Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2021
L’ACCOGLIENZA
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’ACCOGLIENZA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Muri.
Schengen e Frontex. L’Abbattimento ed il Controllo dei Muri.
Gli stranieri ci rubano il lavoro?
Quei razzisti come…
Il Sud «condannato» dai suoi stessi scrittori.
Quei razzisti come gli italiani.
Quei razzisti come gli spagnoli.
Quei razzisti come i francesi.
Quei razzisti come i belgi.
Quei razzisti come gli svizzeri.
Quei razzisti come i tedeschi.
Quei razzisti come gli austriaci.
Quei razzisti come i polacchi.
Quei razzisti come i lussemburghesi.
Quei razzisti come gli olandesi.
Quei razzisti come gli svedesi.
Quei razzisti come i danesi.
Quei razzisti come i norvegesi.
Quei razzisti come i serbi.
Quei razzisti come gli ungheresi.
Quei razzisti come i rumeni.
Quei razzisti come i bulgari.
Quei razzisti come gli inglesi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quei razzisti come i greci.
Quei razzisti come i maltesi.
Quei razzisti come i turchi.
Quei razzisti come i marocchini.
Quei razzisti come gli egiziani.
Quei razzisti come i somali.
Quei razzisti come gli etiopi.
Quei razzisti come i liberiani.
Quei razzisti come i nigeriani.
Quei razzisti come i Burkinabè.
Quei razzisti come i ruandesi.
Quei razzisti come i congolesi.
Quei razzisti come i sudsudanesi.
Quei razzisti come i giordani.
Quei razzisti come gli israeliani.
Quei razzisti come i siriani.
Quei razzisti come i libanesi.
Quei razzisti come gli iraniani.
Quei razzisti come gli emiratini.
Quei razzisti come i dubaiani.
Quei razzisti come gli arabi sauditi.
Quei razzisti come gli yemeniti.
Quei razzisti come i bielorussi.
Quei razzisti come gli azeri.
Quei razzisti come i russi.
INDICE TERZA PARTE
Quei razzisti come gli Afghani.
La Storia.
L’11 settembre 2001.
Il Complotto.
Le Vittime.
Il Ricordo.
La Cronaca di un’Infamia.
Il Ritiro della Vergogna.
La presa del Potere dei Talebani.
Media e regime.
Il fardello della vergogna.
Un esercito venduto.
Il costo della democrazia esportata.
INDICE QUARTA PARTE
Quei razzisti come gli Afghani.
Fuga da Kabul. Il Rimpatrio degli stranieri.
L’Economia afgana.
Il Governo Talebano.
Chi sono i talebani.
Chi comanda tra i Talebani.
La Legge Talebana.
La Religione Talebana.
La ricchezza talebana.
Gli amici dei Talebani.
Gli Anti Talebani.
La censura politicamente corretta.
I bambini Afgani.
Gli Lgbtq afghani.
Le donne afgane.
I Terroristi afgani.
I Profughi afgani.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quei razzisti come i giapponesi.
Quei razzisti come i sud coreani.
Quei razzisti come i nord coreani.
Quei razzisti come i cinesi.
Quei razzisti come i birmani.
Quei razzisti come gli indiani.
Quei razzisti come gli indonesiani.
Quei razzisti come gli australiani.
Quei razzisti come i messicani.
Quei razzisti come i brasiliani.
Quei razzisti come gli haitiani.
Quei razzisti come i venezuelani.
Quei razzisti come i cubani.
Quei razzisti come i canadesi.
Quei razzisti come gli statunitensi.
Kennedy: Le Morti Democratiche.
La Guerra Fredda.
La Variante Russo-Cinese-Statunitense.
INDICE SESTA PARTE
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Olocausto dimenticato. La lunga amicizia tra Hitler e Stalin.
Gli olocausti comunisti.
E allora le foibe?
Il Genocidio degli armeni.
Il Genocidio degli Uiguri.
La Shoah dei Rom.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Chi comanda sul mare.
L’Esercito d’Invasione.
La Genesi di un'invasione.
Quelli che …lo Ius Soli.
Gli Affari dei Buonisti.
Quelli che…Porti Aperti.
Quelli che…Porti Chiusi.
Due “Porti”, due Misure.
Cosa succede in Libia.
Cosa succede in Tunisia?
