghanistan, fu il loro principio di stabilire un rigido ordine sociale e politico là dove prima dominavano l’insicurezza, la corruzione, lo stupro, i rapimenti, gli abusi. I talebani portavano una loro pace sociale, amara certo, ch’era una pace basata sulla sharia e sul ritorno mistico al Medio Evo; e in una società arcaica e tradizionalista, questa garanzia era vincente sulla paura e sull’angoscia quotidiana. Quando i B-52 americani li sconfissero, nel novembre del 2001, i talebani si divisero in tre gruppi. Uno se ne andò alla macchia dietro Omar e il fantasma di Bin Laden, un altro (più sparuto) consegnò le armi e si fuse con il nuovo potere del pashtun Karzai, il terzo si ritirò e si mimetizzò tra la gente dei villaggi del Sud e del Sud Est, tutti pashtun tra i pashtun, protetti dal codice d’onore tribale che condanna il tradimento degli ospiti del villaggio. Il nuovo potere che s’installò a Kabul non ebbe mai la forza di allargare il proprio controllo al di là della capitale (di Karzai si è detto che è stato “il sindaco di Kabul”), per troppa corruzione e troppi pochi dollari da investire nel crearsi alleanze locali, e nel tempo l’insofferenza per la presenza oppressiva dei soldati stranieri, i kafir invasori, si è andata mescolando con l’insofferenza per i soprusi e gli abusi che i signorotti locali avevano intanto ripreso a praticare dappertutto, impuniti, impunibili, sugli stenti della vita quotidiana. Le centinaia, e poi migliaia, di morti ammazzati dai bombardamenti indiscriminati degli americani hanno riacceso il “nazionalismo” afghano – tre guerre aveva combattuto l’Impero britannico in Afghanistan, e tre volte si era dovuto ritirare sconfitto – e hanno ricostituito quel brodo di coltura nel quale progressivamente è germinata la nuova offensiva talebana, collegata e fusa con quel secondo gruppo di ribelli che si erano rifugiati sulle montagne con il mullah Omar e avevano intanto continuato la loro guerra. Nessun volto buono, nessun buonismo, il lupo cambia il pelo ma non il vizio. Hanno lo stesso volto che avevano vent’anni fa prima dell’arrivo degli americani e degli occidentali, sguardo torvo, la violenza tra le braccia, la testa imbottita di versi coranici. Gattopardi, falsi, usano eccome la “dissimulazione” (fa parte della taqiyya) ovvero che è previsto il mentire nell’islam per difendere la propria fede.  Gli americani avrebbero dovuto trarre lezione dal detto romano «Carthago delenda est», abbreviato in «Delenda Carthago» (“Cartagine deve essere distrutta”) è una famosa frase latina pronunciata da Marco Porcio Catone passato alla storia come “Catone il Censore” al termine di ogni suo discorso al   Senato romano a partire dal suo ritorno dalla missione di arbitraggio tra i Cartaginesi e Massinissa (re di Numidia) avvenuta nel 157 a. C. praticamente fino alla sua morte nel 149 a. C.  E Catone, convinto che non fosse possibile né conveniente per i Romani venire a patti con il secolare nemico, aveva fatto di questo argomento il motivo centrale di tutta la propria azione politica, tanto che ogni suo sermone, di qualsiasi argomento trattasse, finiva sempre con questa esortazione: “Ceterum censeo Carthaginem delendam esse” (“Infine credo che Cartagine debba essere distrutta”). La storia insegna, eccome. Questa frase è divenuta proverbiale e viene spesso citata per significare una profonda convinzione strategica che sta dietro e a cui sono finalizzate tutta una serie di azioni di natura tattica. Si dice che nel momento in cui Catone pronunciò questa frase per la prima volta egli tirò fuori da sotto la tunica un cesto di fichi provenienti da Cartagine, volendo così dimostrare che se il fico – frutto assai delicato – poteva resistere al viaggio da Cartagine, quest’ultima era troppo vicina a Roma e quindi andava distrutta. Ma torniamo all’attualità, alla presa dei talebani dell’Afghanistan, alla loro rozza e violenta politica medioevale. Oggi ha abbandonato il Paese anche Clarissa Ward, la corrispondente della Cnn diventata la giornalista più famosa al mondo per aver raccontato la caduta di Kabul e per la sua immagine avvolta nel velo nero impostole dalle milizie talebane. L’ultimo servizio dall’aeroporto mostrava la giornalista confrontarsi con i miliziani che le chiedevano di coprirsi il volto e spegnere la telecamera, mentre minacciavano di colpire l’operatore della sua troupe. E nel paese dei papaveri e dell’oppio che ammorba il mondo è arrivato il barbuto Mullah Abdul Ghani Baradar. È lui l’uomo che ha condotto le trattative con gli Stati Uniti fino all’accordo di Doha del 2020. Ed è lui che, secondo molti osservatori, sarà il primo leader dell’Emirato islamico; bene, questi ha dato subito il primo altolà alle frequentazioni di maschi e femmine, con il basta a classi miste all’Università di Herat. Intanto circolano già in rete le prime fustigazioni pubbliche di donne trovate a girare da sole. L’accoglienza indiscriminata dei profughi afghani in fuga dai talebani, potrebbe essere la rovina dell’Italia e dell’Europa; a sostenerlo non un “pericoloso” teorico dei porti chiusi e dello stop all’immigrazione, ma Farhad Bitani, ex capitano dell’esercito afghano e scrittore; “Basta con questo buonismo – spiega ad HuffingtonPost -. Ora tutti vogliono essere dalla parte dei buoni, aiutare l’Afghanistan accogliendo le persone, ma ci stiamo chiedendo che fine faranno questi profughi tra un anno o due? Cosa gli accadrà nel nostro Paese, se non gli garantiamo un futuro, se non pensiamo ad un progetto prima di parlare di accoglienza?”. Piccolo particolare: Bitani è arrivato in Italia come rifugiato politico e oggi vive a Torino, dove è impegnato nello sviluppo del dialogo interreligioso tramite l’Afghan Community in Italia. Secondo l’ex militare, si deve tentare il dialogo con le grandi potenze dell’area asiatica, dalla Cina all’India e al vicino Pakistan. “Soprattutto il Pakistan ha un ruolo chiave. I talebani non sono cambiati, alle loro promesse non ci ho mai creduto, neanche per un secondo. Mi hanno ricordato quelle del 1996, dopo le quali hanno ricominciato a tagliare mani e teste”. “Le donne potranno lavorare e studiare ma nel contesto della sharia», giurano i talebani. Ma che bravi questi seminaristi islamici, si sono convertiti al buonismo e sono diventati “talebuoni”, hanno commentato gli illusi. Basterebbe però informarsi su cosa sia la sharia per capire come i talebani siano dei gattopardi: fingeranno di cambiare tutto per non cambiare nulla. E allora vale la pena approfondire i precetti principali (e più inquietanti) della sharia, grazie a Souad Sbai, presidente dell’associazione Donne marocchine in Italia. Con un’avvertenza: la sharia, legge islamica basata su Corano e Sunna (raccolta di scritti e detti di Maometto), può avere un’applicazione soft, come codice di comportamento etico, in Paesi più laici quali Marocco o Tunisia; e un’applicazione hard, come complesso di norme capaci di disciplinare ogni aspetto della vita, in Stati teocratici come Iran, Pakistan e Afghanistan. In 15 punti ecco allora le ragioni per cui la sua reintroduzione a Kabul non è affatto una buona notizia. Ecco da oggi cosa devono “patire” le povere donne afghane considerate, dai talebani, diavolesse.

MATRIMONI FORZATI – In nome della sharia le donne non avranno possibilità di scegliere il marito. «Dovranno accettare l’uomo loro imposto dal tutor, cioè da padre fratello, zio o cognato», nota la Sbai. “Per via della stessa mancanza di autodeterminazione, le donne non potranno divorziare”.

POLIGAMIA – Essa sarà praticata dai talebani sulla base del Corano (4:3): «Se temete di essere ingiusti nei confronti degli orfani, sposate allora due o tre o quattro tra le donne che vi piacciono».

SPOSE BAMBINE – “L’estremizzazione della sharia, con le tradizioni tribali afghane, consentirà i matrimoni precoci, ossia il fenomeno delle bimbe spose”, avverte la Sbai. Questa prassi era in vigore prima dell’intervento americano del 2001.

DIVIETO DI GUIDARE – Alle donne sarà proibito guidare l’auto. Esse non possono essere in una posizione di guida, in quanto la loro sottomissione è prescritta nel Corano: «Gli uomini sono anteposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre» (4:34). Per la stessa ragione, la donna deve farsi accompagnare da un maschio maggiorenne quando esce di casa o viaggia. «Le donne afgane non esisteranno più come individui», rileva la Sbai. «Esse saranno private anche di carta di identità e passaporto».

LAPIDAZIONE ADULTERE – Le donne fedifraghe verranno lapidate pubblicamente dai talebani, con la benedizione della sharia. Il Corano “si limita” a prevedere la fustigazione con 100 frustate. Ma sono gli hadith, i detti di Maometto nella Sunna, a benedire la lapidazione. Questa prassi trova fondamento nell’interpretazione letterale di un versetto del Corano (4:34): «Ammonite le donne di cui temete l’insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele».

DIVIETO DI ESSERE SINGLE – I talebani stanno facendo la lista delle donne non sposate dai 12 ai 45 anni per costringerle alle nozze. «La legge islamica prevede l’obbligo di matrimonio. Le donne non maritate saranno discriminate», dice la Sbai. NO LAVORO E STUDIO «Non è vero che le donne studieranno e lavoreranno», sottolinea la Sbai, perché l’interpretazione rigorosa della sharia non lo prevede. «Questa promessa dei talebani rientra nella taqiyya, la dissimulazione, ossia la possibilità prevista nell’islam di mentire per difendere la propria fede».

NO ATTIVITÀ POLITICA – Le donne potranno fare parte del governo, dicono i talebani. Ma ciò non è previsto dalla sharia. Anche questo proclama rientra nella prassi della taqiyya.

VELO INTEGRALE – Le donne dovranno indossare l’hijab, velo che lascia scoperta la faccia, ma non il burqa, garantiscono i talebani. Ma l’applicazione radicale della sharia determinerà l’obbligo di coprire volto e occhi; quindi, di indossare il burqa.

MORTE PER OMOSESSUALI – «Gli omosessuali saranno uccisi sulla base della legge islamica», avverte la Sbai. «Né sarà possibile abbandonarsi per chiunque a baci ed effusioni in pubblico».

Ecco cosa è oggi l’Afghanistan talebano, un inferno in terra, con il benestare degli Americani che hanno operato un abbandono senza se e senza ma, di quella popolazione che tenta di scappare  in  tutti i modi dalle grinfie di questi studenti islamici  il cui cervello è imbevuto di versi coranici, e hanno riportato un territorio  a vivere una vita bestiale, sotto dittatura teocratica.

Mariangela Garofano. Il giornalismo è la mia passione fin dai tempi dell’università. Per ilGiornale.it scrivo di cronaca e spettacoli. Recensisco romanzi per alcuni blog letterari da diversi anni. Da sempre appassionata di scrittura e libri, ho svolto il lavoro di correttore di bozze. Per amore della lettura, ho gestito anche una libreria a Bologna

L’Afghanistan non sarà una democrazia. Estratto da corriere.it il 18 agosto 2021. Il Paese seguirà la legge islamica e non sarà una democrazia. L’annuncio è arrivato da un leader dei talebani che ha confermato ciò che in molti temevano in Occidente. 

Dagotraduzione dal New York Post il 18 agosto 2021. I combattenti talebani hanno sparato e ucciso una donna per non aver indossato il burqa in Afghanistan martedì, lo stesso giorno in cui il gruppo si è impegnato a inaugurare una nuova era inclusiva nel paese che onora i "diritti delle donne". È emersa una foto di una donna nella provincia di Takhar che giace in una pozza di sangue, con i suoi cari accovacciati intorno a lei, dopo che è stata uccisa dagli insorti per essere stata in pubblico senza copricapo, secondo Fox News. Il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid ha tenuto una conferenza stampa per dire che gli insorti avrebbero onorato i diritti delle donne nell'ambito della legge della sharia. I militanti hanno esortato le donne a tornare a scuola e al lavoro, e un altro portavoce talebano ha concesso un'intervista televisiva a una giornalista. Mujahid ha anche promesso di concedere l'amnistia agli afgani che hanno lavorato con l' ormai rovesciato governo sostenuto dagli Stati Uniti. Quando i talebani hanno governato l'Afghanistan prima dell'11 settembre, hanno impedito a donne e ragazze di uscire di casa senza un accompagnatore maschio, e non hanno permesso loro di lavorare o ricevere un'istruzione. Gli insorti hanno anche giurato martedì di non interferire con gli sforzi di evacuazione degli occidentali e dei loro alleati afghani guidati dagli Stati Uniti, ma è stato invece segnalato che controllavano gli ingressi dell'aeroporto internazionale di Hamid Karzai e attaccavano coloro che stavano cercando di fuggire. «C'erano bambini, donne, neonati, donne anziane, riuscivano a malapena a camminare», ha detto a Fox un ex appaltatore del Dipartimento di Stato afghano. «Sono in una situazione molto, molto brutta, te lo dico. Alla fine, stavo pensando che c'erano circa 10.000 o più di 10.000 persone, e stanno correndo verso l'aeroporto... I talebani [stavano] picchiando le persone e le persone saltavano dal recinto, dal filo spinato e anche dalla parete». Altrove a Kabul, i combattenti talebani sono stati visti mentre sparavano mentre pattugliavano i quartieri che ospitano attivisti e dipendenti del governo.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 18 agosto 2021. I talebani "moderati" hanno già iniziato a incastrare presunti ladri, che legano a un camion e lasciano sfilare attraverso Kabul, hanno sparato alla folla che cercava di fuggire verso l'aeroporto e stanno andando di casa in casa per radunare i saccheggiatori. I cosiddetti "Angeli della salvezza", armati fino ai denti, stanno trascinando via dalle loro case i sospetti dopo la presa di potere da parte dei talebani. Il filmato girato online mostra un presunto ladro d'auto con la faccia coperta di catrame nero, incastrato sul retro di un camion, con le mani legate dietro la schiena. Un vigile si trova nelle vicinanze e si muove nel traffico, apparentemente imperturbabile mentre il trambusto si accumula intorno all'uomo accusato. Altri filmati mostrano combattenti talebani fuori dall'aeroporto di Kabul che brandiscono AK-47 e lanciarazzi, marciando verso la folla terrorizzata e sparando colpi di avvertimento in aria. Gli ex dipendenti pubblici e coloro che hanno lavorato per l'estero sono prigionieri nelle proprie case e vivono nella paura mentre i talebani vanno di casa in casa per interrogare le persone su chi sono e cosa fanno.  Un ex interprete ha riferito di aver visto la sua casa essere perquisita tramite un'app sul suo telefono mentre rimaneva rintanato in un rifugio. I jihadisti sono stati soprannominati "talebani 2.0" per il loro tentativo di persuadere il mondo che si sono moderati rispetto ai talebani di 20 anni fa.

Una responsabilità dei segretari generali e dei governi europei. “Talebano buono non esiste, dittatura soft della sharia è insulto all’intelligenza”, intervista a Stefano Silvestri. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 20 Agosto 2021. «Per carità, possiamo inventarci di tutto per giustificare errori o “fughe”. Ma per favore, evitiamo di inventare la favola del talebano “buono”. Una dittatura soft della sharia è peggio di una fake news. È un insulto all’intelligenza». A sostenerlo è uno dei più autorevoli studiosi italiani di politica internazionale: il professor Stefano Silvestri. Già presidente dell’Istituto Affari Internazionali (Iai), è stato anche docente sui problemi di sicurezza dell’area mediterranea, presso il Bologna Center della Johns Hopkins University e ha lavorato presso l’International Institute for Strategic Studies di Londra.

Per definire gli accadimenti in Afghanistan, si sono utilizzati termini quali fuga, tradimento etc. Fuori dal definizionismo, qual è la sua lettura?

La tragedia afghana in realtà è il prodotto del caos politico in America e in Europa. È un fatto di politica interna, americana ed europea. In questo caso, Biden, con un Parlamento diviso, non poteva non andarsene dall’Afghanistan dopo le prese di posizione e gli accordi di Trump con i talebani. E se n’è andato forse nella maniera peggiore, assumendosi così anche responsabilità non sue, o non soltanto sue. Però devo dire che tutta questa storia, che è una storia di cattiva gestione, ricorda un po’ le avventure imperiali, anche all’epoca degli antichi romani, quando si abbandonava o si conquistava una provincia per ragioni interne al Senato romano più che perché servisse effettivamente all’impero o perché ci fosse dietro una strategia. Si occupava e poi s’inventava una ragione postuma. Per tornare all’Afghanistan, direi che è mancata una visione strategica, politica della faccenda. Ma dall’inizio. Perché abbiamo cambiato politica praticamente ogni anno. E agendo in questo modo, il risultato non può che essere la confusione.

A proposito di confusione. Adesso va di moda fare il Dna del talebano. C’è chi, anche nei palazzi che contano al mondo, prende sul serio affermazioni su una sorta di dittatura della sharia soft, rimarcando un atteggiamento più politico nei conquistatori di Kabul. Professor Silvestri, allora esiste il talebano “buono”?

La sharia soft la devo ancora scoprire, visto come la interpretano i talebani. Altro discorso è l’approccio al tema dell’islamismo moderno, peraltro odiato dai talebani. No, io non ci credo. I talebani sono diventati un po’ più educati, in questi vent’anni hanno imparato a parlare alla stampa e in pubblico. Ma da qui a dire che sono evoluti culturalmente e politicamente, non mi sembra proprio. Creano il loro emirato, applicano la sharia. Probabilmente faranno qualche piccola concessione, anche perché questo gli serve per avere delle entrature internazionali. Oggi come oggi sono appoggiati dalla Cina. E la Cina non è certo una fanatica della sharia, anzi come vede sharia manda soldati, crea campi di concentramento come abbiamo visto con gli uiguri. L’idea di un Afghanistan militante non piace di certo al Tagikistan, all’Uzbekistan, al Turkmenistan che hanno già abbastanza problemi con i loro fondamentalisti. Per cui faranno un po’ di melina, però nella sostanza io non credo che siano cambiati minimamente e mi aspetto che ricadano negli stessi errori che portarono alla loro caduta nel 2002, e cioè che riaprano le frontiere al terrorismo internazionale.

Per restare su questo aspetto. La guerra dell’Occidente in Afghanistan si aprì, vent’anni fa, dopo l’11 Settembre per assestare un colpo mortale ad al-Qaeda e a Osama bin Laden. Guerra vinta, proclamò Barack Obama annunciando l’uccisione dello “sceicco del terrore”. Lo stesso ha fatto Donald Trump dopo l’eliminazione di Abu Bakr al-Baghdadi, sostenendo urbi et orbi che la guerra all’Isis si era conclusa con una vittoria totale, definitiva. Ma le cose stanno davvero così?

Il terrorismo è un fatto endemico, l’abbiamo capito. Certo, può avere degli alti e dei bassi. Noi possiamo controllarlo, ridurne la portata e la pericolosità, ma difficilmente potremo estirparlo. Tanto più in una situazione in cui l’Islam è ancora fortemente confuso sui suoi orientamenti politici. Perché non abbiamo soltanto i terroristi che dicono fesserie, abbiamo governi che dicono fesserie, dall’Arabia Saudita alla Turchia, dall’Egitto all’Algeria… Il problema è che l’evoluzione dell’Islam verso una religione, come la intendiamo noi, moderna, di tipo laico, prima di tutto è dottrinalmente più difficile che nel caso cattolico o cristiano, dove la distinzione tra quel che è di Cesare e quel che è di Dio era in qualche modo presente anche nel Vangelo, sia pure in genere ignorata dalla Chiesa. Il caso dell’Islam è più complicato. Richiederà tempo. In realtà l’evoluzione dell’Islam moderno la vediamo molto più in Europa che non in questi Paesi dove il peso della cultura tribale è ancora molto forte. Questo è un Islam tribale prim’ancora che una religiosità fanatica. Se noi fossimo rimasti un paio di secoli in Afghanistan suppongo che ci saremmo riusciti, ma non ce n’era la volontà. Adesso si dice che dovevamo trattare l’Afghanistan come la Corea, insediandoci a sempiterna vita. Ma non era questa l’idea. Non era questa la missione che avevamo iniziato.

E quale era, professor Silvestri?

La nostra missione era quella di assestare un brutto colpo ad al-Qaeda, possibilmente ammazzare bin Laden, cosa che è successa anche se con un po’ di ritardo, e quindi convincere gli afghani che non era il caso di allearsi con i terroristi. Questo risultato lo abbiamo sostanzialmente raggiunto nel ’92-93. Dopodiché ci si è immischiati troppo nel processo di consolidamento di uno Stato afghano. Lo Stato afghano dipende, in ultima analisi, da quello che vogliono gli afghani, non è che possiamo insegnarglielo, e tanto meno imporglielo noi. Se poi loro trattano male le donne, picchiano i bambini, tagliano le mani ai ladri, noi gli possiamo dire che questo ci fa schifo. Ma non vedo come possiamo noi cambiare questa cultura se non con l’isolamento. E ogni qual volta si dirigono contro di noi, con una punizione. Solo che questo non piace ad esempio a noi europei. Una delle ragioni per cui il modello di guerra è evoluto verso la ricostruzione del Paese e della democrazia, è anche su insistenza di noi europei che volevamo essere dalla parte degli “angeli”, se dovevamo intervenire in Afghanistan. E quanto più eravamo angelici, meglio era. Solo che gli angeli stanno in cielo, non stanno in Afghanistan.

Mentre la bandiera bianca sventola su Kabul, l’Europa teme una “invasione” di profughi afghani…

Io credo che sarà molto difficile una invasione di profughi afghani. Perché sono molto lontani dall’Europa e non è facile per loro andarsene a questo punto. I numeri non saranno molto grandi. Devono comunque essere filtrati attraverso l’Iran e la Turchia, che sono i due principali canali d’ingresso. Il vero problema è per l’Iran che ha un forte numero di profughi. E potrebbero esserci problemi per il Turkmenistan, il Tagikistan, per quelli che hanno la stessa etnia e che dovrebbero fuggire in quelle aree. In Europa abbiamo il problema di quelli che collaboravano con noi e che sarebbe decente accogliere e non lasciare alle vendette locali. Questi rifugiati hanno tutto il diritto di venire da noi. Prima abbiamo garantito loro l’uscita dal tribalismo e ora li stiamo lasciando nelle mani di quella stessa realtà, che minaccia la vita di molte persone. Lasciarli ai loro carnefici, sarebbe un crimine.

Per tornare al futuro dell’Afghanistan. Lei in precedenza ha parlato di una società tribale, composta da diverse etnie. Ma i talebani sono in grado di unificare quello che nei secoli non è stato unificato?

Questo era quello che loro sostenevano di voler fare fin dall’inizio. Ma fin dall’inizio non aveva funzionato perché i talebani sono quasi tutti di etnia pashtun. Questo non alimenta la fiducia degli altri. In teoria, l’Islam dovrebbe unificare tutti i credenti in Allah. Ma non mi pare che funzioni così.

La metto giù molto brutalmente. L’Afghanistan è considerato, nella storia, il “cimitero degli imperi”. È anche il “cimitero” della Nato?

La Nato ha fatto una ben magra figura. Non solo perché è stata coinvolta in questa sconfitta, ma perché in realtà non ha avuto nulla da dire in tutto questo periodo. Non è stata quasi consultata. È stata al più informata. Questo, secondo me, è una responsabilità in primo luogo dei Segretari generali dell’Alleanza che si sono appecoronati agli americani. Ma è una responsabilità anche dei governi europei che non hanno rivendicato il ruolo del Consiglio atlantico. Probabilmente perché nessuno poi sapeva bene cosa dire o cosa fare, o aveva paura che gli americani dicessero: allora assumetevi più responsabilità. Il risultato è stato molto mediocre. Non è che la vicenda afghana metta in crisi la Nato in quanto tale, la mette in crisi in quanto strumento di proiezione della forza al di fuori della sua area (Articolo V). A questo punto uno si deve domandare che senso ha coinvolgere la Nato se è semplicemente per farle fare la portatrice d’acqua.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Battute e capricci. I talebani inclusivi e l’umorismofobia dei nostri valorosi cancellettisti. La vignetta di Andrea Bozzo che critica l’ipocrisia talebana diventa lo scandale du jour un po’ per la solita confusione tra oggetto e bersaglio, un po’ perché i militanti postmoderni hanno la coda di paglia. Guia Soncini su L'Inkiesta il 20 Agosto 2021. Pur essendo la massima studiosa vivente di scandali da 36/48 ore dell’internet, mi sono – in coincidenza col penultimo scandale du jour – resa conto d’aver trascurato una statistica importante: quanti degli sdegni occorsi negli ultimi anni sono dovuti alla confusione tra oggetto e bersaglio d’una battuta? 

Capitò alla capostipite delle linciate dall’internet, Justine Sacco. Era il 2013, e il bersaglio della battuta «vado in Africa, spero di non prendermi l’Aids, ah no: sono bianca» erano chiaramente i razzisti e i tic del loro ragionamento. «Chiaramente» è chiaramente l’avverbio sbagliato, considerato che, come spessissimo sarebbe accaduto in seguito, la confusione fu grande e la Sacco tuttora è quella che, per carità, ha pagato un prezzo troppo alto, ma aveva comunque fatto un’inaccettabile battuta razzista. 

(Ci sarebbe da discutere del concetto di «battuta inaccettabile», sensato come le lasagne vegane: se non disturba nessuno, che battuta è?). 

Nel mio minuscolo, capitò a me una volta che qualche passante chiese a Elena Stancanelli se conoscesse (di fama, suppongo) Pasolini e se Pasolini, al posto della Stancanelli, avrebbe rimproverato quel ragazzino di borgata che, nel discutere coi neofascisti, dimostrava la scarsa familiarità con la lingua italiana che è tipica dei romani. M’intromisi dicendo che no, Pasolini sarebbe stato impegnato a ingropparselo, il ragazzino. 

In mezzo a moltissimi offesi in-quanto-fan-di-Pasolini, che è un tic scemo ma aveva una sua logica nell’occasione, venni redarguita per giorni da gente che, scambiando oggetto e bersaglio della battuta, riteneva avessi insultato il ragazzino. 

Andrea Bozzo è un disegnatore che non conoscevo fino all’altroieri, e il fatto che ora sappia chi è dimostra che ha ragione lui quando dice che «diventi un marchio a costo zero»: i linciaggi dell’internet sono un aggiornamento del vecchio detto secondo cui non esiste la cattiva pubblicità. 

L’altro giorno i talebani hanno promesso un governo «inclusivo». Inclusivo è una parola totem del postmoderno. Sei inclusivo se non abbandoni i cani in autostrada e non declini le parole secondo generi escludenti. Sei inclusivo se per recitare nel tuo film scritturi un nero un cinese un indiano un paio di trans e una paraplegica, senza farti distrarre dal fatto che il tuo film parla della squadra olimpionica della Germania nazista. 

«Inclusivo» rappresenta tutto ciò che immaginiamo come opposto ai talebani nello spettro della civiltà. Siamo inclusivi perché rispetto ai diritti fondamentali siamo così coperti che ci resta lo spazio mentale per scandalizzarci se un’opera d’arte non è accessibile in sedia a rotelle. 

Se di mestiere osservi lo scarto, non quello tra la sedia a rotelle e i gradini dell’opera d’arte ma quello tra le buone intenzioni e la logica, o tra le cattive intenzioni e la nostra capacità di notarle, il talebano che parla d’inclusività non può non farti ridere. 

Bozzo ha fatto una vignetta che ha messo sulla sua pagina Facebook. Chi fa mestieri che hanno a che fare con l’esprimersi lo sa: i social sono una palestra. Li usi per vedere l’effetto che fa, per calibrare, per capire come funzionano le cose. Se sei intelligente, lo fai essendo consapevole che la stragrande maggioranza del pubblico affronterà quel che vede come fosse l’opera finita; ma, se quella cosa lì la fai per lavoro, non ne avrai certo concesso il primo sfruttamento a Mark Zuckerberg o a Jack Dorsey, che non ti pagano. 

Ma non voglio che questa sembri una scusa, facciamo che della confusione tra prove generali e première parliamo un’altra volta, e oggi restiamo alla confusione tra oggetto e bersaglio. Nella vignetta di Bozzo, c’è un talebano così grandemente inclusivo che parla una lingua senza generi: «Tranquill*, stavolta facciamo i brav*» (sì, «i» è articolo maschile, ma l’italiano non riescono a renderlo neutro quelli – quell* – che ci provano sul serio, possiamo pretendere ci riescano le vignette?). 

La vignetta, il cui bersaglio è ovviamente l’ipocrisia talebana, diventa lo scandale du jour un po’ per la solita confusione tra oggetto e bersaglio, un po’ perché i militanti postmoderni hanno un fienile in fiamme in luogo del culo (versione breve: la coda di paglia). Invece di dire che l’occidente serve a questo – a difendere i capricci, le stronzate, la libertà di fare come ci pare in tema d’irrilevanze – hanno deciso d’indispettirsi moltissimo con chi fa notare che i capricci sono tali. Rubo la battuta a qualcuno su Twitter: chissà quanti uomini afgani in questo momento si percepiscono donne. Ma torniamo alla vignetta di Bozzo. 

Su GayPost (chissà chi è il loro social media manager) esce un articolo dai toni così deliranti che non saprei renderli riassumendolo, quindi ne ricopierò stralci. «Una vignetta rilanciata dalle solite realtà transescludenti e queerofobe» (ma come parlate, nota di Soncini); «folklore ideologico, spacciato per esercizio di libero pensiero» (questa frase non ha alcun senso nella lingua italiana, chissà se ne sono consapevoli gli autori dell’articolo, ndS); «sulla pelle di donne che verranno cancellate realmente» («sulla pelle» sempre segno di scarsità dialettica, ndS); «vignette vergognose e sostanzialmente cretine sull’uso di asterischi e schwa» – eccetera, con tanto di mischione retoricamente pasticciatissimo con gli isterici della dittatura sanitaria, assai più vicini agli isterici della neutralizzazione della lingua di quanto lo siano a chiunque rida di qualunque cosa. 

Il fatto è che ridere è, attualmente, la più grave delle ipotesi. Che ci infilino in un burqa o ci privino dei diritti civili ci sembra meno devastante rispetto all’idea che qualcuno rida di noi: dei nostri diritti, desideri, tic, caratteri. Verrebbe da dire che si sta come nello Scherzo di Kundera, inquisiti all’idea che si sia osato fare una battuta, non fosse che a chi ha un qualche senso dell’umore viene da ridere all’idea di paragonarsi alla dittatura in cui è ambientato Lo scherzo. 

«C’è chi ha tempo e fantasia di ironizzare», ha stigmatizzato, condividendo l’articolo di Gaypost, Monica Cirinnà (chissà chi è il suo social media manager), la senatrice che ricordiamo perché, quando Carrefour stampò una maglietta in cui un marito uccideva la moglie, minacciò «chiariscano, o dovrò buttare la mia tessera», col piglio di Rosa Parks che cambia posto in autobus invece che di una che rinuncia ai punti sulla spesa. 

Mentre Bozzo veniva indicato come nemico del progresso da gente che si scrive in bio «Riot. Feminist. Foucaultian» (tutte le mancanze di senso del ridicolo portano a Foucault) e la definisce «una vignetta orrenda, atroce», mi sono procurata il suo numero di telefono. Anche per chiedergli se la vignetta rimossa da Facebook facesse di lui un martire, o il nuovo Gipi (che ebbe per analoghe ragioni una striscia oscurata da Instagram). 

Mi ha risposto uno che rideva molto, il che avrebbe fatto partire l’embolo ai militari di Kundera e ai militanti del cancelletto, e che era persino un po’ lieto d’essere il capro espiatorio del giorno, giacché ove c’è un’accusa arriva una difesa: «La solidarietà fa piacere perché siamo tutti un po’ narcisisti». E che trovava giustamente esilarante che Facebook gli avesse comunicato che lo riteneva responsabile d’incitamento al terrorismo (sotto il talebano, l’autore aveva scritto: «Diamogli una chance»). 

Il problema, però, trascende lui, e ci riguarda tutti: è lo svuotamento di senso delle parole. «Se quella è una vignetta vergognosa, la gente che cade dalla fusoliera dell’aereo cos’è? Non c’è una parola per dirlo». 

Bozzo ci tiene a precisare cose che gli potrebbero valere un supplemento di linciaggio: «Non sono una vittima di niente», ma anche «ci sta che non siamo d’accordo, mica è la negazione dell’individuo», ma soprattutto «pensi che ho fatto una battuta del cazzo? A me continua a far ridere ma vabbè, passiamo oltre». 

Metà della platea social gl’ingiungeva di scusarsi, l’altra metà se ne appropriava. «Ho unito il paese», ride, notando che, in chiave anticancellettista, l’avevano lodata da Marco Rizzo a Mario Adinolfi: il nemico del mio nemico, eccetera. 

Mentre si paragonava alla nonna di Gaber che non era lei che cambiava idea, erano i partiti che si spostavano, mi ha raccontato d’una volta in cui l’aveva seguito gente convinta fosse vicino ai Cinque stelle perché aveva fatto qualche battuta contro il Pd, poi «quando ho iniziato a prendere per il culo quegli scappati di casa mi scrivevano: sei cambiato, una volta non eri così» – un meccanismo noto a chiunque sia così balzano da non essere tifoso, vivendo nell’epoca delle curve di stadio. 

Pur essendo la massima studiosa eccetera, non ero ancora riuscita a capire come la sinistra potesse intestarsi una battaglia contro la libertà d’espressione e per quella che Guido Vitiello ha chiamato l’«umorismofobia». Me l’ha spiegato Bozzo, senza che neppure glielo domandassi: «Le cose serie le facciamo fare a Draghi, per fortuna; ai partiti che resta? Le battaglie identitarie». 

Gli uomini che governeranno il Paese. Chi sono i Talebani che guideranno l’Afghanistan: gerarchia, nomi e ruoli degli “studenti coranici”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 18 Agosto 2021. Conquistata domenica la capitale Kabul, i Talebani sono al lavoro per preparare la transizione al potere in Afghanistan, abbandonato in fretta e furia dalle forze armate americane e dal personale diplomatico occidentale dopo l’avanzata pressoché incontrastata degli “studenti coranici”, avvenuta in poche settimane. Un gruppo, quello islamico, basato su una rigida gerarchia. Ma non è chiaro, al momento, se l’attuale ripartizione del potere sarà rispecchiata nei prossimi giorni o settimane negli incarichi di governo del Paese. Un ruolo fondamentale lo avrà in ogni caso il mullah Habaitullah Akhundzada, il “president” dei Talebani e comandante supremo dell’organizzazione dal maggio 2016 dopo la morte del fondatore mullah Mohammed Omar (nel 2013) e del suo successore il mullah Mansour, ucciso nel 2016 in Pakistan da un drone americano. Attualmente Akhundzada, 60 anni, è il responsabile degli affari politici, militari e religiosi. In realtà è proprio quest’ultimo il "pezzo forte" del numero uno dei Talebani ed è per questo che gli analisti immaginano un ruolo chiave per Abdul Ghani Baradar, il negoziatore che a Doha ha posto le basi, grazie alla “complicità” dell’amministrazione americana di Donald Trump, per la riconquista del Paese. A Baradar, già protagonista della prima conquista dell’Afghanistan da parte dei Talebani con operazioni sul campo, potrebbe spettare il ruolo di presidente ad interim. Altro personaggio chiave sarà Mohammad Yaqoob. Giovane, si ritiene abbia poco più di 30 anni, è il figlio del fondatore dei Talebani, il mullah Mohammed Omar. Dopo la morte del padre parte del movimento lo voleva come nuovo comandante supremo, salvo poi ‘eleggere’ il mullah Mansour a causa della scarsa esperienza del giovane figlio di Mohammed Omar. Attualmente Yaqoob è a capo delle operazioni militari e responsabile finanziario del gruppo. Dovrebbe avere lo stesso potere e le stesse responsabilità di Mohammad Yaqoob il 45enne Sirajuddin Haqqani. Quest’ultimo è figlio di Jalaluddin, fondatore della rete omonima e che come ricorda Repubblica fu definito da Ronald Reagan “un combattente per la libertà” ai tempi della lotta contro l’Unione Sovietica. All’organizzazione, protagonista di alcuni degli attacchi più violenti e sanguinosi contro le forze occidentali nel Paese negli ultimi 20 anni di ‘occupazione’, è attribuito anche l’attentato del 2009 a Kabul in cui morirono sei paracadutisti italiani. Infine Abdul Hakeem, a capo del team di negoziatore Talebani che a Doha firmarono l’accordo con gli Stati Uniti. Anche per lui, come per il mullah Baradar, si prospetta un ruolo di primo piano nel governo del Paese.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Il qaedista, il reduce e la guida spirituale. Ecco i tagliagole al governo di Kabul. Gian Micalessin il 19 Agosto 2021 su Il Giornale. C'è il teologo del martirio che ha offerto il figlio a un attacco suicida, il comandante di un gruppo terrorista e il figlio del mullah Omar. Che guideranno da lontano un esecutivo farsa. I nuovi, veri padroni dell'Afghanistan potrebbero anche non mettere piede a Kabul. E accontentarsi di governare da dietro le quinte di un gabinetto, apparentemente inclusivo, i cui esponenti saranno, in realtà, semplici marionette. L'ambigua prospettiva sta prendendo corpo in queste ore. A confermarla contribuiscono le voci secondo cui Amir Khan Muttaqi, ex-ministro dell'educazione nel primo emirato talebano è nella capitale per trattare con l'ex-presidente filo-americano Hamid Karzai e Abdullah Abdullah , già presidente di quel Consiglio per il Dialogo incaricato, fino a domenica scorsa, dei colloqui con gli insorti. E alle discussioni parteciperebbe da remoto anche Zalmay Khalilzad, l'enigmatico inviato americano di origini afghane, già ambasciatore a Kabul e Baghdad, che ha trattato per conto di Trump e di Biden il ritiro americano. Ma quel che ne uscirà non sarà certo un vero governo. E, come già avvertono i leader talebani, non si ispirerà ai precetti della democrazia, ma a quelli della legge islamica. Sarà dunque una finzione istituzionale utile sia al potere talebano, sia all'amministrazione Biden. I primi potranno esibirla per sostenere di esser cambiati e ambire a riconoscimenti e aiuti internazionali. Biden potrà invece usarla per dribblare le accuse di fallimento e difendere un ritiro che ha permesso la nascita di un esecutivo di compromesso. Ma la verità sarà ben diversa. Per capirlo basta esaminare i vertici del potere talebano. Il 61enne emiro Hibatulla Akhunzada nominato comandante supremo nel 2016 con il titolo, ereditato dal Mullah Omar, di «comandante dei fedeli», probabilmente continuerà ad indirizzare dall'ombra le scelte del movimento. Esponente della magistratura islamica nel primo emirato è non solo il leader politico- spirituale del movimento, ma anche il più entusiasta sostenitore del martirio religioso. Non a caso ha sostenuto la scelta del figlio 23enne Abdul Rahman offertosi, nel 2017, come volontario per un attentato suicida nella provincia di Helmand. A rendere ancora più impenetrabile la nebulosa del potere talebano s'aggiunge la figura del Mullah Muhammad Yaqoob, figlio del Mullah Omar. Se del padre circolava un'antica e sfocata immagine in bianco e nero di lui non esiste neppure quella. Nessuno, al di fuori di una ristretta cerchia di comandanti, può dire d'averlo mai incontrato. Eppure il poco più che trentenne, Yaqoob è oggi il vero comandante militare del movimento. Altrettanto inquietante è la figura del 48enne Sirajuddin Haqqani indicato come il braccio destro di Akhundzada. Figlio di un leggendario leader dei mujaheddin antisovietici il 48enne Sirajuddin guida una formazione terrorista parallela al movimento talebano che rappresenta la vera interconnessione con Al Qaida. E comanda una rete di alleanze tribali con cui controlla scuole religiose e centri commerciali a cavallo di quella frontiera pakistana dove mantiene stretti contatti con i servizi segreti di Islamabad. In questa inquietante galleria di fantasmi la figura più conosciuta resta quella di un Mullah Abdul Ghani Baradar su cui tutti scommettono come futuro presidente dell'Afghanistan. Amico d'infanzia del Mullah Omar, che lo chiamava con il soprannome di Baradar (fratello), il mullah Abdul Ghani è stato uno dei fondatori del movimento per poi diventare governatore della provincia di Herat e vice ministro della difesa nel primo Emirato. Più ambiguo il suo ruolo dopo il 2001 quando - pur partecipando alla shura di Quetta ovvero all'organo decisionale del nuovo movimento talebano - è anche protagonista, dopo il 2006, di una serie di negoziati segreti con l'ex presidente Karzai. Proprio questi negoziati, malvisti dall'ala più dura del movimento, avrebbero spinto - nel 2009 - i servizi segreti pakistani ad arrestarlo. Liberato su richiesta degli americani nel 2018 è diventato l'interlocutore fisso di Khalilzad in quei colloqui di Doha al termine dei quali ha avuto persino un colloquio telefonico con Trump. I suoi trascorsi negoziali lo rendono il candidato perfetto per la presidenza di un governo di coalizione in cui gli esponenti dei passati governi, come Karzai e Abdullah, rappresenteranno la foglia di fico del nuovo emirato.

Kabul: «I talebani moderati non esistono». Fausto Biloslavo il 6 Aprile 2007 su Il Giornale. «Seguaci del mullah Omar aperti al dialogo? Un’invenzione dell’Occidente». l ministro degli Esteri afghano rigetta la proposta di un tavolo di pace con gli integralisti, che tanto piace alla sinistra italiana e tedesca. Il ministro degli Esteri afghano rigetta la proposta di un tavolo di pace con gli integralisti, che tanto piace alla sinistra italiana e tedesca. Il governo afghano boccia, senza mezzi termini, la proposta di invitare i «talebani moderati» a un’improbabile conferenza internazionale sull’Afghanistan. Lo stop arriva dal ministro degli Esteri di Kabul, Rangin Dadfar Spanta, che spiega: «In quanto entità politica e militare, non vedo talebani moderati e non moderati», una tale distinzione «è un'invenzione di quelli che non conoscono l’Afghanistan». Spanta replica ai microfoni della televisione e radio tedesche, dopo che il leader dell’Spd (socialdemocratici), Kurt Beck, partito che fa parte della Grande coalizione di governo a Berlino, aveva lanciato la proposta di invitare i «talebani moderati» a una conferenza internazionale da tenersi in Germania. La stessa idea avanzata qualche settimana fa dal segretario dei Democratici di sinistra, Piero Fassino. Beck nei giorni scorsi era in visita alle truppe tedesche in Afghanistan e ha ipotizzato la conferenza con i talebani sullo stile di quella di Bonn del 2002, dopo il crollo del regime di mullah Omar. «Da lungo tempo - ha spiegato ieri il ministro afghano Spanta - stiamo cercando in Afghanistan dei talebani moderati e non li troviamo. Se i politici occidentali li conoscono, potrebbero darci gli indirizzi e i contatti, così che possiamo confrontarci con loro». La stilettata riguarda anche gli italiani, che soprattutto nell’estrema sinistra vagheggiano di talebani «bravi ragazzi» con i quali si potrebbe discutere. «Una classificazione di questo tipo è un’invenzione di quelli che non hanno la minima idea dell’Afghanistan», ha spiegato il ministro degli Esteri afgano. Spanta non a caso ha risposto a muso duro a Beck, perché è vissuto molti anni in esilio in Germania. Il capo della diplomazia di Kabul era fuggito dall’Afghanistan durante l’invasione sovietica degli anni Ottanta per poi rientrare solo dopo la fine del regime talebano. In Germania ha insegnato all’università scientifica Rwth Aachen e militato nel partito dei Verdi. Per questo conosce bene i suoi polli e ha sfidato il leader dell’Spd su un terreno minato. «È come se io da Kabul dicessi che si dovrebbe stringere una coalizione con l’Npd o con i “moderati” dell’Npd in Renania-Palatinato», il Land tedesco di cui Beck è governatore dal 1994. L’Npd è uno dei tre partiti di estrema destra in Germania accusato di simpatie filo naziste. La pietra tombale sull’idea di Beck e Fassino è arrivata con una dichiarazione di Spanta alla televisione tedesca, che l’ha raggiunto a Nuova Delhi in occasione di un summit: «Al momento non vedo nessun senso per organizzare e realizzare una conferenza simile». Spanta è un pashtun originario di Herat e fedelissimo del capo di stato afghano, Hamid Karzai, che ancora prima di nominarlo ministro nel 2006 lo aveva chiamato all’ufficio presidenziale come consigliere per gli affari internazionali. L’idea che non esistano talebani moderati è un cavallo di battaglia della fazione tajika erede del famoso comandante Ahmad Shah Massoud, ucciso da Al Qaida due giorni prima dell’11 settembre. Yunes Qanooni, oggi presidente del parlamento e Amrullah Saleh, potente capo dell’Nds, la polizia segreta afghana, vedono come fumo negli occhi l’idea di una conferenza internazionale di pace assieme ai talebani. In realtà era stato proprio Karzai nell’ottobre del 2006 a invitare pubblicamente il mullah Omar, il leader guercio dei talebani ad abbandonare le armi e aprire un negoziato. Gli aveva risposto Mohammed Hanif l’allora portavoce talebano, poi arrestato. «Abbiamo già spiegato la nostra posizione su un eventuale negoziato - aveva replicato Hanif al presidente Karzai -: nessuna trattativa è possibile con la presenza degli invasori (le truppe della Nato)». La sparata di Beck è arrivata in concomitanza con l’invio in Afghanistan di sei caccia Tornado tedeschi, dotati di apparecchiature speciali, che serviranno non a bombardare, ma a individuare e fotografare i covi dei talebani. Inoltre Berlino deve gestire anche il caso dei due ostaggi tedeschi nelle mani dei terroristi in Irak, che chiedono il ritiro delle truppe dall’Afghanistan. Non a caso la proposta di Beck ha scatenato una valanga di critiche da parte della Cdu della cancelliera Angela Merkel e qualche appoggio dai Verdi.

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”,  il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace.

In Afghanistan tra i talebani irriducibili: «Solo senza stranieri e con la nostra idea di Islam qui potrà tornare la pace». Iniziato il ritiro delle truppe Nato. Il paese resta diviso tra i governativi appoggiati dalla comunità internazionale e le fazioni secessioniste che combattono per un’indipendenza totale. E la fondazione di uno Stato islamico. Filippo Rossi su L'Espresso il 12 maggio 2021. «Abbiamo sconfitto gli inglesi, i russi e ora la Nato. Siamo la nazione più fiera. Che il mondo se ne faccia una ragione. Siamo la tomba degli imperi», suona il nasheed (canzone religiosa) cantato da un anziano leader tribale, di fronte allo sguardo attento, emozionato del talebano mullah Abdul Manan Niazi. Il suo viso segnato dalla guerra e dall’età è illuminato dai raggi solari del tramonto che trapassano i vetri della finestra di una casetta in fango, in cima a una montagna brulla e desertica nei dintorni della città di Herat, nell’ovest dell’Afghanistan. La barba è lunga, grigia e rossastra, un turbante nero in testa e uno shalwar kameez (vestito tradizionale) azzurro. Personalità influente al tempo del mullah Omar, il mullah Manan, guida dal 2015 un gruppo talebano secessionista, formato da migliaia di soldati che combattono la Nato, esercito governativo ma anche la fazione più grande dei Talebani formata dal gruppo di Doha, oggi al tavolo dei negoziati con americani e governo afghano per la pace. «Dopo la morte del mullah Omar nel 2013, i servizi segreti pachistani (Isi) volevano fare dei talebani una loro marionetta. Ecco perché ho deciso di separarmi. Ora, i talebani a Doha non rappresentano il popolo afghano né il vero Emirato islamico dell’Afghanistan - la vera vittima di questa guerra - che ha combattuto per 25 anni contro gli invasori». Il mullah Manan siede a gambe incrociate, solenne, sotto il sole e con il vento che batte sulla faccia. Di fronte, un fucile di produzione italiana, ottenuto durante un combattimento. Attorno, vicino alla casetta di fango, ha radunato decine dei suoi mujaheddin armati fino ai denti, che, in silenzio, ascoltano la sua predica. Nel mezzo del suo discorso, alcuni gridano «Takbir!», seguito dal grido religioso galvanizzante: «Allahu Akbar!». Il mullah Manan scaglia le sue ire contro la leadership talebana a Doha: «Un vero talebano è al servizio dell’umanità e la guida implementando le leggi di Dio. Loro sono solo degli infedeli perché uccidono musulmani con i soldi non musulmani che arrivano da paesi come Russia, Cina, e anche Pakistan e Iran». La Nato poi, sconfitta, secondo lui non rappresenta più un problema: «Abbiamo distrutto l’occupazione occidentale», esclama, ricordando che a Herat hanno affrontato le truppe italiane. «Gli italiani? Certo, li abbiamo fatti esplodere molte volte. Loro, come la Nato e tutti gli imperi. Siamo più forti. Ora, devono andarsene». Il mullah si riferisce ai 31 soldati del contingente italiano Nato morti in azione durante la ventennale presenza a Herat per stabilizzare la regione. La sua guerra è difficile. I suoi mujaheddin sono impegnati incessantemente su molti fronti. «Il processo di pace in corso andrà a rotoli perché gli americani trattano con dei talebani che non vogliono la pace. Noi vogliamo proteggere il paese, che ha bisogno di un vero regime islamico ma senza interferenze della comunità internazionale». Un suo mujahid, Rajan, 25, segue il suo leader portando su e giù per le montagne armi pesanti. «L’occupazione Nato e i talebani di Doha sono un pericolo e continueremo a combatterli. Spero che in futuro nessuna madre afghana debba piangere un figlio e nessun figlio perdere una madre». La fazione secessionista talebana del mullah Manan, presente soprattutto nell’ovest del paese, è un esempio di quanto lo scacchiere afghano sia frammentato. È però sempre il gruppo talebano di Doha ad avere il controllo sulla maggior parte dei territori e a essere la principale resistenza contro la Nato e i loro alleati dell’esercito governativo. A pochi chilometri da Kabul, nella provincia di Wardak, dove gli scontri sono costanti e violenti, i mujaheddin talebani, più forti, accerchiano le forze governative nel capoluogo Maidan Shahr dal distretto adiacente di Nerkh, bersagliando i checkpoint e i fortini, dai quali i soldati non escono mai. A volte, i mujaheddin attaccano le principali arterie stradali, segnate da crateri solcati dalle mine posate per distruggere i blindati governativi. A pochi chilometri dall’asfalto le bandiere bianche talebane sventolano al posto del tricolore afghano. Sulle loro moto, i Talebani sono pronti all’agguato, nascosti. Kalashnikov sulla schiena, uno shalwar khameez - tagliato sopra le caviglie per motivi religiosi - barba incolta con capelli lunghi, bruni, raccolti sotto il desmal (uno scialle) e il turbante. Il colore verde e azzurro degli occhi è messo in risalto dal surma (khol), la matita per gli occhi, una tradizione musulmana: «Lo faceva il profeta Maometto», commenta, devoto, il mujahid Abdullah. Il comandante del distretto di Nerkh, è Mohammed Nazir, 42 anni, nome di battaglia Mawlawi Saber. Nel 2001 - racconta - ha seguito il richiamo alle armi del Mullah Omar, per affrontare gli americani. «È un nostro dovere religioso combattere l’invasore». Nel frattempo, invisibili agli occhi, gli aerei militari sorvolano la zona rumorosamente. Da lontano, si sente qualche sparo. «Di notte colpiamo i soldati del governo con i fucili a puntatore laser, di giorno con altre armi. Ora i soldati usano i civili per proteggersi», commenta Saber. Il suo messaggio è però pacifico: «Noi siamo pronti alla pace. È così difficile vivere in guerra che tutto sarà molto più facile. Torneremo ad essere fratelli con gli altri afghani. Non c’è problema. Ma vogliamo che gli stranieri si ritirino e che venga instaurato un governo con valori islamici. Un buon talebano è colui che esegue gli ordini del nostro leader. Ci dirà cosa fare», sorride. Non c’è rancore nelle voci dei combattenti. Anche un suo mujahid, Hajmal, 25 anni, ha deciso di abbandonare gli studi per combattere il jihad. «Molti di noi hanno perso familiari e amici. Ma il nostro dovere religioso è più importante. Vogliamo un governo islamico, e quando la pace arriverà, non vediamo l’ora di sederci con i nostri fratelli dall’altro lato». Nelle aree del distretto di Nerkh controllate dai talebani, la guerra è visibile negli occhi della gente. È segnata indelebilmente sui loro corpi. Bambini camminano claudicanti con bastoni. Giovani portano protesi nascoste dai vestiti. Tutti hanno ferite interne irreparabili, che si riaprono con il rombo dei jet militari e che ricordano loro gli attacchi notturni perpetrati dalle forze governative e quelle straniere. «Un drone americano mi ha portato via la gamba», racconta pieno di vergogna Samiullah, 22 anni, un sarto del villaggio di Oryakhil. «Avevo 12 anni e tornavo da scuola. All’inizio non lo accettavo, avrei tanto voluto raggiungere le fila dei talebani e combattere. Ma non posso. Cucio loro i vestiti oppure dono dei soldi. Gli stranieri se ne devono andare, sono la causa di tutti i nostri mali». A qualche chilometro da Oryakhil, nelle fitte valli verdeggianti, attorniate dalle cime innevate dell’Hindu Kush, sorge il villaggio di Shahid Khil. Un cimitero, pieno di bandiere bianche in onore delle vittime, è posto all’entrata in segno di benvenuto. Dal portone di un casolare esce un uomo, Janatmir Shahid Khil, 50 anni, accompagnato dai figli. «Due anni fa i soldati del governo e gli stranieri, dopo aver bombardato, hanno attaccato uccidendo 8 persone. Studenti, professori, ingegneri: civili innocenti», urla concitato. «Abbiamo educato i nostri figli a combattere gli stranieri e li combatteremmo anche noi. Ma vogliamo solo la pace e che loro se ne vadano». Un po’ più a valle, un professore del villaggio di Sarmarand, Rahimullah, 58 anni, ha subito la stessa sorte 3 anni fa, perdendo 7 membri della sua famiglia: «Prima hanno bombardato, poi sono entrati in casa, puntandomi il fucile addosso. Hanno picchiato me e i miei figli, accusandoci di essere talebani. Dopo 24 ore se ne sono andati, lasciandosi dietro i cadaveri e la distruzione. Sono pronto a perdonare tutti. Ma gli stranieri sono venuti qui solo per uccidere. Devono andarsene. Ancora oggi», aggiunge, «non riesco a chiudere occhio». A poche centinaia di metri dal distretto controllato dai talebani di Saber, il drappello della polizia nazionale afghana del tenente Mirwali presidia l’ultimo punto di controllo governativo all’uscita di Maidan Shahr. I diretti avversari provengono dalle stesse aree: «Combattiamo per difendere il paese. Loro ci bersagliano con i fucili a puntatore laser», dichiara Mirwali, corroborando l’informazione talebana. «Ci conosciamo tutti, è pericoloso per noi portare la divisa. Si possono vendicare sulle nostre famiglie». Un uomo di Mirwali, Qudratullah, 25 anni, ne è stato vittima: «Hanno ucciso mio padre e due zii perché ero nelle forze speciali dell’esercito. Lo sapevano. Ora sono tornato a combattere vicino a casa per prendermi cura di loro. Spero che tutto questo finisca. Torneremo ad essere fratelli e sederci allo stesso tavolo». Le vere vittime della guerra afghana - civili, soldati, talebani e miliziani al fronte - difendono le proprie convinzioni. In comune però, hanno il sogno di un nuovo Afghanistan. Tuttavia, rimangono ai margini della politica internazionale, usati come pedine. L’Afghanistan, difatti, è diviso. In balia della comunità internazionale, in un momento decisivo caratterizzato dall’inizio del ritiro delle truppe Nato (circa 3500 unità) entro l’11 settembre - come annunciato di Joe Biden venendo meno all’accordo firmato fra Trump e i talebani nel febbraio 2020, che stabiliva il ritiro completo entro il primo maggio di quest’anno - e la decisiva conferenza sulla pace in Afghanistan organizzata prossimamente ad Istanbul (e fortemente voluta dagli Stati Uniti). In Turchia, si potrebbe arrivare ad uno storico accordo fra talebani e governo afghano per la formazione di un governo di transizione e un cessate il fuoco totale. Il rischio di tutto ciò è però un nuovo conflitto civile. Se la violazione dell’accordo fra Usa e talebani ha suscitato una reazione drastica da parte della leadership di Doha, che ha minacciato di riprendere le ostilità su scala completa, un eventuale accordo ad Istanbul, quasi certamente imposto dalla comunità internazionale e dagli Usa - noncurante della situazione sul campo - creerebbe le basi per nuovi scontri. A dirlo è Rahmatullah Nabil, ex-direttore dei servizi segreti afghani (Nds): «Un accordo forzato permetterebbe alla Nato e agli Usa di uscire degnamente da una sconfitta, creando un governo di transizione basato su valori ideologici e etnici, ma rischiando una guerra e una balcanizzazione del paese. Una volta fuori, per la comunità internazionale, sarebbe facile incolpare gli afghani per le future violenze». Secondo alcune indiscrezioni, confermate da esponenti di entrambi i lati, i talebani potrebbero però accettare una proroga del ritiro in cambio del rilascio di prigionieri e la fine di ogni appoggio aereo e terrestre all’esercito governativo. Nabil è preoccupato: «Abbiamo molte paure e speranze per Istanbul. La comunità internazionale tratta con il governo, signori della guerra e talebani. Sono sì parte della realtà, ma non tutta. Gran parte della popolazione non si riflette più in questi schemi e ignorarlo sarebbe un grave errore». Se i talebani sono divisi, lo è altrettanto il governo, poco rispettato dalla popolazione e dai suoi stessi rappresentanti corrotti a Kabul, i quali accusano i talebani di non volere la pace ma armano milizie segrete e private per combatterli, cercando di difendere i propri interessi (spesso sostenuti da stati come Iran, India e Russia). Ghulam Farooq Wardak, ex-ministro e uno dei principali creatori della costituzione afghana del 2004 lo dice chiaramente: «Questo governo, sostenuto dagli stranieri, è corrotto e arma milizie. È stato votato da un milione di persone su 34. Non rappresenta nessuno». «Il presidente Ashraf Ghani fa lo stesso. A nessuno interessa il popolo afghano», tuona Nabil, indignato. Tutto è corroborato da Jalal, 53 anni, un signore della guerra del suo villaggio, Khinjan, nella provincia di Baghlan: «Siamo sostenuti dalle Nds (i servizi segreti afghani). Ci danno soldi e qualche arma per difenderci». Jalal combatte da quando aveva 16 anni. Nel 2004, un bombardamento Nato sulla sua casa ha ucciso ventisei persone della sua famiglia. Una ferita che non si rimarginerà. Duro e inespressivo, oggi difende il suo villaggio dai talebani con centinaia di civili assoldati: «Il governo senza di noi non riuscirebbe a difendersi. È come il marito di una moglie che lo tradisce. Quando lo scopre in casa sua, invece di sfidarlo da solo chiama il vicinato per farsi aiutare. Noi vogliamo la pace, ma senza che i talebani ci impongano i loro valori. Quando tutto sarà finito, consegneremo le armi». Di miliziani come Jalal, l’Afghanistan ne è pieno. «I programmi di disarmo protratti negli anni sono andati a rotoli. Sono gruppi inaffidabili e più pericolosi dei talebani. Ci aspetta una nuova guerra», ammette Belqis Roshan, parlamentare indipendente per la provincia di Farah, «Il governo arma le milizie perché non vuole la pace». Afghanistan, bomba a orologeria. Tutti contro tutti. Soldati e popolazione sono vittime dei politici. Come su una scacchiera: i pedoni scoperti, vittime della regina. Non ha importanza. Tutto è lecito per fare scacco al re.

Com’era e come potrebbe essere l’Afghanistan in mano ai talebani. Federico Bosco il 14 agosto 2021 su open.online.it. Prima dell’invasione statunitense dell’ottobre 2001 l’Afghanistan era un emirato islamico nelle mani dei talebani del Mullah Omar, un buco nero dell’Asia centrale distrutto da vent’anni di guerra dove regnavano la Sharia e il terrore. L’avanzata dei talebani continua, dopo aver conquistato gran parte del nord, sud e ovest dell’Afghanistan si stanno avvicinando alla capitale Kabul con l’obiettivo di rovesciare il debole governo del presidente Ashraf Ghani. Nel giro di una settimana hanno preso il controllo di un capoluogo di provincia dopo l’altro, e negli ultimi giorni avanzano senza neanche dover combattere. Dopo aver catturato Kandahar, Herat e Lashkar Gah, solo la città di Mazar-i-Sharif, una roccaforte settentrionale dei signori della guerra anti-talebani locali, e Jalalabad, a sud di Kabul, sono le ultime grandi città che resistono ai miliziani in marcia verso la capitale. Durante l’avanzata i talebani liberano i prigionieri che trovano nelle carceri e li invitano a unirsi a loro, reintroducendo l’obbligo del burqa e i tutti divieti dell’interpretazione più integralista della legge islamica. Le donne non possono studiare o lavorare, né andare in giro senza essere accompagnate da un uomo della famiglia. Tutti coloro che sono stati in contatto con statunitensi e alleati vengono considerati dei traditori, anche se venerdì i talebani hanno promesso con un comunicato ufficiale una sorta di «amnistia generale» per chi ha collaborato con Kabul e le «forze occupanti», e assicurando che i diplomatici stranieri non saranno toccati. I talebani quindi si considerano pronti a prendere il potere, e mentre le milizie portano avanti l’offensiva sul campo, i rappresentanti politici sono in Qatar per colloqui con una serie di governi tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Pakistan, Cina, India e altri. Tuttavia, è in dubbio anche la reale capacità dei rappresentati talebani a Doha di far rispettare gli eventuali accordi presi a tutti i miliziani sul campo, e non viene escluso lo scenario di una guerra civile. Guardando alla storia recente, parlare di talebani moderati con cui negoziare appare come un controsenso.

Com’era l’Afghanistan dei talebani. I talebani hanno dominato il paese dal 1996 al 2001 dopo la rapida caduta e i conflitti del governo dei Mujaheddin che avevano sconfitto l’Unione Sovietica. Nati come movimento politico-militare per la difesa dell’Afghanistan, appena raggiunto il potere hanno proclamato l’emirato islamico e istituito nel paese la versione più estrema della Sharia, punendo con estrema violenza ogni minima deviazione. Durante il loro governo – riconosciuto solo da Pakistan, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita – hanno commesso massacri contro i civili, negato le forniture alimentari delle Nazioni Unite agli afghani, e condotto una politica distruttiva bruciando vaste aree di terra fertile e demolendo decine di migliaia di abitazioni. In caso di adulterio le donne «colpevoli» venivano lapidate pubblicamente, gli uomini adulteri presi a frustate. Cose accadute anche durante questi anni nei villaggi sotto il loro controllo. Da quel momento in poi l’Afghanistan è stato considerato un buco nero dell’Asia centrale, fedele alla fama di «cimitero degli imperi» che si è conquistato nei libri di storia. Un luogo distrutto da vent’anni di guerra in cui nessuno voleva mettere piede: non c’erano infrastrutture, acqua corrente, le reti elettriche e le reti telefoniche erano quasi inesistenti, con pochissime strade asfaltate e i beni di prima necessità drammaticamente scarsi. La mortalità infantile era la più alta del mondo, mentre la Sharia imperante aveva disarticolato anche quella struttura di clan e famiglie che forniva agli afghani una minima rete di sicurezza sociale per sopravvivere.

La distruzione dei Buddha di Bamiyan. Nel marzo del 2001 i talebani, all’apice del loro potere, finirono al centro dell’attenzione internazionale per la distruzione delle statue dei Buddha di Bamiyan. Si trattava di due gigantesche statue (una alta 38 metri e l’altra 55) risalenti al VI secolo inserite nel lato di un dirupo nella valle Bamiyan, tesori archeologici di valore inestimabile risalenti a più di 1500 anni fa, espressione dell’arta greco-indiana del Gandhara.

Il governo del Mullah Mohammed Omar dichiarò che le statue erano «idoli da distruggere», una sentenza eseguita dalle milizie talebane piazzando prima degli esplosivi alla base e alle spalle dei Buddha, e poi concludendo il lavoro a cannonate. Delle statue non è rimasto niente. I governi del mondo reagirono con rabbia e indignazione, tutta la comunità internazionale si era offerta di prendere in consegna i Buddha e portarli via dall’Afghanistan, ma neanche la mediazione del Pakistan – unico paese in buoni rapporti con i talebani – riuscì a far desistere il Mullah Omar dalla sua decisione. Qualche mese dopo, il mondo intero guardava con orrore le immagini degli attentati dell’11 settembre, e le cose cambiarono. A ottobre gli USA invasero l’Afghanistan per rimuovere i talebani dal potere dopo che questi si erano rifiutati di consegnare Osama Bin Laden, all’epoca «ospite» dell’emirato dei talebani da dove comandava al-Qaeda. Da lì in poi la Nato e la maggior parte dei paesi occidentali si è unita alla missione USA, fino al disimpegno di questi giorni.

Le incertezze e le possibili conseguenze geopolitiche. Nessuno sa cosa succederà nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, la situazione sul campo e ai tavoli della diplomazia – tra i più fragili di sempre – è in costante evoluzione. Di sicuro c’è che il ritiro occidentale lascia Cina, Russia e Iran a fare i conti con una fattore di instabilità che preoccupa tutta la regione. Mosca prova a fare asse con Teheran per cercare sicurezza per suoi alleati in Asia centrale, mentre Pechino vorrebbe coinvolgere chiunque governi in Afghanistan (fossero anche i soli talebani) nei suoi progetti infrastrutturali e sfruttare le risorse minerarie del paese, ma anche per i cinesi le preoccupazioni superano di gran lunga le presunte opportunità. Tutti vorrebbero trovare accordi ragionevoli e vantaggiosi, ma nessuno è consapevole di quale tipo di accordi è possibile prendere con i talebani. Andandosene in questo modo Washington crea difficoltà a tre dei suoi principali avversari pagando il prezzo (internazionale) della vergogna per un’operazione fallita, ma ottenendo il risultato (a uso interno) desiderato dal presidente Joe Biden di non mandare più i giovani americani a combattere una guerra infinita per inseguire una vittoria impossibile. Per l’Europa invece la faccenda è più spinosa, per i rifugiati in fuga dall’Afghanistan le frontiere dei paesi europei non sono così lontane, non ci sono oceani di mezzo. L’Unione europea dovrà affrontare un’altra ondata migratoria avendo come unico argine l’Iran degli Ayatollah e la solita Turchia di Recep Tayyip Erdogan, a cui tra l’altro è stato affidato anche il controllo militare dell’aeroporto di Kabul. Anche per gli USA però non sarà possibile archiviare in fretta l’Afghanistan come desidera Biden, c’è il rischio che il paese torni a essere un porto sicuro e un vivavio per i terroristi di al-Qaeda, dell’ISIS o di altre organizzazioni terroristiche dello stesso tipo, obbligando la Casa Bianca a rivedere drasticamente le decisioni prese. Intanto, l’unica certezza a cui assiste il mondo intero è che in poche settimane i talebani hanno distrutto vent’anni di impegno economico, militare e umanitario dell’intero schieramento occidentale: gli USA, la Nato, l’Ue e anche le Nazioni Unite hanno perso credibilità. Se le cose non migliorano in fretta per Biden sarà molto difficile portare avanti il messaggio che «l’America è tornata».

Afghanistan, l’emirato dei talebani è tornato e fa paura più di prima. Si sentono padroni del Paese: è la prova del fallimento dell’Occidente costato soldi e vite umane. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud il 7 luglio 2021. Su un vecchio passaporto ho ancora il visto dell’Emirato dell’Afghanistan fondato dai talebani. Per come stanno andando le cose – Kabul è quasi sotto assedio – ho l’impressione che dovrò rispolverarlo. L’Emirato dei talebani, quello dove si mozzavano le teste, è già risorto. Dopo il ritiro delle truppe americane e straniere dal Paese è sempre più concreto il rischio di un caos inarrestabile. I talebani stanno avanzando quasi ovunque, hanno già recuperato ampie porzioni di territorio ed è questione di mesi, se non settimane, prima che conquistino anche la capitale Kabul. Le fragili strutture di sicurezza afghane non sembrano in grado di reggere l’impatto dell’offensiva. L’esercito di Kabul, costato miliardi di dollari americani e di aiuti occidentali (molti anche nostri), si sta squagliando e non pare in grado di resistere di fronte a un’avanzata che, venuto meno il sostegno delle truppe straniere, appare senza freni e opposizione alcuna. Un’ulteriore prova si è avuta nelle ultime ore: oltre un migliaio di soldati afghani, costretti a confrontarsi con i guerriglieri islamisti, hanno preferito fuggire nel vicino Tajikistan. I talebani si sentono ormai padroni della situazione: è la prova lampante dell’enorme fallimento occidentale. Hanno anche minacciato ritorsioni nel caso in cui soldati stranieri rimanessero nel Paese dopo il prossimo settembre, mese in cui è previsto il completamento del ritiro delle truppe della Nato. “Se le forze straniere saranno lasciate nel Paese, violando l’accordo di Doha, sarà la nostra leadership a decidere come procedere”, ha avvertito il portavoce Suhail Shaheen in una intervista alla Bbc, descrivendo l’attuale governo afghano come “moribondo”. Per Shaheen, inoltre, l’Afghanistan è un “emirato islamico”: la conferma, dunque, che il gruppo prevede di dare una base teocratica al governo e che si guarderà bene dall’accettare la richiesta di indire elezioni. Le minacce di ritorsioni nei confronti dei militari stranieri che resteranno nel Paese è stata l’immediata risposta dei talebani alle voci secondo le quali un migliaio di soldati statunitensi potrebbero rimanere nel Paese, insieme ai turchi, per presidiare le ambasciate e l’aeroporto di Kabul. Ma gli stessi militari americani sono disorientati e, almeno in apparenza, privi di ogni strategia. “Mi piacerebbe non dover voltare le spalle al popolo afghano, aveva detto domenica il generale Austin Scott Miller, comandante della coalizione Nato in Afghanistan. Pochi giorni fa l’alto ufficiale americano aveva messo in guardia dal rischio di lasciare il Paese ai talebani che stanno rapidamente riguadagnando terreno. L’offensiva dei talebani negli ultimi due mesi è stata imponente: hanno riconquistato decine di distretti in varie zone del Paese, mai così tanti in uno spazio così limitato di tempo. Nelle ultime ore il gruppo fondamentalista islamico ha conquistato anche il distretto chiave di Panjwai, nella sua ex roccaforte di Kandahar, la vera capitale dell’Emirato afghano dove risiedeva anche il Mullah Omar. I talebani invece avevano preparato da tempo i loro piani di guerra. L’offensiva per riconquistare territori nelle aree rurali del Paese è in corso dai primi di maggio, quando gli Stati Uniti hanno avviato il loro ritiro definitivo, il cui completamento è atteso per fine agosto. La caduta di Panjwai arriva due giorni dopo che le forze Usa e Nato hanno lasciato la base aerea di Bagram, vicino Kabul, da dove hanno guidato per due decenni le operazioni contro i talebani e i loro alleati di al-Qaeda. Nelle ultime settimane, i combattimenti si sono intensificati in diverse province: i talebani hanno annunciato di avere il controllo di oltre 100 dei quasi 400 distretti del Paese. Le autorità nazionali e l’ufficio del presidente Ashraf Ghani, un passato da economista e antropologo, hanno contestato la cifra ma hanno ammesso di essersi ritirati da diverse zone. E con la partenza delle forze straniere da Bagram, la base aerea da cui gli Usa fornivano vitale sostegno all’esercito afghano, ha alimentato i timori che i talebani possano intensificare ulteriormente la loro offensiva anche su Kabul. Il presidente americano Biden ha confermato di voler completare il ritiro entro l’11 settembre, anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle, ma probabilmente gli Usa vogliono ulteriormente accelerare i tempi. E adesso si pone l’interrogativo di chi possa prenderne il posto, anche se la Russia ha smentito che stia considerando l’opzione di inviare truppe. Nell’ultima settimana è diventata più concreta la possibilità che la Turchia si faccia carico della sicurezza dell’aeroporto di Kabul: una missione complicata e allo stesso tempo fondamentale per la stabilità dell’Afghanistan, tenendo conto che l’aeroporto costituisce un punto strategico da sempre nel mirino dei talebani, snodo fondamentale per missioni umanitarie, convogli diplomatici e visite ufficiali da parte del traballante governo afgano. La perdita dell’aeroporto segnerebbe la fine del governo di Kabul. Per evitare un fallimento completo gli americani probabilmente ricorreranno a Erdogan, l’unico leader e membro della Nato che ai tempi negoziò direttamente con l’Isis e che ha utilizzato i combattenti jihadisti in tutte le sue operazioni militari recenti, dalla guerra in Siria, all’occupazione della Tripolitania in Libia, all’offensiva contro gli armeni, insieme agli azeri nel Nagorno-Karabakh. Il più radicale ed estremista esponente della Nato adesso torna di nuovo utile: al di là della retorica, in realtà si continua a legittimarlo pienamente. Così è stato raggiunto un accordo verbale tra Biden ed Erdogan durante l’ultimo vertice dell’Alleanza atlantica e pochi giorni più tardi, in una visita ad Ankara una delegazione americana ha fatto pressioni perché la Turchia si faccia carico da sola della sicurezza dell’aereoporto di Kabul continuando una missione iniziata nel 2013, ma al fianco degli eserciti di Usa, Francia e Ungheria. Il punto critico è che il ritiro occidentale ha accelerato la demoralizzazione delle forze afghane, anche perché senza il loro appoggio aereo diventa più difficile rifornire e sostenere gli avamposti più remoti. E così in alcune aeree è cominciata la grande fuga dei soldati afghani. La fuga è stata scatenata dagli scontri in corso nella provincia del Badakhstan. Le autorità tagike hanno spiegato che i 1.037 soldati sono riparati oltre confine per “salvarsi la vita” mentre i combattimenti hanno raggiunto la periferia di Faizabad, la capitale del distretto, una città di 2,8 milioni di persone. Alla base militare di Bagram – già centro dell’occupazione sovietica conclusa nel 1989 – stazionavano 100mila soldati ma adesso nel cuore pulsante dell’invasione Usa non resta nulla, neppure l’acqua e luce per la prigione. Gli americani l’hanno abbandonata di notte, così all’improvviso che tanta gente è entrata nella base rubando quel che poteva prima che arrivassero le forze afghane. I russi quando si ritirarono lo fecero via terra, di giorno, sotto gli occhi della popolazione e dei reporter di tutto il mondo. Degli americani di Bagram gli afghani hanno sentito soltanto gli aerei che decollavano.

Afghanistan tra Jihad e clero, i nuovi talebani sul modello Iran. Antonio Giustozzi su La Repubblica il 13 agosto 2021. I talebani sono visti come i discendenti del movimento del Mullah Omar, ma in realtà molto diversi. Molta acqua è passata sotto i ponti e pochi dei talebani di allora sono ancora vivi. Molti gruppi etnici e tribù che poco avevano avuto a che fare con i talebani in passato, ne sono oggi parte integrante. Il loro leader attuale, Haibatullah Akhund, 60 anni, viene dal sud come il leggendario Mullah Omar, ma non ha un passato di combattente. È molto meglio preparato di Omar dal punto di vista teologico e non è un capo carismatico, piuttosto un mediatore tra le diverse componenti del movimento. Il suo progetto di stato, che sta ancora prendendo forma, si avvicina al modello iraniano, nel tentativo di riconciliare il clericalismo dei talebani con istanze di altra origine. I talebani sono, in ultima analisi, il prodotto dell’ipertrofia clericale alimentata dagli anni ’80 in poi dai finanziamenti esterni ai gruppi che combattevano contro il regime pro-sovietico e le forze armate sovietiche. I vari gruppi d’opposizione, tutti più o meno di matrice islamica, utilizzavano i mullah come quadri per l’irreggimentazione ideologica della popolazione nelle aree sotto il loro controllo e investivano massicciamente nella formazione di seminari religiosi, per espandere la capacità di preparare i mullah. Nel corso del tempo si è creata la base sociale per un regime clericale, favorito anche dalla costante diminuzione, dagli anni ’90 in poi, dei finanziamenti esterni a favore del clero. Il movimento dei talebani si è espanso attraendo queste reti clericali, orfane dei loro sponsor originali. Dopo il 2001 i talebani hanno cominciato anche ad attrarre vari gruppi di miliziani delusi ed emarginati dal nuovo regime, installatosi dopo l’intervento americano. La massa dei miliziani mobilitati per le guerre degli anni ’80 e ’90 rappresenta un’altra “nuova classe” desiderosa di proteggere i propri interessi e in cerca di nuovi referenti politici. Pur avendo combattuto i talebani per molti anni, anche questa “nuova classe” si è andata pian piano avvicinando a loro. Nel corso della loro quasi ventennale insurrezione, i talebani hanno anche cominciato a condividere spazi con una varietà di gruppi criminali e reti sotterranee, dedite a tutti i tipi di traffici, soprattutto di droga. In questo modo, hanno creato solidi rapporti con questa parte della “società civile” afgana e si sono create una fonte di finanziamenti aggiuntiva. Nel corso degli anni, questi interessi “ombra” sono diventati sempre più influenti all’interno dei talebani. Tutti oggi si chiedono se e in che modo i talebani siano cambiati ideologicamente, rispetto al rigido regime clericale che fu l’Emirato Islamico del 1996-2001. Dalla loro area di origine nel sud dell’Afghanistan, i talebani hanno incorporato molti membri di vari partiti ispirati alla Fratellanza Musulmana nell’est, nel nord e nell’ovest del paese. L’ideologia di questi gruppi ha alcuni elementi in comune con quella dei talebani, in particolare il principio che il governo debba basarsi sulla legge islamica. Ci sono però anche differenze significative, prima tra le quali il fatto che i Fratelli Musulmani non sono “clericali” e credono invece che debba essere l’intellighenzia islamica (ovvero i quadri dei partiti islamisti) a governare il paese. Sebbene queste componenti relativamente nuove dei talebani abbiano appena cominciato a ricevere rappresentanza al livello superiore dell’organizzazione dei talebani, la cultura politica di cui si fanno portatrici ha inevitabilmente un impatto. I talebani hanno dovuto cambiare anche per sopravvivere alla pressione militare degli Americani e dei loro alleati occidentali. La loro organizzazione è cambiata considerevolmente. Lo stile autocratico del Mullah Omar è stato abbandonato dopo il 2001 ed è stato rimpiazzato da un sistema di leadership collegiale, incentrato attorno alla Rahbari Shura (Consiglio della leadership), una sorta di “politburo” dei talebani. Il leader deve interagire con i suoi pari e non può prendere decisioni solitarie, senza pagare un elevato prezzo politico. Il più grande successo organizzativo dei talebani è stata la loro abilità nel costruire uno stato ombra sulla base di queste variegate “reti di reti” che rappresentano la base sociale del movimento. Negli ultimi anni hanno creato una forma armata ibrida, capace di compiere complesse manovre militari e di affrontare con successo le forze armate afgane. La domanda che più ci si pone è se i talebani si siano in qualche modo ammorbiditi ideologicamente nel corso degli ultimi 20 anni. Molti giornalisti hanno posto domande di questo tipo a quei comandanti e capi dei talebani che sono riusciti a raggiungere, di solito figure junior. Non sorprende che il profilo ideologico degli intervistati in larga misura mostri poca evoluzione rispetto alle rigidità degli anni ’90. In fin dei conti, non potevano essere dei “moderati” quelli che nel corso degli anni si sono arruolati nei talebani per fronteggiare le bombe e le tecnologie americane. Agli alti livelli della gerarchia dei talebani le cose sono un po’ diverse. Non è tanto che ci sia stato un ammorbidimento in quanto tale, ma si è certamente sviluppato un considerevole pragmatismo. Già del 2005 i talebani, bisognosi di assistenza, avevano accettato di stabilire rapporti (a quell’epoca ancora allo stato embrionale) col loro vecchio nemico, l’Iran sciita. Quei rapporti sono poi fioriti in anni più recenti. Una dose di pragmatismo ancora più elevata è stata mostrata quando nel 2015-16 i talebani hanno cominciato a stringere relazioni con la Russia. Mentre l’Iran, tutto sommato, ha per lo più avuto relazioni decenti con i qaedisti ed è pur sempre rispettato in molti ambienti jihadisti per il suo impegno contro Israele, la Russia viene vista come un nemico giurato di tutti i jihadisti, alla pari dell’America, se non di più. La mossa della leadership dei talebani fu molto dibattuta internamente all’inizio, ma nondimeno andò avanti e sbocciò in un legame alquanto stretto tra Russia e talebani, che oggi vedono nella Russia uno dei loro tre alleati principali (dopo Pakistan ed Iran). I capi politici dei talebani pertanto sono capaci di pragmatismo. Piuttosto che sperare nell’improbabile “ammorbidimento” dei talebani come risultato di una guerra feroce, che è costata ai talebani almeno 100mila morti, sarebbe probabilmente più realistico contare sul loro pragmatismo. I talebani dovranno pur affrontare il problema di come tenere a galla un’economia devastata e per questo hanno bisogno di tenere i confini aperti ed anche di continuare a ricevere aiuti esterni. È improbabile che i siano disposti a concessioni più che modeste su questioni come i diritti delle donne, ad esempio. Su questioni come i loro rapporti di lunga data con i qaedisti, invece, concessioni più significative sono più probabili, in cambio di riconoscimento e legittimazione internazionale. In ultima analisi, i dibattiti interni tra i talebani e i loro rapporti in fase di consolidamento con vari gruppi islamisti afgani (futuri alleati in un governo di coalizione) suggeriscono che i talebani si muoveranno verso un regime simile a quello iraniano, senza peraltro mai riconoscere la parentela per non irritare gli elementi più ostili all’Iran, che rimangono all’interno dei loro ranghi. Non potrà quindi essere un completo clone, anche perché i talebani, prigionieri della dottrina sunnita, mai potranno produrre qualcosa sul tipo del cosiddetto Velayat Faqih - l’innovazione teologica di Khomeini che restringe il ruolo di Guida Suprema della Repubblica Islamica dell’Iran ad esponenti del clero. Tuttavia, un adattamento di quel modello potrebbe conciliare sia le istanze clericali dei talebani che le richieste dei Fratelli Musulmani, che saranno probabilmente i principali futuri partner di governo dei talebani. 

Antonio Giustozzi, senior research fellow al Rusi di Londra e affiliato al King’s College, comincia con questo articolo una collaborazione con Repubblica. Tra i suoi libri, Taliban at war (2019), The Islamic State in Khorasan (2018) e Decoding the New Taliban (2009)

L'entrata a Kabul. Chi sono i talebani, il gruppo di fondamentalisti islamici che stanno riconquistando l’Afghanistan. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Agosto 2021. I talebani sono entrati stamattina a Kabul, capitale dell’Afghanistan, e il Paese è ormai in mano al gruppo di fondamentalisti islamici. Come vent’anni fa, come prima di quell’intervento degli Stati Uniti, a seguito degli attacchi dell’11 settembre, che sollevò il regime teocratico imposto dagli “studenti di Dio”. Lasciano le ambasciate gli americani e anche gli italiani – il cui volo di rientro è in partenza stasera alle 21:00. La ritirata viene raccontata come un nuovo Vietnam per Washington. I talebani stanno facendo sapere in queste ore che l’ordine è “di attendere alle porte della città, ma senza entrare” secondo il portavoce Zabihullah Mujahid e di non prendere la capitale con la forza. I negoziatori sono diretti al Palazzo Presidenziale per il trasferimento “pacifico” dei poteri. La Cnn riporta che otto o nove delegati sono al Palazzo Presidenziale. Si va verso un governo di transizione. I talebani hanno anche assicurato che le persone che vorranno partire potranno farlo e che i diritti delle donne saranno rispettati, compreso il loro diritto all’istruzione. Garanzie che arrivano in ore febbrili e terribili: nei giorni scorsi, durante l’avanzata sulle città del Paese, sono state raccontate le violenze su civili e avversari con uomini sgozzati e liste di donne nubili.

Le origini dei talebani. Talebano in lingua pashtun – la seconda più parlata in Afghanistan dopo il dari – vuol dire “studente”. Studente del corano. E indica un gruppo di fondamentalisti islamici che si sono formati nelle scuole coraniche tra Afghanistan e Pakistan, le cosiddette madrasse. La nascita del movimento di etnia prevalentemente pashtun risale al 1994, nella città di Kandahar, dal mullah Mohammed Omar. Le divisioni tra i mujaheddin favorirono l’ascesa rapida del gruppo. Gruppo che si armò subito e che conquistò la città di Kandahar e Kabul. Anche l’appoggio della popolazione favorì la loro ascesa e questo perché il gruppo – in un Paese nel caos, spezzato tra etnie e clan – aveva cercato provato una forma di welfare: riorganizzazione della società, miglioramento della viabilità, stimoli all’economia. L’Afghanistan era un Paese ancora in ginocchio da quell’invasione del 1979 da parte dell’Unione Sovietica che rappresentò un pantano per la stessa Armata Rossa. Lo stesso Mullah Omar aveva combattuto con i guerriglieri di ispirazione islamica, i mujaheddin, contro i sovietici. Dopo la conquista di Kabul i talebani istituirono l’Emirato Islamico dell’Afghanistan, senza un capo politico vero e proprio ma con sotto la leadership del Mullah Omar. Il 90% del Paese venne conquistato nel giro di due anni. A riconoscere l’Emirato soltanto gli Emirati Arabi Uniti, il Pakistan e l’Arabia Saudita. Quella dei talebani era una teocrazia autoritaria: venne imposta la sharia, la legge islamica, nella sua forma più rigida, con punizioni ed esecuzioni pubbliche; gli uomini avevano l’obbligo di farsi crescere la barba, le donne di indossare il burqa; la televisione, la musica e il cinema vennero vietate; alle donne fu vietata la guida di bici, moto, auto e l’uso di cosmetici e gioielli. I Buddha di Bamiyan, enormi statue nella roccia a circa 250 chilometri da Kabul, vennero distrutti nel marzo del 2001 perché raffigurazioni contrarie alla legge islamica.

L’appoggio ad Al Qaeda. Come il Mullah Omar anche Osama Bin Laden, saudita, figlio di un ricco costruttore dello Yemen, aveva avuto un ruolo centrale nella guerra contro l’invasione dell’URSS. Fondò all’inizio degli anni Novanta l’organizzazione terroristica Al Qaeda, le cui basi furono ospitate proprio in Afghanistan. Dopo gli attacchi in Kenya e Tanzania quelli dell’11 settembre agli Stati Uniti – furono colpite le Torri Gemelle a New York e la sede del Pentagono. Meno di due mesi dopo il regime talebano veniva rimosso con l’operazione Enduring Freedom. Molti talebani fuggirono in Pakistan dove si riorganizzarono grazie soprattutto alla connivenza con i servizi segreti di Islamabad. Il Mullah Omar è morto nel 2013, il Consiglio Supremo dei talebani è diventato la Shura di Quetta, le vittime dell’organizzazione rimpiazzati costantemente con nuove reclute. Da anni avevano ripreso il controllo di alcune zone e messo in atto attacchi terroristici. Non sono mai stati sconfitti del tutto. A febbraio 2020 hanno firmato un accordo di pace con gli Stati Uniti, a Doha, capitale del Qatar, che prevedeva il ritiro graduale di circa 13mila soldati in Afghanistan e la liberazione di circa cinquemila prigionieri. Il gruppo aveva promesso di diminuire il numero di attacchi e di non rendere di nuovo il Paese una base e un porto sicuro per i jihadisti. Il Presidente americano Joe Biden, entrato in carica a gennaio 2021, ha confermato il ritiro statunitense. “Adesso tocca agli afghani combattere per l’Afghanistan”, ha detto solo qualche giorno fa. La debolezza del governo afghano e dell’esercito hanno permesso ai talebani di avanzare senza intoppi e senza resistenze. La caduta di Kabul era stata calcolata in sei, poi in tre mesi, e invece la città è stata circondata già da ieri. I talebani avevano ricominciato a guadagnare terreno nel 2015. A spingere gli “studenti” anche l’avanzata anche del sedicente Stato Islamico; lo scontro tra i due gruppi è stato piuttosto forte nel Khorasan. Non è chiaro se i talebani siano in grado di contrastare e contenere lo Stato Islamico in Afghanistan, al momento noto con la sigla Islamic State Khorasan Province, ISKP.

Chi sono i talebani oggi. Domenico Quirico, storico inviato di guerra de La Stampa, ha scritto oggi un articolo sugli “studenti di Dio che hanno sconfitto l’Occidente”; una lunga e appassionata riflessione sui talebani e su quello che sta succedendo in questi giorni in Afghninstan: “Trent’anni dopo sono mutati i capi e i guerriglieri. I capi trattano alla pari con i dirigenti cinesi, ormai più dell’oppio i loro maggiori finanziatori. Pechino ha progetti ambiziosi su questa parte della Via della Seta ora che gli americani sono fuggiti. I combattenti sono reclutati nelle zone marginali del Paese, le più povere e dimenticate da un potere centrale che non ha mai usato i dollari americani per ricostruire uno Stato. Venti anni di occupazione americana, invece di ridurre le distanze sociali tra i clan dei ricchi manipolano i prezzi e le classi povere, le hanno moltiplicate. I nuovi taleban non sono più in maggioranza studenti arrabbiati che non riescono a diventare ulema, ma i senza lavoro, giovani che inseguono una avventura, o la vendetta, inselvaggiti dagli innumerevoli danni collaterali delle nostre indifferenti guerre per la democrazia. Arruolati sfruttando le solidarietà claniche e famigliari, i legami sociali”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Domenico Quirico per “La Stampa” il 16 agosto 2021. Ora che la sconfitta è vicina, (la parola la si sussurra, come il mormorio di chi non ha più speranza), è il momento di ammetterlo: l’America, l’Occidente sono rimasti venti anni in Afghanistan, hanno condotto una guerra, scelto e gettato via alleati e governanti, distribuito denaro (150 miliardi dollari l’anno), ucciso migliaia di persone, sulla base di una antropologia immaginaria, bizzarra, affettata, gracilina, tutta agghindata di mediocri astuzie, pretenziosa. Una bugia della distanza e della semplificazione, verità di favola che dava una forma confortante ai nostri desideri. Insomma: non sappiamo chi sono davvero i taleban che ci hanno cacciati via, sono rimasti qualcosa di inaccessibile e di oscuro. Intendo quali classi sociali rappresentino, se tra loro prevalga alla fine il fanatismo wahabita o il nazionalismo jihadista, dove reclutino martiri e guerrieri come se bastasse, mitologicamente, battere il piede per terra. Perché, ridotti a turbe di fuggiaschi sconfitti del 2002, siano diventati la bufera che si sta avvicinando a passi di lupo alla capitale. Intorno a loro ora tutto è sbandamento, dubbio, esitazione logorio e fuga.

Chi sta a guardare. In Afghanistan bisogna un po’ morire per poter resuscitare davvero. Le guerre si vincono nella testa di quelli che stanno a guardare, convincendo chi tentenna. Quelli che non hanno dubbi son pochi, non se ne ricavano eserciti. Per venti anni anche nella narrazione ci siamo accontentati della parola: taleban. Bastava. Era anche troppo: i taleban, sì, i fanatici, i nemici delle donne, gli iconoclasti di Bamyan. Che altro c’è da dire? Perché non si perde tempo a far la sociologia del Male. Che invece spesso è provvidenziale. Si esita a esplorare, ci si concentra sulla propria ripugnanza. Ci bastavano le fotografie di barbuti avvolti in clamidi miserande, in pose minacciose con i loro Kalashnikov. Confessiamolo: al di là del folklore e della storia non ci siamo mai veramente occupati di chi siano gli afghani; non erano infatti i loro guai la ragione per cui eravamo andati in Afghanistan. Dai militari e dalle cancellerie, ma ahimè anche dall’Onu e molte Ong, l’Afghanistan è stato maneggiato sulla base di programmi che non avevano presa nella realtà ed erano legati semmai alle supreme esigenze della Sicurezza universale, la nostra. Al resto provvedeva il mediocre abracadabra di slogan «democratici». Abbiamo dato fondo laggiù a tutte le forme storiche che l’Occidente possiede. E invece il fondamentalismo è una componente chiave delle élite afghane. I taleban sono una parte dell’Afghanistan. 

Le leggi e il credo. All’inizio di tutto c’è sempre la guerra, il vivere immersi da decenni ogni giorno nella violenza. È qualcosa che muta antropologicamente, che forma e deforma. I taleban come tutti i ribelli, sono persone che a dispetto dei conquistatori, i russi prima, gli occidentali poi, vivono secondo le proprie leggi e il proprio credo, si avvolgono delle loro tragedie e leggende, e con questo fanno la Storia. Hanno rischiato di essere annientati per non violare il codice detto «htoun wali» che impone ai pashtun di proteggere e non consegnare al nemico un ospite: era Ben Laden, era il 2001. Sarebbe stata una scelta su cui meditare. Un amico afghano mi ha raccontato che in questi giorni i guerriglieri hanno conquistato, tra le tante città, la capitale di un famoso signore della guerra, uno di quei capitribù corrotti, crudeli, mescolati ai loschi traffici della droga a cui gli americani affidarono venti anni fa la guerra ai taleban per vincerla a buon mercato. E a cui sciaguratamente ora pensano di delegare la resistenza. Ebbene: hanno girato un video che hanno poi diffuso nei loro canali di comunicazione (i primitivi taleban, i distruttori di musicassette che maneggiano videocamere, c’è da riflettere): hanno filmato il palazzo del notabile, un monumento allo sfarzo e allo spreco da quattro milioni di dollari, le scuderie dove cento purosangue ruminavano pastoni costosi. E poi, alternate, immagini della città, una delle più derelitte del Paese. I comandanti taleban non hanno palazzi, vivono mescolati ai loro miliziani, ne condividono le povere abitudini. 

Il consenso della gente. Alla fine del Novecento i taleban del mullah Omar erano reclutati tra gli studenti delle madrase, delle scuole coraniche, e tra i contadini della cintura tribale pashtun, arruolati e armati dai Servizi pachistani, quelli della ammagliante ma sciagurata Benazir che cercava in Afghanistan alleati che fossero pashtun e fondamentalisti. Taleban: definirsi vuol dire cominciare a separarsi. Divennero un temibile movimento politico militare in un Paese dilaniato da una guerra etnica che opponeva i pashtun a tagiki, uzbeki e hazara, ogni campo appoggiato logisticamente e politicamente da soggetti stranieri. Nel 1996, per la prima vittoriosa marcia su Kabul, sfruttarono il vuoto creato da quel caos e la rabbia della maggioranza per essere stata esclusa dal potere. La durezza della sharia, la paura per i loro metodi spietati, servì per piegare l’anarchia violenta dei capi tribali, riaprire la circolazione sulle strade del Paese. La gente chiedeva ordine e sicurezza, ad ogni costo. Uno scenario che abbiamo visto in altri luoghi della rivoluzione islamica.

Le mani di Pechino. Trent’anni dopo sono mutati i capi e i guerriglieri. I capi trattano alla pari con i dirigenti cinesi, ormai più dell’oppio i loro maggiori finanziatori. Pechino ha progetti ambiziosi su questa parte della via della seta ora che gli americani sono fuggiti. I combattenti sono reclutati nelle zone marginali del Paese, le più povere e dimenticate da un potere centrale che non ha mai usato i dollari americani per ricostruire uno Stato. Venti anni di occupazione americana, invece di ridurre le distanze sociali tra i clan dei ricchi che manipolano i prezzi e le classi povere, le hanno moltiplicate. I nuovi taleban non sono più in maggioranza studenti arrabbiati che non riescono a diventare ulema, ma i senza lavoro, giovani che inseguono una avventura, o la vendetta, inselvaggiti dagli innumerevoli danni collaterali delle nostre indifferenti guerre per la democrazia. Arruolati sfruttando le solidarietà claniche e famigliari, i legami sociali. Su cui è modellata la loro organizzazione militare e politica. In ogni villaggio una cellula costituita da pochi quadri, alcune decine di combattenti a tempo parziale, e fiancheggiatori ben motivati. Religiosi e anziani assicurano che le decisioni siano accettate dalla popolazione. La Shura suprema detta la strategia complessiva. Il mondo a cui gli occidentali, nonostante una zuccherosa propaganda fitta di soldati che distribuiscono caramelle, sono sempre rimasti estranei, nemici. E poi il nazionalismo afghano, integrale, che spesso si riduce al potere dei morti sui vivi. Quella che non è cambiata, purtroppo, è la loro idea del mondo, teologicamente totalitaria. Senza la quale non esisterebbero. Ma quando abbiamo accettato la sconfitta ne eravamo consapevoli.

Domenico Quirico per “la Stampa” il 17 agosto 2021. La parola più vera, la parola più esatta, quella più densa di significato per questo Otto Settembre afghano è la parola interesse. L'ha pronunciata il segretario di Stato americano: restare in Afganistan non è nel nostro interesse. Dando un nome alle cose si rischia di ferirle in mezzo al cuore con un colpo irrimediabile. Ho provato a immaginare un afghano all'aeroporto di Kabul impegnato in una caparbia opera di sopravvivenza, con i taleban all'uscio, collerici, farnetichi, sentenziatori di morte, vittoriosi. O uno di quelli che vivono nascosti perché sanno che i taleban stanno spuntando i nomi nelle liste abbandonate dagli occidentali, e si sentono già imputati in bieche aule di tribunali supremi, da impietose inquisizioni. In poche ore il mondo nuovo si è dissolto di colpo nelle profondità di campo del tempo. E quello che rimane loro è la frase del segretario di Stato americano, uno di quelli che avevano promesso di buttar giù a spallate la loro storia medioevale. Si dovrebbe scrivere come si respira. Un respiro armonioso, con le sue lentezze e i suoi ritmi all'improvviso affrettati. Ma come si fa a non ruggire di fonte a una così sfacciata, volgare manifestazione di nichilismo interiore? Raramente si è visto qualcosa di più anchilosato, rabberciato, malfatto di questa vile ritirata, di più vanitoso, lercio e appunto interessato di questo tradimento. Che il buio risorga Fa capolino già la successiva vergogna, cancellare gli afghani dalla memoria, si appronta il cassetto dove riporli accanto ai vietnamiti, ai cambogiani, ai somali, ai curdi e agli iracheni. In Occidente i perseguitati non hanno fortuna, non suscitano simpatie perché sono deboli. A Kabul il nostro mondo, esportato a forza, provvisorio, tarlato, è crollato in poche ore. Ma era da tempo che noi ce ne andavamo con i nostri pregiudizi, i nostri soldati invincibili, i canti e le bandiere. Non abbiamo nemmeno provato, per nasconder la vergogna della sconfitta, a stendere la mano a coloro che sono rimasti lì, per cui non ci sarà nessun ponte aereo, nella speranza che non la rifiutassero con troppo disgusto: che avete fatto perché noi si sia meno infelici? Ci chiederanno essi: che cosa avete fatto perché vivessimo in pace? In un altro luogo del mondo dove perdiamo altre guerre, il Sahel, un vecchio con l'aria vigorosa e tranquilla di un menhir, a cui daresti dieci secoli, che ha la giovinezza e la serenità di una montagna, mi disse sospirando: voi occidentali non avete amici, avete soltanto interessi Già: gli afghani gli darebbero adesso ragione. Il loro peccato è di essere soltanto esseri umani, troppo poco per diventare interessi, per questa trasmutazione non sono bastati venti anni. Dietro ognuno, anche quelli che non ci amavano, sì, anche i taleban, c'è una identità: retti, astuti, malvagi, pratici, dolci, autoritari, fanatici, secoli di fatiche durissime tra quelle pietre li hanno induriti. Invece sono rimasti ombre anonime e scialbe che si possono abbandonare, in fondo senza nemmeno l'ingombro di troppi rimorsi. Eppure loro eravamo noi, il loro destino eravamo noi. C'è in questa realpolitik così sguaiata un rischio mortale. I nostri proclami sono ormai cose morte ma non mute. Testimoniano, accusano. Chi dopo questo tradimento così esplicito presterà ancora fede alle nostre parole, chi penserà che i nostri annunci di democrazia, tolleranza, la nostra magnifica parola diritti, siano altro che polvere se non coincide con i nostri interessi? Dove troveremo alleati visto che cerchiamo solo caudatari e complici provvisori? Le assonanze tra Kabul e Saigon, tra la fuga dal Vietnam e quella dall'Afghanistan assordano: la trattativa con l'Arcinemico fino a un minuto prima impronunciabile, il ritiro, gli alleati locali lasciati soli con satrapi balbettanti e corrotti, con eserciti fatiscenti e abituatati a far da comparse, regimi che si sciolgono, presidenti che fuggono, divise e armi gettate via, gli elicotteri, sempre loro, che portano via i nostri e, se c'è posto, anche qualcuno di loro. La stessa domanda: perché i loro combattono e i nostri no? E' solo a distanza di cinquant' anni la replica della stupidità militare di qualche nuovo impomatato Westmoreland? No. E' un metodo.

Chi comanda tra i Talebani.

IL LEADER SUPREMO DEI TALEBANI È USCITO ALLO SCOPERTO. (ANSA-AFP il 31 ottobre 2021) - Il misterioso 'leader supremo' dei talebani, il mullah Hibatullah Akhundzada, la cui apparizione pubblica non era mai stata ufficializzata dalla sua nomina nel 2016, ha preso parte a una cerimonia ieri sera a Kandahar, nell'Afghanistan meridionale. Lo hanno reso noto funzionari talebani. "Il comandante dei credenti, lo sceicco Hibatullah Akhundzada, è apparso in un grande raduno presso la famosa madrassa Hakimiya e ha parlato per dieci minuti con i valorosi soldati e discepoli", ha dichiarato oggi il governo talebano con un messaggio audio a sostegno. In questa clip audio diffusa, si sente il mullah può recitare preghiere e benedizioni indistinte. Secondo una fonte locale, Akhundzada è arrivato in questa scuola coranica a Kandahar con un convoglio di due auto sotto massima sicurezza e non sono state autorizzate fotografie. Dopo essere rimasto a lungo in silenzio su dove si trovasse, i talebani hanno annunciato a settembre che Akhundzada aveva vissuto "fin dall'inizio" a Kandahar e sarebbe apparso "presto in pubblico". Dopo essere salito al potere, il mullah Akhundzada ha rapidamente conquistato la lealtà dell'egiziano Ayman al-Zawahiri, il leader di al-Qaeda, che lo ha definito un "emiro dei credenti", rafforzando così la sua credibilità nel mondo jihadista e nell'universo sunnita. Nella sua funzione di "leader supremo", Akhundzada è responsabile del mantenimento dell'unità all'interno del movimento islamista, una missione complessa poiché le lotte interne che hanno fratturato per anni il movimento jihadista persistono dal loro ritorno al potere a metà agosto.

Chi sono i signori della guerra che controllano i destini dell’Afghanistan. Mauro Indelicato su Inside Over il 15 settembre 2021. La storia dell’Afghanistan è stata scandita negli ultimi 40 anni dal ruolo dei cosiddetti “signori della guerra”. Un termine coniato già negli anni ’90 per quelle figure che hanno guidato e comandato brigate, fazioni e singoli gruppi di combattenti. Buona parte di loro sono figli del conflitto contro l’invasione sovietica. É durante le battaglie condotte tra il 1979 e il 1989 a danno dei soldati inviati da Mosca che i signori della guerra hanno acquisito fama, prestigio, soldi e territorio. Ancora oggi il loro appoggio risulta fondamentale. Lo Stato afghano nato dopo il 2001 con l’intervento Usa ha dovuto includere molti ex capi combattenti per poter controllare intere province e anche i talebani, negli ultimi mesi per avanzare hanno dovuto concludere molti accordi per evitare bagni di sangue.

I principali signori della guerra. I nomi sono ben noti e dalla fine degli anni ’80 tirano le sorti di ogni governo che ha provato a controllare Kabul. Forse il più noto è colui che ha fondato il Partito Islamico, dando un forte impulso ai mujaheddin durante la guerra contro l’Urss. Si tratta di Gulbuddin Hekmatyar, più tristemente conosciuto come “il macellaio di Kabul”. La sua storia è emblematica del percorso politico e militare compiuto dai signori della guerra. Dopo essersi affermato come uno dei leader della guerriglia anti sovietica, Hekmatyar ha continuato il conflitto con il proprio gruppo di combattenti islamisti per prendere Kabul. Per la verità la sua fazione contro i soldati Urss non ha mai ottenuto significativi successi militari, ma era comunque riuscita ad ottenere ingenti somme di denaro dal Pakistan, dall’Arabia Saudita e dagli Stati Uniti. Il giornalista statunitense Peter Bergen in alcune sue inchieste ha parlato di almeno 600 milioni di Dollari Usa girati in appoggio di Hekmatyar. Con quelle cifre dal 1992 al 1996 il leader islamista ha assediato Kabul, bombardandola ripetutamente fino al primo arrivo dei talebani. In quel periodo, secondo diverse fonti di intelligence è stato proprio lui a far entrare Osama Bin Laden in Afghanistan. Dopo un periodo di esilio, nel 2017 il signore della guerra ha stretto un accordo con il governo di Ghani per un suo rientro nel Paese. Nelle ultime settimane il suo nome è apparso tra quelli dei membri di un possibile governo “inclusivo” con i talebani, circostanza poi non avveratasi. Appare però indubbia la sua influenza tra alcuni ambienti islamisti di Kabul e non solo. Chi nella capitale afghana si è recato alla vigilia del nuovo ingresso talebano dello scorso ferragosto è un altro noto signore della guerra. Si tratta di Ismail Khan, noto anche come “leone di Herat”. Anche lui è emerso dai meandri della guerra anti sovietica. Ha guidato i gruppi di combattenti della sua provincia di origine, di cui dopo il 2001 è diventato anche governatore. All’arrivo dei talebani ad Herat, è stato lui a mediare la consegna del territorio agli studenti coranici prima di volare a Kabul dove ha provato un’ulteriore mediazione con l’ex presidente Ghani. Chi invece ha riparato all’estero ad agosto è Abdul Rashim Dostum. Di etnia uzbeka, negli anni ’90 ha guidato interi battaglioni soprattutto nelle proprie roccaforti del nord dell’Afghanistan. Dalla sua comunità è visto come un protettore, ma altri hanno puntato il dito contro di lui per presunti crimini di guerra. Per diversi anni è stato tra i vice presidenti di Ghani, a conferma della sua influenza politica e militare. Adesso si troverebbe in Uzbekistan assieme alla sua famiglia. Nell’ultimo ventennio tra i signori della guerra ad avere un ruolo politico c’è stato anche il tagiko Mohammed Fahim, morto di infarto nel 2014 quando era vice presidente. Ci sono poi gli uomini della famiglia Haqqani. Il capostipite, Jalaluddin Haqqani, ha combattuto contro Mosca e poi ha costruito una vasta rete di guerriglieri legata a doppio filo anche ad Al Qaeda. Oggi il figlio Serajuddin è a capo del ministero dell’Interno nel neonato nuovo governo talebano.

Come nascono i signori della guerra. Questi sono soltanto alcuni dei nomi dei principali signori della guerra. Tanti altri hanno orbitato nell’intricato mosaico afghano e sempre dall’avvio della guerra anti Urss. Spesso la loro caratteristica è quella di essere rappresentanti di una determinata comunità, tanto etnica quanto religiosa. L’Afghanistan del resto è un Paese frammentato al suo interno, con un potere centrale raramente forte. Ogni gruppo si è quindi trincerato attorno a una guida. Ismail Khan, ad esempio, è un riferimento per quei tagiki che abitano nelle province occidentali, mentre Dostum, dalla fine degli anni ’80, è considerato una guida per la comunità uzbeka. Questo è uno dei motivi che pone ad esempio la figura del defunto generale Ahmad Massoud, anima della resistenza anti sovietica prima e anti talebana poi nella “sua” valle del Panjshir, a metà tra quella di un eroe e quella di un altro signore della guerra. Gli stessi talebani vengono visti come difensori degli interessi dei Pasthun, l’etnia predominante in Afghanistan. A prescindere quindi da chi prende il comando di Kabul, per governare il Paese il ruolo dei signori della guerra, capaci di controllare intere comunità e quindi interi territori, è imprescindibile. La mancata resistenza all’ultima avanzata talebana ne è stato un ulteriore esempio. Gli studenti coranici hanno potuto prendere il possesso dell’Afghanistan perché nessuna milizia ha deciso di ostacolare realmente il loro cammino. Eccezion fatta per i combattenti del Panjshir guidati dal figlio del generale Massoud. Non è detto però che in futuro non possano accadere ulteriori e clamorosi sconvolgimenti. Perché nel Paese asiatico la parola fine dipende spesso dalla volontà di singoli leader locali. 

Lorenzo Cremonesi per corriere.it il 16 settembre 2021. Non è la prima volta che un movimento rivoluzionario si ritrova diviso da laceranti lotte interne non appena riuscito a conquistare il potere. Ma certamente lo scontro che sta sbriciolando la coesione dei talebani, a poco più di una settimana dalla nascita suo nuovo «governo ad interim», comporta ripercussioni gravi per l’Afghanistan e per gli equilibri internazionali. Nell’ultimo paio di giorni hanno trovato diverse conferme le voci di un violento alterco, forse anche a colpi d’arma da fuoco, tra il fronte che per semplicità chiameremo «moderato» capeggiato dal vicepremier Abdul Ghani Baradar, e invece quello più radical-islamico legato al ministro degli Interni Sirajuddin Haqqani. Sui social locali, rilanciati soprattutto tra Kabul e Kandahar, si racconta che le tensioni erano cresciute già prima dell’annuncio del nuovo esecutivo lo scorso 7 settembre. Baradar, uno dei leader fondatori del movimento negli anni Novanta, ex prigioniero per 9 anni in Pakistan, quindi capo negoziatore a Doha con gli americani per l’accordo sul ritiro della coalizione internazionale in agosto, avrebbe voluto un governo davvero inclusivo. La Bbc riporta che le sue fonti concordano con l’essenza di ciò che tanti afghani hanno già letto sui cellulari. In sostanza, ci sarebbe stata una rissa nelle sale del palazzo presidenziale a Kabul. Baradar chiedeva nomine di esponenti più moderati, aperti all’eventualità di ministri donna, magari includendo esponenti di punta dei governi che hanno collaborato con gli americani. Suo fine sarebbe stato tra l’altro calmare i timori della comunità internazionale e lanciare segnali di apertura sulle questioni relative ai diritti delle donne e delle libertà individuali. Ma a lui si è opposto con durezza il muro intransigente del clan Haqqani. Gente ricercata dalla Cia e l’Onu per le sue collusioni col terrorismo jihadista. I giornalisti del canale pashtun della Bbc sono venuti a sapere che Baradar avrebbe scambiato frasi di fuoco sia con il neo-ministro degli Interni Salajuddin Haqqani che con Khalil ur-Rahman Haqqani, capo del dicastero per i Profughi e uomo di punta dell’apparato armato del clan, che tra l’altro è alleato storico dei servizi dell’intelligence militare pakistana. Secondo fonti non confermate, Baradar potrebbe essere addirittura morto, o comunque ricoverato in un ospedale di Kandahar. Al Corriere i portavoce della municipalità di Kandahar smentiscono. «Voi giornalisti stranieri dovete smettere di diffondere notizie false», ci ha detto il 40enne Hafez Nurachmad Said. Nel maggiore ospedale cittadino nessuno sa nulla. Altri esponenti talebani locali a sentire il nome di Baradar sono però impalliditi e hanno subito voluto cambiare discorso. In un confuso audio diffuso lunedì una voce sosteneva di essere Baradar e di trovarsi all’estero <per lavoro>. Ma il mistero s’infittisce. E non aiuta la vicenda simile del Mullah Haibatullah Akhunzada, leader spirituale del movimento dal 2016, dopo l’uccisione del suo predecessore per un missile sparato dai droni americani. Di lui si sono letteralmente perse le tracce. Non ci sono fotografie, non rilascia dichiarazioni. Anche nel suo caso, sono in tanti a pensare sia deceduto da tempo. Non sarebbe poi così strano. Non si dimentichi che il Mullah Omar, fondatore dei talebani, venne dichiarato morto nel 2015. Poi emerse che forse il decesso risaliva al 2013. Ma le circostanze restano misteriose.

Talebani, il «moderato» Baradar dato per morto: scontro a fuoco (con gli Haqqani) nel palazzo di Kabul. Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera il 15 settembre 2021. La formazione del nuovo governo ha visto un aspro scontro tra il vicepremier Baradar e il ministro dei Rifugiati, Haqqani: i seguaci si sarebbero presi a pugni, Baradar sarebbe rimasto ferito, e il leader dei talebani, Akhunzada — che non è mai stato visto in pubblico dopo la presa di Kabul — sarebbe «all’estero per viaggi di lavoro». Non è la prima volta che un movimento rivoluzionario si ritrova diviso da laceranti lotte interne non appena riuscito a conquistare il potere. Ma certamente lo scontro che sta sbriciolando la coesione dei talebani, a poco più di una settimana dalla nascita suo nuovo «governo ad interim», comporta ripercussioni gravi per l’Afghanistan e per gli equilibri internazionali. Nell’ultimo paio di giorni hanno trovato diverse conferme le voci di un violento alterco, forse anche a colpi d’arma da fuoco, tra il fronte che per semplicità chiameremo «moderato» capeggiato dal vicepremier Abdul Ghani Baradar, e invece quello più radical-islamico legato al ministro degli Interni Sirajuddin Haqqani. Sui social locali, rilanciati soprattutto tra Kabul e Kandahar, si racconta che le tensioni erano cresciute già prima dell’annuncio del nuovo esecutivo lo scorso 7 settembre. Baradar, uno dei leader fondatori del movimento negli anni Novanta, ex prigioniero per 9 anni in Pakistan, quindi capo negoziatore a Doha con gli americani per l’accordo sul ritiro della coalizione internazionale in agosto, avrebbe voluto un governo davvero inclusivo. La Bbc riporta che le sue fonti concordano con l’essenza di ciò che tanti afghani hanno già letto sui cellulari. In sostanza, ci sarebbe stata una rissa nelle sale del palazzo presidenziale a Kabul. Baradar chiedeva nomine di esponenti più moderati, aperti all’eventualità di ministri donna, magari includendo esponenti di punta dei governi che hanno collaborato con gli americani. Suo fine sarebbe stato tra l’altro calmare i timori della comunità internazionale e lanciare segnali di apertura sulle questioni relative ai diritti delle donne e delle libertà individuali. Ma a lui si è opposto con durezza il muro intransigente del clan Haqqani. Gente ricercata dalla Cia e l’Onu per le sue collusioni col terrorismo jihadista. I giornalisti del canale pashtun della Bbc sono venuti a sapere che Baradar avrebbe scambiato frasi di fuoco sia con il neo-ministro degli Interni Salajuddin Haqqani che con Khalil ur-Rahman Haqqani, capo del dicastero per i Profughi e uomo di punta dell’apparato armato del clan, che tra l’altro è alleato storico dei servizi dell’intelligence militare pakistana. Secondo fonti non confermate, Baradar potrebbe essere addirittura morto, o comunque ricoverato in un ospedale di Kandahar. Al Corriere i portavoce della municipalità di Kandahar smentiscono. «Voi giornalisti stranieri dovete smettere di diffondere notizie false», ci ha detto il 40enne Hafez Nurachmad Said. Nel maggiore ospedale cittadino nessuno sa nulla. Altri esponenti talebani locali a sentire il nome di Baradar sono però impalliditi e hanno subito voluto cambiare discorso. In un confuso audio diffuso lunedì una voce sosteneva di essere Baradar e di trovarsi all’estero <per lavoro>. Ma il mistero s’infittisce. E non aiuta la vicenda simile del Mullah Haibatullah Akhunzada, leader spirituale del movimento dal 2016, dopo l’uccisione del suo predecessore per un missile sparato dai droni americani. Di lui si sono letteralmente perse le tracce. Non ci sono fotografie, non rilascia dichiarazioni. Anche nel suo caso, sono in tanti a pensare sia deceduto da tempo. Non sarebbe poi così strano. Non si dimentichi che il Mullah Omar, fondatore dei talebani, venne dichiarato morto nel 2015. Poi emerse che forse il decesso risaliva al 2013. Ma le circostanze restano misteriose.

Kabul, faida tra talebani, domina il falco Haqqani. Baradar ucciso o in fuga. Luigi Guelpa il 16 Settembre 2021 su Il Giornale. Il nuovo governo sarebbe nato soltanto dopo la violenta colluttazione tra fazioni diverse. Anche tra i talebani esistono correnti politiche, ma se in Occidente gli accordi vengono tentati attraverso approcci da fusione a freddo, a Kabul la capacità di spingere il movimento jihadista in una direzione o nell'altra avviene attraverso risse e colpi proibiti. Secondo quanto riportato dalla Bbc, che ha raccolto le confidenze di un leader talebano a Doha, il nuovo governo sarebbe nato in seguito a una gigantesca colluttazione nel palazzo presidenziale. La disputa è venuta alla luce dopo che uno dei fondatori del gruppo, il mullah Abdul Ghani Baradar, è scomparso da diversi giorni. Alcuni sostengono che abbia lasciato il vertice jihadista per rifugiarsi a Kandahar, ma per altri sarebbe stato ucciso durante il fin troppo animato tentativo di formare il governo. Tutto sarebbe cominciato da un alterco tra lo stesso Baradar e Khalil Rahman Haqqani, ministro per i rifugiati e figura di spicco all'interno della rete talebana. La disputa è scoppiata su chi tra le due correnti avrebbe dovuto prendersi il merito della vittoria in Afghanistan. Baradar era convinto che l'accento dovesse essere posto sulla diplomazia condotta dal suo gruppo, per Haqqani, che rappresenta l'ala più anziana, sarebbe stata la lotta armata a consentire il ritorno al potere. Dalle parole i due leader sarebbero passati alle mani e il parapiglia avrebbe coinvolto parecchi miliziani presenti nel palazzo che non avrebbero esitato a impugnare le armi. Il portavoce Zabiullah Mujahid ha smentito qualsiasi attrito o disputa, ma l'assenza di Baradar, che manca all'appello da ormai una settimana, sembra far pensare che sia accaduto qualcosa di molto grave. In una registrazione audio circolata sui social ieri mattina, il co-fondatore dei talebani ha detto di essere in viaggio: «Ovunque io sia in questo momento, sto bene». Purtroppo l'audio è disturbato e parecchi analisti, comparando il messaggio con un altro vocale, ritengono che le voci siano differenti. Mujahid ha riferito che Baradar era andato a Kandahar per incontrare il leader supremo, ma poche ore dopo, sentito dalla tv britannica, ha cambiato versione: «dobbiamo lasciarlo in pace. È stanco e ha bisogno di riposo». Non è certo costruttivo per l'Afghanistan e l'Occidente che abbia prevalso il gruppo di Haqqani. La rete è associata ad alcuni degli attacchi più violenti che si sono verificati in Afghanistan. Il gruppo figura sulla lista nera Usa delle organizzazioni terroristiche più pericolose. Baradar viene invece riconosciuto come l'uomo della diplomazia. È stato il primo leader talebano a comunicare direttamente con un presidente degli Stati Uniti, nel corso di una conversazione telefonica con Donald Trump il 3 marzo 2020. È inoltre sua la firma dell'accordo di Doha sul ritiro delle truppe statunitensi. Speculazioni riguardano anche le sorti di un altro pezzo da novanta del gruppo, il comandante supremo Hibatullah Akhundzada, che non è mai stato visto in pubblico. È il responsabile degli affari politici, militari e religiosi, ma secondo fonti accreditate potrebbe essere addirittura morto da alcuni mesi. Manipolare le informazioni e mantenere in vita miliziani in realtà deceduti è una prerogativa talebana. Nel 2015 il gruppo ammise di aver coperto la morte del loro leader fondatore, il Mullah Omar, per più di due anni, durante i quali continuarono a rilasciare dichiarazioni a suo nome. Luigi Guelpa

Il mistero dei capi talebani: dove sono Akhundzada e Baradar? Lorenzo Vita su Inside Over il 14 settembre 2021. La sorte dei due maggiori leader dei talebani, Haibatullah Akhundzada e Abdul Ghani Baradar, inizia a interrogare l’opinione pubblica afghana. Nei giorni scorsi si erano rincorse voci sulla morte o sul ferimento del mullah Baradar, l’uomo che molti credevano potesse essere il capo del governo dell’Emirato islamico. Voci smentite dal portavoce talebano, Mohammad Naeem, che ha parlato di propaganda nemica, e da un presunto messaggio audio in cui il futuro vice-premier talebano dice di essere fuori Kabul per un viaggio e di stare benissimo. Messaggio che però nessuno è riuscito a confermare, a tal punto che in tanti speculano sul fatto che o non fosse la voce di Baradar o che quell’audio sia stato mandato in tempi non sospetti. Dibattito non troppo diverso da quello che circonda la figura ancora più misteriosa del leader talebano Akhundzada, nominato futura Guida suprema ed emiro dell’Afghanistan. Come riporta il Guardian, in queste settimane successive alla conquista di Kabul il co-fondatore dei talebani non si è mai mostrato in pubblico. E sono in molti, sia in patria che all’estero, a chiedersi se sia ancora vivo dopo che anche per lui si sono moltiplicate le voci su una presunta morte. In molti casi, ad alimentare le voci sulla morte o sul ferimento dei personaggi-chiave degli “studenti coranici” sono soprattutto agenzie e media contrari al nuovo regime. Si punta il dito su scontri interni al nuovo governo, in particolare tra la rete Haqqani e le figure dei talebani più inclini al dialogo, soprattutto con le minoranze. Certo è che le smentite non sono mai state accompagnate, almeno fino a questo momento, da apparizioni pubbliche. Elemento che non aiuta a dissipare i dubbi sulla sorte di queste due personaggi che rappresentano vere e proprie colonne portanti del nuovo corso dell’Afghanistan. Akhundzada come rappresentante dell’unità talebana, Baradar quale figura-chiave degli accordi di Doha e uomo che ha guidato i negoziati con l’Occidente. Cosa stia succedendo all’interno delle gerarchie talebane non è ancora chiaro, ma quello che preoccupa, più che la sorte del singolo personaggio, è il modus operandi degli studenti coranici, evidentemente ancora legato a doppio filo a logiche clandestine tipiche degli insorti e dei gruppi terroristici. L’incapacità di confermare o smentire le voci, un sistema di potere nell’ombra, scontri violenti tra le gerarchie e video e foto come uniche prove di sopravvivenza delle autorità confermano un approccio ancora arretrato al rapporto tra media e potere. E sono soprattutto conferme di un metodo che rischia di mantenere i talebani in un senso di precarietà e di oscurità costante anche una volta raggiunto il potere. Gli esperti segnalano che quest’ombra sulla morte dei leader è qualcosa di molto tipico per il gruppo, visto l’atteggiamento tenuto con il Mullah Omar, la cui morte è stata confermata praticamente dopo due anni in cui venivano inviati audio e video di lui ancora in vita. Il problema è che ora i talebani non sono più considerati una “semplice” organizzazione terroristica o di insorti, ma un gruppo a cui gli Stati Uniti hanno concesso il potere sull’Afghanistan dopo un negoziato ufficiale concluso con l’accordo in Qatar. Il mondo si aspetta dall’Emirato un cambio di passo: ma se i taliban vogliono un riconoscimento internazionale, non potranno mantenere a lungo questo sistema di comunicazione (e di potere).

CHI SARA' IL NUOVO CAPO IN AFGHANISTAN? Francesco Boezi per Insideover.com il 16 agosto 2021. La sua storia suona un po’ come quel consiglio dato da Al Pacino ne L’Avvocato del Diavolo al giovane Keanu Reeves, l’indicazione per cui è meglio “arrivare” senza farsi sentire, in modo che nessuno se ne accorga e che tutto il potenziale rimanga nascosto. Solo che questa non è finzione, ma cruda e drammatica realtà. L’uomo che sta guidando l’offensiva dei talebani in Afghanistan, il signore della guerra che anima la fulminea riconquista di tutte le province da parte degli islamisti, si chiama Yaqoob, trentenne figlio d’arte, per così dire, che presiede la commissione militare dei jihadisti. Le cronache internazionali sono da tempo in grado di disegnare un profilo di questo leader, che è in ascesa. Almeno dal punto di vista formale, però, il figlio del Mullah Omar non dovrebbe essere il vero e proprio vertice dell’organizzazione dei fondamentalisti. Ma oltre la forma, appunto, c’è la sostanza. Hibatullah Akhundzada, che è conosciuto per alcune peculiari caratteristiche per lo più legate alla religione, oltre che politiche in senso stretto, sarebbe il capo del talid, mentre Yaqoob, che si è fatto le ossa in Pakistan, prima di prendere le redini delle forze armate, tecnicamente sarebbe il vice. Rispetto al giovane trentenne, Akhundzada è il portatore di un’immagine meno decisionista e meno combattiva in questa fase. Questo non significa che Akhundzada sia un pacifista, intendiamoci. Ma il figlio del mullah Omar rischia di diventare in breve tempo un leader eletto per acclamazione per la facilità con cui i talebani si sono ripresi l’Afghanistan. E per questo il condizionale su chi sia il vertice degli islamisti diviene d’obbligo. Riguardo la gerarchia interna dei talebani, del resto, emerge spesso qualche mistero o qualche forma di dubbio. Yaqoob è nella condizione di rivendicare buona parte dei “meriti” per quello che l’Occidente non può che considerare una tragedia, ossia l’avanzata dei talebani che si sta consumando in queste ore, con la sempre più probabile capitolazione di Kabul a svolgere la funzione di finale di una scenografia disastrosa. Un fallimento occidentale aggravato pure da quanto messo in campo, per ben vent’anni, da Stati Uniti ed Italia, ma anche da Regno Unito e Germania in termini economici. Ma perché tutto questo spazio concesso a Yaqoob? Hibatullah Akhundzada, come si legge ad esempio sul sito dell’Ispi, è stato contagiato dal SarsCov2. Da quel momento in poi, la leadership del comandante in capo, oltre che della massima autorità religiosa, sarebbe stata messa in discussione. Non tanto per la malattia in sé, quanto magari per gli strascichi che può comportare: in questi anni pandemici, abbiamo preso confidenza anche con l’espressione long-Covid, ossia con le conseguenze che il virus che ha sconvolto il pianeta può lasciare sul lungo periodo. Ecco, il vertice dei talebani potrebbe esserne una “vittima” di quella “sindrome”, con tutto quello che ne consegue. Come ripercorso sempre dalla fonte appena citata, sembra che, dopo essere stato istruito in Pakistan, Yaqoob abbia avuto bisogno della “raccomandazione” della sua nazione adottiva, per fare il gran rientro. Altre fonti annotano un ruolo che sarebbe stato esercitato persino dall’Arabia Saudita. Il suo atteggiamento può stupire: una volta compreso di aver vinto, Yaqoob ha sostanzialmente fatto presente come i talebani siano disposti ad evitare rappresaglie nei confronti di chi sta lasciando l’Afghanistan. Si tratta dell’urgenza con cui si sta misurando l’Occidente, con le evacuazioni in corso e tutto il resto. Possibile che già nel corso delle prossime settimane il mondo sia in grado di conoscere il nome del nuovo “emiro”, perché quella è la forma di Stato che i talebani hanno in mente. Stando così le cose, non bisognerebbe stupirsi molto se quel nome corrispondesse a quello del figlio del mullah Omar.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica inter

Gli “eredi” del mullah Omar: chi sono i “nuovi” talebani che hanno preso il potere in Afghanistan. Redazione lunedì 16 Agosto 2021 su Il Secolo d'Italia. Turbanti neri di nuovo nei palazzi del potere. E’ l’Afghanistan dopo 20 anni di operazioni delle forze internazionali. La galassia dei Talebani di ‘oggi’ risponde a Haibatullah Akhundzada, ha il volto del mullah Abdul Ghani Baradar e una leadership di ‘eredi’ del mullah Omar, fondatore del movimento che dominò il Paese dal 1996 al 2001, e di Jalaluddin Haqqani, ‘padre’ della famigerata rete Haqqani.

Chi è ora il leader dei talebani. Haibatullah Akhundzada  è stato nominato leader dei Talebani (“Ameer-ul-momineen”, il ‘comandante dei fedeli’), nel maggio del 2016 dopo l’uccisione in un raid di un drone Usa in Pakistan del predecessore: il mullah Akhtar Mansour, salito ai vertici del movimento nel 2015 a seguito della morte del mullah Omar. Che venne confermata passati due anni dal decesso. Rispettato come esperto di questioni religiose più che come comandante militare, Akhunzada era stato il capo della ‘giustizia’ talebana all’epoca del regime (1996-2001); oggi dovrebbe essere 60enne. Poco dopo la sua nomina al-Qaeda gli giurava fedeltà. Per la gerarchia del movimento, ha l’ultima parola sulle questioni politiche, militari e religiose.

Baradar Akhund è il vice "politico": uno dei più fidati del mullah Omar. Mullah Abdul Ghani Baradar, alias Baradar Akhund, è il vice "politico" di Akhundzada. Ha combattuto contro i sovietici e da una madrasa che avrebbe creato a Kandahar con il mullah Omar sarebbe poi arrivato a contribuire a fondare il movimento dei Talebani. Sarebbe stato uno dei comandanti più fidati del mullah Omar. Era il suo vice e sarebbe anche il cognato. Nato nella provincia di Uruzgan nel 1968, era vice ministro della Difesa all’epoca della caduta del regime dei Talebani. Era stato arrestato nel 2010 dalle autorità pakistane a Karachi. Negli anni successivi si erano rincorse molte voci sulla sua storia. E nel 2018 i Talebani afghani ne annunciavano la scarcerazione. Con gli analisti che all’epoca collegavano quegli sviluppi ai tentativi americani di far ripartire i colloqui di pace tra il movimento e il governo di Kabul. L’anno successivo veniva nominato a capo dell’ufficio politico dei Talebani a Doha, in Qatar. Nel 2020 ha partecipato alla firma dell’accordo di Doha con gli Usa. Alla fine dello scorso luglio ha incontrato a Tianjin, in Cina, il ministro degli Esteri del gigante asiatico, Wang Yi.

Il figlio del Mullah Omar è il capo della commissione militare. Mullah  Yaqoob, figlio del mullah Omar, vice dei Talebani, è a capo della potente “commissione militare”. Negli anni passati ha fatto parlare di sé quando inizialmente si rifiutò di giurare fedeltà al mullah Mansour. Sirajuddin Haqqani, altro vice dei Talebani, è il figlio di Jalaluddin Haqqani (tra i protagonisti della resistenza antisovietica, morto tre anni fa); e capo della rete Haqqani ritenuta legata ad al-Qaeda e responsabile in passato di sanguinosi attentati in Afghanistan. Era tra i ‘papabili’ per la successione a Mansour.

Marta Serafini per il Corriere.it il 16 agosto 2021. Quando due anni fa è stato liberato dalla prigione pachistana dove era rinchiuso, in pochi probabilmente avrebbero potuto immaginare che Abdul Ghani Baradar sarebbe un giorno diventato il candidato più papabile come presidente del nuovo governo ad interim afghano. Eppure, quando domenica era dato in movimento da Doha verso Kabul, la notizia a quel punto non era più così inaspettata. Baradar stava andandosi a prendere il potere. La sua vita è forse emblematica della storia afghana degli ultimi 40 anni. Nato nella provincia di Uruzgan nel 1968, ha combattuto contro i sovietici negli anni ‘80. Un vero e proprio mujaheddin insomma. Dopo che i russi furono cacciati nel 1992 e il Paese venne travolto dalla guerra civile, Baradar istituì una madrasa a Kandahar con il suo ex comandante e presunto cognato, Mohammad Omar. Insieme, i due mullah hanno fondato i talebani, un movimento guidato da giovani studiosi islamici dediti alla purificazione religiosa del Paese e alla creazione di un emirato. Alimentati dal fervore religioso, dall’odio diffuso per i signori della guerra e dal sostanziale sostegno dei servizi segreti pachistani, Baradar e Omar riescono a prendere il potere nel 1996 dopo una serie di straordinarie conquiste militari che allora proprio come oggi colsero di sorpresa il mondo. Baradar, il vice del mullah Omar, ritenuto uno stratega di alto livello, fu un artefice chiave di quelle vittorie. Ma non solo. Nei cinque anni di regime talebano arriva a ricoprire una serie di ruoli militari e amministrativi e quando l’Emirato cade, occupa il posto di vice ministro della difesa. In sintesi, dunque, durante i 20 anni di esilio, Baradar mantiene la leadership e la guida del movimento. In Pakistan Baradar diventa uno dei leader della Shura di Quetta, il governo in esilio dei talebani, più resistente al controllo dell’Isi e più portato ai contatti politici con Kabul. La presidenza Obama però lo vede di cattivo occhio per la sua esperienza militare e così, dopo che la Cia lo rintraccia a Karachi nel 2010, Washington convince Islamabad ad arrestarlo. E Baradar è fuori dai giochi. Fino al 2018 quando alla Casa Bianca cambia il vento, e l’inviato di Donald Trump, Zalmay Khalilzad, chiede ai pachistani di rilasciare Baradar in modo che possa condurre i negoziati in Qatar. E la Storia fa un altro giro. Baradar oggi — mentre gli studenti coranici si siedono sulla poltrona di Ghani — è uno dei vincitori indiscussi di una guerra contro gli Usa e contro il governo dei signori della guerra durato 20 anni. Mentre Haibatullah Akhundzada è il leader generale dei talebani, Baradar è il suo capo politico e il suo volto più pubblico. Ma anche un uomo prudente che sa aspettare. In una dichiarazione televisiva sulla caduta di Kabul, ha affermato che la vera prova dei talebani è solo all’inizio e che devono servire la nazione. Parole che tradiscono intenti di impegno. Se poi alle parole corrisponderanno i fatti è però tutto da vedere. In ogni caso il ritorno al potere di Baradar incarna l’incapacità dell’Afghanistan di sfuggire al passato. In ogni caso Baradar ha firmato l’accordo di Doha con gli Stati Uniti nel febbraio 2020, patto che doveva rappresentare un momento di svolta per l’Afghanistan non un ritorno al passato.

Il cerchio del potere talebano: chi comanda ora in Afghanistan. Mauro Indelicato su Inside Over il 17 agosto 2021. Poche ore dopo l’ingresso nel palazzo presidenziale di Kabul, i talebani hanno subito parlato di imminente proclamazione di un “emirato”. Ma per la costituzione di un emirato, occorre ci sia un emiro. Chi ricoprirà questo ruolo? E quali saranno le sue funzioni? Per adesso è difficile prevedere in che modo gli studenti coranici organizzeranno la propria struttura di potere. Tuttavia è possibile intuire alcune mosse future partendo da quella che è l’attuale composizione del “cerchio del potere” dei talebani. Un vero e proprio anello composto da figure sulle quali in questo momento si stanno concentrando le principali attenzioni. Nel 1996, anno in cui i talebani hanno per la prima volta messo piede a Kabul, la figura di leader spirituale e leader politico è coincisa nella persona del Mullah Omar. Quell’emirato messo in piedi al culmine della lotta con i signori della guerra e smantellato poi soltanto dopo l’intervento Usa del 2001, non aveva però le sembianze di un vero e proprio governo. Anche per questo a livello internazionale non ha avuto un vasto riconoscimento. Dal suo ufficio della sua Kandahar, Omar dava indicazioni politiche e lanciava moniti sociali e comportamentali, guidando spiritualmente tanto il movimento quanto il Paese. Oggi la situazione potrebbe essere diversa. Il Mullah Omar era il fondatore dei talebani e non esistevano altre figure carismatiche. Lui è morto nel 2013 e il movimento ha trovato altri capi e nel frattempo si è dato un’organizzazione leggermente diversa. Gli studenti coranici adesso sembrano più strutturati. Prima di iniziare la fulminea marcia di avvicinamento a Kabul, avevano già creato dei “governi ombra” nei distretti che controllavano. I miliziani sono ben consapevoli della necessità di creare una forma di organizzazione statale, tanto all’interno del movimento quanto nei palazzi del potere caduti nelle loro mani. Per questo forse difficilmente le figure di leader spirituale e leader politico non coincideranno. Attualmente ad essere accreditato come numero uno dei Talebani è Haibatullah Akhundzada. Non dovrebbe però essere lui a guidare l’Afghanistan. Al contrario, il nome più accreditato è quello di Abdul Ghani Baradar. Negli anni ’90 era molto vicino al Mullah Omar, i due si sono conosciuti durante il periodo di lotta anti sovietica. Nel 2001, con la caduta del primo emirato talebano, è andato a vivere a Quetta, in Pakistan. Qui è stato tra i capi dei miliziani in esilio, costruendosi la fama di politico e mediatore del movimento. Con gli Usa è un rapporto di amore e odio. Nel 2010 l’amministrazione Obama ha chiesto al Pakistan di arrestarlo, Baradar viene così incarcerato per otto anni. Nel 2018 l’amministrazione Trump ne ha chiesto invece la liberazione. Il suo nome è stato infatti scelto per i negoziati inaugurati a Doha in vista del ritiro Usa. Per questo potrebbe ricadere su di lui l’onere di costituire quello che sarebbe il primo vero governo talebano. Baradar dal canto suo un discorso da “leader in pectore” lo ha già fatto. Domenica ha parlato con la bandiera talebana alle spalle e ha dichiarato che adesso è arrivato il momento di “servire la nazione”. Un discorso quasi programmatico, da capo politico designato. Ma all’interno della stanza dell’oramai ex presidente Ghani, fuggito domenica all’estero, a fare la sua comparsa è stato un altro importante leader talebano. Si tratta di Ghoulam Rouhani, considerato come uno degli “architetti” dell’intelligence talebana. Assieme ad altri 15 miliziani, Rouhani domenica pomeriggio si è diretto verso il palazzo presidenziale. Qui simbolicamente il gruppo ha preso possesso della scrivania da dove poche ore prima Ghani aveva spiegato in un discorso televisivo il perché del suo esilio dal Paese. Assieme al gruppo di talebani capeggiato da Rouhani, nella stanza dell’ex presidente è entrata anche una troupe di Al Jazeera. Sono state proprio le telecamere della tv di Doha a immortalare i primi momenti della nuova fase talebana di Kabul. Mohammed Ali Musawi, inviato del network, ha intervistato Rouhani. Quest’ultimo ha parlato fluentemente in inglese e ha spiegato di essere stato per sei anni prigioniero a Guantanamo. In effetti quando è stato catturato nel 2001 gli Usa lo ritenevano tra i principali comandanti militari del movimento. Da qui il trasferimento nella base situata a Cuba. Poi nel 2007 è stato riportato a Kabul e imprigionato in una delle carceri di massima sicurezza della capitale. In qualche modo però nel corso degli anni Rouhani è riuscito ad uscire e ad aggregarsi tra le fila dei talebani. La sua presenza nel palazzo presidenziali non è sembrata casuale. I miliziani entrati in città non si sono mossi a casaccio, sono state create squadre per l’occupazione dei principali edifici governativi. Se Rouhani era tra i combattenti incaricati di andare nel palazzo presidenziale, è lecito pensare a un suo attuale importante ruolo. Forse sarà lui a guidare la riorganizzazione dei servizi di intelligence del gruppo islamista. Ci sono poi coloro che vengono considerati i più importanti capi del movimento. La guida spirituale erede del Mullah Omar è Haibatullah Akhundzada. A capo dei Talebani dal 2016, da quando Kabul è stata presa però non è stata registrata alcuna sua dichiarazione. Molti ritengono sia ancora convalescente dai postumi di una forma grave di Covid contratta nei mesi scorsi. Ma è anche lecito pensare che il leader islamista manterrà per sé un ruolo di guida extra governativa. Del resto fonti di intelligence lo hanno sempre descritto come un grande esperto di questioni religiose e giuridiche, un po’ meno invece di affari politici e di strategie militari. C’è poi, per chiudere il cerchio dei principali leader talebani, il figlio dello stesso Mullah Omar: si tratta di Yaqoob, trentenne e dunque il più giovane tra le figure di vertice del movimento. Proprio come il padre, si è sempre esposto poco pubblicamente. Da molti viene definito come numero uno della struttura militare talebana, ruolo datogli a seguito della sua formazione in Pakistan. Difficile però dire se entrerà o meno nella struttura governativa in procinto di essere varata a Kabul.

Mauro Indelicato. Sono nato nel 1989 ad Agrigento, città in cui dirigo il locale quotidiano InfoAgrigento.it. Nel marzo 2017 conseguo la laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Palermo, città dove sviluppo la mia curiosità per il Mediterraneo, per i suoi popoli e per le sue culture che da secoli arricchiscono una delle aree più suggest…

Le promesse dei talebani. Dopo 20 anni una nuova teocrazia ma "aperta e inclusiva". “Rinasce l’Emirato islamico”, l’Afghanistan è di nuovo dei talebani: volo italiano atteso a Fiumicino. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Agosto 2021. È questione di ore, forse di minuti, prima che i talebani proclamino l’Emirato islamico dell’Afghanistan. Ancora una volta. La bandiera bianca dei fondamentalisti islamici già sventola sul palazzo presidenziale a Kabul. La capitale è caduta nel giro di poche ore, l’avanzata dei talebani in pochi giorni ha riportato il Paese nella stessa situazione di vent’anni fa: a prima dell’invasione americana, in seguito agli attentati dell’11 settembre 2011 negli Stati Uniti, che in meno di due mesi aveva cancellato la teocrazia. I talebani sono tornati di nuovo al potere. La stessa bandiera sventolava a Kabul dopo la fondazione dell’Emirato nel 1996. “Il nostro paese è stato liberato e i mujaheddin hanno vinto in Afghanistan”, hanno dichiarato ad Al Jazeera i miliziani che cantano ed esultano nel Palazzo Presidenziale. Gli estremisti hanno fatto sapere che non ci sarà un governo di transizione, come precedentemente trapelato, ma un passaggio diretto verso un governo “islamico aperto e inclusivo”. È caos intanto nella capitale con gente in fila alle banche e ai bancomat per prelevare contanti. Traffico in tilt verso l’aeroporto, unica via di fuga, in quanto la metropoli è circondata dai miliziani. La capitale si era già riempita di sfollati nell’ultima settimana dopo l’accelerata dell’avanzata dei talebani. È caos quindi anche all’aeroporto, dove si sta verificando un vero e proprio assalto. I voli civili sono stati a lungo bloccati oggi. I voli commerciali sono bloccati. A gestire lo scalo, come da accordi con il governo appena sollevato, è l’esercito della Turchia. L’aeroporto, da immagini sui social, sembra furi controllo o quasi. Domani si riunisce il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Onu). L’ormai ex Presidente Ashraf Ghani – abbandonato dai signori della guerra ai quali si era affidato in negoziati, che sono fuggiti – è volato in Uzbekistan, nella capitale Tashknet, e ha spiegato la sua posizione in un post sui social network: “Nel nome di Dio, il misericordioso Cari concittadini, oggi, mi sono imbattuto in una scelta difficile; avrei dovuto affrontare i talebani armati che volevano entrare nel palazzo o lasciare il caro Paese a cui ho dedicato la mia vita e che ho protetto negli ultimi vent’anni. Se ci fossero stati ancora innumerevoli connazionali martirizzati e avessimo affrontato la distruzione della città di Kabul, il risultato sarebbe stato un grande disastro umano in questa città da sei milioni di abitanti. I talebani ce l’hanno fatta a rimuovermi, sono qui per attaccare tutti gli abitanti di Kabul. Per evitare un bagno di sangue, ho pensato che fosse meglio lasciare e partire”. Oggi pomeriggio erano state segnalate sparatorie anche all’aeroporto di Kabul. I medici di Emergency hanno fatto sapere di aver accolto 80 feriti – l’ospedale è pieno – la maggior parte proveniente dalla zona di Qarabagh, a causa delle sparatorie che hanno accompagnato l’entrata dei fondamentalisti nella città. Il portavoce dei talebani aveva parlato invece di un passaggio di potere pacifico e aveva detto che si sarebbero assicurate le partenze dal Paese. Garanzie anche sui diritti delle donne, incluso quello all’istruzione, mentre proprio le donne erano state le vittime più colpite dall’imposizione della sharia islamica negli anni ’90. E infatti i dispacci raccontano di donne cercate porta a porta, di liste con le donne nubili. Mentre la bandiera dell’ambasciata statunitense è già stata rimossa la Russia ha fatto sapere che non abbandonerà l’ambasciata e che è pronta a cooperare per un governo di transizione – ipotesi ormai sfumata. Partito in serata un aereo dell’aeronautica militare italiana, un ponte aereo per il rimpatrio dei connazionali e dei collaboratori afghani, circa un centinaio di persone. L’arrivo è previsto allo scalo romano di Fiumicino domattina. Quella che è in corso in queste ore è una smobilitazione, un ritiro che da più parti viene paragonato a quello dal Vietnam nel 1975; la disfatta per eccellenza degli Stati Uniti. Washington rigetta la narrazione. Il segretario di Stato Antony Blinken ha detto che la missione USA è compiuta. Il Presidente Joe Biden aveva osservato nei giorni scorsi che ora tocca agli afghani combattere per l’Afghanistan. Per i repubblicani Biden è già diventato “l’uomo di Saigon”, “l’uomo che scappa”.

Ma nelle "periferie" segnalate violenze. Amnistia e donne al governo (ma nel rispetto della Sharia): le prime promesse dei Talebani dopo la riconquista di Kabul. Carmine Di Niro su Il Riformista il 17 Agosto 2021. Una amnistia generale per tutti i funzionari delle vecchie autorità afghane, invitati a tornare a lavoro per non bloccare la macchina burocratica, e l’invito alle donne ad entrare nel governo “ma secondo le regole della Sharia”, la legge islamica. Sono i primi punti del "programma" politico dei Talebani dopo la riconquista della capitale afghana Kabul e la precipitosa fuga del personale diplomatico occidentale dal Paese. “Un’amnistia generale è stata dichiarata per tutti”, si legge in un comunicato diffuso dal gruppo islamico, “pertanto dovreste riprendere le vostre abitudini di vita con piena fiducia”. Alla Associated Press il membro della commissione Cultura degli insorti, Enamullah Samangani, ha confermato quella che potrebbe essere definita una svolta ‘moderata’ del movimento. “L’Emirato Islamico non vuole che le donne siano vittime – ha affermato Samangani -. Dovrebbero far parte del governo, secondo i dettami della Sharia”, pur non chiarendo quali dovrebbero essere le regole da seguire per far parte del prossimo esecutivo talebano.

LA CONFERENZA DEI TALEBANI – Un ‘programma’ confermato quindi nel pomeriggio italiano nel corso di una conferenza stampa tenuta dal portavoce dell’Emirato islamico, Zabihullah Mujahid, nel palazzo presidenziale di Kabul. Davanti alle telecamere dei media, anche occidentali, il portavoce dei Talebani ha definito questo “un momento di orgoglio per l’intera nazione” perché “dopo 20 anni di lotte abbiamo liberato l’Afghanistan ed espulso gli stranieri”. Mujahid ha poi voluto rassicurare sulle intenzioni pacifiche del gruppo islamico che ha ripreso il controllo della capitale Kabul, spiegando che l’Afghanistan non sarà una minaccia per nessuno e che i Talebani “hanno perdonato tutti, sulla base di ordini dei loro leader, e non nutrono inimicizia nei confronti di nessuno”. “Vogliamo assicurarci che l’Afghanistan non sia più un campo di battaglia. Le animosità sono finite. Non vogliamo nemici esterni o interni”, ha aggiunto Mujahid. Confermata anche la dubbia apertura sul ruolo e i diritti delle donne, che “sono basati sull’Islam. Possono lavorare nella sanità e altri settori dove sono necessarie. Non saranno discriminate, lavoreranno spalla a spalla con noi. Le donne dovranno rispettare le leggi della Sharia”, ha precisato il portavoce dell’Emirato islamico. Donne che “saranno attive nella società ma rispettando i precetti dell’Islam. Le donne sono parte della società e garantiremo i loro diritti nei limiti dell’Islam”.

I DUBBI DELLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE – Anche sull’amnistia non mancano dubbi sulle reali intenzioni dei Talebani. A confermare che in realtà i membri del movimento islamico abbiano ben altre intenzioni sono anche le parole consegnate ieri ai giornalisti italiani da Arif Aryakhail, medico dell’Ais Kabul, sbarcato all’aeroporto romano di Fiumicino con il volo dell’Aeronautica militare partito da Kabul con a bordo circa 70 persone tra cui una cinquantina di membri del personale diplomatico italiano e una ventina di ex collaboratori afghani, compreso lo stesso medico. “I Talebani stanno cercando i nostri colleghi casa per casa. Stanno rischiando. La situazione negli ospedali è gravissima”, aveva infatti chiarito Aryakhail. Anche il quotidiano francese Le Figaro racconta di un quadro ben diverso da quello proposto dai Talebani. Per il giornale d’oltralpe infatti il movimento che ha ripreso il potere “placa la popolazione di Kabul, ma nelle province aumentano gli abusi”. In particolare vi sarebbero casi di sequestri e di gravi violazioni dei diritti umani nelle province più remote, quelle più lontane dai riflettori dei media occidentali. “A Ghazni, Kandahar e in altre province afghane, i talebani hanno arrestato e giustiziato soldati, polizia e civili, con presunti legami con il governo afghano”, secondo l’ultimo rapporto di Human Rights Watch. Secondo Le Figaro sono stati segnalati matrimoni forzati in tutto il Paese, col giornale che riporta la testimonianza di una giornalista di una provincia meridionale afghana: “Ordinano alle famiglie di consegnare una ragazza o una donna non sposata, per offrirla a uno dei loro combattenti. E reclutano giovani”. 

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

L'appello. Donne afghane, il manifesto delle giornaliste: “Chiediamo tre cose ai talebani”. Vittorio Ferla su Il Riformista il 17 Agosto 2021. Un appello urgente alla comunità internazionale per lasciare aperte le frontiere dell’Afghanistan e per garantire la salvaguardia dell’incolumità e dei diritti delle donne. È il contenuto del manifesto firmato, dopo la conquista jihadista di Kabul, da un gruppo di giornaliste spagnole: Gabriela Cañas, presidente dell’Agenzia spagnola Efe, Soledad Gallego-Díaz, già direttrice di El Pais, e le scrittrici e giornaliste Rosa Montero e Maruja Torres. Il manifesto contiene tre richieste. La prima: pretendere dai talebani di «mantenere aperte le frontiere affinché tutte le persone che desiderano lasciare l’Afghanistan, fuggendo da un potere fanatico, imposto con la forza delle armi, possano farlo in sicurezza». Si chiede inoltre che «i doveri elementari di solidarietà e di umana compassione siano rispettati ammettendo ai voli e ai convogli di rimpatrio degli stranieri il maggior numero possibile di afghani, specie se in imminente pericolo», indipendentemente dal fatto che «siano stati o meno al servizio degli Stati che i talebani considerano nemici». Infine, le firmatarie chiedono un’attenzione speciale «per le donne in una situazione particolare di rischio, per aver svolto mansioni professionali vietate dai talebani, aver frequentato scuole e università, aver condotto la propria vita al di fuori della moralità fanatica o per qualsiasi altro motivo». Anche la Spagna è uno dei paesi impegnati nell’evacuazione dei membri della sua ambasciata e dei collaboratori afghani. Vittorio Ferla

Tutti i dubbi sulle promesse dei talebani. Mauro Indelicato il 17 Agosto 2021 su Il Giornale. I portavoce del movimento islamista nelle ultime ore hanno provato a rassicurare la comunità internazionale: "Abbiamo perdonato tutti, rispetteremo il ruolo delle donne". Ma sulle reali intenzioni dei talebani non manca lo scetticismo. L'ultima volta che a Kabul la stampa internazionale ha assistito a una conferenza stampa dei Talebani era l'11 settembre 2001. Quel giorno, a poche ore dal crollo delle Torri Gemelle, l'allora portavoce islamista Wakil Ahmed Muttawakil ha parlato davanti ai giornalisti per condannare l'attacco agli Usa e per smentire le prime voci sul coinvolgimento di Bin Laden. Il mondo conosceva ancora poco dell'Afghanistan e dei talebani. Dopo 20 anni, ecco che il palazzo presidenziale di Kabul è stato teatro di una nuova conferenza stampa degli studenti coranici. È stata la prima da quando sono tornati a comandare nella capitale afghana. A parlare questa volta è stato Zabihullah Mujahid, il portavoce che su Twitter nelle ultime settimane ha aggiornato l'avanzamento talebano in Afghanistan.

Le promesse di “clemenza”. Davanti ai giornalisti Mujahid ha subito impresso una precisa linea alla conferenza. Quella cioè di presentare i talebani in modo molto diverso rispetto a 20 anni fa. L'obiettivo della leadership islamista in queste ore è mostrarsi come “forza di governo”. Non più quindi estremisti isolati dal mondo e rigidi esecutori delle proprie ideologie ma, al contrario, miliziani in grado di diventare una vera e propria classe dirigente per l'Afghanistan. Una circostanza vitale per il nuovo Emirato. L'isolamento e il non rispetto dei diritti umani sancirebbe un mancato riconoscimento internazionale, anche da parte di quegli attori, come Russia e Cina, che hanno lasciato aperte le proprie ambasciate a Kabul. Non è un caso quindi che il portavoce talebano ha toccato i tasti più dolenti a livello mediatico. A partire dalla condizione delle donne. “I diritti delle donne sono basati sull'Islam – ha dichiarato Mujahid – Possono lavorare nella sanità e altri settori dove sono necessarie. Non saranno discriminate. Le donne dovranno rispettare le leggi della sharia”. Poco prima, ai microfoni di SkyNews, un altro portavoce ha mostrato ulteriori aperture. “Le donne in Afghanistan – ha infatti dichiarato Suhail Shaheen – avranno il diritto di lavorare e ricevere un'istruzione fino al livello universitario”. Si è parlato inoltre degli indumenti che le donne devono indossare. Secondo Shaheen non sarebbe necessario il burqa, il lungo mantello che copre anche il viso, “basterà” l'hijab.

Nella conferenza stampa tenuta a Kabul, Mujahid ha anche fatto riferimento all'amnistia da accordare a chi ha collaborato con il precedente governo e con le forze occidentali. “I talebani hanno perdonato tutti – ha proseguito il portavoce – sulla base di ordini dei loro leader, e non nutrono inimicizia nei confronti di nessuno”. Dunque, secondo questo ragionamento, non ci saranno ulteriori discriminazioni. Mujahid ha affermato inoltre che non sono previste perquisizioni nelle case dei soldati del disciolto esercito afghano.

I talebani manterranno le promesse? C'è da chiedersi però se per davvero la “clemenza” di cui gli integralisti hanno parlato in conferenza stampa si rivelerà tale. Il fatto stesso di pronunciare la parola “amnistia” per semplici collaboratori del passato regime non lascia presagire il meglio. L'impressione è che i talebani cerchino di far passare come “privilegio” i più basilari diritti umani. Donne, collaboratori ed ex soldati non si sono macchiati di crimini e non servirebbe alcuna amnistia o alcuna clemenza verso di loro. Quella talebana non è una concessione o almeno non dovrebbe esserlo. Ma se gli studenti coranici interpretano le loro intenzioni in questo modo, c'è più di qualcosa che non quadra in previsione futura. Il pericolo riguarda soprattutto due elementi. Il primo ha a che fare con la fine dell'attuale fase di passaggio di consegne. Quando gli occhi del mondo non saranno più puntati su Kabul, i talebani potrebbero togliere alcuni “privilegi” promessi una volta messo piede nella capitale. E dunque attuare repressioni verso le categorie più vulnerabili. L'altro elemento riguarda il controllo che gli stessi islamisti avranno in futuro del loro gruppo. I talebani non sono un movimento omogeneo, al loro interno ci sono diverse fazioni e alcune delle quali hanno posizioni molto più estremiste dei propri leader. Lontano dalle grandi città, alcuni gruppi potrebbero muoversi autonomamente applicando le più rigide interpretazioni della loro ideologia. Del resto, non sono isolate le testimonianze che parlano di razzie e abusi in alcune località conquistate dai Talebani alcune settimane fa. 

Mauro Indelicato. Sono nato nel 1989 ad Agrigento, città in cui dirigo il locale quotidiano InfoAgrigento.it. Nel marzo 2017 conseguo la laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Palermo, città dove sviluppo la mia curiosità per il Mediterraneo, per i suoi popoli e per le sue culture che da secoli arricchiscono una delle aree più suggestive del pianeta. Inizio la mia attività giornalistica nel marzo del 2009 con alcune testate locali, dal gennaio 2013 sono iscritto presso l’Ordine dei Giornalisti di Sicilia nell’albo dei "pubblicisti". Collaboro dal giugno 2016 con IlGiornale.it e Gli Occhi della Guerra, testata per la quale s

Afghanistan, Hashimi: “Quando le tv si spegneranno gli islamisti non avranno più ostacoli".  Raffaella Scuderi su La Repubblica il 16 agosto 2021.  "Stiamo assistendo all’evacuazione dei diritti umani. Se non rimane nessuno, sarà un’evacuazione totale". Nadia Hashimi è una scrittrice nata negli Usa da genitori afghani. Pediatra e candidata al congresso americano con i democratici, è l’autrice di tre bestseller tradotti in sette lingue. Scrive di donne e di giovani adolescenti afghane costrette a indossare abiti maschili per aiutare la famiglia, e di un Afghanistan dove felicità e amore sono sogni possibili. È scioccata, arrabbiata. Vede le immagini del suo Paese, parla con amici e parenti in Afghanistan. E ha paura.

Nadia, le immagini del caos in aeroporto a Kabul ritraggono centinaia di uomini e pochissime donne. Non se ne vogliono andare?

"Tutte le donne con cui ho parlato mi hanno detto la stessa cosa: come faccio ad arrivare in aeroporto? Ormai non riescono neanche ad uscire di casa. Il tragitto da casa all’aeroporto comporta controlli insuperabili ai checkpoint insuperabili".

La propaganda talebana e la testimonianza di ong e media, insistono che le donne saranno protette. Ieri girava una foto sui social che mostrava due ragazze sulla strada per la scuola, sotto gli occhi talebani. Forse qualcosa è cambiato?

"Io non mi fido dei talebani. Questa è solo una falsa luna di miele con la comunità internazionale. Il mondo li sta guardando. E loro sanno cosa sta guardando. Si sanno vendere bene. Hanno un ottimo team di pubbliche relazioni. Quando si spegneranno i riflettori, le donne saranno il loro bersaglio. Nel Paese ci sono giornaliste, avvocatesse, attiviste e governative. Erano in pericolo già nell’ultimo anno e mezzo".

Cosa ha provato quando i talebani sono entrati a Kabul?

"Quello che è successo è stato scioccante. Nessuno se lo aspettava. È una catastrofe. Sembra che sia stata concertata con la totale indifferenza del destino di 30 milioni di persone. Da tempo gli Usa parlavano di ritiro. E all’improvviso si sono visiti costretti a inviare tremila unità militari per l’evacuazione. È un fallimento totale".

Di chi è la responsabilità?

"Innanzitutto del governo afghano. Poi della comunità internazionale".

Cosa rischia l’Afghanistan?

"Il diritto alla libertà di parola. Il diritto a una stampa libera". 

Nei suoi libri lei parla di amore, felicità. In Afghanistan. Ci crede ancora?

"Ho paura del futuro. Ma continuerò a raccontare le storie della mia gente, nel tentativo di capirle da un punto di vista umano. E con onestà. E ascolterò le voci delle donne. Così il mondo conoscerà le loro battaglie, conquiste e obiettivi".

Al Qaida chiama alle armi il jihadismo globale. E incorona il capo talebano nuovo Bin Laden. Gian Micalessin il 2 Settembre 2021 su Il Giornale. L'appello: "Via gli infedeli dalle terre musulmane". Ma un patto li frena. Il governo inclusivo tanto atteso da chi crede alle promesse dei «tale- buoni» sembra lontano dal veder la luce. Intanto, però, arriva la benedizione di Al Qaida che saluta la vittoria dei combattenti talebani, irride alla sconfitta di America ed Europa e riconosce a Hibatullah Akhundzada, invisibile ed enigmatico leader supremo del movimento, la qualifica di Emiro dei Credenti. Tre passaggi sufficienti a far capire che i legami tra gli eredi del Mullah Omar e il gruppo terrorista sono ancora ben saldi. Il comunicato, in inglese e arabo diffuso lunedì da Al Sahab, il dipartimento media di Al Qaida, saluta la vittoria «scritta da Allah Onnipotente grazie alla paziente comunità della jihad afghana che ha sconfitto gli imperi invasori». Il senso è chiaro. La vittoria afghana deve servire da esempio per tutti i combattenti della jihad chiamati ad «espellere gli infedeli dalle terre dei musulmani». Al Qaida promette, infatti, che Allah non mancherà di appoggiare la lotta dei palestinesi «per affrancarsi dei sionisti», del Maghreb islamico «per mettere fine all'occupazione francese» e quelle di Siria, Yemen, Somalia e Kashmir. «Il fango afghano - scrive il comunicato - ha sepolto l'arroganza di americani ed europei e l'ingordigia di quanti pensano di poter invadere le nazioni musulmane». Il messaggio punta a far capire che la guerra è solo agli inizi e il successo dei talebani servirà da sprone alle guerre condotte dagli altri gruppi jihadisti. La parte da cui emerge con chiarezza il legame simbiotico tra terroristi e talebani è quella in cui Al Qaida ringrazia Hibatullah Akhundzada, il leader talebano rimasto fin qui nell'ombra. «Ci congratuliamo - scrive il comunicato - con la guida dell'Emirato Islamico affidata all'Emiro dei Fedeli Hibatullah Akhundzada che ha sconfitto gli imperi invasori espellendoli dalla terra dei musulmani». L'utilizzo del titolo di Amir ul-Muminun, Emiro di tutti i fedeli, è altamente simbolico perchè riconosce ad Akhundzada il ruolo di «guida spirituale» non solo sui militanti talebani, ma anche su quelli di Al Qaida e gruppi collegati. Ricalcando il giuramento di fedeltà rivolto ad Akhundzada quando venne nominato leader supremo e riconoscendogli lo stesso titolo di «Emiro dei Fedeli» che fu del Mullah Omar Al Qaida sembra ammettere un ruolo di subalternità nei confronti dei talebani. Per questo molti si interrogano sulla loro effettiva disponibilità a non permetterne la presenza in Afghanistan. Una disponibilità già smentita dal ritorno nel paese natale di Amin Ul Haq. Storico collaboratore di Bin Laden e responsabile della sua scorta quando il capo di Al Qaida abbandonò il rifugio di Tora Bora Amin Ul Haq era in libertà dal 2011 quando venne scarcerato dalle autorità di Islamabad e, nei giorni scorsi, ha attraversato il confine afghano seguito da un folto gruppo di collaboratori. Del resto gli accordi di Doha, firmati da americani e talebani, non sembrano richiedere l'espulsione del movimento terrorista dai confini afghani. Nell'accordo Al Qaida viene menzionata solo due volte e - a dar retta al testo - l'unico effettivo impegno assunto dai talebani sembra quello di «non permettere» a qualsiasi gruppo «inclusa Al Qaida di usare il suolo dell'Afghanistan per minacciare la sicurezza degli Stati Uniti e dei loro alleati». Insomma i terroristi possono tranquillamente risiedere e pascolare in Afghanistan. L'importante è che non facciano nulla per colpire gli Usa e gli alleati. Ma chi lo verificherà e lo garantirà non è chiaro. 

Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria passando per le guerre della Ex Jugoslavia, del Sud Est asiatico, dell’Africa edell’America centrale. Oltre agli articoli per “Il Giornale” – per cui lavoro dal 1988 – ho scritto per le più importanti testate nazionali ed internazionali (Panorama, Corriere della Sera,Liberation, Der Spiegel, El Mundo, L’Express, Far Eastern Economic Review). Sono anche documentarista ed autore televisivo. 

Akhundzada, il nuovo leader afghano che approva la lapidazione e convinse il figlio a morire come kamikaze. di Andrea Nicastro su Il Corriere della Sera l' 1 settembre 2021. Durante il primo Emirato era ai vertici del sistema giudiziario e promuoveva la lapidazione per le adultere e il taglio della mano per i ladri. Non si sa se sarà un primus inter pares oppure un leader su modello iraniano, esterno all’esecutivo, ma con l’ultima parola su tutto. Non si sa neppure se avrà il titolo di emiro, presidente, sceicco, guida suprema, comandante dei credenti o che altro. Ma il prossimo leader dell’Afghanistan sarà mullah Hibatullah Akhundzada. Il suo nome è stato confermato ieri dalla Commissione Cultura del movimento.

I predecessori: Mullah Omar e Akhtar Mohammad Mansour. È il terzo leader talebano dal 1994, il secondo a salire al vertice del Paese. Il primo era stato Omar, il fondatore degli studenti del Corano, mullah-guerriero di cui non si conosceva neppure l’aspetto. La foto che circola, sgranata, di lui giovane con un occhio chiuso da una scheggia, è tutt’altro che certa. Da emiro si faceva sentire con audio registrati, ma mai vedere in pubblico. Omar morì di malattia, costretto per 14 anni a nascondersi, braccato da satelliti e orecchi elettronici. Il secondo è stato polverizzato da un missile americano dopo aver incontrato una delle mogli. Si chiamava Akhtar Mohammad Mansour, anche lui un mullah più kalashnikov che Corano, nominato erede dallo stesso Omar. Di lui si avevano almeno immagini confermate, ma fu nominato in esilio e morì in esilio. L’indicazione del nome di Hibatullah Akhundzada come successore era scritta nel suo testamento. Con quella scelta, la «shura di Quetta», il nucleo originario dei talebani del sud, manteneva la sua preminenza all’interno del movimento, ma, precisano i talebani, tutti gli altri gruppi lo confermarono con voto unanime. La riunione del consiglio supremo avvenne sfidando i droni americani. Alcuni capi guerriglieri non si presentarono per paura di uno strike. Mullah Hibatullah piaceva a tutti perchè non spaventava nessuno. La sua era una figura militarmente «leggera», guida spirituale, ma poco altro in un momento di guerra. Fu il suo vantaggio.

L’accordo con gli Usa a Doha e la nuova propaganda. Era il 2016 e Washington considerava i talebani dei terroristi che minavano la stabilità del governo alleato di Kabul. Il Pentagono inseguiva i leader integralisti anche fuori dai confini afghani e li uccideva. Per isolare il neo eletto Akhundzada, sembra che la Cia abbia riempito di dollari alcuni membri della sua tribù pashtun, i Noorzais, ma senza ottenere delazioni. L’atteggiamento Usa sarebbe cambiato solo due anni dopo, nel 2018, quando i talebani cominciarono ad essere considerati interlocutori indispensabili con cui firmare accordi e non più solo terroristi da combattere. Il «merito» della svolta è da attribuire anche al mullah Hibatullah. Quando venne confermato, le diverse «shure» degli studenti coranici litigavano sull’opportunità di trattare con gli «infedeli», con i «burattini di Kabul» oppure di proseguire la Guerra Santa senza negoziati. Mullah Hibatullah, invece, ha convinto tutti ad accettare il patto di Doha del 2020 con Washington. I più recalcitranti sarebbero stati il figlio del fondatore, mullah Yakub, e il network Haqqani. Segno dell’autorità del futuro leader afghano è che le varie fazioni hanno, ufficialmente, rispettato la firma del patto di Doha senza uccidere da allora neppure un americano. Del nuovo leader dell’Afghanistan abbiamo per il momento un’unica foto, ma lo stile dei talebani si è adattato ai nuovi tempi, almeno in termini di propaganda. Akhundzada dovrebbe mostrarsi in pubblico a breve. Rispetto ai predecessori ha scarse credenziali militari. In compenso è considerato un esperto di sharia, la legge islamica, e purtroppo non c’è nulla di rassicurante nella sua visione dell’Islam.

Il primo emirato tra lapidazione e taglio della mano. Durante il primo Emirato (1996-2001) Akhundzada era ai vertici del sistema giudiziario e promuoveva la lapidazione per le adultere e il taglio della mano per i ladri. Durante l’esilio la sua interpretazione della sharia si è avvicinata ai modelli suicidari iraniani poi imitati da Al Qaeda. Nei primi anni dopo il 2001 Akhundzada aveva rinunciato a incarichi politici per reclutare volontari per azioni suicide in diverse madrasse, scuole coraniche, pachistane. Akhundzada ha dimostrato di credere a quel che predicava. Uno dei suoi figli maschi, diventò shahid: nella provincia di Helmand, terra di oppio e di feroci battaglie con il contingente britannico, si fece esplodere come una bomba umana. Aveva 23 anni. Il gesto del ragazzo ha contribuito all’ascesa di Akhundzada nel Consiglio talebano. Il nuovo padrone dell’Afghanistan è lui.

La Legge Talebana.

Afghanistan, nuova stretta dei talebani: università vietata alle donne.  La Repubblica il 28 settembre 2021. "Finché un vero ambiente islamico non sarà garantito per tutti, alle donne non sarà permesso di venire all'università o di lavorarci. Islam first". Mischiando interpretazioni oscurantiste della sharia e citazioni di Donald Trump, il nuovo rettore dell'ateneo di Kabul appena nominato dai talebani, Mohammad Ashraf Ghairat, annuncia le ultime misure di segregazione imposte alle donne nel nuovo Afghanistan. "A causa della carenza di docenti donne, stiamo lavorando a un piano affinché i docenti maschi possano insegnare alle studentesse da dietro una tenda nelle classi. In quel modo verrebbe creato un ambiente islamico che permetterebbe alle studentesse di studiare", ha scritto Ghairat su Twitter, dove in inglese pubblica messaggi che evocano gli slogan dell'ex presidente americano, come "Make Kabul University (KU) Great Again". Trasformando sempre più in realtà i peggiori incubi delle afghane, il neo-rettore avverte: "Finché non avremo creato questo ambiente islamico, le donne dovranno restare a casa". Insomma, anche una delle rare concessioni fatte finora dai sedicenti studenti coranici per presentarsi come "inclusivi" è stata accantonata. Inizialmente, alle universitarie era infatti stato permesso di proseguire gli studi, vietando comunque le classi miste o dividendo le aule con tende in caso di presenza maschile. Una stretta che fa il paio con lo stop all'accesso all'educazione per le ragazze a partire dalla scuola secondaria. Giorno dopo giorno, nel nuovo Emirato islamico le donne sono sempre più nel mirino. Oltre 220 giudici hanno raccontato alla Bbc di vivere nascoste per paura di ritorsioni dopo aver fatto condannare negli anni scorsi centinaia di uomini per stupri, violenze e femminicidi: criminali che in molti casi sono stati rilasciati dai talebani. E da allora, contro le magistrate sono cominciate ad arrivare minacce di morte, costringendole a spostarsi ogni tre-quattro giorni. Intanto, la situazione nel Paese si fa sempre più caotica. Secondo l'allarme lanciato alla Bbc da Syed Moosa Kaleem al-Falahi, ad della Banca islamica dell'Afghanistan, il sistema creditizio è vicino al collasso. "In questo momento - ha spiegato il banchiere - sono in corso enormi operazioni di prelievo", e "la maggior parte delle banche non funziona e non fornisce servizi completi". Una situazione drammatica per i milioni di afghani in povertà, aggravatasi con lo stop agli aiuti internazionali. Un ritorno sul terreno delle istituzioni europee è allo studio proprio per affrontare l'emergenza umanitaria. "C'è già stata una missione esplorativa" Ue a Kabul "e ora saranno fatte le valutazioni" anche sotto il profilo della sicurezza per decidere se vi sia la possibilità di stabilirvi una presenza congiunta, spiegano da Bruxelles, precisando che ciò non comporterebbe alcun riconoscimento dei talebani. Intanto, i talebani hanno annunciato di voler adottare "temporaneamente la Costituzione del tempo di re Mohammad Zahir Shah", risalente al 1964, eliminando però dal testo tutto ciò che confligge con la loro interpretazione della legge islamica, tra cui molto probabilmente il diritto di voto alle donne.

Afghanistan, i talebani vietano il taglio delle barbe: "I parrucchieri rispettino la legge della Sharia". La Repubblica il 26 settembre 2021. I talebani hanno vietato ai parrucchieri della provincia afghana di Helmand di radersi o tagliare la barba ai loro clienti, dicendo che ciò viola la loro interpretazione della legge islamica. Chiunque venga meno alla regola sarà punito. Alcuni barbieri della capitale Kabul hanno detto di aver ricevuto ordini simili. Lo riferisce la Bbc. In un avviso affisso nei saloni della provincia meridionale di Helmand, i talebani hanno avvertito che i parrucchieri devono seguire la legge della Sharia per il taglio dei capelli e delle barbe. "Nessuno ha il diritto di lamentarsi", si legge nell'avviso, visionato dalla Bbc. "I combattenti continuano a venire e ci ordinano di smettere di tagliare la barba", ha detto un barbiere di Kabul. "Uno di loro mi ha detto che possono mandare degli ispettori sotto copertura per catturarci". Un altro parrucchiere, che gestisce uno dei più grandi saloni della città, ha detto di aver ricevuto una chiamata da qualcuno che sosteneva di essere un funzionario del governo. Gli hanno ordinato di "smettere di seguire gli stili americani" e di non radere o tagliare la barba a nessuno.

(ANSA il 24 settembre 2021) - I talebani si preparano a ripristinare le esecuzioni dei condannati per omicidio e le amputazioni delle mani e dei piedi dei condannati per furto, anche se forse non in pubblico: lo ha detto all'agenzia di stampa Associated Press Nooruddin Turabi, uno dei fondatori dell'organizzazione e responsabile dell'applicazione della legge islamica nel Paese durante il precedente governo dei mullah. Lo riporta il Guardian. 

Da "ansa.it" il 25 settembre 2021. I talebani hanno impiccato un cadavere a una gru nella piazza principale della città di Herat. Lo ha riferito un testimone all'Associated Press, mentre sul web girano alcuni video. Wazir Ahmad Seddiqi, che gestisce una farmacia sul lato della piazza, ha spiegato che quattro corpi sono stati portati sul posto e tre sono stati spostati in altre piazze della città per essere esposti. Sarebbero stati catturati durante un tentativo di rapimento e uccisi dalla polizia. Nei giorni scorsi uno dei leader talebani aveva annunciato un ritorno alle esecuzioni e alle amputazioni delle mani. 