L’ACCOGLIENZA
SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le prigioni dei migranti nel cuore di Lesbo, diventata il limbo d’Europa. “Mai più”, giurò la Ue dopo il rogo della collina lager di Moira. E invece un anno dopo non è cambiato niente: profughi in attesa, rimpatri illegali. E carcere. Francesca Mannocchi La Repubblica l'8 dicembre 2021. Sul muro che circonda la collina di Moria campeggiano ancora due scritte: Welcome to Europe e Human rights graveyard (Benvenuti in Europa, Cimitero dei diritti umani). È la sintesi, spietata, di cosa è stato per migliaia di persone vivere nell’hotspot di Moria, Lesbo, fino all’otto settembre dello scorso anno quando un incendio ha distrutto tutto. Oggi il terreno intorno alla struttura è deserto, non ci sono più tende, né le baracche costruite con pezzi di alberi e plastica, sono vuoti i container, la guardiola, la torretta che sovrasta il cancello, così come l’area che era stata adibita a prigione per tutti i richiedenti asilo la cui richiesta era stata respinta e perciò destinati al rimpatrio.
Gianluca Perino per "il Messaggero" il 20 settembre 2021. «I greci ci hanno picchiato, tolto i telefonini e l'acqua. Poi hanno staccato il motore dal gommone, lo hanno buttato via e ci hanno spinto al largo, alla deriva». Mentre parla, Samir mima i calci e i pugni ricevuti. È seduto, assieme ad un'altra ventina di migranti, sulla parte posteriore di una vedetta della Guardia Costiera turca. Hanno pagato 400 dollari a testa a dei mercanti di uomini per arrivare da Smirne fino alle coste greche. Un viaggio non impossibile e decisivo, perché poi si prosegue via terra verso il nord Europa, verso il sogno della Germania, della Svezia o addirittura dell'Inghilterra. Sono siriani, somali, eritrei, con loro anche un ragazzo che viene da Gibuti. Ma il progetto di questi disperati, la scorsa notte, si è infranto contro il muro greco. «Ci riproveremo», dicono. E in realtà qualcuno confessa di essere già al secondo o al terzo tentativo. Li hanno soccorsi i militari di Ankara a quaranta chilometri al largo di Cesme, una cittadina nel sud ovest del paese che si affaccia sul mar Egeo. Qui ci sono tanti hotel di lusso, spiagge attrezzate con tutti i comfort. E, malgrado sia già settembre inoltrato, è pieno di turisti. Che non percepiscono nemmeno lontanamente quello che succede, ogni giorno, nel mare di questo splendido angolo di Turchia.
LA NOTTE Lontano, al largo, quasi sempre di notte, va in scena infatti quella che è diventata una vera e propria battaglia del mare. Il copione, drammatico, sempre lo stesso: i migranti provano ad arrivare in Grecia, ma la Guardia costiera di Atene li respinge, utilizzando i metodi che Samir, e tanti altri come lui, raccontano sempre più frequentemente. E il rischio che prima o poi ci scappi una strage è alto, soprattutto nei mesi in cui le condizioni meteo peggiorano sensibilmente. Lo sanno bene gli uomini della Guardia Costiera turca, che ogni giorno intervengono per salvare i profughi che Atene rispedisce nelle loro acque. Ankara ha messo in campo uomini e mezzi in un numero sempre crescente. Le vedette, tra quelle molto veloci e quelle più capienti, sono più di una ventina soltanto per quanto riguarda l'aera di Smirne.
L'IRRITAZIONE DI ANKARA C'è forte irritazione, da parte turca, per come la Grecia sta gestendo il dramma dei migranti al largo delle coste. Grecia che, da parte sua, ha sempre smentito di utilizzare metodi così estremi, anche se le testimonianze degli immigrati e degli ufficiali turchi che intervengono in mare raccontano tutta un'altra storia. Non solo. I respingimenti in atto da qualche tempo a questa parte dell'Egeo sono stati documentati anche dalla Commissione per i diritti umani del Consiglio d'Europa e dall'Alto commissariato Onu per i rifugiati. Si tratta di una pratica illegale ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati e del diritto internazionale, ma per il momento, di fatto, nessuno è ancora intervenuto a mettere un po' di ordine in questa vicenda drammatica dal punto di vista umanitario ma anche complessa dal punto di vista più politico.
IL CASO DI LESBO Le storie che arrivano da questa striscia di mare, nemmeno troppo lontana dall'Italia, sono spesso drammatiche. E raramente a lieto fine. Il comandante dei gruppi di intervento della Guardia Costiera, che preferisce restare anonimo per motivi di sicurezza, racconta che una volta sono dovuti intervenire per salvare un gruppo di migranti che era sbarcato sulle coste dell'isola greca di Lesbo. «Erano riusciti ad entrare in un bosco - dice - ma qui sono stati catturati dalla polizia greca, che dopo averli picchiati ed averli privati di telefonini e giubbotti salvagente, li ha rimessi su dei gommoni e rispediti al largo nelle nostre acque». Con loro c'era anche una donna incinta di otto mesi. «Purtroppo due persone non ce l'hanno fatta - racconta ancora il comandante - perché, come tanti altri che si imbarcano dall'Africa, non sapevano nuotare. Per fortuna, però, siamo riusciti a portare velocemente in ospedale la ragazza: non era in buone condizioni, ma i medici l'hanno fatta partorire in anticipo e, alla fine, lei e il bambino sono stati bene».
I NUMERI Lo sforzo messo in campo dalla Guardia Costiera turca nell'ultimo periodo è importante. Soltanto nel 2021, i dati sono riferiti fino al 15 settembre, hanno portato in salvo 8.423 migranti che erano alla deriva. Non solo. Nella loro attività di search and rescue sono riusciti anche ad arrestare oltre quaranta mercanti di uomini. Ma l'impressione è che questa battaglia sarà ancora lunga. «Io e i miei uomini - spiega il comandante - siamo allerta 24 ore su 24. È un impegno duro da portare avanti ma siamo orgogliosi, perché riusciamo a salvare ogni giorno decine di vite».
(ANSA il 21 agosto 2021) - La Grecia ha eretto una barriera dotata di un sistema di sorveglianza lungo un tratto di 40 chilometri del suo confine con la Turchia per fermare un'eventuale ondata di migranti dall'Afghanistan. Lo riporta la Bbc. "Non possiamo aspettare passivamente il possibile impatto", ha detto ieri il ministro della Protezione dei cittadini, Michalis Chrisochoidis, durante una visita nella regione di Evros: "I nostri confini rimarranno inviolabili". Le dichiarazioni di Chrisochoidis seguono i commenti del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, secondo il quale un forte aumento della popolazione che lascia l'Afghanistan potrebbe rappresentare "una seria sfida per tutti". Secondo Erdogan "una nuova ondata di migrazione è inevitabile se le misure necessarie non vengono prese in Afghanistan e in Iran". Da parte sua, Chrisochoidis ha osservato che la crisi afgana ha creato nuove "possibilità per i flussi di migranti" in Europa.
Un muro d’acciaio e cannoni sonori: così la Grecia blinda la frontiera per tenere fuori i migranti. Una nuova barriera è in costruzione per respingere i flussi dalla Turchia. Dove l’anno scorso Erdogan fece ammassare migliaia di profughi per premere su Bruxelles. Elena Kaniadakis su L'Espresso il 22 luglio 2021. «Lì comincia l’Asia»: Giorgos Chalpakis indica una macchia grigia nella boscaglia verde di fronte a lui. Oltre gli alberi, nella cappa di calore estivo che pesa sulla Tracia, si intravedono gli edifici bianchi dei villaggi turchi. «Alle mie spalle invece ci sono solo campi, campi a perdita d’occhio fino alla Bulgaria: ma con una bandiera greca ben piantata in terra» puntualizza il signor Giorgos. Osservata più da vicino, la macchia grigia non è altro che una barriera in acciaio, alta cinque metri, piantata su fondamenta in calcestruzzo lungo il corso del fiume Evros, Maritsa per i bulgari, Meriç per i turchi, che segna il confine tra Grecia e Turchia, prima di tuffarsi nell’Egeo. Un nuovo muro, lungo 27 chilometri, è in costruzione nella regione per bloccare i flussi migratori e difendere i confini dopo gli episodi del marzo dell’anno scorso, quando Erdogan fece ammassare alla frontiera migliaia di profughi per fare pressione sull’Europa. In questo confine militarizzato, dove la polizia, l’esercito e gli agenti di Frontex pattugliano i campi e la boscaglia, le mucche al pascolo e le anatre che popolano il fiume sono le uniche a muoversi liberamente all’ombra del muro. L’anno scorso, ufficialmente, 46 migranti hanno perso la vita nel tentativo di attraversare la regione: la maggior parte è annegata nell’Evros. Lungo la strada sterrata che conduce all’abitato di Poros, dove è in costruzione un nuovo segmento della barriera, i veicoli di Frontex danno il cambio ai trattori degli abitanti. Nel paese accanto, Feres, un cartello sbiadito ricorda in altro modo che quel lembo di terra è ancora Europa: la chiesa bizantina, unico edificio a rompere la monotonia delle case a un piano con i tetti di tegole, è stata restaurata – si legge – grazie ai fondi dell’Unione europea. Chi, come Chalpakis, da Feres non se ne è andato, lavora nei campi di mais, cocomeri e meloni. L’inquietudine che ha afferrato la comunità nel marzo dell’anno scorso non c’è più, ma la diffidenza rimane. «I visitatori che fanno domande sono spie delle Ong», avverte un residente all’entrata del paese. Le ronde armate per catturare i migranti sembrano a loro volta acqua passata: «Oggi c’è più polizia e ci sentiamo protetti, ma se occorre i proprietari controllano che nessuno entri nei loro campi», commenta allusivo un altro residente. Il muro è una barriera fisica, ma