Mutilazioni e cadaveri esposti in piazza. L'illusione dei "tale-buoni" è già finita. Gian Micalessin il 26 Settembre 2021 su Il Giornale. Gli attuali padroni del Paese cercano consensi con la sicurezza. A Herat uccisi ed esibiti quattro rapitori. "Nessuno ci sfidi". Il lupo perde il pelo, ma non il vizio. Dopo le accattivanti promesse iniziali accompagnate dalle infondate illusioni di tante «anime belle» occidentali i presunti «tale-buoni» sono pronti a riesibire la loro antica natura. A 24 ore dalle dichiarazioni su un possibile ritorno a mutilazioni ed esecuzioni pubbliche ecco i primi cadaveri appesi nelle piazze. Una messa in mostra indispensabile per dimostrare l'efficienza dell'Emirato e la sua capacità di garantire ordine e sicurezza. La lugubre esibizione è andata in scena a Herat, il capoluogo occidentale che fino a giugno ospitava il comando italiano. A innescarla hanno contribuito le bande criminali protagoniste, da settimane, di rapimenti ed estorsioni. Ieri, poche ore dopo l'ennesimo sequestro di un uomo d'affari e del figlio, i talebani hanno fermato i quattro malfattori e li hanno crivellati di colpi. I loro corpi caricati sul pianale di un mezzo della polizia sono stati prima esibiti in giro per la città e, subito dopo, appesi a quattro gru in altrettante piazze di Herat. «Tutti i rapitori - ricordava un cartello appeso ai cadaveri - faranno la fine di costoro». Un concetto ribadito dal vice governatore Mawlawi Shir Ahmad Muhajir pronto a ricordare che la messa in mostra dei cadaveri servirà da «lezione» per gli altri criminali. «Siamo l'Emirato Islamico e nessuno - ha sottolineato - deve permettersi di sfidarci. D'ora in poi nessun rapimento sarà più permesso». Un concetto non dissimile da quello esposto, ventiquattr'ore prima, dal ministro delle prigioni Nooruddin Turrani che - da ex responsabile della polizia religiosa durante il primo Emirato - ha auspicato un ritorno a mutilazioni ed esecuzioni pubbliche. «Il taglio delle mani è indispensabile per garantire la sicurezza», ha detto Turrani spiegando che il governo studia la riedizione delle vecchie pene e l'eventuale loro applicazione in luoghi pubblici per moltiplicarne l'effetto deterrente. «Nessuno deve permettersi di spiegarci quali devono essere le nostre leggi. Seguiremo l'Islam - ha spiegato Turrani - e scriveremo i nostri codici in base al Corano». Il veloce ritorno al passato dei talebani è ovviamente dettato anche da ragioni politiche. Non potendo garantire né libertà né benessere possono solo promettere, come già vent'anni fa, il mantenimento di una rigorosa e impeccabile sicurezza. Un tema peraltro assai caro all'opinione pubblica afghana. Negli ultimi vent'anni la corruzione e il disinteresse delle forze di sicurezza, impegnate quasi esclusivamente nella lotta ai talebani, ha lasciato mano libera alle organizzazioni criminali. Per i talebani il ritorno al taglio di mani e piedi e alle esecuzioni pubbliche è un modo per conquistare facili consensi in quelle grandi città dove i furti e le rapine rappresentano un'incognita quotidiana. E alla conquista del cuore e della mente di una popolazione fin qui assai scettica nei confronti dei nuovi vincitori punta anche la decisione di denunciare alla Corte Internazionale i crimini di guerra commessi dagli americani e dai loro alleati. «Abbiamo raccolto tutti i dati sui bombardamenti di ospedali, di abitazioni civili e di sale da matrimonio, oltre ad altri crimini di guerra, messi a segno dagli americani e dai loro alleati, Italia compresa, dal 2008 al 2017 e li abbiamo inviati al Tribunale dell'Aja - spiegava a Il Giornale giorni fa il ministro dell'informazione della provincia di Kandahar Noor Ahmad Said - ora attendiamo solo che aprano un'inchiesta. Vogliamo che quei crimini vengano risarciti e i loro responsabili condannati».

Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla

I ladri messi alla gogna nel Medioevo di Kabul. Paolo Brera su La Repubblica il 23 settembre 2021. I talebani espongono i criminali al pubblico ludibrio con i capelli rasati, il viso dipinto di nero e la refurtiva al collo. Per i reati maggiori scatta il taglio della mano. Dal profondo Medioevo da cui sembrano riemersi, i talebani hanno rispolverato un’antica e desueta ricetta contro la piccola criminalità: la gogna. Espongono alla folla i ladruncoli acciuffati con le mani nel sacco. Dopo averli ammanettati dietro la schiena gli tagliano qualche ciocca di capelli, gli dipingono la faccia di nero con il lucido da scarpe o con il catrame, infine gli appendono al collo un esempio di quello che hanno tentato inutilmente di arraffare: una scarpa, una latta d’olio, un coltello.

Lorenzo Cremonesi per corriere.it il 24 settembre 2021.  Ci risiamo. Il nuovo regime talebano sta seriamente considerando di tornare alle forme estreme di punizione del passato come il taglio delle mani per i ladri e le esecuzioni capitali per i reati più gravi. Ancora non parlano di lapidazione per le donne adultere, però il tema è nell’aria. A dichiararlo è un pezzo grosso del vecchio Emirato che dominò a Kabul tra il 1996 e il 2001. Si tratta del mullah Nooruddin Turabi, ex ministro della Giustizia e del famigerato Ministero per la Protezione della Virtù e la Persecuzione del Vizio (appena riaperto al posto di quello per i Diritti delle Donne) e attualmente responsabile del sistema carcerario. «Le amputazioni punitive sono necessarie per garantire la nostra sicurezza interna», ribadisce in alcune interviste ampiamente riprese dalla stampa internazionale e dai media afghani. A suo dire, tali forme punitive potrebbero non svolgersi in pubblico, come invece avveniva a scopo «deterrente» due decenni fa. Gli abitanti di Kabul hanno ancora la memoria delle lapidazioni di fronte alla folla nello stadio municipale e nel piazzale della grande moschea Ein Gah. Ma praticamente ogni città e villaggio del Paese aveva i luoghi preposti a quei macabri spettacoli, che spesso avvenivano dopo le funzioni nelle moschee ogni venerdì a metà giornata. Il Mullah Turabi ne era un convinto sostenitore. Lui stesso aveva perso un occhio e una gamba combattendo da giovane contro l’esercito sovietico. Negli ultimi giorni si è espresso a favore dell’umiliazione pubblica dei ladruncoli di strada. Le pattuglie talebane hanno la facoltà di picchiarli, tingere i loro volti di nero e mostrarli alla gente nei cassoni dei loro gipponi con le scarpe infilate in bocca. Turabi ribadisce adesso che sono scelte che vengono fatte esclusivamente dai dirigenti talebani. «Nessun altro ha il diritto di dettare quali saranno le nostre leggi», afferma, rifiutando le proteste delle organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani. D’altro canto, è anche evidente che la dirigenza talebana resta divisa tra conservatori radicali e invece elementi più moderati e preoccupati di essere riconosciuti dalla comunità internazionale. Resta forte la speranza di far sentire le proprie ragioni il prima possibile di fronte all’assemblea dell’Onu. Nelle ultime ore il mullah Mohammad Yaqoob, neoministro della Difesa e figlio del leader fondatore del movimento Mullah Omar, ha condannato duramente quelle che ha definito le «esecuzioni e le vendette per motivi personali». A suo dire tutti i responsabili e funzionari dei vecchi governi che hanno collaborato con la coalizione internazionale a guida Usa sono stati amnistiati. E i casi di violenze e abusi nei loro confronti vanno investigati con eventuali punizioni per i colpevoli. 

A Bamiyan, nel sito dei Buddha distrutto 20 anni fa dai talebani dove oggi sono sparite anche le donne. Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera il 25 settembre 2021. Loro, i due Buddha, non ci sono più. Ma le enormi cavità scavate nel fianco della montagna che ospitavano le statue restano come un dolente atto d’accusa contro la brutalità talebana. Impossibile ignorarle, dominano l’intera vallata di Bamiyan. Due ombre nere segnano le pareti di roccia friabile chiara per decine di metri d’altezza, sovrastano le abitazioni basse costruite di fango: sono il memento di un crimine culturale compiuto il 12 marzo 2001 a suon di cannonate e dinamite contro un sito che testimoniava l’era della massima espansione del buddismo verso Occidente tra il V e il VI secolo dopo Cristo. Ci arriviamo dopo sei ore di auto da Kabul, mentre il sole di metà pomeriggio esalta il vuoto delle cavità. «Personalmente mi spiace siano state distrutte. I nostri leader due decenni fa avranno avuto i loro motivi. Io sono credente musulmano. Ma quelle statue rappresentavano un importante retaggio storico dell’Afghanistan, erano parte del nostro patrimonio e potevano essere utili per riaccendere il flusso turistico dalle nostre parti», dichiara disarmante Saifurrachman Mohammadi, il 25enne che i talebani hanno posto da pochi giorni a dirigere il dipartimento culturale della municipalità. Le sue parole lasciano stupiti. «A me piacerebbe tanto che le ong straniere tornassero ad aiutare lo sviluppo della nostra regione. Voi europei potreste riprendere a lavorare per fare di Bamiyan un polo sciistico. So che erano coinvolti anche gli italiani», dice come se fosse la cosa più semplice del mondo. Ma che fare se gli stranieri portano a sciare anche mogli, figlie o fidanzate? Cosa direbbero i talebani se sulle piste comparissero anche donne sole? «Ah, questo non lo so! Ce lo spiegheranno i nostri mullah», risponde veloce. In verità non sa neppure se sarà possibile ricostruire i due Buddha, alti rispettivamente 55 e 38 metri, che da tempo alcune società giapponesi cercavano di rimettere assieme usando i frammenti trovati al suolo. «Lo decideranno i nostri leader», ribadisce.

La città tutto attorno è come addormentata. Gran parte dei vecchi dirigenti sono nascosti o fuggiti all’estero. Non si trovano i locali che lavoravano con gli stranieri. I talebani hanno posto una stazione di guardia nella zona dei Buddha e delle centinaia di celle antichissime scavate ai loro fianchi che una volta abitavano i monaci, ma di recente sono state occupate da sfollati interni. Internet non funziona, i tagli all’elettricità sono continui. Unico aspetto positivo è la sicurezza sulle strade. Sino al 15 agosto arrivare a Bamiyan da Kabul significava dribblare le bande di ladri ed evitare gli attentati talebani. Ora non più. Sta comunque riprendendo il turismo locale che, passando lungo la strada dei Buddha, in circa un’ora d’auto raggiunge le acque cristalline del sistema di laghi di Band-e-Amir. È uno dei luoghi più affascinanti del Paese. Tra le montagne brulle, segnate da pinnacoli e bastioni rocciosi, il cobalto dei laghi crea riflessi incantevoli. Qui le pattuglie talebane si contano sulle dita di una mano. Piccole imbarcazioni a pedali dalla forma di cigno sono prese d’assalto dai visitatori per pochi centesimi all’ora.

La caduta di Kabul, il ponte aereo con i disperati che cercavano di scappare, sembrano eventi remoti. Non è però difficile trovare la nota stonata che ricorda l’oppressione della nuova era: non ci sono donne, sono sparite, scomparse dai luoghi pubblici. «Sino a due mesi fa trovavi ragazze, studentesse, gruppi di amiche che affittavano i pedalò. Ora non più», dice Amir, che gestisce le barche sotto un ombrellone sul molo. Tornando a Kabul è il direttore del museo archeologico, il 37enne Mohammed Fahim Rahmi, a sottolineare l’insicurezza dominante: «Nella primavera del 2001 i talebani distrussero sia i Buddha di Bamiyan che tutte le statue e le immagini umane nel nostro museo. Cinque anni prima, prendendo Kabul, avevano annunciato una nuova era di pace e apertura al mondo. Oggi si ripete e il peggio resta possibile».

La Religione Talebana.

La Fallaci suona la sveglia all'Occidente. Alessandro Gnocchi il 14 Settembre 2021 su Il Giornale. Dal Vietnam al Kuwait, per raccontare la verità: anche sul «risveglio» islamico nel 1991. «Le scoperte e le prese di coscienza definitive avvengono solo dopo le grandi tragedie: si direbbe che l'uomo, per dare qualcosa di bello, abbia bisogno di piangere». Di lacrime, in Sveglia, Occidente. Dispacci dalle guerre dimenticate (Rizzoli, pagg. 464, euro 19) Oriana Fallaci ne versa molte. L'Oriana va alla guerra, anzi, alle guerre, da quelle dimenticate a quelle che tuttora impegnano il nostro futuro, dal terzo conflitto indo-pachistano alla prima Guerra del Golfo contro Saddam Hussein, invasore del Kuwait. Nel libro c'è anche il Vietnam nel 1969; il Medio oriente l'anno dopo, nascosta con i guerriglieri arabi di Al Fatah nelle loro basi segrete; la Cambogia con interviste ai soldati americani che si ammutinavano in gruppo e sui quali il governo lasciava cadere il silenzio; la Bolivia con i preti «in blue-jeans» della Teologia della liberazione; Haiti, con una intervista al dittatore Jean-Claude Baby Doc; e tanto altro, tra cui una lettera sulla cultura, che vi presentiamo in questa pagina. Di inedito, non c'è nulla. Sono reportage pubblicati dall'Europeo negli anni Sessanta-Settanta, con l'eccezione di quelli dal Golfo, che risalgono al 1991. La parte forse più interessante riguarda proprio il Kuwait. Ai lettori del settimanale, la Fallaci racconta il disastro ambientale causato da Saddam, che incendiò i pozzi. La Fallaci attraversa la Nuvola Nera sprigionata dal petrolio in fiamme e ha un netto presentimento della propria morte: «Da questa guerra torno con una ferita che non si vede. Perché non è una ferita esterna, una ferita che sanguina e lascia una cicatrice sulla pelle. È una ferita nascosta dentro i miei polmoni, una ferita che si rivelerà chissà quando. Tra sei mesi, tra un anno, tra due?». Si dirà sempre convinta che il tumore contro il quale lotterà come un leone sia dovuto alla Nuvola Nera. Non è la sola illuminazione. La società del Kuwait, composta da ricchissimi sceicchi, non ha opposto vera resistenza a Saddam. Gli americani non sono visti di buon occhio, fanno comodo in quel momento, perché evitano all'aristocrazia dell'oro nero di prendersi troppo disturbo. Sul punto, in quel periodo, la Fallaci è molto più esplicita sulle colonne del Corriere della Sera: «Eh, sì: nessuno ne parla perché chi se n'è accorto ritiene che sia meglio non toccar l'argomento, non svegliare la tigre che dorme. Ma c'è una guerra dentro la guerra, quaggiù». Il risorto anti-americanismo schiera i sauditi contro gli occidentali. I soldati della coalizione non sono visti come liberatori e nessuno vuole che si fermino nelle terre sacre dell'islam. Questa «guerra nella guerra», scrive la Fallaci, è guidata dai «mullah dei quartieri periferici e delle moschee meno importanti, cioè i preti estranei all'oligarchia religiosa che assieme ai cinquemila principi della famiglia reale domina il Paese» (l'articolo si può leggere in Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam, Rizzoli). Al Qaeda nasce proprio dalla «guerra nella guerra». Osama era ossessionato dalle basi statunitensi in Arabia Saudita. Per chi voleva capire le motivazioni dell'11 settembre 2001, era tutto già scritto (e non solo dalla Fallaci) nel 1991. Le autorità militari le avevano lasciato vedere poco ma Oriana aveva capito l'essenziale. Di fronte alle sue rimostranze, un militare armato di Rpg grida: «Lei è qui per farci propaganda!». Risposta: «No, signor mio. Sono qui per raccontare la verità». A posteriori, sfogliando l'indice, si può pensare, a ragione, che la Fallaci avesse visto in anticipo il mondo multicentrico di oggi, fondato su più superpotenze, e su potenze regionali talvolta non meno pericolose. Per questo, scontri all'apparenza meno «vistosi» del Vietnam furono trattati dalla Fallaci con grande cura. La questione indo-pachistana, con coinvolgimento del Bangladesh, è potenzialmente pronta a esplodere, letteralmente, a colpi di atomica. Ignorarla non è saggio. La Fallaci esigeva di essere chiamata «scrittore», al maschile, e disprezzava l'idea che alle donne fosse assegnato un ruolo particolare in ragione del sesso. D'altro canto, proprio l'attenzione al ruolo delle donne è una costante della carriera di Oriana, fin dagli esordi del Sesso inutile (Rizzoli, 1961) o Penelope alla guerra (Rizzoli, 1962). Qui ne troviamo testimonianza nell'intervista alla socialdemocratica Sirimavo Bandaranaike, prima donna premier al mondo (a Ceylon, che oggi si chiama Sri Lanka) e subito alle prese con una difficilissima situazione politica. Con i reportage si può fare Storia? Dipende. La Fallaci ci è riuscita. 

Da "la Verità" il 14 settembre 2021. Pubblichiamo un estratto del capitolo «Quell’autostrada verso il mattatoio» contenuto nel libro di Oriana Fallaci Sveglia Occidente. Dispacci dal fronte delle guerre dimenticate (Rizzoli, 464 pagine, 19 euro) in libreria da oggi. Nel volume sono raccolti suoi reportage su vari fronti di guerra, pubblicati originalmente sull’Europeo. Testo di Oriana Fallaci

Kuwait, marzo 1991. La ritirata degli iracheni dal Kuwait ebbe inizio domenica 24 febbraio quando la polizia segreta di Saddam Hussein se la svignò con gli ostaggi. Quella vera e propria però si svolse la sera di lunedì 25 quando sul lungomare della capitale si formò un convoglio lungo circa dieci chilometri, composto di migliaia di veicoli. (Tremila, dicono alcuni testimoni. Cinquemila, dicono altri.) C'era di tutto, in quel convoglio. Autocisterne piene di benzina, carri armati T-72, autoblindo, cannoni da centotrenta e da centocinquanta, camion con rimorchio e senza rimorchio, jeep con le mitragliatrici da 12.7, gipponi coi cannoncini della contraerea, motociclette, automobili rubate, e ciò che era rimasto da saccheggiare agli abitanti della città. C'erano anche parecchi militari. Facendo una media minima di quattro militari a veicolo e accettando la cifra di tremila veicoli, non meno di dodicimila. Facendo una media più realistica cioè di sei militari a veicolo e accettando la stessa cifra, non meno di diciottomila. Accettando la cifra di cinquemila veicoli e basandoci sulle medesime medie, dai ventimila ai trentamila. In ogni caso tanti, da ammazzare in un colpo solo. Tanti...Il convoglio si mise in moto verso mezzanotte e imboccò la Jaharah Road cioè l'unica strada che dal Kuwait porti a Baghdad. Ma non arrivò mai a Baghdad. Non arrivò neanche alla frontiera. Verso l'una del mattino gli americani lo individuarono grazie alla 27th Armoured Division che si trovava a qualche miglio di distanza, chiamarono gli F-15 e gli F-16 e gli F-18 e gli F-111 e gli Apache e i Cobra, e lo fermarono anzi lo distrussero con l'attacco più feroce che un esercito in ritirata abbia subito dai tempi di Napoleone. Più che un'azione di guerra, una strage da Apocalisse. «This is not a battle-field» si nota che abbia commentato con amarezza un ufficiale inglese. «This is a killing-field. Questo non è un campo di battaglia. È un mattatoio.» A destra e a sinistra della Jaharah Road si stende infatti il deserto, e non un deserto piatto nel quale puoi gettarti in cerca di salvezza: un deserto reso impraticabile dagli avvallamenti, dalle dune. Per sfuggire all'orgia di fuoco che pioveva dal cielo gli autisti dei veicoli si buttarono tra quelle dune, in quegli avvallamenti, travolti dal panico presero disperatamente a girarvi formando spirali dentro cui si imbottigliavano per scontrarsi o capovolgersi, e neanche uno si salvò. Neanche uno. Tre giorni dopo, quando spinta dalle voci d'un supposto massacro mi portai sulla Jaharah Road, rimasi così annichilita dall'orrore e dallo stupore che non credevo ai miei occhi. Per chilometri e chilometri non vedevi che quelle spirali di ferro contorto e annerito, carri armati e cannoni rovesciati, autocisterne e autoblindo e automobili bruciate, camion e rimorchi e gipponi accatastati l'uno sull'altro, a volte in piramidi alte cinque o sei metri, a volte in mucchi affogati dentro i crateri, e intorno a questo un caos di oggetti saccheggiati. Coperte di lana, lenzuoli, pezze di seta, paralumi, camicie da uomo, scarpe da donna (molte coi tacchi a spillo), vestiti da bambini, giocattoli, scatole di cipria, televisori, grattugie, posate d'oro e d'argento, smalto rosso da unghie, video, bottiglie di profumo, mazzi di cipolle, bulbi da piantare, banconote, fon per asciugare i capelli, e perfino soprammobili tra cui un falchetto impagliato, roba su cui i kuwaitiani si gettavano come avvoltoi affamati disinvoltamente rubando il rubato. «Era nostra, no?» Di morti, però, solo due. Uno, trafitto da una raffica e nero di mosche, al volante di una Mercedes. E uno, carbonizzato sotto un autoblindo. E gli altri? Dov' erano finiti i trentamila o ventimila o diciottomila o dodicimila militari del convoglio? Possibile che salvo quei due fossero già stati tutti raccolti, sepolti a tempo di record? Possibile. E a sostenere la tesi c'era la presenza di bulldozer che servono a scavare le fosse. C'era anche il racconto d'un fotografo che l'indomani aveva visto i bulldozer al lavoro, e perduto un'istantanea da premio Pulitzer. «Più che fosse, trincee interminabili dentro le quali i cadaveri venivano allineati poi coperti con la sabbia. Questo deserto è ormai un cimitero. Peccato che non possa dimostrarlo: i marines mi hanno requisito il rotolino. E conteneva un'istantanea da premio Pulitzer, sa? Quella d'un caporale che a un certo punto ha ficcato nella sabbia il Kalashnikov d'un iracheno, ci ha appoggiato sopra il suo elmetto, e portando la mano alla fronte s' è messo sull'attenti.» Infine c'era la frase pronunciata da Schwarzkopf sui soldati iracheni morti: «Many, many, many, many, many. Molti, molti, molti, molti, molti. And many have been already buried. E molti sono già stati sepolti». Eppure quando ho voluto accertarmene con gli americani, ho trovato un muro di silenzio. Per una settimana nessuno ha aperto bocca. Nessuno. Né a Kuwait City né a Dhahran, né a Riad. «I cadaveri? Che cadaveri?» «I cadaveri del convoglio.» «Il convoglio? Che convoglio?» «Quello che avete distrutto sulla Jaharah Road.» «Jaharah Road?» Solamente quando mi sono rivolta al generale Richard Neil e gli ho detto: «Signor generale, lei sa bene di che cosa parlo, altrettanto bene sa che è mio diritto chiederle questa informazione, suo dovere darmela, al comando di Riad mi hanno fornito una prova che il massacro era avvenuto». «All'attacco hanno partecipato gli F-15, gli F-16, gli F-18, gli F-111, gli Apache e i Cobra.» «E quanti morti ci sono stati? Dove li avete sepolti?» «Non ne sappiamo nulla, dei morti. Non ci risulta che siano stati sepolti. L'attacco era diretto contro i veicoli, non contro i soldati.» «Non contro i soldati? Ma che cavolo di risposta mi dà?» «La risposta che mi è stato ordinato di darle. Good evening, buona sera.» Non a caso il verbo to kill, uccidere, veniva sempre usato da loro per le cose. Mai per la gente. «Five bridges killed. Cinque ponti uccisi.» «Ten aircrafts killed. Dieci aerei uccisi.» «Fifty tanks killed. Cinquanta carri armati uccisi.» Strani tipi, gli americani di questa guerra. A me non sono piaciuti. Non erano gli americani che ho conosciuto in Vietnam: i ragazzi gioviali e simpatici coi quali potevi ridere e piangere, dividere il rancio e il posto in trincea, parlare in libertà. Non erano i militari aperti e sinceri che dicevano (magari mentendo o esagerando) oggi-ho-ammazzato-cento-vietcong. Erano uomini e donne durissimi, disciplinati fino alla nausea, chiusi in se stessi, superbi e spesso arroganti. In quel senso, a volte, mi ricordavano i tedeschi di Bismarck, e un giorno l'ho detto all'unico ufficiale con cui riuscissi a scambiare qualche battuta o qualche sorriso: una colonnella d'un metro e ottanta, Virginia Prybila, che a Riad lavorava al Joint Information Bureau. «Virginia» le ho detto, «siete diventati proprio antipatici. A volte mi ricordate i tedeschi di Bismarck. Ma che v' è successo, Virginia?» E senza muovere un muscolo del volto ferrigno, prussiano, Virginia ha risposto: «Il Vietnam».[...] So che ad alcuni non è piaciuta la mia corrispondenza sulla liberazione di Kuwait City, il mio sospetto che quello iracheno fosse un esercito di ladri e di volgari saccheggiatori piuttosto che di assassini alla Hitler, il mio bisogno di ridimensionare le esagerazioni di chi per leggerezza o interesse o sensazionalismo moltiplica uno per cento e cento per mille. (Abitudine molto diffusa in quella parte del mondo, come ricordano i trecento morti che nel 1979 l'esercito iraniano fece in una piazza di Teheran e che il giorno dopo erano diventati tremila. Il giorno dopo ancora, trentamila. La settimana seguente, trecentomila. E quando andai in Iran per intervistare Khomeyni, tre milioni.) So che coloro cui piace moltiplicare uno per cento e cento per mille si sono scandalizzati perché ho scritto di non aver trovato le prove di certe atrocità inclusa quella raggelante dei neonati strappati alle incubatrici e buttati via nella spazzatura. So che si sono irritati perché ho avanzato il dubbio che la Resistenza kuwaitiana fosse stata una cosa seria anzi che fosse esistita, o perché mi sono sorpresa a trovare migliaia di kuwaitiani che non parlavano inglese ma in perfetto inglese inneggiavano a Bush con slogan non certo inventati da loro, e perché mi sono arrabbiata a veder sparare in aria le tonnellate di pallottole che la Resistenza non aveva sparato agli iracheni. So che qualche sciocco in malafede mi ha addirittura accusato di negare che vi fossero state torture e assassinii.[...] Dio mi maledica se minimizzo la tragedia di coloro che hanno sofferto. Però mi maledica anche se mi presto al gioco dell'emiro Al Shebah Al Sabah cui certa propaganda serve per impinguare coi danni di guerra le sue cassaforte. Mi maledica anche se dimentico che almeno la metà dei suoi ricchissimi sudditi se ne stavano in dorato esilio a Londra o al Cairo o nel Bahrein o nel Qatar dove bisbocciavano a champagne con le prostitute (e il Corano?) e dove venivano presi santamente a pugni dai militari americani o inglesi o egiziani cui dicevano sghignazzando: «Perché siamo qui anziché nell'esercito kuwaitiano o nella Resistenza kuwaitiana? La guerra è una cosa pericolosa. Per farla paghiamo voi». E concludo: durante il mio secondo viaggio a Kuwait City venni aggredita da un elegantissimo giovanotto in thobi e RPG cui avevo espresso il timore che i morti straziati e mostrati ai fotografi o ai cameramen venissero riciclati dalle morgues degli ospedali. Un paio infatti m' erano sembrati identici. «La prego, dimostri che sbaglio.» «Che sbaglio e non sbaglio! Lei è qui per farci propaganda!» urlò agitando RPG. Lo guardai negli occhi e gli risposi: «No, signor mio. Sono qui per raccontare la verità».

Perché parliamo di sciiti e sunniti? Il Post.it il 30 maggio 2013. Le divisioni tra i due principali rami dell'Islam spiegano molte delle cose che succedono in Medio Oriente: per esempio perché la guerra in Siria coinvolge tutti. Soprattutto negli ultimi mesi, ma in generale quasi sempre quando si parla di cosa succede in Medio Oriente, si discute della rivalità e degli scontri tra sciiti e sunniti, i due principali rami dell’Islam. La questione è diventata di grande interesse per la stampa occidentale soprattutto da quando è iniziata la cosiddetta “primavera araba” nei paesi mediorientali e nordafricani, che ha visto spesso uno dei due rami dell’Islam contrapporsi all’altro per la conquista del potere. Ancora oggi se ne sta parlando per la situazione molto instabile dell’Iraq, per esempio, e ancora di più per quello che sta succedendo in Siria. Da diverso tempo la guerra siriana si è trasformata da “primavera araba” di carattere nazionale – come lo era nei primi mesi della rivoluzione – a scontro regionale che si combatte sulla linea di divisione sciiti-sunniti: il regime del presidente siriano Bashar al Assad, che fa parte della setta degli alawiti, affiliati agli sciiti, è sostenuto dall’Iran e da Hezbollah, entrambi sciiti; i ribelli siriani, che sono sunniti, sono sostenuti dai paesi del Golfo, tutti governati dai sunniti tranne l’Iraq, e da gruppi jihadisti anch’essi sunniti. Questo è il risultato di una lunga rivalità, sia religiosa che politica, iniziata nel 632 d.c. e proseguita e intensificata nei secoli successivi.

Un po’ di storia. Le divisioni tra sciiti e sunniti risalgono alla morte del fondatore dell’Islam, il profeta Maometto, nel 632 d.c.: la maggioranza di coloro che credono nell’Islam, che oggi noi conosciamo come sunniti e che sono circa l’80 per cento di tutti i musulmani, pensavano che l’eredità religiosa e politica di Maometto dovesse andare ad Abu Bakr, amico e padre della moglie di Maometto. C’era poi una minoranza, oggi la minoranza sciita, che credeva che il successore dovesse essere un consanguineo del profeta: questo gruppo diceva che Maometto aveva consacrato come suo successore Ali, suo cugino e genero. Il gruppo che riuscì a imporsi fu quello dei sunniti, anche se Ali governò per un periodo come quarto califfo, il titolo attribuito ai successori di Maometto. La divisione tra i due rami dell’Islam divenne ancora più forte nel 680 d.c., quando il figlio di Ali Hussein fu ucciso a Karbala, città del moderno Iraq, dai soldati del governo del califfo sunnita. Da quel momento i governanti sunniti continuarono a monopolizzare il potere politico, mentre gli sciiti facevano riferimento al loro imam, i primi 12 dei quali erano discendenti diretti di Ali. Con il passare degli anni le differenze tra i due gruppi sono aumentate e oggi ci sono alcune cose condivise e altre dibattute. Tutti i musulmani sono d’accordo che Allah sia l’unico dio, che Maometto sia il suo messaggero, e che ci siano cinque pilastri rituali dell’Islam, tra cui il Ramadan, il mese di digiuno, e il Corano, il libro sacro. Mentre però i sunniti si basano molto sulla pratica del profeta e sui suoi insegnamenti (la “sunna”), gli sciiti vedono le figure religiose degli ayatollah come riflessi di dio sulla terra, e credono che il dodicesimo e ultimo imam discendente da Maometto sia nascosto e un giorno riapparirà per compiere la volontà divina (questo è il motivo per cui, tra l’altro, il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad in molte riunioni di governo lascia una sedia vuota accanto a sé: per aspettare il ritorno del Mahdi, l’imam nascosto). Questa differenza ha portato i sunniti ad accusare gli sciiti di eresia, e gli sciiti ad accusare i sunniti di avere dato vita a sette estreme, come gli wahabiti più intransigenti: tuttavia le due sette dell’Islam non hanno mai dato vita a una guerra delle dimensioni ad esempio della Guerra dei Trent’anni, che tra il 1618 e il 1648 mise le diverse sette cristiane una contro l’altra in Europa.

La divisione nella politica, e cosa c’entra la Siria. La rivalità tra sciiti e sunniti è scoppiata a livello politico a partire dalla rivoluzione khomeinista in Iran del 1979, che ha portato alla cacciata dello scià iraniano, che fino a quel momento era stato tra le altre cose anche filo-americano, e all’instaurazione di una teocrazia islamica, sciita, in forte contrapposizione con tutti i paesi governati dai sunniti nel Golfo Persico. Dal 1979 le alleanze nella regione si modificarono, e i cambiamenti furono notevoli e con grandi conseguenze: si rafforzò l’inimicizia dei sunniti contro la cosiddetta “mezzaluna sciita”, che dall’Iran passa al regime alawita di Assad in Siria e arriva fino a Hezbollah in Libano. Questa divisione si sta realizzando concretamente in diversi paesi del Medio Oriente. In Iraq, per esempio, ci sono ogni giorno attentati di natura settaria che provocano la morte di decine di persone: nelle ultime settimane la violenza nel paese è aumentata, ma è da diversi anni che gli scontri tra iracheni sunniti e governo sciita vanno avanti, più per ragioni politiche di controllo del potere che per ragioni ideologiche. I paesi che dal 1979 stanno guidando i due fronti dell’Islam, l’Arabia Saudita sunnita e l’Iran sciita, sono entrati da diverso tempo nella guerra siriana: la prima finanziando i ribelli sunniti, il secondo mandando dei propri uomini della Guardia Rivoluzionaria e i combattenti di Hezbollah a combattere in alcune zone della Siria. Le conseguenze di quella che è stata definita da più parti come “regionalizzazione” della guerra siriana sono già molto visibili: la violenza del conflitto ha raggiunto livelli altissimi e ci sono sempre più testimonianze di brutalità e violazioni gravi dei diritti umani che ogni giorno vengono compiute in Siria. Il recente coinvolgimento di Hezbollah, confermato per la prima volta qualche giorno fa dal leader del movimento Hassan Nasrallah, ha radicalizzato ancora più lo scontro e ha permesso al fronte di Assad di recuperare molti villaggi e città nella zona della Siria che oggi viene considerata più importante dal punto di vista strategico: quella a nord del confine con il Libano, che dalla capitale siriana Damasco porta alla costa occidentale del paese.

La "legge di Dio" nel mondo, le esecuzioni e le violenze: ecco perché non ci si può fidare. Gian Micalessin il 18 Agosto 2021 su Il Giornale. "Onestamente mi sento sicuro. Forse non durerà, ma per ora è così. Se escludi l'aeroporto la situazione qui a Kabul è tranquilla. Le perquisizioni casa per casa di lunedì mattina si sono concentrate in tre quartieri". «Onestamente mi sento sicuro. Forse non durerà, ma per ora è così. Se escludi l'aeroporto la situazione qui a Kabul è tranquilla. Le perquisizioni casa per casa di lunedì mattina si sono concentrate in tre quartieri e sono state subito bloccate dai capi talebani. Oggi sono persino ricomparse le donne in Tv. Ripeto non so quanto durerà, ma per ora non ho paura». Così scriveva ieri da Kabul l'amico Tareq, confermando la sensazione di apparente sicurezza che molti nella capitale afghana ammettono di condividere. Una sensazione rafforzata dalla conferenza stampa in cui il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid ha escluso vendette su «chi ha lavorato con gli stranieri». Aggiungendo l'impegno a garantire la «sicurezza di ambasciate e ong» e riservare alle donne «un ruolo nell'istruzione e nella sanità» seppur «nel quadro della sharia». Ma in Afghanistan le sensazioni fanno presto a dissolversi. Lo ricorda bene chi nel 1996, salutò con entusiasmo l'arrivo dei talebani a Kabul. Allora gli studenti islamici -arruolati nelle scuole islamiche pakistane e armati dai servizi segreti di Islamabad- imposero ordine e stabilità in un paese vessato dalla miriade di gruppi armati e signori della guerra che -ritiratisi i sovietici- si contendevano il potere a colpi di minacce ed estorsioni. In pochi mesi, però, gli orrori delle mutilazioni rituali e delle esecuzioni sommarie -accompagnate da lapidazioni e pubbliche flagellazioni- finirono con il cancellare l'illusione di stabilità rimpiazzandola con il terrore. Oggi la storia sembra ripetersi. Il primo indicatore è la rapidità con cui i talebani hanno ripristinato l'Emirato Islamico, la stessa forma statuale inaugurata venti anni fa. Una restaurazione non soltanto simbolica. Dietro quel nome si cela il sogno di un sistema ispirato ai concetti della «sharia». Il tutto senza che uno solo dei leader talebani -dall'invisibile capo supremo Haibatullah Akhundzada fino al mullah Baradar- abbia fin qui proposto un'interpretazione della legge coranica diversa da quella usata per giustificare l'emarginazione delle donne, la lapidazione delle adultere e l'utilizzo degli attentatori suicidi. E infatti, mentre Kabul si consola con l'apparente moderazione dei talebani 2.0, dalle province più remote arrivano i resoconti dei rapimenti di decine di ragazzine appena dodicenni strappate alle famiglie vicine all'ex-governo. Mentre su internet circolano i video dello sgozzamento di 22 soldati arresisi, a giugno, agli islamisti nella città di Dawlat Abad. E non rassicura neppure la svolta di un movimento che nel 1995 distruggeva radio e tv, mettendo al bando canti e balli, mentre oggi utilizza con maestria social e telefonini. Per capirlo basta ricordare quanto già visto in Siria e Iraq dove lo Stato Islamico abbinava l'intransigenza delle decapitazioni seriali ad una raffinata comunicazione per immagini ispirata al linguaggio delle serie tv. Del resto gli stessi talebani che oggi promettono di escludere dal proprio territorio i gruppi pronti a «minacciare altri paesi» non hanno esitato sabato a rimettere in libertà migliaia di militanti di Al Qaida e dello Stato Islamico detenuti delle carceri di Bagram e Pul-I- Charky. Terroristi pronti fin da ora a usare l'Afghanistan come loro base. Per capire come nulla sia cambiato bastano le dichiarazioni di quel capo talibano che, intervistato dalla Cnn, auspica di continuare ad impugnare il kalashnikov «fino a quando la legge del Corano dominerà il resto del mondo».

Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria passando per le guerre della Ex Jugoslavia, del Sud Est asiatico, dell’Africa edell’America centrale. Oltre agli articoli per “Il Giornale” – per cui lavoro dal 1988 – ho scritto per le più importanti testate nazionali ed internazionali (Panorama, Corriere della Sera,Liberation, Der Spiegel, El Mundo, L’Express, Far Eastern Economic Review). Sono anche documentarista ed autore televisivo. I miei reportage e documentari sono stati trasmessi dai più importanti network nazionali ed internazionali (Cbs, Nbc, Channel 4, France 2, Tf1, Ndr, Tsi, Canale 5, Rai 1, Rai2, Mtv). Ho diretto i video giornalisti di “SeiMilano” la tv che ha lanciato il videogiornalismo in Italia. Ho lavorato come autore e regista alle prime puntate de “La Macchina del Tempo” di Mediaset. Ho lavorato come autore di “Pianeta7”, un programma di reportage esteri de “La 7”. Nel 2011 ho vinto il “Premio Ilaria Alpi” per il miglior documentario con un film prodotto da Mtv sulla rivolta dei giovani di Bengasi in Libia. Nel 2012 ho vinto il premio giornalistico Enzo Baldoni della Provincia di Milano. 

"Mentire per l'islam è una tattica di guerra". Fiamma Nirenstein il 19 Agosto 2021 su Il Giornale. L'esperto: "Guai a cadere nella trappola della taqiyya: fingono per sottometterci". Harold Rhode, uno degli allievi preferiti del maggiore storico del Medio Oriente, Bernard Lewis, ha lavorato per 28 anni al Pentagono nell'Ufficio del Dipartimento per la Difesa come consigliere sulla cultura Islamica. Esplicito e anticonformista, autore di molti libri, membro del Gatestone Institute e del Jerusalem Center for Public Affairs, la sua idea è che niente potrà dissuadere i talebani dal loro disegno originario, una guerra totale all'Occidente tramite il terrorismo.

Ma oggi, dottor Rhode promettono che non verrà torto un capello a nessuno e che la loro «inclusività» verrà confermata dalla politica prossima ventura.

«Chi mostra di crederci, coltiva inutili speranze. Non c'è la minima chance al mondo che i talebani cambino la loro determinazione a un governo totalitario della Sharia, oggi sul loro popolo e domani su tutto il mondo, è solo la prudenza. Trump aveva indicato una via d'uscita diversa da quello di Biden».

Ma è Trump che ha gettato le basi del disastro.

«Trump aveva detto: ce ne andiamo, ma se osate tornare a spadroneggiare, a uccidere, a torturare, di voi non resterà traccia. L'unica cosa che può fermare una forza integralista e shariatica come i talebani, è la paura di essere annientati, che è andata sparendo con Biden. E la deterrenza è l'unico sistema per bloccarli».

L'idea di abbandonare il campo come soluzione di pace è molto frequentata dall'Occidente.

«Innanzitutto, quando si occupa un Paese straniero per eliminare, come fece Israele col Libano, milizie terroriste che ti minacciano, si deve agire e poi uscire dal campo. Restare sul terreno a lungo costa denaro e vite umane».

E quindi? Lasciare che poi i terroristi costruiscano il loro potere?

«Niente affatto: le loro piramidi vanno destrutturate con la forza, poi si deve lasciare il campo, e se restano residui, avvertirli chiaramente che non osino riprendere quella strada. L'abbandono israeliano del Libano senza toccare il vertice degli Hezbollah, ha lasciato che essi diventassero i padroni del Paese; a Gaza lo stesso è successo con Hamas. Le strutture jihadiste, sciite e sunnite, vivono la loro guerra per la sharia e la jihad mondiale come una raison d'etre fondamentale. Come i talebani».

Questo significa che torneranno a colpire gli Usa?

«Questa è certamente la loro intenzione. La loro grande eccitazione non è determinata dal fatto che gli americani se ne siano andati, ma da come se ne sono andati, di corsa, senza colpo ferire. Ci pensi, i talebani hanno sconfitto tre imperi, quello inglese, quello russo, quello americano».

E tuttavia stanno cercando di apparire diversi, dando speranza a molti leader occidentali, a Guterrez, alla Merkel, anche agli italiani..

«Guai a cadere nella trappola della taqiyya, la dissimulazione per cui per il bene dell'Islam si può, anzi si deve, parlare il linguaggio del nemico, sorridere, trovare accordi. L'Iran è un perfetto esempio, i suoi rappresentanti non si peritano di condurre amichevoli trattative e di scambiare simpatetici punti di vista con tutti i rappresentanti occidentali. La verità è che il nostro mondo, per fedeltà alla sua cultura di pace, non vede l'ora di cascarci, anche quando si discutono questioni vitali come il nucleare su cui, appunto, l'Iran seguita a prendere il mondo per il naso da decenni. Il guaio è che così mettiamo a gran rischio la nostra civiltà».

L'Iran e i talebani hanno interesse a unire le loro forze per l'Islam. Pensa che questo sia possibile anche uno è sunnita e l'altro sciita?

«E già successo, come quando i figli di Bin Laden sono stati ospitati a Teheran, o quando Ismail Hanyye va a trovare gli ayatollah. Ma alla lunga il rapporto non regge, e contiene sempre un velato ricatto».

La Cina si avvantaggerà della situazione?

«L'Afganistan è ricco di metalli e di altre risorse che la Cina desidera, e Pechino ha un buon rapporto coi talebani ma loro sanno cosa fanno i cinesi ai loro fratelli musulmani nello Xinjang e anche la Cina non è fuori dai programmi talebani di islamizzazione del mondo. Anche qui la cultura ha il suo ruolo da giocare».

E in Medio Oriente?

«In Medio Oriente molti degli alleati degli americani, gli Emirati, i Sauditi, l'Egitto, Israele.. si stanno certo chiedendo se ci si può fidare degli americani in caso di bisogno. Mi sembra di sentire echeggiare un sonoro "no"».

Si può fare qualcosa?

«Salvare chi ha aiutato gli Usa in questi anni. Certo, purtroppo non si può immaginare di aprire i confini a tutti i musulmani del mondo». Fiamma Nirenstein

Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera il 17 agosto 2021. Sono più moderati rispetto ai fondatori degli anni 90, sconfitti dopo l’11 settembre, o stanno solo cercando il riconoscimento internazionale? Sono combattenti duri, formati dalle guerre. Gente abituata a lunghe marce, a dormire in bivacchi improvvisati, mangiare poco e rischiare la vita in ogni momento contro nemici che spesso hanno armi ed equipaggiamenti molto più sofisticati. Nascono in genere da famiglie e clan estremamente religiosi tra il fior fiore del mondo pashtun radicato tra l’Afghanistan sudorientale e nelle «zone tribali» del Pakistan settentrionale e del Kashmir conteso all’India. Sono i talebani, gli ex studenti delle scuole religiose islamiche cresciute sin dagli anni Settanta nel Pakistan conservatore, finanziate in buona parte dall’Arabia Saudita e legate alle tradizioni di pensiero del wahabismo sunnita teso alla ricerca della purezza originaria dell’Islam. Ma chi sono oggi i talebani? Davvero si sono moderati come proclamano? Oppure le loro aperture al mondo non nascondono altro che il desiderio di essere accettati dalla comunità internazionale per poi tornare a reprimere la loro popolazione e addirittura dare asilo ad Al Qaeda e Isis? Il loro stile appare oggi molto diverso da quello di soltanto 20 anni fa. Basti osservare come si comportano di fronte a telecamere e macchine fotografiche. Tutti noi giornalisti che ci recammo a Kabul nella seconda metà degli anni Novanta fummo prima o poi fermati (se non arrestati) brevemente dalle loro «pattuglie della moralità», che vietavano qualsiasi riproduzione o immagine del corpo umano in nome di una rigorosa interpretazione del Corano. Le foto erano tabù. Non più. I loro combattenti giocano con i cellulari scambiandosi video e immagini. Alla conferenza stampa ieri erano ben contenti di farsi riprendere e persino rispondere a giornaliste donne davanti alle telecamere. Anche questa è una tattica? Difficile pensarlo. Come del resto è evidente la nuova attenzione ai rapporti internazionali. Nei metodi e nello stile i talebani appaiono molto cambiati. Sarebbe strano il contrario, visto tra l’altro che la presenza della coalizione occidentale ha impresso una crescita strabiliante alle città e alle infrastrutture principali. Kabul 2000 era un cumulo di macerie. Oggi è una città con palazzi di compagnie straniere, banche, centri commerciali, hotel, negozi d’informatica. Le loro radici dirette nascono dalla jihad (la guerra santa) contro l’invasione sovietica negli anni 80. Loro ancora non c’erano come movimento. Ma i loro leader più importanti venivano proprio da quel mondo, allora finanziato dagli americani nel contesto della Guerra Fredda per frenare l’influenza sovietica. Furono poi nel 1994 il Mullah Omar, assieme al suo numero due Mullah Abdul Ghani Baradar, a fondare i talebani tra gli studenti delle scuole religiose di Kandahar. Ma allora gli americani se ne erano andati lasciando il Paese al compito impossibile di ricostruire le città distrutte. All’inizio persino le classi dirigenti della capitale li accolsero con sollievo. I talebani promettevano di porre fine alla frammentazione terrificante della guerra civile interna. Erano uomini primitivi, contadini con le Honda 125 e il Kalashnikov a tracolla, che imponevano il burqa, punivano l’adulterio con la lapidazione, i ladri avevano gli arti amputati. Le esecuzioni in piazza erano all’ordine del giorno. Si dicevano religiosi, ma neppure conoscevano l’arabo per leggere il Corano e adattavano la legge islamica ad ancestrali tradizioni tribali. Si finanziavano coltivando l’oppio. Ma il Mullah Omar fu persino pronto ad azzerarne la produzione per il riconoscimento da parte della comunità internazionale. E quando nel dicembre 1999 i gruppi estremisti kashmiri dirottarono su Kandahar un volo delle linee aeree indiane furono ancora i talebani, specie il loro ministro degli Esteri Muttawakil, a mediare la liberazione dei passeggeri. «Magari ora ci ascolterete», disse. Bussò a Washington e al Palazzo di vetro a New York: non trovò risposta. Pochi mesi dopo vennero minati i Budda di Bamiyan. Ma ancora nessuno li avrebbe mai disturbati, se non avessero deciso di accogliere Al Qaeda nel loro Paese. Dopo la loro velocissima sconfitta nell’ottobre-novembre 2001 si dispersero sulle montagne. Ma già nel 2006 erano di ritorno. Nel 2013 moriva Mullah Omar. Lo sostituì il Mullah Akhtar Mansour, poi ucciso nel 2016 da un drone americano. Da allora li guida il 61enne Hibatullah Akhundzada, ex capo delle Corti islamiche esperto in legge religiosa. Oggi cresce la possibilità che alla presidenza del loro nuovo governo sia nominato Baradar, che ha negoziato gli accordi di Doha con gli americani. Ma in verità si conosce molto poco dei loro equilibri interni. Non è neppure chiaro quale sia il loro reale atteggiamento nei confronti di Isis e Al Qaeda, che comunque dispongono di cellule ben presenti nel Paese. Potremmo assistere presto al braccio di ferro sul tema tra radicali pan-islamici e nazionalisti afghanocentrici. Proprio come era avvenuto nei confronti di Osama Bin Laden alla vigilia degli attentati dell’11 settembre 2001.

Cos’è la sharia, spiegato bene. Quella che viene definita "legge islamica" è in realtà un insieme di concetti che si desumono dai testi sacri: è la loro applicazione, e non i concetti da soli, a fare la differenza. Luca Misculin Il Post.it il 19 agosto 2021. A causa della riconquista dell’Afghanistan da parte dei talebani, gruppo radicale di fondamentalisti islamici, negli ultimi giorni si è parlato e discusso di sharia, che con una definizione un po’ approssimativa viene spesso definita come “legge islamica”. Di sharia ha parlato più volte anche il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, nella prima conferenza stampa ufficiale dopo la presa di Kabul: rispondendo alle domande dei giornalisti, Mujahid ha spiegato che alcune norme che verranno adottate dal nuovo governo talebano prenderanno come riferimento la sharia. Molti hanno reagito in maniera allarmata alle parole di Mujahid, anche se a far preoccupare non dovrebbe essere stato tanto il riferimento alla sharia in sé, quanto piuttosto il modo autoritario e repressivo con cui i talebani governarono fra il 1996 e il 2001, imponendo estese limitazioni alle libertà individuali. Tutti i fedeli musulmani praticanti, infatti, si dicono seguaci della sharia: e non potrebbe essere altrimenti. La parola sharia in arabo significa sentiero, retta via, e nella religione musulmana indica un insieme di concetti astratti che si desumono dai principali testi sacri. La sharia quindi non è un testo scritto, bensì, come ha scritto qualche anno fa l’esperta di studi islamici Asma Afsaruddin, «una serie di principi etici e morali ad ampio raggio», che per il fedele musulmano sono perfetti e immutabili. Da soli però non bastano per indicare la retta via, dato che molto spesso non riguardano casi specifici: a tradurre la sharia in leggi scritte e particolari (i fiqh) sono i fuqaha, i giuristi. Secondo i fedeli musulmani, dato che i fiqh sono prodotti dall’uomo, diversamente dalla sharia hanno una natura fallibile e modificabile: sono quindi aperti a interpretazioni diverse, talvolta anche contraddittorie. È uno dei tanti aspetti “orizzontali” dell’Islam, una religione in cui di fatto non esiste un’autorità centrale ritenuta diretta espressione di Dio, come nel caso del Papa per i cristiani cattolici; né un clero selezionato con metodi simili in tutto il mondo, come accade con l’ebraismo (assieme all’Islam, cristianesimo ed ebraismo condividono la credenza in un unico Dio e nella sacralità della figura di Abramo). Tutte le principali scuole di interpretazione della sharia concordano però nel selezionare le due fonti primarie da cui dev’essere dedotta: il Corano, cioè il libro delle rivelazioni che il profeta Maometto avrebbe ricevuto da Dio nel Settimo secolo d.C., e la sunna, cioè le azioni che Maometto e i suoi primi seguaci avrebbero compiuto mentre erano in vita. La sunna è rappresentata dagli hadith, cioè versi che contengono la vita di Maometto, tramandati prima oralmente e poi successivamente messi per iscritto. Le altre due fonti sono motivo di discussione fra le varie dottrine dell’Islam: sono l’ijma, cioè il consenso dei giuristi (non riconosciuto per esempio dalla dottrina sciita), e il qyias, cioè il ragionamento deduttivo che porta a prendere una decisione su un caso simile previsto dalle fonti primarie. Dato che le fonti non sono moltissime, il corpus della sharia è per forza di cose piuttosto limitato. Peraltro «solo il 3 per cento dei versetti [del Corano] presenta un vero e proprio contenuto giuridico», ha fatto notare lo studioso di diritto ecclesiastico Nicola Fiorita: «molte di queste norme disciplinano settori specifici, specie il diritto di famiglia e le successioni, o sono accompagnate da prescrizioni di carattere religioso». I contenuti della sharia si dividono in due macrocategorie: quelli che regolano il rapporto fra l’uomo e Dio (ibadat) e quelli che regolano i rapporti fra gli uomini (muamalat). Fra i primi ci sono i cosiddetti cinque pilastri dell’Islam, che hanno a che fare con la fede e la preghiera: la professione della propria fede, la preghiera, l’elemosina, il digiuno nel mese sacro di Ramadan e il pellegrinaggio alla Mecca, cioè la città in Arabia Saudita in cui si ritiene sia nato Maometto. Fra i muamalat ci sono invece le norme da tenere nei confronti delle altre persone e delle cose: per esempio l’indicazione che uomini e donne hanno pari dignità davanti a Dio (che proviene da un versetto del Corano), o ancora le norme che «impongono ai fedeli di essere giusti nei loro affari, di astenersi dalle bugie, di promuovere sempre le cose giuste e rifiutare quelle sbagliate», sintetizza la studiosa Asma Afsaruddin. Alcuni muamalat possono essere molto specifici: come per esempio l’indicazione di non mangiare la carne di suino, che si trova in quattro capitoli del Corano. Molti altri invece hanno bisogno di essere interpretati per assumere un significato concreto nella vita delle persone. Il divieto di consumare alcool che tradizionalmente viene associato all’Islam deriva da un hadith in cui Maometto vieta di consumare sostanze «intossicanti». La maggioranza delle scuole di pensiero dei giuristi musulmani della dottrina sunnita, uno dei due rami principali dell’Islam oltre a quella sciita, ritiene che il termine usato per definire le sostanze «intossicanti», khamr, si riferisca alle sostanze prodotte con l’uva e a quelle prodotte col dattero, due frutti noti per la loro fermentazione: quindi per estensione ha vietato tutte le bevande alcoliche. Ma alcuni giuristi della scuola di pensiero hanafi, la più popolare dell’Islam sunnita, pensano invece che siano khamr soltanto le bevande alcoliche che derivano dall’uva e dal dattero, e che quindi sia permesso bere per esempio del liquore ai mirtilli oppure la birra, che si produce con l’orzo. Fra le varie scuole di pensiero esistono anche divergenze molto più complesse, per esempio su alcuni crimini che i giuristi musulmani chiamano hudud. Fra questi ci sono anche i rapporti sessuali fuori del matrimonio, l’adulterio o certi tipi di rapina. Un verso del Corano prescrive che chi abbia rapporti sessuali prima del matrimonio (zina) debba ricevere 100 frustate. Col tempo però i giuristi più moderati dell’Islam hanno trovato delle scappatoie per non frustare davvero le persone che fanno sesso prima del matrimonio: per esempio spiegando che quel versetto non va interpretato letteralmente ma in maniera allegorica, oppure fissando parametri molto stringenti per identificare uno zina, che rendono praticamente impossibile eseguirne la punizione prescritta. Diversi esperti di studi islamici ricordano che nei cinque secoli in cui l’attuale Istanbul rimase sotto il dominio dell’Impero Ottomano, la cui Costituzione in alcune parti citava la sharia, soltanto una donna, nel 1680, fu condannata a morte per adulterio e uccisa con la punizione prescritta esplicitamente in un hadith, cioè la lapidazione. Come in ogni religione, soltanto le frange più estreme interpretano i testi e le norme religiose alla lettera: è per questo motivo che negli ultimi decenni, in cui gruppi che praticano un’interpretazione molto radicale dell’Islam hanno raggiunto il potere in vari paesi al mondo, in posti come l’Arabia Saudita, nelle zone controllate dal gruppo terroristico Boko Haram in Nigeria e nella regione Aceh dell’Indonesia si contano molte più lapidazioni di quante siano note nella storia dell’Impero Ottomano. Viceversa alcuni principi della sharia, soprattutto sul diritto familiare, hanno trovato spazio nelle Costituzioni dell’India e dei paesi del Nord Africa senza particolari contrasti con le norme del diritto civile e penale, spesso redatte sulla base di quelle occidentali. In molti casi i gruppi radicali si sono semplicemente serviti della dottrina conservatrice per legittimarsi come promotori dei valori tradizionali: meccanismi simili, anche se in contesti molto diversi, si osservano in Europa, in cui i partiti politici di estrema destra auspicano spesso la riscoperta delle radici cristiane dei popoli europei, dove però per cristiane intendono un’interpretazione radicale e retrograda della dottrina cattolica. Anche nel caso dei talebani l’applicazione della sharia si è spesso mischiata con altre cose. Nel suo libro sui talebani, Taliban: Militant Islam, Oil and Fundamentalism in Central Asia, lo storico pakistano Ahmed Rashid ricorda che per il popolo pashtun, cioè l’etnia di cui fa parte la stragrande maggioranza dei talebani, «i confini fra le leggi tribali pashtun e la sharia sono sempre stati molto labili». Durante i primi tempi della loro espansione in altre zone dell’Afghanistan, i talebani erano determinati a imporre un misto di sharia e leggi tribali pashtun, fatto che «venne interpretato come un tentativo di imporre le leggi pashtun di Kandahar», cioè della zona di provenienza di moltissimi talebani, «su tutto il paese»; e non come un tentativo di imporre la sharia. Per tutto questo molte dichiarazioni del portavoce dei talebani durante la conferenza stampa di martedì, tra cui quelle sulla sharia e sui diritti delle donne, sono assai difficili da giudicare, perché la loro interpretazione può essere molto ampia: citare la sharia non significa necessariamente annunciare l’imposizione del burqa, o il divieto delle donne di studiare e lavorare, come ha suggerito qualche commentatore nei giorni scorsi. Il punto sarà capire come i talebani decideranno di applicarla, con che livello di integralismo, e capire se le aperture mostrate finora siano qualcosa di reale o solo un tentativo temporaneo di mostrare una faccia più presentabile al mondo, per ottenere legittimità ed evitare l’isolamento internazionale.

I talebani "buoni" e la sharia? Donne, gay, auto e single: cosa vuole dire davvero la legge islamica. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 19 agosto 2021. «Le donne potranno lavorare e studiare ma nel contesto della sharia», giurano i talebani. Ma che bravi, si sono convertiti al buonismo e sono diventati talebuoni, hanno commentato gli illusi. Basterebbe però informarsi su cosa sia la sharia per capire come i talebani siano dei gattopardi: fingeranno di cambiare tutto per non cambiare nulla. E allora vale la pena approfondire i precetti principali (e più inquietanti) della sharia, grazie a Souad Sbai, presidente dell'associazione Donne marocchine in Italia. Con un'avvertenza: la sharia, legge islamica basata su Corano e Sunna (raccolta di scritti e detti di Maometto), può avere un'applicazione soft, come codice di comportamento etico, in Paesi più laici quali Marocco o Tunisia; e un'applicazione hard, come complesso di norme capaci di disciplinare ogni aspetto della vita, in Stati teocratici come Iran, Pakistan e Afghanistan. In 15 punti ecco allora le ragioni per cui la sua reintroduzione a Kabul non è affatto una buona notizia. 

MATRIMONI FORZATI - In nome della sharia le donne non avranno possibilità di scegliere il marito. «Dovranno accettare l'uomo loro imposto dal tutor, cioè da padre fratello, zio o cognato», nota la Sbai. «Per via della stessa mancanza di autodeterminazione, le donne non potranno divorziare». 

POLIGAMIA - Essa sarà praticata dai talebani sulla base del Corano (4:3): «Se temete di essere ingiusti nei confronti degli orfani, sposate allora due o tre o quattro tra le donne che vi piacciono». 

SPOSE BAMBINE - «L'estremizzazione della sharia, con le tradizioni tribali afghane, consentirà i matrimoni precoci, ossia il fenomeno delle bimbe spose», avverte la Sbai. Questa prassi era in vigore prima dell'intervento americano del 2001. 

DIVIETO DI GUIDARE - Alle donne sarà proibito guidare l'auto. Esse non possono essere in una posizione di guida, in quanto la loro sottomissione è prescritta nel Corano: «Gli uomini sono anteposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre» (4:34). Per la stessa ragione, la donna deve farsi accompagnare da un maschio maggiorenne quando esce di casa o viaggia. «Le donne afgane non esisteranno più come individui», rileva la Sbai. «Esse saranno private anche di carta di identità e passaporto». 

LAPIDAZIONE ADULTERE - Le donne fedifraghe verranno lapidate dai talebani, con la benedizione della sharia. Il Corano "si limita" a prevedere la fustigazione con 100 frustate. Ma sono gli hadith, i detti di Maometto nella Sunna, a benedire la lapidazione. Questa prassi trova fondamento nell'interpretazione letterale di un versetto del Corano (4:34): «Ammonite le donne di cui temete l'insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele». 

DIVIETO DI ESSERE SINGLE - I talebani stanno facendo la lista delle donne non sposate dai 12 ai 45 anni per costringerle alle nozze. «La legge islamica prevede l'obbligo di matrimonio. Le donne non maritate saranno discriminate», dice la Sbai. NO LAVORO E STUDIO «Non è vero che le donne studieranno e lavoreranno», sottolinea la Sbai, perché l'interpretazione rigorosa della sharia non lo prevede. «Questa promessa dei talebani rientra nella taqiyya, la dissimulazione, ossia la possibilità prevista nell'islam di mentire per difendere la propria fede». 

NO ATTIVITÀ POLITICA - Le donne potranno fare parte del governo, dicono i talebani. Ma ciò non è previsto dalla sharia. Anche questo proclama rientra nella prassi della taqiyya.

VELO INTEGRALE - Le donne dovranno indossare l'hijab, velo che lascia scoperta la faccia, ma non il burqa, garantiscono i talebani. Ma l'applicazione radicale della sharia determinerà l'obbligo di coprire volto e occhi. Quindi, di indossare il burqa. 

MORTE PER OMOSESSUALI - «Gli omosessuali saranno uccisi sulla base della legge islamica», avverte la Sbai. «Né sarà possibile abbandonarsi per chiunque a baci ed effusioni in pubblico».

Quello che la sinistra nasconde: ecco cosa dice la legge islamica su donne, gay, matrimoni e guida. Renato Fratello venerdì 20 Agosto 2021 su Il Secolo d'Italia. La sinistra crede alle favole e alla svolta buona dei talebani. Due giorni fa i talebani hanno assicurato che le donne potranno lavorare, studiare e uscire nel rispetto della sharia. Appunto, la sharia. Ma vediamo come viene applicata la legge islamica. Lieve, come accade in Pasi laici come Marocco o Tunisia. O avere un’applicazione più forte come accade in Iran, Pakistan e Afghanistan. Liberoquotidiano.it ha approfondito i precetti principali della sharia grazie a Souad Sbai, presidente dell’associazione donne marocchine. E li ha riassunti. Eccone alcuni. 

Legge islamica, ecco che cosa prevede. Si parte dai matrimoni forzati. «Dovranno accettare l’uomo loro imposto dal tutor, cioè da padre, fratello, zio o cognato», nota Sbai. «Per via della stessa mancanza di autodeterminazione, le donne non potranno divorziare». Altro punto, la poligamia che sarà praticata dai talebani sulla base del Corano (4:3): «Se temete di essere ingiusti nei confronti degli orfani, sposate allora due o tre o quattro tra le donne che vi piacciono».  C’è poi l’orrore delle spose bambine. «L’estremizzazione della sharia, con le tradizioni tribali afghane, consentirà i matrimoni precoci, ossia il fenomeno delle bimbe spose», avverte la Sbai. Per donne c’è anche il divieto di guidare. La loro sottomissione è prescritta nel Corano: «Gli uomini sono anteposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre» (4:34). Per la stessa ragione, scrive Libero, la donna deve farsi accompagnare da un maschio maggiorenne quando esce di casa o viaggia.

Lapidazione per le donne adultere. Altro punto. Le donne adultere verranno lapidate. Il Corano “si limita” a supporre la fustigazione con 100 frustate. Ma sono gli hadith, i detti di Maometto nella Sunna, a benedire la lapidazione. Questa prassi trova fondamento nell’interpretazione letterale di un versetto del Corano (4:34): «Ammonite le donne di cui temete l’insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele».

Lavoro, studio e omosessualità. E ancora, lavoro e studio? «Non è vero che le donne studieranno e lavoreranno», sottolinea la Sbai, perché l’interpretazione rigorosa della sharia non lo prevede. «Questa promessa dei talebani rientra nella taqiyya, la dissimulazione, ossia la possibilità nell’islam di mentire per difendere la propria fede». Sull’omosessualità. «Gli omosessuali saranno uccisi sulla base della legge islamica», avverte la Sbai.

Prendo quello che ha preso lei. A parte la libertà, non c’è grande differenza tra talebani e occidente. Guia Soncini su L'Inkiesta il 20 agosto 2021. L’Afghanistan, lo scontro di civiltà e altre sottili riflessioni geopolitiche sonciniane. Certo, ci sono alcune eccezioni. Ma sono pochissime, davvero. Sono irrilevanti, davvero. Potrei farvene una lista, e sarebbe breve. Vediamo. A parte la libertà di girare con le tette al vento (già vent’anni fa), o di fare il bagno in camicia e braghette, di indossare caftani o minigonne o addirittura pantaloni, chiome fluenti o la testa rapata come Sinéad O’Connor (sì, ho fatto anche quello). A parte la libertà di andare a letto con tutti o con nessuno, a seconda di come mi girava, senza venire fornita come premio al contenuto delle mutande di qualche soldato. A parte la libertà di farmi bocciare quattro volte all’esame per la patente perché la frizione non ho mai imparato a usarla, e il più grave cascame di questa lacuna è che dovetti ripiegare su un motorino in luogo della ben più à la page Vespa, che aveva le marce e mi si spegneva ogni due secondi; a parte la libertà di non guidare quindi la macchina non per divieto cromosomico ma per incapacità strutturale (che poi sarà cromosomica anche quella: papà – quel talebano mancato – lo diceva sempre che le donne non sapevano guidare, e non ci vuole una squadra di specialisti viennesi per diagnosticare che ho introiettato la sua convinzione, il che ha arricchito i tassisti di tutto il mondo). A parte la libertà di studiare le cose che mi piacevano e ignorare le altre, di passare intere giornate in mondi di fantasia senza che nessuno giudicasse mai certe letture o certi audiovisivi inadatti a me, senza che nessuno pretendesse di decidere come dovessi impiegare le mie giornate, con la sola limitazione che il modo in cui le passavo dovevo trovare il modo di farmelo retribuire per pagarci un affitto, e una volta trovato il modo di farmi pagare per leggere e scrivere nessuno mai avrebbe avuto il diritto di obiettare al mio non saper cucire un bottone o far bollire l’acqua per la pasta. A parte la libertà d’avere una carriera o di non avercela, di studiare o di non studiare, di credere o di non credere, di fare come mi dicono o di non farlo, di sposarmi o di restare zitella, di fare figli o di non farli; a parte le libertà che non esercito, sennò che libertà sarebbero. A parte la libertà di ordinare a domicilio tutto quel che non volevo incomodarmi a produrre in proprio, persino il cappuccino la mattina, e quella di investire i proventi delle mie attività in frivolezze quali il sushi consegnato a casa e le vacanze da sola in luoghi nei quali al massimo un albergatore stupefatto avrebbe chiesto se aspettavo che mi raggiungesse mio marito, ma mai a nessuno sarebbe venuto in mente di dirmi che no, in quella matrimoniale da sola non ci potevo stare, era la legge religiosa (può una legge essere religiosa? Davvero? Credevo succedesse solo in certi libri molto antichi e molto fantasiosi). A parte la libertà di considerare la religione una simpatica bizzarria, il prenderla sul serio una simpatica bizzarria, il prenderla sul serio di chi la contesta una simpatica bizzarria; a parte la possibilità di considerare la moglie del Gattopardo che dice il rosario o mia nonna con l’altare di padre Pio di fianco al letto uguali identiche agli invasati che si sbattezzano, che si fanno rilasciare un pezzo di carta che dica che quell’acqua che gli hanno versato in testa a sei mesi non vale, come io mi facessi certificare la rimozione dal vissuto di quegli anni di scuole di preti in cui ho imparato le preghiere in latino, come se non esistesse la memoria che trattiene quel che vuole lei et dimitte nobis debita nostra. A parte la libertà di, quando qualcuno dice «libertà», avere riempimenti automatici frivolissimi, non la Resistenza e non le guerre, non la libertà di scelta rispetto al mio corpo né quella rispetto al mio stato civile, non la libertà di stampa, di espressione, di pensiero, di parola (opere e omissioni: ve l’avevo detto, le scuole dai preti); a parte la libertà di, quando in qualunque contesto serioso si ciancia di libertà, canticchiare silenziandomi a fatica «libertà risali a ieri, ma ricordo a malapena che eri tutti i miei pensieri, il mio pranzo e la mia cena»: a parte la libertà di considerare Claudio Baglioni prioritario rispetto al 25 aprile. A parte la libertà di alzare gli occhi al cielo ogni volta che qualcuno dice che non è d’accordo ma difenderà fino alla morte la mia libertà di pensarla diversamente – che, non so se ci avete fatto caso, è una cosa che dicono sempre quelli che non difenderebbero alcunché non dico fino alla morte ma anche solo fino a un’unghia incarnita. A parte la libertà di considerare gravissima un’unghia incarnita, o altra scemenza che la libertà dal dover difendere le proprie basilari libertà, date per scontate, mi rende libera di considerare il guaio del giorno. A parte la libertà di sentir dire stronzate, pensare «ma che stronzata», e pensare che il punto sia proprio quello, che l’infettivologo in tv possa dire «sicuramente in Afghanistan è una guerra molto brutta e che dura da molto più tempo, ma anche la guerra che abbiamo combattuto anche noi in Italia contro il virus è comunque sempre una guerra», e io possa pensare «ma santa pazienza», e ognuno dei due sia libero di dire e pensare la sua e di considerare cretina la posizione dell’altro. A parte queste poche cose, quindi, e qualche migliaio di altre che ognuno potrebbe aggiungere o che tutte potremmo dare per scontate, ci tenevo a dirvi che proprio non capisco in che cosa consista questa presunta superiorità dell’occidente e del suo modello di vita rispetto a quello propugnato da quelle care persone dei talebani.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” - 5 Aprile 2017. Giovanni Sartori, fiorentino, 91 anni (quasi 92), considerato fra i massimi esperti di scienza politica a livello internazionale, da anni è attento osservatore dei temi-chiave di oggi: immigrazione, Islam, Europa. 

Professore su queste parole si gioca il nostro futuro.

«Su queste parole si dicono molte sciocchezze».  

Su queste parole, in Francia, intellettuali di sinistra ora cominciano a parlare come la destra. Dicono che il multiculturalismo è fallito, che i flussi migratori dai Paesi musulmani sono insostenibili, che l'Islam non può integrarsi con l'Europa democratica...

«Sono cose che dico da decenni». 

Anche lei parla come la destra?

«Non mi importa nulla di destra e sinistra, a me importa il buonsenso. Io parlo per esperienza delle cose, perché studio questi argomenti da tanti anni, perché provo a capire i meccanismi politici, etici e economici che regolano i rapporti tra Islam e Europa, per proporre soluzioni al disastro in cui ci siamo cacciati». 

Quale disastro?

«Illudersi che si possa integrare pacificamente un'ampia comunità musulmana, fedele a un monoteismo teocratico che non accetta di distinguere il potere politico da quello religioso, con la società occidentale democratica. Su questo equivoco si è scatenata la guerra in cui siamo».

Perché?

«Perché l'Islam che negli ultimi venti-trent'anni si è risvegliato in forma acuta - infiammato, pronto a farsi esplodere e assistito da nuove tecnologie sempre più pericolose - è un Islam incapace di evolversi. È un monoteismo teocratico fermo al nostro Medioevo. Ed è un Islam incompatibile con il monoteismo occidentale. Per molto tempo, dalla battaglia di Vienna in poi, queste due realtà si sono ignorate. Ora si scontrano di nuovo». 

Perché non possono convivere?

«Perché le società libere, come l'Occidente, sono fondate sulla democrazia, cioè sulla sovranità popolare. L'Islam invece si fonda sulla sovranità di Allah. E se i musulmani pretendono di applicare tale principio nei Paesi occidentali il conflitto è inevitabile».

Sta dicendo che l'integrazione per l'islamico è impossibile?

«Sto dicendo che dal 630 d.C. in avanti la Storia non ricorda casi in cui l'integrazione di islamici all'interno di società non-islamiche sia riuscita. Pensi all'India o all'Indonesia». 

Quindi se nei loro Paesi i musulmani vivono sotto la sovranità di Allah va tutto bene, se invece...

«...se invece l'immigrato arriva da noi e continua ad accettare tale principio e a rifiutare i nostri valori etico-politici significa che non potrà mai integrarsi. Infatti in Inghilterra e Francia ci ritroviamo una terza generazione di giovani islamici più fanatici e incattiviti che mai». 

Ma il multiculturalismo...

«Cos'è il multiculturalismo? Cosa significa? Il multiculturalismo non esiste. La sinistra che brandisce la parola multiculturalismo non sa cosa sia l'Islam, fa discorsi da ignoranti. Ci pensi. I cinesi continuano a essere cinesi anche dopo duemila anni, e convivono tranquillamente con le loro tradizioni e usanze nelle nostre città. Così gli ebrei. Ma i musulmani no. Nel privato possono e devono continuare a professare la propria religione, ma politicamente devono accettare la nostra regola della sovranità popolare, altrimenti devono andarsene». 

Se la sente un benpensante di sinistra le dà dello xenofobo.

«La sinistra è vergognosa. Non ha il coraggio di affrontare il problema. Ha perso la sua ideologia e per fare la sua bella figura progressista si aggrappa alla causa deleteria delle porte aperte a tutti. La solidarietà va bene. Ma non basta». 

Cosa serve?

«Regole. L'immigrazione verso l'Europa ha numeri insostenibili. Chi entra, chiunque sia, deve avere un visto, documenti regolari, un'identità certa. I clandestini, come persone che vivono in un Paese illegalmente, devono essere espulsi. E chi rimane non può avere diritto di voto, altrimenti i musulmani fondano un partito politico e con i loro tassi di natalità micidiali fra 30 anni hanno la maggioranza assoluta. E noi ci troviamo a vivere sotto la legge di Allah. Ho vissuto trent'anni negli Usa. Avevo tutti i diritti, non quello di voto. E stavo benissimo». 

E gli sbarchi massicci di immigrati sulle nostre coste?

«Ogni emergenza ha diversi stadi di crisi. Ora siamo all'ultimo, lo stadio della guerra - noi siamo gli aggrediti, sia chiaro - e in guerra ci si difende con tutte le armi a disposizione, dai droni ai siluramenti».

Cosa sta dicendo?

«Sto dicendo che nello stadio di guerra non si rispettano le acque territoriali. Si mandano gli aerei verso le coste libiche e si affondano i barconi prima che partano. Ovviamente senza la gente sopra. È l'unico deterrente all'assalto all'Europa. Due-tre affondamenti e rinunceranno. Così se vogliono entrare in Europa saranno costretti a cercare altre vie ordinarie, più controllabili». 

Se la sente uno di quegli intellettuali per i quali la colpa è sempre dell'Occidente...

«Intellettuali stupidi e autolesionisti. Lo so anch'io che l'Inquisizione è stata un orrore. Ma quella fase di fanatismo l'Occidente l'ha superata da secoli. L'Islam no. L'Islam non ha capacità di evoluzione. È, e sarà sempre, ciò che era dieci secoli fa. È un mondo immobile, che non è mai entrato nella società industriale. Neppure i Paesi più ricchi, come l'Arabia Saudita. Hanno il petrolio e tantissimi soldi, ma non fabbricano nulla, acquistano da fuori qualsiasi prodotto finito. Il simbolo della loro civiltà, infatti, non è l'industria, ma il mercato, il suq».

Si dice che il contatto tra civiltà diverse sia un arricchimento per entrambe.

«Se c'è rispetto reciproco e la volontà di convivere sì. Altrimenti non è un arricchimento, è una guerra. Guerra dove l'arma più potente è quella demografica, tutta a loro favore». 

E l'Europa cosa fa?

«L'Europa non esiste. Non si è mai visto un edificio politico più stupido di questa Europa. È un mostro. Non è neppure in grado di fermare l'immigrazione di persone che lavorano al 10 per cento del costo della manodopera europea, devastando l'economia continentale. Non è questa la mia Europa». 

Qual è la sua Europa?

«Un'Europa confederale, composta solo dai primi sei/sette stati membri, il cui presidente dev'essere anche capo della Banca europea così da avere sia il potere politico sia quello economico-finanziario, e una sola Suprema corte come negli Usa. L'Europa di Bruxelles con 28 Paesi e 28 lingue diverse è un'entità morta. Un'Europa che vuole estendersi fino all'Ucraina... Ridicolo. Non sa neanche difenderci dal fanatismo islamico». 

Come finirà con l'Islam?

«Quando si arriva all'uomo-bomba, al martire per la fede che si fa esplodere in mezzo ai civili, significa che lo scontro è arrivato all'entità massima».

La ricchezza talebana.

I talebani chiedono aiuto agli archeologi italiani: «Non siamo più quelli che distrussero i Buddha di Bamiyan». Il movimento islamista al potere: “Proteggeremo anche il patrimonio pre-Islam”. E interpellano gli esperti del nostro Paese. Che si dividono​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​. Giuliano Battiston su L'Espresso il 20 dicembre 2021. «Abbiamo bisogno del sostegno dell’Italia e dei vostri specialisti per tutelare il nostro patrimonio architettonico. Vogliamo che tornino a lavorare qui a Ghazni appena possibile». Lunga barba nera, giacca militare che toglie solo per la foto d’occasione, mullah Abibullah Mujahid è un uomo corpulento di 48 anni dallo sguardo tranquillo e i toni calmi. Viene da Andar, uno dei distretti di Ghazni, un’ampia provincia rurale tra la capitale Kabul e Kandahar. Mullah Mujahid usa il nome di battaglia: da 27 anni milita nel movimento islamista. Prima all’opposizione armata contro le truppe straniere e il governo di Kabul considerato fantoccio. Dall’agosto 2021 al potere. «Per 14 anni sono stato il responsabile dell’informazione nella provincia di Ghazni», spiega il mullah mentre sgrana un rosario: «È la propaganda degli americani a descriverci come gente cattiva, ma siamo ospitali». Uomo della vecchia guardia, si è meritato un posto di governo. Oggi è a capo del dipartimento per l’Informazione e la Cultura della provincia di Ghazni. Dalle sue scelte dipende uno straordinario patrimonio artistico, del cui valore sono ben consapevoli gli studiosi italiani che qui, per decenni, hanno condotto scavi e studi. Fino a quando è stato possibile. «Se il nostro ministero della Cultura dà il via libera, siamo pronti a collaborare con loro già domani. Non ci sono rischi: ci occuperemo della loro sicurezza», assicura Abibullah Mujahed. Accanto a sé, un kalashnikov. 

Fondata da Giuseppe Tucci nel 1957 «in seno all’Ismeo, l’Istituto italiano per il medio ed estremo oriente», il primo obiettivo della missione è «stato quello di rintracciare archeologicamente la Ghazni islamica, prima nota quasi esclusivamente dalle fonti, che ne illustravano l’importanza politica e lo splendore artistico». A spiegarne la storia è l’attuale responsabile della missione, Anna Filigenzi, docente all’università l’Orientale di Napoli. Gli scavi danno subito risultati importanti, ampliando la conoscenza «dell’architettura e della cultura materiale del periodo che segna la penetrazione e il radicamento dell’Islam nel Paese». 

Mullah Mujahid sembra non esserne consapevole, ma è qui a Ghazni che l’Islam si fa “afghano” e, insieme, cosmopolita. Grazie alla dinastia dei ghaznavidi. Inaugurata nel 977 dallo schiavo turco Sebuktigin, la dinastia dei ghaznavidi diventa una delle più importanti del medioevo islamico, grazie in particolare al figlio del fondatore, Mahmud. È il 998 quando, ventisettenne, eredita il sultanato e la città di Ghazni, che trasforma nel principale centro culturale dell’Asia centrale. Mahmud inaugura scuole, invita scienziati come il matematico al-Biruni, poeti e letterati come Firdusi, che a Ghazni completa lo Shanameh, il libro dei re, pietra miliare della letteratura persiana. Fa costruire caravanserragli, palazzi, moschee, giardini, ma anche dighe, ponti, strade. E lo fa grazie ai bottini conquistati nelle campagne militari indiane. Dove porta l’Islam sunnita, di cui si fa paladino, e da cui riporta influenze culturali e artistiche che condizioneranno secoli di arte islamica. Mahmud e i successori accolgono «maestranze e artigiani dalle terre conquistate al fine di creare nuovi linguaggi espressivi e abbellire il proprio regno e, soprattutto, la capitale», nota Roberta Giunta, anche lei docente all’Orientale di Napoli e vicedirettrice della missione italiana. Grazie a questa «volontà di splendore e grandezza», Ghazni finisce per meritarsi un posto tra le grandi città del medioevo islamico. Se nel centro di Ghazni c’è ancora parte dell’antica città murata, dominata da una cittadella fortificata di 45 metri costruita nel XIII secolo, è a Rowzah-e-Sultan che bisogna andare per rintracciare l’eredità della capitale dei ghaznavidi. Con un taxi collettivo ci si arriva per pochi afghanis e una decina di minuti dal centro. Qui c’è il mausoleo di Mahmud, nei cui giardini le bambine giocane con le altalene. Qualche chilometro più in là, lungo una strada sterrata si incontrano i minareti di Masud III e Bahram Shah, di cui restano le parti inferiori, a sezione stellare, poggiate su un basamento di pietra. Facevano parte di ampi edifici religiosi. In quest’area sono avvenute molte delle scoperte della missione italiana che, «mentre indagava la Ghazni islamica, rintraccia resti buddhisti sulla cima di un colle», racconta Anna Filigenzi. 

È Tapa Sardar, dove emerge «un grande santuario di fondazione regia». Oggi l’intero colle è circondato da una rete metallica. Qua e là, una torretta di avvistamento. Questa è un’area militare, strategica. Dalla cima del colle si vede una grande caserma la cui costruzione si è interrotta con il collasso della Repubblica islamica, a metà agosto. Più in là un’altra caserma, oggi occupata dai Talebani. Sotto Tapa Sardar c’è invece lo stadio cittadino. Qui poche settimane fa i Talebani hanno dispensato giustizia a modo loro: decine di frustrate per due uomini, accusati di atti sessuali contrari alla Sharia. L’esibizione pubblica è avvenuta poche ore dopo il nostro incontro con mullah Abibullah Mujahid. Che tiene a rassicurare l’ospite straniero. I Talebani non sono più quelli del primo Emirato, quelli che buttavano giù con l’esplosivo i Buddha di Bamiyan. «Non conta che appartenga al periodo precedente all’Islam: l’intero patrimonio archeologico è importante e lo proteggeremo», assicura. È la linea della leadership del movimento. Usare la politica culturale come arma politica. I Talebani ambiscono al riconoscimento del secondo Emirato, a soldi e a competenze. Qualche lezione l’hanno imparata. Chiusa con una vittoria schiacciante la partita militare contro le truppe d’occupazione, giocano una duplice partita. La prima è sul fronte diplomatico, ricordando all’Occidente che la gravità della crisi umanitaria in corso dipende dalla chiusura dei rubinetti che per 20 anni hanno alimentato la macchina statale afghana. L’altra è sul fronte culturale. Una campagna mediatica per mostrare al mondo un volto nuovo.

Pochi giorni fa, sui social del gruppo è circolata la foto dei primi due turisti arrivati al minareto di Jam, splendido esempio di architettura ghoride. Nella photo-opportunity i due, un uomo e una donna, sembrano ostaggi. Ma sul tavolino di fronte a loro ci sono tè e caramelle. Ospiti graditi. Quando ci siamo andati noi, molti anni fa, lungo la strada tra Herat e Jam, nella provincia di Ghor, si rischiava di finire sequestrati dagli stessi Talebani che oggi offrono tè. Ma quel capitolo è chiuso, sostengono i barbuti. «Il minareto è a rischio crollo, serve l’aiuto della comunità internazionale». In attesa di aiuti esterni, l’Emirato ha deciso di formare un team di 30 persone per verificare le condizioni del minareto e proteggerlo. L’operazione “talebani-amanti-della-cultura” prosegue a Kabul, dove due settimane fa ha riaperto il Museo nazionale. Se al tempo del primo Emirato, alla metà degli anni Novanta, il Museo veniva razziato, molti reperti distrutti, oggi sono i soldati del movimento a visitarlo. Anche per il museo si sono levati alti gli appelli: serve l’aiuto della comunità internazionale. Non appena i Talebani sono arrivati al potere Audrey Azoulay, direttore generale dell’Unesco, ha invocato la tutela «dell’eredità culturale dell’Afghanistan nella sua interezza». Per Martina Rugiadi, studi alle spalle sui marmi di Ghazni e co-curatrice al Metropolitan Museum di New York, i Talebani hanno imparato le regole del gioco.

«Nella loro prima iterazione governativa hanno preso spunto e fatto arma di tali posizioni ambigue e allarmiste, dimostrando di essere capaci di occupare le prime pagine dei giornali a loro piacimento», spiega all’Espresso, parlando a titolo personale. Benché benintenzionate, «le dichiarazioni universaliste sul patrimonio culturale da parte di enti intergovernativi quali l’Unesco, i proclami per salvare l’arte ancora frequenti nel mondo del collezionismo globale, appartengono a una mentalità profondamente discriminatoria», sostiene Rugiadi. Inutile trincerarsi dietro lo specialismo, o la storia. «L’archeologia ha la pretesa di interessarsi al passato, ma opera nel presente ed è responsabile di dinamiche e squilibri di potere», di cui pagano le conseguenze i cittadini e le cittadine afghane. Per questo, continua Rugiadi, dovremmo spostare «l’interesse dagli oggetti alle persone». La prima responsabilità «è verso i nostri collaboratori e colleghi, in parte ancora nel Paese». Non si può esigere che, per il “bene dell’arte”, affrontino sofferenze e sacrifici. Tra loro c’è Ghulam Rajabi Naqshband al-Hajji.

È stato lui, ricorda Giunta, ad accogliere «con un caldo sorriso e un fluente italiano che ancora parlava dopo trent’anni» la delegazione italiana nel 2002, alla ripresa dei lavori della Missione, poi di nuovo interrotti nel 2005 e proseguiti da remoto. Memoria storica della missione, Rajabi di solito vive a Ghazni. Quando la visitiamo, però, è a Herat. «Conosco meglio di chiunque altro Ghazni», dice al telefono: «Tornerei a lavorare nel settore, per la mia terra. Ho lavorato per il dipartimento dell’Informazione e cultura per 40 anni. Ma ora non c’è stipendio, né per me né per altri. Come si fa?».

Barbara Schiavulli per "la Repubblica" il 25 settembre 2021. «Non posso dirvi dove sia, né fa re alcun commento. È un argomento delicato», dice Mohammad Fahim Rahimi, direttore del Museo Nazionale dell'Afghanistan. Dove sia il tesoro di Bactrian, una delle cinque collezione di ori - circa 22 mila pezzi - più importanti al mondo, è un mistero. Qualcuno dice che sia all'estero tenuto nascosto, qualcuno che è già nelle mani dei talebani, qualcun altro che è stato diviso e messo in vari posti. L'unica certezza è che il suo valore è inestimabile, che potrebbe fare gola a molti trafficanti e che ad un governo che ha bisogno di soldi e che non vanta un amore sfrenato per la Storia antica, potrebbe essere utile. L'ultima volta che la collezione è stata vista era l'anno scorso in Cina. Ma precedentemente il tesoro - risalente al I secolo d.C - ha trascorso gli ultimi anni in giro per il mondo (anche a Torino): si pensava fosse andato perduto nel precedente governo dei talebani ma poi nel 2003 è stato ritrovato nel caveau della Banca Centrale di Kabul. L'allora presidente Hamid Karzai dovette emettere un decreto per poter scassinare la gigantesca cassaforte e riportare alla luce collane, cinture, medaglioni, perfino una corona. L'esposizione del tesoro ha fruttato fino al 2020 4,5 milioni di dollari. «Quella del 15 agosto, quando i talebani sono entrati a Kabul, ho passato la notte peggiore della mia vita», dice Rahimi mostrando la porta sigillata del museo, con tanto di nastro adesivo intorno al lucchetto. «Per due giorni abbiamo temuto saccheggi, avevamo paura che tutto andasse perduto, come negli anni '90, quando durante la guerra civile venne depredato del 70 per cento dei suoi artefatti, poi spuntati nelle aste, nei musei, nelle collezioni private di nazioni e attori internazionali». Rahimi ha trattato con i talebani perché fosse garantita sicurezza e protezione. Ora che neanche lui può rientrare nel suo ufficio, è deciso a non muoversi da quel edificio che rappresenta tutto il suo mondo. «Potrei andarmene, ma sono qui. Il mio compito è proteggere l'eredità culturale di questo paese, anche se non sarò più direttore, accetterò di fare qualsiasi cosa pur di restare qui. Questo posto, quello che rappresenta, non è importante solo per l'Afghanistan, ma per la Storia del mondo, siamo stati un crocevia, si trovano reperti dei tempi di Alessandro Magno, fino a monasteri buddisti. Ci sono 5000 siti archeologici che andrebbero esplorati, siamo come l'Italia, dove scavi si trova qualcosa». Bisogna, però, trovare il modo che i talebani accettino un compromesso con la Storia preislamica visto che tutti ricordano la distruzione dei Budda di Bamiyan nel 2001. «Il tesoro è al sicuro», assicura Abdullaq Wasiq, vicecapo della Commissione Cultura del governo talebano. «Il museo è chiuso per la sua stessa sicurezza. Non sappiamo ancora quando, ma riaprirà», mormora Wasiq con il viso tappezzato dal suo barbone nero e gli occhiali incorniciati da un turbante. «Il tesoro è a Kabul, protetto e in un posto che conosce solo il governo». Wasiq, ce lo mostra il tesoro, così possiamo testimoniare che è qui? "Non possiamo, non sono fatti vostri, è una questione afghana ». Wasiq assicura che come per ogni nazione anche per il nuovo Afghanistan la cultura è importante e che nessuno ha intenzione di distruggere alcunché. «Una nazione senza cultura, è senza identità», dice. Poi però scuote la testa quando viene incalzato sulla scuola negata alle ragazze delle superiori. «Ci andranno quando sarà sicuro per loro, tutto deve essere fatto in modo appropriato e rispettando la legge islamica ». Ma l'Islam non vieta alle donne di lavorare. «No, ma ci sono lavori consoni, come badare alla casa». Wasiq, parla un discreto inglese, imparato nella prigione americana di Bagram dove è stato rinchiuso per due anni (2007-2009), era il portavoce dei talebani nella provincia di Zabul e gestiva una radio di propaganda. Sottoposto a torture di cui non vuole parlare, trascorreva il tempo a scrivere poesie sulla libertà, contro gli americani e l'amore per la patria, forse per questo è strano vederlo con un iphone di ultima generazione. Non è haram, proibito, un cellulare americano? Wasiq per la prima volta fa una smorfia che sembra un sorriso, «Un telefono è come un coltello: puoi tagliarci il cibo o uccidere un uomo. Perché non dovremmo usare un iphone? Siamo in buoni rapporti con gli americani, noi volevamo solo che non controllassero il nostro paese, ma qui sono i benvenuti».

Pechino ha ottenuto i diritti di sfruttamento. Perché la Cina punta all’Afghanistan: paradiso di minerali, economicamente appetibile. Vittorio Ferla su Il Riformista il 7 Settembre 2021. Rame, oro, petrolio, gas naturale, uranio, bauxite, carbone, terre rare, litio, cromo, piombo, zinco, pietre preziose, talco, zolfo, travertino, gesso e marmo. Il menu di risorse naturali di cui è dotato l’Afghanistan è vasto e vario. E rende economicamente appetibile un paese di solito ritenuto tra i più poveri e arretrati del mondo. Un rapporto del Congressional Research Service degli Stati Uniti, pubblicato a giugno, stima che il 90% degli afghani vive al di sotto del livello di povertà con soli 2 dollari al giorno. La domanda è se, tornati al potere dopo 20 anni, i talebani saranno capaci di sfruttare un patrimonio di minerali che per gli analisti potrebbe valere fino a tre trilioni di dollari. Un patrimonio che, nel momento in cui la ripresa economica globale dopo lo shock del coronavirus fa impennare i prezzi per tutto, dal rame al litio, acquista ancora maggiore valore. Il paese dei talebani possiede per esempio uno dei più grandi giacimenti di litio al mondo: un componente essenziale ma scarso nelle batterie ricaricabili – fondamentale dunque per garantire la durata delle batterie dei nostri smartphone – e in altre tecnologie vitali per affrontare la crisi climatica. È questa la ragione per cui l’Afghanistan è stato considerato “l’Arabia Saudita del litio”. Come ricorda Rod Schoonover, scienziato ed esperto di sicurezza che ha fondato l’Ecological Futures Group, «l’Afghanistan è certamente una delle regioni più ricche di metalli preziosi tradizionali, ma anche di metalli necessari per l’economia emergente del 21° secolo». La grave instabilità politica del paese, la mancanza di sicurezza, la carenza di infrastrutture e le gravi siccità hanno impedito finora l’estrazione dei minerali più preziosi. Nonostante tutti questi ostacoli, le ricchezze del sottosuolo afghano attirano parecchio gli altri paesi asiatici, soprattutto Cina, Pakistan e India, che vorrebbero approfittare del vuoto lasciato dagli americani. La partita economica è enorme, i conseguenti profitti geopolitici altrettanto. La domanda di metalli come il litio e il cobalto, nonché di elementi delle terre rare come il neodimio, è in costante aumento perché entrano nei componenti delle auto elettriche e delle altre tecnologie pulite che riducono le emissioni di carbonio. Un mercato destinato a crescere: secondo l’Iea, l’International Energy Agency, senza le adeguate forniture globali di litio, rame, nichel, cobalto ed elementi delle terre rare, il mondo fallirà nel suo tentativo di sfidare la crisi climatica. Sempre secondo l’Iea, l’auto elettrica media richiede sei volte più minerali di un’auto convenzionale. Litio, nichel e cobalto sono fondamentali per le batterie. Le reti elettriche richiedono anche enormi quantità di rame e alluminio, mentre gli elementi delle terre rare vengono utilizzati nei magneti necessari per far funzionare le turbine eoliche. Tre paesi oggi controllano attualmente il 75% della produzione globale di litio, cobalto e terre rare: Cina, Repubblica Democratica del Congo e Australia. L’Afghanistan, secondo le stime del governo degli Stati Uniti, può contare su depositi di litio capaci di competere con quelli della Bolivia, il paese che ha finora le più grandi riserve conosciute del mondo. Come ha spiegato anni fa sulla rivista Science Said Mirzad, advisor della US Geological Survey, “se l’Afghanistan avrà qualche anno di calma, consentendo lo sviluppo delle sue risorse minerarie, potrebbe diventare uno dei paesi più ricchi dell’area entro un decennio”. Ma la calma indispensabile per far ripartire l’economia e sfruttare le miniere è ben lontana. La maggior parte della ricchezza mineraria dell’Afghanistan è rimasta finora nel sottosuolo e rischia di rimanervi a lungo. È tutta da verificare, infatti, la capacità dei jihadisti di mettere in piedi un governo stabile. Così come sono molto alti i rischi di una guerra civile con il coinvolgimento delle potenze regionali confinanti. Infine, i talebani non sono stati ufficialmente designati come organizzazione terroristica straniera dagli Stati Uniti. In queste condizioni, è difficile attrarre investitori stranieri. «La governance funzionale del nascente settore minerario è probabilmente lontana molti anni», spiega alla Cnn Mosin Khan, membro del Consiglio Atlantico ed ex direttore per il Medio Oriente e l’Asia centrale presso il Fondo monetario internazionale. Oggi i minerali generano solo un miliardo di dollari all’anno in Afghanistan. Il 40% di questo miliardo è finito nei rivoli della corruzione, dai signori della guerra ai talebani. Khan avverte che gli investimenti esteri erano già difficili da trovare prima che i talebani spodestassero il governo civile afghano sostenuto dall’Occidente. Attrarre capitali privati sarà ancora più difficile ora, che i rischi di investimento sono ancora più alti. «Chi ha intenzione di investire in Afghanistan quando non erano disposti a investire prima?» Chiede Khan. «Gli investitori privati non correranno il rischio». Vista la situazione così caotica, numerosi osservatori attendono di capire come si muoverà la Cina, che oggi è un leader mondiale nell’estrazione di terre rare. Senza essere stato direttamente coinvolto nella lunga guerra, il Dragone è riuscito a proporsi come valida alternativa diplomatica ed economica, ricavandosi un ruolo di sponsor della stabilità in Afghanistan: un ruolo che potrebbe aumentare il proprio peso quando i talebani avranno consolidato il loro potere. Pechino ha concentrato sapientemente i propri sforzi sul settore economico, ottenendo – primo investitore non afghano e in competizione con l’India – i diritti di sfruttamento dei più grandi giacimenti minerari ed energetici dell’Afghanistan. Sotto l’ex Ministero delle Miniere, un contratto da 2,9 miliardi di dollari per una parte del deposito di rame di Aynak è stato concesso a due società cinesi di proprietà statale. Il contratto di 30 anni firmato nel 2007 prevedeva un alto tasso di royalty per gli standard globali e richiedeva che la fusione e la lavorazione del minerale fossero eseguite localmente. Altre condizioni includevano la costruzione di una centrale a carbone da 400 megawatt e una ferrovia fino al confine con il Pakistan. È stato inoltre stabilito che l’85%-100% dei dipendenti, dalla manodopera qualificata al personale dirigente, sia di nazionalità afghana entro otto anni dalla data di inizio del lavoro. «Sebbene originariamente concordati, questi termini sono stati successivamente dichiarati onerosi dalle società, arrestando lo sviluppo della partnership», avverte però Scott L. Montgomery, un docente dell’Università di Washington sulla rivista The Conversation. Questa vicenda lascia aperta la domanda sull’impegno della Cina. Per alcuni Pechino potrebbe tornare alla carica. Ma, in tal caso, con gravi rischi di sfruttamento dell’area: secondo lo scienziato Rod Schoonover, dati i precedenti della Cina, la sostenibilità dei progetti minerari è tutta da verificare. Per altri esperti, i progetti di investimento cinesi poi bloccati, come quello sul rame, dimostrano che Pechino potrebbe essere scettica rispetto all’idea di collaborare direttamente con i talebani, data l’instabilità in corso, preferendo piuttosto sostenere l’influenza a Kabul di altri paesi amici come il Pakistan. Resta il fatto che l’Afghanistan rappresenta un luogo di passaggio per la “Nuova Via della Seta”, l’iniziativa geoeconomica del governo cinese. Proprio per questo, Washington cerca di rispondere, sul fronte opposto, stimolando una politica di espansione dell’India, il primo competitor della Cina nell’Asia centrale. Coperta da obiettivi di sicurezza e di lotta al terrorismo, la finalità principale del governo Usa è quella di contenere l’espansione cinese verso ovest e le ex-repubbliche sovietiche e il conseguente accesso privilegiato alle risorse naturali della regione. L’India, nel frattempo, ha già impegnato un miliardo di dollari in progetti infrastrutturali e di assistenza in Afghanistan. Vittorio Ferla

Monica Perosino per “La Stampa” l'1 settembre 2021. Dopo vent’anni i taleban sono tornati a essere i padroni dell’Afghanistan e della sua immensa riserva mineraria ancora intonsa. Le aspre e magnifiche montagne, nate 40 milioni d’anni fa, racchiudono un tesoro di rame, oro, gemme preziose, ferro e terre rare per un valore che oscilla tra mille e tremila miliardi di dollari, secondo l’ultimo rapporto dell’US Geological Survey. Minerali custoditi nel sottosuolo, non ancora sfruttati, in uno scrigno che dal Hindu Kush arriva fino all’altopiano sud-occidentale. Una ricchezza smisurata se calata in un mondo agli albori della transizione ecologica e affamato di terre rare, un mondo in cui le risorse afghane pesano molto più del loro valore economico come impatto sugli equilibri geopolitici globali. Il sottosuolo dell’Emirato è ricco di risorse come rame, oro, petrolio, gas naturale, uranio, bauxite, carbone, minerale di ferro, litio, cromo, piombo, zinco, pietre preziose, talco, zolfo. Ma la dote che fa gola a molti sono quei 1,4 milioni di tonnellate di terre rare, un gruppo di 17 elementi fondamentali per le loro applicazioni nell’elettronica di consumo e nelle attrezzature militari, necessari per realizzare prodotti di alta tecnologia. Le terre rare si trovano in beni di largo consumo come smartphone e televisori, e sono pilastri per la green economy, in quanto essenziali per realizzare pannelli fotovoltaici e auto elettriche. Per non parlare del litio: già nel 2010 il Pentagono definiva l’Afghanistan «l’Arabia Saudita del litio» per le sue enormi riserve del metallo fondamentale per auto elettriche e batterie, talmente richiesto che nel 2020 è entrato nella lista ufficiale delle 30 materie prime considerate dall’Ue «critiche» per l’indipendenza energetica, un metallo per il quale l’Aie ha stimato che la domanda globale aumenterà di 40 volte entro il 2040. Altre terre rare come il neodimio, il praseodimio o il disprosio sono cruciali nella fabbricazione di magneti utilizzati nelle industrie del futuro, come l’eolico o le auto elettriche. Che uno dei Paesi più poveri del mondo nascondesse un tesoro immenso non è una scoperta dell’Usgs. I primi a comprendere il potenziale del sottosuolo afghano erano stati i sovietici durante l’occupazione terminata nel 1989. I rapporti vennero nascosti per anni, fino a quando nel 2001 non ci mise sopra le mani la Cia. Da allora, il fascino dell’Afghanistan come un Klondike dilaniato dalla guerra non si è mai offuscato: George W. Bush ha condotto rilievi aerei per mapparne le risorse, Obama ha istituito una task force per cercare di impiantare un’industria mineraria, Trump ha esplorato le potenzialità dell’estrazione su vasta scala. Ma, uno dopo l’altro, i sogni sovietici e americani di impossessarsi del tesoro seppellito sotto l’Afghanistan si sono infranti sulla situazione politica instabile e sulla totale mancanza di infrastrutture. Neanche i taleban, oggi come vent’anni fa, hanno la forza – da soli – di sfruttare quelle risorse che, se estratte, renderebbero il Paese uno dei più grandi centri minerari al mondo e trasformerebbero radicalmente l’economia taleban, in gran parte basata sulla produzione di oppio e sul traffico di stupefacenti. Ma nella corsa al Klondike asiatico c’è qualcuno che non si è fatto scoraggiare da guerre, occupazioni, diritti umani violati. Mentre la presa di potere dei taleban ha scoraggiato la maggior parte degli investitori, la Cina sembra più che predisposta a fare affari con la nuova Kabul: a poche ore dalla presa del palazzo presidenziale, la seconda economia mondiale si è detta pronta ad avere relazioni «amichevoli e cooperative» e già a luglio il ministro degli Esteri cinese Wang Yi aveva incontrato il leader taleban Baradar, forse ricordando a quelli che sarebbero stati i nuovi padroni del Paese quel contratto che detiene dal 2007 per sfruttare il gigantesco giacimento di rame di Mes Aynak, un progetto che secondo il giornale statale cinese Global Times, «potrebbe partire dopo che la situazione si sarà stabilizzata». Peccato che il Mes Aynak, oltre a essere il secondo giacimento di rame al mondo, sia soprattutto un immenso sito archeologico, con centinaia di templi buddhisti posati su civiltà risalenti a 5 mila anni fa. Ma gli affari sono affari e alla Cina l’Afghanistan interessa «sopra» e «sotto»: sopra, per la sua posizione strategica sul corridoio sino-pachistano della Nuova Via della seta; sotto, per le sue ricchezze minerarie. I giacimenti cinesi soddisfano il 70% del fabbisogno mondiale di terre rare, l’Europa dipende da Pechino per il 98%, ma la domanda globale non fa che aumentare. Se la Cina mettesse le mani sul tesoro dei taleban il peso economico e geopolitico di Pechino non avrebbe più confini.

Lingotti, titoli di Stato e gioielli. Il tesoro afghano bloccato all’estero. Ettore Livini su La Repubblica il 19 agosto 2021. La battaglia militare, diplomatica e politica sul terreno è stata persa in meno di una settimana. E ora l’Occidente prova a frenare la presa dei talebani sull’Afghanistan con l’arma che (in fondo) sa usare meglio: il denaro. I nuovi padroni di Kabul hanno preso il controllo fisico del Paese in pochi giorni. Ma faticheranno molto di più – così si augurano Stati Uniti ed Europa – a mettere le mani sulle sue ricchezze finanziarie: lingotti d’oro, riserve in valuta straniera, titoli di stato americani e i 21 mila gioielli degli Ori di Bactrian che valgono in tutto qualcosa come 9,5 miliardi di dollari (metà del Pil annuo nazionale) ma che sono quasi tutti custoditi all’estero e in gran parte già “congelati”. «Il regime talebano è sotto sanzioni – ha twittato Ajmal Ahmady, il governatore della Da Afghanistan Bank (Dab), la Banca centrale che custodiva questo patrimonio, fuggito dalla capitale nei giorni scorsi – e penso che riuscirà ad accedere al massimo allo 0,1%-0,2% delle riserve». Il governo provvisorio, appena entrato a Kabul, ha iniziato subito la caccia a questo tesoretto che basterebbe da solo - secondo la Banca mondiale – a pagare tutte le importazioni di cui l’Afghanistan ha bisogno per 15 mesi. Le milizie hanno preso il controllo immediato degli edifici del ministero dell’economia, dei caveau della Dab e del Palazzo presidenziale. Dentro però, è il parere di Ahmady, hanno trovato poco: le 22 tonnellate di riserve auree nazionali (valore 1,3 miliardi di dollari) sono sotto chiave nelle casseforti della Federal Reserve di New York. Nel bilancio della Banca centrale c’erano anche 6,1 miliardi di investimenti, in gran parte in titoli di stato Usa. Quasi tutta questa somma però è depositata presso banche a stelle e strisce con una quota residuale sui conti correnti della Banca dei Regolamenti internazionali in Svizzera e della Banca per la cooperazione, il commercio e lo sviluppo turco. E la Casa Bianca, secondo il Washington Post, avrebbe già disposto il sequestro di tutti i beni custoditi negli Stati Uniti. I talebani dovrebbero invece essere riusciti a recuperare circa 372 milioni di dollari in valuta straniera parcheggiati nelle varie sedi della Dab nel Paese, la liquidità che garantiva il funzionamento dell’economia e del commercio nazionale. Nei sotterranei del palazzo presidenziale fino a poche settimane fa erano custoditi anche 160 milioni di dollari in lingotti d’oro e monete d’argento. Ma non è chiaro se e quanto di questa fortuna sia stato messo al sicuro dall’ex presidente Ashraf Ghani, che ha smentito le voci secondo cui sarebbe fuggito negli Emirati portando con sé decine di milioni di dollari. Nessuno invece sa che fine abbia fatto il tesoro di Bactrian già sfuggito in modo rocambolesco ai talebani alla fine degli anni ’90. All’epoca i custodi di questi incredibili manufatti trovati nelle tombe dei nomadi Kushan vicino alla capitale dell’antico regno greco-battriano erano riusciti a nasconderli nelle cantine del palazzo presidenziale, in un caveau che si apriva solo con cinque chiavi differenti conservate da cinque persone diverse. E i 21 mila oggetti erano stati recuperati nel 2003 quando ormai erano dati per dispersi. Non è chiaro se anche questa volta sono stati messi in sicurezza o sono già finiti in mano ai talebani. La diplomazia occidentale, oltre a congelare i beni afghani all’estero, sta già provvedendo a bloccare gli aiuti al Paese. Qualcosa come quattro miliardi all’anno che garantiscono il 22% del prodotto interno lordo e il 75% delle spese pubbliche. Il 23 agosto il Fondo Monetario internazionale avrebbe dovuto girare a Kabul un assegno di 445 milioni come distribuzione dei diritti di riscatto tra i soci. I vertici dell’Fmi hanno però sospeso il pagamento «alla luce della mancata chiarezza sul riconoscimento del governo provvisorio da parte della comunità internazionale». La strategia dell’isolamento finanziario, insomma, è cominciata. Se funzionerà però è tutto da vedere. «Il conto lo pagheranno soprattutto i più poveri che vedranno schizzare in su i prezzi e non avranno accesso ai loro soldi in banca», ha “cinguettato” amaro Ahmady. In soccorso del nuovo governo di Kabul potrebbero arrivare la Russia o la Cina, per interessi geopolitici ma anche per mettere le mani sulle grandi riserve minerarie (in particolare di litio) dell’Afghanistan. I talebani, che da tempo si autofinanziano con le tasse sulla coltivazione di oppio e il contrabbando non solo di narcotici ma soprattutto di carburante e beni di consumo, controllano ora tutte le vie di comunicazione chiave con l’estero. Colli di bottiglia dove chi esercita il potere raccoglie imposte (quasi sempre illegali) per svariate centinaia di milioni su tutto quello che transita. E con questo tesoretto la “resistenza economica” all’embargo straniero potrebbe durare anni.

Ettore Livini per “la Repubblica” il 20 agosto 2021. La battaglia militare, diplomatica e politica sul terreno è stata persa in meno di una settimana. E ora l'Occidente prova a frenare la presa dei talebani sull'Afghanistan con l'arma che (in fondo) sa usare meglio: il denaro. I nuovi padroni di Kabul hanno preso il controllo fisico del Paese in pochi giorni. Ma faticheranno molto di più - così si augurano Stati Uniti ed Europa - a mettere le mani sulle sue ricchezze finanziarie: lingotti d'oro, riserve in valuta straniera, titoli di stato americani e i 21 mila gioielli degli Ori di Bactrian che valgono in tutto qualcosa come 9,5 miliardi di dollari (metà del Pil annuo nazionale) ma che sono quasi tutti custoditi all'estero e in gran parte già "congelati". «Il regime talebano è sotto sanzioni - ha twittato Ajmal Ahmady, il governatore della Da Afghanistan Bank (Dab), la Banca centrale che custodiva questo patrimonio, fuggito dalla capitale nei giorni scorsi - e penso che riuscirà ad accedere al massimo allo 0,1%-0,2% delle riserve». Il governo provvisorio, appena entrato a Kabul, ha iniziato subito la caccia a questo tesoretto che basterebbe da solo - secondo la Banca mondiale - a pagare tutte le importazioni di cui l'Afghanistan ha bisogno per 15 mesi. Le milizie hanno preso il controllo immediato degli edifici del ministero dell'economia, dei caveau della Dab e del Palazzo presidenziale. Dentro però, è il parere di Ahmady, hanno trovato poco: le 22 tonnellate di riserve auree nazionali (valore 1,3 miliardi di dollari) sono sotto chiave nelle casseforti della Federal Reserve di New York. Nel bilancio della Banca centrale c'erano anche 6,1 miliardi di investimenti, in gran parte in titoli di stato Usa. Quasi tutta questa somma però è depositata presso banche a stelle e strisce con una quota residuale sui conti correnti della Banca dei Regolamenti internazionali in Svizzera e della Banca per la cooperazione, il commercio e lo sviluppo turco. E la Casa Bianca, secondo il Washington Post , avrebbe già disposto il sequestro di tutti i beni custoditi negli Stati Uniti. I talebani dovrebbero invece essere riusciti a recuperare circa 372 milioni di dollari in valuta straniera parcheggiati nelle varie sedi della Dab nel Paese, la liquidità che garantiva il funzionamento dell'economia e del commercio nazionale. Nei sotterranei del palazzo presidenziale fino a poche settimane fa erano custoditi anche 160 milioni di dollari in lingotti d'oro e monete d'argento. Ma non è chiaro se e quanto di questa fortuna sia stato messo al sicuro dall'ex presidente Ashraf Ghani, che ha smentito le voci secondo cui sarebbe fuggito negli Emirati portando con sé decine di milioni di dollari. Nessuno invece sa che fine abbia fatto il tesoro di Bactrian già sfuggito in modo rocambolesco ai talebani alla fine degli anni '90. All'epoca i custodi di questi incredibili manufatti trovati nelle tombe dei nomadi Kushan vicino alla capitale dell'antico regno greco- battriano erano riusciti a nasconderli nelle cantine del palazzo presidenziale, in un caveau che si apriva solo con cinque chiavi differenti conservate da cinque persone diverse. E i 21 mila oggetti erano stati recuperati nel 2003 quando ormai erano dati per dispersi. Non è chiaro se anche questa volta sono stati messi in sicurezza o sono già finiti in mano ai talebani. La diplomazia occidentale, oltre a congelare i beni afghani all'estero, sta già provvedendo a bloccare gli aiuti al Paese. Qualcosa come quattro miliardi all'anno che garantiscono il 22% del prodotto interno lordo e il 75% delle spese pubbliche. Il 23 agosto il Fondo Monetario internazionale avrebbe dovuto girare a Kabul un assegno di 445 milioni come distribuzione dei diritti di riscatto tra i soci. I vertici dell'Fmi hanno però sospeso il pagamento «alla luce della mancata chiarezza sul riconoscimento del governo provvisorio da parte della comunità internazionale ». La strategia dell'isolamento finanziario, insomma, è cominciata. Se funzionerà però è tutto da vedere. «Il conto lo pagheranno soprattutto i più poveri che vedranno schizzare in su i prezzi e non avranno accesso ai loro soldi in banca», ha "cinguettato" amaro Ahmady. In soccorso del nuovo governo di Kabul potrebbero arrivare la Russia o la Cina, per interessi geopolitici ma anche per mettere le mani sulle grandi riserve minerarie (in particolare di litio) dell'Afghanistan. I talebani, che da tempo si autofinanziano con le tasse sulla coltivazione di oppio e il contrabbando non solo di narcotici ma soprattutto di carburante e beni di consumo, controllano ora tutte le vie di comunicazione chiave con l'estero. Colli di bottiglia dove chi esercita il potere raccoglie imposte (quasi sempre illegali) per svariate centinaia di milioni su tutto quello che transita. E con questo tesoretto la "resistenza economica" all'embargo straniero potrebbe durare anni.

La "ricchezza" della jihad. Oppio, l’arma economica dei talebani: un mercato da 6 miliardi per acquistare armi. Vittorio Ferla su Il Riformista il 20 Agosto 2021. Oltre 6 miliardi di dollari all’anno: questo il valore del mercato illegale della droga in Afghanistan, uno dei paesi più poveri al mondo, ma leader mondiale del traffico di oppio. Secondo l’Ufficio droga e crimine dell’Onu, il paese dedica ben 224 mila ettari alla coltivazione del papavero da oppio. Grazie al controllo di questo traffico, i talebani hanno potuto acquistare armi, reclutare migliaia di giovani, corrompere i funzionari e controllare il territorio. Gli Usa hanno speso circa 8,6 miliardi di dollari tra il 2002 e il 2017 per soffocare il traffico di droga in Afghanistan. Oltre all’eradicazione del papavero, Washington ha appoggiato programmi di colture alternative (per esempio l’ulivo), raid aerei su sospetti laboratori di eroina e altre misure. Tutto vano, pare. Gli agricoltori che dipendono dalla produzione di oppio per sfamare le loro famiglie oggi simpatizzano per i talebani. «Controllare il traffico degli stupefacenti vuol dire garantire la sicurezza e la democrazia di un Paese», spiega Antonella Soldo, coordinatrice di Meglio Legale, la campagna per la legalizzazione della cannabis. E conclude: «La terribile attualità dovrebbe farcelo capire: il dibattito sulle droghe non può essere più rimandato». Vittorio Ferla

Andrea Nicastro per il “Corriere della Sera” il 26 agosto 2021. Pino Arlacchi, lei da direttore dell'agenzia Onu contro la droga, è tra i pochi al mondo ad aver negoziato direttamente con i talebani del primo Emirato. Li convinse anche ad azzerare la coltivazione dell'oppio nel 2001.

È giusto trattare con loro?

«Se non tratti col nemico, con chi lo fai? E poi, senta, non sono alieni. Dobbiamo ammettere che se dopo 20 anni ce li ritroviamo lì, vittoriosi, vuol dire che qualche consenso tra la popolazione ce l'hanno. Conquistato il potere, però, camminano su un filo. Il Paese ha problemi immensi e loro sanno che se non danno risposte in tempi brevi, sono destinati a cadere».

Oggi i capi talebani parlano via Zoom. Ai suoi tempi com' era?

«Il loro zar antidroga venne a ricevermi all'aeroporto scalzo. L'ufficio per il negoziato era una cascina diroccata. Ci sedemmo per terra rubando spazio alle galline. Ogni tanto uscivano con la scusa di pregare, in realtà chiedevano istruzioni per radio al mullah Omar. Molti avevano arti di plastica, cicatrici orrende, ma la guerra non aveva tolto la logica dai loro ragionamenti». 

Lo ammetta, un po' alieni però sembrano.

«Nel loro ufficio di rappresentanza a New York lavorava una talebana in jeans. Sanno adattarsi al bisogno. Sono nazionalisti prima ancora che fanatici o terroristi. La priorità è mantenere il potere». 

Faccia un esempio.

«Due. I talebani avevano vietato l'hashish seguendo l'indicazione del Corano che proibisce gli intossicanti. Sull'oppio però tergiversavano per evidenti ragioni. Allora ho pagato dei teologi di loro gradimento per avere un parere. E quando questi hanno spiegato che come l'alcol l'oppio intossica la mente, hanno accettato. Anche questi nuovi talebani dichiarano di voler eliminare il papavero».

E il secondo esempio?

«È il 1997. Propongo un piano in 10 anni per eliminare l'oppio nell'intero Afghanistan. Offrivo 25 milioni l'anno, il doppio di ciò che incassavano dalle decime sul raccolto. E loro: perché aspettare 10 anni? Facciamolo subito e tu ci dai tutti i soldi. Non posso fidarmi, replico io, avete una reputazione pessima su donne e droga. Proprio come oggi. Gli ho offerto un test su una singola provincia. Voi eliminate i papaveri da oppio da Kandahar e io vi riabilito una fabbrica di filati che dà lavoro a pastori e migliaia di operai. I talebani ci stanno, ma io aggiungo che devono assumere anche le donne. Sì, no, sì, no, alla fine accettano purché stiano in ambienti separati. Mostri? Di sicuro disposti al compromesso».

Com' è andata a finire?

«Che un investitore saudita ha comprato la fabbrica e, ovviamente, non ha fatto lavorare le donne. Si chiamava Osama bin Laden». 

 Traduco: se non li aiutiamo noi in modo da dirigerli verso i nostri valori, lo farà qualcun altro?

 «Se gli diamo credito, possiamo trattare a tutto campo. Se invece li isoliamo sopraffatti dall'emozione per le immagini che vediamo in tv, il nostro sarà un orrore che si auto-avvera. Il comportamento nostro e loro in questi primissimi mesi sarà decisivo». 

Cosa farebbe lei oggi?

 «Se fossi l'Europa porrei la droga al centro dell'agenda. Abbiamo 1,5 milioni di tossicodipendenti, ci conviene bloccare l'eroina afghana. Se invece fossi l'Onu mi ripresenterei sulla scena internazionale. Le Nazioni Unite ne sono uscite nel 2003 con il fiasco iracheno. L'Afghanistan abbandonato dagli Usa potrebbe segnare il loro grande ritorno».

Roberto Saviano per il “Corriere della Sera” il 18 agosto 2021. Non ha vinto l'islamismo, in queste ore, dopo oltre vent' anni di guerra. Ha vinto l'eroina. Errore è chiamarli miliziani islamisti: i talebani sono narcotrafficanti. Se si leggono i report dell'Unodc, l'ufficio droghe e crimine dell'Onu, da almeno vent' anni troverete sempre lo stesso dato: oltre il 90% dell'eroina mondiale è prodotta in Afghanistan. Questo significa che i talebani, assieme ai narcos sudamericani, sono i narcotrafficanti più potenti del mondo. Negli ultimi dieci anni hanno iniziato ad avere un ruolo importantissimo anche per l'hashish e la marijuana. Se si cercano le dinamiche principali del conflitto, le fonti prime che lo finanziano, si arriva lì: quella in Afghanistan è una guerra dell'oppio. Prima delle scuole coraniche, dell'obbligo al burqa, prima delle spose bambine, prima di ogni altra cosa, i talebani sono narcotrafficanti. Nel 2001 finsero di proibire la coltivazione di oppio e a questo si lega uno dei più gravi errori dell'amministrazione americana: nel 2002 il generale Franks, il primo a coordinare l'invasione in Afghanistan delle truppe di terra Usa, dichiarò: «Non siamo una task force antidroga. Questa non è la nostra missione». Il messaggio era rivolto ai signori dell'oppio, li si invitava a non stare con i talebani dicendo loro che gli Stati Uniti avrebbero permesso la coltivazione. Lo stesso James Risen, nel 2009, segnalò sul New York Times che nella lista nera del Pentagono dei trafficanti di eroina da arrestare non veniva inserito chi si era schierato a favore delle truppe Usa. Non funzionò. I contrabbandieri d'oppio hanno bisogno di movimenti rapidi e veloci e invece con la presenza americana si vedono fermare, ispezionare, devono farsi autorizzare dai militari. Mentre i talebani riescono a ottenere rapidità di approvvigionamento e movimento e iniziano a tassare il doppio i produttori che non lavorano per loro e a coltivare direttamente le proprie piantagioni. Non più racket sulla coltivazione, dunque, ma diretta gestione del traffico... Avevano già iniziato a farlo i mujaheddin, sostenuti dall'Occidente nella guerra contro i sovietici. Il Mullah Akhundzada, appena l'Armata Rossa nel 1989 si ritirò, capì che bisognava smettere di prendere il 10% come pizzo dai trafficanti di eroina e iniziare a tenere in mano il traffico. Impose che la valle di Helmand fosse coltivata a oppio: chiunque si fosse opposto continuando a coltivare melograni o frumento prendendo sovvenzioni statali sarebbe stato evirato. Il risultato fu la produzione di 250 tonnellate di eroina. Akhundzada, oggi indicato come il maggiore leader talebano, è uno dei trafficanti più importanti al mondo. E i dirigenti talebani che scalano le gerarchie interne sono sempre di più i trafficanti rispetto ai capi militari e religiosi. L'eroina talebana rifornisce camorra, 'ndrangheta e Cosa nostra, i cartelli russi, la mafia americana e tutte le organizzazioni di distribuzione negli Usa a eccezione dei messicani che cercano di rendersi autonomi dall'oppio afgano (a fatica, perché l'eroina di Sinaloa è più costosa di quella afgana). Tramite la rotta Afghanistan-Pakistan-Mombasa i talebani riforniscono i cartelli di Johannesburg in Sudafrica. E ancora, la vendono ad Hamas: altra organizzazione che si finanzia (anche) con hashish ed eroina e che infatti ha comunicato: «Ci congratuliamo con il popolo islamico afghano per la sconfitta dell'occupazione americana su tutto il territorio dell'Afghanistan e con i talebani e la loro leadership per la vittoria che giunge al culmine di una lunga battaglia durata 20 anni». Apparentemente un'alleanza politico-ideologica, in realtà un patto criminale. Poi c'è l'Oriente. L'eroina talebana ha creato un'asse importantissimo con la mafia di Mumbai, la D Company di Dawood Ibrahim, sovrano dei narcos indiani protetto da Dubai e dal Pakistan e vero distributore dell'oro afgano. Il mercato cinese ancora non è conquistato ma le mire talebane guardano a Est, a prendersi Giappone (la Yakuza si rifornisce in Laos, Vietnam e Birmania) e Filippine, che hanno un mercato florido e da sempre sono in rotta con l'eroina birmana. Quest' ultima, come l'eroina cinese, è gestita dai militari e quindi può contare su una produzione veloce e efficiente che spesso i cartelli, costretti alle tangenti e alle mediazioni, non riescono a eguagliare. Il massimo storico stimato per la produzione di oppio in Afghanistan è stato raggiunto nel 2017, con 9.900 tonnellate, per un valore di circa 1,4 miliardi di dollari ma, come riferisce l'Unodc, se si tiene conto del valore di tutte le droghe -hashish, marijuana - l'economia illecita complessiva del Paese, quell'anno, sale a 6,6 miliardi. Gretchen Peters, la reporter che ha seguito il legame tra eroina e talebani, osserva nel suo libro Semi di terrore : «Il più grande fallimento nella guerra al terrorismo non è che Al-Qaida si stia riorganizzando nelle aree tribali del Pakistan e probabilmente pianifichi nuovi attacchi all'Occidente. Piuttosto, è la spettacolare incapacità delle forze dell'ordine occidentali di interrompere il flusso di denaro che tiene a galla le loro reti». Così i talebani hanno cambiato lo scacchiere internazionale. Cosa nostra e i marsigliesi, dagli Anni 60 al Duemila, importavano l'eroina dal sud-est asiatico; il monopolio dell'oppio era in Indocina, nel triangolo d'oro Birmania-Laos-Thailandia. Ora i talebani hanno preso il loro posto, lasciando al sud-est asiatico una fetta di mercato residuale, dall'1% al 4%. È paradossale: gli Stati Uniti combattevano investendo miliardi di dollari - spenderanno 8 miliardi (fonte Reuters) solo per sradicare le piantagioni di papavero - contro una guerriglia che si finanziava vendendo eroina proprio ai loro cittadini. E ai nostri: il primo e il secondo mercato di eroina in Europa sono Regno Unito e Italia. Eppure i governi occidentali ignorano il dibattito sulle droghe. Non solo: l'anno scorso, mentre la pandemia di Covid-19 infuriava, la coltivazione del papavero è aumentata del 37% (fonte Unodc). E i talebani non vendono solo ai cartelli: senza oppio non si possono realizzare farmaci analgesici; senza oppio niente morfina né fentanil. Ora, le case farmaceutiche comprano oppio da produttori autorizzati, ma questi sempre più spesso acquistano da società indiane che si approvvigionano dall'Afghanistan. I talebani decidono anche delle nostre anestesie e dei nostri psicofarmaci. Nel 2005, l'allora presidente Karzai aveva sentenziato: «O l'Afghanistan distrugge l'oppio, o l'oppio distruggerà l'Afghanistan». È andata esattamente come prevedeva la seconda ipotesi. Ma Karzai stesso era uno dei signori dell'oppio e gran parte dei suoi proclami erano di facciata. L'ex presidente è stato tra i maggiori proprietari di raffinerie di droga e in realtà, stava dicendo: «Distruggeremo l'oppio gestito dai talebani e terremo il nostro». Dal monopolio di questo stupefacente non è possibile prescindere, hanno solo vinto i trafficanti migliori. Con un cambio di rotta rispetto al passato: la droga, fino a vent' anni fa, i talebani la vendevano solo fuori dai confini nazionali, ora vendono anche all'interno. La tossicodipendenza in Afghanistan è un'epidemia che nessuno ha preso in considerazione e cresce di anno in anno. I talebani ne approfittano: le giovani reclute sono riempite di hashish e hanno la possibilità di accedere all'eroina: entra nei nostri gruppi e potrai farti è il «non detto» dei reclutatori. E l'Afghanistan si è trasformato in un narcostato. Guardando l'esercito americano, i suoi blindati e i suoi elicotteri, vi sarà sembrato un'armata ricchissima contro pastori dalle barbe lunghe e dai coltelli arrugginiti. Ebbene, gli Stati Uniti hanno speso 80 miliardi in vent' anni di guerra per addestrare un esercito afghano, creare ufficiali, truppe, poliziotti e giudici locali; i talebani, in vent' anni, hanno guadagnato oltre 120 miliardi dall'oppio. Quale era l'esercito più ricco? In ogni caso i talebani vincitori non avranno pace; i loro prossimi nemici saranno gli iraniani. L'Iran ha bisogno di eroina come di benzina, e quella consumata a Teheran viene tutta dall'Afghanistan. I trafficanti iraniani vogliono poterla controllare direttamente, prendere il posto di turchi, libanesi e kurdi, che oggi sono i mediatori con l'Europa. Vogliono espandersi e non avere solo Hezbollah come strumento del traffico di hashish ed eroina, vogliono controllare l'oppio afgano e presto i talebani saranno nemici da sconfiggere. Ma questa è un'altra storia. Però con chi mi sta leggendo vorrei fare un patto, chiamiamo i talebani con il loro nome: narcotrafficanti.

Gli amici dei Talebani.

Quando il Kaiser e il Sultano proclamarono il Jihad. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 16 agosto 2021. Quando si scrive e si parla di strumentalizzazione dell’islam per fini politici e/o terroristici il pensiero va rapidamente a filosofi come Sayyid Qutb, ad attivisti come Hasan al-Banna o ad intellettuali-guerriglieri come Abdullah Azzam. Qutb, al-Banna e Azzam sono appartenuti a tre epoche differenti, sono stati accomunati da una weltanschauung alquanto simile, e hanno contribuito in maniera determinante all’elaborazione di un concetto che politologi ed islamologi avrebbero poi ribattezzato il “Jihād offensivo”. È in errore, però, chi crede che la riformulazione della potente ma ambigua nozione di Jihād, che ha tradizionalmente indicato lo “sforzo spirituale” dei fedeli impegnati a diventare un tutt’uno con Allah, vada imputata alla Triade dell’islam politico costituita da al-Banna, Qutb e Azzam. Perché qualcun altro, molto di prima di loro, avrebbe cercato di sollevare la umma contro gli infedeli con l’obiettivo di dare vita ad un Jihād globale: il Gran Muftì di Costantinopoli (in combutta con il Kaiser dell’Impero tedesco).

La “guerra santa” dimenticata del 1914. Costantinopoli, 14 novembre 1914: l’Europa è sprofondata nella guerra da quasi quattro mesi, cioè da quando Gavrilo Princip ha assassinato l’arciduca Francesco Ferdinando, e il Gran Muftì della metropoli turca ha invitato i fedeli a riunirsi dinanzi al simbolo dell’ottomanità, la Grande moschea benedetta di Ayasofya, perché deve comunicare loro un messaggio importante. Non si sa quanti fedeli islamici abbiano raccolto l’appello del Gran Muftì – che imam di quartiere e muezzini hanno pubblicizzato in lungo e in largo da giorni –, si sa soltanto che all’appuntamento giungono in tanti, tantissimi, decine di migliaia. Costantinopoli è in silenzio, accalcata presso quel sito che secoli prima fu l’emblema della Cristianità orientale e che Maometto II consegnò trionfalmente ai figli di Osman il 29 maggio 1453. L’attesa è snervante: colui che si rivolgerà alla folla oceanica è la seconda figura più importante ed autorevole dell’Impero, perciò non può aver chiesto un incontro con gli abitanti della Sublime Porta senza un motivo valido. Quando la sabbia nella clepsidra finisce, e il Gran Muftì si materializza, cominciando a leggere ai presenti il contenuto di un’ambasciata che impugna tra le mani come se fosse una sciabola, il tempo si ferma, o meglio torna indietro. Torna indietro di secoli, ai tempi delle guerre per la sottomissione della Rumelia, delle battaglie navali per l’egemonizzazione del Mediterraneo e delle guerre russo-turche. Torna indietro di un’era, riportando le lancette dell’orologio ai tempi del Jihād della spada e della prima espansione islamica: ai tempi della guerra santa contro i kāfir e i mushrik, cioè gli infedeli e i politeisti. Il Gran Muftì di Costantinopoli, in estrema sintesi, aveva riunito gli abitanti della Nuova Roma per proclamare pubblicamente un Jihād offensivo, da lui ribattezzato il “Jihād della felicità”, giustificandolo in termini di obbligo coranico, inquadrandolo nel contesto della prima guerra mondiale e rivolgendolo non soltanto ed esclusivamente alla platea ottomana, ma all’intera umma, ovverosia ai musulmani di tutto il mondo.

Coloro che avrebbero risposto a quel takfir sotto forma di dichiarazione di guerra, combattendo anima e corpo i Nemici di Allah – identificati con i membri e gli alleati della Triplice Intesa –, avrebbero ottenuto felicità, onore e mitizzazione sulla Terra e salvezza eterna nell’al di là. Coloro che avrebbero risposto a quella chiamata alle armi, senza saperlo, avrebbero combattuto una guerra santa voluta, più che da Allah, dall’allora Kaiser di Germania, Guglielmo II. L’orientalista olandese Christiaan Snouck-Hurgronje, testimone della Grande Guerra e acuto osservatore degli accadimenti che stavano avendo luogo lungo la Berlino–Costantinopoli, dopo aver riflettuto sul contenuto della fatwa emessa dal Gran Muftì di Costantinopoli, le avrebbe affibbiato un nome più consono: non Jihād della felicità, ma Jihād fabbricato in Germania.

L’Aquila e la Mezzaluna. La Sublime Porta era entrata nella prima guerra mondiale il 31 ottobre, supportando la causa dei cosiddetti imperi centrali, e la proclamazione di guerra santa del 14 novembre avrebbe giocato un ruolo determinante nel persuadere l’opinione pubblica ad accettare il fatto. Perché non era più una questione di politica, ma di fede. E non si trattava più di combattere dei semplici soldati, ma degli infedeli armati.

Affiatati dal movente religioso, i turchi ottomani avrebbero appoggiato en masse le ostilità contro la Triplice intesa e partecipato personalmente e direttamente a quella che era divenuta nottetempo una guerra di civiltà, una guerra santa. I nemici della Sublime Porta avrebbero compreso molto presto le potenzialità mortifere di quella proclamazione di Jihād: lo straordinario dispiegamento di quasi 200mila soldati nel fronte caucasico, la temporanea messa in secondo piano dei dissidi interetnici tra turchi e curdi – con questi ultimi in prima fila nella conduzione dei genocidi armeno e assiro –, la divinizzazione di Enver Pasha e le sollevazioni filo-ottomane in Egitto, India, Maghreb, Caucaso russo e Asia centrale. Berlino avrebbe appoggiato il Jihād offensivo lanciato da Costantinopoli in una varietà di modi, tra i quali risaltano la diffusione di materiale propagandistico filo-ottomano negli spazi coloniali delle potenze della Triplice intesa da parte dell’Ufficio di Intelligence per l’Oriente (Nachrichtenstelle für den Orient), lo sdoganamento dell’islam negli ambienti intellettuali tedeschi – trainato dall’attivismo irrefrenabile di Max Freiherr von Oppenheim (teorico dell'”arma islamica”), Friedrich Naumann e Friedrich Bronsart von Schellendorff – e i tentativi simultanei di infiltrare i moti islamisti nell’Eurafrasia – nell’aspettativa, forse, di profittare del risveglio dei popoli islamici per subentrare culturalmente (e politicamente) ai francesi nel Maghreb, ai britannici tra Egitto ed India e ai russi tra Caucaso e Asia centrale.

Il tramonto della guerra santa turco-tedesca. All’acme del Jihād offensivo lanciato dal Gran Muftì di Costantinopoli, localizzabile nel biennio 1915-16, le campagne di propaganda e mobilitazione totale operate da tedeschi e ottomani avrebbero sobillato Mesopotamia, Africa settentrionale, Asia meridionale e Sudest asiatico, sullo sfondo dei crimini genocidiali perpetrati contro armeni e assiri tra Anatolia e Caucaso dalle truppe turche e dalla gente comune. Apogeo di questa guerra santa di cui nessuno sembra avere memoria, sebbene la sua esistenza sia un fatto storico acclarato e documentato, sarebbe stato il celebre ammutinamento di Singapore. Il 15 febbraio 1915, per quasi una settimana, la componente islamica del quinto reggimento di fanteria dell’esercito anglo-indiano (British Indian Army) si sarebbe sollevata contro il personale britannico. Un episodio culminato con la morte di trenta persone, oltre la metà delle quali di nazionalità britannica, che la storiografia ha poco a poco rivalutato, riletto e reinterpretato, finendo con il contestualizzarlo all’interno di quella chiamata alle armi contro gli infedeli proveniente da Costantinopoli (e della più vasta e altrettanto sconosciuta cospirazione indo-tedesca).

Alla fine, come è noto, il fronte degli imperi centrali avrebbe perso la Grande Guerra, con il Kaiser costretto a siglare una resa ignominiosa e con il Sultano testimone della fine di un’epoca – quella ottomana –, provocata tanto da contraddizioni interne quanto dal genio strategico di Lawrence d’Arabia, il beduino venuto da Londra che riuscì ad annientare la forza siderea del potente richiamo al Jihād della Sublime Porta mettendo La Mecca contro Costantinopoli.

Da rainews.it il 15 settembre 2021. Alle porte dell'Afghanistan c'è una sorta di gran bazar delle armi illegali. Da Al Qaeda ai talebani, a milizie di ogni tipo, questo luogo ha alimentato l'instabilità afghana. Vediamo il reportage dei nostri inviati Ilario Piagnerelli e Andrea Vaccarella da Darra Adam Khel, Pakistan. Il viaggio verso un luogo incredibile, nel Pakistan di Nord-Oves: il confine afgano è vicino, questa è una regione di etnia pashtun, stiamo per entrare nel supermercato mondiale delle armi illegali. A prima vista Darra Adam Khel è un paese qualunque, e poi uomini armati spuntano a ogni angolo, tra polvere di ferro e sparo. Sulla via principale si affacciano le armerie: qui da oltre un secolo di realizzano copie perfette di ogni arma leggera. Chiamarla contraffazione sarebbe un insulto alla maestria di questi fabbri. In una bottega, attività a conduzione familiare, riproducono un M-16 americano. Gli articoli più venduti sono le pistole, ma si lavorano anche i famosi AK-47, i kalashnikov. Qual è l'articolo più economico? Una pistoletta, 35-40 euro. E c'è anche un poligono di tiro in cui si possono provare i prodotti. Una realtà che prospera in una zona grigia, qui il governo centrale ha sempre tollerato la vendita purché riservata ai residenti. Il traffico d'armi non conosce confini e questo arsenale ha alimentato l'instabilità afgana, anche nel conflitto tra talebani e americani. Oggi queste armi vengono persino spedite e senza subire controlli. Questi artigiani però non sono né terroristi, né trafficanti, dice un ragazzo del posto… 

C. Man. per "il Messaggero" il 16 settembre 2021. Erano rimaste bloccate in Afghanistan dopo l'attentato dell'Isis, avvenuto il 26 agosto scorso all'aeroporto di Kabul. Ora le calciatrici della nazionale giovanile afghana sono riuscite a trovare rifugio in Pakistan, insieme con i familiari. Il governo di Islamabad ha concesso loro i visti per motivi umanitari, dopo la caduta del paese nelle mani dei talebani. Le atlete avrebbero dovuto inizialmente raggiungere il Qatar, dove già si trovano migliaia di rifugiati, ospitati in uno degli impianti realizzati per la Coppa del Mondo di calcio del prossimo anno, ma erano rimaste bloccate per dei problemi con i passaporti e, alla fine, l'attentato terroristico ha fermato tutto. L'altra parte della squadra, in maggior numero, era, invece, riuscita a partire l'ultima settimana di agosto dopo un accordo con il governo australiano.  Da allora le giovani calciatrici (che hanno tra i 14 e i 18 anni) non hanno avuto vita facile, si sono dovute nascondere per sfuggire ai nuovi padroni dell'Afghanistan che hanno subito detto chiaramente di non immaginare delle donne nello sport, perché troppo visibili e con il corpo troppo esposto alla vista dell'uomo. Per far raggiungere il confine si sono adoperate le organizzazioni umanitarie. Le 32 sportive sono arrivate in Pakistan - per un totale di 115 persone, comprese le loro famiglie - grazie all'aiuto della ong britannica Football for Peace in collaborazione con il governo e la Federazione calcistica pakistana Ashfaq Hussain Shah, non riconosciuta dalla Fifa. La squadra di calcio femminile ha raggiunto Islamabad tramite il valico di frontiera di Torkham. E la notizia è stata resa ufficiale dal ministro dell'Informazione pakistano, Fawad Chaudhry, sul suo profilo Twitter. Le calciatrici, ha precisato il ministro, «erano in possesso del passaporto afghano e di un visto per entrare in Pakistan». Il quotidiano locale Dawn ha poi riferito che il governo ha emesso visti umanitari d'emergenza a beneficio delle atlete e dei loro familiari. Un gesto simbolico ha accompagnato il momento dell'attraversamento del confine: le ragazze hanno potuto togliersi il burqa, sostituendolo con un velo islamico. A Lahore hanno poi ricevuto il benvenuto del ministro Chaudhry. La loro meta finale sarà, comunque, il Qatar. Era andata meglio alle ragazze della squadra di calcio di Herat, che già a fine agosto sono riuscite a scappare in Italia. Il loro viaggio è stato raccontato dal regista Stefano Liberti che le ha aiutate ad arrivare a Roma. L'Herat Football Club è una squadra di calcio femminile nata nel 2014. Da quando i talebani hanno preso il potere nel Paese, le calciatrici hanno smesso di essere al sicuro e hanno cercato di scappare in ogni modo. Già nel 2017, Liberti aveva raccontato la storia delle giovani atlete in un docufilm. E si è occupato direttamente del loro viaggio verso una vita nuova. Ora il gruppo di sportive è pronto a ricominciare. La Divisione calcio a 5, dopo aver letto la loro storia e il loro desiderio di poter continuare nello sport, si è mossa offrendo supporto economico e logistico per le calciatrici. «Abbiamo già avuto la disponibilità di diverse società - ha spiegato nei giorni scorsi il presidente della divisione, Luca Bergamini -. Il nostro progetto è farle partecipare al campionato, ma anche dare loro tutto il sostegno economico e logistico per l'integrazione nel territorio a cui verranno destinate». 

Andrea Nicastro per il "Corriere della Sera" il 16 settembre 2021. Persi nella nebbia delle faide tra talebani del Sud e talebani dell'Est? Confusi dalle shure (Consigli) di Doha, di Quetta, di Mashad o di Paktiya? Due particolari possono aiutare, uno è minuscolo, l'altro gigantesco. Sono una tazza di tè, ma c'è di sostiene fosse caffè, e l'intreccio etnico che disegna il subcontinente indiano. Il tè (o caffè), nero, zuccherato, è quello che il capo dei servizi segreti pachistani, generale Faiz Hameed, solleva il 5 settembre a Kabul circondato come una star da stuoli di talebani. Lo 007 emana fiducia in se stesso. Ne ha tutte le ragioni. È il vincitore morale della guerra. I suoi protetti talebani hanno cacciato la Coalizione internazionale. Il generale ha fatto tutto benissimo, tranne farsi fotografare con la tazzina in mano perché, il giorno dopo, scendono in piazza in tutto l'Afghanistan tajiki, hazara, uzbeki, turkmeni. Accusano i pashtun talebani di aver svenduto il Paese al pachistano, anzi, richiamando l'etnia dello 007, al «punjabi». Quando poi emergono i nomi nel nuovo governo talebano, il sospetto si fa certezza: il generale venuto dal Pakistan ha imposto la lista, marginalizzato i pashtun del Sud e premiato quelli dell'Est, da sempre vicini all'uomo con il tè (o il caffè) in mano. Quella foto e quel governo sono brucianti offese anche per il nucleo originario del movimento fondato dal mullah Omar. L'arroganza del punjabi e l'orgoglio dei pashtun cocciano: il rumore è di talebani feriti da altri talebani. I pashtun talebani dell'Est (network Haqqani) sono quasi organici al Pakistan: dalla guerra del Kashmir nel 1947, a quella del Bangladesh nel 1971, alla repressione dei Sindh negli anni '80 sono stati spesso utilizzati per il lavoro sporco dei punjabi. I pashtun del Sud (ex mullah Omar) no. Sono solo alleati tattici. O, meglio, se il conflitto talebano esploderà, dovremo dire che «erano» alleati tattici.

"La stampa addomesticata non lo dice". “Gli Usa finanziarono la Jihad e oggi vivono la nemesi della storia”, intervista allo storico Luciano Canfora. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 28 Agosto 2021. «Le lancette del tempo non vanno riportate indietro di vent’anni. Ma di altri venti ancora. Quando gli Stati Uniti pur di eliminare un governo liberamente eletto dagli afghani ma che aveva la “colpa” di essere vicino all’Unione Sovietica, decisero di finanziare, addestrare, armare i miliziani fondamentalisti di Osama bin Laden. Quarant’anni dopo, l’America fa i conti con la rivincita della Storia, molto più di un fallimento politico e militare». E di Storia il nostro interlocutore è un maestro. Luciano Canfora, filologo, storico, saggista. Una voce libera, cosa sempre più rara nell’Italia d’oggi. Professore emerito dell’Università di Bari, membro del Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana e direttore della rivista Quaderni di Storia (Dedalo Edizioni).

In questi giorni, tanto più alla luce del sanguinoso doppio attacco terroristico di giovedì a Kabul, in tanti si sono cimentati nel definire ciò che sta avvenendo in Afghanistan: fuga, resa, tradimento dell’America e dell’Occidente. Lei come la vede?

Direi che in tutta questa grande riflessione collettiva in corso, c’è una piccola, si fa per dire, ma vistosa lacuna: come mai quaranta e passa anni fa, gli Stati Uniti d’America hanno aiutato in tutti i modi la guerriglia islamica antisovietica in Afghanistan? Nel 1978, l’Afghanistan aveva avuto elezioni politiche e il partito popolare democratico, di fatto una specie di partito comunista, aveva stravinto le elezioni. L’intervento sovietico in appoggio di questo governo laico-giacobino, chiamiamolo così, scandalizzò l’Occidente, le Olimpiadi di Mosca furono boicottate, e cominciò la lunga guerriglia afghana alimentata in Pakistan, Paese all’epoca fedelissimo dell’America, e gli Stati Uniti pensarono di avere trovato, e in parte era vero, il modo di logorare la super potenza ostile, avversaria, con un Vietnam sovietico, che fu l’Afghanistan. Dieci anni di guerriglia, ben finanziata, armata. Gli Stati Uniti hanno una buona esperienza in questo campo perché, per esempio, addestrarono in California i guerriglieri kosovari dell’Uck, i quali dopo aver contribuito allo sfasciamento della Jugoslavia, hanno poi dato manforte all’Isis nel califfato siro-iracheno, contribuendo alla sua nefasta consacrazione. Chi è causa del suo mal pianga se stesso. I nostri giornalisti, studiosi, commentatori politici si sono dimenticati i primi vent’anni di questa storia. E la incominciano dal 2001. Così non si capisce niente. Come mai improvvisamente il talebano antisovietico, musulmano, da coccolare è diventato un nemico? La loro teoria è che l’attacco alle Torri Gemelle sarebbe partito dall’Afghanistan. Non so se si sia mai potuto dimostrare in maniera seria, oggettiva, tutto questo, ma mettiamo che sia vero, a quel punto diventa piuttosto stravagante l’idea che per punire l’attentato del 2001 ci stiamo vent’anni in Afghanistan, fino al 2021. Una punizione che sembra proprio di quelle descritte nell’inferno dantesco, di quelle che non finiscono mai. Al termine di questa mendace presentazione dei fatti, succede che, di botto, gli americani mollano tutto.

Perché, professor Canfora?

Perché hanno tentato di fare quello che avevano fatto in Iraq, dove hanno inventato un governo amico, ma la lezione non gli è bastata, perché dopo aver piazzato il governo amico al posto di Saddam, dopo la guerra del 2003, per anni e anni abbiamo avuto attentati a Baghdad con centinaia e centinaia di morti, dei quali evidentemente non importava a nessuno, perché ormai la democrazia era stata portata a compimento in una scatola e depositata a Baghdad. Con tutto il coro della stampa prono, in ginocchio, a dire che sono i portatori di libertà e “che peccato ora che se ne sono andati, ci hanno fatto un brutto scherzo da prete”, però poi c’è sempre qualcuno che si affretta a dire con toni burberi e con l’indice accusatorio puntato, che non è vero, smettetela con questo anti americanismo, che certo non è uno dei peccati principali del giornalismo italiano. Dopodiché, ora la situazione è interessante da un altro punto di vista…

Quale?

Come sempre nella Storia, nulla rimane immobile. Questo nuovo gruppo, molto aggressivo, che si è impadronito del potere a Kabul, è alle prese, in una situazione di contrapposizione più o meno forte, con al-Qaeda e, soprattutto, con la ramificazione afghana dell’Isis. Il duplice attentato a Kabul, una mattanza vera e propria, indica proprio questo: lo sviluppo di uno scontro di potere nel variegato universo jihadista.

Una sfida anche all’amministrazione Biden…

Assolutamente sì. D’altro canto, l’attuale presidente degli Stati Uniti non può cavarsela dicendo che “gli accordi li aveva presi il mio predecessore”. Biden poteva magari rendersi conto della realtà concreta, cioè che il governo amico era inconsistente, l’esercito addestrato da loro si è sciolto come neve al sole. La fuga precipitosa ha messo nei guai tutti quanti, americani compresi. A tutta la storia che abbiamo raccontato, di responsabilità remote che vengono al pettine, va aggiunta anche l’incapacità, l’imperizia, il non essere all’altezza del ruolo che ricopre l’attuale presidente degli Stati Uniti. Ci ha liberato da Trump, ma non per questo Biden va santificato.

Dentro questa avventura iniziata vent’anni fa non c’erano solo gli Stati Uniti, c’era anche l’Europa, e c’era l’Italia.

So bene che questa è quasi una domanda d’obbligo, ma la risposta d’obbligo è dolente, e cioè, come ho cercato di scrivere più volte – non perché mi senta un profeta ma perché è una verità di immediata evidenza – l’Unione Europea non ha una sua politica estera, non ha una sua politica militare, è subalterna della Nato e a totale disposizione degli Stati Uniti d’America. L’Unione Europea fa la politica voluta da Washington: mette le sanzioni a Putin, s’indigna per i musulmani oppressi in Cina, salvo poi prendersela con i musulmani che vincono a Kabul. Io ho scritto che l’Europa è un “gigante incatenato”. Incatenato perché la politica militare, diplomatica ed estera la fa la Nato, il comandante militare nominato dagli Stati Uniti, il Segretario generale che deve avere il placet degli Stati Uniti. Infatti Stoltenberg è immediatamente sceso in campo dicendo fermi tutti, l’America ha fatto la mossa giusta. Lui ha quel compito lì. Finché l’Europa non alza la testa dalle spalle e agisce in proprio, continuerà a subire i contraccolpi di questo asservimento vergognoso.

Dietro l’idea di portare dall’esterno la democrazia e la modernizzazione, al di là degli effetti destabilizzanti che ha provocato in tutto il Grande Medio Oriente, non c’è anche una sorta di neocolonialismo culturale dell’Occidente, che vede tutto ciò che è diverso da sé come qualcosa di arretrato, minaccioso, oscurantista?

Il tema è molto appassionante ed è stato studiato da grandi storici. Ne cito uno soltanto, del quale ho una grande considerazione: Arnold Joseph Toynbee. Lo storico inglese, uno dei maggiori del ‘900, scrisse tantissimo in vita sua, e quello che a me pare più ficcante è un piccolo libro che all’origine era un ciclo di conferenze alla radio inglese, The World and The West, Il Mondo e l’Occidente. Toynbee ha studiato questo fenomeno in maniera profonda e semplice al tempo stesso. E il concetto centrale di quel bellissimo libretto è che l’Occidente armatissimo ha sfidato il Mondo. Lo ha aggredito. Parliamo di secoli, come documentato da Carlo Cipolla nel suo bel libro Vele e cannoni. Quando le flotte delle grandi potenze coloniali dell’epoca – l’Inghilterra, la Spagna, l’Olanda – conquistarono il mondo, queste potenze se ne impadronirono. La sfida lanciata al mondo è durata secoli. Ha creato gli imperi coloniali, che erano strumenti non solo di potenza ma anche di arricchimento non solo dei ceti forti ma, sia pur in dimensioni estremamente più ridotte, pure di quelli meno forti, che si avvantaggiarono del colonialismo. La copertura di tutto questo era “portiamo la civiltà”. Anche Mussolini ha fatto lo stesso giochino quando ha aggredito l’Etiopia. Tutta la nostra stampa, che anche allora era molto devota al Governo, non faceva altro che raffigurare quell’impero etiopico come il regno del peggiore oscurantismo, dove vigeva ancora la schiavitù, e quindi noi andavamo lì a liberarli. La verità storica è che noi in Nord Africa abbiamo perpetrato immani massacri di civili utilizzando i gas, abbiamo fatto di tutto. Col senno del poi, uno ritiene grottesco che l’Italia fascista porta la libertà all’Impero d’Etiopia. Fatto sta che molti, moltissimi italiani, colti, molti colti, responsabili di giornali e non solo l’hanno scritto ma lo hanno anche creduto. Il fatto che gli Stati Uniti, dove tutt’ora il problema razziale non è risolto, siano portatori di valori superiori in casa altrui fa sorridere, però è considerato un’eresia dirlo, perché tutto il meccanismo informativo è, secondo la linea dell’Unione Europea subalterna, prono a osannare la grande, come si usa dire, democrazia americana, di cui vediamo i comportamenti interni ed esterni, e non di meno con gli occhi bendati continuiamo a dirlo. Questa è una storia che dura da secoli. Ed è la sfida dell’Occidente al Mondo che ogni tanto trova contro di sé un corpo resistente che a sua volta lancia una sfida. Quello che si sottovaluta è che più questa storia va avanti e più si imbarbarisce, per cui dalla controparte hai reazioni sempre più feroci dinanzi alla ferocia che tu hai praticato. In questo “film” non esistono i “nostri” che accorrono per salvare le sorti dell’umanità. Attenti ai “travestimenti” e al fuoco amico, quello a volte fa ancora più male.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

«Io poliziotto a Kabul non voglio scappare: rimango per aggiustare questo Paese». Francesca Mannocchi su L'Espresso il 14 settembre 2021. Storia di Kawusi, agente nella capitale. Prima in lotta contro la corruzione portata dagli Occidentali. Ora deciso a resistere. Da bambino Kawusi N. viveva nel quartiere PD11 a Kabul, nell’antica casa dei suoi nonni. Tutti i giorni usciva per aiutare la nonna con la spesa. Di un mattino del 1996 ricorda che lei gli avesse chiesto di comprare cinque pezzi di pane, «meglio uscire il meno possibile, corri al negozio e torna più in fretta che puoi». Kawusi aveva 11 anni, avvertiva un allarme che non comprendeva pienamente. È uscito di casa correndo, ha comprato il pane, afferrato la busta tra le mani e uscendo dalla bottega si è trovato di fronte un gruppo di adolescenti, col turbante nero sul capo, armati: Dove vai, ragazzino infedele? gli hanno chiesto. Kawusi era spaesato, l’allarme che avvertiva aveva preso forma. Il paese era ormai in mano ai talebani e lui non lo sapeva: «Ho risposto: andatevene o vi prendo a pugni. Hanno iniziato a picchiarmi, calci e pugni, mi hanno preso a bastonate sulla schiena. Quando mi sono alzato mi colava il sangue dal volto, il pane era a terra». Kawusi non ha pianto, è tornato a casa dopo aver rimesso nella busta il pane, ormai pieno di polvere, e si è chiuso in camera sua per alcune ore senza dire una parola: «Quel pane ha segnato il mio destino, ancora oggi sento i loro calci». Quando è uscito dalla stanza i suoi genitori avevano deciso che fosse arrivato il momento di scappare e pochi giorni dopo Kawusi e la sua famiglia erano in Pakistan. Era iniziata la diaspora afghana. In Pakistan Kawusi ha studiato, è diventato un ragazzo, prima di tornare a Kabul, nel 2002, due giorni dopo il suo diciassettesimo compleanno.

«Nel 2002 l’Afghanistan usciva dalla guerra, c’erano insieme distruzione e speranza». Si è laureato, ha perfezionato il suo inglese, ha iniziato a collaborare con le organizzazioni internazionali arrivate a decine con i programmi di sviluppo in ogni angolo del Paese. Per un anno ha lavorato come consulente per la comunicazione di una agenzia delle Nazioni Unite: «È stato l’anno più lungo della mia vita. Ho cominciato a vedere la fragilità dell’intervento occidentale. Le organizzazioni internazionali ci ripetevano in continuazione: l’Afghanistan a guida afghana, oppure: prima gli afghani. Eppure in qualsiasi Ong, o agenzia dell’Onu, non c’era un capo di dipartimento locale. Non c’erano afghani a capo di niente. Ci passavano sotto gli occhi progetti da milioni di dollari l’anno destinati a noi e però nessuno di noi sembrava meritare di gestirli o indirizzarli». Il giovane Kawusi che lavorava per le Nazioni Unite aveva poco più di vent’anni, l’età delle illusioni, dei grandi progetti, delle parole d’ordine per il futuro. La sua parola era “fiducia”. Poi ha cominciato ad avere dubbi e il progetto dell’Afghanistan per gli afghani è diventato un miraggio, «erano slogan pubblicitari che piacevano ai donatori. Una larga fetta di denaro veniva spesa per gli alloggi dello staff internazionale, per la loro sicurezza, per i grandi, costosi veicoli blindati. Quindi, tanto del denaro entrato qui per aiutare il popolo afghano in realtà è tornato indietro ai donatori». Allora, nei primi anni duemila, lavorando per le Nazioni Unite, Kawusi riceveva un lauto stipendio «dieci volte più di oggi», ma una mattina ha rassegnato le dimissioni: «Mentre i benestanti afghani guadagnavano 500 dollari, da addetto alle Un ne guadagnavo 5 mila. La mia vita era alterata. Mi sono detto: se voglio vivere in questo paese devo essere pagato in proporzione alla nostra economia». Il flusso di denaro arrivato dopo la guerra è stato in parte destinato a progetti di sviluppo ma in parte ha contribuito ad alimentare la macchina della corruzione. La guerra di vent’anni è costata agli americani 825 miliardi di dollari in spese militari e 130 miliardi in spese di ricostruzione, e in un rapporto al Congresso degli Stati Uniti della fine del 2020, l’organismo di vigilanza responsabile della supervisione degli sforzi di ricostruzione dell’Afghanistan ha stimato che circa 19 miliardi di dollari siano stati persi in un decennio tra il 2009 e il 2019, destinati al paese ma finiti in un giro di sprechi e frodi. In mezzo a questi abusi la composizione delle città è cambiata come accade spesso quando tanti soldi finiscono nelle mani di pochi: hotel lussuosi, sale da matrimoni, hall per banchetti e ricevimenti. Gli anni duemila sono stati, soprattutto per Kabul, un tempo in cui una stretta cerchia godeva dei profitti della ricostruzione. Mentre Kabul si modellava e cambiava con i soldi, Kawusi decideva di entrare nelle forze dell’ordine, come migliaia di altri ufficiali, addestrato dalle truppe statunitensi e della Nato. Faceva parte del corpo di polizia, verso il quale gli afghani avevano sempre dimostrato poca fiducia: troppo pigro, troppo fragile, troppo esposto alla corruzione.

La descrizione di Kawusi è speculare: pagati poco, poco motivati, poco legittimati. «Gli occidentali sono arrivati qui e hanno messo in piedi una struttura militare sostenibile per gli Stati Uniti e le altre trenta nazioni della Nato, ma non per noi. Siamo stati trattati come addetti ai lavori di altri, ma in vent’anni non siamo stati messi nella condizione di essere autosufficienti nella gestione dell’arsenale e delle strategie militari». Quando abbiamo parlato con Kawusi nella caserma di polizia a est di Kabul, i talebani avevano già conquistato l’ottanta per cento del paese. Mancavano tre settimane alla fine del ritiro delle truppe statunitensi. La situazione aveva avuto un’accelerazione allarmante, eppure Kawusi manteneva un ottimismo che aveva il sapore dell’imprudenza. Ci aveva raggiunti in ritardo, doveva completare la lista delle telefonate quotidiane. Era capo del dipartimento della Polizia e addetto alla tutela delle famiglie degli ufficiali. Sembrava una descrizione un po’ fumosa prima che Kawusi entrasse in ufficio con le lacrime agli occhi. Le telefonate che lo avevano tenuto impegnato erano quelle alle famiglie dei caduti in battaglia. Erano tante, venti, e voleva farle tutte lui personalmente: «Queste telefonate mi tolgono le parole. Quando parlo con una donna anziana o con una giovane madre per dire che il figlio, il marito sono morti, ho il cuore strappato, ogni volta. È qualcosa a cui non riesco ad abituarmi». Contattare personalmente le famiglie dei caduti ha insegnato a Kawusi, negli anni, a leggere il paese in cui vive, per lui le forze di polizia erano giovani uomini fieri nella divisa, per le famiglie che li aspettavano tornare erano poveri capifamiglia che a malapena ricevevano il misero stipendio che spettava loro. «Essere un poliziotto non è un lavoro affascinante, non ti fa ottenere crediti con i politici o i funzionari governativi, siamo stati assunti per tutelare la sicurezza delle strade e dei distretti e ci siamo trovati a combattere in prima linea la guerra contro i talebani. Ma non siamo l’esercito, non eravamo preparati al fronte. La vita di questi ragazzi vale qualche centinaio di afghani (la moneta locale, ndr) al mese, ma il loro sacrificio sembra valere meno di quello delle forze speciali dell’esercito. Nessuno ama o dà credibilità alla polizia». Quando aveva incontrato il Ministro dell’Interno, nella riunione operativa per stabilire la formazione del suo dipartimento, si era scontrato con una forte resistenza, come se al ministero non capissero che per combattere la corruzione ormai endemica alle forze di polizia - 150 mila in tutto il paese, scontente del proprio lavoro - fosse necessaria una strategia che coinvolgesse non solo gli ufficiali ma le loro comunità: «Gli ho detto: ascolta Ministro, ho due figli, se mi dai 20 mila afghani e pago un affitto di 15 mila e dopo una settimana i miei figli hanno fame, come padre sarei capace di fare qualsiasi cosa per essere certo che abbiano da mangiare. Potrei rubare, chiedere tangenti, o perché no arruolarmi con i talebani, se mi pagano meglio». Il compito del suo dipartimento era garantire che i poliziotti non arrivassero a quel punto. Per vincere la corruzione dovevano dare ai poliziotti ciò di cui avevano bisogno, uno stipendio rispettabile, una vita sicura, qualche aiuto per una casa e per la scuola dei figli. Praticamente le forme di welfare che i gruppi fondamentalisti promettono alle reclute per portarle dalla loro parte. Mentre descriveva i suoi progetti per restituire autorevolezza alle forze di polizia, il paese stava scivolando verso l’emergenza umanitaria. Il traffico all’esterno della caserma era già bloccato da pullman e taxi collettivi in arrivo da Kunduz, Kandahar, Logar, dove si stava ancora combattendo. Kawusi, rapito dal suo ruolo, pareva non vedere quanto prossima fosse la caduta. Immaginava il suo paese tra dieci anni, leggeva il caotico ritiro delle truppe con severità ma, diceva «finalmente l’Afghanistan sarà degli afghani. Il loro slogan diventerà il nostro». Era ottimista, fiducioso nella generazione cresciuta dopo il 2001: «Se vogliamo aggiustare questo paese dobbiamo farlo noi, solo noi. Nessun altro. Nessun altro lo farà al posto nostro. Non torneranno i talebani, una volta che ti ha morso il serpente, avrai per sempre paura del veleno». Una settimana dopo Kabul sarebbe caduta. Quando l’abbiamo chiamato, quel giorno, per avere notizie sul presunto attacco talebano alla prigione di Kabul, Kawusi negava la realtà. È falso, diceva. Credetemi. Poi la voce gli si è strozzata in gola. Prima di salutarci, nel suo ufficio in caserma, sette giorni prima della fine, si era mostrato infastidito dalle cronache televisive che mostravano civili in fuga. Era stato uno dei più fermi critici del governo Ghani, corrotto e inaffidabile, ma, spiegava, «se continuo a dire che qualcosa è sporco, ecco quella cosa non si pulirà da sola. Non dobbiamo lamentarci, non dobbiamo scappare. Dobbiamo pulire il paese, non lasciarlo pulire ai talebani». Aveva viaggiato, aveva visitato Parigi e New York, ma Kabul, diceva, è il suo posto: «Se resto posso aggiustare le cose. Se scappo è la fine della lotta». Oggi Kawusi è ancora a Kabul. Spaventato, ma è lì. Per questo non menzioniamo il suo cognome né mostriamo il suo volto. È più indulgente verso chi ha cercato la salvezza nella fuga, ma non si muove dal suo paese. Kabul è cambiata, Kawusi è cambiato e insieme a lui una generazione che ha bisogno di essere sostenuta. «Non siamo più l’Afghanistan del 2002 quando non avevamo una classe istruita e nessuno capiva di affari, economia, arte, cultura o diritti. Questo è l’Afghanistan del 2021 e siamo tutti persone diverse. È il nostro turno per farci avanti e finalmente prendere in mano il nostro futuro».

La consigliera Pd inneggia ai fondamentalisti islamici. Fabrizio Boschi il 26 Agosto 2021 su Il Giornale. L'esponente delle Pari opportunità della Toscana dà sostegno ai talebani. "Letta prenda le distanze". Le pari opportunità riguardano anche le idee. Ed è legittimo che chiunque abbia il diritto di esprimerle avanzando le proprie valutazioni. Quando però si ha a che fare con il caso Afghanistan e i talebani tagliagole degli occidentali sarebbe opportuno andarci piano soprattutto se certi giudizi arrivano da una donna di origine somala, nominata dal Pd membro della commissione Pari opportunità della Regione Toscana, che si dice «a favore del ritorno del regime talebano». Nura Musse Ali è nata a Mogadiscio nel 1986. È arrivata in Italia mediante ricongiungimento familiare nel 1999, si è diplomata al liceo Carducci di Pisa e all'Università di Pisa si è laureata a pieni voti in Giurisprudenza. Nel 2017 ha conseguito il diploma della Scuola di specializzazione per le professioni legali. È una donna colta ed intelligente ed è proprio per questo che le sue parole hanno generato ancora più sconcerto. In una intervista sul Tirreno dice (per fortuna) di «non condividere il loro modus operandi», ma di ritenere la presa del potere dei fondamentalisti islamici a Kabul «una tappa obbligata della storia, affinché finalmente quel Paese iniziasse il proprio lento cammino verso un'interpretazione evolutiva delle sue leggi e la maturazione del concetto di vita politica e sociale. È opportuno che l'Europa gli Stati Uniti ammettano di aver sbagliato e che qualunque cosa si faccia in futuro per il popolo e per le donne in particolare dovrebbe essere portata avanti con chi è al potere». Cioè con questi assassini. Ma precisa che «forse qualcuno rimarrà sorpreso per queste parole». In effetti, più di qualcuno è rimasto sorpreso, anzi sgomento visto che anche esponenti del Pd hanno preso le distanze dalle sue affermazioni. Simona Bonafè, segretaria del Pd toscano, mette i puntini sulle i: «Il Pd si dissocia totalmente da quelle parole. I talebani sono stati e restano liberticidi e nemici dei diritti, persecutori delle donne. Sostenere che un regime è una tappa obbligata verso la maturazione sociale è inaccettabile». Per il resto sono soprattutto gli esponenti della Lega ad insorgere. A cominciare dal suo leader Matteo Salvini: «Parole gravissime soprattutto perché pronunciate da una donna. Come si può sostenere un regime guidato da criminali che ammazzano, stuprano, torturano e chiudono in casa le donne? Siamo sicuri che Letta e Giani prenderanno le distanze perché l'apologia dell'islam radicale è incompatibile con la nostra democrazia». Per Laura Ravetto, responsabile Pari Opportunità della Lega, «la signora Nure Musse Ali dovrebbe farsi un giretto a Kabul invece di pontificare da un Paese che le garantisce libertà di pensiero e di espressione». I deputati della Lega in Toscana fanno quadrato: «Non crediamo che la sharia possa essere definita una forma di progresso, ma un modo autoritario e repressivo per imporre forti limitazioni alle libertà individuali. Stesso sdegno dal sottosegretario al ministero del Lavoro Tiziana Nisini, senatrice della Lega: «Pensare che si possa stare meglio con il regime dei tagliagole talebani è una mancanza di rispetto verso tutte le donne che hanno subito e subiranno le brutalità e l'imposizione dei fondamentalisti. Nura Musse Ali non può ricoprire il ruolo assegnatole dalla sinistra Toscana». I senatori toscani della Lega Manuel Vescovi e Rosellina Sbrana incalzano: Dove sono le sempre indignate femministe del Pd?». «Deve dimettersi dal suo incarico», chiosa l'eurodeputata della Lega Susanna Ceccardi. Fabrizio Boschi

Da Huffington Post il 12 settembre 2021. In un’intervista a quotidiano Domani, l’ex premier e segretario dei democratici di sinistra Massimo D’Alema dice che “la risposta occidentale all’attacco terroristico delle Twin Towers aveva un contenuto militare, che ha ottenuto qualche risultato. Ma aveva soprattutto un forte disegno politico-culturale: l’idea che attraverso l’espansione della democrazia nel mondo islamico si sarebbero costruiti anticorpi in grado di debellare il fondamentalismo antioccidentale e il terrorismo. Questo progetto è fallito”. Ma soprattutto “non solo con le armi, è fallita l’idea che la democrazia si possa esportare” e “sono fallite anche le primavere arabe, che era l’espansione della democrazia sull’onda di un movimento popolare. L’omologazione culturale non funziona”. Poi D’Alema sottolinea il fatto che “l’attentato alle Twin Towers non fu opera dei Talebani ma di una élite araba, per lo più saudita, che era finita sulle montagne dell’Afghanistan perché lì l’avevano portata gli americani, che avevano favorito la creazione di un movimento di volontari islamici per combattere contro i sovietici” quindi “la preparazione politico-militare del campo fondamentalista dunque è stata fatta dall’occidente, perché i fondamentalisti erano i principali alleati in chiave anticomunista e antisocialista araba”. Sostiene anche l’ex premier che “i Talebani sono un movimento fondamentalista, violento e intollerabile per i comportamenti contro le donne e contro le minoranze, ma credo sia sbagliato definirli un gruppo terrorista. L’Isis è un gruppo terrorista, i Talebani sono un movimento politico, come Hezbollah e Hamas. Definirli terroristi è una stupidaggine”, tant’ che “gli americani parlano con i Talebani ininterrottamente dal 2018″. Conclude D’Alema: “E’ ovvio che lo si debba fare anche per evitare una catastrofe umanitaria e per cercare di esercitare il massimo di condizionamento possibile. Solo da noi si poteva sviluppare un dibattito surreale come quello sulle parole di Giuseppe Conte. Il vero problema è come parlare con i Talebani senza che questo significhi un riconoscimento formale della legittimità del loro governo”.

La sinistra cieca con i terroristi. Forse Massimo D'Alema ignora che la lista dei terroristi del Consiglio di Sicurezza dell'Onu mette in testa il primo ministro talebano Mohammed Hassan Ahud e a seguire molti altri dei suoi. Fiamma Nirenstein il 12 settembre 2021 su Il Giornale. Forse Massimo D'Alema ignora che la lista dei terroristi del Consiglio di Sicurezza dell'Onu mette in testa il primo ministro talebano Mohammed Hassan Ahud e a seguire molti altri dei suoi. L'ex premier ed ex ministro degli Esteri italiano, schivando questo dato di fatto, snobba l'Onu - che pure dovrebbe essere un suo punto di riferimento - e fa dei talebani, nella sua intervista al Domani, un'organizzazione fondamentalista ma non terrorista, con cui si può, anzi, si deve trattare. È un punto di vista costruito sulla presuntuosa illusione etnocentrica che anche il jihadismo islamico più dichiarato si possa dribblare con l'appeasement. Un approccio praticato senza successo dall'Occidente sin dall'inizio del XX secolo, attraverso due guerre mondiali e una guerra fredda. È però molto pericoloso adottare l'idea cardine del pacifismo intransigente, secondo cui l'aiuto economico può tarpare ogni guerra, la legge internazionale è l'antidoto al genocidio e la negoziazione crea «processi di pace». Nasconde la paura di mostrarsi islamofobi e D'Alema - in modo tipico di certa sinistra - cancella la verità: ovvero che, anche se non tutto il mondo musulmano combatte per il Califfato, questa idea è comunque radicata nei testi religiosi e nel perseguimento della sharia. Ed è l'idea alla base non solo dell'Isis e di Al Qaida, ma di Hamas, di Hezbollah, dell'Iran che li nutre e ovviamente anche dei talebani. Tutte organizzazioni che D'Alema si illude non facciano parte della compagine terrorista. D'Alema crede che questi gruppi di assassini seriali di civili siano malleabili, e questa è una cieca perversione. Come quella di rimpiangere che la Fratellanza Musulmana non sieda alla guida dell'Egitto. È nella forza della jihad stessa, e non nei tentativi a volte goffi e sbagliati dell'Occidente di tamponarla, che risiede il rischio per tutti noi. La battaglia è contro la sofferenza inferta alla nostra civiltà dal terrorismo. Al contrario, D'Alema ha fornito un mattone alla cultura islamista, per cui il debole nemico in fuga e in confusione sarà sconfitto. Diceva lo storico Walter Laqueur che decenni di discussione sul terrorismo non hanno condotto a una definizione valida per tutti. È vero: il tuo terrorista può essere il mio freedom fighter, il liberatore. È un senso di perdita e di incertezza quello che si ricava dalle parole di D'Alema, pervase da un senso di colpa per cui è la nostra incapacità di pacificazione che crea il rischio. Non è così: il rischio consiste nell'utopia post moderna di poter giocare al «negoziato» con una cultura che legge il rapporto con noi solo in termini di vittoria o sconfitta, forza e debolezza.

Domenico Quirico per “La Stampa” il 25 agosto 2021. Da una settimana i taleban sono padroni di Kabul. Eppure è come se tra loro e l'aeroporto, in mano agli occidentali, un raccoglitore di lente agonie ma in piena luce, ci fosse un mare invalicabile. La città, e ancor di più il resto di questo enorme Paese, fiero arso desolato incantevole, sembrano caduti invece in un mondo minerale, in perenne buio. La grande vallata nera delle favole, la valle della prova. Nessun soccorso lì, nessun scampo agli errori, si è affidati alla discrezione di un dio crudelissimo. Un luogo invaso da un silenzio pieno di oscuri, tetri e irrisolti misteri, che è impossibile spremere fuori dall'insignificante e dall'impreciso. Le voci che arrivano da questo spazio minaccioso sono solo echi raccolti dai fuggiaschi. Si ripete, in fondo, quello che è accaduto nel territorio inghiottito nel 2014 da un altro Stato dell'islam totalitario, il califfato nella terra dei due fiumi. Con la differenza che questa volta una parte di noi, del nostro mondo, è rimasta incagliata all'interno di quella terra improvvisamente sconosciuta, paurosamente segreta. Un funzionario della Croce rossa ha raccontato così quando i taleban hanno iniziato a pattugliare le strade della capitale, come se fossero usciti dal nulla: «I soldati che erano così tranquillizzanti semplicemente non c'erano più, al loro posto questi uomini malvestiti, alcuni senza scarpe, armati, enigmatici. Sembrava fossero arrivati da un altro pianeta». Da un altro pianeta: che perfetta e ingenua definizione del nulla che sappiamo di questa gente oltre le barriere, fragilissime, dell'aeroporto. Che assomiglia sempre più al quartiere delle legazioni straniere nella Pechino assediata da altri "diavoli", i fanatici Boxer. E quella estraneità si nutre e rafforza di voci, paure, massacri e intimidazioni che nessuno può controllare: setacciano le case, uccidono, cercano le vedove per darle in pasto ai guerrieri, preparano elenchi di sanguinose proscrizioni, si alleano con i terroristi universali. Un mondo di orchi con cui avere contatti è di per sé pericoloso. Provo a ribaltare il punto di vista. Delle angosce dei fuggiaschi, del loro dramma e della infusa tenacia dei salvatori so, vedo, leggo. Ma quei guerrieri in turbante che controllano le strade e pattugliano i marciapiedi dall'altra parte, molti poco più che ragazzi con facce caravaggesche, che pensano? Lo sguardo dell'orco. Non cerco giustificazioni ma anche i nemici son fatti della materia che è eterna dell'uomo e a me questa materia interessa. Ho vissuto con jihadisti in un altro luogo del modo. E le storie dell'odio si assomigliano tutte, come quelle del dolore. Il taleban dunque, padrone di Kabul. La maggioranza arriva dai villaggi del Sud-Est, la grande terra pashtun. Luoghi poveri come la polvere, un mondo duro, che non ammette né dubbi né incertezze né debolezze. Non ha certo studiato nelle madrasse, non sa cosa siano partiti e politica. La sua modernità è sempre stata il fucile: accarezzato, curato, fa parte del suo corpo: se lo trascuri si rompe, lo pulisce tutte le sere, quell'arma è la sua vita, perderla è morire, è la sua donna, i suoi figli. Per anni è stato nascosto sulle montagne, è vissuto di niente, il freddo degli inverni non lo ha ucciso, il suo era il mondo della notte quando scendeva nei villaggi a prender cibo, a saldare i conti con i traditori. È ancora vivo, gli sembra incredibile, un regalo di dio: nonostante i droni, i bombardieri, gli elicotteri, le mine, i rastrellamenti di americani e afghani. Prima dell'attacco una breve preghiera per raccomandarsi a dio. Poi passare sotto un drappo teso in cui è deposto un piccolo corano. Ha ucciso, ha visto molti compagni morire. C'è Dio nel suo mondo. E la morte come amica intima. L'oggetto invisibile che cancella tutto. Adesso cammina vincitore per le strade di Kabul, la grande città del grande mondo, l'universo in un granello di sabbia. Essere sospeso spaesato tra palazzi ville negozi, che erano la vita quotidiana di quelli che hanno cercato di ucciderlo, ricchi con i soldi degli americani. La Storia gli romba nella testa, lo rende sordo, feroce, implacabile. Per lui sono soltanto traditori, musulmani che si sono venduti allo straniero e hanno ucciso altri afghani, gente che vive in modo diverso, che ha cercato di cancellare il suo mondo antico, povero, ordinato, comprensibile, eterno. Che potrebbe desiderare se non vendicarsi? Eppure c'è stato un tempo in cui i jihadisti afghani erano nostri amici, li trovavamo eroici, pittoreschi. Si chiamavano, ancor più esplicitamente, «combattenti della fede impegnati nella guerra santa», mujaheddin. Lottavamo contro le ambizioni egemoniche della Unione sovietica. Le donne erano anche allora umiliate e seppellite nel burqa, comprate vendute, inesistenti. Ma quei taleban, quegli integralisti non erano fanatici, pazzi di dio, barbari. Il consigliere per la sicurezza del presidente americano Brzezinski li incitava: «Questa terra è la vostra, riprenderete le vostre case e le vostre moschee. La vostra causa è giusta: Dio è con voi».