anche digitale: la pandemia ha offerto l’occasione per testare nuove tecnologie di sorveglianza, come telecamere a lungo raggio e cannoni sonori, dispositivi acustici capaci di riprodurre suoni insopportabili per l’orecchio umano, il cui utilizzo è stato oggetto di dibattito in ambito europeo. «Ritengo sia uno strano modo di proteggere i confini», ha commentato la commissaria per gli Affari interni Ylva Johansson. «Ma la Grecia non rischia, per questo, la procedura di infrazione». Per Chrysovalantis Gialamas, presidente dell’Unione della polizia di frontiera dell’Evros, si tratta di polemiche inutili: «Siamo abituati a manifestare la nostra presenza ai trafficanti attraverso segnali luminosi o sonori», spiega il poliziotto. Sull’efficacia del muro, non ha dubbi: «Se a Kastanies non ci fosse stata la barriera, a quest’ora avremmo dovuto affrontare problemi ben più gravi». Il paese di Kastanies, valico ufficiale tra Grecia e Turchia, è stato l’epicentro degli scontri dell’anno scorso tra esercito e migranti accalcati lungo la frontiera. Dalla zona, nelle giornate più limpide, si distinguono chiaramente i minareti di Edirne, simbolo di questo territorio conteso nei secoli: un tempo capitale dell’Impero ottomano, la città venne ceduta ai bulgari nel primo Novecento, poi ai greci, con il nome di Adrianopoli, e infine alla Turchia. Da qui parte la maggior parte dei migranti diretti in Europa, con l’obiettivo di raggiungere presto Salonicco, la prima grande città lungo il cammino: più si rimane vicino alla frontiera, infatti, più il rischio di essere espulsi aumenta. Secondo Amnesty International almeno mille persone, l’anno scorso, sarebbero state respinte illegalmente dalla regione dell’Evros in Turchia. «Documentiamo i respingimenti in Grecia dal 2013», spiega Jennifer Foster, ricercatrice di Amnesty. «Ma oggi appare più chiaro il coordinamento con cui le autorità e persone in abiti civili, non identificate, respingono in maniera sistematica i migranti, alcuni dei quali hanno perfino i documenti che attestano il loro status di rifugiati». A mezz’ora di macchina a sud di Kastanies, lungo il confine con la Turchia, si incontra il paese di Didymoteicho. Accanto al sito di una moschea ottomana in rovina, tra le più antiche presenti in Europa, si trova la stazione degli autobus. È qui che nel 2016 Fady, un rifugiato siriano residente in Germania, era giunto alla ricerca del fratello di 11 anni, scomparso nell’Evros dopo avere attraversato il confine con l’obiettivo di raggiungerlo. Fady stava mostrando ai passanti la foto del fratello nella speranza che qualcuno lo riconoscesse, quando degli agenti di polizia lo hanno avvicinato nel piazzale: da quel momento, nel giro di poche ore, Fady è stato arrestato, detenuto, privato dei documenti di identità, a nulla sono servite le sue proteste in un tedesco stentato, e respinto a forza in Turchia assieme ad altri migranti. È l’inizio di un incubo durato tre anni, durante i quali Fady ha lottato contro la burocrazia del consolato tedesco a Istanbul per riottenere i suoi documenti, ha iniziato ad avere problemi di cuore e per 13 volte ha tentato di raggiungere clandestinamente l’Europa, finché, nel 2019, è riuscito a riprendere possesso dei documenti e a stabilirsi di nuovo in Germania. «Credevo che quel giorno non sarebbe mai arrivato», racconta Fady. «Ma anche quando ho avuto la carta di identità tra le mani, riuscivo a pensare a una sola cosa: trovare mio fratello». Il caso di Fady è il secondo, relativo ai respingimenti illegali, sottoposto al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, e il primo contro la Grecia. A occuparsene sono le Ong Glan e HumanRights360: «Fady è stato sia vittima di respingimento in base al diritto internazionale che espulso illegalmente in quanto residente dell’Unione europea» spiega Valentina Azarova, una degli avvocati di Glan che assiste Fady. «Il nostro obiettivo è ottenere un risarcimento per gli anni che gli sono stati sottratti, e allo stesso tempo far sì che il respingimento venga considerato l’esito di una prassi consolidata nella regione». Il ministro greco per l’Immigrazione, Notis Mitarachi, ha sempre sostenuto che la politica migratoria del Paese sia «severa ma giusta» e che la guardia costiera e la polizia operino nel rispetto delle leggi internazionali. «Le storie di respingimenti illegali sono menzogne diffuse dai trafficanti di esseri umani», sostiene Gialamas. «Molti dei poliziotti che lavorano nell’Evros discendono da famiglie greche espulse dalla Bulgaria o dalla Turchia: sappiamo bene cosa voglia dire sentirsi immigrati». Fady ricorda che gli agenti che lo hanno spinto a forza su una barca per riportarlo in Turchia avevano il volto coperto e intimavano di non guardarli. «I responsabili di queste violenze agiscono nell’impunità, ma l’Europa deve sapere cosa fanno», sostiene. Il suo caso non è unico: le Ong che monitorano la regione hanno documentato altre storie simili. «Sconsigliamo sempre di tornare nell’Evros perché è molto rischioso», spiega Natalie Gruber della Ong Josoor. «Ci siamo occupati di cinque rifugiati con la residenza in Austria o in Germania che sono stati respinti illegalmente in Turchia e abbiamo lavorato anni per permettergli di tornare in Europa. Chi viene in aiuto dei propri familiari, inoltre, corre il rischio di essere accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina». Per le famiglie dei migranti dispersi, la regione dell’Evros è un buco nero nella mappa dell’Europa: «Non esistono indagini sulle sparizioni», spiega Azarova. «E i corpi trovati nel fiume dai pescatori spesso non vengono identificati perché le famiglie hanno scarso accesso a questo tipo di informazioni. Il Mediterraneo è stato definito un cimitero umano: l’Evros lo è altrettanto». Per gli abitanti di Feres, l’unico modo per avvicinarsi al fiume è ottenere un permesso per andare a caccia o lavorare nei campi. «Il nostro è solo un territorio di passaggio. Non è qui che si possono trovare le risposte a quello che sta accadendo», riflette Chalpakis studiando il confine. «Il muro fermerà queste persone? No, nessuno di noi si illude a tal punto». Da quando è stato respinto in Turchia, Fady non è più tornato nell’Evros. Il fratello, che oggi avrebbe 16 anni, risulta ancora disperso. Ogni tanto il dolore al cuore, per cui è in cura farmacologica, ritorna: «Quando il dottore in Germania mi ha visitato per la prima volta era sorpreso che un paziente della mia età avesse un problema del genere: “Cosa ti è successo?” Mi ha chiesto. Non importa con quanto impegno cerchi le parole per raccontare quello che ti hanno fatto», riflette Fady: «Certe parole, semplicemente, non esistono».
· Quei razzisti come i maltesi.
Monica Ricci Sargentini per il "Corriere della Sera" il 30 luglio 2021. «Lo Stato dovrebbe assumersi la responsabilità dell'assassinio» di Daphne Caruana Galizia, la giornalista investigativa maltese uccisa con una bomba piazzata nella sua auto il 16 ottobre 2017 che invece di essere protetta è stata esposta ai suoi nemici da un governo corrotto i cui «tentacoli» sono arrivati fino ai vertici della polizia. È un giudizio pesantissimo quello contenuto nel rapporto finale dell'inchiesta pubblica condotta - dopo le pressioni del Consiglio d'Europa - da una commissione composta dagli ex presidenti del Tribunale Michael Mallia, Joseph Said Pullicino e Justice Abigail Lofaro. Nel corso degli ultimi due anni, l'indagine chiesta dalla famiglia della giornalista ha portato alla testimonianza di decine di persone, compresi investigatori, politici e giornalisti. Hanno testimoniato anche l'ex premier Joseph Muscat (dimessosi sull'onda delle proteste), l'ex capo di gabinetto Keith Schembri e l'ex ministro dell'Energia e poi del Turismo Konrad Mizzi (l'unico che ha rifiutato di rispondere in Aula). L'obiettivo era stabilire se lo Stato maltese avesse fatto tutto il possibile per proteggere la giornalista e poi perseguire i responsabili dell'omicidio. La risposta è stata un sonoro «no». Lo Stato, hanno scritto i giudici nel rapporto di 437 pagine, «ha creato un'atmosfera di impunità, generata dai più alti livelli dell'amministrazione all'interno dell'Auberge de Castille (la sede del governo maltese alla Valletta)». Caruana Galizia, uccisa a 53 anni, con i suoi articoli aveva denunciato la corruzione nel Paese e all'estero, mettendo in difficoltà sia i politici al governo che quelli all'opposizione.
· Quei razzisti come i turchi.