Torino, distrutto il monumento ai caduti di Nassiriya. Meloni: “Gli autori sono come i talebani”. Carlo Marini sabato 21 Agosto 2021 su Il Secolo d'Italia. «Danneggiato nella notte a Torino il monumento dedicato alla memoria dei caduti di Nassiriya. È uno schiaffo ai nostri soldati che si sono sacrificati per difendere la democrazia e la libertà. Si faccia tutto il possibile per ripristinarlo e per individuare eventuali responsabili di questo gesto vergognoso. Difendiamo i nostri simboli e la nostra storia da chi usa metodi degni dei talebani.». Lo dichiara il presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. I vandali hanno divelto monumento in bronzo ai caduti di Nassiriya dal suo basamento nella notte tra venerdì e sabato. Le forze dell’ordine sul posto, in corso IV Novembre, nei pressi di piazza D’Armi, hanno effettuato i rilievi. Si lavora sulle telecamere di videosorveglianza della zona per individuare i responsabili. La scultura, che si compone di 19 figure umane stilizzate e unite tra loro, è opera di Osvaldo Moi, scultore e maresciallo capo dell’Esercito Italiano.

Sono gli stessi che gridano nelle piazze “10, 100, 1000, Nassiriya”. Il 12 novembre 2003 i terroristi islamici colpirono la base italiana in Iraq. L’attentato provocò 28 morti, tra carabinieri italiani e civili. Per anni, dopo quell’attentato, c’era chi gridava nelle piazze “10,100,1000 Nassiriya”. Quegli stessi fiancheggiatori dei terroristi islamici. Proprio a Torino ci sono quartieri come Barriera di Milano, dove anarchici e immigrati islamici hanno fatto asse contro lo Stato. La vandalizzazione del monumento pare un tassello che si inserisce in questo quadro del capoluogo piemontese. La stessa città dove le gang di nordafricani imperversano, come nel caso della mancata strage di piazza Castello, dove morirono diverse persone e ci furono migliaia di feriti. Una prova criminale che ha sfiorato i contorni dell’attentato.

Nel 2009 la rivendicazione con scritte per Carlo Giuliani. Il monumento ai caduti di Nassiriya in corso IV Novembre a Torino aveva subito un altro pesante danneggiamento anche il 27 agosto 2009. Un azione commessa dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che aveva stabilito che il carabiniere Mario Placanica al G8 di Genova agì per legittima difesa nei confronti di Carlo Giuliani. In particolare, gli autori avevano tagliato e portato via le teste di 4 delle sagome che formano il monumento mentre altre 3 sono state danneggiate. Inoltre sulla teca in plexiglass che riporta i nomi dei caduti sono state tracciate scritte come Carlo vive, CC assassini e Acab.

Lollobrigida: “Un gesto ignobile che riapre una ferita”. «Il danneggiamento del monumento ai caduti di Nassiriya a Torino riapre la ferita per le vittime della strage avvenuta in Iraq nel 2003. Vandalizzare una statua dedicata a 19 eroi è uno schiaffo alla loro memoria e a tutti quelli che, anche sacrificando la propria vita, hanno contribuito a difendere i valori della democrazia. Fratelli d’Italia chiede che si faccia piena luce sulla vicenda e si individuino i responsabili di questo ignobile gesto». Lo dichiara Francesco Lollobrigida, presidente dei deputati di FdI.

Francesco Olivo per “la Stampa” il 22 agosto 2021. Una scultura a terra, un oltraggio alla memoria e al presente. Il monumento ai caduti di Nassiriya a Torino è stato distrutto. L'atto di offesa alle 19 vittime dell'attentato del 12 novembre 2013 Iraq sarebbe di per sé inconcepibile, ma diventa ancora più grave considerando la coincidenza temporale: l'atto vandalico avviene nelle stesse ore in cui il nostro contingente è impegnato nella complicatissima missione di salvare migliaia di afghani in fuga dai talebani. Per questo la politica ha reagito duramente, a cominciare dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Il memoriale è stato divelto e danneggiato, probabilmente nella notte tra venerdì e sabato in corso IV Novembre, nei pressi di piazza d'Armi, ad accorgersene è stato un passante intorno alle 9 di ieri mattina. La scultura si compone di 19 figure umane stilizzate e unite tra loro, è opera di Osvaldo Moi, scultore e maresciallo capo dell'esercito. L'opera era stata posata nel 2006 e ora è stata portata in un deposito del Comune di Torino per essere riparata. La polizia indaga sugli autori del gesto. La notizia fa male ancora di più a chi quell'attacco l'ha visto da vicino, come il maresciallo Cosimo Visconti, che ha raccontato nel libro, Nassiriya. Diario di una strage quella esperienza tragica: «Sono dei vigliacchi, che si accaniscono sulla memoria dei morti forse credendo di vendicare il ritiro dall'Afghanistan, oggi tutti fanno grandi dichiarazioni, ma la verità è che lo Stato ci ha dimenticati. Non si risolve la questione con i soldi delle pensioni, bisogna ricordare quelle vite spezzate, quella gente è stata massacrata e merita rispetto». Il tenente colonnello Gianfranco Paglia, ferito a Mogadiscio nel 1994 e da allora costretto alla sedia e rotelle, riesce a non essere pessimista: «Questi sono atti irrazionali, ma il Paese è molto cambiato, c'è molto più rispetto verso i militari, che un tempo erano visti come persone atipiche ed etichettati tutti come fascisti. Proprio la strage di Nassiriya ha fatto cambiare la prospettiva». «Questi gesti - conclude Paglia - non sono nulla rispetto alla fila lunghissima che rese omaggio ai nostri caduti all'Altare della patria dopo l'attentato». Le reazioni della politica sono state molte e tutte di sdegno. A cominciare dalla sindaca di Torino Chiara Appendino e dai principali candidati alla sua successione, Stefano Lo Russo del centrosinistra, Paolo Damilano del centrodestra e dal suo predecessore, Piero Fassino. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, collega l'episodio con lo sforzo dei militari in Afghanistan: «Si deve reagire rafforzando nel Paese la memoria degli eroi». Di «talebani di casa nostra», parla il deputato piemontese del Pd Enrico Borghi. Anche dal centrodestra arrivano parole di condanna: «Uno schiaffo ai nostri soldati», dice la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni. «Si deve fare tutto il possibile per ripristinarlo», aggi il coordinatore nazionale di Forza Italia Antonio Tajani.

Pakistan e i talebani: alleati, ma non troppo. Antonio Giustozzi su La Repubblica il 24 agosto 2021. Islamabad è vista come lo sponsor numero uno del gruppo: ma il rapporto non è così lineare. Sebbene per 15 anni le autorità della Repubblica islamica abbiano dipinto i talebani come la longa manus del Pakistan, la verità è più complessa. Le relazioni tra Pakistan e talebani non sono sempre idilliche e gli interessi non sempre convergenti. I talebani sembrano voler incrementare la loro autonomia e i pachistani cercano di impedirlo, manipolando le dinamiche interne al gruppo. 

Il texano che armò l'Afghanistan per cacciare i comunisti. Davide Bartoccini il 21 Agosto 2021 su Il Giornale. Dietro la ritirata dall'Afghanistan dei sovietici c'è la firma di un deputato del Texas che forse non sapeva bene cosa stesse facendo: Charlie Wilson. Conoscete la storia del maestro Zen e del bambino che riceve un cavallo per il suo compleanno? È una storia di fantasia, che sollecita la mente del saggio lasciandolo concentrare sul relativismo di azione e reazione. Qualcosa che evidente era sfuggito al Pentagono tra la primavera del 1979 e quella del 1988; quando un texano arrivato da una cittadina di meno di duemila anime del profondo sud solo per garantire il salario minino e l’assistenza medica ai bisognosi, finì per cacciare i comunisti dall'Afghanistan insieme ad un paio di tizi della CIA. Gente pragmatica, che allora preferiva investire tutto sul vecchio adagio “il nemico del mio nemico è un mio amico”. Tombeur de femmes impenitente, avvezzo alla vita notturna e al consumo di whisky e whiskey (non sottovalutate mai la differenza, ndr), ex luogotenente della Marina degli Stati Uniti, il deputato Charles Wilson rappresentava a Washington il secondo distretto del Texas dal 1972. E non vide perché i comunisti che avevano invaso l'Afghanistan - terra strategica che è stata al centro del Grande Gioco intrapreso dall'Impero britannico e da quello russo nel diciannovesimo secolo, senza perdere la benché minima importanza nello scacchiere della Guerra Fredda - dovessero averla vinta tanto facilmente con un popolo di pastori e contadini brutalizzato e ridotto allo stremo, che pure avevano dato filo da torcere, nei secoli, anzi nei millenni, alle falangi Alessandro Magno come all’esercito di Sua maestà. (Due volte). Quando nel 1978 l'Unione Sovietica decise di appoggiare il governo di Babrak Karmal mandando in Afghanistan una forza di spedizione di 120mila uomini, e contando sulla capacità di persuasione dei suoi carri armati T-62 e dei suoi elicotteri Mil-Mi 24, il deputato Wilson faceva parte della Sottocommissione parlamentare sugli stanziamenti alla Difesa (House Appropriations Subcommittee on Defense, ndr). Era la commissione responsabile per i fondi ai servizi segreti americani che erano già esperti nel condurre guerra segrete in Stati che non dovevano cadere sotto il controllo dei comunisti, in Europa come in Asia. Non è dato sapere se la sua crociata sia iniziata veramente dopo aver visto un servizio del giornalista Dan Rather dall’Afghanistan che con un pakol in testa (valsogli il soprannome di “Gunga Dan”, dal romanzo di Kipling) raccontava il massacro di Kerala per la Cbs. Ma quello che è certo è che uno dei suoi primi provvedimenti fu quello di aumentare il budget per le operazioni di intelligence e per il finanziamento di armamenti con cui i Mujaheddin - ossia "guerrieri santi" - avrebbero dovuto fronteggiare le armate sovietiche. Nel 1983, ad appena quattro anni dall’inizio dell’Operazione Cyclope - programma della Cia a supporto dei ribelli afghani - il deputato Wilson, con la collaborazione di due operativi dei servizi segreti statunitensi, Gust Avrakotos e Michael Vickers, riesce ad aumentare i fondi da poche centinaia di migliaia di dollari ad un patrimonio di ben 40 milioni di dollari. La metà dei quali investiti solo in armi antiaeree, come i famigerati lanciamissili terra-aria spalleggiabili “Stinger” che faranno strage di elicotteri russi. Molte delle armi vennero reperite con il supporto del Mossad israeliano, che per l’occasione collaborò sotto mentite spoglie con la Difesa egiziana e con il governo del Pakistan che lasciava transitare le armi sul proprio territorio con l’obiettivo di mettere fine all’incontrollabile esodo dei profughi afghani. "Gli Stati Uniti non hanno niente a che fare con la decisione di combattere da parte di queste persone... ma saremo condannati dalla storia se li lasciamo combattere solo con le pietre”, affermava Wilson per portare dalla sua parte, della CIA e della sua musa passe-partout Joanne Herring, i deputati. Quei signori del Congresso più titubanti, che in ultima istanza arrivarono ad approvare finanziamenti di oltre 300 milioni di dollari in un solo anno per foraggiare quella che passerà alla storia come una piccola grande guerra privata: la guerra del deputato del secondo distretto del Texas a cavallo tra i primi anni ’70 e la fine degli anni ’80. Una guerra che verrà documentata, insieme al sistema adoperato per il finanziamento semiocculto della Cia per le cosiddette black operation, nel libro di George Crile terzo “Charlie Wilson's War: The Extraordinary Story of the Largest Covert Operation in History”.

Pochi "pazzi" al posto giusto. La strenua resistenza dei mujaheddin, molti dei quali di etnia pashtun condotti in battaglia da Jalaluddin Haqqani, si tramuterà nell’ennesima schiacciante vittoria che consacrerà le inespugnabili montagne e le inospitali valli afgane come “tomba degli imperi”. Con la ritirata dell'Armata Rossa e il successivo crollo nell'Unione Sovietica - già prossima al collasso -, Charlie Wilson passerà alla storia come un eroe silenzioso. Non privo di una certa modestia e di una coscienza critica che lo vedrà dire più volte, come un moderno Lawrence d’Arabia non combattente, che “gli afghani non avranno mai il genere di credito che meritano”, ricordando ad ogni occasione che finita la Guerra Fredda gli Stati Uniti hanno "lasciato un vuoto” in Afghanistan, “un vuoto che è stato riempito dai talebani e da al Qaeda”.

Un'eredità pericolosa. Se al Qaeda è arrivata a tanto nel 2001 e e se oggi i talebani sono così armati e addestrati da aver dato filo da torcere alle armate americane e inglesi, in ritiro dopo la dissoluzione delle'esercito afghano, lo sforzo della Cia e i lauti fondi racimolati dal deputato Wilson non vanno certo dimenticati. Al contrario, secondo molti sono il prodromo del problema. La risposta alla storiella Zen del bambino e del maestro, che a ogni sfortuna e ogni fortuna provocata dall’arrivo di quel cavallo chiosava con un “vedremo”. Secondo il giornalista Steve Coll, autore del libro "La guerra segreta della CIA. L'America, l'Afghanistan e Bin Laden dall'invasione sovietica al 10 settembre 2001", i “cospicui finanziamenti” forniti ai combattenti del Jihad dall’ignaro anticomunista Charles Wilson risulterebbero essere infatti d’importanza centrale per l’ascesa dei Talebani. Nonché per la nascita sul territorio afgano di Al Qaeda. Come ricorda anche Franco Iacch, Osama bin Laden ricevette assistenza e protezione da Jalaluddin Haqqani. Era lui uno degli uomini di fiducia della Cia durante la Guerra fredda e il primo leader tribale a testare le armi che gli americani facevano arrivare nelle mani dei combattenti islamici. Ed era lui il capo addestrato a mettere in atto le strategie di guerriglia che misero in ginocchio le armate sovietiche, e che appena 12 anni dopo sarebbero state rispolveravate per fronteggiare l’avanzata della Coalizione internazionale guidata dagli Usa nel post-undici settembre. “Il vero errore fu reclutare e addestrare gli arabi”, dicevano, per combattere il comunismo senza tenere conto che prima o poi si sarebbero trovati a fronteggiare le potenze occidentali. Il detto “il nemico del mio nemico è mio amico” - che sia la CIA che l’MI6 presero per buono - si sgretolava a Herat come un tempo si era sgretolato a Kandahar. Ma il deputo Charlie Wilson questo non poteva prevederlo.

Oggi, domani, poi "vedremo". Oggi leggiamo, dopo l’entrata in vigore dell’accordo di Doha, di una ritirata precipitosa del personale diplomatico da Kabul, dopo che le bandiere sono stata ammainate dagli ambasciatori scortati dai marines e dai paracadutisti. Che nel frattempo il figlio del “Leone del Panjshir” Massoud, diplomato all’accademia militare britannica di Sandhurst, vuole guidare una nuova insurrezione contro i talebani (magari la Cia è pronta a finanziarlo). Che l’Occidente ha comunque lasciato in Afghanistan, dove i soldati regolari si sono ritirati fino all’ultimo uomo, i suoi mercenari dell’Academi. Scarponi a terra, spalla a spalla con i mercenari russi della Wagner. Perché in Afghanistan esistono ancora molte ricchezze, in metalli preziosi e rari, e non solo. E che l’opinione pubblica è rimasta molto scossa da tutti quegli uomini e donne disperati per l’arrivo dei tagliagole. Tanto disperati da attaccarsi a alle ali di un quadrigetto da trasporto strategico che appena presa quota li ha visti cadere giù nel vuoto. È bene avere un’opinione pubblica internazionale così inconsapevole ma così scossa in un momento così complesso? Vedremo.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nominare. 

Andrea Nicastro per il “Corriere della Sera” il 24 agosto 2021. «Se pensate che il peggio sia passato, se pensate che la situazione all’aeroporto sia tragica, vi sbagliate di grosso. Finita la crisi militare comincerà quella economica. Con le banche chiuse, senza accesso ai finanziamenti stranieri, c’è da aspettarsi una catastrofe umanitaria e un’ondata di migranti». Le parole di Ajmal Ahmadi, il governatore della Banca Centrale Afghana in fuga, suonano peggio di una condanna. Eppure sono allo stesso tempo una delle poche speranza rimaste all’Occidente per non vedere vent’anni di investimenti e sacrifici finire nelle fogne della storia. Il ragionamento, espresso anche dal presidente Joe Biden a più riprese, è lineare: l’Afganistan si reggeva sugli aiuti internazionali, se i talebani vogliono evitare il collasso economico e la conseguente esplosione sociale, devono rispettare l’impegno ad un «governo inclusivo» e moderare certi loro atteggiamenti verso donne e diritti umani. Cioè, dato il ritiro, l’influenza americana da «bastone e carota», diventa solo «carota». Il problema per gli afghani che hanno creduto nei valori occidentali è che probabilmente non basterà. I conti sono solo in apparenza a favore dell’Occidente. 

I conti. Vediamoli. L’ex Stato filoamericano e i talebani assieme incassavano rispettivamente 2,5 e 1,5 miliardi: mezzo miliardo dalla droga, un miliardo dalle miniere il resto dalle dogane. Sul lato uscite, però, l’Afghanistan del presidente in fuga Ashraf Ghani contava su un budget di circa 8 miliardi l’anno di cui 6 erano donazioni. Il grosso delle spese (e degli aiuti) andava all’apparato militare: circa 5 miliardi. I talebani, invece, finanziavano la loro guerriglia con 1,5 miliardi. Le due parti in conflitto spendevano quindi un totale di quasi dieci miliardi di cui la guerra assorbiva il 60%. Se il miraggio del «governo inclusivo» (formula magica quanto vaga suggerita a Doha dagli americani) dovesse realizzarsi è facile che le spese militari precipitino. Vero è che i poliziotti dovranno rimanere o essere sostituiti; non tutti i soldati (e tanto meno i combattenti talebani) potranno essere smobilitati per non alimentare rivolte; in compenso non ci sarà bisogno di acquistare armi per parecchi anni a venire. Il risparmio può arrivare a circa 3 miliardi così che al nuovo Emirato talebano servirebbero più o meno 7 miliardi per sostituire (con meno spese belliche) l’attuale macchina statale. 

Il ruolo delle Ong. Un peso importante nell’economia veniva delle agenzie umanitarie e da centinaia di Ong che non passavano dalle casse pubbliche, ma che comunque contribuivano a far funzionare tutto. Ad esempio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pronte 500 tonnellate di farmaci e strumentazione sanitarie, ma non riesce a portarle in Afghanistan perché non trova un velivolo disponibile ad atterrare nel Paese. Ammesso e non concesso che gli aiuti umanitari continuino a fluire anche verso un Emirato talebano, mancherebbero comunque tre miliardi l’anno di aiuti soprattutto Usa perché l’Afghanistan talebano resti povero com’era quello filoamericano. Sono questi tre miliardi (più gli aiuti umanitari) la «carota» su cui conta l’Occidente per avere ancora influenza sul futuro del Paese: troppi burqa vorrà dire meno pozzi. Ai talebani non converrà, è la speranza dell’Occidente.

L’economia informale. Tutti questi dati sono in parte nei bilanci governativi verificati dai consiglieri americani, in parte stimati delle Nazioni Unite. Il limite tanto dell’allarme dell’ex governatore della Banca Centrale di Kabul quanto delle speranze di Biden e dell’Occidente tutto è che solo il 10 per cento degli afghani ha un conto in banca e oltre l’80 per cento dell’economia è informale, sfugge ai calcoli del Pil. Un esempio: l’export afghano è ufficialmente inferiore a un miliardo, meno del confinante e poverissimo Tajikistan che però ha un quarto degli abitanti. Difficile da credere a meno che si considerino il contrabbando come un effetto inevitabile di 40anni di guerra. Il discredito del governo filoamericano viene anche dal non aver fatto nulla per cambiare la situazione. 

Le donazioni. I talebani, con i loro mezzi brutali, potrebbero invece riuscire a ridurre la vasta area di corruzione e recuperare risorse. Altri miliardi possono venire dai donatori del Golfo, i cui giornali scrivono che soffocare l’Afghanistan togliendo gli aiuti sarebbe un errore. Altri ancora dalla Cina interessata a sfruttare finalmente i diritti che vanta sulle miniere di rame, ma anche contrattarne di nuove per zinco e terre rare. Mentre guardiamo alle tragedie dell’aeroporto, i talebani costruiscono già il loro apparato amministrativo. L’ex capo della loro «commissione economica» a Doha è diventato governatore della Banca Centrale, Haji Mohammad Idris. I dipendenti del ministero delle Finanze hanno fatto sapere di essere al lavoro. Il primo Emirato tra il 1996 e il 2001 riuscì a ridurre la violenza interna e a garantire stabilità economica. Avevano un perfetto controllo del territorio tanto che fermarono (in cambio di aiuti) anche la coltivazione dell’oppio. Chi crede di cambiarli con una sola «carota» da tre miliardi, li sta sottovalutando.

Traffici e fondi stranieri: come si finanziano davvero i talebani. Mauro Indelicato su Inside Over il 24 agosto 2021. Hanno forse imparato ad usare i social e ad avere un linguaggio più “moderato”, da quando hanno preso Kabul il loro approccio è apparso più politico. Ma in questi anni i talebani hanno mostrato anche doti non indifferenti di gestione economica. Al di là dell’ideologia islamista e della presa storica che il gruppo ha sui membri di etnia Pasthun, per mantenersi radicati in un Paese come l’Afghanistan occorrono anche i soldi. E gli studenti coranici negli ultimi 20 anni ne hanno trovato parecchi.

Un bilancio da 1.6 miliardi di Dollari. Per finanziare la propria guerriglia contro le forze internazionali i talebani hanno avuto bisogno di molti introiti. Il problema non ha riguardato soltanto le armi. In questi 20 anni successivi all’intervento Usa gli islamisti hanno dovuto rintracciare nascondigli, sostenere economicamente i capi più importanti, finanziare gli spostamenti. Non solo: per garantirsi una certa libertà di movimento nel territorio, è stato essenziale anche avere una certa liquidità per corrompere guardie, poliziotti e soldati afghani. Essere sopravvissuti a due decenni di guerra è stato il segno di un’inedita capacità “gestionale” degli studenti coranici. Nel 2020 uno dei leader, Mullah Mohammad Yaqoob, ha reso note le entrate avute dai talebani. In particolare, ha parlato di introiti da 1.6 miliardi di Dollari. Una cifra enorme, basti pensare, come sottolineato su Il Corriere della Sera, che lo Stato afghano, lo stesso collassato con l’avanzata islamista, nell’anno della pandemia ha incassato complessivamente 5.5 miliardi di dollari. Vuol dire cioè che da soli i talebani si sono assicurati quasi un quarto di quanto introitato dall’apparato statale di Kabul. Con queste somme il gruppo ha potuto finanziare la propria avanzata. Anche perché, tra le altre cose, i capi del movimento hanno potuto abbattere notevolmente i costi su due voci di bilancio importanti: le armi e il pagamento dei miliziani. Sul primo fronte, lo scioglimento dell’esercito afghano ha garantito ai talebani di entrare in possesso di ingenti quantità di rifornimenti e munizioni. Sull’altro versante invece, è bene ricordare come i soldati islamisti siano in gran parte volontari e non ricevono regolari stipendi. Con le cifre incassate nel 2020 quindi i nuovi padroni di Kabul hanno potuto mettere sul piatto molti soldi per i signori della guerra, per i clan dei Pasthun e per le varie tribù incontrate nel loro avvicinamento nella capitale. In tal modo si sono assicurati molti alleati e questo spiegherebbe anche la resa di molte roccaforti tradizionalmente ostili ai talebani. Il movimento, in generale, si è assicurato quella liquidità necessaria per non solo sopravvivere alla guerra ma anche prendersi l’intero Afghanistan.

Da dove arrivano le somme. Assodato quindi che il gruppo islamista non ha conosciuto crisi nemmeno nell’anno della pandemia, occorre chiedersi da dove sono arrivate certe cifre così elevate. Si potrebbe pensare, in primo luogo, ad appoggi dall’estero. Il riferimento è a quelle potenze regionali da sempre più o meno vicine ai talebani, a partire dal Pakistan. In realtà, secondo una scrupolosa indagine condotta nei mesi scorsi dal sito The Conversation, dall’esterno i soldi sono sì arrivati ma questa voce di bilancio non è risultata decisiva. E si parla soprattutto di donazioni private, fatte cioè da ricchi facoltosi o da istituti culturali che sostengono la causa islamista. Su 1.6 miliardi di incassi nel 2020, le donazioni dall’estero avrebbero contribuito per circa 500 milioni di Dollari. La gran parte delle somme a loro favore i talebani riescono a raccoglierla dall’interno dell’Afghanistan. In primo luogo grazie al controllo di numerose piantagioni di oppio. Dal Paese esce qualcosa come l’84% della produzione complessiva di oppio e lì dove gli islamisti hanno un grande radicamento territoriale in questi 20 anni hanno imposto una tassa del 10% a chiunque partecipi alla filiera. Grazie a questo meccanismo, i talebani avrebbero raccolto ogni anno quasi mezzo miliardo di dollari. Analoga situazione avviene con le miniere, di cui l’Afghanistan è ricco. Dai monti del Paese asiatico si estraggono terre rare, minerali, rame, zinco. Gli studenti coranici non sono coinvolti nello sfruttamento diretto delle miniere, ma lì dove controllano il territorio impongono tasse a tutte le aziende coinvolte. Occorre, in poche parole, parlare con loro per poter lavorare all’interno delle miniere. In tal modo gli introiti potrebbero arrivare anche fino a 300 milioni di dollari. Ci sono poi altre tasse, quelle imposte a tutti i commercianti e cittadini lì dove i talebani avevano già il totale controllo del territorio al posto delle istituzioni statali. Infine, gli studenti coranici sono da anni impegnati nell’edilizia, nel settore immobiliare e nelle esportazioni. Tesoretti sparsi quindi che hanno contribuito a mettere assieme un bilancio da multinazionale. E adesso che il controllo è esteso a tutto l’Afghanistan, per i talebani si aprono scenari ancora più redditizi.

Afghanistan, chi finanzia le casse dei talebani? Andrea Nicastro su Il Corriere della Sera il 23 agosto 2021. Servono 7 miliardi di dollari per far funzionare lo Stato. Dai soldi del Golfo Persico a quelli cinesi ecco le mosse del nuovo emirato. L’Occidente potrebbe far leva sul taglio delle donazioni, un totale di circa 3 miliardi. Ma non è detto che basti. «Se pensate che il peggio sia passato, se pensate che la situazione all’aeroporto sia tragica, vi sbagliate di grosso. Finita la crisi militare comincerà quella economica. Con le banche chiuse, senza accesso ai finanziamenti stranieri, c’è da aspettarsi una catastrofe umanitaria e un’ondata di migranti». Le parole di Ajmal Ahmadi, il governatore della Banca Centrale Afghana in fuga, suonano peggio di una condanna. Eppure sono allo stesso tempo una delle poche speranza rimaste all’Occidente per non vedere vent’anni di investimenti e sacrifici finire nelle fogne della storia. Il ragionamento, espresso anche dal presidente Joe Biden a più riprese, è lineare: l’Afganistan si reggeva sugli aiuti internazionali, se i talebani vogliono evitare il collasso economico e la conseguente esplosione sociale, devono rispettare l’impegno ad un «governo inclusivo» e moderare certi loro atteggiamenti verso donne e diritti umani. Cioè, dato il ritiro, l’influenza americana da «bastone e carota», diventa solo «carota». Il problema per gli afghani che hanno creduto nei valori occidentali è che probabilmente non basterà. I conti sono solo in apparenza a favore dell’Occidente.

I conti. Vediamoli. L’ex Stato filoamericano e i talebani assieme incassavano rispettivamente 2,5 e 1,5 miliardi: mezzo miliardo dalla droga, un miliardo dalle miniere il resto dalle dogane. Sul lato uscite, però, l’Afghanistan del presidente in fuga Ashraf Ghani contava su un budget di circa 8 miliardi l’anno di cui 6 erano donazioni. Il grosso delle spese (e degli aiuti) andava all’apparato militare: circa 5 miliardi. I talebani, invece, finanziavano la loro guerriglia con 1,5 miliardi. Le due parti in conflitto spendevano quindi un totale di quasi dieci miliardi di cui la guerra assorbiva il 60%. Se il miraggio del «governo inclusivo» (formula magica quanto vaga suggerita a Doha dagli americani) dovesse realizzarsi è facile che le spese militari precipitino. Vero è che i poliziotti dovranno rimanere o essere sostituiti; non tutti i soldati (e tanto meno i combattenti talebani) potranno essere smobilitati per non alimentare rivolte; in compenso non ci sarà bisogno di acquistare armi per parecchi anni a venire. Il risparmio può arrivare a circa 3 miliardi così che al nuovo Emirato talebano servirebbero più o meno 7 miliardi per sostituire (con meno spese belliche) l’attuale macchina statale.

Il ruolo delle Ong. Un peso importante nell’economia veniva delle agenzie umanitarie e da centinaia di Ong che non passavano dalle casse pubbliche, ma che comunque contribuivano a far funzionare tutto. Ad esempio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pronte 500 tonnellate di farmaci e strumentazione sanitarie, ma non riesce a portarle in Afghanistan perché non trova un velivolo disponibile ad atterrare nel Paese. Ammesso e non concesso che gli aiuti umanitari continuino a fluire anche verso un Emirato talebano, mancherebbero comunque tre miliardi l’anno di aiuti soprattutto Usa perché l’Afghanistan talebano resti povero com’era quello filoamericano. Sono questi tre miliardi (più gli aiuti umanitari) la «carota» su cui conta l’Occidente per avere ancora influenza sul futuro del Paese: troppi burqa vorrà dire meno pozzi. Ai talebani non converrà, è la speranza dell’Occidente.

L’economia informale. Tutti questi dati sono in parte nei bilanci governativi verificati dai consiglieri americani, in parte stimati delle Nazioni Unite. Il limite tanto dell’allarme dell’ex governatore della Banca Centrale di Kabul quanto delle speranze di Biden e dell’Occidente tutto è che solo il 10 per cento degli afghani ha un conto in banca e oltre l’80 per cento dell’economia è informale, sfugge ai calcoli del Pil. Un esempio: l’export afghano è ufficialmente inferiore a un miliardo, meno del confinante e poverissimo Tajikistan che però ha un quarto degli abitanti. Difficile da credere a meno che si considerino il contrabbando come un effetto inevitabile di 40anni di guerra. Il discredito del governo filoamericano viene anche dal non aver fatto nulla per cambiare la situazione.

Le donazioni. I talebani, con i loro mezzi brutali, potrebbero invece riuscire a ridurre la vasta area di corruzione e recuperare risorse. Altri miliardi possono venire dai donatori del Golfo, i cui giornali scrivono che soffocare l’Afghanistan togliendo gli aiuti sarebbe un errore. Altri ancora dalla Cina interessata a sfruttare finalmente i diritti che vanta sulle miniere di rame, ma anche contrattarne di nuove per zinco e terre rare. Mentre guardiamo alle tragedie dell’aeroporto, i talebani costruiscono già il loro apparato amministrativo. L’ex capo della loro «commissione economica» a Doha è diventato governatore della Banca Centrale, Haji Mohammad Idris. I dipendenti del ministero delle Finanze hanno fatto sapere di essere al lavoro. Il primo Emirato tra il 1996 e il 2001 riuscì a ridurre la violenza interna e a garantire stabilità economica. Avevano un perfetto controllo del territorio tanto che fermarono (in cambio di aiuti) anche la coltivazione dell’oppio. Chi crede di cambiarli con una sola «carota» da tre miliardi, li sta sottovalutando.

Siamo tutti talebani, basta che paghino. Li hanno voluti gli occidentali e i ricchi alleati arabi. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud il 19 agosto 2021. Gli Usa, la Nato, l’Italia, vendono armi e lisciano il pelo a monarchie assolute e oscurantiste come l’Arabia Saudita. Mohammed bin Salman tortura e fa a pezzi un giornalista, Renzi si fa pagare da lui e lo definisce un “principe del rinascimento”. In fondo siamo tutti talebani, basta che paghino. Sarebbe ora che ci facessimo un esame di coscienza e ci dicessimo in faccia la verità: i talebani li abbiamo voluti e creati noi occidentali con i nostri alleati arabi, quelli ricchi beninteso, dei poveracci non sappiamo che farcene. L’ossessione del comunismo un tempo era tale che gli Usa e l’Occidente avrebbe fatto carte false pur di far fuori Mosca. La jihad in Afghanistan l’abbiamo fomentata e sostenuta negli anni Ottanta per sconfiggere i sovietici. Gli arabi pagavano i mujaheddin, il Pakistan ospitava i gruppi radicali ed estremisti, gli Stati Uniti dirigevano le danze. All’epoca Osama bin Laden era un alleato degli americani perché la sua famiglia finanziava la guerriglia contro l’Urss: la società di costruzioni Bin Laden, di cui gli americani erano soci, forniva, tra l’altro, le scavatrici per costruire i tunnel sotterranei che proteggevano i combattenti dai raid aerei di Mosca. Gli stessi tunnel che poi Bin Laden ha usato coi talebani del Mullah Omar, per addestrare gli attentatori dell’11 settembre 2001, quasi tutti sauditi, e da cui è fuggito in Pakistan dove è stato ucciso nel maggio 2010. Per abbattere l’Urss, gli Usa e gli arabi del Golfo hanno pagato un’intera generazione di combattenti che affluivano da tutto il mondo musulmano. Per colpire gli aerei russi la Cia aveva fornito ai mujaheddin anche i missili Stinger, a quei tempi un’arma tra le più efficaci in circolazione. Questi combattenti avrebbero poi costituito battaglioni di terroristi che hanno destabilizzato il Medio Oriente e poi colpito anche in Europa. Il problema è cominciato quando l’Unione sovietica si è ritirata nell’89 dall’Afghanistan. Gli Usa e gli occidentali hanno abbandonato _ more solito _ l’Afghanistan al suo destino e i jihadisti si sono sentiti traditi: avevano abbattuto i comunisti e ora gli americani voltavano le spalle. È così che i nostri alleati afghani, definiti sui media occidentali “combattenti della libertà”, si sono trasformati in avversari. I talebani sono gli eredi di questa storia. Con una notazione: per prendere il potere negli anni Novanta a Kabul avevano bisogno dell’aiuto del Pakistan e a organizzare la loro ascesa fu il governo di Benazir Bhutto, acclamata in Occidente come un’eroina e poi uccisa in un attentato nel 2007. Non dobbiamo stupirci: l’Afghanistan da sempre viene considerato da Islamabad essenziale alla “profondità strategica” del Pakistan. I generali pakistani erano legati a Bin Laden, che distribuiva soldi a tutti, e molti della “lista nera” di Washington stavano tranquillamente in Pakistan. Non è un caso se Bin Laden sia stato ucciso nella città pakistana di Abbottabad nel 2011 dove è stato latitante per un decennio. Oggi la storia si ripete. L’Emiro dei talebani Akhunzadah, il vero capo del movimento, dirige anche una manciata di moschee e di scuole islamiche in Pakistan. Il Mullah Baradar venne arrestato nel 2010 in Pakistan, poi adeguatamente istruito dalla Cia e nel 2018 sono stati proprio gli americani a richiederne ufficialmente la scarcerazione. Era con lui che volevano trattare in Qatar. Dopo otto anni di training Baradar ha imparato la lezione: se fai il bravo con Washington, a casa tua puoi comportarti come ti pare. Altro che esportazione della democrazia. Basta vedere i sauditi, una monarchia assoluta totale, che non lascia uscire di casa le donne, le quali non possono viaggiare senza il consenso del marito _ sempre ovviamente velate dalla testa ai piedi _ ma siccome sono i migliori clienti di armi americane e sostengono il complesso militare e industriale Usa possono fare quello che vogliono. Noi alle monarchie assolute del Golfo non andiamo mai a chiedere conto dei diritti umani, delle donne o delle minoranze, lasciamo che mettano in galera giornalisti e oppositori senza fare una piega perché ci pagano profumatamente. Siamo degli ipocriti senza vergogna: Capaci persino, come ha fatto quel Renzi, di lodare Mohammed bin Salman, il principe saudita che ha fatto torturare e tagliare a pezzi il giornalista Jamal Khashoggi, colpevole di averlo criticato sui giornali. I nostri amici arabi sono come i talebani ma noi stiamo zitti e muti perché ci pagano. Anzi siccome sono anche nel G-20, come l’Arabia saudita, chiediamo loro consiglio come fare pressione sui talebani. Sembra una parodia: domandiamo a degli oscurantisti di diventare i paladini dei diritti delle donne e della libertà di opinione. Quindi oggi non ci deve fare troppo schifo anche il Mullah Baradar. È stato lui a firmare gli accordi Doha e a stringere la mano davanti alle telecamere al segretario di stato Mike Pompeo. Sia l’Emiro Akunzadah che il suo vice Baradar da giovani sono stati combattenti anti-sovietici. Akunzadah tra l’altro è cognato del Mullah Omar e nel suo staff dirigenziale lavora anche Yakoob, il figlio del Mullah fondatore dei talebani, deceduto qualche anno fa _ guarda caso _ in un ospedale pakistano a Karachi. Insomma questa è anche una foto di famiglia, della loro e anche della nostra. Se Baradar e il suo capo fanno i bravi ragazzi, impantanando cinesi, russi e iraniani in Afghanistan, riapriremo le ambasciate a Kabul con la scusa che dobbiamo proteggere i diritti umani e delle donne. In fondo siamo tutti talebani.

"Non si vince...": il commento choc del leader dei musulmani italiani. Ignazio Stagno il 19 Agosto 2021 su Il Giornale. Hamza Piccardo, già segretario dell'Ucoii, non usa giri di parole e mette nel mirino l'Occidente strizzando l'occhio ai talebani. Non c'è limite al peggio. Adesso i musulmani di casa nostra difendono la presa di Kabul da parte dei talebani. Come altro definire la presa di posizione di Hamza Roberto Piccardo, già segretario nazionale dell'Ucoii, l'associazione dei musulmani italiani. Come ha sottolineato Paolo Berizzi su Repubblica, non si può restare indifferenti alle parole di Piccardo che su La Luce, una voce che illumina, dà una lettura particolare di quanto accaduto in Afghanistan. Il titolo del suo commento non lascia spazio ad interpretazioni: "Il ritorno dei talebani: contro i popoli non si vince". L'incipit è chiaro: "Sono passati 46 anni e la Storia, cioè la cronaca, ci ha dato un’altra prova che contro i popoli non si vince. Dico la cronaca poiché, la Storia ha bisogno di tempo, documenti, studio e riflessione, deve lasciar decantare i fatti e poi leggerli con maggior serenità e onestà intellettuale". Ma andando avanti la posizione si fa sempre più esplicita e mette nel mirino la presenza occidentale che ha cercato, seppur con scarsi risultati, di dare stabilità al Paese: "Qui non si tratta di condividere l’ideologia dei mujahidin algerini, o quella dei vietcong e neppure quella dei talebani anche se con i primi e questi ultimi esiste un robusto tessuto comune: la fede islamica che ci accomuna; la questione di fondo è che i popoli possono permettersi di pagare un prezzo che i colonizzatori, gli invasori (compresi i collaborazionisti locali) non possono pagare". A questo punto nel mirino finiscono direttamente gli americani: "Non basta decimarlo, un popolo, non basta usare contro di esso la forza e l’organizzazione militare anche più sofisticata, non basta spendere come hanno fatto gli USA e i loro alleati 1300 miliardi di dollari, non basta.". E nessuno provi a mostrare l'evidenza delle immagini sul trattamento riservato alle donne che i talebani stanno portando avanti da qualche giorno lasciando poche speranze per il futuro del Paese. Piccardo ha una spiegazione anche su questo: "Ora, mentre cominciano a essere pubblicati su media occidentali racconti sulle atrocità dei vincitori che servono più che altro a giustificare il fatto che contro mostri del genere la guerra era stata necessaria, ci auguriamo che il popolo afghano sappia ritrovare, nei suoi tempi e modi, quell’unità d’intenti che li ha visti vincitori da quasi due secoli contro tutti gl’invasori: inglesi, sovietici e infine contro la Coalizione di cui disgraziatamente abbiamo fatto parte anche noi italiani". Dunque i video che abbiamo visto finora sono frutto solo della "propaganda" occidentale. Intanto i musulmani italiani si preparano ad accogliere gli afghani: "L'Ucoii mette a disposizione delle Prefetture le sedi dei propri centri e operatori per l’orientamento e la mediazione culturale dedicati a chi potrebbe trovare rifugio sul suolo italiano. Appoggiamo la linea umanitaria del nostro governo e faremo il possibile per supportare il processo sul territorio", ha dichiarato il presidente, Yassine Lafram. Si spera però che il mondo islamico di casa nostra prenda le distanze dal Medioevo culturale e sociale in cui è piombato l'Afghanistan in poche ore...

Ignazio Stagno. Nato a Palermo nel 1985. Palermitano prima di tutto, a Milano da quasi 10 anni. Dal 2015 lavoro per il sito de ilGiornale.it. Due passioni: il Milan e le sigarette. Un solo vizio: la barba lunga. 

Afghanistan, il portavoce dei talebani Zabiullah Mujahid: "Chiediamo all’Italia di riconoscerci. La Cina ci finanzierà”.  Mattia Sorbi su La Repubblica l'1 settembre 2021. L'appello: "Il vostro è un Paese importantissimo. Spero che riapriate l’ambasciata. Questo per noi è essenziale". Su Pechino: "È il nostro partner principale perché è disponibile a investire. Teniamo moltissimo alla Via della seta". Incontriamo il portavoce dei talebani, Zabiullah Mujahid, al secondo piano del ministero dell'informazione e della cultura di Kabul, dopo aver passato il controllo della sicurezza in un lungo e stretto corridoio delimitato solamente da cemento armato e filo spinato. Saliamo le scale e veniamo fatti accomodare in uno studio elegantemente arredato dove ci aspetta l'esponente politico, dalla presa di Kabul volto dei talebani nei discorsi pubblici.

“Aiutare i talebani a determinate condizioni”: la proposta della sinistra tedesca. Lucia Conti su ilmitte.com il13 Agosto 2021. Aiutare i talebani per aiutare l’Afghanistan. Lo ha dichiarato all’emittente RND Gregor Gysi, portavoce della sinistra tedesca di Die Linke. La posizione di Gysi e del partito è che la Germania dovrebbe presentare concrete offerte di aiuto ai talebani, subordinandole tuttavia a determinate condizioni. L’idea di fondo è che si possa indurre i talebani a “cooperare”, se in qualche modo dipendono dagli aiuti tedeschi.

La proposta arriva mentre i talebani conquistano il Paese. La proposta arriva in un momento in cui, dopo la fine della missione Nato in Afghanistan, i talebani stanno progressivamente riguadagnandosi il Paese. E giovedì sera hanno conquistato Herat, la terza città più grande del Paese, lasciando il governo di Kabul sotto scacco. Prova definitiva, secondo Gysi, del fatto che non esista una soluzione militare al problema. “Bisogna tornare alla politica estera e alla diplomazia. Si possono porre condizioni alle offerte di aiuto” ha dichiarato Gysi, il quale ha aggiunto che la strada dovrebbe essere quella percorsa dalla DDR, la Repubblica Democratica Tedesca, che costruì con successo in Siria un sistema di scuole professionali, a condizione però che le ragazze fossero educate insieme ai ragazzi. “Perché non possiamo offrire aiuti anche ai talebani, da cui (le donne) dipendono, e porre condizioni a queste offerte?”. Un sistema di aiuti allo sviluppo, insomma, potrebbe “rendere più difficile ai talebani praticare il loro modo di esercitare il potere” e di conseguenza aiutare il Paese a uscire dall’inferno in cui è confinato da troppi anni. La posizione della sinistra tedesca di Die Linke è diametralmente opposta a quella del ministro degli esteri, il social-democratico Heiko Maas, che invece ha espressamente dichiarato che la Germania non darà più “neanche un centesimo all’Afghanistan”, se i talebani conquisteranno il potere. Die Linke ritiene che questo tipo di atteggiamento non avrebbe alcun effetto sui talebani e che non aiuterebbe la popolazione. Questo atteggiamento è tuttavia ribadito anche dall’Unione Europea, che in una nota del capo della politica estera dell’Unione, Josep Borrell, ha espresso una posizione chiara a riguardo: “Se il potere verrà preso con la forza e verrà ristabilito un emirato islamico, i talebani dovranno affrontare il non riconoscimento, l’isolamento, la mancanza di sostegno internazionale e la prospettiva di un conflitto continuo e di un’instabilità prolungata in Afghanistan”.

Afghanistan, sedotti dai mullah arrivano gli italiban di destra e di sinistra. Francesco Merlo su La Repubblica il 18 agosto 2021. Ci eravamo dimenticati di avere in casa i talebanini, gli “italiban”, quelli che l’orrore del terrorismo è comunque meglio dell’orrore dell’Occidente. Già venti anni fa questi nostri italiban si inventarono che a organizzare o forse solo ad appoggiare l’attentato alle Twin Towers erano stati “i servizi segreti occidentali insieme all’intelligence pakistana e saudita”. Ebbene oggi questi stessi italiban, invecchiati ma ringiovaniti dalla ritirata delle “tigri di carta” dall’Afghanistan, di nuovo dicono e scrivono che i tagliagole islamisti non opprimono, sgozzano e terrorizzano il popolo afgano, ma “sono” loro il popolo afgano perché governano con il consenso e non con la paura. E addirittura aggiungono – e non è uno scherzo – che i barbuti vendicatori, pur essendo diventati miti come il lupo di Cappuccetto Rosso, hanno le loro buone ragioni a guardarsi dai “traditori”, dai “collaborazionisti”. E infatti li stanno cercando casa per casa insieme alle donne che, scampate alla violenza e alla lapidazione, si erano messe a studiare e si erano liberate del feretro del burqa, musulmane laiche con i capelli al vento di Kabul come a quello dell’Avenue des Champs-Élysées, studentesse universitarie , impiegate, giornaliste, commercialiste, soldatesse e star del pop. Sono tutte collaborazioniste secondo i mattoidi italiani antimperialisti, secondo gli italiban di destra e di sinistra. E chissà che fine meriteranno i perfidi barbieri che diventarono il simbolo festoso della Kabul liberata dalle barbe dell’Islam, nell’illusione, che tutti ci contagiò, che anche la ferocia andasse via insieme con i peli. E invece non c’è oscurantismo che possa essere tosato da un barbiere. Davvero ci eravamo dimenticati degli italiban che hanno subito richiamato in servizio i vecchi fantasmi leninisti, la k di Amerika e l’imperialismo anglosassone,che nel 68 resero più leggera la complicità intellettuale di tanti confusi ragazzi italiani con i dittatori comunisti, da Castro a Mao…. Sono gli agiografi del Mullah Omar, ammirato come il guerrigliero in motocicletta, fiero resistente al grande Satana che non solo nella vecchia vulgata marxista leninista, è travestito da liberator. Gli americani non sono mai salvatori ma sempre invasori anche nella retorica della destra antimperialista, quella che il 25 aprile non celebra la Liberazione ma piange l’ Occupazione. Torna dunque l’Afghanistan come il luogo mentale dell’ossessione e quel chirurgo, generoso e straordinario che fu Gino Strada, morto troppo presto e subito innalzato sul piedistallo dei nobili sentimenti, viene spacciato per un maestro di pensiero politico. E la fuga ingloriosa dall’Afghanistan diventa, chissà perché, la certificazione che si trattò di una guerra di aggressione: attenzione non dicono di una guerra sbagliata, ma di una guerra di aggressione, guerra imperialista come destino del capitalismo in crisi, sbocco keynesiano dei mercanti di armi. E dimenticano che fu invece la prima necessaria risposta alla guerra contro l’Occidente che l’islamismo fanatico aveva dichiarato con l’attacco alle due torri e l’eccidio di quei nostri fratelli, bianchi, neri, ispanici, e anche arabi. E infatti tutti ci mettemmo a sventolare come una bandiera quel titolo che i giornali del mondo occidentale pubblicarono insieme: “siamo tutti americani”. Nel nome di un dio macellaio che bestemmiava la vita erano stati colpiti il simbolo architettonico e il cuore fisico della civiltà occidentale e della democrazia. Cos’altro si poteva fare se non cercarli nelle caverne dove organizzavano gli attentati, le decapitazioni e i massacri, che sarebbero via via divenute le immagini di ordinaria ferocia che loro stessi avrebbero divulgato? Cos’altro si poteva fare se non portare la guerra nel luogo dove per la prima volta il terrorismo si era fatto esercito e Stato? Eppure fu allora che l’Italia ideologica schierò i suoi italiban con lo slogan “non si può esportare la democrazia” che oggi è il tic linguistico alla moda, come “la pace senza se e senza ma”, “la madre di tutte le battaglie”, “la maggioranza bulgara”, “la linea del Piave, “la nostra Caporetto”, “hanno combinato un ambaradan” e pure alzare il gomito, baciamo le mani e colpo di fulmine. Insomma è una frase, scusate l’insistenza, senza senso, che se invece fosse vera in Italia ci sarebbe ancora il fascismo. E ieri Giuliano Ferrara in un elenco di guerre ha pesato la quantità di democrazia che è stata esportata: in Germania, in Giappone, in Corea… Ed Ezio Mauro ha ricordato che “quando il bersaglio è la democrazia nel suo insieme, la democrazia ha il diritto di difendersi, ma senza mai separare la pura logica militare dalla politica”. E invece i pacifisti assoluti, quelli che come venti anni fa dicono di non stare né con l’Impero né con i terroristi, sono, come già li chiamammo allora, i signori Né-Né , che è il modo più subdolo di stare con i talebani. E forse è davvero la via italiana al falso pacifismo: né con lo Stato né con le Br frenò lo sdegno contro i brigatisti; né con il fascismo né con l’antifascismo è ancora oggi una pozzanghera ideologica dove si nasconde il fascismo; e Salvini e Grillo dicono di non essere né di destra né di sinistra perché sono di destra …Allo stesso modo in una guerra che ci coinvolge tutti, è solo un trucco ipocrita degli italiban questo stare né di qua né di là e scegliere di non scegliere come i pacifisti che nel ‘39 gridavano nelle strade di Parigi di non volere morire per Danzica e si sa come andò a finire. Né ci si può commuovere per gli ebrei della Shoah e poi odiare gli ebrei di Israele in sintonia con quanto avviene nelle strade dell’Islam. Soprattutto dopo l’ingloriosa ritirata dall’Afghanistan, ben sapendo che la vittoria è ancora più lontana e che altri lutti ci aspettano in questa guerra della Civiltà contro l’Inciviltà, anche il più scaltro degli italiban dovrà decidersi: o con l’Occidente o con l’Emirato dei terroristi.

Maurizio Stefanini per “Libero Quotidiano” il 17 agosto 2021. In Italia c'è una pattuglia di opinionisti che sta coi talebani. Qualcuno senza dubbi, altri con posizioni sfumate, come quella del defunto Gino Strada più anti-americano che filo-islamista. D'altronde per restare in Afghanistan sette anni come ha fato il fondatore di Emergancy era più igienico attaccare l'Occidente che non gli "studenti di religione". Uno storico difensore dei Taleban è invece Massimo Fini: più che altro, come è suo solito, per bastiancontrarismo. Nell'articolo che ha scritto per il Fatto appunto il 15 agosto ribadisce in particolare che «i Talebani con Al Qaeda, Bin Laden e gli attentati alle Torri Gemelle non avevano nulla a che fare», spiega che «gli unici a combattere l'Isis in Afghanistan sono stati proprio i talebani», e che «non è del tutto vero che nell'Afghanistan talebano le donne non avessero il diritto di studiare, tasto su cui si batte ossessivamente in Occidente». Volevamo solo che stessero in edifici diversi dagli uomini, ma quel mascalzone di Massud ostinandosi a combatterli non gli diede «il tempo di costruirli. Avevano altre priorità. Si può anche capirli». La rabbia di M Fini contro chi accosta Taleban a Isis e al-Qaeda è pari a quella di Chef Rubio contro chi accosta Hamas ai Taleban. «Il ritorno dei Talebani» è esaltato anche da Hamza Roberto Piccardo, il convertito leader storico della Ucoii. «Contro i popoli non si vince», è il titolo del suo articolo di commento sulla testata La Luce. Dopo aver paragonato l'Afghanistan a Algeria e Vietnam chiarisce che «non si tratta di condividere l'ideologia dei mujahidin algerini, o quella dei vietcong e neppure quella dei talebani anche se con i primi e questi ultimi esiste un robusto tessuto comune: la fede islamica che ci accomuna; la questione di fondo è che i popoli possono permettersi di pagare un prezzo che i colonizzatori, gli invasori (compresi i collaborazionisti locali) non possono pagare». Spiega dunque che «racconti sulle atrocità dei vincitori» pubblicati su media occidentali «servono a giustificare il fatto che contro mostri del genere la guerra era stata necessaria» e auspica che i Taleban «come ci ha insegnato la tradizione del Profeta Muhammad a cui sostengono di riferirsi, sappiano essere giusti e misericordiosi con quelli del loro popolo che per debolezza o altre circostanze si trovano oggi tra gli sconfitti». Tesi quasi opposta a quella di Alberto Negri sul Manifesto, secondo il quale anzi americani e Ue con i Taleban si sono già messi d'accordo sotto banco. «Il ritiro americano è una vergogna ma anche una mossa calcolata. Il ritorno all'ordine talebano era prevedibile, forse persino auspicato. Fare gli stupiti è ipocrita». «La stessa usuale solfa di Bruxelles che spera con i quattrini di fermare gli arrivi alle frontiere, una volta pagando Erdogan, un'altra i libici o i tunisini. I prossimi a libro paga magari saranno proprio i talebani e non ci sarebbe da scandalizzarsi». Che invece è proprio la strategia sostenuta sul Fatto Quotidiano dal senatore Gianluca Ferrara, vicepresidente del gruppo M5S al Senato. Ferrara dice che «l'Europa deve impegnarsi per una soluzione politica che consenta di preservare le poche conquiste fatte in questi ultimi due decenni e garantire finalmente una prospettiva di pace. Se l'Ue non si fa promotrice di un'azione diplomatica, a riempire il vuoto lasciato dagli Usa saranno altri attori internazionali che già si stanno adoperando per perseguire i loro obiettivi geopolitici». Insomma: abbuffiamoli di soldi.

Quarta Repubblica, Massimo Fini delira: "Aspettiamo a giudicare i talebani". Toni Capuozzo lo massacra: che lezione.  Libero Quotidiano il 07 settembre 2021. Torna Quarta Repubblica, il programma condotto da Nicola Porro su Rete 4. E nella puntata di ieri sera, lunedì 6 settembre, un'ampia porzione è stata dedicata all'Afghanistan, al drammatico ritorno al potere dei talebani dopo il ritiro degli Stati Uniti e la figuraccia di Joe Biden. Tra gli ospiti nello studio Mediaset, ecco a confronto Toni Capuozzo e Massimo Fini. Fini, nelle ultime settimane, si è "distinto" per una posizione accomodante nei confronti dei talebani, insomma la condanna è tutt'altro che assoluta, posizione assai radicata quella del giornalista che già anni fa dedicò un libro al Mullah Omar. E anche da Porro da la sua linea non cambia: "Vediamo cosa fanno i talebani prima di giudicarli", premette. E già si trasecola: non abbiamo forse già visto abbastanza? Dunque la firma del Fatto Quotidiano prosegue nella sua intemerata: "Un liberale che pretende che tutti siano liberali non è un liberale ma un fascista. Noi per 20 anni abbiamo bombardato quel Paese", ricorda come a giustificare l'avanzata degli estremisti islamici. E ancora, reitera il concetto: "Non è pensabile che una resistenza che dura 20 anni non sia fatta con l'appoggio di una parte della popolazione talebana. Gli occidentali hanno perso ed ora dobbiamo lasciare che i talebani si regolino da soli", conclude Massimo Fini. Poi, però, entra in campo Toni Capuozzo. Il quale, al contrario di Fini, sostiene posizioni ben differenti. E all'inviato bastano un paio di considerazioni. La prima: "Io penso che sia già una vergogna aver lasciato lì più di 150.000 persone che avevano collaborato, ma dobbiamo anche interrogarci su quante persone siamo in grado di accogliere". La seconda: "I talebani sono degli interpreti estremisti di una cultura e di una religione. In questi 20 anni di americani non è che le donne si sono liberamente tolte il Burqa, anche senza talebani", conclude Toni Capuozzo, ricordando a Massimo Fini la realtà delle cose.

Giampiero Mughini per Dagospia il 25 agosto 2021. Caro Dago, premetto che ai miei occhi il centro del mondo oggi è laggiù tutt’attorno allo scalo aereo di Kabul, lì dove la fame e il terrore stanno stravolgendo le vite e gli animi di afgani che a decine di migliaia vorrebbero fuggire dal “paradiso” talebano. E tutto questo nel momento in cui l’Occidente tutto intero prende il più gran schiaffo in volto della sua storia recente, di quella storia che comincia a Dien Bien Phu. Le piste di quell’aeroporto cui agognano disperatamente uomini donne bambini, sono oggi il centro del mondo né più né meno di quanto lo furono nel maggio 1940 le spiagge di Dunkerque, lì dove fu disperato il tentativo (riuscito) delle forze da combattimento britanniche di sottrarsi alla morsa nazista e arrivare sulla sponda inglese a costituire un’eventuale e sia pur esile barriera contro l’arrivo delle truppe tedesche fino a quel momento invitte. Purtroppo non so nulla di nulla dell’Afghanistan, della sua gente, delle sue particolarità, delle congreghe politiche che vi sono dominanti. Leggo quanto più posso, anche se so che non basta. Purtroppo non basta. Leggo sempre gli articoli sul Fatto di Massimo Fini, un mio vecchio compare che s’è dato il ruolo di ambasciatore ufficioso dei talebani presso il pubblico di chi legge i giornali in Italia. Conoscendolo meglio delle mie tasche so pesare ciascun aggettivo e ciascuna virgola di quello che scrive, e a parte che sono articoli scritti benissimo. In quello di oggi c’è il racconto di un viaggio del 1997 di Emma Bonino da commissario europeo in Afghanistan, di come lei nel suo comportamento concreto avesse violato le usanze e le particolarità quotidiane di quella gente e di come avesse rischiato di essere trattata a colpi di “verghe sacre”.  Fini butta giù una battuta e scrive che anziché liberarla dopo due ore gli afgani “avrebbero fatto meglio a fustigarla”. Ovviamente è solo una battuta, seppure di cattivo gusto. Tanto che il direttore del Fatto, Marco Travaglio, ne è stato spaventato e lo ha sottolineato espressamente, in coda al pezzo di Massimo, che la sua era solo una battuta. Ovvio, non c’era nessun bisogno di precisarlo. Mentre non è affatto una battuta la sentenza intellettuale con cui Fini chiude il suo pezzo sul Fatto di oggi, e cioè che tra il “medioevo sostenibile” propugnato dal fondatore dei Talebani, il Mullah Omar per il quale Fini ha un’insana passione intellettuale, e il nostro “modernismo insostenibile” lui preferisce di gran lunga il primo. Questa non è una battuta. E’ il fondo di pensiero che sta dietro ogni riga e ogni virgola della produzione giornalistica di Fini. Ma vuoi paragonare le delizie del mondo in cui le donne meritano i colpi di “verghe supreme”, dove un comico afgano irriverente nei confronti dei talebani lo hanno caricato su un’auto e poi ucciso come un cane, dove le donne afgane che hanno lavorato nei media ufficiali in questi ultimi anni stanno nascondendosi nei buchi e negli anfratti dove sperano che non li raggiungeranno gli studenti islamici dalle gran barbe, vuoi paragonare queste delizie con questo nostro mondo “insostenibile” dove non c’è cretino che non abbia il diritto di pontificare su questo e su quello, dove le edicole sono apertissime fin dalle sette del mattino (per fortuna) a ospitare le copie del giornale su cui Fini scrive quello che vuole senza che alcuno minacci di colpirlo con verghe più o meno “supreme”.

Ma no che non c’è paragone, da quanto il primo “mondo” è superiore al secondo. Non conoscessi Fini quanto lo conosco da quarant’anni, troverei tutto questo agghiacciante.

Estratto dell'articolo di Massimo Fini per il Fatto Quotidiano il 25 agosto 2021. Un liberale che pretende che tutti siano liberali, non è un liberale: è un fascista." (Il Ribelle dalla A alla Z) (...) Quando nel 1996 dopo aver sconfitto i "signori della guerra" il Mullah Omar, che mi pare fosse un talebano, prese il potere a Kabul, non ci furono "fughe di massa" (né di frange della popolazione) né ci furono durante i 6 anni in cui governò il Paese. Allora che cos' è cambiato in questi 20 anni? Gli illustri colleghi dovrebbero porsi qualche domanda e darci una risposta. La disfatta degli occidentali in Afghanistan non è vergognosa in sé - le guerre si possono anche perdere - ma per quello che abbiamofatto, o non abbiamo fatto, nei 20 anni di occupazione (...) Il distico che precede questo articolo è dedicato a Mario Sechi, direttore dell 'AGI, e a Emma Bonino, entrambi intervistati da Sky. Nel 1997 Bonino era commissario Ue e chiese al governo talebano di poter visitare l'Afghanistan. I Talebani non avevano alcun dovere di accettare questa richiesta visto che la Ue non riconosceva il loro governo, invece le diedero il visto e la trattarono con gentilezza e cortesia come gli afghani, per tradizione, han sempre fatto con gli ospiti stranieri. Bonino poté visitare tutto ciò che voleva. Arrivata a Kabul entrò in un ospedale seguita da un codazzo di giornalisti, fotografi, cameramen e si diresse nel reparto femminile dove i fotografi cominciarono a fare i loro scatti e i cameramen a filmare. Arrivò il "Corpo per la promozione della virtù e la punizione del vizio", acchiappò la Bonino e la portò al primo posto di polizia dove le spiegarono come andavano le cose da quelle parti. Del resto nemmeno in Italia è possibile fotografare o filmare i degenti senza il loro consenso oltre a quello della Direzione dell 'ospedale. Per un reato di questo genere allora in Afghanistan era prevista la fustigazione con "le verghe sacre", invece la rilasciarono dopo due ore. Avrebbero fatto meglio a fustigarla. Con "le verghe sacre", naturalmente. (...) Adesso, dopo un lungo soggiorno in Gran Bretagna e a Parigi, spunta Ahmad Massoud, figlio del più celebre Ahmad Shah Massoud, il "Leone del Panshir". E anche su questo personaggio, molto ammirato in Occidente, bisogna dire alcune cose chiare. È stato Massoud a dare inizio alla tragedia dell'Afghanistan post sovietico. Finito il regime sovietico occupò Kabul che fu immediatamente circondata dagli uomini di Hekmatyar, suo storico nemico. Fu l'inizio del conflitto civile fra i "signori della guerra", cui si aggiunsero Dostum e Ismail Khan (forse il migliore del gruppo) che fecero dell'Afghanistan terra di stupri, violenze e ogni sorta di abusi sulla povera gente. Fu questo a dare la spinta al movimento talebano guidato dal Mullah Omar che sconfisse i "signori della guerra" ricacciando Massoud nel Panshir, Dostum in Uzbekistan, Hekmatyar e Ismail Khan in Iran, ponendo fine alla guerra civile e portando la pace e l'ordine. Mi ha raccontato Gino Strada, che ha un po' più di autorità di me visto che nell'Afghanistan talebano ci ha vissuto: "Non c'era criminalità. Assolutamente. Si poteva girare tranquilli, anche di notte. (...)  Il Mullah Omar non era, prima che lo attaccassimo, antioccidentale, ma a-occidentale. Voleva conservare le tradizioni del suo Paese senza disdegnare però alcune conquiste della nostra cultura, soprattutto nel campo della medicina e dei trasporti, che in Afghanistan hanno molta importanza. Propugnava cioè un "medioevo sostenibile" in contrasto col nostro modernismo insostenibile che ci sta portando al fosso. Preferisco il Medioevo. Caro Massimo, i lettori lo sanno benissimo, ma siccome gli articoli del Fatto vengono vivisezionati ogni giorno dal Tribunale Supremo del Politicamente Corretto, è bene precisare per questi cretini che quella sulle verghe sacre è una battuta. Ripeto: battuta (Marco Travaglio)

Massimo Fini per il "Fatto quotidiano" il 14 settembre 2021. No. Non sarò così disonesto con me stesso e con i lettori scrivendo che mi sciolgo in lacrime per quanto accadde vent' anni fa a New York. Non lo feci nemmeno allora mentre la tragedia era in corso. Quando accendendo la televisione vidi quello che tutti noi abbiamo visto fui preso da un sentimento ambivalente: da una parte un istintivo orrore per quella carneficina, per quello sventolar di fazzoletti bianchi, per quegli uomini e quelle donne che si buttavano dal centesimo piano; ma d'altro canto pensavo che quell'evento avrebbe potuto essere un utile insegnamento per gli americani, colpiti, per la prima volta nella loro storia, sul proprio territorio. Alla fine della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti avevano bombardato a tappeto, con tranquilla coscienza, Dresda, Lipsia, Berlino, col preciso intento, come dichiararono i loro comandi politici e militari, di uccidere milioni di civili "per fiaccare la resistenza del popolo tedesco" e avevano sganciato una terrificante bomba su Hiroshima, replicando tre giorni dopo su Nagasaki quando i devastanti effetti dell'Atomica erano diventati evidenti. Adesso con l'11 settembre sapevano anche loro cosa vuol dire vedere le proprie abitazioni, le proprie case, i propri grattacieli crollare su se stessi lasciando sul terreno migliaia di vittime. Invece il cowboy, stordito da quel colpo imprevisto, cominciò a sparare sul bersaglio più a portata di mano e più facile: l'Afghanistan. Non c'era nessuna seria ragione per attaccare l'Afghanistan. Non c'era un solo afghano, tantomeno talebano, nei commandos che colpirono le Torri Gemelle e il Pentagono. Non c'era un solo afghano, tantomeno talebano, nelle cellule, vere o presunte, di al Qaeda scoperte dopo l'11 settembre (do you understand? Adesso mi tocca parlare in inglese perché l'italiano ormai non lo capisce più nessuno). Il problema era semmai Osama bin Laden. Ma ottenere la consegna dell'ambiguo Califfo saudita da parte dei Talebani - il Mullah Omar lo disprezzava, lo chiamava "un piccolo uomo" - non sarebbe stato difficile sol che gli americani non si fossero comportati con la consueta arroganza. Del resto durante l'Amministrazione Clinton, dopo gli attentati del 1998 in Kenya e Tanzania, c'erano già stati, per iniziativa dello stesso Clinton, dei contatti tra l'Amministrazione Usa e i Talebani per uccidere Bin Laden. Perché il Califfo era un problema per entrambi: per gli americani, ma anche per i Talebani perché per uccidere Bin Laden gli yankee bombardavano a tappeto le alture di Khost, dove pensavano si trovasse Osama, uccidendo centinaia di civili afghani che con Osama non avevano nulla a che fare. Ma all'ultimo momento fu proprio Clinton a tirarsi indietro. Dopo l'11 settembre fu il modo in cui gli americani pretesero la consegna di Bin Laden a essere decisivo. Il Mullah Omar chiese che fossero fornite delle prove o almeno degli indizi consistenti che Bin Laden fosse davvero alle spalle degli attentati dell'11 settembre. Gli americani risposero arrogantemente: "Le prove le abbiamo date ai nostri alleati". A quel punto il Mullah Omar replicò che a quelle condizioni non poteva consegnare una persona che stava sul suo territorio. Cioè si comportò come avrebbe fatto qualsiasi capo di Stato di un Paese sovrano. O meglio: come non avrebbe fatto nessun capo di Stato, perché con quella decisione, presa per motivi di principio, il Mullah Omar si giocava il potere e in definitiva anche la vita. In un lucido articolo scritto per il Fatto (Dalle Torri Gemelle a Kabul: così è crollato l'impero Usa) Pino Arlacchi sostiene che dopo il collasso dell'Urss gli americani avevano bisogno di ricreare un nemico per legittimare la propria egemonia sul mondo occidentale. Ma come nemico mortale l'Afghanistan era un po' deboluccio. Così vennero le successive demonizzazioni dell'Iraq (per carità, le armi di distruzione di massa Saddam ce le aveva, gliele avevano date gli americani, i francesi e i sovietici, in funzione anti-iraniana e anti-curda, ma al momento dell'attacco del 2003 non le aveva più perché le aveva già usate sugli iraniani e sui curdi) e della Libia di Gheddafi le cui conseguenze disastrose sono oggi sotto gli occhi di tutti. Ma a furia di creare pericoli inesistenti l'atteggiamento degli americani, seguiti come cani fedeli dagli europei con l'eccezione della Germania di Angela Merkel, ha finito per diventare, come scrive ancora Arlacchi, "una profezia che si autoavvera". E la profezia che si è autoavverata è oggi l'Isis. Proprio la distruzione dello Stato Islamico di Al Baghdadi ha messo in circolazione i veri terroristi internazionali che adesso scorrazzano in tutto il mondo e potrebbero diventare un pericolo che colpisce l'Occidente non solo dall'esterno, ma anche dall'interno. Gli Isis sono oggi in Afghanistan (ma verranno spazzati via dai Talebani che adesso non devono più combattere anche gli occupanti occidentali), in Pakistan, in Somalia, in Mali, perfino nelle Maldive, come ha documentato la bravissima Francesca Borri, in altre aree dell'Africa ex nera, in particolare, nella forma più truce, in Nigeria col gruppo Boko Aram. Isis non è uno Stato, è un'epidemia ideologica. E potrebbe anche contagiare molti occidentali che finora si sono fatti sedurre dalla sua ideologia totalitaria solo in piccoli gruppi (i foreign fighters). Ma di fronte al vuoto di valori che contraddistingue l'Occidente, molti più europei potrebbero esserne attratti. Meglio il Male del niente.

Massimo Fini per "il Fatto Quotidiano" il 21 settembre 2021. "Apre bocca e gli dà fiato" è un detto toscano riferito a persona che parla di cose che non conosce. Un tipico "apre bocca e gli dà fiato" seriale, perché ha una rubrica quotidiana sul Corriere della Sera, Il Caffè, è Massimo Gramellini. Io credo che il primo dovere di un giornalista sia quello di documentarsi, soprattutto quando entra in campi di cui non si è mai occupato. Nel suo Il Caffè del 17.9 intitolato "Talebani distensivi" Gramellini prende spunto da una notizia falsa per poi argomentare in modo altrettanto falso: l'uccisione di Baradar, attuale presidente provvisorio dell'Afghanistan, da parte di suoi avversari politici, gli Haqqani. Sarebbe bastato che Gramellini telefonasse al suo collega Lorenzo Cremonesi, che è su quel campo da molti anni, per accertare che quella notizia era una balla. Con i piedi poggiati su questa fake Gramellini costruisce il suo articolo che è un attacco nei miei confronti, ma senza fare il mio nome, nel modo viscido che è il costume del Corriere "il giornale più vile d'Italia" come lo definii in un'intervista che mi fece Beppe Severgnini. E Severgnini, molto all'inglese, non batté ciglio perché non è Gramellini. Cosa dice dunque Massimo Gramellini nel suo pezzo: "A Kabul l'ultimo Consiglio dei ministri è stato piuttosto movimentato, con i talebani che si sparavano addosso tra di loro e il capo dei cosiddetti moderati, Baradar, dato per disperso. Al momento nessuno sa dire dove sia: se in ospedale o sottoterra. Si tende a sopravvalutare il Male: ogni tanto sembrerebbe una farsa, se non fosse sempre una tragedia. Tornano alla mente le lucide analisi di certi pensatori italiani che per puro odio verso l'America e i valori occidentali sono arrivati a dipingere i talebani come valorosi guerrieri tutti d'un pezzo. Ruvidi, magari, e un tantino rétro sul concetto di uguaglianza tra i sessi, ma nobili e cavallereschi. In realtà si tratta di clan tribali che litigano per le poltrone peggio di un manipolo di sottosegretari nostrani, ma con metodi decisamente più spicci e guidati dai capimafia che, appena si trovano intorno allo stesso tavolo per spartirsi il bottino, cercano di eliminarsi a vicenda. Quell'anima di Giushappy Conte, immediatamente imitato dai trombettieri della sua corte, aveva colto nei primi atti del nuovo regime 'un atteggiamento abbastanza distensivo'. Dopo la sparatoria dell'altro ieri osiamo sperare che abbia cambiato avverbio e soprattutto aggettivo. Forse con i talebani bisogna trattare. Ma come si tratta con un bandito che ti ha rapito la nonna e le tiene un coltello sotto la gola. Senza concedere loro neanche per un attimo lo status di legittimi rappresentanti di una nazione." Perché Gramellini non si pone una domanda semplice semplice. È possibile che un gruppo di ragazzi, perché allora erano dei ragazzi, studenti delle madrasse (talib vuol dire appunto 'studente', che allora non sapevano nemmeno di essere talebani, il nome gli venne dato dopo) abbiano potuto ingaggiare una guerra di indipendenza contro il più forte esercito del mondo durata oltre vent'anni e per soprammercato vincerla, senza avere l'appoggio della maggioranza della popolazione? Sia chiaro, a Gramellini e a tutti i Gramellini, che nei Talebani io non difendo la loro ideologia sessuofobica, che mi è completamente estranea, ma il diritto di un popolo, o di parte di esso, a resistere all'occupazione dello straniero. Altrimenti prendiamo la nostra Resistenza su cui abbiamo fatto tanta retorica, che è durata un anno e mezzo e aveva l'appoggio degli Alleati, mentre i talebani non avevano il sostegno di nessuno, e buttiamola nel cesso. Trovo piuttosto indecente immiserire la lotta d'indipendenza afgano-talebana, che è costata fiumi di sangue, a uno scontro fra clan mafiosi, tipo quello cui assistiamo quotidianamente in Italia fra i partiti. A furia di guardare il mostro si finisce per assomigliargli. Che l'Afghanistan sia formato da clan Gramellini l'ha orecchiato da Anselma Dell'Olio che l'ha orecchiato da qualcun altro che a sua volta l'ha orecchiato da altri ancora. Gli occidentali si alimentano delle proprie menzogne e finiscono per crederci. Clan o non clan, diversità tribali e no, il fatto è che gli afghani hanno un fortissimo senso di identità nazionale basato su valori ideali che sono scomparsi in Occidente e che ha permesso loro nell'Ottocento di cacciare, dopo una lotta durata trent'anni, gli inglesi, nel Novecento di sconfiggere i sovietici, di ricompattarsi sotto la guida del Mullah Omar contro quegli avventurieri chiamati "signori della guerra" e infine di sconfiggere gli occidentali. Gli occidentali non riescono proprio a digerire di essere stati sconfitti da quel gruppo di straccioni chiamati Talebani. E in effetti questa è una sconfitta molto più sanguinosa di quella che gli americani subirono in Vietnam. Perché i Viet Cong avevano l'appoggio della Russia e della Cina e, a livello culturale, dell'intellighenzia europea che allora era orientata in senso comunista. Quante volte abbiamo visto in Italia e in Europa grandi manifestazioni contro la guerra del Vietnam? Per la guerra all'Afghanistan non ce n'è stata neanche una. Quanto al mio antiamericanismo, che non è rivolto contro il popolo americano che è un popolo naif, deliziosamente ingenuo tanto da ingurgitare qualsiasi balla, ma alla leadership yankee, democratica o repubblicana che sia, non c'è bisogno di alcun odio preconcetto. Basta, come il Sancio Panza di Guccini, guardare i fatti. Lasciando perdere l'Afghanistan, è dal 1999, guerra alla Serbia, per proseguire poi con la guerra alla Somalia (2006-2007) per interposta Etiopia, a quella all'Iraq del 2003, a quella contro la Libia del colonello Mu' ammar Gheddafi del 2011, che gli Stati Uniti ci hanno trascinato in guerre disastrose, non solo per i popoli aggrediti, a spanna un milione e mezzo di morti, che si sono alla fine rivolte contro l'Europa. Che l'idillio con i vincitori della Seconda guerra mondiale fosse finito lo ha detto quattro o cinque anni fa Angela Merkel quando dichiarò paro paro: "Gli americani non sono più i nostri amici di un tempo, dobbiamo imparare a difenderci da soli". Se poi Massimo Gramellini vuole arruolare anche Merkel fra gli odiatori sistematici dell'America faccia pure. Io mi sono sempre sentito estraneo al concetto di Occidente, un agglomerato che ricorda in modo sinistro l'Eurasia e l'Estasia dell'Orwell di 1984. Io mi sento un europeo che ha alle spalle una grande tradizione, a cominciare dalla cultura greca, non uno yankee. Écrasez l'infâme!

Estratto dell’articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica” il 20 agosto 2021. Ci eravamo dimenticati di avere in casa i talebanini, gli "italiban", quelli che l'orrore del terrorismo è comunque meglio dell'orrore dell'Occidente. Già venti anni fa questi nostri italiban si inventarono che a organizzare o forse solo ad appoggiare l'attentato alle Twin Towers erano stati "i servizi segreti occidentali insieme all'intelligence pakistana e saudita". Ebbene oggi questi stessi italiban […] di nuovo dicono e scrivono che i tagliagole islamisti non opprimono, sgozzano e terrorizzano il popolo afgano, ma "sono" loro il popolo afgano perché governano con il consenso e non con la paura. […] Davvero ci eravamo dimenticati degli italiban che hanno subito richiamato in servizio i vecchi fantasmi leninisti, la k di Amerika e l'imperialismo anglosassone, che nel 68 resero più leggera la complicità intellettuale di tanti confusi ragazzi italiani con i dittatori comunisti, da Castro a Mao. Sono gli agiografi del Mullah Omar, ammirato come il guerrigliero in motocicletta, fiero resistente al grande Satana che non solo nella vecchia vulgata marxista leninista, è travestito da liberator. Gli americani non sono mai salvatori ma sempre invasori […] Torna dunque l'Afghanistan come il luogo mentale dell'ossessione e quel chirurgo, generoso e straordinario che fu Gino Strada, morto troppo presto e subito innalzato sul piedistallo dei nobili sentimenti, viene spacciato per un maestro di pensiero politico. E la fuga ingloriosa dall'Afghanistan diventa, chissà perché, la certificazione che si trattò di una guerra di aggressione […] E dimenticano che fu invece la prima necessaria risposta alla guerra contro l'Occidente che l'islamismo fanatico aveva dichiarato con l'attacco alle due torri […] Cos' altro si poteva fare se non cercarli nelle caverne dove organizzavano gli attentati, le decapitazioni e i massacri […]? […] Eppure fu allora che l'Italia ideologica schierò i suoi italiban con lo slogan "non si può esportare la democrazia" che oggi è il tic linguistico alla moda, come "la pace senza se e senza ma", "la madre di tutte le battaglie", "la maggioranza bulgara", "la linea del Piave, "la nostra Caporetto", "hanno combinato un ambaradan" e pure alzare il gomito, baciamo le mani e colpo di fulmine. Insomma è una frase, scusate l'insistenza, senza senso, che se invece fosse vera in Italia ci sarebbe ancora il fascismo. […] E invece i pacifisti assoluti […] sono, come già li chiamammo allora, i signori Né-Né , che è il modo più subdolo di stare con i talebani. […] né con il fascismo né con l'antifascismo è ancora oggi una pozzanghera ideologica dove si nasconde il fascismo; e Salvini e Grillo dicono di non essere né di destra né di sinistra perché sono di destra. Allo stesso modo […] è solo un trucco ipocrita degli italiban questo stare né di qua né di là e scegliere di non scegliere […] altri lutti ci aspettano in questa guerra della Civiltà contro l'Inciviltà, anche il più scaltro degli italiban dovrà decidersi: o con l'Occidente o con l'Emirato dei terroristi.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 20 agosto 2021. […] Un'altra raffica di scoop la svela Francesco Merlo di Repubblica: abbiamo "in casa i talebanini, gli “italiban”, quelli che l'orrore del terrorismo è meglio dell'orrore dell'Occidente". Chi siano non è dato sapere, né quale legge imponga di preferire l'orrore di qualcuno anziché rifiutarli tutti (come facciamo noi). Però il Merlo traccia un identikit degl'italiban. Sono quelli che "spacciano Gino Strada per maestro di pensiero politico", invece di deridere le sue idee ora che è morto e i fatti gli danno ragione. Quelli che si ostinano a definire "guerra di aggressione" quella che per lui era "guerra di Civiltà contro l'Inciviltà" e "necessaria risposta alla guerra contro l'Occidente dell'islamismo fanatico con l'attacco alle due torri", che fra l'altro aveva "liberato Kabul dalle barbe dell'Islam". Una barzelletta che, a parte il Merlo e Giuliano Ferrara (citato come maestro di pensiero politico), non sostiene più nessuno, neppure alla Casa Bianca. Lì hanno finalmente capito dov'è Kabul e scoperto ciò che già si sapeva nel 2001: Bin Laden era un saudita sostenuto da Riyad e dal Pakistan e nei commando delle Due Torri non c'erano afghani, come in quelli che in 20 anni di guerra al terrorismo han seminato nel mondo molti più morti di prima. Memorabile il parallelo fra guerra all'Afghanistan e resistenza al nazismo: come se i talebani avessero invaso gli Usa o la Ue. Non è una battuta. Il Merlo ci crede veramente: "I talebani mettono bombe e tagliano gole anche nelle città dell'Occidente". Abbiamo cercato negli archivi di Rep almeno un caso di talebano che mettesse bombe o tagliasse gole in Occidente. Invano. Quindi il Merlo tace gli scoop persino al suo giornale. O scambia per talebano chiunque abbia la barba. Nel qual caso, non vorremmo essere nei panni di Scalfari.

Talebani buoni, l'ultima illusione dei "progressisti ubriachi" di casa nostra. Libero Quotidiano il 19 agosto 2021. L'ultima creatura mitologica del progressismo ubriaco nostrano sono i "talebuoni". Questi talebani 5.0 che hanno appena restaurato l'Emirato islamico in Afghanistan, un Emirato moderato e pluralista, i cui capi sono molto più vicini a Enrico Letta che al Mullah Omar. Non è uno scherzo, per quanto tetro e cinico rispetto a quella "caccia casa per casa" scatenata dagli sgherri islamisti secondo l'ambasciatore all'Onu Ghulam Isacza, un cretino che non si è accorto delle magnifiche sorti e progressive che attendono la sua patria. È davvero il clima che si sta grottescamente diffondendo nel mainstream italico. L'hanno annunciato alcuni giornali ieri, Corriere della Sera in testa: "Talebani, promesse e paura". Sottotitolo: "Niente vendette e burqa, le donne all'università. Ma avvertono: tutti devono sottostare alla legge islamica".

BATTUTONE -  Che è come dire: niente persecuzioni degli ebrei, ma tutti devono sottostare ai principi del Terzo Reich. Ma è il Fatto Quotidiano che sbraca tra ironia fuori luogo e compiacimento antioccidentale (la linea su questi temi la dà Massimo Fini, uno secondo cui già i vecchi talebani erano struggenti eroi byroniani, figuriamoci questi ripuliti che vogliono la sharia temperata). In prima una battuta che senz' altro piacerà a quelle molte donne di Kabul che secondo varie testimonianze si nascondono da giorni negli scantinati: "I talebani fanno i democristiani". Ma è nelle pagine interne che la situazione si fa grave, seppur non seria come avrebbe detto Flaiano. "Talebani soft: diritti per tutti, ma secondo legge coranica", è il titolo di un pezzo che attacca: «I talebani si presentano al mondo concilianti, pacifici, inclusivi, rispettosi dei diritti e delle donne...», manca solo sostenitori del Ddl Zan. 

PACIFICI - A ruota, il vero capolavoro: fotona di tre gentiluomini "pacifici e inclusivi" dotati di kalashnikov, così corredata: "I nuovi volti senza ferocia dei signori della sharia". Una galleria di ritratti che paiono le correnti del Pd: «Dal cofondatore al figlio del leader carismatico - il terrorista Omar, ndr- le figure più influenti del movimento islamico sono assai diverse. Ma per ora unite dal voler rassicurare il mondo». I cittadini di Jalalabad, scesi ieri in piazza a centinaia per invocare democrazia, sono intanto stati "rassicurati" a colpi di mitra: i talebani hanno inclusivamente sparato sulla folla, i morti sarebbero 35 (SkyTg24). E in serata ancora scontri all'aeroporto di Kabul. Ma queste notizie non turbano l'ottimismo delle avanguardie sinistrorse, come il deputato Lorenzo Fioramonti, indimenticato ministro della (D)Istruzione nel primo governo Conte, che su Twitter non riusciva a contenersi: «Il nuovo governo dei #talebani annuncia NO burqa SÌ istruzione per le donne. Sogno o son desto?». Mannò sei destissimo, anzi il nostro consiglio misto all'invidia di chi non può partire su due piedi è di acquistare il primo biglietto di andata per Kabul e trasferirti nel nuovo paradiso arcobaleno, seppur venato da una sfumatura appena accennata di sharia. Certo, l'onorevole potrebbe incontrare qualche difficoltà all'aeroporto, dove ancora ieri si sono verificate almeno una ventina di vittime dovute alla calca di afghani che inspiegabilmente continuano a voler fuggire in massa dalla terra d'elezione di Travaglio e Fioramonti. Serafica anche Emergency, che fedele alla lezione collaborazionista di Strada ha dichiarato per bocca del coordinatore dell'ospedale di Kabul Alberto Zanon: «Ci aspettiamo che nulla succederà con i tabeani: siamo estremamente fiduciosi di continuare il nostro operato». In un certo senso è vero: feriti ce ne saranno a bizzeffe, visto che i pacifisti coranici in questi giorni stanno conducendo rastrellamenti nelle case facendo irruzione con dei bazooka alla mano. Ma trattasi di bazooka moderati e inclusivi ovviamente: sono pur sempre talebuoni.

DI MAIO A CONTE: "GIUDICARE I TALEBANI DA AZIONI NON DALLE PAROLE". IL LEADER 5S: "SÌ AL DIALOGO SERRATO, IL REGIME SI È DIMOSTRATO DISTENSIVO". Da repubblica.it il 19 agosto 2021. "Necessità di un serrato dialogo con il nuovo regime talebano, che si è dimostrato abbastanza distensivo". Così ieri in tarda serata il leader dei 5S Giuseppe Conte a Ravello (Salerno) per la presentazione di un libro. Ma il ministro degli Esteri Luigi Di Maio prende le distanze dall'ex premier e ribadisce: "È importante agire in maniera coordinata nei confronti dei talebani. Dobbiamo giudicarli dalle loro azioni, non dalle loro parole. Abbiamo a disposizione qualche leva, sia pur limitata, su di loro come l'isolamento dalla comunità internazionale e la prosecuzione dell'assistenza allo sviluppo fornita finora. Dobbiamo mantenere una posizione ferma sul rispetto dei diritti umani e delle libertà, e trasmettere messaggi chiari tutti insieme". Una "correzione" necessaria anche dopo le polemiche seguite alle parole di Conte, criticato da Italia viva e da alcuni esponenti di centrodestra. "L'esito di questo ventennio di impegno della comunità internazionale in Afghanistan mi ha addolorato - ha detto l'ex premier a Ravello - come credo abbia addolorato e angosciato tutti voi. Constatare dopo 20 anni l'insediarsi rapido ed efficace del nuovo Emirato islamico, mi ha lasciato sgomento. Ora è prioritario costruire i corridoi umanitari e portare qui tutte le persone che hanno collaborato e che si sono più esposte per i diritti civili. Ne approfitto - ha quindi aggiunto - per dire che ci siamo già mossi come M5s. Sapete che noi abbiamo le restituzioni: parte di questi soldi chiederò che siano destinati a finanziare i corridoi e l'accoglienza". E ha proseguito: "Sullo sfondo c'è poi da interrogarsi sul fatto che non è con le armi che risolveremo problemi così" spiegando che ora c'è la necessità "di un dialogo costante con il nuovo regime". Russia e Cina, in questo senso, "devono sedersi al tavolo e l'occidente deve coinvolgere tutta la comunità internazionale per tenere i talebani dentro un dialogo serrato per proteggere il lavoro fatto e garantire sicurezza a tutti". Immediate le reazioni: "Un insulto a chi sta soffrendo, a chi si nasconde, a chi fugge. Perché sa bene di cosa sono capaci i Talebani". Lo scrive su Twitter il deputato di Italia viva Gennaro Migliore, che poi in un altro post aggiunge: "Un maldestro tentativo di compiacere quei Paesi che sono stati pronti a riconoscere subito e senza neanche troppo dispiacere il regime talebano. Ma noi siamo l'Italia! E l'ex premier pare non saperlo". Vittorio Sgarbi definisce "vergognose" le dichiarazioni di 'credito' di Conte sui talebani. E spiega: "Mentre da Kabul arrivano le prime notizie di rastrellamenti casa per casa da parte dei talebani, di donne che fuggono e si nascondono per paura di ritorsioni, di spari sulla folla, di bambini terrorizzati che cercano riparo all'aeroporto, il leader dei 5 Stelle, sempre più imbarazzante, auspica "un dialogo serrato con i talebani, il regime si è dimostrato distensivo". La sua posizione è quella della Cina. Non c'è che dire: da avvocato del popolo ad avvocato dei talebani è un attimo".

Dagospia il 20 agosto 2021. Dal profilo Twitter di Jacopo Iacoboni. L’avvocato del popolo ha infine parlato: “Dobbiamo coltivare un serrato dialogo con il nuovo regime [ossia i talebani, nda.], che appare almeno a parole su un atteggiamento abbastanza distensivo”. Sì, certo, chiedetelo a Jalalabad e Kabul ora io mi chiedo, sempre con lo stesso sgomento nonostante il passar del tempo, che pare ormai confermare tutta la mia lettura: com’è stato possibile che il centrosinistra sia arrivato a considerare questo personaggio punto di riferimento “fortissimo dei progressisti”?

(ANSA il 19 agosto 2021) I talebani sono "più sobri e razionali" rispetto all'ultima volta in cui sono saliti al potere in Afghanistan e la Cina spera che diano seguito al "loro atteggiamento positivo" costruendo "un sistema politico adeguato" alla situazione. La portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying, nella conferenza stampa quotidiana, ha osservato che "alcune persone hanno ripetutamente sottolineato la loro sfiducia nei confronti dei talebani, ma quello che voglio dire qui è che nulla al mondo può stare fermo". A tal proposito, ha notato Hua, "preferisco guardare le cose dialetticamente, vedere il passato e il presente, le parole e le azioni".

Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 20 agosto 2021. Rompendo il suo lungo silenzio dopo la disastrosa fuga degli occidentali dall'Afghanistan, Giuseppe Conte - nella nuova veste di presidente del Movimento 5 Stelle - si è finalmente pronunciato. La sua posizione è che bisogna parlare con i talebani. Avesse detto solo questo, non ci sarebbe nulla da obiettare: anche l'Alto rappresentante dell'Unione europea per gli Affari esteri, Josep Borrell, ha detto che «dobbiamo parlare con i talebani, visto che hanno vinto loro». È quella che Bismark chiamava "realpolitik". Ma Conte non si è fermato qui. Ha invocato «un serrato dialogo», che è ben più impegnativo, e ha motivato questa richiesta con il fatto che «il nuovo regime talebano si è dimostrato abbastanza distensivo». Ora, definire «distensivo» un regime fondamentalista che ha già cominciato a cercare casa per casa le donne che hanno violato la Sharia, e sta sparando sui disperati che a Kabul cercano di raggiungere gli ultimi posti sugli aerei in partenza verso la libertà è - diciamo - un po' eccessivo, da parte di un ex presidente del Consiglio. Al punto che persino Luigi Di Maio (il ministro degli Esteri al quale un tempo lui chiedeva in aula il permesso di dire la sua) lo ha seccamente bacchettato: «I talebani dobbiamo giudicarli dalle loro azioni, non dalle loro parole». Forse Conte - che sul blog di Beppe Grillo viene messo nella lista dei responsabili della «scellerata» occupazione dell'Afghanistan - avrà preso per buono il titolo di prima pagina del giornale che lo sponsorizza, "Il Fatto": «I talebani fanno i democristiani». Oppure ha detto la prima cosa che gli passava per la testa. O magari la pensa come il governo cinese, per il quale «i talebani risponderanno ai desideri della popolazione». Non lo sappiamo. Non è mai stato facile capire se dietro le sue parole ci sia davvero un pensiero (e se sia il suo). Gli piace tenerci sulla corda.

Da Pechino all’Iran, la fascinazione grillina per i regimi anti-Usa. Concetto Vecchio su La Repubblica il 21 agosto 2021. Gli elogi alla Cina e i viaggi da Maduro, la presenza al congresso di Russia unita e quella vecchia proposta di Di Battista: dialogare con l’Isis. Era l’agosto del 2014. L’Isis seminava il terrore, i grillini in Parlamento non parlavano con nessuno e il deputato M5S Alessandro Di Battista propose di aprire un tavolo di confronto con i jihadisti. Pubblicò un post per dire che «dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione. Nell’era dei droni e del totale squilibrio degli armamenti il terrorismo, purtroppo, è la sola arma violenta rimasta a chi si ribella».

L’amore di Grillo e dei Cinquestelle per la Cina non nasce per caso: ecco che cosa c’è dietro. Fortunata Cerri sabato 21 Agosto 2021 su Il Secolo d'Italia. I cinquestelle flirtano con la Cina comunista. Un amore che si è manifestato già durante il governo Conte ma che avrebbe radici lontane. Ecco perché l’apertura al regime talebano non apparirebbe casuale. A ricostruire il flirt del M5S nei confronti del Dragone è il Giornale: «Basta cercare nell’archivio del Blog di Beppe Grillo la parola “Cina”». Ecco una breve panoramica. Nel 2008, ricorda il quotidiano, in occasione delle Olimpiadi di Pechino le frasi erano di questo tenore: «La Cina ha intenzione di far partire la fiaccola olimpica proprio dal Tibet, dalla cima dell’Everest. È come se la Germania la facesse partire da Auschwitz». Ma i tempi cambiano. E così «nel 2020 il fondatore del Movimento profetizzava: “Coronavirus: la Cina ne uscirà più forte”». Ci sono anche “reclamizzazioni” delle politiche del Dragone. «Cina: agevolazioni fiscali per incoraggiare l’innovazione» del 31 maggio 2019.  «La Cina inaugura il ponte sul mare più lungo del mondo» del 23 ottobre del 2018.  Il caso più controverso, ricorda ancora il Giornale, di sostegno grillino alla Cina è sulla questione dello Xinjiang. La regione in cui il governo cinese da anni perseguita la minoranza musulmana degli Uiguri. Su questo tema c’è un documento del 19 maggio di quest’anno, ancora scaricabile in pdf dal Blog di Grillo. «Si tratta – scrive il Giornale – di un rapporto intitolato “XinJiang. Capire la complessità, costruire la pace”. (…) Il testo è deliberatamente filo-Cina e tende a colpevolizzare chi si oppone alla segregazione».

La posizione di Conte. E anche Giuseppe Conte pare abbia subito il fascino del Dragone. «A ottobre dell’anno scorso l’allora premier – in visita a Taranto – ha dato il via libera all’acquisizione da parte della società cinese Ferretti Group di un’area di 220mila metri quadri nel porto della città jonica». Per arrivare ai nostri giorni. Solo ieri, ricorda il quotidiano, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha parlato di «ruolo cruciale della Cina in Afghanistan» in una telefonata con il suo omologo cinese Wang Yi. Lo stesso Di Maio ha firmato, in epoca gialloverde, il memorandum sulla Via della Seta.

DDS. per “il Giornale” il 21 agosto 2021. Sugli smartphone di qualche parlamentare del M5s da ieri circola uno screenshot. È un titolo con alcune parole pronunciate da Alessandro Di Battista il 16 agosto del 2014. La notizia di sette anni fa parla di «un post pubblicato sul Blog di Beppe Grillo» dall'allora deputato pentastellato in commissione Esteri. Si tratta del tristemente famoso articolo in cui Di Battista invitava a «trattare con i terroristi». Per poi spiegare così la sua quantomeno discutibile posizione: «Dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione». «Avete capito adesso da dove arriva l'uscita di Conte?» sibilano con perfidia dalle parti dei governisti. Nel gruppo parlamentare collegano la gaffe del presidente del Movimento a certi toni barricaderi del passato, incarnati alla perfezione dalle prodezze di Dibba, che Conte rivorrebbe nei Cinque Stelle. Non solo a proposito della Cina, nel corso degli anni troppi grillini si sono distinti per le posizioni borderline in politica estera. Antica la passione per il dittatore venezuelano Hugo Chavez e il suo erede Nicolas Maduro. Il 13 marzo del 2015 Di Battista e l'attuale sottosegretario alla Farnesina Manlio Di Stefano organizzano un convegno a Montecitorio dal titolo «L'alba di una nuova Europa». Durante l'evento si prende a modello l'alleanza dei governi filo-chavisti di Centro e Sudamerica. Luciano Vasapollo, un professore della Sapienza, esalta Maduro. Di Battista e Di Stefano battono le mani. Sempre Di Stefano, accompagnato dalla deputata Ornella Bertorotta e dal senatore Vito Petrocelli, nel 2017 va a Caracas. La Bertorotta si distingue per una brillante dichiarazione: «Anche in Italia si sta male con Renzi». A giugno del 2020 il quotidiano spagnolo Abc rivela la storia di un presunto finanziamento in nero del regime chavista al M5s, soldi che secondo il giornale sarebbero stati ricevuti da Gianroberto Casaleggio nel 2010. La vicenda, controversa, si conclude con una querela da parte di Davide Casaleggio. Chavez, Maduro, Fidel Castro, Evo Morales. Senza trascurare gli ayatollah iraniani. A gennaio dell'anno scorso gli Usa uccidono il generale Qassem Soleimani, numero due del regime. Di Battista commenta e definisce «vigliacco» e «stupido» il raid americano. Quindi aggiunge: «L'Iran non ha mai rappresentato una minaccia per il nostro Paese». Qualche mese prima, a novembre 2019, il sottosegretario Manlio Di Stefano aveva avuto un cordialissimo incontro con l'ambasciatore di Teheran a Roma. Noti anche i rapporti del senatore Petrocelli con l'Azerbaijan, governato col pugno di ferro dalla dinastia degli Aliyev a partire dal crollo dell'Unione Sovietica. Più volte ospite nella capitale Baku, Petrocelli ad aprile scorso ha guidato una delegazione del Comune di Matera (amministrato dal grillino Domenico Bennardi) in visita nel paese del Caucaso. Infine Grillo, ancora lui. Tra il serio il faceto il Garante il 15 settembre dell'anno scorso interviene in collegamento durante un incontro con i senatori. Eloquenti le sue parole, a proposito della democrazia diretta nel mondo: «Chiedono delle domande nei Paesi dove hanno un dittatore. Allora oggi è paradossale che funzionino più le dittature che le democrazie».

Il peccato originale del Movimento. Francesco Maria Del Vigo il 21 Agosto 2021 su Il Giornale. Si chiamerebbe intelligenza con il nemico, se di intelligenza ce ne fosse traccia. Già in tempo di pace l'animo duplice del Movimento Cinque Stelle era un problema per la politica italiana. Si chiamerebbe intelligenza con il nemico, se di intelligenza ce ne fosse traccia. Già in tempo di pace l'animo duplice del Movimento Cinque Stelle - a tratti vagamente di governo, più spesso barricadero e violento - era un problema per la politica italiana, ora, in un momento così delicato per la geopolitica mondiale, è un vulnus per la democrazia. Ci spieghiamo meglio: l'apertura di Giuseppe Conte che ha definito quello dei talebani come un «regime distensivo» non si può declassare come una sparata o liquidare come una voce dal sen fuggita. È una dichiarazione assolutamente coerente con un movimento che sin dalla sua nascita ha sempre strizzato l'occhio ai regimi. Se per anni idolatri Chavez, benedici Maduro e dipingi l'Iran come il paradiso terrestre, poi diviene quasi naturale considerare «distensivo» chi taglia le gole, spara sui manifestanti e fa rastrellamenti porta a porta. Non è che andando con lo zoppo s'impara a zoppicare è che, dal punto di vista democratico, il movimento ha sempre avuto un evidente problema di deambulazione. Ora la fascinazione autoritaria si somma e si salda a un altro pericoloso flirt: quello con la Cina. Non è un mistero che tra i grillini e il Dragone ci sia una corsia preferenziale che durante il governo Conte ha preso forma con gli accordi della Via della Seta, ma che affonda le radici addirittura nel 2013. Ad allora risale il primo incontro tra Beppe Grillo (in quel caso partecipò anche Gianroberto Casaleggio) con l'ambasciatore cinese in Italia, l'ultimo è avvenuto a Roma appena due mesi fa. Una trama fitta di rapporti personali, politici e soprattutto economici, che si è sempre mossa in una zona di totale opacità. Non è neppure un mistero - e lo abbiamo scritto più volte in questi giorni -, che il Dragone da tempo abbia esteso le sue mire sull'Afghanistan e proprio ieri il ministro Luigi Di Maio ha telefonato al suo omologo cinese per complimentarsi per il ruolo cruciale di Pechino. E così il cerchio trova la sua quadratura. I grillini filo cinesi tendono la mano ai talebani ai quali la Cina tende ben più di una mano. Chi si stupisce non conosce l'essenza anti Occidentale dei grillini o, peggio ancora, è in malafede.

Francesco Maria Del Vigo. Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

Prodi sulla scia di Conte (e Dibba): «Dialogare con i Talebani». Il Dubbio il 22 agosto 2021. Prodi invita l'Occidente a dialogare con i Talebani. «Solo una forte pressione internazionale può in qualche modo evitarne le più drammatiche conseguenze». Romano Prodi, dalle colonne del “Messaggero”, invita i Paesi occidentali a dialogare con i Talebani. «La presa di potere da parte dei talebani appare completa e, nel prevedibile futuro, senza alternative. Bisogna quindi tenerne conto e dedicare ogni nostra energia nell’evitare vendette e spargimenti di sangue, proteggendo, per quanto è possibile, almeno i diritti elementari di tutti i cittadini afghani. Non credo che, nonostante le dichiarazioni riassicuranti, quest’obiettivo sia una priorità degli attuali governanti del martoriato Paese», scrive l’ex presidente del Consiglio dei ministri, il cui pensiero è simile a quello di Giuseppe Conte e Alessandro Di Battista. «Solo una forte pressione internazionale, fondata su un comune interesse per una stabilizzazione dell’Afghanistan, può in qualche modo evitarne le più drammatiche conseguenze». E ancora: «Il dialogo con i talebani è quindi un passo obbligato ed è perciò positivo lo sforzo che sta facendo Draghi per metterlo nell’agenda di una riunione straordinaria dei G20, dove Cina e Russia siedono insieme agli Stati Uniti, ai Paesi europei, all’India, alla Turchia e all’Arabia Saudita» dice Prodi. «Una sede in cui, anche se non è il luogo ideale per prendere decisioni concrete, si può iniziare la ricerca di un compromesso fra tutti coloro che, per diverse ragioni, hanno interesse a non creare ulteriori tensioni in un’area così politicamente delicata. È infatti più facile iniziare un dialogo in questa sede così ampia che non in incontri diretti fra Paesi divisi da forti e crescenti contrasti». Conclude Prodi: «Fallita l’opzione bellica ci resta infatti solo la via del dialogo, anche con paesi e organizzazioni politiche così lontane dalla nostra tradizione».

E NELL'OMBRA CINA E RUSSIA AVRANNO SPAZIO. Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 19 agosto 2021. L'intelligence Usa aveva previsto la vittoria talebana, ma ha sbagliato i tempi. Sperava di avere ancora qualche settimana, invece c'è stato un tracollo repentino. Tutto si è sciolto, liquefatto dalla pressione dei talebani e dalla persuasione del denaro. La miscela ha piegato la debole resistenza di chi era già rassegnato. In alcune aree i guerriglieri hanno pagato i soldati perché abbandonassero le posizioni senza sparare. Hanno ripetuto lo schema adottato dalla Cia dopo l'11 settembre 2001. Allora gli americani spedirono ad acquistare la fedeltà - a tempo - di signori della guerra. Gli agenti raggiungevano località sperdute a bordo di elicotteri di fabbricazione russa, all'interno casse di contanti. Oggi con il nuovo potere a Kabul potrebbero aprirsi delle possibilità per le spie di ogni bandiera. I talebani, nell'esigenza di governare, non possono cacciare tutti. Ci saranno epurazioni, metteranno i loro nei posti chiave, però lasceranno spazi. E il denaro fa vacillare la fedeltà. La corruzione ha minato le fondamenta di esercito e Stato, la stessa corruzione può compromettere i «puri sulla terra». Mosca, che segue con altrettanto interesse, scommette sulle future divisioni tra i mullah, alcuni degli esperti moscoviti prevedono spaccature. Quando la Casa Bianca ha ridotto la presenza militare dall'intelligence era partito il grido d'allarme: non potremmo agire, siamo senza scudo. Però c'erano dei punti d'appoggio. Adesso si riparte da zero, con il peso della missione passato ai locali. Agli afghani che riusciranno ad operare senza destare sospetti, ai miliziani inglobati negli apparati. Gli occhi sul campo valgono molto di più dell'intelligence condotta da lontano, oltre l'orizzonte, fatta di voli spia, droni e intercettazioni. La soluzione (debole) proposta dagli americani quando hanno fissato la data della loro partenza, un tentativo di riempire un vuoto. Nulla è facile, esiste il rischio dell'intossicazione, con l'informatore non affidabile che propina frottole. Uno dei più grandi disastri della Cia è avvenuto a Khost, sempre in Afghanistan nel 2009, quando un gruppo di 007 venne ucciso da una fonte, un medico giordano che ha fatto il triplo gioco. Prima militante agguerrito, poi presunta talpa per gli Usa, infine attentatore suicida qaedista-talebano. L'attenzione sarà su più livelli. Il primo riguarderà la gerarchia talebana e aspetterà di cogliere dissensi. Il malcontento diventa la fessura che si trasforma in breccia. Il secondo coinvolge i quadri, gli impiegati, chiunque sia inserito nella società (compresi medici e infermieri). Il terzo è il fronte rappresentato dai terroristi, qaedisti e Isis. Tutti vorranno capire quale sarà l'atteggiamento concreto dei talebani verso gli ospiti. Poi ci sono gli affari. È un territorio ricco di miniere, in tanti vogliono sfruttarle e le nuove autorità dovranno aprirsi ai tecnici stranieri. I cinesi - se ci saranno le garanzie e le stanno già chiedendo da settimane - sono pronti. A scavare e osservare.

QUEL TESORO DI MINERALI CHE FA GOLA A RUSSIA E CINA. Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 19 agosto 2021. C'è un'altra guerra, silenziosa e sotterranea, che ha accompagnato il confronto tribale e la lotta dei talebani per il controllo dell'Afghanistan negli ultimi trent' anni, tra l'occupazione russa e quella statunitense. È la guerra per il controllo dei minerali, in quella che è forse l'ultima terra di frontiera ancora esistente al mondo: ricca di materie prime, povera di risorse per utilizzarle, e di controllo politico per evitare la loro fuga all'estero. Il prodotto interno lordo dell'Afghanistan è di appena 19 miliardi l'anno provenienti per lo più dal traffico dell'oppio, che è comunque un prodotto base di estrema importanza per buona parte delle industrie farmaceutiche internazionali. Il Pil afghano non è tra i più bassi del mondo, ma è certamente tale da porlo nel versante dei paesi poveri. Per contro, la ricchezza nascosta nelle viscere del suo territorio ammonta ad almeno mille miliardi di dollari. Giacimenti di oro, rame, uranio e pietre preziose abbondano nel paese. La prima mappatura del tesoro fu fatta da geologi russi a metà degli anni '70, non a caso a pochi anni dall'ingresso dei carri armati sovietici a Kabul, al culmine di uno dei tanti conflitti con gli Usa in tempi di Guerra Fredda. Incapace di dar vita ad una industria estrattiva in larga scala per mancanza di risorse industriali e finanziarie, il paese si è dotato con l'aiuto della World Bank di una legge che centralizza il rilascio delle licenze, per evitare che i gruppi tribali che hanno il controllo delle province autorizzino contratti con le società estere. Ma l'Afghanistan non è un campione di legalità, e trent' anni di dissesto politico non hanno certo aiutato ad assicurare il controllo centrale del potere. I russi durante i nove anni di occupazione hanno fatto man bassa di smeraldi, rubini, cobalto e zaffiri. Poche settimane dopo l'11 settembre 2001 il Pentagono commissionò alla geologa Bonita Chamberlin un rapporto sulle risorse minerarie dell'Afghanistan, che una volta confezionato indicava 1.407 possibili siti minerari e 91 risorse estraibili. Tra queste il più importante è il litio, vettore della rivoluzione elettrica prossima ventura. La sua disponibilità è tale da aver fatto ribattezzare il paese: «L'Arabia Saudita del litio». È stata questa consapevolezza secondo l'Occrp l'agenzia statunitense che fa da cane da guardia alla corruzione internazionale, a motivare le estensioni della durata della missione militare, sia durante il mandato di Obama che quello di Trump. Nei primi mesi della sua presidenza Donald Trump su sollecitazione di Ashraf Ghani inviò a Kabul tre esperti minerari per studiare la possibilità di estrarre terre rare, essenziali per l'industria elettronica. Il Pentagono in quegli anni ha usato la task force per la stabilizzazione economica dell'Afghanistan e dell'Iraq per introdurre nella provincia di Kunar un contrattista privato dell'area della Difesa degli Usa: la Sodevco, che iniziò ad estrarre la preziosa cromite, materiale di estrema purezza usato come additivo nella rifinitura dei pannelli di aereo e dell'acciaio. Il divieto legale fu aggirato nominando dietro lauta commissione il fratello del presidente, Hashmat Ghani, amministratore della Sodevco afghana. La licenza di estrazione fu concessa da due signori della guerra locali, vera autorità amministrativa della regione, e il governo Usa finanziò il progetto con 4 milioni di dollari in macchinari estrattivi. La truffa fu scoperta due anni dopo, e portò alla cancellazione del programma. La scarsa centralizzazione del potere gioca a favore di chi ha capitali da investire, ed è determinato ad appropriarsi delle risorse. È così che i cinesi negli ultimi anni sono riusciti ad assicurarsi contratti per lo sviluppo di infrastrutture del valore di 110 milioni di dollari. Una cifra ridicola se paragonata al potenziale estrattivo della miniera di rame Aynak, il secondo giacimento per volume al mondo, che la cinese MCC Group si è assicurato nel 2007 con un contratto per lo sfruttamento della durata di trent' anni. La Cina soffre la mancanza di materie prime entro il suo territorio, ed è a caccia di contratti dovunque possibile. Il rame afghano sarà un additivo potente alla sua economia, quando sarà possibile estrarlo. Finora le operazioni sono state ostacolate dalla mancanza di sicurezza, e da una disputa sullo spionaggio operato dall'intelligence di Pechino ai danni di iuguri afghani. La svolta politica offre ora nuove possibilità e nuove sfide. I talebani potrebbero divenire il nuovo referente delle operazioni estrattive internazionali, ma la loro spina nel fianco ancora una volta è la scarsa tenuta delle cerniere nelle province, specialmente del nord, particolarmente ricco di litio. 

Afghanistan, l'arma segreta dei talebani e i loro nuovi amici. Cosa cambia nel Paese con il ritorno al potere degli studenti coranici dopo vent'anni. Enrico Fovanna su Il giorno.it il 16 agosto 2021. L'avanzata surreale dei talebani verso Kabul, che ha visto un Paese cadere in dieci giorni senza combattere, nasconde un'arma segreta, di cui i mujaheddin non disponevano vent'anni fa. La diplomazia. Sul fronte interno, ma soprattutto internazionale. Tutte le città del Nord, infatti, poi Herat, Kandahar, Mazar-i-Sharif e la stessa capitale, si sono offerte agli studenti coranici quasi in totale assenza di combattimenti. Vincente è risultata infatti la strategia della persuasione: cedete le armi e nessuno si farà male. Arrendetevi e avrete salva la vita. Una nuova linea resa ancor più evidente dopo la conferenza stampa dei nuovi padroni dell'Afghanistan, concessa ieri in esclusiva ad Al Jazeera. In cui Abdul Ghani Baradar, genero del mullah Omar, tramite il suo portavoce rassicurava il mondo con toni concilianti: "Da oggi faremo di tutto per riportare la serenità e lo sviluppo nella vita del popolo afghano".

Fiumi di denaro. Ci sarebbe poi da chiedersi come mai un esercito di 300mila effettivi, finanziato con 930 miliardi di dollari in vent'anni, abbia ceduto il passo a una milizia di 75mila guerriglieri, uno contro quattro insomma, ma qui le risposte si perdono nel vuoto. Di certo, l'enorme corruzione nel Paese ha disperso il fiume di denaro americano in mille rivoli che poco avevano a che fare con la difesa. Come dimostra la comoda fuga del presidente Ashraf Ghani in Tajikistan, ben deciso a non fare la fine di Najibullah, il suo predecessore alleato dei sovietici, ucciso per strada nel settembre del '96, quando i talebani presero Kabul.

Il ritorno della Shari'a . Ma veniamo al fronte estero, quello che più conta per capire perché da ieri la gente affolla l'aeroporto in cerca di una fuga impossibile, perché le bambine di dieci anni dovranno trovarsi un marito, le donne non potranno più studiare, lavorare e nemmeno fare la spesa senza la compagnia di un maschio di famiglia. Un incubo paragonabile a quello delle popolazioni finite sotto il nazismo o i precedenti Stati Islamici, prima l'emirato talebano afghano negli anni '90, poi il Califfato in Siria e in Iraq, sotto le bandiere nere dell'Isis. E cominciamo dalle poche certezze che abbiamo. La prima: le uniche ambasciate rimaste aperte a Kabul sono di Qatar, Pakistan, Iran, Cina, Russia, Turchia e Arabia Saudita. Di fatto, il nuovo fronte anti-americano, anche se con qualche distinguo.

I nuovi amici. La Cina, certo, ha accolto i talebani con grandi onori a Pechino solo qualche settimana fa, concordando i dettagli della futura via della seta, mentre il Pakistan, sulla carta alleato degli Usa, arma i mujaheddin fin dai tempi dell'invasione sovietica, quando al fianco dell'Isi (i suoi servizi segreti) c'era la Cia. Duplice dettaglio: benché islamisti, talebani e Pakistan non hanno mai detto una parola sul genocidio della minoranza musulmana uigura in Cina, e certo non è un caso. Il Qatar, organizzatore dei prossimi mondiali di calcio, è il principale sponsor politico e forse economico del nuovo Emirato (come accadde per l'Isis). Anche qui siamo, sulla carta, in un'orbita filo americana, ma non a caso tutti i negoziati chiave, compreso quello in cui Trump firmò con i mujaheddin nel 2020 il ritiro delle truppe Usa da Kabul, si sono svolti a Doha. La Turchia, che sterminò i curdi in Siria dopo che questi ultimi avevano sconfitto Isis su tutto il Paese, si conferma un alleato occulto dell'integralismo islamico nell'area. Ma a differenza dell'Iran, che si compiace apertamente della palese waterloo americana, Erdogan usa toni bassissimi e soffusi, essendo membro chiave della Nato. Così come i sauditi, che con gli Usa fanno affari che non si possono compromettere. Diverso è il discorso della Russia. Sempre vigili ai confini nord del Paese per eviater sconfinamenti, con truppe schierate anche in territorio uzbeko, finora sono stati a guardare, Ma domani pomeriggio a Kabul l'ambasciatore russo è atteso dal leader talebano a Kabul. Come dire, la guerra fredda continua.

Gli Stati Uniti. Infine Joe Biden e la figuraccia. Non ultima quella di avere annunciato solo un mese fa che non ci sarebbe stata nessuna fuga in elicottero dalle ambasciate come a Saigon, perché i talebani erano quattro poveracci, mica come i guerriglieri vietnamiti. Ora Trump, ne chiede le dimissioni, incurante dell'umorismo involontario, poiché era stato proprio lui un anno fa a Doha a riconiscere come interlocutori i talebani e a firmare la resa, in cambio della rinuncia agli attentati. Un po' come l'accordo stato-mafia, conla differenza che qui è tutto alla luce del sole.

Il futuro. Conclusione: nel disastro generale dell'Occidente, la lezione apparente sembra quella secondo la quale la democrazia non si esporta con le armi. E l'epilogo parla chiaro. Ma dobbiamo almeno riconoscere che a Kabul e Herat, come in altre province remote, molte scuole e alcuni ospedali sono stati creati per gli afghani, anche dalla missione italiana. Così come erano nate le radio femminili e le donne erano tornate al lavoro e nelle università. Questo per dire che la guerra è stata cosa buona? No, Gino Strada aveva ragione. E la strettoia è evidente. Ma va almeno riconosciuto che, una volta lì, è stato fatto anche qualcosa di buono per i civili. Qualcosa che, quantomeno, non andava disperso. Ora è tardi per tutto. Gli americani sono fuori gioco, l'Afghanistan verrà sfruttato dai cinesi e dagli altri nuovi amici per le sue risorse naturali e i mujaheddin potranno intensificare la coltivazione dell'oppio e raffinare eroina per le piazze europee e non solo. Ma il vero dramma resta quello della popolazione, delle donne, anche giovanissime, che si sono viste condannare a una morte in vita senza sapere quale colpa espiare. Li abbiamo lasciati soli? Sicuramente in compagnia di una gruppo di nuovi amici, per i quali i diritti umani restano l'ultima delle stravaganze occidentali.

Giuseppe Agliastro e Cecilia Attanasio Ghezzi per “La Stampa” il 17 agosto 2021. «Rispetteremo le scelte degli afghani», dice la portavoce del ministro degli esteri cinesi Hua Chunying all'indomani dell'arrivo dei talebani a Kabul facendo leva sul proverbiale principio di non interferenza che guida la politica estera di Pechino sin dai tempi di Mao Zedong. È il segnale che molti attendevano, l'appoggio formale della Cina all'Emirato islamico dell'Afghanistan. Ma i comunisti non erano contrari agli stati religiosi? Sì, infatti c'è di più. Un'importante delegazione dei talebani era stata ricevuta a Pechino appena un mese fa, poco dopo l'occupazione da parte dell'esercito pashtun del corridoio di Wakhan, il percorso che da sempre permette il passaggio tra le terre più occidentali di quella che oggi è la Repubblica popolare cinese e le propaggini settentrionali dell'attuale Afghanistan. Un riconoscimento formale in cambio di una promessa: il gruppo si sarebbe impegnato a non fare dell'Afghanistan una base terroristica per sferrare attacchi ai cinesi che vivono nella confinante regione dello Xinjiang, quella regione a maggioranza musulmana dove Pechino ha internato almeno un milione di uiguri nel tentativo di sopprimere le velleità, a suo dire indipendentistiche, della regione. Ma c'è ancora di più. Per Pechino la stabilità politica afghana vale gli almeno 46 miliardi di dollari dello spezzone pachistano della Belt and Road, un progetto di infrastrutture made in China che collegherà l'ex impero di mezzo con il porto di Gwadar in Pakistan, che tra l'altro è un alleato storico dei talebani. E infatti si è già detta disponibile anche per un'eventuale ricostruzione del cosiddetto Cimitero degli imperi. E poi, è sotto gli occhi di tutti, il ritiro delle truppe statunitensi, «dimostra l'inaffidabilità degli Usa che abbandonano senza esitazioni gli alleati per seguire i propri interessi», come si legge sul quotidiano di Stato Global Times. Come a dire: che Taiwan smetta di farci affidamento. E allora non stupisce che l'ambasciata cinese a Kabul continui a lavorare «normalmente». Anche Mosca ha detto che la sua ambasciata resterà aperta. L'ambasciatore Zhirnov - che oggi dovrebbe incontrare un rappresentante dei talebani - ha dichiarato di non vedere motivi per ridurre il personale dell'ambasciata russa a Kabul, mentre l'inviato presidenziale russo per l'Afghanistan, Zamir Kabulov, ha detto a Radio Eco di Mosca che i talebani «hanno già messo sotto protezione» l'ambasciata ma ha anche aggiunto che alcuni funzionari saranno evacuati. Le diplomazie occidentali si affrettano a evacuare i propri addetti e in Afghanistan si temono gravi violazioni dei diritti umani, ma la Russia dichiara che la situazione a Kabul «si sta stabilizzando» e che i talebani hanno cominciato a «ripristinare l'ordine pubblico». Secondo l'ambasciatore Zhirnov, i talebani avrebbero promesso un Paese «senza terrorismo» e traffico di droga, ma Kabulov precisa che Mosca non ha fretta di decidere sul «riconoscimento o il non riconoscimento» delle «nuove autorità» e che questo dipenderà dal loro «comportamento». Secondo l'analista dell'Ispi Eleonora Tafuro Ambrosetti, «la preoccupazione o principale adesso per Mosca è assicurare che ci sia una stabilità politica che non porti al collasso del Paese». «Il collasso dell'Afghanistan - spiega - avrebbe conseguenze davvero pesanti, innanzitutto per i Paesi centroasiatici che sono confinanti e poi di riflesso anche per Mosca». Nelle scorse settimane, la Russia ha svolto esercitazioni con le truppe uzbeke e tagike non lontano dal confine afghano.

Andrea Marinelli per il “Corriere della Sera” il 17 agosto 2021. Il ritorno al potere dei talebani in Afghanistan ha ridato slancio alle ambizioni di Russia e Cina. I governi di Mosca e Pechino hanno aperto al dialogo con il neonato Emirato islamico. Pechino si è detta pronta a sviluppare «relazioni amichevoli» con l'Afghanistan di cui «rispetta la sovranità», ma - ha chiarito la portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying - i talebani hanno promesso che nel Paese non saranno organizzati «atti dannosi per la Cina»: il partito teme che il Paese possa diventare un rifugio per la minoranza musulmana degli uiguri perseguitata da Pechino. Venti giorni fa, del resto, il ministro degli Esteri Wang Yi aveva ricevuto a Tianjin una delegazione talebana, preparandosi alla nuova fase successiva al ritiro americano. Mosca ha aperto in modo pragmatico al regime, definendo i talebani «molto più efficaci del governo fantoccio di Kabul nel raggiungere accordi», come ha affermato l'inviato di Putin Zamir Kabulov. Nonostante abbia definito i talebani gruppo terroristico, la Russia è disponibile al dialogo se il nuovo governo sarà in grado di assicurare la sicurezza dei diplomatici e di prevenire attacchi jihadisti contro i Paesi dell'Asia centrale. Mosca, ha detto l'ambasciatore a Kabul Dmitry Zhirnov, «deciderà se riconoscere il nuovo regime a seconda di quanto responsabilmente governerà». Ieri, dopo aver parlato con il segretario di Stato Usa Antony Blinken, i ministri degli esteri russo e cinese hanno discusso di «coordinamento politico».

(ANSA il 17 agosto 2021) La delegazione guidata dal mullah Abdul Ghani Baradar è arrivata a Kandahar: lo ha reso noto il portavoce dell'ufficio politico dei talebani, Muhammad Naeem. Baradar, capo politico dei negoziatori talebani a Doha e co-fondatore del movimento con il mullah Omar, è rientrato in Afghanistan con una delegazione per discutere con gli altri leader del nuovo governo.

Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 17 agosto 2021. Nazionalisti religiosi fortemente conservatori, oppure fanatici pan-islamici pronti a dare asilo ai jihadisti più pericolosi? Il dilemma, che divideva il movimento talebano alla vigilia degli attentati del 11 settembre 2001, oggi resta più irrisolto che mai. Allora vinse la corrente che vedeva in Osama bin Laden e i suoi terroristi arabi di Al Qaeda come «fratelli», cui dare rifugio in Afghanistan. E per i talebani fu il disastro. Meno di due mesi dopo gli attentati contro l'America, il loro movimento era in rotta, sconfitto dall'invasione voluta dal presidente Bush. Il loro leader storico, Mullah Omar, fuggiva sulla motocicletta guidata dal suo numero due, Mullah Abdul Ghani Baradar, verso le montagne e il rifugio di Quetta in Pakistan. Mullah Omar e Baradar lentamente riuscirono a ricostruire il loro movimento. Ma nel 2010 la Cia individuò Baradar a Karachi e convinse i servizi segreti pakistani ad arrestarlo. Tre anni dopo, il Mullah Omar moriva, sembra per ragioni di salute, nel suo nascondiglio pakistano. La sua esistenza era talmente segreta (e per buoni motivi, specie dopo il blitz Usa che aveva portato all'uccisione di Bin Laden nel 2011 ad Abbottabad), che la notizia del suo decesso divenne pubblica solo nel 2015. Tre anni dopo, però, furono ancora gli americani a chiedere ai pakistani di liberare Baradar. Avevano bisogno di negoziare il loro ritiro dall'Afghanistan con i talebani. Ma ci voleva una controparte credibile, che avesse ancora carisma e potere sul popolo pashtun. E il prigioniero «eccellente» era perfetto. In carcere era già stato contattato dalla Cia, con lui avrebbero preparato gli accordi di Doha, che Donald Trump esigeva a tutti i costi prima delle elezioni americane nella speranza che, con la certezza del ritiro in tasca, avrebbe vinto il suo secondo mandato da presidente. «Accadde tutto di fretta. Trump forzò i tempi. Ma fu lui a dettare le regole. E i talebani furono ben contenti di assecondarlo. Cessarono i loro attacchi contro il contingente internazionale. Erano del tutto inutili e persino controproducenti. Preferirono concentrarsi contro esercito e polizia afghani. Una strategia vincente», sottolineano negli ambienti diplomatici europei. Così, la figura di Baradar ben aiuta a comprendere le ambiguità e le incognite che caratterizzano il ritorno dei talebani al potere. Nato nel 1968 tra le montagne dell'Uruzgan, è figlio dei Popalzai, uno dei più importanti clan pashtun. Poco più che ragazzo si è fatto le ossa nella jihad contro i sovietici. Dopo la vittoria fondò a Kandahar una madrassa, la scuola religiosa islamica, assieme al Mullah Omar. Rabbiosi contro il caos in cui stava precipitando il Paese, furono loro due ad appellare i loro «talib», gli studenti, a imbracciare il Kalashnikov e lanciare la guerra per unificare l'Afghanistan sotto la loro bandiera. Dopo la vittoria del 1996, Baradar divenne governatore di Herat, ma anche viceministro della Difesa. Uomo di guerra e di governo, non si oppose all'alleanza con Al Qaeda. Nell'esilio di Quetta ebbe poi modo di stringere i legami con le generazioni più giovani sopravvissute alla guerra del 2001. Divenne amico di Mohammad Yaqoob, il figlio del Mullah Omar e con le nuove leve del clan Haqqani, che dai loro territori rigorosamente pashtun sul confine col Pakistan sono sempre stati preziosi alleati. Ma non mancavano uomini della vecchia generazione, come il sessantenne Mullah Akhunzada, che nel 2015 era alla guida del movimento perseguitato dagli omicidi mirati dai droni americani. Chi è oggi Baradar? A detta di Zalmay Khalizad, l'inviato americano per l'Afghanistan, cui prima Trump e poi Biden hanno affidato l'incarico di negoziare il ritiro, lui è in grado di passare ordini precisi ai suoi seguaci. Ma restano enormi dubbi sulla sua volontà e capacità di mantenere la promessa, per cui il Paese non tornerà ad essere quartiere generale di Al Qaeda e ora anche di Isis. Per il momento la leadership talebana vorrebbe dimostrare alla popolazione e ai Paesi limitrofi di essere in grado di gestire il ritorno alla normalità. Nelle province sotto il loro controllo stanno obbligando i dipendenti pubblici a rientrare al lavoro. Si stima che rappresentino ben oltre il 30 per cento del Paese. Non sappiamo nulla però su cosa potrebbe avvenire nel futuro un poco più distante. 

Gli Anti Talebani.

(ANSA il 18 agosto 2021) Sarebbero 35 i morti durante le proteste contro i talebani a Jalalabad, in Afghanistan, secondo quanto riporta Sky TG24, che cita una testimonianza esclusiva. "Oggi il popolo che abita nella provincia afgana chiamata Nangarhar è uscito in strada con le vecchie bandiere dell'Afghanistan. Per fermarli, i talebani hanno sparato e ammazzato trentacinque persone", ha detto a Sky TG24 un testimone oculare della protesta avvenuta a Jalalabad, capoluogo della provincia orientale di Nangarhar. Finora il bilancio era fermo a tre morti.

Da corriere.it il 18 agosto 2021. 

Ore 15:30 — Le proteste si diffondono nel resto del Paese, feriti a Kabul. Proteste anti-talebani anche in altre province: sventola in molte strade ancora la bandiera afghana a quattro colori. A Kabul in particolare i talebani stanno cercando di bloccare gli accessi all’aeroporto, con caos nelle strade e sulle piste di atterraggio e decollo: almeno 17 i feriti. Lo riporta un funzionario della sicurezza della Nato, citato da Al-Jazeera, mentre sono in corso le evacuazioni da parte dei Paesi occidentali, che nelle ultime 24 ore sono riusciti a portare via da Kabul 5 mila afghani. 

Ore 15 — Violenza dei talebani a Jalalabad, «almeno tre morti».  Proseguono gli scontri a Jalalabad, capoluogo nella parte orientale dell’Afghanistan dove «una parte considerevole della popolazione» (così Al Jazeera), cioè diverse migliaia di abitanti, è scesa in strada questa mattina sventolando la bandiera afghana rossa, verde, bianca e nera contro quella bianca e nera dei talebani. Gli «studiosi di Dio» che si stanno insediando alla guida della città hanno risposto alle proteste con spari sulla folla, ferendo decine di manifestanti e uccidendone, secondo i primi resoconti da Jalalabad, almeno tre.

Da "adnkronos.com" il 18 agosto 2021. Nonostante le rassicurazioni dei Talebani, nel terzo giorno dell'Emirato islamico si registrano caos e tensioni in alcune città del Paese. Proteste si segnalano a Jalalabad, capoluogo della provincia di Nangarhar, dove i Talebani hanno aperto il fuoco contro un gruppo di manifestanti provocando almeno due morti e 10 feriti, mentre alcuni giornalisti sarebbero stati malmenati. Nel capoluogo della provincia di Nangarhar, nell'est del Paese, centinaia di persone sono scese in strada armate di bandiere afghane, da contrapporre a quella dei Talebani, 'nuovi padroni' delll'Afghanistan.

L’Afghanistan è cambiato: nubi sul controllo talebano. Mauro Indelicato su Inside Over il 23 agosto 2021. Nelle ultime ore si è fatto spesso il paragone tra il primo ingresso dei talebani a Kabul, avvenuto nel 1996, e il secondo di pochi giorni fa. Ci si è chiesti, in particolare, se per davvero i miliziani del movimento islamista siano cambiati. Se cioè le loro promesse di clemenza e di rispetto dei diritti delle donne possano essere o meno mantenute. In realtà però occorrerebbe anche vedere se a cambiare sia stato anche lo stesso Afghanistan. La Kabul che oggi i talebani hanno ereditato è molto diversa rispetto a quella di un quarto di secolo fa. Potrebbe essere questa la variabile più significativa per capire la direzione futura del Paese asiatico.

La Kabul di oggi. Tra i talebani entrati nella capitale afghana nel giorno di ferragosto forse non c’erano molti reduci del 1996. Ma chi ha partecipato alla prima presa di Kabul ha indubbiamente notato profonde differenze. Di fatto è come aver conquistato due città completamente diverse. Un quarto di secolo fa Kabul era completamente rasa al suolo, dilaniata dalle guerre successive all’invasione sovietica. Ferite fisiche che corrispondevano anche a cicatrici sociali ben evidenti. Gli abitanti della città erano provati e stanchi dai conflitti e dalle dispute tra i vari signori della guerra. I talebani hanno marciato sulle macerie e su un tessuto sociale e urbano devastato. Imporre le loro leggi, in un contesto del genere, non è stato molto difficile. Questo non vuol dire che per gli abitanti di Kabul il primo quinquennio talebano abbia rappresentato una passeggiata. Quando il 12 novembre 2001 gli studenti coranici hanno abbandonato la città, molti cittadini si sono messi in fila davanti i barbieri per farsi radere la barba. Segno dell’insofferenza per le tante regole rigide fatte rispettare con la forza in quegli anni. Tuttavia nel contesto di un quarto di secolo fa per “gli studenti coranici” è stato più semplice fare breccia. La Kabul di oggi, invece, è molto diversa. In primo luogo è molto più grande. Si tratta dell’agglomerato urbano con la più alta crescita di popolazione degli ultimi 20 anni. Fino al 1996 la città contava poco più di un milione di abitanti, oggi sfora anche i cinque milioni. Questo ha fatto della capitale afghana il principale centro attrattivo per il Paese e le ha conferito l’aspetto di una grande metropoli. Circostanze che non hanno certo coinciso con le promesse di maggiore prosperità e ricchezza arrivate dopo il 2001. Anzi, sono nati molti quartieri senza alcun criterio urbanistico e senza servizi basilari. Al tempo stesso però è innegabile che in venti anni la città ha assunto un aspetto molto più dinamico. Tornando ad ospitare le ambasciate e vedendo al suo interno la presenza delle forze internazionali, Kabul è stata a stretto contatto con molte diverse realtà. Inoltre il funzionamento delle università, delle scuole e degli istituti culturali ha dato un importante impulso allo sviluppo di una qualche forma di coscienza civile nella parte più giovane della popolazione. Dal 2001 in poi ha preso piede anche una piccola ma significativa scuola giornalistica, testimoniata dalla nascita di diverse redazioni. In poche parole, i talebani oggi si ritrovano a governare una città dalle mille contraddizioni ma sicuramente non “svuotata” socialmente ed economicamente come nel 1996. Difficile quindi per loro imporre da subito norme incompatibili anche con l’Afghanistan di adesso. Quali ad esempio il divieto di possedere televisioni e radio oppure lo stop definitivo ad alcune attività economiche in nome della Sharia.

Un Afghanistan diverso. Un discorso che vale per Kabul, ma che può essere esteso anche ad altre realtà del Paese. Ad Herat, dove erano stanziati gli italiani, negli ultimi 20 anni sono state aperte molte scuole e molte ragazze hanno potuto intraprendere gli studi. Se da un lato è vero che l’Afghanistan dal 2001 in poi non è riuscito a trovare una sua stabilità e la società è rimasta molto legata agli schemi etnico-tribali, dall’altro però è innegabile che qualcosa è cambiato o era in procinto di mutare. Lo si è visto ad esempio a Jalalabad il giorno dopo la conquista talebana. La città, la quinta più grande del Paese, anche per via della sua vicinanza con il Pakistan è da sempre considerata un feudo degli islamisti. Eppure per strada diverse persone sono scese sventolando la bandiera dell’Afghanistan ammainata dai talebani poche ore prima. Una piccola ma significativa resistenza, probabilmente non attesa dagli stessi vertici del movimento. Pur tra mille contraddizioni, l’Afghanistan di oggi è diverso rispetto a quello preso in mano dagli studenti coranici nel 1996 e governato fino al 2001. Un elemento di cui i nuovi/vecchi padroni di Kabul dovranno tenere conto e che indubbiamente saranno chiamati a gestire a partire dalle prossime settimane.

Le prospettive future. Il collasso dello Stato nato nel 2001 non può cancellare i modesti ma importanti cambiamenti degli ultimi anni. La maggiore complessità della società afghana sarà per i talebani una spina nel fianco non indifferente. Anche se molti attivisti e molti giovani stanno provando in questi giorni a scappare, all’interno del Paese resterà viva una piccola ma significativa resistenza ai rigidi dettami della Sharia. Chi in 20 anni ha raggiunto determinate libertà, specialmente in città, non le cederà facilmente. Sono due i fronti da cui gli eredi del Mullah Omar dovranno guardarsi. Da un lato le possibili resistenze sociali all’ideologia estremista. Dall’altro le diatribe interne alle tribù Pasthun da cui provengono i miliziani del movimento. In questi 20 anni l’obiettivo comune rappresentato dalla lotta alla presenza internazionale ha cementificato i rapporti tra i vari clan, ma una volta al potere non sarà semplice per nessuno tenere stabile l’attuale equilibrio.

Prime manifestazioni contro il nuovo regime. “Sharia, non democrazia”, il futuro dell’Afghanistan per i Talebani. Scontri e morti nel Paese. Carmine Di Niro su Il Riformista il 18 Agosto 2021. Moderati sì, anche se tra i tanti e legittimi dubbi dell’Occidente, ma sicuramente non democratici. A chiarire che sotto il dominio dei Talebani l’Afghanistan non sarà una democrazia, ma che seguirà la legge della sharia, è stato un alto funzionario del gruppo islamico. Waheedullah Hashimi, intervistato dall’agenzia di stampa Reuters, ha spiegato che nel Paese “non ci sarà affatto un sistema democratico perché non ha alcuna base nel nostro Paese”. Non ci sarà quindi alcuna discussione su quale tipo di sistema politico dovremo applicare in Afghanistan “perché è chiaro: è la legge della sharia e basta”. Hashimi ha anche aggiunto che il comandante supremo del movimento, il mullah Haibatullah Akhundzada, avrà un ruolo importante nel nuovo Afghanistan, ma “forse sarà uno dei suoi vice il presidente”. Candidati per questo ruolo sono quindi tre esponenti di rango della gerarchia talebana: Abdul Ghani Baradar, l’uomo che ha guidato i negoziati con gli Stati Uniti a Doha, Mawlavi Yaqoob, figlio del Mullah Omar, Sirajuddin Haqqani, capo della potente rete di miliziani Haqqani.

PARLA L’EX PRESIDENTE GHANI – Intanto dagli Emirati Arabi Uniti, dove si è rifugiato dopo una iniziale tappa in Uzbekistan, è tornato a parlare l’ex presidente afghano Ashraf Ghani. In un videomessaggio Ghani, aspramente criticato dalla comunità internazionale e dal suo stesso popolo per la repentina fuga fuori dal Paese, ha spiegato che si sta “consultando per tornare in Afghanistan e combattere per la sovranità. Tornerò presto”. Ghani ha anche aggiunto di esser stato costretto a fuggire “dai suoi servizi servizi di sicurezza, lasciando dietro di sé i suoi principali beni e “documenti riservati”. L’ex presidente ha quindi smentito l’accusa di aver rubato 169 milioni di dollari dalle casse dello Stato prima della sua partenza, accuse definite “diffamanti per la mia persona”.

LE RIVOLTE – A tre giorni dalla conquista di Kabul da parte dei Talebani si sono registrati oggi nel Paese i primi scontri e le prime rivolte. Sede della rivolta la città di Jalalabad, quinta città dell’Afghanistan, situata a circa 150 chilometri a est di Kabul vicino al confine con il Pakistan. Qui secondo un testimone oculare citato da Sky Tg24 ci sarebbero almeno 35 morti per gli spari dei miliziani talebani contro la folla. “Oggi il popolo che abita nella provincia afgana chiamata Nangarhar è uscito in strada con le vecchie bandiere dell’Afghanistan. Per fermarli, i talebani hanno sparato e ammazzato trentacinque persone”, ha riferito il testimone. Scontri nati dopo che una consiste parte della popolazione è scesa in strada sventolando la sventolando la bandiera afghana, rossa, verde, bianca e nera, contro quella dei talebani che era stata esposta su uno degli edifici di via Pashtunistan. Almeno 17 persone sono rimaste ferite invece nella calca all’aeroporto di Kabul, in Afghanistan. Lo riporta un funzionario della sicurezza della Nato, citato da Al-Jazeera, mentre sono in corso le evacuazioni da parte dei Paesi occidentali. Ai civili afghani, che cercavano di partire dopo la conquista della capitale afghana da parte dei talebani domenica, era stato detto di non radunarsi nella zona dell’aeroporto a meno che non avessero un passaporto e un visto per viaggiare, ha riferito il funzionario, che lavorava allo scalo. Il funzionario, che è rimasto anonimo, ha affermato di non avere ricevuto alcuna segnalazione di violenze da parte dei talebani fuori dall’aeroporto.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Manifestanti sostituiscono la bandiera degli "studenti coranici". Proteste in Afghanistan, talebani sparano sulla folla e picchiano giornalisti: “Morti e feriti”. Redazione su Il Riformista il 18 Agosto 2021. Spari in aria e contro alcuni manifestanti scesi in piazza con le bandiere afghane. Tensione alle stelle a Jalalabad, quinta città dell’Afghanistan, situata a circa 150 chilometri a est di Kabul vicino al confine con il Pakistan. Secondo quanto riferito dall’agenzia stampa locale “Pajwok“, i talebani hanno esploso numerosi colpi d’arma da fuoco per disperdere la folla che proco prima aveva issato la bandiera democratica afghana su uno degli edifici di via Pashtunistan, nel centro cittadino, sostituendo quella precedentemente fissata dagli “studenti coranici“, alla vigilia del Giorno dell’Indipendenza dell’Afghanistan, che ricorda la fine del dominio britannico nel 1919. I manifestanti hanno abbassato la bandiera dei talebani – bianca con un’iscrizione islamica – che i militanti hanno innalzato nelle aree conquistate.

Il bilancio: almeno 3 morti e 12 feriti. Ci sarebbero 12 persone ferite e almeno tre vittime, due delle quali di giovane età. A riferirlo è l’emittente Al Jazeera citando fonti della sicurezza afghane. I talebani inoltre avrebbero preso di mira anche giornalisti e cameramen. Alcuni di loro sarebbero stati aggrediti per impedire di riprendere quanto stesse accadendo in città. Babrak Amirzada, un giornalista di un’agenzia di stampa locale, ha riferito di essere stato picchiato dai talebani, insieme a un cameraman tv di un’altra agenzia, mentre cercavano riprendere i disordini. Dai filmati diffusi in rete, si vede una folla di centinaia di persone, tra cui molti giovani, sfilare per le strade di Jalalabad esponendo bandiere e intonando canti. Poi gli spari e la fuga generale con alcuni uomini immortalati mentre piangono in una abitazione.  Ieri, il primo vicepresidente dell’Afghanistan, Amrullah Saleh, ha annunciato che gli afgani “non hanno perso lo spirito di lotta a differenza di Stati Uniti e Nato” affermando che vi è la possibilità di “resistere ai talebani”. Tra i manifestanti anche membri del governo deposto – il vicepresidente Amrullah Saleh, che ha affermato su Twitter di essere il legittimo presidente, e il ministro della Difesa del paese, il generale Bismillah Mohammadi – così come Ahmad Massoud, il figlio del leader dell’Alleanza del Nord, Ahmad Shah Massoud, il Leone del Panshir, ucciso nel 2001. Non è chiaro se intendono sfidare i talebani, che la scorsa settimana hanno conquistato gran parte del Paese in pochi giorni. Il Panshir è l’unica provincia che non è ancora caduta in mano ai talebani. Secondo Pajhwok, manifestazioni a favore della bandiera nazionale sono state registrate durante la giornata anche in altre città del Paese, come a Khost, nell’Est del Paese

Ressa all’aeroporto di Kabul: 17 feriti. Almeno 17 persone sono rimaste ferite nella calca all’aeroporto di Kabul, in Afghanistan. Lo riporta un funzionario della sicurezza della Nato, citato da Al-Jazeera, mentre sono in corso le evacuazioni da parte dei Paesi occidentali. Ai civili afghani, che cercavano di partire dopo la conquista della capitale afghana da parte dei talebani domenica, era stato detto di non radunarsi nella zona dell’aeroporto a meno che non avessero un passaporto e un visto per viaggiare, ha riferito il funzionario, che lavorava allo scalo. Il funzionario, che è rimasto anonimo, ha affermato di non avere ricevuto alcuna segnalazione di violenze da parte dei talebani fuori dall’aeroporto.

Giordano Stabile per “La Stampa” il 4 settembre 2021. I taleban festeggiano a colpi di kalashnikov una conquista che ancora non c'è, quella del Panshir, l'ultima provincia ribelle, la valle imprendibile che neppure il mullah Omar, e prima di lui l'Armata rossa, erano riusciti a espugnare. C'è fretta di chiudere la partita con una sacca di resistenza che potrebbe coagulare malcontento e tensioni etniche. Le donne, discriminate e minacciate, che continuano a manifestare a Herat, e pure a Kabul. Tagiki e uzbeki che mugugnano e attendono una fetta di potere. Sono anche queste frizioni a rallentare la formazione del governo e l'annuncio dell'impianto istituzionale destinato a reggere un Paese già sull'orlo di una crisi umanitaria. Doveva arrivare ieri pomeriggio, dopo la preghiera del venerdì. Ha subito un rinvio dopo l'altro. Ora si parla di oggi. Anche l'apparizione nella capitale dell'emiro Haibatullah Akhundzada è ancora in forse. Il capo supremo preferisce condurre le trattative nella «sua» Kandahar, la provincia del Sud dove è nato e che ha governato con pugno di ferro durante il primo Emirato. Qui è protetto dalla sua rete famigliare e può negoziare a suo agio con il mullah Abdul Ghani Baradar, destinato a guidare l'esecutivo. Baradar ha un passato di combattente e l'aura di cofondatore del gruppo jihadista. Ha affinato le sue qualità politiche nei tre anni passati in Qatar a negoziare con gli americani. Vuole un ruolo di peso. L'idea è imitare in parte l'Iran. Una guida suprema, più leader religioso che politico, al vertice. Un presidente incaricato di gestire il Paese subito sotto. Il Consiglio della Shura potrebbe essere allargato, per includere più personalità uzbeke, tagike, di altre etnie, in modo da diventare una sorta di Parlamento. Non ci saranno però né elezioni né «democrazia». Sarà un Afghanistan retto dalla sharia ma con un emiro dai poteri circoscritti, meno assoluti. Akhundzada non ha il carisma del mullah Omar, anche se vanta un figlio «martire», morto in un attacco suicida contro le forze Nato. Le operazioni militari dovrebbero rimanere affidate a Mohammad Yaqoob, figlio del mullah Omar. C'è anche la sua mano nell'offensiva «di primavera» che in tre mesi ha permesso di conquistare il 97% del Paese. Nel 2001 i taleban erano arrivati al massimo al 90. Quel tre per cento rimanente è la valle del Panshir, appena 80 chilometri a Nord di Kabul. Isolata, assediata, con linee telefoniche e dell'elettricità tagliate. Ieri i jihadisti hanno diffuso voci sulla sua «caduta» e sulla «fuga in Tagikistan» dell'ex vicepresidente Amrullah Saleh e di Ahmed Massoud, i leader del Fronte nazionale di resistenza, la nuova «Alleanza del Nord». Hanno subito smentito. Guerra psicologica. Anche se alcune posizioni all'entrata meridionale della valle sarebbero state prese. Bilal Karimi, uno dei portavoce del gruppo, ha confermato che «quasi un quinto» del territorio ribelle è caduto e che per il resto «era questione di giorni». Non sarà così semplice. Nella valle si sono rifugiati 5mila soldati del dissolto esercito nazionale. Hanno buoni armamenti, artiglieria. I taleban hanno come bottino di guerra migliaia di blindati, cannoni, decine di elicotteri e persino cacciabombardieri A-29. Ma non hanno piloti, né tecnici per la manutenzione. La prima emergenza è spezzare l'isolamento. Qatar e Turchia, i principali alleati assieme al Pakistan, hanno inviato personale per riaprire l'aeroporto di Kabul (ieri l'Isis ha riferito che il kamikaze che ha ucciso 200 persone era stato liberato da una prigione dopo l'avanzata dei taleban). Un volo umanitario è arrivato dagli Emirati. I primi collegamenti cargo sono previsti la prossima settimana. La Western Union ha ripreso i trasferimenti di dollari. Piccoli segnali. Ma servirà un governo, se non «inclusivo» per lo meno presentabile. 

(ANSA il 7 settembre 2021) Le forze armate del Pakistan avrebbero fornito supporto logistico e militare ai Talebani ad espugnare la Valle del Panshir, l'ultima sacca di resistenza contro il regime integralista afghano, che sarebbe caduta nelle ultime ore. Lo scrive il sito emiratino Al Arabiya, citando fonti vicine al Fronte nazionale di Resistenza guidato da Ahmed Massoud. Massoud, che non ha mai ammesso la vittoria dei Talebani, in un messaggio ha chiamato gli afghani all'insurrezione e ha anche fatto riferimento all'aiuto di non meglio precisati "mercenari stranieri" ai Talebani nel Panshir. Secondo le fonti citate da Al Arabiya, Islamabad avrebbe fornito agli Studenti del Corano copertura aerea e l'appoggio di uomini delle forze speciali, paracadutati dietro alle linee della resistenza nella valle del Panshir. Sabato scorso il capo dei servizi d'intelligence pachistani Isi, gen. Faiz Hameed, era presente a Kabul dove ha incontrato i dirigenti politici talebani.

Valentina Errante per “il Messaggero” il 7 settembre 2021. Chiamano a raccolta la stampa per dirlo al mondo: «La valle del Panjshir è stata interamente conquistata. La guerra ora è finita». Dopo due settimane di combattimenti, i Talebani annunciano che l'ultimo baluardo di resistenza in Afghanistan è nelle loro mani. Ma, mentre il portavoce, Zabihullah Mujahid, avvisa: «L'Emirato islamico è molto sensibile alle insurrezioni. Chiunque tenti di portarne avanti una sarà colpito duramente. Non ne permetteremo un'altra», il Fronte della resistenza rilancia un disperato appello alla rivolta. «Ovunque voi siate, dentro o fuori, vi invito a iniziare un'insurrezione nazionale per la dignità, la libertà e la prosperità del nostro Paese», ha detto in un messaggio audio ai media il suo comandante, Ahmad Massoud. I ribelli panjshiri hanno assicurato di aver mantenuto «posizioni strategiche» e promesso che «la lotta contro i Talebani e i loro partner continuerà», puntando il dito contro il Pakistan. Il successo dell'avanzata dei mullah è testimoniato anche dagli osservatori che si trovano sul posto e i social sono stati invasi da foto e video con la bandiera bianca, simbolo degli studenti del Corano, che sventola sugli edifici pubblici nella valle, su del governatore, nel capoluogo Bazarak. La svolta militare apre la strada all'atteso annuncio del governo talebano che, ha precisato il portavoce Mujhaid, sarà comunque ad interim per permettere eventuali cambi in corsa. Segno che la partita del potere tra le diverse anime del movimento fondamentalista è tutt' altro che chiusa. La sfida principale coinvolge la linea presentata come dialogante e aperta alle formule più «inclusive» del mullah Abdul Ghani Baradar, negoziatore con gli Usa a Doha e capo politico in pectore, e quella più radicale della rete degli Haqqani, appoggiata dagli 007 di Islamabad e vicina ad Al Qaeda. Ma le decisioni importanti, ha assicurato ancora il portavoce, sono ormai state prese. L'annuncio dovrebbe arrivare a giorni. Da Kabul sarebbero partiti anche i primi inviti ai governi stranieri a partecipare alla cerimonia di insediamento, rivolti, secondo Al Jazeera, a Turchia, Cina, Russia, Iran, Pakistan e Qatar. Ma proprio nei rapporti con i vicini emergono i primi nodi strategici per i Talebani. Dopo le iniziali aperture di credito del presidente fondamentalista Ebrahim Raisi, da Teheran è giunta una «ferma» condanna dell'offensiva contro il Panjshir. «Notizie davvero inquietanti», le ha definite il portavoce della diplomazia Saeed Khatibzadeh, lanciando poi un avvertimento contro «ogni ingerenza straniera» in Afghanistan, in un apparente riferimento al Pakistan, che a Kabul ha inviato il capo dei servizi segreti. Nel Paese, intanto, la vita quotidiana riprende con una parziale riapertura delle banche e la riattivazione di collegamenti aerei interni, mentre il Qatar continua a lavorare alla riapertura al traffico internazionale dell'aeroporto di Kabul. E qualcosa comincia a muoversi anche sul piano delle evacuazioni degli stranieri rimasti bloccati dopo il ritiro Usa. Da Washington i repubblicani denunciano che sei aerei, con cittadini anche statunitensi a bordo, non sono riusciti a decollare e paventano una possibile «crisi degli ostaggi», intanto i primi quattro americani hanno lasciato l'Afghanistan via terra con il consenso dei Talebani. Malgrado le promesse di maggiore moderazione, gli effetti del nuovo corso dei sedicenti studenti coranici cominciano ad avere effetti anche sulla condizione femminile. Mentre, a Mazar-i-Sharif, nel nord del Paese, tra le minacce, è andata in scena una nuova protesta delle coraggiose attiviste, sui social è circolata la foto del primo giorno di lezioni all'università Ibn-e-Sina di Kabul, che uomini e donne hanno seguito separati da una tenda installata in mezzo all'aula. Val.Err.

Lorenzo Cremonesi per corriere.it il 6 settembre 2021. I talebani hanno annunciato oggi, come era accaduto due giorni fa, di aver preso il controllo «totale» dell’intera vallata del Panshir. «Con questa vittoria il nostro Paese è ora completamente fuori dal marasma della guerra», ha detto in una nota il principale portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid. Una notizia che viene parzialmente smentita dal Fronte di resistenza nazionale (Nfr), la forza di resistenza anti-talebana, che afferma di essere presente in «posizioni strategiche» in tutta la valle e assicura che «la lotta contro i talebani e i loro partner continuerà». Ma senza dubbio si sono svolte battaglie dure nelle ultime ore e i talebani sono nel cuore della regione contesa. L’ex vice presidente afghano Amrullah Saleh ha lasciato la Valle del Panshir per fuggire in Tagikistan, mentre il leader della resistenza afghana Ahmad Massoud si trova «in un posto sicuro». Lo ha riferito un alto esponente del Fronte di resistenza al Washington Post, ammettendo che «sì, il Panshir è caduto. I Talebani hanno preso il controllo degli uffici governativi. I Talebani sono entrati nella casa del governatore». Ieri era stato ucciso nei bombardamenti Fahim Dashti, portavoce del giovane leader Ahmed Massoud. Secondo i talebani la loro vittoria faciliterà l’annuncio molto presto del loro governo.

“L’ultima guerra di trincea: Afghanistan del Nord 2001". Pietro Suber su La Repubblica il 9 settembre 2021. Sul carrarmato con i bambini a Koja Bahauddin. I guadi in zattera, i colpi di mortaio, la morte dei colleghi caduti in un'imboscata: il racconto di Pietro Suber delle dodici settimane trascorse nel Paese dopo l'11 settembre come inviato del Tg5 tra le fila dei mujaheddin che cacciarono i talebani da Kabul. “Se rimani sei settimane in un paese scriverai un libro con animo leggero. Se rimani sei mesi, farai fatica a scrivere un articolo. Se rimani sei anni, non scriverai più”. Il suggerimento arriva da una grande esperta di montagne afgane, la scrittrice e fotografa svizzera Annemarie Schwarzenbach, che ha affrontato più volte quella sorta di viaggio sulla Luna che dal nord del paese, dai confini del Tagikistan, porta giù fino alla capitale Kabul, attraverso la mitica valle del Panshir.

Domenico Quirico per “La Stampa” il 7 settembre 2021. Arrivano notizie lugubri anche dal Nord: ringagliarditi dalle nostre infinite ebetudini i taleban mettono le mani anche sulla valle del Panshir, bastione degli irriducibili, escrescenza virtuosa di tagiki eterni ribelli. Sfuma l'epopea già immaginata dai soliti inventori di romanzi rosa e da collocare sotto le cupe ombre dei monti che lo sovrastano con aria superba: la valle che già disfece l'impero sovietico che resiste impavida ai turbanti neri attorno al giovane Massoud si raggruppano via via e riprendono animo tutti quelli che vogliono dire no ai taleban e al medioevo incipiente l'Occidente umanistico e servile cerca di farsi perdonare il tradimento e torna in campo...Kabul è stata abbandonata, bene, nulla è perduto, la si può riconquistare il diluvio può diventare seconda creazione. La sceneggiatura non regge. Illusioni. L'epifania del bene è rinviata a data incerta. Anche nel Panshir prudentemente si fanno sparire le immagini dei Massoud, padre e figlio, dalle case da tè dai taxi dai negozi. Son già peccato mortale. Gli eroi sono stanchi, non marceranno: le epopee come i miracoli non si ripetono se si è perso lo stampo. Il sordido ventennio dei gerarchi americani, dei Karzai e complici, ha fatto metter su pancia a quelli che i russi, tremando, chiamavano «dukhi», fantasmi. Non parlano più con il fucile come Orlando con Durlindana sulla pietra di Roncisvalle. Forse anche tra loro ci sono alcuni che avevano i bagagli già pronti. Per inventare una resistenza non basta Massoud Junior che ha faccia da guerrigliero fashion, da partigiano alla Vanity Fair. Ci vorrebbe lui, Ahmad Shah Massoud, quello che i seguaci adoranti chiamavano «amer sahib», il comandante signore, che scese in guerra con 25 seguaci, 17 vecchi fucili e 30 dollari in contanti e in tempi di pusillanimità sfidò i due grandi totalitarismi del secolo. Un gigante di cui è difficile scrivere la biografia: l'uomo ci sfugge perché l'eroe trabonda. Anche se si tenta volenterosamente di copiarne la capigliatura e i gesti non basta sistemarsi in testa il pakol e indossare cerimoniosamente un mantello per diventare guerrigliero. Corriamo il rischio di contraddire i pareri autorizzati: dopo la riuscita evacuazione di centomila persone descritta come inaugurazione autofaga di un mondo radioso nessuno ha mai pensato di voler veramente aiutare la timida resistenza del Nord. Americani ed europei sono felici di aver appena cavato i piedi da quel macello e non aspettano altro che riprendere le trattative con i diavoli islamisti. Lo chiameremo realismo; o necessità di non far pagare alla popolazione le colpe dei furori taleban; o astuzia per tener a bada gli altri imperialismi russo cinese turco. E c'è la guerra all'Isis locale…se la brutalità taleban ci desse una mano? E poi per difendere il Panshir ci volevano bombardamenti aerei, e poi sarebbero venute le truppe speciali e poi le armi moderne da fornire ai resistenti e cibo per la popolazione assediata. Dollari da aggiungere ai dollari già sperperati, probabilmente qualche morto, il rischio che i dispettosi taleban si vendichino creando una Tortuga di tutti i fanatici una follia! In fondo l'aspirante leoncino del Panshir era un impiccio, le sue promesse di resistenza fino alla morte (ma forse non ci credeva neppure lui) suonavano come una accusa implicita alla nostra fuga. La leggenda di Massoud negli Anni 80 del secolo scorso fu una perfetta operazione di comunicazione dei francesi, a cui il signore feudale vendeva i diamanti del Panshir. Ci voleva un eroe, lui ne aveva la stoffa. Lo scelsero, per di più parlava un po' il francese. La leggenda, bisogna dirlo, presentava molte ombre e ipocrisie: rifiutava di metter il velo alle donne quando conquistò Kabul ma lo esigeva nel suo dominio feudale, era pietoso con i nemici russi ma fece strangolare in sua presenza senza batter ciglio due combattenti responsabili di saccheggio, era nemico implacabile dell'islamismo ma era alleato fedele del più fanatico islamista afgano, Sayyaf. Eppure ebbe ragione Bin Laden che ordinò la sua morte a due dei suoi apostoli assassini travestiti da giornalisti come necessaria «ouverture» dell'attentato delle due torri. La morte di quell'uomo in una delle faglie sismiche del mondo, era necessaria perché la vera guerra quella mondiale del jihad globalizzato e planetario potesse avere inizio. Se Massoud, quello vero, fosse ancora vivo i taleban avrebbero rivinto? Il carisma che mobilitava i suoi seguaci in modo formidabile aveva elementi di pericolosa ambiguità, serviva ai suoi combattenti anche per aggirare e disobbedire alle regole di uno Stato centrale che fosse costruito sulla eguaglianza e non sulle appartenenze e le scorciatoie tribali. Senza di lui il carisma ad personam, autoreferenziale, infatti, non ha retto, il suo movimento è affondato nella corruzione, le lotte interne, l'isolamento etnico. I Massoud, quello forte e quello debole, sono soltanto dei signori della guerra.

Chi era il comandante Ahmad Massoud, il “Leone del Panjshir” ucciso dai terroristi il 9 settembre 2001. Antonio Lamorte su Il Riformista il 9 Settembre 2021. Era il 9 settembre del 2001 quando il comandante Ahmad Shah Massud, il “Leone del Panjshir”, il combattente oppositore nell’Afghanistan dell’Emirato dei talebani veniva ucciso in un attentato da fondamentalisti islamici. La sua morte in corrispondenza quasi perfetta con gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti è stata letta da numerosi osservatori come un segno della direzione che l’Afghanistan, il fondamentalismo, la lotta all’Islam radicale e gli equilibri internazionali stavano prendendo. Massud era un’icona già all’epoca: aveva combattuto contro i sovietici, contro i fondamentalisti, i talebani. I giornali di tutto il mondo volevano intervistarlo. Uomo carismatico, amava la poesia e gli scacchi. Era musulmano osservante ma lontano dall’estremismo. La sua storia, a vent’anni dalla morte, è tornata di attualità dopo il ritorno al potere dei talebani, entrati a Kabul lo scorso 15 agosto. Il Panjshir ha provato a resistere, con Ahmad Massoud, figlio del comandante, senza scampo: i talebani hanno preso il controllo di tutto il Paese e nominato il loro nuovo governo.

Il comandante. Ahmad Shah Massoud era nato nel 1953 in un villaggio nel nord del Paese. Famiglia sunnita, etnia tagika. Aveva studiato al Lycée Esteqlal di Kabul, poi al politecnico. Era stato attivista dei Giovani Musulmani vicini al professor Burhaddin Rabbani, presso il quale si era riunita una generazione di giovani ostili alle pressioni dell’Unione Sovietica. Divenne combattente negli anni ’70. Disse di lui l’inviato speciale, che lo seguì e intervistò in numerose occasioni, de Il Corriere della Sera Ettore Mo: “Al tempo del nostro primo incontro, nell’81, l’ex studente universitario fuori corso aveva appena 26 anni ma era già leggenda: che le epiche battaglie dei mujaheddin contro gli “sciuravi” — i russi — avrebbero via via ingigantito. Ricordo un giovane piuttosto schivo e taciturno, un volto pallido affilato, gli occhi grandi e scuri, quasi sempre offuscati da un velo di malinconia. Niente d’altero o d’autoritario nella sua persona, sapeva imporsi grazie alla sua forza interiore, impartiva ordini quasi senza parlare, gli bastavano gli occhi e un gesto sbrigativo nella mano per dire ai suoi ragazzi cosa fare, dove andare”. La situazione precipitò in pochi anni: i Giovani Musulmani si spaccarono tra i moderati vicini a Rabbani e gli estremisti di Gulbuddin Hekmatyar; ad aprile 1978 il colpo di stato ai danni del regime repubblicano di Daud; si insediò Taraki con un esecutivo filo-sovietico; i ribelli organizzarono la resistenza a Peshawar. Kabul era ormai nell’orbita di Mosca e Massud tornò nel suo Panjshir. La lotta dei mujaheddin contro l’Armata Rossa durò fino al 1989, quando i sovietici si ritirano. “Neanche un graffio sul suo bel volto asciutto, affilato – scriveva Mo del comandante – Aveva appena respinto la settima offensiva nella vallata, che i sovietici avevano troppo incautamente battezzato ‘Addio Massud’”. Gli accordi di Peshawar però non bastarono: Rabbani diventò presidente, Massud ministro della Difesa, ma le divisioni interne al Paese infiammarono ancora le divisioni interne al Paese. Il comandante si scontrò proprio con Hekmatyar. L’Afghanistan non era per niente in pace.

I talebani. A Kandahar, nel 1995, si formarono ufficialmente i cosiddetti talebani, “studenti di dio”, che nel 1996 presero Kabul e instaurano la Repubblica Islamica basata su una rigida interpretazione del Corano. Il primo ministro Najibullah venne prelevato, torturato, evirato, ucciso con un proiettile in testa ed esposto in pubblica piazza: era un segnale dei fondamentalisti a tutti gli afghani. Massud, come Rabbani, fuggì da Kabul e organizzò una nuova guerriglia nella sua terra. Il “Leone del Panjshir”, come venne definito in tutto il mondo, si mise alla testa dell’Alleanza del Nord in opposizione ai talebani e infliggendo pesanti sconfitte agli estremisti guidati dal mullah Omar.

L’attentato. Il comandante stesso ammetteva però che la situazione era drammatica: senza il rinforzo delle potenze occidentali era impossibile affrontare quello stato di cose. C’erano un milione di profughi circa nel Panjshir a inizio settembre 2001 – proprio qui Emergency di Gino Strada aveva aperto un ospedale. E l’escalation fondamentalista non si fermò: i talebani offrirono ospitalità a organizzazioni terroristiche come Al Qaeda e allo sceicco Osama Bin Laden. “I governi europei non capiscono che io non combatto solo per il mio Panjshir, ma per bloccare l’espansione dell’integralismo islamico”. Il 9 settembre del 2001 due sedicenti giornalisti tunisini di un’emittente televisiva del Marocco arrivarono per un’intervista al comandante nel Panjhisr. All’interno della telecamera nascosero una bomba: nell’esplosione morì il comandante e un attentatore, l’altro venne finito a colpi di arma da fuoco dalle guardie del corpo di Massud. Per alcuni erano terroristi dell’organizzazione Ansar al Sharia, reclutati a Bruxelles, per altri affiliati ad Al Qaeda. La notizia divenne nota due giorni dopo, mentre tutto il mondo era sconvolto dagli attacchi dell’11 settembre agli Stati Uniti. 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Ora parla il fratello di Massoud: "Vi racconto i massacri talebani..." Matteo Carnieletto il 10 Settembre 2021 su Il Giornale. Il fratello giura: "Mio nipote è al sicuro e i talebani non hanno preso il Panshir. Non credono in nulla, l'Occidente sostenga la resistenza". Il 10 di settembre è il giorno sospeso, in bilico tra i due eventi che hanno cambiato il mondo. Il giorno prima, infatti, il 9 settembre del 2001, due terroristi di Ansar al Sharia, travestiti da giornalisti, si fanno saltare in aria uccidendo Ahmad Shah Massoud, il leone del Panjshir. Un boato falcia il leggendario capo dei mujaheddin, lasciando a terra il suo corpo martoriato. È la fine di un’epoca. La notizia fa il giro del mondo e l’Afghanistan, dopo tanti anni, torna al centro dell’attenzione dei media. Ma solo per un momento. Due giorni dopo, infatti, l’11 settembre, due aerei distruggono le Torri Gemelle, mentre un altro si schianta contro il Pentagono. Un altro volo ancora, lo United Airlines 93, precipita in un campo nei pressi di Shanksville, in Pennsylvania. L’America (e con essa il mondo) rimane sotto choc. Le vittime sono quasi tremila. Il presidente George W. Bush annuncia l’inizio della “Guerra al terrore” e l’Afghanistan torna a riempire le pagine dei giornali. Per vent’anni, in maniera quasi ininterrotta, fino ad oggi. Uno dei protagonisti di queste vicende è stato (ed è) Ahmed Wali Massoud, il fratello del leone del Panjshir, che oggi parteciperà ad un simposio, organizzato dall'Ambasciata dell'Afghanistan in Italia in collaborazione con l'ASCE, la School of Economic Competition di Venezia, a Villa Malta a Roma, per commemorare il 20° anniversario del martirio di Ahmed Shah Massoud e per discutere delle condizioni dell'Afghanistan attualmente sotto il controllo dei talebani, e del suo imminente futuro. 

Signor Massoud, i talebani hanno profanato la tomba di suo fratello. Cosa prova vedendo queste immagini?

Mi sento male. Ma lasciatemi dire perché i talebani lo hanno fatto: come sapete, essi sono stati colpiti così duramente da Massoud che hanno deciso di vendicarsi con questa azione ignobile. I talebani hanno la pretesa di essere considerati guerrieri islamici, ma questo non corrisponde affatto alla realtà. Non credono nell'islam, non credono nella società civile, non credono in niente. L'unica cosa che amano è combattere.

Dove sono ora Ahmad Massoud e l’ex vicepresidente Amrullah Saleh?

In Afghanistan.

Immagino in una zona sicura nel Panjshir...

Mi scusi, ma non posso rivelare la loro posizione.

Nella valle del Panjshir si sta ancora combattendo?

No, penso che i talebani siano riusciti solamente a prendere alcune strade del Panjshir, che è una provincia vasta e piena di montagne. Negli ultimi 40 anni il Panjshir è stato il centro della resistenza proprio grazie al suo territorio. Ripeto:, i talebani sono riusciti ad occupare solo le strade nel Panjshir. Ma questo non è importante: ci sono molte altre aree dell’Afghanistan dove la gente è pronta a combattere.

Qual è il coinvolgimento del Pakistan nella guerra contro il Panjshir?

Abbiamo diverse informazioni circa il coinvolgimento del Pakistan, ma bisogna essere molto cauti prima di dire qualsiasi cosa. Dobbiamo aspettare di avere prove certe.

Il Pakistan vuole controllare l'Afghanistan attraverso i talebani?

Ora dicono di essere cambiati, ma sicuramente questa è stata la loro politica in passato.

Come si comportano i talebani nei confronti dei civili del Panjshir?

In modo molto crudele. Stanno davvero commettendo delle atrocità impossibili da raccontare e la situazione in Panjshir è terribile.

Quali sono gli obiettivi del governo talebano?

I talebani fanno parte della “rete del terrore”, quindi quale potrebbe essere l'obiettivo di un'organizzazione terroristica? Spaventare e soggiogare le persone. Questo è il loro obiettivo ad oggi. Vogliono terrorizzare il popolo.

Perché il mondo ha abbandonato l'Afghanistan?

Questa è una domanda che qui si stanno ponendo tutti. “Perché il mondo ci ha abbandonati?”. Beh, sai, il terrorismo è diventato un grande strumento per alcuni Paesi.

Quale sarà il futuro dell'Afghanistan?

Al momento è un futuro molto oscuro. I talebani e in generale le forze terroristiche con il sostegno di diversi Paesi stanno terrorizzando il Paese usando la violenza. Le persone si interrogano su cosa accadrà loro, ma al momento sembra non esserci davvero nessun futuro. Allo stesso tempo, però, il nostro popolo e le forze di resistenza stanno combattendo tenacemente. Questo è il nostro Paese! Quale sarà il futuro del popolo afgano? Abbiamo sconfitto i talebani una volta e possiamo sconfiggerli di nuovo. Possiamo farcela.

Cosa ha pensato quando hai visto truppe e diplomatici occidentali lasciare il Paese?

È stata una grande delusione, soprattutto perché il mondo occidentale, che da sempre si pone come paladino della difesa dei diritti umani, dei diritti delle donne e della democrazia, ha abbandonato le persone nelle mani dei terroristi, mettendole in estremo pericolo. Non so cosa dire. Vederli andare via è stata una scena disgustosa, triste e deludente. Qualcosa di davvero indescrivibile. Venti anni fa sono venuti a combattere il terrorismo e ora ci hanno venduto, hanno venduto la nostra gente. Tutto ciò è semplicemente vergognoso.

Gli americani vi hanno delusi?

Certo. Gli americani hanno deluso la nostra gente, hanno deluso le persone di questa generazione. Questo è sicuro. Hanno perso la loro credibilità e hanno deluso l'umanità intera lasciandoci in balia del nemico. Questa è la situazione.

Ieri era l’anniversario dell’attacco terroristico contro suo fratello. A distanza di vent’anni qual è l’insegnamento di Ahmad Shah Massoud?

Lui è con noi. La sua guida è sempre stata con noi. Una delle cose più grandi che che ha detto al mondo occidentale è che il terrorismo non è solo un nostro problema, ma di tutti. Possiamo vedere che il terrore si è diffuso in tutto il mondo. Oggi mi manca tanto non solo perché non c'è più ma anche perché è stato il primo a lanciare l'allarme sul pericolo terrorismo. Quindi sì, è ancora con noi, i suoi pensieri sono con noi e le persone continueranno a combattere il terrorismo ovunque si trovino. Questo è stato il suo insegnamento ed è fantastico per noi.

Come può il mondo aiutare il popolo afghano adesso?

Chiedo al mondo di stare con ciò che è giusto e non con ciò che è sbagliato. Il mondo non dovrebbe fraintendere cos’è il terrorismo. I politici non possono trattare con i terroristi. Come si può trattare con loro? Voglio dire, se hai a che fare con i talebani stai uccidendo, sei contro l'umanità e contro la gente. I politici occidentali devono prendere una posizione molto forte: non possono riconoscere il governo talebano. Devono combattere e sostenere la resistenza. Questa è l'unica cosa che dovremmo fare tutti: combattere.