La "sete" di Erdogan asciuga la Mesopotamia. Chiara Clausi il 10 Novembre 2021 su Il Giornale. Per costruire 22 dighe e 19 impianti Ankara devia Tigri ed Eufrate. Con effetti catastrofici. Mentre a Baghdad le milizie sciite filo-Iran sfidano il premier Mustafa al-Kadhimi, e si rischia una nuova guerra civile, la minaccia più grande per la Mesopotamia arriva dal Nord. Il faraonico progetto della Turchia, il Great Anatolia Project, per regolare il flusso dell'Eufrate e del Tigri ha infatti effetti devastanti sul Paese. Ankara ha in programma 22 dighe e 19 centrali elettriche e ha cominciato a riempire i primi invasi. Storicamente, l'Anatolia sudorientale si trovava sulla rotta commerciale tra Oriente e Occidente. É stata una via di passaggio cruciale per molti secoli. Tuttavia i cambiamenti nelle rotte commerciali e nei metodi agricoli hanno posto fine alla sua antica importanza. Ora questa area è ritornata centrale. Ma con nuove tensioni dettate dal cambiamento climatico. Quest'anno si è registrata la peggiore siccità da un secolo nel Nord della Siria e in tutto l'Irak. Come racconta la storia di Kamel. Quattro anni fa, il torrente che attraversava il villaggio iracheno di al-Hamra si è prosciugato. Ora, «tutti gli alberi sono morti», ha spiegato l'agricoltore che coltiva agrumi nel villaggio. I contadini hanno provato anche a scavare pozzi ma hanno trovato le falde acquifere troppo salate e non adatte all'agricoltura. «Hanno ucciso gli alberi e tutti i nostri raccolti», ha denunciato. Le terre intorno ad al-Hamra, che un tempo erano campi e frutteti, sono diventate un deserto nel giro di pochi anni, e il letto del torrente è ridotto a un fossato arido. Un rapporto del governo iracheno ha avvertito che sette milioni di persone rischiano di rimanere senza acqua potabile. L'aumento delle temperature dovuto al cambiamento climatico, la riduzione delle piogge, il livello ridotto dei fiumi sono una combinazione micidiale che produce già i primi effetti. Quest'anno è stata colpita in particolare la provincia di Salahaddin, a Nord-Est di Baghdad. Il cambiamento climatico è uno dei fattori che ha portato alla desertificazione e alla siccità in Irak, ma pure i livelli ridotti dell'acqua nei fiumi Tigri ed Eufrate stanno esacerbando questo fenomeno. Tutto ciò avviene mentre i leader mondiali si sono riuniti a Glasgow per la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP26). E la cooperazione internazionale è diventata indispensabile. Questa crisi idrica potrebbe accrescere anche il rischio di conflitti per l'acqua nella regione. Ma oltre alla riduzione dei livelli dell'acqua, molti iracheni devono lottare anche con l'inquinamento dell'acqua e con alti livelli di salinità. Secondo Human Rights Watch, più di 118 mila persone sono state ricoverate in ospedale nel 2018 con sintomi legati alla contaminazione dell'acqua nel governatorato di Bassora. Secondo l'agenzia delle Nazioni Unite per la migrazione nel 2019 più di 21mila persone sono state sfollate a causa della mancanza di accesso all'acqua pulita. E per il rapporto il rischio di sfollamento a causa della carenza d'acqua rimane alto. Inoltre decenni di guerre in Iraq hanno devastato gran parte delle infrastrutture idriche del paese. Anche durante il conflitto con l'Isis. Infatti la raccolta dell'acqua durante l'assedio dello Stato Islamico era a volte un'attività fatale. Tante persone sono morte cercando di prendere l'acqua dal fiume e dai pozzi, durante i bombardamenti dei jihadisti e degli aerei della coalizione. Ma Kamel nutre ancora una forte speranza per l'Irak. E il suo urlo di disperazione gli fa dire: «Non vogliamo altri servizi, chiediamo solo acqua, tutta la mia vita dipende dall'acqua». Chiara Clausi
Gian Micalessin per “il Giornale” il 24 ottobre 2021. L'espulsione degli ambasciatori di dieci Paesi occidentali (Stati Uniti, Francia, Germania, Canada, Finlandia, Danimarca, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia e Svezia) messi alla porta dal presidente turco Recep Tayyp Erdogan per aver chiesto la liberazione di Osman Kavala, un dissidente e filantropo colpevole di battersi per i diritti umani e per le minoranze curde e armene, è vergognosa. Benché i giudici lo abbiano assolto dall'accusa di aver finanziato l'opposizione e il governo non sia riuscito a provare la sua presunta partecipazione al colpo di stato del 2016, Kavala è in galera da oltre quattro anni. Il tutto mentre la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ne pretende la scarcerazione dal 2019 e il Consiglio d'Europa prepara una procedura d'infrazione contro Ankara. In tutto questo, però, siamo noi italiani a doverci vergognare di più. Tra i nomi dei diplomatici battutisi per la liberazione di Kavala manca, infatti, quello del nostro