Matteo Carnieletto. Entro nella redazione de ilGiornale.it nel dicembre del 2014 e, qualche anno dopo, divento il responsabile del sito de Gli Occhi della Guerra, oggi InsideOver. Da sempre appassionato di politica estera, ho scritto insieme ad Andrea Indini Isis segreto, Sangue

Il regime: "Preso il Panshir. Massoud si è dato alla fuga". Ma la Resistenza smentisce. Riccardo Pelliccetti il 4 Settembre 2021 su Il Giornale. Mentre i talebani lanciano l'ultima offensiva contro il Panshir, unica provincia libera che resisteva al nuovo regime, a Kabul oggi si formerà il governo dell'emirato islamico che sarà guidato dal mullah Abdul Ghani Baradar. Le milizie talebane hanno intensificato gli attacchi nella valle del Panshir e ieri sera hanno annunciato di averne il controllo e di aver messo in fuga le forze guidate da Ahmad Massoud, figlio del leggendario «leone del Panshir», che già aveva combattuto contro il primo regime instaurato dagli studenti coranici ed era rimasto ucciso in un agguato. Il Fronte nazionale della resistenza ha smentito però la resa e ha spiegato che si combatte ancora nonostante le vie di comunicazione siano interrotte. Lo stesso vicepresidente Amrullah Saleh, che si era unito a Massoud, dopo la fuga da Kabul, ha ammesso che ci sono state «gravi perdite». A Kabul, nel frattempo, i giochi per il nuovo esecutivo sono fatti: a capo del governo siederà il mullah Baradar, capo dell'ufficio politico e uno dei fondatori dei Talebani, tornato in Afghanistan dopo 20 anni di esilio. Nella squadra, con posizioni di rilievo, ci saranno anche Mohammed Yaqoob, figlio del mullah Omar (che era un amico stretto di Baradani), e Sher Mohammed Abbas Stanekzai. Niente donne, naturalmente. Il nuovo esecutivo, composto esclusivamente da Talebani, sarà varato oggi. Il mondo, intanto, si interroga su quale approccio avere con il nuovo regime islamico di Kabul. Londra non ne vuol sapere di riconoscere i Talebani al potere, limitandosi ad affermare che terrà aperti solo i canali per aiutare gli afghani in difficoltà. Sull'altra sponda dell'Atlantico, invece, si parla di possibile collaborazione con il nuovo emirato afghano, quanto meno sul fronte terrorismo. Il capo di Stato maggiore dell'esercito americano, il generale Mark Milley, ha infatti affermato in una conferenza stampa al Pentagono, che le forze statunitensi potrebbero coordinarsi con quelle talebane per condurre missioni antiterrorismo contro l'isis e altre frange islamiste. Una posizione che riflette in parte quella della Nato. «Non sono i Talebani a preoccuparci, ma l'Isis», ha detto l'alto rappresentante per l'Alleanza Atlantica in Afghanistan Stefano Pontecorvo. «I Talebani ha spiegato devono dimostrare di avere la situazione sotto controllo e non ce l'hanno. La priorità ha aggiunto è dialogare con tutti e riaprire le ambasciate. Non ci sono le necessarie condizioni di sicurezza e l'Isis è una minaccia reale». L'Unione europea, dal canto suo, si muove con i piedi di piombo. Joseph Borrell, responsabile della politica estera Ue, ha sottolineato che l'Unione resta impegnata «nel sostegno della popolazione afghana e per sostenerla ci dovremo impegnare con il nuovo governo in Afghanistan, ma questo non significa riconoscimento. Si tratta di un impegno operativo - ha spiegato che potrà aumentare sulla base del loro comportamento». Borrell ha però elencato una serie di cinque condizioni: Il Paese non deve servire come base per esportare il terrorismo, il rispetto dei diritti umani e dei diritti delle donne, lo stato di diritto e la libertà di stampa, un governo di transizione inclusivo, favorire il libero accesso degli aiuti umanitari e la partenza di cittadini stranieri e afghani che vogliono lasciare il Paese». Condizioni basilari per una nascente democrazia, quindi è altamente improbabile che i Talebani le accettino. Riccardo Pelliccetti

Massoud: 8 giorni fa ho chiesto le armi, me le hanno negate. E gli Usa le hanno lasciate ai Talebani. Roberto Frulli lunedì 23 Agosto 2021 su Il Secolo d'Italia. Quello che era un sospetto imbarazzante sull’incredibile facilità con cui i Talebani sono riusciti ad arrivare velocemente a Kabul e a prendersi 391 provincie dell’Afghanistan razziando armi, blindati e perfino elicotteri che gli Stati Uniti hanno abbandonato sul campo sta diventando, in queste ore una terribile certezza e Ahmad Massoud, il leader della resistenza afghana, chiama in causa direttamente l’amministrazione Biden e l’ex-presidente afghano Ghani, poi fuggito a Doha. In un’intervista al filoso francese Bernard-Henri Lévy pubblicata su "La Repubblica", il figlio del leggendario "Leone del Panshir", svela che pochi giorni fa aveva chiesto di avere armi ma gli sono state rifiutate, quelle stesse armi ora finite in mano ai Talebani che le mostrano con orgoglio umiliando gli Stati Uniti. “I Talebani – mette in guardia Massoud – sono pericolosi. Hanno fatto man bassa nei depositi d’armi degli americani. E non posso certo dimenticare l’errore clamoroso, che rimarrà nella storia, di coloro a cui, fino a otto giorni fa, a Kabul, ho chiesto armi e me le hanno negate. E quelle armi, quell’artiglieria, gli elicotteri, i carri armati di fabbricazione americana, oggi sono finiti proprio nelle mani dei talebani!”. Difficile pensare ad un errore da parte dell’amministrazione Biden e di quella Ghani. Anche alla luce delle dichiarazioni Usa che parlano di contatti ed accordi con i Talebani per esfiltrare in sicurezza i propri concittadini dal teatro afghano. Ma, con l’appoggio degli Stati Uniti o senza, comunque Massoud assicura che non si arrenderà ai Talebani e al loro stato teocratico che calpesta i più elementari diritti, soprattutto quelli delle donne. Singolare che un democratico come Biden non riesca ad afferrare questo concetto sbandierato normalmente negli Stati Uniti proprio dagli stessi democratici. I resistenti del Panshir, dice Massoud, “sono uno scudo contro la barbarie. E non soltanto per il popolo afghano, ma per i liberi cittadini del mondo intero”. “Io sono un uomo di pace e voglio il bene del mio popolo – premette il figlio del "Leone del Panshir". – Pensi se i talebani si mettessero a rispettare i diritti delle donne, delle minoranze; e la democrazia, le basi di una società aperta e tutto il resto”. “Perché rinunciare a dire loro che tali principi avrebbero effetti positivi su tutti gli afghani, talebani compresi? – si chiede Massoud. – Tuttavia ripeto, e torno a ripetere, che non accetterò mai una pace imposta, il cui unico merito sia l’apporto di stabilità. La libertà e i diritti umani sono beni di un valore incalcolabile, non si possono barattare con la stabilità di una prigione”. Comunque con i talebani si può parlare. “Parlare, è una cosa. Parlare si può. In qualsiasi guerra si parla. E mio padre ha sempre parlato con i nemici. Sempre. Persino nei momenti di guerra più aspri. Arrendersi però è un’altra cosa. E le ripeto che non se ne parla, non ci arrenderemo, né io né i miei uomini. Non se ne parla proprio”, avverte. “Nessuna resa, confermo. Preferirei morire, piuttosto che arrendermi. Sono figlio di Ahmad Shah Massud: "resa" è una parola che non esiste, nel mio dizionario – insiste il leader della resistenza. – Abbiamo perso una battaglia, ma non la guerra, e io sono più determinato che mai”. “Non se ne parla di abbandonare la lotta. Anzi, la nostra resistenza, qui nel Panshir, è appena iniziata – avverte Massoud jr. – Le montagne del Panshir hanno una lunga tradizione di resistenza. Né i talebani, prima del 2001, né i sovietici, prima di loro, sono riusciti a violare questo santuario. Credo che anche per oggi continuerà a essere così”. “Sì – dice convinto il capo della resistenza – Restiamo saldi nella tempesta, e il vento finirà per soffiare a nostro favore. Lo farà con più forza se riceveremo aiuto”, conclude lanciando un appello all’Occidente.

Ahmad Massud, considerato il leader della nuova resistenza ai Talebani: «Se vogliono la pace, parlano con noi e lavorano con noi, siamo tutti afghani». Il Dubbio il 22 agosto 2021. «Siamo pronti a formare un governo inclusivo con i talebani attraverso negoziati politici, ma ciò che non è accettabile è la formazione di un governo afghano caratterizzato dall’estremismo, che rappresenterebbe una seria minaccia, non solo per l’Afghanistan ma per la regione e il mondo in generale». Lo ha dichiarato Ahmad Massud, considerato il leader della nuova resistenza ai Talebani, in un’intervista al quotidiano panarabo Asharq al-Awsat. «Siamo pronti a parlare con i talebani, abbiamo già contatti con il movimento, i nostri rappresentanti congiunti si sono incontrati più volte», ha rivelato Massud. Il leader della resistenza ai Talebani ha espresso la sua disponibilità a perdonare l’uccisione di suo padre per la pace e la sicurezza del Paese. «Ho il desiderio e la disponibilità a perdonare il sangue di mio padre per portare pace, sicurezza e stabilità nel Paese», ha detto Massud. Nel 2001, il padre di Massud, il "Leone del Panjshir" Ahmad Shah Massoud, è stato assassinato su istigazione di al-Qaeda e dei talebani in un attentato suicida. «Il Panjshir è l’unica provincia che resiste, l’intero paese è caduto, ma noi teniamo duro», ha aggiunto Massud. Il leader della resistenza ha sottolineato che i talebani non sarebbero in grado di forzare le cose con le armi e che solo la pace dovrebbe prevalere. «Se vogliono la pace, parlano con noi e lavorano con noi, siamo tutti afghani e ci sarà la pace». (ANSA)

La resistenza dell'Afghanistan "Le milizie sconfitte al Nord" Massoud: "È soltanto l'inizio". Andrea Cuomo il 22 Agosto 2021 su Il Giornale. Le tv: "I talebani hanno perso tre distretti al Nord". Il leader del Panshir e le voci di una sua resa: "Non è nel mio vocabolario". Gli occhi del mondo sono sul Panshir, per la terza volta negli ultimi decenni. Una stretta e cupa valle a circa 150 chilometri a Nord-Est di Kabul, vicino ai monti dell'Hindu-Kush. Un territorio aspro, che ai talebani va sempre indigesto. La sua provincia infatti fu l'unica a non finire nelle grinfie dei «soldati coranici» alla fine degli anni Novanta, durante il primo emirato, dopo che anche i sovietici nel loro decennio di occupazione avevano trovato ossi duri qui. E oggi sono di nuovo l'enclave della resistenza al remake del Talebanistan, facendo nascere la speranza nel paese e in tutta la comunità internazionale che una partita che sembra a tutti persa dopo tutto ancora non lo sia. Ad aumentare suggestione e speranze il fatto che la resistenza del Panshir è guidata da Ahmed Shah Massoud, figlio del leggendario «leone del Panshir», suo omonimo, che fu il venerato e rispettato capo dei combattenti musulmani della resistenza afghana dapprima contro l'Unione Sovietica e poi contro i talebani. Il Panshir è l'unica provincia ancora indipendente, dove apparentemente in vecchio governo è ancora in funzione. E anzi venerdì le forze di Massoud junior, guidate sul campo da Abdul Hameed Dadgar, si sono anche espanse, annunciando la riconquista, al termine di sanguinosi combattimenti con sostanziose perdite su entrambi i fronti, dei distretti di Pul-e-Hasar, Deh Salah e Banu nella vicina provincia di Baghlan. Ghani Andarabi, ex capo della polizia locale, ha anche profetizzato che presto cadrà nelle mani dei «partigiani» tutta la provincia. Per questo ha sgomentato la notizia diffusa ieri da Al Jazeera, che ha citato sue fonti, secondo cui Massoud avrebbe incontrato i responsabili regionali dei talebani per presentare loro un piano che includeva le sue condizioni per trattare la resa. Tutto falso, secondo Massoud, che si è affrettato a smentire: «Sono il figlio di Ahmed Shah Massoud. La resa non fa parte del mio vocabolario, questo è inizio, la resistenza è appena iniziata», ha detto il giovane leone in un colloquio telefonico con il filosofo e giornalista francese Bernard-Henry Lèvy, che ha riportato la conversazione su twitter. Ma lo smacco in una piccola provincia non sembra scalfire l'arroganza dei talebani. Che ieri hanno sbeffeggiato gli americani facendosi fotografare e riprendere con le divise e le armi dell'arsenale abbandonato dall'esercito a stelle e strisce. La presa in giro è evidenziata da alcuni tocco poco talebani, come l'uso di occhiali da sole per scimmiottare gli yankee. I «modelli» appartengono all'unità speciale detta Badri 313. In un video postato su Twitter si vedono scorrazzare per le strade ed entrare in una abitazione, esattamente come nei film hollywoodiani. C'è anche una parodia della celebre foto dei Marines che piantano la bandiera Usa sul Monte Suribachi a Iwojima nel 1945: si vedono i talebani nella stessa posa ma il drappo è quello bianco con una scritta del Corano dei soldati di Allah. Fra il 2002 e il 2017 gli Stati Uniti hanno fornito alle forze afghane armi e equipaggiamenti per 28 miliardi di dollari, ma ora «tutto ciò che non è stato distrutto è nelle mani dei talebani», dice preoccupata una fonte americana. La situazione a Kabul intanto è davvero al limite. La gente ha paura, le donne preferiscono restare in casa, continuano i rastrellamenti dei «nemici» dei talebani. E la chiusura delle banche per il settimo giorno consecutivo rende impossibile ai cittadini prelevare denaro e blocca l'erogazione degli stipendi. Secondo quanto riferisce l'agenzia Khaama, questo provocherebbe anche un'impennata del prezzo dei generi di prima necessità. Andrea Cuomo

Massud: “Combatto contro i talebani. E non mi arrenderò”. Bernard-Henri Lévy su La Repubblica il 22 agosto 2021. Riesco a fare questa intervista telefonica la sera del 21 agosto. Ahmad Massud, figlio e continuatore dell'opera del leggendario comandante Ahmad Shah Massud è asserragliato nella valle del Panshir, da dove, poche ore prima del mio colloquio con lui, quando la resa di Kabul era ormai definitva, ha lanciato un vibrante appello alla resistenza. È un uomo tagliato fuori dal mondo. Non ha accesso ad alcun mezzo di comunicazione. I talebani sono accampati nei varchi di ingresso alle vallate, e lo assediano. Le notizie che filtrano dalla zona tendono a insinuare che questo erede, privo di esperienza, di mezzi e di possibilità di fuga nelle retrovie, non potrà resistere a lungo. Contemporaneamente, sui social, si sparge la voce di trattative in corso tra lui e i talebani, e di un imminente annuncio della resa di Massud, come già è accaduto per il resto delle élites afgane. Cosa c'è di vero in tutto ciò? Quali sono le intenzioni e, soprattutto, le capacità di questo ragazzo che ho conosciuto di persona - la fotocopia del padre, nel fisico - proprio qui, un anno fa, e che allora mi confidò i suoi progetti per la democrazia e per i diritti delle donne nel suo paese? Può, una persona che fa la guerra sua malgrado, che ciò che più ama al mondo è realizzare giardini e osservare le stelle, diventare di colpo il Churchill, il De Gaulle, il Mustafa Barzani o anche solo il nuovo Massud di un Afghanistan abbandonato dai propri alleati, alle prese con l'oscurantismo più cieco? Il contatto tra me e lui è stato predisposto dal comandante Muslem Hayat, veterano delle guerre antisovietiche. Ci incontrammo nel 1998, quando guidava la guardia personale di Massud padre e io mi ero recato nel Panshir per un reportage. La linea che il comandate ha installato è sicura ma traballante. La voce mi giunge nitida, con un timbro chiaro, ma frammentata. Sono costretto, quando la conversazione si interrompe, a richiamare e a farmi ripetere le parole. Noto fino a che punto il giovane Massud le soppesi. A volte il suo parere è immediato, ma spesso prende tempo prima di rispondere, ribadisce i propri concetti, riflette. So che per lunghe ore, dopo che ci saremo accomiatati, rileggerà, nel corso della notte e nella giornata di domenica i pensieri che ha voluto affidarmi, e lo farà su un altro servizio di messaggeria criptato. Si gioca molto, in questa situazione. Il destino e la vita, ma anche l'onore e le sorti del suo popolo, di cui, in questo momento, rimane quasi l'unico a incarnarne l'indomabile sete di libertà. Ecco l'enorme fardello che porta sulle sue sole spalle.

Mio caro Ahmad, finalmente! Da giorni tentavo in tutti i modi di raggiungervi...

"Lo so. Mi trovo in un luogo sperduto del Panshir, e qui la connessione è pessima".

Innanzitutto, lei come sta?

"Bene. Come le ho detto la mattina della caduta di Kabul, l'ultima volta che siamo riusciti a sentirci, abbiamo perso una battaglia, ma non la guerra, e io sono più determinato che mai".

Circola notizia, in Europa e negli Stati Uniti, che anche lei si stia preparando ad abbandonare la lotta.

"È solo propaganda. E, a quanto pare, lì da voi ci sono dei disfattisti che confondono i loro desideri con la realtà. Non è affatto così, e la prego di renderlo noto. Non se ne parla di abbandonare la lotta; anzi, la nostra resistenza, qui nel Panshir, è appena iniziata".

Haqqani, il leader dei talebani, ha dichiarato poco fa, via Twitter, che lei stava "battendo in ritirata". Non è vero, quindi.

"Le ripeto che è pura disinformazione".

Me lo dica chiaro e tondo: nessuna resa?

"Nessuna resa, confermo. Preferirei morire, piuttosto che arrendermi. Sono figlio di Ahmad Shah Massud: "resa" è una parola che non esiste, nel mio dizionario".

Nonostante gli americani se ne siano andati? Nonostante gli alleati abbiano tradito e lo Stato sia crollato?

"Quando lei venne a farmi visita, un anno fa, nel mio territorio del Panshir, le dissi che per me mio padre era più di un padre, era stato un mentore. Mio padre non accetterebbe che mi arrendessi".

L'Europa, in proposito, ha dei dubbi. Si dice che lei non è nato per condurre una guerra e che non riuscirà a diventare un guerriero.

"Mio padre mi ha insegnato una cosa: che la forza di un popolo è fatta, ben oltre la disparità dei mezzi fisici, dallo spirito di resistenza. È questo che conta. Bisogna credere con ogni forza nella missione che ci viene assegnata, e questa missione, per me, è irrevocabile, qualunque sia il prezzo da pagare. Mio padre, dentro di sé, questa forza l'aveva, non l'ho mai messo in dubbio. Farò tutto il necessario per dimostrarmi degno del suo esempio, della sua fermezza e del suo coraggio pacato".

Mi scusi se insisto, caro Ahmad, amico mio. Purtroppo la linea è davvero pessima e voglio essere sicuro di aver capito bene. Le voci che dicono che siete in dialogo con i talebani sono quindi false?

"Parlare, è una cosa. Parlare si può. In qualsiasi guerra si parla. E mio padre ha sempre parlato con i nemici. Sempre. Persino nei momenti di guerra più aspri. Arrendersi però è un'altra cosa. E le ripeto che non se ne parla, non ci arrenderemo, né io né i miei uomini. Non se ne parla proprio".

Ma allora, perché parlare?

"Perché io sono un uomo di pace e voglio il bene del mio popolo. Pensi se i talebani si mettessero a rispettare i diritti delle donne, delle minoranze; e la democrazia, le basi di una società aperta e tutto il resto. Perché rinunciare a dire loro che tali principi avrebbero effetti positivi su tutti gli afghani, talebani compresi? Tuttavia ripeto, e torno a ripetere, che non accetterò mai una pace imposta, il cui unico merito sia l'apporto di stabilità. La libertà e i diritti umani sono beni di un valore incalcolabile, non si possono barattare con la stabilità di una prigione".

E quindi, se ho ben capito, lei si mantiene sulle stesse posizioni di una settimana fa, quando lasciò Kabul per raggiungere il suo territorio del Panshir. Non accetta, dunque, il proclama di chi assicura che è tutto finito, che la guerra è stata persa, che continuare a combattere sia inutile...

"Mio padre, quando ero piccolo, mi raccontava del generale De Gaulle, delle sue Memorie, quel libro che proprio lei gli aveva regalato. All'accademia militare di Standurst, dove ho studiato, ho letto anche le memorie di Churchill, che si rivolge al proprio popolo nello stesso periodo storico in cui lo fa De Gaulle: "Non ho altro da offrirvi se non sangue e lacrime; non ci arrenderemo mai". Non so ancora cosa ci riservi la nostra lotta e non oso certo paragonare noi a quei gloriosi esempi. Le assicuro però che li tengo ben presenti, e che m'ispirano enorme rispetto".

Ora, mentre stiamo parlando, teme un assalto dei talebani?

"I talebani sono pericolosi. Hanno fatto man bassa nei depositi d'armi degli americani. E non posso certo dimenticare l'errore clamoroso, che rimarrà nella storia, di coloro a cui, fino a otto giorni fa, a Kabul, ho chiesto armi e me le hanno negate. E quelle armi, quell'artiglieria, gli elicotteri, i carri armati di fabbricazione americana, oggi sono finiti proprio nelle mani dei talebani! Le montagne del Panshir, però, hanno una lunga tradizione di resistenza. Né i talebani, prima del 2001, né i sovietici, prima di loro, sono riusciti a violare questo santuario. Credo che anche per oggi continuerà a essere così".

Alla vigilia della caduta di Kabul, lei, attraverso la mia rivista La Regle du Jeu, ha lanciato un appello al popolo afghano affinché si unisse a voi. A che punto siamo? È stato recepito l'appello?

"Assolutamente sì. Migliaia di uomini stanno per unirsi a noi; tra loro ci sono attivisti, intellettuali, politici, ufficiali dell'esercito afghano. Ed è solo l'inizio".

Come viene dato, di preciso, questo sostegno?

"Arrivano a piedi, a cavallo, in moto, in auto: affrontano pericoli di ogni tipo. E ci raggiungono. Sono molto agguerriti. Sono membri di lunga data delle forze speciali. Rappresentano un solido pilastro per il nostro movimento".

Una guerriglia può sopravvivere quando è priva di vie di fuga in retroguardia? Suo padre poteva contare sul Tagikistan. Fino alla fine ha avuto a disposizione degli elicotteri. Lei non dispone di elicotteri e...

"Sì. Sono equipaggiato. Ma avrò bisogno di mezzi per mantenere operativa questa risorsa".

Allora posso dire al mio paese, agli Stati Uniti, che lei continua a nutrire speranza?

"Sì. Restiamo saldi nella tempesta, e il vento finirà per soffiare a nostro favore. Lo farà con più forza se riceveremo aiuto".

Da parte di chi?

"Da chiunque vorrà prestarcelo. E dal suo paese, spero. Quando sono venuto a Parigi ho incontrato, insieme a lei, il presidente Macron. Sono rimasto molto colpito da quel giovane presidente che ammirava mio padre e il presidente De Gaulle. Non riesco a immaginare che possa lasciarci soli. Sa che i resistenti del Panshir sono uno scudo contro la barbarie. E non soltanto per il popolo afghano, ma per i liberi cittadini del mondo intero".

Traduzione di Monica Rita Bedana

L'ultimo orrore dei talebani: "Rapiscono i bambini della resistenza". Francesco Boezi il 22 Agosto 2021 su Il Giornale. I talebani avanzano verso la resistenza di Massoud. Quattro funzionari hanno raccontato d'incendi e di rapimenti di bambini. I talebani starebbero persino rapendo alcuni bambini. Sono i figli di chi lotta per evitare che l'avanzata copra pure gli ultimi spicchi di territorio rimasto. La notizia, stando a quanto ripercorso dalla Lapresse, è circolata per via delle dichiarazioni di quattro funzionari, che hanno così contribuito a svelare quale sia il clima in Afghanistan durante queste fasi complesse. Un momento in cui è divenuto difficile anche capire quale sia l'entità delle violenze messe in atto. L'organizzazione fondamentalista ha ormai il controllo della nazione. A mancare, al limite, sono le formalità del caso. Non sembrano esistere dubbi su come sarà composto il prossimo governo. Ma c'è chi ha dichiarato di voler opporre una ferma resistenza. Un esercito comandato dal figlio del comandante Massoud, cioè da Ahmad Massoud, sembra essere riuscito ad impensierire le mire degli islamisti. Massoud, il capo della cosiddetta opposizione, è anche disposto a ragionare di un esecutivo in comune, ma solo a certe condizioni. Il figlio del Leone del Panjshir ha chiuso infatti ad ogni ipotesi che riguardasse un governo a trazione estremista. L'atteggiamento dei talebani, per ora, lascia supporre l'inesistenza di qualunque apertura. Il Panjshir è la provincia dove Massoud ed i suoi si sono rintanati. Valeva in passato per il padre, storico combattente anti-talebano, che è morto poco prima dell'undici settembre per via di un attentato terroristico, vale oggi per il figlio. La stezza zona verso cui stanno marciando i talebani, che sembrano intenzionati a piegare sin da subito le ultime forze di opposizione rimaste al loro dominio, senza. E i rapimenti stanno avvenendo prima del Panshir, ma comunque in quella direzione. "Rivolta del popolo" - questa la sigla dei resistenti - opera pure al nord della capitale Kabyl, dove i talebani, secondo quanto raccontato dai funzionari, hanno reagito appiccando il fuoco alle abitazioni incontrate lungo la strada e, appunto, rapendo dei minori. Sono gli stessi fondamentalisti, del resto, a rivendicare la marcia verso il Panshir. Come ripercorso dall'Adnkronos, sul profilo Twitter tramite cui i talebani comunicano al mondo, è comparso un messaggio secondo cui "centinaia di mujahdin dell'Emirato islamico sono diretti verso il Panshir per controllarlo, dopo che funzionari locali hanno rifiutato di arrendersi pacificamente". Non è questa la premessa di chi vuole pacificare quella ed altre province afgane. Nel frattempo, come abbiamo avuto modo di raccontare nel corso del pomeriggio, il primo ministro brittanico Boris Johnson ha svelato l'imminenza di un G7 che potrebbe concentrarsi sulle misure da prendere per assecondare l'evacuazione e sulla necessità che i talebani rispettino i diritti umani di base. Mentre scriviamo, però, va segnalata la possibilità che i talebani attacchino la provincia del Panjshir addirittura prima di martedì. Del resto i fondamentalisti sono stati in grado di prendere il potere con tempistiche brevi ed impreviste per buona parte delle previsioni presentate prima che gli eserciti occidentali abbandonassero l'Afghanistan. Alcuni bambini della resistenza sono comunque finiti nelle mani degli estremisti talebani. Dalla resistenza, però, non sembrano intenzionati a mollare la presa. Uno dei messaggi comunicati da un profilo Twitter riconducibile alla opposizione ramificata in Panjshir è stato questo: "Sono pronti a mandare i diavoli all'inferno prima che entrino per vedere il Paradiso". Uno scontro vero e proprio potrebbe avvenire a breve. Ma con gli eventi afgani è molto difficile fare previsioni.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento

Ahmad, Yaqoob e Sirajuddin: la guerra dei figli. Lorenzo Vita su Inside Over il 22 agosto 2021. Figli passati dall’altra parte di un filo spinato dalle madri ai soldati britannici. È una delle immagini più forti che ci consegna la prima settimana di potere talebano sull’Afghanistan. Una foto che insieme al video dei ragazzi precipitati dall’aereo, alle foto delle prime esecuzioni e agli schiaffi a un giovane con una bandiera ci mostrano l’altro volto dell’Emirato. Non quello della “moderazione” promessa dagli uomini del mullah Abdul Ghani Baradar, ma quella della parte più profonda e radicata del movimento. C’è un filo conduttore che lega queste immagini: i giovani. Neonati, adolescenti o ragazzi di poco più di vent’anni. Sono i figli dell’Afghanistan e di questa guerra le vittime del tradimento. Coloro che sono nati dopo lo scoppio della guerra o che erano troppo piccoli per ricordare cos’era l’Afghanistan prima dell’11 settembre 2001. Figli vittime, ma anche protagonisti. Perché come quelli che protestano, fuggono e vengono lasciati andare nella speranza di un futuro migliore, anche tra chi decide c’è una nuova generazione. Stessi nomi e stessi nemici. Il primo di questi figli afghani è Ahmad Massud, il cui padre era il leggendario “leone del Panjshir”. È lui a guidare la rivolta dalle valli dove il padre aveva combattuto venti anni fa i talebani con i suoi mujaheddin. A lui si è unito l’ex vicepresidente, Amrullah Saleh, vecchio appartenente all’Alleanza del Nord sotto la guida del comandante Massud e autoproclamato presidente dell’Afghanistan. Dai media internazionali, il giovane leone prova a chiamare alle armi più afghani possibili, ma cerca soprattutto di ingraziarsi le potenze internazionali. Il padre ha lasciato il segno: lui spera di fare altrettanto, ripercorrendo la strada del comandante dell’Alleanza del Nord. È il volto più nobile di una guerra che non è mai finita e che ora si può sprigionare in tutta la sua violenza. Membri dell’esercito, signori della guerra e combattenti volontari si stanno riunendo nei villaggi inespugnabili del Panjshir per l’ultima resistenza. Il trentaduenne Massud è un nome che può risvegliare i cuori e le speranze, ma adesso deve combattere una guerra che appare ben più dura di quella mossa dal padre contro i talebani. Dall’altra parte c’è Mohammad Yaqoob, figlio del mullah Omar. Rispetto ad Ahmad Massud, Yaqoob vive lontano dai media, schivo alle telecamere. Con l’avanzata dei talebani in tutto l’Afghanistan, il figlio del famigerato fondatore dei talebani è salito alla ribalta come possibile leader. Dal 2020, cioè da quando si sono attivati gli accordi di Doha con gli Stati Uniti, Yaqoob è stato messo a capo delle operazioni militari in Afghanistan. E questo è già un segnale del favore che prova nei suoi confronti il grande leader Hibatullah Akhundzada. Come spiega il Corriere della Sera, il mullah Yaqoob è oggi un trait d’union tra talebani e Arabia Saudita. E quindi con un alleato di Washington. Forse questo lo aiuterà a salire le scale che lo conducono al trono di Kabul, nella speranza o nell’attesa che Akhundzada rinunci. Ma il mondo degli studenti coranici è diviso al suo interno, moti mullah tra loro si odiano. E le divisioni, su cui soffieranno nemici e potenze interessate ad avere il controllo della transizione e del futuro governo, potrebbero investire proprio il figlio del Mullah Omar. Ma non sono solo loro due i “figli d’arte” di questa lunga guerra. Ce n’è un altro, più oscuro, che adesso può avere la ribalta e il suo momento di gloria, Sirajuddin Haqqani, figlio di Jalaluddin Haqqani, il fondatore della rete del terrore alleata di Osama bin Laden e dei talebani, e che opera al confine con il Pakistan. Sirajuddin ha scalato le vette del potere interno ai taliban fino a diventare uno dei grandi vice di Akhundzada. I membri di Haqqani, più violenti, più liberi e più oltranzisti delle varie ali dl gruppo che ora ha il controllo di Kabul, sono diventati molto influenti sul campo di battaglia e nelle stanze del potere. E il loro capo potrebbe addirittura ambire alla carica di presidente. Waheedullah Hashimi, funzionario talebano, ha spiegato a Reuters che è possibile che un vice di Akhundzada sia messo alla guida dell’Emirato. Uno è Baradar, capo dell’ufficio politico. Gli altri due sono Yaqoob e Jalaluddin, figli di questa guerra, alleati ma non troppo, e che ora hanno un nemico che come loro prende le orme del padre: Ahmad Massoud.

Andrea Nicastro per il “Corriere della Sera” il 19 agosto 2021. La notte del 12 novembre 2001 in Afghanistan era senza nuvole. Una bella luna illuminava chilometri di automezzi talebani in fuga da Kabul verso il rifugio di Quetta in Pakistan. Su camion, auto e moto c'erano soldati, ministri e mullah in rotta, ma anche l'oppio stivato nella Banca Centrale, le armi, persino i mobili. Una squadriglia di cacciabombardieri avrebbe potuto distruggerla con facilità. Invece le risorse talebane arrivarono intatte e finanziarono la rinascita. Perché gli americani non bombardarono? Probabilmente perché non si fidavano di chi, senza il loro consenso, aveva anticipato i tempi e aveva conquistato a piedi la città. Erano i mujaheddin dell'Alleanza del Nord, gli eredi del mitico comandante Massoud che più volte aveva implorato l'Occidente di aiutare la sua resistenza contro l'integralismo islamista. Lo ripetè inascoltato anche 5 mesi prima delle Torri Gemelle a Strasburgo. L'Alleanza del Nord aveva simpatizzanti in Francia (a partire da Bernard-Henri Lévy), ma non a Washington. E i suoi eredi oggi sono nello stesso collo di bottiglia. Massoud era di etnia tajika, i talebani e lo stuolo di governatori e comandanti che si sono arresi durante la fulminea avanzata talebana di settimana scorsa sono pashtun. Come pashtun (di tribù diverse) sono il presidente fuggiasco Ashraf Ghani e i «mediatori» che hanno avuto il coraggio di restare a Kabul per discutere con i talebani di un «governo inclusivo». Tre (e mezzo) su quattro sono pashtun visto che Abdullah Abdullah, ex assistente di Massoud, ha padre pashtun e madre tajika. I pochi che hanno resistito, o almeno ci hanno provato, sono i rappresentanti delle minoranze etniche del Paese: gli uzbeki di Mazar-i-Sharif, i tajiki di Herat, gli hazara di Bamian, i tajiki della valle del Panshir, proprio quella di Massoud, proprio quella dove oggi i talebani del secondo Emirato d'Afghanistan non sono ancora entrati. Unica area dell'immenso Paese. Già la sera di Ferragosto, con il presidente Ghani appena atterrato in Tajikistan, il ministro della Difesa Bismillah Khan Mohammadi scriveva su Twitter: «La maledizione cada su Ghani e la sua gang». E due giorni dopo il vicepresidente Amrullah Saleh rincarava la dose: «Secondo la Costituzione in assenza del presidente il vice presidente ne prende il posto. Io sono all'interno del Paese, quindi sono il legittimo presidente facente funzioni». Mohammadi e Saleh sono entrambi tajiki del Panshir. Nessuno, nella Comunità Internazionale, ha speso una parola per riconoscerlo. Silenzio anche sulle lettere che il figlio del comandante Massoud, Hamad, scrive per il mondo: ad Henry Levy, al Washington Post. Il 32enne Massoud, fresco di master a Londra, cita il Churchill della resistenza «lacrime e sangue», il Roosevelt dell'America «arsenale della democrazia». Parla dei «suoi» mujaheddin, delle «tanti armi accumulate sapendo che questo giorno sarebbe arrivato». Ma chiede aiuto. Sa di non poter resistere da solo. Ieri che era l'anniversario dell'indipendenza nazionale le manifestazioni più partecipate, fotogeniche, pacifiche sono state in Panshir, ma la situazione militare è precaria. I talebani bloccano gli accessi alla valle, le montagne dell'Hindo Kush completano l'accerchiamento. Il giovane Massoud si fa riprendere mentre sale e scende da elicotteri militari. E' possibile abbia anche centomila uomini, armi e spirito combattivo, ma ha bisogno di linee di rifornimento. Suo padre le aveva col Tajikistan, passava da Faizabad ora in mano talebana. Un ponte aereo sarebbe troppo costoso. Piccole scaramucce hanno riportato il confine tra Panshir e «Talibastan» dov' era nel 2001, nella piana di Shamali a 30 chilometri da Kabul. Ma ci vorrebbe un'offensiva su Faisabad per poter resistere più di un inverno. Ci vorrebbero i bombardamenti americani per aprirgli la strada. Per il momento i «panshiri» arruffano il pelo, sperano di strappare al tavolo di mediazione a Kabul una qualche forma di autonomia dai talebani. Dopo anni di odio e sangue è davvero difficile pensare possano convivere o addirittura governare assieme. Il silenzio internazionale sul «presidente legittimo» dell'Afghanistan suona come una campana a morto.

Sfilata di bandiere. Ecco la resistenza di giovani e donne. Ma il regime spara sul seme di libertà. Gian Micalessin il 20 Agosto 2021 su Il Giornale. Da Jalalabad ad Asadabad fino a Kabul: nelle strade con il vessillo nazionale. Le milizie reprimono nel sangue. Ma la miccia della rivolta è accesa. Li abbiamo illusi, traditi, abbandonati. Eppure qualcosa è rimasto. Un seme leggero, germogliato nel fango del voltafaccia. Un seme, raccolto e coltivato per ora da pochi audaci, ma capace di regalar coraggio anche ad altri. E sollevare brezze di speranza. Ce lo suggerisce l'ardimento quasi temerario di chi da Jalalabad, nell'est del paese, fino ad Assadabad, tra le montagne dell'Hindu Kush, e - da ieri pomeriggio - anche a Kabul, non ha paura di sventolare la vecchia bandiera afghana, celebrare l'indipendenza del paese, ripudiare l'oscurantismo dei nuovi padroni. Una rivolta spontanea e sorprendente che marca il paradosso di un 19 agosto, anniversario dell'indipendenza dall'impero inglese, celebrato mentre il paese infila il tunnel di una nuova, tetra dominazione. Ad Assadabad, un centro del Kunar a 19 chilometri dal Pakistan, la rivolta s'accende quando alcuni giovani inneggiano all'indipendenza e issano la bandiera nazionale in piazza. Non è quella bianca dei talebani con i versi della «shahada», la testimonianza di fede dell'Islam. È il tricolore nero, rosso e verde del deposto governo. È quella dell'Afghanistan scioltosi come neve al sole. La risposta dei nuovi signori è inevitabile. Ma i giovani non fuggono. E a loro s'unisce una folla di un centinaio di persone. Difendono il loro simbolo, accoltellano uno dei barbuti. A quel punto i kalashnikov talebani sparano a raffica, uccidono due manifestanti mentre gli altri fuggono. Ma non è finita. Alla rivolta della piccola Assadabad segue quella della grande Kabul. D'improvviso un tricolore lungo 200 metri trascinato da un gruppo di donne in burqa attraversa il centro inseguito da un corteo di centinaia di persone. In un attimo le voci si uniscono in un solo grido «Lunga vita all'Afghanistan. La nostra bandiera è la nostra identità». È una sfida aperta all'emirato, ma i talebani, forse sorpresi, forse fedeli al canovaccio che li vede interpreti di un'inattesa moderazione, non hanno il tempo di reagire. L'inattesa clemenza fa a pugni con la violenza registrata 24 ore prima a Jalalabad dove i talebani hanno sparato ad altezza d'uomo uccidendo cinque dimostranti. E mentre tra le strade di Jalalabad si continua a sparare e morire, resta assai difficile dire se tutto ciò sia un fuoco di paglia o una nuova resistenza. Di certo i sussulti di Jalalabad, Assadabad e Kabul non sono cosa da poco. Nel 1996 quando i talebani conquistarono per la prima volta il paese, nessuno pensò a scappare. O a protestare. Allora nessuno s'indignò davanti a un integralismo opprimente deciso a spegnere radio e televisori, segregare le donne, sgozzare gli apostati e mozzare mani e piedi a ladruncoli e delinquenti. Allora quell'ordine nuovo era sconosciuto, ma anche benvenuto. Metteva fine alle razzie, alle violenze dei capi mujhaeddin che, ritiratisi i sovietici, si erano trasformati in arroganti signori della guerra. Stavolta è diverso. Nonostante gli innumerevoli errori, la presenza occidentale s'è lasciata dietro illusioni forse avventate, ma irrinunciabili. Nel nome delle quali le donne non accettano di tornare prigioniere dei burqa e gli abitanti delle città non si riconoscono più negli ordini di un mullah o nella legge del Corano. Nonostante i nostri voltafaccia, gli afghani non dimenticano l'ebbrezza della libertà. Non scordano il sogno di un Afghanistan capace di misurarsi con il resto del mondo. E non tollerano l'inganno talebano. Sono i primi a non credere alla favola dei «tale-buoni» migliorati con il tempo, a ricordarci che anche i terroristi dell'Isis distribuivano video e maneggiavano telefonini, ma non per questo erano democratici e clementi. Gridano «la bandiera è la nostra identità». E c'insegnano il coraggio di combattere nel nome di quello che abbiamo loro insegnato.

Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria passando per le guerre della Ex

Afghanistan, la stretta dei talebani. Ma nel Nord nasce il fronte della resistenza. Giampaolo Cadalanu su La Repubblica il 18 agosto 2021. "Voi avete gli orologi, ma noi possediamo il tempo": ancora una volta si è rivelato corretto il motto che la leggenda attribuisce ai guerrieri afghani. Che affrontino i moschetti delle truppe imperiali di Sua maestà britannica, gli elicotteri d'assalto dell'Armata rossa o i droni lanciamissili dei marines, dalla loro hanno armi vincenti come la tenacia e l'incapacità di cedere, anche a costo della vita. E la prova più evidente è il ritorno dei delegati talebani di Doha a Kandahar, nella città dove il mullah Omar si proclamò Emiro dei credenti, sotto il mantello che fu del Profeta. Abdul Ghani Baradar ha molti capelli bianchi in più, rispetto a vent'anni fa, quando è cominciato il suo esilio in Pakistan. E per leggere i proclami deve far affidamento sugli occhiali. Ma è sempre lui, l'uomo che aveva concordato con suo cognato la necessità di dare un coordinamento a quei giovani pii, studenti di madrassa, per schierarli a combattere contro gli abusi dei signori della guerra e a imporre la legge dell'islam al Paese. È sempre il co-fondatore degli "studenti coranici", l'uomo che guidava la motocicletta cinese imitazione delle Honda su cui Omar riuscì a sottrarsi alla cattura. È l'uomo che ha aperto vie di trattativa con il governo di Kabul, che ha atteso paziente nelle carceri pachistane fin quando gli americani ne hanno preteso la liberazione, che ha condotto i negoziati sotto l'ala protettiva del Qatar e ha firmato un accordo di pace con gli Stati Uniti che molti considerano l'atto di capitolazione dell'Occidente. È l'uomo che oggi a Kandahar ritorna da vincitore, da padrone del tempo.

È il numero due dei talebani, come l'erede della rete Haqqani Sirajuddin e il figlio del mullah Omar, Yakoob. Ma è anche la figura più conosciuta e carismatica, ben oltre il leader supremo Haibatullah Akhundzada, abile comandante ma forse indebolito dal Covid e tuttora lontano dalla ribalta politica. Dunque sarà Baradar a gestire la transizione, curando la nascita di un governo "islamico ma inclusivo", qualsiasi cosa questa formula voglia dire nel concreto. Farà appello al suo famoso pragmatismo. Ma non sarà un compito facile: se le prime esplorazioni sono già partite, con delegati talebani che hanno incontrato l'ex presidente Hamid Karzai, le basi di un possibile governo "inclusivo" sono lontane. Secondo le dichiarazioni di un portavoce all'agenzia Reuters, gli studenti coranici non accetteranno mezzi termini: l'Afghanistan sarà governato da un consiglio presieduto dal mullah Akhundzada, sulla base della sharia. Servirà tutta la capacità diplomatica di Baradar per lavorare su questi concetti. E non tutti saranno pronti ad accettare una cornice così stretta. I primi disordini, a Jalalabad, sono stati repressi duramente, con almeno tre morti. E il vero volto dei talebani si rivela con la distruzione delle statue - come quella del guerriero hazara Abdul Ali Mazari - e la copertura delle immagini femminili in mezzo Paese. Il tempo non ha corretto gli eccessi. Ma come venti anni fa e oltre, c'è un angolo dell'Afghanistan dove la minaccia dei talebani non arriva, e dove invece vive il mito. Nel nome venerato di Ahmad Shah Massud, la valle del Panshir si prepara alla resistenza. La comunità di etnia prevalentemente tagika non ha mai smesso di ricordare che qui gli "studenti coranici" non sono mai entrati. E se il figlio di Massud, Ahmad, è forse troppo giovane - e sicuramente troppo "occidentalizzato", fra scuola militare di Sandhurst e laurea al King's College - per raccogliere il retaggio del padre, adesso dal Panshir arriva anche la voce di Amrullah Saleh. Mentre il presidente Ashraf Ghani si rifugiava negli Emirati arabi (da cui ieri prometteva un rapido rientro), il suo vice decideva di non abbandonare il Paese, ma sceglieva la valle e la protezione dell'Hindu Kush. E rivendicava su Twitter il suo ruolo, sottolineando che quando il capo dello Stato è impossibilitato, tocca al suo numero due governare. Una dichiarazione di guerra completa, come forse era prevedibile dall'ex capo dei servizi segreti Nds, in passato uomo di fiducia di Massud, che negli ultimi anni si è profilato come irriducibile anti-talebani e nemico del Pakistan. E questo mentre il Dipartimento di Stato americano avverte che i talebani non hanno rispettato i patti, impedendo agli afghani di raggiungere l'aeroporto di Kabul: "Hanno tradito la promessa, contrariamente alle loro dichiarazioni pubbliche", ha detto Wendy Sherman, numero due della diplomazia americana. Una frase che apre scenari inattesi. Lo scenario, insomma, torna quello di oltre vent'anni fa. Il tempo è passato, poco è cambiato. Di diverso c'è la tragedia dei civili uccisi, il dolore delle vittime militari, lo strazio della devastazione ancora maggiore nel Paese. Oltre, naturalmente, alla gioia e ai floridi bilanci dei mercanti d'armi.

Sul fronte Kabul con le milizie anti talebani. Francesca Mannocchi su L'Espresso il 14 agosto 2021. “Siamo come in guerra santa”. La capitale è vicina all’assedio e l’esercito si arrende o diserta. Solo tre anni fa nelle campagne di Bati Kot, nella provincia di Nangarhar, i civili combattevano contro l’Isis insieme ai talebani e all’esercito regolare afgano. A pensarlo oggi, sembra fantascienza. Suileiman Sha Khpalwak è il governatore del distretto e il capo della milizia di zona, uno dei gruppi armati tornati protagonisti in Afghanistan dopo l’inizio dell’offensiva dei talebani lo scorso maggio: «Il Profeta ci ha insegnato a rispettare gli avversari, l’Islam ha le sue leggi e anche la guerra le ha. I talebani non rispettano né le une né le altre e noi non rispettiamo loro. Quando una parte del corpo si infetta, se rischia di trasmettere l’infezione all’intero corpo va tagliata via». Il gruppo armato di Bati Kot conta seicento uomini, un piccolo esercito semi-regolare, finanziato ufficialmente da notabili locali ma da tempo anche sostenuto dai servizi segreti, come le altre milizie. «Gli anziani del distretto hanno reclutato i giovani migliori, rispettando le famiglie: se ci sono due figli maschi, solo uno va a combattere. Se muore e si aggiunge alla lista dei nostri martiri, almeno resta un uomo in famiglia». Il veicolo attraversa strade brulle di campagna, le coltivazioni circondano case di terra, gli uomini salutano in segno di rispetto. Sha Khpalwak scende dal veicolo scortato dai suoi uomini armati, è il primo dei sette check point del distretto. I talebani sono a pochi chilometri di distanza. Il governatore sostiene ancora il fragile governo di Ghani, «all’inizio non si fidavano, ora non possono fare a meno di noi», e non critica il ritiro delle truppe americane: «Non potevano restare qui per sempre. Li abbiamo ringraziati per essere venuti, ora li ringraziamo per essersene andati. Il ritiro delle truppe americane è un’opportunità, non una sciagura». Opportunità. Lo ripete, animatamente, mentre i suoi uomini non riescono a nascondere lo scetticismo. Le notizie che arrivano dalle province assediate non sono buone. Cade Kunduz, cade Herat, la terza città più grande dell’Afghanistan. Cade Ghazni il capoluogo di provincia distante solo 150 chilometri da Kabul che si trova sul principale asse che collega la capitale a Kandahar. I talebani attaccano Wardak e Logar, a poche decine di chilometri da Kabul. Prendere Ghazni significa tagliare le linee di rifornimento dell’esercito. Ma è anche un passo avanti nell’accerchiamento della capitale invasa negli ultimi giorni da un flusso ininterrotto di sfollati in fuga dai combattimenti. 25 mila in pochi giorni. Mentre l’esercito viene sconfitto o diserta, sono le milizie a restare a combattere, come quella di Sha Khpalwak, che presidia la strategica strada che da Kabul, passando per Jalalabad, conduce in Pakistan: «Non chiamateci milizie – dice – siamo forze di resistenza. E questa non è una guerra civile. Definirla una guerra civile fa comodo all’Occidente e ai talebani. È vero, siamo tutti afgani, ma la nostra è una guerra santa contro la guerra dei traditori». Nonostante venti anni di addestramento le forze armate afgane non sono riuscite ad arginare l’avanzata dei gruppi talebani; e il governo di Ashraf Ghani, inizialmente recalcitrante a chiedere supporto ai vecchi signori della guerra, si è dovuto arrendere. L’11 agosto ha lasciato il Palazzo Presidenziale e si è recato a Mazar-e-Sharif per incontrare due signori della guerra, Abdul Rachid Dostum e Mohamed Atta Noor, già protagonisti in passato dell’Allenza del Nord, la coalizione di forze creata nel 2001 per contrastare i talebani. È evidente che il presidente Ghani consideri i colloqui di pace con i talebani ormai un capitolo chiuso e stia cercando di cooperare con i signori della guerra per rafforzare la protezione di Kabul e rallentare un eventuale attacco alla capitale. Ma se oggi la loro presenza sembra necessaria, è sul futuro che ci sono interrogativi aperti: «L’Afghanistan ha già avuto esperienze di milizie in passato e non sono state positive. È da queste milizie che sono nati i signori della guerra che hanno accumulato ricchezze, e diffuso pratiche corruttive – dice Fahim Sadat, capo del Dipartimento di relazioni internazionali alla Kardan University di Kabul – Ora assistiamo di nuovo a una mobilitazione popolare. Ma se il governo dovesse cadere, le milizie avranno nuova linfa e rischiamo di tornare a trent’anni fa: il Paese isolato dal mondo e i signori della guerra che la fanno da padroni». I volti, infatti, sono gli stessi di venti anni fa: Abdul Rashid Dostun, il generale uzbeko noto per la sua ferocia verso i nemici che ha riformato un gruppo armato e dichiarato che i suoi uomini combatteranno fino all’ultima goccia di sangue; o Ismail Khan, che solo pochi mesi fa ha annunciato di avere il supporto di 500 mila persone per combattere i talebani e ieri è stato fotografato con un gruppo di talebani a Herat. Difficile stabilire quale delle indiscrezioni di queste ore sia vera, se il suo arresto o il suo cambio di casacca. Certamente il futuro prossimo della capitale Kabul e quello del Paese dipenderanno anche dalle alleanze che le milizie locali decideranno di stringere, dipenderanno cioè dai loro obiettivi: se lotteranno per difendere il governo o i loro feudi di potere e di interesse. Con la capitale che rischia di essere sotto assedio in pochi giorni, la locuzione “colloqui di pace” viene usata con sempre maggiore parsimonia. I miliziani, sul campo, sono sicuri che ministri e funzionari si metteranno in salvo, lasciando il Paese prima di essere catturati. «Resteremo noi a combattere e ci riprenderemo l’Afghanistan» dice Abdul Qaher, uno dei giovani soldati della milizia di Bati Kot, 28 anni. Suo padre, Mohamad Taher Darwish, coordinava 350 uomini, è stato ucciso da un agguato dei talebani. Lui, dunque, è meno moderato del governatore. «Opportunità? Gli americani hanno firmato l’accordo con i talebani senza coinvolgere il governo e li hanno rafforzati. Non sono cambiati dal 2001. E sono sempre qui, e quindi: qual è il risultato di cui si vantano gli americani?». Per Abdul Qaher non esiste negoziazione possibile, né potere condiviso: «Per parlare bisogna smettere di combattere. Ora stiamo combattendo, non è più il momento delle parole di questa che è già una guerra civile: guardati intorno, non c’è altro modo per descriverla».

(ANSA-AFP il 16 agosto 2021) Ahmad Massoud, figlio del comandante afghano Ahmed Shah Massoud che combatté i sovietici e i talebani prima di essere ucciso nel 2001, ha lanciato un appello agli afghani a unirsi a lui per resistere ai jihadisti che hanno preso il potere in Afghanistan, e chiede agli "amici della libertà" stranieri di aiutare il suo Paese. "Siamo nella situazione dell'Europa del 1940", ha scritto citando Winston Churchill e Charles de Gaulle per spiegare la causa della resistenza sgli occidentali: "Mi rivolgo a voi tutti, in Francia, in Europa, in America, nel mondo arabo, ovunque, che ci avete tanto aiutato nella nostra lotta per la libertà, contro i sovietici in passato, contro i talebani 20 anni fa: ci aiuterete, cari amici della libertà, ancora una volta come avete fatto in passato? La nostra fiducia in voi, nonostante il tradimento di qualcuno, è grande". Ahmad Massoud ritiene che, "nonostante la debacle totale", "non tutto sia perduto". "Siamo nella stessa situazione dell'Europa del 1940", ha scritto citando Winston Churchill e Charles de Gaulle per spiegare la causa della resistenza agli occidentali: "Mi rivolgo a voi tutti, in Francia, in Europa, in America, nel mondo arabo, ovunque, che ci avete tanto aiutato nella nostra lotta per la libertà, contro i sovietici in passato, contro i talebani 20 anni fa: ci aiuterete, cari amici della libertà, ancora una volta come avete fatto in passato? La nostra fiducia in voi, nonostante il tradimento di qualcuno, è grande". Ahmad Massoud, che dirige una formazione politica chiamata "Fronte per la resistenza", "supplicava" Bernard-Henri Lévy "di intervenire a Parigi" per ottenere il sostegno della Francia. 

L’appello di Massud. Il Panjshir prova l’ultima resistenza. Lorenzo Vita su Inside Over il 17 agosto 2021. Oggi come 25 anni fa, c’è una parte dell’Afghanistan che prova a resistere. È la valle del Panjshir, a circa 150 chilometri a nord di Kabul. È lì, tra i villaggi che hanno resistito ai sovietici e ai talebani, che oggi si cerca di evitare il dilagare dell’Emirato islamico. Una resistenza che adesso sembra possa avere un leader il cui nome ha il sapore della leggenda: Massud. In questo caso di Ahmad, il figlio del leggendario comandante, che ha deciso di lanciare un ultimo disperato appello agli afghani pubblicato per primo da La Rege du Jeu, diretto da Bernard-Henri Levy. “Popolo afghano, Mujaheddin, amici della libertà ovunque nel mondo! La tirannia trionfa in Afghanistan. La schiavitù si instaura con chiasso e con furore. La vendetta odiosa si abbatterà sul nostro Paese martire. Kabul già geme. La nostra patria è in catene. Tutto è perduto? No”, scrive Ahmad Massud. “Ho ricevuto in eredità da mio padre, l’eroe nazionale e comandante Massud, la sua lotta per la libertà degli afghani. La sua guerra oramai è la mia. I miei compagni d’armi e io stesso daremo il nostro sangue, con tutti gli afghani liberi che rifiutano la schiavitù e che io esorto a raggiungermi nella nostra roccaforte del Panjshir, ultima regione libera nel nostro Paese in agonia”. L’appello è verso tutti gli afghani, le tribù del Paese, gli uomini fuggiti in altri Stati in questi anni, alle potenze internazionali. È un appello per chiedere aiuto al mondo: chi ha aiutato gli afghani contro i sovietici e contro i talebani, adesso non può abbandonare i combattenti che provano un’ultima disperata resistenza nella valle del Panjshir. Per l’Afghanistan, si tratta forse di un’ultima flebile speranza nel ricordo di un nome che per il Paese è stato un eroe nazionale. Fu lui a costruire l’unica alleanza in grado di resistere ai talebani compattando i signori della guerra nel Fronte islamico unito per la salvezza dell’Afghanistan, l’Alleanza del Nord. Ed è grazie ai Mujaheddin se riuscì a fare del Panjshir una fortezza inespugnabile. Arroccato tra le montagne, il “Leone”, come venne soprannominato, preservò la vallata da prima dall’arrivo dell’Armata rossa e poi dagli islamisti. Ed è nel ricordo di Massud e nella speranza riposta nel figlio, Ahmad, che tanti sperano che quel Panjshir sia di nuovo il santuario della resistenza contro i talebani. “Noi afghani siamo nella stessa situazione dell’Europa nel 1940. Siamo rimasti soli” scrive Ahmad. E conclude con un appello che prova a riaccendere i cuori disperati: “Unitevi a noi, in spirito o con un sostegno diretto. Siate, amici della libertà, il più possibile numerosi al nostro fianco. Insieme scriveremo una nuova pagina nella storia dell’Afghanistan. Sarà un nuovo capitolo dell’eterna resistenza degli oppressi contro la tirannia”. La condizione sul campo appare tuttavia molto difficile. Nel Panjshir sono confluite anche le ultime truppe dell’esercito regolare che si sono salvate arrendendosi formalmente ai talebani. Anche l’ex vicepresidente, Amrullah Saleh, sembra che si sia unito al figlio di Massud nella speranza di costruire un fronte di resistenza simile, ma non certo uguale, all’Alleanza del Nord. “Non tradirò la mia anima e l’eredità del mio eroe Ahmad Shah Massud, il comandante, la leggenda e la guida. Mai sarò sotto lo stesso tetto con i talebani” ha detto Saleh. Ma la speranza si poggia su fondamenta molto fragili, a cui sembra che basti una spallata per dare il colpo definitivo. Voci incontrollate sui canali Telegram parlano di un Panjshir già circondato o praticamente conquistato dalle truppe talebane. Alcuni temono per la vita di Ahmad, mentre tanti puntano il dito sull’arrendevolezza e sulla debolezza dimostrata dai signori della guerra. Quei rappresentati del potere locale che un tempo sfidavano apertamente i talebani hanno dimostrato di non avere alcuna voglia di combattere di fronte all’avanzata inarrestabile degli insorti. Sono loro, più che le forze di sicurezza afghane, a controllare il Panjshir. E i precedenti non destano particolare ottimismo.

La censura politicamente corretta.

Martina Pennisi per corriere.it il 18 agosto 2021. Ci risiamo. Come in occasione di ogni evento di portata storica, ormai, il mondo si capovolge nella sua versione digitale e ci costringe a riflettere e ragionare su un doppio binario. Martedì uno dei portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, ha invitato i giornalisti a chiedere a Facebook, «che si dice promotore della libertà di parola», perché impedisce al movimento che ha preso il potere in Afghanistan di pubblicare contenuti su Facebook e Instagram e usare Whatsapp. La risposta è in apparenza facile e l’ha data il colosso di Menlo Park stesso, senza commentare direttamente la dichiarazione di Mujahid ma spiegando la posizione dell’azienda in un nota: «I talebani sono sanzionati come organizzazione terroristica dalla legge degli Stati Uniti e sono banditi dai nostri servizi in quanto organizzazioni pericolose. Questo significa che rimuoviamo gli account gestiti da o per conto dei talebani e vietiamo lodi, supporto e rappresentanza» del loro movimento. Quindi: seguendo la sua regola sulle «organizzazioni pericolose» anche offline, la stessa che in Italia aveva portato all’esclusione di CasaPound (poi riammessa dal Tribunale di Roma) ed è applicata ai talebani da «molti anni», Facebook prova a individuare con un «team di esperti afgani» i contenuti e i profili dei talebani o legati ai talebani su Facebook e Instagram per rimuoverli. Su Whatsapp, dove i messaggi sono criptati e dunque non intercettabili, sono stati chiusi numeri di assistenza e altri canali ufficiali usati dal movimento, come racconta oggi il Financial Times. Menlo Park rivendica la sua linea — indiscutibile e garantista se la si accosta alle violenze di questi giorni, e anni — nelle stesse ore in cui i leader e le potenze mondiali aprono a quello che prova a configurarsi come un nuovo governo in Afghanistan. Citiamo i principali. Ned Price, portavoce del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti : «Come i nostri partner nella comunità internazionale, noi sosteniamo un’intesa politica che crediamo dia le migliori possibilità di offrire protezione e inclusione per il popolo afghano». Hua Chunying, portavoce del ministero degli Esteri della Cina : «La Cina rispetta il diritto del popolo afghano di determinare in modo indipendente il proprio destino e futuro, ed è disposta a continuare a sviluppare relazioni amichevoli e di cooperazione». Josep Borrell, alto rappresentante della politica estera dell’Unione europea : «Dovremo metterci in contatto con le autorità a Kabul, chiunque ci sia, i talebani hanno vinto la guerra quindi dobbiamo parlare con loro». Siamo al punto, ampiamente previsto, in cui la mutevolezza e la complessità del panorama politico internazionale mal si sposano con le regole decise e applicate, spesso arbitrariamente, da un potente privato.  La domanda da porsi non è Può e deve Facebook zittire i talebani? O I talebani devono poter governare ed esprimersi sui social? Non è questo il punto e la sede per chiederselo, ma Può e potrà Facebook zittire (o provare a farlo) un eventuale governo legittimato anche a livello internazionale, seppur dopo il rovesciamento di un esecutivo eletto? Ancora meglio, e di nuovo: sta a Facebook o a piattaforme analoghe decidere come intervenire e quando cambiare eventualmente rotta? Se sì, come? Appellandosi a quali leggi e di quale Paese? Con quale processo decisionale? Non a caso, esprimendosi sulla sospensione dell’ex presidente Usa Donald Trump dello scorso gennaio, il comitato indipendente nominato da Facebook per vigilare e ragionare sulle scelte della piattaforma aveva chiesto norme interne più chiare per il delicato confine fra libertà d’espressione e discorso politico. Nella sua nota, il colosso di Mark Zuckerberg ribadisce che «indipendentemente da chi detiene il potere, intraprenderemo le azioni appropriate contro gli account e i contenuti che violano le nostre regole». Cosa fanno le altre piattaforme? Twitter si è limitato ad assicurare che «vigilerà» per far rispettare le sue regole, che non permettono di incitare alla violenza o promuovere atti di terrorismo — e hanno portato alla rimozione di Trump. Intanto i portavoce dei talebani si rivolgono quotidianamente ai propri follower. In una nota Youtube di Google sottolinea di rispettare «tutte le sanzioni applicabili e le leggi che regolano la conformità commerciale, comprese le sanzioni statunitensi pertinenti (il riferimento è alle liste del Dipartimento del Tesoro, ndr). Pertanto, se individuiamo un account ritenuto di proprietà e gestito dai talebani afghani, lo chiudiamo. Inoltre, le nostre norme vietano i contenuti che incitano alla violenza». TikTok della cinese Bytedance ha assunto una posizione analoga a quella di Facebook: i talebani sono considerati un’organizzazione terroristica, e in quanto tale banditi.

Giovanni Sofia per tag43.it il 30 agosto 2021. Twitter, Facebook e più in generale i social network. Ci stanno provando i talebani a trasferire attraverso il web un messaggio diverso rispetto a quello diffuso dalla narrazione internazionale. Un tentativo tanto insolito, quanto complicato, data la decisione diverse piattaforme di vietare la diffusione di messaggi ai nuovi governatori dell’Afghanistan. Emerge comunque nitida l’inversione di tendenza rispetto al passato, quando l’uso della Rete tra gli studenti di Dio era opzione non contemplata. Un atteggiamento evidente anche nella critica rivolta a Mark Zuckerberg dal portavoce del gruppo Zabihullah Mujahid, durante la prima conferenza pubblica del nuovo governo. In quell’occasione, i talebani non hanno lesinato accuse all’Occidente, colpevole di farsi garante della libertà di parola, ma di smentirla nei fatti. Tali sarebbero valutate le chiusure dei profili, da Facebook e WhatsApp. C’è di più, perché se i talebani non vogliono gli americani nel Paese è pur vero che ne attingono a piene mani la tecnologia. A testimoniarlo, su tutti, gli account Twitter, non verificati, di numerosi esponenti di punta del gruppo. Tra loro, Mujahid e Suhail Shaheen, bacini da oltre 300 mila follower. «Le varie piattaforme di social media e le applicazioni di messaggistica hanno avuto un ruolo cruciale nella strategia mediatica dei talebani», ha affermato alla Cnn Weeda Mehran, docente ed esperto di Afghanistan presso l’Università di Exeter, nel Regno Unito, che si concentra sulla propaganda dei gruppi estremisti. Finora, infatti, gran parte dell’attenzione del gruppo è stata rivolta alla creazione di un’immagine più sana, meno brutale se paragonata al primo governo. «In questo senso Facebook e Twitter diventano e fondamentali, sia in ambito interno che nelle relazioni di politica estera», ribadisce Safiya Ghori-Ahmad, direttore della società di consulenza politica McLarty Associates ed ex consigliere del Dipartimento di Stato per l’Afghanistan. «Un ribaltamento dovuto al gran numero di smartphone oggi presenti nel Paese e alla conseguente proliferazione di app e social». L’attuale “simpatia” dei talebani verso media e tecnologia, come accennato, è in netto contrasto con quanto accadeva a cavallo fra gli Anni 90 e 2000. Allora vigeva il divieto non solo di utilizzare la televisione, ma anche il neonato web. Una decisione drastica, giustificata dalla volontà di contrastare apertamente «cose sbagliate, oscene, immorali e contro l’Islam». Eppure da lì a poco sarebbe cominciata la rivoluzione tech. Secondo Mehran, i talebani cominciarono ad avvicinarsi alla Rete proprio dal 2001, con l’estromissione dal potere. In quegli anni pubblicavano video e condividevano i primi messaggi online. Successivamente, la naturale evoluzione è stata quindi la scoperta di piattaforme come Facebook, Twitter, WhatsApp e Telegram. Una svolta impossibile senza la capillare diffusione di internet, concretizzatasi progressivamente in tutto l’Afghanistan. Nel 2019, il Paese contava quasi 10 milioni di persone in grado di navigare sul web, oltre il doppio (23 milioni) possedeva un cellulare. L’89 per cento degli afghani, poi, poteva già accedere ai servizi di telecomunicazione. Sono gli ultimi dati disponibili del ministero delle Comunicazioni e dell’informatica del Paese che conta, secondo alcune stime, 3 milioni di account Facebook. Numeri importanti che spiegano anche perché piuttosto che vietarli, i talebani stiano cercando delle soluzioni per aggirare la censura da social. Non esattamente un’impresa semplice dato il controllo stringente di Facebook, Instagram e WhatsApp, che proprio di recente ha chiuso oltre a molti account anche una linea di assistenza talebana. D’altronde, afferma la società di Menlo Park: «I talebani sono sanzionati come organizzazione terroristica secondo la legge degli Stati Uniti e li abbiamo banditi dai nostri servizi conformemente alle politiche sulla Dangerous Organization». Lo stesso vale per WhatsApp: «Abbiamo il dovere di omologarci alle norme americane sulle sanzioni, che includono il divieto per account che riconducono talebani». Anche YouTube ha ribadito che continuerà a chiudere gli account gestiti dai talebani. Rimane Twitter che non ha bandito gli account talebani, ma ha come priorità assoluta proteggere la sicurezza degli utenti «per cui rimaniamo vigili». Stagliate simili premesse «appare improbabile che i talebani spingano per una dismissione di internet dall’Afghanistan», ha aggiunto Ghori-Ahmad. In un tira e molla del genere, uno spartiacque decisivo potrebbe essere rappresentato dal riconoscimento del nuovo governo afgano da parte della comunità internazionale: «Se ciò accadesse, sarebbe difficile per Facebook e YouTube giustificare l’esclusione del gruppo militante dalla piattaforma», spiega Mehran. Il vero problema per i talebani, tuttavia, potrebbe non essere ciò che dice il gruppo, ma la libertà che ne deriverebbe per la popolazione. Il dissenso negli ultimi giorni ha viaggiato veloce online, con video delle proteste per le strade di Kabul che hanno raccolto grande solidarietà nel mondo. Non è da escludere che per frenarla i talebani limitino l’accesso a Internet nel Paese. «Guardando al futuro, vorranno certamente usare la tecnologia per i propri scopi di propaganda e pubbliche relazioni», ha affermato Madiha Afzal, membro del programma di politica estera della Brookings Institution. «Ma ora che hanno preso il controllo dell‘Afghanistan, con ogni probabilità vorranno contemporaneamente limitare l’accesso ai social media alla popolazione. Piattaforme come Twitter e WhatsApp dovranno capire come affrontare la propaganda dei talebani, cercando comunque garantire l’utilizzo degli strumenti alla gente comune». Che nell’idea degli studenti di Dio, dovrebbe essere comunque conforme alla legge islamica. Le app, dal canto loro ci stanno provando. Twitter è concentrata sulla rimozione dei contenuti più vecchi e sulla sospensione temporanea degli account, nel caso in cui gli utenti afghani non siano in grado di accedervi. Si tratta di post che potrebbero, infatti, prestare il fianco alle ritorsioni dei talebani. LinkedIn «ha preso alcune misure temporanee, come limitare la visibilità delle connessioni e aiutare i membri nel Paese a nascondere i propri profili». Precauzioni fondamentali, perché sebbene il nuovo governo tenda a proiettare un’immagine di sé più moderata, non ci sono garanzie che l’atteggiamento duri nel tempo.

"Portavoce dei talebani fa propaganda su Twitter. Trump bannato a vita". Francesca Galici il 16 Agosto 2021 su Il Giornale. Il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid fa propaganda su Twitter mentre Trump è stato bannato: è polemica per il metro di valutazione. Il caos in Afghanistan avrà conseguenze sull'Occidente già nel medio periodo. Il Paese è piombato in una delle sue notti più nere e le immagini che arrivano da Kabul sono inquietanti. La classe dirigente ha già lasciato il Paese mentre per i civili non ci sono voli commerciali per uscire dall'Afghanistan. Gli unici aerei autorizzati al decollo sono quelli militari e talmente è grande la paura che qualcuno ha addirittura pensato di aggrapparsi alla fusoliera dei velivoli in decollo. Immagini scioccanti che fanno da contraltare alle dichiarazioni social di Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani, libero di effettuare la sua propaganda su Twitter. Mentre Zabihullah Mujahid può spiegare via Twitter che "tutti dovrebbero restare a Kabul con piena fiducia" nonostante chiunque sia a conoscenza di cosa significhi l'insediamento dei talebani in Afghanistan, all'ex presidente degli Stati Uniti d'America è stato vietato in modo permanente di crearsi un account social. Una sostanziale differenza di trattamento sulla quale ora in tanti lamentano una discriminazione ingiustificabile. Anche Giorgia Meloni in queste ore ha voluto mettere l'accento su questo aspetto attraverso un post condiviso su Twitter: "Il profilo Twitter del portavoce dei talebani è attivo e funzionante, svolge le sue funzioni di propaganda e agisce da megafono per gli integralisti islamici in Afghanistan. Donald Trump (ex Presidente degli Stati Uniti) invece è stato bannato a vita da Twitter. Pazzesco". Un pensiero condiviso da molti, che accusano i social network di avere "stabilito chi sono i buoni e chi i cattivi". Giorgia Meloni sulla questione afgana ha le idee molto chiare e guarda la situazione in ottica futura con una forte critica all'operato del democratico Biden: "Disastrosa gestione del dossier Afghanistan da parte dell'amministrazione democratica Biden. I talebani riprendono con estrema facilità Kabul e l'intera nazione afgana, entrando anche in possesso di armi e mezzi occidentali. Gli alleati locali dell'Occidente abbandonati al loro destino. Una figuraccia per tutto l'Occidente che fomenterà gli integralisti e che avrà gravi ripercussioni anche per la nostra sicurezza. Peggio di così non era proprio possibile fare. Diamo il ben tornato alla cinica dottrina Obama - Clinton - Biden: 'Se non puoi vincere, crea caos'".

Quindi, tramite Facebook, Giorgia Meloni ha dichiarato: "20 anni di diritti e di conquiste cancellati in un batter d'occhio. Un futuro costruito con enormi sacrifici, che non esiste più. È un fallimento dell'intero occidente causato dalla disastrosa gestione del disimpegno dall'Afghanistan maldestramente completato dall'amministrazione Biden. Il tutto nel quasi totale silenzio dei sedicenti paladini delle libertà".

Paradosso Instagram, vuole colpire i talebani ma censura i reporter sul campo. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 2 settembre 2021. La multinazionale americana Facebook, che controlla anche il social delle immagini, elimina i post dei fotografi in Afghanistan perché ritraggono i combattenti che hanno conquistato il paese. «Ma dove è finita la libertà di stampa?» «Instagram vuole rimuovere il mio account e ha già eliminato altre mie foto solo perché sono immagini di talebani in Afghanistan. Ma io sto facendo il mio lavoro di fotoreporter. La maggior parte delle fotografie era già uscita sui giornali: dov’è la libertà di stampa?». È questa la denuncia della fotogiornalista francese Veronique de Viguerie, che aggiorna il suo profilo Instagram da Kabul. Il social di proprietà di Facebook giovedì mattina ha eliminato alcune sue fotografie che ritraevano i combattenti talebani. Lo stesso ha fatto con Jim Huylebroek, che con le sue immagini per The New York Times sta raccontando al mondo che cosa succede nel paese in mano agli studenti coranici. Stessa disavventura per Alexandre Meneghini, fotoreporter freelance che vive a Cuba e lavora per Associated Press: «Già un paio di mesi fa Instagram ha rimosso le mie foto – spiega all’Espresso - non sono più riuscito a pubblicarle. Altre immagini, invece, come il ritratto di Pepsi, talebano fotografato in Pakistan, sono rimaste sul mio profilo senza causare problemi». Facebook, dopo che lo scorso 15 agosto i talebani sono entrati a Kabul, ha modificato la propria policy in Afghanistan: permette agli utenti di nascondere con un click il proprio account a chi non fa parte della lista degli amici e censura i talebani. «Sono sanzionati come organizzazione terroristica dalla legge degli Stati Uniti e sono banditi dai nostri servizi in quanto pericolose. Questo significa che rimuoviamo gli account gestiti da o per conto dei talebani e vietiamo lodi, supporto e rappresentanza» ha dichiarato alla BBC un portavoce della multinazionale americana che gestisce Facebook, Instagram e WhatsApp. Il gigante dei social ha detto di avere un team di esperti afgani, che conosce le lingue locali e il contesto del paese, dedicato al monitoraggio dei contenuti pubblicati dai combattenti che sono entrati nel palazzo presidenziale di Kabul dopo la fuga dell’ex presidente Ashraf Ghani. La decisione di Facebook ha riaperto il dibattito che aveva già acceso l’opinione pubblica quando erano stati bloccati gli account dell’ex presidente statunitense Donald Trump. Ora, però, ad essere rimossi non sono solo i post a supporto dei talebani, ma anche le fotografie dei reporter che sono ancora sul campo. Per Emanuele Satolli, fotoreporter dell’agenzia Contrasto che ha documentato l’avanzata talebana, si tratta di un bug, un cortocircuito del sistema. «Quanto succede ci invita a riflettere: quelle che dovrebbero essere piattaforme per favorire la libertà di espressione degli individui finiscono per zittire chi fa informazione». Secondo Reporters Without Borders, l’ong internazionale che si batte per la tutela della libertà di stampa, è sempre più difficile per i reporter lavorare in Afghanistan, soprattutto se sono donne. Sono rimaste solo 100 delle 700 giornaliste che erano a Kabul prima dell’arrivo dei talebani e sono ancora meno quelle che continuano a lavorare dalle altre province. Nonostante le rassicurazioni dei nuovi governanti, sta emergendo un panorama da cui mancano i media liberi. Con l’aeroporto Hamid Karzai della capitale ancora chiuso dopo il ritiro delle truppe occidentali, il paese rischia sempre di più di rimanere isolato dal resto del mondo. «Trovo contraddittorio che vengano censurate le fotografie che raffigurano i talebani, sono diffuse da sempre» dichiara Lorenzo Tugnoli, fotoreporter che ha vinto il Premio Pulitzer con le immagini della crisi umanitaria in Yemen e nel 2020 il World Press Photo con il reportage The longest war, proprio sui talebani in Afghanistan per The Washington Post. «Una loro delegazione ha negoziato la pace con gli americani che hanno appena portato a termine il ritiro delle truppe rispettando gli accordi presi. Ormai i talebani sono un soggetto politico che ha ricevuto legittimazione internazionale».  Per Tiziana Faraoni, photoeditor del nostro settimanale, la censura di Instagram è inaccettabile. «Attraverso i profili social i reporter raccontano al mondo, in diretta, come l’Afghanistan stia cambiando da quanto sono tornati i talebani. Impedire la pubblicazione delle fotografie è un limite alla libertà di espressione e anche un modo per non voler vedere la verità».

Francesco Maria Del Vigo per “il Giornale” il 17 agosto 2021. I social network e le follie del politicamente corretto non smettono di produrre paradossi al limite del ridicolo. Neppure nei momenti più drammatici e delicati della storia. Così, mentre i talebani si stavano riprendendo l'Afghanistan, il loro portavoce, Zabihullah Mujahid, poteva cinguettare tranquillamente, alla faccia di Donald Trump che è bannato a vita da Twitter. Ovvio, no? L'ex presidente degli Stati Uniti è censurato per sempre, mentre l'addetto stampa del sedicente Emirato Islamico può dire quello che gli pare e piace, grazie alle reti sociali del suo principale nemico: gli Stati Uniti. La notizia ha fatto rapidamente il giro dei siti - anche grazie al rilancio sul web di Giorgia Meloni e Matteo Salvini -, tuttavia ci deve stupire il giusto. Donald Trump è stato zittito secondo una prassi ben codificata: mandare al confino virtuale chi non va a genio ai proprietari delle grandi autostrade della comunicazione. Che, solitamente, è chi osa varcare il confine del politicamente corretto, chi - come nel caso di The Donald - rompe le uova nel paniere a una certa sinistra radical chic e perbenino. Ma i neo censori sono miopi, non allontanano lo sguardo dall'orticello di casa. Così, mentre tappano la bocca a quello che - nel bene e nel male - è stato un inquilino della Casa Bianca, lasciano la libertà di berciare su Twitter al ben più pericoloso Mujahid. È l'Occidente masochista che taglia il ramo sul quale è seduto. È l'Occidente che tende la mano al proprio nemico.

Carlo Nicolato per “Libero quotidiano” il 17 agosto 2021. Gli ultimi messaggi su Twitter di Suhail Shaheen, portavoce dei talebani, sono rassicuranti, sembra davvero che gli studenti islamici vogliano la pace e la prosperità del loro Paese. «Assicuriamo tutti i diplomatici, ambasciate, consolati e operatori di beneficenza, siano essi internazionali o nazionali che non solo non verrà creato alcun problema per loro da parte dell'AIE, ma verrà fornito loro un ambiente sicuro, Inshallah» ha scritto ieri pomeriggio e solo qualche ora prima aveva invece twittato che l'Emirato islamico non autorizzava nessuno a entrare in casa di chicchesia senza permesso e che la proprietà né l'onore di alcuno debba essere danneggiato. Belle parole, ma possiamo davvero fidarci del portavoce di un movimento politico-militare-religioso che teorizza la più totale sottomissione della donna nella società, la cancellazione di ogni traccia di democrazia e giustizia che non sia quella dettata dall'applicazione più stretta della sharia? Che fino a qualche giorno fa, a dispetto delle parole di Shaheen passava casa per casa per regolare i conti con coloro che ritengono collaboratori dei nemici, compreso con un comico reo di averli semplicemente presi in giro, il cui corpo è stato esposto per strada decapitato? Di certo no, questa si chiama propaganda, bassa propaganda. Sarebbe come fidarsi di Goebbels che cercasse con i suoi twitter, se mai la piattaforma fosse esistita all'epoca, di offrire al mondo un'idea idilliaca del nazismo. Eppure Shaheen parla liberamente sulle piattaforme social che gli danno parola, le stesse piattaforme che qualche tempo fa hanno espulso il presidente della prima democrazia al mondo. Giustificando la misura punitiva contro Donald Trump, Twitter chiariva che «nessun account è al di sopra delle regole e nessun account può usare il social per incitare alla violenza». Questione di regole dunque, basta seguirle limitatamente all'uso del social e chiunque lo può usare. Anche i Goebbels e gli Hitler di turno, anche Suhail Shaheen per l'appunto che nel frattempo, mentre migliaia di afghani cercano disperatamente di scappare da Kabul e alcuni di loro perdono tragicamente la vita cadendo dagli aerei ai quali si sono aggrappati, ha rilasciato un'intervista alla Bbc per spiegare la pacifica transizione al potere. Anche il partito comunista cinese che attraverso l'account dell'organo di partito «People's Daily, China», giustifica la repressione degli Uiguri e riscrive la storia del Covid. Anche il dittatore venezuelano Maduro che su Twitter spara balle colossali esaltando i successi della sua politica mentre il suo Paese è alla fame. Anche l'ayatollah Ali Khamenei che promette vendetta contro gli Usa e la distruzione di Israele.

I bambini Afgani.

Pierluigi Bussi per "la Stampa" il 4 dicembre 2021. Aspettano che cali il buio per andarsi a offrire ai camionisti in arrivo dal Pakistan. È questa la realtà dei bambini afghani nel regno dei taleban. Il loro portavoce, Zabihullah Mujahid, aveva annunciato: «Con noi saranno sempre al sicuro». Ma basta guardare che cosa succede al valico di frontiera di Torkham, l'incrocio più trafficato al confine con il Pakistan, per scoprire quale tragedia sta accadendo ai piccoli orfani scappati dalla guerra. Torkham, la porta nord occidentale tra Afghanistan e Pakistan, è un continuo via vai di automezzi dove i camionisti pachistani portano la frutta fuori dall'Afghanistan per poi tornare con i mezzi pieni di cemento. Gli autotrasportatori a volte aspettano due o tre notti per attraversare il confine, e questa lunga attesa è una buona opportunità per soddisfare i loro bisogni sessuali con ragazzi afghani dai 12 ai 14 anni nel cuore della notte. I giovani di solito sono venditori ambulanti che consegnano ai viaggiatori in transito cibo e bottiglie d'acqua. A svelarci i segreti degli schiavi del sesso è Ashraf, questo non è il suo vero nome, preferisce rimanere nell'anonimato. È un ex poliziotto di frontiera che ora vive in un rifugio segreto nei pressi dello sbarramento di confine. «È facile identificarli. Sono tutti giovani di sesso maschile che salgono e scendono in continuazione dai vecchi mezzi arrugginiti. Intorno alle 2 di notte, iniziano a vendere il proprio corpo. La maggior parte sono adolescenti ma anche bambini. Nel primo punto di ritrovo sono sparsi in gruppi da cinque a dieci in attesa dei loro «padroni» pachistani, che in moto li accompagnano nel parcheggio dei camionisti, schierati in fila vengono scelti e rimangono nelle cabine fino all'alba. Li ho sentiti spesso gridare, ma non potevo fare nulla, una situazione straziante. La tariffa può variare ma non supera i 100 afghani a prestazione (poco meno di un euro), per lo più sono orfani e non hanno un alloggio». L'Afghanistan, con la salita al potere dei taleban, è collassato economicamente, la crisi ha provocato un forte aumento della prostituzione di donne, uomini e bambini. Seppur giudicata come un male sociale e condannata con pene violente dagli studenti coranici, sta diventando l'unica via di sostentamento per buona parte di loro. Meglio rischiare di essere rinchiusi in un carcere che morire di fame. Forte l'allarme lanciato da Save The Children: «Quest' anno l'Afghanistan affronterà la sua peggiore crisi alimentare mai registrata, quasi 800mila bambini dovranno convivere con un inverno gelido senza ripari adeguati. Circa 8,6 milioni di loro vivono in famiglie che non hanno coperte a sufficienza e più di 3 milioni non hanno il riscaldamento per tenersi al caldo e sono costretti a bruciare materiali dannosi, segregati in campi per sfollati dove un telo di plastica è tutto ciò che hanno. Alcuni tra i più giovani sono già morti di fame a causa dell'aumento dei prezzi del cibo, che le famiglie non possono più permettersi, e 5 milioni sono a un passo dalla carestia. I costi del carburante sono aumentati del 40% nell'ultimo anno e la legna sufficiente per una famiglia durante l'inverno costa circa 200 dollari». A queste condizioni per molti di loro non c'è altra scelta che accettare denaro in cambio di un rapporto sessuale. Una situazione che ci riporta indietro negli anni quando il dramma dei Bacha-bazi (bambini violentati per gioco) era all'ordine del giorno in Afghanistan. Solo nel 2016 il governo Ghani approvò una legge che puniva con il carcere e nei casi più gravi con la pena di morte chi abusava di questi giovani costretti a vestirsi da donna e sottoposti a violenze sessuali dagli adulti. Una piaga sociale che potrebbe ripresentarsi con il nuovo governo, seppur giudicata anti-islamica. Oggi questa orribile pratica di sottomissione e di pedofilia potrebbe provocare ben più gravi sanzioni per i giovani disperati, in quanto accusati di omosessualità, reato punito con la pena di morte, soprattutto nelle zone rurali dove i capi locali dei villaggi godono di un potere assoluto. Un detto afghano dice: «Per i signori della guerra le donne sono utili per crescere i figli, i ragazzi per il piacere».

Il dramma dei genitori in Afghanistan: costretti a vendere i propri figli per sfamare il resto della famiglia. A causa della siccità e del congelamento degli aiuti umanitari in seguito alla presa di potere dei talebani un terzo della popolazione si è ritrovato a corto di cibo. La storia di Bibi e Mohammad. Albert Voncina su L'Espresso il 10 Dicembre 2021. Vendere uno dei propri figli per ottenere in cambio soldi con i quali poter dare da mangiare al resto della famiglia per i prossimi sei mesi. Questa è solamente una delle drammatiche testimonianze raccolte da Save the Children in Afghanistan, Paese in cui a quattro mesi dall’addio dell’Occidente in seguito alla presa di potere da parte dei talebani un terzo della popolazione si è ritrovato a corto di cibo.

Un gesto estremo, quello raccontato dall’Organizzazione internazionale che da oltre 100 anni lotta per salvare le bambine e i bambini a rischio e garantire loro un futuro. Bibi e suo marito Mohammad (i nomi sono di fantasia), rispettivamente di 40 e 45 anni, non hanno avuto nessuna alternativa se non affidare uno dei loro gemelli nati pochi mesi fa a un’altra famiglia senza bambini perché non hanno abbastanza soldi per sfamare i loro 8 figli.

«Non abbiamo niente, come potrei prendermi cura di loro? È terribile dividerli, è stata una decisione molto difficile, più di quanto possiate immaginare. È stato particolarmente difficile dare via il bambino a causa della povertà», ha raccontato Bibi che ha spiegato che avrebbe voluto dar via suo figlio senza ricevere nessun pagamento in cambio ma alla fine ha accettato una piccola somma per il bambino. «Non potevo permettermi latte, cibo o medicine. Con quei soldi posso comprare cibo per sei mesi».

Siccità e aiuti congelati

La famiglia di Bibi e Mohammad è stata costretta ad abbandonare la propria fattoria circa sette mesi fa a causa della siccità prolungata che ha devastato i raccolti e spinto milioni di persone sull'orlo della carestia. Siccità che, secondo le Nazioni Unite, in Afghanistan rischia di trasformarsi da evento episodico a evento annuale entro il 2030. A ciò vanno aggiunti gli aiuti economici internazionali congelati e i combattimenti del 2021 che hanno impedito ad agricoltori e coltivatori di piantare i raccolti annuali, con il conseguente aumento del prezzo del grano del 25% per cento. Un mix di fattori che ha portato alla peggiore crisi alimentare mai registrata. Si prevede che in Afghanistan oltre il 97% della popolazione scenderà al di sotto della soglia di povertà entro la metà del prossimo anno. Save the Children sottolinea inoltre che milioni di bambini rischiano di ammalarsi o addirittura di morire perché non hanno abbastanza da mangiare e si stima che 3,2 milioni di bambini sotto i cinque anni soffriranno di malnutrizione acuta entro la fine del 2021.

È stato quindi estremamente difficile per Mohammad trovare lavoro anche solo per un paio di giorni alla settimana e, anche se ha un impiego, il salario di un'intera giornata, pari a meno dell’equivalente di due euro, non copre nemmeno due giorni di spese per la famiglia. Per integrare le entrate familiari il figlio di 12 anni è costretto a lavorare nel mercato locale spingendo i carrelli che trasportano gli effetti personali delle persone. «Abbiamo bisogno di aiuto, abbiamo fame e siamo poveri», ha detto Mohammad. «Non c’è lavoro in Afghanistan. Abbiamo dei figli e ci servono farina e olio. Servirebbe anche legna da ardere. Negli ultimi due o tre mesi non ci siamo potuti permettere di comprare la carne, abbiamo solo il pane per i bambini e anche quello non è sempre disponibile».

«Lasciala morire»

La storia di Bibi e Mohammad è solamente uno dei tanti drammi dell’ultimo periodo, visto che sempre più famiglie sono costrette a gesti estremi pur di sopravvivere. Save the Children ha raccolto anche la storia di Fatima (anche in questo caso il nome è di fantasia), madre single di due gemelli, che ha subìto pressioni dalla famiglia per abbandonare uno dei suoi figli. Ara e Milad (nomi di fantasia), gemelli di 18 mesi, sono entrambi malati e deboli e, visto il clima sempre più freddo e Ara che soffre di una grave malnutrizione, Fatima ha spiegato che non può permettersi di prendersi cura dei suoi bambini ma non può abbandonare la figlia. «I bambini hanno pianto tutta la notte perché avevano fame. Non abbiamo niente in casa, non abbiamo cibo, né farina, niente», ha detto Fatima. «Mio marito non ci manda soldi, mi dice 'lasciala morire'. Invece altri mi hanno detto ‘la compreremo’, ma io non l'ho lasciata. Spero ancora che i miei figli possano stare bene in futuro».

Ed è per evitare drammi simili che Save the Children ha lanciato un appello, l’ennesimo. L’organizzazione sta fornendo infatti alle famiglie afghane cibo, formazione sulla nutrizione per neonati e bambini piccoli, kit per l'igiene, coperte e vestiti caldi per affrontare il rigido inverno. Ma ciò non basta. Save the Children chiede ai governi di applicare deroghe urgenti alle loro attuali politiche antiterrorismo e alle sanzioni per consentire la consegna rapida e ininterrotta di aiuti umanitari salvavita e esorta i governi donatori a fornire finanziamenti immediati per aiutare i bambini vulnerabili e le loro famiglie. «Gli sforzi umanitari sono ostacolati da sanzioni e politiche antiterrorismo che impediscono agli aiuti di arrivare alle famiglie che ne hanno disperatamente bisogno. Dobbiamo agire subito per fornire ai bambini l'aiuto salvavita di cui hanno bisogno per sopravvivere all'inverno», il grido di Nora Hassanien, direttrice di Save the Children in Afghanistan.

Caterina Galloni per "blitzquotidiano.it" il 2 novembre 2021. In Afghanistan due genitori disperati hanno venduto la figlia a 500 dollari per sfamare il resto della famiglia. La neonata è stata data a uno sconosciuto che la crescerà e poi la farà “sposare con suo figlio”. In Afghanistan, sembra non sia un fatto isolato. Dopo l’arrivo dei talebani che ha posto fine ai fondi stranieri che sostenevano la fragile economia, lasciandola sull’orlo del collasso, le famiglie ormai allo stremo vendono i figli per racimolare denaro. 

La figlia venduta in Afghanistan

Yogita Limaye, giornalista della BBC, si è recata in un villaggio fuori Herat, a ovest del paese, e ha parlato con la madre che ha venduto la figlia neonata per 500 dollari. Così da poter comprare il cibo per gli altri figli. L’acquirente era un uomo sconosciuto che sosteneva di voler crescere la piccola e in seguito farla sposare al figlio. Ma non c’è nessuna garanzia che le cose andranno in questo modo. Ha pagato 250 dollari in anticipo, sufficienti per sfamare la famiglia per alcuni mesi, e pagherà il resto quando tornerà a prendere la bambina. Lo farà “una volta che avrà imparato a camminare”. “Gli altri miei figli stavano morendo di fame, dunque abbiamo dovuto vendere la neonata”, ha detto la madre alla BBC.  “Come posso non essere triste? E’ mia figlia. Vorrei non doverla vendere”. 

La situazione economica in Afghanistan

L’Afghanistan – un paese impoverito devastato da decenni di conflitti e corruzione dilagante – per circa il 40% del PIL dipendeva dagli aiuti esteri, anche quando era guidato da un governo sostenuto dall’Occidente. Ma la pandemia del Covid, la siccità, il crollo del governo e la successiva presa del potere dei talebani, tre mesi fa hanno drammaticamente peggiorato la situazione.  Ora il Paese è sull’orlo del tracollo economico. Il valore della valuta è precipitato, i prezzi del cibo sono aumentati vertiginosamente mentre gli aiuti si sono fermati, i lavoratori non sono pagati, le aziende sono chiuse e pur di sopravvivere, secondo un rapporto di Save The Children, le famiglie costrette a vendere  tutto ciò che possiedono, persino i figli. Il World Food Program ha affermato che in Afghanistan più della metà della popolazione, circa 22,8 milioni di persone, nei prossimi mesi rischia la malnutrizione acuta e la morte. 

Il rischio per i bambini

Un milione di bambini “senza cure immediate” potrebbero perdere la vita. Secondo il WFP per evitare il peggio, saranno necessari milioni di dollari ma nel timore che le donazioni vengano sequestrate dai talebani, i governi esitano. Alex Zerden, ex funzionario del Dipartimento del Tesoro e membro del Center for a New American Security, alla CNBC ha riferito che il potenziale di corruzione tra i talebani è “enorme”. Un quarto delle banche afgane sono di proprietà statale, ha detto Zerden, tra cui la banca nazionale che di norma viene utilizzata per spostare enormi somme di denaro. “I talebani controllano la dogana, controllano le tasse. Fino a un mese fa erano nel business delle estorsioni e non credo che cambieranno”, ha commentato Zerden. 

Tommaso Claudi, il diplomatico italiano ancora a Kabul per aiutare i bambini a scappare dall’inferno. Redazione su Il Riformista il 23 Agosto 2021. Poteva decidere di tornare in Italia, nella sua Camerino, come hanno fatto decine di colleghi. Invece Tommaso Claudi, 31enne vice console italiano in Afghanistan, è rimasto a Kabul per lavorare all’aeroporto della capitale, dando una mano in prima persona per evacuare le centinaia di persone che stanno tentando di lasciare il Paese. Sui social network sono circolate alcune immagini di Claudi che, giubbotto antiproiettile ed elmetto a tracolla, è impegnato a trarre in salvo soprattutto minori, le vittime più deboli del caos in cui è ripiombato l’Afghanistan dopo la riconquista da parte dei talebani del Paese e soprattutto di Kabul. 

Dal 2019 in Afghanistan, Claudi ha descritto così all’Ansa la situazione che sta vivendo il Paese e soprattutto la calca e il caos che attanaglia l’aeroporto: “Abbiamo purtroppo dovuto assistere a scene drammatiche ma siamo riusciti in condizioni di assoluta emergenza a riportare a casa i nostri connazionali e alcuni dei nostri collaboratori afghani che in questi anni ci hanno consentito di operare in un contesto difficile. In Afghanistan stiamo assistendo ad una grande tragedia umanitaria e tutti stiamo dando il massimo mettendoci tutto il cuore e la professionalità di cui siamo capaci”. Gratitudine per il lavoro svolto dal vice console è arrivata da Ettore Sequi, segretario generale del Ministero degli Esteri: “Grazie Tommaso #KabulAirport”, è il tweet di poche parole dedicato a Claudi. L’ennesimo segnale della grande attenzione che l’Italia sta mettendo in campo nel seguire la crisi afghana. Secondo le ultime stime sarebbero circa 1.700 i civili afgani evacuati negli ultimi sette giorni grazie al ponte aereo italiano. L’Italia è infatti il Paese che percentualmente ha portato via il maggior numero di collaboratori afgani rispetto ad altri partner, esclusi gli Stati, come confermato dall’Alto rappresentante civile della Nato, l’ambasciatore Stefano Pontecorvo.

Da corriere.it il 27 agosto 2021. «È appena partito da Kabul il volo dell’Aeronautica Militare che riporterà in Italia, oltre ai civili afghani, anche il nostro console Tommaso Claudi, l’ambasciatore Pontecorvo e i Carabinieri del Tuscania che erano rimasti ancora sul posto». Sono le parole con cui il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha annunciato la partenza dell’ultimo volo del ponte aereo allestito dall’esercito e dalla Farnesina dopo la caduta di Kabul per evacuare cittadini italiani e i profughi afghani. A bordo, oltre al personale consolare, ci sono 58 uomini , donne e bambini in fuga dal Paese caduto in mano ai talebani il 14 agosto. Poche ore dopo, dalla capitale afghana è decollato un altro volo dell’aeronautica militare con a bordo gli ultimi militari della Joint Evacuation Task Force (JETF) — che dal 13 agosto scorso ha gestito sul campo le operazioni di evacuazione — che erano rimasti in città. In totale, ha poi fatto sapere il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, l’Italia ha evacuato dall’Afghanistan «5.011 persone di cui 4.890 cittadini afghani», compresi 1.453 bambini. Un numero di profughi, ha precisato Guerini dopo aver elogiato l’«eccezionale lavoro» delle forze armate, «ben superiore a quello previsto inizialmente». «Sono state giornate infinite e di grande sacrificio per i nostri diplomatici e militari. Sul campo, fino all’ultimo istante utile, hanno aiutato migliaia di civili afghani, a partire da donne e bambini, a lasciare il Paese, oltre a tutti gli italiani che hanno scelto di tornare a casa», ha dichiarato Di Maio. Nel corso della missione di evacuazione, l’Italia ha schierato più di 1500 militari per la gestione operativa del ponte aereo. A questo numero occorre aggiungere il personale delle Forze armate e dei Carabinieri impiegato nell’accoglienza dei rifugiati una volta giunti in Italia. Il volo con a bordo l’ambasciatore Pontecorvo, il console Claudi e i 58 profughi afghani è decollato da Kabul alle ore 15 italiane: l’arrivò a Fiumicino è previsto nella prima mattinata di domani. L’aereo con a bordo i militari della JETF, invece, effettuerà uno scalo operativo in Kuwait e arriverà in Italia all’inizio della prossima settimana: ad attenderlo, all’aeroporto militare di Ciampino, ci sarà il Ministro della Difesa. Si conclude così, oggi, l’impegno ventennale delle Forze Armate italiane in Afghanistan.

 Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 28 agosto 2021. E' finita. Nel bene, con i 4.890 cittadini afghani salvati - ma anche nel male provato per tutti i disperati che non sono riusciti a partire - la missione Aquila Omnia si è conclusa ieri alle 15 (ora italiana) con il decollo dell'ultimo C-130 dell'aeronautica militare dall'aeroporto Hamid Karzai di Kabul. Poco prima avevamo visto l'ultimo equipaggio italiano che si riposava un attimo al Marriot di Islamabad e in procinto di ripartire alla volta del caos carico d'incognite in cui si era via via trasformato lo scalo della capitale afghana. Per loro da Ferragosto era diventata routine. Quasi quattro ore da Kuwait City a Kabul, quindi due ore per Islamabad, rifornimento di carburante e infine ripartenza per le sei ore di viaggio per il Kuwait, pronti per la prossima missione a Kabul. Ma ogni volta la situazione peggiorava. Il rischio attentati cresceva. Ieri sull'ultimo volo si trovavano 110 persone, tra cui 58 afghani. A bordo anche l'ambasciatore Stefano Pontecorvo che dirigeva lo staff della Nato. Al suo fianco, il console 31enne Tommaso Claudi, «l'eroe della fotografia» come è stato ribattezzato in Italia, dopo che la sua immagine con il bambino in braccio preso dalla folla e spostato nell'area protetta delle partenze era diventata subito virale ed è assurta a simbolo dello sforzo nazionale per portare in salvo il massimo numero di civili. In parallelo alla missione italiana, è terminata anche quella turca a testimonianza delle difficoltà sul campo. I soldati turchi, infatti, avrebbero dovuto garantire il funzionamento dello scalo nella transizione ai talebani. Ma le tensioni provocate dall'attentato dell'Isis due giorni fa hanno spinto Ankara a cambiare programma. «Sono state evacuate 5.011 persone, di cui 4.890 afghani. Tra loro 1.301 donne e 1.453 bambini», ha annunciato il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. Un successo superiore a quanto si fosse previsto. Ancora Guerini ha infatti specificato che il ponte aereo si è intensificato con l'aggravarsi della situazione politica e sociale nel Paese. La repentina caduta di Kabul in mano ai talebani ha spinto gli aerei della missione a «portare in Italia un numero di persone ben superiore a quello previsto inizialmente».

Afghanistan, il comandante dei carabinieri a Kabul: "Il console Claudi ci ha salvato la vita". La Repubblica il 28 agosto 2021. Il capitano Alberto Dal Basso era a capo della seconda brigata mobile dei Carabinieri, il contingente militare schierato a Kabul a difesa del personale diplomatico dell'ambasciata. È rientrato in Italia a bordo dell'ultimo volo del ponte aereo con l'Afghanistan e ai giornalisti presenti ha raccontato le emozioni provate nelle ultime settimane. "Abbiamo lasciato una situazione molto caotica e incerta ma siamo riusciti a recuperare anche più degli obiettivi che ci eravamo prefissati", ha detto Dal Basso. "L'attentato? È stato scioccante, ma eravamo stati avvisati e il console Tommaso Claudi ha deciso di sospendere le operazioni di recupero e questo ci ha probabilmente salvato la vita - ha detto -. Il luogo dell'attentato era esattamente quello dove andavamo per recuperare i civili afghani". "Paura? Sì, ne abbiamo avuta. Abbiamo provato a gestirla ed essere qui tutti insieme è la dimostrazione che ci siamo riusciti. Siamo addestrati, ma la realtà è sempre peggiore dell'addestramento", ha concluso il comandante.

DAGONOTA il 28 agosto 2021. Il console italiano Tommaso Claudi, il giovane diplomatico che nei giorni scorsi è diventato famoso per le foto in cui salva un bambino all’aeroporto di Kabul, è figlio (dal primo matrimonio) di Giovanna Zucconi, attuale moglie di Michele Serra. La giornalista non fa niente per nasconderlo. Anzi: in questi giorni, comprensibilmente molto orgogliosa, ha twittato compulsivamente articoli, foto e video del figlio, che insieme all’ambasciatore Stefano Pontecorvo, che dirigeva lo staff Nato, ieri ha lasciato per ultimo Kabul. Il primo, richiamato per ragioni di sicurezza, era stato l’ambasciatore italiano in Afghanistan Vittorio Sandalli.

Afghanistan, "di chi è figlio Tommaso Claudi". Veleno sul console eroe: bomba sulla sinistra italiana. Libero Quotidiano il 28 agosto 2021. Il giovane console italiano in Afghanistan Tommaso Claudi è diventato giustamente famoso per l'abnegazione e lo spirito di sacrificio con cui è intervenuto in prima persona nell'inferno dell'aeroporto di Kabul, prestandosi anche fisicamente a soccorrere i disperati in attesa di essere imbarcati sul primo volo utile per lasciare il Paese. Pochi sanno però chi è sua mamma. A svelarlo su Facebook, con un post molto commentato (e anche criticato) è stato Fulvio Abbate. Claudi, scrive il Marchese, "è figlio di Giovanna Zucconi, giornalista culturale, imprenditrice nel ramo delle fragranze con il marchio 'Serra & Fonseca', e attuale compagna dell'apprezzato giornalista, scrittore e editorialista Michele Serra", gran penna di Repubblica. Quindi la nota molto polemica di Abbate, mai tenero con un certo mondo di sinistra, quello appariscente e salottiero: "Il ragazzo, trentunenne, ha insomma tutte le carte in regola per assurgere a simbolo di un dato contesto socio-culturale ben immaginabile. Dimenticavo: guardo i ragazzi e le ragazze che lavorano come 'pulitori' sul treno che mi sta portando in Puglia e spero che anche le loro madri provino lo stesso sentimento". Queste parole hanno scatenato le proteste di molti follower, che hanno accusato Abbate di "strumentalizzare" le parentele di Claudi al fine di dargli del "figlio di papà" (in questo caso, di mamma) o addirittura di "rosicare" per il meritorio lavoro del console, che in coppia con l'ambasciatore Stefano Pontecorvo, che dirigeva lo staff Nato, ha messo in salva decine e decine di innocenti. Tra l'altro, il capitano Del Basso ha anche ringraziato pubblicamente il console perché giovedì pomeriggio ha tempestivamente allertato i militari italiane del rischio imminente di attentato. Pochi minuti della strage poi avvenuta in aeroporto, Claudi aveva invitato il nostro contingente a interrompere momentaneamente le operazioni di soccorso e recupero dei cittadini afghani. "Ci ha salvato la vita", ha detto il militare.

Da ansa.it il 7 novembre 2021. Mirza Ali Ahmadi e sua moglie Suraya erano all'aeroporto di Kabul il 19 agosto per lasciare il Paese. Travolti dalla calca davanti ai cancelli dell'Abby Gate, insieme a migliaia di altre persone in attesa di entrare in aeroporto, avevano affidato il loro piccolo di due mesi a un militare Usa nel timore che rimanesse schiacciato dalla folla e pensando che sarebbero presto arrivati all'ingresso. Ma da allora del piccolo Sohail non si hanno più notizie. I genitori, disperati, hanno raccontato la loro storia in esclusiva alla Reuters nella speranza di poter ritrovare il soldato e quindi il loro bambino. Mirza Ali, 35 anni, Suraya, 32, e gli altri figli di 17, 9, 6 e 3 anni, sono stati poi evacuati su un volo che prima li ha portati in Qatar e poi in Germania e alla fine sono atterrati negli Stati Uniti. La famiglia si trova ora a Fort Bliss in Texas con altri rifugiati afgani in attesa di essere reinsediati da qualche parte negli Usa. «Quello di cui mi importa ora è ritrovare il mio bambino», ha detto Suraya, nella speranza che qualcuno li possa aiutare.

Marta Serafini per corriere.it il 19 dicembre 2021. Forse un lieto fine. Sarebbe stato ritrovato e sarebbe già in procinto di essere riportato alla famiglia Sohail Ahmadi, il bimbo afghano scomparso dopo essere stato affidato dai genitori a un marine Usa all’aeroporto Hamid Karzai di Kabul durante il caotico ritiro dall’Afghanistan la scorsa estate. Lo riporta il Times, secondo cui il bambino, che adesso ha sei mesi, dopo essere scampato a un tentativo di sequestro sarebbe al sicuro ed è stato trovato nell’abitazione di un tassista a Kabul, che si sarebbe preso cura di lui fino a ora. Mirza Ali Ahmadi e sua moglie Suraya erano all’aeroporto di Kabul il 19 agosto per cercare di lasciare l’Afghanistan dopo l’arrivo al potere dei talebani. Finiti nella calca del dirty river e dell’Abby Gate, con altre migliaia di persone in attesa di entrare in aeroporto per imbarcarsi sui voli di evacuazione, avevano affidato Sohail, che all’epoca aveva due mesi, ai militari Usa temendo che potesse rimanere schiacciato dalla folla. Ma da quel momento del neonato non avevano avuto più notizie. La coppia era stata poi evacuata con gli altri figli di 17, 9, 6 e 3 anni giungendo a Fort Bliss, in Texas, dopo un lungo viaggio con tappe prima in Qatar e poi in Germania. Adesso il possibile lieto fine anche se al momento mancano ancora conferme ufficiali sull’identità del piccolo. Intanto, nonostante le restrizioni alle frontiere, non si è mai fermata la fuga dall’Afghanistan, dove secondo l’Onu si sta consumando «uno dei peggiori disastri umanitari al mondo», che rischia di aggravarsi ulteriormente con l’arrivo dell’inverno. Da agosto, almeno 290mila persone si sono rifugiate in Pakistan. E molte altre potrebbero cercare di lasciare il Paese nelle prossime settimane, dopo che le autorità talebane hanno annunciato da domani la ripresa del servizio di rilascio di passaporti in tre regioni del Paese, compresa Kabul, che era sospeso da agosto, a parte un tentativo di ripristino a ottobre, interrotto dopo pochi giorni per «problemi tecnici» legati al grande afflusso di richieste. «I dispositivi biometrici sono stati riparati», ha assicurato oggi il responsabile dell’ufficio, Alam Gul Haqqani, precisando che i passaporti saranno inizialmente rilasciati a coloro che avevano già fatto domanda, mentre le nuove richieste verranno accettate solo dal dieci gennaio. La decisione dei talebani arriva dopo le forti pressioni della comunità internazionale, cui i talebani continuano a chiedere il ripristino degli aiuti e lo sblocco degli oltre 9 miliardi di dollari della Banca centrale di Kabul congelati all’estero. 

Afghanistan, scomparso un bambino consegnato ai soldati Usa. Il padre: «Aiutateci a ritrovarlo». Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 7 novembre 2021. Sohail, 2 mesi, era tra i neonati passati oltre il muro ai militari a metà agosto all’entrata dell’aeroporto di Kabul. Una volta entrati però i genitori non l’hanno mai più ritrovato. Una decisione presa in pochi secondi. Poi lo avevano messo tra le braccia di un soldato, come tanti altri genitori in quei giorni. Volevano solo salvarlo dalla calca e pensavano di recuperarlo una volta entrati in aeroporto. Ma poi di Sohail, si sono perse le tracce. Come racconta la Reuters, Mirza Ali Ahmadi e sua moglie Suraya erano all’aeroporto di Kabul il 19 agosto per lasciare il Paese. Finiti nella calca del dirty river e dell’Abby Gate, insieme a migliaia di altre persone in attesa di entrare all’Hamid Karzai Airport per imbarcarsi sui voli di evacuazione, avevano affidato Sohail ai militari Usa nel timore che rimanesse schiacciato dalla folla e nella convinzione di raggiungerlo dall’altra parte della recinzione poco dopo. Non facile lasciare un bambino di due mesi nelle braccia di un estraneo. Ma, del resto, l’entrata, era a poco più di 5 metri. Ed erano in tanti, in quelle ore, a passare i neonati al di là del muro. Poi però i talebani hanno iniziato a respingere la folla. E i tempi per entrare si sono allungati. Una mezzora, almeno. E quando Mirza e Suraya sono riusciti a raggiungere l’aeroporto, Sohail era scomparso. Sparito, dissolto. «Ho cercato ovunque per tre giorni, ma non c’era nemmeno nell’area riservata ai bambini. Ho chiesto a più di venti persone, ma non parlo inglese e quindi non sono riuscito a sapere nemmeno chi fosse il comandante», ha spiegato Mirza Ali, che ha lavorato come uomo della sicurezza all’ambasciata degli Stati Uniti in Afghanistan per dieci anni. Pochi giorni più tardi Mirza Ali, Suraya e gli altri loro figli - di 17, 9, 6 e 3 anni- vengono imbarcati su un volo per Doha, poi trasferiti in Germania. Destinazione finale, Fort Bliss in Texas con altri rifugiati afghani in attesa di essere reinsediati da qualche parte negli Stati Uniti. Ma Sohail non è con loro. «Gli operatori umanitari e i funzionari Usa mi dicono che faranno del loro meglio per ritrovarlo, ma sono solo promesse», si dispera Mirza Ali. Un funzionario statunitense rassicura che il caso è stato segnalato a tutte le agenzie coinvolte, comprese le basi statunitensi e le località estere. Ma «purtroppo nessuno riesce a trovare il bambino». E intanto sua madre Suraya e i suoi fratelli non riescono a smettere nemmeno per un secondo a Sohail, quel bambino che chissà dove è finito e se è ancora vivo.

L'appello dei genitori dal Texas. Sohail, il bimbo di 2 mesi scomparso durante l’evacuazione di Kabul: era stato affidato a un marine. Redazione su Il Riformista il 7 Novembre 2021. È un dramma nel dramma quello che hanno vissuto e che stanno ancora oggi vivendo Mirza Ali Ahmadi e sua moglie Suraya. La coppia afghana era infatti all’aeroporto di Kabul il 19 agosto, assieme ad altre centinaia di persone, per tentare di scappare dal Paese riconquistato dai talebani.  Lì, ai cancelli dell’Abby Gate, quasi travolti dalla calca, avevano dovuto prendere una decisione che ha provocato conseguenze imprevedibili: affidare il loro bambino di appena due mesi, Sohail, ad un militare statunitense, pensando di poter presto ricongiungersi una volta arrivati all’ingresso dello scalo. Mirza Ali Ahmadi e sua moglie Suraya però impiegarono oltre mezz’ora a superare quei pochi metri, con i talebani che continuavano a respingere i cittadini. In quel lasso di tempo del piccolo Sohail si erano però perse le tracce. A spiegarlo sono i suoi genitori in una intervista alla Reuters, l’agenzia alla quale Suraya e Mirza Ali Ahmadi hanno raccontato la loro odissea, diffondendo una foto del piccolo di due mesi nella speranza che qualcuno posso aiutarli a ritrovarlo. La coppia e i loro figli, di 17, 9, 6 e 3 anni, sono stati poi evacuati su un volo che prima li ha portati in Qatar e poi in Germania e alla fine sono atterrati negli Stati Uniti, dove si trovano ora ospitati a Fort Bliss in Texas, con altri rifugiati afgani in attesa di essere reinsediati da qualche parte negli Usa. Il padre di Sohail, per 10 anni guardia di sicurezza presso l’ambasciata americana a Kabul, ha chiesto aiuti a tutti, affidandosi anche all’Afghan Refugee Relief, un gruppo di sostegno alle famiglie afghane che ha lanciato una campagna dal titolo ‘Bimbo scomparso’ (Missing baby). Già il 19 agosto, negli istanti successi alla scomparsa del bambino, erano partite le ricerche all’interno dello scalo della capitale. Un comandante militare “ha partecipato con me alle ricerche in tutto l’aeroporto”, ha detto Mirza affermando di non sapere il nome del militare poiché non parlava inglese e faceva affidamento sui colleghi afgani dell’ambasciata Usa per aiutarlo a comunicare”. In tre giorni trascorsi nell’aeroporto Mirza spiega di aver parlato “con più di 20 persone, ad ogni funzionario – militare o civile – in cui mi sono imbattuto, chiedevo del mio bambino”, ma senza risultato. Alla fine era quindi giunto il momento dell’evacuazione, col volo che li ha condotti negli Stati Uniti. Anche negli Usa, spiega Suraya alla Reuters, “non faccio altro che pensare a mio figlio”. “Tutti quelli che mi chiamano, mia madre, mio padre, mia sorella, tutti mi danno conforto e mi dicono: ‘Non preoccuparti, Dio è buono, tuo figlio sarà ritrovato’”. Un funzionario americano sentito dalla Reuters ha precisato che il caso della scomparsa di Sohail è stato segnalato a tutte le agenzie coinvolte, comprese le basi statunitensi, mentre il Dipartimento di Stato ha assicurato che il governo sta lavorando anche con i suoi partner della comunità internazionale “per esplorare ogni strada e localizzare il bambino, incluso un appello emesso attraverso il centro internazionale per i bambini scomparsi”.

Afghanistan, "bambini incastrati nel filo spinato": fuga dai talebani, orrore all'aeroporto sotto gli occhi di tutti. Libero Quotidiano il 19 agosto 2021. “È stato orribile, le donne hanno lanciato i loro bambini oltre il filo spinato chiedendo ai soldati di prenderli”. La testimonianza drammatica di un alto ufficiale afghano che è stata raccolta da Skynews restituisce bene il momento che stanno vivendo migliaia di cittadini ammassati all’esterno dell’aeroporto internazionale di Kabul. C’è la consapevolezza che non tutti possono essere “salvati” dai talebani, ma per la disperazione c’è chi sta lanciando i propri figli piccoli nella speranza di offrirgli così un futuro migliore di quello che avrebbero in Afghanistan. Alcuni bimbi sono però rimasti impigliati nel filo spinato: insomma, le scene a cui si sta assistendo a Kabul in queste ore sono molto forti. Non che nel resto del Paese la situazione sia migliore, anzi. Diverse persone sono morte nella città di Asadabad, dove i talebani hanno aperto il fuoco sulla folla che sventolava la bandiera nazionale durante le manifestazioni annuali dell’indipendenza del Paese. A riportarlo è l’agenzia Reuters, che cita un testimone oculare come fonte primaria. Il bilancio dei morti all’aeroporto è invece salito a dodici: tutto è iniziato domenica, quando lo scalo è stato preso d’assalto da afghani e stranieri terrorizzati per l’ingresso dei talebani nella capitale. Sono ancora migliaia le persone che stanno provando a fuggire, mentre i talebani lanciano appelli affinché tutti tornino nelle loro case perché non c’è nulla da temere: ma praticamente nessuno crede loro, anche se stanno provando ad apparire più moderati rispetto al passato. Ma le apparenze spesso ingannano, le azioni dicono ben altro.

Kabul bambini lanciati oltre il filo spinato. Le madri ai militari britannici: «Salvateli, portateli via dai talebani» Prime proteste di piazza e prime vittime a Jalalabad e Asababad. Sara Volandri su Il Dubbio il 20 agosto 2021. E’ una scena straziante quella di ieri mattina all’aeroporto internazionale di Kabul: decine di madri disperate che lanciano dei fagotti con dentro i loro figli oltre le recinzioni e il filo spinato dove c’è in contingente di soldati britannici che sta gestendo con molta fatica la convulsa evacuazione dal Paese. Loro non riusciranno a scappare, che almeno lo facciano i loro piccoli. «È stato terribile, alcune bambini sono rimasti impigliati nel filo spinato, piangevano mentre le madri urlavano, un orrore», racconta visibilmente emozionato un ex ufficiale dell’ormai disciolto esercito afghano che sta aiutando i militari occidentali a far uscire le persone a rischio dall’Aghanistan. I talebani hanno promesso che non impiegheranno il pugno di ferro, che non ci saranno rappresaglie verso i “collaborazionisti”, che le donne possono stare tranquille, esibiscono moderazione e chiedono a tutti di tornare alla vita normale; ma i migliaia in fuga non si fidano per nulla, sono convinti che appena i riflettori internazionali si spegneranno sull’Afghanistan tutto tornerà come prima, ossia a vent’anni fa al tirannico governo degli studenti coranici. Per questo le madri vogliono che i propri figli crescano lontani. Ma a sgretolare la speranza ci pensa il governo di Londra tramite il segretario alla Difesa britannico, Ben Wallace, il quale ha fatto sapere che «nessun bambino non accompagnato sarà portato fuori dall’Afghanistan» perché il governo «non può prendersi in carico un minore solo». Nel Paese invece, dopo la calma apparente delle ultime ore e l’approccio “diplomatico” dei portavoce talebani Almeno due persone sono morte e altre otto sono rimaste ferite ad Asadabad, dopo che i talebani hanno aperto il fuoco sulla folla di manifestanti per la giornata dell’Indipendenza. Lo riferiscono testimoni oculari ad Al Jazeera. I talebani, secondo le ricostruzioni fatte da testimoni e video sui social media, hanno aperto il fuoco dopo che qualcuno ha pugnalato un loro miliziano con un coltello. Anche a Jalalabad, i talebani hanno aperto il fuoco contro le persone che sventolavano la bandiera nazionale, ferendo un uomo e un adolescente poi portati in ospedale. A Khost, gli studenti coranici hanno varato un coprifuoco per fermare le proteste contro la loro salita al potere, mentre la gente è scesa in strada anche a Kabul in difesa della bandiera nazionale, diventata ormai una sorta di simbolo di resistenza. Nonostante la tensione stia crescendo di ora in ora, nella regione asiatica la Cina sembra che voglia accordare fiducia alla nuova classe dirigente dei talebani, a patto che rompano ogni legame con i gruppi terroristi jihadisti come al Qaeda, da sempre presente nel Paese. Pechino parla infatti di «segnali positivi» arrivati negli ultimi giorni dai Talebani, “nuovi padroni” dell’Afghanistan, ma al contempo ribadisce la sua linea rossa, «rompere con tutte le forze terroristiche: i leader dei Talebani hanno inviato segnali positivi al mondo affermando che affronteranno i problemi della popolazione e risponderanno ai suoi desideri», si legge in una nota del ministero degli Esteri di Pechino diffusa all’indomani di un colloquio telefonico tra il ministro Wang Yi e il capo della diplomazia turca, Mevlut Cavusoglu, su iniziativa di quest’ultimo. Il comunicato fa riferimento anche alle promesse riguardo «la sicurezza delle ambasciate», le relazioni con «tutti i Paesi», la sicurezza del territorio. Wang auspica che «questi impegni si traducano in politiche e azioni concrete». Normale che la Cina diventi il “garante” di questa operazione che con ogni probabilità ha appoggiato anche prima del golpe bianco della scorsa settimana. D’altra parte gli Stati Uniti e tutti i paesi occidentali hanno totalmente abbandonato lo scenario afghano, e, come sottolineava ieri il presidente Joe Biden: «Non ci saranno interventi militari, neanche limitati e per proteggere le fasce più a rischio della popolazione afghana: «L’idea che ci si possa occupare dei diritti delle donne nel mondo con la forza militare non è razional. Ci sono molti posti dove le donne vengono sottomesse. Il modo per affrontarlo è fare pressioni economiche, diplomatiche e internazionali perché questo comportamento cambi». In ogni caso il vero banco di prova sarà il nuovo esecutivo che i talebani annunciano essere aperto anche alle minoranze politiche e ai loro storici oppositori. Le trattative proseguono convulse e fino a qual momento, sembra difficile che possano incrementare la repressione nei confronti della popolazione civile…

Il gesto disperato delle madri: alcuni bimbi caduti sul filo spinato. “I talebani ci bastonano, salvate i nostri bambini”: donne afghane lanciano figli a militari. Giovanni Pisano su Il Riformista il 19 Agosto 2021. “I talebani ci bastonano, salvate i nostri bambini” e lanciano i figli oltre la recinzione dove sono presenti i soldati britannici. E’ il gesto disperato delle madri afghane nei pressi dell’aeroporto di Kabul dove da giorni si registrano caos e tensioni dopo il ritorno dei talebani al potere in Afghanistan e le conseguenti operazioni di evacuazione all’estero. Nel giorno del 122esimo anniversario dell’indipendenza del Paese asiatico, si registrano nuovi scontri e vittime, con i talebani che controllano buona parte degli accessi allo scalo aereo della capitale, impendendo a numerosi cittadini di raggiungerlo. I video drammatici delle giovani madri che provano ad affidare ai militari presenti oltre la recinzione i loro figli, anche di pochi mesi, sono diventati virali nel giro di poche ore. I fatti risalgono alla giornata di mercoledì 18 agosto. Tanta è la disperazione dei cittadini che cercano di scappare quanto prima dall’Afghanistan. A raccontare l’episodio l’emittente inglese Sky News, citando un ufficiale dell’esercito di Londra allo scalo della capitale afghana. “E’ terribile, alcune gettavano i loro bambini ai militari chiedendo di prenderli, alcuni sono caduti sul filo spinato”, ha raccontato il funzionario, sottolineando che i soldati britannici sono molto provati. “Ieri notte piangevano tutti”, ha detto. In seguito alla notizia, è intervenuto il segretario alla Difesa britannico, Ben Wallace, il quale ha spiegato che “nessun bambino non accompagnato sarà portato fuori dall’Afghanistan” perché il governo “non può prendersi in carico un minore solo”. Al giornalista Kim Sengupta, inviato del quotidiano britannico Independent, un ufficiale del reggimento di paracadutisti della Gran Bretagna ha aggiunto che le violenze dei talebani avvengono nei pressi dell’Hotel Baron, non molto distante dall’aeroporto di Kabul. “Un punto in cui combattenti talebani si trovano a pochi metri dai parà e dalle forze speciali britanniche, separati da barriere di filo spinato e da una barricata di veicoli militari”, scrive Sengupta. Qui donne e uomini vengono minacciati e picchiati dai talebani che puntano a farli indietreggiare, impedendo loro di raggiungere l’aeroporto. Così alcune mamme hanno tentato, in modo disperato, di lanciare i propri figli verso i militari britannici. Alcuni bambini sono caduti sul filo spinato riportando anche gravi conseguenze. 

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Greta Privitera per il “Corriere della Sera” il 22 agosto 2021. Prima di chiudere la porta di casa, Inas e il marito Salah fanno un patto. Un patto a sottrazione: «Se non riuscissimo a partire tutti e tre, ci provate tu e il bambino», le dice lui. Poi tocca a Inas sottrarre: «Se dovessero fermare anche me, tentiamo con Ayman». Che vuol dire tentiamo di affidare la vita di nostro figlio di tre anni a degli sconosciuti. A un'altra famiglia che riesce a partire, ai volontari di una Ong, a un soldato che allunga le braccia dietro un filo spinato. «Salah ha solo annuito», ci racconta lei in una videochat che fanno dal tetto di casa, vicino al centro di Kabul. 

Alla fine come è andata? 

«Non siamo riusciti nemmeno a entrare in aeroporto. Durante il percorso siamo stati fermati due volte dai talebani che sbattevano il Kalashnikov sul vetro della nostra auto. Poi uno di loro ha infilato la testa nel finestrino: "Devo andare in ospedale", gli ho detto, e ci hanno fatto passare. Ayman piangeva disperato». 

Poi?

«C'era una marea di gente davanti all'ingresso. Centinaia di famiglie come la nostra, tantissimi bambini. Ci picchiavano sulle gambe con dei cavi. Avevamo paura che ci sparassero e allora siamo tornati a casa».  

Se foste riusciti a passare, avreste davvero avuto il coraggio di dare Ayman a un soldato per salvarlo? 

«Certo, lo farei anche ora. È da quel giorno che io e mio marito progettiamo di partire: la nostra priorità è mettere al sicuro Ayman e se questo volesse dire separarci da lui saremmo pronti a farlo. Kabul è morte, tutto il resto è meglio. Vi prego, non giudicateci. Siamo madri e padri come voi. Qui i nostri figli rischiano di essere uccisi o rapiti e addestrati per diventare kamikaze, le nostre figlie rischiano lo stupro. Voi che cosa fareste? Io sono pronta a dargli un futuro e a morire di dolore. Anche le mie amiche dicono la stessa cosa».

 Che cosa ha provato nel vedere i video di quei bambini passati ai soldati? 

«Ho pianto e ho pensato che cosa avrei detto a mio figlio prima di passarlo a quegli uomini. E non mi è venuto in mente niente. Non so che cosa farei, come lo bacerei, come lo stringerei. O forse la mia testa prova talmente tanto dolore a formulare un pensiero simile, che non me lo lascia fare. Però poi ho anche pensato: quei bambini e quelle famiglie sono fortunati, scappano da questo inferno. Sentite?».

Chiede se sentiamo gli spari dalla strada. Non li sentiamo, ma capiamo la paura che ha da come sbarra gli occhi e si guarda intorno. Ci racconta che questa è la prima volta che escono di casa, internet prende bene solo sul tetto. «Da quando siamo tornati dall'aeroporto non siamo andati nemmeno in balcone, viviamo con le tende tirate».  

Come sta Ayman? 

«Ha paura di ogni rumore e la notte non dorme. Due dei miei nipoti non parlano da tre giorni. Sono nata nel 2001, conoscevo il regime talebano dai discorsi della mia famiglia. Ho studiato. Avrei preferito che gli americani non se ne fossero andati». 

Si è sentita tradita? 

«No. Vorrei però che qualcuno ci aiutasse a uscire di qui. Va via solo chi ha un foglio, un'email di un Paese straniero. Noi non abbiamo niente. Devo pensare a come salvare mio padre che è malato ed è un ex collaboratore del governo. Viviamo con la paura che qualcuno sfondi la porta e ci uccida. A volte penso che sia una fortuna che tre mesi fa mamma sia morta di Covid, non avrebbe retto tutto questo. Lei sì che sapeva che cosa vuol dire separarsi dai figli».  

Perché?

«Mia madre, come molte donne afghane, dieci anni fa ha lasciato andare due figli ancora minorenni in Europa, a piedi. Piangeva ogni giorno, non li ha più visti, ma la loro felicità valeva tutto per lei».

Dal “Corriere della sera” il 22 agosto 2021. Un padre passa il figlio a un soldato americano attraverso il fino spinato, su un muro all'aeroporto internazionale di Kabul e in mezzo alla calca, nella speranza che il suo bambino abbia la certezza di raggiungere la salvezza. Questo video è diventato uno dei simboli del dramma afghano. Stando alla ricostruzione del Pentagono un papà aveva chiesto ai militari statunitensi di prendere il figlio e fornirgli le cure mediche. L'uomo ha poi raggiunto il bambino che è in cura in un ospedale in Norvegia. 

Nell'addio delle madri la speranza del futuro. Fiamma Nirenstein il 20 Agosto 2021 su Il Giornale. Se qualcuno ha dei dubbi sull'immensità della tragedia afghana nessuna conferma può essere maggiore del gesto delle madri che porgono i loro bambini oltre il filo spinato dell'aeroporto ai soldati in partenza. Se qualcuno ha dei dubbi sull'immensità della tragedia afghana, del pericolo totale e definitivo che ogni essere umano corre in quel Paese e, in generale, quando l'integralismo islamico al potere, nessuna conferma può essere maggiore del gesto che dobbiamo vedere in queste ore: madri che porgono i loro bambini oltre il filo spinato dell'aeroporto ai soldati in partenza o comunque a qualcuno che possa portarli via dall'inferno, che possa salvarli da un destino terribile, da una vita impossibile o dalla morte. Come può una madre separarsi dal suo piccolo e consegnarlo a un destino imprevedibile? Quando i nazisti e i loro alleati europei davano la caccia agli ebrei per convogliarli verso i campi di concentramento, le madri, le famiglie, presero la decisione estrema di abbandonarli presso conventi, famiglie amichevoli, amici coraggiosi. È una storia complicata, che ha avuto successivamente risvolti duri: la via della riunificazione è stata molto difficile, talvolta si è conclusa in perdita e tragedia. Ma quelle famiglie, allora, erano sicure di dover tentare la via della salvezza per i loro figli. Non c'era scelta. Ci furono madri che decisero persino di lasciare cadere dal treno della deportazione, in un momento in cui rallentava, il bambino neonato che portavano in braccio. È sempre difficile confrontare qualsiasi evento con lo sterminio di sei milioni di persone, e con l'eccidio di un milione e mezzo di bambini, tanti all'incirca i tedeschi ne uccisero. Ma il gesto di una madre che affida il figlio piccolo a un destino cieco, che non sa se lo rivedrà mai più, che spera che nel mondo ci sia ancora qualcosa di buono per lui a fronte del male assoluto, è uguale nell'eternità. Insopportabile per la coscienza di ciascuno di noi. Queste donne, queste madri, non sanno che cosa aspetta la creatura che hanno in braccio, ma sanno benissimo che cosa accadrà loro: apparterranno a quel mondo buio che si vede solo dalla grata del burka, non potranno uscire di casa se non accompagnate da un maschio, le loro sorelle non sposate cadranno schiave dei talebani sotto la pretesa di un «matrimonio», non potranno lavorare, i loro figli cresceranno nel degrado generale della salute e dell'educazione, in uno stato paria, inseguiti dalla violenza islamofascista dei padroni di casa, giudicati secondo la loro obbedienza da un potere fanatico e incivile. La minaccia di morte e di tortura in una società del genere è continua, basta una menzogna, un pregiudizio, un gesto interpretato come una violazione religiosa, l'idea di una delle regole sessuali talebane comportano la lapidazione, il furto o la corruzione il taglio della mano. Il loro campo di concentramento è il loro stesso Paese. Fiamma Nirenstein

Afghanistan: l'occupazione Usa e la pedofilia dilagante. Piccole Note il 19 agosto 2021 su Il Giornale. È grande la preoccupazione per la sorte delle donne afghane. In altre note abbiamo raccontato come la tragedia di questo Paese non nasce con i talebani, ma dai quasi cinquant’anni di guerra ininterrotta. E che gli Stati Uniti non sono parte della soluzione, ma del problema, così che il loro ritiro non è la tragedia che si racconta, bensì un ovvio sviluppo della storia che pur non risolvendo affatto i problemi dell’Afghanistan, ne elimina però uno, e non di poca rilevanza. Così torniamo alle donne afghane, che sicuramente, come altre, amano i propri figli. E che negli anni di occupazione Usa hanno visto i loro bambini presi dai membri delle forza armate afghane, quelle a supervisione Usa, per essere preda dei pedofili che abbondavano tra le sue fila. A rivelarlo, nel 2018, fu l’autorevole New York Times, che ha riferito di una Commissione d’inchiesta Usa incaricata di indagare sul fenomeno, riscontrando tale perversione tra le fila dell’esercito afghano e di come l’esercito degli Stati Uniti abbia chiuso entrambi gli occhi per non disturbare i suoi ascari. “Dal 2010 al 2016, – scrive il New York Times – l’esercito degli Stati Uniti in 5.753 casi ha chiesto di indagare sulle unità militari afgane per verificare possibili casi di ‘gravi violazioni dei diritti umani‘. Se fossero stati riscontrati, la legge americana prevedeva che venissero tolti all’unità incriminata gli aiuti militari”.

“Non è mai successo”.

“Questo il risultato di un’indagine sugli abusi sessuali sui minori da parte delle forze di sicurezza afghane e sull’indifferenza dei militari americani su tale crimine”, secondo il rapporto firmato da Sigar, ispettore generale speciale per la ricostruzione afghana.

“Il rapporto […] è stato considerato così esplosivo” da essere originariamente contrassegnato come ‘Secret/No Foreign'”, cioè segreto e da non rivelare all’estero, “con la raccomandazione che restasse classificato [segreto ndr] fino al 9 giugno 2042“.

“Il rapporto […] è dettagliato e, almeno nella parte resa pubblica, ha fatto poco per rispondere alle domande su quanto fossero diffusi gli abusi sessuali sui minori nell’esercito e nella polizia afghani e su come fosse usuale che l’esercito americano guardasse dall’altra parte, ignorando la pratica diffusa del bacha bazi, o “gioco da ragazzi”, cioè il fatto che i comandanti afgani tenessero con loro fanciulli minorenni come schiavi del sesso”.

Purtroppo, spiega il Nyt, “l’intera portata di questi incidenti potrebbe non essere mai conosciuta”, data (l’ovvia) reticenza del Comando dell’esercito Usa. “Sigar ha dichiarato di aver aperto un’indagine sul bacha bazi su richiesta del Congresso e in risposta a un articolo del New York Times del 2015 che descriveva la pratica come ‘dilagante‘. L’articolo diceva che i soldati americani che si erano lamentati avevano avuto la carriera rovinata dai loro superiori, che li avevano incoraggiati a ignorare tale pratica”.

Poi il Nyt riporta alcuni casi: “Un ex ufficiale delle forze speciali, il capitano Dan Quinn, che ha picchiato un comandante afghano per aver tenuto un ragazzo incatenato al letto come schiavo del sesso, ha poi detto che a seguito di tale episodio era stato sollevato dal suo comando. ‘Stavamo mettendo al potere persone che avrebbero fatto cose peggiori di quelle che hanno fatto i talebani’, ha poi dichiarato il capitano Quinn, che ha lasciato l’esercito”.

E ancora: “Il sergente prima classe Charles Martland, un berretto verde pluridecorato, è stato costretto a lasciare l’esercito dopo aver picchiato un comandante della polizia locale afghana a Kunduz che era uno stupratore di bambini. Il sergente Martland si è infuriato dopo che il comandante afghano ha rapito il ragazzo, lo ha violentato e poi ha picchiato la madre del ragazzo quando ha cercato di salvarlo”.

Infine, “l’articolo del Times citava anche la morte sospetta di Lance Cpl. Gregory Buckley Jr., un marine degli Stati Uniti che è stato ucciso a un posto di blocco dove era di stanza con un famigerato comandante che aveva un seguito di ragazzi bacha bazi. Il caporale Buckley si era lamentato di quel comandante ed era stato ucciso, insieme ad altri due marines, da uno degli uomini del militare accusato” (probabile che al tempo l’assassinio sia stato addebitato ai talebani).

Se i comandanti americani chiudevano tutti e due gli occhi su crimini tanto gravi, si può immaginare che altrettanto accadesse per crimini di minore o uguale portata, come stupri, furti, vessazioni, furti e omicidi (ed è ovvio che i responsabili di tali crimini, che erano legione, insieme alla rete degli informatori Usa, altra legione, vogliano scappare dal Paese, mischiandosi a quanti ne fuggono per disperazione).

Forse questa deriva, forse non solo afghana, spiega più di altro il tasso monstre di sucidi tra i veterani di guerra dell’esercito degli Stati Uniti: un rapporto del Dipartimento dei veterani riporta che nel 2019 se ne erano stati registrati 17 al giorno, in crescita rispetto agli anni precedenti, che pure registravano cifre di poco inferiori.

In parallelo alla pedofilia, durante l’occupazione Usa, fiorivano altri crimini. Non per colpa diretta degli Stati Uniti, magari, ma certo della destabilizzazione permanente causata dalla loro presenza militare. Destabilizzazione che ha gettato un Paese già povero nella miseria più assoluta.

Ricordo un documentario della Rai in cui alcuni afghani raccontavano di fuoristrada dai vetri oscurati che rapivano giovani e bambini, che poi venivano ritrovati privi di qualche organo.

Non ho ritrovato quegli antichi documentari e solo il ricordo non basta. Ma ho trovato articoli sul traffico di organi in Afghanistan, in particolare dei reni, tanto che Arab News definisce questo Paese “la nazione da un rene solo” (sulla vendita dei reni vedi anche il Nyt: “In Afghanistan il boom del commercio dei reni depreda i poveri”).

Certo, sul traffico dei reni si può scrivere più liberamente, più arduo toccare il traffico di organi più vitali, come cuore, fegato e altro, perché questo uccide i donatori: Ma chi commercia in reni, in genere, gli affianca altri “prodotti”. Cercheremo ancora, per vedere se da qualche parte questo traffico oscuro è stato registrato.

Durante questi anni è poi fiorito il traffico di bambini. Tanti, denunciava nel 2011 Save the children, in Afghanistan i pargoli “venduti, che vengono sfruttati sul lavoro e, spesso, sono costretti a prostituirsi”.

Siamo sicuri che il regime dei talebani sia una prospettiva peggiore degli orrori a supervisione Usa che l’hanno preceduto?

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 18 agosto 2021. Non hanno acqua, né cibo, nessun riparo. La riconquista dell'Afghanistan da parte dei talebani è un'onda partita dalle provincie di Kandahar, Khost e Paktia dove i combattimenti hanno ucciso 27 bambini e ne hanno feriti 136. Chi è sopravvissuto è scappato con la famiglia verso Kabul e ora, rivela il monitoraggio di Save the Children, sono 75 mila i minori nella capitale. La maggior parte in condizioni disperate: «Vivono per strada, come unico riparo delle tende di tela cerata e soffrono la fame», è l'allarme dell'organizzazione.

ACQUA SPORCA Il loro numero aumenta di ora in ora. Su circa 630 famiglie giunte in città negli ultimi giorni, più della metà (324) ha detto di avere poco o nessun accesso al cibo. Molte hanno fatto ricorso a misure disperate per sopravvivere, come vendere i pochi beni rimasti, mandare i figli a lavorare e ridurre al minimo le razioni alimentari. Tutte hanno accumulato debiti per mettersi in salvo. «Questo è un disastro umanitario che si sta consumando davanti agli occhi del mondo», afferma Christopher Nyamandi, direttore di Save the Children in Afghanistan. «Gli abitanti di Kabul hanno aiutato gli sfollati con razioni alimentari, ma non sono abbastanza. E altre famiglie arrivano in continuo. La gente sta bevendo acqua da contenitori sporchi ed è costretta a vivere in condizioni non igieniche. Siamo a un passo da un'epidemia». I volontari della onlus raccontano di essersi imbattuti in almeno tredici donne incinte. «Abbiamo bisogno di tende, cibo, acqua pulita, servizi igienici. Immediatamente. L'unica vera soluzione è la fine dei combattimenti e il raggiungimento di un accordo tra le parti in guerra. Ma fino a quel momento dobbiamo sostenere i bambini e le loro famiglie», ribadisce Nyamandi. Il punto di non ritorno, per i più piccoli, è l'arruolamento forzato. Come denuncia il rappresentante dell'Unicef per l'Afghanistan Hervé Ludovic De Lys, preoccupato per la «rapida escalation delle gravi violazioni» ai danni dei minori, le «atrocità» crescenti e «il reclutamento da parte di gruppi armati». Il bilancio che arriva dalla provincia di Kandahar è di 20 bambini morti e 130 feriti, altri due piccoli sono stati uccisi in quella di Khost e cinque in quella di Paktia. «Questi non sono soltanto numeri - riflette De Lys - Sono tutti bambini il cui diritto alla protezione, in base al diritto umanitario internazionale, è stato disatteso dalle parti in conflitto. Queste atrocità sono anche la prova della natura brutale e dell'entità della violenza in Afghanistan che affligge bambini giù vulnerabili. Ognuna di queste vittime e ogni caso di sofferenza fisica rappresentano una tragedia personale». Dall'inizio dell'anno, dicono i dati Unicef, più di 552 bambini sono stati uccisi e oltre 1.400 feriti. Metà della popolazione, più di 18 milioni di persone tra cui quasi 10 milioni di minori, ha bisogno di assistenza umanitaria urgente. Quasi 4 milioni di bambini non va a scuola, e la metà sono femmine. «I nostri uffici ci segnalano da gennaio quasi 3.000 gravi episodi di violenza contro i più piccoli», informa il portavoce di Unicef Italia, Andrea Iacomini. MALNUTRIZIONE L'Afghanistan, sintetizza, «è da molti anni uno dei peggiori posti al mondo in cui essere un bambino o una bambina». Nelle ultime settimane la situazione è precipitata. La previsione dell'Unicef è che, senza un'azione urgente, un milione di bambini sotto i 5 anni soffrirà di grave malnutrizione entro la fine del 2021 e 3 milioni di malnutrizione acuta moderata. Uno scenario tanto grave da scuotere anche il capo delle operazioni sul campo dell'Unicef Mustapha Ben Messaoud. «Nelle ultime due settimane sono stato a Kandahar, Herat e ora Kabul - racconta - Ho visto l'impatto diretto dei combattimenti, dai bambini feriti a quelli gravemente malnutriti. Può essere difficile da descrivere quando si tratta di piccoli di dieci mesi».

Gli Lgbtq afghani.

Comunità Lgbtq afghana terrorizzata, nascosta nelle fogne di Kabul: l’allarme delle associazioni di donne italiane. Valeria Manieri su Il Riformista il 20 Agosto 2021. C’è chi negli scorsi giorni su quotidiani nazionali si è chiesto dove fossero finite le femministe occidentali e italiane sulla crisi in Afghanistan. A dire il vero, l’associazionismo femminista, femminile e non, si è mobilitato fin dai primi minuti del precipitare della situazione a Kabul. Questo prodigarsi è avvenuto in particolare nelle ultime 72 ore, attraverso frenetiche telefonate, informazioni di Ong sul campo in Afghanistan, raccolta di testimonianze di chi è coinvolto in prima persona o ha amiche o amici, colleghe e colleghi nella capitale afghana. Quello delle associazioni non è mai un agitarsi inutile. Al senso di impotenza e anche una certa vergogna per la fine indecorosa fatta dalla missione delle forze europee e occidentali in Afghanistan, le donne hanno cercato di porre rimedio con un battage impressionante, dando subito la propria disponibilità all’accoglienza dei rifugiati e con una lettera aperta, accorata e concreta rivolta alle istituzioni italiane ed europee. Tra i primi a rispondere la Farnesina, in particolare con il Sottosegretario Benedetto Della Vedova, che da tempo segue la questione femminile afghana e che ha impiegato poche ore a incontrare una folta delegazione in rappresentanza di oltre 80 associazioni di donne e terzo settore, tra cui reti come Donne per la salvezza, Le Contemporanee, l’Asvis (alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile) , Fuori Quota, Soroptimist International Italia, Rete per la parità, Casa Internazionale delle Donne Roma, Associazione Orlando Bologna, Differenza Donna, Pangea, Be Free e molte altre. Ad oggi ci sono problemi molto concreti da risolvere, che sono stati fatti presenti dalle organizzazioni al sottosegretario e ad alcuni alti funzionari del ministero degli esteri presenti. Dalle liste per evacuazione incomplete di persone afghane che hanno collaborato con le forze occidentali, alle donne e bambini che non riescono a raggiungere l’aeroporto di Kabul unico punto di partenza dell’intero Paese, ormai controllato dai talebani. Mentre la riunione era in corso, da agenzie nazionali e internazionali, arrivavano notizie di razzie di bambine nelle case afghane come bottino di guerra per le milizie talebane, dettagli agghiaccianti che si univano a testimonianze dirette di posti di blocco talebani ormai ovunque nel paese e di una comunità Lgbtq afghana ormai terrorizzata, letteralmente nascosta nelle fogne di Kabul. Un quadro terribile che ha motivato ancor più le attiviste a mobilitarsi concretamente per incoraggiare le istituzioni italiane ad aprire corridoi umanitari il prima possibile compatibilmente con la complessa situazione sul campo. Nell’analisi offerta dalle associazioni è emersa la necessità di dettagliare precisamente il numero di persone migranti che il nostro paese ritiene di poter accogliere, come già fatto da Gran Bretagna e Canada, le modalità per ricevere i migranti, bloccando nel contempo i rimpatri o le ricollocazioni delle persone afghane già nel nostro Paese. Ma è il richiamo al senso di responsabilità europeo ad essere citato più volte e ripreso in molti interventi. Nessuna si attende che stavolta siano paesi come Francia e Germania a fare i primi passi per l’accoglienza, nazioni troppo vicine a scadenze elettorali e con leadership in via di aggiornamento. La richiesta da questo punto di vista è stata esplicita e verrà ribadita in ogni occasione istituzionale utile: sia l’Italia apripista nell’accoglienza, andando oltre le diatribe politiche che caratterizzano il tema migrazioni da sempre. Nessuna persona sana di mente riporrebbe fiducia in un’unica azione di sostegno ai paesi di prima accoglienza dei rifugiati afghani, tutte nazioni con una scarsa tutela dei diritti fondamentali. I fallimentari tentativi libici e turchi, sono stati su questo una lezione sufficiente. Gli interventi delle rappresentanti associative si sono concentrate sulla necessità di arrivare rapidamente a soluzioni concrete, sulla valutazione dell’opportunità di creare un fondo ad hoc su cui dirottare eventuali raccolte di denaro da destinare a progetti di cooperazione, sviluppo, formazione e accoglienza nel nostro Paese e in Afghanistan, di cui le istituzioni, insieme alle organizzazioni più attive, si facciano garanti e parte attiva. Un richiamo fondamentale ha riguardato la messa in salvo delle attiviste e delle femministe che si sono spese in questi anni a Kabul e in altri territori del paese mediorientale, come azione di tutela delle esperienze virtuose per la crescita, la cooperazione e lo sviluppo della popolazione e del Paese. Un tesoretto da salvaguardare per il futuro del Paese e un segno tangibile di riconoscenza. Valeria Manieri

Simone Alliva per “la Stampa” il 21 agosto 2021. «Ci ammazzeranno a colpi di pietre. Ci lapideranno. Sai che vuol dire?». Basir parla e piange. È stremato. Da giorni vive nascosto in un luogo «sicuro» dentro Kabul: «Costa molto stare qui ma la vita non ha prezzo». Spera di usare il visto per andare in un altro Paese, ma il problema è uscire da quel rifugio che ormai è una prigione. Dalla finestra racconta quello che vede per strada: «In questo momento ci sono giù cinque taleban in cerchio con i fucili puntati verso il basso. Siamo cadaveri che si nascondono». 23 anni, gay. La sua vita non era migliore prima dell'arrivo dei taleban: «Ma avevamo una speranza. Adesso solo morte». Le persone Lgbt in Afghanistan da sempre vivono nell'oscurità: nessuna associazione, nessun riconoscimento di diritti. Eppure, negli ultimi anni la comunità Lgbt aveva acceso una luce. Il web era divenuto un porto per gay e lesbiche che grazie alla Rete scoprivano informazioni, contatti, possibilità di aggregazione altrimenti difficilissime. Basir per anni ha fatto questo con una pagina social: ha messo in contatto le persone Lgbt del Paese. Tutto finito. Con l'arrivo dei taleban divenire e trasformazione sono vissuti come minaccia. «Ci sono solo due punizioni per i gay: o la lapidazione oppure schiacciati sotto il crollo di un muro. La parete deve essere alta da 2 ai 3 metri». La frase è di Gul Rahim, giudice talebano, al quotidiano tedesco Bild il mese scorso. Il destino per la comunità Lgbt in Afghanistan sembra segnato. Basir racconta del suo amico Alawi: «Gli hanno strappato l'anima» dice. «Si era molto avvicinato a una persona ma non sapeva fosse un talebano, lo conosceva da tre settimane. È stato invitato a casa con la promessa che avrebbero lasciato l'Afghanistan insieme. Si è trovato davanti altre due persone, una di queste aveva una barba lunghissima da mullah. Prima lo hanno picchiato senza pietà, colpito sui reni, alla testa, ai polpacci, con il calcio del fucile e i bastoni. Poi è stato stuprato. Gli hanno chiesto il numero del padre. Volevano comunicare che aveva un figlio gay. Si è rifiutato. Hanno continuato a picchiarlo. Adesso non vuole parlare, non vuole dire chi sono questi taleban. Lo controllano tramite i social e da vivo, da qui, non scapperà mai». Artemis Akbari, attivista Lgbt afghano e rifugiato, lancia l'allarme: «Non lasciatevi ingannare. I taleban vogliono mostrare il volto buono ma è una maschera. Ci stanno ammazzando». Ogni giorno riceve messaggi disperati: «Sono stanco di nascondermi. Voglio uccidermi». Racconta anche di aver perso le tracce di un suo amico scappato da Kunduz: «I taleban gli hanno bruciato casa. È riuscito a scappare ed è giunto a Kabul senza niente. Dormiva per strada. Non ha soldi e ha paura che qualcuno scopra la sua omosessualità. Non ho notizie da giorni». Le donne lesbiche sono vulnerabili due volte: perché donne e omosessuali. Nemat Sadat, attivista Lgbt e professore di Scienze Politiche all'Università Americana dell'Afghanistan, racconta: «Ricevo storie di ragazze costrette a sposarsi e stuprate». Sadat presenterà al dipartimento di Stato americano una lista con 107 persone Lgbt da portare in salvo «Vorrei arrivare a mille». E rivolge il suo appello all'Italia: «Il governo italiano può accoglierci. Potrebbe offrire aiuti ai taleban se riconoscono i diritti Lgbt? Sembra folle, lo so, ma tutto è possibile. I taleban avranno bisogno di contanti una volta prosciugati gli aiuti esteri all'Afghanistan».

Le donne afgane.

I taleban: «Senza il suo consenso non si può sposare una donna». Camille Eid il 4 Dicembre 2021 su Avvenire. Il leader supremo dei taleban ha chiesto ieri al suo governo di «adottare misure serie per far rispettare i diritti delle donne» in Afghanistan, specialmente in materia di matrimoni forzati. «Nessuno può costringere una donna a sposarsi», dichiara il mullah Haibatullah Akhundzada nel decreto in cui ordina a tribunali e governatori di lottare contro questa pratica diffusa su larga scala nel Paese. Il consenso dell’interessata sarà quindi necessario per contrarre matrimonio. Tra le nuove direttive compaiono anche «il diritto delle vedove a determinare il proprio futuro e a non contrarre necessariamente nuovo matrimonio», il diritto della donna a una quota dell’eredità e della proprietà di marito, figli, padre e parenti. Il mullah denuncia poi la consuetudine di «dare una donna in matrimonio per raggiungere un accordo o porre fine a una disputa tra famiglie» e chiede ai ministeri della Cultura e dell’Informazione di pubblicare articoli sui diritti della donna per «fermare la regressione in corso». Coloro che hanno più di una moglie sono obbligati a riconoscere loro i diritti e mantenere la giustizia tra le mogli. Haibatullah chiede infine al ministero degli Affari religiosi di incoraggiare gli ulema a predicare contro l’oppressione delle donne. S embra una farsa, ma i taleban si ergono improvvisamente a difensori delle donne – che essi continuano a privare dell’istruzione e che restano escluse da molti settori di lavoro – nel momento in cui tentano di convincere la comunità internazionale di ripristinare i fondi necessari per fare fronte alla grave crisi economica. I taleban sono inoltre accusati di essere dietro il “business” dei matrimoni forzati, in molti casi di minorenni, in aumento a causa della galoppante povertà. Molte famiglie disperate, soprattutto nelle zone settentrionali e occidentali devastate dalla siccità, hanno venduto le proprie figlie per pagare un debito o per procurarsi del cibo. Un afghano è stato arrestato due settimane fa nel nord del Paese: è accusato di aver venduto 130 donne, con la falsa promessa di trovare loro un marito ricco, riducendole praticamente in schiavitù. La prima a credere in un’operazione di marketing dei taleban è Samira Hamidi, responsabile della campagna in corso di Amnesty International a favore delle donne afghane. La campagna, che prosegue fino al 10 dicembre, è basata sulla testimonianza diretta di 16 donne (tra cui universitarie, giornaliste, insegnanti e magistrati) che formulano i loro timori, ma anche le loro raccomandazioni alla comunità internazionale. «Queste testimonianze – afferma Hamidi – ricordano con forza fino a che punto i progressi conseguiti dalle afghane negli ultimi due decenni di fronte a degli ostacoli che sembravano insormontabili. Mostrano anche quanto la vita delle donne e delle ragazze sia terribilmente cambiata da quando i taleban sono tornati al potere».

L'apertura dei talebani per rifarsi l'immagine: vietate le nozze forzate. Chiara Clausi il 4 Dicembre 2021 su Il Giornale. La mossa per dimostrare di essere cambiati. Ora anche le vedove potranno risposarsi. Beirut. Se le donne afghane potessero parlare come fa la protagonista del film di Atiq Rahimi, Come pietra paziente, davanti il corpo del marito mujaheddin ridotto a vegetale, capiremmo un mondo che può sembrare lontano e incomprensibile. Con il ritorno dei talebani, in Afghanistan le donne continuano a essere oltraggiate e segregate. Ma ora il gruppo islamista al potere ha emanato un nuovo decreto sui diritti delle afghane che sembra una piccola luce nel buio di una notte sempre più cupa, anche se i dubbi e le contraddizioni restano. Già molte promesse degli studenti coranici sono cadute nel vuoto, ma in base a questa nuova decisione il consenso delle donne sarà necessario per contrarre matrimonio. I talebani sono sotto pressione da parte della comunità internazionale affinché siano garantiti i diritti delle donne. Una precondizione per riconoscere il loro governo e ripristinare gli aiuti. «Una donna non è una proprietà, ma un essere umano nobile e libero; nessuno può darla a nessuno in cambio della pace o per porre fine alle animosità», afferma il decreto diffuso dal portavoce Zabihillah Muhajid. Tra le nuove direttive anche «il diritto delle vedove di sposarsi», il diritto all'eredità e a una quota fissa della proprietà di marito, figli, padre e parenti. E coloro che hanno più di una moglie sono obbligati a riconoscere loro i diritti e mantenere la giustizia tra le mogli. Tuttavia, non è menzionata la possibilità per le donne di lavorare, studiare o accedere a strutture al di fuori della casa. La condizione delle donne era notevolmente migliorata negli ultimi due decenni di presenza internazionale in Afghanistan, ma ora è considerata minacciata dal ritorno dei talebani. Durante il loro precedente governo dal 1996 al 2001, hanno vietato alle donne di uscire di casa senza un parente maschio e alle ragazze di ricevere un'istruzione e hanno obbligato tutte le afghane a coprire il viso e il capo indossando il burqa. I talebani però sostengono di essere cambiati e che in alcune province è stato permesso di aprire le scuole superiori per le ragazze. Ma molte donne e difensori dei diritti umani rimangono scettici. I matrimoni forzati sono diventati più comuni nel Paese sempre più povero e conservatore, poiché gli sfollati interni sposano le loro giovani figlie in cambio di denaro che può essere utilizzato per pagare i debiti e sfamare le loro famiglie. Le donne in Afghanistan per decenni sono state trattate come proprietà per ottenere denaro, merce di scambio per porre fine a controversie o faide tribali. I talebani ora si dichiarano contrari. Hanno anche detto che una vedova potrà risposarsi 17 settimane dopo la morte del marito, e scegliere liberamente il nuovo consorte. Tradizioni tribali volevano che una vedova sposasse uno dei fratelli o dei parenti del marito in caso di morte. Ma i dubbi restano. Migliaia di ragazze non possono ancora frequentare la scuola e alla maggior parte delle donne è vietato tornare al lavoro. La comunità internazionale è stata chiara e ha fatto dei diritti delle donne un elemento chiave di qualsiasi impegno futuro. Il Paese, che soffre anche di una crisi di liquidità a causa delle sanzioni, rischia il collasso economico e la povertà è in aumento da quando a metà agosto si è concluso il ritiro delle truppe degli Stati Uniti e della Nato. Il sogno è che le afghane come la protagonista del film possano un giorno liberare la parola, pregare, gridare, ma al mondo questa volta, e infine ritrovare loro stesse. Chiara Clausi

Cristiano Sanna Martini per notizie.tiscali.it il 5 dicembre 2021. Quanto è stato bello commuoversi e restare ammaliati di fronte agli occhi enormi di paura, come li avrebbe chiamati Fabrizio De André, quando il fotografo americano Steve McCurry li catturò nel 1984 rendendoli un'icona mondiale. Finirono sulla copertina di National Geographic, a raccontare lo spaesamento, la stanchezza, l'istinto a difendersi da tutto e tutti come fa un animale ferito, e servirono per riposizionare le lacrime del mondo sul dramma infinito dell'Afghanistan. All'epoca Sharbat Gula aveva appena 12 anni ed era una delle tante bambine di nessuno sperse nell'ennesimo campo profughi. La sua tragica bellezza, magnetica, aprì il cuore di chiunque non fosse troppo morto per non reagire in modo sentimentale di fronte ad un dramma che è tuttora il dramma di milioni di persone. Ed è ancora il dramma di Sharbat, di nuovo cacciata via da una casa umile, semplice, avuta dopo anni e anni di peregrinazioni nella terra di nessuno. Ancora odiata, minacciata, costretta ad andarsene.

La paura che ti consuma

Ossessionato dall'immagine che aveva colto, per 20 anni McCurry cercò di ritrovare la ragazzina che aveva trasformato nella "Mona Lisa dei profughi", il simbolo di tutti i diseredati del mondo, quelli che vivono di pochissimo pane e molto coraggio per spostarsi fra la loro terra occupata con le armi dalla gente che li odia verso altri posti dove nessuno li vuole. La trovò, donna adulta, sposata, in una piccola e poverissima casa di blocchetti, che lavava i piatti con le mani, un po' di acqua e nessun detersivo, i figli attorno e l'umiltà di un marito panettiere che faceva il possibile per provvedere alla famiglia in un Paese dalle ferite profonde. Tanto da segnare gli stessi lineamenti di Sharbat, visibilmente consumata dalla paura che le ha camminato a fianco per anni. Non era un lieto fine, e anzi, non è nemmeno la fine di una brutta vicenda. 

Verso Roma

C'erano voluti 45 anni da profuga, da indesiderata, da orfana, a Sharbat Gula, per avere quella parvenza di casa. L'ultima ritirata americana dall'Afghanistan, quella che ha fatto ripiombare il controllo religioso e armato dei Talebani sul Paese, con sacche sempre più sostanziose di Isis nel mezzo, ha messo il mondo occidentale, ricco e distante, pronto a commuoversi per un ritratto fotografico e poi a tirare su muri, filo spinato, torrette armate contro migliaia di disgraziati schiacciati fra il freddo e le violenze dei bielorussi presieduti da Lukashenko e i soprusi della polizia di frontiera polacca. Da quel carnaio, in mezzo a sfollati afgani destinati a 24 Paesi diversi, Sharbat Gula è riuscita a venire fuori proseguendo il suo cammino con l'unica forza che le è rimasta, fino ad arrivare a Roma. Un viso che parla, e sappiamo anche troppo bene ciò che ha da raccontare. Se solo ce ne vogliamo ricordare. 

La "ragazza afghana" di McCurry è salva. Da Kabul a Roma grazie a Palazzo Chigi. Gaia Cesare il 26 Novembre 2021 su Il Giornale. Sharmat, resa celebre dal fotografo nel 1985, è sana e salva in Italia. La Gioconda è a Roma. Non il capolavoro di Leonardo. Ma la donna afghana, in carne e ossa, che lo scatto del fotografo Steve McCurry trasformò nella Monna Lisa contemporanea, immortalata quando aveva appena 12 anni e divenuta celebre quando comparve sulla copertina del National Geographic un anno dopo. Era il 1985. Sono passati 36 anni da quella foto e oggi Sharbat Gula è arrivata in Italia grazie al programma di evacuazione del nostro governo per l'accoglienza e l'integrazione dei cittadini afghani, migliaia dei quali ancora oggi in fuga dal regime dei talebani dopo la presa di Kabul ad agosto e il ritiro delle forze Nato. A dare la notizia dell'approdo di Sharmat nella capitale è stata proprio la presidenza del Consiglio, che sottolinea di aver «propiziato e organizzato» il trasferimento nel nostro Paese in seguito alla richiesta di aiuto della donna a lasciare l'Afghanistan. È un arrivo simbolico, anzi salvifico in un momento in cui l'intera popolazione afghana patisce da una parte il disastro economico di un Paese al collasso, dall'altra la totale compressione dei diritti e delle libertà per ordine del nuovo Emirato islamico, impietoso soprattutto nei confronti delle donne, a cui è di fatto vietato studiare, lavorare e uscire da sole, senza un mahram, un guardiano di sesso maschile che le accompagni, come ha ricordato ieri Amnesty Italia in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. È un arrivo ancora più simbolico, quello di Sharmat, perché da bambina a donna, la sua biografia è ormai un simbolo mondiale del travagliatissimo destino dell'Afghanistan sin da quel lontano 1985. Allora la ragazzina dallo sguardo magnetico e spaesato, i grandi occhi verdi, era un'orfana afghana incontrata da Steve McCurry nel campo profughi di Peshawar, in Pakistan, dopo che aveva perso i genitori a soli 6 anni nella guerra russo-afghana. Quando il fotografo americano si mise al lavoro, Sharmat era a scuola, durante una delle lezioni che oggi vengono negate a milioni di sue coetanee in Afghanistan. «Mi accorsi subito di quella ragazzina . Aveva un'espressione intensa, tormentata e uno sguardo incredibilmente penetrante», raccontò poi McCurry. «Quando ho cominciato a fotografarla, non ho sentito e visto più nient'altro. Mi ha preso completamente (...). Tutto era stato perfetto, la luce, lo sfondo, l'espressione dei suoi occhi». La ragazzina non era mai stata fotografata e non aveva mai visto una macchina fotografica prima. Nel 2002 McCurry e il National Geographic decisero di tornare sulle sue tracce. Diciassette anni dopo, Sharmat era sposata ed era diventata madre. Lui cercò di spiegarle che cosa avesse significato il suo scatto nel mondo. «Le sue reazioni mi sembrarono un misto di indifferenza e di imbarazzo, con un pizzico di curiosità e di sconcerto», riferì ancora McCurry. «Non sono sicuro che la fotografia o il potere della sua immagine significassero davvero qualcosa per lei, che fosse in grado di capirli fino in fondo (...). Aveva vissuto una vita da reclusa». Ora per lei ne comincia una nuova. In Italia. Come quella di cinquemila afghani evacuati e accolti dal nostro Paese. Gaia Cesare 

Mattia Sorbi per repubblica.it il 16 novembre 2021.  Manan è una piccola gelataia e spinge ogni giorno il carrello per le vie di Kabul. E' una bambina sui dieci anni, che dopo scuola si cambia, si veste come un ragazzino e raggiunge il papà al lavoro. In Afghanistan le famiglie che non hanno figli maschi hanno una soluzione: crescere un “bacha posh”, in lingua dari “travestito”. Si tratta di una tradizione, alcune coppie decidono, spesso alla nascita della terza o quarta figlia, di educare l'ultima come un maschio, per aiutare a guadagnare di più. Nella maggioranza delle famiglie afgane solo i maschi trovano un lavoro e se la famiglia è povera, non avere maschi rappresenta una vera e propria maledizione

Marta Serafini per il "Corriere della Sera" il 23 novembre 2021. Non importa che nel Paese non ci sia più cibo e il sistema finanziario sia al collasso. Fondamentale - per i talebani - è che nelle soap opera non compaiano le donne e le presentatrici televisive siano ben coperte mentre leggono le notizie. È l'ultimo provvedimento del governo talebano che ha rilasciato una serie di linee guida ai canali con otto nuove regole. Sebbene le indicazioni sulla lunghezza del velo delle anchor non sia molto precisa, la censura spazia. Si va dal divieto di film considerati «contrari ai principi della sharia e ai valori afghani». Sono poi vietate le riprese «che espongano parti intime del corpo». E sono sospesi gli spettacoli comici e di intrattenimento che insultano la religione o possono essere considerati «offensivi per gli afghani». Infine, niente film stranieri. «Regole inaspettate», secondo Hujjatullah Mujaddedi dell'associazione dei giornalisti. Ma soprattutto regole che, oltre ad essere lesive dei diritti delle donne - nel Paese alle giovani è già stata vietata l'istruzione superiore e sono interdetti alle donne la maggior parte dei lavori - non hanno alcuna aderenza alla realtà. In Afghanistan, così come in buona parte del mondo musulmano, le soap opera più diffuse sono quelle prodotte in Turchia, «drama» dove le donne sono quasi sempre protagoniste. Difficile pensare di non mandarle più in onda dando un dispiacere all'«alleato» turco. E ancora: questo provvedimento rischia di calpestare i piedi ai signori della guerra che possiedono la maggior parte delle televisioni locali, fiorite in Afghanistan dopo il crollo dei talebani nel 2001. Secondo Hujjatullah Mujaddedi molte emittenti, se costrette a sospendere i programmi più popolari, dovranno chiudere. Una situazione che non farà sicuramente piacere ai narcotrafficanti locali e che rischia di far salire la tensione già alta. Il giro di vite sulle televisioni arriva mentre le Nazioni Unite lanciano l'ennesimo appello, chiedendo azioni urgenti a sostegno delle banche afghane ed evidenziando come le conseguenze di un collasso del sistema sarebbero «colossali». Tradotto, il crollo definitivo del Paese è a un passo, mentre il freddo è sempre più rigido, le interruzioni di elettricità sono sempre più frequenti e il cibo scarseggia mentre i prezzi sono raddoppiati. In questo quadro la settimana scorsa ha fatto molto discutere l'immagine di Farzanah Ayoubi, una giornalista abbastanza nota in Afghanistan prima del 15 agosto. Da sette anni lavorava per diversi media del Paese ed era spesso in televisione. Oggi un suo collega la mostra su Twitter mentre in strada è accovacciata di fianco a una pila di oggetti messi in vendita. «Farzanah ha perso il lavoro, in quanto donna non può trovarsi un'occupazione ed è costretta a fare la venditrice ambulante», ha denunciato Miraqa Popal, ex direttore di «Tolo News», principale network afghano. E come Farzanah, migliaia di altre donne e uomini che ogni giorno affollano le strade di Kabul. E, mentre i talebani si preoccupano delle soap e della lunghezza del velo, l'Unicef avverte: dal 15 agosto è cresciuto il numero di spose bambine e le famiglie sono costrette a vendere le loro figlie per 50 dollari. 

«Noi giornaliste afghane di Herat sfuggite ai talebani e accolte in Italia». Arezoo Yahya Zadeh e Ghazal Yahya Zadeh su Il Corriere della Sera il 16 novembre 2021. Arezoo e Ghazal, due sorelle, sono arrivate nel nostro Paese con la loro famiglia il 26 agosto. Hanno vinto lo European Award Investigative and Judicial Journalism 2021.Ci presentiamo, siamo Arezoo Yahya Zadeh e Ghazal Yahya Zadeh, due giovani sorelle, giornaliste e attiviste per i diritti umani e sociali a Herat, in Afghanistan. Siamo le prime ragazze, pioniere, che si sono avvicinate ai media nella provincia di Herat. Abbiamo lavorato per circa dieci anni in diversi media afghani, collaborando con le principali emittenti televisive e radio del Paese. Negli ultimi 20 anni in Afghanistan, nonostante il dominio della Repubblica e il clima di democrazia, i fenomeni di violenza, discriminazione di genere, disuguaglianza sociale, pregiudizi ambientali, restrizioni sociali, corruzione diffusa, illegalità, coercizione, patriarcato e condizioni di guerra sono sempre stati grandi sfide per i cittadini afghani. Per noi è sempre stato tutto una sfida: ogni banalità è una sfida per una donna in Afghanistan. Ogni giorno, entrando nel posto di lavoro, abbiamo accettato molte avversità, affrontato difficoltà e lavorato duramente giorno e notte convivendo con apprensioni e paure. Noi siamo donne. La società afghana non aveva ancora uno spirito di armonia, integrazione e di sostegno verso le donne. Una società falsa, con un serio bisogno di conoscenza, di capacity building, che non era in grado di elevare il livello del pensiero e della cultura della popolazione. Le donne afghane hanno combattuto valorosamente negli ultimi 20 anni. Con abnegazione e coraggio sono state in grado di raggiungere la fiducia in se stesse e persino l’autosufficienza in vari campi tra i quali quello economico, sociale, politico, sportivo, commerciale, agricolo e tecnologico. Essere libere. I nostri progetti sociali e lavorativi stavano iniziando a prendere forma, il cambiamento era cominciato. La direzione era quella giusta, la strada era tracciata, noi vedevamo un futuro. Purtroppo il 15 agosto 2021 tutto è cambiato: le nostre grandi speranze, i sogni, i progetti sono andati in frantumi. Loro hanno preso il controllo dell’Afghanistan. Con il loro ingresso nelle città, a Kabul, ogni cosa della vita delle persone è cambiata e improvvisamente il luminoso giorno del popolo afghano si è trasformato in una notte buia. Con l’avvento dei talebani sono ricominciati gli anni bui delle donne, i cancelli dei media sono stati chiusi, le attività di organizzazioni e istituzioni sono state fermate, le strade vuote. È tornata l’atmosfera di paura, rabbia e odio. Tutti i nostri sogni si sono infranti, le conquiste degli ultimi 20 anni sono state distrutte. In questi anni però qualcosa è cambiato nella testa delle persone, delle donne. Questi 20 anni ci hanno insegnato che possiamo essere libere. Ci hanno insegnato che possiamo essere brave ed affermate nel lavoro, che anche noi possiamo andare a scuola, possiamo girare per le strade, possiamo andare in palestra, possiamo fare tutte quelle cose che prima erano impensabili. Con l’avvento dei talebani tutto questo non sarebbe più stato possibile. Il ritorno dei talebani è stato di grande impatto per noi e per le nostre famiglie: uno shock. Eravamo preoccupate per le nostre vite e il futuro incerto. Certe che i talebani si sarebbero vendicati di giornalisti, giornaliste e attiviste della comunità. Dopo che Herat è caduta nelle mani dei talebani, noi, due giovani ed emergenti giornaliste, abbiamo subito gravi traumi psicologici. Siamo state seriamente minacciate, costrette a lasciare le nostre case, abbiamo vagato nascoste per giorni interi in cerca di un posto in cui nasconderci. Ci sentivamo minacciate come mai era accaduto, la morte non ci sembrava poi così lontana. Nessuno ci stava aiutando o sostenendo, non avevamo alcun lume di speranza e tutte le strade e le opportunità di salvezza ci erano chiuse. Non sapevamo cosa fare. Al culmine di questa disperazione e di questa fuga senza fine abbiamo contattato le nostre carissime amiche italiane, Soldati dell’Esercito Italiano. Subito si sono preoccupate per noi e per la nostra famiglia, fin dal primo contatto. Ci siamo affidate completamente a loro, ci sentivamo di poterlo fare. Ci hanno detto di pazientare, di stare al sicuro e che ci avrebbero dato notizie non appena possibile. Attese interminabili, ore che sembravano anni. Hanno promesso di provare a salvarci da quella situazione, ci hanno chiesto di fidarci di loro e noi lo abbiamo fatto. La nostra attesa è durata poco. Pochi giorni dopo, con l’aiuto delle nostre migliori amiche Rosa, Francesca, Mariana e Federica siamo partite per Kabul. 800 km di viaggio in anonimato, nascoste, terrorizzate. Abbiamo impiegato un giorno intero per raggiungere Kabul. Una volta arrivate all’aeroporto è iniziato il caos. La gente si accalcava, le linee telefoniche non funzionavano, il terrore era negli occhi e nelle urla di tutti. Tre giorni, infiniti. Fatti di tentavi, fallimenti, pianti, paura e angoscia. Angoscia di non potercela fare. Quello che i nostri occhi hanno visto non si può raccontare. Fuori dall’aeroporto di Kabul c’era la disperazione di un intero popolo in cerca di salvezza, in cerca di un futuro, della libertà. Nonostante la situazione fosse durissima, non abbiamo mai perso la speranza e le nostre amiche non ci hanno mai abbandonato. Ci sono state accanto ogni giorno, 24 ore su 24. Confrontandoci, calmandoci e rassicurandoci. Il 26 di agosto il nostro incubo è finito, siamo state recuperate con la nostra famiglia. Salve. Per noi è stato un miracolo e siamo infinitamente grate per gli sforzi dei nostri amici e dell’Esercito Italiano che ci hanno aiutato nella versione peggiore dell’Afghanistan. Viviamo in Italia da più di due mesi ormai, siamo entrate in una nuova fase delle nostre vite. Il Governo Italiano, le autorità italiane e il popolo italiano hanno un cuore molto grande e continuiamo a ricevere gentilezza infinita da loro. Grazie. La nostra gioia è esplosa quando abbiamo saputo che l’Associazione Socio-Culturale «Sirio», presieduta dal Dott. Massimo Scuderi, ci ha individuate come vincitrici del Riconoscimento Speciale al Giornalismo Internazionale dell’European Award Investigative and Judicial Journalism 2021. Per noi è un orgoglio e una gratificazione immensa, indescrivibile. Noi, giornaliste afghane, siamo onorate che i nostri sforzi e la nostra lotta siano stati riconosciuti. Questo riconoscimento renderà le nostre vite grandiose e i nostri obiettivi più ampi affinché possiamo continuare a lavorare in questa direzione. Grazie al Presidente Massimo Scuderi per aver scelto noi. Speriamo che venga il giorno in cui le donne afghane potranno vivere come le donne di altri paesi e godere di tutti i loro diritti, senza guerre né violenze. Ringraziamo ancora una volta l’Esercito Italiano, il Governo Italiano e il popolo italiano tutto. Grazie per la nobiltà d’animo, per il sostegno e per il grande aiuto a noi due sorelle giornaliste e alla nostra famiglia. Viva l’Italia. Viva il coraggio e il coraggio delle donne afghane.

Da ansa.it il 6 novembre 2021. L'attivista e docente di economia Frozan Safi, 29 anni, è stata uccisa in Afghanistan a colpi di arma da fuoco che le hanno distrutto il volto: è il primo difensore dei diritti delle donne, riporta il Guardian, ad essere uccisa da quando i talebani sono tornati al potere lo scorso agosto. Frozan Safi era scomparsa da circa due settimane. Il corpo di Frozan Safi, scomparsa il 20 ottobre scorso, è stato identificato in un obitorio nella città di Mazar-i-Sharif nel nord dell'Afghanistan. «L'abbiamo riconosciuta dai suoi vestiti. I proiettili le hanno distrutto la faccia», ha detto la sorella di Safi, Rita, che è una dottoressa. «C'erano ferite da proiettile dappertutto, troppe da contare, sulla testa, sul cuore, sul petto, sui reni e sulle gambe». Il suo anello di fidanzamento e la sua borsa non c'erano, ha aggiunto Rita come riporta il Guardian. Un portavoce dei Talebani, Qari Sayed Khosti, ha detto che quattro donne trovate morte in una casa di Mazar-i-Sharif, in Afghanistan, tra loro l'attivista Frozan Safi e che due sospetti sono stati arrestati. Le donne sarebbero «state invitate in casa dai sospettati», secondo le prime indagini. 

Marjana Sadat per la Repubblica il 7 novembre 2021. Come al solito, leggo le notizie. Vedo la foto di una ragazza, è nel suo studio, indossa un abito blu. Si chiamava Feruzan Safi. Pochi giorni fa, il suo cadavere è stato trovato a Mazar-i-Sharif. Ho telefonato alla polizia locale per ottenere alcune informazioni sul suo caso. Il 27 ottobre sono stati trovati i cadaveri di quattro donne. Le loro famiglie le cercavano da ore. Alla fine hanno scoperto che i loro corpi privi di vita, rinvenuti in una fossa vicino alla città di Khalid ibn Waled, nella zona Sud di Mazar-i-Sharif, si trovavano nell'obitorio. Feruzan è una di queste quattro donne. Era un'attivista per i diritti femminili e insegnava in un'università privata. Il suo fidanzato, Mohammad Saber Batur, che si è trasferito in Iran dopo la caduta di Mazar-i-Sharif, non sa molto del delitto, ma pensa che si tratti di un omicidio premeditato. Batur ricorda che Feruzan è scomparsa una settimana dopo aver ricevuto la telefonata di una persona che si era presentata come rappresentante di un'organizzazione per i diritti umani che voleva aiutare in segreto gli attivisti civili e i difensori dei diritti umani a lasciare l'Afghanistan. Feruzan era uscita di casa alle 14 del 27 ottobre, con il passaporto e altri documenti, per andare in un Paese straniero con l'aiuto di una fondazione. «Due ore dopo, non riuscivamo a contattarla. Alla fine, ci siamo messi a cercarla e abbiamo trovato il suo corpo all'obitorio, è stata uccisa da colpi di arma da fuoco», racconta il padre, l'ingegnere Abdulrahman Safi, senza voler aggiungere altri dettagli, perché sotto minaccia. Il corpo è stato consegnato alla famiglia, ma non si sa che fine abbiano fatto il suo telefono, i documenti, gli oggetti personali e persino i suoi gioielli, fa notare il fidanzato di Feruzan. Tanto lui che il padre confermano che l'ospedale di Mazar-i-Sharif ha consegnato loro il corpo senza vita della ragazza. Una fonte che conosceva Feruzan spiega che i parenti delle vittime tacciono perché hanno paura che gli assassini prendano di mira altri membri della loro famiglia. Saber Batur dice che i parenti di Feruzan hanno incontrato i funzionari talebani locali e che uno di loro ha detto con riluttanza: «Trovate gli assassini e noi li arresteremo». L'assassinio di queste donne fa crescere la paura di quanti hanno cercato di difendere i diritti umani, la società liberale e la democrazia negli ultimi vent'anni. Maryam Ahmadi (nome fittizio) è un'attivista di Mazar-i-Sharif. Racconta che nessuno ha il coraggio di denunciare ciò che vede: la paura domina la società e i talebani non si assumono nessuna responsabilità. Secondo Maryam, l'assassinio di queste quattro donne, la docente universitaria e le altre tre attiviste, ha terrorizzato chi lavora nel campo dell'informazione e dei diritti civili. L'identità delle altre vittime non è stata ancora chiarita, e i funzionari talebani non hanno fornito nessuna informazione. Da quando i talebani hanno preso il potere, le donne afghane vivono in una situazione terribile e chiedono ai Paesi occidentali di aiutarle. 

Uccisa attivista afghana: «È la prima da quando i talebani sono al potere». Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 6 novembre 2021. Il corpo di Frozan Safi, docente universitaria, ritrovato insieme a quelli di altre tre amiche. «Le hanno attirate in trappola con la falsa promessa di farle uscire dal Paese». «L’abbiamo riconosciuta dai suoi vestiti. I proiettili le hanno distrutto la faccia». Frozan Safi, 29 anni, docente di economia, era nota a Mazar-i-Sahrif per il suo attivismo a favore delle donne. È stata trovata morta, insieme ad altre tre donne in una casa alla periferia della città. Tutte amiche e colleghe, secondo la Bbc, probabilmente ingannate dai loro assassini, che le hanno attirate nell’appartamento con la falsa promessa di portarle all’aeroporto per fuggire dal Paese. Venti giorni fa, Frozan riceve una telefonata da un numero anonimo. «Raccogli tutti e documenti e preparati a partire». Quelle parole hanno un senso: Frozan aveva fatto richiesta di asilo politico in Germania. Così prende alcuni documenti, incluso il suo diploma universitario, li butta in una borsa, si getta una sciarpa bianca e nera sulla testa esce di casa. E sparisce. I familiari la cercano disperati, mentre i media tacciono. Poi giovedì scorso le forze di sicurezza talebane portano all’ospedale i corpi di due donne non identificate che erano state colpite a morte, spiegando che la polizia stava indagando sulle cause, ma che essendo state trovate vicino a due uomini si ipotizzava una lite familiare. Infine il riconoscimento all’obitorio e la notizia, diffusa dal Guardian, che le donne uccise sono in realtà quattro. «Frozan aveva ferite da proiettile dappertutto, troppe da contare, sulla testa, sul cuore, sul petto, sui reni e sulle gambe». Il suo anello di fidanzamento e la sua borsa, spariti entrambi. La sorella Rita, una dottoressa, parlando con il Guardian, è cauta nel puntare il dito contro i talebani. «Semplicemente non sappiamo chi l’ha uccisa». Una vendetta personale? Una punizione per il suo attivismo? Mentre il padre delle Abdul Rahman Safi, 66 anni, dice invece che il corpo della famiglia è stato trovato in una fossa non lontano dalla città ed è stato registrato dagli operatori ospedalieri come sconosciuto, per molti l’omicidio di Frozan e delle altre tre donne è il primo contro le donne da quando i talebani hanno preso il potere. «Chi è stato a ucciderla? Lo sappiamo tutti, ma nessuno può dirlo pubblicamente. Altrimenti fa la stessa fine», dice un’altra attivista a Il Manifesto. Il clima dunque in Afghanistan si fa sempre più teso. E la paura traspare dalle parole di Zahra, un’altra attivista, che racconta al Guardian di essere stata con Frozan durante l’ultima protesta a Mazar-i-Sharif contro i talebani, confermando l’impegno della donna. E poi aggiunge: «Il mio WhatsApp è stato hackerato. Non oserei andare sui social media ora», segno che il timore di essere controllate e spiate è sempre più grande. Il tutto mentre i talebani dicono di aver arrestato due sospetti senza però dare ulteriori dettagli. Fin da metà agosto, le donne hanno tenuto regolarmente proteste in tutto il Paese contro i talebani, chiedendo il ripristino e la protezione dei loro diritti. In un Afghanistan sempre più piegato dalla crisi economica non passa giorno senza che i diritti delle donne vegano ulteriormente calpestati. Le ragazze sono di fatto bandite dalla scuola secondaria, il nuovo governo è tutto maschile e le donne sono state escluse da tutti i settori della società, in primis il lavoro. Giovedì Human Rights Watch ha denunciato come i talebani vietino alla maggior parte delle donne di operare come operatori umanitari nel paese, accelerando un disastro umanitario incombente. Le attiviste d’altro canto raccontano di essere braccate dai talebani, che hanno perfezionato modi per infiltrarsi nei loro gruppi e intimidirle. Un salto di qualità nella repressione, dunque, dopo che hanno usato bastoni elettrici contro i giornalisti che seguivano le proteste delle donne. E che ora prevede anche il ritorno degli omicidi e delle esecuzioni.

Strage di donne: tre attirate in trappola. Attivista uccisa e sfigurata dai talebani. Chiara Clausi il 7 Novembre 2021 su Il Giornale. Frozan Safi, 29 anni, era in attesa di rimpatrio. A riconoscerla dai vestiti la sorella medico: "La faccia distrutta dai proiettili". L'hanno uccisa dopo averla ingannata. Un'esecuzione brutale, selvaggia, colpi sparati al volto, che l'hanno sfigurata e resa irriconoscibile, se non per i vestiti che indossava. É morta così l'attivista e docente di economia Frozan Safi, 29 anni, una delle prime vittime del nuovo regime dei Talebani in Afghanistan. Poco prima di scomparire ha ricevuto una telefonata da un numero anonimo. Una persona che le consigliava di raccogliere tutte le prove del suo lavoro come difensore dei diritti delle donne e di partire per un rifugio. Frozan ha infilato documenti in una borsa ed è uscita di casa. Da allora, non si sono avute più sue notizie, fino al ritrovamento del corpo all'obitorio. Con tutta probabilità è caduta in una trappola. «L'abbiamo riconosciuta dai vestiti. I proiettili le hanno distrutto la faccia» ha detto la sorella Rita, una dottoressa. «C'erano ferite da arma da fuoco dappertutto, troppe da contare, sulla testa, sul cuore, sul petto, sui reni e sulle gambe». Il suo anello di fidanzamento e la sua borsa non c'erano, ha poi aggiunto Rita. Frozan è stato il primo difensore dei diritti delle donne ad essere uccisa da quando è nato il nuovo Emirato islamico. Era scomparsa da circa due settimane, il 20 ottobre scorso. Il corpo è stato identificato in un obitorio nella città di Mazar-i-Sharif nel nord dell'Afghanistan. Un portavoce dei Talebani, Qari Sayed Khosti, ha detto che altre tre donne sono state trovate morte con Frozan e che due sospetti sono stati arrestati. Le giovani sarebbero «state invitate in casa dai sospettati» I presunti colpevoli, ha precisato Khosti, hanno confessato di averle attirate nella loro abitazione. Non ha precisato se abbiano anche detto di averle assassinate, né fornito una motivazione per gli omicidi. Secondo Sayed Azim Sadat, direttore del Zainuddin Mohammad Babar Cultural Center, Frozan stava disperatamente tentando di lasciare il Paese. Temeva per la propria vita sotto il regime dei talebani e sperava di raggiungere il fidanzato, anche lui attivista ma già fuggito all'estero. Queste morti sottolineano il senso di paura diffuso nell'Afghanistan controllato dai talebani, dove un'ondata di uccisioni di persone legate al governo precedente ha instaurato un'atmosfera di impunità. Da metà agosto, infatti le donne hanno tenuto regolari proteste contro i talebani, e hanno chiesto che i loro diritti fossero ripristinati. In Afghanistan le ragazze sono bandite dalla scuola secondaria, il nuovo governo è tutto composto da uomini e le donne sono state escluse dalla maggior parte degli sport e dei mestieri. Gli estremisti hanno infatti condotto un giro di vite molto violento sul dissenso. Hanno picchiato le donne con bastoni elettrici, arrestato e torturato i giornalisti che seguono le proteste a favore dei diritti delle donne. Da quando i talebani hanno preso Kabul il 15 ottobre, migliaia di persone hanno lasciato il Paese, in parte nelle caotiche evacuazioni gestite da Usa e Nato. Le immagini della fuga disperata all'aeroporto di Kabul resteranno nella storia. Centinaia di persone hanno lasciato l'Afghanistan in aereo o via terra però chi non ha passaporto o visto è senza speranza. Ma come scrive nella introduzione al suo romanzo tragico e sublime Le rondini di Kabul lo scrittore algerino Yasmina Khadra: «Solo chi non rinuncia ai sogni può sollevare le montagne e mettere in ginocchio i propri demoni». Frozan doveva pensarla proprio così. Chiara Clausi

La docente ritrovata con altre tre vittime. Afghanistan, la strage delle donne: crivellata di colpi l’attivista Frozan Safi. Antonio Lamorte su Il Riformista il 6 Novembre 2021. Frozan Safi è stata crivellata di colpi: le pallottole le hanno distrutto il volto. Aveva 29 anni ed era docente di economia. Attivista, è il primo difensore dei diritti delle donne ad essere uccisa da quando i talebani sono tornati al potere lo scorso agosto in Afghanistan. Era il 15 agosto: e le prime truppe degli “Studenti di dio” rientravano a Kabul a vent’anni dall’operazione a guida statunitense, provocata dagli attacchi dell’11 Settembre di Al Qaeda, che aveva spazzato via l’Emirato islamico. Quella di Safi sembra una tragedia annunciata: la tragedia delle centinaia che si sono accalcate a partire da metà agosto e per giorni all’aeroporto della capitale per provare a fuggire dal Paese di nuovo in mano ai fondamentalisti islamici. Che stanno tra l’altro disattendendo la loro promessa di sicurezza: lo Stato Islamico del Khorasan, branca regionale del sedicente Stato Islamico, che continua a mettere in crisi tutto l’apparato degli “Studenti di dio” con attacchi e attentati sanguinosi. Una guerra tra estremismi. E Frozan Safi era scomparsa da circa due settimane, il 20 ottobre scorso. Il corpo è stato identificato in un obitorio nella città di Mazar-i-Sharif nel nord del Paese. “L’abbiamo riconosciuta dai suoi vestiti. I proiettili le hanno distrutto la faccia”, ha detto la sorella di Safi, Rita, dottoressa. “C’erano ferite da proiettile dappertutto, troppe da contare, sulla testa, sul cuore, sul petto, sui reni e sulle gambe”. Spariti il suo anello di fidanzamento e la sua borsa, ha aggiunto Rita come riporta il Guardian. Un portavoce dei Talebani, Qari Sayed Khosti ha comunicato che erano quattro le donne trovate morte in una casa alla periferia di Mazar-i-Sharif. E tra loro, con amiche e colleghe, c’era Frozan Safi che proprio in quella città era nota per il suo impegno. Due sospetti sono stati arrestati. Le donne sarebbero “state invitate in casa dai sospettati” secondo le prime indagini. Forse le donne, scrive la BBC, erano state attirate con la promessa di un volo per abbandonare il Paese. Frozan Safi aveva fatto richiesta di asilo politico in Germania. Aveva ricevuto una telefonata anonima, nei giorni prima della scomparsa, che le diceva di prepararsi a partire. “Semplicemente non sappiamo chi l’ha uccisa”, ha detto la sorella. Il terrore tra le attiviste afghane, che hanno paura di essere minacciate e controllate, continua a crescere. Da agosto, soprattutto a Kabul e nei grandi centri, le donne hanno continuato a manifestare. Dopo il ritorno dei talebani al potere sono state bandite dalla scuola secondaria e dal governo. Non possono più operare, come denunciato da Human Rights Watch, come operatori umanitari nel Paese.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

«La ragazza decapitata era una fake news, ma a Kabul regna il caos». Intervista alla giornalista e blogger Barbara Schiavulli che segue le vicende mediorientali da vent'anni sulla situazione in Afghanistan. Orlando Trinchi su Il Riformista il 31 ottobre 2021. «Se prima l’Afghanistan viveva soprattutto grazie ai contributi dei Paesi donatori, in mancanza di questi, nel giro di poco tempo diventerà un Paese al collasso. Se ci aggiungiamo il cambiamento climatico, la siccità e alle porte quello che è previsto come uno degli inverni più rigidi degli ultimi dieci anni, si può senz’altro parlare di un disastro annunciato». Giornalista, blogger, destinataria di numerosi riconoscimenti – fra cui il premio Luchetta, Antonio Russo, Italian Women in The World, il premio Maria Grazia Cutuli e altri –, Barbara Schiavulli testimonia una profonda conoscenza – come corrispondente di guerra – della storia del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia centrale. E l’Afghanistan occupa un posto di rilievo.

Quali impressioni le ha suscitato la sua recente permanenza in Afghanistan?

Seguo l’Afghanistan da vent’anni. Non mi aspettavo tuttavia che si sarebbe consumata così rapidamente questa catastrofe umanitaria, economica e civile. Ci sarei dovuta tornare in occasione dell’ 11 settembre, data simbolica del ritiro degli americani, ma la situazione è precipitata a metà agosto: i talebani sono arrivati all’aeroporto di Kabul e tutti i voli sono stati sospesi. Ho lavorato, insieme a Nove onlus e ad altri colleghi, per favorire l’evacuazione di persone dal territorio, ben conscia del fatto che non saremmo mai riusciti a tirarne fuori abbastanza. Ho trovato un Paese spaventato, a cui avevano imposto nuove, indesiderate regole, ma che non possiede più la forza, dopob46 anni di guerra, di ribellarsi. Ho cercato di raccontare la cancellazione sistematica della società civile e l’indigenza dilagante: il 97% degli afgani si trova sotto la soglia della povertà e si rischia che l’anno prossimo muoia un milione di bambini. Il World Food Program dell’Onu, insieme a poche altre associazioni ci sta lavorando, ma c’è un problema di liquidità: le banche e i confini sono chiusi, non c’è modo di far passare fondi se non attraverso un governo regolarmente riconosciuto, ma il governo talebano, oggi, non lo è.

Durante una recente manifestazione, Husna Saddat, esponente del «movimento spontaneo delle donne attiviste in Afghanistan», ha scandito davanti a un reporter: «Perché il mondo ci guarda morire in silenzio?». Come le appare la reazione internazionale?

Tutti hanno assunto posizioni nette a favore delle donne, ma tra il dire e il fare, poi, c’è di mezzo l’intero Afghanistan. Pensiamo all’aspetto educativo: oltre i dodici anni è vietato alle bambine proseguire gli studi, cosa inaudita in qualunque altra parte del mondo, come è inaudito che siano vietate la musica, la pittura e altre arti. Anche se orribile a dirsi, però, la questione dei diritti umani potrebbe costituire una condizione sulla quale trattare. L’Europa potrebbe richiedere il rispetto dei diritti umani in cambio di ciò di cui hanno maggior bisogno i talebani, ovvero il denaro. Il riconoscimento, a mio avviso, non si può concedere: quello dei talebani non è mai stato un movimento pacifico. Quando, durante un’intervista, ho chiesto al vicedirettore della Commissione Cultura perché si opponessero all’istruzione delle ragazze, mi ha risposto: «Quante storie fate voi occidentali! Guardi dove siamo arrivati noi senza università». Per loro la musica procura svenimenti e per questo è stata vietata! Mancano le basi per un dialogo. Le donne che manifestano oggi sono poche sia perché hanno paura, sia perché sanno che scendere in piazza in questo momento non garantisce cambiamenti sostanziali. Ma si stanno già muovendo in maniera sotterranea: non accetteranno mai di sottostare a questo regime.

Recentemente, si è diffusa la notizia della decapitazione di una pallavolista hazara, Mahjabin Hakimi. Come commenta?

Come per qualsiasi notizia, per prima cosa cerco di verificarla e, se non sono sicura della sua fondatezza, non la pubblico. Da noi, su Radio Bullets, non è uscita, come anche sui grandi giornali e media internazionali occidentali – BBC, Washington Post, The New York Post, ecc… È stata diffusa solo su alcune testate – di cui una, in particolare, iraniana –, per essere poi ripresa dalla stampa indiana, mentre qualcuno in Italia l’ha pubblicata probabilmente senza prima controllarla. C’è poca cura verso il lettore, mentre in realtà il giornalismo dovrebbe costituire un servizio pubblico.

Ha avuto modo di verificarne la mancata correttezza?

Sì, mi è bastato contattare la famiglia.

Cosa ostacola, in Afghanistan, l’emancipazione femminile?

Direi il diffuso conservatorismo e tradizioni difficili da spezzare. Stava avendo luogo un percorso per emancipare la donna attraverso la cultura e l’istruzione: adesso è tutto finito. Il problema sarà quando resteranno i talebani al potere e se, durante questo periodo, il loro oscurantismo intaccherà le giovani menti dei ragazzi e delle ragazze.

Una giocatrice della nazionale di pallavolo dell'Afghanistan è stata uccisa dai talebani. La Repubblica il 20 ottobre 2021. L'atleta, Mahjubin Hakimi, sarebbe stata decapitata a ottobre secondo il Persian Independent, un giornale indiano, ma i familiari hanno tenuto nascosta la notizia per paura di rappresaglie. Una giocatrice della nazionale giovanile di pallavolo dell'Afghanistan, Mahjubin Hakimi, sarebbe stata decapitata dai talebani a Kabul. A denunciarlo al Persian Independent, secondo i media indiani, è una sua allenatrice, identificata per ragioni di sicurezza con lo pseudonimo Suraya Afzali. La ragazza sarebbe stata assassinata a inizio ottobre, ma la notizia non è stata diffusa dai familiari per timori di rappresaglie. Qualche giorno fa sono comparse sui social media quelle delle foto che ritrarrebbero la testa mozzata della giocatrice. Al momento del crollo del governo di Ashraf Ghani, Hakimi giocava nell Kabul Municipality Volleyball Club. Azfali ha spiegato che dal colpo di Stato dello scorso agosto i talebani "hanno cercato di identificare le atlete, in particolare quelle della nazionale di pallavolo che in passato hanno gareggiato in competizioni internazionali e sono apparse in tv" e che solo "due componenti della squadra sono riuscite a fuggire" prima che i talebani prendessero il controllo di Kabul. Nelle scorse settimane, una trentina di atlete della nazionale di volley dell'Afghanistan avevano già raccontato di temere violenze e rappresaglie da parte dei talebani per la loro attività sportiva, chiedendo alla comunità internazionale di aiutarle a lasciare il Paese. Alcune loro compagne che invece erano riuscite a fuggire avevano denunciato l'uccisione ad agosto di un'altra giocatrice della squadra a colpi di pistola. Hakimi era tra le molte atlete lasciate indietro. La scorsa settimana, la Fifa e il governo del Qatar hanno evacuato invece con successo dall'Afghanistan 100 calciatrici, comprese alcune nel giro della nazionale, e i loro familiari.

Giordano Stabile per "La Stampa" il 21 ottobre 2021. Prima le hanno cacciate dai campi sportivi, costrette a rinchiudersi in casa. Poi hanno cominciato a cercarle una a una. Per punirle, ucciderle, decapitarle. È questo l'Afghanistan dei taleban per atlete e sportive. Il divieto di praticare sport in pubblico, decretato poche settimane dopo la presa di Kabul, è soltanto la superficie di una repressione implacabile. Il lato oscuro viene tenuto nascosto ma cominciano a emergere storie terribili. Come quella di Mahjabin Hakimi, giocatrice della nazionale junior di pallavolo. All'inizio di ottobre l'hanno scovata e le hanno mozzato la testa. Poi hanno minacciato i famigliari e intimato di non rivelare nulla. Ma alla fine qualcuno ha parlato. Sui social media sono anche apparse immagini macabre. Alla fine una delle allenatrici, sotto lo pseudonimo di Suraya Afzali, ha raccontato tutto al giornale britannico The Independent. Ha spiegato che da agosto i taleban «hanno cercato di identificare le atlete; in particolare quelle della nazionale di pallavolo, perché in passato ha gareggiato in competizioni internazionali trasmesse anche dalla televisione». Per gli studenti coranici è stato così più facile avere immagini dei volti e scatenare la caccia. La povera Hakimi giocava nel Kabul Municipality Volleyball Club, la squadra della capitale. Soltanto due delle sue compagne sono riuscite a fuggire «prima che i taleban prendessero il controllo di Kabul» lo scorso 15 agosto. Tutte le altre rischiano di fare la stessa fine. Afzali ha confermato che sono in corso perquisizioni «casa per casa». Le più a rischio sono quelle che hanno partecipato in passato a trasmissioni in tivù e hanno dato «interviste». L'uccisione di una di loro è stata confermata anche da Zahra Fayazi, per sette anni titolare nella nazionale. È riuscita a fuggire un mese fa e si è rifugiata in Gran Bretagna. Alla Bbc ha lanciato un appello perché il mondo salvi le sue compagne: «Non vogliamo che altre facciano la stessa fine», ha implorato. Zahra riesce ancora a contattare le atlete rimaste intrappolate nel Paese. «Hanno cambiato casa, si sono trasferite in altre province per sfuggire alla caccia dei taleban -ha raccontato -. Molte hanno bruciato le loro tute, l'abbigliamento sportivo, per salvare se stesse e le proprie famiglie. Sono spaventate a morte e cercano di cancellare tutto quello che ricorda lo sport». I taleban non hanno ancora proibito lo sport alle ragazze in maniera formale. Ma il vicepresidente della loro potente «Commissione culturale», Ahmadullah Wasiq, ha spiegato che «non è necessario» per le donne fare attività sportiva, in particolare in pubblico. Un semplice consiglio che nasconde una realtà molto più feroce. I militanti contattano le famiglie e ordinano di proibire alle figlie di fare sport, altrimenti «rischiano conseguenze molto serie e violenze inaspettate». Per le afghane è un salto all'indietro non di vent'anni ma di mezzo secolo. Già negli anni Settanta c'erano a Kabul squadre di pallavolo, e poi di calcio, cricket e altri sport. La nazionale di volley è stata fondata quarant'anni fa, poi sciolta dopo la prima conquista dell'Afghanistan da parte degli studenti coranici, nel 1996. Nel 2001, dopo la caduta del regime del mullah Omar, è stata subito ricostituita ma adesso le atlete sono ripiombate nell'incubo. Sono state più fortunate le calciatrici. Le nazionali sono riuscite a fuggire quasi tutte, mentre la scorsa settimana la Fifa e il governo del Qatar hanno evacuato con successo altre cento calciatrici e i loro familiari. I taleban moltiplicano le loro uscite all'estero, ieri erano a Mosca, dopo Doha e Ankara, mostrano un volto conciliante. Ma in patria è un'altra storia.

Ida Artiaco per fanpage.it il 21 ottobre 2021. La notizia che è circolata nelle ultime ore su molti media internazionali secondo cui Mahjabin Hakimi, giovane pallavolista della nazionale afghana, sarebbe stata decapitata dai talebani, potrebbe non essere vera. A sollevare i dubbi è stata l'Agenzia Dire che cita a sua volta Matiullah Shirzad, direttore di Aamaj News, una testata con corrispondenti nelle 34 province dell'Afghanistan. Secondo il giornalista, infatti, i familiari della ragazza hanno confermato che Hakimi è deceduta in circostanze da chiarire prima dell'ingresso dei talebani a Kabul e della loro presa del potere, avvenuta il 15 agosto. Stando a questa ricostruzione, "sicuramente" la giovane non è stata uccisa dai miliziani. Ma facciamo un passo indietro per ricostruire la vicenda. Il 19 ottobre scorso il quotidiano Persian Indipendent aveva pubblicato la denuncia di una allenatrice della ragazza e della squadra nazionale di pallavolo femminile afghana, identificata per ragioni di sicurezza con lo pseudonimo di Suraya Afzali. L'atleta, stando alle sue dichiarazioni sarebbe stata assassinata a inizio ottobre, ma la notizia non è stata diffusa dai familiari per timori di rappresaglie. Secondo Afzali, dopo la caduta del governo di Ashraf Ghani, le atlete in tutto il Paese hanno dovuto affrontare una seria minaccia alla sicurezza e i talebani le hanno perseguite. Poi, dopo che la notizia è finita su molti media internazionali, è arrivata la smentita. A conferma di ciò ci sarebbe anche un documento che stabilisce che il decesso della giovane è avvenuto il 22 del mese di Mordad dell'anno 1400 nel calendario persiano, equivalente al 13 agosto 2021. Shirzad definisce "senza fondamento" la notizia che Hakimi sia stata uccisa dai talebani a causa del suo rifiuto di indossare il velo quando praticava la pallavolo e per la sua appartenenza alla minoranza degli Hazara. A smentire questa versione anche Miraqa Popal, ex editore capo dell'emittente nazionale Tolo News, ora rifugiato in Albania. Il cronista ha rilanciato un post sull'assassinio della giovane, scrivendo che "non è vero" e che la sportiva "si era suicidata dieci giorni prima della presa del potere talebana", quando Popal era "ancora responsabile delle notizie per Tolo". Secondo Shirzad, però, è per ora impossibile confermare che la giovane si sia suicidata perché la famiglia non lo ha comunicato. Scelte del genere, ha sottolineato il giornalista, sono frequenti nella società afghana, dove il suicidio è spesso tabù. Per altro, i cronisti di Aamaj News confermano che l'articolo in farsi che era stato pubblicato sul Persian Indipendent, anche su segnalazione della famiglia, è stato rimosso. Anche il giornalista che ha lanciato la news ha eliminato il tweet che aveva condiviso sul proprio account.

Facebook. Luciano Priori Friggi il 21 settembre 2021. Dunque, da questa foto si dovrebbe dedurre che siamo, anzi eravamo come i talebani ... sentite, sentite. Il mio amico FB RdA, un tradizionalista in ambito religioso, scrive: "Foto storica ... raffigurante due venditrici di uova e pollame nella piazza cittadina, ai primi del Novecento; visto che periodicamente tornano le polemiche e le paure sul velo musulmano (o sul velo delle suore), recentemente anche a causa dell'emergenza profughi dall'Afghanistan, si noti come, anche in Italia e in Europa, ancora nel Novecento e almeno fino agli anni '60-'70, le donne avessero il capo coperto da veli, foulard o semplici cappelli, e ciò perchè era un tratto comune e antico, tolto solo dalla modernità che cancella tutto..."

IL MIO COMMENTO: Posto Botticelli, La Primavera, e scrivo: "Ma no, non bisogna dire cose che non esistono. Un conto sono le usanze, soprattutto di tipo utilitaristico. Portare un fazzolettone in testa aveva lo scopo di proteggersi dal freddo e dal caldo, perché era gente che lavorava duro, all'aria aperta. Un conto proibire tutto ciò che è naturale, perché lo dice non si sa chi. Cari miei vi manca un concetto fondamentale nel vostro immaginario, "choice", scelta, libertà. Nel nostro Rinascimento i papi riempivano le chiese e i palazzi di nudi. L'unico che provò a mettere ordine "morale", mandando ragazzini nelle case a scovare dipinti osceni, ecc., fu Savonarola a Firenze, giustamente messo al rogo per iniziativa dei frati francescani. Basta sciocchezze per cortesia."

RISPOSTA di RdA: "Infatti il Rinascimento, umanista e antropocentrico, fu una pagina oscura della Chiesa, salvato solo dalla bellezza dell'arte (comunque problematica in quanto ha introdotto nuovi canoni e rotto con la tradizione)".

MIA RISPOSTA: "ma che obiezione è? e tradizione di che? L'Occidente si è smarcato dall'Oriente teocratico (ora M.O.) e liberticida, rappresentato dall'impero persiano, 2500 anni fa. Se non capite questo tornate a scuola e leggete Erodoto. O, per i costumi pre-Rinascimento, date un'occhiata a Boccaccio, che racconta il quotidiano. Lo stesso cristianesimo romano dopo l'anno Mille si stacca da Costantinopoli e riprende il cammino della libertà antica, nonostante sia in competizione col potere politico (leggete Dante). Il cattolicesimo romano post-Mille, se siete aggiornati con gli studi più accreditati, ha poco o nulla a che fare, a parte certi riti e alcuni richiami generali, con il cristianesimo delle origini, che era un tentativo di riforma dell'ebraismo, e in gran parte anche con la "svolta" di Paolo, che lo occidentalizza quanto basta per staccarlo dal M.O. e dell'ebraismo. Il cattolicesimo romano post-Mille è un'altra religione. Leggete, studiate e non raccontate cose che non esistono."

Giulia Zonca per “La Stampa” il 19 settembre 2021. La lista è lunga, fatta di nomi che si muovono rapidi da un Paese all'altro. Duecento cicliste da portare fuori dall'Afghanistan il prima possibile perché non solo sono atlete e fare sport è proibito, sono soprattutto considerate «non più vergini» dal regime taleban e quindi guaste, avariate, da buttare. Rischiano di tutto: di essere arrestate, di essere violentane, di dover sopravvivere chiuse in una stanza protette dalle stesse famiglie che le hanno aiutate a pedalare e ora smontano le bici per buttarne i pezzi. Corpi del reato, corpi da nascondere, da mimetizzare tra la folla e caricare su mezzi che si inventano percorsi per seminare l'orrore. Una rete di speranza che vibra di paura. Sessanta ragazze hanno già lasciato l'Afghanistan, molte sono arrivate in Europa o in Nord America, altre in Qatar fino alla partenza dei voli umanitari, ma tante sono ancora ferme, comprese le dodici che aspettano di arrivare in Italia. I loro visti, le storie e il futuro sono cuciti insieme con cura e cautela dal dipartimento dello Sport e dalla Federazione Ciclistica italiana. Poi c'è qualcuno che muove questi fili fragili, sono due donne che non mollano la presa: una è Shannon Galpin, attivista americana, che sta sul posto e l'altra è Francesca Monzone, giornalista di «Tuttobiciweb», che compila i dossier e massaggia i sogni per tenerli vivi: «Sono il loro unico contatto con l'esterno, mandano messaggi tutti i giorni e parlano di quello che vorrebbero fare quando arriveranno qui, mi inviano foto e passioni, certe sono bambine e hanno visto cose indicibili». Hanno tra i 15 e i 30 anni, ce ne sarebbero di più piccole, già schedate come «cicliste», marchio della depravazione, però è impossibile riuscire a ad avere i documenti necessari per le dodicenni e sarebbe anche dura farle resistere ai giorni tetri dell’attesa. Le cicliste lasciano casa quando il visto per uno dei paesi vicini è pronto, Tagikistan, Emirati, non conoscono la destinazione, sanno solo che prima devono passare da Kabul, unico punto di raccolta. Sanno pure che quando i taleban si accorgeranno della loro assenza picchieranno le madri. È già successo, una tra le più giovani ha mandato via Internet le immagini di una signora pestata brutalmente: «Quando potrò rivedere i miei genitori?». Non c'è risposta. La più nota del gruppo non voleva scappare: «Sono troppo riconoscibile, metterò in pericolo le altre e poi non ho più la mia bicicletta». Come se avesse perso i super poteri. Ha 18 anni, teneva sempre con sé la foto con la medaglia, l'ha buttata insieme con tutto il resto. Ognuna può portarsi dietro solo uno zaino e poi affidarsi alla propria guida, sperare che a ogni passaggio non ci sia un'imboscata, come in «Handmaid's Tale», quando le ancelle seguono di notte gli uomini della resistenza, solo che questo non è un libro o un telefilm, è angoscia vera. Sono sistemate in degli alberghi, a 10 euro a notte o in delle case affittate da altri per 105 dollari al mese. Devono pregare che nessuno le denunci, hanno intorno persone che si spacciano per i guardiani e ricevono i soldi per cavarsela via Western Union. A ogni ritiro una staffetta, a ogni passo un tuffo al cuore: «Presto torneremo qui a cambiare questo posto, dopo essere diventate medici e avvocati». Sarebbero dovute partire prima, le strade studiate non sono mai sicure, va rifatto il tragitto, ricambiata la destinazione. Di continuo. Francesca le avvisa, sempre più triste: «Sono così coraggiose che consolano me. Alle mie cicliste è proibito pure immaginare». Una ha mandato un selfie con il burqa e a seguire la sua faccia che ci rideva sotto. Un'altra si appunta ricette da imparare a cucinare e una ha l'avvenire pronto: «L'Italia è il Paese della moda, la studierò per disegnare i vestiti con cui andare in bici in Afghanistan e i costumi per fare il bagno. Io non ho mai messo i piedi nell'acqua, non li posso scoprire».

«Questa non è la nostra cultura», la protesta delle donne afghane contro i burqa neri. Erika Antonelli su L'Espresso il 14 settembre 2021. Aderendo alla campagna #DoNotTouchMyClothes, in molte hanno postato le foto dei loro abiti tradizionali colorati. Dopo avergli vietato di fare sport, il governo dei talebani ha fissato i paletti per lo studio. Nella conferenza stampa di domenica 12 settembre il ministro dell'Istruzione Abdul Baqi Haqqani ha detto che le donne potranno continuare ad andare all'università. Ma i corsi non saranno misti e, guarda un po', saranno tenuti solo da docenti di sesso femminile. Haqqani ha poi aggiunto che bisognerà coprire il capo, senza fornire però ulteriori specifiche. Il giorno prima alcune donne avevano preso parte a una manifestazione a sostegno delle limitazioni poi annunciate dai talebani, sfilando avvolte in burqa neri fino all'università di Kabul. «Supportiamo l'Emirato islamico dell'Afghanistan», avevano scritto sui cartelli. Alcune stringevano tra le mani anche la bandiera bianca e nera degli esponenti del regime. L'iniziativa ha dato vita a un'altra protesta, anch'essa fatta dalle donne e con al centro l'abbigliamento, però diffusa nell'agorà virtuale. Grazie all'hashtag #DoNotTouchMyClothes, decine e decine di afghane hanno postato sui social network foto che le ritraevano con i loro vestiti tradizionali. Realizzati con stoffe colorate, corpetti variopinti e tessuti di pregio. A indicare che no, la storia del Paese non ha nulla a che fare con le vesti nere da cui a malapena si intravedono gli occhi. «Questa è la nostra cultura», ha twittato Bahar Jalali, fondatrice del primo programma di studi di genere in Afghanistan e promotrice dell'iniziativa. Sono le parole che ha scelto per commentare l'immagine che la ritrae con uno stupendo abito rosso e verde. «Ho pubblicato la foto per informare, educare e contrastare la cattiva informazione che propagandano i talebani», ha poi aggiunto. Ha fatto la stessa cosa anche Peymana Assad, una politica del partito Laburista nata però a Kabul: «Il nostro modo di vestire non c'entra nulla con quello che il regime vuole imporci di indossare», ha dichiarato. Molte altre hanno seguito l'iniziativa, rispondendo così alle imposizioni dei talebani. E rivendicando le proprie tradizioni, come nel caso della giornalista Tahmina Aziz: «Metto questo abito con orgoglio, non ha nulla a che fare con le immagini che avete visto nei giorni scorsi». Quella di indossare vestiti colorati non è una scelta isolata. La professoressa Weeda Mehran dell'Università di Exeter – nel Regno Unito – ha infatti dichiarato al quotidiano britannico Telegraph che i burqa sono più che altro «una copia di altri gruppi terroristici come al-Qaeda e Isis poi esportati dagli estremisti». «È importante ricordare che la nostra cultura va oltre l'abbigliamento. È fatta anche di poesia, musica, arte e sport», ha scritto Aziz sul suo profilo Twitter. Attività che il governo talebano ha già vietato o limitato. E purtroppo non sarà una campagna social a riportarle in vita.

Afghanistan, i Talebani vietano lo sport alle donne perché “l’Islam non permette di esporre i loro corpi”. Chiara Nava il 09/09/2021 su Notizie.it. I Talebani hanno deciso di vietare lo sport alle donne perché è considerata immorale l'esposizione dei corpi. I Talebani hanno deciso di vietare lo sport alle donne perché è considerata immorale l’esposizione dei corpi. Si tratta di una nuova violazione dei diritti delle donne afghane. Hanno annunciato che il governo sarà composto da soli uomini, ma non basta. I talebani continuano a colpire i diritti delle donne afghane, vietando loro di praticare uno sport che “esponga i loro corpi” o le mostri ai media. Durante un’intervista all’emittente australiana Sbs news, Ahmadullah Wasiq, vicecapo della Commissione cultura dei sedicenti studenti coranici, ha esposto un futuro sempre più simile ad un incubo, in modo particolare per tutte le donne afghane. Inoltre è scattato anche il divieto di tutte le manifestazioni non autorizzate. Un modo per far calare il silenzio sulla violazione dei diritti. “Non credo che alle donne sarà consentito di giocare a cricket, perché non è necessario che le donne giochino a cricket” ha spiegato l’esponente talebano, affermando che nel gioco “potrebbero dover affrontare situazioni in cui il loro viso o il loro corpo non siano coperti” e che “l’Islam non permette che le donne siano viste così”. Per questo gli sport saranno ufficialmente vietati. Il ritorno dei Talebani porta ad un ritorno di una rigida interpretazione della sharia, una raccolta di regole dettate dalla divinità per la condotta morale, giuridica e religiosa dei fedeli. L’esponente ha aggiunto che “questa è l’era dei media” e questo significa che con foto e video la gente avrebbe modo di vedere le donne. Alle donne afghane, ha aggiunto, sarà consentito uscire di casa solo ed esclusivamente per soddisfare i “bisogni” essenziali, come “fare la spesa”. Lo sport non è considerato un bisogno essenziale. Queste regole e questi divieti non sono stati apprezzati da Khalida Popal, ex capitano della nazionale femminile di calcio dell’Afghanistan. “Lo sport è libertà: noi donne non smetteremo mai di lottare, anzi insieme brilleremo sempre di più” ha dichiarato la donna su Instagram. La sportiva si trova in Danimarca, dove si è rifugiata, e da dove promuove una campagna per far uscire da Kabul le sue ex compagne. “Il diritto di praticare qualsiasi sport è stato sancito in Afghanistan per le donne e le ragazze” ha scritto, postando le parole dei talebani che annunciano questo divieto.

La disfatta in Afghanistan e il martirio del corpo delle donne. Nelle scuole e nelle università, nelle città come nelle aree rurali hanno impresso una svolta al Paese in questi venti anni. Per questo la violenza talebana si accanisce con maggiore ferocia su di loro: nei primi sei mesi del 2021 ne avevano già ammazzate 220. Francesca Mannocchi su L'Espresso il 27 agosto 2021. Due teste a forma di lucchetto, chiuse. Una testa, anch’essa a forma di lucchetto, ma aperta. Ad aprirla è la chiave della conoscenza, un libro. Il graffito lungo il corridoio principale della scuola secondaria Sayed al-Shuhada è fresco. Come sono freschi l’intonaco all’esterno, la vernice all’interno e quella nelle aule. Lo scorso otto maggio, mentre centinaia di ragazze uscivano dal cancello principale della scuola Sayed al-Shuhada e centinaia ne entravano, al cambio tra il turno scolastico del mattino e quello del pomeriggio, tre esplosioni hanno rotto l’aria: prima un’autobomba, poi due ordigni esplosivi. Novanta studenti morti, più di duecento feriti. La maggior parte delle vittime erano ragazze tra gli undici e i quindici anni. L’istituto Sayed al-Shuhada si trova nel quartiere di Dasht-e-Barchi a ovest di Kabul, un’area prevalentemente abitata dagli hazara, la comunità sciita attaccata più volte in questi anni da gruppi terroristici legati all’Isis. Due anni fa trentacinque persone avevano perso la vita in un attacco a una scuola e venticinque in un attentato kamikaze in una palestra. Lo scorso anno era stata la volta del reparto di maternità di zona, venticinque morti, e della scuola Kawsar-e Danish, trenta morti. Poi ancora il pomeriggio di maggio, tre mesi fa. Centinaia di famiglie a piangere morti e accudire amputati e un messaggio insieme feroce e trasparente: puniamo gli hazara perché sciiti e dunque infedeli. Puniamo gli hazara e la loro ostinazione per la scuola, l’istruzione, la diffusione della conoscenza. Soprattutto tra le donne. I giorni successivi, ricordano tutti, bisognava placare la rabbia verso il governo di Ashraf Ghani che non aveva saputo proteggere una comunità già esposta a ritorsioni e attentati, e trovare posti in collina per seppellire le ragazze, perché nei cimiteri non restava un lembo di terra dove posare una bara. Dopo l’invasione del 2001 la comunità hazara ha raccolto le opportunità dell’istruzione diffusa, della scolarizzazione aperta a ragazzi e ragazze. Così tanto che, in un quartiere che ospita un milione di persone, per garantire un posto a scuola per tutti, e soprattutto per tutte, i turni di insegnamento sono tre. Qui, si sta in classe dalle nove del mattino alle otto della sera. È metà mattina quando Aqila Tawakoli, la preside, ci viene incontro nello slargo davanti al cancello d’entrata. Indica i nomi delle ragazze scritti a terra, sulle mura che circondano la scuola. Di quel giorno, dice, non riesce a dimenticare le ragazze chiuse nelle aule che gridavano i nomi delle sorelle uscite dalle aule poco prima. Più le sue allieve gridavano, più Aqila e le sue insegnanti cercavano di scavare un buco nel muro di cinta, per farle scappare dal retro. Erano convinte che gli assalitori sarebbero entrati per completare la strage. Invece, dopo la terza esplosione, nelle aule, lungo la strada e nello spiazzale sono rimasti corpi a brandelli, frammenti di zaini, le aule colpite, i vetri distrutti. E nel quartiere centinaia di famiglie dimezzate. Sono passati tre mesi, l’anno scolastico sta per finire, è giorno d’esame. Uno sciame di volti, coperti da veli bianchi, entra e esce dalle aule. Sono allieve di Aqila, le sopravvissute. Il suo passo è fermo e lieve contemporaneamente. Sembra muoversi con la stessa agilità tra la schiera di studentesse, sono 7500 in totale, a frequentare l’istituto, e i giorni inquieti che vive il Paese. È la prima settimana di agosto, i talebani sono vicini alla capitale, arrivano notizie da Ghazni, da Kandahar: «Le nostre colleghe insegnanti ci dicono che stanno vietando alle ragazze di frequentare le università, che hanno visto libri bruciati». Aqila legge i messaggi che riceve con una severità che non sporca mai di disperazione, d’altronde la scuola è stata nuovamente attaccata dai talebani solo venti giorni prima della nostra visita. Sono scesi dalla strada che circonda la collina. Lei elenca i fatti e resta ferma, e gentile: «Abbiamo la forza dei superstiti, siamo tutte reduci qui, qualcuna reduce più volte». Come lei, sopravvissuta all’attentato di maggio e a quello dell’anno prima alla Kabul University. Era lì con sua figlia che insegna medicina. Un’altra bomba, un altro luogo di conoscenza violato, altri morti innocenti. Di sopravvivenza parlano anche i muri, la scritta che le è più cara è di fronte alla porta del suo ufficio, e recita: «La vita ti da una seconda possibilità. Il suo nome è: oggi». «Volevo dire questo ai miei studenti, siete sopravvissuti mentre altre e altri hanno perso la vita, ora modificate il corso degli eventi, potete farlo ogni giorno aprendo il lucchetto attraverso i libri, attraverso il sapere, abbandonando la rabbia legata alla vendetta e la rabbia legata all’ignoranza». Aqila Tawakoli non era in Afghanistan durante il regime talebano, tra il 1996 e il 2001, era, come molti, fuggita in Pakistan. È la sua ferita più profonda, meno rimarginata: «Ho potuto studiare, salvarmi la vita, garantire a mia figlia un’istruzione e tornare dopo l’autunno del 2001 per prendere parte al progetto di un Afghanistan finalmente libero, ma non c’ero. Quello che so, lo so dai racconti di chi ha sofferto». Qualcosa le fa ombra, qualcosa che non nomina, la frustrazione dell’empatia quando non è, né può diventare, partecipazione. Il senso di colpa, forse, per osservare un’ingiustizia da lontano, dal luogo che, sebbene nella condizione di esule, è il posto dei salvati. «Abbiamo costruito donne di valore in questi venti anni, dice, poi ogni volta che le donne di valore hanno tentato di raggiungere i ranghi più alti per rappresentare il loro Paese, sono state attaccate, delegittimate, o peggio uccise». In due decenni, dall’autunno del 2001 a oggi, le condizioni di vita dei cittadini e delle cittadine afghane sono molto migliorati. Sono otto milioni i bambini in più nelle scuole, e, secondo quanto riportato dal Financial Times, la percentuale di bambini iscritti all’istruzione secondaria è passata dal 12 per cento nel 2001 al 55 per cento nel 2018. Nel 2020 un quinto dei dipendenti pubblici afghani erano donne, così come in Parlamento un seggio su quattro era detenuto da donne. Nel 2001, nessuno. Tutto vero e tutto doppio, multiplo. Nello stesso Paese che ha assistito alla crescita di una generazione di donne istruite che cercavano di realizzare i propri desideri, gli ultimi mesi prima della caduta di Kabul sono stati segnati da un aumento della violenza verso le donne: 220 donne uccise nei primi sei mesi del 2021, rispetto alle 130 dell’anno precedente. Tra loro giudici, attiviste, giornaliste. Tutte donne, tutte esposte, tutte morte. Sullo sfondo, gli accordi di Doha tra Stati Uniti e talebani. «Quegli accordi hanno legittimato i talebani, dopo la firma gli assassini mirati si sono moltiplicati. I segnali di questa debacle c’erano tutti, le decine di omicidi di donne era il modo che i talebani avevano di dire: stiamo tornando. Non dicono: stiamo arrivando. Non sono nuovi, non lasciatevi ingannare. Sono gli stessi di 25 anni fa». A parlare è Palwasha Hassan, una storia di attivismo e dedizione. Fondatrice dell’Afghan women’s education center, cofondatrice dell’Afghan women’s network. È stata la prima donna afghana a dirigere una Ong in Afghanistan dall’istituzione del nuovo governo ad interim dopo l’inizio della guerra contro i talebani nel 2001. Due giorni prima della caduta di Kabul, nel suo ufficio in centro città, superate le barriere blindate, aveva accolto donne sfollate dalle province sotto assedio. Dai minibus all’entrata scendevano insegnanti, giovani studentesse, attiviste. Pensavano, come migliaia di altri, di trovare rifugio temporaneo a Kabul. «Non vi abbiamo invitato ad invaderci, ma una volta qui non eravate in luna di miele. Eravate qui con un obiettivo. E non potete essere così egoisti da dire che l’obiettivo fosse uccidere Bin Laden, altrimenti avreste dovuto lasciare il Paese anni fa. Siete rimasti irresponsabilmente e ve ne state andando irresponsabilmente». Palwasha Hassan è inflessibile. Era un’attivista, nell’ombra, anche negli anni Novanta e sa che questo è il momento dell’onestà e della risolutezza. «Non prego nessuno di restare, come non ho pregato nessuno di venire a liberarci. Ricordo all’Occidente che buona parte di quello che è accaduto qui, nel bene ma anche nel male, negli ultimi venti anni, è vostra responsabilità. È il tempo che vi concentriate sul male prodotto», ci ha detto Palwasha Hassan quarantotto ore prima che l’aeroporto di Kabul diventasse il girone dantesco di disperati in fuga che ancora è. «È tempo che vi concentriate sugli errori». Il primo, dice, è togliere lo sguardo occidentale all’Afghanistan, perché quello sguardo ha distorto la realtà, pensando che i diritti fossero rappresentate solo dalle élite europeizzate delle città, della capitale Kabul. «Anche le donne delle aree rurali sanno quali sono i loro diritti, è solo che hanno meno strumenti per acquisirli e difenderli». È per loro che l’Occidente, secondo Palwasha Hassan, doveva restare responsabilmente o andare via responsabilmente. Invece oggi migliaia di attivisti stanno lasciando il Paese per mettersi in salvo dal regime talebano, scappano interpreti, collaboratori delle organizzazioni internazionali, ricercatrici e studenti, docenti e letterati, avvocati e dottoresse, anche la sua famiglia è scappata sui monti. Il destino dell’Afghanistan che una volta ancora è scritto sul corpo delle donne. Corpi liberati o corpi dimenticati, corpi violati e corpi simbolici. Corpi, oggi, in fuga. Ma se i migliori se ne vanno, se vanno via i simboli della liberazione, dei diritti acquisiti, della scuola per tutti, delle parlamentari e delle attiviste, su quale corpo si scriverà la speranza del futuro del Paese? Palwasha Hassan ha scelto, per ora, di non lasciare il Paese: «Sotto il regime dei talebani abbiamo lavorato in clandestinità, posso farlo ancora».

Afghanistan, orrore talebano contro le donne: "Vietato lo sport. Le adultere? Le lapidiamo per il loro bene". Libero Quotidiano l'08 settembre 2021. Nessun governo inclusivo, nessun rispetto per i diritti delle donne: le promesse fatte dai talebani settimane fa restano solo promesse. Lo dimostra la loro ultima decisione, quella secondo cui le afghane non potranno più giocare a cricket né a nessun altro sport che "esponga i loro corpi" o lo mostri ai media. Praticamente tutti. L'annuncio è arrivato dal vicecapo della Commissione cultura, Ahmadullah Wasiq, secondo il quale "non è necessario che le donne giochino a cricket". E pare  che anche giocare a porte chiuse sia un problema visto che, secondo Wasiq, le persone vedrebbero le sportive attraverso "foto e video". E' meglio evitare, nell'ottica del regime, situazioni in cui il viso o il corpo delle donne non siano coperti: "L’Islam non permette che le donne siano viste così". Questo, comunque, è solo uno degli ultimi obblighi e divieti imposti alle donne afghane dai talebani. Di recente è stato detto loro di indossare il burqa o almeno l’hijab, di non dover apparire in tv, di frequentare classi solo femminili fin dalle elementari. Con l'arrivo degli studenti coranici a Kabul è ricominciata anche la feroce lapidazione delle donne adultere, interrate fino al collo. A tal proposito, un talebano sentito da Repubblica, Mohammed Amin Ullah di 25 anni, ha detto: "È soltanto l’applicazione della Sharia". Si tratta di azioni, spiega il soldato, fatte "solo per il bene dell'Islam". Parole da brividi, che forniscono un quadro inquietante sul futuro dell'Afghanistan e delle sue donne.

Afghanistan, a Kabul riapre università sotto i talebani: uomini e donne separati da tenda. Tg24.sky.it il 07 set 2021. Alcune fotografie, condivise dall'Università di Avicenna a Kabul e diffuse sui social media, mostrano gli effetti delle nuove regole imposte dal regime. Cresce la preoccupazione delle donne afghane di perdere quei diritti per i quali si sono battute per due decenni. E’ un rientro in classe condizionato dalle rigide regole imposte dai talebani. In Afghanistan gli studenti hanno ricominciato le lezioni sotto il nuovo regime che ha ordinato di separare le ragazze dai loro coetanei maschi. Le fotografie, condivise dall'Università di Avicenna a Kabul e diffuse sui social media e su Storyful, mostrano una tenda grigia che scende al centro dell'aula e le studentesse che indossano i tradizionali veli islamici che avvolgono il capo lasciando il viso scoperto. Questa situazione riguarda scuole e università di tutto il Paese: insegnanti e studenti delle più grandi città afghane - Kabul, Kandahar e Herat - hanno raccontato di ragazze segregate in classe, isolate e limitate negli spostamenti nei campus (SPECIALE AFGHANISTAN). Nel Paese si respira un’atmosfera di incertezza e preoccupazione rispetto alle regole imposte dai talebani. Il loro ritorno al potere preoccupa in particolare le donne, che temono di perdere i diritti per cui hanno combattuto negli ultimi due decenni contro la resistenza di molte famiglie e funzionari di un Paese musulmano profondamente conservatore. Le potenze straniere, dal canto loro, monitorano la situazione e chiedono al regime di rispettare i diritti delle donne in cambio di aiuti e impegno diplomatico. Già in passato, quando salirono al potere dal 1996 al 2001, i talebani bandirono le ragazze dalla scuola e le donne dall'università e dal lavoro.

Nel governo nessun ruolo alle donne. Afghanistan, il diktat dei talebani alle donne: “Niente sport, espone il loro corpo”. Redazione su Il Riformista l'8 Settembre 2021. I talebani mostrano il loro vero volto coprendo quello delle donne. Nonostante i vari proclami che avevano fatto immaginare a un regime più ‘moderato’, se così si può dire, gli “studenti coranici” dopo aver ripreso il potere e il controllo dell’Afghanistan si stanno mostrando per quello che sono sempre stati: un gruppo religioso fondamentalista che intende negare i diritti più basilari alle donne. Così oggi è arrivato l’annuncio che le afghane non potranno praticare più il cricket, né qualsiasi altro sport che “esponga i loro corpi” o lo mostri ai media, vietandoli praticamente tutti. A dirlo è stato Ahmadullah Wasiq, vicecapo della Commissione cultura, con parole che lasciano poco spazio a dubbi o fraintendimenti. “Non credo che alle donne sarà consentito di giocare a cricket perché non è necessario che le donne giochino a cricket”, ha precisato Wasiq, sottolineando che nel gioco “potrebbero dover affrontare situazioni in cui il loro viso o il loro corpo non siano coperti. L’Islam non permette che le donne siano viste così”. Nessuna possibilità anche di giocare a porte chiuse, perché le immagini delle donne potrebbero essere diffuse tramite “video o foto”. I talebani continuano così a smantellare le conquiste faticosamente ottenute dalle donne afghane dopo il 2001, quando il Paese venne invaso dalle forze occidentali scacciando il regime talebano che ospitava Al Qaeda e il suo leader, Osama bin Laden. Nell’arco di poche settimane dalla presa di Kabul, avvenuta lo scorso 15 agosto, i miliziani hanno fatto sparire la musica da radio e tv, non permettendo più le classi miste nelle scuole e università, mentre nelle strade è praticamente impossibile veder girare donne prive di burqa o almeno l’hijab. Ma i talebani non hanno neanche tenuto fede alla promessa di un “governo inclusivo”, in cui avrebbero trovato spazio anche le donne. Quello annunciato ieri comprende infatti solo uomini, anche di un certo livello: il mullah Mohammad Hasan Akhund sarà il nuovo premier, mentre il mullah Abdul Ghani Baradar, che nei giorni scorsi era stato indicato come il favorito per guidare l’esecutivo, avendo guidato i negoziati di Doha, sarà uno dei due vicepremier. Il ministero della Difesa è stato affidato al mullah Yaqoob, figlio del fondatore dei talebani, il mullah Omar. L’Interno va a Sirajuddin Haqqani, leader della controversa rete Haqqani e ricercato per terrorismo dall’Fbi. Anche il premier compare nella lista dei terroristi dell’Onu: le Nazioni Unite lo definiscono uno “stretto collaboratore e consigliere politico” di Omar.

La democrazia è delle donne. Donatella Di Cesare su L'Espresso il 25 agosto 2021. Fallita l’idea di esportare un sistema neoliberale, resta la consapevolezza dei diritti. Quei punti nel cielo, che compaiono sulla scia di un Boeing tracotante mentre precipitano impietosamente nel vuoto, resteranno nella storia un’immagine tremenda e indelebile. Non solo il simbolo di una fuga cinica e sconsiderata, ma anche il sigillo di una rappresaglia ignominiosa, di una rivalsa caparbia che la grande potenza ha cercato insistentemente per un ventennio. «America is back», aveva dichiarato Joe Biden dopo l’inquietante periodo del trumpismo. Oggi si può dire che quel «back» non sia altro che un «back home». L’America torna a casa portando con sé un trofeo macabro a pochi giorni dall’anniversario dell’11 settembre, quando nel vuoto cadevano i corpi di coloro che erano rimasti imprigionati nelle torri gemelle. Quel trauma profondo, che avrebbe dovuto essere adeguatamente elaborato, provocò invece la overreaction, la risposta militare americana. La caduta di Kabul getta un’inquietante luce retrospettiva sulla «guerra al terrore», una singolare sfida a una tecnica di attentato, spesso ridotta a una caccia a fantasmi, e una guerra che non era più tale, senza nemici definiti, né fronti precisi, né tempi certi. Come una guerra al Male. Il 7 ottobre 2001, al momento dell’invasione dell’Afghanistan, Bush promise un’interminabile azione riparatrice, secondo il motto della “guerra giusta” teorizzata da Michael Walzer, che ebbe perciò l’altisonante nome in codice di Infinite Justice, giustizia infinita, sostituito dal più mite Enduring Freedom, libertà duratura, rimpiazzato in seguito da un paio di sigle burocratiche. Con il pretesto del terrore fu allora dichiarato lo stato d’emergenza e venne sospesa in modo eclatante la democrazia. Sarebbe una miope ingenuità credere che la fuga da Kabul rappresenti l’ultimo fallimentare capitolo delle guerre occidentali nel XXI secolo. Non è possibile prevederne ora le conseguenze. Ma già la guerra in Iraq del 2003, che ha minato la credibilità degli Usa e alimentato potentemente il complottismo per via di quelle «armi di distruzioni di massa» mai trovate, mostra quali possono essere gli effetti. Contraddistinta da menzogne e atrocità peggiori, la guerra in Afghanistan rischia di far deflagrare l’Occidente stesso non solo sullo scacchiere geopolitico, ma anche e soprattutto nei propri valori. Tutto si è disgregato in un soffio. D’un tratto sembra vanificato il grande sogno della civilizzazione e della democratizzazione. C’è chi parla di disfatta dell’Occidente. A parlare chiaro è il bilancio delle cifre. Canta vittoria l’industria bellica. Ma il fallimento è tutto di una politica che pochi, inascoltati, avevano già denunciato vent’anni fa. Perché l’ipocrisia non ripaga e non si può contrabbandare a lungo di portare agli altri la libertà quando non si vuole in effetti che proteggersi, difendersi, cautelarsi da questi altri. Quel che, più nel male che nel bene, è stato compiuto in Afghanistan, dai militari ma perfino dalle Ong, è inficiato da quest’ambiguità di fondo. Dove finisce l’intervento umanitario e dove comincia il controllo bellico-poliziesco? Se quei programmi, che apparivano così promettenti e magnanimi, hanno avuto scarsa presa, come adesso sembra evidente, è perché sotto sotto erano guidati dal criterio della nostra sicurezza e non della loro democrazia. Quel che oggi emerge è la fragilità delle istituzioni edificate, l’inconsistenza dello stato di diritto esportato a forza. L’operazione «libertà duratura» avrebbe dovuto tradursi in una democrazia costituzionale. Il castello di carta è crollato. A riprova che non si può imporre la libertà e non si può esportare la democrazia. L’ossimoro non potrebbe essere più palese. Fin qui ormai quasi tutti concordano. Ma l’esportazione della democrazia è una questione ben più profonda e mette allo scoperto un dissidio contemporaneo sul modo stesso di intendere la parola democrazia. Esce piegata da questa sconfitta la concezione neoliberale che, mentre riduce la democrazia a un sistema di governo, più ampio e tollerante di altri, la imbriglia alle redini istituzionali e a una serie di regole e procedure. Si tratterebbe allora di esportare semplicemente questa teoria politica insieme alle istituzioni confacenti e a una competente capacità di amministrare. Se il trapianto non riesce (come non è riuscito), si potrà sempre dire che è colpa degli altri: della loro subcultura, degli usi retrivi, del loro medioevo. Senonché la democrazia non è una manciata di istituzioni, non è un insieme di regole. A uscire incrinata dalla sconfitta è questa concezione normativo-procedurale della democrazia, buona per essere più o meno maldestramente esportata perché buona già per la governance neoliberale che si limita ad amministrare l’economia. Ben più che una costituzione, un sistema politico-giuridico, la democrazia è una forma di vita. Non ne va solo della partecipazione dei cittadini, ma della loro esistenza e coesistenza. Non può essere irrigidita e disciplinata perché ha un fondo anarchico, come ricordano i teorici della democrazia radicale. Sarebbe inconcepibile senza il paradigma dell’esodo, di una liberazione che si ripete incessantemente. Una società democratica è il teatro di un’avventura non dominabile. Perciò la democrazia è sempre stata guardata con sospetto, già da Platone che denuncia lo scandalo di una politica dove gli schiavi sono affrancati, gli stranieri diventano cittadini, le donne hanno la parità nel rapporto con gli uomini. Si può intuire che il fondamentalismo veda nella democrazia (e nel suo fondo anarchico) il suo più acerrimo nemico. Ma proprio mentre su Kabul cala il velo dei talebani, c’è motivo per essere, malgrado tutto, ancora ottimisti. Perché quelle donne afghane, che andavano a viso scoperto, che frequentavano la scuola e all’università, che erano sempre più sicure e orgogliose di sé, sono allo stesso tempo le vittime predestinate, ma anche le possibili protagoniste di una resistenza. La democrazia non si è dissolta in poche regole, è rimasta introiettata in loro, nel loro modo di vivere, di pensare, di rapportarsi ad altri. Così come è rimasta in quell’avanguardia di afghani che, anche per ciò, sono in questo momento più a rischio. Al tradimento e all’abbandono che avvertono comprensibilmente si può rispondere solo restando al loro fianco. Sarebbe questo il primo compito di coloro a cui sta a cuore la democrazia. Il che si traduce in molti modi: nel sostegno a chi deciderà di non lasciare il proprio paese e nell’accoglienza per chi non ha altro scampo che andar via. La democrazia non ha frontiere. Nulla apparirebbe oggi un crimine efferato come chiudere le porte ai rifugiati afghani. Da tempo l’Occidente è diviso e questa è l’ora dell’Europa, che non è una potenza come quelle emergenti, che non ha la forza economico-militare americana. Ma è la patria dei diritti umani, un privilegio che altri non hanno e un dovere in più. Perché i diritti umani sono il vessillo della democrazia. Questo ulteriore tradimento sarebbe imperdonabile e sancirebbe davvero il nostro tracollo.

Shamsia, Sahraa  e le altre: facciamo girare le voci delle donne afghane. LA RICONQUISTA DEL POTERE DA PARTE DEI TALEBANI RIPORTA IL PAESE NELL’OSCURANTISMO. Vittorio Sgarbi su Il Quotidiano del Sud il 24 agosto 2021. Mi scrive Pietro Lateano, che è stato Direttore Generale della Cultura a Sutri, fine archeologo e bravo architetto di giardini, segnalandomi un’artista, Shamsia Hassani, di cui invia alcune immagini, aggiungendo: «Se le facciamo girare sarà come dare voce a lei e a tutte le donne afghane che stanno vivendo l’inferno!» Gli rispondo che, se perché in Italia o attraverso un plico in un corridoio umanitario, potremo presentarlo in una mostra al Mart, il Museo di Rovereto che io presiedo. Se ne compiace e mi scrive: «Mi attivo per un contatto diretto. Poi ti passo quello che trovo e ci pensi tu… tramite un contatto in ambasciata ho saputo che è in Afghanistan. Le ultime notizie sono di 3 giorni fa. Ora nulla. Continuo la ricerca». Dai dati, che reperisco sul sito ufficiale di Shamsia, leggo che le sue opere sono state esposte negli Stati Uniti (e questo è un indice pericoloso), in Afghanistan, in India, in Germania, in Danimarca, in Svizzera, in Turchia e anche in Italia. Nelle sue opere c’è l’aspirazione alla libertà di donne umiliate e costrette, il cui riscatto aspira a manifestarsi pubblicamente sui muri come nelle denunce dei Writers. Nel guardare le immagini vedo affinità con Banksy, e anche una citazione di Cattelan (la banana esposta a Miami). Shamsia ha tentato di connettere l’Afghanistan al mondo. Oggi dobbiamo sperare che la sua missione possa continuare, anche se sono inquietanti le parole che ci arrivano da un’altra ragazza afghana, la regista Sahra Karimi, che ha lasciato il paese dopo l’arrivo dei talebani a Kabul, riprendendo con il cellulare quello che stava accadendo per le vie della città durante la sua fuga.

«A tutte le comunità del mondo. Vi scrivo con il cuore spezzato e la speranza che possiate unirvi a me nel proteggere la mia buona gente. Nelle ultime settimane i talebani hanno preso il controllo di molte province. Hanno massacrato il nostro popolo, hanno rapito molti bambini, hanno venduto bambine minorenni come spose per i loro uomini, hanno assassinato donne per il loro abbigliamento, hanno torturato e ucciso uno dei nostri amati comici, hanno eliminato uno dei nostri poeti storici, hanno assassinato il capo della cultura e dei media del governo, hanno fatto scomparire persone affiliate al governo, hanno appeso pubblicamente alcuni dei nostri uomini, hanno sfollato centinaia di migliaia di famiglie…I media, i governi e le organizzazioni umanitarie mondiali tacciono come se questo “accordo di pace” con i talebani fosse legittimo. Non è mai stato legittimo… Se i talebani hanno preso il sopravvento, vieteranno anche ogni arte… Spoglieranno dei diritti le donne, saremo spinti nell’ombra delle nostre case, le nostre voci saranno soffocate…Non capisco questo mondo. Non capisco questo silenzio. Io resterò a combattere per il mio paese, ma da sola non ce la faccio. Ho bisogno di alleati. Per favore, aiutateci a far sì che il mondo si preoccupi di quello che ci sta succedendo…Siate le nostre voci fuori dall’Afghanistan. Non avremo accesso a internet e a nessuno strumento di comunicazione… Per favore, per quanto potete, condividete queste parole con i vostri media e scrivete di noi sui vostri social. Il mondo non dovrebbe voltarci le spalle…aiutateci. Grazie. Apprezzo il vostro cuore puro e vero. Sahraa Karimi»

Facciamo arrivare ovunque il suo messaggio, è una delle cose giuste che possiamo fare. Io lo faccio ora.

Perché odiano le donne.  Massimo Recalcati il 23/8/2021 su La Repubblica. Le radici della sessuofobia talebana. Nel dramma dell'Afghanistan l'odio sessuofobico maschilista verso le donne acquista il valore programmatico di una politica persecutoria. Le cancellazioni delle immagini delle donne nella città di Kabul ne sono state una manifestazione eloquente. Ma ancora di più la caccia sistematica, casa per casa, non solo delle donne che si ribellano al regime non essendo disposte a rinunciare alle libertà acquisite in questi anni, ma anche di tutte quelle donne non ancora incardinate in una famiglia - né madri, né mogli - , che vengono dunque braccate semplicemente in quanto donne. Il presupposto ideologico che sostiene questo programma è sconcertante nella sua evidenza: le donne sono ontologicamente fonte di corruzione e, come tali, una minaccia pericolosa per l'affermazione di un sistema di potere governato da soli uomini. Questa persecuzione assume i tratti che l'Occidente ha conosciuto nel tempo infausto della caccia alle streghe. Al suo fondamento, ora come allora, una pulsione sessuofobica che non tollera l'esistenza della donna come incarnazione della libertà. La strega ieri, la donna corrotta dall'Occidente oggi. Il regime fondamentalista talebano rivela in questa spinta sessuofobica la sua essenza: l'odio nei confronti delle donne è odio verso il mondo. Se il mondo è luogo dell'aperto, dello scambio, dei legami, della contaminazione, del pluralismo, della libertà, la donna è per eccellenza simbolo del mondo. Ecco perché l'alterità della donna è considerata dai talebani omologa all'anarchismo della democrazia. Ogni ideologia, come ha mostrato Hannah Arendt, tende fanaticamente ad abolire la vita particolare del mondo, nel nome universale dell'Idea. Ogni ideologia vorrebbe piegare il carattere plurale del reale assimilandolo senza resti al proprio ideale. Per questo ogni ideologia è, nelle sue radici, prepolitica, tribale, fanatica. Nel caso del regime talebano la persecuzione della donna come simbolo della libertà del mondo avviene nel nome di una ideologia religiosa retta da un fantasma inossidabile di purezza. La democrazia, come la donna, è il verme che può corrodere il valore incontaminato dell'Idea. Il dominio dell'Idea deve infatti imporsi come assoluto. Per questo coloro che si sentono investiti di un mandato ideologico non conoscono pietas, tenerezza, sensibilità, non hanno, letteralmente, cuore. La purezza dell'ideologia è minerale, divide il mondo in modo manicheo in puri e impuri, bene e male. E in questo schema, per il fondamentalismo talebano, le donne stanno, ovviamente, come la democrazia, dalla parte dell'impurità e del male. Tuttavia, come sappiamo dalla lezione della psicoanalisi, è l'ideale di purezza ad esigere sempre l'esistenza dell'impuro. Nel caso specifico la libertà sessuale - si pensi alla condizione altrettanto ferocemente perseguitata della comunità Lgbtq - condensa l'impurità che il delirio talebano deve poter scongiurare a tutti i costi. Perché? Perché la furia persecutoria nei confronti delle donne rimuove il suo contrario pulsionale: il paradiso agognato dai militanti talebani è popolato da donne vergini che si offrono senza alcuna restrizione. Come la clinica psicoanalitica ha messo in evidenza, in ogni grave fobia si cela l'attrazione profonda per quello che si respinge con più accanimento. Anche l'Occidente non ha ancora del tutto superato questa dinamica che contrassegna ogni forma ideologica di razzismo. Se possiamo considerare il nostro tempo come un tempo politicamente post-ideologico, non si dovrebbe però mai dimenticare la natura radicalmente pre-politica, pulsionale, dell'ideologia che dà luogo all'esistenza di fatto di innumerevoli blocchi ideologici di tipo etnico, religioso e culturale. Quello sessuofobico è uno di questi. Perché, per fare solo un esempio, la Chiesa Cattolica di fronte allo scempio femminicida dell'Afghanistan non sovverte definitivamente il proprio ordine patriarcale abilitando pienamente le donne all'esercizio del culto? È un fatto sempre più evidente: il tempo cosiddetto post-ideologico nel quale siamo preserva l'esistenza di forme ideologiche pre-politiche nelle quali il giudizio morale anticipa e orienta quello politico. Per questo dovremmo sempre ribadire che il sesso della democrazia è femminile poiché ricorda a ciascuno di noi, come solo un pensiero autenticamente femminile sa fare, che non esiste politica degna di questo nome che trascuri nel nome dell'universale astratto dell'Idea la cura concreta per la vita nella sua singolarità insacrificabile.

Cosa è cambiato per le donne in Afghanistan dopo vent’anni di presenza militare della Nato e dell’Italia. La guerra, almeno nelle dichiarazioni, è stata combattuta anche in nome dei diritti femminili. Ma oggi resta il Paese più maschilista del mondo. E con il ritiro degli occidentali torna la paura, non solo dei talebani. Giulia Ferri su L'Espresso il 15 giugno 2021. Vent’anni dopo, la missione in Afghanistan è finita. Ma ora c’è da capire cosa resterà davvero di questa guerra. Il ritiro dei contingenti Nato sarà completato entro luglio 2021 e lo scorso 8 giugno anche la bandiera italiana è stata ammainata. Se in questi anni i militari italiani hanno contribuito alla costruzione di strade, ospedali e scuole, restano non pochi interrogativi sul raggiungimento degli obiettivi della missione, quelli più volte ripetuti da tutte le forze politiche in campo: portare stabilità, garantire i diritti umani e liberare le donne dalla condizione di sottomissione in cui versavano sotto il regime talebano. Sì perché, almeno a parole, la ventennale guerra d’Afghanistan è stata combattuta anche per le donne. «Sono intervenuti per cacciare i talebani e difendere i diritti delle donne. Dopo vent’anni vanno via con un accordo con i talebani e certamente le donne saranno abbandonate al loro destino». L’amaro bilancio lo traccia la principessa Soraya d’Afghanistan, nipote di re Amanullah e della regina Soraya, di cui orgogliosamente porta il nome, sovrani di Afghanistan dal 1919 al 1929, prima di dover lasciare il Paese e venire in esilio in Italia. «I miei nonni furono i primi a tentare di modernizzare il Paese e garantire i diritti delle donne», racconta, «emanando la prima Costituzione afghana, e di tutta l’Asia, puntando sull’istruzione e sull’associazionismo femminile». La regina Soraya è stata considerata una delle prime femministe, tanto influente che il Time Magazine le dedicò la sua copertina nel 1927. Ma quel progresso fu bloccato allora, come nei decenni a seguire. Perché la storia si ripete sempre, spiega la principessa Soraya, e questo vale ancor di più per le donne afghane, che più volte hanno acquisito e poi visto svanire le loro libertà nel corso del tempo. Oggi la nipote della regina porta avanti quel processo, sostenendo l’artigianato femminile afgano e le cooperative come “Azezana”, dove lavorano oltre 400 donne per produrre foulard di seta o “Kandahar Treasure”, che produce i pregiati ricami di Kandahar, e promuovendoli in Italia e in Europa. Ci tiene però a sottolineare che quei pochi diritti conquistati finora dalle donne in Afghanistan, si devono agli sforzi delle associazioni femminili locali. Proprio con operatrici afghane lavora Pangea, una delle associazioni italiane presenti sul territorio da più tempo. A Kabul dal 2003, porta avanti il programma “Jamila”, implementato grazie a più di trenta ragazze e donne afghane, che oggi lavorano in una decina di distretti per l’empowerment femminile. Nella capitale Pangea ha anche aperto la prima scuola per bambini e bambine sordi del Paese, che accoglie circa 600 ragazzi, con classi miste e una squadra di calcio femminile. Le ragazze che si diplomeranno quest’anno saranno le prime donne sorde afghane a poter accedere all’università. «La chiave è l’economia, fare in modo che le donne possano essere indipendenti e autonome, per questo i nostri interventi sono di microcredito e cerchiamo di fare in modo che tutte abbiano un conto corrente in banca» spiega Luca Lo Presti, presidente e fondatore dell’associazione. Il processo di auto emancipazione per migliaia di donne che Pangea ha assistito, è passato anche da una serie di altri servizi, come l’educazione ai diritti umani, igienico sanitaria, sessuale, o il supporto ginecologico. Ma passa anche dall’istruzione maschile. «Le ragazze che sono state nostre beneficiarie, quando sono diventate mamme, non hanno forzato le figlie al matrimonio, questo perché abbiamo iniziato con le donne ma abbiamo lavorato poi anche con i mariti e i figli maschi, altrimenti si sarebbe creato un percorso di consapevolezza sbilanciato e ulteriore conflitto tra i generi», sottolinea Lo Presti. «In questi anni abbiamo visto un cambiamento ma solo nelle città, e neanche in tutti i distretti: al centro di Kabul si vedono donne truccate o sedute al ristorante. Quello però non è lo specchio dell’Afghanistan: già nelle cittadine ai margini della capitale non c’è una donna senza velo», spiega ancora il presidente di Pangea. Che racconta poi come le donne afghane oggi siano più forti, ma anche che tra le operatrici a Kabul, ci sono diverse paure per il futuro. Il più comune è che con il ritiro degli occidentali scoppi una guerra civile e che il ritorno dei talebani possa cancellare i diritti acquisiti. Perché quei diritti sulla carta ci sono. Dal 2004 l’Afghanistan ha una Costituzione avanzata anche sul fronte dei diritti: sancisce l’uguaglianza tra i sessi, la parità di trattamento davanti alla legge, stabilisce una quota minima di deputate. Nel 2008 è stata approvata una legge nazionale contro la violenza e nel 2018 è stato rinnovato il codice penale con un’intera sezione dedicata alla protezione delle donne. È vietato il matrimonio tra minori di 16 anni, proibito quello forzato o compensatorio e i delitti d’onore, in cui gli uomini uccidono mogli, donne o sorelle, devono essere puniti come qualsiasi altro omicidio. Tutto cambia però se si sposta lo sguardo dalla forma alla sostanza. Lo dicono i dati e i rapporti internazionali. Il Gender Inequality Index 2020 del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, posiziona l’Afghanistan al 157esimo posto su 162 Paesi, con solo il 13,2% delle donne che ha accesso a un’educazione secondaria e solo il 21,6% che lavora o cerca lavoro. Ultimo addirittura su 156 Stati secondo le stime del Global Gender Gap Report 2021. E critico sull’effettiva applicazione della legge è anche il report di dicembre 2020 dell’Unama, la Missione Onu in Afghanistan, che ha segnalato come i delitti d’onore continuino, così come gli stupri, e che molte donne ricorrono all'auto-immolazione o al suicidio per fuggire alla violenza, ritenendo che il sistema giudiziario non offra loro reali garanzie. Ma lo conferma anche la cronaca quotidiana. Il video diffuso lo scorso aprile di una donna condannata da un tribunale talebano a 40 frustate in una zona rurale alle porte di Herat, così come l’uccisione di almeno 55 giovani ragazze lo scorso 8 maggio all’uscita di una scuola nella capitale, sono solo l’ultima parte di un racconto di violenza estrema nei confronti delle donne che purtroppo resta la norma. «L’Afghanistan è il Paese più maschilista del mondo». Ne è convinta la principessa Soraya, che spiega come il problema non siano solo i talebani, ma una cultura spesso ancora basata su codici tribali, fondati sul possesso e la difesa delle tre zeta: zan, zard e zamin, rispettivamente donna, oro e terra. C’è molta violenza, di cui le donne pagano il prezzo più alto, anche in termini di vite perse: tra il 2010 e il 2020 secondo l’Unama, sono state uccise 3.219 donne, 390 solo nel 2020. Secondo Soraya l’obiettivo è alimentare questa violenza negando l’accesso alla cultura: «Per questo si continua a far esplodere le scuole, a non volere l’istruzione femminile e molti uomini continuano ad avere maggior interesse a vendere o far sposare le proprie figlie piuttosto che mandarle a scuola». Al tempo stesso però è convinta che un miglioramento ci sia stato: «Qualcosa è cambiato se oggi oltre 3 milioni di bambine possono andare a scuola, se le donne possono essere giornaliste, speaker radiofoniche o televisive, parlamentari. Non credo invece che i talebani siano cambiati», conclude. Una delle cose che preoccupa maggiormente le donne afgane è proprio l’avanzata dei talebani, le cui dichiarazioni sulla volontà di continuare a garantire i diritti delle donne, ma “sulla base della sharia”, hanno suscitato più di qualche timore. Non è però l’unica preoccupazione, come spiega Emanuele Giordana, presidente dell’associazione “Afgana”, giornalista e scrittore che in Afganistan ha vissuto a lungo e che ha approfondito le dinamiche del Paese anche nel suo ultimo libro, “La grande illusione”. «C’è la possibilità che i talebani decidano di dare una spallata perché non riconoscono il governo di Kabul» spiega, «ma preoccupa anche la debolezza del governo, per di più delegittimato con l’esclusione dai colloqui di Doha, condotti tra americani e talebani. Così come la presenza di gruppi regionali guidati da vecchi signori della guerra, che stanno organizzando la “seconda resistenza” per contrastare i talebani, ma in realtà per occupare il vuoto di potere. E infine le schegge di Daesh, ciò che resta dell’ex stato islamico». Per la società civile e le donne afghane sono state spese troppe parole e pochi soldi. «Dopo 20 anni l’Italia ha speso in cooperazione civile circa 320 milioni di euro e in operazioni militari 8 miliardi e mezzo: l’impegno nei confronti della società è stato pari a meno del 5% di quello militare. Cosa può restare di quel misero 5%?» si domanda Giordana. Secondo l’esperto sarebbe stato meglio investire sull’economia reale del Paese, mentre i soldi sono stati usati prevalentemente per le armi e proprio la presenza di troppe armi oggi è uno dei problemi principali di un Paese in guerra da 40 anni. Sul futuro dell’Afghanistan c’è incertezza, e la direttiva dell’ambasciata italiana, che consiglia anche ai civili di lasciare il Paese, non è certo un segnale positivo. «Ciò che servirebbe è un progetto politico internazionale. Ma per ora non ci sono notizie su questo fronte», afferma ancora Giordana. Per questo con l’Atlante delle guerre sta organizzando per l’autunno una conferenza a Trento, con associazioni, esperti e diplomatici, per discutere su cosa si può e si vuole fare, se non altro a livello italiano: «Siamo un Paese piccolo ma che può giocare un ruolo importante», e conclude: «I movimenti femminili in Afghanistan oggi sono molto forti, si tratta di vedere se continueremo a sostenerli oppure no».

Quando Donald Trump ha riconosciuto l'emirato dei talebani: le mille parole che hanno tradito le donne dell’Afghanistan. L'accordo firmato dagli Usa nel febbraio 2020 e confermato da Joe Biden: in appena tre pagine, il patto che ha riportato al potere gli estremisti. Fabrizio Gatti su L’Espresso il 16 agosto 2021. La sconfitta della coalizione occidentale in Afghanistan è scritta nero su bianco dal 29 febbraio 2020 nell'accordo tra gli Stati Uniti di Donald Trump e i talebani. Quel giorno, mentre il mondo sta precipitando nell'epidemia che la dittatura cinese ha nascosto per settimane, le delegazioni mettono fine a un'occupazione militare cominciata l'8 ottobre 2001. Era la risposta all'attacco a New York e Washington dell'11 settembre, quasi tremila morti nel giro di una mattinata, orchestrato dai terroristi di Osama Bin Laden, ben protetto nelle sue roccaforti afghane. Mentre in queste ore la disperazione spinge gli abitanti di Kabul ad aggrapparsi ai carrelli degli aerei in decollo, il patto è tuttora pubblicato sul sito del Dipartimento di Stato: tre pagine e mezzo in formato pdf, poco più di mille parole, che tradiscono per semplificazione, ingenuità e cinismo il linguaggio tipico dell'amministrazione Trump. Lo si legge fin dal titolo: «Accordo per portare la pace in Afghanistan tra l'Emirato islamico afghano, che non è riconosciuto dagli Stati Uniti come stato ed è noto come i Talebani, e gli Stati Uniti d'America». Una formula, quella che nomina l'Emirato islamico pur non riconoscendolo, ripetuta ben sedici volte nel definire le clausole della ritirata. E fatta propria dall'attuale presidente americano Joe Biden, che su questo impegno elettorale ha mantenuto la promessa del suo predecessore. Il tradimento dei cittadini afghani, donne e uomini, che si sono fidati e hanno collaborato con la presenza occidentale, è evidente già verso la fine della prima pagina: «Gli obblighi dell'Emirato islamico afghano, che non è riconosciuto dagli Stati Uniti come stato ed è noto come i Talebani, in questo accordo si applicano nelle aree sotto il loro controllo fino alla formazione del nuovo governo islamico afghano, come verrà determinato dal dialogo e dai negoziati intra-afghani». Un governo islamico con i talebani, come il passato insegna, non può che essere islamista: cioè contro la democrazia, contro le donne libere, contro la conoscenza, l'arte e la cultura. E contro i collaboratori delle forze straniere, interpreti, impiegati, militari, che non si pentono pubblicamente.

Dopo l'indicazione dei tempi entro i quali la coalizione internazionale doveva lasciare l'Afghanistan, si passa ai prigionieri di guerra e ai detenuti politici: cinquemila da parte talebana, mille da altre parti. «L'Emirato islamico afghano, che non è riconosciuto dagli Stati Uniti come stato ed è noto come i Talebani, garantisce che i detenuti liberati si impegneranno alle responsabilità richiamate in questo accordo, in modo che non costituiscano una minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti e dei loro alleati». Molti dei prigionieri appaiono infatti negli elenchi del terrorismo internazionale. Ma gli Stati Uniti avvieranno una revisione amministrativa delle attuali sanzioni e della lista dei ricercati a favore dei membri dell'Emirato islamico afghano, con l'obiettivo di rimuovere le sanzioni entro il 27 agosto 2020. L'amministrazione americana, inoltre, si impegna a fare lo stesso con gli elenchi pubblicati dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Quindi «gli Stati Uniti e i loro alleati si asterranno dalla minaccia o dall'uso della forza contro l'integrità territoriale e l'indipendenza politica dell'Afghanistan o dall'intervento nei suoi affari interni». In cambio, il nuovo Emirato islamico afghano si impegna, almeno sulla carta, a non permettere ad alcuno dei suoi membri, individui o gruppi, compresa Al Qaeda, di usare il suolo dell'Afghanistan per minacciare la sicurezza degli Stati Uniti e dei loro alleati. E a non dare ospitalità o cooperare con attività terroristiche. Per questo, «l'Emirato islamico afghano, che non è riconosciuto dagli Stati Uniti come stato ed è noto come i Talebani, non procurerà visti, passaporti, permessi di viaggio o altri documenti legali per entrare in Afghanistan a quanti costituiscono una minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti e dei loro alleati». E qui, se non è una menzogna velata di diplomazia, l'amministrazione Trump mostra la sua imperdonabile ingenuità: «Gli Stati Uniti e l'Emirato islamico afghano... sostengono le relazioni positive gli uni con gli altri e si attendono che le relazioni tra gli Stati Uniti e il nuovo governo islamico afghano, così come verrà determinato dal dialogo e dai negoziati intra-afghani, saranno positive. Gli Stati Uniti sostengono la cooperazione economica per la ricostruzione con il nuovo governo islamico afghano... e non intervengono nei suoi affari interni». Tutto questo viene sottoscritto a Doha, in Qatar, uno degli emirati dal volto poliedrico: ospita la più grande base aerea militare americana nella regione e, contemporaneamente, è sotto processo a Londra con l'accusa di aver finanziato attraverso le sue banche l'Isis, lo Stato islamico, durante la guerra civile in Siria. Sempre il 29 febbraio 2020, l'amministrazione Trump rilascia una dichiarazione congiunta con la principale vittima consegnata al patibolo dei talebani: sono altre tre pagine in formato pdf che obbligano la Repubblica islamica di Afghanistan - lo Stato appena dissolto con la fuga all'estero del presidente Ashraf Ghani – ad accettare il loro accordo. «La Repubblica islamica di Afghanistan», è scritto, «dà il benvenuto alla riduzione della violenza e prende atto dell'accordo Usa-talebani, un importante passo verso la fine della guerra. L'accordo Usa-talebani spiana la strada ai negoziati intra-afghani su una soluzione politica e un cessate il fuoco permanente e complessivo. La Repubblica islamica di Afghanistan riafferma la sua disponibilità a partecipare ai negoziati e a raggiungere un cessate il fuoco con i talebani». Il punto sulla lotta al terrorismo è un'ulteriore prova di cinismo. «La Repubblica islamica di Afghanistan riafferma inoltre l'impegno in atto per prevenire che qualsiasi membro o gruppo terroristico internazionale, comprendendo Al Qaeda e Isis, usino il suolo afghano per minacciare la sicurezza degli Stati Uniti, i loro alleati e altri Paesi. Per accelerare la ricerca della pace», fanno mettere nel comunicato i delegati di Trump, «la Repubblica islamica di Afghanistan conferma il suo supporto al ritiro per fasi delle forze Usa e della coalizione, in seguito all'adempimento da parte dei Talebani dei loro doveri previsti dall'accordo Usa-talebani e da qualsiasi accordo raggiunto dai negoziati intra-afghani». A questo punto, l'esercito più sgangherato, impaurito e corrotto della coalizione, viene abbandonato al suo destino: «In seguito all'adempimento da parte dei talebani dei loro doveri previsti dall'accordo Usa-talebani, la Repubblica islamica di Afghanistan, gli Stati Uniti e la Coalizione valutano congiuntamente che il livello attuale di forze militari non è più necessario. Fin dal 2014 le forze afghane sono state all'altezza nel garantire la sicurezza e hanno aumentato la loro efficacia». L'altezza e l'efficacia le abbiamo viste con la fuga e le diserzioni in massa di queste ore. Dopo aver consegnato ai terroristi la Somalia e gran parte dell'Iraq, Washington e i suoi alleati aggiungono una medaglia di latta alle loro sconfitte. Mentre le forze americane saranno presto dirottate a occuparsi di Taiwan e delle minacce di invasione di Pechino, al resto del mondo libero rimane un fastidioso dilemma: la coalizione era più disumana quando sparava ai tagliagole talebani o lo è oggi che abbandona al loro destino le tante donne afghane che hanno creduto nella libertà?

Afghanistan, donne picchiate dai talebani. La onlus italiana tira fuori le prove: orrore oltre l'immaginazione. Libero Quotidiano il 23 agosto 2021. Sono state picchiate dai talebani molte delle donne di Pangea. "Vedere le foto con i loro lividi è stato straziante. I bambini hanno assistito a scene di violenza inaudita e sono molto spaventati", comunica sui social la onlus milanese che ha diffuso le immagini dell'arrivo all'alba delle attiviste e delle loro famiglie a Kabul. "Da venerdì Pangea lavora senza sosta per aiutare le colleghe di Kabul e le loro famiglie a raggiungere l'aeroporto. Sono stati giorni difficili. Le donne dello staff di Pangea e le loro famiglie sono rimaste intrappolate nella folla per ore, senza acqua, anche con bambini piccolissimi tra le braccia". La salvezza è arrivata anche grazie a una "P" sul palmo della mano. Se la sono disegnata le attiviste di Pangea, assieme ai loro familiari, in tutto 270 persone, per farsi riconoscere dai carabinieri del Tuscania che le hanno accompagnate al gate dell'aeroporto di Kabul da dove sono partite per Roma, lasciandosi indietro la paura dei talebani che le avevano da giorni nel mirino per il loro impegno da molti anni nella costruzione e nella difesa dei diritti delle donne afghane e le hanno anche picchiate, lasciando dei lividi sui loro corpi. "Al momento la nostra priorità è mettere in salvo lo staff afghano, donne che in questi anni hanno lavorato con coraggio per aiutare le donne. E che ora rischiano violenze, stupri e di essere uccise. Dobbiamo metterle in sicurezza per poter ricominciare presto ad aiutare le donne e i bambini a Kabul", scrive la onlus. "Quello di Pangea a Kabul è un progetto fastidioso per i talebani. Ma è un progetto di vitale importanza per le donne e i bambini di Kabul e non possiamo lasciarli soli". E promette: "Presto torneremo".

Torna l'oscurantismo in Afghanistan. “Frustati dai talebani perché avevamo i jeans”, le testimonianze delle violenze da Kabul. Fabio Calcagni su Il Riformista il 23 Agosto 2021. Svolta moderata o mera operazione di propaganda? Dopo 8 anni giorni dalla riconquista della capitale Kabul, il ritorno al potere dei talebani crea sempre più preoccupazione nel mondo occidentale dopo le moltiplici testimonianze di violenze e rappresaglie degli “studenti Coranici”. L’ultima in tal senso viene riportata dal quotidiano conservatore britannico Telegraph, che cita la denuncia di giovane afgano. Lui e i suoi amici sarebbero stati frustati dai talebani perché indossavano i jeans. Mentre il gruppo camminava per le strade della capitale Kabul, alcuni miliziani li hanno fermati accusandoli di “non rispettare l’Islam”. Due giovani sono riusciti a scappare mentre gli altri sono stati picchiati, frustati e minacciati con una pistola. Un episodio che, come evidenzia il Telegraph, rinnova la preoccupazione su quanto poco sia cambiato il movimento islamico rispetto al suo periodo al potere nel Paese tra il 1996 e il 2001, quando l’Afghanistan fu governato applicando una versione "integralista" della sharia, con un regime oscurantista contraddistinto da misoginia, violenza ed estremismo religioso.  La "crociata" contro l’abbigliamento non in linea con i dettami del gruppo islamico è stata confermata anche dal quotidiano afghano Etilaatroz, che ha denunciato come nel weekend anche uno dei suoi giornalisti è stato picchiato perché non indossava “abiti afghani”. E ci sono state altre segnalazioni di giovani presi di mira per aver indossato magliette e jeans

LE DENUNCE DELLA ONLUS ITALIANA PANGEA – Una denuncia simile arriva anche dall’Italia, dalla onlus milanese Pangea. Su Instagram è stato infatti rivelato come alcune donne della onlus sono state picchiate dai talebani: “Vedere le foto con i loro lividi è stato straziante. I bambini hanno assistito a scene di violenza inaudita e sono molto spaventati”. “Da venerdì Pangea lavora senza sosta per aiutare le colleghe di Kabul e le loro famiglie a raggiungere l’aeroporto. Sono stati giorni difficili. Le donne dello staff di Pangea e le loro famiglie sono rimaste intrappolate nella folla per ore, senza acqua, anche con bambini piccolissimi tra le braccia”, si legge nel post della onlus, che ha diffuso le immagini dell’arrivo all’alba delle attiviste e delle loro famiglie a Kabul.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Storia di Latifa: l’avvocata che difende le donne afgane. Latifa Sharifi è stata minacciata di morte, rimanendo intrappolata in Afghanistan: salviamola dalla furia degli studenti del Corano. Alessandro Fioroni su Il Dubbio il 24 agosto 2021. Un articolo del 2016 del Corriere della Sera raccontava la vita quotidiana, l’attività e le speranze di otto donne di Kabul. Tra queste Latifa Sharifi, l’avvocata che lavorando per la storica associazione Hacwa, che cercava di tutelare i diritti delle mogli e dei bambini afgani, si occupava di assistere tutte coloro che volevano separarsi o divorziare dal proprio marito.

Cosa diceva l’avvocata afghana. Un’impresa difficile perché, nonostante in quel momento i Talebani fossero ancora dispersi sulle montagne all’interno del paese, la legge non ha mai garantito il rispetto dei diritti delle donne. Come spiegava la stessa Sharifi: «Devi provare di essere stata picchiata. Ma alcune madri, quando scoprono che i figli dopo i 7 anni e le figlie dai 9 restano col padre, preferiscono sopportare le botte». Non sono rari i casi di atti di autolesionismo che arrivano anche al gesto estremo di darsi fuoco. Il marito insomma esercita un potere quasi incontrastato sulla famiglia. Per questa sua attività, nel corso degli anni, la legale ha subito minacce e violenze. E’ stata inseguita mentre accompagnava i bambini a scuola, ha ricevuto lettere intimidatorie ( una macchiata di sangue, un segnale inequivocabile) nella quali la si accusava di corrompere le donne afgane, minacciato il figlio fino alla violazione della sua casa presa a sassate.

Cambiare è possibile. Latifa però non ha mai ceduto e, come ha fatto fin dal 2009, ha continuato a credere che un cambiamento fosse possibile. Ora con la caduta di Kabul nelle mani degli studenti coranici tutto sembra perduto e la sua permanenza nella capitale afgana impossibile. Ha dovuto cambiare casa e dalle notizie che arrivano a fatica vive in clandestinità. Appare dunque incomprensibile che non riesca a lasciare l’Afghanistan e rifugiarsi all’estero. Lo testimonia l’episodio del 15 agosto scorso quando con la famiglia si è recata all’aeroporto di Kabul per tentare di imbarcarsi insieme a migliaia di persone in fuga.

Latifa lotta contro i talebani dal 2009. Nonostante Latifa abbia una sorella che vive negli Stati Uniti è stata respinta senza troppe spiegazioni. Proprio grazie alla familiare è stata resa nota una sua lettera- appello che racconta l’accaduto. «Sanno chi sono. Sono un’avvocata che ha lottato contro i talebani dal 2009. Non mi preoccupo più solo per la mia vita, ma per i miei tre figli che meritano di vivere un’esistenza che non sia fatta solo di armi, cadaveri, sangue, abusi dei talebani su donne e bambini. Ho svolto il mio lavoro ogni giorno, sperando di fare la differenza nelle vite delle donne e dei bambini. Sfortunatamente oggi fuggo per cercare di salvare me stessa. Non ho un luogo dove andare. Non so se le mie parole vi raggiungeranno. Ma in tal caso, vi prego di aiutarmi». La situazione ora rischia di diventare ancora più difficile perché i Talebani stanno per chiudere le vie di fuga. Ieri infatti Suhail Shaheen, membro della delegazione talebana a Doha, ha reso noto che «se gli Stati Uniti o il Regno Unito dovessero chiedere più tempo per continuare le evacuazioni, la risposta è no. Ci sarebbero conseguenze. È una linea rossa. Il presidente Biden ha annunciato che il 31 agosto avrebbero ritirato tutte le loro forze militari. Quindi, se lo estendono, significa che stanno estendendo l’occupazione mentre non ce n’è bisogno». Il salvataggio di Latifa Sharifi dunque è diventata una corsa contro il tempo.

«Latifa lasci subito l’Afghanistan». L’Osservatorio degli avvocati in pericolo (OIAD) ha rivolto un appello all’Alto commissario per la politica estera della Unione europea, al Presidente del Parlamento europeo ed ai ministri degli Esteri dei Governi francese, italiano, spagnolo e svizzero, in quanto Governi dei paesi di cui fanno parte gli ordini nazionali forensi fondatori dell’Osservatorio e componenti del direttivo, per riuscire a concedere asilo politico all’avvocata unitamente alla sua famiglia. Per questo l’Oiad chiede che venga immediatamente concesso all’avvocata Latifa Sharifi la possibilità di lasciare l’Afghanistan, unitamente alla sua famiglia, e di richiedere asilo politico. A tal fine ha rivolto un pressante appello all’Alto commissario per la politica estera della Unione europea, al Presidente del Parlamento europeo ed ai ministri degli Esteri dei Governi francese, italiano, spagnolo e svizzero, in quanto Governi dei paesi di cui fanno parte gli ordini nazionali forensi fondatori dell’Osservatorio e componenti del direttivo. Inoltre il Consiglio nazionale forense (Cnf) sta mettendo in campo iniziative affinchè durante il G20 sull’empowerment femminile, che si terrà a Santa Margherita Ligure il prossimo 26 agosto, si discuta della creazione di corridoi umanitari per aiutare le donne afgane ad uscire dalla tragica situazione che stanno vivendo. Tra queste proprio le avvocate e gli avvocati che stanno tentando di ottenere asilo politico.

La giurista Angiza Nasiree: «Con quei fanatici al potere per le donne dell’Afghanistan non c’è futuro». «Una cosa di cui sono sicura è che i Talebani non sono cambiati. Ma è cambiato il popolo afghano. Il matrimonio con gli integralisti è qualcosa di impossibile». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 21 agosto 2021. «I talebani sono ancora pericolosi e violenti. Non hanno alcun rispetto per le persone, specialmente per le donne. Non hanno tagliato i loro legami con Al Qaida e altre organizzazioni terroristiche e chiedono l’attuazione della sharia non solo per l’Afghanistan ma ovunque». Angiza Nasiree, giurista nata a Kabul e ora residente in Canada, esprime tutta la sua preoccupazione in questa intervista esclusiva rilasciata al Dubbio. Il salto indietro di vent’anni è una sconfitta per tutti. Nasiree è stata consigliere politico presso l’Ambasciata dell’Afghanistan a Washington DC dal 2017 al 2020 e ha lavorato per oltre tredici anni per il ministero degli Affari esteri afghano. Si è laureata nel 2006 in Giurisprudenza e Scienze Politiche nell’Università di Kabul. Nel 2012, dopo aver vinto una borsa di studio in Public Private Partnership for Justice Reform in Afghanistan, si è trasferita negli Stati Uniti per frequentare un master presso il Washington College of Law dell’American University. Conosce bene l’Afghanistan avendo vissuto lì gli anni più tristi, quelli dell’oscurantismo talebano dei primi anni del Duemila, che le hanno impedito per diverso tempo di andare a scuola. «Questa ingiustizia – dice al Dubbio – mi ha rafforzato. Non mi ha impedito di seguire i miei sogni, di raggiungere gli obiettivi che avevo in mente e di continuare ad amare il mio Paese».

Signora Nasiree, in Afghanistan un ritorno al passato. Il suo Paese è senza futuro? Cosa succederà adesso?

Abbiamo assistito ad un capovolgimento della situazione sorprendente con un futuro imprevedibile. Se l’Afghanistan rimarrà sotto il controllo dei talebani, rischia di non avere futuro. Gli afgani hanno già vissuto sotto la brutalità del loro regime vent’anni fa. Io era una studentessa in quegli anni. Ricordo ancora il giorno in cui ci hanno detto che non potevamo più andare a scuola e siamo rimasti tutti a casa per cinque anni. Non riesco ancora a credere che i talebani siano tornati e abbiano ripreso il controllo del Paese. È troppo presto per prevedere cosa accadrà. I colloqui di pace sono ancora in corso a Doha e non sappiamo che tipo di sistema i talebani saranno disposti ad attuare. La maggioranza della gente vuole un governo che possa rappresentare ogni afghano. La gente vuole giustizia, stato di diritto, sicurezza, cibo, servizi sanitari ed educativi. Vuole la libertà.

I talebani dicono di essere meno intransigenti rispetti al passato. Sono credibili?

Una cosa di cui sono sicura è che i talebani non sono cambiati. È cambiato invece il popolo afghano. Il matrimonio tra il popolo afgano di oggi ed i talebani è qualcosa di impossibile. Non credo che noi afghani saremo in grado di accettare ancora una volta le loro regole. Non riesco al tempo stesso ad essere ottimista sul futuro.

Le donne pagheranno il prezzo più alto?

Sì, assolutamente. Tutti, uomini e donne, pagheranno un prezzo alto in questa situazione, ma le donne sono le più vulnerabili, considerato il fatto che i talebani non hanno rispetto per i nostri diritti. Hanno detto che riconoscono i nostri diritti secondo la legge della sharia. Eppure, non sono riusciti a spiegarci a quale legge della sharia facciano riferimento. L’Afghanistan è già un Paese islamico e tutte le nostre leggi sono state create sulla base della legge islamica, ma i talebani hanno la loro interpretazione. Ecco perché potrebbero impedire alle ragazze di andare a scuola, come facevano in passato, o impedire alle donne di lavorare fuori casa, impedire di viaggiare senza un membro maschio della famiglia. Un’altra cosa però vorrei ricordare.

Dica pure…

Abbiamo combattuto con l’occidente la guerra contro il terrorismo globale, quindi per favore non dimenticateci e non dimenticate le donne dell’Afghanistan. Hanno bisogno di essere sostenute per avere accesso ai loro diritti fondamentali. Bisogna impedire ai talebani di sottoporle ad umiliazioni non più tollerabili.

I passi in avanti sui diritti umani si sono bloccati per sempre?

Al momento sì. Tutti quei i progressi fatti negli ultimi vent’anni sono stati azzerati. L’immagine dell’Afghanistan è diversa da quella che si vede nei media. Questi ultimi, per lo più, si sono concentrati sulla guerra e sulla violenza. Tuttavia, abbiamo ottenuto risultati notevoli. Avevamo un esercito moderno, forze speciali, polizia, si poteva vedere la partecipazione attiva delle donne in tutti i settori, compresa la politica, la polizia, l’esercito, il settore legale. Non erano perfetti, ma crescevano ogni giorno. Questi risultati sono ora bloccati perché non graditi ai talebani. Avevamo i media più indipendenti della regione. I talebani permetteranno loro di trasmettere in modo indipendente come hanno fatto in passato? Non credo proprio.

Le donne afgane potranno avere un ruolo nel nuovo contesto?

Noi donne afghane abbiamo combattuto per i nostri diritti per decenni e continueremo a farlo. Non sono davvero sicura se ci sarà un ruolo nel governo talebano. I talebani hanno ucciso molte donne negli ultimi anni, perché lavoravano per il governo, le Ong e le organizzazioni per i diritti umani. Alle ragazze non è stato permesso di andare a scuola nelle aree sotto il loro controllo. Io non mi fido dei talebani. Anche se di recente hanno detto che permetteranno alle ragazze di andare a scuola. Devono dimostrare eventuali buoni propositi.

Il ricordo più bello del suo Paese?

Anche se sono nata in piena guerra e ho trascorso tutta la mia infanzia in guerra, ho tanti bei ricordi dell’Afghanistan. Il giorno più bello è stato quando il regime dei talebani è crollato, nel 2001, e sono stata in grado di tornare a scuola e continuare gli studi. Era come vivere un sogno, ma era realtà.

Spera di ritornare in Afghanistan?

Certo! Lo spero davvero. Prego ogni istante per la pace del mio Paese. Ho ancora i miei parenti lì, ma purtroppo non posso andare a trovarli a causa dei talebani. Spero di ritornarci senza paura, minacce e altri rischi. Riscoprire tutti i posti più belli dell’Afghanistan, come Bamyan e Herat, mi renderebbe felice.

«Stupri, parti e cani morti sono solo fake news: vi racconto il “rave” di Viterbo»

Le donne rischiano di perdere tutti i loro diritti. “Moriremo lentamente nella storia”, le lacrime della ragazza afghana dopo il ritorno dei talebani. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 16 Agosto 2021. “Noi non contiamo perché siamo nati in Afghanistan. A nessuno importa di noi. Moriremo lentamente nella storia”. Una ragazza afghana, tra le lacrime, esprime tutto il suo dolore e la paura del futuro che la attende. Non si conoscono il suo nome, né la sua età: ma potrebbe avere meno di 20 anni. Le immagini del video che sta facendo il giro del mondo, pubblicato sul profilo Twitter dello scrittore Khaled Hosseini, riescono a trasmettere la sua disperazione: la stessa che stanno vivendo la popolazione afghana e le donne in particolare, dopo il ritorno dei talebani.

Il dramma delle donne in Afghanistan. C’è grande preoccupazione per ciò che riguarda la sorte delle donne nel Paese. Tutti i diritti faticosamente conquistati negli ultimi 20 anni-come studiare, lavorare, andare a votare- rischiano di essere cancellati. Dalla presa di Kabul da parte dei talebani nel 1996 e fino al 2001, anno della caduta del regime ad opera del governo americano, alle donne erano state imposte tutta una serie di limitazioni. Non potevano uscire di casa se non indossando il burqa, sempre accompagnate da un tutore, ovviamente di sesso maschile. Per loro non c’era la possibilità di lavorare, frequentare la scuola, guidare l’auto o qualsiasi altro mezzo: ovviamente erano vietati anche trucco, gioielli, abiti e accessori ritenuti non adatti. Dovevano semplicemente essere invisibili, silenziose, sottomesse. Nonostante i talebani abbiano ora prospettato una maggiore apertura nei confronti delle donne, dalle testimonianze che arrivano dal Paese, a partire proprio dal video, si comprende come la realtà sia ben diversa. Una giornalista di 22 anni ha raccontato la sua fuga dal paese al Guardian, sottolineando: “Oggi non posso scrivere sotto il mio vero nome o dire da dove vengo o dove sono. La mia intera vita è stata cancellata in pochissimi giorni”, aggiungendo: “Io non sono al sicuro, perché sono una donna di 22 anni e so che i talebani stanno costringendo le famiglie a consegnare le loro figlie per darle ai soldati.”

Nahal e Mahvash, due sorelle single che hanno studiato, lavorano e vivono libere, hanno raccontato al Corriere che a Kabul “stanno facendo la lista con i nomi di tutte le donne nubili” e che con i talebani sarebbero costrette a sposarsi, rinunciando a tutto, a partire dalla loro indipendenza.

Oscurati i poster delle donne. Prima dell’arrivo dei talebani in città, alcuni poster raffiguranti donne in abito da sposa sono stati oscurati con della vernice dal muro di un negozio a Kabul. Un’immagine simbolo, che ha fatto il giro dei social. I media internazionali, come Al Jazeera e la Bbc, riportano già testimonianze di donne costrette a lasciare il lavoro, o a cui è stato imposto di uscire- rigorosamente indossando il burqa- solo insieme a un accompagnatore maschile nei territori precedentemente conquistati dai talebani. Il giornalista Tony Capuozzo, intervenuto oggi a Morning News, ha sottolineato che “è lecito aspettarsi il peggio”, aggiungendo: “A noi non resta che augurarci che i talebani di oggi siano meno rigidi dei loro fratelli maggiori che hanno combattuto 20 anni fa“. Mariangela Celiberti.

Da "ansa.it" il 20 agosto 2021. "Sono sana e salva": con queste parole e un selfie postato su Instagram, Aryana Sayeed, una delle popstar più famose dell'Afghanistan, ha rassicurato i suoi fan, mostrando di essere riuscita a lasciare il Paese a bordo di un aereo cargo militare americano, assieme a molti altri profughi. Sayeed, 35 anni, 1,3 milioni di follower su Instagram, da anni riceve ogni tipo di minaccia a causa della sua musica e del suo modo di vestire, in particolare nei concerti. La foto che ha postato la mostra seduta in terra su un aereo militare americano insieme ad altri sfollati. Indossa la mascherina e con le dita fa il segno della vittoria. Nella didascalia ringrazia i suoi sostenitori che esorta a "rimanere al sicuro" e "rimanere uniti". Quindi afferma: "Dopo un paio di notti indimenticabili, ho raggiunto Doha, in Qatar e sto, aspettando il mio eventuale volo di ritorno a Istanbul". Poi, aggiunge, "spero e prego che a seguito dei recenti cambiamenti, il mio meraviglioso popolo possa almeno iniziare a vivere una vita pacifica senza la paura di attentatori suicidi ed esplosioni". 

Da “lastampa.it” il 20 agosto 2021. In Afghanistan Aryana Sayeed è una delle pop star più famose, molto attiva anche  nella battaglia per i diritti delle donne e per questo spesso minacciata di morte dai taleban per le sue scelte, il suo stile e la sua musica. Il 17 agosto ha rassicurato i suoi fan, postando sul suo profilo Instagram da 1,3 milioni di follower una foto in cui è a Doha, in Qatar, a bordo di un cargo statunitense insieme al marito e suo manager Hasib Sayed. “Sono sana e salva. Grazie per le vostre preghiere. Cercate di restare al sicuro e di rimanere uniti”.

Afghanistan, Maurizio Molinari a In Onda: "I talebani entrano nelle case di notte e...", quali donne cercano e come le riducono. Libero Quotidiano il 19 agosto 2021. "Durante la notte i talebani entrano nelle case, cercano le donne fra i 16 e i 45 anni non sposate e le portano via": Maurizio Molinari, ospite di Concita De Gregorio e David Parenzo a In Onda su La7, riporta le testimonianze dei giornalisti afgani, che ogni giorno fanno sapere cosa accade a Kabul, la capitale dell'Afghanistan ormai finita nelle mani degli studenti coranici. "Sappiamo che stanno oscurando tutte le immagini femminili nei luoghi pubblici e sappiamo che sparano contro chi innalza il vessillo nazionale afghano - ha continuato il direttore de La Repubblica -. Iniziano a imporre la loro legge e questo moltiplica la voglia di fuggire per chi ha vissuto negli ultimi 20 anni in Afghanistan in un regime ben diverso". Riferendosi alla folla accalcata vicino all'aeroporto, ben visibile in diverse foto e numerosi video, Molinari ha spiegato: "In quella folla c'erano 10mila persone. Diecimila persone che stanno spingendo per fuggire a tutti i costi dall'inferno dei talebani". Sull'immagine moderata che i nuovi padroni del Paese vogliono dare di se stessi, invece, il giornalista ha detto: "Hanno annunciato la volontà di proclamare l'Emirato islamico ma ancora non lo hanno fatto, perché stanno tentando di creare un governo di coalizione islamico. E questa è la svolta pragmatica della loro leadership". Molinari, però, ha spiegato anche che i negoziati con gli ex leader per formare il governo di coalizione stanno andando malissimo, perché quello che i talebani offrono è meno di nulla: "La realtà vera è che andiamo verso la proclamazione di un Emirato islamico che si richiamerà in tutto e per tutto al precedente regime islamico del mullah Omar. Questo mette in grande difficoltà il Pakistan, e di conseguenza la Cina, che invece vuole la svolta pragmatica dei talebani". 

Il ritorno del burqa. Gaia Cesare il 20 Agosto 2021 su Il Giornale. Le giovani femministe di Kabul lo distribuiscono alle donne casa per casa, perché possano scappare e cercare di evitare le punizioni degli integralisti. I prezzi del velo integrare sono decuplicati nei mercati dei Kabul. Ci sono le donne che resistono e partecipano alle proteste anti-talebane. Ci sono le donne che lanciano i bambini in mano ai soldati americani nell'aeroporto di Kabul, perché almeno i più piccoli possano salvarsi. E ci sono le donne che tornano a mettere il burqa, anche se gli estremisti islamici hanno garantito che bambine e ragazze potranno studiare e lavorare e non dovranno indossare il velo integrale, a meno che non lo vogliano. Nessuno crede alle promesse di rispetto dei diritti delle donne, «nei limiti della legge islamica», da parte dei talebani che «all'interno della sharia» hanno sempre vietato lo smalto per le unghie, i cosmetici, i gioielli e pure un sorriso in pubblico. Le testimonianze dall'Afghanistan, in mano agli integralisti da cinque giorni, raccontano che la ferocia nei confronti delle donne è rimasta intatta, come la misoginia radicata nel loro islam integralista. Dalla provincia di Takhar arriva la prima notizia, corredata da foto, di una donna uccisa perché non era coperta dalla testa ai piedi. Il suo corpo riverso nel sangue. È anche per questo che le poche donne che si avventurano in strada rimettono il burqa che ne cancella il volto e l'identità, facendo intravedere il mondo come dalle sbarre di un carcere. Lo fanno anche se lo odiano come simbolo e sintesi della sopraffazione talebana, lo fanno per «sparire» dalla vista, passare il più possibile inosservate, ed evitare guai. Non è un caso che i prezzi del velo integrale a Kabul e provincia siano decuplicati. Il fenomeno è cominciato con l'avanzata militare dei talebani ma è sempre più evidente dopo la proclamazione del nuovo Emirato islamico. Nei mercati, dai due euro dell'anno scorso (200 afghani) il prezzo dei burqa è salito fino ai 21-31 euro di questi giorni (2mila-3mila afghani). «E se prima erano le donne di provincia ad acquistarli racconta un commerciante di Kabul al Guardian ora sono anche le donne di città a farlo». Si preparano al peggio, a quello che è sempre stato nella aree dove i talebani hanno continuato a esercitare il loro dominio. Il velo integrale - udite, udite - viene consegnato anche da un gruppo di giovani femministe universitarie della capitale, che hanno «come modelli i movimenti europei e americani». «Hanno distribuito casa per casa i burqa alle donne ha riferito all'Agi Nicoletta, volontaria della Casa delle donne di Milano, in contatto con una studentessa afghana di 26 anni, che frequenta Scienze Politiche ma chiede di restare anonima - Sono i burqa delle loro nonne, che da anni non li indossano». «Hanno distribuito anche assorbenti per il ciclo mestruale, perché a Kabul uscire di casa per una donna è diventato impossibile. Cercano di tutelare le studentesse più esposte, che dalla capitale fanno rientro nelle famiglie alla periferia del Paese». Il burqa come lasciapassare. Come scudo. Per evitare le punizioni dei talebani a caccia di cittadini da punire per aver violato il codice morale. Le speranze sono scarse. Gli integralisti hanno già aggiustato il tiro sulle aperture alle donne, spiegando tramite i Waheedullah Hashimi, uno dei leader più anziani, che «saranno i nostri ulema, (esperti di diritto islamico), riuniti in consiglio, a decidere se le ragazze andranno a scuola». Cosa diventerà legge sarà stabilito dal governo talebano in corso di formazione. Le donne sono certe che pagheranno il prezzo più alto. Dopo vent'anni di guerra, Joe Biden dice che «non è razionale» tentare di proteggere i diritti di donne e bambine nel mondo usando la forza militare, occorre «pressione diplomatica e internazionale». Ma la sintesi del doppio gioco dei talebani è in un servizio del network americano Showtime, che agli estremisti chiede se rispetteranno i diritti delle donne, a votare ed essere elette. I tre in turbante e kalashnikov rispondono con una risata involontaria, che faticano a contenere. «Stop filming, fermate le riprese», chiedono. E a smettere di ridere proprio non riescono.

Gaia Cesare per “il Giornale” il 20 agosto 2021. Ci sono le donne che resistono e partecipano alle proteste anti-talebane. Ci sono le donne che lanciano i bambini in mano ai soldati americani nell'aeroporto di Kabul, perché almeno i più piccoli possano salvarsi. E ci sono le donne che tornano a mettere il burqa, anche se gli estremisti islamici hanno garantito che bambine e ragazze potranno studiare e lavorare e non dovranno indossare il velo integrale, a meno che non lo vogliano. Nessuno crede alle promesse di rispetto dei diritti delle donne, «nei limiti della legge islamica», da parte dei talebani che «all'interno della sharia» hanno sempre vietato lo smalto per le unghie, i cosmetici, i gioielli e pure un sorriso in pubblico. Le testimonianze dall'Afghanistan, in mano agli integralisti da cinque giorni, raccontano che la ferocia nei confronti delle donne è rimasta intatta, come la misoginia radicata nel loro islam integralista. Dalla provincia di Takhar arriva la prima notizia, corredata da foto, di una donna uccisa perché non era coperta dalla testa ai piedi. Il suo corpo riverso nel sangue. È anche per questo che le poche donne che si avventurano in strada rimettono il burqa che ne cancella il volto e l'identità, facendo intravedere il mondo come dalle sbarre di un carcere. Lo fanno anche se lo odiano come simbolo e sintesi della sopraffazione talebana, lo fanno per «sparire» dalla vista, passare il più possibile inosservate, ed evitare guai. Non è un caso che i prezzi del velo integrale a Kabul e provincia siano decuplicati. Il fenomeno è cominciato con l'avanzata militare dei talebani ma è sempre più evidente dopo la proclamazione del nuovo Emirato islamico. Nei mercati, dai due euro dell'anno scorso (200 afghani) il prezzo dei burqa è salito fino ai 21-31 euro di questi giorni (2mila-3mila afghani). «E se prima erano le donne di provincia ad acquistarli - racconta un commerciante di Kabul al Guardian - ora sono anche le donne di città a farlo». Si preparano al peggio, a quello che è sempre stato nelle aree dove i talebani hanno continuato a esercitare il loro dominio. Il velo integrale - udite, udite - viene consegnato anche da un gruppo di giovani femministe universitarie della capitale, che hanno «come modelli i movimenti europei e americani». «Hanno distribuito casa per casa i burqa alle donne - ha riferito all'Agi Nicoletta, volontaria della Casa delle donne di Milano, in contatto con una studentessa afghana di 26 anni, che frequenta Scienze Politiche ma chiede di restare anonima - Sono i burqa delle loro nonne, che da anni non li indossano». «Hanno distribuito anche assorbenti per il ciclo mestruale, perché a Kabul uscire di casa per una donna è diventato impossibile. Cercano di tutelare le studentesse più esposte, che dalla capitale fanno rientro nelle famiglie alla periferia del Paese». Il burqa come lasciapassare. Come scudo. Per evitare le punizioni dei talebani a caccia di cittadini da punire per aver violato il codice morale. Le speranze sono scarse. Gli integralisti hanno già aggiustato il tiro sulle aperture alle donne, spiegando tramite i Waheedullah Hashimi, uno dei leader più anziani, che «saranno i nostri ulema, (esperti di diritto islamico), riuniti in consiglio, a decidere se le ragazze andranno a scuola». Cosa diventerà legge sarà stabilito dal governo talebano in corso di formazione. Le donne sono certe che pagheranno il prezzo più alto. Dopo vent'anni di guerra, Joe Biden dice che «non è razionale» tentare di proteggere i diritti di donne e bambine nel mondo usando la forza militare, occorre «pressione diplomatica e internazionale». Ma la sintesi del doppio gioco dei talebani è in un servizio del network americano Showtime, che agli estremisti chiede se rispetteranno i diritti delle donne, a votare ed essere elette. I tre in turbante e kalashnikov rispondono con una risata involontaria, che faticano a contenere. «Stop filming, fermate le riprese», chiedono. E a smettere di ridere proprio non riescono.

Chiara Ammendola per fanpage.it il 20 agosto 2021. Il clima a Kabul, al contrario di quanto raccontato dai Talebani a poche ora dalla presa della città, non è affatto disteso. Non lo è per le migliaia di persone che stanno tentando di raggiungere l'aeroporto della capitale con la speranza di poter salire su un volo e raggiungere un qualunque paese lontano dall'Afghanistan e non lo è per i reporter che stanno tentando di raccontare ciò che sta accadendo. Lo sa bene l'inviata della Cnn, Clarissa Ward, che in un video diffuso quest'oggi dalla rete americana ha mostrato alcuni concitati momenti che la riprendono mentre un gruppo di Talebani si avvicina minaccioso a lei e alla sua troupe mentre camminano per le strade di Kabul. Prima la richiesta di smettere di riprendere con la telecamera poi quella, diretta alla giornalista, di coprirsi il volto. "Copri la faccia", le intima un uomo mentre mima il gesto coprendosi il volto con le mani. E infine un'aggressione vera e propria quando dopo che alcuni civili si avvicinano ai giornalisti per chiedere aiuto, i Talebani si scagliano sulla troupe della Cnn per tentare di prendere le videocamere. Momenti di tensione che hanno spinto la reporter ad allontanarsi intimorita, ma solo dopo aver spiegato di essere una giornalista della Cnn autorizzata dallo stesso governo talebano a poter fare il proprio lavoro. Nel concreto però ciò che appare sempre più evidente, col passare dei giorni, è che anche il lavoro dei reporter è messo a dura prova da un clima non affatto disteso e che rischia di peggiorare. Emblematici i casi dei giorni scorsi, con la giornalista dell'emittente di Stato Rta che ha raccontato di essere stata cacciata dai Talebani mentre si trovava nel suo ufficio: "Mi hanno detto che il regime è cambiato e che devo tornare a casa".

"Copriti il viso": aggredita dai talebani la giornalista della Cnn. Francesca Galici il 20 Agosto 2021 su Il Giornale. Clarissa Ward svolgeva il suo lavoro nei pressi dell'aeroporto di Kabul quando un talebano le ha intimato di coprirsi il volto e poi l'ha aggredita. I talebani vogliono far credere di essere più moderati rispetto ai loro predecessori, che vogliono garantire la stampa libera. Dicono che rispetteranno le donne, che saranno libere ma "nei limiti della sharia". Ma le loro recenti azioni dimostrano l'esatto contrario. Gli stranieri stanno lasciando l'Afghanistan il più in fretta possibile e i Paesi si stanno mobilitando per aiutare i civili afghani a scappare dal Paese ma non tutti se ne vogliono andare. Tra loro c'è Clarissa Ward, inviata della Cnn, che ha deciso di rimanere per raccontare quello che sta succedendo a Kabul a rischio della sua vita. Poi ci sono le donne afghane che non si vogliono arrendere al regime e cercano di continuare la loro vita antecedente, ormai vietata. Il lavoro di Clarissa Ward e della sua troupe in Afghanistan è prezioso ma i rischi sono tanti, ogni giorno. Lo dimostra un video diffuso dalla Cnn che mostra l'inviata in una situazione di pericolo ormai comune nelle strade di Kabul. La giornalista voleva documentare la corsa all'aeroporto da parte dei civili, resa molto difficile e pericolosa dalla presenza dei talebani armati che impediscono il passaggio con spari e intimidazioni. Alla giornalista che si è avvicinata per avere informazioni, per capire cosa stesse succedendo, hanno intimato con violenza di coprirsi il volto. Da quando sono tornati i talebani, Clarissa Ward ha iniziato a usare un velo che le copre interamente il capo e il collo ma, in quel momento, il talebano ha preteso che la giornalista coprisse anche il viso lasciando scoperti solo gli occhi. Ma non è finita qui, perché quando alcuni civili si sono avvicinati alla troupe della Cnn per chiedere aiuto, mostrando anche i loro documenti e le carte che giustificano la partenza, i talebani si sono letteralmente scagliati con violenza contro la giornalista e il suo cameraman. Inutile per Clarissa Ward spiegare ai talebani di essere un'inviata della Cnn e di essere stata autorizzata a fare quel lavoro dal governo talebano. È stata costretta ad allontanarsi, non senza che dai suoi occhi si evincesse il terrore per quello che sarebbe potuto accadere. Lei è in parte tutelata ma le insidie sono oggi dietro l'angolo a Kabul. Hanno meno tutele, anzi, ormai non ne hanno più, le due reporter radiofoniche che sono state bloccate all'ingresso del loro posto di lavoro dai talebani, perché ormai non autorizzate a svolgere la loro attività. Alcune giornaliste provano ad andare avanti e sfidano il regime ma non si sa per quanto le verrà concesso. Intanto in Afghanistan continua la caccia ai giornalisti che collaborano con le testate straniere. Un professionista che lavora per la tedesca Deutsche Welle è stato preso di mira dai talebani. La ricerca casa per casa sua e dei suoi parenti ha già fatto vittime e non è l'unico caso. "L'uccisione di un parente stretto di uno dei nostri redattori ieri da parte dei talebani è un fatto inconcepibilmente tragico e testimonia il grave pericolo in cui si trovano tutti i nostri dipendenti e le loro famiglie in Afghanistan", ha dichiarato Peter Limbourg, direttore di Deutche Welle, che poi conclude: "È evidente che i talebani stanno già svolgendo attività organizzate ricerche di giornalisti, sia a Kabul che in provincia. Il tempo stringe". Stando alle fonti, i talebani hanno fatto irruzione nelle abitazioni di almeno tre giornalisti di Deutche Welle e ci sarebbero già stati diversi morti anche tra i traduttori e i collaboratori delle testate nazionali ed estere. Non solo a Kabul, gli agguati e le intimidazioni alla stampa proseguono in tutto il Paese. Una situazione che potrebbe portare alla ritirata dei pochi reporter stranieri rimasti. Nel frattempo Deutsche Welle ha aderito all'Associazione federale degli editori di giornali tedeschi (Bdzv), che comprende Die Zeit, Der Spiegel, Deutschlandradio, Dpa, Reporter senza frontiere, Stern, Sueddeutsche Zeitung, Frankfurter Allgemeine Zeitung, Taz, Rtl e N-tv nella pubblicazione di una lettera aperta che invita il governo tedesco a istituire un programma di visti di emergenza per i loro collaboratori afghani. 

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio

La giornalista col velo: cosa c'è dietro questa foto. Francesca Galici il 16 Agosto 2021 su Il Giornale. La presa di Kabul da parte dei talebani ha riportato il Paese indietro di 20 anni con il ritorno delle limitazioni per le donne, islamiche e non. Nonostante i proclami, nonostante le rassicurazioni alle quali, a onor del vero, nessuno ha creduto, a Kabul si inizia già a percepire il cambiamento da quando la città è in mano ai talebani. A volte le immagini parlano meglio di molte parole ed è sufficiente osservare delle foto del "prima" e del "dopo" per avere realmente contezza di quello che sta succedendo nel mondo. È diventato virale nelle ultime ore un meme che mostra Clarissa Ward, inviata della Cnn a Kabul, con un abbigliamento diverso rispetto al passato. La foto ha fatto il giro del mondo e avuto migliaia di condivisioni. Ma è la stessa giornalista, in serata, a fare alcune precisazioni importanti su quel meme. Il collage che sta rimbalzando sui social nelle ultime ore mette a confronto una foto di pochi giorni fa di Clarissa Ward con uno scatto effettuato nelle ultime ore. La differenza tra i due fermo immagine dei suoi collegamenti salta subito all'occhio. Nella prima, infatti, l'inviata indossa abiti occidentali e ha la testa scoperta, il che le permette di mostrare i suoi capelli biondi, sebbene siano raccolti. Nella foto più recente, invece, Clarissa Ward indossa uno hijab nero, il tipico velo islamico che copre fronte, orecchie, nuca, collo e capelli e un abito chiamato abaya. Una differenza che in tanti hanno attribuito all'insediamento dei talebani a Kabul ma che è stata la stessa giornalista a spiegare con maggiore precisione, sottolineando alcuni dettagli. "Questo meme è impreciso. La foto in alto è all'interno di un complesso privato. Quella in basso è per le strade di Kabul detenute dai talebani. In precedenza indossavo sempre un foulard per la strada a Kabul, anche se non con i capelli completamente coperti e con l'abaya. Quindi c'è una differenza, ma non così netta", ci ha tenuto a specificare la giornalista, evidenziando come anche prima dell'avvento dei talebani fosse raccomandabile coprire il capo. Un discorso simile è stato fatto per la giornalista Charlotte Bellis, corrispondente da Kabul per Al Jazeera International. Anche nel suo caso sono state mostrate due foto in due momenti diversi, prima dell'arrivo dei talebani nella capitale afghana e dopo, mettendo in evidenza la presenza del velo che nella foto meno recente non era presente. Come ha fatto notare un utente, però, già in altre occasioni precedenti la corrispondente ha effettuato servizi con il velo sulla testa ma, com'è evidente, il nuovo corso l'ha spinta a indossarlo in qualunque servizio per la tv per la quale trasmette. Nonostante la situazione di Kabul sia stata lievemente distorta nella narrazione dei social, per le donne la vita a Kabul è indubbiamente cambiata, come ha sottolineato la stessa Clarissa Ward in uno dei suoi collegamenti con la Cnn: "Ho visto molte meno donne di quante ne vedrei normalmente camminare per le strade di Kabul".

Il meme che ha ingannato i giornali. La vera storia della giornalista della Cnn a Kabul e del “cambio d’abito” dopo la conquista dei Talebani. Carmine Di Niro su Il Riformista il 17 Agosto 2021. Un "meme" diventato notizia per gran parte dei giornali italiani, che però sono andati dietro a una notizia senza mettere in atto particolari verifiche, cosa già capitata sul tema Afghanistan con la "celebre" foto della bandiera dei talebani esposta sul palazzo presidenziale di Kabul, una bufala spacciata per vera da diversi media nostrani. Ebbene il secondo caso in queste ore riguarda le immagini della reporter della Cnn Clarissa Ward e della stra-condivisa foto in cui la giornalista, inviata a Kabul, veste in modo molto diverso in due distinti collegamenti. Nel primo la Ward veste “all’occidentale”, ovvero col volto scoperto, mentre nel secondo indossa una abaya, una tunica nera che le donne musulmane indossano per coprire gran parte del proprio corpo, seguendo in questo caso una dottrina più conservatrice dell’Islam. Un meme utilizzato da media e politici italiani per sottolineare come il cambio di regime a Kabul, caduta 20 anni dopo nuovamente in mano al gruppo islamico dei talebani dopo un lungo "protettorato" americano, abbia portato ad un immediato ritorno all’oscurantismo che aveva già segnato il governo talebano del Paese. La stessa Ward è dovuta intervenire su Twitter per spiegare però che quel meme, quelle immagini, sono “imprecise”. Nella prima foto, quella in cui il suo volto era scoperto, “mi trovavo all’interno di una zona protetta. La seconda è stata scattata per le strade di Kabul dopo che era stata occupata dai talebani”, ha precisato la reporter della Cnn. “Anche in precedenza, in giro per Kabul, ho sempre indossato un velo per i capelli, anche se non li coprivo totalmente e non usavo una abaya. Quindi una differenza esiste, ma non così pronunciata”, ha spiegato la giornalista americana.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Da “il Giornale” il 22 agosto 2021. La corrispondente della Cnn in Afghanistan, Clarissa Ward, ha lasciato Kabul. È stata lei stessa ad annunciarlo in un tweet, postando una foto mentre si trova a bordo dell'aereo che l'ha evacuata: «A bordo del nostro volo, ci prepariamo al decollo». Dopo la presa della capitale da parte dei talebani, ci sono stati momenti di tensione per la Ward e la sua troupe, e il suo producer ha rischiato di essere preso a colpi d'arma da fuoco questa settimana e lei stessa invitata brutalmente a coprirsi il volto. Nei giorni scorsi sui social erano circolate insistentemente due foto della giornalista, in cui veniva mostrata senza velo nella prima e con l'abaya nero a coprirla interamente nella seconda, una presunta riprova del precipitare della situazione nel Paese, per le donne in particolare. Il meme aveva suscitato una valanga di reazioni ma la Ward lo aveva definito «inaccurato», sottolineando che nel primo caso si trovava dentro «un compound privato» mentre nella seconda foto era ripresa «per le strade di Kabul sotto il controllo dei talebani». Ieri il suo messaggio sollevato: «Appena atterrata a Doha con il team e quasi 300 afghani evacuati. Grazie infinite a tutti voi per il vostro sostegno e preoccupazione, all'Us Air Force per averci fatto volare e al Qatar per averci accolto. Noi siamo fortunati».

Paolo Mastrolilli per “la Stampa” il 22 agosto 2021. Anche Clarissa Ward, l'inviata della Cnn diventata il volto del giornalismo occidentale in Afghanistan, ha lasciato il Paese. Indossare il velo nero dopo la caduta di Kabul non bastava a proteggerla, e quindi è saggiamente salita sopra un volo militare americano diretto a Doha con centinaia di afghani. Lo ha annunciato lei stessa via Twitter: «Enormi ringraziamenti a tutti voi per il vostro sostegno, all'aeronautica militare Usa per averci portato fuori e al Qatar per averci accolti. Noi siamo quelli fortunati», ha scritto la 41enne reporter che nei giorni scorsi era stata apostrofata durante un servizio per le vie di Kabul dai taleban: «Copriti il volto», le hanno urlato prima di tentare il sequestro delle telecamere. Prendendo come simbolo la sua partenza, è utile fare un bilancio dei media nel Paese tornato nelle mani dei taleban, per capire cosa potremo davvero sapere della situazione sul terreno, e gli effetti che ciò avrà sulle scelte politiche interne e internazionali. È stato infatti Peter Baker, veterano del «New York Times» alla Casa Bianca, a notare che in fondo all'amministrazione Biden conviene la scomparsa dell'Afghanistan dalle prime pagine, a patto che i cittadini americani ne escano vivi, per riportare l'attenzione su economia e Covid. I portavoce taleban hanno promesso di non prendere di mira i giornalisti. Questo secondo la logica della doppia retorica, quella relativamente conciliante rivolta all'estero per rifarsi un'immagine, e quella più dura e vera indirizzata alla popolazione locale. In generale dovrebbero avere interesse a favorire l'evacuazione occidentale, perché al nemico che fugge si costruiscono ponti d'oro. La realtà però sta emergendo diversa, un po' perché i capi non controllano fino in fondo le pulsioni dei loro militanti negli angoli più remoti dell'Afghanistan, e un po' perché magari non gli dispiace ricordare che possono usare la minaccia di violenze e rapimenti come arma di ricatto. Poi c'è una netta differenza tra il destino riservato ai giornalisti stranieri, e a quelli afghani, che lavorino per i media locali o come collaboratori di quelli internazionali. Le notizie, almeno quelle che riusciamo ancora a raccattare, parlano come sempre da sole. Il 16 luglio era stato ammazzato a Kandahar il premio Pulitzer Danish Siddiqui. I taleban hanno ucciso almeno un famigliare di un collaboratore di «Deutsche Welle», il traduttore di «Die Zeit» Amdadullah Hamdard, hanno sparato al direttore della radio Paktia Ghag Toofan Omar, e rapito Nematullah Hemat della Ghargasht TV. Quando il Norwegian Center for Global Analyses, consulente dell'Onu, ha avvertito che è ripresa la «caccia porta a porta» dei nemici, intendeva anche i reporter. Almeno due giornaliste sono state bandite dalla tv pubblica in quanto donne, nonostante l'eroismo di Beheshta Arghand, che su Tolo News ha intervistato un membro dei taleban a volto scoperto. Il Committee to Protect Journalists di New York ha chiesto l'evacuazione di 475 giornalisti, afghani e stranieri, mentre Reporter senza frontiere si è appellata a Biden affinché aiuti la fuga anche dei colleghi locali, e ha domandato al Consiglio di Sicurezza dell'Onu di tenere una sessione sui media a Kabul. Lunedì gli editori di «Washington Post», «New York Times» e «Wall Street Journal» hanno scritto al capo della Casa Bianca per ottenere l'evacuazione dei loro 204 dipendenti, e mercoledì Michael Slackman del Times ha confermato che i 128 collaboratori afghani e i loro famigliari sono usciti. Questa comprensibile fuga pone il problema di quanto riusciremo davvero a capire dell'Afghanistan, magari attraverso gli stringer locali ancora disposti a rischiare la vita. Ma il problema è anche quanto vogliamo sapere, e fino a quando durerà la nostra attenzione. Il Tyndall Report ha notato che quando Trump aveva firmato l'accordo con i taleban per il ritiro, i tg di Abc, Nbc e Cbs avevano dedicato in tutto 5 minuti alla notizia. Baker ha sottolineato che giovedì «non sono stati pubblicati articoli di prima pagina sull'Afghanistan in città come Boston, Austin, Chicago, Atlanta, Indianapolis, Fresno o Miami», mentre gli ascolti di Cnn e Msnbc non aumentano. «Il freddo calcolo politico - ha aggiunto - è che agli americani non importerà cosa accade in Afghanistan, purché gli americani siano al sicuro».

Afghanistan, la giornalista della tv di Stato cacciata dai talebani: "Il regime è cambiato, vai a casa". Libero Quotidiano il 18 agosto 2021. "Il regime è cambiato, vai a casa": sono queste le parole che si è sentita dire la giornalista afgana Shabnam Dawran da parte dei talebani, quando ha tentato di entrare in redazione, il suo luogo di lavoro. La presentatrice della tv di Stato afghana Rta è stata letteralmente cacciata, come denunciato da lei stessa in un video pubblicato sui social e rilanciato dal direttore di Tolo News Miraqa Popal. "Nonostante indossassi l’hijab e avessi il mio pass identificativo, i talebani mi hanno detto che il regime è cambiato e di andare a casa”, ha dichiarato la giornalista. Popal, che è stato uno dei primi a diffondere il video denuncia, è il direttore dell’emittente afghana - Tolo News - che ieri ha deciso di mandare in onda le conduttrici, nonostante l'arrivo dei talebani a Kabul. Per di più, è stata proprio una donna a intervistare il portavoce dei talebani in diretta tv. Ecco perché, solo per un attimo, si è pensato che davvero i talebani potessero essere più moderati rispetto al passato, come hanno dichiarato loro stessi in conferenza stampa. Adesso, però, la vicenda di Shabnam torna a spaventare le giornaliste, che temono di non poter continuare a fare il loro lavoro. Intanto, come riporta il Fatto Quotidiano, la preoccupazione per l'intera categoria ha investito anche i giornalisti e le giornaliste in Italia. Tant'è che le Commissioni Pari Opportunità della Fnsi, dell’Ordine dei giornalisti e dell’Usigrai hanno pubblicato una nota congiunta: “Resti alta l’attenzione internazionale sui diritti delle donne afghane e sulla libera informazione. Noi giornaliste italiane siamo molto preoccupate, per contatti diretti e indiretti, per la sorte delle colleghe afghane. La libera informazione messa oggi al bando dalla conquista talebana, le difficoltà e i pericoli per i giornalisti che hanno manifestato in questi anni il loro libero pensiero, le intimidazioni e le minacce, vedono le donne professioniste dell’informazione come prime vittime, costrette alla fuga, a rischio della propria vita”.

Afghanistan, la giornalista chiede ai talebani dei diritti delle donne: loro le scoppiano a ridere in faccia. Libero Quotidiano il 18 agosto 2021. C'è un video che sta diventando virale che la dice lunga sulla promessa dei talebani di garantire i diritti delle donne. Nel filmato si vede una giornalista afghana di Vice, Hind Hassan, che intervista alcuni comandanti talebani. Il reportage è stato trasmesso una prima volta il 7 marzo 2021 ed è stato poi riproposto come articolo da Vice con il titolo 5 days inside Taliban-Controlled Afghanistan il 22 giugno scorso. Hind Hassan, unica donna della troupe di Vice, è vestita con gli abiti tradizionali islamici e pone delle domande al gruppo di talebani sui diritti civili delle donne nell’area dell’Afghanistan controllata già allora dai talebani. "Garantiremo i diritti delle donne secondo la sharia", risponde uno di essi. "Questo significa che le persone potranno votare per candidate donne?", chiede la giornalista. A questo punto il comandante talebano Khatab, le scoppia a ridere in faccia e chiede alla troupe di smettere di riprendere: "Basta filmare. Mi ha fatto ridere". Ma a guardare questo video adesso c'è poco da ridere. Sembra chiaro che quei "diritti delle donne sotto la sharia" diritti non sono. La paura delle afghane di diventare schiave sessuali o peggio ancora di venire uccise è del tutto fondata. Questi sono i talebani. 

In Onda, Rula Jebreal difende le femministe: "La guerra in Afghanistan? Colpa della destra". Libero Quotidiano il 19 agosto 2021. "La destra ha appoggiato e finanziato questa guerra e in questo momento dice che non vuole i rifugiati": Rula Jebreal, ospite di David Parenzo e Concita De Gregorio a In Onda su La7, già sa contro chi puntare il dito per quanto sta accadendo in Afghanistan. E prova a rispondere anche a chi, in questi giorni, non ha potuto non notare un certo silenzio sulla condizione delle donne nel Paese da parte delle femministe, sempre in prima linea quando si tratta di criticare la festa di Diletta Leotta o i testi di Sfera Ebbasta. "Le femministe non la volevano la guerra - ha detto -. Adesso dire alle femministe di andare a combattere questa guerra è veramente vergognoso. Questa è una responsabilità di tutti noi ed è un fallimento di tutto l'Occidente, non delle femministe". Intanto, a Kabul la situazione peggiora sempre di più. La vita, soprattutto per le donne, sta diventando un vero e proprio inferno. Del terrore vissuto dalle donne afgane ha parlato anche il direttore de La Repubblica Maurizio Molinari, in collegamento col talk di La7: "Durante la notte i talebani entrano nelle case, cercano le donne fra i 16 e i 45 anni non sposate e le portano via". E non solo: "Sappiamo che stanno oscurando tutte le immagini femminili nei luoghi pubblici e sappiamo che sparano contro chi innalza il vessillo nazionale afghano".

Annalisa Chirico contro Michela Murgia: "Voi indignate con Berlusconi dove siete ora coi talebani?" Annalisa Chirico su Libero Quotidiano il 18 agosto 2021. Se non ora quando? Quale sarà il momento giusto per dire che il patriarcato islamista fa a pugni con i diritti delle donne, che non c'è spazio per compromessi con chi intende imprigionare il corpo delle donne in un sudario di pietra? Se non scendiamo in piazza adesso, a Roma come a Parigi e a Londra e a New York, per protestare contro il ritorno dei barbuti, quale sarà il momento giusto? Forse quando sarà troppo tardi. In questi giorni di immagini da Kabul, di conferenze stampa in mondovisione, di uomini ammassati attorno agli aerei in partenza, sui carrelli e sulle ruote, di uomini che cadono dagli aerei in volo, le donne afghane sono le grandi assenti, come tutte le grandi vittime della storia. Le donne afghane non si mostrano, anzi si nascondono in attesa di capire che cosa riserverà loro il destino, e le donne occidentali più valorose in battaglie epocali come quella sulle desinenze da declinarsi rigorosamente al femminile si chiudono in un silenzio ipocrita e colpevole. In alcuni casi, forse, contano le aperte simpatie per gruppi terroristici come Hamas che ha accolto trionfalmente la restaurazione talebana, di certo conta la prudenza di chi teme le accuse di razzismo e islamofobia. 

ONTOLOGICAMENTE INFERIORI - Il risultato è il silenzio, il "missing in action" che unisce insieme le femministe per comodità e i ministri degli Esteri che nei giorni della crisi se ne stanno a mollo in acque pugliesi (è il caso dello spensierato Di Maio) o in acque cipriote (assai gradite all'omologo britannico Raab). Le donne afghane non si vedono, stanno mute e nessuno parla per loro, neanche le pseudofemministe in servizio permanente effettivo, quelle pronte a fare tanto rumore per difendere le donne occidentali che, per fortuna nostra, sono libere di vivere come vogliono, di andare a scuola e di lavorare, di abbronzarsi in topless, di scegliere se e quando copulare con qualcuno, per amore o peraltre ragioni. Le pseudofemministe che affollavano le piazze contro il Cav e firmavano articolesse agguerritissime, assecondando la narrazione delle giovani vergini vittime del Caimano (risate), sembrano ignare di ciò che accade in Afghanistan; forse le signore non aprono i giornali, forse non guardano la tv, eppure sarebbe questo il momento di scendere in piazza contro il ritorno del patriarcato talebano che a Kabul, prima dell'arrivo degli occidentali nel 2001, governava ininterrottamente da quindici anni. Con il ritorno dei barbuti al potere, torna la sharia, il primato della legge coranica, che considera la donna un essere ontologicamente inferiore. Vent' anni di presenza militare, di soldati morti ammazzati, di ingenti risorse investite on the ground non hanno realizzato una struttura statuale accettata e sostenuta dagli afghani ma hanno postole condizioni per un sistema di vita rispettoso dei diritti di donne e bambine. Il diritto all'istruzione, a girare in istrada con il capo scoperto e senza l'obbligo di un guardiano maschile, il diritto al lavoro e alle cure mediche, la libertà di indossare i tacchi con le caviglie in bella mostra, tutte queste cose bellissime, per noi occidentali così dannatamente scontate, erano tornate realtà in Afghanistan grazie a una guerra imperfetta ma giusta. Adesso, le lancette della storia tornano indietro, le afghane piangono in preda alla paura di subire violenze, soprusi, matrimoni forzati, e le intellò occidentali sembrano guardare da un'altra parte.  

UN PAESE «LIBERATO» - Nella prima conferenza stampa in mondovisione, i barbuti affermano, con orgoglio, di aver "liberato" il Paese, in effetti hanno ragione: costoro liberano il Paese per imprigionare le donne, liberano il Paese per legittimare agli occhi del mondo una visione teologicamente totalitaria della società. Di fronte allo scempio dei diritti e della democrazia, è il momento di scendere in piazza, di mobilitare l'opinione pubblica internazionale affinché i governi occidentali si uniscano nella condanna unanime dell'occupazione afghana e dicano chiaramente che mai il regime degli usurpatori avrà un riconoscimento internazionale. Mai alcun compromesso sarà possibile con i talebani che a parole aprono alla presenza di donne nel governo ma "sotto la sharia", puntualizzano. Se la Cina è pronta ad integrarli nella via della Seta, l'Occidente sta da un'altra parte. La legge islamica è incompatibile con i diritti delle donne, l'identificazione tra legge di dio e legge dello stato fa a pugni con lo stato di diritto. Non sarà allora qualche presenza femminile in un futuro esecutivo a legittimare il potere fondamentalista che sogna il nuovo Emirato islamico nella ex centrale del terrore. Con i talebani a Kabul, nessuno di noi può dirsi al sicuro.

Altro che zitte, ecco l’appello delle donne per le sorelle afghane. Redazione su Il Riformista il 19 Agosto 2021. Qualsiasi avvenimento accada nel mondo, a un certo punto scatta la polemica contro le donne e le femministe italiane che sono state zitte. Erano passate solo poche ore dall’arrivo dei talebani a Kabul che già diversi giornali si sperticavano in accuse: eccole non parlano, ecco sono alleate dei talebani. Ma per favore! E proprio quando diversi giornalisti si dedicavano a queste raffinate riflessioni (fondate solo sulla loro cattiva coscienza) le chat di decine e decine di associazioni di donne in tutta Italia stavano elaborando una lettera che ieri è stata pubblicata da tutte le agenzie in cui si esprime solidarietà alle “sorelle” afghane e si chiedono corridoi umanitari. Scrivono: «La fuga verso l’Occidente da Kabul e l’avvento dei talebani che hanno preso il comando dell’Afghanistan, preoccupano fortemente chi ha a cuore i diritti umani e la salvaguardia della vita di tutti i civili, specie di quelli più a rischio, come donne e bambini, il cui destino è nuovamente consegnato a un indicibile orrore. Sono nostre madri, amiche, sorelle. Non lo possiamo e non lo vogliamo più accettare. L’Europa deve agire, l’Italia deve reagire, noi donne e cittadine dobbiamo fare rete contro ogni violenza». La lettera è indirizzata al presidente del Consiglio Mario Draghi, ai ministri Luigi Di Maio e Luciana Lamorgese e, per conoscenza, alla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e al Presidente del Parlamento Europeo David Sassoli. È firmata da 78 associazioni tra le quali Le Contemporanee, Casa internazionale delle donne di Roma, Casa internazionale delle donne di Milano, Manifestolibri, Human Foundation, InGenere, Un ponte per, Senonoraquando Libere, Politiche di genere Cgil, Base Italia, Green Italia, Be Free, associazione PoP. «Quello che urge adesso – si legge – è consentire a più donne, ragazze e bambine/i possibile di mettersi in salvo in queste ore in cui le maglie del controllo talebano sono ancora slabbrate. E sostenere chi decide di rimanere a lottare nel proprio paese, garantendo il monitoraggio internazionale sui diritti umani e delle donne in particolare». La prossima volta prima di polemizzare a vuoto e fare una pessima figura, aspettate qualche ora, il tempo che ci vuole a redigere un testo condiviso.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 23 agosto 2021. Avevo previsto che all'inizio del campionato di calcio nessun giocatore si sarebbe inginocchiato per rendere omaggio agli afghani schiavizzati dai talebani. Il lettore ricorderà invece che agli Europei vinti dall'Italia, prima dell'inizio di ogni partita schiere di atleti si genuflettevano in segno di protesta contro il razzismo, ciò aveva scatenato qualche polemica aspra. In effetti nel mondo del pallone i neri sono tra i più bravi a tirare pedate, vengono addirittura idolatrati, applauditi in ogni stadio del continente, inclusa l'Italia.

Un esempio. Lukaku, attaccante dell'Inter, artefice dell'ultimo scudetto conquistato dai nerazzurri milanesi, è stato venduto a una squadra inglese e tutti i tifosi si sono stracciati le vesti per il dolore. Stimavano il puntero e non volevano privarsene. Cosicché hanno protestato con veemenza contro la società che per fare denaro ha ceduto il campione amato. Le maggiori equipe di ogni Paese calcisticamente evoluto schierano nelle loro formazioni ragazzi di colore stimatissimi e applauditi dal pubblico. Segno che il razzismo non esiste se non nella testolina bacata dei conformisti che lo sfruttano ai fini di speculazioni politiche di bassa lega. Gli inginocchiamenti cui abbiamo assistito lo scorso mese durante la competizione dominata dagli azzurri sono stati l'emblema di una mentalità che si fonda sul vuoto culturale dominante. E la dimostrazione che l'odio razziale è solo un pretesto evidente per denigrare i cittadini non di sinistra è plateale. I giocatori, che sono abili nel colpire con i piedi la cosiddetta sfera di cuoio, stanno fornendo la prova di avere il cervello di gallina. Infatti si prostrano ai loro colleghi di colore, ma se ne infischiano degli afghani trucidati e dei loro bambini scaraventati sugli aerei in partenza da Kabul nella speranza che possano avere un futuro. Certe scene strazianti non commuovono terzini e centrocampisti a cui non viene in mente di solidarizzare con genitori disperati che sperano, distaccandosene, di salvare i loro figli. Personalmente sono scandalizzato dal comportamento dei nostri giocatori ricchi sfondati, ai quali preme di più ricevere l'applauso degli antirazzisti immaginari che la vita e l'avvenire di tanti bimbi nati in un Paese disgraziato e reso infrequentabile anche col contributo degli occidentali.

Michela Murgia per “La Stampa” il 23 agosto 2021. Se qualcuno ci dicesse che ci offrirà un'ora d'aria purché da domani andiamo a vivere in galera, chi di noi accetterebbe? Se gli stessi che abbiamo visto uccidere i nemici politici, perseguitare le minoranze e violentare le donne per sottometterle ci promettessero col mitra in mano che da domani smetteranno, noi gli crederemmo? Se la risposta ovvia è no, è facile immaginare lo stato d'animo di chi da Kabul ha sentito i tagliagole talebani dichiararsi pronti a garantire un governo inclusivo e diritti alle donne, purché «in accordo» con quello sgorbio dell'islamismo che è la Sharia. Le diplomazie europee stanno però già facendo finta di crederci, perché la realpolitik vince su ogni altra logica quando c'è di mezzo un territorio ricco e strategico come l'Afghanistan. Non appena è partita la smobilitazione militare e la storiella dei liberatori occidentali si è rivelata per la panzana che era, in meno di due settimane lo scenario politico ha mostrato tutte le possibili sfumature dell'ipocrisia e del cinismo, tanto in Afghanistan quanto nei nostri parlamenti. I taleban che ora hanno preso Kabul detenevano già il controllo di metà del paese e in questi anni lo hanno governato indisturbati secondo i loro principi, nella piena consapevolezza degli occupanti occidentali, che sapevano benissimo che le donne afghane nelle zone rurali il velo dalla faccia non lo hanno mai potuto togliere. Ora che i taleban sono dichiaratamente i nuovi padroni, con loro si tratterà anche sulla pelle delle donne, tanto i nostri eserciti non erano andati certo là per promuovere l'emancipazione delle afghane. Se è vero che la democrazia non si esporta, ma si testimonia, verrebbe da pensare che la testimonianza occidentale in Afghanistan debba essere stata veramente poca cosa se dopo dieci anni una parte non piccola della popolazione ha più voglia di dare credito ai taleban piuttosto che ai nostri governi. I numeri che conosciamo ci dicono il perché: dei miliardi occidentali investiti in Afghanistan, solo il 10% ha finanziato infrastrutture e progetti di sviluppo. La quota restante è servita a comprare armi per rafforzare i corrotti poteri locali, quelli che si sono dati alla fuga appena gli eserciti stranieri hanno levato le tende. A noi, cittadini atterriti dallo scenario di oppressione che si prospetta, resta solo la solidarietà fattiva e la pressione sulle istituzioni perché accolgano quanti più esuli è possibile. A chi invece in questi giorni dalle file della destra nostrana ha gridato «dove sono le femministe?», Linda Laura Sabbadini ha risposto ieri da queste pagine con la consueta forza e precisione: sono dove sono sempre state, cioè a cercare di fortificare le reti internazionali delle donne, le associazioni contro la violenza e le Ong che con i loro progetti di educazione e di empowerment hanno reso possibile un futuro per donne e bambine che altrimenti non lo avrebbero mai avuto. Non hanno tempo, le femministe, per curare anche la strana malattia intermittente del sovranismo locale, che si manifesta invocandole quando c'è da criticare gli abusi stranieri, ma sbeffeggiandole in tutte le circostanze in cui si occupano degli abusi in casa nostra. Le penne che in queste ore hanno provato a depotenziare il lavoro delle donne italiane a sostegno delle afghane sono le stesse che tutti i giorni dai loro social e testate irridono alla richiesta di pari opportunità e alle lotte contro violenza, obiezione all'aborto, linguaggi sessisti e divario salariale. Non è un caso: come una matrioska, la cultura patriarcale ha gabbie che variano di dimensione a seconda del luogo e dei tempi. La forma però, a Kabul come a Roma, la riconosci sempre.

Fabrizio Boschi per “il Giornale” il 23 agosto 2021. Dallo chador al menefreghismo è un attimo. Facile attaccare il politico o il volto famoso di turno. Ma se c'è da muovere le labbra per la violenza dei talebani, il burqa, l'islam, la sharia e i diritti delle donne (e madri) afghane violati, allora scatta il silenzio, anzi peggio, si fa finta di niente. Le femministe di Mee too, sempre pronte a scendere in piazza con i soliti slogan e a dare battaglia, sono in ferie. Dalle loro barche, dalle spiagge private in Sardegna o a mollo nelle spa in montagna, hanno perso il loro proverbiale scilinguagnolo e stanno ferme a guardare in tv le orrende immagini provenienti da Kabul. Da parte delle femministe di sinistra sono arrivati solo messaggi di opportunità: «aiutiamo le donne afghane», «apriamo a corridoi umanitari», «accogliamole». Da loro ci aspettavamo una rivoluzione femminile in piena regola e, invece, niente. Nessuna levata di scudi. Nessun sermone sui diritti e le libertà violati. Cosa fa ad esempio per l'Afghanistan la pasionaria palestinese Rula Jebreal dai suoi palazzi dorati di New York? Pronta ad indossare l'abito da sera sul palco dell'Ariston per sentenziare contro i maschi che sfruttano le donne ma altrettanto decisa nello scaricare le colpe su altri: «La destra ha appoggiato e finanziato questa guerra. Le femministe non la volevano. Questo è un fallimento di tutto l'Occidente, non delle femministe». E dov' è in questi giorni la rossa di capello e di idee Fiorella Mannoia? In tour con «Padroni di niente», sempre pronta a fare politica dai suoi palchi, l'unica voce che tira fuori adesso è quella per cantare le sue canzoni. Niente in favore delle donne afghane ad eccezione di qualche tweet di circostanza. Dalle pagine del Giornale Maria Elena Boschi fa appello alle compagne: «Vorrei che si facessero sentire», lamentando lei stessa questo imbarazzante silenzio. E che dire dell'ex presidenta della Camera Laura Boldrini, che ha fatto dello chador il suo secondo abito negli anni in cui lavorava per l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, pronta a stracciarsi le vesti per i diritti delle donne e adesso fuggevole, se si esclude la sua partecipazione alla festa dell'Unità di Grottammare per parlare della parità di genere insieme alla deputata Pd Patrizia Prestipino. Tutto si riduce ad un mieloso tweet: «Conosco e amo l'Afghanistan. La presenza militare multinazionale non è mai stata la soluzione. Penso alle minoranze, alle donne: che ne sarà di loro?». Anche Lucianina Littizzetto ha smesso di farci piangere con i suoi monologhi faziani e al Mee too per le donne preferisce il relax in Costa Azzurra. Lo stesso per il volto Rai Giovanna Botteri, corrispondente da Pechino, che dopo aver difeso il diritto alla sua capigliatura poco curata, non trova parole per tutto il resto. Battagliere per discussioni marginali, si fermano davanti alla regina di tutte le lotte che la Storia offre loro. Più facile indignarsi per le performer alla festa di Diletta Leotta, per i testi di Sfera Ebbasta e per il ddl Zan che per le donne afghane. Pure la femminista chic Michela Murgia tace. E per una che fa la scrittrice e si è sempre spesa come attivista della parità di genere e dell'antifascismo, ciò stride un po'. «Bella ciao» è ciò che ha detto Joe Biden, idolo della sinistra italiana, alle afghane dopo averle lasciate nelle fauci dei talebani. A Kabul stilano gli elenchi delle donne non sposate per scegliere che carne dare in pasto ai generali e qui sembra di assistere alla scena del Titanic quando ad un elegante lord viene offerto il giubbotto di salvataggio e lui gentilmente lo rifiuta: «No grazie, siamo vestiti con i nostri abiti migliori e ci prepariamo ad affondare da signori. Però gradiremo un brandy».

Michela Murgia “il pistolotto sulle donne afghane”: Nicola Porro, parole disastrose sui talebani. Libero Quotidiano il 23 agosto 2021. “Finalmente Michela Murgia si è svegliata e sulla Stampa scrive un pistolotto sulle donne afghane”. Così Nicola Porro nel corso della sua zuppa quotidiana si è espresso sulla nota scrittrice, che dopo giorni di silenzio ha deciso di affrontare la questione dell’Afghanistan, soprattutto in relazione al Medioevo in cui sono ripiombate le donne per colpa dei talebani. “La Murgia riesce a scrivere che ‘noi donne lottiamo per le sorelle afghane’, allora siamo apposto”, ha commentato Porro. Che poi sobbalza leggendo la riga successiva: “‘I nostri eserciti non erano certo andati lì a promuovere l’emancipazione femminile’, ecco perché le nostre femministe non si inginocchiano per l’Afghanistan. Il motivo lo svela chiaramente la Murgia, lì c’erano gli americani e gli eserciti occidentali che non promuovevano l’emancipazione”. “L’idea fondamentale - ha aggiunto Porro - è che gli eserciti fanno solo schifo e che agli occidentali interessa solo trafficare oppio e fare affari di guerra. Nel frattempo, però, negli ultimi 20 anni le donne afghane erano libere, lavoravano, avevano i centri bellezza e soprattutto sono andate a scuola anziché in ospedale per partire a 13 anni. Hanno potuto studiare, sanno cos’è la scuola e le classi miste. Gli eserciti saranno pure cattivi ma adesso non esageriamo”, ha chiosato.

Chi si inginocchia per le donne afghane? Serena Pizzi il 21 Agosto 2021 su Il Giornale. Nessuna lezioncina, nessuna tirata d'orecchie, nessuna condanna al fondamentalismo islamico. Dove sono finite le femministe e la sinistra? Il 15 agosto i talebani sono entrati a Kabul. In un attimo, ci siamo trovati di fronte a una drammatica crisi umanitaria, ingestibile con i soliti slogan. Dal 15 agosto, i giornali, i social, le tv stanno informando i cittadini su ciò che sta accadendo in Afghanistan. Fra corridoi umanitari e ritorno alla sharia, il Paese si trova ancora una volta nel caos più totale. Interpreti, collaboratori, giornalisti, civili, qualche migliaio di afghani e militari sono già riusciti ad abbandonare la terra dell'inferno, ma purtroppo sono molti di più quelli che si ritrovano fra le grinfie di invasati islamici. Come è ormai risaputo, a pagare il prezzo più alto di questo cambio di potere sono le donne. "Siamo impegnati a rispettare i diritti delle donne sotto il sistema della sharia", ha detto il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, durante la sua prima conferenza stampa in favor di telecamera. Una conferenza stampa fuffa, volta a ingannare tutto il mondo. Perché le loro intenzioni sono altre (le donne non possono più uscire di casa, andare a scuola, vestirsi all'occidentale etc) e perché il loro volto violento non è mai cambiato (giorno e notte ammazzano civili e funzionari di Stato come fossero mosche). Ma per capire la loro tattica da quattro soldi non ci vuole un genio. Solo sentendo pronunciare "donne", "sharia" e "diritti" nella stessa frase deve suonare più di un campanello d'allarme. Ma questo non è accaduto a Giuseppe Conte che ha creduto ai talebani ben accomodati nel Palazzo presidenziale. Giuseppi, infatti, ha trovato nelle loro parole, nelle fucilazioni, nei rastrellamenti un "atteggiamento abbastanza distensivo" tanto da sentirsi in dovere di intavolare un dialogo con questi soggetti. E se l'ex presidente del Consiglio per un attimo (ha fatto marcia indietro poi) ci ha creduto, i talebani no. Ci spieghiamo. Dopo "l'atteggiamento distensivo" - per non sembrare troppo buoni - hanno voluto precisare: "Sotto il dominio dei talebani, l'Afghanistan non sarà una democrazia ma seguirà la legge della sharia. Non ci sarà affatto un sistema democratico perché non ha alcuna base nel nostro Paese. Non discuteremo quale tipo di sistema politico dovremo applicare in Afghanistan perché è chiaro: è la legge della sharia e basta". Parole inequivocabili e vergognosamente vere. Ecco, tutto questo discorso per dire cosa? Per evidenziare un silenzio assordante. Da parte delle femministe e della sinistra sono arrivati solo pochi messaggi monotoni "aiutiamo le donne afghane", "apriamo a corridoi umanitari, "accogliamole". Messaggi sporadici. Eppure, eravamo convinti che le Boldrini di turno avrebbero iniziato a stracciarsi le vesti per le condizioni disumane nelle quali vengono costrette a vivere le donne. Eravamo convinti che dal 15 agosto in poi avremmo trovato su tutti i social mani scarabocchiate con l'hashtag Afghanistan. Addirittura, eravamo convinti di imbatterci nel Letta-maestrino che ci sgrida perché non ci siamo inginocchiati di fronte a tale tragedia. E invece... niente. Qualche condanna qua e là, qualche tweet di solidarietà, qualché pensierino della sera senza mai pronunciare quella parola: islam. Nessuno è stato in grado di dire che il fondamentalismo islamico sta ammazzando migliaia di persone. Nessuno si è inginocchiato per queste donne che vogliono solo essere libere. Che non vogliono più essere trattate come bestie. Ps: questa sera è ricominciato il campionato di Serie A. Non ho visto fasce con la bandiera dell'Afghanistan, non ho visto calciatori inginocchiati. Ma non ho nemmeno visto lo sdegno della politica per la mancanza di tutto ciò.

Serena Pizzi. Nasco e cresco a Stradella, un piccolo paese che mi ha insegnato a stare al mondo. Milano, invece, mi ha dato la possibilità di realizzare il mio sogno più grande: fare la giornalista. Amo conoscere, osservare e domandare. Mi perdo nei dettagli delle cose e delle persone. Del resto sono i dettagli a fare

Il silenzio delle femministe chic. Valeria Braghieri il 19 Agosto 2021 su Il Giornale. E nel 2021 è forse il caso di ammettere che le femministe sono finite. Disponibili come sono solo, ormai, per i lavori già fatti, per le battaglie marginali, per i tic dell'Occidente. E nel 2021 è forse il caso di ammettere che le femministe sono finite. Disponibili come sono solo, ormai, per i lavori già fatti, per le battaglie marginali, per i tic dell'Occidente. Forse le femministe sono finite se nel momento in cui la Storia offre loro una causa degna di questo nome, si trasferiscono in guardiola. Gonfie di certezze fino a ieri, quando si trattava di indignarsi per le performer alla festa di Diletta Leotta, per i testi di Sfera Ebbasta, o quando si incendiavano di battaglia per il Ddl Zan. Tutte barricate sul MeToo. Quella sì è una causa glamour: vip, slogan, volti famosi, retroscena succulenti. Niente femministe per le donne afghane. Si sono fatte evanescenti come se avessero preso un'enorme boccata di elio. Troppo faticose o troppo scomode le vite diversamente complicate delle donne di Kabul. I Talebani, il burqa, la sharia, le botte e la sottomissione: e poi il peggio. Perché c'è ancora un peggio: anni di emancipazione scorticati in un istante. Tutto daccapo, da rifare. Lo sfregio della democrazia le risputa indietro di anni. Ma non ci sono parole di solidarietà e di indignazione. Nessun sermone sui diritti e l'uguaglianza violati, che di solito leccano la pelle come bava di lumaca. A Kabul stilano gli elenchi delle donne non sposate per sapere che carne dare in pasto a quale comandante, per capire quale trofeo distribuire a chi. Ma non si tratta di produttori cinematografici, di attrici o di figlie d'arte. Non ci sono hashtag e braccia alzate mentre si ritira una statuetta, nulla per cui riconoscersi e far vedere che si appartiene. A una causa ganza, tra gente ganza. Non ci sono microfoni o telecamere aperti, non c'è nulla di aperto lì, in realtà. A parte la finestra sul baratro, l'unica cosa spalancata su Kabul. Qui sono chiuse le bocche, inspiegabilmente. Le pasionarie, le arrabbiate perenni, le «contro». Tutte sparite. Tutte silenziosamente uguali e omologate nelle loro diversità. Intanto la vernice bianca imbratta le pubblicità di parrucchieri e centri estetici a Kabul. Si chiude. Finita, la strada per «indietro» è di qui. Si torna al «prima». Ed è solo l'inizio. Certo che è solo l'inizio. E quelle protestano, a rischio di essere massacrate. Perché mostrare un cartello con slogan a Kabul non è come mostrarlo alla consegna degli Oscar. Lì ci sono la polvere, le mitragliette e i rastrellamenti. Hashtag un bel niente. Non ci sono le femministe dove si fa sul serio. Quindi non ci sono più le femministe. Immerse come sono, in silenzio, nello sciroppo vischioso dell'indifferenza. Valeria Braghieri

Femminismo da cortile. In Afghanistan la donna ritorna agli Anni 50, ma in Italia si lotta contro #tuttimaschi. L’avvelenata Guia Soncini su L'Inkiesta il 17 agosto 2021. Le trentenni che si chiedono cosa abbiano fatto mai, le novantenni, per i diritti delle donne, danno per scontato che i diritti ci siano sempre stati, eppure non potevano votare, abortivano con un ferro da calza e la società si aspettava da loro solo che si trovassero un marito. Ma oggi, mentre a Kabul torna il burka, ci indigniamo perché in quel talk show non hanno invitato nessuna delle nostre amiche. La seconda scena della Guerra di Charlie Wilson, l’ultimo film che girò Mike Nichols, è ambientata in un idromassaggio nell’aprile del 1980. Ci sono Tom Hanks, il parlamentare Charlie Wilson, un tizio che vuole convincerlo a fargli avere i finanziamenti per girare «un Dallas ambientato a Washington», e tre mignotte (scusate: belle ragazze). In tv c’è Dan Rather, e Charlie Wilson è abbastanza alieno da chiedere, in un bordello di lusso, d’alzare il volume del tg. «C’è Dan Rather con un turbante» «Sta facendo una cosa dall’India» «È l’Afghanistan». Oggi Aaron Sorkin, che scrisse la sceneggiatura, verrebbe accusato di maschilismo per aver fatto la mignotta così scema da confondere l’India e l’Afghanistan. Ma, se sospendiamo per un istante le segnalazioni di virtù, l’ovvia verità è che, se la scena fosse ambientata oggi, quarant’anni dopo, e al posto della mignotta ci fossero un assessore, un cardiochirurgo, uno studioso di matematica, nessuno di loro saprebbe trovare l’Afghanistan sul mappamondo, o mettere in fila i rivolgimenti dall’81 a oggi (a parte quelli più clamorosi: ah, già, i talebani; ah, già, l’undici settembre). La verità è che dell’Afghanistan non ci importa niente (in formulazione più citazionista: la verità è che l’Afghanistan non ci piace abbastanza). Sorkin lo sapeva, e infatti alla scena successiva è la segretaria di Wilson a dire «Uzbekistan?» quando lui nomina Kabul, e questo ci dice non che gli uomini sono più svegli ma che Wilson è un ossessivo: nomina Kabul perché è uno che corre a leggersi le agenzie appena battute invece di, com’era normale fare quarant’anni fa, aspettare i giornali del mattino dopo. La segretaria ha il lusso di non leggere le agenzie, di non sapere dove sia Kabul, di decidere cosa vuole sapere e cosa no, se vuole studiare o no, se vuole fare la mignotta o no: è una donna occidentale. Molti anni fa, quando i giornali non venivano indicizzati sull’internet, scrissi un articolo su una tizia ammazzata di botte da quello con cui stava: sostenevo ci fossero donne cui piace farsi menare. Ci ripenso ogni tanto, più che altro per dirmi che certo, i miei detrattori sono proprio scarsi: neanche sono capaci di rintracciare la più formidabile fesseria che abbia mai scritto e usarla per sputtanarmi. Ma in questi giorni ci ho ripensato chiedendomi se il feticcio del multiculturalismo non sia gemello di «le piace farsi menare, chi sono io per oppormi»; non sia lo stesso tic, solo meno impresentabile giacché tipico di gente che si posiziona sempre e solo dalla parte giusta, e quindi sostiene il diritto delle donne a essere fondamentaliste per scelta e non per costrizione, il che è bislacco considerato che le fondamenta d’ogni fondamentalismo consistono nel non lasciar scelta alle donne.

Dice: eh ma come la mettiamo con quelle che si vogliono mettere il velo anche quando vivono libere in occidente. Of course ci saranno donne cui piace non poter uscire senza che un maschio le accompagni, but maybe quelle donne vanno salvate da sé stesse. Nel 1981, quarant’anni fa, l’Italia somigliava così poco all’idromassaggio di Charlie Wilson e così tanto all’Afghanistan, che c’era ancora il matrimonio riparatore. Fu abolito quell’anno, quindici anni dopo la vicenda di Franca Viola. Ogni tanto mi chiedo se oggi si potrebbe girare, due anni dopo Franca Viola e col matrimonio riparatore in vigore per tredici anni ancora, uno dei miei film preferiti, La ragazza con la pistola. Carlo Giuffré dà mandato di rapire una ragazza chiatta che gli piace, ma si sbagliano e gli rapiscono la cugina secca, Monica Vitti. Che è innamorata di lui («tua sono, e con me ti porterò, fino alla tomba») e a quel punto pretende il matrimonio riparatore, ma lui non ne vuole sapere. È una commedia, e oggi ci indignerebbe: le ragazze sono costrette a sposare i loro stupratori e voi ne ridete. Oggi non c’indigneremmo con la legge, o almeno non quanto con la commedia. Oggi –- in Italia, in occidente, nel paese in cui ci balocchiamo col considerare il fondamentalismo una scelta – abbiamo risolto così tanti problemi pratici che ci concediamo il lusso di crearne di immaginari. Of course si può essere suscettibili allo sberleffo, but maybe ti resta più tempo libero per farlo se i tuoi diritti fondamentali sono assicurati. Quei diritti che dai così tanto per scontati da esser convinta le donne li abbiano sempre avuti, da essere insofferente nei confronti di donne che sono nate quando le donne italiane non potevano votare, quando si abortiva con un ferro da calza, quando tutto quel che la società si aspettava da noi era che ci trovassimo un marito. Ogni tanto sento chiedere da trentenni convinte d’essere informate cos’abbiano fatto mai, le novantenni, per i diritti delle donne, e penso che ci meriteremmo un po’ di talebani. Ci meriteremmo di ricordare come funziona in quei luoghi del mondo che ci prendiamo il lusso di considerare folkloristici, anche se siamo troppo colti per usare l’espressione “folkloristico”, ma quello è: il lusso di pensare che carucci questi sud del mondo coi turbanti, che riposante questa cosa che se sei donna stai a casa ad aspettare il marito, che mancanza di stress questi matrimoni combinati, che scelta interessante il velo. Noialtri che straparliamo di vessazioni patriarcali se in un programma televisivo parlano deputati e giornalisti maschi, non essendoci mai venuto in mente che ci sono posti in cui le femmine non diventano proprio deputate e giornaliste. Noialtri che cancellettiamo #AllMenPanel se a un dibattito non ci sono signore perché l’organizzazione non ne ha trovata nessuna disponibile, non perché viviamo in una società in cui non è previsto che le signore parlino in pubblico. Noialtre così prive di discriminazioni specifiche – è se sei donna che non puoi comparire in pubblico, andare a scuola, fare quel che ti pare – da inventarcene: immaginiamo un mondo in cui sono sempre gli uomini a star seduti scomposti e interrompere chi parla, mai noi. Noialtre del femminismo da cortile. In una puntata di vent’anni fa di The West Wing, la serie televisiva scritta anch’essa, come Charlie Wilson, da Aaron Sorkin, la portavoce della Casa Bianca dà in escandescenze per il rinnovo degli accordi col Qumar, una nazione di fantasia che Sorkin usava per dire tutte le cose che voleva dire sui fondamentalismi senza che a nessuno di nessuna nazione realmente esistente venisse voglia di farsi esplodere in Times Square. In Qumar le donne venivano trattate come nell’Afghanistan dei talebani, per capirci. CJ, la portavoce, discuteva con Nancy, la consigliera per la sicurezza nazionale, che le diceva di darsi una calmata, che avevano bisogno della base militare in Qumar per fare rifornimento ai voli. Nancy, oltre che donna, era nera, e quando chiedeva perché CJ fosse così agitata quella rispondeva ricordando a lei e a noi quant’è miserabile che ci freghi solo delle cose che ci riguardano: «L’apartheid era una grigliata agli Hamptons, in confronto a come trattano le donne in Qumar, e se quindici anni fa avessimo venduto armi al Sudafrica tu avresti dato fuoco all’edificio: meno male che non abbiamo mai dovuto fare rifornimento a Johannesburg». Non c’importa niente delle donne afghane, se non per portarci la mano al giro di perle e sospirare «poverine», perché esse sono lontane da noi almeno quanto la Julia Roberts di Charlie Wilson, la miliardaria assai anticomunista che è responsabile dei quarant’anni successivi, avendo ingiunto a un deputato di far sul serio contro i russi in Afghanistan; l’unica che sapesse davvero cosa stesse succedendo lì, e non perché terzomondista ma perché attenta agli equilibri del mondo, che sono sempre economici.