ambasciatore ad Ankara. La nostra diplomazia, a differenza di un Mario Draghi che non esitò a definire Erdogan un dittatore, non ha mai preso posizione sullo stato dei diritti umani in un paese che negli ultimi anni non ha perso occasione di compromettere i nostri interessi nazionali. La Turchia, anche se la Farnesina, il Ministro Luigi Di Maio e il nostro ambasciatore ad Ankara sembrano averlo scordato, è lo stesso paese che nel novembre 2019 stipulò un accordo marittimo con il governo di Tripoli finalizzato, tra i vari obbiettivi, a tagliar fuori l'Italia da qualsiasi ricerca di idrocarburi nel Mediterraneo. Un accordo seguito, settimane dopo, da quello che trasformò parte del porto di Misurata, città dove abbiamo un ospedale militare, in una base della Turchia. Per non parlare dei tentativi di mettere le mani sulla Guardia Costiera di Tripoli da noi finanziata e, più in generale, di subentrare all'Italia come potenza di riferimento in Libia. Il tutto mentre i nostri confini orientali restano, dal 2015, una delle mete di quei migranti usati da Erdogan come arma di ricatto nei confronti dell'Europa. Certo, dietro le distrazioni della nostra ambasciata ad Ankara e della Farnesina c'è il tentativo di difendere gli oltre 9 miliardi di esportazioni (dati 2020) che - assieme a un interscambio da oltre 17 miliardi e all'attività di oltre 1500 nostre aziende - fanno dell'Italia il sesto partner commerciale della Turchia. Ma se alleati e partner europei del peso di Stati Uniti, Francia, Germania e Olanda hanno deciso di mettere a rischio le relazioni diplomatiche con un regime come quello turco, allora qualcuno dall'Ambasciata di Ankara fino alla Farnesina farebbe bene a chiedersi se quei 9 miliardi di esportazioni valgano la vergogna di cui ci copriamo ignorando la desolazione di una Turchia trasformata nel cimitero dei diritti umani. La cacciata di quei dieci ambasciatori ci trasforma nell'ultimo puntello d'un regime sempre più isolato internazionalmente e sempre più a corto d'ossigeno su un fronte interno dove inflazione galoppante e svalutazione erodono i consensi di Erdogan. E in un paese sull'orlo della bancarotta politica ed economica, il ruolo di partner privilegiato rischia di rivelarsi una maledizione anziché un vantaggio.
Turchia, Erdogan rinuncia a espellere i 10 ambasciatori occidentali: "Ma siano più cauti". La Repubblica il 25 ottobre 2021. Il presidente turco non darà seguito alla minaccia di espulsione dei diplomatici definiti "persona non grata" a causa della loro richiesta di liberazione del filantropo Osman Kavala. Mentre la valuta ha toccato il minimo storico di 9,85 per un dollaro, dopo la dichiarazione. "Non è nostra intenzione creare una crisi diplomatica. Chi ci critica d'ora in poi sarà più attento”, ha detto il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, in riferimento ai 10 ambasciatori a rischio espulsione per aver firmato un appello per la liberazione del filantropo Osman Kavala, in carcere dal 2017 con l'accusa di aver finanziato le proteste di Gezi Park nel 2013 e di aver partecipato al fallito golpe del 2016.
Le tensioni diplomatiche. Retromarcia di Erdogan: crolla la lira turca e non espelle più i 10 ambasciatori dell’appello Kavala. Redazione su Il Riformista il 25 Ottobre 2021. Niente espulsione per i 10 ambasciatori in Turchia: Recep Tayyip Erdogan fa marcia indietro dopo che sabato scorso aveva definito “persona non grata” i diplomatici e minacciato l’allontanamento dal Paese. “È arrivata un’altra dichiarazione da parte dei diplomatici che cita il loro impegno rispetto all’articolo 41 della Convenzione di Vienna e credo che ora saranno più cauti”, ha detto il Presidente turco. I dieci ambasciatori – i Paesi interessati erano Canada, Francia, Finlandia, Danimarca, Germania, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Svezia e Usa – avevano firmato l’appello per la liberazione del dissidente Osman Kavala, imprenditore e filantropo, detenuto da oltre 1.400 giorni. Kavala è a capo della sezione turca dell’organizzazione filantropica di George Soros e fu arrestato nel 2017 con l’accusa di aver finanziato le proteste del 2013 del Gezi Park. L’imprenditore fu assolto nel 2020 da un tribunale di Istanbul che ne ordinò la scarcerazione. Kavala fu ri-arrestato per il fallito colpo di astato del 2016. “Impareranno a conoscere e capire la Turchia o dovranno andarsene“. Questo sabato scorso. L’agenzia Bloomberg ha scritto oggi che funzionari diplomatici e consiglieri del governo turco hanno consigliato al presidente Recep Tayyip Erdogan di non dare seguito alla minaccia di espellere i 10 ambasciatori occidentali. La lira turca nel frattempo è crollata, si è svalutata di oltre il 2% in un giorno arrivando a sfondare la barriera di 1 dollaro per 9,80 lire