Le donne senza diritti e quelle con troppo potere non sono il nostro specchio, quindi perché interessarcene? È tanto meglio stare qui, e indignarci perché in quel talk show non hanno invitato nessuna delle nostre amiche. Quel talk show in cui si parlava del nostro cortile, perché l’Afghanistan mica fa share.

Chiara Giannini per “il Giornale” il 17 agosto 2021. Non avranno più volto, non avranno più nome, diventeranno schiave sessuali dei soldati talebani, ridotte a essere un numero tra tanti altri insignificanti numeri. Le donne afghane sono le vere vittime dello scempio compiuto da un Occidente in fuga che prima dà la speranza a un popolo di risollevarsi e poi se la dà a gambe levate, facendolo ripiombare nell'oscurità dell'incubo. Fatima ha 35 anni, non si è mai sposata, perché ha scelto la vita militare, entrando giovanissima nelle Forze di sicurezza afghane, una conquista ottenuta grazie all'impegno per la pace della coalizione internazionale. Ha collaborato per lungo tempo con gli americani, ma non è riuscita a salire su uno degli aerei in partenza, perché fino a due giorni fa ancora sperava di vedere il suo Paese libero dai talebani. «Mi uccideranno - dice con la voce rotta dal pianto al telefono - perché sanno bene chi ha aiutato gli occidentali. Stanno facendo le liste in ogni città delle donne single, dagli 8 ai 45 anni. Molte saranno uccise, altre andranno in moglie ai talebani». L'obbligo del burqa era decaduto in questi vent'anni di «protezione» internazionale, come lo era il divieto per le donne di portare i tacchi, una imposizione talebana risalente al 1997, perché neanche il rumore del sesso femminile si doveva sentire più. Il ticchettio delle scarpe alte sull'asfalto non poteva renderle nullità. E allora la decisione di farle diventare invisibili. Eppure negli anni molti passi avanti si erano fatti, con la procuratrice di Herat, Maria Bashir, paladina di molte rappresentanti del gentil sesso poi finite in parlamento, nella politica, nel giornalismo, sui social media. Con le giornaliste che avevano avuto la forza di creare radio e canali aperti all'esterno, con l'emancipazione di una generazione nata sotto l'ombra della Nato. C'è un video che circola su Telegram, è quello della regista afghana Sahra Karimi, in fuga da Kabul. «Alcuni occidentali - spiega nel filmato - non capiscono, lo so». Perché è difficile far comprendere cosa significhi tornare indietro di decenni o forse di secoli. L'Afghanistan degli anni Sessanta, quello con le donne in minigonna in giro per Kabul prima dell'avvento degli estremisti talebani, non è che un lontano ricordo. «Mia moglie - racconta un interprete afghano - piange di continuo. Sa che ho collaborato con gli italiani. Teme soprattutto per i nostri figli. Se non riusciremo a partire i due maschi saranno probabilmente presi e mandati in Pakistan, dove li addestreranno come terroristi. Le femmine andranno in sposa a questa gente. Siamo disperati». Parlando alla BBC, il portavoce dei talebani Suhail Shaheen ha rassicurato dicendo: «Le donne potranno uscire di casa e studiare», ma le speranze che sia vero sono flebili. Lo ha confermato anche il giornalista Toni Capuozzo, spiegando che «i diritti delle donne sono drammaticamente in forse». Nel 2012, nel carcere di Herat, era detenuta Amina, una giovane trovata a parlare col fidanzato senza l'autorizzazione del padre. Doveva scontare cinque anni. Ma i tempi erano velocemente cambiati e anche lei era uscita. Fino a pochi giorni fa l'Afghanistan era un Paese in rapida evoluzione, che iniziava a garantire diritti e possibilità, anche alle categorie più fragili. È bastato un colpo di spugna per cancellare vent'anni di impegno. La speranza di donne e bambini di avere un futuro sarà nuovamente celata da un burqa. 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 27 agosto 2021. In un’intervista al New York Times il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid ha detto che alle donne sarà permesso tornare al lavoro e spostarsi per andare a scuola o in ospedale, non sarà loro possibile intraprendere viaggi di diversi giorni senza un accompagnatore. E che la musica sarà bandita dal paese. «La musica è proibita nell'Islam, ma speriamo di persuadere le persone a non ascoltarla, invece di fare pressione su di loro», ha detto Mujahid. Nonostante questo, Mujahid ha sottolineato che questo governo sarà diverso rispetto al precedente. «Vogliamo costruire il futuro e dimenticare quello che è successo in passato», ha detto, respingendo le notizie che parlano di vendette sugli oppositori e sulle dure restrizioni imposte alle donne. Mujahid ha spiegato al New York Times che i talebani lasceranno le donne tornare al lavoro, purché indossino un copricapo, e ha escluso che costringeranno di nuovo le donne a restare chiuse dentro casa o a coprirsi il volto. Ha anche dichiarato che chi disporrà dei documenti di viaggi potrà lasciare il paese e che il suo regime non darà la caccia agli ex interpreti e ad altri collaboratori dell'esercito americano, ma ha espresso frustrazione per gli sforzi di evacuazione americani. «Non dovrebbero interferire nel nostro paese e toglierci risorse umane: medici, professori e altre persone di cui abbiamo bisogno qui», ha detto Mujahid. «In America potrebbero diventare lavapiatti o cuochi. È disumano». Ma, ha detto, è fiducioso che i talebani potranno costruire buoni rapporti con la comunità internazionale, affermando che hanno già collaborato con i leader internazionali su questioni come l'antiterrorismo, l'eliminazione dell'oppio e la riduzione dei rifugiati in Occidente. Solo un giorno prima, Mujahid aveva annunciato in conferenza stampa che «fino a quando non avremo una nuova procedura» le donne dovrebbero restare al riparo. «Siamo preoccupati che le nostre forze, che sono nuove e non sono state ancora addestrate molto bene, possano maltrattare le donne», ha detto. «Non vogliamo che le nostre forze, Dio non voglia, danneggino o molestino le donne». Anche durante il primo governo dei talebani, gli estremisti avevano promesso che le limitazioni sarebbero state temporanee. In attesa che i tempi maturassero, venivano fustigate pubblicamente quando scoperte a violare le regole della moralità, come quella di uscire con il burqa. «La spiegazione fu che la sicurezza non era buona, e stavano aspettando che la sicurezza migliorasse per dare alle donne più libertà», ha detto Heather Barr, direttore associato dei diritti delle donne presso Human Rights Watch. «Ma naturalmente quel momento non è mai arrivato - e posso prometterti che le donne afghane che se lo sentono dire oggi pensano che questo momento non arriverà mai nemmeno questa volta». I talebani «stanno cercando di sembrare normali e di essere legittimati e questo durerà finché la comunità internazionale e la stampa internazionale saranno ancora lì», ha detto. «E poi vedremo di nuovo come sono veramente».

Giordano Stabile per “La Stampa” il 27 agosto 2021. Le ragazze a scuola sì, ma soltanto in classi separate, e «quando è possibile». Donne al lavoro, anzi no, perché «gli uomini non sono ancora pronti». E adesso la musica, «vietata dall'Islam». E quindi niente più canzoni alla radio o in tivù, e fra poco magari distruzioni pubbliche di stereo o autoradio. Si avvicina la partenza degli ultimi soldati della Nato e il portavoce Zabihullah Mujahid, in un'intervista al New York Times, e appena promosso ministro dell'Informazione, stringe sempre più i paletti delle aperture promesse dai «nuovi» taleban. Mujahid ha rivendicato per anni gli attacchi contro le forze occidentali e, in questo sì, ha aperto all'uso dei social media per la propaganda jihadista. Un modo per raggiungere e arruolare le nuove leve inurbate nelle periferie. Ma le innovazioni nei mezzi di comunicazione, comprese le prime due conferenze stampa, non significano un cambio di ideologia e valori. Vent' anni prima dell'Isis i guerriglieri in sandali e turbante hanno inventato la più torva dittatura salafita. Frustare chi non si faceva crescere la barba, o scopriva il volto in pubblico, o veniva sorpreso con un mangiacassette. Se a Mosul andavano in scena le distruzioni di pacchetti di sigarette o pipe della shisha, a Kabul c'erano quelle dei videoregistratori. In attesa di un governo «inclusivo», Mujahid ha comunque precisato che non ci sarà «democrazia», e quindi elezioni, e che il nuovo Emirato, come il primo, sarà retto dalla sharia. Una legge islamica dall'interpretazione molto rigida, perché gli studenti barbuti sono allievi della corrente del predicatore indo-pachistano Abu al-Ala Maududi, una delle più conservatrici al mondo, appena un passo prima delle follie dell'Isis. (…) I blitz nelle redazioni delle radio, banche, negozi sono ancora estemporanei ma indicano la strada, una discesa, neppure troppo lenta, verso i tempi cupi del mullah Omar. E ancora Mujahid ha ribadito che «non accetteremo interferenze nei nostri affari religiosi». Punto. La restaurazione jihadista procede. I taleban hanno prima preso in mano la gestione della sicurezza, compreso attorno all'aeroporto, e l'hanno affidata ai loro reparti speciali Sara Kheta, cioè rossi come il sangue, e alla branca guidata da Khalil Haqqani, un terrorista con una taglia da cinque milioni di dollari sulla testa. Hanno occupato con le armi la camera di commercio, poi lo strategico Hotel Intercontinental, vietato alle donne di lavorare e adesso proibito la musica. La scadenza del 31 agosto si avvicina. Una volta partiti gli ultimi seimila uomini della Nato avranno mano libera, o quasi. Perché qualche freno, rispetto ai tempi del mullah Omar, debbono prenderlo in considerazione. La Kabul di oggi non è quella del 2001. L'economia si è sviluppata ma dipende per il 42 per cento dagli aiuti esteri, il Pil pro-capite è passato da 900 a 2100 dollari, il settore terziario si è espanso e anche i sudditi del mullah Baradar e dell'emiro Haibatullah hanno bisogno di competenze. Lo stesso Mujahid ha detto di non apprezzare la fuga di decine di migliaia di talenti dal Paese. E ha promesso che il nuovo Stato impedirà il ripetersi di un altro 11 settembre anche se poi, in una delle tante contraddizioni, ha insinuato che il responsabile non fosse Osama bin Laden. I taleban hanno bisogno di soldi. L'intero ammontare delle riserve dell'Afghanistan, nove miliardi di dollari, è custodito nelle banche americane. Se Washington chiude i rubinetti nel giro di poche settimane mancheranno i beni di primo consumo e l'inflazione esploderà. E questa la vera arma di pressione di Europa e Stati Uniti.

La furia dei Talebani contro le donne afgane. Francesca Salvatore su Inside Over il 14 agosto 2021. Non era necessaria una sfera di cristallo per intuire come sarebbe andato a finire il pantano afgano in mano ai talebani. Gli stessi additati per quasi vent’anni come male assoluto, come incarnazione dell’oscurantismo postmoderno, per poi essere riabilitati a controparte con cui trattare tanto da essere ospitati perfino sulle dorate pagine del New York Times. L’Afghanistan di queste ore è un disastro, un inferno in terra, soprattutto per coloro che, a vario titolo, avevano cominciato a respirare quando la morsa violenta della barbarie si era poco a poco affievolita. A rischiare di finire nel pozzo nero della geopolitica ci sono loro, le donne afgane, sui cui corpi e sulle cui vite il regime scrive con assoluta ferocia da sempre e del quale il burqa è solo la punta dell’iceberg di un mondo ben più complesso, ma sempre uguale a se stesso nella sua misoginia. I dati parlano chiaro: un rapporto pubblicato il mese scorso dalle Nazioni Unite mostra un aumento delle donne e dei bambini uccisi e feriti già tra maggio e giugno, in concomitanza con l’inizio della partenza delle truppe statunitensi e di altre truppe internazionali dalla regione.

Le conquiste perdute. Ma peggio della morte c’è la perdita della libertà, dell’indipendenza, dell’identità. Eppure, qui le donne avevano ottenuto il diritto di voto nel 1919, molto prima di numerose democrazie occidentali e, negli anni Sessanta, un nuovo testo costituzionale aveva affidato loro un ruolo fondamentale nella vivace società afgana. Basta poco per rendersene conto: è sufficiente googlare tra le immagini degli anni d’oro per osservare quanto l’Afghanistan fosse una società viva, colorata e in fermento, dove le donne procedevano a passo spedito nel mondo a suon di gonne corte e libri sotto al braccio. Di alcune grandi conquiste perdute le donne afgane si erano riappropriate dopo il 2001, checché se ne pensi dell’intervento americano. La presenza delle donne in Parlamento è aumentata di quasi il 30%, più di 100mila donne sono riuscite a iscriversi all’università e quasi 4 milioni di bambine a scuola. Molte donne afgane, vent’anni fa erano poco più che bambine: hanno conosciuto i benefici dello status quo ante, sono andate a studiare all’estero. Molte sono tornate per diffondere il verbo diventando attrici chiave dei loro distretti. Tante di loro, complici famiglie umili ma al passo con i tempi, non sono sposate, non hanno figli nonostante abbiano superato i 25 anni. Tantissime non indossano né il burqa né tantomeno il velo. Questa libertà rischia di non durare man mano che i Talebani avanzano: a Kabul i guerriglieri – gli stessi che si iniettano dosi da cavallo di eroina prima di sgozzare i nemici – stanno stilando liste di tutte le donne nubili in loco: quale la ragione se non quella di “rimediare” a quest’onta con la violenza, matrimoni forzati e chissà cos’altro? La fuga al momento è impossibile per chiunque.

Le donne sole rischiano di più. Fra le donne “sole” ci sono anche quelle divorziate, che adesso sembrano essere nel mirino della furia talebana che vuol dar sostanza al vecchio detto afgano che recita “Una donna lascia la casa di suo padre solo con gli abiti da sposa bianchi e può tornare solo con i sudari bianchi”. In questa società profondamente conservatrice e patriarcale, le donne che sfidano le convenzioni e cercano il divorzio sono spesso rinnegate dalle loro famiglie ed evitate dalla società afghana. Rimaste sole, devono lottare per diritti fondamentali, come l’affitto di un appartamento o un prestito in banca, che richiedono il coinvolgimento o le garanzie dei parenti maschi. Nonostante lo stigma sociale e gli ostacoli all’indipendenza, oggi in Afghanistan vivono molte donne divorziate. In molti distretti catturati dai Talebani sono già state imposte nuove regole, comprese le restrizioni alla circolazione che ora tornano a dover essere “scortate” dai parenti maschi e completamente coperte dal tradizionale burqa. L’escalation di violenza ha costretto molti afgani a fuggire dalle loro case, ma le donne che vivono da single si ritrovano isolate, senza un posto dove rifugiarsi. La cosa più terrificante, tuttavia, è e sarà la pratica dei matrimoni forzati di giovani ragazze e vedove con combattenti talebani. Per molte donne, l’unica strada alternativa alla fuga sarà uccidersi pur di non perdere la libertà: le cronache ci raccontano di centinaia di donne pronte a farlo o che già lo hanno fatto. Molte di loro, single o meno, hanno già perso il posto di lavoro nelle ultime settimane: già agli inizi di luglio, centinaia di impiegate o piccole imprenditrici hanno visto arrivare i guerriglieri talebani presso le loro attività, nei loro uffici, nei propri negozi per essere costrette a lasciare il posto di lavoro e indossare il burqa: i loro impieghi, ottenuti col sudore e tanto studio, ceduti al parente maschio più prossimo. Molte di queste donne in pericolo hanno vissuto vent’anni di libertà. O nella libertà recuperata sono nate. Non conoscono altro modo di vivere, non sanno contrattare la vita con la sottomissione. Questo potrà essere la salvezza dell’Afghanistan o l’inizio del loro atroce sterminio, mentre il mondo fa spallucce. Malala Yousafzai, la giovane pakistana che da un altro Paese ha fatto della lotta ai Talebani la sua vita ha affermato più volte che “Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo”. In Afghanistan di libri e di penne ne sono arrivati tanti. Ora non ne arrivano più. E per ora, purtroppo, sta vincendo la spada.

Afghanistan, «A Kabul stanno facendo la lista delle donne single». Marta Serafini per il “Corriere della Sera” il 14 agosto 2021. «I racconti che ci arrivano sono terribili. Nostro zio è appena fuggito da Mazar-i-Sharif e ci ha riferito di talebani che si sono iniettati dell’eroina davanti a tutti prima di tagliare le teste di quelli che considerano oppositori e nemici». Nahal ha poco più di 30 anni, ha studiato in Afghanistan e all’estero e, dopo essere rientrata nel suo Paese, oggi lavora per un’organizzazione internazionale. Vive con la sorella Mahvash e con il padre, rimasto vedovo qualche tempo fa dopo che la moglie è morta di cancro. «Nostro papà ci ha sempre cresciute libere. Quando i talebani presero il potere la prima volta nel 1995 ci portò in Pakistan affinché potessimo studiare. E anche dopo che siamo tornate qui a Kabul la sua priorità è sempre rimasta quella: che noi avessimo un’educazione e scegliessimo la strada che preferivamo». Nahal e Mahvash non si sono mai sposate come invece viene imposto a molte loro coetanee. Vivono libere, escono da sole, hanno perfino potuto andare all’estero per seguire dei corsi di aggiornamento o per fare delle esperienze lavorative. Due ragazze single, la cui vita è sempre stata risparmiata e che non hanno mai indossato il burqa. «Ora tutto questo potrebbe cambiare. Se arrivassero i talebani probabilmente verremmo costrette a sposarci. Sappiamo che anche qui a Kabul stanno facendo delle vere e proprie liste con i nomi di tutte le ragazze nubili», raccontano con la voce piena di angoscia. Come molte giovani, Nahal e Mahvash, pur vivendo in una società profondamente patriarcale e pur essendo abituate a non poter fare tutto quello che vogliono, non sopportano l’idea di perdere la loro libertà. «Noi dobbiamo tutto ciò a nostro padre. Ma come potremmo vivere se fossimo obbligate a stare chiuse in casa, uscendo solo in sua compagnia. Perché così funziona il sistema del guardiano: non puoi nemmeno andare a fare la spesa senza che un uomo ti accompagni». Mahvash, minore solo di qualche anno rispetto a Nahal, è assunta come giornalista per un grosso network internazionale. Come la sorella ha studiato e lavora sodo. «Per fortuna non devo apparire in video. Così a molti parenti ho detto che faccio l’insegnante. Qui il mestiere della giornalista è molto mal visto, oltre che essere pericoloso. Si ritiene che per una donna sia conveniente diventare o maestra o dottoressa, tutto il resto è un mestiere da poco di buono. Ma io non voglio smettere di dare notizie, soprattutto ora che è importante raccontare cosa sta succedendo qui». Nahal e Mahvash sono angosciate. Ascoltano i resoconti delle persone per strada e credono che la fine della loro vita così come l’hanno conosciuta fin qui sia vicina. «Sentiamo tantissime storie orribili, di ragazze portate via con la forza, costrette a sposarsi con uomini che non hanno mai visto. E allora pensiamo che l’unica cosa che possiamo fare è fuggire da qui, dalla nostra casa». Ad aiutarle per il momento non c’è nessuno, nonostante abbiano prestato servizio sia per istituzioni che per imprese private straniere. «Siamo completamente sole», spiegano Nahal e Mahvash. Impossibile trovare un visto per fuggire. «Ci hanno consigliato di andare in Iran ma in questo momento è molto pericoloso anche solo mettersi per strada».

Afghanistan, appelli e liste speciali: la corsa per salvare 3,5 milioni di donne. Anna Lombardi su La Repubblica il 17 agosto 2021. "Salviamo la squadra femminile di robotica afghana che ha ispirato il mondo. Sono a Kabul, in trappola: sperando che qualcuno le aiuti a fuggire". È l'appello - firmato dell'avvocatessa per i diritti umani Kimberly Motley insieme a Meghan Stone, presidente del Malala Fund - apparso ieri sul Washington Post in favore del team di ingegnere in erba (hanno fra i 12 e i 18 anni) capaci di costruirsi da sole, nella loro scuola di Herat, un robot a energia solare: diventando il simbolo dell'Afghanistan cambiato dalle ragazze. Invitate più volte a Washington (dopo aver ricevuto un iniziale rifiuto di visto per partecipare a un concorso nel 2017), premiate dall'ex first Lady Melania Trump, il loro volto era fino a pochi giorni fa dipinto sul muro esterno dell'ambasciata americana a Kabul. Ora, insieme alle insegnanti, sono fra le migliaia di persone bloccate all'aeroporto della capitale: "Il governo intervenga", chiedono le due donne. Già, quegli Stati Uniti che fin dal 2001 hanno sempre definito obiettivo prioritario il miglioramento della condizione femminile in Afghanistan. Investendo in 20 anni - secondo dati delle Nazioni Unite - 800 milioni di dollari in programmi specificamente intesi a sostenere progetti educativi e sanitari dedicati a donne e ragazze. E altri 4 miliardi in progetti che le coinvolgessero. In realtà, i numeri della frequenza scolastica non sono mai stati altissimi. Se prima del 2003 le bambine iscritte a scuola erano meno del 10 per cento, nel 2019 arrivavano al 33 per cento del totale. In calo dal picco del 48 per cento nel 2011 (anno del primo ritiro Usa, quello voluto da Barack Obama. In totale, secondo uno studio della Brooking Institutions, 3,5 milioni di afghane hanno frequentato scuole in questi anni: ma non per periodi troppo lunghi. La media è 18 mesi, rispetto a 6 anni dei maschi. Di queste, solo 100mila hanno concluso studi universitari. Le opportunità, d'altronde, sono sempre state limitate soprattutto alle aree urbane, dove erano state erette scuole spesso gestite da ong internazionali. Per le residenti in aree rurali - circa il 76 per cento del totale - l'accesso all'istruzione è stato sempre difficile. Importante, invece, l'impatto sanitario: in 20 anni, l'aspettativa di vita delle donne è passata da 57 a 66 anni. Certo, ora il portavoce dei talebani Suhail Shaheen già promette: "Rispetteremo i diritti femminili, consentiremo accesso all'istruzione". Salvo chiarire: "Secondo le leggi della Sharia". I fondamentalisti non considerano le donne pari agli uomini, nonostante la Costituzione afghana abbia riconosciuto l'uguaglianza nel 1964, ribadendola poi nella nuova Costituzione del 2004. E da sempre osteggiano l'istruzione delle bambine, tollerata solo fino a 8 anni. Mentre le adulte non possono lavorare e possono uscire di casa solo interamente coperte e accompagnate da un parente maschio. "Prima o poi i talebani verranno a cercarmi: per uccidermi". Zarifa Ghafari, 27 anni, sindaca di Maidan Shar, la più giovane dell'Afghanistan, ha detto alla Bbc. E pensare che nel 2019 il Congresso americano aveva condizionato i fondi per il ritiro a una certificazione da parte dell'Amministrazione che assicurasse garanzie sui diritti femminili. Trump lo aveva fornito. Di recente pure il Segretario di Stato Tony Blinken ha ripetuto che i talebani avranno aiuti e riconoscimento internazionale solo se rispetteranno le donne. Ma ai talebani, di riconoscimenti e aiuti, importa?

Proteggete le nostre donne: i talebani vogliono cancellarle. Khaled Hosseini il 18 Agosto 2021 su Il Giornale. Ho una cugina di primo grado nella città di Herat, nell'Afghanistan occidentale. Siamo cresciuti insieme negli anni '70. Ricordo che suonavamo dischi a 45 giri e ballavamo insieme. Non la vedo da quasi cinquant'anni. Ho una cugina di primo grado nella città di Herat, nell'Afghanistan occidentale. Siamo cresciuti insieme negli anni '70. Ricordo che suonavamo dischi a 45 giri e ballavamo insieme. Non la vedo da quasi cinquant'anni. La ricordo come una giovane donna brillante con occhi verdi e lentiggini e un sorriso caldo e contagioso. Le telefono ieri. Sembrava terrorizzata. Mi ha detto che tutti i suoi figli adulti sono fuggiti da Herat per Kabul e lei è sola con suo figlio in una città ora sotto la bandiera dei talebani. Mi sono sentito affranto, impotente. Mi preoccupo per mia cugina. E mi preoccupo per i milioni di afghani che sono fuggiti a casa e stanno lottando con questioni esistenziali. Dove andranno? Che ne sarà di loro? Nessuno può dirlo con certezza. Ma mi preoccupo di più per le mie consorelle afghane. Le donne e le ragazze rischiano di perdere più di qualsiasi altro gruppo. Ci sono molte immagini orribili e durature dell'ultima volta che i talebani hanno governato l'Afghanistan: i pestaggi pubblici, il taglio delle mani, le esecuzioni all'interno degli stadi, la distruzione barbara e insensata di manufatti storici. Ma per me l'immagine mentale duratura dei talebani intorno agli anni '90 è quella del bastone che tiene in mano Talib che picchia una donna vestita di burqa. I talebani terrorizzavano sistematicamente le donne. Hanno tolto loro la libertà di movimento, la libertà di lavorare, il diritto all'istruzione, il diritto di indossare gioielli, di farsi crescere le unghie o dipingerle, di ridere in pubblico, persino di mostrare i loro volti. È questo che c'è in serbo per mia cugina? Per sua figlia? E le innumerevoli coraggiose donne afghane che per vent'anni hanno lavorato per raggiungere una certa misura di autonomia, dignità e individualità? Le donne afghane saranno ancora una volta sequestrate nelle case? Saranno picchiate per le strade? Le donne non potranno più lavorare? Le aule femminili resteranno vuote? I volti femminili scompariranno dalla tv e le voci femminili dalla radio? L'Afghanistan sarà privato ancora una volta di un contributo significativo da parte della metà della sua popolazione? Forse i talebani sono cambiati, dicono alcuni. Ma lo sono? I prossimi giorni, settimane e mesi faranno molto per rispondere a questa domanda. Questa è la piccola scheggia di speranza che mi concedo - impegnandomi in un esercizio di pio desiderio. In effetti, le immagini recenti di Herat, che mostrano soldati talebani che trascinano per la città «ladri» con le facce dipinte di nero e cappi al collo, smentiscono questa debole speranza. Le immagini potrebbero anche essere state scattate nel 1997. Quindi, se i talebani non sono cambiati e non c'è nulla che impedisca loro di imporre le loro leggi barbare e disumane a un popolo che soffre da tempo, cosa si deve fare? Cosa accadrà alle donne e alle ragazze lì? Da dove verrà l'aiuto? Non conosco la risposta. Sicuramente non la conosco oggi. Oggi mi preoccupo. Oggi ho il cuore spezzato. Oggi piango per le speranze e le aspirazioni perdute degli altri afghani. La decisione americana è stata presa e l'incubo che molti afghani, me compreso, temevano, si sta manifestando. Tuttavia, per quanto le cose possano sembrare squallide e senza speranza ora, il mondo non può e non deve dimenticare l'Afghanistan. Non deve abbandonare un popolo che ha cercato la pace per oltre quattro decenni. Il mondo deve essere solidale con i comuni afghani, in particolare donne e ragazze, e prendere le misure necessarie per fare pressione sui talebani affinché rispettino i loro diritti umani essenziali. Il mondo deve fare il possibile per assicurarsi che milioni di donne afghane non siano costrette ancora una volta a languire dietro porte chiuse e tende tirate. Quelle donne sono tra le persone più coraggiose e resilienti che abbia mai incontrato. Mia cugina ne è un fulgido esempio. Donne come lei mi hanno ispirato e umiliato più e più volte. È una vergogna che debbano soffrire ancora, dopo tutto quello che hanno già sopportato per molti lunghi anni di difficoltà e lotte. Loro e il popolo afghano nel suo insieme, meritano di meglio. Khaled Hosseini 

L'urlo delle donne senza più futuro: "Saremo schiave o ci uccideranno". Chiara Giannini il 17 Agosto 2021 su Il Giornale. I volti saranno ancora coperti dal velo, studiare e lavorare tornerà impossibile. I talebani promettono: "I diritti saranno rispettati". Ma nessuna ci crede: "Noi cancellate dalla Storia". Non avranno più volto, non avranno più nome, diventeranno schiave sessuali dei soldati talebani, ridotte a essere un numero tra tanti altri insignificanti numeri. Le donne afghane sono le vere vittime dello scempio compiuto da un Occidente in fuga che prima dà la speranza a un popolo di risollevarsi e poi se la dà a gambe levate, facendolo ripiombare nell'oscurità dell'incubo. Fatima ha 35 anni, non si è mai sposata, perché ha scelto la vita militare, entrando giovanissima nelle Forze di sicurezza afghane, una conquista ottenuta grazie all'impegno per la pace della coalizione internazionale. Ha collaborato per lungo tempo con gli americani, ma non è riuscita a salire su uno degli aerei in partenza, perché fino a due giorni fa ancora sperava di vedere il suo Paese libero dai talebani. «Mi uccideranno - dice con la voce rotta dal pianto al telefono - perché sanno bene chi ha aiutato gli occidentali. Stanno facendo le liste in ogni città delle donne single, dagli 8 ai 45 anni. Molte saranno uccise, altre andranno in moglie ai talebani». L'obbligo del burqa era decaduto in questi vent'anni di «protezione» internazionale, come lo era il divieto per le donne di portare i tacchi, una imposizione talebana risalente al 1997, perché neanche il rumore del sesso femminile si doveva sentire più. Il ticchettio delle scarpe alte sull'asfalto non poteva renderle nullità. E allora la decisione di farle diventare invisibili. Eppure negli anni molti passi avanti si erano fatti, con la procuratrice di Herat, Maria Bashir, paladina di molte rappresentanti del gentil sesso poi finite in parlamento, nella politica, nel giornalismo, sui social media. Con le giornaliste che avevano avuto la forza di creare radio e canali aperti all'esterno, con l'emancipazione di una generazione nata sotto l'ombra della Nato. C'è un video che circola su Telegram, è quello della regista afghana Sahra Karimi, in fuga da Kabul. «Alcuni occidentali - spiega nel filmato - non capiscono, lo so». Perché è difficile far comprendere cosa significhi tornare indietro di decenni o forse di secoli. L'Afghanistan degli anni Sessanta, quello con le donne in minigonna in giro per Kabul prima dell'avvento degli estremisti talebani, non è che un lontano ricordo. «Mia moglie - racconta un interprete afghano - piange di continuo. Sa che ho collaborato con gli italiani. Teme soprattutto per i nostri figli. Se non riusciremo a partire i due maschi saranno probabilmente presi e mandati in Pakistan, dove li addestreranno come terroristi. Le femmine andranno in sposa a questa gente. Siamo disperati». Parlando alla BBC, il portavoce dei talebani Suhail Shaheen ha rassicurato dicendo: «Le donne potranno uscire di casa e studiare», ma le speranze che sia vero sono flebili. Lo ha confermato anche il giornalista Toni Capuozzo, spiegando che «i diritti delle donne sono drammaticamente in forse». Nel 2012, nel carcere di Herat, era detenuta Amina, una giovane trovata a parlare col fidanzato senza l'autorizzazione del padre. Doveva scontare cinque anni. Ma i tempi erano velocemente cambiati e anche lei era uscita. Fino a pochi giorni fa l'Afghanistan era un Paese in rapida evoluzione, che iniziava a garantire diritti e possibilità, anche alle categorie più fragili. È bastato un colpo di spugna per cancellare vent'anni di impegno. La speranza di donne e bambini di avere un futuro sarà nuovamente celata da un burqa.

Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. Inviata di guerra per passione, convinta che i fatti si possano descrivere s

A 27 anni Zarifa "non ha più paura di morire". Chi è Zarifa Ghafari, la sindaca più giovane dell’Afghanistan che teme per la sua vita: “I Talebani mi uccideranno”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 17 Agosto 2021. I Talebani? “Verranno per le persone come me e mi uccideranno. Sono seduta qui in attesa che arrivino”. Sono le parole di rassegnazione che arrivano da Zarifa Ghafari, che a soli 27 anni è la più giovane sindaca dell’Afghanistan, nominata nell’estate del 2018 dall’allora presidente Ashraf Ghani nella ultra conservatrice città di Maidan Shar, capoluogo della provincia di Vardak. Zarifa ha raccontato i suoi timori all’indomani della capitolazione di Kabul in una intervista al al New York Times: “Sto solo aspettando che i talebani vengano a uccidermi. Non c’è nessuno che aiuti me o la mia famiglia. Sto solo seduta con loro e mio marito. Non posso lasciare la mia famiglia. E comunque, dove andrei?”. A differenza di migliaia di suoi connazionali, Zarifa Ghafari non ha tentato la fuga dal Paese dopo la riconquista da parte del gruppo islamico. Non ha compiuto la scelta fatta dallo stesso presidente Ashraf Ghani, fuggito in Uzbekistan, che l’aveva nominata sindaco nella roccaforte islamica, dove Zarifa non molla il suo incarico e attende l’arrivo dei Talebani. La giovane sindaca si dice “distrutta” ma “non mi fermerò ora, anche se verranno di nuovo a cercarmi. Non ho più paura di morire”. E d’altronde Zarifa Ghafari sa bene cosa vuol dire rischiare la vita: nella sua breve carriera ‘politica’, sempre in prima linea per i diritti delle donne, anche grazie ad un programma radiofonico e ad una organizzazione non governativa incentrata sull’emancipazione economica femminile, è scampata a diversi attentati.Non altrettanto fortunato è stato invece il padre, il colonnello dell’esercito Abdul Wasi Ghafari, giustiziato lo scorso novembre. Secondo Zarifa responsabili della morte sarebbero gli stessi Talebani: Sono stati loro. Non mi vogliono a Maidan Shar. Ecco perché hanno ucciso mio padre”, disse all’epoca.

IL PROGRAMMA "MODERATO" DEI TALEBANI – Dall’altra parte della barricata i Talebani, riconquistato il potere, promettono un programma più “moderato”, aprendo al ruolo delle donne e annunciando una amnistia generale per tutti i funzionari delle vecchie autorità afghane. Alla Associated Press il membro della commissione Cultura degli insorti, Enamullah Samangani, ha infatti confermato quella che potrebbe essere definita una svolta "moderata" del movimento. “L’Emirato Islamico non vuole che le donne siano vittime – ha affermato Samangani -. Dovrebbero far parte del governo, secondo i dettami della Sharia“, pur non chiarendo quali dovrebbero essere le regole da seguire per far parte del prossimo esecutivo talebano.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Zarifa Ghafari, la sindaca afghana che non ha paura dei talebani. Futura D'Aprile su Inside Over il 12 maggio 2021. Zarifa Ghafari, 28 anni, è una delle pochissime donne ad aver mai ricoperto la carica di sindaca in Afghanistan. Un incarico che le è quasi costato la vita e che ha contribuito all’assassinio del padre, il colonnello Abdul Wasi Ghafari, ucciso a fine 2020 dai talebani. La giovane sindaca amministra la città di Maidan Shar a pochi chilometri dalla capitale Kabul, nella provincia di Wardak, nota per il sostegno di cui i talebani godono tra la generalità della popolazione. Ghafari ha dovuto fare i conti fin dal principio con l’opposizione dei suoi concittadini: il giorno dell’insediamento è stata accolta dalle proteste di un gruppo di uomini che hanno preso d’assalto il suo ufficio con pietre e bastoni. Per i nove mesi successivi, Ghafari ha amministrato Maidan Shar da Kabul per ragioni di sicurezza e tuttora preferisce tornare nella capitale a fine giornata, piuttosto che risiedere stabilmente nella sua città. La sindaca ha ricevuto diverse minacce di morte da parte dei talebani e perfino da alcuni suoi ex collaboratori, sopravvivendo a ben tre attentati alla sua vita. Nonostante i pericoli che il suo incarico comporta, non ha intenzione di arrendersi. “Ho scelto la carriera politica perché ero preoccupata per la situazione delle donne nel mio Paese e volevo fare qualcosa. Alla fine ho capito che il modo migliore per apportare dei cambiamenti positivi nella vita delle persone e soprattutto delle donne era la politica”, racconta a InsideOver Zarifa Ghafari. La sindaca di Maidan Shar è approdata in politica dopo aver studiato in India, aver fondato una Ong di assistenza e promozione delle donne e aver fatto parte del Parlamento dei ragazzi di Wardak. Un percorso possibile anche grazie al sostegno ricevuto dai suoi cari. “La mia famiglia è orgogliosa di ciò che faccio, ma alle volte a prevalere è la preoccupazione a causa di tutte le minacce che ricevo. La situazione è sempre più difficile per le donne, soprattutto per quelle che fanno politica”. Eppure lasciare l’incarico che ricopre non è un’opzione. Continuare ad amministrare Maidan Shar è anche un modo per ispirare altre donne e per cercare di cambiare la mentalità dei suoi concittadini, spiega Ghafari. “Voglio dimostrare che le donne possono avere ruoli di potere”. Se la carriera politica era iniziata come un percorso personale, dopo l’uccisione del padre per mano dei talebani il suo incarico ha assunto una rilevanza ancora maggiore sul piano personale. “Mio padre era un colonnello, lavorava per il ministero della Difesa. Molte persone lo odiavano a causa del suo ruolo, ma la sua morte è collegata anche al mio lavoro. È stato difficile per me superare la sua perdita, ma la mia dedizione verso la politica non è cambiata. Se prima seguivo un percorso che era solo mio, adesso sto seguendo le orme di mio padre”. Sul futuro di Ghafari e dell’Afghanistan pesa però il ritiro delle truppe Usa e il ritorno dei talebani, ancora in trattativa con l’attuale Governo di Kabul per la gestione del potere. “Se vogliono ritirare i soldati va bene, erano in Afghanistan solo come ospiti e adesso possono fare ritorno alle loro case. Però io, in quanto figlia di questo Paese, non sono responsabile per il loro arrivo in Afghanistan né per gli attacchi del 2001, per questo ciò che mi importa davvero è che non siano altri a decidere il mio futuro. Non voglio che i miei anni di battaglie e di impegno politico siano regalati ai talebani”. Di questi ultimi, sottolinea la sindaca, non c’è da fidarsi. “Perché dovrei avere fiducia in loro dopo che hanno ucciso mio padre?”. La preoccupazione maggiore è per le donne e le minoranze, che rischiano di vedere cancellati i loro diritti sotto i talebani. “Siamo stati delle vittime della guerra e solo pochi giorni fa c’è stato un attacco contro una scuola femminile. I talebani non sono cambiati e continueranno ad essere un problema, soprattutto per le donne”. Ghafari però è speranzosa. A decidere del futuro dell’Afghanistan secondo lei saranno i giovani. “Più del 20% della popolazione afghana è formata da giovani come me. Faremo del nostro meglio per ricostruire il nostro Paese ed evitare che venga distrutto ancora una volta”.

Andrea Pasqualetto per corriere.it il 26 agosto 2021. «Mi stanno cercando, vogliono uccidermi... vi supplico, aiutatemi». Nascosto a casa di un amico con moglie e sei figli, il quarantenne Nassari Yaqoot Shah lancia il suo disperato appello. Lo conferma il tono di voce che arriva dal telefono di qualche casa di Jalalabad dove ha trovato rifugio, dopo averne cambiati diversi in questi paurosi giorni d’agosto. «Faccio parte della loro black list per il mio lavoro», sussurra in un buon inglese, essendo lui fondatore e proprietario dell’Hewad Educational Centre, un istituto che da anni promuove l’insegnamento della lingua anglosassone. Ma Nassari è un volto noto in Afghanistan soprattutto per gli altri suoi lavori: giornalista, regista, attore. Intellettuale a tutto tondo e come tale soggetto molto a rischio. Nella lista nera è finito in particolare per la sua attività giornalistica per l’emittente Enikass tv di Jalalabad, città a un paio d’ore da Kabul verso il confine pachistano. Nassari è in contatto con il fratello Rahamat Shah che ha cittadinanza italiana, fa il ristoratore a Venezia e ha interessato del caso la Farnesina. 

Cosa sta succedendo, Yaqoot?

«Da quando hanno preso il potere ci stanno dando la caccia. Già nei mesi scorsi tirava una brutta aria. Hanno ucciso sei colleghi di Enikass, la tv ha chiuso e ora mi stanno cercando. La situazione è molto brutta, ho paura». 

Sei colleghi uccisi, un inferno! Chi sono?

«Malala Maiwand, presentatrice di vari programmi. Lei era nel mio steso ufficio, faceva il giornale, io facevo l’approfondimento con vari ospiti. Poi hanno ucciso Sadia Sadat, Shenaz Raofi e Mursal Wahedi, tutte giovani donne impegnate come doppiatrici. E poi gli autisti di Enikass, Muhammad Tahir e Ustad Qandahar.

Dove si trova ora?

«A Jalalabad, sto scappando di casa in casa, da parenti e amici. Non è semplice perché ho moglie e sei figli piccoli». 

Perché è nella black list?

«Abbiamo sempre lottato contro questo regime denunciando la mancanza di libertà, i matrimoni combinati e il legame fra i gruppi talebani e il narcotraffico. Sono vent’anni che denuncio e che tocco questi temi anche con i miei film. Qui non posso più stare, io che ho sempre voluto rimanere nel mio Paese. Rahamat mi ha detto tante volte di raggiungerlo in Italia ma io stavo bene qui e non vedevo una buona ragione per andare via. Ora invece sì». 

Mancano pochi giorni, è una corsa contro il tempo. Come fa?

«Posso prendere un volo ma avrei bisogno di un visto per poter lasciare l’Asfghanistan. Bisogna fare presto perché so che hanno chiesto di me qui in zona. Non dormo da giorni».

Nassari ci manda una raffica di whatsapp con i documenti di tutta la famiglia e decine di foto che lo riprendono negli studi dell’emittente e nei set cinematografici , varie locandine.

«Mio fratello è molto amato dal popolo, per questa ragione non sarebbe mai andato via. Se viene in Italia io posso ospitare tutta la famiglia perché ho una casa grande, gli faccio io da sponsor, tanto lui porterebbe solo del bene al Paese», dice preoccupato Rahamat che per salvare Yaqoot ha chiesto aiuto anche al suo amico Luigi Corò dell’associazione Cmp per la difesa dei cittadini. 

Lei si è battuto per le libertà, per le donne, per la lingua inglese. Si sente tradito?

«Gli americani ci hanno lasciato in una situazione di grave incertezza. Molti artisti hanno pensato di andarsene quando hanno visto la brutta situazione. Io ho aspettato troppo e adesso non riesco più a uscire. Aiutatemi, per favore. Sono disperato».

Al telefono si sentono voci di bambini che giocano, che piangono. Il più grande ha 12 anni. Sono tutti chiusi nel nuovo rifugio. Domani forse se ne vanno ancora una volta.

«Gente sconosciuta ha chiesto di me in zona, bisogna cambiare aria».

Yaqoot aspetta un volo per l’Italia che forse non arriverà mai.

"Ho aiutato le bimbe afghane. Ora vogliono uccidermi". Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto il 18 Agosto 2021 su Il Giornale. L'appello disperato da Kabul: "Aiutatemi. Devo lasciare il Paese. I talebani fingono, non sono mai cambiati". «Sono vicini, a due passi da dove mi nascondo e stanno cercando casa per casa. Ho paura, ma vi mando una foto» è il coraggioso messaggio di un'eroina afghana, che sta scappando dall'Emirato talebano. L'immagine mostra un gruppo di armati che si prepara a rastrellare la zona. Non possiamo fare il suo nome e ancora meno rivelare dove si trova, ma pubblichiamo le sue parole, che rappresentano il grido di dolore di tutte le donne afghane che non vogliono tornare al Medioevo islamico. In attesa di evacuazione spera di riuscire a mettersi in salvo, ma scappare dall'Afghanistan è un'impresa, nonostante il ponte aereo che si sta rimettendo lentamente in moto dall'aeroporto di Kabul.

I talebani hanno annunciato che vogliono le donne nel governo e che potranno continuare a studiare indossando il velo e non il burqa. Ci crede?

«Hanno appena ucciso una donna a Kandahar perché era da sola e sono gli stessi che continuano ad appoggiare Al Qaida. Se rispettano le donne, perché entrano nelle case con una lista nera di attiviste che si battono per i diritti femminili? Sono bravi ad avere imparato come presentarsi in pubblico con la faccia buona, ma ne hanno due o tre diverse».

Come sta?

«Sono depressa, senza speranza e confusa. Non so cosa mi accadrà tra poche ore. Devo nascondermi perché sanno che sono ancora in Afghanistan. Controllano se risulto connessa su whatsapp. Non posso spegnerlo altrimenti rimango tagliata fuori dal mondo e da chi mi vuole aiutare».

Perché la cercano?

«Sono impegnata in un'associazione che si batte per i diritti delle donne e per proteggerle da ogni forma di violenza. Avevo già iniziato con il primo regime talebano a difendere le ragazzine cercando di istruirle perché allora l'insegnamento era bandito. A Herat sono stata in stretto contatto con gli italiani e anche con le vostre soldatesse. Abbiamo sviluppato tanti programmi a favore delle afghane».

Gli italiani si impegnavano in questo campo?

«La questione femminile era in cima alla lista degli interventi. Ora tutto questo scomparirà. Fin dall'inizio non credevamo negli accordi di pace di Dna (con gli insorti, nda). Abbiamo visto cosa è accaduto, ma tanti non accettano la legittimazione dei talebani».

Ha paura del nuovo Emirato?

«I talebani sono diventati più forti. Abbandonare l'Afghanistan è stato un crimine. Quelli che hanno collaborato con le truppe occidentali rischiano la testa. Si vive nell'incertezza, senza sapere cosa ti capiterà tra un'ora».

Secondo lei come si è arrivati a questo punto?

«Capisco che i paesi europei non potevano opporsi alla volontà americana o assumersi il peso di questa guerra sulle loro spalle. Ora, però, la mia vita è in pericolo, come quella dello staff che lavorava per l'associazione, e migliaia di ragazze saranno vittime di violenze. Non abbiamo più alcun posto sicuro dove vivere».

I talebani la vogliono arrestare?

«Hanno perquisito casa mia cercandomi come fossi una criminale. Per sei ore hanno preso in ostaggio un parente per scoprire dove mi trovassi. Dicono che i talebani sono cambiati, ma non è vero».

Si sente tradita dall'Occidente?

«La mia famiglia mi chiede: dove sono i tuoi amici? Qualcuno è venuto a salvarti?».

Non è in lista per l'evacuazione?

«Tutti dicono di sì, ma non so ancora nulla di preciso. Nessuno mi ha più contattato. Per fortuna sono scappata per evitare di venire arrestata».

Vuole lanciare un appello?

«Aiutatemi a mettermi in salvo. Vorrei venire in Italia non per chiedere asilo, ma per continuare a lavorare per le donne che rimangono in Afghanistan. Il mio obiettivo è battermi per la difesa dei diritti umani. Continuerò a farlo se avrò un visto per uscire dall'Afghanistan. Non voglio soldi, solo protezione, aiuto per lasciare il paese. I talebani possono arrivare da un momento all'altro alla mia porta. Se verrò uccisa sarà una grande vergogna per tutti».

Tra le "morte viventi" afghane condannate per averci aiutato. Fausto Biloslavo e Gian Micalessin il 13 Settembre 2021 su Il Giornale. Dovevano essere "esfiliate", si nascondono: "Non consegnateci alla vendetta talebana". Sono i grandi dimenticati. E rischiano di diventare la nostra indelebile vergogna. Sono i morti che camminano, gli zombie dell'Afghanistan talebano. Sono uomini e donne in divisa che avevano promesso fedeltà all'esercito afghano e a quello italiano. Per questo erano nelle liste di chi doveva esser fatto uscire dal paese. Ma nel caos degli ultimi giorni nessuno si è curato di loro. E così ora a cercarli sono quei talebani al cui odio avevamo promesso di sottrarli. Afrooz, chiamiamola così, è uno dei casi più disperati. Fino a pochi mesi fa vestiva la divisa dell'esercito afghano e lavorava con un'unità di donne soldato messa insieme con il coordinamento dei nostri comandi di Herat. Proprio per questo il suo nome e il suo volto erano comparsi su tanti, troppi, media afghani. Ora quel nome e quel volto sono sulle liste nere talebane. E lei, fuggita da Herat, vive alla macchia nella capitale assieme alla figlia di pochi mesi, al marito e ai fratelli. «Ho lavorato con i vostri ufficiali per sei o sette anni e l'esercito afghano mi ha più volte decorata eppure sono stata lasciata indietro. Così ora la mia vita e quella della mia famiglia è a rischio» Afrooz non parla a caso. L'incontriamo nella sala riservata alle famiglie di un ristorante di Kabul. Ha il volto coperto da una mascherina e il capo avvolto in un velo giallo. I fratelli e il marito, anche loro ex militari, sorvegliano preoccupati l'entrata della sala. «La nostra situazione è disperata se voi italiani non riuscirete a farci uscire dal paese finirà male. Molto male. Cinque giorni dopo la nostra fuga da Herat i talebani si sono presentati a casa mia, l'hanno perquisita, si son portati via ogni cosa, dai mobili ai vestiti e han bloccato l'entrata con un enorme lucchetto. Poi son andati da mia madre dicendole che avevo tempo cinque giorni per presentarmi al loro comando. Passati i cinque giorni sono tornati e se la son presa con mio padre. Non ti vergogni - gli han detto - di avere una figlia che lavora per gli stranieri?. Poi l'hanno insultato e gli han dato venti giorni per portarmi da loro. Quando ci penso, mi vien ancora da piangere. Non riuscirò mai a fuggire alla loro vendetta». Afrooz purtroppo non ha torto. «Il mio nome è nelle vostre liste e avrei diritto a venir accolta in Italia, ma come faccio ad arrivarci viva? Se anche riprendessero le evacuazioni non potrei presentarmi all'aeroporto perché sono ricercata dai talebani. Per lo stesso motivo non posso uscire legalmente dall'Afghanistan e presentarmi in una vostra ambasciata. Dovrei fuggire illegalmente, ma non posso farlo con una bimba di meno di un anno. Non posso mettere a rischio anche la sua vita». In un altro ristorante ci aspettano Imtiaz e Jawid. Anche i loro nomi sono ovviamente fasulli. La loro storia e la loro disperazione un po' meno. «Vi prego - sussurra Imraz - chiedete al vostro governo di portarci via. Preferisco dormire per strada in Italia che rischiare la vita qui in Afghanistan». Il loro caso è il simbolo dell'improvvisazione che ha guidato la tumultuosa evacuazione di fine agosto. «Quando, fuggiti da Herat, siamo arrivati Kabul e abbiamo chiamato i due contatti, un ufficiale italiano e il portavoce di noi traduttori, incaricati di coordinare l'entrata all'aeroporto per l'evacuazione nessuno ci ha risposto. Abbiamo chiamato per giorni e nessuno ci ha dato retta. E non siamo i soli. Oltre a noi ci sono almeno altri otto interpreti dimenticati da voi italiani e costretti a vivere alla macchia con le famiglie» spiega Jawid mostrando su Whatsapp i profili dei due fallimentari contatti. Quando gli ricordiamo la promessa di amnistia per i collaboratori degli eserciti stranieri annunciata dai talebani all'indomani della vittoria Imtiaz e Jawid sorridono e scuotono la testa. «Voi credete a quella roba? I talebani in passato hanno già tagliato la testa a tre nostri colleghi. E sono pronti a rifarlo con noi se ci prendono».

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”,  il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace.

Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria passando per le guerre della Ex Jugoslavia, del Sud Est asiatico, dell’Africa edell’America centrale. Oltre agli articoli per “Il Giornale” – per cui lavoro dal 1988 – ho scritto per le più importanti testate nazionali ed internazionali (Panorama, Corriere della Sera,Liberation, Der Spiegel, El Mundo, L’Express, Far Eastern Economic Review). Sono anche documentarista ed autore televisivo. I miei reportage e documentari sono stati trasmessi dai più importanti network nazionali ed internazionali (Cbs, Nbc, Channel 4, France 2, Tf1, Ndr, Tsi, Canale 5, Rai 1, Rai2, Mtv). Ho diretto i video giornalisti di “SeiMilano” la tv che ha lanciato il videogiornalismo in Italia. Ho lavorato come autore e regista alle prime puntate de “La Macchina del Tempo” di Mediaset. Ho lavorato come autore di “Pianeta7”, un programma di reportage esteri de “La 7”. Nel 2011 ho vinto il “Premio Ilaria Alpi” per il miglior documentario con un film prodotto da Mtv sulla rivolta dei giovani di Bengasi in Libia. Nel 2012 ho vinto il premio giornalistico Enzo Baldoni della Provincia di Milano.

I Terroristi afgani.

La guerra in corso tra Talebani e Isis nell’Afghanistan che non conosce pace. Jalalabad è sotto il controllo dell’Isk, la sezione locale di Daesh, e così altre zone del paese. Le persone hanno paura, l’omertà regna e temono che gli scontri fra bande armate possono portare a una nuova escalation della violenza. Filippo Rossi su L'Espresso il 12 novembre 2021. Il walkie-talkie squilla. «Esplosione nel Distretto di polizia 8», tuona la voce di un talebano. Sono le 9 del mattino a Jalalabad, capoluogo della provincia nord-orientale afghana di Nangarhar. L’ufficio del responsabile del coordinamento dell’intelligence, Qari Hanif, conferma poco dopo: «Il villaggio periferico di Behsud, dall’altro lato del fiume è stato colpito due volte. Ci sono 3 feriti». Non fa nemmeno più notizia, ma da ormai più di un mese, ogni giorno, Jalalabad è teatro di massacri, attacchi improvvisi e esplosioni contro i mujaheddin dell’Emirato islamico. Ma nessuno fiata, soprattutto il governo. Anche se il paese vive un miglioramento della sicurezza da quando i Talebani hanno preso il controllo, le cose stanno peggiorando. Specialmente a Jalalabad, che vive nella tensione, come se nulla fosse cambiato rispetto agli anni della guerra. È lo Stato Islamico Khorasan (Isk), affiliato del gruppo Stato Islamico nel paese, a rivendicare gli attacchi che costantemente colpiscono i soldati del nuovo regime. I Talebani cercano di minimizzare, dicendo che non ci sono problemi. La loro linea sulla questione è un secco “no comment”. Ma in realtà si sente la paura e Qari Hanif, un po’ si tradisce, rilasciando qualche informazione: «Alcune aree della provincia sono controllate all’85% dall’Isk. La situazione non è buona». Sono i distretti della provincia ad essere i più colpiti: Achin, Surkh Rod, Dih Bala e Chaparhar. Non sono distanti dal centro della città ed è qui che cellule di terroristi cercano di infiltrarsi e sono attive. A Chaparhar, una ventina di chilometri dal centro città di Jalalabad, il nervosismo è alle stelle. «Chaparhar, 2 settimane fa era molto pericoloso. Ora è normale», aveva detto Hanif nel suo ufficio. Per non dire pericoloso. I controlli sono ferrei, l’indice di ogni talebano è posto sul grilletto. Il mercato è aperto, ma non molte persone girano. Nel mezzo, il posto di comando talebano. La torretta è crivellata da centinaia di fori di proiettili. Al suo interno, il comandante del distretto Mawlawi Riazullah Haqqani sdrammatizza: «Tutto è sicuro in questa zona. Ci sono alcune persone che collaborano con l’Isk, ma li stiamo neutralizzando. Alcune famiglie di terroristi sono ancora fedeli a loro. La gente pensa che ci sia una vera presenza di Daesh (Isk), ma in realtà non esiste. Prima c’era, li ho combattuti qui per 6 anni. Ma ora non possono affrontarci direttamente, perciò si mimetizzano fra la gente e attaccano». Appena esce dall’ufficio, si tradisce. Bisbiglia qualcosa a un suo compagno: hanno arrestato 50 membri del gruppo. Ma non si può sapere dove, né se questo sia vero. Nel villaggio la gente non parla. Sembra terrorizzata di fare nomi di qualsiasi gruppo armato presente nell’area. Forse hanno paura degli stessi Talebani. Alcuni dicono che durante la notte la gente sparisce, viene uccisa o alcune persone bussano alle porte cercando gente: «Forse sono Talebani, forse Isk, non sappiamo. Ci sono molti gruppi operativi nell’area», dicono Osman e Nurislam, azzardandosi a parlare, lontano dal posto di comando. E nessuno sa chi siano, o fanno finta di non saperlo per il proprio bene. Uno scenario spaventoso. L’omertà è di casa. «Sappiamo chi commette gli attacchi, ma non possiamo fare nomi», continuano. I civili sentono la mancanza di sostegno: «I Talebani dicono che ci danno sicurezza. Quando qualcuno viene ucciso dicono che non sanno chi sia o incolpano l’Isk. Ma non sappiamo cosa fare. Abbiamo paura». Nel quartiere di Bihsud, sull’altra sponda del fiume Kabul che divide Jalalabad, la popolazione esce per strada per vedere i danni fatti dall’attentato avvenuto nella mattinata. «Non possiamo sapere chi sia il responsabile di questo attacco», commenta un avvocato anonimo che vive nella zona: «Alcuni dicono che sia l’Isk ma qui siamo in pericolo non solo a causa loro. Ci sono altri gruppi che la notte uccidono le persone. Anche i Talebani». Ma anche lui non dice nulla di più. Il terrore è tornato. Come prima. E non solo a Jalalabad, visto che il raggio di azione dell’Isk sembra essersi espanso in diverse provincie, colpendo la città settentrionale di Kunduz, Kandahar e la settimana scorsa anche un ospedale nel cuore di Kabul. Sono molte le informazioni che sostengono la tesi che le cellule dell’Isk opererebbero in varie zone del paese, compreso al confine con il Tajikistan, a Kunduz e Takhar, dove alcuni civili avvertono: «miliziani dell’Isk operano in queste zone. Non si è al sicuro». Informazioni confermate, off the records da alcuni comandanti Talebani. L’Isk non è un fenomeno nuovo in Afghanistan, soprattutto nella provincia di Nangarhar, dove è presente da ormai sei anni, durante i quali ha anche controllato determinate aree in maniera quasi permanente. Fra il 2019 e il 2020, attorno a Jalalabad c’erano molte “terre di nessuno”, che non appartenevano né al governo né ai Talebani e dove i terroristi dell’Isk potevano infiltrarsi facilmente, avvicinandosi al centro città. Decimati dall’esercito del governo precedente e dai Talebani, che li hanno combattuti per anni, i terroristi (soprattutto provenienti da paesi stranieri, o ex-membri del gruppo terrorista Tehrik-i-Taliban Pakistan) sono risorti ultimamente. E si sono sviluppate molte teorie nel corso degli anni. Secondo 4 ex-parlamentari del governo precedente, fra cui la parlamentare Farah Belqis Roshan, la presidenza di Ashraf Ghani avrebbe sostenuto i terroristi, insieme allo zampino degli Stati Uniti, «mandando loro rifornimenti e uomini con aerei». Affermazioni pesanti, che trovano però conferma attraverso due canali molto forti: un ex-alto comandante dell’ex Nds, i temuti servizi segreti del governo repubblicano caduto ad agosto e pilotato dagli Usa, anonimo per ragioni di sicurezza, afferma infatti che «l’ISK è un progetto internazionale per tenere a bada i Talebani e per creare il caos nella regione. Posso confermare tutto ciò. E non solo, ma anche che il progetto non è per nulla finito e che qualcuno sta cercando di ricreare una nuova guerra civile con altre milizie attive. Ecco perché troviamo cellule in molte provincie, soprattutto nel nord come a Takhar, Badakhshan, Kunar e Nangarhar. Ci sono arabi, uiguri, tagichi, uzbechi e altri». Anche il suo rivale, Mawlawi Abu Abdallah (nome cambiato), l’attuale capo di una delle più forti unità dell’intelligence talebana, la 071, il quale si esprime sulla tesi degli ex-parlamentari: «È confidenziale ma lo confermo». Secondo il portavoce del ministro degli Interni Serajuddin Haqqani, Qari Saeed Khosti lo scopo dell’Isk sarebbe quello di «indebolire i Talebani. Sono un progetto straniero contro di noi. Ma non hanno radici nella cultura afghana e la gente non li sostiene. L’Isk non è un problema troppo importante. Non bisogna dar loro troppo adito perché è proprio questo che li rende più forti. È vero, abbiamo arrestato molti loro affiliati, ma finisce qui». Khosti non vuole soffermarsi troppo a parlare di Isk. Secondo lui, i problemi che mettono in ginocchio il paese sono altri: «Stiamo affrontando una crisi umanitaria ed economica molto preoccupante. Soprattutto a causa del congelamento di fondi afghani da parte degli Stati Uniti e della Banca Mondiale. Sono i soldi del popolo afghano, ne hanno diritto. E senza questi non possiamo lavorare e fornire assistenza alle provincie. La gente ha bisogno di cibo, medicine, materiale, di soldi, soprattutto con l’arrivo dell’inverno», esclama, riferendosi anche al problema alimentare che sta causando un’impennata della malnutrizione nel paese. Difficile dire, quindi, che potere abbia lo Stato Islamico nel paese e se davvero ci siano questi giochi di potere dietro a tutto ciò. Ma ciò che è sicuro è che ogni giorno ci sono arresti di sospettati. I Talebani, per strada, sono molto nervosi. Ciò nonostante, già durante gli ultimi anni le defezioni talebane verso lo Stato Islamico erano molte. Soprattutto dopo gli accordi di Doha del febbraio 2020 quando molti Talebani si sono sentiti traditi. Ma ci sono anche ragioni economiche. Una spia dell’Isk, nella provincia centrale di Daikondi, raccontava in maniera pacata e silenziosa, in un luogo segreto, come avesse deciso di passare all’Isk dopo aver combattuto per decenni con i Talebani: «Ricevo un salario di 500 dollari mensili e l’Isk combatte per il vero Islam», erano le sue parole. Secondo un articolo del Wall Street Journal apparso la settimana scorsa, addirittura alcuni membri dell’ex-esercito repubblicano avrebbero scelto la via dell’estremismo. Per fame e soldi in un paese dilaniato da una crisi economica lancinante che ha messo in ginocchio la maggior parte della popolazione, si è pronti a tutto. L’ex-comandante delle Nds ammette che l’Isk «non è forte. Ma è sufficientemente armato e organizzato da creare caos in una situazione di per sé già allo sbando. Ci sono interessi a destabilizzare l’Afghanistan per non permettere a determinati paesi della regione, come la Cina, di avere il sopravvento». E se questo fosse provato vero, significherebbe che l’Isk è solamente il primo sintomo di una lunga serie che forse porterà a una nuova guerra civile nel paese. «Vogliono creare una nuova Siria», tuona, sul finire, l’ex-comandante Nds. «In questo paese, operano agenti e spie di tutti i paesi. È una guerra silenziosa», conclude il Mawlawi Abu Abdallah. Un nuovo “grande gioco” in salsa 2.0.

Lorenzo Cremonesi per il "Corriere della Sera" il 3 novembre 2021. La prima esplosione scuote il centro di Kabul attorno alle 12.40. Segue una battaglia intensa a colpi di mitra e bombe a mano. Il combattimento si estende a tutto il quartiere di Wazir al Barkhan, quindi raggiunge la vecchia zona verde di Shareh Naw, dove sono concentrate le ambasciate e, sino alla vittoria talebana di Ferragosto, si trovava il comando della coalizione internazionale a guida americana. Una seconda esplosione avviene verso le 13.20. I talebani fanno arrivare le loro forze speciali con diversi elicotteri. A questo punto è chiaro per tutti che si tratta di un attacco ben organizzato contro il grande edificio di Sardar Mohammad Daud Khan, che è il vecchio ospedale militare. Circa 400 letti, una volta utilizzati dalle forze di sicurezza afghane, oggi dai combattenti talebani. «La città è stata completamente paralizzata dalla battaglia. Un acre fumo nero ha invaso le vie. Tutta la zona è stata presidiata da centinaia di posti di blocco. Nessuno è potuto uscire per ore. E il cessato allarme è arrivato soltanto dopo le 18. C'è molta confusione, l'incubo del ritorno degli attentati preoccupa la popolazione», spiega al Corriere un testimone il cui ufficio è vicino all'ospedale militare. Accadeva ieri a Kabul. Il primo bilancio: 25 morti e una cinquantina di feriti. L'ospedale locale di Emergency ha ricoverato 21 feriti. Non è chiaro se tra le vittime si contino pazienti dell'ospedale militare, sicuramente ci sono medici e infermieri, oltre a guerriglieri talebani. Tra questi si trova anche Mawlawi Ahmadullah Mokhles, che fu il primo dei loro leader a conquistare Kabul. I portavoce talebani segnalano che «il commando era composto da 6 terroristi», di cui 2 sarebbero stati catturati, gli altri uccisi. Loro negano che gli aggressori siano riusciti ad entrare nell'ospedale. Però testimoni locali raccontano di combattimenti all'interno dell'edificio subito dopo la prima esplosione, pare causata da un kamikaze in moto. In serata non c'erano dichiarazioni ufficiali circa l'identità del commando. Ma l'Isis ha rivendicato la paternità dell'attacco nella notte. L'ultimo di una lunga serie. Appare infatti evidente che l'Afghanistan è ormai diventato terreno di sfida aperta tra il nuovo governo talebano, specie le sue correnti più nazionaliste interessate al riconoscimento della comunità internazionale, e invece le colonne locali del Califfato, meglio note come Isis-Korashan. Pare contino oltre 2.500 militanti, la maggioranza stranieri, che secondo l'intelligence Usa potrebbero cercare di lanciare operazioni sul territorio americano «entro sei mesi». Gli attentati più gravi in Afghanistan, dopo quello all'aeroporto di Kabul il 26 agosto (170 morti), sono ripresi ai primi di ottobre. Una moschea nel centro della capitale presa di mira da un kamikaze mentre era riunita in preghiera la dirigenza talebana. Seguì l'8 ottobre il massacro di fedeli sciiti-hazara nella moschea di Kunduz: almeno 43 morti e 140 feriti. E un altro simile a Kandahar con una cinquantina di morti e oltre 70 feriti. Ma è nella provincia orientale di Nangarhar, lungo il confine col Pakistan, dove lo stillicidio di violenze si sta trasformando in guerra guerreggiata. La pesante censura imposta dai talebani sui media rende difficile fornire cifre precise. Tuttavia, non passa giorno senza incidenti, specie a Jalalabad, il capoluogo. I talebani tendono a celare il numero dei loro caduti e presentano le condanne a morte di locali come «punizioni di criminali», che in realtà sono attivisti di Isis, spesso impiccati dopo processi veloci.

Da repubblica.it l'8 ottobre 2021. E' di almeno 50 morti e 90 feriti il bilancio, ancora provvisorio, dell'esplosione che ha investito una moschea sciita nella provincia di Kunduz, nel nord est dell'Afghanistan. Un video mostra corpi senza vita circondati da detriti nella moschea, luogo di culto della minoranza sciita. Per ora nessun gruppo terroristico ha rivendicato l'attentato, ma è stato precisato che si è trattato di un attacco suicida. L'esplosione segue diversi altri attacchi - incluso uno in una moschea di Kabul - poi rivendicati o attribuiti all'Isis. Una fonte talebana, parlando in condizioni di anonimato, ha fatto sapere che i morti sono almeno 30 e i feriti decine, ma poi il bilancio è stato rivisto purtroppo al rialzo. Gli attacchi ribadiscono che la sicurezza rappresenta un problema per la leadership talebana che ha preso il potere ad agosto e che ha condotto diverse azioni contro Lo Stato islamico.

Il più violento da quando le forze statunitensi e la Nato hanno lasciato il Paese. Afghanistan, attentato Isis nella moschea durante la preghiera: almeno 60 morti e 100 feriti. Elena Del Mastro su Il Riformista l'8 Ottobre 2021. La situazione in Afghanistan continua a essere calda. Non si fermano gli attentati kamikaze e ancora un nuovo attentato colpisce i civili. Si tratta del più sanguinoso da quando le forze statunitensi e la Nato hanno lasciato il Paese a fine agosto e i talebani hanno preso il controllo del Paese. Nell’esplosione avvenuta in una moschea sciita di Kunduz, nel nord dell’Afghanistan, si registrano infatti almeno 60 morti e oltre cento feriti. Dost Mohammad Obaida, vice capo della polizia della provincia, ha riferito che l’attentatore suicida potrebbe essersi mescolato tra i fedeli all’interno della moschea, gremita per la preghiera del venerdì. La maggior parte dei presenti sarebbe morta o gravemente ferita. “Assicuro ai nostri fratelli sciiti che i talebani sono pronti a garantire la loro sicurezza”, ha detto Obaida, aggiungendo che è in corso un’indagine. A poche ore dall’esplosione, l’attacco è stato rivendicato dall’Isis. L’esplosione di Kunduz è avvenuta nella moschea di Gozar-e-Sayed Abad. La preghiera di mezzogiorno del venerdì è il momento clou della settimana religiosa musulmana e le moschee sono sempre affollate. Un testimone ha raccontato che stava pregando al momento dell’esplosione e ha riferito di aver visto molte vittime. Le foto e il video della scena mostrano i soccorritori che trasportano un corpo avvolto in una coperta dalla moschea a un’ambulanza. Le scale all’ingresso della moschea sono coperte di sangue. I detriti dell’esplosione coprono il pavimento e l’alto soffitto della moschea è carbonizzato. Un residente della zona, Hussaindad Rezayee, ha detto di essersi precipitato alla moschea non appena udita l’esplosione. “Sono venuto a cercare i miei parenti, la moschea era piena”, ha spiegato. Il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, ha annunciato che le forze speciali talebane sono arrivate sulla scena e che stanno indagando sui fatti. La leadership talebana è alle prese con una minaccia crescente proveniente dall’affiliato locale dello Stato islamico, noto come Stato islamico nel Khorasan. I militanti dell’IS, che hanno dichiarato guerra alla minoranza sciita afgana, hanno intensificato gli attacchi per colpire i loro rivali, recentemente ci sono già stati due attentati a Kabul. (Fonte:LaPresse)

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Afghanistan, blitz talebani in covo Isis: uccisi diversi insorti. Redazione Tgcom24 il 4 ottobre 2021. Le forze talebane hanno fatto irruzione nel nascondiglio di un affiliato dello Stato Islamico nella capitale afghana e hanno ucciso diversi insorti, poche ore dopo un attentato mortale fuori da una moschea a Kabul. Lo hanno riferito gli stessi talebani. L'attentato di domenica fuori dalla moschea di Eid Gah ha ucciso cinque civili e, sebbene non sia stata avanzata alcuna rivendicazione, i sospetti sono caduti sul gruppo dello Stato Islamico.

Afghanistan: media, almeno 12 morti e 32 feriti a Kabul. (ANSA il 3 ottobre 2021) - E' di almeno 12 morti e 32 feriti il bilancio dell'attentato alla moschea di Kabul mentre all'interno si celebrava il funerale della madre del portavoce dei Talebani. Lo riferisce il corrispondente di al Jazeera citando fonti della sicurezza. La moschea Id Gah è la seconda della capitale afghana. Secondo le fonti citate da al Jazeera tre persone sono state arrestate.

Da rainews.it il 3 ottobre 2021. Diverse persone sono rimaste uccise nell'attacco a una moschea a Kabul. Lo riferiscono fonti dei talebani. Emergency riferisce invece di almeno 4 feriti: "Al momento 4 pazienti ricevuti nel nostro ospedale" ha scritto su Twitter l'organizzazione. Il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, ha dato notizia su Twitter di una bomba vicino alla moschea Eid Gah, parlando della "morte di vari civili". Fonti dei Talebani, citate dall'agenzia Sputnik, parlano di 12 vittime, mentre secondo fonti citate dalla tv  afghana Ariana, i morti sarebbero meno di una decina. Il portavoce del ministero dell'Interno Qari Sayeed Khosty ha confermato intanto che l'attacco è avvenuto "tra una folla di civili vicino all'ingresso della moschea di Eid Gah". Altri su Twitter scrivono che l'attentato sarebbe avvenuto durante una cerimonia per commemorare la morte della madre di Mujahid, scomparsa da poco. L'aeroporto di Kabul è pronto a riprendere i voli interni all'Afghanistan e anche quelli internazionali, almeno con i Paesi vicini: lo hanno dichiarato le autorità dell'aviazione afghane, citate dal canale afghano Tolo News. Il Kabul International accoglie già alcuni voli dal Qatar, dagli Emirati arabi e dal Pakistan. Il portavoce dell'autorità dell'aviazione, Mohammad Naeem Salehi, ha detto i Paesi confinanti sono stati invitati a riprendere a violare su Kabul.   "Dal punto di vista tecnico non ci sono ostacoli ai voli internazionali. Aspettiamo di sapere dai Paesi vicini se intendono riprendere i voli su Kabul oppure no. Per il momento,vanno avanti normalmente i voli domestici". Diversi afghani, che sono riusciti a ottenere visti per il Pakistan e l'Iran - scrive Tolo News - si lamentano che il prezzo dei biglietti sono saliti alle stelle. "La gente ha visti e passaporti ma i biglietti non sono disponibili. I prezzi sono schizzati in alto a Kabul", lamenta un residente della capitale,sempre citato dall'emittente. Masoud Bina, a capo dell'associazione delle agenzie turistiche afghane, spiega a Tolo News che se prima un biglietto per il Pakistan costava fra i 150 e i 200 biglietti, ora si arriva a 1.200 dollari. Tre cadaveri sono stati esposti dai Talebani nella provincia del Nangarhar, nell'Afghanistan orientale. Lo ha riferito l'agenzia di stampa Bakhtar. Un portavoce dei Talebani ha confermato la notizia all'agenzia Dpa sostenendo che non è chiaro chi sia dietro gli omicidi, mentre fonti locali hanno sostenuto che si tratti di tre sospetti affiliati ad Isis-K, il ramo afghano del sedicente Stato islamico, “giustiziati” dai Talebani. Due dei cadaveri sono stati impiccati a Jalalabad, il capoluogo della provincia, e un terzo nel distretto di Chaparhar. La scorsa settimana aveva suscitato orrore l'immagine dei corpi di altri quattro uomini, tutti accusati dai Talebani di essere dei rapitori, appesi in diverse località di Herat, nell'Afghanistan occidentale. Su uno dei cadaveri, i Talebani avevano messo un cartello di avvertimento: ''chiunque oserà rapire qualcuno verrà punito in questo modo''.

"I talebani? Hanno ragione". Gli islamici assolvono i terroristi in tv. Marco Leardi il 28 Settembre 2021 su Il Giornale. L'inviata di Striscia la Notizia chiede agli islamici di Milano di prendere le distanze dai fondamentalisti tornati al potere in Afghanistan. La reazione è sconvolgente: alcuni di loro giustificano i talebani. I talebani? "Secondo me hanno ragione". Anzi, di più. "Sono proprio bravi". L'altra faccia dell’Islam di casa nostra, quella più inquietante e problematica, si è disvelata in tv davanti ad una semplice domanda: "Vuole prendere posizione contro il fondamentalismo?". Lo schiacciante interrogativo, posto dall'inviata di Striscia la Notizia Rajae Bezzaz ad alcuni intervistati di cultura musulmana, ha riservato più di qualche amara sorpresa. In un servizio trasmesso ieri sera, la reporter del programma di Canale5 aveva cercato di capire cosa pensassero gli islamici di Milano dei talebani tornati al potere in Afghanistan. L'esito dell’esperimento è stato però piuttosto sconvolgente. Aggirandosi per le strade del capoluogo lombardo, l'inviata di Striscia aveva chiesto ad alcuni musulmani di scagliare simbolicamente una ciabatta contro il cartonato di un talebano armato. Un gesto quasi goliardico ma allo stesso tempo dal fortissimo significato culturale. Eppure, di fronte alla facile possibilità di prendere le distanze dagli estremisti, la maggior parte degli intervistati si è rifiutata di esprimere il dissenso. Anzi, alla visione della sagoma del talebano, uno degli interpellati ha usato toni assolutori: "È vero, è un terrorista… ma in fondo è sempre un musulmano". Un altro, invece, ha addirittura esclamato: "Secondo me ha ragione". A quel punto, a nulla è valso il tentativo dell’inviata Rajae di spiegare che i talebani avessero sottomesso le donne imponendo loro il velo integrale. "Mi sembra giusto, per il musulmano è sempre giusto il burka!", ha ribattuto un intervistato. E un altro ancora, indicando il cartonato dell’islamista armato, ha osservato: "Lui è bravo". Voci e testimonianze raccolte in pieno giorno per le vie di Milano e non in un sobborgo di Kabul. Fortunatamente, davanti alle telecamere di Striscia sono apparse anche alcune donne che – se pur in netta minoranza – hanno avuto il coraggio di abbattere il simbolico bersaglio. Il loro comportamento ha però scatenato anche reazioni sconsiderate proprio all'interno della comunità islamica. Ad un tratto, infatti, un musulmano ha dapprima inveito contro la coraggiosa Rajae, che non si è lasciata intimidire. Poi sono scattate le minacce nei confronti di una madre che aveva "osato" protestare contro l'oppressione del regime di Kabul verso le donne e le bambine. "Tu sei una gran put…! Hai colpito quell’immagine e non ne conosci il valore", ha esclamato l'individuo riferendosi all'effige del talebano. In tv, l'allarmante istantanea di un'integrazione in alcuni casi lontana, se non addirittura impossibile.

Marco Leardi. Classe 1989. Vivo a Crema dove sono nato. Ho una Laurea magistrale in Comunicazione pubblica e d'impresa, sono giornalista. Da oltre 10 anni racconto la tv dietro le quinte, ma seguo anche la politica e la cronaca. Amo il mare e Capri, la mia isola del cuore. Detesto invece il politicamente corretto. Cattolico praticante, incorreggibile interista.

Estratto dell'articolo di Paolo Brera per "la Repubblica" il 21 settembre 2021. […] «Via subito da qui, l'Isis ci sta attaccando di nuovo». Corriamo via con il fiato in gola. Nel mondo capovolto di Jalalabad, a una settantina di chilometri dal confine pachistano, i talebani sono i buoni che ci proteggono dal male. Da quattro giorni Jalalabad è sotto attacco. È proprio qui che dopo la nascita del nuovo regime di Kabul i miliziani dell'Isis-K hanno ripreso a colpire i governativi talebani con ordigni artigianali controllati a distanza: è la stessa tecnica che i talebani utilizzavano quando il governo era appoggiato dalla coalizione internazionale, ma stavolta loro sono le vittime. Da quando hanno preso il potere, il 17 agosto, hanno liberato le strade dalle barriere di cemento e dai posti di blocco sostituendoli con check point leggeri, rivendicando la sicurezza ritrovata come un mantra di buon governo. Ma ecco Jalalabad. Da quattro giorni, qui l'Isis attacca e uccide. […] Gli allarmi per attacchi dell'Isis si moltiplicano, solo ieri le forze speciali hanno disinnescato tre ordigni a controllo remoto prima che facessero altre stragi. Il quarto ha ucciso i due talebani a Farma Hada, nella sesta zona della città, accanto a un magazzino del World Food Programme nella prima periferia. «Abbiamo tutti la sensazione nitida che qui a Jalalabad sia iniziata la grande guerra tra l'Isis e i talebani», dice Atal Stanikzai, 27 anni, direttore di Radio Hamisha Bahr. «In questa provincia, in Nangarhar, abbiamo 21 gruppi terroristici attivi. Alcuni distretti non sono mai stati controllati dal governo centrale, sono terreno libero per gli insorgenti. La situazione in città è pessima, la gente è terrorizzata ed è convinta che l'Isis-K sia una forza di destabilizzazione finanziata dai Paesi confinanti, dall'Iran e dal Pakistan, dalla Cina e dall'Arabia». […] «È il caos. Isis e talebani si combattono da anni - dice il 32enne Farid Ahmad Asteqlal - ma ora l'Isis ha lanciato l'attacco diretto. Bombe, spari, ogni giorno è peggio: è evidente che è iniziata la guerra. Ma la gente non vuole gli uni né gli altri: vuole pace, lavoro e denaro per vivere».

Afghanistan e Libia: tutte le armi in mano ai terroristi islamici. Come possono usarle. Domenico Affinito e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera 21 settembre 2021. Afghanistan, Libia e Siria sono le tre crisi che oggi alimentano l’arcipelago dell’estremismo islamico. Tre Paesi fuori controllo dove l’intervento dell’Occidente ha acuito il rischio per la sicurezza globale. A Doha, nei mesi scorsi, gli americani hanno trattato il ritiro dall’Afghanistan con i talebani, la promessa era: noi ce ne andiamo, ma voi non consentirete ad al Qaida, o altri gruppi estremisti, di operare nel Paese. Sappiamo come è andata. E quando i Paesi si disfano, le armi restano. Quali e quante armi, e dove vanno a finire? 

Le armi dell’esercito russo. In Afghanistan ci sono. Ci sono tutte quelle abbandonate dai sovietici dopo la ritirata del 1989: mitragliatrici pesanti NSV e KPV, e le più moderne Kord (russe). I loro colpi penetrano muri e mezzi blindati. Sono in grado di colpire fino a oltre 2000 metri e possono abbattere aerei in volo a bassa quota o in fase di decollo e atterraggio. Di solito sono impiegate in postazioni protette o montate su automezzi (le chiamano «tecniche»), come succede per i razzi multipli da artiglieria Grad. Numerosi i razzi a spalla, come l’RPG 7 ritratto nelle foto di molti mujāhidīn dell’epoca. Nascono come armi anticarro ma sono impiegati anche nelle aree urbane e come armi antiaeree. Diffusi in tutto il Paese i mortai (come l’82 BM 37), utilizzati continuativamente anche in questi 20 anni per attacchi e attentati anche a Kabul, da un quartiere all’altro, soprattutto per attaccare la zona dei palazzi del Governo. Ci sono poi gli SPG9 da 73 mm: armi anticarro leggere usate un po’ per tutte le tipologie di combattimento, sia su treppiede che automontati. Questo arsenale è finito quasi tutto nelle mani dei talebani, e nelle loro mani è rimasto dopo essere stati cacciati dalle forze alleate nel 2001, nascosto e sotterrato nelle cave. 

Le armi americane. Oggi si aggiunge tutto l’equipaggiamento americano in dotazione al disciolto esercito afgano: 75.000 veicoli militari, 600.000 fra fucili d’assalto come l’M16 e l’M4, mitragliatrici pesanti, armi anticarro, artiglieria leggera con cannoni e mortai, 16.000 visori notturni, illuminatori laser. Questo vuol dire che sono in grado di combattere e colpire con precisione anche di notte. I talebani si sono impossessati dei rilevatori biometrici con le impronte digitali e le scansioni oculari degli afghani che hanno collaborato con le forze alleate negli ultimi 20 anni. Più di 200 fra aerei ed elicotteri. Se saranno in grado di pilotarli e manutenerli, dovranno fare i conti con il loro utilizzo perché il controllo dello spazio aereo e la supremazia aerea (vuol dire che gli americani possono ancora effettuare operazioni aeree quasi senza limitazioni) è ancora in mano americana: le basi Usa sono in tutti i Paesi confinanti, ad eccezione dell’Iran. Poi un centinaio di droni. Anche in questo caso occorre saperli pilotare, e poi serve il collegamento radio che gli americani possono bloccare con azioni di disturbo e accecamento elettronico. Il grande problema sono i sistemi di abbattimento aereo e i talebani hanno i missili Stinger forniti dagli Usa durante l’occupazione russa: sono sistemi d’arma composti da un lanciatore da spalla e un missile che impiega il puntamento a infrarosso passivo e che segue autonomamente la traccia di calore del velivolo. Fu questo tipo di arma a determinare la disfatta dell’esercito russo. Non è detto che oggi le batterie siano ancora utilizzabili, ma i talebani hanno anche i Misagh 1 e 2 di produzione iraniana e russa (ne sono spariti qualche migliaio durante la disfatta libica e nessuno sa che fine abbiano fatto). Queste armi hanno un raggio d’azione di 5 km e possono abbattere aerei civili o militari fino a 3500 metri di quota, compromettendo la sicurezza della supremazia aerea Usa in Afghanistan. 

Esplosivo e bomb maker. Le quantità di munizioni d’artiglieria sono enormi: quelle russe perfettamente conservate in scatole sigillate e quelle americane, dalle quali viene recuperato esplosivo da innesco e relative spolette per realizzare attentati o per attentatori suicidi. In questo caso servono soggetti con capacità ingegneristiche, si chiamano «bomb maker» e sono figure molto quotate fra le varie formazioni terroristiche; le forze speciali occidentali avevano missioni di intervento cinetico su questi «elementi» (ovvero colpirli per farli fuori). Analisti e specialisti intelligence hanno dimostrato che l’eliminazione anche di un solo «bomb maker» provoca un rallentamento degli attentati anche in aree piuttosto estese. Purtroppo sono difficili da individuare, in più la presenza di vent’anni di truppe occidentali, con ottime capacità di scoperta e difesa da ordigni esplosivi, ha contribuito ad elevare le capacità tecniche e tecnologiche dei «bomb maker». In sostanza se 20 anni fa i talebani furono cacciati con lo sbarco di 40.000 militari, con lo scenario di oggi i numeri sarebbero ben altri. Tra armi sovietiche e americane stiamo parlando di arsenali sufficienti a sostenere guerriglie per decenni, e il rischio più immediato è che l’Afghanistan ritorni a essere una base di addestramento e rifugio di formazioni terroristiche islamiche. Nei 20 anni di presenza degli eserciti occidentali in Afghanistan, il governo di Kabul non ha mai controllato le periferie del Paese, lì dove si erano ritirati i talebani dopo il 2001 e dove sono cresciuti e hanno prosperato, soprattutto grazie al narcotraffico, i gruppi armati locali. Questa estate hanno riconquistato il Paese in due settimane, e nella capitale sono tornati anche gli altri protagonisti dell’estremismo islamico, anche loro armati fino ai denti: bin Laden era un grande esperto a sfruttare le caverne naturali dell’Afghanistan, dove è stata stipata parte dell’arsenale russo. Oggi i gruppi terroristici sono almeno sei, tutti in competizione fra loro, e la superiorità è valutata in base alle atrocità che commettono. E tutti vogliono entrare a far parte del nuovo governo talebano. Vediamo quali sono e chi li sostiene. 

I gruppi del terrore.

ISIS-Khorasan. Il più estremo e violento di tutti i gruppi militanti jihadisti in Afghanistan, colpevole dell’attentato all’aeroporto di Kabul del 26 agosto che ha ucciso 170 persone. È antagonista dei talebani, che considera apostati. Ha sede nella provincia orientale di Nangarhar. Nasce nel gennaio 2015 al culmine del potere dell’Isis in Iraq e Siria, della cui galassia fa parte. Recluta jihadisti pakistani e afghani, in particolare ex talebani che non considerano la propria organizzazione abbastanza estrema. In questi anni ha preso di mira le forze di sicurezza e i politici afgani, i talebani, le minoranze religiose, le forze statunitensi e Nato e le agenzie internazionali, comprese le organizzazioni umanitarie. Riceve finanziamenti da simpatizzanti stranieri tramite le reti islamiche hawala, attraverso le proprie imprese criminali e tramite sussidi diretti dall’ISIS.

Lashkar-e-Taiba. Nasce in Afghanistan nel 1987 in chiave antisovietica, e negli anni ha goduto del sostegno finanziario di al Qaida. Il suo quartier generale sarebbe a Muridke, vicino Lahore, ma gestisce 16 campi di addestramento nella parte pakistana del Kashmir. Il suo obiettivo è quello di liberare il Kashmir indiano, dove vorrebbe instaurare uno stato islamico, ma è tornato a operare in Afghanistan nel 2020. Riceve finanziamenti da donatori in Medio Oriente, principalmente dall’Arabia Saudita, e attraverso simpatizzanti in Pakistan.

Jaish-e-Mohammed. Gruppo estremista islamico sunnita con sede in Pakistan. Conduce principalmente attacchi terroristici nella regione amministrata dall’India del Jammu e Kashmir con l’obiettivo di porre la regione sotto il controllo del Pakistan. Fondato nel 2000 con il sostegno dei talebani afghani, di Osama bin Laden e di diverse organizzazioni estremiste sunnite in Pakistan. Secondo l’Onu nel maggio 2020 In Afghanistan aveva circa 230 combattenti armati dislocati con le forze talebane. È finanziato da fondazioni di beneficenza islamiche e da legittimi interessi commerciali gestiti dall’Al-Rehmat Trust e dall’Al-Furqan Trust.

Lashkar-e Jhangvi. Gruppo militante sunnita wahhabbita pakistano nato nel 1996. Ha condotto negli anni diversi attacchi anti-sciiti in Pakistan e in alcune aree dell’Afghanistan, dove diversi suoi membri sono fuggiti sotto la protezione dei talebani nel 2001. Ha stretti legami con al Qaida, tanto che alcuni membri sono affiliati a entrambi. Riceve fondi da attività criminali come l’estorsione, da aziende private dell’Arabia Saudita e da ricchi donatori in Pakistan, in particolare da Karachi.

Al Qaida. Da sempre presente in Afghanistan, dove nasce negli anni ‘80 da una rete di reclutamento per la resistenza all’occupazione sovietica e, per questo, ha goduto anche di finanziamenti occidentali. Negli anni ‘90 si trasforma in una rete globale di cellule e gruppi affiliati contro i presunti nemici dell’Islam. Dopo l’uccisione di Osama bin Laden nel 2011, il gruppo è guidato dal medico egiziano Ayman al-Zawahiri, e si ritiene viva nascosto nella regione di confine tra Afghanistan e Pakistan. Riceve fondi da enti di beneficenza e donatori nel Golfo Persico, ma anche dai suoi affiliati, attraverso il rapimento a scopo di riscatto e l’estorsione.

Haqqani Network (talebani). Fa parte della galassia talebana. La sua base è nelle regioni a sud est di Kabul, lungo i 550 km di confine con il Pakistan: una terra di nessuno dove transitano droga, armi e mujāhidīn. È un hub strategico per i jihadisti dell’Asia centrale e del sud-est asiatico. Gode dell’appoggio dei servizi segreti pakistani e riceve fondi dall’import-export legale e illegale dai Paesi del Golfo Persico. È responsabile di alcuni degli attacchi più sanguinosi degli ultimi 20 anni: nel settembre 2009 uccide sette paracadutisti italiani a Kabul e tre mesi dopo sette agenti Cia all’interno della base americana Chapman di Khost. È guidato da Khalil Haqqani, oggi capo della sicurezza a Kabul, e dal nipote Sirajuddin Haqqani, appena nominato ministro dell’interno del nuovo governo. Ricercato dall’FBI con obiettivo KK (vivo o morto). Ed è con lui che dovremmo dialogare.

Libia, le santebarbare depredate. La Libia già ben prima che Gheddafi fosse destituito e ucciso e iniziasse la guerra civile, aveva già dieci volte le armi necessarie al suo esercito. Proprio l’ex dittatore, durante gli anni di tensione politico militare con gli Stati Uniti, aveva predisposto centinaia di scorte di armi e munizioni in tutto il Paese per fronteggiare un’eventuale invasione via terra con la guerriglia della «Milizia popolare». La stessa milizia che dopo il 2011 ha saccheggiato e messo in vendita quelle armi a «chi ne aveva bisogno». Tutte armi di produzione sovietica. Secondo l’analista indipendente dell’Aies, Wolfganf Pusztai, dagli arsenali sono scomparsi tra 600 mila e un milione di pistole, fucili d’assalto Kalashnikov. I depositi, oggi vuoti, contenevano anche mitragliatrici, lanciarazzi anticarro RPG, mortai, proiettili, munizioni, esplosivi (comprese le mine), apparecchiature di segnalazione, artiglieria antiaerea, missili anticarro e sistemi missilistici antiaereo SAM a corto raggio trasportabile a spalla con guida a infrarosso. Scomparsi i missili SA24 assistiti da radar di scoperta, quello in grado di cercare da solo il bersaglio, e un numero imprecisato di missili antiaereo a spalla SA7 Grail e che sono in grado di colpire un aereo a 4 km di distanza. C’erano anche armi occidentali, come il cannone anticarro senza rinculo americano M40, ideale per essere montato su pick-up. Molte delle armi erano ancora nella loro confezione originale e, nel corso della guerra civile, hanno preso la via della Siria attraverso Turchia e Libano, finendo sul mercato nero a prezzi che vanno da 2000 a 150 mila dollari (qui le ultime «quotazioni» di mercato conosciute). Le forze speciali statunitensi ne hanno trovati in Afghanistan. 

I signori del contrabbando libico. Uno dei protagonisti del contrabbando è Mahdi al-Harati, comandante di spicco della Brigata rivoluzionaria di Tripoli, che ha fondato in Siria la brigata salafita Liwāʼ al-Umma. Il traffico di armi è diventato una delle principali attività anche nel sud della Libia dove, in pieno deserto del Sahara, vivono le tribu nomadi Tuareg e Tebu e dove, da sempre, i confini sono estremamente porosi. Le armi prendono la via del Mali, dove i Tuareg hanno stretti rapporti con il gruppo di al Qaida nel Maghreb islamico e altre organizzazioni terroristiche: Mouvement national de libération de l’Azawad (MNLA), Ansar Dine e Mouvement pour l’unicité et le jihad en Afrique de l’Ouest (MUJAO). I Tebu, invece, controllano il contrabbando verso Ciad e Sudan, dove cooperano con bande locali e delegati di organizzazioni terroristiche come ISIS e Boko Haram. Grandi quantità di armi dalla Libia sono state trafficate illegalmente a Gaza, Sinai e Siria, aumentando la capacità militare dei gruppi armati estremisti. Questo succede quando i paesi si disfano.

Altre vie minori di commercio sono state l’Algeria, l’Egitto (per giungere a Gaza) e la Tunisia, dove i rifugiati libici, dopo la fuga, hanno venduto le armi che avevano portato con loro. In seguito i jihadisti tunisini si sono trasferiti in Libia per l’addestramento prima di unirsi alla guerra in Siria. Sono stati costruiti nel sud e nell’ovest della Tunisia diversi nascondigli di armi, preparandosi per un’eventuale rivolta più ampia. Dopo il cessate il fuoco del 2020, il flusso di armi è diminuito. Continuano invece ad arrivare dalla Turchia forniture di ogni tipo, inclusi i mini-droni, impedendo all’operazione UE IRINI di controllare le sue navi. La Russia sta fornendo i sistemi di difesa aerea, ricambi, e armi per l’aeronautica militare dell’Esercito Nazionale Libico del generale Khalifa Haftar che, attraverso società private, riceve anche mine, sempre dalla Russia, e lanciarazzi dalla Serbia. 

La mappa del terrore mondiale. Secondo il Global Terrorism Index 2020, redatto dall’Institute for Economics & Peace (IEP), il principale attore mondiale del terrorismo rimane l’Isis. Sono 20 i Paesi al mondo nei quali l’impatto dei gruppi terroristici è massimo. Il primo è l’Afghanistan: pesa per il 16,7% del suo Pil. Seguono Iraq, Nigeria, Siria, Somalia e Yemen. La Libia è al sedicesimo posto, ma dopo la sconfitta del Califfato dell’Isis di Sirte nel 2106 i suoi miliziani sono fuggiti verso il sud, nel Fezzan, luogo di traffici e rifugio di diverse di organizzazioni estremiste. In quest’area senza controllo i terroristi dell’Isis, 3-4.000 secondo un Rapporto delle Nazioni Unite del 2018, si preparano nei campi di addestramento, hanno depositi di armi, gestiscono le rotte per il contrabbando e tessono rapporti con altri gruppi armati del Sudan, del Ciad e del Mali e, soprattutto, con al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), che rimane ben rappresentata anche in Siria, Yemen, Somalia e Afghanistan, dove la sua alleanza con i talebani e altri gruppi terroristici rimane un punto fermo. Come l’Afghanistan, quindi, la Libia sta diventando sempre di più un hub per i miliziani dei Paesi dell’area e un connettore di gruppi terroristici. Con la differenza che la Libia è più vicina all’Italia.

Afghanistan: o i talebani o l'Isis. Piccole Note il 20 settembre 2021. L’Isis ha rivendicato sei attentati avvenuti in Afghanistan tra sabato e domenica, che avrebbero causato 35 morti e diversi feriti nella provincia di Jalalabad. Avvenuti lontani dai riflettori accesi sul Paese durante il ritiro degli americani, le stragi hanno fatto poca notizia, nulla importando gli afghani uccisi in tali circostanze. Val la pena annotare come l’avversione dell’Occidente verso il nuovo governo di Kabul corra in parallelo con quella dello Stato islamico, replicando una dinamica che in questi anni si è registrata in altri Paesi arabi. Così in Siria, contro Assad, così in Yemen, contro gli Houti, così in Iraq, contro gli sciiti, così in Iran, Paesi dove l’Isis ha combattuto e combatte contro i nemici dell’Occidente in una convergenza parallela che interpella.

I talebani, argine al Terrore. Al di là delle domande sul tema, tale attentato palesa una verità scomoda per la narrativa dominante: i talebani, per quanto rozzi e beceri li si possa considerare, rappresentano un argine al Terrore. Se cadono, come auspicato da certi ambiti internazionali d’Occidente che non si rassegnano al ritiro Usa, non c’è alternativa al dilagare del terrorismo nel Paese. In tale caos la discriminazione verso le donne e l’autoritarismo attuale, lamentati dai media nostrani, sembrerebbero, al confronto, una sorta di paradiso terrestre. Ne scriviamo non perché riteniamo del tutto illegittime le richieste in tal senso avanzate dall’Occidente – peraltro condivise anche da Russia e Iran -, quanto per evidenziare che esse non dovrebbero essere brandite, come si fa attualmente, solo per dar conto della ferocia dei talebani (vera o asserita che sia) e porre criticità al loro governo. Tali richieste, infatti, più che mero oggetto di denuncia, dovrebbero esser avanzate nelle sedi appropriate e nell’ambito di un dialogo tra la comunità internazionale e il governo afghano. Un dialogo che, per avere chances di successo, deve includere anche Mosca e Pechino: cosa finora evitata per l’avversità degli Usa a tale inclusione (a proposito di inclusività…). Inoltre, tali richieste, per non apparire strumentali, dovrebbero essere commisurate: non si può, ad esempio, chiedere ai talebani di essere più “aperti” dell’Arabia Saudita solo perché quest’ultima condivide con l’Occidente petrolio e circuiti finanziari.

Si può continuare a coltivare oppio? Peraltro, si resta molto interdetti nel constatare che tra le richieste avanzate dall’Occidente a Kabul non si includa l’eradicazione dell’oppio, del quale il Paese produce più dell’80% del totale mondiale. Tale possibilità non è mai stata neanche ventilata, nonostante non sia affatto irrealistica: quando i talebani presero per la prima volta il potere, l’Onu vincolò i suoi aiuti proprio all’eliminazione del papavero da oppio. Condizione accolta e attuata, tanto che la nefasta pianta nel giro di due anni fu praticamente eliminata (con produzione ripresa dopo l’intervento Usa). Peraltro, e per inciso, si può annotare che con la chiusura dei canali di finanziamento diretti all’Afghanistan – cosa avvenuta dopo il ritiro degli americani – il governo di Kabul potrebbe essere costretto a ricorrere proprio ai proventi dell’oppio per sopravvivere, pena il collasso del sistema (e il tragico caos di cui sopra). Infatti al momento non ha fonti di finanziamento adeguate a sostenersi, stante che gli aiuti dell’Onu, che si è impegnata a inviare un miliardo di dollari, saranno diretti solo a sfamare la popolazione civile (e meno male che c’è l’Onu) e non potranno essere utilizzati dalle autorità. Insomma, la rigidità dell’Occidente rischia di alimentare il narcotraffico mondiale, con tutte le conseguenze del caso…

L’errore di valutazione. Tornando alle stragi, tema iniziale della nota, val la pena registrare che, alla fine, e dopo vari dinieghi, l’esercito degli Stati Uniti ha ammesso che il missile sparato a Kabul dopo l’attentato all’aeroporto del 26 agosto, diretto contro una cellula dell’Isis pronta a colpire di nuovo, ha ucciso invece dieci innocenti tra cui tanti bambini. Un errore del quale l’esercito si è scusato, come d’uso in casi del genere, e risarcirà i parenti delle vittime con qualche dollaro e tutto sarà dimenticato in fretta. Nessuno pagherà per quella strage. Nessuno pagherà neanche per aver tentato di convincere il mondo che l’operazione aveva eliminato una pericolosa cellula dell’Isis, prima con un comunicato in cui si dichiarava che l’attacco preventivo era perfettamente riuscito, poi con uno più elaborato, in cui si ammetteva che c’erano state vittime civili, ma si spiegava che erano state causate non dall’esplosione del missile Usa, ma da quella dell’esplosivo trasportato dagli attentatori. Comunicato quest’ultimo, elaborato dai sofisticati spin doctor dell’esercito Usa quando ormai tutti i giornalisti del mondo, presenti a Kabul per documentare il ritiro Usa, avevano dato conto delle vittime civili, neanche menzionate nel primo comunicato. Una storia che racconta in maniera icastica quanto si è consumato in Afghanistan durante la lunga occupazione americana. Anni che non interessano più a nessuno, dato che ora il focus è sui talebani, che però interessano tanto gli afghani, quelli dei quali l’Occidente si dice preoccupato.

È tornato il braccio destro di Bin Laden. Mauro Indelicato il 31 Agosto 2021 su Il Giornale. Dopo anni passati tra il carcere e la latitanza, è ricomparso Amin ul Haq. Storico braccio destro di Osama Bin Laden, il terrorista è stato accolto con tutti gli onori dai talebani. Nella giornata di lunedì da Londra è arrivato l'allarme circa la possibilità che l'Afghanistan dei talebani si trasformi in una base per il terrorismo. Le immagini delle scorse ore dal confine con il Pakistan non hanno lasciato spazio ai dubbi. In un video postato sui social e ripreso dalla Bbc, si nota l'ingresso in Afghanistan di Amin ul Haq. Si tratta di uno dei pochi afghani ai vertici di Al Qaeda, responsabile della sicurezza di Osama Bin Laden e suo braccio destro fino alla fine. L'arrivo nel Paese di Amin ul Haq non è avvenuto in sordina né di nascosto. Il suv bianco su cui era a bordo ha varcato il confine con tanto di telecamera che ha immortalato il momento. Alcuni suoi sostenitori si sono presentati nel posto di frontiera e lui dall'auto ha salutato chi è accorso fin lì. C'è addirittura, tra i presenti, chi gli ha baciato la mano e chi con il terrorista ha scattato un selfie. Amin ul Haq è apparso tranquillo e sorridente, con tanto di turbante bianco in testa. Il suo è sembrato l'atteggiamento di un combattente ritornato dall'esilio.

Chi è Amin ul Haq. La sua storia parla chiaro. Amin è il classico combattente antisovietico che da subito ha sposato, durante l'invasione dell'Urss degli anni '80, la causa islamista. Il suo nome nella galassia jihadista ha acquisito un certo peso con l'arrivo di Osama Bin Laden in Afghanistan. Il fondatore di Al Qaeda, abbandonato il Sudan, ha trovato rifugio nel Paese asiatico e l'aiuto di Amin ul Haq si è rivelato negli anni fondamentale. È stato lui a far orientare Bin Laden tra le caverne e le montagne afghane, così come a procurarsi i contatti e i riferimenti giusti per gestire la sua organizzazione terroristica. Secondo i servizi di intelligence, c'era proprio Amin ul Haq nell'area di Tora Bora ad aiutare Bin Laden nelle prime settimane di latitanza dopo l'intervento Usa del 2001. Nel 2008 il braccio destro del fondatore di Al Qaeda è stato però intercettato e arrestato a Lahore, in Pakistan. Nonostante fosse uno dei principali terroristi ricercati, Amin è rimasto in carcere per soli tre anni. Nel 2011, anno della morte di Bin Laden, è stato scarcerato. Da allora non si è saputo più nulla. Probabilmente è rimasto in Pakistan e, in particolar modo, nelle zone tribali a cavallo con il confine afghano. Si tratta di luoghi dove diversi luogotenenti di Al Qaeda negli ultimi anni hanno operato quasi indisturbati.

Il pericolo per l'occidente. Adesso Amin ul Haq non è più latitante. Nell'ottica del contrasto al terrorismo non è affatto una buona notizia. In primo luogo per la figura stessa di Amin. Viene descritto come un soggetto profondamente ideologizzato, ma anche estremamente astuto e in grado di gestire contatti e pedine. Ha maturato inoltre molta esperienza sia al fianco di Bin Laden che nelle montagne tra Pakistan e Afghanistan. C'è poi un altro aspetto, più generale. Nel video che mostra il rientro di Amin ul Haq è ben evidente il ruolo dei talebani nella vicenda. Ci sono uomini con turbante e kalashnikov nel momento dell'arrivo del terrorista, così come ci sono pick up con la bandiera bianca talebana a scortare il suv di Amin. Gli studenti coranici hanno aperto la strada all'ex braccio destro di Bin Laden e lo spettro di un Afghanistan come base per jihadisti non è così remoto.

Mauro Indelicato. Sono nato nel 1989 ad Agrigento, città in cui dirigo il locale quotidiano InfoAgrigento.it. Nel marzo 2017 conseguo la laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Palermo, città dove sviluppo la mia curiosità per il Mediterraneo, per i suoi popoli e per le sue culture che da secoli arricchiscono una delle aree più suggestive del pianeta. Inizio la mia attività giornalistica nel marzo del 2009 con alcune testate locali, dal gennaio 2013 sono iscritto presso l’Ordine dei Giornalisti di Sicilia nell’albo dei "pubblicisti".

Afghanistan, i talebani senza governo perdono i primi pezzi: un mullah si unisce all'Isis.  Antonio Giustozzi su La Repubblica il 29 agosto 2021. Il Mullah Baradar che si occuperà di negoziare l'accordo per formare un nuovo governo che contenga tutti i gruppi storici di mujahiddin ed esponenti del vecchio governo. Solo alcuni giorni fa i negoziati per un nuovo governo con l'élite politica della Repubblica Islamica sembravano essere entrati in un vicolo cieco. Negli ultimi giorni però ci sono stati progressi improvvisi. Solo alcuni giorni fa i negoziati tra i talebani e la vecchia élite politica della Repubblica Islamica sembravano essere entrati in un vicolo cieco. La sensazione di chi vi partecipava era che i talebani continuassero a discutere al solo scopo di presentare un'immagine conciliante al mondo esterno e che la decisione di ricostituire l'Emirato fosse stata già presa. Negli ultimi giorni, tuttavia, i negoziati hanno avuto un sussulto e si sono registrati dei progressi improvvisi. Man mano che i talebani cominciano ad impratichirsi delle complessità implicite nel governare anche uno stato semi-moderno come quello afghano, si rendono conto di non essere in grado di gestire la situazione da soli. In un incontro recente con esperti del settore bancario, hanno dovuto accettare il fatto che riaprire le banche porterebbe a una corsa ai risparmi, che distruggerebbe il sistema bancario. Non riaprire le banche, d'altra parte, strangola l'economia. Senza un accordo con gli americani riguardo ai fondi della banca centrale, depositati negli Stati Uniti, lo stato dei talebani non potrà pagare i salari ed è destinato ad implodere, o almeno a regredire verso uno stadio molto primitivo. La fuga della classe media professionale rallenta solo perché non è più possibile farsi evacuare tramite l'aeroporto di Kabul; una volta che i voli esteri riprenderanno, o che viaggiare per strada sarà sicuro, il flusso certamente riprenderà. Al tempo stesso la stasi politica acuisce le contraddizioni interne. Impazienti e poco fiduciosi nella possibilità di ottenere rappresentanza ai vertici dello stato, i talebani dell'est sono sempre più nervosi. Alcuni hanno già "votato con i piedi" e sono passati allo Stato Islamico. La provincia di Nangarhar è quella afflitta più seriamente. A parte vari piccoli comandanti a livello di villaggio, negli ultimi giorni si è registrata la prima defezione significativa, quella di Mullah Mansur Hesar, comandante di un fronte con cinque comandanti ai suoi ordini, per un totale di 100-150 uomini. Secondo fonti locali, Mullah Mansur avrebbe deciso di fare il grande salto perché era stato ignorato nelle nomine dei talebani alla guida della provincia di Nangarhar. La leadership dei talebani è consapevole che c'è il rischio di uno smottamento molto più ampio, non fosse altro perché di tali smottamenti ce ne sono stati in passato, specie nel 2014-15. Nelle diatribe in corso a Kabul, i talebani dell'est di frequente minacciano le loro controparti meridionali di essere pronti a passare allo Stato Islamico. Di fronte alle crescenti difficoltà, i talebani sembrano aver offerto delle nuove concessioni ai negoziatori Karzai ed Abdullah; fonti vicine a quest'ultimo ritengono che un accordo sia molto vicino. Secondo le stesse fonti, si tratterebbe di instaurare un governo di transizione modellato in certa misura sul modello iraniano. Al vertice del potere verrebbe a trovarsi il leader dei talibani, attualmente Haibatullah Akhund, coadiuvato da un consiglio supremo di 12 membri, un misto di talebani e non talebani. Il leader dei talebani siederebbe in tale posizione de jure, mentre non è chiaro per ora come verrebbero selezionati i membri del consiglio, o sostituiti quando necessario. Il consiglio avrebbe diritto di veto sopra l'operato e le nomine del governo, che invece rassomiglierebbe a quello della Repubblica Islamica nella sua struttura: un presidente, che secondo le indiscrezioni sarebbe Karzai, con due vice-presidenti (Mullah Baradar e il Dr. Abdullah) e un gabinetto dei ministri. L'intento sarebbe di includere tutti i "vecchi mujahiddin" nell'accordo, incluso Ahmad Massud, a cui verrebbe offerto uno dei 12 seggi nel consiglio supremo. Questo governo di transizione dovrebbe durare un paio di anni, durante i quali le due parti negozierebbero un accordo finale per un sistema politico stabile. I talebani non avrebbero nemmeno chiuso la porta alla possibilità di avere un sistema elettorale nel nuovo sistema che verrà negoziato.

L'accordo sta venendo negoziato dal Mullah Baradar. Tra i talebani in generale rimane un grande scetticismo. Certamente non tutti saranno soddisfatti e non solo tra i duri. Anche tra i membri dell'ala "moderato-pragmatica" (quella di Baradar, per intenderci) molti storcono il naso all'idea di concedere una bella fetta di potere a personaggi come Karzai, Abdullah ed altri, ex nemici spesso non noti per la loro rettitudine. L'approccio preferito è di non nominare nessuno dei rappresentanti della vecchia élite politica a posizioni esecutive e semmai nominarne alcuni al Consiglio Supremo. La presidenza sarebbe meglio affidata a una figura neutrale, mentre alla vecchia élite si dovrebbe dare l'opportunità di scegliere dei volti, più o meno nuovi, a loro legati per riempire le funzioni di vice-ministri, capi dipartimento e forse, se proprio necessario, persino ministri, soprattutto per funzioni molto delicate a questo punto, quali affari esteri e finanze. L'idea di elezioni suscita anch'essa scetticismo; una fonte all'interno del Consiglio della leadership solo ieri menzionava che l'approccio preferito dai talebani sarebbe una 'Loya Jirga', ovvero un consiglio dei rappresentanti delle diverse comunità, che il potere centrale (ovvero i talebani in questo caso) sceglierebbe dall'alto. Se l'accordo preconizzato dalle fonti vicine ad Abdullah verrà finalizzato, risolverà alcuni dei problemi dei talebani, in particolare verso l'estero, ma probabilmente ne creerà di nuovi. Porterà acqua al mulino dei duri e restringerà ulteriormente le possibilità di promozione per gli insoddisfatti. I talebani sono pertanto stretti tra l'incudine dell'isolamento internazionale e il martello delle divisioni interne e devono risolvere i loro dilemmi senza poter contare sull'autorità del loro leader, Haibatullah, che non prende parte a riunioni interne da sette mesi, apparentemente a cause di una seria malattia.

La rete del Nangarhar. Roccaforte del male che nascose Bin Laden. Fausto Biloslavo il 29 Agosto 2021 su Il Giornale. Blitz Usa nella provincia considerata la culla del terrorismo dai tempi di Al Qaida e Isis. Qui furono sconfitti britannici e russi. E qui lo sceicco del terrore decise di fare il suo rifugio. I droni ed i super aerei elettronici per le intercettazioni monitoravano da giorni la base dello Stato islamico vicino a Jalalabad, nella provincia di Nangarhar, la culla del terrore in Afghanistan. Dopo l'attacco suicida all'aeroporto di Kabul del 26 agosto, l'obiettivo erano due emiri dell'Isis-Khorasan, la costola afghana del Califfato. Le figure di alto profilo, come le ha definite il generale Hank Taylor, stavano pianificando altri attacchi allo scalo per martellare gli americani in ritirata. Un drone ha incenerito la base, quando moglie e figli del numero uno della cellula sono usciti dalla zona di fuoco. L'operazione è scattata, non a caso, nella provincia orientale di Nangarhar, una vera e propria culla del terrore dai tempi di Al Qaida allo Stato islamico. L'area montagnosa e con poche strade, a sud est di Kabul confina con la famigerata zona tribale di frontiera pachistana, che neanche il governo di Islamabad controlla completamente. La provincia è stata la tomba di diversi imperi da quello britannico all'Unione sovietica. A nord, nel confinante Nuristan, si insediarono gli antichi guerrieri di Alessandro Magno, dopo avere conquistato una bella fetta dell'India. Un'aera selvaggia dove sono rimasti per non tornare più a casa. Le truppe dell'impero britannico furono decimate nella ritirata da Kabul del 1842 proprio fra Jalalabad ed il Kyber pass. Una sanguinosa sconfitta descritta nel Grande gioco da Rudyard Kipling. I sovietici, durante l'invasione degli anni ottanta, ci provarono a tagliare le vie di rifornimento dei mujhaeddin del Pakistan, proprio a Nangarhar, ma nonostante i bombardamenti a tappeto, l'impiego dei corpi speciali spetnatz e il lancio dagli elicotteri di migliaia di mine farfalla sui sentieri della guerriglia non raggiunsero mai l'obiettivo. Nell'area compare per la prima volta Osama Bin Laden, che si vantava di avere strappato il kalashnikov da paracadutista, sempre al suo fianco nei video di Al Qaida, a un generale russo ucciso da quelle parti. Lo sceicco del terrore, grazie alla società del padre, trasferì in Afghanistan manovalanza ed escavatori per costruire un dedalo di bunker e rifugi nelle grotte di Tora Bora. Dopo l'11 settembre e la sconfitta del primo regime talebano nel 2001, Bin Laden ed i resti di Al Qaida si arroccarono nel complesso sotterraneo. Ci sono voluti mesi di bombardamenti dei B 52 e operazioni dei corpi speciali per stanarli tutti. Il fondatore di Al Qaida riuscì a fuggire in Pakistan. Dal 2015, la culla del terrore, è diventata la base nascente dello Stato islamico in Afghanistan con lo slogan siamo noi i veri difensori dell'Islam e non i talebani. Due anni dopo l'allora presidente americano, Donald Trump, decide di usare per la prima volta il più potente ordigno non nucleare dell'arsenale americano. La bomba taglia margherite, 11mila chili di esplosivo, viene sganciata proprio su una riunione dell'Isis nella provincia di Nangarhar aprendo un cratere largo 100 metri e spazzando via tutto. Anche Gbu-43/B, nome militare della super bomba, non è servita a fermare il Califfato nella culla del terrore, dove sono confluiti i resti dei volontari jihadisti sconfitti in Siria e Iraq e nuovi adepti della guerra santa dal Pakistan e dall'Asia centrale. La Cia ed i Navy Seals americani hanno compiuto, assieme ai corpi speciali afghani, 250 raid in quattro anni nella provincia dell'Isis dimezzando le sue falangi. Gli stessi talebani avrebbero collaborato fornendo informazioni e chiudendo vie di fuga per eliminare i rivali, ex adepti del movimento. La base distrutta ieri dal drone Usa è solo un tassello della rete dello Stato islamico nella culla del terrore, che userà Nangarhar per incitare alla guerra santa estrema, in patria e all'estero, anche nel nuovo Emirato islamico.

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito del

È allarme Isis sull'evacuazione: "Pronti a colpire. Rischio di strage all'aeroporto". Valeria Robecco il 26 Agosto 2021 su Il Giornale. È il "fattore Isis" quello che avrebbe causato la fuga in avanti di Joe Biden verso il rispetto tassativo del 31 agosto quale data ultima per il completamento delle operazioni di evacuazione dall'Afghanistan. È il «fattore Isis» quello che avrebbe causato la fuga in avanti di Joe Biden verso il rispetto tassativo del 31 agosto quale data ultima per il completamento delle operazioni di evacuazione dall'Afghanistan. Ovvero il rischio di attentati indiscriminati contro civili e obiettivi occidentali a ridosso dello stesso aeroporto Hamid Karzai da parte di cellule dello Stato islamico presenti a Kabul. Secondo quanto rivelano fonti informate a Il Giornale, è questo uno degli elementi emersi con rilievo durante l'incontro tra il capo della Cia, William Burns, e il leader politico dei talebani, Abdul Ghani Baradar, avvenuto lunedì nella capitale afghana. Per capire occorre fare un passo indietro. In Afghanistan è operativa una «filiale» terroristica costituita dagli eredi del Califfato denominata Stato islamico della provincia del Khorasan (Isis-K). La compagine è composta, secondo le analisi più attuali, da sette a diecimila miliziani, buona parte ceceni e uiguri, che cercano di inserirsi in Afghanistan anche grazie al partenariato con il Movimento islamico dell'Uzbekistan. L'obiettivo è sottrarre al controllo dei talebani porzioni di territorio minandone la tenuta, e pertanto sono in netta contrapposizione con i miliziani delle madrasse. Alcuni sono pronti ad attivarsi anche a Kabul, come si deduce dall'allarme lanciato dagli 007 Usa. Negli ultimi giorni tale rischio è risultato ben più elevato, e su questo hanno convenuto Burns e Baradar. Secondo Colin P. Clarke, analista dell'antiterrorismo presso il Soufan Group, «l'Isis-k stava aspettando un'opportunità come questa, dove i suoi combattenti possono sfruttare il caos della situazione sul terreno per avere la possibilità di uccidere soldati americani». Anche secondo quanto rivelato da funzionari del Pentagono a Politico le minacce terroristiche stanno mettendo a repentaglio l'evacuazione dalla capitale. La situazione della sicurezza a Kabul è significativamente peggiorata martedì a causa di nuove minacce delle cellule locali dell'Isis, note come Isis-k, spiegano le fonti, che stanno prendendo di mira i cancelli dello scalo Hamid Karzai e gli aerei militari e commerciali che evacuano le persone. Quindi per convenienza e sicurezza di tutti prima si completa l'evacuazione più si minimizza il rischio di attentati dell'Isis. Il che fa comodo agli americani perché non vogliono morti tra i civili e tra i loro stessi militari, ma anche ai talebani perché non vogliono che lo Stato islamico vada a minare la sicurezza della capitale di cui loro stessi si sono fatti garanti. Il presidente Joe Biden ha parlato della questione martedì pomeriggio dalla Casa Bianca: «Ogni giorno di operazioni comporta un rischio aggiuntivo per le nostre truppe - ha detto - L'Isis-k sta cercando di prendere di mira l'aeroporto e attaccare le forze statunitensi e alleate, oltre a civili innocenti». E il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha ammesso che «la minaccia è reale, acuta, persistente. È qualcosa su cui ci stiamo concentrando con ogni strumento nel nostro arsenale». Il presidente Usa, che ha poi condiviso con i partner del G7 i timori sul «fattore Isis», si è dovuto però confrontare con le richieste degli alleati europei di non chiudere del tutto all'eventualità di un prolungamento. Pertanto ha chiesto al Pentagono di modulare piani emergenza nel caso estremo in cui non si riesca a terminare la missione in tempo. L'ipotesi però, giorno dopo giorno, apre a scenari sempre più rischiosi. Valeria Robecco

Esiste una "minaccia molto specifica". “Attacco imminente dell’Isis all’aeroporto di Kabul”, l’allarme dell’intelligence Usa: pronti razzi e kamikaze. Redazione su Il Riformista il 25 Agosto 2021. Esiste una “minaccia molto specifica” di un attacco dell’Isis all’aeroporto di Kabul con oltre 10 attentatori kamikaze e numerosi razzi. Secondo il governo Usa sarebbe “imminente” un attentato terroristico all’aeroporto della capitale dell’Afghanistan, preso d’assalto da oltre una settimana da migliaia di cittadini dopo il ritorno al potere dei talebani.  Stando a quanto apprende l’Adnkronos, secondo l’intelligence americana, infatti, l’Isis avrebbe concluso la fase di preparazione di un imminente attacco. Per eseguire l’attacco, secondo un’informativa degli 007 Usa, i militanti dello Stato Islamico avrebbero programmato di utilizzare oltre 10 attentatori kamikaze nonché numerosi razzi. Anche un funzionario della Difesa statunitense ha confermato un pericolo simile: “Sappiamo che c’è una minaccia dall’ISIS” attorno all’aeroporto di Kabul, hanno sottolineato i portavoce Jack Kirby e William Taylor, dopo che il presidente Joe Biden ieri aveva fatto riferimento proprio a questa minaccia come una delle ragioni che lo hanno portato a confermare la scadenza del 31 agosto per la fine delle operazioni di evacuazione dall’Afghanistan. Il Pentagono oggi ha anche confermato che tra i comandanti Usa sul terreno e i talebani c’è una costante linea di comunicazione per ‘filtrare’ le persone che accedono all’aeroporto per essere evacuate. Una fonte dell’antiterrorismo nella regione ha poi riferito alla Cnn che alcune centinaia di membri dell’Isis potrebbero essere fuggiti dalle prigioni di Bagram e Pul-e-Charki, a Est della capitale afghana, poco prima dell’arrivo dei talebani, che hanno rapporti ostili con l’organizzazione terroristica. Preoccupazioni anche da parte del governo della Gran Bretagna secondo cui c’è un “rischio molto elevato di un attacco terroristico” contro l’operazione di evacuazione a Kabul. Lo ha affermato una fonte britannica di alto livello a SkyNews. Secondo la fonte il gruppo di maggiore preoccupazione è l’ISIS-K (il ramo dell’ISIS attivo nell’Asia meridionale), a cui ha fatto riferimento il presidente degli Stati Uniti Joe Biden nel suo discorso di ieri, al termine del G7 straordinario sull’Afghanistan. Martedì 24 agosto i talebani, nel corso della conferenza stampa attraverso il portavoce Zahibullah Mujahid., hanno ribadito l’ultimatum agli Stati Uniti di lasciare il Paese entro il 31 agosto annunciando poi l’accesso all’aeroporto solo agli stranieri e il divieto di uscire dall’Afghanistan per i civili afghani. E, per le donne, divieto di recarsi al lavoro.

Ieri l'allerta delle intelligence su attacchi Isis. Attentato all’aeroporto di Kabul, attacco suicida fuori lo scalo: almeno 90 morti, l’Isis rivendica. Redazione su Il Riformista il 26 Agosto 2021. La “minaccia molto specifica” di un attacco terroristico all’aeroporto di Kabul, evocata dai servizi segreti di Gran Bretagna e Stati Uniti, si è verificata. Oggi pomeriggio due esplosioni sono avvenute all’esterno dello scalo della capitale dell’Afghanistan, nei pressi di uno dei cancelli di ingresso, l’Abbey Gate, e vicino al Baron Hotel dove alloggiano truppe e giornalisti britannici a Kabul. Ancora incerto il bilancio dell’attacco suicida, con numeri in continuo aggiornamento: almeno 90 le persone rimaste uccise e 140 quelle ferite, riferisce la Bbc citando fonti sanitaria afghane. Tra le vittime ci sono diversi bambini, 13 i militari americani uccisi nell’esplosione aggiungono i media Usa, ma tra le persone rimaste senza vita a terra ci sono anche diversi membri dei talebani. L’ospedale di Emergency sta accogliendo e prestando le prime cure alle persone rimaste ferite nell’attentato all’aeroporto di Kabul: nella struttura sono stati trasportati “oltre 30 feriti, altre 6 vittime erano già morte all’arrivo”, scrive la Ong su Twitter. Impressionanti le scene fuori lo scalo della capitale: foto e video in cui si mostrano persone ferite, coperte di sangue, e il continuo via vai di ambulanze che le trasportano nei più vicini ospedali. In altre foto invece i feriti dall’esplosione vengono trasportati via su mezzi di fortuna come delle semplici carriole. L’esplosione, come confermato dal portavoce del Pentagono John Kirby su Twitter, è stata seguita da colpi d’arma da fuoco. Il presidente americano Joe Biden è stato informato dell’accaduto e viene in questi momenti aggiornato sugli sviluppi dai vertici della sicurezza nazionale. Kirby ha confermato che l’esplosione all’Abbey Gate “è stato il risultato di un complesso attacco” che ha colpito “americani e civili”, confermando “almeno un’altra esplosione vicino l’hotel Baron, a breve distanza dall’Abbey Gates”. Secondo l’inviato di Skynews ancora presente all’aeroporto, l’attacco sarebbe avvenuto da un attentatore suicida che si è fatto esplodere in una zona chiamata “il canale”. È una zona appena fuori lo scalo dove, nonostante l’allerta internazionale per il rischio attentati, vi erano migliaia e migliaia di afghani che aspettavano che i loro documenti venissero esaminati per poter fuggire dal Paese grazie ad un ponte-aereo. La situazione nei dintorni dello scalo della capitale afghana è ovviamente di grande caos. Per questo l’ambasciatore francese in Afghanistan, David Martinon, ha chiesto su Twitter agli afghani che si trovano vicino ai cancelli di allontanarsi e “cercare un riparo” perché esiste il rischio di una “nuova esplosione”.

L’ISIS RIVENDICA L’ATTACCO – Lo Stato islamico ha rivendicato l’attacco all’aeroporto ‘Hamid Karzai’ di Kabul. A riferirlo è il Site Intelligence Group di Rita Katz, tra i massimi esperti al mondo di terrorismo. Il Site ha anche pubblicato la foto che l’Isis ha diffuso in cui si mostra uno dei kamikaze di Kabul. Un attentatore, si legge sul canale Telegram dell’agenzia di stampa collegata all’organizzazione terroristica, Amaq, “è riuscito a raggiungere un gruppo di traduttori e collaboratori dell’esercito americano al "Baran Camp" vicino all’aeroporto di Kabul e ha fatto brillare la sua cintura esplosiva tra di loro, uccidendo circa 60 persone e ferendone più  di 100, compresi i combattenti talebani”. Già poche ore dopo l’attacco i sospetti erano diretti verso l’Isis-K, come viene denominato Stato Islamico del Khorasan, un ramo dell’Isis attivo in Asia meridionale e centrale.

Anche un funzionario Usa, che dietro anonimato ha parlato con Lapresse, spiega che l’amministrazione americana ritiene che “l’attacco avvenuto fuori dall’aeroporto di Kabul sia stato effettuato dallo Stato islamico”.

TALEBANI CONDANNANO ATTENTATO – I talebani hanno condannato formalmente l’attacco avvenuto fuori dall’aeroporto di Kabul, scaricando le responsabilità della strage sottolineando che è avvenuta in un’area sotto il controllo delle forze Usa. I talebani “condannano in modo forte” l’attacco contro civili “all’aeroporto di Kabul, che è avvenuto in un’area in cui la sicurezza è nelle mani delle forze Usa”, ha scritto su Twitter il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid. Che aggiunge: “L’Emirato islamico presta grande attenzione alla sicurezza e alla protezione del suo popolo e i circoli del male verranno fermati”.

NESSUN ITALIANO COINVOLTO – Nessun italiano è stato coinvolto nell’esplosione presso l’aeroporto di Kabul. A renderlo noto il ministero della Difesa, precisando che la deflagrazione è avvenuta in un’area distante da dove stanno operando i militari italiani per le ultime fasi dell’operazione Aquila per l’evacuazione dei cittadini afgani

L’ALLARME SULL’ISIS – Soltanto nella giornata di mercoledì le intelligence di Stati Uniti e Gran Bretagna avevano lanciato un allarme sulla “minaccia molto specifica” di un attacco dell’Isis all’aeroporto di Kabul con oltre 10 attentatori kamikaze e numerosi razzi.

“Sappiamo che c’è una minaccia dall’ISIS” attorno all’aeroporto di Kabul, aevano sottolineato i portavoce della Difesa Jack Kirby e William Taylor, dopo che il presidente Biden martedì aveva fatto riferimento proprio a questa minaccia come una delle ragioni che lo hanno portato a confermare la scadenza del 31 agosto per la fine delle operazioni di evacuazione dall’Afghanistan.

Una fonte dell’antiterrorismo nella regione aveva inoltre riferito alla Cnn che alcune centinaia di membri dell’Isis potrebbero essere fuggiti dalle prigioni di Bagram e Pul-e-Charki, a est della capitale afghana, poco prima dell’arrivo dei talebani, che hanno rapporti ostili con l’organizzazione terroristica.

I racconti drammatici. “Il canale è diventato color sangue”, “tre persone uccise davanti ai miei occhi”: le testimonianze della strage di Kabul. Redazione su Il Riformista il 26 Agosto 2021. “Hanno ucciso tre persone davanti ai miei occhi”. È la testimonianza di una ragazza raccolta dalla ong Cospe di Firenze dopo l’attentato avvenuto nei pressi dell’aeroporto di Kabul dove un bilancio provvisorio parla di 20 morti e oltre 50 feriti. La donna fa parte del gruppo della ong in attesa di prendere l’aereo per raggiungere l’Italia. La deadline del 31 agosto imposta dagli Usa per l’uscita dal Paese e le minacce dei talebani che stanno aumentando i controlli alle vie di accesso all’aeroporto e le violenze verso coloro che cercano di lasciare il paese, “ci hanno spinto a incoraggiare i nostri contatti ad affrontare questa odissea e imbarcarsi il prima possibile. Ora però auspichiamo che anche tutti coloro che non ce l’hanno fatta, proprio i più deboli e – ora ancora più – a rischio della vita nell’ Afghanistan dell’Emirato, possano raggiugere l’Italia o l’Europa grazie a corridoi umanitari sicuri”. Un’altra ragazza, sempre stando a quanto raccolto dalla ong Cospe di Firenze, racconta che “ci sono molti morti vicino a me e il canale è diventato color sangue”. La donna sarebbe dovuta entrare in aeroporto, “con il nostro gruppo, ma purtroppo è rimasta fuori dal gate dell’aeroporto di Kabul durante l’esplosione suicida”. Un gruppo di circa 30 persone tra cui una decina di bambini, e tra loro anche il gruppo delle calciatrici che erano partite da Herat lunedì mattina all’alba, e delle cicliste, seguite in Italia dall’associazione Road to Equality “ora sono al sicuro, con cibo e acqua e in attesa di un volo per arrivare in Italia di cui però ancora non abbiamo notizie certe”. Lo riferisce la ong Cospe di Firenze, in una nota. Come Cospe, in coordinamento con AOI e insieme ad altre ong con le quali abbiamo costituito un’unica lista di persone da evacuare, abbiamo tenuto tutto il tempo contatti con le persone lì fuori comunicando costantemente la loro posizione ai parà dei Tuscania che da dentro l’aeroporto gestivano le operazioni e alle altre autorità, Ministero della Difesa e degli Esteri, che anche dall’Italia seguivano gli sviluppi dell’evacuazione e che ringraziamo per il grande loro svolto insieme al Console in loco e a corpo dei paracadutisti. La difficoltà dell’ingresso all’aeroporto, presidiato dai talebani e affollato da quanti stanno tentando di fuggire in ogni modo, ha purtroppo scoraggiato alcuni membri del gruppo che non hanno resistito a ore di insonnia, di fame, di sete e a condizioni igieniche precarie, senza servizi e immersi per metà del tempo nel canale che separa la strada dall’ingresso vero e proprio, il “dirty river” di molti messaggi. Molti hanno dovuto rinunciare, altri si sono persi nella folla. Ricordiamo che si tratta di attivisti e attiviste, giornalisti indipendenti, avvocate, collaboratori a vario titoli con le organizzazioni internazionali, sono le donne, rappresentanti di minoranze e le voci della società civile e tutti coloro che hanno lavorato per un’Afghanistan diverso nelle scuole, nella sanità, nella società e si sono da sempre opposti del regime totalitario e del pensiero integralista dei talebani. Oggi dobbiamo garantirgli sicurezza e libertà. Cospe ha lavorato dal 2008 al 2019 in Afghanistan, sostenendo associazioni locali con progetti sui diritti delle donne e il sostegno e la messa in sicurezza di difensori e difensore dei diritti umani. Impegnandosi a fianco di tanti afghani e di tante afghane che hanno lavorato per un cambiamento in senso democratico del loro paese e creduto che si potesse davvero realizzare.

Guido Olimpio per corriere.it il 26 agosto 2021. Un’operazione prevedibile, ma difficile da prevenire. Un’azione suicida tra i civili radunati davanti ad uno degli ingressi dello scalo di Kabul. Esattamente come aveva avvertito nelle scorse ore l’intelligence sulla minaccia delle cellule dell’Isis-Khorasan che avrebbe già rivendicato il gesto. Un’assunzione di responsabilità ritenuta credibile. Sono dunque i militanti del Califfo i principali sospettati – anche se non gli unici – per la strage. I terroristi hanno scelto un target facile. Perché è facile mimetizzarsi, nascondere un ordigno in un borsone o sotto un abito, persino sfruttare la presenza di minori per cogliere di sorpresa i controlli. . Uno degli attacchi più gravi della fazione ha preso di mira proprio nella capitale delle studentesse. Stragi coordinate dall’attuale leader Shahab al Mujair, ex qaedista passato nel campo rivale e nominato al vertice nell’aprile 2020. Negli scenari a non possiamo neppure escludere il ricorso a missili anti-aerei portatili, arma piuttosto temuta, tanto è vero che alcuni velivoli usano artifizi luminosi nella fase di decollo proprio per confonderli. Agli ordini di al Mujair circa 1.500-2.000 uomini. Tra questi mujaheddin locali, volontari pachistani, talebani scontenti, estremisti sunniti di fazioni minori. Visto i numeri ridotti Isis-K ha puntato molto sui gesti terroristici (presi di mira spesso gli sciiti), su attacchi a prigioni, sulle classiche azioni a «spaccare». Ha il suo letto caldo nella regione di Nangahar. In passato ha subito raid duri da parte degli Stati Uniti: cinque alti esponenti sono stati eliminati, alcune posizioni sono state devastate da una super bomba. Al solito, si è immerso ed ha resistito. Un esperto, Charles Lister, ha rilevato come i seguaci del Califfato dalla metà d’agosto abbiano assunto un profilo basso limitandosi ad insultare i talebani, bollati come traditori in quanto sono venuti a patti con l’America. Ora potrebbero aver rotto la pausa innescando le cariche esplosive all’aeroporto. Tutto fluido. Per giorni i talebani hanno mostrato di garantire un controllo sul territorio. «Grazie a Dio abbiamo un partner per la sicurezza a Kabul», ha dichiarato un alto funzionario statunitense al Washington Post. Un modo per sottolineare che la collaborazione con il nemico aveva funzionato. Ma con dei limiti e a tempo. L’azione devastante a Kabul è una sfida al nuovo regime, dimostra che l’Isis può agilmente superare le difese. Chi per anni ha usato il terrore come arma ora deve fronteggiarlo. Il Califfato muove in cerca di consensi tra chi non è disposto ad alcuna tregua e lo fa uccidendo. Una campagna alla quale potrebbero unirsi fazioni minori e gli scontenti tra gli «studenti del Corano». Alcuni esperti hanno messo in guardia sul sistema di sicurezza adottato dai mullah nella capitale, affidato a milizie diverse e con origini diverse. Una mancanza di omogeneità che può favorire gli attacchi.

Da corriere.it il 26 agosto 2021. C’è stata una prima esplosione all’aeroporto di Kabul in Afghanistan, presso il gate nell’area dell’hotel Baron, causata da un kamikaze che si è fatto saltare per aria, a cui è seguita un seconda esplosione. Questa è la prima ricostruzione dei fatti offerta da fonti ufficiali statunitensi e ripresa da Reuters. La notizia è stata confermata al Corriere dalla Farnesina. Le immagini che arrivano da Kabul mostrano civili feriti, coperti di sangue, mentre vengono trasportati su alcune carriole. Secondo quanto riporta il corrispondente da Kabul del New York Times Fahim Abed, i morti sono almeno 40, i feriti 120, la maggior parte in gravi condizioni. L'aeroporto è stato chiuso e alle ore 20 di Kabul (le 17:30 in Italia). Non è stato scongiurato il pericolo di un nuovo attacco: rimane lo stato di allerta per possibili nuovi attentati. Isis-Khorasan ha rivendicato l'attentato , secondo quanto dicono i media locali. Tra i feriti ci sono anche alcuni soldati americani, circa 15. Una fonte statunitense ha anche parlato di «almeno uno dei militari Usa ferito gravemente». «Ci sono molti morti vicino a me e il canale è diventato color sangue»: a raccontarlo una ragazza afghana che si trovava allo scalo internazionale di Kabul al momento dell'attentato e si è messa in contatto con la Ong Cospe di Firenze. La donna, che fa parte del gruppo di afghani che Cospe segue per aiutarli a scappare dal Paese, è rimasta fuori dal gate dopo l'esplosione e ha detto di aver assistito alla morte di tre persone. I militari italiani si sono ritirati e si trovano al riparo nei bunker. Non c’è nessun italiano coinvolto nell’esplosione nei pressi dello scalo, secondo quanto riferito da fonti dalla Difesa. Il portavoce del Pentagono ha confermato su Twitter che l’attentato ha causato un numero imprecisato di vittime: «Possiamo anche confermare almeno un’altra esplosione nei pressi o vicino al Baron Hotel, a breve distanza da Abbey Gate». Fonti Usa hanno successivamente confermato che l'attacco nei pressi dell'aeroporto di Kabul è stato causato da due kamikaze e da uomini armati. Le persone all'interno dell'aeroporto di Kabul sono state avvertite inoltre di un possibile attacco con razzi contro la struttura: i militari hanno chiesto alle persone presenti di mettersi al riparo. Lo ha riferito una fonte presente nell'aeroporto alla corrispondente della Bbc Nafiseh Kohnavard. «La nostra priorità rimane quella di evacuare il maggior numero di persone in sicurezza il più rapidamente possibile» dal Paese, scrive su Twitter il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, commentando gli attacchi a Kabul. È arrivata anche una dichiarazione del portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, tradotta e diffusa da una giornalista di Kabul, in cui si legge che gli americani erano stati informati di un possibile attacco dell’Isis all’aeroporto di Kabul: «I talebani, impegnati con la comunità internazionale, non permetteranno ai terroristi di usare l’Afghanistan come base per le loro operazioni. I talebani hanno avvertito le truppe americane di possibili gruppi terroristici come l’Isis». Il portavoce ha poi condannato «fermamente» l'attacco all'aeroporto, dicendo che è avvenuto in un'area controllata dalle forze Usa. Nel frattempo a Kabul i talebani stanno chiedendo agli abitanti di tornare a casa, parlando attraverso altoparlanti pubblici. Lo segnala con un tweet il corrispondente di Russia Today nella capitale afghana, che parla anche del rumore incessante delle ambulanze. Secondo quanto riferito dal reporter, in tutta la città sarebbe fuori uso la linea Internet. Nell’ospedale di Emergency sono arrivati più di 60 feriti, scrive l’ong su Twitter, mentre sei vittime erano già morte all’arrivo nella struttura.

Da adnkronos.com il 26 agosto 2021. "E' stato un attacco dell'Isis. La pagheranno". Joe Biden, presidente degli Stati Uniti, prende la parola dopo l'attacco all'aeroporto di Kabul, in Afghanistan. L'azione rivendicata dall'Isis ha provocato decine di morti, compresi 12 militari americani. "Questi soldati americani che hanno dato la vita, in una missione per salvare vite di altri, sono eroi. Sono la spina dorsale dell’America, sono il meglio che il paese può offrire", dice Biden. "A coloro che hanno compiuto questo attacco: non perdoneremo, non dimenticheremo. Vi daremo la caccia e ve la faremo pagare. Difenderò i nostri interessi e la nostra gente con ogni mezzo a mia disposizione".  "Joe Biden dovrebbe dimettersi, il che non dovrebbe essere un grosso problema dal momento che non è stato eletto legittimamente dal principio". Così ha scritto l'ex presidente Donald Trump in un messaggio agli elettori dopo l'attentato a Kabul, in Afghanistan.

ATTACCO KAMIKAZE DEI TERRORISTI DELL’ ISIS ALL’AEROPORTO DI KABUL: 100 FERITI 60 MORTI FRA I QUALI 12 MILITARI USA. Il Corriere del Giorno il 26 Agosto 2021. Almeno “60 morti” e decine di feriti nell’attentato suicida di oggi all’aeroporto di Kabul, in Afghanistan. Tra le vittime, oltre ai civili afghani, anche dei marines. 12 in totale i soldati americani uccisi. L’Isis ha rivendicato l’attacco. Da quanto apprende il CORRIERE DEL GIORNO da fonti dei Servizi italiani, ci ha riferito che un kamikaze si è fatto esplodere al Baron Hotel, mentre una seconda esplosione con un’autobomba è avvenuta ad opera di un altro kamikaze è avvenuta nei pressi del gate ‘Abbey’ dell’aeroporto, il cui accesso all’area gestito dai militari del contingente Usa, è attualmente interdetto. Sarebbe stato diramato un allarme per lancio di razzi in direzione della struttura aeroportuale a Kabul, già colpita da due esplosioni e poi da una terza nella serata. Le due esplosioni hanno causato circa 20 feriti e 12 morti tra la popolazione civile e 15 feriti tra i militari, tutti di nazionalità statunitense. Ci sarebbero stati feriti anche tra le milizie del movimento talebano. Una “terza” esplosione si registrata in serata a Kabul provocata da un ordigno improvvisato (Ied) esploso al passaggio di un veicolo dei Talebani nel centro della capitale afghana. Lo ha riferito su Twitter il corrispondente di Russia Today a Kabul, che spiega di aver appreso che i Talebani stasera eseguiranno blitz e perquisizioni a Kabul. In precedenza il giornalista aveva scritto di aver “appena udito un suono come un’altra esplosione in direzione dell’aeroporto”. Il Wall Street Journal citando fonti mediche ha reso noto che nell’attacco in aggiunta ai militari americani sono morti almeno cittadini 60 afghani e 120 sono i feriti mentre il giornalista Fahim Abed corrispondente dalla capitale afghana del New York Times su Twitter rende noto che “il 60% dei feriti sono in condizioni gravi”. L’attentato segue una mattinata convulsa in cui si sono registrati spari all’indirizzo di un C-130 italiano e in cui diversi Paesi occidentali avevano annunciato la fine dei loro voli di evacuazione, proprio temendo un attentato imminente.   

Soldati Usa uccisi. Il Pentagono ha confermato che sono morti 12 militari americani e 15 sono rimasti feriti nelle esplosioni all’esterno dell’aeroporto internazionale di Kabul. Secondo il Wall Street Journal, a morire anche quattro Marines, mentre altri tre sarebbero rimasti feriti. Nel corso di un briefing, il generale Kenneth McKenzie comandante del Comando centrale degli Stati Uniti (Centcom), ha spiegato che sono entrati in azione due kamikaze “ritenuti dell’Isis” e che dopo le esplosioni “uomini dello Stato islamico” hanno aperto il fuoco.

Il portavoce del Pentagono in un tweet ha scritto che all’Abbey Gate dell’aeroporto di Kabul c’è stato “un attentato complesso che ha provocato diverse vittime Usa e civili”, precisando che dopo la prima esplosione ce ne è stata almeno un’altra vicino o al Baron Hotel, a poca distanza dall’Abbey Gate. Era dalla notte che tutte le agenzie di intelligence occidentali avvertivano di “un imminente attentato”. L’attentato segue di alcune ore l’allerta diffuso dal che ha esortato gli americani all’esterno dello scalo di “andarsene immediatamente” a causa della crescente minaccia terroristica. Il corrispondente della CNN dalla Casa Bianca ha reso noto che presidente degli Stati Uniti d’ America Joe Biden è stato informato dell’attentato esplosivo mentre si trovava nella “Situation Room” per una riunione già programmata sull’Afghanistan con i vertici della sua squadra per la sicurezza nazionale, a cui hanno partecipato il segretario della Difesa, Lloyd Austin, il capo degli Stati maggiori riuniti Mark Milley e il segretario di Stato Antony Blinke. 

Isis rivendica l’attacco. La Provincia del Khorasan, la filiale afghana del sedicente Stato islamico (Isis), ha rivendicato i sanguinosi attacchi di oggi a Kabul. La rivendicazione è arrivata attraverso Amaq, l’organo di propaganda dell’organizzazione terroristica. Pubblicata sul web anche l’immagine di un uomo identificato come Abdul Rehman Al-Loghri, indicandolo come il “martire” che si è fatto saltare in aria nei pressi dell’aeroporto di Kabul. 

Gli italiani in Afghanistan. Il personale italiano che attualmente si trova a Kabul sarebbe al sicuro, al riparo nei bunker dello scalo afghano. Il Ministero della Difesa conferma che “Nessun italiano è stato coinvolto nell’esplosione presso l’aeroporto di Kabul. La deflagrazione è avvenuta in un’area distante da dove stanno operando i militari italiani per le ultime fasi dell’operazione ‘Aquila’ per l’evacuazione dei cittadini afghani”. Dopo l’attacco kamikaze di oggi a Kabul, c’è stata un’informativa sull’Afghanistan del ministro degli Esteri Luigi Di Maio in Consiglio dei ministri, che ha illustrato il “Piano italiano per il popolo afghano”. “Nelle prossime ore – avrebbe detto a quanto si apprende – si concluderanno le operazioni di evacuazione, occorre ora elaborare la ‘fase 2’, con una prospettiva di breve e medio periodo, che dovrà avere natura ordinata, strutturata e strategica. Il Ministero degli Esteri è pronto a coordinare la definizione di "un Piano italiano a sostegno del popolo afghano", alla cui articolazione abbiamo già iniziato a lavorare e che intendiamo finalizzare nei prossimi giorni”. Dovrebbe decollare domani all’alba l’ultimo volo italiano da Kabul per riportare a Roma i profughi afghani, come si apprende da fonti del Ministero della Difesa. Intanto, stasera presso l’aeroporto romano di Fiumicino è previsto l’arrivo di ulteriori 2 voli: 1 velivolo KC-767 dell’Aeronautica Militare con 191 persone a bordo e un C-17 con altri 371 passeggeri. Sono 4.832 i cittadini afghani evacuati dal Paese asiatico dall’inizio dell’operazione Aquila.

Afghanistan, "quanti militari americani uccisi". Ora il disastro di Biden è completo: perché quella di Kabul era una strage annunciata. Libero Quotidiano il 26 agosto 2021. Continua a salire il bilancio degli attacchi terroristici verificatisi all’aeroporto internazionale di Kabul. Sono oltre 150 i feriti e almeno 60 i morti, tra cui anche una decina di militari americani che erano in servizio durante le operazioni di evacuazione. La conferma è arrivata direttamente dal Pentagono: si aggrava sempre di più il bilancio dell’esperienza in Afghanistan sotto la presidenza di Joe Biden, non in grado di difendere i suoi stessi uomini. E dire che il giorno prima delle esplosioni nella zona dell’aeroporto le intelligence di Stati Uniti e Gran Bretagna avevano avvertito del serio pericolo di attacchi terroristici da parte dell’Isis. E così è stato, senza che si potesse evitare o quantomeno limitare i danni. Anche i talebani, che sono considerati nemici in quanto corrotti dagli americani dai terroristi dell’Isis afghana, hanno puntato il dito contro gli Stati Uniti: “L’emirato islamico condanna fermamente gli attentati contro i civili all’aeroporto di Kabul, avvenuti in una zona dove la sicurezza è nelle mani nelle forze statunitensi”. Inoltre il portavoce Zabihullah Mujahid ha fatto sapere che i talebani “stanno prestando molta attenzione alla sicurezza e alla protezione della loro gente” e che i nemici saranno fermati. Intanto però arrivano notizie che a Kabul sono state udite due possibili nuove esplosioni nei pressi dell’aeroporto.

Afghanistan, quarta esplosione a Kabul: l’Isis rivendica gli attacchi. Ilaria Minucci il 26/08/2021 su Notizie.it. In Afghanistan, è stata segnalata una quarta esplosione a Kabul, più forte delle precedenti. Intanto, l’Isis ha rivendicato le prime due deflagrazioni. Una quarta esplosione è stata avvertita a Kabul: la nuova deflagrazione, descritta come più potente rispetto alla terza che l’ha preceduta, è stata localizzata nei pressi dell’aeroporto. In merito alle esplosioni avvertite nella capitale afghana, le prime due sono state ufficialmente rivendicate dall’Isis con una comunicazione diffusa dall’organizzazione terroristica mentre le ultime due sono state originate dalla distruzione controllata di equipaggiamenti condotta dall’esercito americano. Nella giornata di giovedì 26 agosto, la capitale dell’Afghanistan, Kabul, è stata bersagliata da quattro esplosioni che si sono tutte concentrate nelle vicinanze dell’aeroporto. L’ultima esplosione, in particolare, è stata riferita da alcuni fonti della sicurezza a Reuters, nota agenzia di stampa britannica, ed è stata descritta come più forte e violenta di quelle che l’hanno sinora preceduta. Le quattro esplosioni avvenute all’aeroporto di Kabul, tuttavia, hanno origini e spiegazioni differenti tra loro. Le prime due deflagrazioni, infatti, sono state recentemente rivendicate dall’Isis e possono essere considerate come degli attentati terroristici. Le ultime detonazioni, invece, come segnalato dal portavoce dei talebani Zabihullah, non possono essere classificate come attacchi kamikaze poiché sono scaturite dalla distruzione controllata di alcuni equipaggiamenti messa in atto dai militari americani. Per quanto riguarda la rivendicazione delle prime due esplosioni, l’Isis ha deciso di assumersi la paternità degli attacchi terroristici perpetrati ai danni dell’aeroporto di Kabul, diffondendo il seguente messaggio: “I talebani sono in combutta con gli USA per far fuggire le spie”. A questo proposito, sul canale Telegram dell’agenzia di stampa Amaq, strettamente connessa all’organizzazione terroristica, è stato annunciato che un kamikaze è riuscito a raggiungere un gruppo di collaboratori e di traduttori legati all’esercito americano. Il gruppo, avvicinato al Baran Camp in prossimità dell’aeroporto, ha osservato inerme la cintura esplosiva esibita dall’attentatore, pochi istanti prima che si facesse saltare in aria. L’attacco ha causato la morte di circa 60 persone e ha ferito oltre un centinaio di individui, inclusi alcuni talebani. L’agenzia di stampa Amaq, inoltre, rivendicando i due attentati, ha scritto: “Siamo riusciti a eludere la sicurezza imposta dalle truppe USA e dalle milizie talebane a Kabul e ad arrivare a meno di 5 metri dalle truppe americane”. L’organizzazione terroristica, poi, ha anche rivelato l’identità di un attentatore che dovrebbe rispondere al nome di Abdul Rahman al-Lowgari. Le identità degli altri componenti del gruppo di kamikaze entrato in azione, invece, restano al momento sconosciute. In seguito alla rivendicazione dell’Isis di due delle quattro esplosioni avvenute a Kabul, il presidente del Consiglio Mario Draghi è intervenuto sulla drammatica vicenda. Commentando l’attacco kamikaze perpetrato dall’organizzazione terroristica ai danni della popolazione afghana e dei militari americani e alleati, il premier Draghi ha dichiarato: “Condanno questo orrendo, vile attacco contro persone inermi che cercano la libertà. Ringrazio tutti gli italiani che ancora si prodigano in questo straordinario sforzo umanitario per salvare i cittadini afghani”. A distanza di undici giorni dal ritorno al potere dei talebani in Afghanistan, nella giornata di giovedì 26 agosto, la capitale Kabul è stata colpita da quattro esplosioni tra le 16:00 e le 21:00, ora italiana. Tutte le detonazioni sono state registrate all’aeroporto internazionale di Kabul, presso il quale continuano a essere in corso le operazioni di evacuazione coordinate dagli Stati Uniti d’America e dai Paesi alleati. In questo contesto, il bilancio aggiornato delle vittime e dei feriti associato alle deflagrazioni è salito a 72 morti e 140 feriti, secondo quanto riportato dai media internazionali. I soldati americani che hanno perso la vita, invece, sono al momento 12 mentre nessun italiano figura né tra le vittime né tra i feriti provocati dalle esplosioni. Sulla base delle informazioni diramante dalla CBS, il bilancio aggiornato delle morti ha raggiunto le 90 vittime. In merito a quanto avvenuto a Kabul nelle ultime ore e in seguito alla rivendicazione delle prime due detonazioni all’aeroporto della capitale afghana, si è espresso il Pentagono. I portavoce del quartier generale del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti d’America, infatti, hanno dichiarato: “Non crediamo che i talebani abbiano favorito l’attacco dell’Isis. Al momento, si pensa che gli autori siano due kamikaze del Califfato”. La situazione presente in Afghanistan, inoltre, dovrebbe essere oggetto di un imminente discorso pronunciato per la Nazione americana dal presidente Joe Biden. Il presidente, infatti, dovrebbe rilasciare alcune dichiarazioni nella serata intorno alle 23:00, ora italiana. In occasione del suo discorso alla popolazione americana, il presidente Joe Biden ha esordito, ammettendo: “È stato un giorno molto duro. L’attacco terroristico dell’Isis-k ha ucciso e ferito alcuni americani e molti afghani. Gli americani morti sono eroi, morti in una missione che ha salvato milioni di vite. Le vite che abbiamo perso erano soldati a servizio dell’America. Chi è caduto oggi è parte della grande confraternita degli eroi americani. Noi non perdoneremo. Noi non difenderemo. Vi daremmo la caccia e ve la faremo pagare”. Focalizzando il suo intervento sul ruolo e sul valore dei soldati americani e commemorando la memoria dei militari deceduti negli attacchi terroristici di Kabul, il presidente americano ha ribadito: “I nostri soldati sono parte dell’esercito più capace e coraggioso sulla faccia della terra. Sono parte della spina dorsale dell’America, il meglio che il paese può offrire. Jill ed io siamo distrutti, come tutti voi, per tutte le famiglie afgane che hanno perso dei loro cari, anche bambini, in questi vili attacchi. Capiamo benissimo quello che stanno provando le famiglie in questi giorni, ho perso anch’io un figlio tornato dalla guerra. Le vite perdute sono vite date al servizio della libertà, della sicurezza, degli altri e dell’America. Come tanti loro fratelli e sorelle morti per difendere i nostri valori e combattere il terrorismo, per quelli che hanno compiuto l’attacco, noi non dimenticheremo e non lo perdoneremo. Ho anche ordinato di colpire i comandanti e gli stabilimenti dell’Isis-k. Questi terroristi non vinceranno – e ha aggiunto –. Nessuno aveva previsto la caduta dell’Afghanistan in 11 giorni. Tuttavia, è anche nell’interesse dei talebani che l’ISIS-K non si espanda, e anche che riusciremo ad andarcene in tempo”. Infine, Biden ha confermato la volontà di completare il ritiro delle truppe e le operazioni di evacuazione entro il prossimo 31 agosto, spiegando: “Questa missione è molto pericolosa, per questo ho voluto limitarne la durata. Nelle scorse settimane siamo stati avvisati dall’intelligence che l’Isis-k stava preparando attacchi contro gli americani e altri. È per questo che ero così determinato a far durare il meno possibile questa missione. Siamo stati in contatto costante con i comandanti delle forze armate e siamo determinati a concludere l’evacuazione. L’evacuazione continuerà, l’America non sarà intimorita. Ho acconsentito a tutto quello che i comandanti dell’esercito volevano per proteggere. Voglio ringraziare la difesa, il Pentagono e tutti quelli a Kabul per il lavoro che stanno facendo e per l’eccezionale unità. Queste persone stanno rischiando tutto per salvare e proteggere le persone che amano”. Rispondendo, poi, a una domanda dei giornalisti, il presidente americano ha dichiarato: “Noi continueremo la missione e quando sarà finita ogni americano che vorrà uscire dall’Afghanistan verrà trovato e portato via. Se invierò più truppe? Se ce ne sarà il bisogno ne manderò di più, sotto consiglio dei militari, per ora la missione prosegue così. Una volta finita saranno prese tutte le misure necessarie per evacuare i rimanenti cittadini americani”. In merito all’attacco terroristico dell’Isis a Kabul che ha ucciso 12 soldati americani, Biden ha condiviso con il Paese le informazioni precedentemente ricevute dall’intelligenze: “Sono stato informato dai nostri comandanti sul campo che non c’è stata collusione tra i talebani e l’ISIS-K su quello che è successo oggi e su quello che ci aspettiamo che accada”. Tornando a soffermarsi sulle operazioni di evacuazione in atto in Afghanistan, invece, il presidente ha ricordato: “Ci sono molte persone che potrebbero andarsene ma che ancora sono lì, noi dobbiamo riuscire a portarle fuori. Non abbiamo altra scelta che aiutare queste persone. Agli afghani che non riusciranno ad uscire entro il 31 dico che li tireremo fuori. Purtroppo, in nessuna guerra che finisce un paese riesce a far uscire tutti quelli che vogliono”. A proposito delle strategie militari adottate, l’ex vicepresidente di Obama ha ammesso: “Per le questioni tattiche mi affido alla competenza dei militari, secondo loro era meglio non concentrarsi su Bagram ma su Kabul, quindi ho seguito i loro consigli. Mi prendo la responsabilità per tutto quello che è successo”. Il discorso del presidente Biden, infine, ha rimarcato che gli accordi per il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan era stato stabilito con i talebani dal suo predecessore, asserendo: “Sapete meglio di me che un ex presidente ha fatto un accordo con i talebani. Ricordate che l’accordo era di ritirarsi il 1° maggio e che non avrebbero attaccato le truppe americane? – e ha aggiunto – Immaginate dove saremmo se avessi cambiato l’accordo, se fossimo rimasti lì. Avrebbe voluto dire migliaia di truppe in Afghanistan a combattere una guerra che abbiamo già parzialmente vinto per il motivo per cui siamo andati, che non è creare una democrazia – e ha concluso –. Signori e signore era il momento giusto per terminare una guerra durata vent’anni”.

"60 morti e 130 feriti". Ancora esplosioni. E l'Isis pubblica la foto del kamikaze. Francesca Galici il 26 Agosto 2021 su Il Giornale. Gli attentati sventrano Kabul e il suo aeroporto, diventato sempre meno sicuro. Tre ordigni sono esplosi in una sola giornata e il bilancio dei morti è destinato a crescere. Giornata di sangue a Kabul, dove dopo le due esplosioni del pomeriggio nella zona aeroportuale, nel corso della tarda serata ne sarebbe avvenuta un'altra a 7 chilometri dallo scalo. La rivendicazione è stata dell'Isis. La stagione degli attentati era stata ampiamente annunciata e prima ancora che scadesse l'ultimatum del 31 agosto dato dai talebani alle truppe americane e straniere, i terroristi hanno colpito nel punto ora più delicato della città afghana. Il bilancio è ancora incerto, ma finora si parla di almeno 90 persone uccise all’aeroporto, tra le quali 12 soldati americani, e 150 feriti. Al momento non ci sono notizie di italiani coinvolti ma la Farnesina è costantemente in contatto con le truppe e con il contingente diplomatico ancora in aeroporto per continui aggiornamenti. La situazione di Kabul è confusionaria. Prima degli attentati, alcuni uomini hanno sparato contro un C-130 dell'Aeronautica militare italiana in decollo, che fortunatamente non ha riportato danni. Il pilota, con alcune manovre diversive, è riuscito a spostare il velivolo dalla traiettoria di tiro portando in salvo l'aereo e il suo carico di giornalisti e civili. L'allerta nella capitale afghana è alta da diversi giorni, tanto che gli Stati Uniti avevano già avvisato i loro cittadini di non recarsi in aeroporto. Ma è proprio nei pressi del Baron hotel, la struttura nei pressi dello scalo di Kabul che ospita gli americani in attesa di rimpatrio, che stando a quanto si apprende si sarebbe fatto esplodere un kamikaze, del quale l'Isis ha diffuso una foto con la rivendicazione. Dopo pochi minuti, invece, quella che si presume sia stata un'autobomba, è esplosa nei pressi Abbey Gate dell'aeroporto. Ma l'azione dei terroristi è stata orchestrata con un ulteriore intervento armato da parte di alcuni uomini che, dopo le esplosioni, hanno esploso dei colpi verso l'alto, probabilmente per disperdere i presenti e coprire la fuga. Il terzo attentato nel centro della città sarebbe stato innescato da un veicolo talebano "che ha colpito un ordigno esplosivo improvvisato nel centro di Kabul". Così riporta Murad Gazdiev, corrispondente in Afghanistan di Russia Today, ma nel corso della serata ci sarebbero state altre esplosioni in vari punti della città. Le immagini che arrivano da Kabul sono strazianti. Un giornalista afghano è riuscito a raggiungere la zona di Abbey Gate, registrando alcuni video dove si vedono brandelli umani sparsi ovunque. "Ci sono molti morti vicino a me e il canale è diventato color sangue", dice chi è sopravvissuto. "Io e la mia famiglia eravamo lì vicino coi nostri due bambini, ci stiamo da quattro giorni in attesa di essere imbarcati su un volo che da Kabul ci porti in Italia. Tanti i civili come noi morti, chi ha potuto come noi è fuggito con un taxi il più lontano possibile", ha riferito all'Adnkronos un ex interprete e capitano dell'esercito afghano. Ora la tensione all'aeroporto di Kabul è alle stelle. Si teme lo scalo possa essere fatto oggetto di razzi, pertanto i militari di presidio hanno chiesto a tutti i presenti di cercare un posto sicuro in cui ripararsi in caso di attacco. Dopo i fatti di oggi, l'Italia sta accelerando le operazioni di rimpatrio che sarebbero dovute terminare domani e già stanotte dovrebbero essere ultimati tutti i trasferimenti. Nelle prossime ore, come riporta l'Adnkronos, è prevista la partenza da Kabul di tutti gli italiani civili, diplomatici e militari. Tra loro anche il console a Kabul Tommaso Claudi e l'ambasciatore Stefano Pontecorvo, rappresentante civile della Nato in Afghanistan. Presso lo scalo di Kabul, fa sapere il portavoce del Comando centrale delle Forze armate Usa (Centcom), John Rigsbee, alla Cnn, le forze della Coalizione hanno provocato una serie di esplosioni controllate e previste. Intanto i talebani, tramite il loro portavoce Zabihullah Mujahid, hanno condannato l'accaduto riversando le responsabilità sugli Stati Uniti: "Condanniamo in modo forte l'attentato contro civili all'aeroporto di Kabul, che è avvenuto in un'area in cui la sicurezza è nelle mani delle forze Usa". I talebani si sono dovuti scontrare contro l'Isis nella loro avanzata di conquista ma non è da escludere che durante le liberazioni indiscriminate abbiano lasciato liberi anche pericolosi terroristi. 

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio. 

Le lacrime di Kabul. Matteo Carnieletto su Inside Over il 26 agosto 2021. I volti di Moahammad, Hassan e Said scompaiono nella folla che riempie l’aeroporto di Kabul. Le loro storie si perdono, mischiandosi a quelle di tanti altri. C’è chi ce l’ha fatta e ora si trova all’interno del gate, con un aereo che lo aspetta; e c’è chi, invece, inizia a capire che non c’è più speranza. Che non c’è più un posto libero con scritto il suo nome. Game over. Anche se questo non è mai stato un gioco, nonostante le molte corse, fatte con il cuore in gola, verso l’aeroporto. Tra quelli che restano c’è la famiglia di C.. Lui e lei, innamorati come pazzi, e due bambini di sette e due anni. Il più piccolo ha rischiato di morire schiacciato, calpestato dalla mandria impazzita che, a ondate regolari, assaltava Abbey Gate, il punto dell’aeroporto di Kabul che rappresenta il ponte per il nostro Paese. Quando il bimbo è scomparso, anche se solo per un attimo, suo padre ha capito che era arrivato il momento di dire basta. Quel posto era ormai troppo pericoloso per loro quattro. Nel fiume che li separava da un aereo per l’Italia, con metà gambe immerse nell’acqua, avevano passato cinque lunghi giorni. Dal 20 agosto, il giorno in cui la Difesa li aveva chiamati, fino alla giornata di ieri. Poi, dopo aver visto che rischio aveva corso il loro figlio più piccolo, se ne sono andati. La speranza aveva ceduto il passo alla paura. Bisognava uscire, salvare la vita. Almeno per un momento. Poi chissà. Ora chiedono che qualcuno li aiuti a raggiungere l’aeroporto, funestato oggi da due bombe che non hanno fatto solamente 40 morti e oltre 120 feriti, ma che, molto probabilmente, hanno accelerato la fuga dei Paesi occidentali dall’Afghanistan. “Gli americani non devono morire in una guerra che a Kabul non combattono”, ha detto il presidente Joe Biden. Così sarà, non è stato. Sarebbero infatti oltre 10 i marines morti nell’attentato che ha insanguinato Kabul. A rimanere non sono solo i ritardatari, quelli che si sono mossi per ultimi e che sono arrivati in aeroporto da pochi giorni. C’è anche chi è troppo lontano per mettersi in viaggio su strade ormai pericolose. Per un anno, N. ha lavorato con gli italiani nel distretto di Shindand, nella provincia di Herat. Mesi intensi, in cui ne ha viste di tutti i colori. “Se rimango qui mi troveranno. Ho molta paura”, racconta. Che fare dunque? La strada per Kabul è lunga e la percezione è quella che gli eserciti occidentali non rimarranno a lungo. “So che avete poco tempo, l’aeroporto per me è irraggiungibile”. N. si dà così alla macchia, lontano da tutti. Ma con la certezza di aver il fiato sul collo. S., invece, non ha mai potuto sperare in un volo. Ha cinque figli, di cui uno malato di leucemia. Ha ottenuto il visto da diversi Paesi, ma i talebani non gli hanno mai fatto oltrepassare i checkpoint: “Mi hanno preso a schiaffi, terrorizzando i miei figli. A loro non importa nulla dei documenti che avevo con me”. Così ha fatto marcia indietro, si è rifugiato in un posto sicuro e non è più tornato all’aeroporto. Ma suo figlio necessita di cure e non è detto che ora potrà averle. L’attentato di oggi ha stravolto gli animi degli afghani, già tormentati da oltre dieci giorni di incertezze. Il senso di abbandono s’impossessa di chi non riesce ad avvicinarsi al gate: “Non posso più aspettare”, sbotta A., “ho provato a salvare la mia vita e andare all’Abbey gate per raggiungere l’Italia e vivere una vita sicura e migliore. Ma ora mi sento in pericolo, sento su di me la morte e il disonore. Per questo torno indietro”. Subito però viene bloccato da M.: “Per parlare così devi essere pazzo. Non sai come si stanno comportando gli italiani e non sai che l’esercito italiano sta facendo il possibile per portare i suoi alleati afghani all’interno dell’aeroporto. Io l’ho visto con i miei occhi”. Ma sono le bombe di oggi a cancellare quel poco di speranza che ancora albergava nel cuore degli afghani. “Hanno ferito un mio amico e mio fratello minore”, scrive E., mentre manda la foto di un uomo in un letto di ospedale, coperto solamente da un lenzuolo e attaccato all’ossigeno. Tutto sembra ormai finito. Due bombe, probabilmente dell’Isis, hanno messo fine all’evacuazione dei civili afghani. “Non sappiamo più cosa fare? Rimaniamo qui o torniamo nei nostri villaggi”, si chiedono. E nessuno, ora, sa dare una risposta.

 Nel campus dell’élite talebana, “Così formiamo i capi afghani”. Fabio Tonacci su La Repubblica l'1 settembre 2021. Nella madrassa di Darul Uloom Haqqania dove studiarono il mullah Omar, il successore Mansur e i terroristi Haqqani. Superando Peshawar e seguendo le acque sporche del fiume Kabul si incontra una cittadella caotica di nome Akora Khattak. Appare all'improvviso tra i campi di mais e di canne da zucchero, preceduta da un reticolo di vie sterrate, tuguri costruiti col fango, cave di sassi, venditori di ruote, pastori con le capre e botteghe che hanno sul retro artigianali pompe di benzina. 

Afghanistan, infiltrati e bombe: l’incognita Isis-K sul futuro dell’Emirato. Antonio Giustozzi su La Repubblica l'1 settembre 2021. All’Est e nel Nordest del Paese molti combattenti hanno simpatia per lo Stato islamico. Tra i talebani c’è chi pensa che sia la resistenza in Panshir che lo Stato islamico in Khorasan possano venir liquidati abbastanza facilmente, nel corso di operazioni che si potrebbero qualificare quasi di polizia. Ma lo Stato islamico ha accumulato (a sue spese) una considerevole esperienza nel combattere i talebani e non sarà facile da distruggere. 

Afghanistan, il fattore K dell'Isis: "Annegare nel sangue Usa e talebani", cosa c'è dietro gli attentati all'aeroporto. Libero Quotidiano il 26 agosto 2021. "Annegare nel sangue la Casa Bianca e i nuovi signori di Kabul, sconvolgendo subito, sia politicamente che militarmente, il fragilissimo equilibrio creatosi tra americani e talebani": sarebbe questo il movente degli attentati in Afghanistan, che sono costati la vita ad almeno 40 persone (tra cui diversi bambini e 10 militari americani), ferendone più di cento. Attentati dietro cui sembra proprio che si celi il fattore K dell'Isis. Si tratta dello stato islamico della provincia del Khorasan ed è il gruppo affiliato all’Isis in Afghanistan. Il gruppo del Khorasan, territorio al confine afghano con il Pakistan, è quello che non solo ha firmato, dal 2015 in poi, tutti i principali attentati a Kabul, ma è anche quello che negli ultimi sei anni ha conteso ai talebani il monopolio delle operazioni terroristiche contro obiettivi militari e civili all’interno del Paese. La loro convinzione, infatti, è che l'etnia Pashtun, quella dei talebani, sia religiosamente “impura” e politicamente compromessa con l'America. Quello tra gli "studenti coranici" e i combattenti del Khorasan, comunque, è un odio reciproco. Tant'è che il 15 agosto, quando Kabul è caduta definitivamente nelle mani dei talebani, l'unico detenuto messo in libertà e giustiziato è stato Abu Omar Khorasani, uno dei comandanti di vertice dell’IS nel sud-est asiatico, in carcere da un anno dopo essere stato arrestato dalla polizia dell’allora governo Ghani. L'obiettivo dell'Isis adesso, come scrive Repubblica, sarebbe quello di "innescare sul terreno una reazione a catena dagli esiti difficilmente prevedibili".

Sono loro i principali sospettati dell'attentato di Kabul. Cos’è l’Isis-K, i terroristi nemici dei talebani che minacciano l’occidente. Riccardo Annibali su Il Riformista il 26 Agosto 2021. L’intelligence statunitense lo aveva preannunciato e poi l’attentato si è realmente verificato all’aeroporto internazionale di Hamid Karzai di Kabul. Un’esplosione che ha provocato almeno 13 morti, poi spari sulla folla ed ancora una seconda deflagrazione, nessun italiano sembra essere rimasto coinvolto. Tra i molti feriti però ci sarebbero tre marines statunitensi, ma l’intelligence inglese ha smentito le agenzie tedesche che avevano confermato il ferimento di altri soldati britannici. L’attacco non è ancora stato rivendicato, ma tutto fa pensare gli esperti un coinvolgimento dell’ISKP, l’Islamic State della provincia afghana del Khorasan, conosciuto anche come Isis-K. CHE COS’È L’ISIS K – Convinti che l’etnia Pashtun (gruppo etnico dell’Afganistan centro-meridionale) sia religiosamente impura e politicamente compromessa a causa del loro dialogo con gli americani a lungo presenti nella nazione, l’Isis K nasce tra il 2014 e il 2015 dalle defezioni di alcuni comandanti talebani che hanno deciso di giurare fedeltà all’Isis dopo la propaganda di Daesh nel territorio. Nel 2014 i leader delle due organizzazioni jihadiste hanno giurato fedeltà ad Abu Bakr al-Baghdadi, capo dell’Isis fino al 2019. A gennaio 2015 il portavoce ufficiale di Daesh Abu Muhammad al-Adnani ha accettato l’affiliazione degli ex studenti coranici annunciando l’espansione del califfato dell’Isis alla provincia di Khorasan, regione storica che incorpora parti dell’Afghanistan e del Pakistan. Da quel momento in poi l’Isis ha iniziato a reclutare in particolare tra i fondamentalisti fino a che nel giugno del 2015 i due gruppi jihadisti hanno cominciato a combattere per la guida e il controllo della guerra in Afghanistan, e l’Isis K è riuscita a conquistare altre province oltre il Kurashan anche grazie alla convergenza del Movimento islamico dell’Uzbekistan (Imu), che ad agosto di quell’anno ha promesso fedeltà all’Isis dichiarandosi membro del Wilayah Khorasan.

COSA VUOLE L’ISIS K – Secondo un report delle Nazioni Unite oggi l’Isis K conta tra 1.500 e 22mila militanti in Afghanistan. L’Isis K non crede in un’agenda politica perché convinta che solo Dio possa governare. Ma per loro un Emirato Islamico non è sufficiente e vogliono portare avanti una guerra permanente in nome della Sharia. La più ferrea ortodossia della legge islamica è l’unica legge nei territori che controllano, trucidano civili sospettati di essere spie e usano violenza contro chiunque si metta sulla loro strada. Questo aspetto ancora più radicale e violento è quello che attrae i talebani più fondamentalisti. Anche se la forza numerica e il peso militare dei talebani è di gran lunga superiore a quella dell’Isis K, in questi anni hanno messo a segno diversi attacchi suicidi, incluso quello nella scuola femminile, in cui questa primavera sono morte 68 persone. Riccardo Annibali

Il kamikaze liberato di galera. I talebani consegnano all'Isis un nuovo esercito di terroristi. Gian Micalessin il 4 Settembre 2021 su Il Giornale. Le tesi sulla conversione dei talebani in «tale-buoni», sulla loro volontà di affrancarsi dal terrorismo e sull'ipotetica sconfitta di quest'ultimo si stanno rivelando una pia illusione alimentata dell'amministrazione Biden nel tentativo di giustificare il disastro afghano. A suggerirlo contribuiscono sia l'attentato di ieri in Nuova Zelanda, rivendicato dall'Isis, sia le rivelazioni della stessa organizzazione secondo cui l'autore della strage all'aeroporto di Kabul, costata la vita a 170 persone tra cui 13 marines americani, era stato liberato dal carcere dagli stessi talebani solo poche ore prima della conquista della capitale. Ma partiamo da Aukland. Il ritorno in campo di un «lupo solitario» armato di coltello dimostra quel che tutti già paventavano. La vittoria talebana, ben lungi dal restare un fatto isolato, si è già trasformata in un potente catalizzatore capace di risvegliare una galassia jihadista uscita tramortita dalle sconfitte di Mosul e di Raqqa. La vicenda del kamikaze dell'aeroporto spiega invece quanto infondata sia la pretesa di valutare, con razionalità tutta occidentale, la contrapposizione tra Al Qaida, talebani e Stato Islamico. Quelle contrapposizioni, seppur capaci di spingere allo scontro armato le diverse fazioni, non ostacolano, nè impediscono, quel fenomeno dei vasi comunicanti che spinge militanti e capi-bastone a transitare da un campo all'altro dello schieramento jihadista. Al Baghdadi, fondatore dello Stato Islamico e del Califfato era stato il capo di Al Qaida in Iraq. Al Qaida, invece, non si fa problemi a salutare con entusiasmo la vittoria dei talebani in Afghanistan riconoscendo al loro capo spirituale Hibatullah Akhundzada il titolo, tutt'altro che onorifico, di Amir ul-Muminun, ovvero Emiro dei Credenti. Proprio da quel titolo sembra derivare ad Akhunzada una sorta d'autorità trasversale capace di estendersi dalla galassia talebana fino alle frange terroriste nascoste sotto il cappello di Al Qaida. E lo stesso vale per l'Isis. La vicenda di Abdul-Rahman al-Logari, il kamikaze responsabile della strage ai cancelli dell'aeroporto di Kabul, è al riguardo assai emblematica. Fino al 15 agosto, giorno della conquista talebana della capitale, Logari era uno dei 4mila ospiti di Pul I-Charki, la galera alle porte della capitale dov'erano tenuti prigionieri militanti talebani, delinquenti comuni e terroristi di Al Qaida e dell'Isis. A rimettere tutti in libertà, senza distinzione di banda o fazione, ci pensarono i talebani in marcia verso la capitale. Restituendo così all'Isis una forza di parecchie centinaia di combattenti. A raccontarlo ci ha pensato, ieri, una pubblicazione in rete dello stesso Isis. «Dopo che le forze del governo sono fuggite Abdul-Rahman al-Logari e diversi altri - racconta il blog jihadista - sono scappati dal carcere e si sono precipitati dai loro fratelli» per compiere l'attacco suicida. Ma dietro la mossa di un movimento talebano che ha non solo rimesso in libertà i propri rivali, ma ne ha anche rivitalizzato le capacita operative, si nasconde una comune fede jihadista pronta a tutto pur di contrapporsi ad un governo alleato degli «infedeli» occidentali. Per questo è assolutamente vano illudersi che i talebani rispettino le intese assunte a Doha denunciando o bloccando i militanti dei gruppi terroristi pronti a usare l'Afghanistan come base per nuovi attacchi all'Occidente. Un'attitudine già vista 20 anni fa quando il Mullah Omar e i suoi preferirono farsi annientare piuttosto che consegnare agli americani l'alleato e amico Osama Bin Laden. 

Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria passando per le guerre della Ex Jugoslavia, del Sud Est asiatico, dell’Africa e dell’America centrale.

Afghanistan, i Talebani avevano liberato dal carcere l’attentatore suicida dell’aeroporto. Roberto Frulli venerdì 3 Settembre 2021 su Il Secolo d'Italia. Era stato liberato da una prigione afghana pochi giorni prima, mentre collassava il governo di Ashraf Ghani ed i Talebani salivano al potere, l’attentatore suicida che lo scorso 26 agosto si è fatto saltare in aria all’aeroporto di Kabul. Lo ha rivelato Isis-K , l’organizzazione terroristica della Provincia del Khorasan che ha rivendicato il devastante attacco costato la vita a 170 persone decedute nell’attentato, tra cui 13 militari americani. La notizia è stata riportata dalla Bbc, citando una newsletter online di Isis-K, nella quale si precisa che l’attentatore suicida, Abdul Rahman al-Logari, ed “un certo numero di suoi fratelli” erano stati liberati da una prigione “mentre le forze dell’ex-governo fuggivano”. Non appena libero, si precisa, l’uomo “si era affrettato ad unirsi ai suoi fratelli” dell’Isis ed era stato inserito nella lista degli attentatori suicidi del gruppo. La Bbc ricorda che il 15 agosto i Talebani hanno liberato migliaia di detenuti dal carcere Pul-e-Charkhi di Kabul nel quale erano rinchiusi sia membri di al-Qaeda che dell’Isis. Intanto sembra definirsi meglio il quadro sul futuro governo dei Talebani a Kabul: sarà Mullah Baradar a guidarlo, secondo “India Today”. Baradar, uno dei co-fondatori dei Talebani, come ricorda il quotidiano indiano, venne catturato dalle forze di sicurezza nel 2010 a Karachi, in Pakistan, e scarcerato nel 2018. Il capo dell’ufficio politico del movimento in Qatar è tornato a Kabul nelle ultime settimane dopo la presa del potere da parte dei Talebani. Intanto, nella Valle del Panshir, l’ultima parte dell’Afghanistan che ancora i Talebani non riescono a controllare, la popolazione, sotto la leadership di Ahmad Massoud, figlio 32enne del comandante Ahmad Shah Massoud, il celebre ‘Leone del Panshir‘, si prepara a resistere all’offensiva annunciata dagli ex-studenti coranici. Soli, ma “pronti a resistere”, dice, in un’intervista al Corriere della Sera, Fahim Dashti, portavoce del giovane Massoud. Secondo Dashti, tra i panshiri ed i Talebani non ci sono state trattative reali. “Noi del Fronte Nazionale di Resistenza – ha affermato – volevamo risolvere i problemi di convivenza tra le varie componenti del Paese. Loro, i Talebani, hanno solo cercato di comprarci, offrendo un ministero ad Ahmad Massoud o a un suo rappresentante a scelta”. “In alternativa – rivela il portavoce – gli hanno garantito di conservare le sue proprietà sia in valle sia a Kabul. E mentre gli dicevano queste cose al telefono i miliziani attaccavano. La guerra non è cominciata ieri, ma lunedì”, smentisce. Dashti sottolinea che nella valle sono arrivati “oppositori, soldati, poliziotti, forze speciali, ministri e deputati di province diverse. Oltre naturalmente al vice presidente Saleh. La nostra non è una resistenza etnica, ma nazionale”. Rispetto all’annuncio dei Talebani che sostengono di aver già conquistato diverse posizioni, Dashti replica che si tratta di “propaganda. Hanno tentato sortite su più fronti, è vero, ma sono stati sempre respinti”. Oggi, intanto, riprendono i voli interni dall’aeroporto di Kabul, come ha confermato l’emittente afghana ‘Ariana‘, dopo che ieri Al Jazeera aveva anticipato la notizia citando un funzionario dell’Aviazione civile afghana. Nelle scorse ore il ministro degli Esteri del Qatar, Mohamed bin Abdelrahman Al Thani, aveva espresso l’auspicio che l‘aeroporto di Kabul potesse riaprire quanto prima. “Stiamo ancora valutando la situazione”, aveva detto precisando che i Talebani e le autorità qatariote stavano cercando di identificare “rischi e possibili guasti” all’aeroporto. In questo scenario si inquadra la visita del ministro degli Esteri britannico, Dominic Raab, atteso in Pakistan per colloqui incentrati sulle evacuazioni dall’Afghanistan, ora che si è concluso il ponte aereo con l’Occidente, e la prevenzione del terrorismo. La visita segue gli stanziamenti per 30 milioni di sterline da parte del governo britannico per i Paesi confinanti con l’Afghanistan e che in questa fase sono i più interessati dai flussi di rifugiati. Nei due giorni di colloqui con le autorità pakistane, Raab discuterà di come convincere i Talebani a garantire un passaggio sicuro per le persone che vogliono lasciare l’Afghanistan e di come impedire che il Paese diventi un hub per i gruppi terroristici.

Afghanistan, Isis-K e la sua rete pronti a seminare il terrore. Gianluca Di Feo su La Repubblica il 27 agosto 2021. Per indebolire il governo talebano le frange più estreme del fondamentalismo daranno la caccia ai mille cittadini Usa rimasti nel Paese. La variante K è solo la prima delle mutazioni terroristiche che potranno prosperare in Afghanistan. I talebani non sono mai riusciti ad avere il controllo totale del Paese, dove - con o senza il loro beneplacito - oltre all'Isis-K ora nasceranno altre formazioni jihadiste. Non a caso, usando un paragone con la pandemia, Mosca ha detto che la priorità è impedire lo "spillover": il contagio nei Paesi confinanti. Che è uno degli obiettivi del movimento responsabile dell'ultima strage di Kabul: la K della sigla sta per Khorasan, l'antica regione che comprendeva pure parte dell'Iran, del Tagikistan, dell'Uzbekistan e del Turkmenistan. Isis-K vuole impedire qualsiasi stabilizzazione dell'Afghanistan. Combatte i talebani come negli scorsi anni ha cercato di aizzare la guerra civile, seminando bombe tra la comunità sciita degli hazara e la minoranza tagika. La sua roccaforte è sul confine pachistano, non lontano da Tora Bora dove Osama Bin Laden riuscì a sfuggire agli americani, con una radicata presenza nella capitale. Oggi è prevedibile che scatenerà la caccia ai cittadini Usa - almeno mille - e alle decine di migliaia di collaboratori che non sono riusciti a fuggire. Lo farà per mostrarsi più intransigente dei nuovi dominatori di Kabul e per mettere in luce l'inaffidabilità del governo talebano, che ha promesso di permettere le partenze di chi ha un visto. Gli avanguardisti del Daesh non faticheranno a trovare armi più potenti, rifornendosi negli arsenali abbandonati dall'esercito nazionale, e probabilmente finanziatori stranieri interessati a indebolire i talebani. Con queste nuove energie cercherà di mettere a segno altri colpi clamorosi contro gli occidentali, necessari a propagandare le sue capacità ed arruolare reclute. E farà di tutto per creare cellule armate in Tagikistan, Uzbekistan e Kyrgyzstan. Lo scenario più terribile è che, sull'onda di Kabul, questa epidemia rivitalizzi le schegge dello Stato Islamico disperse nel Medio Oriente dopo la disfatta di Mosul: l'ultimo comandante militare del Califfato era proprio un tagiko - Gulmurad Khalimov - ucciso nel 2017 dai russi in Siria. Isis-K non è che una delle tante sigle letali in grado di svilupparsi dal focolaio afghano. Nella galassia magmatica del fondamentalismo armato vengono già segnalate altre frange - come il Tehreek-e-Taliban pachistano - che aprono sedi a Kabul, convinte finalmente di avere un oasi dove agire alla luce del sole. E proprio l'attentato contro l'aeroporto, con i 13 militari statunitensi uccisi, dimostra quanto fosse importante la missione della Nato in Afghanistan. Certo, non sono servite a impedire il massacro dell'aeroporto, ma l'intelligence disponeva di informazioni dettagliate sui piani dell'attacco: erano note la natura - kamikaze lanciati tra la folla - e il bersaglio - l'Abbey Gate. Notizie che si ottengono solo grazie a infiltrati e agenti sul campo, quello che gli esperti chiamano "Humint". Sin dalla sua nascita, gli americani hanno contrastato la crescita di Isis-K. Nel 2017 la centrale sotterranea nella zona di Nangarhar fu devastata con il colossale ordigno Moab, la "madre di tutte le bombe". L'esplosione, simile a un fungo atomico, ha avuto un risultato psicologico più che operativo, ma è stata seguita da decine di blitz della Cia e delle forze speciali che ne hanno dimezzato i ranghi: si stima che oggi possa contare su circa duemila miliziani. Fino a giovedì scorso, Isis-K non è mai riuscita a minacciare obiettivi americani. E dal 2001 nel mondo non c'è più stato un attacco pianificato in Afghanistan e condotto all'estero. Una situazione molto differente rispetto a quanto accaduto in Somalia o Yemen, dove l'assenza di truppe occidentali ha permesso di lanciare offensive nei Paesi confinanti e progettare operazioni in Europa. O nel Mali, dove la scarsa efficacia dell'intervento francese ha lasciato proliferare le "bandiere nere" in tutto il Sahel. Dalla prossima settimana però anche l'Afghanistan sarà fuori controllo. Una situazione peggiore a quella anteriore all'11 settembre: gli Stati Uniti non avranno neppure una base nei Paesi vicini, mentre all'epoca potevano almeno contare sulle postazioni in Tagikistan e Kyrgyzstan, che adesso sono tornati al fianco di Mosca. Infiltrare spie sul terreno diventerà difficile, sia per la sfiducia generata dalla ritirata, sia per l'assenza di strutture stabili. La sorveglianza sarà affare di satelliti, droni e intercettazioni. Ossia la rete elettronica che ha fallito nel prevenire la distruzione delle Torri Gemelle: dallo spazio è impossibile distinguere una fattoria afghana da un comando di Al Qaeda, mentre le salve di missili lanciate più volte contro Osama Bin Laden non hanno mai scalfito la sua organizzazione. Lezioni di cui non abbiamo saputo fare tesoro.

Cos’è l’ISIS-K, spiegato. La divisione afghana dello Stato Islamico responsabile dell'attentato a Kabul è nata diversi anni fa: è nemica dei talebani e di al Qaida, oltre che dell'Occidente. Elena Zacchetti Il Post.it il 27 agosto 2021. Giovedì la divisione afghana dell’ISIS ha compiuto un violentissimo attentato all’aeroporto di Kabul che ha ucciso decine di civili afghani, talebani e militari statunitensi. L’attentato non era inaspettato: già nei giorni precedenti diversi servizi d’intelligence occidentali avevano concluso che un attacco dell’ISIS a Kabul fosse molto probabile e giovedì i governi di Stati Uniti e Regno Unito avevano invitato i propri cittadini a tenersi alla larga dalla zona dell’aeroporto, dove da giorni stanno proseguendo le operazioni di evacuazione di stranieri e afghani. L’attentato, ha scritto il giornalista del Washington Post John Hudson, è stato particolarmente tragico perché era atteso: «L’unica speranza per contrastarlo erano i talebani», che da giorni controllano l’esterno dell’aeroporto con checkpoint e verifiche di vario tipo e che avrebbero dovuto intercettare gli attentatori prima che si avvicinassero alle zone più affollate. Inoltre la minaccia denunciata dalle intelligence occidentali era sembrata subito molto seria e credibile: l’ISIS-K (o ISKP, o Provincia del Khorasan dello Stato Islamico) è infatti presente in Afghanistan da diversi anni, e si è reso responsabile di gravissimi attentati. Potrebbe sembrare strano, o contraddittorio, che un gruppo sunnita, jihadista e terroristico (l’ISIS) faccia un attentato contro i civili di un paese che oggi si trova sotto il controllo di un altro gruppo sunnita e fondamentalista (i talebani), molto vicino a un’organizzazione terroristica anch’essa sunnita (al Qaida). L’inimicizia tra le due fazioni, però, non è una cosa degli ultimi giorni: va avanti da tempo e si inserisce nella più ampia rivalità tra organizzazioni terroristiche – al Qaida e ISIS principalmente – per la supremazia del mondo jihadista. È importante saperlo, perché i rapporti tra questi gruppi potrebbero condizionare il prossimo futuro dell’Afghanistan. L’ISIS-K fu fondato di fatto nel 2014 da qualche centinaia di talebani pakistani che trovarono rifugio poco al di là del confine, in Afghanistan, dopo essere fuggiti da alcune offensive militari compiute dalle forze di sicurezza pakistane. Il ruolo di leader fu assunto dal pakistano Hafiz Saeed Khan, che era un membro di Tehrik-e Taliban Pakistan (TTP), cioè i talebani pakistani, e che poi divenne il primo “emiro” dell’ISIS-K. Nell’ottobre di quell’anno Khan, insieme ad altri importanti membri del suo gruppo, decise di prestare giuramento di fedeltà a Abu Bakr al Baghdadi, allora leader dell’ISIS, in un momento in cui l’ISIS stava emergendo come forza dominante all’interno del mondo jihadista globale. Nel 2015 l’ISIS accettò di riconoscere ufficialmente l’“affiliazione” del gruppo di Khan, che divenne così l’ISIS-K, dove “K” sta per Khorasan, cioè il nome della regione storica che include parti dell’attuale Pakistan, Iran, Afghanistan e Asia Centrale. L’obiettivo dell’ISIS-K era infatti quello di fondare un califfato nell’Asia meridionale e centrale, su cui imporre un’interpretazione estremamente rigida della sharia, la “legge islamica”, così come aveva fatto il gruppo principale in Siria e in Iraq. L’iniziale crescita del gruppo fu facilitata certamente dai legami e dalle reti di amicizie che Khan e gli altri membri dell’ISIS-K avevano messo in piedi nel corso degli anni: secondo un articolo pubblicato nel 2018 dal centro studi americano Combating Terrorism Center, già durante il suo primo periodo di attività entrarono nell’ISIS-K membri di diverse fazioni estremiste e jihadiste della regione, tra cui miliziani della Rete Haqqani, il gruppo che oggi è considerato il principale legame tra talebani afghani e al Qaida. Diversi importanti esponenti dello Stato Islamico iniziarono inoltre a rifugiarsi in Afghanistan quando, a partire dal 2015, l’ISIS cominciò a perdere terreno sia in Siria che in Iraq. L’ISIS investì un bel po’ di soldi nella sua divisione afghana, trasferendo diverse centinaia di migliaia di dollari per migliorare la sua rete in Asia Centrale. Nonostante il reclutamento di nuovi membri, e l’arrivo dei finanziamenti, l’ISIS-K rimase per anni un gruppo di limitato rilievo in Afghanistan, anche a causa degli arresti dei suoi membri e degli attacchi aerei mirati contro la sua leadership compiuti dalla coalizione militare guidata dagli Stati Uniti. Nel giro di pochi anni, i bombardamenti occidentali uccisero cinque capi consecutivi del gruppo, i cosiddetti “emiri”, tra cui Hafiz Saeed Khan. C’era poi un altro fattore che aveva limitato il successo dell’ISIS-K finora. Secondo il Center for Strategic of International Studies, think tank di Washington, l’ISIS-K incontrò molta ostilità soprattutto nelle zone in cui i talebani afghani erano più forti, dove i due gruppi si scontrarono apertamente in diverse occasioni. I motivi della rivalità erano tra le altre cose legati alle differenze ideologiche. Mentre i talebani puntavano alla creazione di un loro emirato all’interno dei confini afghani, l’ISIS-K aveva l’obiettivo di fondare un Califfato esteso all’Asia centrale e meridionale; inoltre, per i membri dell’ISIS-K l’interpretazione della sharia da parte dei talebani non era sufficientemente rigida: i primi chiamavano i secondi “apostati” e “cattivi musulmani”, sostenendo che volessero tradire il jihad, la guerra santa. Daniele Raineri, che in questi giorni è stato inviato a Kabul per il Foglio, ha scritto: «Lo Stato islamico odia i talebani perché li considera dei tiepidi, attaccati all’idea nazionalista di un emirato soltanto afghano e non al sogno del califfato mondiale, e inoltre colpevoli di collaborare con l’intelligence pachistana e di trafficare droga». La rivalità tra talebani e ISIS-K era inoltre alimentata dalla vicinanza dei primi con al Qaida, nemica giurata dell’ISIS da sempre. Questa inimicizia si era vista in particolare durante la guerra in Siria, quando i due gruppi si erano combattuti apertamente e duramente. Dopo essersi molto indebolito – fu cacciato dalle province afghane di Nangarhar e Kunar e costretto a operare per lo più in piccole cellule distribuite sul territorio – l’ISIS-K riuscì a riorganizzarsi. Charlie Winter, esperto di jihadismo, ha detto al Guardian: «Quella dell’ISKP è stata una traiettoria di rinascita dopo un periodo complicato tra il 2019 e la prima metà del 2020. Il gruppo è rimasto improvvisamente silente dopo le vittorie dei talebani, e una delle ragioni potrebbe essere che si stava preparando per una nuova campagna [terroristica]». Questa “rinascita” fu aiutata dall’arrivo di un nuovo leader forte e ambizioso, Shahab al Muhajir, e ancora una volta dal flusso di miliziani dall’estero, in particolare da Pakistan, Tagikistan e Uzbekistan, attirati dalla promessa di una nuova campagna terroristica contro i talebani, il governo afghano e gli americani, e dalle defezioni della cosiddetta Rete Haqqani, che negli anni precedenti aveva sviluppato molta esperienza nella guerriglia urbana e aveva compiuto diversi attentati assai sofisticati a Kabul. L’arrivo di nuovi membri fu favorito anche dall’avvio dei negoziati di pace che i talebani intrapresero con gli Stati Uniti di Donald Trump, che culminarono con l’accordo firmato nel 2020 che sanciva il ritiro completo delle truppe americane dall’Afghanistan. Molti talebani non erano contenti dei negoziati, perché pensavano che i colloqui di pace avrebbero costretto il loro gruppo a fare concessioni in un momento in cui si sentivano forti militarmente: pensavano cioè di poter vincere da soli, e diversi si unirono all’ISIS-K (poi comunque non andò così: gli Stati Uniti accettarono di ritirare le loro truppe senza ottenere praticamente nulla in cambio, solo la vaga promessa che i talebani non avrebbero più dato protezione ad al Qaida, come invece avevano fatto tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila; promessa che molto probabilmente sarà disattesa). La retorica usata allora dall’ISIS-K per favorire il reclutamento – cioè che i talebani fossero così moderati da sedersi allo stesso tavolo dei negoziati con gli americani – è la stessa emersa nelle ultime ore, dopo l’attentato a Kabul, quando l’ISIS ha descritto i talebani come collaborazionisti nei confronti degli Stati Uniti e degli afghani che negli ultimi anni avevano collaborato con l’Occidente. L’attentato all’aeroporto di Kabul, il più grave che ha colpito i soldati americani negli ultimi 10 anni, sarà probabilmente presentato come una «grande vittoria» da parte dell’ISIS-K, ha detto Tore Hamming, esperto di ISIS. Hamming, la cui posizione è ampiamente condivisa da molti analisti, ha detto: «[L’ISIS-K] ha raggiunti diversi scopi: ha colpito obiettivi legittimi (legittimi secondo la loro prospettiva), ha mostrato di essere ancora una forza che non può essere sottovalutata e ha sfidato il progetto di stato dei talebani dimostrando come il gruppo non sia in grado di garantire la sicurezza di Kabul». Quello all’aeroporto di Kabul è stato l’ultimo, e il più grave, di una serie di attentati particolarmente violenti compiuti dall’ISIS-K negli ultimi anni in Afghanistan e Pakistan, che hanno colpito anche scuole femminili, ospedali e reparti di ostetricia. Secondo un rapporto dell’ONU del mese scorso, oggi l’ISIS-K avrebbe tra i 500 e i 1.500 miliziani in Afghanistan e sarebbe riuscito a rafforzare la propria presenza attorno a Kabul. Le intelligence occidentali hanno rilevato che gli attacchi potrebbero non essere finiti, soprattutto ora che gli Stati Uniti e gli altri paesi coinvolti nella missione NATO stanno lasciando del tutto il paese e non potranno più fare affidamento come prima né sulla raccolta di informazioni di intelligence, né sugli attacchi aerei mirati. Per quanto riguarda invece i complessi rapporti tra talebani, ISIS-K, al Qaida, Rete Haqqani e gli altri gruppi jihadisti della regione, si dovrà aspettare per vedere che succederà: «La storia della militanza e del jihad nella regione è molto complicata», ha scritto Abdul Sayed, esperto di jihadismo in Afghanistan e Pakistan. «Temo che sia possibile molta altra violenza dovuta alle complicate dinamiche» tra i gruppi.

I kamikaze e il filo che li lega ai clan talebani. Le bugie degli Usa. Gian Micalessin il 27 Agosto 2021 su Il Giornale. Il terrorismo nel Paese non è mai stato sradicato. A marzo un attentato fece 90 morti. La guerra tra fazioni talebane e la liberazione di militanti Isis e al Qaida. I kamikaze sono tornati. Ma probabilmente non se n'erano mai andati. O, meglio, non erano mai stati sconfitti. La tragica constatazione, evidenziata dalla carneficina di ieri pomeriggio all'aeroporto di Kabul, dimostra quanto le giustificazioni, o le bugie, di Joe Biden abbiano le gambe corte. Così corte da non permettere neppure la fuga programmata per il 31 agosto. Tanto corte da moltiplicare i dubbi sulla credibilità di una Casa Bianca che da giorni ripete l'inossidabile «refrain» di un ritiro giustificato dalla totale sconfitta del terrorismo. Ora è chiaro che quelle assicurazioni erano assolutamente infondate. E lo dimostrano i corpi dilaniati di 12 marines uccisi ieri dai terroristi tornati a colpire non solo l'Afghanistan, ma la stessa America. Dodici cadaveri che, 20 anni dopo, risvegliano i fantasmi dell'11 settembre. Dodici cadaveri con cui Biden sarà chiamato già questa mattina a fare i conti. Ma per capire che in Afghanistan il terrorismo fosse ben radicato non servivano le analisi d'intelligence, bastavano le cronache. Prima fra tutte quella del tremendo attentato dell'8 marzo scorso quando l'Isis fece deflagrare una autobomba, seguita dall'esplosione di due attentatori suicidi, davanti ad una scuola femminile del quartiere di Kabul abitato dalla minoranza sciita degli Hazara. Gli oltre 90 morti di quella tragica giornata bastarono a far capire quanto affrettato fosse il ritiro avviato settimane prima. E la conferma di un addio all'Afghanistan destinato a risvegliare il terrorismo di Isis e Al Qaida arrivò con il ritorno in libertà di 9mila detenuti delle carceri di Bagram e Pul I Charky liberati dai militanti talebani durante la trionfale marcia su Kabul. Tra di loro vi erano centinaia di militanti dello Stato Islamico e altrettanti esponenti della vecchia Al Qaida. Quella liberazione di massa difficilmente può essere attribuita ad una frettolosa euforia della vittoria. Per quanto euforiche le ben istruite avanguardie talebane si premurarono di eliminare nella sua cella Abu Omar Khorasani, uno dei capi della fazione afghana dell'Isis. Con quell'eliminazione i talebani volevano far capire di esser pronti a combattere lo Stato islamico. Una determinazione poco condivisa dalla grande massa dei militanti pronti, invece, a garantire la fuga in massa di tutti i sottoposti di Khorasani nel nome della solidarietà jihadista. E il fatto che l'intelligence occidentale sia riuscita ad intercettare con 48 ore di anticipo i piani di un'Isis pronta a colpire l'aeroporto di Kabul, mentre i talebani si sono ben guardati dal fermare o intercettare i kamikaze, fa capire quanto siano affrettate le tesi di chi dà per certa la rottura tra i nipotini del mullah Omar e il terrorismo. Anche perché ricordiamolo bene, la capitale è attualmente in mano a quella fazione interna del movimento talebana conosciuta come clan Haqqani. Una fazione che da sempre garantisce l'interconnessione con Al Qaida e si è distinta, negli ultimi dieci anni, per l'organizzazione e la realizzazione dei più sofisticati e micidiali attentati ai danni di ambasciate straniere, apparati di sicurezza afghani e forze statunitensi e della coalizione. La sicurezza della capitale è insomma nelle mani di un gruppo terrorista non molto diverso, come metodologia e formazione, da Al Qaida e dall'Isis. E a rendere il tutto più inquietante s'aggiungono le indiscrezioni secondo cui le informazioni sugli imminenti attentati sarebbero state fornire al capo della Cia William Burns durante l'incontro di lunedì a Kabul con il numero due talebano Abdul Ghani Baradar. Un Baradar che pur essendo considerato esponente delle cosiddette fazioni dialoganti dell'Emirato può forse condannare a parole ma non certo metter fine alle collusioni tra le varie anime talebane e le fazioni terroriste. Una spada di Damocle in più sulla testa un Biden che dopo la riunione di ieri con i vertici della sicurezza nazionale dovrà spiegare all'America se la sua amministrazione è ancora in grado di reagire o è ancora convinta di poter voltare le spalle all'Afghanistan. Nell'attesa che il terrore bussi ancora una volta alle porte dell'America.

Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria passando per le guerre della Ex Jugoslavia, del Sud Est asiatico, dell’Africa edell’America centrale. Oltre agli articoli per “Il Giornale” – per cui lavoro dal 1988 – ho scritto per le più importanti testate nazionali ed internazionali (Panorama, Corriere della Sera,Liberation, Der Spiegel, El Mundo, L’Express, Far Eastern Economic Review). Sono anche documentarista ed autore televisivo. I miei reportage e documentari sono stati trasmessi dai più importanti network nazionali ed internazionali (Cbs, 

Francesco Semprini per “La Stampa” il 23 agosto 2021. Per comprendere la mappatura delle realtà terroristiche che gravitano all'interno o attorno all'Afghanistan, occorre analizzare le aree di confine col Pakistan, dove si sviluppano i flussi dei commerci leciti e illeciti e si concentrano gli interessi economici di quella specifica parte della regione. La cerniera dell'AfPak, detta anche «cintura pashtun» dal nome dell'etnia locale, rappresenta la zona di convergenza tra i taleban afghani e i corrispettivi pakistani del Tehrik-i-Taliban Pakistan (Ttp). In quell'area si inserisce Al Qaeda che non è più solo alleata ma è «strutturata e territorializzata» sul controllo dei traffici. «Si tratta di un sistema sinergico tra la parte stanziale, controllata dai taleban, e la capacità transfrontaliera dei qaedisti», spiega il professor Arije Antinori esperto europeo di terrorismo. In sostanza i taleban controllano i traffici nelle aree interne tribali al di qua e al di là del confine, mentre sulle frontiere è al Qaeda che fa da collante. È costituita soprattutto di elementi pachistani il che assicura vicinanza e continuità, e non rischia di creare attriti con le formazioni taleban dell'una e dell'altra parte. In questo senso è lecito pensare che non vi sia mai stata una rottura vera e propria tra i taleban afghani e Al Qaeda, mentre nel Ttp c'è sempre stata una componente rappresentativa della rete fondata da Osama bin Laden. Del resto, lo stesso leader del movimento, Haibatullah Akhundzada, non ha mai rinnegato l'endorsement di Ayman Al-Zawahiri, e il clan Haqqani, fortemente rappresentato a Kabul, ha da sempre avuto legami con "La Base". In questo senso anche il governo del Pakistan, sebbene conduca operazioni sul confine contro Ttp e Al Qaeda, mantiene un canale aperto, attraverso i servizi segreti (Isi), coi taleban in funzione anti Isis. Specie per operare in quelle aree dove si trovano gli eredi di Abu Bakr al Baghdadi e dove è difficile arrivare alle forze regolari di Islamabad. A cui per altro preoccupano di più le attività delle costole della rete fondata da bin Laden, ovvero Al Qaeda nel subcontinente indiano (Aqis) e Jamaat ul Ansar al-Sharia nate soprattutto in funzione di contrasto all'India e operative in altre aree. Le cellule di al Qaeda in AfPak invece possono risultare utili come argine all'infiltrazione dello Stato islamico della provincia del Khorasan (Isis-K). La compagine è composta dai sette ai diecimila miliziani che si sono formati in quella zona in seguito alla «jihaspora», la diaspora seguita al crollo del Califfato. Sono combattenti preparati e cercano costantemente di inserirsi tra Pakistan e Afghanistan per rubare manovalanza e porzioni di territorio ai taleban, a partire dalle aree della provincia di Nangarhar nell'Est del Paese. E alcuni sono pronti ad attivarsi anche a Kabul come si deduce dall'allarme lanciato dagli 007 Usa. «In un caos come quello della capitale, azioni destabilizzanti non sono da escludere. Il problema è che nel caso sarebbe una falla di cui è responsabile il vecchio governo e gli Usa, perché si tratterebbe di infiltrazioni di medio-lungo termine - afferma Antinori -. In questo momento Isis-K non è in grado di proiettarsi in una città a controllo taleban. Tra i combattenti delle madrasse e gli eredi di Baghdadi vi è forte rivalità». C'è inoltre da dire che Khorasan come matrice fondamentale ha quella cecena e quella uighuri e questo la rende ancora più pericolosa agli occhi di Russia e Cina che, a questo punto, non possono fare a meno dei taleban per garantire la sicurezza dei loro confini. È per questo che Mosca e Pechino non hanno esitato ad avviare subito un dialogo con il nuovo Emirato islamico: «L'obiettivo è fare in modo che, soprattutto in questa fase in cui sono andati via gli occidentali, il Khorasan da magnete dell'Isis non ne diventi una struttura», spiega Antinori. Da parte di Russia e Cina (e non è escluso che anche l'Iran faccia lo stesso) è essenziale legittimare l'unico interlocutore in grado di garantire la sicurezza, il che non vuol dire la sicurezza dei cittadini ma la sicurezza dei commerci e contro le infiltrazioni terroristiche più temibili. Uno schema su cui le cancellerie occidentali starebbero già ragionando.

L’Isis in Afghanistan potrebbe destabilizzare i talebani. Mauro Indelicato su Inside Over il 23 agosto 2021. C’è un altro pericolo per le migliaia di afghani che stanno provando a scappare da Kabul. Secondo l’intelligence statunitense infatti anche l’Isis potrebbe riattivarsi e starebbe organizzando un attentato nelle zone limitrofe all’aeroporto della capitale. L’allarme è stato lanciato nelle scorse ore da fonti della sicurezza Usa, citate dal quotidiano New York Times. Nello specifico, miliziani fedeli allo Stato Islamico vorrebbero approfittare dell’attuale caos interno allo scalo di Kabul, preso d’assalto da migliaia di profughi, per destabilizzare la situazione in città e mettere in difficoltà i talebani. Tra gli studenti coranici e i jihadisti non corre buon sangue. L’impressione però è che l’allarme sull’aeroporto di Kabul nasconda ben altre insidie future.

Perché l’Isis vorrebbe attaccare l’aeroporto. Pur se entrambe le fazioni traggono origine dell’estremismo islamico, i talebani e i seguaci dello Stato Islamico sono da sempre in rotta di collisione. In primo luogo per motivi ideologici. I nuovi padroni di Kabul hanno come obiettivo la formazione di un emirato afghano, l’Isis invece ha sempre premuto per un califfato internazionale sul modello di quello che era riuscito a realizzare tra Siria e Iraq alcuni anni fa. C’è poi un altro aspetto. All’interno delle cellule dello Stato Islamico afghano sono molti gli stranieri combattenti. Per gli eredi del Mullah Omar quindi i gruppi dell’Isis nel proprio territorio sono considerati alla stregua di invasori. In diversi distretti dell’Afghanistan tra le due parti è stata guerra aperta fino a pochi anni fa. Soprattutto nelle zone vicine Jalalabad, nelle campagne che diradano verso il confine pachistano. Qui i talebani hanno combattuto contro l’Isis tra il 2015 e il 2016, uccidendo diversi leader locali della fazione opposta. Il tutto, senza troppo mistero, con il beneplacito degli statunitensi già prima dell’inizio formale del dialogo tra Usa e studenti coranici avvenuto nel 2018.

L’Isis ha quindi un conto aperto con i nuovi padroni dell’Afghanistan. E ora che questi ultimi sono al potere l’obiettivo jihadista è metterli in difficoltà. L’attacco all’aeroporto di Kabul rappresenterebbe un colpo molto duro per i nuovi dirigenti afghani. In primo luogo sarebbe un danno d’immagine molto importante, sia all’interno che all’esterno. Sul fronte interno i talebani risulterebbero deboli nel far garantire la tanto agognata (e promessa) sicurezza. All’estero gli studenti coranici sarebbero invece accusati di non aver fatto nulla per l’incolumità di chi sta scappando da Kabul. A livello politico un attacco contro lo scalo della capitale potrebbe far da detonatore nel rapporto con tra Usa e talebani. Washington si sentirebbe autorizzata ad uscire dal perimetro aeroportuale e ad estendere l’attuale raggio d’azione in alcuni punti nevralgici della città. Il fine ultimo sarebbe completare l’evacuazione dei cittadini in difficoltà.

L’Isis in Afghanistan. Il Paese asiatico è noto per aver dato ospitalità alle basi di Al Qaeda negli anni ’90 e 2000. Il baricentro del terrorismo internazionale si è poi spostato tra Iraq e Siria, specialmente dopo la nascita del Califfato Islamico proclamato da Abu Bakr Al Baghdadi nel 2014. L’Isis ha avuto qui le proprie basi e il territorio afghano dunque è stato toccato solo in un secondo momento dai miliziani dello Stato Islamico. Molti di loro non sono afghani. Si tratta, al contrario, di combattenti iracheni, siriani o magrebini che hanno già combattuto all’interno del Califfato. Foreign Fighters trasferitisi poi tra i monti una volta abitati dai seguaci di Osama Bin Laden. La presenza talebana ha impedito all’Isis di mettere profonde radici in Afghanistan. Ma il movimento jihadista è ugualmente molto pericoloso. Secondo le fonti di sicurezza statunitensi, sarebbero tra i 600 e gli 800 i miliziani operativi e molti di loro sono concentrati nel territorio attorno Jalalabad. Una zona pericolosa perché vicina al confine con il Pakistan, da dove quindi possono transitare armi e munizioni. La pericolosità dell’Isis in Afghanistan è testimoniata da recenti sanguinosi attacchi terroristici. Le bandiere nere del califfato lo scorso 8 maggio hanno rivendicato l’attentato contro la scuola femminile di Kabul, episodio in cui si sono contate ben 55 vittime, molte delle quali giovani studentesse. Gli istituti scolastici e di formazione sono stati presi di mira altre volte, come ad esempio a novembre sempre nella capitale afghana, dove un’esplosione all’università ha ucciso 20 studenti. L’Isis quindi è molto attivo ed è attualmente una grave minaccia. Tanto per i civili afghani quanto per l’equilibrio politico che vorrebbero mettere in atto i talebani.

Guido Olimpio per corriere.it il 23 agosto 2021. In Afghanistan l’Isis potrebbe contare su 2.000 combattenti. Le cellule qaediste sono presenti in almeno quindici regioni. Nell’area si muovono anche 10 mila mujaheddin stranieri. Cresce la paura per la presenza di infiltrati tra i profughi.

I fedeli del Califfo. Le fonti americane hanno messo in guardia sulla presenza di elementi dello Stato Islamico. Possono infilarsi per attaccare, ma anche mescolarsi a quanti premono per imbarcarsi sull’ultimo volo. Non si fanno scrupoli nel coinvolgere altri musulmani, peraltro persone che ai loro occhi sono dei collaborazionisti. Non è certo la fazione più importante nella regione, i suoi membri sono concentrati nella zona orientale di Nangahar e sono fronteggiati dagli stessi talebani. Tuttavia la lontananza dal centro non vuol dire che il pericolo sia remoto. In maggio sono riusciti a compiere un massacro proprio nella capitale, 85 le vittime, tra queste molte giovani e donne. Dimostrazione di forza, di crudeltà e di fedeltà alla strategia dell’attenzione mescolata a quella dell’orrore. 

I combattenti. Gli analisti sostengono che la «provincia del Khorasan» — così è definito l’Afghanistan — conta su 1.500-2.000 combattenti, bombardati anche in modo massiccio dagli Usa. Probabilmente non sono del livello dei loro colleghi mediorientali, meglio però non sottostimare. E molti — a livello di scenario — prevedono che i ranghi potrebbero crescere nei prossimi mesi. I mullah non sono compatti, le loro unità dipendono spesso da consigli locali e basta poco per spingere chi dissente o i sostenitori della lotta ad oltranza nelle file dell’Isis. È accaduto in Somalia, con frange che hanno abbandonato gli Shebab per dare vita ad un nucleo oltranzista. 

I seguaci di Osama. I rapporti dell’Onu stimano una presenza di cellule qaediste in almeno 15 regioni afghane, forse 18. Quanto alla consistenza numerica non è comparabile alla stagione d’oro, quando c’era bin Laden. La forbice valuta tra le poche dozzine e un paio di migliaia di membri. Cifre fluide, perché parliamo di una realtà dove non hai la tessera nello zaino. Inoltre il clima di vittoria potrebbe favorire il reclutamento. Più agevole quello all’interno dei confini afghani, dove non manca la materia prima. Anche se i talebani rappresentano il potere dominante e sono il naturale punto di riferimento. 

I volontari. Complesso invece l’arrivo di volontari da fuori, condizionato dall’atteggiamento dei mullah. Promettono che non tollereranno che il Paese sia usato come base di partenza per attacchi all’estero, tuttavia durante i negoziati di Doha non hanno mai voluto troncare le relazioni con gli ospiti. Grande attenzione è rivolta anche ad Al Qaeda-India, formata nel 2014 proprio per rilanciare la lotta in una zona critica: il leader Osama Mahmoud ha invitato i suoi ad essere pronti una volta che gli occidentali avranno abbandonato lo scacchiere. Un braccio che potrebbe unirsi a quello dei separatisti kashmiri, molto attivi nelle aree contese con gli indiani. 

La terra di mezzo. I qaedisti hanno intensificato i rapporti con i talebani pachistani (Tehirk-e-Taliban) e godono di relazioni speciali con il network Haqqani, cuore afghano e diramazioni regionali, compresi i vincoli storici con l’Isi, i servizi di Islamabad. Alcuni degli Haqqani sono parte del nuovo potere a Kabul, Khalil — sul quale Washington ha messo una taglia da 5 milioni di dollari — si è fatto vedere in giro. Non sarebbe poi così strano se, al pari di certe situazioni viste in Siria-Iraq-Libano, hai una parte della rete che in pubblico assume posizioni responsabili o controllate, ma poi crea delle strutture parallele segrete per continuare con il terrorismo. Tattica molto efficace. 

Gli stranieri. Nel quadrante muovono poi 8-10 mila mujaheddin stranieri, cinesi e originari delle ex Repubbliche sovietiche. Come per altre crisi nasce la paura degli infiltrati tra i profughi. È vero che sono scrutinati, tuttavia il setaccio lascia degli spazi. Vladimir Putin ieri ha detto no al ricollocamento dei civili in Paesi vicini, una posizione di chiusura motivata da ragioni di sicurezza. La maggioranza cerca solo la salvezza e una vita migliore, però il flusso è diventato in passato lo schermo per chi aveva intenzioni criminali o le ha maturate una volta giunto in Occidente. Perché innescato, ma anche radicalizzato in modo individuale.

Francesco Semprini per "La Stampa" il 27 agosto 2021. Sin dall’invasione sovietica dell’Afghanistan, l’esperienza di condivisione e internazionalizzazione dell’ideologia jihadista ha consentito la proliferazione di diverse entità terroristiche nel Paese. Ad oggi ne sono attive circa venti, alcune costituite da cellule e micro-gruppi interconnessi a catene di comando presenti sul territorio pakistano, come Al Qaeda, Isis-K, la rete Haqqani, Lashkar-e-Taiba (LeT), Lashkar-e-Jhangvi (LeJ), Jaish-e-Mohammad (JeM), il Movimento Islamico dell’Uzbekistan (Imu) e Tehrik-e Taliban Pakistan (Ttp). Una delle maggiori è appunto Isis-K già responsabile di attacchi seriali in Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Pakistan, oltre che in Afghanistan. È operativa sulla cerniera dell’Afpak dove si è insidiata e dove opera nel narcotraffico, muovendosi anche nel Nord del Paese attraverso l’alleanza con Imu uzbeko. Nascono nel 2014, quando il pakistano Hafiz Saeed Khan viene scelto per guidare il braccio dello Stato islamico nella provincia del Khorasan come primo emiro. Khan, un comandante veterano di Ttp, porta con sé altri importanti membri del gruppo, tra cui il portavoce Sheikh Maqbool e alcuni leader distrettuali, prestando nell’ottobre 2014 giuramento di fedeltà ad Abu Bakr al-Baghdadi. Le sue fila si ingrossano di defezionisti taleban che vedono nello Stato islamico un progetto più dinamico e meglio remunerato, creando di fatto una faida con i miliziani delle madrasse che si trasforma in una vera e propria guerra intestina. La «jihaspora» innescata dalla caduta del califfato consente a Isis-K di drenare in Asia centrale diverse migliaia di foreign fighter già impiegati in Siria e Iraq. In un’intervista a «La Stampa» del 2015 il generale John Campbell, capo della missione Nato in Afghanistan, in merito all'Isis-K spiegava: «Ritengo che ci sia molto “rebranding”, grazie anche all’afflusso di denaro. Diciamo che nella maggior parte dei casi si tratta delle stesse persone che anziché issare una bandiera bianca ne issano una nera, perché incute più timore e attira soldi. Il fatto che Al Baghdadi abbia nominato un delegato per l’Afpak è un segnale da monitorare». Dal 2016 tuttavia i ranghi della formazione si assottigliano a causa dell’azione antiterrorismo degli Stati Uniti. L’emiro fondatore Khan viene ucciso da un attacco aereo nella provincia di Nangarhar, il 26 luglio 2016. Gli succedono tre emiri, tutti eliminati dagli Usa in attacchi mirati: Abdul Hasib viene ucciso nell’aprile 2017, Abu Sayed l’11 luglio 2017, e Abu Saad Orakzai il 25 agosto 2018. Dopo una serie di grandi sconfitte e battute d’arresto Isis-K riprende però vigore nel 2020. Un rapporto dell’intelligence spiega che il gruppo mantiene un «ritmo operativo costante» e ha la capacità di compiere «attacchi terroristici a Kabul e in altre grandi città, infoltendo di nuovo i suoi ranghi con membri delusi dei talebani». Specie quelli contrari agli accordi di Doha perché «col satana americano non si deve nemmeno parlare». La strategia globale di Isis-K include ora obiettivi locali e globali grazie a una grande capacità militare sviluppata dal suo attuale leader Shahab Muhajir che collabora con lo sceicco Tamim, colui che supervisiona la rete che collega l’Isis-K con le presenze dell’Isis nella regione più ampia. C’è inoltre da dire che come matrice fondamentale ha quella cecena e quella uighura e questo la rende ancora più pericolosa agli occhi di Russia e Cina che, a questo punto, non possono fare a meno dei taleban per garantire la sicurezza dei loro confini. È per questo che Mosca e Pechino non hanno esitato ad avviare subito un dialogo con il nuovo Emirato islamico: «L’obiettivo è fare in modo che, soprattutto in questa fase in cui sono andati via gli occidentali, il Khorasan da magnete dell’Isis non ne diventi una struttura», spiega Arije Antinori, esperto europeo di terrorismo. Anche per questo i russi stanno facendo esercitazioni al confine col Tagikistan e hanno evacuato dall’Afghanistan un certo numero di cittadini delle ex repubbliche sovietiche. Alla luce di quanto detto gli attentati di Kabul possono essere letti con una doppia valenza. Ovvero da una parte come un attacco all’invasore americano con cui i taleban sono invece scesi a patti. Dall’altra come un attacco ai taleban stessi per mostrarne la vulnerabilità e minarne la credibilità non solo agli occhi del mondo e degli afghani ma anche a quelli degli stessi taleban scettici, delusi, indecisi (o a cui non interessa l’esperienza di governo) e convincerli ad ammainare la bandiera bianca dell’Emirato per issare quella nera dello Stato islamico. 

Lorenzo Cremonesi per corriere.it il 27 agosto 2021. Cadaveri di civili che galleggiano nel loro sangue misto ai liquami puzzolenti nel canale della fogna lungo il perimetro dell’aeroporto. I video diffusi tra gli afghani mostrano le immagini dalla strada di fronte arrossata, brandelli di corpi ovunque, bagagli sfondati, donne, uomini, bambini che si disperano. Appena dietro il filo spinato, ecco i soldati americani che cercano di salvare i loro, mentre ancora sulla pista alle loro spalle le silhouette lente e goffe degli aerei cargo tentano rischiosamente di continuare il ponte aereo. Sino a quando? Gli attentatori suicidi hanno ottenuto il loro scopo ieri pomeriggio a Kabul: l’esodo dalla città è pregiudicato, irrimediabilmente, l’incubo si avvera. Di fatto, gli afghani non possono più partire. Gli ospedali locali segnalano almeno una settantina di morti e oltre 120 feriti (Qui gli aggiornamenti in tempo reale). In serata il Pentagono confermava il decesso di 12 marines e il ferimento di 3. S’impongono così terrorismo, dolore e soprattutto trionfa la strategia dell’uso brutale delle armi per stravolgere la situazione politica e sociale. Due giorni fa noi stessi abbiamo sentito i responsabili dell’intelligence Usa all’aeroporto di Kabul sostenere che erano «imminenti» attentati dell’Isis nella zona degli accessi per il terminal e persino contro gli aerei in decollo. «Per loro un massacro ad effetto, amplificato dai media mondiali, offre una tripla vittoria: colpisce gli infedeli occidentali, boicotta il tentativo talebano di imporre la normalizzazione sul Paese e minaccia quegli afghani che sono considerati traditori per il fatto di aver collaborato con gli americani e i loro alleati», spiegava uno degli ufficiali. E l’Isis ha infatti rivendicato l’attacco. Un attentatore, si legge sul canale Telegram dell’agenzia di stampa collegata all’organizzazione terroristica, Amaq, «è riuscito a raggiungere un gruppo di traduttori e collaboratori dell’esercito americano al Baran Camp vicino all’aeroporto di Kabul e ha fatto brillare la sua cintura esplosiva tra di loro, uccidendo circa 60 persone, compresi i combattenti talebani». La dinamica dell’attentato svela una regia ben orchestrata. Un primo kamikaze si fa esplodere ad Abbey Gate, controllata dagli americani, ma di fronte alla quale sta in attesa larga parte degli afghani. L’effetto delle schegge tra migliaia di corpi ammassati è devastante. Qui si conta il numero più alto di vittime. Seguono spari a raffica che aggiungono panico e confusione. E appena dopo un’autobomba esplode nei pressi del vicino Baron hotel, che è una delle «zone rifugio» più frequentate, dove si radunano i cittadini americani e i loro collaboratori afghani senior prima di tentare la sorte e raggiungere il terminal. Nei giorni scorsi le pattuglie Usa avanzate avevano compiuto alcune sortite per scortarli in sicurezza alla zona dei decolli. Ora, però, molto lascia credere che, con l’avvicinarsi della data finale del ritiro il 31 agosto, gli attentati siano destinati a farsi più insidiosi.

Andrea Nicastro e Marta Serafini per corriere.it il 27 agosto 2021. «Era come il giorno del giudizio universale, c’erano feriti ovunque che correvano ricoperti di sangue». Mohammed è un ex interprete delle forze britanniche. Sta aspettando, come migliaia di altre persone vicino all’Abbey Gate, l’ultimo punto di accesso per accedere alla zona dell’aeroporto da cui partono i voli di evacuazione. La porta della salvezza. La porta dell’inferno. Ore 15.22. «C’è stato un attacco, un’esplosione, forse un attacco suicida». Amid scrive via WhatsApp, sta facendo da ponte per un conoscente che è passato dall’Abbey Gate da pochi minuti, pensa di aver appena visto un amico mettersi in cammino verso un futuro migliore. Poi la disperazione. «Oh no, sono morti tutti, Oh no, era con i figli e la moglie». Urla, grida. Sulla folla di chi tenta l’ultima possibilità per lasciare il Paese, in fuga dai talebani, la miseria e la guerra verso una vita migliore, piomba la polvere dei detriti mentre il sangue si appiccica ovunque. «Ci sono molti morti vicino a me e il canale è diventato color sangue». Una giornalista afghana incinta di 7 mesi con i suoi due bambini è all’aeroporto di Kabul. È in contatto con la ong italiana Cospe di Firenze. La folla è assiepata nel canale, un fossato che separa la strada dall’ingresso vero e proprio dell’aeroporto. È il «dirty river», di cui viene scritto in molti messaggi che rimbalzano dalla capitale afghana, sul perimetro esterno dell’aeroporto. «Hanno ucciso tre persone davanti ai miei occhi». Lei invece ce l’ha fatta a entrare nell’aeroporto e può confidare in un volo che la riporterà in Italia. Sono entrate dentro lo scalo anche le calciatrici di Herat, la squadra che vinceva i campionati di calcio femminile, e le cicliste della squadra nazionale. Ora aspettano al sicuro di venire in Italia. «Hanno cibo e acqua in attesa di un volo», dicono le ong che si sono occupate del loro caso, anche se per ora non ci sono notizie certe sul decollo. Intanto aspetta un altro gruppo di 30 persone, tra cui una decina di bambini, che era finalmente riuscito ad entrare all’aeroporto poche ore prima dell’attentato all’Abbey Gate. «La loro posizione è stata comunicata in modo costante ai paracadutisti del battaglione Tuscania, che da dentro l’aeroporto gestivano le operazioni di evacuazione in coordinamento con la Farnesina», spiegano dal Cospe. Ma dentro l’aeroporto intanto scoppia il caos. La situazione cambia di minuto in minuto. C’è chi tenta di ripararsi in qualche baracca. «Siamo qui, aiuto mandateci qualcuno ad aiutarci», è l’Sos di chi è appena entrato ma non riesce ad arrivare alla zona di evacuazione. «Non riusciremo mai a partire» è il grido ora. I militari si rinchiudono nei bunker, i voli sospesi. «Ho visto le carriole cariche di corpi rotti arrivare dall’aeroporto. Non c’è più speranza, non partirò e non potrò tornare a casa. Mi uccideranno, non posso nascondermi per sempre». Yusufkhel è entrato nella lista americana da tre giorni. Così almeno crede dopo aver cercato freneticamente di rintracciare i colonnelli, i soldati per cui ha lavorato per anni. «Gli americani mi chiamavano Shah perché non sapevano pronunciare il mio nome Yusufkhel. Ci ridevano sopra e io con loro, ma credevo fossero amici. Invece mi hanno tutti tradito, abbandonato». Faceva il «facilitatore», l’intermediario, per le basi avanzate di Parwan e Ghazni. Ha trovato i terreni, contrattato gli affitti, discusso con gli anziani. E siccome i suoi contatti erano soprattutto locali, dal 2016 non ha avuto più rapporti. Nel frattempo però gli era stato appiccicato addosso il marchio del collaborazionista e della spia. Ha subito tre attentati. In uno ha perso l’uso del braccio. «Sono pashtun, non posso restare nella mia provincia o andare altrove qui in Afghanistan». Da due giorni cercava di superare il cordone talebano attorno all’aeroporto, senza riuscirci. Anche vicino all’Hotel Baron, un fortino dove fino a pochi giorni fa stavano rinchiusi gli expat e dove ancora oggi dormono i contractor di tutte le agenzie, regna il caos. Davanti all’ingresso, un portellone di metallo spesso e ai muri di cemento armato, la seconda esplosione. Dentro le guardie armate fino ai denti. Qui davanti da giorni si accalcano centinaia di persone, con la speranza di unirsi ai collaboratori degli stranieri messi nelle liste di evacuazione. Ora ci sono «corpi, carne e sangue», racconta all’Afp Milad, che si trovava sulla scena della prima esplosione. «Quando la gente ha sentito l’esplosione c’è stato il panico totale. I talebani hanno poi iniziato a sparare in aria per disperdere la folla al cancello», ha detto un secondo testimone. «Ho visto un uomo correre con un bambino ferito tra le mani», racconta un terzo testimone. La calca e la furia non lasciano scampo. Nella confusione cadono per terra i documenti che si sperava avrebbero aiutato a salire su un volo. «Non vorrò mai più andare all’aeroporto. Morte all’America, alla loro evacuazione e ai visti», dice Ahmed alla Reuters. Passa qualche ora e le testimonianze continuano ad arrivare. In pochi chilometri quadrati, si concentrano migliaia di vite. Quasi nessuno era lì per caso. Quasi tutti volevano partire, per mettersi in salvo. «Abbiamo portato i feriti sulle barelle mentre i nostri vestiti si inzuppavano di sangue». «Non ci sono state «vittime» all’hotel The Baron di Kabul che si trova nella zona della capitale afghana in cui è avvenuta una delle esplosioni». Sulla timeline i post scorrono, i messaggi e le immagini terrificanti pure. E tra i messaggi arriva anche il suo. «In qualità di proprietario dell’albergo The Baron di Kabul posso dire che non ci sono vittime o danni all’interno della struttura — si legge sull’account di Mumtaz Muslim — L’esplosione è avvenuta all’esterno dell’albergo». Un paradosso e un’ulteriore follia nelle ore più drammatiche della capitale. Quasi un tentativo di prendere le distanze dalla carneficina e dalla guerra, come se il passato fatto di cemento e barriere protettive intorno all’aeroporto fosse ancora tutto lì. Come se bastasse a proteggere dalle bombe. Poi la conclusione del messaggio. Con il dolore per «la perdita di vite innocenti». Ma a Kabul non solo non c’è più innocenza. Anche l’ultima speranza è morta tra l’Abbey Gate, il Dirty River e il Baron Hotel.

Natasha Caragnano per repubblica.it il 27 agosto 2021. "Decine di morti sono caduti tra le file delle forze americane, e tra quelle di chi li ha aiutati, in una esplosione kamikaze nella capitale Kabul". Con queste parole lo Stato islamico della provincia afghana del Khorasan, ha rivendicato le esplosioni all'Abbey Gate, uno degli ingressi dell'aeroporto della città, e nella zona del Baron Hotel. Insieme al testo la foto di uno dei "combattenti", un ragazzo con il volto coperto e il fucile in mano. Il Site, l'organizzazione non governativa americana che traccia l'attività online delle organizzazioni jihadiste e dei suprematisti bianchi, ha annunciato che la rivendicazione è stata pubblicata da Amaq, l'organo di propaganda dell'organizzazione terrorista, sul canale Telegram.  Secondo la rivendicazione, diverse fonti hanno riferito ad Amaq che "il combattente" è riuscito a introdursi in tutte le fortificazioni delle forze di sicurezza americane e delle milizie talebane e ha raggiunto un grande gruppo di interpreti e altri cittadini afghani che hanno aiutato gli Stati Uniti negli anni: "Al Baron Hotel, dove erano radunati vicino all'aeroporto, ha fatto esplodere la sua cintura".  A causa delle due esplosioni almeno 60 collaboratori sono stato uccisi e più di 100 sono rimasti feriti, compresi i talebani. "Questo combattente si è avvicinato a meno di cinque metri dai soldati americani che sorvegliavano un checkpoint: più di 20 soldati sono stati uccisi e feriti", conclude. Il Pentagono ha confermato che tra le vittime ci sono 12 marines, fra cui un ufficiale medico, e 15 feriti. Secondo il Wall Street Journal, i cittadini afghani morti sono almeno 90.

Marilisa Palumbo per il “Corriere della Sera” il 27 agosto 2021. «Con la notizia delle vittime americane aumenta la possibilità che gli Usa si impegnino in rappresaglie, che siano bombardamenti o attacchi con i droni. Sarà molto più difficile mantenere le operazioni di evacuazione fino al 31 e cresce il pericolo di una escalation. I rapporti con i talebani si deterioreranno molto in fretta», dice Ian Bremmer, politologo, fondatore e presidente del centro studi Eurasia Group.

L'attacco all'aeroporto era una tragedia annunciata.

«Questo dimostra il motivo dell'urgenza che Biden esprimeva in questi giorni quando diceva che ogni ora in più aumentava i rischi per le truppe Usa. La Casa Bianca aveva avvertito che i terroristi stavano pianificando attacchi all'aeroporto, e solo poche ore prima che colpissero, il dipartimento di Stato aveva ordinato agli americani di evacuarlo».

Biden può dire che questa volta l'intelligence aveva informazioni accurate, ma in fin dei conti è il modo in cui è stato gestito il ritiro che ha permesso il crearsi di quest' occasione per i terroristi.

«L'errore più grande è stato lasciare la base aerea di Bagram a luglio: per evacuare tutte queste persone serviva un'area nella quale poter controllare la sicurezza, e non è il caso dell'aeroporto di Kabul. Poi ci sono stati tanti altri errori: mancanza di pianificazione, informazioni errate, unilateralismo, una confusa strategia di comunicazione. Il fallimento della guerra non è colpa di Biden, i suoi predecessori hanno una responsabilità maggiore, ma dato che è lui che sta gestendo così male questa evacuazione e lo sta facendo da solo, invece di farlo con gli alleati, questo sarà un grosso problema per lui». 

Perché secondo lei tutti questi errori di giudizio?

«Evidentemente pensavano che il governo afghano sarebbe rimasto in piedi e che la Difesa afghana avrebbe combattuto. Quando hanno lasciato Bagram, l'intelligence parlava di un governo che sarebbe durato due o tre anni. Ora, se l'intelligence dice questo, ma ammette che potrebbe essere molto peggio, e però tutti sanno che Biden vuole andarsene a ogni costo, è plausibile che le persone che lo consigliano possano aver edulcorato i rapporti. O semplicemente è stato lui a non voler ascoltare. Certo ora ci saranno molte dita puntate». 

E ora Biden dovrà spostare in avanti la fine delle operazioni di evacuazione?

 «Sarà difficile mantenere il passo, e man mano che gli americani riducono le loro truppe diventa più difficile e pericoloso operare. Significa che un enorme numero di afghani che avrebbero avuto il diritto di partire verrà lasciato indietro. E questo sarà un problema per Biden, soprattutto sul palcoscenico internazionale davanti agli alleati europei già estremamente scontenti di come è stata gestita l'uscita dal Paese. Ma la data non verrà posticipata, al contrario, sarà probabilmente anticipata perché accelereranno sul ritiro delle truppe in modo da poter eventualmente colpire con una rappresaglia».

 I rifugiati saranno un problema politico per Biden?

«No, lo saranno per la Turchia, il Pakistan, l'Iran, e per gli europei, anche se non ai livelli della crisi siriana».

Morta la giovane marine protagonista della foto con il neonato in braccio. Anna Lombardi su La Repubblica il 28 agosto 2021. Il Pentagono ha diffuso la lista dei tredici militari americani vittime dell’attacco di giovedì all’aeroporto di Kabul: erano tutti giovanissimi.  "Amo il mio lavoro". Il sergente Nicole Gee, 23 anni appena, aveva scritto proprio così sotto la foto pubblicata una settimana fa sul suo account Instagram, che la ritraeva mentre in mimetica, ma senza elmetto cullava uno dei bebè afghani passati attraverso il filo spinato ai soldati da familiari disperati. Una foto che ha fatto il giro del mondo, condivisa migliaia di volte sui social e pubblicata anche da Repubblica.

"Ha esalato l’ultimo respiro facendo quello che amava". Nicole Gee, la marine della foto con il bimbo in braccio morta nell’attentato: “Amo il mio lavoro”. Riccardo Annibali su Il Riformista il 29 Agosto 2021. Una foto su Instagram e una breve didascalia: “Amo il mio lavoro”. Lei, Nicole Gee, sergente di 23 anni, teneva in braccio un bambino afgano e pochi giorni dopo è morta nell’attentato all’aeroporto di Kabul, insieme ad altri 12 giovani marines di cui poi il Pentagono ha pubblicato tutti i nomi. Sono 13 in totale i militari americani uccisi nell’attentato all’aeroporto di Kabul, tutti giovanissimi e tra loro c’è anche il sergente Nicole Gee nota per una foto che la ritraeva mentre teneva in braccio un bambino afghano passato attraverso il filo spinato, spinto verso la speranza di un futuro migliore da genitori disperati, durante le evacuazioni a Kabul. La scorsa settimana quella fotografia condivisa su Instagram con una breve didascalia “Amo il mio lavoro” aveva fatto il giro del mondo. Giovedì, nell’attentato ha trovato invece la morte. Nicole aveva 23 anni originaria di Roseville, California, era una responsabile della manutenzione con la 24th Marine Expeditionary Unit. I colleghi la descrivevano come una “marine modello”. Impegnata con i compagni a garantire la sicurezza dello scalo della capitale dell’Afghanistan durante le operazioni di evacuazione dopo la presa del potere dei talebani. Nell’ultima immagine pubblicata pochi giorni prima della sua morte, si vede la ragazza in piedi vicino a una fila di sfollati che si imbarcavano su un aereo militare C-130 per lasciare l’Afghanistan. La foto, divenuta una dei simboli dello sforzo dei militari Usa in favore dei civili afghani, era stata rilanciata su Twitter dal dipartimento alla Difesa Usa. Ma dalle agenzie ne stanno emergendo molte altre di lei sorridente che scorta giovani afghani verso la pancia degli aerei che li condurranno a una nuova vita. Nicole era stata promossa a sergente il 2 agosto. “Credeva in quello che faceva, amava essere un Marine — ha raccontato il cognato — Non avrebbe voluto essere da nessuna altra parte”. “Ha esalato l’ultimo respiro facendo quello che amava”, ha detto la sua migliore amica e commilitona. La 23enne è una delle due donne tra i caduti americani, l’altra è la sergente Johanny Rosario Pichardo, 25, di Lawrence, Massachusetts. Alle due del pomeriggio di venerdì un aereo con 13 bare avvolte nella bandiera a stelle e strisce è partito da Kabul. Di quei caduti americani 5 avevano vent’anni, degli altri il più grande ne aveva 31. 

NOMI ED ETÀ DEI CADUTI – Staff Sgt. Darin T. Hoover, 31 anni, di Salt Lake City, Utah, il sergente Johanny Rosariopichardo, 25 anni, di Lawrence, Massachusetts, il sergente Nicole L. Gee, 23 anni, di Sacramento, California, Hunter Lopez, 22 anni, di Indio, California, Daegan W. Page, 23 anni, di Omaha, Nebraska, Humberto A. Sanchez, 22 anni, di Logansport, Indiana, David L. Espinoza, 20 anni, di Rio Bravo, Texas, Jared M. Schmitz, 20 anni, di St. Charles, Missouri, lancia cpl. Rylee J. McCollum, 20 anni, di Jackson, Wyoming, Dylan R. Merola, 20 anni, di Rancho Cucamonga, California, e Kareem M. Nikoui, 20 anni, di Norco, California. Sono stati uccisi anche il Navy Hospitalman Maxton W. Soviak, 22 anni, di Berlin Heights, Ohio, e il sergente maggiore dell’esercito Ryan C. Knauss, 23 anni, di Corryton, Tennessee. Le loro salme verranno trasportate in queste ore negli Stati Uniti. Riccardo Annibali

Afghanistan, le 13 vittime americane dell’attentato di Kabul. Andrea Marinelli su Il Corriere della Sera il 28 agosto 2021. Quando i terroristi di Al Qaeda colpirono le Torri Gemelle, l’11 settembre 2001, molti dei 13 soldati americani uccisi giovedì nell’attentato di Kabul non erano ancora nati, o erano soltanto dei bambini. Quando i terroristi di Al Qaeda colpirono le Torri Gemelle, l’11 settembre 2001, molti dei 13 soldati americani uccisi giovedì nell’attentato di Kabul non erano ancora nati, o erano soltanto dei bambini. Le ultime vittime di questa guerra infinita, colpite da un attentatore suicida all’aeroporto Hamid Karzai, erano in Afghanistan per gestire l’evacuazione di civili americani e afghani, e per spegnere la luce di una missione durata vent’anni: le loro identità sono state rese note tra venerdì e sabato, e i nomi sono stati confermati dalle autorità locali in ogni angolo del Paese — dalla California all’Ohio, dal Tennessee al Massachusetts — o dagli stessi familiari, che devono essere informati entro 8 ore dalla morte e che hanno cominciato a piangere i loro cari sui social network.

Nicole Gee, 23 anni, sergente dei Marines, era divenuta celebre per una foto in cui teneva in braccio un bambino durante le evacuazioni, che aveva pubblicato una settimana fa su Instagram con il commento «amo il mio lavoro». La foto era divenuta una dei simboli dello sforzo dei militari Usa in favore dei civili afghani, ed era stata poi rilanciata su Twitter dal dipartimento alla Difesa Usa. Originaria di Roseville, California, era responsabile della manutenzione con la 24th Marine Expeditionary Unit.

Rylee McCollum, 20 anni. Una delle prime vittime identificate è stato il caporale dei marines Rylee McCollum, ventenne di Bondurant, in Wyoming, che si era sposato a febbraio e aspettava un bambino che nascerà fra tre settimane. Era nato a febbraio 2001 e da quando aveva 3 anni girava con un fucile giocattolo e sognava di arruolarsi: non poteva sopportare le ingiustizie, ha ricordato il padre Jim, e difendeva i compagni che venivano bullizzati. Si era arruolato appena compiuti i 18 anni, chiedendo al padre di firmare l’autorizzazione. «Voleva partire il più rapidamente possibile», ha raccontato il genitore, che invece non si era mai potuto arruolare per motivi medici. Una volta terminato il suo impegno con i marines, ha dichiarato al Washington Post la sorella Cheyenne, avrebbe voluto fare l’insegnante di storia o l’allenatore di wrestling, sport che aveva praticato al liceo. La prima missione estera di Rylee McCollum era stata ad aprile, in Giordania, poi la sua unità era stata inviata in Afghanistan per garantire la sicurezza dello scalo di Kabul. Dopo la partenza per l’Afghanistan, suo padre Jim aveva trovato tranquillità controllando il puntino nella chat di Messenger: se era verde, voleva dire che suo figlio Rylee era online, quindi era vivo. Quando giovedì ha saputo dell’attacco, Jim McCollum è corso a controllare il telefono, ma il pallino stavolta era grigio. «Tutto bene?», ha chiesto, senza ottenere risposta. «Ieri pomeriggio, in cuor mio, lo sapevo già», ha raccontato venerdì al New York Times. Poi, alle 3.30 del mattino, alla sua porta hanno bussato due marines, portando la terribile notizia.

Kareem Nikoui, 20 anni. «Giovedì sono rimasto a casa dal lavoro, perché c’era stato l’attacco e sapevo che mio figlio Kareem era là», ha raccontato al Daily Beast Steve Nikoui, muratore di Norco, in California. «Sapevo che i marines contattano le famiglie entro 8 ore. Attorno alle 19.15 ho visto questi giovani venire verso casa». Aveva già capito il destino di suo figlio Kareem Nikoui, anche lui ventenne, campione di arti marziale. Li stava aspettando perché voleva intercettare la cattiva notizia prima che sua moglie o gli altri figli rientrassero e vedessero i marines. «Erano più scioccati di me», ha raccontato. «Alla fine ero io a consolarli, ma volevo che se ne andassero prima possibile, perché nessuno della mia famiglia li incontrasse». Oltre al dolore, nel petto di papà Nikoui cova la rabbia per la morte del suo ragazzo. «Vorrei rispettare il presidente Biden, ma non posso», ha affermato il padre, che aveva votato Trump ed era felice che il figlio si fosse arruolato durante la sua amministrazione. «Credevo davvero che non avrebbe messo in pericolo altre persone. Invece hanno mandato là mio figlio come un passacarte, mentre i talebani provvedevano alla sicurezza. Biden gli ha voltato le spalle, la colpa è dei nostri vertici militari». La madre, Shana Chappell, ha postato su Instagram l’ultima foto che il figlio le aveva inviato, scattata domenica (quella a sinistra, ndr). «Ho sentito l’anima che lasciava il mio corpo, mentre urlavo che non poteva essere vero», ha scritto la signora Chappell. «Nessuna madre, nessun genitore dovrebbe mai sentirsi dire che il figlio se ne è andato». Negli ultimi giorni aveva inviato dei video girati insieme a dei bambini afghani all’aeroporto. «Prova a dire hello», diceva a uno di loro.

Max Soviak, 22 anni. Max Soviak aveva 22 anni, ed era un ufficiale medico della marina. Veniva da Berlin Heights, in Ohio, aveva giocato a football nella squadra del liceo e si era arruolato sognando una carriera in marina. «Tutti si rivolgevano a Max, nelle situazioni difficili. Era energico e appassionato», ha raccontato al New York Times il suo allenatore, Jim Hall. «Era un bravo studente, presente nello sport e in altre discipline», ha affermato in un comunicato la Edison High School di Milan, Ohio, dove si era diplomato nel 2019. «Era rispettato e amato da tutti coloro che lo conoscevano». La sua morte è stata confermata dalla sorella maggiore Marilyn su Instagram. «Era un dannato medico, era là per aiutare le persone e adesso che se ne è andato la mia famiglia non sarà più la stessa. C’è un buco grande come Maxton che non sarà mai più riempito», ha scritto. «Era solo un ragazzo, e noi i ragazzi li mandiamo laggiù a morire. Ragazzi con delle famiglie, che ora hanno un buco proprio come il nostro». Un amico di famiglia, Jason Garza, ha aperto una raccolta fondi per la famiglia Soviak su GoFundme, che ha raggiunto in poche ore 16 mila dollari da 331 donatori. «La famiglia sta affrontando un grande dolore, volevamo sollevarli da qualsiasi pensiero finanziario così che possano pensare soltanto a loro stessi in questo momento». I genitori, Kip e Rachel Soviak, hanno raccontato al Washington Post che lo avevano sentito da poco, in videochiamata. «Non vi preoccupate», aveva detto loro. «I ragazzi non lasceranno che mi succeda niente». Invece, ha detto la madre, se ne sono andati tutti insieme.

Jared Schultz, 20 anni. Aveva vent’anni Jared Schmitz, marine di St. Louis, nel Missouri: aveva sempre sognato di arruolarsi e, come McCollum, era arrivato dalla Giordania. «La sua vita significava molto di più», ha raccontato al canale locale Kmox il padre Mark, che ha ricevuto la notizia alle 2.40 del mattino. «Sono devastato dal pensiero che non riuscirò a conoscere l’uomo che stava diventando».

David Lee Espinoza, 20 anni. Vent’anni li aveva anche David Lee Espinoza, che era nato a Laredo e viveva con la famiglia a Rio Bravo, in Texas. Era un ragazzo silenzioso, riservato ma generoso, si era arruolato subito dopo aver terminato il liceo nel 2019. «Era così coraggioso da partire per aiutare le persone. Era fatto così, era perfetto», ha dichiarato al Laredo Morning Times la madre Elizabeth Holguin. Lo aveva sentito l’ultima volta mercoledì e, prima di agganciare, gli aveva sussurrato «ti voglio bene». Il suo nome è stato confermato dalla polizia locale, che ha esposto le bandiere a mezz’asta e ha espresso il proprio dolore con una dichiarazione pubblicata su Facebook. «Semper Fi», ha scritto il dipartimento di polizia nel messaggio di cordoglio, riferendosi al motto dei marines. «Grazie per il tuo servizio».

Hunter Lopez, 22 anni. Hunter Lopez, 22 anni, voleva diventare vice sceriffo come i suoi genitori, una volta lasciati i marines. «Hunter era stato esploratore scout alla stazione di Palm Desert dal 2014 al 2017. È stato ucciso perché indossava l’uniforme dei marines americani con amore e orgoglio», ha scritto la Riverside Sheriff’s Association, rilasciando una dichiarazione a nome dei genitori, il vice sceriffo Alicia Lopez e il capitano Herman Lopez, che hanno chiesto di devolvere le donazioni al fondo di soccorso dell’associazione. «Come i suoi genitori, che servono la nostra comunità, per Hunter far parte dei marines non era un lavoro, era una chiamata. Con i suoi compagni ci è stato strappato troppo presto, e non ci sono parole per esprimere quanto ci mancherà. Semper Fi».

Daegan Page, 23 anni. Veniva da Omaha, in Nebraska, il marine Daegan Page, 23 anni, appassionato di hockey — tifava i Chicago Blackhawks — e di caccia. «Lo ricorderemo sempre per il suo resistente guscio esterno e per il suo grande cuore», ha scritto la famiglia venerdì, dopo aver appreso la notizia. Ex boy scout, si era arruolato appena terminato il liceo ed era stazionato a Camp Pendleton, nel sud della California. «Aspettava sempre di tornare a casa e di passare del tempo con la sua famiglia e i suoi tanti amici in Nebraska», ha scritto la famiglia. «Per i suoi fratelli minori era il compagno di giochi preferito, e per gli amici era un ragazzo felice su cui potevano sempre contare».

Ryan Knauss, 23 anni. Ryan Knauss era un soldato dell’esercito americano, «un giovane motivato che amava il suo Paese», come ha ricordato venerdì il nonno Wayne. Veniva da Knoxville, in Tennessee, si era arruolato poco dopo aver terminato il liceo, era già stato stazionato per 9 mesi in Afghanistan e aveva appena completato l’addestramento in Psychology Operations. «Era un ragazzo molto intelligente, divertente», ha detto la matrigna Linnae Knauss, ricordando come il 23enne amasse costruire oggetti con le proprie mani e lavorare in giardino con la moglie Alena. La famiglia ha saputo della morte venerdì mattina. «È stato uno choc. Ci era stato detto che le vittime erano 12 marines e un membro della marina, mentre nostro nipote era nell’esercito. Stavamo pregando per le famiglie delle vittime senza sapere che anche lui aveva perso la vita», ha raccontato la nonna materna Evelina Knauss. «Era un credente, un devoto cristiano che aveva frequentato le scuole religiose fino alle medie», ha affermato nonno Wayne. «Ci rivedremo in paradiso».

Darin Taylor Hoover, 31 anni. Il sergente dei marines Darin Taylor Hoover Jr., 31 anni, era un ex giocatore di football al liceo di Midvale, nello Utah, e si era arruolato 11 anni fa. «Era la persona più amabile, altruista e comprensiva che si poteva incontrare», ha raccontato il padre Darin al Washington Post, che ha ricevuto messaggi di condoglianze da decine di marines di cui era stato il sergente. «Dicono che hanno imparato tanto da lui, che era un leader», ha raccontato Darin Hoover Sr. «Faceva ciò che amava, guidava i suoi uomini ed era con loro fino alla fine. Amava gli Stati Uniti e lo ha dimostrato con il suo servizio. Siamo distrutti e vicini alle famiglie dei suoi fratelli caduti».

Johanny Rosario, 25 anni. Anche Johanny Rosario, 25 anni, era una sergente dei marines. Era nata a Lawrence, in Massachusetts, ed era membro del US Marine Corps’ Female Engagement Team. Dopo il diploma aveva frequentato la Bridgewater State University, poi si era arruolata. «In questo momento la famiglia desidera che venga rispettata la loro privacy, e che Johanny venga ricordata come l’eroina che era», ha detto il maggiore Kendrys Vasquez , che ha portato alla famiglia Rosario le condoglianze dell’amministrazione. 

Dylan Merola, 20 anni, veniva da Rancho Cucamonga, in California, dove si era diplomato alla Los Osos High School. Secondo quanto dichiarato dalla madre Cheryl a CBS2, era a Kabul da meno di due settimane, e sognava di andare al college e studiare ingegneria. «Mi ha detto: "Non riuscirò a parlare per un po', ci stanno mandando in un'altra postazione. Ti voglio bene, ci sentiamo presto". È stato il suo ultimo messaggio».

Humberto Sanchez veniva da Logansport, in Indiana, aveva terminato il liceo da quattro anni ed era un caporale dei marines. «Non aveva neanche 30 anni, e tutta la vita davanti», ha detto il sindaco di Logansport Chris Martin, senza confermare il nome. «Qualsiasi piano avesse per il futuro, lo ha sacrificato con coraggio per salvaguardare la vita degli altri».

DAGONEWS il 29 agosto 2021. La madre di un Marine ucciso nell’attentato all’aeroporto di Kabul ha chiamato Joe Biden “pezzo di merda”. La donna, Kathy McCollum si è sfogata in un’intervista radiofonica dopo la morte di suo figlio di 20 anni, Rylee: “Si stava preparando per tornare a casa, per essere insieme alla moglie alla nascita di mio figlio. E quel ‘pezzo di merda senza palle’ l’ha mandato a morire…”. 

Paolo Mastrolilli per “la Stampa” il 29 agosto 2021. «Io rimprovero i nostri leader militari. Biden ha voltato le spalle a mio figlio». Lo sfogo di Steve Nikoui è comprensibile: qualunque genitore potrebbe reagire così, vedendo due marines che bussano alla porta per informarlo che suo figlio è morto in guerra. Steve poi non nasconde di sostenere Trump, e questo complica tutto, perché incanala anche la strage all'aeroporto di Kabul nell'insanabile spaccatura politica e culturale che da decenni divide l'America, e ora la indebolisce sul fronte globale, come ha notato sull'Economist Francis Fukuyama. Però fa comunque impressione sentire un padre che rompe la regola non scritta delle famiglie militari, e davanti ad un attacco contro gli Stati Uniti non si unisce al comandante in capo, se non altro perché l'unità è il primo passo indispensabile per la riscossa. George Bush era impopolare e contestato, l'11 settembre 2001, perché parecchi americani consideravano illegittima la sua elezione dopo la surreale conta dei voti in Florida. Molti ancora oggi gli rimproverano le scelte sbagliate nella guerra al terrorismo, all'origine della fallimentare conclusione degli interventi in Afghanistan e Iraq. Però quando parlò col megafono davanti ai pompieri che scavavano nelle rovine delle Torri Gemelle di New York, il paese lo ascoltò e il suo gradimento salì alle stelle. Anche nel resto del mondo, dove pure i francesi dissero che eravamo tutti americani. E lo eravamo davvero, nel senso che poi purtroppo abbiamo appreso dal sangue versato nelle nostre strade che l'obiettivo del terrorismo era l'intero occidente, la nostra cultura, il modo di vivere e i valori, prima ancora della religione. Ciò aveva consentito a tutti noi di rialzare la testa, pur commettendo errori, rispondendo con l'emotività invece della razionalità, e magari soccombendo alle pulsioni ideologiche. La domanda chiave è se riusciremo a fare lo stesso ora, con le divisioni incancrenite negli Usa durante la presidenza Trump, e le distanze tra gli alleati allargate, anche perché parecchi europei si sono sentiti traditi dal ritiro a sorpresa e senza consultazioni deciso dal presunto amico Biden. Steve Nikoui è un carpentiere della California, e suo figlio Kareem era nato lo stesso anno dell'attacco di al Qaeda all'America. Questo basta a capire quanto quella sfida lanciata dai terroristi al nostro modo di vivere sia ormai parte del dna degli americani, e forse di tutti gli occidentali. Una sfida epocale, diversa nei modi, ma forse anche più profonda di quella lanciata ora dalla Cina per la supremazia globale. Eppure Steve non è riuscito a vederla nell'ottica dell'unità: «Sono davvero deluso - ha detto a Daily Beast - da come il presidente ha gestito questa cosa, e ancora di più dai militari. I comandanti sul terreno avrebbero dovuto riconoscere la minaccia e affrontarla». Jim McCollum, padre del caporale Rylee morto a Kabul, non rimprovera un'amministrazione specifica per il fiasco in Afghanistan, ma è convinto che Biden abbia sbagliato la gestione del ritiro: «Io ho perso mio figlio, ma laggiù ci sono ancora i Marines. Ho paura per loro, per cosa succederà adesso». Poi ha aggiunto, sempre al Daily Beast, che vorrebbe una rappresaglia più decisa: «Bombardate il dannato palazzo presidenziale» dei taleban. Al di là della logica strategica poco sensata, non c'è nulla di peggio che vorrebbe sentire Biden. Come prima cosa perché lui va in giro tenendo in tasca una lista col numero dei morti americani in Iraq e Afghanistan, e adesso ha dovuto aggiungere i primi caduti sotto il suo comando. Poi perché è una questione personale, oltre che politica. Suo figlio Beau aveva servito con la Guardia Nazionale in Iraq, e là poteva morire, prima che invece lo uccidesse un cancro al cervello. Il pericolo politico più grave, però, è il sospetto che sia debole, incompetente, o peggio ancora mosso solo dall'interesse elettorale. Possibile che il capo del Pentagono Austin, già schierato in Afghanistan ed Iraq, leader del Comando centrale che gestiva l'intervento, non lo abbia avvertito del rischio catastrofe che correva con quel ritiro? Possibile che non lo abbia fatto Burns, esperto diplomatico alla guida della Cia? E se lo hanno fatto, perché non li ha ascoltati? Per la convinzione di essere nel giusto, o perché prende le decisioni in base alla politica interna, e pensava che il ritiro fosse più conveniente sul piano elettorale? Difficile negare una risposta onesta, ai genitori dei caduti.

Afghanistan: 3 britannici fra vittime attentati, un bimbo. (ANSA il 27 agosto 2021) Ci sono anche tre cittadini britannici, incluso un bambino, fra le vittime degli attacchi terroristici di ieri a Kabul, a quanto accertato nelle ultime ore. Lo ha annunciato Dominic Raab, ministro degli Esteri del governo di Boris Johnson, citato da Sky News. L'identità di questi morti - su un bilancio totale aggiornato dai media britannici a 95 vittime come conseguenza del duplice attentato attribuito ieri all'Isis-K, branca afghana dello Stato Islamico - non è al momento ufficialmente precisata. Ma dalle parole usate da Raab sembrerebbe trattarsi di civili e il bambino potrebbe essere figlio d'una coppia mista o legato a qualche adozione. "Sono profondamente rattristato d'aver appreso che due cittadini britannici e il figlio di un altro connazionale sono stati uccisi nell'attacco terroristico", ha dichiarato il capo del Foreign Office, aggiungendo che due altri britannici risultano "feriti" in base alle ultime verifiche. "Erano persone innocenti - ha proseguito - ed è una tragedia che mentre cercavano di portare dei loro cari in salvo nel Regno Unito siano stati assassinati vilmente dai terroristi. Lo spregevole attacco di ieri evidenzia i pericoli che è costretto ad affrontare chi si trova in Afghanistan e ci rafforza nell'impegno a fare tutto il possibile per evacuare le persone". Raab ha assicurato l'assistenza consolare del governo britannico alle famiglie di queste vittime e ai feriti, ribadendo la volontà di continuare ad aiutare - in queste ore, ma in forme diverse anche dopo il 31 agosto - gli afghani che intendono lasciare il Paese. "Non ci lasceremo mai intimidire dai terroristi", ha concluso. 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 27 agosto 2021. La Gran Bretagna potrebbe trovarsi di fronte alla «più grande crisi degli ostaggi che il Regno Unito abbia mai avuto» dopo che il governo ha ammesso che i britannici e fino a 1.100 collaboratori afgani saranno lasciati indietro quando le evacuazioni da Kabul finiranno «nel giro di poche ore». Il deputato conservatore senior Tom Tugendhat ha affermato che la decisione della Gran Bretagna di mettere fine all’evacuazione significherà che in molti non riusciranno ad uscire, nonostante Boris Johnson abbia insistito sul fatto che «la maggioranza schiacciante» sia stata portata via in aereo. Tugendhat, presidente della commissione per gli affari esteri, ha affermato di provare un crescente senso di «rabbia e vergogna! per il fatto che britannici e afgani idonei saranno lasciati indietro. Il deputato ha avvertito che il Regno Unito ora non ha «nessuna influenza» sui talebani e può solo chiedere loro di aiutare persone «che sarebbero abbastanza felici di uccidere», il che significa che la Gran Bretagna potrebbe affrontare una grave crisi di ostaggi in futuro. Nel frattempo, un numero crescente di parlamentari di tutto lo spettro politico ha accusato il governo di aver "fallito" nella sua missione di mantenere al sicuro il personale afghano non completando le evacuazioni. «Non mi arrendo, ma la mia rabbia e la mia vergogna per coloro che abbiamo lasciato in mano ai talebani stanno crescendo». Il signor Tugendhat ha aggiunto: «Sconfitta significa che non hai voce in capitolo... siamo appena stati sconfitti, non abbiamo più alcuna influenza su Kabul». Il grave avvertimento di Tugendhat arriva dopo che il segretario alla Difesa Ben Wallace ha affermato che le forze britanniche cercheranno di «trovare alcune persone tra la folla» che sono in grado di evacuare, ma ha ammesso che non tutti saranno portati in salvo.  Lo sforzo ora si concentrerà sull'evacuazione dei cittadini britannici e di altri che sono già stati autorizzati a partire e sono in aeroporto. Il signor Wallace ha dichiarato: «Evacueremo le persone che abbiamo portato con noi, le 1.000 persone circa nell'aeroporto ora e cercheremo un modo per continuare a trovare alcune persone tra la folla dove possiamo, ma nel complesso l’evacuazione è ora chiusa e abbiamo solo poche ore». I voli di evacuazione sono decollati dall'aeroporto di Kabul venerdì, ma Wallace ha detto di stimare che fino a 1.100 afgani idonei per l'evacuazione saranno lasciati indietro dal Regno Unito. 

Stefano Stefanini per “La Stampa” il 27 agosto 2021. Le autobombe contro la folla disperatamente assiepata intorno all'aeroporto di Kabul non sono solo un atto di crudeltà inaudita cui Al Qaeda, Isis e affiliati vari ci hanno tristemente abituati. Sono un pesantissimo gesto politico che porta le lancette dell'orologio indietro di vent' anni. Spazzano via il presupposto della decisione americana di lasciare l'Afghanistan: la sconfitta e lo sradicamento del terrorismo. E anche ieri gli americani hanno pagato un alto prezzo in vite umane. Vent' anni dopo l'11 settembre dell'attacco di Al Qaeda all'America il terrore torna di casa in Afghanistan. Mentre Usa e Occidente si ritirano dall'Afghanistan. Siamo di colpo tornati al 10 settembre, dopo aver combattuto il terrorismo per vent' anni con sacrifici enormi, ma anche con successi notevoli di coraggio, tenuta e perseveranza. Abbiamo vissuti per vent' anni nello spirito del 12 settembre quando fummo "tutti americani, madrileni, londinesi, balinesi, parigini". Rispondemmo agli attentati stringendo ogni volta le fila e con interventi militari strategici: in Afghanistan contro Al Qaeda - e il regime che proteggeva Bin Laden - e in Mesopotamia contro lo Stato Islamico, nonché con altri, mirati, di più modesta portata, dovunque l'idra terrorista minacciava di piantare radici. Abbiamo dimenticato che le bandiere dello Stato Islamico sventolarono brevemente in Libia, sulle coste del "Mar Nostrum"? Furono i cacciabombardieri americani a far piazza pulita dell'incipiente filiale balneare di Isis. Le azioni militari rispondevano ad una strategia politica: negare al terrorismo una base territoriale, connivenze statuali e, nel caso estremo del "Califfato" Daesh a cavallo di Iraq e Siria, qualsiasi parvenza di statualità. Questa strategia, costosa, impegnativa, rischiosa, ha funzionato. Dopo che Al Qaeda è stato cacciato dall'Afghanistan gli attentati sono progressivamente ma drasticamente diminuiti fino a quasi azzerarsi già prima dell'eliminazione di Osama Bin Laden. La mano è passata all'Isis che ha preso per bersaglio l'Europa, attingendovi a mani piene per propaganda e reclutamenti. Idem la coalizione internazionale, con tiepida partecipazione italiana, ha pazientemente demolito il Califfato di Raqqa - di fatto anche con la collaborazione russa. Venuta meno la base territoriale è venuto meno il cordone ombelicale con le cellule europee. Tranne qualche inevitabile cane sciolto, gli attacchi sul suolo europeo sono spariti. Questi enormi, faticosi, progressi sono ora messi a rischio dall'incondizionato ritiro dall'Afghanistan. No, la presenza militare statunitense e Nato in Afghanistan non è stata una guerra d'occupazione. E' stato un tentativo di stabilizzare il paese dopo l'intervento, necessario, contro Al Qaeda e un governo talebano - non riconosciuto internazionalmente e che se ne era reso complice. Si potrà discutere a lungo degli errori fatti in Afghanistan, dalla Nato, dall'Occidente e dall'intera comunità internazionale. Ci sono stati. Ma nello spirito del 12 settembre, l'intervento Usa e poi Usa e Nato in Afghanistan era utile e necessario. Tant' è che ebbe l'appoggio politico e logistico della Russia. Si dirà che il massacro dell'aeroporto di Kabul non significa che il terrorismo Isis-K inseguirà il nemico occidentale che fugge. Che ci lascerà in pace a casa nostra - anche se tutti i precedenti dimostrano il contrario. Che si oppone ai Talebani - le lotte di potere si fanno anche all'interno del campo jihadista. Che era un attentato annunciato - tutte le intelligence che avevano raccomandato ai propri cittadini di non andare all'aeroporto, senza però trattenere le migliaia di disperati in fuga da Kabul. Tutto vero forse ma resta il fatto che in Afghanistan il terrorismo ha di nuovo diritto di cittadinanza. Come lo aveva il 10 settembre 2001. 

Andrea Nicastro per corriere.it il 27 agosto 2021. I nuovi padroni di Kabul reagiscono istituzionali e velenosi alle esplosioni che insanguinano la sera della città. Usano Twitter e lo fanno coordinati. Parlano della «grande attenzione» che il «movimento» attribuisce alla protezione della popolazione», della «ferma condanna dell’Emirato» e altre banalità tipiche di qualsiasi cancelleria. Ma è il principale portavoce, Zabihullah Mujahid, ad andare oltre, dando il senso di quel che ci si può aspettare da oggi in poi dal secondo Emirato talebano. Sembra di vedere la smorfia di disprezzo sotto la barba folta di Mujahid. «Gli attentati sono avvenuti in un’area dove le forze Usa sono responsabili della sicurezza». Noi non c’entriamo, la colpa, insomma, è di quei perdenti degli americani. Sarà meglio che se ne vadano come hanno promesso. Un soggetto politico nuovo e imprevedibile è entrato nella politica internazionale. Le loro parole, le loro azioni nascono dall’esperienza della guerriglia, del carcere, della tortura inflitta e subita, di una vittoria coltivata, sognata per venti anni. Hanno una sconfinata fiducia nei propri mezzi perché hanno avuto la prova che funzionano. La priorità assoluta dei talebani è oggi avere le truppe straniere fuori dal Paese. Solo allora proclameranno la vittoria, vareranno un governo più o meno «inclusivo» oppure risolveranno in altro modo i dissidi tra compatrioti. Sono disposti anche a dire a Joe Biden, il capo della superpotenza che potrebbe schiacciarli con un bottone, che non può restare un giorno oltre il previsto. Non sarebbe strano fossero stati loro a far arrivare l’allarme attentato alla Cia. In una città terrorizzata, dove qualsiasi amico dell’Occidente sta il più possibile coperto, chi altri può passare un’indicazione così circostanziata? E perché non pensare male fino in fondo e concludere che siano stati gli stessi talebani ad avverare la loro previsione? Per gli «studenti coranici» offrire agli Usa la scusa del terrorismo per chiudere il ponte aereo è un’operazione facilissima da mettere in piedi. Le competenze non mancano di sicuro. Il nuovo ministro della Difesa, Abdullah Gulam Rasoul, nome di battaglia mullah Zakir, venne fermato dalle truppe americane nel dicembre del 2001. Aveva un kalashnikov, delle bombe da mortaio nel bagagliaio e due orologi Casio al polso. Allora gli americani non pensavano di dover trattare con lui da ministro e lo trattarono in modo piuttosto ruvido. Come mai due orologi? Li convinse di aver paura di arrivare in ritardo. Non sapevano che Mullah Zakir si dilettava ad inventare trappole esplosive e che quegli orologi funzionavano come timer. Da allora il neo ministro ha passato sette anni nell’università del terrorismo del carcere Usa di Guantanamo per poi convincere gli esperti di deradicalizzazione che la sua volontà era spezzata, che avrebbe solo coltivato la terra. Pochi mesi dopo la scarcerazione guidava l’offensiva contro i britannici nella provincia di Helmand. Figurarsi che difficoltà avrebbe ad annunciare un rischio attentati e poi a realizzarlo. Ci sono decine di gruppi talebani che potrebbero aver preso l’iniziativa di dare la spallata finale alle velleità degli stranieri di restare e degli afghani di scappare. I primi sospetti sono gli affiliati del network Haqqani , per anni rivali e poi confluiti nel movimento talebano. Risponde a loro la maggior parte dei miliziani nella capitale. Gli Haqqani controllano un’area più grande dell’Austria a cavallo della frontiera tra Afghanistan e Pakistan. Entrano ed escono dal quartier generale delle Forze armate del Pakistan a Rawalpindi come fossero generali pachistani. Ma sono anche i più stretti alleati di ciò che resta di Al Qaeda in Afghanistan. I talebani «ufficiali», quelli della «shura di Quetta», gli eredi diretti del fondatore del movimento mullah Omar, hanno promesso a Washington di tagliare ogni aiuto ad Al Qaeda. Gli Haqqani hanno accettato, ma chissà? Perché non fare un ultimo dispetto? Poi certo, c’è l’accusato ufficiale: lo Stato Islamico del Khorasan. Si tratta di talebani che hanno lasciato la casa comune per mettersi al servizio del marchio internazionale del terrore. L’hanno fatto per ricevere finanziamenti e volontari, per velleità di espansione internazionale. Ma sono stati talebani e possono tornare ad esserlo. Oggi sono il perfetto colpevole, ma domani potrebbero entrare nel famoso governo «inclusivo». Prima, però, gli stranieri devono andarsene. E l’avviso è arrivato forte e chiaro: prima sarà, meglio per tutti.

DAGONEWS il 27 agosto 2021. La presidenza Biden, dopo appena sette mesi, sta svanendo come un profumo scadente. Pensate: l’unico commentatore politico al mondo che ha scritto lodando Banana Joe si chiama Paolo Mieli. Sul Corriere di ieri, mantenendo saldo il suo principio “il ridicolo è il mio mestiere’’, e in barba agli editorialisti dei principali quotidiani liberal degli Stati Uniti, dal New York Times al Wall Street Journal, per non parlare di Henry Kissenger, ha scritto: "C'è qualcosa di improprio negli sberleffi, nei rilievi a tratti inutilmente offensivi dai quali in questi giorni è sommerso il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Da Ferragosto, quando i talebani sono entrati a Kabul, praticamente non è passato un attimo senza che da qualche parte del pianeta un politico (o, più spesso, un improvvisato commentatore di vicende asiatiche) non si sia sentito in diritto di spiegare al capo di Stato americano quali errori aveva commesso. E di indicargli cosa dovrà fare di qui al termine del suo mandato”. Un editoriale così meriterebbe che Paolino prenda subito il posto di Segretario di Stato, al posto di Blinken alla Casa Bianca. Intanto, tutti i maggiori esperti di geopolitica hanno sottolineato il solito vizio americano di non avvertire del disastroso ritiro afghano gli alleati europei. Secondo i vari e avariati inquilini della Casa Bianca non è bene fidarsi dei leader occidentali, sono tipini che lo dicono subito ai russi, ai cinesi, a Gigi Marzullo, non si tengono il cecio in bocca, lo spifferano pure a quelli che passano per strada. Al massimo, gli americani fanno partecipi delle loro decisioni i britannici, cosa che non è successa con l’Afghanistan (e Boris Johnson ha assunto una posizione durissima verso Biden). Meglio è andata, grazie ai loro formidabili servizi di intelligence, ai francesi che infatti hanno iniziato prima l’evacuazione. Secondo punto dolens: il loro senso di superiorità a stelle e strisce arriva immancabilmente all’arroganza del marchese del Grillo: io so’ io e voi non siete un cazzo. Quello che resta di Biden per ora sta organizzando con la Cia e il Dipartimento di Stato l’evacuazione dei 1500 americani ancora sul suolo afghano; ma è impossibile farlo entro il 31 agosto perché mille non si sa dove sono finiti a farsi le canne. Dopodiché, se vuole far sopravvivere la sua presidenza, decollata appena sette mesi fa, deve pensare a come vendicare i 13 militari Usa uccisi nell’attentato di ieri all’aeroporto di Kabul. Passato qualche tempo, non ha altra scelta che colpire la centrale dell’Isis afghana, localizzata nella parte est del paese, per mezzo di droni. Oggi la Casa Bianca prova a scaricare le colpe su Donald Trump, autore dell’accordo di Doha con i talebani per il ritiro del 31 agosto. Certo, che un Biden poco meno che rincojonito poteva subito mettere le manine avanti: Io non seguo Trump, non riconosco il suo accordo, riprendo io i negoziati con i talebani e stilo un’altra intesa. Altro guaio per Sleepy Joe è arrivato poi dalla latitanza politica del suo tutor Barack Obama che, dopo il mega disastro della sua festa di compleanno dove vestito da Mandela si è messo a ballare con Beyoncé e vippume vario, non può ancora spendere una parola a favore del povero Biden – rumors dicono che parlerà lunedì o martedì prossimo. A questo punto, il presidente americano non può nemmeno pensare di non partecipare al G20 straordinario sull’Afghanistan che ha come presidente di turno Mario Draghi. Che oggi ha incassato la massima disponibilità del ministro degli Esteri russo Lavrov, in contatto da mesi con i leader talebani. Ora Draghi attende solo il via libera del presidente cinese Xi Jinping. 

POST SCRIPTUM. E’ davvero incredibile come nessun giornalone, tra un pezzo e una foto dedicato al Secondo Segretario della segreteria consolare, Tommaso Claudi, in cui salva un bimbo afghano, abbia censurato la decisione della Farnesina di far ritornare alle prime scaramucce, con il primo volo militare (sic), l’ambasciatore italiano a Kabul, Vittorio Sandalli. Di solito, l’ambasciatore è l’ultimo a partire ma la paura è stata tanta, poverini…

Valeria Robecco per “il Giornale” il 28 agosto 2021. «Il presidente Biden vuole morti i responsabili dell'attacco a Kabul». Jen Psaki, portavoce della Casa Bianca, in una conferenza stampa scolpisce la voglia di vendetta dell'inquilino della Casa Bianca: «Li troveremo e li uccideremo». La guerra più lunga dell'America si appresta a finire come è iniziata, con il paese che piange i morti di un attacco terroristico e un presidente indignato che giura di dare la caccia ai colpevoli. Ma ora è il momento della domanda più difficile della sua presidenza: come rispondere all'attacco che in Afghanistan ha causato la morte anche di 13 militari americani, il numero peggiore in termini di vittime dal 2011. Il comandante in capo ha dato ordine al Pentagono di mettere a punto piani di attacco per colpire leader, asset e strutture dell'Isis-K, la «filiale» terroristica costituita dagli eredi del Califfato denominata Stato islamico della provincia del Khorasan. Tra le ipotesi al vaglio l'uso dei droni, con un'operazione simile a quella che ha portato all'eliminazione del comandante delle Forze Quds iraniane, Qasem Soleimani, oppure un blitz di terra. Gli esperti di antiterrorismo, tuttavia, si chiedono con quali risorse, di uomini e di intelligence: Biden dovrà decidere quanti uomini e armamenti devono essere spostati nella regione o se deve colpire immediatamente, mentre ci sono ancora le forze speciali all'aeroporto di Kabul, rischiando però di compromettere ulteriormente la sicurezza delle evacuazioni. «Probabilmente dovremo tornare in Afghanistan per catturare i colpevoli - ha detto alla Cnn l'ex segretario alla Difesa ed ex direttore della Cia Leon Panetta -. Possiamo lasciare il campo di battaglia, ma non possiamo abbandonare la guerra al terrorismo». Questo mentre il team per la sicurezza nazionale ha avvertito direttamente Biden - secondo la Cnn - che è probabile un altro attacco nella capitale. Ciò significa che i prossimi quattro giorni saranno tra i più intensi e pericolosi dell'intera guerra per le truppe statunitensi. Come ha fatto sapere il portavoce del Pentagono John Kirby, infatti, gli Usa stanno ancora pianificando di concludere la missione entro il 31 agosto. Intanto, a scatenare nuove critiche contro l'amministrazione Biden (anche da parte di democratici e funzionari militari di Washington), sono le rivelazioni di Politico secondo cui dei rappresentanti degli Stati Uniti a Kabul hanno consegnato ai talebani una lista con i nomi di americani, titolari di carta verde e afghani alleati per facilitare il loro accesso al perimetro esterno dell'aeroporto di Kabul. «Fondamentalmente hanno messo tutti quegli afghani in una kill list - ha commentato un dirigente del Pentagono. È semplicemente scioccante e spaventoso, ti fa sentire immorale». Il presidente, che ieri ha incontrato il premier israeliano Naftali Bennett al termine del quale c'è stato un colloquio con la stampa molto teso, ha detto di non essere sicuro dell'esistenza di questa lista, pur non negando che qualche volta gli Usa hanno consegnato ai talebani nomi di persone da evacuare. «Ci sono state occasioni in cui il nostro esercito ha contattato le controparti militari tra i talebani dicendo, per esempio: sta arrivando questo bus con x numero di persone, composto del seguente gruppo. Non posso dirvi con certezza che ci sia stata una lista, ma potrebbe benissimo essere successo». Pur se l'intenzione era quella di accelerare le operazioni di evacuazione, la scelta ha scatenato indignazione anche alla luce delle nuove stime riportate dal New York Times, secondo cui nel paese rimangono almeno 250mila afghani che hanno lavorato per il governo americano, tantissimi dei quali non potranno lasciare Kabul entro l'inizio della settimana prossima.

Afghanistan, Joe Biden: "Vendetta per salvare la presidenza". Primo raid col drone: uccisa una delle menti dell'attentato Isis. Libero Quotidiano il 28 agosto 2021. Prima reazione da parte degli Stati Uniti dopo le oltre 200 vittime dell’attentato terroristico all’aeroporto di Kabul. Con un raid mirato condotto con un drone nella provincia di Nangahar, gli americani hanno colpito e ucciso nella notte una delle menti dell’Isis-K, l’organizzazione operante in Afghanistan che si ritiene responsabile del drammatico attacco all’aeroporto. L’identità del militante non è stata resa nota, il Pentagono si è limitato a far sapere che si tratta di uno degli organizzatori dell’attentato. Questa è la diretta conseguenza di quanto sottolineato da Dagospia nel suo ultimo report su Kabul: a Joe Biden non resta che una via, quella della vendetta. Solo così potrà far sopravvivere la sua presidenza che, dopo appena sette mesi, “sta svanendo come un profumo scadente”, scrive il sito di Roberto D’Agostino. “Deve pensare a come vendicare i 13 militari Usa uccisi nell’attentato. Passato qualche tempo - si sottolinea - non ha altra scelta che colpire la centrale dell’Isis afghana, localizzata nella parte est del paese, per mezzo di droni”. E così è stato: l’uccisione di uno degli organizzatori dell’attacco terroristico è un primo passo. Ma servirà ben altro dopo le macchie statunitensi dell’ultimo periodo: in particolare tutti i maggiori esperti di geopolitica hanno sottolineato il “vizietto americano di non avvertire del disastroso ritiro afghano gli alleati americani”, scrive Dagospia. Ora per Biden la strada è tutta in salita, ma non può dimostrarsi ancora debole sull’Afghanistan.

Drone uccide terrorista dell'Isis. Gli Usa lanciano il primo attacco di rappresaglia. Anna Lombardi su La Repubblica il 28 agosto 2021. Secondo fonti Usa sarebbe un "pianificatore". Joe Biden l’avevo promesso: «Ci vendicheremo. L’America non perdona e non dimentica». E infatti lancia il suo primo raid mirato contro membri dello Stato Islamico a meno di 48 ore dalla strage, provocata da un kamikaze all’aeroporto di Kabul, dove sono morte almeno 170 persone, compresi 13 marines . Un attacco condotto con droni nella provincia di Nangarhar, a est del Paese, per uccidere, secondo le prime informazioni diffuse dallo Stato Maggiore Usa, una delle menti dell’Isis-K, il braccio afghano dello Stato Islamico, a quanto pare "pianificatore" dell’attentato avvenuto e potenziale architetto pure di quelli annunciati. «Le forze militari hanno condotto un’operazione antiterrorismo. Il bersaglio è stato centrato da un drone partito da una base fuori dal paese» ha scritto il capitano Bill Urban, portavoce del Comando centrale americano, in un comunicato fatto pervenire nella tarda sera americana alla stampa. «Non ci sono state vittime civili». Il piano era stato approvato già nel primo pomeriggio da President Biden, che aveva di fatto dato carta bianca al Pentagono chiedendogli di dare una risposta ferma e immediata. Ma è toccato al ministro della Difesa, generale Lloyd Austin, a dare l’ordine esecutivo.  D’altronde, che qualcosa fosse nell’aria si era capito già nelle ore precendeti. Agli americani ancora in Afghanistan era arrivato l’ennesimo messaggio dell’ambasciata: «Tenetevi lontani dall’aeroporto». La possibilità di nuovi attentati, già paventata dal capo del commando centrale, generale Kenneth McKenzie «è in corso ed attiva» aveva confermato pure la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, nella sua consueta conferenza stampa del pomeriggio. «Le nostre truppe sono ancora in pericolo». Insomma, non reagire, col rischio di un nuovo sanguinoso attacco, per l’amministrazione era ormai impensabile: rispondere era ormai una necessità immediata. Come lo stesso Biden aveva anticipato: «Ho dato indicazioni per colpire la leadership, le strutture e pure i beni dei responsabili dell’Isis-K. Risponderemo con la forza, in un momento di nostra scelta». Parole selezionate con estrema cura, a rievocare quelle usate da George W. Bush nel momento più grave della sua presidenza, quando all’indomani dell’attacco dell’11 settembre, affermò: «Questo conflitto è iniziato nei tempi e nei termini di altri. Finirà in un modo e in un’ora di nostra scelta». 

Intanto venerdì l’esercito americano ha dato una versione aggiornata di come si è svolto l’attacco al Karzai Airport di. Secondo il generale William Taylor del comando congiunto, «non c'è stata una seconda esplosione al Barron Hotel». L’ipotesi, ora è che dopo l'esplosione, qualcuno possa aver sparato sulla folla. Fra i morti si contano anche 27 militanti talebani. L’Isis-K, braccio afghano dello Stato Islamico, sarebbe infatti un nemico acerrimo degli studenti coranici. Secondo gli analisti, la rivalità fra i due gruppi potrebbe degenerare in una guerra civile.  L’attacco coi droni è stata la prima risposta. Altre potrebbero seguire nelle prossime ore.  

Da corriere.it il 28 agosto 2021. Ucciso un pianificatore dell’Isis-Khorasan, il gruppo che ha rivendicato l’attacco kamikaze allo scalo di Kabul e che ha coinvolto 170 civili afghani e 13 marines. Il primo attacco americano non si è fatto attendere. dopo le promesse del presidente Usa Biden: «Non perdoneremo, non dimenticheremo, vi daremo la caccia e ve la faremo pagare». «Le indicazioni iniziali dicono che il target è stato ucciso». Così il Pentagono sul raid condotto con un drone in Afghanistan contro un membro dell’Isis-K che si ritiene sia stato coinvolto nell’attacco all’aeroporto di Kabul. «Il bombardamento è avvenuto nella provincia afghana di Nangarhar e le indicazioni sono che l’obiettivo è stato ucciso», ha riferito il capitano Bill Urban del Comando centrale Usa. «Nel comunicato si aggiunge che “non vi è notizia di vittime civili». L’attacco dei droni ed è stato ordinato dal segretario alla Difesa Lloyd Austin lanciato da una base fuori dal Paese, meno di 48 ore dopo il devastante attacco di Kabul, a pochi giorni dalla fine del ritiro degli Stati Uniti. Il comando centrale degli Stati Uniti ha fornito pochi dettagli. La velocità con cui l’esercito americano ha reagito riflette il suo attento monitoraggio dell’Isis e anni di esperienza nel prendere di mira gli estremisti in parti remote del mondo. Ma mostra anche i limiti del potere degli Stati Uniti nell’eliminare le minacce estremiste, che secondo alcuni avranno più libertà di movimento in Afghanistan ora che i talebani sono al potere. Il presidente è stato avvertito venerdì di aspettarsi un altro attacco letale negli ultimi giorni di una frenetica evacuazione guidata dagli Stati Uniti, ma il segretario stampa della Casa Bianca Jen Psaki ha assicurato che «stanno adottando le massime misure di protezione all’aeroporto di Kabul.» Venerdì scorso, il Dipartimento di Stato ha nuovamente esortato gli americani a stare lontani dai gate degli aeroporti.

(ANSA il 28 agosto 2021) "Molte" delle persone morte nell'attentato all'aeroporto di Kabul "sono state uccise dai soldati americani" nella calca e nella confusione seguita alle esplosioni. Lo riferisce l'inviato in Afghanistan della Bbc riportando le parole di alcuni testimoni. "Ho visto militari americani e dietro di loro militari turchi. Gli spari arrivavano da lì, dalle torri", ha raccontato il fratello di una delle vittime, un tassista afghano che era arrivato da Londra per cercare di salvare la sua famiglia. Il Dipartimento della Difesa Usa non ha risposto alla richiesta della Bbc di commentare queste affermazioni. (ANSA).

Monica Ricci Sargentini per il “Corriere della Sera” il 28 agosto 2021. All'indomani della strage compiuta da un kamikaze all'aeroporto di Kabul sale di ora in ora il numero dei morti. Secondo il Wall Street Journal sono almeno 200 le persone che hanno perso la vita nel tentativo di lasciare il Paese conquistato dai talebani. La Cbs, la Cnn e altri network Usa parlano di 170 vittime mentre la Reuters si ferma a un centinaio di persone uccise tra cui 79 afghani. Il quotidiano americano cita come fonte un dottore del Wazir Akbar Khan Hospital, nel centro della capitale, dove sarebbero arrivati 145 cadaveri. È uno degli attacchi terroristici più mortali portato a termine in venti anni di guerra in Afghanistan. Tredici vittime sono militari americani tra cui Max Soviak, un paramedico ventenne dell'Ohio arruolato nella Marina Usa e due marine: il texano David Lee Espinoza e Rylee McCollum del Wyoming, 20 anni, arrivato nella repubblica islamica lo scorso aprile, lascia la moglie, appena sposata incinta del loro primo figlio. «Sono devastato dall'apprendere che il Wyoming ha perso uno dei suoi nell'attacco terroristico a Kabul. Le mie preghiere per la famiglia e gli amici» ha scritto su Twitter il governatore dello Stato Mark Gordon. Le identità degli altri non sono state ancora rese note. Tra i morti ci sono anche tre cittadini britannici, incluso un bambino. Lo ha annunciato, ieri, Dominic Raab, ministro degli Esteri del governo di Boris Johnson. I loro nomi non sono stati rivelati ma dalle parole usate da Raab sembrerebbe trattarsi di civili e il minore potrebbe essere figlio d'una coppia mista o legato a qualche adozione. «Erano persone innocenti», ha sottolineato Raab. Ma la maggioranza delle vittime è composta da cittadini e cittadine afghane in fila all'Abbey Gate nella speranza di riuscire ad imbarcarsi su uno degli ultimi voli di evacuazione. Uomini, donne e bambini alla disperata ricerca della salvezza come il dottor Khalid Raheen e la sua famiglia, il giornalista Alireza Ahmadi, il giocatore di Taekwondo della squadra nazionale afghana. Tanti corpi, purtroppo, restano ancora senza nome.

"Uccisi due membri Isis K". Attentato Kabul, i testimoni: “Molte vittime uccise da soldati Usa”, il Pentagono tace. Riccardo Annibali su Il Riformista il 28 Agosto 2021. “Ho visto militari americani e dietro di loro militari turchi. Gli spari arrivavano da lì, dalle torri”, ha raccontato il fratello di una delle vittime dell’attacco all’aeroporto di Kabul, un tassista afghano che era arrivato da Londra per cercare di salvare la sua famiglia. Il Pentagono: “Non possiamo confermare né smentire. Stiamo investigando sul caso”. Sono almeno 170 i morti e 200 i feriti dell’attentato allo scalo di Kabul avvenuto il 26 agosto. Ma a causare le vittime non sarebbe stato soltanto l’attacco kamikaze, rivendicato poi dall’Isis-K. “Molte delle persone morte nell’attentato all’aeroporto sono state uccise dai soldati americani nella calca e nella confusione seguita alle esplosioni”, ha riferito Secunder Kermani, corrispondente della Bbc per Pakistan e Afghanistan, nel corso di un servizio. Nel servizio, Kermani precisa che il dipartimento della Difesa Usa non ha risposto a una richiesta di commento in merito. Anche Washington è intervenuta sul caso, con una dichiarazione del portavoce del Pentagono, John Kirby. “Non possiamo confermare né smentire”, ha detto Kirby riguardo alle notizie per cui alcune vittime dell’attentato a Kabul sarebbero morte per il fuoco aperto dalle truppe americane nel caos seguito all’esplosione. Il portavoce del Pentagono ha aggiunto che “sul caso si sta investigando”. “Ho visto dei bambini piccoli nel fiume, è stata come la fine del mondo per noi“, ha raccontato sempre all’emittente inglese uno dei testimoni, il fratello di una delle vittime dell’attacco, un tassista che lavora a Londra ed era tornato a Kabul per aiutare la famiglia a fuggire. “Ho visto soldati americani e di fianco soldati turchi e il fuoco veniva dai ponti, dalle torri, dai soldati”, ha aggiunto il testimone. Il Pentagono ha annunciato che verranno diffuse presto le identità dei 13 militari Usa, di cui 11 Marine, un membro della Marina e un soldato dell’esercito, rimasti uccisi nell’attacco kamikaze. Finora i nomi delle vittime statunitensi non sono stati diffusi in attesa della notifica ufficiale alle loro famiglie. Tuttavia sono filtrati dei dettagli relativi alle storie di alcuni di loro: un Marine rimasto ucciso, del Wyoming, era per la prima volta in Afghanistan e la moglie aspetta un bambino, che dovrebbe nascere fra tre settimane; un altro è un 20enne del Missouri e il padre è devastato dalla sua perdita; inoltre un altro 20enne, del Texas, si era unito alle forze armate dopo le scuole superiori. Riccardo Annibali 

Il fallimento USA. Afghanistan, il Pentagono ammette dopo 19 giorni: “Drone ha ucciso 10 civili, un tragico errore”. Redazione su Il Riformista il 18 Settembre 2021. Con ‘soli’ 19 giorni di ritardo, il Pentagono ha riconosciuto che l’attacco compiuto lo scorso 29 agosto da droni americani contro un presunto commando di terroristi Isis in Afghanistan, che secondo l’intelligence americana doveva colpire nuovamente l’aeroporto di Kabul, dove morirono oltre 130 persone tre giorni prima, fu “un tragico errore”. Nel raid USA morirono dieci persone, sette bambini e tre adulti. Presentandosi ai giornalisti il generale Kenneth McKenzie, capo del del Central Command, ha chiesto scusa per l’errore. Una mossa obbligata dopo le numerose inchieste dei media americani che avevano avanzato forti ‘dubbi’ sull’esito ma soprattutto sulla genesi dell’attacco. McKenzie ha quindi chiesto scusa e offerto le condoglianze dell’intera amministrazione Biden e dell’America tutta alla famiglia di Kabul distrutta dal missile Hellfire lanciato da un drone, annunciando inoltre che l’amministrazione sta considerando la possibilità di un indennizzo economico ai familiari delle vittime. Dopo 19 giorni dunque il Pentagono ammette l’errore: è “improbabile” che il veicolo colpito dal drone e le persone al suo interno fossero associate all’Isis-K, lo Stato islamico del Khorasan che aveva rivendicato l’attentato del 26 agosto fuori l’aeroporto di Kabul, costato la vita a 13 Marines americani. Stando alle indagini portate avanti dall’intelligence, l’autista era dipendente da lungo tempo di una organizzazione umanitaria americana.

Il segreto è sempre più una regola. La guerra cieca dei droni che uccide i diritti. Elisabetta Zamparutti su Il Riformista il 10 Settembre 2021. Il 29 agosto, mentre stavano decollando gli ultimi voli militari statunitensi dall’aeroporto di Kabul, un drone planava in un quartiere limitrofo provocando la morte accidentale di nove membri di una famiglia, tra cui sette bambini.

Il drone, pilotato da remoto da una base negli Emirati Arabi, a più di 1.000 chilometri di distanza, secondo il comando centrale americano ha colpito un’autobomba con un paio di militanti dell’ISIS sventando così un altro attentato all’aeroporto di Kabul. In merito alla notizia che come evento collaterale vi sono state vittime civili, gli americani hanno detto che indagheranno. La stessa cosa l’hanno detta i talebani, condannando l’attacco e il fatto di non esserne stati informati, come invece sarebbe dovuto avvenire secondo quanto avrebbero previsto gli accordi sul ritiro delle truppe americane. Intanto, Zamaray (40 anni) insieme a Naseer (30 anni), Zameer (20 anni), Faisal (10 anni), Farzad (9 anni), Armin (4 anni), Benyamin (3 anni), Ayat, e Malika (2 anni) vanno ad aggiungersi alle vittime civili della “guerra al terrore con il terrore” combattuta in Afghanistan negli ultimi 20 anni. Secondo i dati raccolti dal Bureau of Investigative Journalism di Londra, solo nell’ultimo lustro, dal 2015 al 2020, vi sono stati in Afghanistan almeno 13.072 attacchi con droni, che hanno provocato dalle 4.126 alle 10.076 vittime, tra cui 300-909 civili e 66-184 bambini. Lisa Ling, che ha lavorato come tecnico di droni per l’esercito americano in Afghanistan, oggi whistleblower, ciò fonte di informazione sull’uso degli stessi, segnala che le vittime civili provocate dai droni devono essere indagate e considerate crimini di guerra. «Penso che ogni attacco per il quale ci riferiscono abbia provocato morti di civili dovrebbe essere accuratamente indagato dalla Corte Penale Internazionale e la comunità internazionale dovrebbe ascoltare”, aveva detto in una intervista a Foreign Policy. Le missioni dei droni si sono progressivamente intensificate, anche grazie ai miglioramenti tecnologici, per colpire obiettivi terroristici e militari. Oltre a intensificarsi, l’uso dei droni è stato anche esteso e coperto da una crescente segretezza. Un’escalation che ha coincidenze con le politiche di disimpegno militare. Non sono certo solo gli Stati Uniti a far ricorso a queste armi “intelligenti”. Sta di fatto che nel corso della presidenza Obama, le uccisioni sono state ampliate fino a includere anche cittadini americani all’estero (seppure di origini arabe) sospettati di attività anti-americane, cittadini che in patria avrebbero avuto un processo con tutte le garanzie possibili, anche quelle previste dal sistema arcaico della pena capitale. L’amministrazione Trump ha poi revocato il provvedimento introdotto da Obama nel 2016 sulla registrazione e pubblicazione delle vittime civili in operazioni segrete di antiterrorismo. Una regola considerata “superflua”. Superfluo far conoscere chi viene ucciso e perché? La successione tra democratici e repubblicani non ha visto, salvo certo dei distinguo, una soluzione di continuità. Sin dall’inizio, nel settembre 2001, George Bush promise vendetta per il peggior attacco terroristico contro l’America: «Li staneremo, li faremo correre e li assicureremo alla giustizia». Da allora sono trascorsi venti anni, ma Joe Biden continua a promettere vendetta. «Vi daremo la caccia e ve la faremo pagare», ha tuonato dopo l’attentato all’aeroporto di Kabul. Il fatto è che, dopo l’11 settembre, si è deciso di combattere una guerra al terrore con il terrore. La natura odiosa dei crimini compiuti si è trasformata in una malattia insidiosa che ci ha indotti a sacrificare diritti e libertà nel nome della sicurezza. Pur di estirpare il terrorismo si sono giustificate le più gravi violazioni dei diritti umani. Ci si è dimenticati che non vi è antinomia tra il dovere degli Stati di difendere i diritti delle persone minacciate dal terrorismo e la responsabilità di garantire tale difesa senza minare gli altri diritti. Perché ci sono principi, norme e obblighi che definiscono i limiti dell’ammissibilità e della legittimità stessa dell’azione statale contro il terrorismo. Gli sforzi internazionali e nazionali finalizzati al riconoscimento, senza discriminazione, dei diritti civili, culturali, economici, politici e sociali di tutte le persone e volti ad affrontare l’esclusione politica, economica e sociale, sono essi stessi gli strumenti più adeguati a prevenire e sradicare il terrorismo. Contro la violenza omicida e suicida dei fanatici, l’arma intelligente allora non è il drone, assassino e cieco anch’esso, ma la nonviolenza che disarma il “nemico” e arma lo Stato della forza propria del diritto, della vita, della libertà. Elisabetta Zamparutti

Talebani condannano raid Usa, "attaccato l'Afghanistan". (ANSA il 28 agosto 2021) I Talebani hanno condannato il raid americano con un drone che ha colpito l'Isis-K, definendolo un "chiaro attacco al territorio dell'Afghanistan": lo ha dichiarato il portavoce degli integralisti, Zabihullah Mujahid alla Reuters, ripresa da vari media fra cui Bbc. (ANSA).

Estratto dell’articolo di Fausto Biloslavo per “il Giornale” il 28 agosto 2021. (…) Il kamikaze all'aeroporto di Kabul e la cellula che ha appoggiato il piano della strage difficilmente avrebbero potuto colpire senza che i nuovi padroni dell'Afghanistan chiudessero un occhio o tutti e due. Ufficialmente Isis e talebani si odiano e fronteggiano, ma il terribile attacco fa il gioco dell'Emirato islamico, che punta ad un ritiro certo e definitivo di tutte le truppe occidentali dall'aeroporto di Kabul il 31 agosto, come il presidente americano aveva annunciato prima della Caporetto afghana. (…)  Il capo della rete Haqqani, specializzata in attacchi suicidi, è Siraj figlio del fondatore che aveva combattuto contro i sovietici ed era stato ministro nel primo Emirato fino all'11 settembre. Dal 2015 Siraj Haqqani è stato nominato vice emiro dei talebani. «Se negano legami con l'Isis sono come il Pakistan che nega di avere rapporti con la shura di Quetta (il consiglio decisionale dei Talebani nda). (…)  In realtà un rapporto dell'Onu di giugno segnalava che 8mila-10mila volontari jihadisti dell'Asia centrale, Caucaso, Pakistan e della regione musulmana cinese dello Xinjiang avevano raggiunto l'Afghanistan per dare man forte all'avanzata talebana. In parte avrebbero aderito all'Isis e Al Qaida. La costola del Califfato è un miscuglio di combattenti locali, pachistani, uzbeki, ma anche veterani della sconfitta in Siria e Iraq riparati in Afghanistan. Oltre a questa manovalanza il portavoce del Pentagono, John Kirby, ha ammesso che «chiaramente ci sono migliaia» di prigionieri dell'Isis-K che sono stati rilasciati a causa del ritiro delle truppe Usa. L'uccisione nella sua cella nei primi giorni dell'Emirato di Abu Omar Khorasani, pezzo grosso del Califfato afghano, è solo un segnale al gruppo terroristico che comandano i talebani. Lo stesso fondatore dello Stato islamico in Afghanistan aveva aderito al movimento talebano prima di arruolarsi nella loro copia in Pakistan. Anche il suo successore Abdul Logari ucciso in un'operazione congiunta dei reparti speciali afghani e americani nel 2017 aveva fatto parte per anni dei talebani. E il misterioso Shahab al-Muhajir, l'attuale capo, sarebbe stato un comandante della rete Haqqani prima di disertare per le bandiere nere.

Afghanistan, "patto di sangue con l'Isis": neanche un morto talebano nell'attentato, ora è tutto chiaro. Libero Quotidiano il 28 agosto 2021. Ufficialmente Isis e talebani si odiano, ma in realtà da anni i due gruppi sarebbero legati da una sorta di “patto di sangue”. È quanto riporta l’edizione odierna del Giornale, secondo cui il kamikaze che ha fatto una strage all’aeroporto di Kabul (almeno 200 morti, tra cui anche 13 militari americani) non avrebbe potuto colpire per conto dell’Isis senza che i talebani chiudessero un occhio o tutti e due. E quindi potrebbe non essere un caso il fatto che non è stata contata neanche una vittima talebana: erano quasi tutti cittadini afghani che cercavano una via di fuga tramite l’aeroporto. Al di là delle apparenze, l’attacco dell’Isis fa comodo al nuovo Emirato islamico, che non vede l’ora di liberarsi con certezza e in maniera definitiva di tutte le truppe occidentali che occupano l’aeroporto di Kabul. “Ogni prova a nostra disposizione dimostra che le cellule dell’Isis-K sono radicate nei talebani e nella rete Haqqani”, ha dichiarato Amrullah Saleh, vicepresidente dell’Afghanistan che si trova nascosto nella valle del Panjshir. “In modo particolare quelle che operano a Kabul”, ha aggiunto l’ex capo dei servizi segreti afghani, secondo cui in alcuni quartieri della capitale ci sarebbero infiltrati delle cellule dell’Isis da almeno due anni. Gli Stati Uniti avrebbero sottovalutato la forza dei terroristi, che invece potrebbero contare su circa 8-10mila volontari jihadisti provenienti anche da Pakistan, Uzbekistan e Asia centrale.

Afghanistan, nuovo attacco Usa contro kamikaze dell'Isis: colpito un veicolo diretto verso l'aeroporto di Kabul. Libero Quotidiano il 29 agosto 2021. Gli Stati Uniti hanno sferrato un attacco per neutralizzare un commando terrorista che puntava a farsi esplodere all'aeroporto di Kabul. Un'auto, con "diversi kamikaze" a bordo, è stata colpita da un drone americano.  Poco prima il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, aveva confermato la stessa notizia. Le conseguenze dell'attacco americano e della conseguente esplosione dell'automobile, ha portato la morte di nove persone, di cui sei bambini. Il raid, il secondo in 48 ore dopo il sanguinoso attentato all'aeroporto della capitale, arriva nelle ore in cui gli Usa stanno per concludere il ponte aereo che ha portato via dall'Afghanistan oltre 100mila persone e si preparano ad evacuare anche le truppe e le ultime attrezzature. Secondo fonti dell'amministrazione Usa, la minaccia "si ritiene sia stata eliminata". Il raid sarebbe stato condotto contro militanti dell'Isis che pianificavano un attacco. Nel mirino del raid americano c'erano dei kamikaze a bordo di un'auto che volevano colpire l'aeroporto della Capitale. "Siamo convinti di aver colpito l'obiettivo. Diverse potenti esplosioni secondarie, provenienti dal veicolo colpito, indicano la presenza di molto materiale esplosivo a bordo", si legge nel comunicato Usa. Intanto Nato e Ue, e lo stesso dipartimento di Stato Usa, riferiscono che sono state ricevute "rassicurazioni" da parte dei talebani sul fatto che alle persone in possesso di documenti di viaggio sarà anche possibile lasciare l'Afghanistan dopo il ritiro degli Stati Uniti in programma per martedì 31 agosto, quando i talebani assumeranno il controllo dell'aeroporto di Kabul. 

Da "Ansa" il 30 agosto 2021. Il secondo attacco Usa con un drone che ha eliminato presunti kamikaze dell'Isis diretti in auto verso l'aeroporto di Kabul ha ucciso anche 10 civili afghani di una stessa famiglia, tra cui diversi bambini. Lo hanno riferito alcuni membri della famiglia al Washington Post. Le vittime stavano uscendo da una vettura nel vialetto della loro casa quando il drone ha colpito il bersaglio.

Da "Ansa" il 30 agosto 2021.

Lo Stato Islamico ha rivendicato la responsabilità dell'attacco missilistico all'aeroporto di Kabul. Lo riferisce la Reuters sul suo sito web, citando l'agenzia d'informazione Nasher News, legata al gruppo jihadista, sul suo canale Telegram. "Per grazia di Dio Onnipotente, i soldati del Califfato hanno preso di mira l'aeroporto internazionale di Kabul con sei razzi Katyusha", si legge. Le difese antimissile degli Stati Uniti hanno intercettato fino a cinque razzi lanciati all'aeroporto di Kabul oggi, secondo quanto riferito da un funzionario degli Stati Uniti. 

L'Afghanistan e il primo conflitto condotto da una intelligenza artificiale. Riccardo Luna su La Repubblica il 30 agosto 2021. La scorsa estate, in agosto, alcune dozzine di droni militari e diversi piccoli robot-carrarmati hanno simulato un attacco di aria e terra ad una cinquantina di chilometri a sud di Seattle. L’obiettivo era colpire dei terroristi che si nascondevano in alcuni edifici. L’esercitazione, organizzata dalla Darpa, l’agenzia che si occupa dei progetti tecnologici di frontiera del Pentagono, serviva a testare la capacità dell’intelligenza artificiale di gestire situazioni complesse in zone di guerra “alla velocità della luce”. Di fatto, i droni e i robot, una volta individuato l’obiettivo, si facevano da soli un piano per colpirlo utilizzando algoritmi di intelligenza artificiale. L’episodio, riportato da Wired, mi è tornato in mente leggendo le notizie dell’azione militare americana contro presunti terroristi in Afghanistan tramite droni: è stata usata l'intelligenza artificiale? E fino a che punto? Chi ha premuto davvero il grilletto? Secondo Wired, al Pentagono da tempo ci sarebbe stato un ripensamento sull’esigenza di tenere “humans in the loop” quando si tratta di operazioni militari con armi autonome. Insomma, si può fare a meno degli umani? Il dibattito va avanti da un po’, ufficialmente la regola dice che l’intelligenza artificiale deve “consentire agli operatori di poter esercitare un appropriato livello di giudizio umano sull’uso della forza”. Ma questo vuol dire che un essere umano deve approvare ogni singola volta in cui un drone preme il grilletto? Nel caso dell'esercitazione di Seattle, la Darpa concluse che in certi casi pretendere che ci siano degli umani a prendere ogni singola decisione avrebbe portato al fallimento della missione “perché nessuna persona è in grado di prendere tante decisioni simultaneamente”. L’intelligenza artificiale in guerra non ha sempre bisogno di noi, è la tesi che avanza. Anzi, ha sempre meno bisogno di noi: o almeno ci vogliono convincere che sia così. Sempre secondo Wired, il generale John Murray (US Army Futures Command), ad una conferenza di militari, lo scorso aprile ha detto che la possibilità di mandare all’attacco stormi di robot autonomi ci costringerà tutti a riconsiderare se una persona possa o debba prendere ogni singola decisione sull’uso della forza. “È nelle possibilità di un essere umano prendere centinaia di decisioni contemporaneamente? Ed è davvero necessario tenere gli esseri umani nella catena decisionale?”. La prima risposta sul campo è arrivata, qualche settimana dopo, dal violentissimo conflitto fra Israele e Hamas a maggio. Qualche giorno dopo il cessate fuoco, infatti, dal governo israeliano sono arrivate le prime conferme che quel conflitto è stato “the first artificial intelligence war”, la prima guerra condotta prevalentemente tramite algoritmi di intelligenza artificiale. L’intelligenza artificiale è stata usata sia nella fase difensiva, per determinare le traiettorie dei missili lanciati contro Israele, intercettando solo quelli diretti verso zone abitate o obiettivi sensibili, e ignorando gli altri; sia nella fase di attacco, a Gaza. Secondo The Jerusalem Post, i soldati della Unità 8200, una unità di elite della divisione intelligence, hanno utilizzato algoritmi per condurre diverse azioni chiamate “Alchemist, Gospel, Depth of Wisdom”, utilizzando dati che arrivavano in tempo reale da molte fonti diverse a dei supercomputer i quali generavano raccomandazioni su dove fossero gli obiettivi da colpire. In prima linea, secondo quanto riportato, c’erano spesso “stormi di droni combattenti” e autonomi. Secondo i militari israeliani questo serve anche a minimizzare le vittime fra i civili, ma nei giorni del conflitto di maggio sono state numerose e si sono contati anche molti bambini. Se lo scopo era non colpire i civili, non è stato raggiunto. In realtà il conflitto di maggio in Israele avrebbe almeno un precedente: secondo un rapporto delle Nazioni Unite, il 27 marzo 2020 il primo ministro libico al-Sarraj avrebbe ordinato “l’Operazione Peace Stom”, ovvero l’attacco di droni autonomi, contro le forze di Haftar. I droni, dice il rapporto, “sono stati usati in combattimento per diversi anni, ma quello che rende quell’attacco diverso è che lì i droni operavano senza input umani”, cioè dopo essere mandati all’attacco, erano autonomi di prendere decisioni: "The lethal autonomous weapons systems were programmed to attack targets without requiring data connectivity between the operator and the munition: in effect, a true 'fire, forget and find' capability." Insomma, i robot-killer sono già fra noi, nonostante le proteste di molte organizzazioni umanitarie che vedono in questo passaggio una de-umanizzazione della guerra, la sua trasformazione in un videogioco ma reale. E’ lo stesso che sta capitando in Afghanistan in questi giorni? Il drone con le lame rotanti usato dagli americani per colpire presunti terroristi era autonomo, una volta lanciato? O c’erano ancora “humans in the loop”? Intanto crescono i timori che gli stessi terroristi per i loro attacchi usino sistemi di intelligenza artificiale totalmente autonomi per colpirci meglio. Un rapporto, datato 2021, dell’Ufficio Anti-Terrorismo delle Nazioni Unite, titolato “Algoritmi e Terrorismo: gli usi cattivi dell’intelligenza artificiale da parte dei terroristi”, mette in guardia contro una minaccia che è realistico pensare sia già in atto. I terroristi, dice il rapporto, sono sempre degli early adopters delle nuove tecnologie. Secondo Max Tegmark, un professore del MIT citato da Wired che si occupa del Future Life Institute, le armi guidate da sistemi di intelligenza artificiale autonomi andrebbe bandite come le armi biologiche. Ma è una posizione che sembra avere sempre meno consenso nella realtà dei fatti 

I Profughi afgani.

Nell’Afghanistan estremo essere mancini è una colpa. Racconto di una giornata di viaggio tra bambini bombardati e natura mozzafiato. Filippo Rossi su L'Espresso il 6 dicembre 2021. Provincia di Sar-e-Pul. Distretto di Sayad – Sono nato mancino e ne vado orgoglioso. Ma non è ovunque una cosa positiva. In Afghanistan, ma non solo, è la mano considerata “sporca”, per ovvi motivi. Ho un problema, visto che si mangia quasi sempre con le mani. Nessuno mi ha mai detto nulla fino a questa mattina, quando un uomo, in un ristorante di Sar-e-Pul, piccola cittadina nel nulla, mi continua a fissare con sguardo insistente. Mi chiedo cosa voglia da me. Poi chiede: «Mangia con la sinistra?», e Obaid, la guida, risponde: «Si è mancino». Mi sono messo a ridere. «Ecco perché siamo arretrati» - esclama Obaid - «Perché invece di pensare ad evolversi e studiare, qui pensano ancora a chi mangia con la mano sbagliata».

Questo è stato l’inizio divertente di una giornata infinita, che mi ha portato fino al distretto di Sayad (provincia di Sar-e-Pul, nel nord del paese): un luogo paradisiaco ma dove ancora non è arrivata la connessione del telefono. Oltre a me, Obaid e Jabbar, l’autista, ci accompagnano un talebano che non ha idea di dove siamo e un afghano che mi parla in turco. Dopo aver vissuto 5 anni a Istanbul, illegalmente come la maggior parte degli afghani che fuggono, è stato deportato ed è tornato a Sayad, il suo distretto natale. Conosce tutte le strade del posto, un vero labirinto di viuzze sterrate, guadi e prati che serpeggiano fra colline brulle, verdastre, insieme ad asini pastori e pecore. Alcuni contadini arano campi sulle pareti delle montagne, oppure portano le provviste per l’inverno in grotte scavate nella roccia. E Faiz, il rinnegato turcomanno, conosce tutto a memoria. Meno male. La macchina di Jabbar, a 10 km/h, sale e scende dalle colline. Sembra un deserto di dune rocciose. È bellissimo e non per nulla è soprannominato “Registan”. 

Dobbiamo raggiungere il villaggio di Ashdabala, a 2 ore e mezzo di sterrato in mezzo alla polvere. Passiamo attraverso villaggi rimasti davvero al medioevo. Acqua dal pozzo, asinelli, qualche motocicletta e la cosa più bella, il cibo fresco. Mi piace andare nei villaggi afghani per mangiare perché si sente la differenza. Non tutti sono d’accordo perché molti avrebbero la dissenteria. Ma ci sono abituato. Le condizioni, in effetti, sono molto spartane. La gente è poverissima. Soprattutto nelle provincie come Sar-e-Pul, dimenticata da tutti. Tranne che dalla Nato, che ha mietuto vittime anche qui. Solo 6 mesi fa una casa civile dove abitano 3 famiglie è stata bombardata senza un vero motivo. Ma non ha fatto notizia. Arrivo sulla scena a bordo di una motocicletta di uno dei sopravvissuti per scattare qualche foto, ma scivolo in continuazione e non riesco a stabilizzare l’obiettivo. «Engineer Sahib» mi chiama, signor ingegnere, «7 sono morti, 8 feriti». Sono sordo, specialmente con il vento quindi, ogni volta: «Che hai detto?». Obaid dice che tutti ridevano per il fatto che fossi saltato sulla moto. Aver visto uno straniero era già di per sé un evento da queste parti. Se in più salta sul sellino di una moto diventa subito l’argomento dell’anno. Forte.

Nel cortile della casa bombardata, si riuniscono i familiari e i vicini. Le donne filano in casa, anche se poi posso intervistarne alcune. Fra loro Khalida, 7 anni. Ha perso il suo piedino: «Vorrei tanto averne uno nuovo per giocare con le mie amiche», ammette, mettendosi la mano di fronte alla bocca in segno di timidezza. Mentre parla, i bambini del villaggio si affacciano per spiare la conversazione, arrampicandosi sui muretti in pietra. Khalida ha la gamba ricoperta da un panno. Una sciarpa che le permette di poggiare l’arto monco per terra e evitare di ricordarsi quanto successo. Per mostrarmi la cicatrice, se la toglie. Mi tocca talmente tanto che vorrei poter trovarle la protesi e permetterle di vivere un futuro meno duro. Spero di poterla aiutare. 

Al ritorno siamo stanchi morti. Pieni di polvere. In cima a una collina scorgiamo un panorama mozzafiato. Sembrano dune con in fondo le alpi innevate. Al calar del sole avvistiamo nuovamente l’asfalto e assistiamo all’ultima scena che fa riflettere: In un checkpoint, è un bambino ad avere fucile in mano. Avrà avuto sì e no 13 anni. «Multi tasking», conclude Obaid. A quanto pare non serve solo a combattere.

Il retrogusto amaro del 12 settembre. Il giorno dopo le tragedie siamo sempre tutti solidali. Stavolta, ci piacerebbe essere tutti le donne di Kabul o i combattenti del Panshir. Ma come possiamo, noi Occidente, essere quegli uomini e quelle donne se li abbiamo abbandonati scientemente al loro destino? Gigi Riva su L'Espresso il 13 settembre 2021. C’è sempre un 12 settembre, un giorno dopo, di commozione e buoni sentimenti. Vent’anni fa fummo tutti americani, nel 2004 tutti spagnoli per l’attentato di Atocha, nel 2005 tutti inglesi ed erano le bombe in metropolitana, nel 2015 tutti francesi con il Bataclan, nel 2017 tutti catalani causa scempio sulla Rambla. Siamo stati, un po’ meno, anche egiziani, libici, iracheni, siriani, maliani quando sono scoppiate guerre e rivoluzioni. Asiatici nel post-tsunami, africani nelle carestie. Con la pandemia ci siamo potuti sbizzarrire ad essere questo e quello seguendo la corsa del virus: persino tutti italiani. Poi il tempo passa ci dimentichiamo in fretta di cosa siamo stati per lo spazio di un mattino e siamo pronti a indossare una nuova sciagura prêt-à-porter. Arriva un altro 12 settembre e, stavolta, ci piacerebbe essere tutti le donne di Kabul o i combattenti del Panshir. Un senso del pudore dovrebbe trattenerci. L’abito ci va un po’ stretto. Come possiamo, noi occidente, essere quegli uomini e quelle donne se li abbiamo abbandonati scientemente al loro destino? Se vengono massacrati con l’arsenale che abbiamo lasciato nelle mani dei loro carnefici? Vent’anni dopo è andata in cortocircuito la storia, per un gioco dell’oca è tornata al punto di partenza, come vuole la celebre frase di Marx si ripete in farsa. C’erano una volta i talebani, e ci sono ancora. C’era una volta Al Qaeda in Afghanistan e c’è ancora. Tanto da indurre a credere, allo scoccare dell’anniversario tondo, che sono morti invano le vittime delle Torri, i soldati partiti ad esportare la democrazia nel mondo, le centinaia di migliaia di caduti civili. Per questo l’attuale 12 settembre, invece della lacrima sul viso, si porta come sensazione il retrogusto amaro.

Dagotraduzione dal Daily Mail l'1 settembre 2021. Gli agfhani più poveri stanno lasciando il paese. In un video diffuso online si vede l’enorme fiumana di persone in cammino verso ovest alla ricerca di un futuro migliore. Attraverso le montagne, un fiume di persone sta attraversano il deserto lì dove si incontrano i confini di Afghanistan, Pakistan e Iran. Per questi uomini, donne e bambini, la destinazione è probabilmente la Turchia, a più di 1.500 chilometri di distanza, e da lì l’Europa o la Gran Bretagna. Un migrante che di recente ha fatto lo stesso percorso ha spiegato che il tratto mostrato nel video è alla fine di un viaggio di quattro ore su un terreno accidentato dove i rifugiati afghati, dopo aver viaggiato brevemente attraverso il Pakistan, continuano a camminare a fianco dei trafficanti iraniani. «Queste sono persone poverissime: ci sono altri modi per uscire camminando meno, ma costano di più», ha raccontato. Il viaggio degli afgani è iniziato nella desolata Nimruz, la provincia più scarsamente popolata dell'Afghanistan, in gran parte coperta da deserti e montagne. «Dopo più di quattro ore di cammino siamo arrivati in una valle e abbiamo aspettato il buio» ha ricordato. «Verso le 22 sono arrivati gli iraniani e hanno chiesto a tutti un codice o una parola d’ordine. Poi ognuno è partito con il suo contrabbandiere verso l’Iran». «C'erano migliaia di persone. Ho visto donne gravide, bambini, vecchi. Ricordo il pianto dei bambini che echeggiava sulle montagne». Ieri Filippo Grandi, l'Alto Commissario Onu per i Rifugiati, ha previsto che le evacuazioni dall'aeroporto di Kabul sono solo l'inizio di «una crisi umanitaria ben più grande». La sua agenzia ha stimato che fino a 500.000 afgani potrebbero fuggire dal loro paese e ha fatto appello per un sostegno continuo dai vicini dell'Afghanistan e dalla comunità mondiale. Ha detto: «Le scene all'aeroporto di Kabul in questi ultimi giorni hanno suscitato un'ondata di compassione in tutto il mondo per la paura e la disperazione di migliaia di afgani. Ma quando queste immagini saranno sbiadite dai nostri schermi, ci saranno ancora milioni di persone che avranno bisogno che la comunità internazionale agisca». 

DATAROOM. G20 Afghanistan, evacuati 90 mila rifugiati, ma in Europa c’erano già 220 mila irregolari. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera l'11/10/2021. Nella giornata del vertice straordinario G20 sull’Afghanistan voluto dal premier Mario Draghi («C’è una catastrofe umanitaria che sta per dilagare»), è bene ricordarsi che con i cittadini afghani l’Europa ha un problema da risolvere. Non stiamo parlando di frontiere da proteggere, bensì di una questione che è già all’interno della Ue, ignorata, e che non rende onore ai Paesi che compongono l’Unione europea. La vediamo con l’aiuto dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) che ha elaborato in esclusiva per Dataroom una serie di dati.

La più grande evacuazione dal Dopoguerra

Dopo 19 anni e 10 mesi di presenza in Afghanistan delle forze di coalizione a guida Usa, nella seconda metà di agosto i talebani sono tornati al potere, ed abbiamo assistito alla più grande evacuazione mai realizzata dal Secondo conflitto mondiale. Dal 15 al 30 agosto sono state sfollate 120 mila persone, tra cui 90 mila civili (traduttori, autisti, cuochi, facilitatori, consulenti) che hanno collaborato con la coalizione internazionale e rischiavano ritorsioni da parte dei talebani. A tutti loro sarà concesso asilo politico: 66 mila sono andati negli Usa, 8 mila in Gran Bretagna, 4.890 in Italia, 4.100 in Germania, 2.800 in Francia, 1.898 in Spagna. 

Le frontiere da proteggere

Il timore più diffuso da allora è quello di nuovi arrivi, stavolta non programmati. I ministri degli Interni dei 27 Paesi membri il 31 agosto dichiarano: «Sulla base degli insegnamenti appresi, l’Ue e i suoi Stati sono determinati ad agire congiuntamente per evitare il ripetersi dei movimenti migratori illegali incontrollati su larga scala che si sono verificati in passato, elaborando una risposta ordinata e coordinata». Ma come controlli chi fugge dall’Afghanistan? Ad oggi i profughi che hanno lasciato il Paese scappando via terra verso il Pakistan o l’Iran sono, dati Onu, meno di 25 mila. Non molti, sia perché i confini di terra sono sorvegliati, sia perché una fetta di popolazione attende di capire cosa succederà, ma è piuttosto probabile che questi numeri cresceranno e sappiamo anche che la destinazione finale a cui puntano è l’Europa.

I rimpatri impossibili

Il pericolo è determinato non solo da quel che succede nei Paesi di partenza ma – anche e soprattutto – da quello che avviene nei Paesi di transito. Lo dimostra l’impennata di richieste d’asilo di afghani in Ue nel 2015 e nel 2016, ben 368.030, 7 volte tanto gli anni precedenti (25 mila la media 2008-2014). In quei due anni in Afghanistan non stava avvenendo nulla di diverso rispetto agli anni precedenti. Gli afghani si sono messi in viaggio approfittando della partenza dei siriani (in fuga dal loro Paese in guerra) verso la Turchia, per proseguire verso l’Europa. E adesso, come abbiamo sottolineato in un’altra inchiesta (qui), proprio in Turchia, fra i quasi 5 milioni di profughi bloccati da Erdogan a seguito dell’accordo con la Ue da 6,7 miliardi del 2016, ci sono 120 mila rifugiati afghani registrati dall’Unhcr e 400 mila irregolari. La strategia del presidente turco è chiara: usare i profughi come arma di ricatto, sia per ottenere più denaro, che per acquisire potere sui tavoli internazionali. E ogni volta minaccia di riaprire le frontiere. Dopo la caduta di Kabul gli afghani sanno che dalla Turchia riusciranno ad arrivare in Europa, l’Ue non li potrebbe rimpatriare. 

Le richieste d’asilo

Il problema che invece l’Ue finge di ignorare è legato agli afghani già in Europa da anni. Dal 2008 al 2020 ci sono state 691 mila richieste d’asilo nei Paesi europei: quasi il 40% in Germania (241.870), 41.115 mila in Francia, 23.720 nel Regno Unito, 22.390 in Italia. Solo meno della metà, 311.000, sono state accolte. L’Italia ha protetto il 90% di chi ha richiesto asilo, la Spagna il 71%, la Francia il 69%, la Germania il 50% e il Regno Unito il 39%. 

Le espulsioni e gli irregolari

Degli altri 380 mila, meno di 70 mila sono stati rimpatriati, 90 mila sono ancora in attesa di risposta alla richiesta di asilo, mentre a 290 mila è stata rifiutata. Risultato: oggi in Europa ci sono 220.000 afghani irregolari. Non possono presentare una nuova domanda, e con i talebani al potere non potranno essere rimpatriati. Possono lavorare solo in nero, e quindi non pagano le tasse. In pratica si tratta di fantasmi, e come tale più esposti al rischio criminalità. Dai dati Eurostat è possibile stimare che gli afghani irregolari in Germania siano 111.220 mila, in Austria 26.745, in Svezia 24.925, in Belgio 12.850, in Francia 6.424, e in Italia quasi 2 mila. 

Tra i profughi a cui i Paesi europei hanno negato protezione ci sono

55 mila donne, più di 70 mila persone minorenni, tra le quali 45 mila bambini sotto ai 14 anni (di cui quasi la metà bambine). L’unica soluzione percorribile, probabilmente, è quella offrire loro un percorso di regolarizzazione. Prima che ad irregolari vadano ad aggiungersi nuovi irregolari.

Giorgia Meloni, l'incontro con Viktor Orbàn a Roma: "Come va con Matteo Salvini?". "Siamo uniti, ma c'è competizione". Libero Quotidiano il 29 agosto 2021. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, ha incontrato il premier ungherese Viktor Orbán e il ministro della Famiglia e vicepresidente di Fidesz, Katalin Novak. Da qualche giorno Orbán si trova a Roma con la famiglia ufficialmente è in Italia per una vacanza e per prendere parte al Meeting della rete internazionale dei legislatori cattolici. Meloni e Orbán però si sentono e fissano una colazione per confrontarsi sui principali argomenti di attualità. "Ci vediamo sabato mattina all'Hotel Minerva", scrive il Corriere della Sera citando lo stesso Orban. "D'accordo" risponde la leader di FdI. Per un'ora e un quarto i due passano in rassegna una serie di temi. I due sono preoccupati dal flusso migratorio che potrebbe gravare ulteriormente sull'Europa. "La comunità europea si faccia carico di questi rifugiati sostenendo l'accoglienza nei paesi limitrofi, senza gravare ulteriormente sull'Europa. Occorre vigilare attentamente sulle possibili infiltrazioni terroristiche", si dicono analizzando in prospettiva l'attuale crisi afghana. Meloni si complimenta per i risultati della crescita ungherese, il dato migliore degli ultimi 30 anni. "Come fate? Qual è la ricetta?". Risposta di Orbán: "Abbiamo aiutato le imprese". "Da noi invece i ristori non sono arrivati, e il denaro lo abbiamo destinato alla spesa dei monopattini", replica divertita la Meloni. Orbán, racconta il Corriere, è anche incuriosito da quali siano oggi i rapporti fra la presidente dei conservatori europei e Matteo Salvini: "Come va con Salvini?", le chiede e la risposta è: "Siamo uniti ma la competizione c'è". Nessun incontro invece è previsto, per ora, tra il premier ungherese e il leader della Lega. 

Meloni incontra Orban a Roma: "I rifugiati afghani non gravino sull'Ue". La Repubblica il 28 agosto 2021. La presidente di Fdi e il premier ungherese hanno ribadito la loro stretta collaborazione nel perseguire l'obiettivo comune del rafforzamento della Destra europea. "Ribadire la stretta collaborazione tra Fidesz, Fratelli d'Italia e i Conservatori europei nel perseguire l'obiettivo comune del rafforzamento della Destra europea". E' quanto si legge in una nota di FdI dopo l'incontro di oggi a Roma tra la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni e il premier ungherese Viktor Orban. "Meloni si è complimentata con Orbàn per i significativi successi della politica economica ungherese, che sta vivendo una fase di crescita senza precedenti negli ultimi 30 anni. L'occasione è stata importante anche per ribadire la stretta collaborazione tra Fidesz, Fratelli d'Italia e i Conservatori europei nel perseguire l'obiettivo comune del rafforzamento della Destra europea, nel nome del rispetto delle sovranità nazionali, della difesa della famiglia naturale e dell'identità cristiana, dell'economia sociale di mercato", si legge in una nota. "Oggi ho avuto il piacere di salutare Viktor Orbàn, in visita privata a Roma - scrive Meloni in un post su Fb - Abbiamo fatto il punto sulle vicende internazionali di questi giorni, a partire dall'Afghanistan e dalla necessità di coinvolgere i paesi confinanti nell'accoglienza dei profughi senza gravare ulteriormente sull'Europa. Ma abbiamo anche parlato di come sostenere la ripresa economica dalla pandemia. Insieme continuiamo a lavorare verso l'obiettivo comune di avere una destra europea sempre più forte e decisiva". Meloni e Orbàn, prosegue il comunicato, hanno anche "condiviso la necessità di vigilare attentamente sulle possibili infiltrazioni terroristiche". "Il confronto si è poi concentrato sulla gestione della pandemia e sulle ricette per la ripresa economica, che a detta dei due leader sarà quanto più significativa quante più risorse saranno destinate a sostenere le imprese, anzichè dilapidate in misure assistenziali", conclude la nota.

La superba lezione di Oriana Fallaci sull’immigrazione. Parole illuminanti. Carlo Franza il 28 agosto 2021 su Il Giornale. “Io non vado a rizzare tende alla Mecca. Io non vado a cantar Paternostri e Avemarie dinanzi alla tomba di Maometto. Io non vado a fare pipì sui marmi delle loro moschee, non vado a fare la cacca ai piedi dei loro minareti. Quando mi trovo nei loro paesi (cosa dalla quale non traggo mai diletto) non dimentico mai d’ essere un’ospite e una straniera. Sto attenta a non offenderli con abiti o gesti o comportamenti che per noi sono normali e per loro inammissibili. Li tratto con doveroso rispetto, doverosa cortesia, mi scuso se per sbadatezza o ignoranza infrango qualche loro regola o superstizione. (…) noi italiani non siamo nelle condizioni degli americani: mosaico di gruppi etnici e religiosi, guazzabuglio di mille culture, nel medesimo tempo aperti ad ogni invasione e capaci di respingerla. Sto dicendoti che, proprio perché è definita da molti secoli e molto precisa, la nostra identità culturale non può sopportare un’ondata migratoria composta da persone che in un modo o nell’ altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri valori. Sto dicendoti che da noi non c’ è posto per i muezzin, per i minareti, per i falsi astemi, per il loro fottuto Medioevo, per il loro fottuto chador. E se ci fosse, non glielo darei. Perché equivarrebbe a buttar via Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà che ci siamo bene o male conquistati, la nostra Patria. Significherebbe regalargli l’Italia. E io l’ Italia non gliela regalo.”(Oriana Fallaci). Non aggiungo nessun commento alle parole di Oriana Fallaci, perché parlano da sé, sono stella e guida per gli italiani e gli europei. Carlo Franza

Toni Capuozzo attacca Luciana Lamorgese: "In Italia entra chiunque". Ondata di profughi, il rischio dall'Afghanistan. Libero Quotidiano il 28 agosto 2021. L'Afghanistan caduta nelle mani dei talebani, l'attentato dell'Isis a Kabul e il problema dei profughi in arrivo sono temi che tengono banco nei talk show televisivi. Del resto le ricadute di quanto sta accadendo rischiano di essere pericolose e non solo per l'Italia, qualora non si riuscisse nella gestione piena, di tali flussi di profughi. Per Toni Capuozzo, uno dei migliori inviati di guerra degli ultimi 30 anni, riporta Il Tempo, la questione è seria e purtroppo in Italia c'è un problema. "Diciamo pure che in Italia, basta presentarsi all'ingresso per essere accolti", tuona Capuozzo, riferendosi evidentemente al ministro dell'Interno Luciana Lamorgese. "Da mesi diamo asilo politico a chiunque, basta che lo richieda", osserva il giornalista. "Dialogare con i talebani sarebbe loro accreditamento internazionale. Un errore. Preoccupiamoci di affrontare la lotta all'Isis, ora è più forte che mai. Gli Stati Uniti hanno risvegliato anche le cellule dormienti site in Libia". Quindi affonda il presidente degli Stati Uniti: "Biden? Semplicemente, continua a non capirci nulla di niente". Diversamente la pensa Antonio Caprarica, giornalista e volto noto della Rai, secondo il quale la situazione è però, meno grave di quanto ipotizzato: "Parliamo al più, di migliaia e non certo di milioni di profughi". Accentuare uno scenario da esodo biblico, rischia solo di fare il gioco dei sovranisti in Italia: "Il nostro servizio di intelligence è certamente in grado di scongiurare l'eventuale pericolo terroristico in arrivo tramite i profughi".

La bomba migratoria dell’Afghanistan può travolgere Asia ed Europa. Chiara Sgreccia su Inside Over il 24 agosto 2021. I talebani hanno preso Kabul. Il Palazzo presidenziale è in mano ai combattenti che hanno conquistato il potere a velocità lampo, da quando Usa e Nato hanno iniziato il ritiro definitivo dei militari. Gli eredi del Mullah Omar sono pronti a proclamare l’Emirato islamico dell’Afghanistan che vent’anni fa era stato abbattuto dall’intervento della coalizione internazionale dopo gli attacchi di Al-Qaeda alle Torri Gemelle.

Per molti a guidare il nuovo governo sarà il Mullah Abdul Ghani Baradar rientrato in Afghanistan dopo anni di esilio in Pakistan. È stato il cofondatore degli studenti coranici insieme al mullah Omar, morto nel 2013, che ha guidato l’Emirato afgano dal 1996 al 2001. Baradar è stato imprigionato in Pakistan e poi liberato sotto pressione degli Stati Uniti per condurre i negoziati di pace di Doha, in Qatar, nel 2020, voluti dall’ex presidente americano Donald Trump quando per primo annunciò il ritiro statunitense dal paese.

Un Paese nel caos. Nonostante i talebani stiano cercando di legittimarsi come soggetto politico arrivando ad affermare che il loro governo sarà «aperto ed inclusivo» seppur sotto il sistema della legge islamica, sono in molti coloro che temono la rinascita di un sistema di governo brutale simile a quello di vent’anni fa, quando i diritti delle donne erano stati quasi completamente eliminati. Kabul subito dopo la presa del palazzo presidenziale, è piombata nel caos. Gli Stati Uniti hanno avviato un grosso ponte aereo per evacuare uomini e collaboratori paralizzando l’aeroporto che da oltre una settimana viene preso d’assalto dai civili, con diverse donne che “lanciano” i figli ai militari nella speranza di un futuro migliore in America o in Europa. Allo stesso tempo nelle città di Asadabad e Jalalabad i talebani hanno aperto il fuoco sui manifestanti che per il giorno dell’indipendenza del paese dal Regno Unito, sventolavano la bandiera afghana. Mentre la Bbc ha mostrato le immagini di centinaia di afghani in coda ai bancomat per prelevare gli ultimi risparmi e il traffico intenso lungo le strade, dove c’è chi abbandona la propria auto e prosegue a piedi. Tantissimi sono anche gli afghani che hanno deciso di scappare a piedi.

Verso l’esodo. Secondo le stime di Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, nel 2021 più di 550 mila persone hanno dovuto abbandonare la propria casa ma sono rimasti all’interno dei confini del paese, di questi 126 mila l’hanno fatto tra il 7 luglio e il 9 agosto 2021. Vessati da oltre 40 quarant’anni di conflitti, dall’invasione sovietica del 1979, i rifugiati afghani nel mondo erano già, prima della presa di Kabul, almeno 2,7 milioni. «È difficile prevedere che cosa succederà adesso data l’instabilità del paese – spiega ad InsideOver Ilaria Masinara di Amnesty International Italia – decine di migliaia di persone stanno attraversando i confini afghani nelle ultime settimane. Si può presupporre che la maggioranza rimarrà nella regione, in particolare nei paesi confinanti che storicamente ospitano un numero significativo di rifugiati afghani, oltre il 90%». Il Pakistan è il paese che ne ha accolti di più al mondo, sono quasi un milione e mezzo quelli registrati ma secondo quanto ha dichiarato l’Ambasciatore pakistano in Italia, Jauhar Saleem, al momento il paese non ha ulteriore capacità di accoglienza e un massiccio afflusso di persone rappresenterebbe anche un grave rischio sanitario per il paese di 225 milioni di abitanti. Il confine con l’Afghanistan è presidiato dai militari che rendono impossibile l’ingresso degli afghani senza il visto necessario per entrare. Nonostante alcuni video diffusi dai media mostrino migliaia di persone che provano a lasciare l’Afghanistan attraversando il confine col Pakistan da Torkham vicino a Jalalabad e dal valico della Porta dell’Amicizia nella città di Chaman, le autorità pakistane dichiarano che al momento non c’è nessuna ondata di profughi lungo confine. In Iran, invece, – dove ci sono già 780 mila rifugiati provenienti dall’Afghanistan a cui si devono aggiungere gli altri due milioni di afghani senza documenti – le autorità stimano che arriveranno irregolarmente circa 5 mila persone al giorno. Il governo di Teheran ha allestito lungo i 900 km di confine che condivide con il paese in mano ai talebani, campi per accogliere coloro che in questi giorni stanno attraversando la frontiera a piedi. Famiglie in fuga che la polizia iraniana ferma e conduce nei campi di accoglienza. Si tratta, però, di assistenza soltanto temporanea. «Quando la situazione afghana tonerà stabile procederemo con i rimpatri» ha dichiarato Hossein Ghassemi, capo degli affari di frontiera del ministero dell’Interno. Le condizioni della società iraniana sono peggiorate molto negli ultimi anni a causa della crisi economica per la pandemia di Covid 19 e le sanzioni statunitensi. A questo si aggiungono i problemi di sicurezza interna che un ingente flusso di migranti potrebbe causare. «La paura del radicalismo – e la conseguente volontà di non mettere a rischio la stabilità interna – è anche uno dei motivi che ha spinto i governanti di Turkmenistan, Tagikistan e Uzbekistan, che confinano con l’Afghanistan, a centellinare i flussi migratori» spiega Fabio Indeo dell’Osservatorio Asia Centrale e Caspio. Fin dagli inizi dell’avanzata talebana le tre repubbliche centroasiatiche hanno manifestato un atteggiamento avverso all’accoglienza di un alto numero di profughi tenendo, però, sempre a mente la porosità dei confini centroasiatici costituiti da un reticolo di vie che permette il passaggio ovviando i controlli. Mentre l’autorità ufficiali del Turkmenistan, che manca di fonti di informazione indipendenti, negano la presenza di migranti lungo il confine, il Tagikistan e l’Uzbekistan all’inizio hanno accolto i militari afghani, principalmente di nazionalità uzbeka, che sconfitti dopo la presa talebana delle città del nord dell’Afghanistan, in particolare dopo la conquista di Mazar-i-Sharif, hanno varcato il confine a bordo di una quarantina tra aerei ed elicotteri. «La successiva decisione di rafforzare i controlli alle frontiere va interpretata anche alla luce della volontà delle repubbliche centroasiatiche di trattare con i talebani – continua Indeo – al fine di garantire la sicurezza e il prosieguo dei lavori di importanti infrastrutture nell’area come il gasdotto TAPI che attraverserà sia l’Afghanistan, sia il Turkmenistan». I talebani che, a quanto dichiarano, hanno intenzioni nazionalistiche e quindi che l’emirato islamico non si estenda oltre i confini dell’Afghanistan, sono visti dagli stati confinanti come probabili garanti di una stabilità maggiore rispetto a quella che era stata in grado di offrire l’ex presidente Ghani. «Dalla capacità dei talebani di trattare diplomaticamente con gli stati confinanti dipenderà anche l’intensità del flusso dei migranti afghani perché condizionerà l’approccio dei governi nei confronti di chi scappa dall’Afghanistan e gli eventuali rimpatri di quelli che i talebani potrebbero considerare traditori». Per Fabio Indeo vista la mancata volontà degli stati confinanti di accogliere i profughi afghani a cui si aggiungono le difficoltà logistiche e economiche che questi hanno, l’unica soluzione per ovviare allo scoppio di una crisi umanitaria sarebbe quella di costruire un ponte aereo diretto con i paesi occidentali. La situazione in Afghanistan, però, è ancora in divenire e quello che succederà dipende anche dalla forza e dall’appoggio esterno che un eventuale movimento di opposizione ai talebani potrebbe avere.

Il lungo viaggio verso la Turchia. Alla ricerca di pace e maggiore sicurezza, sono tanti anche coloro che, in fuga dall’Afghanistan, si dirigono verso la Turchia situata sulla rotta migratoria che dall’Est conduce all’Europa. Secondo alcune stime già mezzo milione di afghani potrebbe essere entrato nel paese. Intraprendono un viaggio lungo ed insidioso tra le montagne al confine con l’Iran e in terre che sempre meno sono disposte a supportare la loro presenza. Ciascun migrante paga circa mille dollari, riporta il Washington Post, ai trafficanti per superare il confine orientale turco aggirando i controlli. «La Turchia non sarà il deposito dei migranti d’Europa», però, ha dichiarato il Presidente Recep Tayyip Erdoğan, alla guida del paese che ospita il numero più alto al mondo di persone in fuga da persecuzioni, conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani. Sono quattro milioni i rifugiati in Turchia, la maggior parte dei quali proviene dalla Siria.  Il secondo gruppo più numeroso tra i rifugiati in Turchia è quello afghano. «Non li voglio nel mio paese» scrivono molti sui social. Sta crescendo di nuovo il sentimento anti-migranti che aveva portato qualche anno fa l’hashtag SuriyelileriIstemiyoruz, noi non vogliamo i siriani, tra i trending topic di Twitter. E un altro muro, dopo quello che segna il confine con la Siria, sta per essere completato: separa la provincia turca di Van dall’Iran per fermare le migliaia di persone che arrivano dall’Afghanistan e dal Pakistan. Altri chilometri che si aggiungono a quelli già costruiti lungo il confine con l’Iran, nelle province di Agru, Hakkari e Igdir. Sebbene in Turchia la crisi causata dalla pandemia di Covid-19 non abbia fermato l’economia che nel primo trimestre del 2021 ha registrato una crescita seconda solo alla Cina tra i paesi del G20, ha aggravato gli squilibri interni e accresciuto il divario sociale. La povertà è passata dal 10,2% del 2019 al 12,2%. Secondo un sondaggio realizzato da Metropoll, il 27% della popolazione non riesce a soddisfare i propri bisogni di base mentre il 57% non andrebbe oltre quelli. Le conseguenze della crisi pesano soprattutto sulle spalle delle donne, dei giovani, degli operatori meno qualificati e di coloro che lavorano nell’economia informale. Tra questi ci sono anche i quattro milioni di rifugiati, l’85% dei quali, secondo un’indagine del 2019, si sostentava grazie al lavoro nero. Uno studio effettuato dalla Mezzaluna Rossa Turca e dalla Federazione internazionale delle Società della Croce Rossa su come sia peggiorata la condizione dei rifugiati con il Covid 19 riporta che oggi il 72% degli intervistati riesce a malapena a comprare il cibo necessario al mantenimento della famiglia. Uno su quattro dichiara di aver esaurito quasi tutte le risorse che aveva a disposizione mentre il 15% dice che la propria salute mentale e fisica meriterebbe urgente attenzione medica che non può permettersi. In molti riescono a cavarsela comprando cibo a credito, prendendo denaro in prestito e sacrificando altre spese importanti come quelle per l’istruzione e la sanità. Ad oggi, il paese di Erdogan non sembra in grado di sopportare un’altra emergenza migratoria come quella siriana. L’Europa, però, è impreparata, incapace di adottare una politica d’accoglienza comune e si è già impegnata per rinnovare l’accordo con Ankara del 2016, da tanti chiamato l’accordo della vergogna, con il quale Bruxelles ha affidato al Presidente turco sei miliardi di euro e il compito di fermare i migranti prima che oltrepassino i confini dell’Unione europea.

Col ponte aereo arrivati a Roma 1700 rifugiati nell'ultima settimana. Europa spaccata sui profughi afghani, l’Italia accoglie ma Orban frena: “Proteggeremo l’Ungheria”. Riccardo Annibali su Il Riformista il  23 Agosto 2021. Altre 203 persone evacuate dall’Afghanistan sono arrivate questa mattina all’aeroporto di Fiumicino, grazie al ponte aereo messo in piedi dalla Difesa. Trasportati da Kabul a Kuwait City con un C130J dell’Aeronautica Militare, i profughi hanno quindi proseguito il viaggio per Roma con un Boeing KC767. Così come già accaduto per i precedenti arrivi, tutti gli evacuati saranno sottoposti in aeroporto a profilassi sanitaria anti Covid prima di essere poi trasferiti con pullman dell’Esercito in strutture dedicate alla loro accoglienza. Così il terminal 5 dell’aeroporto di Fiumicino si sta trasformando nella Ellis Island italiana, pronto ora ad accogliere cinquemila afghani. Il ponte aereo da Kabul organizzato dal ministero della Difesa proseguirà per tutto agosto e alla fine saranno evacuate più delle 2.500 persone segnalate dalla Farnesina tra collaboratori e famigliari di chi ha lavorato con il contingente italiano a Herat. Il numero esatto per ora non è definito. Intanto nel terminal i profughi sono sottoposti a visita medica, tampone anti-Covid, fotosegnalamento per il rilascio del visto (in soli 15 minuti). Nel terminal sono state attrezzate nove docce, tre per gli uomini e sei per le donne, una ventina di brandine pieghevoli e la Polizia ha raddoppiato le postazioni per il rilascio dei documenti, e i banchi per il fotosegnalamento. Non tutti i Paesi dell’Ue hanno aperto ponti aerei, anzi minacciano di chiudere i confini. Come Viktor Orban secondo il quale occorre evitare che i profughi lascino la regione ed evidenzia l’importanza di sostenere Turchia che avrà un ruolo “fondamentale” così come i Paesi dei Balcani per evitare l’ingresso dei migranti nell’Unione europea. Dello stesso avviso il cancelliere austriaco Sebastian Kurtz che su Twitter scrive: “Gli eventi in Afghanistan sono drammatici, ma non dobbiamo ripetere gli errori del 2015. La gente che esce dal Paese deve essere aiutata dagli Stati vicini. L’Ue deve proteggere le frontiere esterne e combattere la migrazione illegale ed i trafficanti di esseri umani”. “L’Austria – aggiunge – ha accolto 44mila afghani. Abbiamo una delle più grandi comunità afghane pro-capite al mondo, dopo Iran, Pakistan e Svezia. Ci sono ancora grossi problemi con l’integrazione e siamo quindi contrari all’aggiunta di altri profughi”. Anche il premier conservatore sloveno Janez Jansa che ora detiene la presidenza semestrale dell’unione europea si è espresso in modo decisamente contrario all’accoglienza: “Se le donne possono organizzarsi e combattere contro i talebani in alcune parti dell’Afghanistan, così dovrebbero fare gli uomini. Non è compito dell’Ue o della Slovenia aiutare e pagare chiunque al mondo che sta scappando, invece di combattere per la propria patria”. Ma non solo accoglienze fredde, e burocratiche. Alcuni agenti della Polizia di Stato si sono impegnati in un’operazione molto speciale, accogliere i bambini afghani arrivati in aeroporto. In attesa di definire le procedure di frontiera relative all’ingresso sul territorio nazionale, i poliziotti hanno accolto i piccoli distribuendo cappellini, album e matite colorate. Anche un poliziotto prestigiatore ha fatto compagnia ai bambini durante i momenti di attesa nell’aeroporto facendo ritrovare loro un sorriso. L’oggetto più ricercato: il berretto della polizia. I cittadini afghani trasportati solo nell’ultima settimana dall’operazione Aquila sono 1.701, di cui 454 sono donne e 546 bambini. Nello scalo di Kabul, controllato dagli americani, ci sono altri 800 afghani pronti per essere imbarcati sui C130J dell’Aeronautica militare italiana. Riccardo Annibali

Afghanistan, Farhad Bitani ex militare anti-talebano: "Basta buonismo coi migranti, chi accoglieremo". Il vero pericolo.  Libero Quotidiano il 21 agosto 2021. L'accoglienza indiscriminata dei profughi afghani in fuga dai talebani? Potrebbe essere la rovina dell'Italia e dell'Europa. A sostenerlo non un "pericoloso" teorico dei porti chiusi e dello stop all'immigrazione, ma Farhad Bitani, ex capitano dell'esercito afghano e scrittore. "Basta con questo buonismo - spiega ad HuffingtonPost -. Ora tutti vogliono essere dalla parte dei buoni, aiutare l’Afghanistan accogliendo le persone, ma ci stiamo chiedendo che fine faranno questi profughi tra un anno o due? Cosa gli accadrà nel nostro Paese, se non gli garantiamo un futuro, se non pensiamo ad un progetto prima di parlare di accoglienza?". Piccolo particolare: Bitani è arrivato in Italia come rifugiato politico e oggi vive a Torino, dove è impegnato nello sviluppo del dialogo interreligioso tramite l’Afghan Community in Italia. Secondo i calcoli di Viminale e Farnesina, entro l'anno in Italia sono attesi al massimo 4mila afghani, tra interpreti, traduttori, staff dell’ambasciata, cuochi, collaboratori col governo. Tanti Comuni, amministrati da sindaci di Pd, Lega, centrodestra e centrosinistra, così come la Comunità di Sant'Egidio e le ong del "settore", si sono già detti pronti ad accoglierli. Ma secondo Bitani manca un disegno generale per facilitarne l'integrazione. Anche perché a quei 4mila "ufficiali", bisognerà aggiungerne molti di più, tutti quelli che cercheranno di entrare in maniera irregolare dal confine Nord-Est, attraverso la "via Balcanica". "Se non si prende in considerazione il "dopo", tra tre, quattro anni queste persone si ritroveranno nel nostro Paese senza un lavoro, allo sbando. Gli "altri" diranno che abbiamo aumentato la delinquenza, che gli afghani sono cattivi. Dobbiamo certamente aiutare chi ha collaborato con l’esercito, chi ha lavorato per i diritti umani, ma non possiamo aprire le porte indiscriminatamente senza pensare al futuro di queste persone, qui. L’Italia, in questo momento, ha già un enorme problema con l’immigrazione”. Secondo l’ex militare, si deve tentare il dialogo con le grandi potenze dell'area asiatica, dalla Cina all'India e al vicino Pakistan. "Soprattutto il Pakistan ha un ruolo chiave. I talebani non sono cambiati, alle loro promesse non ci ho mai creduto, neanche per un secondo. Mi hanno ricordato quelle del 1996, dopo le quali hanno ricominciato a tagliare mani e teste. Oggi però questo gruppo è solo una pedina in un gioco più grande. Il Pakistan è il Paese con cui dobbiamo parlare". 

Ecco come negoziamo con i talebani: paghiamo ogni afghano che portiamo via. I talebani hanno bisogno di soldi per gestire la sgangherata macchina statale, pagare i miliziani, i poliziotti, impiegati e funzionari. Albero Negri su Il Quotidiano del Sud il 21 agosto 2021. Le polemiche, anche italiane, se trattare o meno con i talebani sono già spazzate via dalla realtà dei fatti. Sapete come stiamo evacuando i nostri collaboratori locali? Pagando i talebani per ogni afghano che portiamo in salvo all’aeroporto di Kabul. Non c’è da stupirsi. In primo luogo a negoziare con loro sono stati gli Usa a Doha, scegliendosi anche l’interlocutore principale, il Mullah Baradar che hanno fatto liberare dalle prigioni pakistane nel 2018. L’accordo di Doha, voluto da Trump, che ha portato al ritiro americano e a una grottesca disfatta, è stato accettato dall’Onu, dalla Russia e dalla Cina. Piuttosto Biden dovrebbe darci i dettagli di quell’intesa di cui conosciamo solo una parte. Se va avanti il ponte aereo per evacuare stranieri e i collaboratori afghani di Usa e Nato, questo è comunque reso possibile, anche nel caos perdurante, proprio dagli accordi con i talebani che per altro hanno già iniziato i rastrellamenti di donne, giornalisti, militari e fiancheggiatori delle truppe internazionali. Hanno in mano le liste con i nomi, a conferma che i primi a vendere la pelle degli afghani sono stati altri afghani corrotti o infiltrati dai talebani. Del resto l’esercito si è disgregato così: i talebani si sono comprati generali, ufficiali, governatori, catturando quasi senza sparare un colpo, 25 città in dieci giorni. Ha sorpreso la velocità del crollo ma bisogna essere chiari: i talebani da anni già controllavano il 50% del territorio in particolare nelle provincie. Il problema è che lo scrivevamo sui giornali ma i rappresentanti americani e della Nato, italiani compresi, continuavano a raccontare un sacco di sciocchezze magnificando la costruzione di scuole e ospedali che si realizzavano anche perché pagavamo tangenti ai capi della popolazione e alla stessa guerriglia. Altrimenti non si posava neppure una pietra. Adesso ovviamente si parla molto dei profughi afghani perché tutti temono una nuova ondata. Ma come si può continuare ad aiutare, almeno sul piano sanitario e dell’emergenza umanitaria, milioni di afghani rimasti sotto l’Emirato? Per distribuire aiuti agli afghani dell’interno bisognerà trattare per forza coi talebani, _ che non significa riconoscerli diplomaticamente_ così come è avvenuto dal ‘95 al 2001. Con i talebani hanno negoziato e continuano a farlo la Crocerossa, le agenzie dell’Onu e le Ong. Io stesso a Kabul ho assistito nel giugno 2001 alla mediazione con i talebani della Cooperazione italiana del nostro ministero degli esteri per riaprire l’ospedale di Emergency che era stato chiuso. Ma un’Italia discretamente disinformata e lontana dalla realtà continua a ripetere inutili slogan. Quali sono le alternative? Si può fare una nuova guerra “umanitaria” di successo come le precedenti che hanno travolto interi Paesi. E chi la fa questa guerra, visto che siamo appena ritirati con risultati disastrosi? Per altro senza una decisione americana qui nessuno muove un soldato. Ma questi discorsi campati per aria nascondono altri progetti preoccupanti. Tra qualche tempo forse dovremmo avallare dei raid aerei o missilistici sull’Afghanistan magari motivati dal fatto che i talebani si sono appropriati di migliaia di armi americane che erano state date alle forze armate afghane. Per equipaggiarle gli Usa hanno fornito armamenti per circa 30 miliardi di dollari, compresi dei fiammanti Black Hawk che adesso sono in mano agli studenti coranici. Oppure potremmo bombardare di nuovo l’Afghanistan se l’Emirato facesse il passo falso di riportare alla luce del sole i legami con al Qaeda e il terrorismo. Ma in questo momento non conviene. I talebani hanno bisogno di soldi per gestire la sgangherata macchina statale, pagare i miliziani, i poliziotti, impiegati e funzionari. Ci penseranno i pakistani, i cinesi, i russi, le monarchie del Golfo – magari pure gli iraniani – a dare una mano all’Emirato. Loro negoziano con i talebani tutti i giorni, come fanno del resto gli americani. E noi qui a dire sciocchezze in televisione. Segue dibattito sulla pelle degli afghani.

Domenico Quirico per “la Stampa” il 19 agosto 2021. Hanno già compreso: non ci sono altre vie di scampo. In fondo, anche se l'Afghanistan non lo hanno ancora lasciato, sono già diventati profughi. Sono entrati nel nuovo immenso popolo dei migranti, la nuova nazione del terzo millennio. Non hanno letto saggi e articoli sulla cosiddetta «volontà della Storia». Non ne hanno bisogno, in molti luoghi del mondo come oggi a Kabul la sentono come un richiamo nell'aria: un mattino i gendarmi e i soldati non sono più all'angolo della strada a pavoneggiarsi con le divise dismesse di qualche alleato ricco, i mercanti hanno chiuso le merci dietro grate spessissime illudendosi che resistano al saccheggio, i manifesti con le facce ridenti del presidente sono scomparse o sforacchiate dalle pallottole. Passano pick-up guidati da barbuti che portano il mitra come se fosse l'ombrello. Ecco: il veleno è bevuto, la stregoneria è fatta. Il destino di cittadini del mondo moderno è durato pochissimo, non ha portato a nessuna meta terrena. La volontà della Storia, decisa da altri, ha deciso che il loro futuro sarà non di abitare ma di vagare. Ricominciare da capo. Le forme di nazione, gli afghani, le hanno sperimentate tutte da millenni: tribù, la comunità, monarchia, stato e antistato, il socialismo reale, guerre, conquiste, vittorie. Ora dovranno soffrire da estranei sotto estranei, della religione resterà solo il precetto di sopravvivere. Partiranno, i dannati dell'aeroporto, e gli altri: e sì che partiranno, fino a quando i nuovi padroni concederanno agli aerei degli sconfitti di atterrare, poi a piedi sulle eterne strade sterrate dei fuggiaschi, scavalcando monti che sembrano di acciaio martellato, insanguinando i piedi sulle pietre, lasciando dietro come segni sulla pista i morti. Ci saranno anche le donne, queste mute protagoniste della fatica musulmana del vivere. I migranti: ne riconosco le facce in queste immagini afghane, all'aeroporto, alle frontiere dell'Iran e del Pakistan. Hanno tutto in viso, uomini in gabbia che hanno perso la forza di attacco e di difesa, più disarmati della stessa disperazione. Riconosci il loro destino da quello che si portano dietro, dai loro eterni fagotti, valigie slabbrate, ceste di paglia a cui hanno apposto ingenui lucchetti, fardelli mille volte aperti e riabbottonati per farci stare ancora qualcosa una coperta, in indumento, una pentola. Ci sono cose da cui gli uomini non riescono a separarsi neppure quando fuggono in preda alla paura. Questi poveri hanno sempre comunque qualcosa da trascinarsi dietro a fatica. Che sparirà al primo posto di blocco taleban o alla prima implacabile frontiera. Il nuovo Afghanistan che l'Occidente ha accettato e subìto li ha scaraventati fuori, non gli appartengono più, hanno assaggiato stili di vita, ripetuto parole che per i nuovi padroni contengono batteri impuri, irrimediabile possibilità di contagio. Con la acuta intuizione delle vittime hanno capito che attendere è inutile, questi padroni non se ne andranno per altri vent' anni. Gli altri, gli americani gli inglesi, gli italiani, l'Onu, ah! quelli tratteranno, accetteranno, non aspettano altro. già con il bilancino cercano di fiutare quelli con cui sarà meno indigesto accordarsi: si scrutano le barbe, se canute o ben curate è un buon indizio, un turbante raffinato conforta aruspici ottimisti, ecco individuati i moderati, i dialoganti, i «politici» che faranno da argine ai barbuti più selvatici, ai savonarola della sharia. Lasciamo che partano, che trovino i loro impervi sentieri. Inutile accrescere il fardello svelando quale sarà il loro destino: qualche centro di accoglienza per i più fortunati, quelli «utili», quelli da cui potremo spremere qualcosa che ci rende. Gli altri li incontreremo nelle strade, nelle stazioni ferroviarie, nei ruderi delle periferie, davanti ai supermercati a mendicare. Non sono ancora partiti, sono solo una ipotesi, e già le lamentazioni sulla loro sorte disgraziata che noi abbiamo innescato, come sempre, si appannano, si riducono alle solite condoglianze d'occasione. Le loro sono diventate sventure astratte e come assegnate da un destino malvagio e non da colpe di uomini. Spaventano i costi, le moltitudini, se ne discute con toni prefettizi. Alzano la voce i razzisti, gli xenofobi con i loro primitivi ululati, sempre eguali: l'invasione, i terroristi infiltrati. Una storia di oggi? Nel 2016 li ho incontrati, gli afghani, a Calais, nel campo che chiamavano la giungla, erano dentro tende zuppe d'acqua, quasi tutti giovani, guadavano fuori nel chiarore grigiastro, dove inorgoglivano rovi e immondizie. I visi solcati da una tensione che contraeva i lineamenti, come lo sforzo di una bestia per decifrare quello che vede fuori dalla sua tana, in un ambiente nuovo. Ogni notte tentavano di passare il tunnel della Manica. Qualcuno moriva.

Milioni di profughi afghani diretti sulla rotta balcanica. Gian Micalessin il 16 Agosto 2021 su Il Giornale. Dopo la caduta di Kabul, pronto un nuovo esodo attraverso l'Iran per inseguire il miraggio europeo. I primi a pagare per gli errori dell'America e di Joe Biden saremo noi europei. I numeri parlano chiaro. Entro l'autunno, se - come appare inevitabile - Kabul cadrà in mano ai talebani, la rotta balcanica si trasformerà nell'arteria del nuovo esodo afghano. Un esodo capace di far impallidire i numeri del 2015 quando ai confini nord orientali dell'Italia e a quelli meridionali di Austria e Germania bussarono un milione e passa di migranti provenienti in gran parte dalla Siria. Stavolta sarà la volta degli afghani in fuga dall'orrore talebano. I conti sono presto fatti. Già oggi - secondo l'Alto Commissariato dell'Onu - oltre due milioni e mezzo di afghani vivono nei campi profughi sparsi tra l'Iran e il Pakistan. A questa massa di uomini, donne e bambini costretti a vivere lontano dal proprio paese, vanno aggiunti due milioni di sfollati interni, ovvero due milioni di afghani rimasti dentro i confini nazionali, ma senza più una dimora o un luogo in cui vivere. E a moltiplicare vertiginosamente questi numeri contribuisce l'incontenibile offensiva integralista delle ultime settimane. Ai 400mila sfollati messisi in marcia tra il primo gennaio e la fine di giugno, si sono aggiunti centinaia di migliaia di disperati in fuga da Herat, Kunduz, Kandahar, Ghazni e dagli altri centri caduti nell'ultima settimana. Solo a Kabul sono arrivati, in questi giorni, più di 60mila sfollati in fuga da Kunduz e dalle altre regioni settentrionali che si sono accampati nel parco cittadino di Shahr-e-Naw. Ma non illudiamoci, non tutti quei disperati resteranno in Afghanistan o nei campi profughi dell'Iran e del Pakistan. La dinamica è semplice. Chi in questi anni ha scelto di accamparsi in Iran e Pakistan sperando in un miglioramento della situazione capace di consentire il ritorno a casa potrebbe abbandonare ogni speranza e inseguire il miraggio europeo mettendosi in fila sulla rotta che dall'Iran scende verso la Turchia. Una rotta già oggi assai affollata visto che sui territori di Ankara sono presenti, secondo le stime delle agenzie umanitarie, almeno 400mila afghani in gran parte clandestini ed irregolari. A loro - nonostante i 156 chilometri di muro fatti costruire dal presidente turco Recep Tayyp Erdogan al confine con l'Iran - potrebbero aggiungersi nelle prossime settimane anche gli scampati alle nuove persecuzioni talebane. Zarmina Takhari, arrivata nella capitale dopo una drammatica fuga dal villaggio di Shahr-e-Kohna, nella provincia di Takhar, ha raccontato all'Associated Press di aver perso ben 12 fra fratelli e zii passati per le armi dai talebani dopo esser stati accusati di aver collaborato con la polizia e l'esercito. Una testimonianza drammatica, ma cruciale per capire quanto difficile sarà per l'Europa, e per il nostro Paese, misurarsi con i numeri e la disperazione del nuovo esodo afghano. A differenza dei migranti muscolosi e ben nutriti sbarcati sulle nostre coste dalle navi delle Ong, quelli afghani non fuggono da guerre e carestie spesso pretestuose, ma da orrori e violenze autentici. Orrori e violenze che rendono impossibile allinearsi al cinismo di Danimarca, Austria, Belgio e Grecia pronte - solo una settimana fa - a firmare una vergognosa lettera (condivisa inizialmente anche da Germania e Olanda) in cui chiedevano all'Ue di rispedire a casa gli irregolari afghani. Di fronte ad una simile tragedia sarà invece più che mai indispensabile un piano europeo di aiuti e contributi capace di parcellizzare quell'esodo infinito distribuendo l'accoglienza dei richiedenti asilo afghani lungo tutta la rotta che dall'Iran scende verso Turchia e Grecia per poi risalire lungo i Balcani fino ai confini europei. Anche perché se Biden e l'America restano i principali responsabili del disastro afghano e del voltafaccia finale non possiamo dimenticare che gran parte dell'Europa, Italia compresa, ha avuto un ruolo nei fallimentari progetti politico- economici che stanno consentendo il ritorno al potere degli eredi del Mullah Omar. Anche per questo davanti alla disperazione di quei profughi sarà impossibile voltar la faccia altrove.

Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria passando per le guerre della Ex Jugoslavia, del Sud Est asiatico, dell’Africa e dell’America centrale. Oltre agli articoli per “Il Giornale” – per cui lavoro dal 1988 – ho scritto per le più importanti testate nazionali ed internazionali (Panorama, Corriere della Sera, Liberation, Der Spiegel, El Mundo, L’Express, Far Eastern Economic Review). Sono anche documentarista ed autore televisivo. I miei reportage e documentari sono stati trasmessi dai più importanti network nazionali ed internazionali (Cbs, Nbc, Channel 4, France 2, Tf1, Ndr, Tsi, Canale 5, Rai 1, Rai2, Mtv). Ho diretto i video giornalisti di “SeiMilano” la tv che ha lanciato il videogiornalismo in Italia. Ho lavorato come autore e regista alle prime puntate de “La Macchina del Tempo” di Mediaset. Ho lavorato come autore di “Pianeta7”, un programma di reportage esteri de “La 7”. Nel 2011 ho vinto il “Premio Ilaria Alpi” per il miglior documentario con un film prodotto da Mtv sulla rivolta dei giovani di Bengasi in Libia. Nel 2012 ho vinto il premio giornalistico Enzo Baldoni della Provincia di Milano.

Diritto di asilo. Le diverse posizioni dei Paesi Ue su come (non) accogliere i profughi dall’Afghanistan. Alessandro Ferri su L'Inkiesta il 20 agosto 2021. La commissaria agli affari interni dell’UE, Ylva Johansson, ha spiegato che saranno previsti aiuti umanitari e missioni di pace. Mentre Il cancelliere austriaco Sebastian Kurz ha proposto di creare i campi nei paesi confinanti con l’obiettivo di raccogliere i richiedenti, in attesa che venga accettata la domanda di ingresso. La ressa all’aeroporto di Kabul; il giovane Zaki Anwari, diciannovenne promessa del calcio, che cade dal Boeing americano appena decollato, rotola in cielo e poi si schianta a terra; le madri disperate che lanciano i loro figli al di là del filo spinato, scandiscono il racconto per immagini del dramma che l’Afghanistan sta vivendo da quando i talebani hanno iniziato la loro ripresa di potere. Un piano di conquista sanguinario, che stride con le parole del Mullah Abdul Ghani Baradar e che è iniziato ben prima del collasso della capitale, presa senza la minima opposizione. Nelle regioni più remote le ritorsioni e le violenze, che durano da mesi, hanno creato un numero spropositato di profughi che ha iniziato a dirigersi verso Kabul, nella speranza – vana – di trovare almeno lì una resistenza o una qualche sorta di protezione da parte degli americani o dei soldati della NATO, tutti invece in fuga, nella drammatica realtà dei fatti. Si stima che negli ultimi 10 giorni circa 300mila afghani abbiano lasciato il paese, prevalentemente (il 90% del totale) via terra verso i vicini Pakistan, Uzbekistan, Tajikistan e Iran. Soprattutto a Teheran le autorità sono state ben felici di accogliere i rifugiati, perché arrivati a bordo di mezzi USA, tutti sequestrati e ora studiati fin nei minimi dettagli. Al di là delle questioni geopolitiche però, l’accoglienza è un dovere degli stati occidentali, come ricordato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres. In un tweet del 17 agosto, il portoghese ha richiamato il mondo alla solidarietà e al supporto, ma, almeno per ora, il grido di aiuto che arrivava dal Palazzo di Vetro di New York è stato ascoltato solo parzialmente. Gli Stati Uniti non vogliono aiutare i richiedenti asilo: una situazione paradossale, vista la presenza militare americana per ben vent’anni su suolo afghano. Per ora, 2000 profughi sono stati “parcheggiati” in Uganda, in attesa che vengano compiute le verifiche per concedere il visto d’ingresso (verifiche che di solito impiegano 12-14 mesi per essere eseguite). Non solo: alcuni dei collaboratori dell’ambasciata americana a Kabul, quasi tutti interpreti, non sono stati considerati e sono ora in balìa dei talebani, che, come riporta la BBC, vanno di casa in casa a cercare chi collaborava con il vecchio governo o con le forze militari presenti nel paese. Al contrario, ci si aspettava un atteggiamento molto più aperto dal Canada progressista di Justin Trudeau e così è stato: verranno accolti nel paese gli afghani che hanno collaborato con l’ambasciata canadese e le loro famiglie, ma anche soggetti considerati a rischio come giornalisti, attivisti politici, donne, bambini, anziani, appartenenti alla comunità LGBTQ+. In Europa invece, nonostante l’appello di Mario Draghi a una cooperazione strutturata, si procede ancora singolarmente, con tanta confusione e senza tener conto dell’estrema delicatezza della situazione. I paesi extra UE hanno già lanciato piani di accoglienza ad hoc: l’Albania, paese che trent’anni fa ha vissuto, dopo la caduta del comunismo, il dramma della fuga di centinaia di migliaia di suoi cittadini, diretti verso le coste italiane, ha annunciato di mantenere aperta la porta agli afghani, mentre il Regno Unito ha lanciato l’Afghan Relocation and Assistance Policy: un piano che permetterà l’ingresso a 20mila richiedenti asilo, che potranno entrare nel mercato del lavoro e accedere ai sussidi statali, potendo anche chiedere ricongiungimenti familiari. Austria, Danimarca, Grecia, Belgio, Olanda e Germania hanno chiesto di non sospendere i rimpatri nemmeno durante la crisi (anche se Berlino, Bruxelles e Amsterdam hanno immediatamente cambiato idea, bloccandoli), nonostante organizzazioni come Human Rights Watch avessero già chiesto uno stop momentaneo. Il cancelliere austriaco Sebastian Kurz ha rincarato la dose, proponendo la creazione di campi nei paesi confinanti con l’Afghanistan, con l’obiettivo di raccogliere i richiedenti asilo, in attesa che venga accettata o meno la domanda di ingresso su suolo europeo. Il presidente francese Macron ha espresso preoccupazione per il pericolo di una «ondata di immigrazione clandestina incontrollata» che potrebbe aumentare la presenza di fondamentalisti islamici su territorio europeo; la cancelliera tedesca Angela Merkel ha spiegato che secondo la Germania il Pakistan è la meta ideale dove poter intervenire per aiutare i profughi. L’Italia invece ha già iniziato le operazioni di accoglienza dei collaboratori: 297 afghani sono arrivati all’aeroporto di Fiumicino venerdì, mentre il giorno prima, il premier Draghi ha ricevuto una telefonata da Vladimir Putin, che ha assicurato di voler trovare una soluzione. Proprio per questo, il 26 e il 27 agosto, il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, sarà a Roma, per incontrare il premier e Luigi Di Maio. A livello politico, il problema, almeno per l’Italia, è che la linea dell’accoglienza e della cooperazione ipotizzata da Draghi e dalla ministra degli Interni, Luciana Lamorgese, è osteggiata dai partner di governo della Lega, con Matteo Salvini che ha espresso a più riprese la stessa preoccupazione di Macron, nonostante abbia dichiarato di essere favorevole all’apertura di corridoi umanitari per donne e bambini. Per le istituzioni europee, la volontà prevalente sembra essere quella dell’”assistenza a casa loro”. La commissaria agli affari interni dell’UE, Ylva Johansson, ha spiegato che saranno previsti aiuti umanitari e missioni di pace in Afghanistan e nei paesi confinanti, ma ha lasciato trasparire poco altro in ottica futura. Se si guardano i dati del periodo 2008-2020 pubblicati dall’ISPI, si evince che l’Europa ha un atteggiamento abbastanza diffidente nei confronti dei profughi afghani: delle 600mila richieste di asilo ricevute, quasi la metà, 290mila, sono state rifiutate. Un numero altissimo a cui vanno aggiunti i 70mila rimpatri. Un quadro abbastanza deprimente in cui l’Italia spicca in positivo, avendo accolto circa il 90% delle richieste arrivate.  C’è poi una questione che non viene mai tenuta in considerazione quando si parla di richiedenti asilo per motivi umanitari: dove vogliono andare a vivere gli afghani? La comunità afghana è abbastanza radicata in Turchia, dove è impiegata prevalentemente nel settore ricettivo e in quello edilizio, nonostante gli sforzi del governo di Reçep Tayyip Erdogan, che già prima dell’avanzata talebana aveva iniziato a espellere centinaia di afghani. La verità è che gran parte dei profughi non cerca di arrivare in Europa, ma prova a viaggiare verso Istanbul, una meta non troppo lontana, con una rotta accessibile ed economica. La Turchia però è salda sul no: ha mantenuto aperta la sua ambasciata a Kabul e ha iniziato colloqui amichevoli con i talebani, mentre sta costruendo un muro lungo 295km al confine con l’Iran, con l’obiettivo di non far debordare migliaia di afghani nel proprio paese. Ancora una volta, dunque, dove ci si aspetta apertura c’è invece durezza, in un panorama sconfortante come quello di un paese mai realmente in pace, che oggi vive la sua ora più dura. Apparentemente abbandonato a sé stesso, salvo rare eccezioni.

Le parole sulla crisi afghana di Salvini. Afghanistan, la bizzarra idea di accoglienza di Salvini: “Sì a donne e bambini, no agli uomini potenziali terroristi”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 18 Agosto 2021. Il protettore della famiglia composta “da una mamma e da un papà”, delle radici cristiane dell’Europa (e dell’Italia), vuole separare le famiglie afghane in fuga dal Paese ricaduto, a 20 anni dall’invasione delle truppe occidentali, nuovamente tra le mani dei talebani. È il Salvini-pensiero espresso in un tweet dal leader della Lega, che scrive di corridoi umanitari ma solo “per donne e bambini in pericolo”. Dall’ex ministro dell’Interno infatti “porte aperte per migliaia di uomini, fra cui potenziali terroristi, assolutamente no”. Un ragionamento che non trova un barlume di logicità: l’assunto che ogni uomo afghano sia infatti un potenziale terrorista non trova fondamento. Paradossalmente potrebbe essere vero il contrario, ovvero che le donne che Salvini vorrebbe ospitare in Italia siano in realtà possibili combattenti della jihad. Da ex ministro dell’Interno Salvini dimentica i numerosi casi, purtroppo, di bambini o donne kamikaze che si sono fatti saltare in aria per attaccare i contingenti militari occidentali. Parole, quelle di Salvini, che rientrano nel dibattito politico in atto in Italia sulla crisi che sta colpendo l’Afghanistan. Il premier Mario Draghi, intervistato martedì sera dal Tg1, ha tracciato i due capisaldi dell’azione italiana sul tema: accoglienza e sicurezza. Su questi punti il presidente del Consiglio assicura che l’Europa “sarà all’altezza”. A tal proposito Draghi ha avuto un colloquio con la Cancelliera tedesca Angela Merkel. “Abbiamo iniziato a tratteggiare quelle che saranno le linee fondamentali della cooperazione a livello europeo. Siamo tutti consapevoli che sia assolutamente necessaria”, ha spiegato Draghi al Tg1. La linea di Salvini è bocciata quindi dal segretario del Pd Enrico Letta: “Le dichiarazioni di Salvini che ho letto oggi sono totalmente inaccettabili, sull’idea di dire: ‘gli afghani? giusto quei dieci che hanno collaborato con gli italiani, poi non li vogliamo gli altri. Se questa fosse la linea, ma non sarà quella, le parole del presidente Draghi sono state diverse”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Afghanistan, il magistrato anti-terrorismo: "Attenzione, tra i migranti possibili presenze di jihadisti". Libero Quotidiano il 18 agosto 2021. Attenzione ai migranti: è questo il monito lanciato dal magistrato Stefano Dambruoso, simbolo italiano alla lotta del fondamentalismo. "E' vero che tutti quelli che fuggono sono nemici dei talebani, ma tra loro ci sono molti integralisti che arrivati in Europa potrebbero trovare comunità pronte a farsi condizionare. L’intelligence europea è già al lavoro su questo", ha spiegato in un'intervista al Giornale. Ma quali sarebbero gli obiettivi di eventuali attentati? Secondo Dambruoso, ci sarebbero innanzitutto gli Stati Uniti: "Non a caso l’intelligence ha alzato la guardia, ma subito dopo c’è l’Europa, con i suoi valori occidentali da combattere". Ecco perché secondo il magistrato "il pericolo principale è il flusso migratorio. Si cercheranno soluzioni, uno Stato cuscinetto per migliaia di profughi in fuga". Una conseguenza per l'Italia potrebbe essere l'aumento esponenziale del traffico di droga: "L’oppio è da sempre una attività tra le più redditizie per i talebani. A Herat i militari italiani avevano riconvertito le coltivazioni di oppio in zafferano". Sull'eventuale rischio terrorismo dopo l'ascesa dei talebani in Afghanistan si è espresso anche Arturo Varvelli dell'Ispi, secondo il quale non è escluso che i terroristi possano rialzare la testa. "I mujaheddin sul campo, per attitudine personale e storia, sono una forza naturalmente intransigente, intollerante e violenta, che ritiene che quella della moderazione sia una pura finzione che va fatta per ragioni tattiche, per ingannare l’Occidente, e che, comunque, dovrà prevalere la loro visione radicale - ha spiegato l'esperto -. La saldatura tra gruppi locali come i talebani e organizzazioni terroristiche internazionali è una chiave che, in questi anni, ha dischiuso nuovi spazi al terrorismo".

"Qui non li accogliamo". Guerra Ue sui profughi afghani. Mauro Indelicato il 16 Agosto 2021 su Il Giornale. In Europa è scontro sull'accoglienza dei profughi afghani assiepati all'aeroporto di Kabul. Il candidato di Cdu/Csu alla cancelleria tedesca contrario all'evacuazione di massa. A fargli eco è anche il governo austriaco. La situazione a Kabul è ancora in evoluzione ma in Europa la questione relativa ai profughi afghani sta già creando pesanti fratture. Questo vale soprattutto per la Germania, Paese chiamato alle urne il mese prossimo. Il candidato della Cdu/Csu alla cancelleria, Armin Laschet, ha già fatto sapere di essere contrario all'accoglienza dei profughi.

Il successore designato da Angela Merkel in tal senso non ha avuto dubbi. “Io credo – ha dichiarato sull'emittente Wdr Laschet – che non dovremmo adesso diffondere il segnale che la Germania possa accogliere tutti coloro che sono in difficoltà”. Il riferimento è alle migliaia di persone assiepate all'interno dell'aeroporto di Kabul in attesa di fuggire in aereo. Le immagini arrivate nelle scorse ore dalla capitale afghana hanno destato scalpore in tutto il mondo. Con l'arrivo dei Talebani in città, in tanti stanno provando la fuga. Tra di loro ci sono interpreti che hanno lavorato con la coalizione internazionale, persone vicine al governo collassato con l'avanzata islamista, ma anche donne, giornalisti e attivisti che temono reazioni e ritorsioni da parte talebana. Si tratta di gente che da 24 ore vive nel panico e prova con ogni mezzo a salire su un aereo. Anche a costo di invadere la pista dello scalo di Kabul oppure di aggrapparsi ai carrelli di velivoli militari in fase di decollo. Circostanza quest'ultima filmata e ripresa sui social nelle scorse ore e che avrebbe provocato la morte di diverse persone. Da qui gli appelli affinché i Paesi occidentali in primis, con i quali molti profughi hanno collaborato, si facciano carico dell'evacuazione dall'Afghanistan. Ma il timore di molti governi europei è quello di dover far fronte poi a nuove emergenze umanitarie in casa propria. Si spiega così la presa di posizione da parte di Laschet. “Per i profughi afghani – ha aggiunto il candidato della Cdu – si potrebbe profilare un aiuto da dare sul posto”. Le dichiarazioni dell'esponente del centro-destra tedesco hanno subito innescato molte polemiche. I Verdi hanno parlato di dichiarazioni poco consone all'attuale momento che si sta vivendo. Diversi media tedeschi hanno sottolineato il cambiamento di linea rispetto al 2015, quando il governo della Cdu guidato da Angela Merkel ha aperto le porte della Germania a tutti i profughi provenienti dalla rotta balcanica. In quell'occasione più di mezzo milione di siriani sono entrati in territorio tedesco. Ma a livello mediatico quell'episodio ha rappresentato un importante danno politico per la stessa Merkel. Forse per questo il “suo” candidato oggi ha subito sbarrato ogni ipotesi di accoglienza di massa dei profughi afghani. Una posizione che non è sostenuta soltanto a Berlino. L'Austria ad esempio ha parlato della possibilità di accogliere sì gli afghani, ma nei Paesi dell'Asia centrale e non in Europa. “Se i rimpatri non sono più possibili a causa delle restrizioni imposteci dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo – hanno dichiarato i ministri austriaci di Interni ed Esteri, Karl Nehammer e Alexander Schallenberg – devono essere prese in considerazione alternative. I centri di espulsione nella regione intorno all'Afghanistan sarebbero un'opportunità”. Intanto proprio da Berlino è arrivata la notizia dell'impossibilità di far atterrare anche i mezzi militari a Kabul. L'aviazione tedesca ha dovuto sospendere i voli verso la capitale afghana degli aerei destinati a riportare in patria i cittadini ancora bloccati in Afghanistan. E questo per via della presenza lungo le piste di centinaia di persone. Sul caso si è espressa la stessa cancelliera Angela Merkel durante una conferenza stampa convocata per commentare gli ultimi sviluppi arrivati da Kabul. Secondo il numero uno del governo tedesco ci si è trovati davanti a un "fallimento" della missione durata 20 anni e che gli eventi non si sono sviluppati "per come era stato previsto". Il passaggio più importante però è stato dedicato alla situazione relativa ai profughi. "La Germania - è il pensiero di Angela Merkel - potrebbe dover evacuare fino a 10 mila persone dall'Afghanistan". Ma non si tratta di una sconfessione di quanto dichiarato dal candidato del suo partito. L'attuale cancelliera infatti ha parlato del sostegno da offrire ai Paesi confinanti con l'Afghanistan: "Sarà necessario aiutare i Paesi vicini a sostenere i rifugiati oltre a lavorare a stretto contatto con la Turchia - ha chiarito il capo dell'esecutivo - Stiamo vivendo ore amare, ora dobbiamo concentrarci sul salvataggio". In poche parole, i rifugiati dovranno andare nelle nazioni vicine l'Afghanistan e difficilmente molti di loro potranno essere accolti in Europa.

Le testimonianze. Dagoreport il 16 agosto 2021. “La mia storia d’amore con l’Afghanistan ha avuto i suoi alti e bassi…E’ il Paese che ho frequentato più di tutti gli altri al mondo nella mia vita professionale ed è naturale che abbia un posto tutto speciale, nel mio cuore”. L’inviato del “Corriere della Sera” Ettore Mo mise piede in Afghanistan nel 1979 anno in cui aveva ricevuto il suo primo incarico come inviato di guerra. Mo era stato domestico di un grande corrispondente da Londra del giornale di via Solferino, che ne aveva intuito il talento. Provò a scrivere, prima in Cronaca poi nella redazione spettacoli. Quando ancora contavano merito e talento più delle appartenenze, Franco Di Bella ne intuì le capacità. Lo mandò a Teheran e in quell’occasione conobbe Tony Clifton, un cronista australiano di “Newsweek” con il quale familiarizzò e gli suggerì la missione successiva: “Ettore, la storia che devi raccontare è a Kabul”, gli disse. Non se lo fece ripetere: “Il prossimo Vietnam sarà l’Afghanistan”. Ettore si ritrovò così a Peshawar, la città pakistana che segna il confine con l’Afghanistan, insieme al fotografo Giuseppe Colombo: allora, il giornale di via Solferino inviava anche i fotografi. “Per me la guerra dell’Afghanistan iniziò quella mattina di giugno del 79 nella valle di Kunar, quanto dall’alto della montagna vidi una piccola zattera che attraversava il fiume”. L’obiettivo di Mo fu quello di documentare le fasi iniziali della guerriglia dei mujaheddin contro il regime rivoluzionario filosovietico di Noor Mohammed Taraki, instauratosi nel colpo di Stato del 27 aprile 1978. Si trattava di una guerriglia interna preludio dell’invasione dell’Armata Rossa, nel dicembre 1979; da una parte erano schierati i mujaheddin, sotto la bandiera dell’Islam, dall’altra le truppe del governo filo sovietico. Mo la definì una guerra santa, di Allah contro l’imposizione di un modo di vita totalmente estraneo; per l’Unione Sovietica, quel Paese la storica terra di passaggio verso l’Oceano Indiano. Iniziava la Jihad islamica contro i senza Dio del regime che, allora, erano i russi e poi sarebbero diventati gli occidentali dopo il ritiro sovietico ai tempi di Gorbacev. Prima di Mo, altri inviati avevano tentato di vivere con i guerriglieri ma nessuno c’era riuscito; Ettore decise di staccarsi dai colleghi e incontrare Guldubbin Hekmatyar, capo del partito Hezb-I-Islami, il più grande partito anti marxista: era un “Khomeini degli afgani”, nel cui cassetto convivevano mitra e Corano. Mo lasciò Peshawar per il Khyber Pass diretto alla valle del Kunar. Era il giugno del ’79 e decise di scalare a piedi una montagna di duemila metri per vivere con i mujaheddin: “Sei mesi dopo, l’Armata Rossa avrebbe invaso l’Afghanistan. Ma già allora, nel Paese, erano confortevolmente stanziati più di tremila consiglieri sovietici tra civili e militari”. In settembre il presidente Taraki venne assassinato e Amin prese il suo posto; Mo intuì che non avrebbe avuto una lunga vita e, durante un’intervista gli chiese: “Signor presidente, ha mai pensato che potrebbe non morire nel suo letto?”. Dopo due mesi fu assassinato quando i russi assalirono il palazzo presidenziale per ordine di Breznev. Amin fu sostituito da Babrak Karmal del partito Parcham, che Taraki aveva spedito in Cecoslovacchia. Nel 1980 l’inviato restò coinvolto in una battaglia di sette ore nella piana di Jalalabad, dove furono uccisi davanti ai suoi occhi tre prigionieri: “Mi sembrava tutto assurdo. Nel giro di pochi secondi mi sentii molto più vecchio e molto più triste, con una sensazione di completa impotenza davanti alla morte. Avrei voluto urlare, ma tutto quello che potevo fare era scrivere un buon articolo. Promisi a me stesso che sarebbe Stato uno dei migliori, in onore di quei tre poveretti”. Otto offensive dell’Armata Rossa, tra il 1980 e il 1985, non riuscirono a scalzare il comandante Massud, lo storico Leone del Pashir del quale Mo divenne amico. Nel 1986 Karmal, cui Mosca rimproverava di non essere riuscito a creare una base popolare attorno al suo regime, fu rimosso dall’incarico per “motivi di salute” e sostituito da Mohammed Najibullah, ex capo del Khad, la polizia segreta afgana fedelissimo del Cremlino. La guerra si combatteva ad armi impari: mentre i russi avevano gli aerei e i carri i mujaheddin combattevano con mezzi inadeguati. Armi contraeree erano le richieste che Mo si sentiva spesso ripetere dai leader della resistenza, come Massud, Abdul Haq, Haqqani, Naquib e che gli Stati Uniti cercavano di far arrivare (le stesse che finirono poi nelle mani dei talebani). Mo raccontò l’arrivo degli stingers, i missili americani: fino ad allora, il presidente americano Ronald Reagan aveva contribuito solo indirettamente con lo stanziamento di fondi coperti. Nel 1988 i russi iniziarono il ritiro e Mo tornò in Afghanistan a viso scoperto, non da clandestino come aveva fatto nei dieci anni precedenti. Fu una “illusione, ci vollero quattro anni buoni perché i mujaheddin della jihad avessero la meglio sul regime filo sovietico di Najibullah rimasto in sella dopo l’esodo dell’Armata Rossa”. La guerra continuava, nonostante l’avvento al potere dei leader della Santa Alleanza, con Massud, che avevano installato un governo islamico nell’aprile 1992: “La pace non si addice all’Afghanistan”, scrisse allora Ettore Mo. “La guerra civile sarebbe continuata per altri due anni almeno, e non nel nome di Allah…una guerra alimentata solo dalla sfrenata ambizione del leader dello Hezb-i-Islami, Hekmatayr il quale, deciso a spodestare il presidente Rabbani ed il primo ministro Massud, scaricava quotidianamente sulla capitale tonnellate di missili e bombe facendo più morti che durante l’invasione sovietica”. Proprio quanto Hekmatyr sembrava sconfitto, nell’autunno 1994 si affacciarono sulla scena afgana i talebani, studenti di religione coranica capeggiati dal mullah Omar. I cosiddetti “folli di Dio” volevano una teocrazia, erano però finanziati dalle grandi compagnie petrolifere che chiedevano la costruzione di oleodotti e gasdotti nella regione. In quell’anno Mo assistette all’omicidio del suo collega Mizwair, della BBC, ammazzato dagli uomini di Hekmatyar, dopo che questi gli aveva concesso un’intervista. Nel 1996 i talebani occuparono il 90% dell’Afghanistan grazie all’aiuto del Pakistan, che forniva armi e denaro, e Massud fu costretto, unico rappresentante del governo legittimo riconosciuto dall’Onu, a ritirarsi nel Panshir. Mo contrappose i due Afghanistan, quello dei talebani e quello di Massud: “Qui le donne possono ancora studiare, lavorare e camminare per strada con o senza burqa; dove i bambini non vengono bacchettati se fanno svolazzare gli aquiloni; dove la musica non c bandita, dove puoi inginocchiarti e pregare cinque volte al giorno ma nessuno verrà a spingerti a forza in moschea, neanche il venerdì e dove non corri il rischio di essere trascinato davanti ai tetri sacerdoti dei tribunali islamici per un centimetro di barba in meno”. In quei mesi, Mo raccontò l’arrivo di Emergency e del suo fondatore, Gino Strada, che riuscì a creare in Afghanistan un centro chirurgico per le vittime delle mine antiuomo e feriti di guerra. Con l’attacco alle torri gemelle, l’11 settembre 2001 si diffuse in Afghanistan la disperazione, cui seguì l’esodo di migliaia di profughi. Di fatto, Osama rappresentò una causa principale della sospensione del regime dei talebani: la guerra scatenata dagli Usa, il 7 ottobre 2001 spianò la strada all'Alleanza del Nord e il regime dei Talebani si dissolse in due mesi. Iniziò allora la presa di controllo occidentale, che si sostituì a quella russa intervallata per breve tempo dai talebani. Il 13 novembre i mujaheddin dell’Alleanza del Nord, la milizia anti-talebana sostenuta dagli Usa, entrarono a Kabul; più dura da espugnare fu la roccaforte talebana di Kandahar. Venne creato un governo provvisorio guidato da Hamid Karzai. Gli americani incominciarono a controllare il paese e a cercare di esportare la democrazia sotto l’egida dell’Onu. 

DAGOREPORT il 17 agosto 2021. Ettore Mo è stato uno dei pochi giornalisti al mondo che riuscì ad intervistare Ahmad Shah Massud, comandante e leader del partito Jamiat-i-Islami, protagonista della resistenza contro l’Armata Russa e contro i talebani. “Aveva 28 anni. Nel volto, i lineamenti, fini, un accenno di barba, gli occhi grandi e scuri, il suo aspetto era più quello di un artista che di un guerriero”. Massud era una sorta di “re filosofo”, un condottiero non guidato da ambizione ma da spirito di compassione. Questa vocazione veniva da lontano, dal liceo francese, che Massud frequentò a Kabul. Contrariamente ai suoi compagni della borghesia urbana, il condottiero mantenne sempre di fronte ai suoi interlocutori d’estrazione rurale una familiarità bonaria. La lingua francese rappresentò per Massud il suo apprendistato: lo appassionavano gli scritti di De Gaulle. Di etnia tagika, “a scuola era brillante, ma non prese mai la laurea di architetto, come speravano i suoi genitori”. Si ribellò contro il regime filosovietico di Daud e iniziò la lotta nel 74 adottando l’appellativo Massud, che significa “Mas’ud” il beato, il fortunato. Mo lo descrive assai sensibile alle bellezze femminili: “Trova il tempo d’impalmare una ragazza del posto, di buon ceppo contadino”. Restando al seguito dei mujaheddin, Mo riesce a intervistare Massud che subito gli confida: “La pace non si addice all’Afghanistan, gli si addice la guerra, come la storia attraverso i secoli sta a dimostrare”. Mesi dopo il giornalista entrò con Massud a Kabul, dove il “Leone del Panshir”, insieme al filosofo Rabbani, riuscì a instaurare un governo islamico moderato. “Massud si era illuso. Tornarono a galla gli antichi rancori tribali ed ecco che il governo legittimamente eletto a Kabul sotto la presidenza del professor teologo Rabbani (leader dello Jamiat Islami) e con Massud vicepresidente viene immediatamente aggredito dai falchi dello Hezbi Islammi, che fanno capo a Gulbuddin Hekmatyar, il torvo irriducibile rivale del Leone del Panshir fin dai tempi dell’invasione sovietica”. Fu subito guerra civile in una Kabul abitata da un “esercito brechtiano” di storpi in marcia sui marciapiedi: bambini mutilati a causa delle mine antiuomo, circa trenta milioni disseminate su tutto il Paese da russi. “L’ospedale è strapieno – scrive Mo -. Negli ultimi due giorni vi sono stati ricoverati duecentocinquanta feriti. Medici e infermieri lavorano ventiquattro ore su ventiquattro e sono esausti. Il dottor Gino Strada, milanese, veterano chirurgo di guerra nelle zone più calde del mondo, allarga le braccia e chiede aiuti”. L’inviato del “Corriere” tornò in Afghanistan durante il tredicesimo anniversario dell’invasione sovietica, nel dicembre 1992, per vedere in quale situazione si trovava la capitale dopo otto mesi di governo Rabbani. “Butta male, molto male… non abbiano partorito il miracolo di una rigenerazione totale del Paese, dopo l’apocalisse degli ultimi tredici anni”. Il bilancio, dopo anni di lotta contro i sovietici, era molto pesante: un milione di morti, cinque milioni di profughi, un’economia completamente collassata. Ettore Mo fu uno di primi, se non il primo inviato in assoluto, a parlare dei talebani come una minaccia, non solo per l’Afghanistan ma per l’intero Occidente; il giornalista li descrisse come dei “folli di Dio”, seminaristi guerrieri che avevano un solo obiettivo: rimuovere il governo, a detta loro “corrotto”, di Rabbani e Massud per instaurare a Kabul un puro regime islamico, teocratico, incardinato sui principi coranici. Di fronte alla offensiva violenta dei talebani, Massud si rivolse all’Occidente chiedendo aiuto. La molla che lo convinse a chiedere aiuto fu la distruzione dei Buddha di Bamiyan: “È venuto a supplicare, a chiedere aiuto. È difficile credergli quando sostiene che il conflitto con i cosiddetti guerrieri di Dio potrebbe essere risolto con una soluzione politica, e non manu militari”. Tuttavia, i suoi appelli per un aiuto da parte dell’Occidente nella guerra al regime talebano caddero nel vuoto; l'assemblea delle Nazioni Unite non aveva lasciato dubbi sulla non volontà di aiutare Massud: “Non capite che combatto anche per voi!” aveva detto loro. Mo scrisse sul “Corriere” quali erano i reali sostenitori dell’avanzata dei talebani: “Ci vorrà poco ad accorgersi che i talebani sono manovrati dal Pakistan che intende favorire gli interessi economici e commerciali della multinazionali di Stati Uniti e Arabia Saudita nella regione”. Dello stesso parere era Massud. Nel ’98 i talebani controllavano ormai il 90% del territorio afgano mentre Massud, unico rappresentante del governo riconosciuto dall’Onu, fu costretto a ritornare nel Panshir per orchestrare la resistenza contro i talebani. Mo tolse ogni velo all’avanzata dei talebani, mostrando le vere ragioni sottostanti: “Due o tre multinazionali onnivore, come la Unocal americana, la Delta Oil saudita e l’argentina Bridas Energy, avevano progettato un gasdotto lungo millequattrocento chilometri e un oleodotto che dal Turkmenistan, transitando estesamente in territorio afgano, avrebbe raggiunto le sponde pakistane del mare arabico… il nodo più duro da sciogliere era l’ostilità di Kabul, che dal progetto non avrebbe tratto alcun vantaggio e si sentiva raggirata da un complotto internazionale. È a questo punto che il Pakistan fa scendere in campo nientemeno che Allah. Attraverso il suo luogotenente in terra, Omar, il mullah Polifemo con i suoi talebani”. Erano tante le differenze tra i mujaheddin di Massud ed i folli di Dio, a cominciare dalla concezione della donna: le donne dei talebani erano mummificate nel sudario del burqa prive di qualsiasi diritto umano. Al contrario, nel Panshir esisteva una scuola, frequentata da 250 ragazze e 340 alunni; ed era proprio Massud stesso ad assicurare che nel prossimo governo afgano, se mai ce ne fosse Stato uno, avrebbero trovato posto anche le donne. Massud fu il primo a parlare anche di Osama Bin Laden come il principe del terrore, il finanziatore del terrorismo islamico ospitato dai talebani genero del mullah Omar: il comandante, scrive Mo, “accusa Hekmatyar, che sta tramando insieme al mullah Omar, il capo dei talebani, e con il re dei terroristi integralisti islamici, il super miliardario saudita Osama Bin Laden, per instaurare in Afghanistan una vera teocrazia per favorire la Jihad”. I talebani tennero il controllo del Paese sino all’11 settembre 2001, quando Osama Bin Laden organizzò l’attentato alle Torri gemelle. Dopo l’11 settembre Bush inviò i soldati americani per distruggere le centrali del terrore e uccidere Bin Laden. Gli americani sono rimasti vent’anni, ancora una volta senza “partorire il miracolo di una rigenerazione totale del Paese”, come nel ’96 l’Unione Sovietica. Con le due superpotenze la storia si è ripetuta quasi allo stesso modo: la prima volta in tragedia e la seconda pure.

Il caos afgano. Cinque diapositive del caos afghano. Mauro Indelicato su Inside Over il 28 agosto 2021. Una bandiera ammainata, una semplice cerimonia, un commiato dopo una quasi ventennale presenza in una delle basi più importanti dell’ovest del Paese. É l’8 giugno scorso e in questa maniera l’Italia chiude la sua missione in Afghanistan. Tutto inizia negli ultimi mesi del 2001. Il mondo occidentale in quel momento appare ancora scosso dagli attacchi dell’11 settembre 2001 contro New York e Washington. Gli Stati Uniti nel successivo mese di ottobre bombardano Kabul e le principali città, l’obiettivo è dare la caccia a Osama Bin Laden, ai leader di Al Qaeda ma anche ai principali esponenti dei talebani, il movimento islamista che controlla l’80% del territorio. Il 12 novembre 2001 gli studenti coranici perdono Kabul, quel giorno nella capitale entrano i miliziani dell’Alleanza del Nord supportati dagli Usa. E così ecco che le forze internazionali mettono il piede sul campo. Italia compresa. Il nostro contingente negli anni perde 54 uomini. Ma anche gli altri Paesi occidentali piangono numerosi caduti. La Nato nel 2003 inizia qui la sua prima missione fuori dai confini europei. Si cerca di supportare e sostenere le nuove autorità statali create dopo la cacciata dai Talebani, ma gli islamisti non abbandonano mai il territorio.

1 – L’inizio del ritiro

Nel 2016 la svolta: Donald Trump, candidato repubblicano alla presidente Usa, promette la fine di molte missioni militari statunitensi. Una volta eletto, si paventa la possibilità di un ritiro graduale di tutte le forze occidentali dall’Afghanistan. Nel 2018 iniziano le contrattazioni con gli studenti del Corano, mediate dal Qatar. L’obiettivo è quello di includere il movimento nel processo di pace e nel governo di Kabul. Poco prima dell’inizio della campagna elettorale del 2020, Trump vuole mantenere le promesse e annuncia l’accordo con i talebani per arrivare a un progressivo ritiro delle truppe. Le consultazioni vengono vinte da Joe Biden, il quale decide però di mantenere in vita il piano di rientro dei soldati. Si arriva così a giugno. L’Italia, che controlla Herat e le province occidentali dell’Afghanistan, ammaina la sua bandiera. Poco prima altri Stati della Nato fanno la medesima scelta. Gli Usa, nel piano redatto da Biden, simbolicamente dovrebbero andare via entro l’11 settembre 2021. Ben presto però, tutti i più nefasti sospetti prendono forma. I talebani, forti del ritiro progressivo delle truppe occidentali, riprendono ad avanzare. L’esercito afghano, nonostante 20 anni di addestramento, nella maggior parte dei casi non combatte. Decide, al contrario, di ammainare le bandiere e deporre le armi.

2 – La caduta di Kabul

Gli studenti coranici da giugno conquistano terreno. I miliziani prendono campo inizialmente a sud, lì dove hanno sede le proprie roccaforti. Qui infatti risiedono buona parte dei cittadini di etnia Pasthun, la stessa a cui appartengono i talebani. Questi ultimi si sono sempre rispecchiati con le regole sociali delle loro province di origine. La rigida interpretazione della Sharia che portano avanti, ha in parte come base i codici sociali, scritti e non, dei Pasthun. Per questo gli islamisti prendono terreno soprattutto nelle aree rurali. Poliziotti e militari non combattono, a volte anzi decidono di tornare a casa lasciando per strada la divisa. In pochi sembrano, specialmente nel sud dell’Afghanistan, disposti a morire per lo Stato nato nel 2001. Il ritiro delle truppe occidentali completa il quadro.

Chi ancora crede nella possibilità di fermare i Talebani si sente abbandonato dai Paesi della Nato e dagli Usa in particolar modo. Il morale tra le ultime truppe afghane rimaste è molto basso, la sensazione di una prossima disfatta è dietro l’angolo. Anche questo è un elemento che facilita i progressi territoriali dei miliziani islamisti. I quali, al contrario, sentono di avere già la vittoria in pugno e di poter rivendicare la cacciata dei soldati occidentali dal Paese. Degli accordi stipulati con gli Usa pochi anni prima e delle promesse di pace fatte con il governo afghano alla vigilia del ritiro di Washington non c’è alcuna traccia. Tra fine giugno e inizio luglio i talebani hanno oramai gran parte del sud, anche se per il momento non entrano nelle grandi città. La vera svolta decisiva si ha nell’ultima decade di luglio. In queste settimane infatti gli studenti coranici mettono piede anche nel nord dell’Afghanistan, zona tradizionalmente a loro ostile. Qui risiedono soprattutto cittadini di etnia tagika, uzbeka, turcomanna e di altre minoranze. Si tratta di popolazioni che temono vendette e ritorsioni da parte dei Pasthun. Eppure i Talebani entrano in molte aree rurali settentrionali, a fine luglio i combattenti dichiarano di controllare posti di confine con il Tajikistan e di avanzare anche lungo la frontiera iraniana. Ai primi di agosto i miliziani iniziano a mettere piede anche nelle grandi città. Cade Herat, lì dove fino a giugno sono presenti gli italiani, cade Kunduz, così come la storica roccaforte islamista e Pasthun di Kandahar. Il presidente afghano Ghani da Kabul si sposta a Mazar i Sharif, una delle più importanti città del nord e sede della resistenza tagika e uzbeka. Stringe accordi con i locali signori della guerra, nella speranza di poter arginare l’avanzata talebana e far partire una controffensiva. Nel frattempo a Kabul iniziano a convergere migliaia di profughi in fuga dalle aree conquistate dagli studenti coranici. Gli ultimi disperati tentativi di Ghani non vanno a buon segno. Il 13 agosto cade anche Mazar i Sharif. Si capisce a quel punto che i talebani sono prossimi ad entrare nella capitale. Poche ore prima gli Usa si dicono convinti che la capitale può resistere ancora qualche mese. Invece nella notte di ferragosto i primi combattenti si fanno strada nella periferia della città. Gli americani a quel punto sono costretti a far evacuare di fretta e furia i propri diplomatici e i propri uomini. Da qualche giorno non è utilizzabile nemmeno l’importante base di Bagram, dunque la fuga deve essere organizzata all’aeroporto di Kabul. La mattina di ferragosto il cielo della capitale è solcato da elicotteri che dal tetto dell’ambasciata fanno la spola con lo scalo. Un’immagine iconica della situazione sul campo e della sensazione di abbandono repentino che accompagna gli americani.

3 – I talebani al potere

I miliziani gongolano. Vedono davanti ai propri occhi i mezzi Usa far evacuare frettolosamente il personale. Per loro è una vittoria non solo militare ma anche politica e mediatica. Ma nelle prime ore del mattino del 15 agosto, tramite i propri portavoce, i talebani lanciano messaggi distensivi. Fanno sapere di non voler ostacolare l’evacuazione portata avanti dagli Usa, così come dagli altri Paesi occidentali. Dicono di rispettare chiunque voglia lasciare il Paese e di non voler attuare azioni di vendetta verso gli ultimi afghani rimasti ancora con una divisa dell’esercito. Invitano inoltre la popolazione alla calma e promettono di ristabilire la normalità entro poche ore. A Kabul in quel momento gli uffici sono chiusi, le saracinesche dei negozi sono abbassate, le banche serrate. Non circolano soldi, la gente si mette in fila dietro i bancomat per prelevare quanto possibile. Intanto si sentono in modo sempre più incessante i rumori dei mezzi militari della Nato che portano via il personale occidentale. Nel primo pomeriggio sui social vengono diffuse alcune immagini dal palazzo presidenziale. Si nota il presidente Ghani nella sua stanza a colloquio con alcuni mediatori, tra questi anche l’ex presidente Hamid Karzai e l’ex ministro Abdullah Abdullah. Sono le ultime immagini di Ghani come capo dello Stato. Poche ore più tardi infatti è lo stesso presidente a parlare dalla sua postazione e ad annunciare le proprie dimissioni. Non solo: Ghani dichiara di essere pronto a lasciare l’Afghanistan con la propria famiglia per una destinazione ignota. Ma, al tempo stesso, tiene a specificare che la sua non è una fuga. Al contrario, Ghani giustifica il suo gesto con la volontà di evitare un bagno di sangue a Kabul e preservare la stabilità del Paese. A questo punto i talebani hanno il definitivo via libera. Gruppi composti da una decina di miliziani iniziano ad occupare i palazzi del potere. Uno di questi gruppetti si dirige verso il palazzo presidenziale. In serata compare il primo video in cui i “nuovi padroni” di Kabul rivendicano la presa di possesso della capitale. Da quella stessa scrivania da cui Ghani poco prima annuncia le dimissioni, una decina di Talebani intonano dei sermoni e, con ancora le armi sulla spalla, si fanno ritrarre all’interno della stanza dell’oramai ex presidente. Alcuni di loro hanno gli smartphone, foto e video vengono lanciati sui social per far comprendere agli afghani e agli occidentali chi è adesso al potere nel Paese. Nelle stesse ore, probabilmente da Doha, parla in un video il Mullah Baradar. Si tratta dell’ex vice del Mullah Omar, fondatore dei talebani, e papabile nuovo capo politico sia del movimento che dell’Afghanistan. Inizia di fatto in questa maniera la storia del secondo emirato islamico di marca talebana. Un ritorno a 20 anni prima, a quel 2001 in cui gli studenti coranici vengono cacciati da Kabul dall’arrivo dei nemici supportati dagli Stati Uniti.

4 – La fuga da Kabul

Non tutti gli afghani però credono alle parole di clemenza da parte degli eredi del Mullah Omar. Una parte della popolazione di Kabul e del resto del Paese inizia a considerarsi a rischio. Si tratta, in primo luogo, dei collaboratori delle forze occidentali. Tra di loro ci sono interpreti, mediatori, guide. C’è gente cioè che ha dato aiuto logistico ai soldati stranieri e al personale diplomatico. Ci sono poi gli impiegati degli uffici pubblici, rappresentanti di uno Stato osteggiato dai talebani e sopraffatto con l’ingresso a Kabul dei miliziani.

Oltre a queste categorie, a non fidarsi dei nuovi padroni sono anche attivisti, editori, giornalisti, persone cioè ideologicamente distanti dagli islamisti o che negli anni hanno promosso una vita diversa rispetto a quella voluta dagli studenti coranici. C’è poi una questione che da subito assume un rilievo prioritario: è quella delle donne. Nessuna donna per i talebani può uscire di casa senza essere accompagnata da un uomo. Così come tutte le donne devono coprire il capo in modo integrale. Le afghane che nel frattempo hanno iniziato proprie attività economiche o culturali, iniziano a temere di non avere più margini di manovra. In definitiva, ci sono migliaia di cittadini che decidono di andare via. Per loro l’unica strada possibile da percorrere per continuare a vivere è quella che porta dritto all’aeroporto di Kabul, da cui prendere un aereo verso gli Usa o l’Europa. Lo scalo della capitale rimane in mano occidentale anche dopo la presa talebana. Soldati Usa, così come degli altri Paesi della Nato, Italia inclusa, presidiano l’aeroporto per permettere l’effettuazione di ponti aerei. Da ferragosto in poi partono ogni giorno diversi velivoli. A bordo centinaia di cittadini afghani, oltre che ovviamente di diplomatici occidentali. Ma la disperazione di chi vuole scappare è tanta. E subito si capisce che non c’è posto per tutti. Per questo già dal 16 agosto tutto il mondo guarda con orrore alle immagini della calca che si crea nell’area antistante l’aeroporto e all’interno della struttura. Decine di afghani invadono le piste, in alcuni casi provano a fermare gli aerei oppure addirittura a posizionarsi sui carrelli. In diversi video diffusi in quelle ore si notano anche persone cadere dai velivoli poco dopo il decollo. Anche queste diventano subito immagini iconiche della situazione nel Paese e della disperazione di migliaia di afghani. Vengono presi d’assalto anche i gate di imbarco e alcuni aerei civili parcheggiati. Il traffico commerciale viene sospeso o ridimensionato. Il presidio dei soldati occidentali prosegue anche nei giorni successivi. L’obiettivo è evacuare quante più persone possibili. La situazione che le truppe hanno davanti i propri occhi è drammatica. Si calcola che almeno ventimila persone affollano l’aeroporto e le aree limitrofe. C’è chi esibisce documenti per dimostrare di avere necessità o titoli per partire, chi non ha nulla ma prova ugualmente a imbarcarsi per il primo volo possibile. La seconda metà di agosto va avanti interamente così. Con le folle nei pressi dello scalo di Kabul a rappresentare fedelmente un contesto sempre più tragico.

5 – L’attentato dell’Isis

Dopo l’arrivo dei talebani a Kabul e l’inizio della calca in aeroporto, i servizi segreti occidentali mettono subito in guardia da un’altra insidia. La possibilità cioè che un gruppo criminale organizzi un attentato terroristico contro le persone in fila in attesa di un aereo. L’intelligence Usa lancia per prima l’allarme, anche i servizi britannici parlano di imminente attacco. La lente è puntata soprattutto sull’Isis. Il gruppo jihadista è presente anche in Afghanistan e ha pessimi rapporti con i talebani. Anzi questi ultimi tra il 2015 e il 2016 ingaggiano una battaglia feroce contro di loro. Da qui il sospetto che gli integralisti dell’Isis possano avere tutto l’interesse a colpire il “nuovo” corso di Kabul.

Un attentato tra la folla assiepata in aeroporto altro non sarebbe che un grave ritorno di immagine in primis per i nuovi padroni del Paese. Più i giorni avanzano e più gli allarmi si moltiplicano. La mattina del 26 agosto i servizi segreti di Londra giudicano oramai certa l’idea che l’Isis sia pronta a compiere una strage. Si tratta di una tragica premonizione. Nel pomeriggio di quello stesso giorno almeno due kamikaze, a distanza di un’ora, entrano in azione. I due attentatori si fanno esplodere non lontano dal gate “Abbey”, una parte dell’aeroporto dove operano i soldati Usa. Più di cento persone rimangono uccise. Tra queste si contano anche 13 marines statunitensi. Una strage di enormi proporzioni, compiuta contro gente inerme che in quel momento, sotto il sole cocente di Kabul e affollando anche i canali di scolo della strada aeroportuale, prova ad afferrare l’ultimo volo per lasciare l’Afghanistan. In serata arriva puntuale la rivendicazione dell’Isis-K. Sui social viene infatti diffuso un video dove un attentatore parla con alle spalle la bandiera nera del califfato e con addosso la cintura esplosiva. I talebani esprimono parole di condanna verso l’azione kamikaze. Al tempo stesso però, puntano il dito contro gli Usa. I portavoce islamisti dichiarano infatti che l’attentato ha avuto luogo in una zona sottoposta ancora alla sorveglianza dei soldati americani. In poche parole, per i talebani la responsabilità dell’accaduto è da imputare unicamente a Washington. Un elemento di ambiguità non indifferente. Gli studenti coranici stanno infatti sfruttando l’attentato per i propri obiettivi politici. In particolar modo, convincere dell’impossibilità americana di sorvegliare la zona e premere per un immediato definitivo ritiro Usa. Del resto, sono gli stessi talebani nei giorni precedenti a sottolineare quanto sia importante che Washington ritiri le sue truppe entro e non oltre la fine del mese di agosto. Inoltre l’attacco dell’Isis potrebbe essere stato agevolato dalla liberazione di migliaia di detenuti dalle carceri di Kabul avvenuta subito dopo l’ingresso talebano in città. Sono tutti questi elementi che portano a pensare a un ruolo, anche indiretto, da parte degli islamisti nell’attacco contro l’aeroporto della capitale. Nel frattempo Kabul piange i suoi morti figli della disperazione.

Bugie e verità, dubbi e certezze.  Luciano Scateni su La Voce delle Voci il 276 Agosto 2021. Il caso Afghanistan ha cento zone d’ombra e poche, tragiche certezze. Interessi di ‘campanile’ a dimensione internazionale, coprono con una fitta cortina fumogena cause e responsabili di eventi disastrosi, scelte dettate da egoismi sovranisti, macchinazioni coincidenti di criminalità e vertici delle istituzioni, cosiddetti misteri insoluti. Mentre esplode la follia stragista di kamikaze indottrinati per agire a distanze siderali dalla normalità degli umani, l’Occidente vaga smarrito in cerca del perché sui vent’anni conclusi dell’ invasione armata dell’Afghanistan si abbatta l’incontenibile furia omicida dell’Isis; perché i talebani protetti dall’apparato militare di Stati Uniti e alleati esultino per la fuga ingloriosa dal Paese; perché  è una colossale menzogna la pacifica intenzione di esportare democrazia in luoghi del mondo aggrappati a concezioni della società arcaiche, anacronistiche, chiuse  a riccio in difesa di inaccettabili arretratezze culturali. Qualche certezza c’è. Non è improprio l’accostamento con la poco dignitosa conclusione del confronto tra il Golia americano, con il suo micidiale potenziale bellico e il Davide vietcong, armato quasi esclusivamente di intelligenza strategica e determinazione a espellere l’invasore.  In comune con l’esito dei vent’anni americani in Afghanistan, è che gli Stati Uniti a suo tempo hanno platealmente spacciato la presunzione di ergersi a esempio universale di progresso, di interpretare con un intervento altamente azzardato il contrasto al "comunismo" illiberale. La diversità è che id recente debbano ammettere che non sono più i soci fondatori, esclusivi, del club della democrazia mondiale.  Certezza, anche se si prescinde dall’inchiesta del regista Michael Moore, è lo scetticismo sulla ricostruzione americana dell’attentato alle Torri Gemelle. Certezza è che l’avvenuta vendetta con la caccia a bin Laden e la sua eliminazione, è stato un capitolo assolutamente incompiuto della guerra al fondamentalismo islamico dell’Isis. Lo confermano i numerosi attentati successivi nei Paesi occidentali e ancora più la strage  alla vigilia degli ultimi decolli consentiti congiuntamente dall’Isis e dai talebani. Certezza è il fragoroso fallimento della contraddittoria politica estera americana, il conflitto non esplicito, aspro, tra le gerarchie militari, i governi di falchi convinti come Nixon, Bush, Trump, falchi convinti e Biden, cosciente dell’urgenza di lasciare l’Afghanistan, a costo di una sonora, figuraccia. Certezza è che il poco ottenuto in vent’anni di intrusione nelle vicende di Kabul, è destinato ad arretrare, a privare i giovani e le donne di faticose minime conquiste. Certezza è il pericolo che l’Isis infiltri i suoi ‘eroi suicidi’ (li ritrae con le cinture esplosive in vita) nei Paesi che hanno sottratto al fondamentalismo islamico la disponibilità di ambite ricchezze e il via libera alla produzione, al commercio mondiale delle droghe.  Il rischio è che le colpe del nuovo default americano ricadano su Biden e aprano a strada alla successione di falchi per nulla rassegnati alla guida democratica del Paese.

Gli interessi. Dubbi, drammi e ideologismi del dopo 11 settembre. L’America faccia l’intelligence e non faccia la guerra: la "mentalità di sinistra" e la lezione della storia. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 29 Agosto 2021. “L’Intelligence! L’Intelligence!” fu il grido pressoché unanime che sgorgò dai petti della sinistra europea di fronte all’11 Settembre. Due settimane prima dell’attacco alle Torri Gemelle era nata la mia prima figlia americana cui abbiamo dato il nome di Liv Liberty. Liv vuol dire vita, l’equivalente di Life, nella lingua della sua nonna materna e poi le affibbiammo come terzo nome l’improbabile acronimo di Atpoh, che sta per And The Pursuit Of Happiness: il diritto alla ricerca della felicità. Povera figlia, l’intera Costituzione americana in un solo nome. Eravamo a Roma l’11 Settembre quando mi telefonò il mio amico Lou: “Sei alla CNN? Accendi subito. È la guerra”. Accesi: la prima torre era già in fiamme e poteva ancora trattarsi di un incidente catastrofico, ma subito comparve il secondo aereo che filò dritto nella seconda torre e pochi minuti dopo volavano esseri umani che preferivano gettarsi nel vuoto che ardere come torce. Corsi a New York e appena fu possibile andai a Ground Zero che si riempiva di foto e messaggi: qualcuno ha visto questa bambina? È nostra figlia, Qualcuno ha visto il mio papà e la mia mamma? Fu a questo punto, secondo me, che accadde qualcosa in un’area che potremmo definire spicciativamente come la “mentalità di sinistra” di fronte a un fatto enorme e non controvertibile: gli Stati Uniti erano stati attaccati militarmente sul loro suolo da qualcuno e erano nel loro incontestabile diritto di reagire militarmente. Questa circostanza, benché ammessa, non andava affatto bene specialmente in Europa dove una parte consistente della sinistra aveva radicato nei suoi fondamentali ideologici l’antiamericanismo, e quindi – dopo aver pronunciato tutte le parole di circostanza – si cominciò a dire che la cosa più importante era che gli Stati Uniti si trattenessero, non esagerassero e per questo si iniziò a dibattere seriamente sul tema: come mai gli Usa, con la Cia, la Dia, l’Fbi e ogni attrezzatura spionistica, non hanno saputo e prevedere e impedire l’attacco? In molti Paesi arabi la notizia delle Towers colpite era stata festeggiata con manifestazioni di giubilo e circolavano tutte le falsificazioni possibili secondo cui Usa e Israele, o forse solo Israele o forse solo gli Usa, avevano organizzato una provocazione sanguinosa e spettacolare per avere mano libera e colpire il mondo islamico. La marea montante delle teorie complottistiche secondo cui “gli americani se l’erano fatto da soli e poi guardate: negli elenchi dei morti non c’è un solo ebreo”. Era vero il contrario ma da un punto di vista psicologico la sinistra europea, in parte ex filosovietica e castrista e comunque antimperialista, stava subendo un trauma: non si poteva vietare in alcun modo la retribution. Retribution è una parola chiave e vuol dire castigo e vendetta. Per la mentalità anglosassone chi va in galera non sta percorrendo un cammino di riabilitazione ma sta pagando il fio delle sue colpe. L’America ferita l’Undici Settembre del 2001 era straziata, spaventata (l’America è donna, mamma, bambini a scuola e al parco) e una sua parte chiedeva retribution come dopo l’attacco giapponese di Pearl Harbor. Fu allora (nel mio ricordo totalmente soggettivo di giornalista e testimone con l’intero cuore in America) che notai l’emergere di un pensiero che mi suonava falso – espresso per di più sotto forma di amichevole consiglio – secondo cui gli Stati Uniti avrebbero fatto bene a trattenere i loro cavalli – hold your horses, e lavorate di intelligence. Che si può fare contro il terrorismo? Scatenare la furia delle bombe e dell’invasione? No, recitava la nuova teoria – per combattere e sconfiggere il terrorismo occorre un accurato lavoro di intelligence. E dunque: l’America, ferita al cuore, faccia l’intelligence e non faccia la guerra. Potrebbe essere una linea saggia da seguire e anche ragionevole: non farsi prendere da un attacco isterico da grande potenza ferita, e agire con la perfida callidità di uno Sherlock Holmes accompagnato da un tagliagole. Ma davvero l’intelligence è in grado di sostituire e rendere inutile la vendetta della retribution? Quali esempi reali abbiamo, del genere? Apparentemente soltanto uno e non splendido: l’esecuzione a freddo di un vecchio malato e rintanato in una cuccia di cane, di nome Osama bin Laden, l’autore dell’attentato alle Torri Gemelle che la CIA ha cercato e seguito per anni e infine trovato, sicché il presidente democratico Barack Obama dette ordine di formare uno speciale plotone d’esecuzione composto di membri dei copri speciali, con l’incarico di irrompere nel rifugio di Osama seduto per terra e inebetito, scaricargli una raffica di mitra, portarne via il cadavere, incenerirlo e gettare le ceneri nell’oceano. Con tutto il rispetto, una tale operazione di intelligence appare disgustosa e inaccettabile perché basata su una condanna senza processo e una esecuzione come se fosse autorizzata da una sentenza. Obama è stato criticato moltissimo per avere autorizzato una quantità di omicidi mirati e attuati dai droni, omicidi che richiedono l’ok finale del Presidente e che sono eseguiti da droni dotati di telecamere che proiettano le loro immagini nei locali operativi della Casa Bianca ed hanno sempre effetti collaterali, nel senso che l’uccisione di un supposto terrorista non è mai certa e quasi sempre accompagnata da collateral damnages, che sarebbero gli innocenti che ci lasciano la pelle in un calcolo di pro e contro che viene di volta in volta considerato accettabile o non accettabile. In genere, accettabile. Anche Putin fece approvare una legge dalla Duma nel 2006 che autorizzava il Presidente ad ordinare la soppressione di qualsiasi persona fosse ritenuta un nemico dello Stato russo, non importa di quale nazionalità fosse e in quale Paese si trovasse. La Francia, da Robespierre a De Gaulle poi fino ai giorni nostri ha sempre avuto i gruppi “Nikita” (Il film di riferimento) formati da assassini di Stato che non devono rispondere a nessuno salvo il presidente. Come è noto, gli agenti di Mi6 del Regno Unito hanno sempre avuto, come ha dettagliatamente narrato l’ex agente Ian Fleming, la “licenza di uccidere”. Si dirà: ma questo non c’entra con l’Intelligence, che è un’altra cosa. In parte è vero, ma in parte no: perché l’Intelligence, quando è terminato il lavoro della conoscenza, deve affidare i suoi risultati a corpi armati che siano in grado di neutralizzare – cioè uccidere – il nemico senza fare troppo chiasso. Chi ha visto la serie Glooming Towers o ha seguito i processi, seguiti alla strage delle Torri Gemelle, sa come andarono le cose: l’FBI aveva compiuto un eccellente lavoro di intelligence prima del “Nine Eleven” (come gli americani dicono quella data infausta) ma un tappo burocratico aveva lasciato che il terrorismo vincesse. Tuttavia, il dibattito o meglio il pressante appello affinché l’America non facesse scenate infantili (una guerra) e si comportasse invece da bambino adulto (come l’astutissima sinistra europea suggeriva) lavorando di Intelligence, proseguì a lungo ed oggi riemerge con il disastro afgano. Come sappiamo, gli Stati Uniti fecero entrambe le cose: un lavoro di Intelligence di gran qualità ma sfortunato e una guerra. Una guerra che è durata vent’anni e che è stata dichiarata sia persa che inutile, giudizi entrambi opinabili.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

La lezione afghana per gli Stati Uniti: non basta l’intelligence a evitare una guerra. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 31 Agosto 2021. Rudyard Kipling nel poemetto patriottico The British little Soldier, il piccolo soldato inglese, scriveva i noti versi: «Se ti trovi disperso e ferito nelle pianure dell’Afghanistan e le donne vengono con coltelli per finirti, arriva al tuo fucile, fatti saltare le cervella e vai dal tuo Dio come un soldato». L’Afghanistan allora come oggi è il terreno di molti “big games” in cui non soltanto i talebani, ma i russi, i cinesi, i pakistani e gli Stati limitrofi che hanno già alzato muri per chiudere il passaggio ai profughi. Gli americani se ne sono andati perché il big game, nel frattempo, si è spostato nel Mare del Sud della Cina dove intendono difendere con le armi la libera navigazione del traffico di beni che supera il novanta per cento di quello mondiale. Chi segue i blog di intelligence e tutto il materiale di fonte aperta e non segreta, ma egualmente complessa come quella offerta ogni giorno da George Friedman, sa che proprio questa parola “Intelligence” ha due significati non complementari: conoscenza e azione. Intelligence viene dal latino intelligere e vuol dire solo conoscenza. In un documento riservato che mi procurò un amico americano dalla Cia usando una legge che permetteva la consultazione di carte liberate dal vincolo del segreto lessi un accuratissimo rapporto della Central Intelligence Agency sulla “Exploratio” romana ai tempi di Cesare. Tutti sappiamo che gli strumenti per questo tipo di guerra sono l’infiltrazione di agenti sotto copertura e anche di agenti provocatori e la quantità di letteratura filmica, tecnica e letteraria è gigantesca. Avendo una personale attenzione per la materia ed essendomene occupato professionalmente in una inchiesta parlamentare, mi sento in tutta modestia di dire che “attività di Intelligence” è uno dei nomi più vaghi e a basso significato che vengano spesi senza risparmio. In sé, l’Intelligence come servizio di raccolta di informazioni non serve a niente se non è accompagnata da un secondo servizio che sia in grado di interpretare le informazioni, costruire modelli di comportamento possibili e necessariamente approssimativi e poi di un terzo braccio capace di operare sul terreno, non importa quale. In Italia, per fare l’esempio a noi più vicino, l’Intelligence dei nostri servizi non può fare altro che raccogliere dati e riferirli “a chi di dovere” che abbia la responsabilità politica, con scarsissime possibilità di passare poi a qualsiasi tentativo di azione sul terreno che non sia quella di intavolare trattative e pagare la sicurezza in denaro contante come si fa per liberare gli ostaggi, cosa peraltro onorevolissima. Quando i nostri “operativi” hanno tentato di fiancheggiare gli americani nelle loro operazioni sul nostro territorio, si sono ritrovati processati e sbattuti sui giornali perché le nostre leggi non prevedono un’area franca legalmente protetta in cui sia permesso fare ciò che fanno gli altri. In Inghilterra c’è un modo di dire, da noi non è applicabile: “Siamo tutti contenti che esistano i servizi segreti che facciano il loro non confessabile mestiere, così come siamo contenti che esista l’intimità coniugale. E che in entrambi i casi non sia il caso di parlarne pubblicamente”. Non ho idea se queste mie opinioni basate su una certa esperienza possano permettere qualche conclusione. Ma possiamo limitarci alla più banale: sarebbe suicida intraprendere una guerra senza una buona intelligence, ma ignoriamo come si possa usare soltanto l’intelligence per evitare una guerra. A meno che, come prova l’esperienza americana dall’inizio della guerra fredda (e che ha portato finora soltanto a sconfitte militari in Corea, Vietnam e Afghanistan) non sia l’intelligence stessa ad agire non come strumento di analisi e conoscenza, ma come braccio armato dotato di poteri militari. Questo secondo tipo di Intelligence finora ha funzionato molto bene, sia in Israele che sui territori controllati dagli americani e spesso dai francesi ed ora persino dalla new star che è la Turchia di Erdogan sul mondo sunnita. Per ora, non si conoscono esempi di come la sola intelligence possa eliminare centrali terroristiche o altri gravi pericoli di natura strategica. Molti probabilmente non saranno d’accordo, ma onestamente, e anche visto sulla distanza del tempo e degli effetti, il mito dell’angelica intelligence che senza fare una vera guerra, egualmente combatte e vince contro il male, ha tutta l’aria di un residuo ideologico di un’altra era: quella in cui si supplicava, caso mai si facesse una guerra, di non dirlo esplicitamente. Oggi sembra semmai di vedere cenni di una sterzata in senso opposto: cresce il numero di chi in Europa vuole un vero esercito indipendente dagli americani, addirittura capace all’occorrenza di fare persino la guerra.

La nostra doppia catastrofe politica e culturale in Afghanistan. Renzo Guolo su L'Espresso il 31 agosto 2021. Dopo l’11 settembre la politica occidentale si è alimentata della convinzione dell’implicita superiorità dei suoi valori su quelli altrui. Lo shock afghano svela impietosamente la crisi dell’universalismo democratico. Una duplice catastrofe, politica e culturale, quella dell’Occidente in Afghanistan. Quella culturale persino più disastrosa di quella politica, poiché tarpa le ali alla spinta propulsiva occidentale non fondata esclusivamente sul potere militare: la vera vittima politica eccellente del ventennale conflitto, dilatato dalla doppia guerra di Bush jr. nel mondo islamico, all’origine dello scacco attuale. Dopo l’11 settembre la politica occidentale si è retta su un surplus valoriale, costituito dalla convinzione della implicita superiorità dei suoi valori su quelli altrui. La linea dell’esportazione della democrazia, soprattutto nella militante versione originaria neocon, un mix di distorto liberalismo wilsoniano insufflato da residui di trotskismo declinato in chiave di «guerra permanente» per la libertà, evocato dalla stessa espressione enduring freedom, ha scandito idealmente quel passaggio. Sebbene sia stata, nei fatti, abbandonata dalle amministrazioni seguite a quella del presidente dell’attacco jihadista all’America, quella suggestione, pur convivendo con altre parole d’ordine, ha continuato a indicare all’opinione pubblica occidentale un ideale orizzonte mobilitante. L’interventismo post-guerra fredda assume, del resto, maggiore legittimazione in quella cornice. Come sottolinea la stessa enfasi posta in seguito sul ruolo del soft power da accompagnare all’hard power. Abbagliato dalle proprie convinzioni, l’Occidente ha creduto che il suo impianto valoriale, prodotto di un lungo e conflittuale processo storico, si imponesse quasi naturalmente al suo esterno per evidenza sociale. Tecnica, mercato e democrazia, se non le armi, avrebbero piegato le resistenze ai processi di omologazione. Una concezione del mondo presupposta come universale ma naturalmente etnocentrica. Anche le altre culture, però, lo sono. Dure reazioni identitarie hanno, così, messo in discussione una standardizzazione che nemmeno la globalizzazione, recepita strumentalmente nei suoi aspetti funzionali e riguardante in primo luogo i flussi di merci, poteva portare a compimento. Lo shock afghano è tale anche perché svela impietosamente la crisi dell’universalismo democratico. Ma che la ricetta occidentale, nelle sue diverse versioni, incontrasse forte resistenze in altri contesti culturali non è certo una novità. La «gloriosa» resistenza dei mujahidin afghani contro i sovietici negli anni Ottanta era già opposizione a sistema di governo percepito come occidentale. Così, giustamente, era interpretato, fuori dalla logica del bipolarismo, il comunismo. Ben lo sapeva Abdullah Azzam, il leader ideologo dei combattenti panislamisti che popolavano i campi del Bin Laden benedetto dagli Usa, che teorizzava sin da allora: «Questa volta è toccato ai russi, poi sarà il turno degli americani!». Pressoché nello stesso periodo la rivoluzione iraniana era caratterizzata da slogan come «Né Est, né Ovest, solo Islam», inneggianti a una «terza via» tra le due conflittuali varianti della cultura occidentale di allora. Ma per uscire dal mondo della Mezzaluna, basta guardare alla Cina che, in cerca di una soluzione alla stagnazione economica e per compiere la sua seconda rivoluzione, non si affida al trionfante liberismo mercatista ma a un capitalismo di Stato sorretto, più che da una dottrina occidentale ormai ridotta a mera facciata, il marxismo, dall’autorità del partito che assorbe in chiave politica l’eredità confuciana. Non sorprende, dunque, la soddisfatta reazione, fuori dall’Occidente, per la debacle afghana. Siamo nel mondo, ma non il mondo. Qui competono, etnocentricamente e non universalmente, diverse culture e forme di organizzazione politica. Prenderne atto non significa rifugiarsi nella neutralità valoriale o nel relativismo giustificazionista; o, viceversa, inoltrarsi negli oscuri e pericolosi labirinti dello «scontro di civiltà». Semmai essere consapevoli che, in taluni contesti e momenti storici, il conflitto può venire declinato in chiave ostile da componenti attivistiche di una civilizzazione decise a mobilitarsi in nome della politica dell’identità. Se non si mette in conto seriamente questa possibilità, non solo non si pone freno alla tracotanza intrinseca alla hybris occidentale, ma non si mette nemmeno in forma una politica efficace nel difendere e diffondere i propri valori. Dalla lezione di Kabul, che catapulta drammaticamente l’Occidente, e in particolare la sua ripiegata potenza-guida, più che nel tempo della «politica estera per i ceti medi», frutto avvelenato dell’arrembante ascesa del sovranismo interno, nella più problematica «era difensiva», forse qualcosa si può imparare.

WikiLeaks e i segreti della guerra in Afghanistan. Paolo Mastrolilli per "la Stampa" il 28 settembre 2021. Rapire Julian Assange, o anche ucciderlo, per punirlo di aver rivelato "Vault 7", cioè gli strumenti usati dalla Cia nelle attività di hackeraggio. Sono i piani considerati nel 2017 da Langley, che si era spinta a valutare l'ipotesi di una sparatoria nelle strade di Londra, pur di impedire la sua fuga in Russia. A rivelarli è un'inchiesta di Yahoo News, condotta da Zach Dorfman, Sean Naylor e Michael Isikoff, giornalista che aveva scoperto il caso Lewinsky. L'operazione non era mai scattata perché illegale. La sua premessa, che il fondatore di WikiLeaks fosse un agente al servizio dell'intelligence di una potenza ostile, resta la questione centrale. Assange aveva attirato l'attenzione nel 2010, quando aveva pubblicato gli oltre 250.000 dispacci diplomatici sottratti dall'ex soldato Chelsea Manning. L'amministrazione Obama era stata colpita, ma aveva deciso di riconoscere a WikiLeaks il diritto alla libera espressione garantito dal Primo Emendamento della Costituzione. La situazione si era complicata nel 2013, quando i collaboratori di Assange avevano aiutato Edward Snowden a fuggire in Russia, dopo che aveva rivelato le tecniche di spionaggio più sofisticate della National Security Agency. Nell'estate del 2016, poi, WikiLeaks aveva pubblicato le mail di Hillary e del Partito democratico, che secondo i servizi americani erano state rubate dall'intelligence militare russa GRU. Assange aveva negato di averle ricevute da Mosca, ma la Nsa aveva intercettato scambi di comunicazioni tra i suoi uomini e Guccifer 2.0, considerato un agente del Cremlino. Trump, impegnato nella campagna presidenziale contro Clinton, aveva approfittato delle mail, esprimendo ammirazione per Julian: «Amo WikiLeaks». L'amministrazione Obama a quel punto si era svegliata, ma troppo tardi per salvare Hillary. Trump era diventato presidente sotto l'ombra di essere manovrato da Mosca, poi all'origine del Russiagate. L'indagine non aveva confermato un rapporto organico col Cremlino, ma neanche aveva sciolto tutti i dubbi. All'interno della nuova amministrazione, però, c'erano membri assai più duri di Donald nei confronti di Putin, a partire dal capo della Cia Pompeo. Proprio lui aveva rotto gli argini, quando il 13 aprile 2017 aveva definito WikiLeaks «un servizio di intelligence ostile non statale, spesso agevolato da attori statali come la Russia». Con quelle parole aveva dichiarato guerra, ponendo le basi legali per azioni dure contro Assange. In quello stesso periodo il suo sito aveva pubblicato "Vault 7", e quindi Pompeo e la vice Gina Haspel avevano deciso di vendicarsi. Avevano chiesto piani per rapirlo dall'ambasciata dell'Ecuador a Londra, dove si era rifugiato dopo le accuse di stupro dalla Svezia, o anche ucciderlo. Nel dicembre del 2017, poi, l'intelligence Usa aveva scoperto che i rivali russi pianificavano di far scappare Julian a Mosca, la notte di Natale. Gli ecuadoregni li avrebbero informati di averlo lasciato in strada, o avrebbero "scordato" la porta dell'ambasciata aperta. La Cia quindi si era preparata a tutto per fermarlo, inclusa una sparatoria nelle strade di Londra, o contro le ruote dell'aereo con cui sarebbe decollato. Nulla di tutto questo era accaduto. Aveva prevalso il segretario alla Giustizia Session, che era contro Julian, ma voleva incriminarlo per chiederne l'arresto e l'estradizione, tuttora in discussione. Trump ha smentito: «È falso. Anzi, io penso che Assange sia stato trattato male». Sulle sue dichiarazioni però pesa il velo dei rapporti irrisolti con Putin, che poi sono anche al centro del giudizio storico sul fondatore di WikiLeaks. I suoi sostenitori lo considerano un eroe della libertà di informazione, ma se è un agente di Mosca tutto cambia.

La compagna di Julian Assange: «Così la Cia voleva ucciderlo, abbiamo le prove». Roberto Saviano Il Corriere della Sera il 16 Ottobre 2021. Intervista a Stella Moris, compagna del fondatore di WikiLeaks. «I legami con la Russia? Inesistenti, tirati fuori per distruggere la sua figura pubblica». L’ultima volta che ho incontrato Julian Assange è stato a Londra nell’ambasciata dove era rinchiuso, nel 2013; l’avevo trovato pieno di energie. Parlammo a lungo, parlammo dell’unica cosa di cui valeva la pena parlare, ossia della luce. Di come accendere la luce sui meccanismi del potere e come da sempre, da prima che Gutenberg inventasse i caratteri mobili della stampa, la luce sia l’unica possibilità che ci è data per controllarlo quel potere. Strapparne i meccanismi dal cono d’ombra, dall’angolo in cui talvolta si rifugia, per spingerlo sotto i riflettori così che tutti possano comprendere. È sempre questo stato il compito dei cercatori di libertà, dei filosofi d’ingaggio, dei dissidenti, dei ribelli, dei cronisti liberi. Raccontare il potere perché diffidano di qualsiasi potere. In quell’occasione, nell’ambasciata dell’Ecuador, c’era una fotografa, Nicol Vizioli, che ci scattava delle foto. Tutto sembrava dovesse svolgersi meccanicamente; la nostra conversazione, le foto di noi due da pubblicare a testimonianza dell’avvenuto incontro, quando Julian mi ferma il braccio, come a dire: aspetta: «Perché siamo così seri e tristi? Basta! Ridiamo». E così nasce questa foto che ci ritrae insieme, con Julian che mi abbraccia e noi due che ridiamo, felici. Io però risposi, perché ridere? Perché dobbiamo sorridere all’obiettivo? «Essere fieri delle scelte che abbiamo fatto», fu la sua risposta. «Sei davvero contento della tua scelta?», gli chiesi. Assange non mi rispose come mi aspettavo, con un imperativo sì. Articolò una risposta più rara: «Bisogna essere felici di avere vite straordinarie». Oggi Assange è in carcere. Parlo di Julian con la sua compagna Stella Moris, che sarà in Italia al Salone del Libro di Torino (sabato 16 ottobre, ore 15, Sala Rossa Padiglione 1) in occasione dell’uscita del libro di Stefania Maurizi, Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e WikiLeaks. Insieme a Stella Moris e Stefania Maurizi ci sarà Riccardo Iacona. 

Come sta Julian Assange in questo momento? Dove è rinchiuso?

«È nel carcere più duro del Regno Unito: la prigione di Belmarsh. Quello di Julian è un caso particolarmente pericoloso, perché è la trasformazione in caso giudiziario di un conflitto politico, ma è rinviato a giudizio per avere pubblicato documenti e aver comunicato con fonti giornalistiche. Julian è stato incriminato per aver ricevuto e pubblicato dal suolo europeo documenti segreti del governo americano che il governo degli Stati Uniti non vuole vedere pubblicati. Se riconosciuto colpevole, rischia 175 anni di prigione. I documenti hanno permesso di rivelare, tra le altre cose, l’uccisione di due giornalisti della Reuters e di altri civili innocenti a Baghdad, la detenzione illegale dei detenuti di Guantanamo, le carneficine causate dalle guerre in Afghanistan e in Iraq, e documenti come i cablo della diplomazia americana. Questi documenti hanno un grande valore dal punto di vista politico, storico e legale e contengono, per esempio, prove di crimini di guerra. Gli Stati Uniti hanno ammesso sotto giuramento di non avere prove che una qualsiasi persona sia stata danneggiata da queste pubblicazioni. È la prima volta che gli Stati Uniti cercano di imprigionare un editore per il suo lavoro».

Perché Julian è in prigione oggi?

«Julian è in prigione perché le nazioni [implicate nel suo caso, ndr] hanno tradito i loro valori fondanti. WikiLeaks ha preso quei valori e li ha messi in pratica, testandoli. Nils Melzer, ha detto che il suo caso è, per molti versi, più grande dell’affaire Dreyfus. La persecuzione di Julian è anche la persecuzione di ciò che rappresenta la democrazia nella sua forma più autentica».

Cosa dovrebbe accadere perché possa tornare libero?

«Il Paese che sta cercando di estradarlo [gli Stati Uniti, ndr] ha pianificato di ucciderlo in modo stragiudiziale. La chiave per arrivare alla liberazione di Julian è piuttosto semplice: le leggi che esistono dovrebbero essere rispettate, invece che essere sovvertite. Seconda cosa: il governo americano dovrebbe difendere la libertà di stampa a livello globale, invece che approvare la persecuzione e l’incarcerazione di giornalisti, dissidenti e intellettuali pubblici. Ma non basta liberare Julian. Bisogna incriminare i responsabili delle azioni illegali della Cia contro Julian, contro lo staff di WikiLeaks e lo staff legale, condotte anche sul suolo europeo. Deve essere aperta un’inchiesta per andare a fondo della questione di quanto il tentativo di ammazzare Julian si è spinto lontano: cosa sapevano le autorità inglesi dei piani della Cia e fino a che punto erano disposte ad assecondarli? Quanto sapevano l’Australia e l’Ecuador? Chi altro volevano uccidere?».

Yahoo! News lo scorso settembre ha pubblicato un’articolata inchiesta firmata da Zach Dorfman, Sean D. Naylor e Michael Isikoff in cui rivela che nel 2017 la Cia, sfruttando gli uomini di una società che lavorava per la sicurezza dell’ambasciata dell’Ecuador, voleva rapire o assassinare Assange che, a quel tempo, viveva protetto come rifugiato proprio dentro l’ambasciata. Quali informazioni avete al riguardo?

«Dopo che Julian è stato arrestato nel 2019, alcuni informatori si sono fatti avanti per denunciare come l’azienda di security (la Uc Global), che doveva proteggere l’ambasciata e Julian, aveva ricevuto pagamenti dal principale finanziatore di Trump e di Pompeo, Sheldon Adelson (ormai scomparso) e che questa azienda faceva quello che diceva la Cia, all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador. El Pais ha pubblicato alcuni dettagli della vicenda, basati sulle testimonianze degli informatori. Le testimonianze davanti alla corte hanno rivelato che la Uc Global aveva discusso dei piani per avvelenarlo o rapire Julian nell’ambasciata. E ora, questa grande inchiesta di un team di giornalisti [di Yahoo! News, ndr], che hanno parlato con ex o attuali funzionari dell’intelligence americana, è riuscita a confermare che la Cia stava davvero cercando di lavorare a come ammazzare Julian nell’ambasciata. Hanno confermato che Mike Pompeo, che a quel tempo era il capo della Cia, aveva dato istruzioni alla sua agenzia di preparare “piani” o “opzioni” su come uccidere Julian. Quindi abbiamo conferme da entrambe le sponde dell’Atlantico che questo era stato seriamente pianificato. Essere stati in grado di confermare che la Cia, allora guidata da Mike Pompeo, aveva pianificato di uccidere un giornalista a Londra, è stato un grande scoop».

Mi rivolgo a Stefania Maurizi che è l’unica giornalista italiana a cui Julian Assange ha consegnato i database segreti di WikiLeaks, le chiedo il suo parere sul caso giornalistico e giudiziario di Julian Assange, soprattutto le domando cosa ne pensa delle campagne di delegittimazione che Assange avrebbe subito negli anni, prima tra tutte la percezione che fosse vicino a Putin, insomma un uomo che parlava di democrazia ma che poi si alleava ai suoi peggiori nemici.

«Quello che tu chiami “percezione” è, in realtà, il frutto di una lunga campagna di demonizzazione contro Julian Assange e WikiLeaks. Nel corso dell’ultimo decennio, ce ne sono state molte di queste campagne di delegittimazione: la prima in assoluto è stata quella delle “mani sporche di sangue”. Nel luglio del 2010, quando WikiLeaks iniziò a rivelare i documenti segreti sulla guerra in Afghanistan, il Pentagono accusò immediatamente lui e la sua organizzazione di avere le mani sporche di sangue, perché la loro pubblicazione avrebbe messo a rischio i traduttori e gli informatori afghani, che collaboravano con le truppe americane e della coalizione occidentale. Il Pentagono e la Cia crearono subito delle grandi task force di analisti dell’intelligence per passare al setaccio ogni singolo nome uscito da quei documenti e per cercare di scoprire se qualcuno di loro fosse stato ucciso o ferito o imprigionato a causa dell’uscita di quei nomi. La task force del Pentagono poteva contare su ben 100 esperti di intelligence. Sono passati 11 anni, non si è scoperto un solo esempio di persona uccisa, ferita o imprigionata. Subito dopo, nel 2010, prese il via anche quella contro l’Assange stupratore: 9 anni di supplizio che si sono chiusi in modo sconcertante, con i magistrati svedesi che hanno archiviato una volta per tutte l’indagine senza neppure andare a interrogarlo. Ad oggi, l’accusa di stupro gli rimane incollata addosso, sebbene non sia mai stato non dico condannato, ma neppure rinviato a giudizio».

La delegittimazione ossia l’omicidio civile di una persona, morale e non fisico, è la pratica preferita di democrazie, partiti, aziende, regimi. Ci dici qualcosa di più sull’accusa di stupro? Vogliamo, una volta per tutte chiarire come sono andate le cose?

«Per 9 anni Julian Assange è rimasto al centro di un caso di stupro in Svezia senza che mai le autorità svedesi si decidessero a incriminarlo — ovvero rinviarlo a giudizio per stupro e mandarlo a processo — oppure a scagionarlo una volta per tutte. Questo pantano giudiziario ha avuto un ruolo cruciale nella prolungata e costante demonizzazione di Julian Assange, nel privarlo dell’empatia dell’opinione pubblica mondiale, specie di quella fetta più sensibile alle rivelazioni dei documenti del governo americano sui crimini di guerra e sulle torture, perché, spesso, quella fetta coincide con quella più attenta ai diritti delle donne. Nel 2015, quando ormai Julian Assange aveva perso la libertà da 5 anni e il caso svedese rimaneva in uno stato di paralisi giudiziaria, mi sono resa conto che nessuno, tra le centinaia di giornalisti internazionali e locali che avevano scritto di Assange, aveva mai provato a chiedere i documenti sul caso per ricostruire i fatti in modo rigoroso. A quel punto ho chiesto la documentazione e le corrispondenze diplomatiche sul caso alle autorità di Svezia, Regno Unito, Stati Uniti e Australia. L’ho fatto completamente da sola: nessun giornale o media internazionale o locale era interessato a fare questo lavoro di duro giornalismo investigativo. Sono passati 6 anni da quando ho iniziato questa battaglia: sono ancora in tribunale a Londra, Stoccolma, New York, e in Australia. Sono rappresentata da 7 avvocati su 4 giurisdizioni. Quattro governi da ben 6 anni usano ogni risorsa legale per negare a una giornalista, completamente sola e con pochissime risorse, i documenti di questo caso: vuol dire che contengono cose importanti, come confermano i documenti che ho ottenuto finora e che hanno permesso di rivelare il ruolo delle autorità inglesi nel creare la paralisi giudiziaria-diplomatica che ha intrappolato Julian Assange».

Ma torniamo alla presunta vicinanza a Putin…

«Nel 2012 è partita la campagna contro Julian Assange “utile idiota del Cremlino”. Ricordo come fosse ieri come prese il via. Il fondatore di WikiLeaks aveva prodotto uno show chiamato The World Tomorrow, prodotto da una piccola azienda di documentari inglese. Nello show venivano intervistati personaggi che andavano: dall’attivista egiziano Alaa Abdel Fattah, che purtroppo oggi è detenuto nelle carceri del dittatore egiziano Sisi in condizioni terribili, fino all’allora presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, e al leader di Hezbollah, Nasrallah. La televisione del Cremlino, Russia Today, acquistò la licenza per trasmettere lo show di Julian Assange, come anche l’acquistò il gruppo Espresso. Il Guardian usò parole di fuoco contro Julian Assange, accusandolo di essere l’utile idiota del Cremlino. Inutile spiegare che Russia Today aveva acquistato la licenza. E poco importa che, sulla Russia, WikiLeaks abbia pubblicato documenti come i cablo della diplomazia americana, che non raccontano solo la corruzione della Russia sotto Putin, ma vanno oltre: dipingono il Paese come uno Stato-mafia, in cui la criminalità organizzata è controllata dai servizi segreti russi, e fa quello che lo Stato non può fare in modo presentabile. È chiaro che potenze come Russia e Cina apprezzano e applaudono WikiLeaks, quando questa rivela i segreti dei loro avversari o li imbarazza davanti al mondo intero e si fregano le mani anche quando vedono come «l’Occidente libero» tratta Julian Assange, un giornalista che, dopo aver rivelato crimini di guerre e torture, non ha più conosciuto la libertà. Nessun governo ama veder rivelati i suoi sporchi segreti, e infatti nessuno ha mosso un dito per aiutare Julian Assange».

La stessa domanda pongo alla compagna di Assange. Stella, le chiedo direttamente, in questi anni Assange è sembrato vicino a Putin, poi ai governi populisti. Da un iniziale consenso che le sinistre (compresi i giornali) gli avevano dato ora (salvo eccezioni) sembra non avere più sostegno dalle stesse parti. Dove ha sbagliato secondo te Julian?

«Non ritengo che sia corretto suggerire che WikiLeaks piacesse solo a certi gruppi o a persone con un certo credo politico. Piace a diversi gruppi per ragioni diverse: agli storici e agli accademici, perché apprezzano gli archivi di documenti; agli avvocati e alle vittime, perché fornisce documenti a supporto delle loro cause; ai giornalisti perché rivela informazioni censurate, e così via. È più interessante riflettere su chi non ama WikiLeaks e perché. La risposta è, in parte, contenuta nelle rivelazioni di Yahoo! News. Per farla franca con l’assassinio di qualcuno, devi prima uccidere la sua figura pubblica. L’inchiesta di Yahoo! News rivela un attacco su più fronti messo in atto dalla Cia per “tirar giù” Wikileaks, e una parte importante di questo attacco era la disinformazione. Una delle parti più importanti dell’inchiesta di Yahoo! News è la rivelazione che, nei primi mesi del 2017, la Cia aveva concluso che WikiLeaks non aveva legami con la Russia. Ha dovuto inventarsi una nuova designazione per poter colpire WikiLeaks: la designazione “agenzia di intelligence ostile non statale”, proprio perché aveva concluso che WikiLeaks non aveva legami con nessuno Stato».

Nel 2020 Assange e sua moglie decidono di rendere pubblico non solo il loro legame ma anche l’esistenza di due bambini. Dopo anni di segretezza come mai avete deciso di rendere pubblica la vostra vita privata?

«Il clima all’interno dell’ambasciata era incredibilmente minaccioso, soprattutto verso la fine. A dicembre 2017, una delle guardie della security mi disse che non era più sicuro per il nostro bambino stare nell’ambasciata: gli era stato chiesto di rubare il pannolino del bambino ed era venuto da me perché moralmente disgustato dalle istruzioni che aveva ricevuto. Io temevo per la vita di Julian e anche per la mia, in quegli ultimi mesi. Dopo l’arresto di Julian, io avevo ancora molta paura per la nostra sicurezza, ma fu superata da una preoccupazione ancora più seria, quando è esploso il Covid. Julian era a grave rischio di contrarre il Covid in prigione, e così abbiamo fatto un appello urgente alla corte per chiedere che venisse rilasciato agli arresti domiciliari, e io mi sono appellata al giudice, chiedendo che permettesse a Julian di tornare a casa dai nostri bambini. Avevo chiesto che fosse mantenuto il mio anonimato, ma la corte rigettò la mia richiesta, e così sono stata costretta a diventare un personaggio pubblico».

Immagino sia difficilissimo crescere i vostri due bambini, Gabriel e Max, in queste condizioni. Guardando indietro, rimpiangete di avere messo in piedi una famiglia in condizioni tanto difficili? I vostri due bambini, Gabriel e Max, riescono a vedere il padre? E lei riesce a incontrare Julian?

«Il governo americano ha agito dietro le quinte per tenere Julian in una condizione prolungata in cui era un ostaggio dentro l’ambasciata. C’era una roccia solida al centro dei nostri mondi e quella roccia era il nostro amore reciproco, brillava per quanto era vero, puro e certo in un mare di fango. Non ho rimpianti, perché abbiamo creato una famiglia bellissima. E tutte le persone che si sono unite per aiutare a liberare Julian mi danno la forza e la convinzione che è solo questione di tempo, prima che staremo di nuovo insieme. È stato molto difficile durante il Covid, per tutti noi, ma a partire dall’estate, ci vediamo di nuovo frequentemente (ogni settimana)».

In una vita impossibile, in cui siete stati continuamente spiati e controllati, si può davvero avere anche solo una giornata di vita senza ansia e pressione?

«No, non è possibile. Rimangono sempre con me. È qualcosa che io devo gestire costantemente, ma ci riesco meglio quando sento che quello che sto facendo aiuta concretamente a riportare Julian a casa».

Lei ha seguito dal punto di vista legale il caso svedese delle accuse per stupro: che idea si è fatta di quella vicenda?

«È stato un vergognoso abuso del procedimento giudiziario. Julian non è mai stato rinviato giudizio, e i magistrati svedesi alla fine hanno chiuso il procedimento una volta che era servito allo scopo: attaccare la sua reputazione, negargli la possibilità di difendersi, mantenerlo privato della sua libertà per anni fino a quando gli Stati Uniti hanno desecretato il loro atto di incriminazione. Le Nazioni Unite hanno già stabilito, nel 2015, che il Regno Unito e la Svezia hanno agito in violazione delle leggi internazionali e che Julian era detenuto arbitrariamente nell’ambasciata».

L’Europa non ha fatto la sua parte. Cosa avrebbe potuto fare e cosa potrebbe ancora fare?

«L’Europa non è uno spettatore passivo. L’Europa è parte in causa sia come beneficiaria delle pubblicazioni di Julian sia come giurisdizione che ha l’obbligo di proteggere i diritti civili e politici di tutti gli individui. L’Europa ha beneficiato delle pubblicazioni di WikiLeaks, che hanno rivelato lo spionaggio dei leader europei e anche lo spionaggio economico contro la Banca centrale europea, la penetrazione dei partiti politici da parte della Cia, il sovvertimento dei procedimenti giudiziari in Germania, Spagna, Olanda, Danimarca, Svezia. WikiLeaks ha rivelato anche le intercettazioni del primo ministro italiano e dei suoi consiglieri. La Germania si è fatta sentire in modo forte con politici di varia estrazione che hanno formato un gruppo parlamentare che chiede la liberazione di Julian, così come Inghilterra e Francia. Anche le associazioni europee della stampa si sono schierate a suo favore. Poi ci sono iniziative al Consiglio d’Europa per chiedere la liberazione di Julian. C’è un forte supporto all’interno del Parlamento europeo, ma nell’insieme l’Unione Europea potrebbe fare di meglio, specialmente considerando che è una parte interessata e che il caso contro Julian è un attacco alla libertà di stampa e, più in generale, alla sovranità dell’Europa».

Perché Assange fa ancora paura?

«Alcune persone corrotte e potenti ce l’hanno con lui perché rappresenta ciò che loro temono della stampa. I potenti amano pensare di poter controllare la stampa. Julian ha sempre detto che quello che viene fatto a lui non riguarda davvero la sua persona, ma mira piuttosto a creare dei precedenti che servano a produrre una stampa servile e un’opinione pubblica ignorante e senza potere».

Quanti anni è rimasto rinchiuso in ambasciata? Quanti in prigione?

«Si trova incarcerato nella prigione di Belmarsh da oltre due anni e mezzo e rischia 175 anni di prigione, se estradato. È stato confinato nell’ambasciata da giugno 2012 fino all’11 aprile 2019, ma la gente dimentica che aveva perso la libertà prima: il 7 dicembre 2010, quando era stato arrestato e imprigionato a Wandsworth, la prigione dove era stato rinchiuso Oscar Wilde. Dopo 10 giorni, fu mandato ai domiciliari, sotto strette restrizioni, per un anno e mezzo, prima che si rifugiasse nell’ ambasciata. Nel suo provvedimento del dicembre 2015, il Working Group delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria ha stabilito che la sua detenzione arbitraria ha avuto inizio con il suo arresto il 7 dicembre 2010. La Svezia non l’ha mai rinviato a giudizio per nessun reato».

Cosa potrebbe accadere ad Assange se dovesse venire estradato?

«Se intende cosa vogliono fare gli Stati Uniti a Julian, la risposta è che vogliono seppellirlo vivo per il resto della sua vita, e non permettergli di parlare più o di essere visto in pubblico. La corte britannica ha già sentenziato [in primo grado, ndr] che la sua situazione è così seria e che è stato trattato già così male che se le corti inglesi dovessero ordinare la sua estradizione, questo porterebbe alla sua morte». 

Stella Moris, compagna di Julian Assange e madre dei suoi due figli, sarà in Italia ospite del Salone del Libro di Torino oggi alle ore 15 (Sala Rossa, Padiglione 1). Moris discuterà con Riccardo Iacona e Stefania Maurizi, autrice del libro «Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks» (Chiarelettere). Maurizi è la giornalista che in Italia ha diffuso i documenti di Wikileaks e partecipa come testimone al processo in corso a Londra

Il progetto svelato da Yahoo News. “La Cia voleva rapire e assassinare Assange”, il (presunto) piano contro il fondatore di Wikileaks. Redazione su Il Riformista il 27 Settembre 2021. La Cia voleva rapire ed eventualmente assassinare Julian Assange, il fondatore di Wikileaks. Il piano ‘datato’ 2017 è stato denunciato in una inchiesta pubblicata da Yahoo News e ripresa dai principali media internazionali. L’intenzione della Cia era di rapire Assange, giornalista e attivista australiano, dall’ambasciata dell’Ecuador a Londra dove si era rifugiato nel 2012 chiedendo asilo politico in quanto perseguitato. Rapimento che era stato preso in considerazione dopo i report di intelligence che evidenziano il rischio di un tentativo di fuga dall’ambasciata  di Assange, col contributo dei servizi russi. Ad intestarsi la lotta contro Assange era in particolare Mike Pompeo, all’epoca segretario di Stato dell’amministrazione Trump. Ex capo della Cia, Pompeo a causa di Wikileaks aveva sofferto la più grave perdita di dati della sua storia. L’inchiesta di Yahoo News, citando conversazioni con oltre 30 ex funzionari dell’intelligence e della sicurezza degli Stati Uniti, sottolinea che erano stati richiesti “piani” e “opzioni” su come eseguire un’operazione di omicidio. Un pressing diventato più forte dopo la fuga di dati riguardanti gli strumenti di hackeraggio utilizzati dalla CIA, il rilascio di dati da parte di Wikileaks noto come ‘Vault 7‘, e i retroscena sull’inchiesta della mail del Partito Democratico statunitense durante la campagna elettorale del 2016, che avevano favorito la vittoria di Donald Trump. Pur trovandosi ancora rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador, tale circostanza non avrebbe scoraggiato Pompeo e i suoi funzionari. L’idea era quella di rapire Assange nella sede diplomatica ecuadoriana e portarlo negli Stati Uniti attraverso un paese terzo, la cosiddetta ‘rendition’. Un ex funzionario dell’intellige Usa sentito da Yahoo News ha descritto il piano come “irrompere nell’ambasciata, trascinare fuori Assange e portarlo dove volevano”. L’ex presidente Usa ha negato di aver mai preso in considerazione l’idea di uccidere il fondatore di Wikileaks: “È totalmente falso, non è mai successo”. Attualmente Assange è recluso nel carcere di massima sicurezza HM Prison Belmarsh di Londra. Nel gennaio 2021 il tribunale distrettuale britannico aveva negato la richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti a causa delle condizioni mentali del fondatore di Wikileaks: il regime di isolamento al quale sarebbe sottoposto negli Stati Uniti potrebbe portarlo al suicidio visto la sua depressione clinica. CHI E’ ASSANGE – Il nome di Assange, giornalista e attivista australiano, è ovviamente legato alla sua ‘creatura’, quella Wikileaks dove dal 2007 ad oggi sono stati pubblicati dietro la garanzia della massima protezione, milioni di file segreti di governi e apparati militari di mezzo mondo. Sul sito verranno caricati documenti riguardanti casi come la repressione cinese della rivolta tibetana, la repressione dell’opposizione in Turchia, la corruzione nei Paesi arabi e le esecuzioni sommarie della polizia in Kenya. Ma a far detonare il ‘caso Wikileaks’ sono, nel 2010, centinaia di migliaia di documenti sulle operazioni della coalizione internazionale in Afghanistan e in Iraq e in particolare dall’esercito statunitense, autore di violenze indiscriminate anche su civili. Materiale messo a disposizione dall’ex militare statunitense Chelsea Manning, imprigionata e poi scarcerata nel maggio 2017, presentato in una conferenza stampa dallo stesso Assange e poi messo a disposizione di diverse testate internazionali. Alla fine del 2010 la magistratura svedese lancia un mandato di cattura per le denunce di stupro da parte di due donne svedesi. Assange replica di aver avuto solo rapporti consenzienti e si consegna alla polizia britannica. Dopo i domiciliari e la libertà vigilata il programmatore si rifugia presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra. È il 2012: Assange teme di essere estradato in Svezia e da lì negli Stati Uniti dove lo attende un processo per spionaggio. Assange resterà rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador fino al 2019, quando il presidente Lenin Moreno revoca la cittadinanza che gli aveva conferito il suo predecessore Rafael Correa. L’Ecuador consente quindi ad agenti della polizia metropolitana di Londra di entrare nell’ambasciata e prelevare Assange contro la sua volontà, senza rispettare il fatto che era in possesso della cittadinanza di quello Stato. Mentre il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti il 23 maggio 2019 aggiunge 17 capi di accusa – per 175 anni di carcere – a quello di pirateria informatica, Assange viene condannato da un tribunale di Londra a 50 settimane per la violazione della libertà vigilata quando Assange si è rifugiato nell’ambasciata ecuadoriana. Il processo svedese invece si conclude il 19 novembre 2020: la magistratura scandinava abbandona l’indagine per violenza sessuale per mancanza di prove e il 4 gennaio 2021 la giudice Vanessa Baraitser, della corte penale londinese di Old Bailey, nega l’estradizione in quanto le “condizioni mentali di Julian Assange sono tali che sarebbe inappropriato estradarlo negli Stati Uniti” e potrebbero portarlo al suicidio. Ad oggi è detenuto esclusivamente a scopo preventivo, per garantire la sua presenza durante il processo di estradizione negli Stati Uniti in corso, un procedimento che potrebbe durare diversi anni.

Quel piano della Cia per rapire e assassinare Julian Assange. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 28 settembre 2021. Un clamoroso e spregiudicato piano – mai attuato – maturato ai tempi dall’amministrazione Trump per rapire e magari assassinare il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange. È quanto emerge da un’inchiesta pubblicata su Yahoo News da tre giornalisti investigativi di grande fama, Zach Dorfman, Sean D. Naylor e Michael Isikoff. Nel corso del 2017, prima che – nell’aprile 2019 – il giornalista australiano venisse arrestato e poi incarcerato alla Her Majesty Prison Blemarsh e sulla sua testa pendessero fino a 175 anni di carcere per accuse di spionaggio e pirateria informatica, stava iniziando il suo quinto rinchiuso nell’ambasciata dell’Ecuador, a Londra.

Donald Trump era stato eletto da pochi mesi e i funzionari della sua amministrazioni, si legge nell’inchiesta, erano impegnati in una lunga diatriba sulla legittimità e legalità di un’operazione che prevedeva il rapimento del fondatore di WikiLeaks. Alcuni funzionari della Cia e della Casa Bianca presero persino in considerazione l’idea di assassinare Julian Assange, al punto di richiedere una serie di “opzioni” su come farlo fuori. Il dibattito su questo piano segreto si è svolto “ai più alti livelli” dell’amministrazione Trump, spiega un ex funzionario che ha parlato con i tre giornalisti autori dell’inchiesta. Tali conversazioni, ha spiegato la fonte, facevano parte di una campagna senza precedenti della Cia contro WikiLeaks e il suo fondatore. I piani dell’agenzia includevano anche un’ampia attività di spionaggio sui soci di WikiLeaks, inclusa l’idea di seminare discordia tra i membri del gruppo e rubare i loro dispositivi elettronici.

La vendetta della Cia. All’inizio del 2017 WikiLeaks aveva cominciato a pubblicare migliaia di file segreti riguardanti l’agenzia (Vault 7). L’allora direttore della Cia fresco di nomina, Mike Pompeo – poi Segretario di Stato – voleva vendicare l’agenzia rispetto a quella che riteneva una figuraccia epocale e una fuga di notizie intollerabile. Fu proprio Pompeo uno dei promotori di questo piano mai messo in pratica dall’amministrazione Trump. “È tempo di chiamare WikiLeaks per quello che è veramente: un servizio di intelligence ostile non statale, spesso aiutato da attori statali come la Russia”, spiegò Pompeo dinanzi alla platea del Center for Strategic and International Studies di Washington, nel 2017. A quel punto gli 007 americani incaricati dal direttore della Cia stavano monitorando le comunicazioni e i movimenti di numerosi membri del personale di WikiLeaks, inclusa la sorveglianza audio e visiva dello stesso Assange, secondo quanto riferito da alcuni ex funzionari. L’America stava segretamente spiando Assange, in attesa delle sue mosse. Mentre si vociferava di un possibile soccorso russo e di una fuga a Mosca del giornalista australiano, la Cia e la Casa Bianca iniziarono a prepararsi a una serie di possibili scenari che, come in un classico film d’azione Hollywodiano, includevano rocamboleschi inseguimenti in auto e potenziali scontri a fuoco con agenti del Cremlino per le strade di Londra. La convinzione degli americani è che Assange stesse per fuggire dall’ambasciata con l’aiuto di Mosca, a breve. Ed è lì, fuori dall’ambasciata, che lo avrebbero preso e intercettato. “Avevamo tutti i tipi di motivi per credere che stesse pensando di andarsene da lì”, ha spiegato un ex alto funzionario dell’amministrazione Trump. Lo stesso presidente americano fu informato dall’agenzia che un eventuale cattura di Assange avrebbe avuto risvolti politici internazionali potenzialmente anche molto gravi. Il piano, tuttavia, non andò mai in porto. 

Dall’ambasciata dell’Ecuador al carcere. Julian Assange ottenne asilo politico e protezione sotto la presidenza di Rafael Correa. Come già evidenziato da InsideOver, tutto cambiò con l’elezione del suo successore Lenin Moreno, il quale accusò ben presto Assange di aver “ripetutamente violato” i termini dell’asilo nell’ambasciata dell’Ecuador dove era rinchiuso dal 2012. Una settimana dopo le dichiarazioni di Mike Pompeo su WikiLeaks, l’allora procuratore generale Jeff Sessions annunciò che arrestare Julian Assange era una “priorità”. Secondo quanto riferito dal New York Times, il dipartimento di Giustizia stava lavorando a un memorandum che conteneva possibili accuse contro Wikileaks e Assange. Il 20 ottobre 2017, Mike Pompeo paragonava Wikileaks ad al-Qaida e allo Stato Islamico (Isis). L’amministrazione Trump prese poi una posizione sempre più aggressiva nei confronti di Assange e del governo Moreno. Il Sottosegretario agli Affari Politici Thomas A. Shannon Jr. visitò l’Ecuador a febbraio 2018, e fu seguito a marzo dal vice comandante del Comando Sud degli Stati Uniti, il generale Joseph DiSalvo, il cui compito era discutere la cooperazione di sicurezza con il leadership militare ecuadoriana. Il giorno dopo la visita di Di Salvo, il governo di Quito prendeva la sua prima azione importante per ridurre la libertà di Assange presso l’ambasciata di Londra. Secondo l’Ecuador, Assange aveva violato un impegno scritto, sottoscritto nel dicembre 2017, di non “emettere messaggi che implicavano interferenze nei confronti di altri stati”. La conseguenza fu che i funzionari ecuadoriani interruppero il suo accesso a Internet e vietarono ogni visita. La dichiarazione del governo alludeva all’incontro di Assange con due leader del movimento indipendentista catalano. Gli Usa, consci della difficile economica dell’Ecuador, soprattutto dopo la visita nel Paese dei funzionari del Fondo Monetario Internazionale, nell’estate 2018 fecero ulteriori pressioni sul governo di Lenin Moreno, sino a quando no fu ritirato l’asilo politico che lo aveva tutelato per anni. Oggi Assange è detenuto in un carcere di massima sicurezza inglese, per via di una sua possibile – quanto improbabile – fuga, in attesa che Washington prepari l’appello contro la sentenza che lo scorso 4 gennaio ne ha vietato l’estradizione. 

Negli “Afghan War Logs” rivelati dall’organizzazione di Julian Assange uno squarcio di verità senza precedenti sul conflitto afgano. Un estratto dal libro “Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks” di Stefania Maurizi, da oggi in libreria per Chiarelettere. Stefania Maurizi il 26 Agosto 2021 su micromega.net. […] Il 25 luglio 2010 WikiLeaks pubblicò gli «Afghan War Logs», che mandarono il Pentagono su tutte le furie. I file erano 76.910 report segreti sulla guerra in Afghanistan compilati dai soldati americani sul campo tra il gennaio del 2004 e il dicembre del 2009. Aprivano uno squarcio senza precedenti in quel conflitto lontano e ignorato. […] Pochi mesi prima della pubblicazione di questi documenti, l’organizzazione di Julian Assange aveva pubblicato un memorandum riservato [1] della Cia, datato 11 marzo 2010. Non aveva fatto grande scalpore, eppure era importante perché spiegava le strategie da usare per scongiurare il rischio che l’opinione pubblica francese e tedesca si rivoltasse contro la guerra, chiedendo il ritiro dei loro militari. In quel periodo i due paesi europei avevano i contingenti più grandi in Afghanistan, dopo quelli di Stati Uniti e Inghilterra: un ritiro delle loro truppe sarebbe stato a dir poco problematico per il Pentagono. Uno dei fattori su cui la Cia faceva più affidamento era proprio l’indifferenza che questa guerra generava nella pubblica opinione occidentale: se ne parlava rarissimamente nei giornali e si vedeva ancora meno in televisione, quindi stragi e atrocità non generavano alcuna reazione nell’opinione pubblica occidentale. «Lo scarso rilievo della missione in Afghanistan» scriveva infatti la Cia nel documento rivelato da WikiLeaks «ha permesso ai leader di Francia e Germania di ignorare l’opposizione della gente e di continuare ad aumentare costantemente il numero delle loro truppe nella missione Isaf.» Il file consigliava, comunque, di non sperare solo nell’apatia, ma di preparare possibili strategie di persuasione nel caso in cui l’umore dell’opinione pubblica fosse cambiato. Gli argomenti propagandistici da usare con i cittadini francesi erano il possibile ritorno dei talebani al potere e gli effetti che questo avrebbe avuto sulla vita delle donne afghane: «La prospettiva che i talebani riportino indietro [il paese], dopo i progressi ottenuti faticosamente in tema di educazione delle donne, potrebbe provocare l’indignazione e diventare ragione di protesta per un’opinione pubblica largamente laica come quella francese». Mentre la carta da giocare con i tedeschi era quella dei rifugiati: «Messaggi che illustrino come una sconfitta in Afghanistan possa aumentare il rischio che la Germania sia esposta al terrorismo, al traffico di droga e all’arrivo dei rifugiati potrebbero aiutare a rendere la guerra più importante per chi è scettico verso di essa». Per quanto rilevante, questo documento non aveva avuto un grande impatto, quando però il 25 luglio 2010 WikiLeaks rivelò gli Afghan War Logs, i documenti furono rilanciati in tutto il mondo e la reazione del Pentagono fu durissima. Una straordinaria finestra sul conflitto. I 76.910 documenti segreti descrivevano la guerra come mai prima era stato possibile. Si trattava di brevi relazioni compilate dai soldati statunitensi che combattevano sul campo. Contenevano informazioni fattuali, incluse latitudine e longitudine dei luoghi in cui erano avvenuti scontri, incidenti e stragi di civili, il tutto descritto con data e ora esatta e in un gergo militare stretto. I file registravano in tempo reale gli eventi significativi (SigActs, significant activities) dal gennaio del 2004 al dicembre del 2009, ovvero negli anni che andavano dal secondo mandato presidenziale di George W. Bush fino al primo anno dell’amministrazione di Barack Obama. Ogni unità e avamposto presente sul teatro di guerra doveva relazionare in modo estremamente sintetico su: attacchi subiti, scontri, morti, feriti, rapiti, prigionieri, fuoco amico, messaggi di allerta e informazioni sugli Improvised explosive devices (Ied), gli ordigni improvvisati piazzati lungo le strade e azionati a distanza che facevano strage di civili e soldati. Ognuno dei report era come un’istantanea che fissava in un preciso momento e in un determinato luogo geografico il conflitto in Afghanistan. Mettendo insieme tutte le istantanee, soldati e intelligence potevano avere una visione completa della guerra, così come si sviluppava sul campo azione dopo azione, in modo da poter fare piani operativi e analisi di intelligence. I rapporti erano compilati dai soldati dell’esercito americano, lo Us Army, quindi erano il loro racconto del conflitto. Non contenevano informazioni di eventi top secret, perché si trattava di documenti classificati al livello secret. I documenti lasciavano emergere per la prima volta centinaia di vittime civili mai computate: il quotidiano inglese «The Guardian» aveva contato almeno 195 morti e 174 feriti, ma aveva fatto notare che il dato era sicuramente sottostimato. I file aprivano anche uno squarcio sulla guerra segreta che si combatteva con unità speciali mai conosciute prima di allora, come la Task Force 373, e con i droni, gli aerei senza pilota che, comandati dai soldati americani che si trovavano in una base del Nevada, uccidevano in posti remoti come l’Afghanistan. La Task Force 373 era un’unità d’élite che prendeva ordini direttamente dal Pentagono e aveva come missione quella di catturare o uccidere combattenti di alto livello di al Qaeda e dei talebani. La decisione di chi catturare e chi ammazzare in modo stragiudiziale, ovvero senza alcun processo giudiziario, appariva completamente affidata alla task force [2]. Il valore degli Afghan War Logs rivelati da WikiLeaks stava proprio nel far emergere i fatti che la macchina della propaganda del Pentagono nascondeva e le oscure operazioni della Task Force 373 erano uno degli esempi. La brutalità con cui queste forze speciali agivano nella notte aveva portato a sterminare forze afghane alleate, donne e bambini. Questo tipo di attacchi contribuivano a creare un forte risentimento nelle popolazioni locali contro le truppe americane e della coalizione. Ma nelle dichiarazioni ufficiali dei militari il nome della Task Force 373 non compariva mai e, come il «Guardian» aveva ricostruito, (3) venivano nascoste informazioni per coprire errori e stragi di innocenti. Durante una delle loro operazioni, per esempio, i soldati della Task Force 373 avevano ucciso sette bambini. La notizia della loro morte era stata data in un comunicato stampa della coalizione, ma senza spiegare il contesto in cui era avvenuta. Nessuno aveva raccontato che quelle forze speciali, spesso, non avevano letteralmente idea di chi ammazzavano, come in questo caso: avevano sparato cinque missili contro una scuola religiosa, una madrasa, convinti di colpire un leader di al Qaeda, Abu Laith al-Libi. In un altro, invece, avevano sterminato sette poliziotti afghani e ne avevano feriti quattro, convinti di colpire gli uomini di un comandante talebano. I file, però, non rivelavano solo i massacri commessi dalle truppe americane, ma anche dai talebani, in modo particolare quelli causati dai loro atroci attacchi con gli Ied. Secondo i dati riportati dal «Guardian», dal 2004 al 2009 il database degli Afghan War Logs permetteva di ricostruire come gli Ied avessero causato oltre duemila vittime civili e come il 2009 fosse stato un anno particolarmente terribile, con cento attacchi in appena tre giorni. [4] Il quotidiano londinese evidenziava come gli Ied fossero l’arma preferita dai talebani, quella con cui cercavano di contrastare la schiacciante superiorità tecnologica delle truppe occidentali. L’intensificarsi degli attacchi contro truppe americane e della coalizione internazionale era registrato nei file a partire dalla fine del 2005. Scavando nella documentazione, il settimanale tedesco «Der Spiegel» aveva ricostruito che questa escalation era anche dovuta al fatto che i talebani e i signori della guerra, come il famigerato Gulbuddin Hekmatyar, minacciavano o anche pagavano cifre importanti, che potevano arrivare a diecimila dollari, [5] affinché la guerriglia locale portasse avanti azioni contro i soldati. I file rivelavano anche un’altra informazione mai emersa prima pubblicamente: dalle ricerche del «New York Times» nel database risultava che i talebani avevano ottenuto missili terraaria trasportabili e a ricerca di calore del tutto simili agli Stinger che, venticinque anni prima, la Cia aveva fornito ai mujaheddin. Si trattava di un contrappasso: la stessa tipologia di armi con cui i guerriglieri afghani avevano inflitto perdite devastanti ai sovietici, costringendoli alla ritirata, era finita nelle mani dei nemici degli americani in Afghanistan. [6] Quanto ai droni, presentati spesso come un’arma infallibile a rischio zero – visto che, come in un videogame, venivano pilotati da soldati che operavano in completa sicurezza da una base negli Stati Uniti –, non sempre erano così infallibili. I file, infatti, documentavano situazioni, ricostruite dal settimanale «Der Spiegel», in cui le truppe avevano dovuto fare rischiose operazioni di recupero, perché quei velivoli senza pilota si erano schiantati al suolo e le informazioni segrete contenute nei loro computer potevano finire in mano al nemico. Non sempre, infatti, era possibile cancellare da remoto i dati presenti nei sistemi informatici dei droni [7] e, quando l’operazione falliva, i soldati sul campo in Afghanistan dovevano imbarcarsi in pericolose missioni. A oggi gli Afghan War Logs rimangono l’unica fonte pubblica che permette di ricostruire attacchi, morti, assassini stragiudiziali avvenuti in Afghanistan tra il 2004 e il 2009, considerata la segretezza di queste operazioni militari. Sono anche una delle pochissime fonti che abbiamo a disposizione per cercare di ricostruire il numero di civili uccisi prima del 2007, di cui nessuno pare avere dati affidabili, neppure la missione delle Nazioni unite in Afghanistan, l’Unama, che compila queste statistiche. [8] Mentre scrivo nessuno sa che tipo di futuro attende l’Afghanistan. In particolare per quanto riguarda le donne, nel caso in cui i talebani tornassero al potere, anche perché nel frattempo nel paese è arrivato anche l’Isis. L’unica certezza è che non esistono dati affidabili su quanti civili siano stati ammazzati dall’ottobre del 2001 al 2006, mentre si sa che solo nel periodo dal 2009 al 2019 sono stati uccisi almeno 35.518 civili e ne sono stati feriti 66.546. Questo significa oltre tremila morti innocenti all’anno: è come se dal gennaio del 2009 al dicembre del 2019 in Afghanistan ci fosse stato ogni anno un 11 settembre, [9] eppure questa guerra è sempre rimasta fuori dallo schermo radar dell’opinione pubblica occidentale. E senza il coraggio di Chelsea Manning e di WikiLeaks, il segreto di Stato e la macchina della propaganda bellica non ci avrebbero mai permesso di acquisire le informazioni fattuali che abbiamo scoperto grazie agli Afghan War Logs. L’allora direttore del «New York Times», Bill Keller, li aveva definiti [10]  «una straordinaria finestra su quella guerra». Subito dopo la loro pubblicazione, il settimanale tedesco «Der Spiegel» aveva intervistato Julian Assange, [11] chiedendogli: «Lei avrebbe potuto creare un’azienda nella Silicon Valley e vivere a Palo Alto in una casa con piscina. Perché ha invece deciso di dedicarsi alla creazione di WikiLeaks?». Assange aveva risposto: «Si vive solo una volta e quindi abbiamo il dovere di far un buon uso del tempo a disposizione e di impiegarlo per compiere qualcosa di significativo e soddisfacente. Questo è qualcosa che io considero significativo e soddisfacente. È la mia natura: mi piace creare sistemi su larga scala, mi piace aiutare le persone vulnerabili e mi piace fare a pezzi i bastardi. E quindi è un lavoro che mi fa sentire bene». Ma il Pentagono non la vedeva allo stesso modo e reagì con furia alla rivelazione degli Afghan War Logs. L’allora segretario alla Difesa Robert Gates promise subito «un’inchiesta aggressiva», mentre l’ammiraglio Mike Mullen aveva subito dichiarato: «Assange può dire quello che vuole sul bene che lui e la sua fonte credono di fare, ma la verità è che potrebbero avere già le mani sporche del sangue di qualche giovane soldato o di una famiglia afghana». Un’accusa questa che sarebbe stata ripetuta acriticamente dai media per oltre un decennio, danneggiando seriamente Wiki-Leaks. Ma era vera?

Le mani sporche di sangue. Il veleno che il Pentagono aveva iniettato nel dibattito pubblico su WikiLeaks non tardò a dare i suoi frutti. Pochi giorni dopo la pubblicazione dei documenti segreti sulla guerra in Afghanistan, l’idea che Julian Assange e la sua organizzazione fossero dei pericolosi irresponsabili iniziò a circolare nell’opinione pubblica e nelle redazioni dei giornali. Le parole dell’ammiraglio Mike Mullen sulle «mani sporche di sangue» si riferivano al fatto che, secondo il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, la diffusione dei 76.910 documenti segreti esponeva le truppe americane, quelle della coalizione internazionale e i collaboratori afghani – che fornivano loro informazioni e assistenza sul campo – al rischio di attentati da parte dei talebani, perché alcuni di quei file contenevano nomi o dettagli che permettevano di identificarli. Era chiaro che il Pentagono avesse un grandissimo interesse nel delegittimare WikiLeaks a causa della pubblicazione di quei file e di altri precedenti, come il video Collateral Murder. Gli Afghan War Logs costituivano una vera e propria miniera di informazioni: la stampa e l’opinione pubblica mondiale potevano confrontare le dichiarazioni dei vari leader militari e governi, che avevano inviato truppe in Afghanistan, con i dati contenuti nei file e scoprire le menzogne ufficiali, le omissioni e le manipolazioni. Quei documenti permettevano per la prima volta di diradare la nebbia della guerra, mentre il conflitto in Afghanistan era in corso e non venti o trent’anni dopo, quando ormai i fatti potevano interessare giusto agli storici di professione. Era dal 1971, quando Daniel Ellsberg fece uscire i Pentagon Papers – settemila documenti top secret sul Vietnam –, che l’opinione pubblica non aveva più avuto l’opportunità di accedere a migliaia di informazioni riservate su una guerra mentre questa era in corso. Di fronte alla dichiarazione dell’ammiraglio Mike Mullen era d’obbligo una notevole dose di sano scetticismo, perché era ovvio che il Pentagono fosse furioso con Assange. Eppure quelle parole fecero subito breccia nell’opinione pubblica e nei media. WikiLeaks non aveva pubblicato le rivelazioni sull’Afghanistan da sola, aveva stabilito una collaborazione con tre grandi giornali internazionali: il «New York Times», il quotidiano inglese «The Guardian» e il settimanale tedesco «Der Spiegel». Come già fatto con me nel caso del file audio sulla crisi dei rifiuti a Napoli, Assange e il suo staff avevano scelto di collaborare con i reporter di quelle tre grandi redazioni per diverse settimane, durante le quali i giornalisti avevano avuto accesso esclusivo ai documenti segreti in modo da poterne verificare l’autenticità e indagare sulle rivelazioni più importanti che ne emergevano. Finito questo lavoro, il «New York Times», il «Guardian» e «Der Spiegel» avevano pubblicato le loro inchieste basate sugli Afghan War Logs e WikiLeaks aveva reso pubblici sul suo sito web i 76.910 file in modo che, dopo un periodo di accesso garantito solo a quei tre media, chiunque potesse leggerli. Assange e il suo staff chiamavano questo tipo di collaborazione media partnership e la strategia aveva funzionato: tutto il mondo aveva seguito quelle rivelazioni, che avevano avuto un grande impatto internazionale ed erano state riprese da giornali, televisioni e media di ogni angolo del pianeta. Ormai WikiLeaks era un fenomeno globale. Due cose mi colpivano, in particolare, di questa organizzazione: innanzitutto la sua scelta di democratizzare l’accesso alla conoscenza e alle informazioni, pubblicando i documenti per tutti, affinché qualunque cittadino, giornalista, studioso, politico o attivista del mondo potesse leggerli, fare ricerche mirate e indagare in modo del tutto indipendente sulla guerra in Afghanistan, senza doversi affidare esclusivamente a quello che i giornali avevano scritto. Trovavo questa scelta rivoluzionaria, perché permetteva a qualunque lettore di avere accesso alle fonti primarie delle informazioni pubblicate dai media, cercare i fatti a cui era più interessato, utilizzare i documenti per chiedere giustizia in tribunale e anche verificare come i giornalisti li avevano riportati nei loro articoli: ne avevano scritto fedelmente oppure li avevano distorti, esagerati o censurati? Questo processo di democratizzazione dava potere ai lettori comuni: non erano solo recipienti passivi di quello che riportavano giornali, televisioni, radio, ma per la prima volta avevano accesso diretto alle fonti primarie e questo diminuiva l’asimmetria tra chi aveva questo privilegio, come i reporter, e chi no. Oltre alla democratizzazione dell’informazione, mi colpiva ancora una volta il coraggio di Julian Assange e di tutti i giornalisti di WikiLeaks. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, infatti, non si era limitato ad accusarli di avere «le mani sporche di sangue», ma aveva anche intimato loro di rimuovere completamente gli Afghan War Logs dal sito e di restituire 15.000 file sulla guerra in Afghanistan che non avevano ancora reso pubblici. «L’unica soluzione accettabile» aveva dichiarato pubblicamente il portavoce del Pentagono, Geoff Morrell, «è che WikiLeaks restituisca immediatamente tutte le versioni di quei documenti al governo degli Stati Uniti e che cancelli una volta per tutte i file dal proprio sito web e dai suoi computer». Poi aveva aggiunto: «Se fare la cosa giusta per loro di WikiLeaks non va bene, allora vedremo che alternative abbiamo di costringerli a fare la cosa giusta». Era un’intimidazione da non sottovalutare: con la guerra al terrorismo, gli Stati Uniti avevano dimostrato che non si sarebbero fermati davanti a nulla e avrebbero usato ogni tipo di mezzo legale o illegale, dalla tortura agli assassini con i droni, contro chi percepivano come una minaccia alla loro sicurezza. Allo stesso tempo era da escludere che avrebbero usato mezzi così sfacciatamente brutali per neutralizzare Assange e WikiLeaks, che era un’organizzazione giornalistica del mondo occidentale e ormai molto visibile. Il documento del 2008 del controspionaggio americano, l’Army Counterintelligence Center (Acic) – che WikiLeaks stessa aveva rivelato –, aveva fatto emergere come le autorità americane puntassero a neutralizzarli colpendo le fonti che passavano loro documenti segreti, piuttosto che colpendoli direttamente. In ogni caso quelle minacce andavano prese molto sul serio: suonavano grottesche a chiunque avesse un’idea della sproporzione tra la potenza e le risorse del Pentagono e quelle di una piccola organizzazione come WikiLeaks. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti avrebbe potuto schiacciarla come un moscerino in qualunque momento. Ma Assange e il suo staff non si piegarono a quell’intimidazione. E per questo avrebbero pagato un prezzo molto alto.

NOTE

1. Il documento riservato della Cia è accessibile a chiunque sul sito di WikiLeaks al link: wikileaks.org/wiki/CIA_report_into_shoring_up_Afghan_war_support_in_Western_Europe,_11_Mar_2010.

2. Nick Davis, Afghanistan War Logs: Task Force 373 – special forces hunting top Taliban, in «The Guardian», 25 luglio 2010.

3. Ibid.

4. Nick Davies e David Leigh, Afghanistan War Logs: Massive leaks of secret files exposes the truth of occupation, in «The Guardian», 25 luglio 2010; Declan Walsh, Paul Simon e Paul Scruton, WikiLeaks Afghanistan files: every Ied attack with coordinates, in «The Guardian», 26 luglio 2010.

5. Explosive leaks provide image of war from those fighting it, in «Der Spiegel», 25 luglio 2010.

6. C.J. Chivers, C. Gall, A.W. Lehren, M. Mazzetti, J. Perlez, E. Schmitt et al., View is bleaker than official portrayal of war in Afghanistan, in «The New York Times», 25 luglio 2010.

7. Explosive leaks provide image of war from those fighting it, cit.

8. Il fatto che per i civili uccisi in Afghanistan dal 2001 al 2006 non esistano dati certi mi è stato dichiarato dalla missione delle Nazioni unite in Afghanistan, Unama, attraverso una comunicazione personale del 18 novembre 2020 di Liam McDowall, Director of Strategic Communications dell’Unama.

9. I dati sui civili uccisi e feriti provengono dal report della missione delle Nazioni unite in Afghanistan, Unama, dal titolo: Afghanistan protection of civilian in armed conflicts, 2019, pubblicato da Unama nel febbraio del 2020 e consultabile al link: unama.unmissions.org/sites/default/files/afghanistan_protection_of_civilians_annual_report_2019.pdf.

10. The War Logs articles, in «The New York Times», 25 luglio 2010.

11. John Goetz e Marcel Rosenbach, I enjoy crushing bastards, in «Der Spiegel», 26 luglio 2010.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” l'1 settembre 2021. Riccardo Iacona ha sposato in tutto e per tutto la tesi di chi sostiene che Julian Assange, fondatore della piattaforma WikiLeaks, sia un eroe, che il processo contro di lui sia il più grande scandalo giudiziario della storia, paragonabile solo al caso Dreyfus, che il giornalista australiano si sia immolato nel nome della libertà di stampa: «Presadiretta», Rai3, lunedì. Nessuna voce a sollevare qualche dubbio, anzi in qualche momento ho avuto l'impressione della totale identificazione fra Assange e Iacona (qualcosa del genere era già successo con Ale Di Battista). Come fossimo ancora ai tempi dei leak del dipartimento di stato, quelli di Chelsea Manning, quando Assange appariva un paladino della libertà di stampa agli occhi di chi era contrario alla guerra in Iraq e di chi credeva nell'idea della trasparenza assoluta. Non che gli Usa non abbiano combinato guai nelle loro azioni in risposta all'attacco delle Torri Gemelle, ma Iacona ha evitato qualsiasi accenno alla forte simpatia di Assange per i governi autoritari, dalla Russia ai regimi latinoamericani, al ruolo di Wikileaks nella campagna di disinformazione della Russia nei confronti di Hillary Clinton. Va bene ascoltare la giornalista Stefania Maurizi o la moglie di Assange, ma forse Iacona avrebbe potuto fare lo sforzo di leggere qualche pagina del libro di Andrew O' Hagan, «La vita segreta», 2017, per farsi venire qualche dubbio. Assange è descritto come un piccolo despota, incoerente, bugiardo, viziato, paranoico, una sorta di rovescio grottesco delle istituzioni che attacca. Gli Usa hanno emesso una richiesta di estradizione per cospirazione nella violazione di un sistema informatico del governo americano: l'accusa è riferita al 2010, quando Chelsea Manning chiese aiuto ad Assange per violare la password di un computer del dipartimento della Difesa. L'hackeraggio è grande giornalismo?

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” l'8 settembre 2021. Per aver messo in discussione la puntata di «Presadiretta» (Rai3) dedicata a Julian Assange, ho ricevuto alcuni rilievi da Adriano Sofri e da Peter Gomez. Per loro, diversamente da quello che avevo sostenuto, quello di Assange è buon giornalismo. La mia critica si fondava su due punti essenziali. Il primo: il servizio di Riccardo Iacona era tutto in difesa di Assange, senza una sola voce contraria (il che non mi pare buon giornalismo). Il secondo: a differenza di Iacona, non sono convinto che Assange vada celebrato come un eroe dell'informazione libera e diretta, scevra dai filtri manipolatori dei media tradizionali e dei governi. Alla mia domanda se l'hackeraggio sia grande giornalismo, sia Sofri che Gomez rispondono di sì, a patto che il fine giustifichi i mezzi (alla machiavellica ragion di Stato si sostituisce una nuova, fantomatica ragion di Verità). Ma è giornalismo quello di Assange? Come hanno scritto Eugenio Cau e Paola Peduzzi, «Assange non ha mai fatto giornalismo d'inchiesta. Il metodo Wikileaks consisteva nel riversare masse di documenti segreti o riservati online, senza vaglio e senza contesto. È il contrario del giornalismo, e a causa di questo metodo Edward Snowden, il leaker della Nsa, ha avuto non poche discussioni con Assange. A chi oggi definisce Assange come «giornalista», andrebbe ricordato che lui stesso ha sempre preferito farsi definire come attivista (lo disse a Brian Stelter nel documentario «Page One», per esempio), e in quanto tale Assange ha sempre perseguito un'agenda politica» ( Il Foglio , 13 apr 2019). Con i documenti riservati provenienti dalla Russia, Assange è stato molto più cauto e selettivo, senza mai invocare la libertà di stampa. Ha usato la «trasparenza» a fasi alterne come, per esempio, nella campagna contro Hillary Clinton, non priva di conseguenze. Insomma, mi pareva ci fossero buoni motivi per non santificarlo su una rete del servizio pubblico italiano. Tutto qui.

Adriano Sofri per “il Foglio” l'8 settembre 2021. Ho un supplemento alla Piccola Posta sul programma di Iacona (ed Elena Marzano, Elisabetta Camilleri e Massimiliano Torchia) dedicato ad Assange, dopo aver letto l’autorevole recensione di Aldo Grasso per il Corriere. (…) Ho un’obiezione: l’eventuale parzialità o faziosità o peggio di Assange può essergli addebitata se si sia tradotta nel silenzio o nella reticenza sulle malefatte russe o di altre cattive compagnie, ma non riduce di un millimetro l’interesse dei chilometri di rivelazioni sulle malefatte degli Usa (e di altri numerosi stati e dei loro Servizi), se risultino veridiche. (...) L’hackeraggio che mette a disposizione del pubblico mondiale documenti autentici del modo di azione illegale e sleale degli stati, tanto più di quelli che si vogliono democratici, e dei loro servizi segreti, è una fonte formidabile di giornalismo, come mostra l’uso che ne hanno fatto il New York Times, il Guardian, lo Spiegel, il Monde e il Pais, e tanti altri. Wikileaks ha replicato all’argomento dei rischi cui le rivelazioni esporrebbero informatori e militari sul campo, che non c’è stato un solo caso in cui si siano realizzati. Infine, vorrei richiamare un dettaglio che a Grasso dovrebbe piacere, affascinante come un dilemma di filosofi sofisti: come si considererà l’hackeraggio che permette di svelare la registrazione permanente, segreta e illegale, dei movimenti e delle parole di Assange e dei suoi interlocutori nel ripostiglio dell’ambasciata ecuadoregna, lungo anni (e infine pubblicata dal Pais)? Chi ha spiato chi? Somiglia un po’ al paradosso del mentitore, no? Potremmo forse concordare che, simpatia o antipatia di Assange, c’è un uomo in una galera inglese minacciato di una galera senza scampo americana contro il quale sta la potenza accanita degli Stati Uniti e della loro influenza, fatta pesare platealmente. Non i soli Stati Uniti, ma mezzo mondo contro Julian Assange: sembra una buona ragione per mettere il proprio peso di piume sul suo piatto della bilancia.

Estratto dell'articolo di Peter Gomez per ilfattoquotidiano.it l'8 settembre 2021. (...) Grasso è un critico televisivo. E per noi la critica è sacra. Anche la sua. Se la trasmissione non gli è piaciuta, ha tutto il diritto di scriverlo. Noi non condividiamo, ma registriamo il punto di vista. Facciamo però qui notare che le eventuali, e tutte da dimostrare, pecche umane di un giornalista come Assange non possono essere il metro di valutazione del suo lavoro, a meno che non si voglia dare ragione al filosofo francese Paul Valéry secondo cui “Quando non si può attaccare un ragionamento, si attacca il ragionatore”. Il motivo per cui Fatti Chiari ha deciso di occuparsi della critica di Grasso è però un altro. Il suo articolo, dopo aver ricordato che Assange è accusato negli Usa di “cospirazione nella violazione di un sistema informatico” (i famosi documenti segreti sulla “guerra al terrore”), si conclude con una domanda: “L’hackeraggio è grande giornalismo?”. L’interrogativo merita risposta: sì, è grande giornalismo se, come in questo caso, i documenti smascherano le bugie di chi è al potere. È grande giornalismo se, come in questo caso, i documenti hanno un interesse pubblico perché dimostrano quanto chi era al potere abbia mentito sull’Afghanistan e l’Iraq. Assange è privato della libertà dal 2010 ed è detenuto in un carcere di massima sicurezza dal 2019. Cittadini e giornalisti di tutto il mondo, non necessariamente pacifisti come scrive Grasso, riconoscono che quelli di WikiLeaks sono stati tra i più grandi scoop della storia. E la pensano così pure tanti colleghi americani convinti che anche per Assange valga la celebre sentenza della Corte Suprema, che non sanzionò il New York Times per aver pubblicato nel 1971 i Pentagon Papers, un rapporto segreto sull’inizio della guerra del Vietnam, scatenata, al pari di quella in Iraq, sulla base di una bugia. Una sentenza in cui si legge: “Soltanto una stampa libera e senza limitazioni può svelare efficacemente l’inganno del governo. E di primaria importanza tra le responsabilità di una stampa libera è il dovere di impedire a qualsiasi parte del governo di ingannare le persone”. Fatti Chiari non è una rubrica pacifista. Chi scrive, dopo l’attentato alle Due Torri, era contrario alla guerra in Iraq, ma era favorevole (sbagliandosi) a quella in Afghanistan, perché quel Paese nascondeva Bin Laden. Fatti Chiari però ricorda i Pentagon Papers e pensa che Assange sia un paladino della libertà di stampa. Il fatto che Grasso, come altri, sospetti un ruolo dei russi nella successiva pubblicazione da parte di WikiLeaks delle email di Hillary Clinton, che contribuirono alla vittoria di Donald Trump nelle elezioni del 2016, non sposta di una virgola questo giudizio. Perché quelle email erano autentiche e dimostravano il supporto all’Isis, sotto lo sguardo Usa, da parte di Arabia Saudita e Qatar. Erano una notizia vera che gli elettori avevano il diritto di conoscere. #freeassange

Il programmatore e giornalista australiano. Chi è Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks che gli USA vogliono estradare per spionaggio. Antonio Lamorte su Il Riformista il 30 Agosto 2021. Julian Assange è incarcerato alla Her Majesty Prison Blemarsh di massima sicurezza a Londra e sulla sua testa pendono fino a 175 anni di carcere per accuse di spionaggio e pirateria informatica. È un giornalista, programmatore e attivista australiano, cofondatore e caporedattore di WikiLeaks. È diventato un personaggio emblematico e rappresentativo degli anni ’10: per alcuni un impostore, per altri un potenziale Premio Nobel per la Pace per la sua attività di informazione e trasparenza. Questa (a grandissime linee) la storia di un personaggio simbolico e controverso di questi anni – e dal finale ancora aperto – che concentra paradossi e sfide e interrogativi di questa epoca: sulla politica, la Giustizia e il giornalismo.

L’uragano WikiLeaks. Il nome di Assange è indissolubilmente legato a quello di WikiLeaks: sulla piattaforma, dove ha garantito alle fonti la massima protezione informatica, ha pubblicato fino a dieci milioni di “leak” tra informazioni riservate e documenti segreti di governi e apparati militari. I documenti hanno riguardato tra gli altri casi la repressione cinese della rivolta tibetana, la repressione dell’opposizione in Turchia, la corruzione nei Paesi arabi e le esecuzioni sommarie della polizia in Kenya. L’obiettivo principale però sono sempre stati gli Stati Uniti. WikiLeaks viene registrato nel 2006 e nel 2007 pubblica il manuale per le guardie carcerarie di Guantanamo. Al 2010 risale il cablegate: grazie alla fuga di notizie messa in atto dall’ex militare statunitense Chelsea Manning – imprigionata e poi scarcerata nel maggio 2017 – e alla collaborazione con diverse testate internazionali vengono pubblicati centinaia di migliaia di documenti sulle operazioni della coalizione internazionale in Afghanistan e in Iraq – e quindi di violenze indiscriminate anche su civili. Il materiale viene presentato in una conferenza stampa dallo stesso Assange. È a questo punto che il programmatore australiano diventa un personaggio ma anche un esempio e un bersaglio.

L’ambasciata dell’Ecuador. Alla fine del 2010 la magistratura svedese lancia un mandato di cattura per le denunce di stupro da parte di due donne svedesi. Assange replica di aver avuto solo rapporti consenzienti e si consegna alla polizia britannica. Dopo i domiciliari e la libertà vigilata il programmatore si rifugia presso l’ambasciata dell’Ecuador a Londra. È il 2012: Assange teme di essere estradato in Svezia e da lì negli USA. Il quotidiano spagnolo El Pais, su quei giorni, pubblicherà un’inchiesta scoop sullo spionaggio americano, tramite la società di sorveglianza UC Global, ai danni del programmatore. La cittadinanza ecuadoriana gli viene concessa dal Presidente Rafael Correa e revocata dal neo-eletto Lenin Moreno. L’11 aprile 2019 la polizia britannica entra nell’ambasciata e preleva Assange. Stella Morris, legale e compagna di Assange, assicura a Stoccolma che il programmatore è disposto a collaborare a condizione che venga scongiurata l’estradizione negli Stati Uniti. Intanto arriva una condanna di un tribunale di Londra, a 50 settimane, per la violazione della libertà vigilata quando Assange si è rifugiato nell’ambasciata ecuadoriana mentre il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti il 23 maggio 2019 aggiunge 17 capi di accusa – per 175 anni di carcere – a quello di pirateria informatica. Il sospetto agitato dagli statunitensi è che il fondatore di WikiLeaks sia un collaboratore della Russia – anche perché nel 2013 consiglia al whistleblower dell’Nsa americana Edward Snowden di rifugiarsi a Mosca.

L’estradizione. Ancora lontana una resa dei conti, tuttavia: il 19 novembre 2020 la magistratura svedese, per mancanza di prove, abbandona l’indagine per violenza sessuale e il 4 gennaio 2021 la giudice Vanessa Baraitser, della corte penale londinese di Old Bailey, nega l’estradizione in quanto le “condizioni mentali di Julian Assange sono tali che sarebbe inappropriato estradarlo negli Stati Uniti” e potrebbero portarlo al suicidio. Baraitser ha citato i diversi rapporti psichiatrici che hanno diagnosticato ad Assange la sindone di Asperger e una “grave depressione” causata dalla reclusione. Durante le udienze che si erano svolte nel mese di ottobre 2020 tra gli effetti personali del fondatore di WikiLeaks era stata trovata e confiscata una “mezza lama di rasoio”. Washington ha annuncia subito ricorso. Il relatore delle Nazioni Unite sulla tortura, Nils Melzer, a novembre 2020, aveva rinnovato l’appello per l’immediata liberazione di Assange e per il trasferimento ai domiciliari evidenziando “tutti i sintomi tipici di un’esposizione prolungata alla tortura psicologica”. “Non è una vittoria della libertà di stampa. Al contrario, il giudice ha detto chiaramente di credere che ci siano motivi per perseguire Assange per la pubblicazione dei documenti”, ha osservato su Twitter l’avvocato e giornalista statunitense Glenn Greenwald, fondatore di The Intercept che ha pubblicato una serie di articoli sul Guardian sui programmi segreti di intelligence a partire dalle rivelazioni di Snowden. “Julian non vede i suoi figli da ottobre – ha detto Stella Morris a Riccardo Iacona, conduttore e autore di Presa Diretta, tramissione di Rai3, per la puntata Julian Assange – Processo al giornalismo – da quando la prigione è stata chiusa per il Covid. Io non dico ai bambini che il loro padre è in prigione. Perché quando gli insegnerò che cos’è una prigione, gli dirò che è un posto dove finiscono i criminali, persone cattive che fanno cose cattive, non gli uomini buoni che hanno fatto cose buone. È in una cella di nove metri quadrati. Ed e lì da due anni e mezzo. Ed ora siamo arrivati al punto che ci sono solo due strade: o Julian riacquista la libertà o muore. E se muore, non è perché si è suicidato, è perché lo hanno ucciso”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Il ruolo chiave del corridoio di Wakhan in Afghanistan. Federico Giuliani su Inside Over il 29 agosto 2021. L’Afghanistan ha calamitato l’attenzione del mondo intero in seguito alla recente ascesa dei Talebani. Tolto di mezzo il fragile governo afghano supportato dagli Stati Uniti, l’organizzazione islamica è riuscita a prendere in mano il timone del Paese, martoriato da una ventennale guerra intestina. Gli analisti si interrogano adesso sul futuro di Kabul e, in particolare, su quale assetto geopolitico assumerà la nazione al termine di un inevitabile periodo di assestamento. Le prime impressioni lasciano poco spazio all’immaginazione. Con il ritiro del contingente americano e la sconfitta de facto delle istituzioni democratiche, tutto sarà nelle mani dei Talebani. È dunque fondamentale capire quali alleanze tesseranno costoro per mantenere il potere politico in equilibrio, cosa avranno da offrire alle superpotenze interessate a dialogare con loro e, infine, cosa potranno offrire in cambio. Da questo punto di vista, i riflettori sono puntati sulla Cina, desiderosa di estendere la propria ombra sull’Afghanistan in modo diametralmente opposto rispetto a quanto fatto nel recente passato dagli Stati Uniti. La propaganda cinese spinge molto su questo tasto: se Washington ha tentato (per giunta inutilmente) di plasmare il Paese a son di carri armati e militari, Pechino spera di riuscirci a colpi di accordi bilaterali, adottando cioè il classico comportamento pragmatico. Troppi, del resto, gli interessi che la Cina deve preservare nella regione: dalla Nuova Via della Seta al controllo dell’estremismo islamico, passando per l’influenza in Asia centrale.

Il Corridoio di Wakhan ai raggi X. Se prendiamo una cartina geografica dell’Afghanistan, notiamo un piccolo tratto di terra di questo Paese che confina con la Cina. Stiamo parlando della frontiera lunga appena 76 chilometri che la nazione afghana condivide con quella cinese. È proprio qui che si estende il cosiddetto Corridoio di Wakhan, una striscia terrestre che, usando un po’ di fantasia, assume le sembianze di un dito rivolto verso Pechino. Il Corridoio, che si snoda parallelamente alla catena montuosa del Pamir, si estende per circa 300 chilometri ed è largo tra i 12 e i 60 chilometri. In passato, la striscia è quasi sempre rimasta una zona sostanzialmente inaccessibile e periferica. Con l’avanzata dei Talebani, invece, la situazione si è capovolta, visto che il Corridoio di Wakhan è stato conquistato dall’organizzazione islamica nel corso della loro offensiva. Il Corridoio è un territorio dotato di una enorme importanza logistica, visto che da qui possono transitare in Cina (e viceversa, dalla Cina all’Afghanistan) merci di ogni tipo. Non a caso, lo scorso aprile, il governo afghano e Pechino si erano accordati per la costruzione di una strada di una decina di chilometri – investimento afghano di circa 5 milioni di dollari – che avrebbe dovuto collegare l’Afghanistan allo Xinjiang. Al momento tutto è congelato, ma non è da escludere che, data l’importanza della posta in gioco, i lavori possano riprendere fino al completamento dell’opera. Uno scenario del genere, d’altronde, consentirebbe alla Cina di migliorare la logistica ai fini dello sfruttamento delle risorse minerarie afghane, e all’Afghanistan di commerciare con il gigante asiatico ottenendo moneta sonante.

Gli interessi in gioco. La Cina è a conoscenza dell’enorme peso strategico dell’Afghanistan, e non ha certo intenzione di restare con le mani in mano. Pechino farà di tutto affinché il Corridoio di Wakhan diventi la via di accesso alle risorse minerarie afghane, le quali dovrebbero raggiungere, secondo alcune stime, a quasi mille miliardi di dollari. Il Corridoio, non a caso, fin dai tempi più remoti è stato il punto di giunzione più importante della Via della Seta. Questa striscia di terra è stata utilizzata come rotta commerciale da europei e cinesi per raggiungere le pianure indiane e le linee di comunicazione marittime dell’Oceano Indiano attraverso le coste del Mar Arabico. Lo stesso Corridoio, in chiave cinese, può essere utilizzato in combinazione con il porto di Gwadar, in Pakistan, così da fluidificare ulteriormente la Nuova Via della Seta in una regione altamente strategica per il controllo della regione asiatica. In ogni caso, data la posizione strategica dell’Afghanistan, la suddetta strada si collega a due obiettivi geopolitici cinesi. Il primo: incrementare a dismisura il commercio con l’Asia centrale a nord; il secondo: aumentare la connettività, come detto, con il porto pachistano di Gwadar. In fin dei conti, nonostante il terreno impervio, la strada rappresenta tutt’oggi il percorso più economico capace di collegare la Cina all’Asia centrale. Dulcis in fundo, un simile collegamento consentirebbe alle merci cinesi di penetrare, senza alcun ostacolo, nel mercato afghano. Senza considerare le altre promesse fatte da Pechino a Kabul, tra cui la costruzione di un progetto in fibra ottica.

Francesco Bechis per formiche.net il 29 agosto 2021. Charles Kupchan è senior fellow del Council on Foreign Relations (Cfr) e tra i massimi esperti americani di Cina. A dispetto delle apparenze, nel lungo periodo la presa talebana di Kabul sarà più un problema per Vladimir Putin e Xi Jinping di quanto non lo sia per Joe Biden, dice il politologo americano a Formiche.net, “l’Europa dovrebbe tenerne conto”. 

Putin e Xi si sono sentiti al telefono per discutere di Afghanistan. Siamo già al momento della spartizione?

Nel breve termine Cina e Russia trarranno beneficio dalla decisione americana, dalle scene di caos che arrivano da Kabul in queste ore. Entrambe le descriveranno come un fallimento delle politiche occidentali, cercheranno di sfruttare l’intera vicenda per rafforzare la cooperazione bilaterale. 

C’è anche un vantaggio economico?

Per la Cina sì: l’Afghanistan ha un grande appeal perché si presta bene alle infrastrutture e alle rotte commerciali della nuova Via della Seta. La Russia ha interesse a una maggiore presenza di intelligence sul campo e a garantire la sicurezza dei suoi uomini nella regione.

Nel lungo periodo Mosca e Pechino escono vincitrici?

Non esattamente. Putin e Xi assistono entusiasti alla disfatta americana in Medio Oriente, non c’è dubbio. Ma sanno anche che in questi vent’anni l’Afghanistan è stato un albatros politico per gli Stati Uniti e ha molto diviso l’opinione pubblica. A lungo andare la conquista talebana sarà più un problema per russi e cinesi di quanto non lo sia per Biden, che potrà tornare a concentrarsi sulle priorità politiche tradizionali.

Ad esempio?

Da una parte l’America sposterà risorse e uomini dal Medio Oriente all’Eurasia e all’Asia pacifica. Dall’altra si focalizzerà sulle sfide di politica interna. Gli Stati Uniti hanno speso sei trilioni di dollari nelle “guerre eterne”. Biden ora ha le mani libere per spendere quei soldi nelle infrastrutture, nel welfare e per aumentare gli standard di vita degli americani. 

Insomma, il ritiro da Kabul è una quasi vittoria sul piano interno?

Dobbiamo essere chiari: la fuga dall’Afghanistan rappresenta comunque un duro colpo per questa amministrazione. Le immagini che ci arrivano da Kabul sono terribili, tragiche, insostenibili. Ma è pur sempre un colpo temporaneo, e la ferita guarirà nel tempo. 

Il G7 si è mostrato diviso sul da farsi. Sui tempi del ritiro si rischiano attriti fra Stati Uniti e alleati europei?

Aspettiamo prima di commentare. È vero, Biden ha detto che gli americani non resteranno oltre il 31 agosto. Ed è perfettamente comprensibile la sua prova di forza nel G7. Ma in Afghanistan ci sono ancora migliaia di persone che cercano di uscire, fra cui cittadini statunitensi: dubito che la Casa Bianca faccia le valigie lasciandoli lì.

Al G20 l’Europa cercherà un compromesso con Cina e Russia. La mediazione può incrinare i rapporti con Washington? 

Non penso che gli europei possano permettersi il lusso di uscire dal perimetro dell’alleanza atlantica quando trattano con Cina e Russia. Credo piuttosto che abbiano un altro compito, più urgente.

Quale?

Separare la Russia dalla Cina, mettere altri chilometri fra Mosca e Pechino. Spingendo al contempo gli Stati Uniti verso una politica cinese che sia equamente suddivisa fra contenimento ed engagement.

Come?

L’amministrazione Biden ha avuto un approccio troppo in bianco e nero. Il questo momento storico il richiamo del presidente allo scontro fra democrazie e autocrazie è stato controproducente. Dopotutto la Cina è già presente in tutti i distretti del globo, l’idea di un decoupling o di un ritorno alle logiche da Guerra fredda fra blocchi non è realistica.

"Le mie parole...". Così Giorgia Meloni ha asfaltato chi la scredita. Francesca Galici il 30 Agosto 2021 su Il Giornale. La Meloni lancia l'allarme sulle mire dei talebani sul Pakistan. L'Espresso la attacca sui social ma la leader di Fdi si difende e va al contrattacco. Dopo la presa di ferragosto di Kabul da parte dei talebani, gli scenari geopolitici si sono fatti molto più complessi. Il Medioriente è una corda di violino straordinariamente tesa e l'incertezza domina sovrana in molti Paesi. Traendo spunto da un articolo del Corriere della sera dal titolo "La vittoria talebana e le mire sul Pakistan nucleare", Giorgia Meloni in settimana ha rilasciato alcune dichiarazioni con cui ha alzato l'allerta su quanto potrebbe accadere nei prossimi mesi. Le sue parole sono state, però, utilizzate dal settimanale L'Espresso per deridere la leader di Fratelli d'Italia sulle sue presunte poche conoscenze di geopolitica. Durante il meeting di Comunione e liberazione, parlando di "conseguenze geopolitiche imprevedibili" dopo i fatti di Kabul, Giorgia Meloni ha sottolineato come il Pakistan, uno Stato islamico dotato di bomba atomica, "rischia di finire sotto controllo dei talebani". Niente di nuovo per chi conosce le dinamiche di quelle realtà, come infatti spiega il Corriere della sera, che riprende a sua volta The Economist: "La presa di Kabul apre la strada alla destabilizzazione di fatto del Pakistan. Con ogni probabilità, non appena i talebani avranno consolidato il potere, tra le altre cose rivolgeranno lo sguardo verso il Paese confinante, con l’obiettivo di influenzarlo seriamente". Tuttavia, le parole di Giorgia Meloni sono finite nel calderone de L'Espresso tra le "dichiarazioni peggiori della settimana" in un articolo dal titolo "Meluzzi e la geopolitica di Giorgia Meloni: vota il peggio". Sfuggendole il motivo per il quale la sua dichiarazione sul Pakistan sia da considerare tra le peggiori della settimana, la leader di Fratelli d'Italia non ha mancato di replicare a L'Espresso, ribadendo quanto già detto. "La disastrosa gestione del disimpegno dall’Afghanistan da parte di Biden apre scenari inquietanti", ha scritto Giorgia Meloni. La leader di FdI, quindi, spiega quali siano questi scenari: "La vittoria dei talebani in Afghanistan rischia di galvanizzare gli integralisti islamici in tutto il mondo, e il 'bottino' più ricco al quale puntare è per loro il controllo del Pakistan e della sua bomba atomica". Un'analisi non inedita quella di Giorgia Meloni, che consiglia la lettura dell'articolo del Corsera anche ai giornalisti de L'Espresso, "che hanno inserito la mia dichiarazione su questo esatto tema nello "stupidario" della settimana".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

"Agiografia...", "Richiesta di censura...": è scontro per il servizio del Tg2 su Meloni e Orban. Francesca Galici il 29 Agosto 2021 su Il Giornale. Il Tg2 informa sull'incontro tra Giorgia Meloni e Viktor Orban e della commissione Vigilanza Rai scattano le proteste per la messa in onda del servizio. Nelle scorse ore, Giorgia Meloni ha incontrato il premier ungherese Viktor Orbán, che si trova in Italia per alcuni giorni di vacanza e per partecipare al meeting della rete internazionale dei legislatori cattolici (ICLN). Oggetto dell'incontro, al quale hanno partecipato anche il ministro per la Famiglia e vice presidente di Fidesz, Katalin Novak, e il responsabile Esteri di FdI, Carlo Fidanza, sono stati i temi di più stretta attualità, incluso l'Afghanistan. Tuttavia, la notizia dell'incontro data dall'edizione serale del Tg2, ha scatenato le polemiche da parte degli oppositori di Fratelli d'Italia, ai quali ha prontamente replicato Daniela Santanchè. Ad alzare la voce contro il telegiornale del secondo canale Rai è stato Michele Anzaldi, deputato di Italia viva e segretario della Vigilanza Rai. In un'intervista rilasciata a Vigilanza Tv, l'esponente del partito di Matteo Salvini dichiara: "Il Tg2 confeziona uno spot a favore della leader di Fratelli d'Italia e del suo alleato Orbán, esaltando i successi del regime ungherese senza evidenziarne le tante ombre". Quindi, Anzaldi rincara: "Tornando all'agiografia dell'Ungheria di Orbán e della Cina di Xi Jinping da parte del Tg2 voglio ribadire che ci troviamo in una congiuntura delicatissima, con una situazione internazionale a dir poco infuocata, esacerbata da un pericolo terroristico tornato prepotentemente incalzante". Il segretario della Vigilanza Rai poi prosegue: "Sarebbe il caso di ricordare che siamo un Paese inserito in un patto Atlantico, e a maggior ragione il servizio pubblico pagato dal canone dovrebbe andarci cauto con le strizzate d'occhio a regimi nel mirino della comunità internazionale per la loro politica repressiva". E in conclusione chiama in causa i nuovi eletti ai vertici della Rai: "Cosa ne pensano Carlo Fuortes e Marinella Soldi, ma anche le istituzioni, l'ambasciata americana, di tali derive da parte di un Tg nazionale?"". A Michele Anzaldi ha risposto Daniela Santanchè, senatrice di Fratelli d'Italia: "La leader dell'opposizione incontra un premier straniero, il Tg2 ha la 'balzana' idea di darne notizia e scatta subito la richiesta di censura dei Buoni e dei Migliori". L'esponente del partito di Giorgia Meloni, nonché capogruppo nella Commissione parlamentare di Vigilanza sulla Rai, ha concluso: "Li spaventa così tanto Giorgia Meloni, che puntano proprio a impedire se ne parli".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Il ritiro Usa dall’Afghanistan e dall’Iraq e il dilemma delle rotte energetiche. Andrea Muratore su Inside Over il 29 agosto 2021. Il ritiro statunitense dall’Afghanistan e il ritorno al potere dei Talebani a Kabul riportano al punto di partenza l’orologio della storia a due decenni esatti dall’inizio dell’intervento di Washington nel Paese centroasiatico. Gli Stati Uniti lasciano la tomba degli imperi da superpotenza confusa e sorpresa dall’improvvisa avanzata degli studenti coranici, ma letta in un quadro più ampio l’uscita dal Paese ha potenziali determinanti geostrategiche che andranno valutate sul lungo periodo. Non si può non leggere l’uscita degli Usa dall’Afghanistan dopo vent’anni con il parallelo, e pressoché contemporaneo, annuncio del ritiro dei 2.500 soldati rimanenti in Iraq in una missione di combattimento diciotto anni dopo la guerra che pose fine al regime di Saddam Hussein, ufficializzato dopo l’incontro tra il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, e il primo ministro iracheno, Mustafa al-Kadhimi, andato in scena alla Casa Bianca il 26 luglio scorso. Tra le chiavi di lettura che possono essere applicate alla complessa decisione di procedere, in pochi mesi, alla fine sostanziale delle lunghe, logoranti e problematiche endless wars che hanno visto gli Stati Uniti molto lontani dal realizzare i propositi strategici del 2001 e del 2003 non va sottovalutata la questione energetica. La presenza statunitense in Afghanistan e Iraq, a lungo, ha infatti condizionato le evoluzioni dei mercati internazionali dell’energia, principalmente del petrolio che ha nel Golfo Persico il suo epicentro. Intendiamoci: la storia recente ci conferma che le guerre mediorientali non ebbero il petrolio in sé e per sé come obiettivo strategico. Questo chiaramente si può affermare con certezza per l’Afghanistan ma si può ribadire anche per l’Iraq, data la condizione fatiscente e disastrosa in cui versa l’industria petrolifera nazionale a quasi due decenni dalla guerra. Però è indubbio che gli Usa avessero interesse a incunearsi nella regione ritenuta, a inizio millennio, più strategica su scala globale per condizionarne l’evoluzione e le dinamiche. Mettendo in particolare pressione a un nemico implacabile di Washington, l’Iran, e a un alleato ambivalente e riluttante come l’Arabia Saudita, rivali storici tra di loro ma entrambi membri del cartello petrolifero dell’Opec. Mettendo gli stivali sul terreno in Medio Oriente, Washington ha indubbiamente conseguito un risultato non secondario nell’ultimo ventennio: destabilizzare l’assetto di potere dell’Opec, alimentando le faglie interne tra sunniti e sciiti, condizionare l’evoluzione delle rotte e delle infrastrutture di trasporto dell’energia con la presenza in Afghanistan, fattore di condizionamento anche e soprattutto per il rivale cinese. Dopo l’era di George W. Bush, in ogni caso, le amministrazioni di Barack Obama e Donald Trump, anche nella fase di contrasto all’insorgenza dell’Isis, hanno fatto del ritiro da Iraq e Afghanistan un sostanziale obiettivo. E non è un caso che a cambiare non siano stati solo la condizione dell’opinione pubblica Usa, sempre più stanca delle guerre mediorientali, o la situazione sul terreno ma anche i mercati energetici e il ruolo degli Usa al loro interno. La scoperta di massicci giacimenti di shale oil e shale gas ha proiettato gli States in testa alla classifica dei produttori su scala globale e reso Washington in certi ambiti un esportatore netto, tanto che Trump ha promosso nel suo quadriennio di governo un’aggressiva strategia di conquista di nuovi mercati volta a plasmare l’energy dominance americana. In quest’ottica, la necessità di una presenza strategica volta a condizionare da vicino i mercati energetici mediorientali si è gradualmente affievolita, anche considerato il fatto che le conseguenze di medio-lungo periodo dell’intervento Usa sono sul fronte energetico maturate secondo i desideri di Washington: aperta conflittualità tra fronte sunnita e Iran nell’Opec; perdita del potere univoco di condizionamento dei mercati globali da parte dell’Arabia Saudita; necessità di accordi politici sul prezzo tra Paesi Opec che aiutano i produttori di shale oil americani, desiderosi di prezzi alti; accelerazione della transizione di alcuni Paesi, Qatar in testa, verso il gas naturale liquefatto. Venendo meno una determinante urgente della presenza in Medio Oriente e deteriorandosi la situazione sul terreno, è logico supporre che l’uscita da Iraq e Afghanistan possa nel conto dei decisori strategici avere anche una motivazione di tipo energetico. Il rischio per gli Usa è tuttavia legato alla prospettiva che associa l’importanza geopolitica del Grande Medio Oriente unicamente ai suoi tesori energetici o, nel caso dell’Afghanistan, al suo immenso bottino di materie prime. Sconfitta in Afghanistan e di fatto costretta a un esito inconcludente in Iraq la superpotenza a stelle e strisce fa come la volpe con l’uva e, non potendo cantare vittoria, dichiara compiuto il suo impegno ricordando che i fronti caldi per Washington sono oramai altrove, nell’Indo-Pacifico e di fronte alla Cina. Ma nel mondo complesso dell’era globale il mondo del Medio Oriente non cessa di essere strategico sul fronte geopolitico: l’Iraq è cerniera cruciale tra Asia Minore, Mediterraneo e Golfo, mentre tra le valli e i picchi dell’Afghanistan possono passare rotte strategiche per la connettività euroasiatica, nel quadro di quelle nuove vie della seta che la Cina intende promuovere e gli Usa avversano. La regione insiste inoltre tra Mar Mediterraneo, Mar Rosso, Oceano Indiano, la nuova giugulare cruciale per i commerci marittimi internazionali ed è abitata da popolazioni sempre più desiderose di nuovi livelli di sviluppo, giovani e incandescenti. Un’area di mondo che produce più storia di quanta ne possa sopportare e che pure ignorata non scomparirà. Non è solo una questione di gas e petrolio: e gli Usa di Biden, che con la transizione ecologica accelerata sperano di potersi mettere alle spalle questa contingenza che rende il Medio Oriente cruciale sul fronte energetico, non tarderanno ad accorgersene.