turche e di 1 euro per 11,40 lire. Il record negativo si è registrato mentre è atteso, secondo fonti citate dall’agenzia Reuters, un taglio al 16% degli interessi sui prestiti da parte delle banche statali turche in linea con la scelta della Banca centrale di abbassare di 200 punti base i suoi tassi di riferimento. L’ennesimo tonfo della valuta nazionale turca arriva a pochi giorni dal declassamento della Turchia da parte della Financial Action Task Force, organizzazione intergovernativa che si occupa di combattere il riciclaggio di denaro sporco e il finanziamento al terrorismo. “Non volevamo provocare una crisi ma la magistratura turca non prende ordini da nessuno” e la loro “mancanza di rispetto doveva ricevere una risposta”, ha affermato Erdogan, scagliandosi ancora duramente contro gli ambasciatori e parlando di “dichiarazioni infondate e irrispettose”. Lo scontro è rientrato dopo che i diplomatici hanno diffuso un comunicato identico nel quale ribadiscono l’impegno a non interferire negli affari interni di un Paese che ospita le loro sedi. L’appello sollecitava alla scarcerazione di Kavala, come già stabilito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2019. Il filantropo ha già annunciato che non si presenterà alla prossima udienza del processo del prossimo 26 novembre. Il Consiglio d’Europa potrebbe avviare un provvedimento disciplinare nei confronti della Turchia se Ankara non adempirà alla sentenza di Strasburgo. La crisi dei diplomatici, nonostante la marcia indietro, è probabilmente destinata a lasciare strascichi. Questo fine settimana a Roma per il G20 Erdogan incontrerà anche le massime autorità di alcuni Paesi i cui diplomatici aveva definito come “persona non grata”. Tra questi anche il Presidente statunitense Joe Biden. Con gli USA scotta anche la questione del sistema missilistico russo S-400 comprato da Ankara, seconda potenza della NATO, dalla Russia. La Turchia di Erdogan nel suo ruolo di battitore libero in politica estera è protagonista sul piano internazionale anche nella guerra civile in Siria e nel conflitto in Libia. Con Washington resta aperto il caso di Fethullah Gulen, che Erdogan considera il leader del tentato golpe del 2016, al momento residente in Pennsylvania.
Futura D'Aprile per editorialedomani.it il 26 ottobre 2021. La Turchia ha dichiarato persona non grata dieci ambasciatori occidentali che avevano firmato un appello per la liberazione del filantropo Osman Kavala, detenuto da quattro anni senza una sentenza di condanna. Kavala è accusato di aver preso parte al tentato golpe del 2016, di aver partecipato alle manifestazioni antigovernative del 2013 di Gezi Park e di essere vicino al magnate George Soros, figura particolarmente invisa al presidente Recep Tayyip Erdogan. Nel 2020 la Corte europea dei diritti dell’Uomo era intervenuta sulla vicenda chiedendo la scarcerazione di Kavala, ma ad oggi gli appelli per la sua liberazione sono sempre caduti nel vuoto. A dover lasciare il paese anatolico dopo l’annuncio del ministero degli Esteri sono i rappresentanti diplomatici di Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Svezia e Stati Uniti. Nell’elenco degli espulsi manca però l’Italia. Un’assenza che fa riflettere sullo stato delle relazioni tra Roma e Ankara e sulle priorità del nostro paese in politica estera. L’Italia continua a chiudere gli occhi sulle continue violazioni dei diritti umani in Turchia e sul crescente numero di oppositori rinchiusi in carcere senza una sentenza di condanna, come nel caso di Kavala. Fin dal fallito golpe del 2016, Erdogan ha usato i poteri conferitigli dallo stato di emergenza per incarcerare o licenziare attivisti per diritti umani, insegnanti, accademici, scrittori, avvocati, giudici, funzionari pubblici, sindacalisti, ex militari e parlamentari curdi. Il tutto con l’obiettivo ultimo di mettere a tacere ogni forma di opposizione e di dissuadere la popolazione civile dal ribellarsi al suo presidente. Eppure neanche la politica neo-ottomana messa in campo da Erdogan nel Mediterraneo è riuscita a far cambiare posizione all’Italia, che vede i suoi stessi interessi costantemente lesi dall’espansione turca in quello che continua ad essere descritto come il mare nostrum. Nel 2019, solo per fare un esempio, la Turchia ha stipulato un accordo con il governo di Tripoli per la definizione dei confini marittimi e per la gestione delle risorse minerarie presenti al largo delle coste libiche, a discapito degli interessi energetici e geopolitici italiani. Ma Ankara ha anche cercato di mettere le mani sulla controversa Guardia costiera libica, addestrata ed equipaggiata da un’Italia ben poco attenta all’uso che veniva fatto delle sue motovedette. La Turchia è stata abile nello sfruttare a suo vantaggio l’ambiguità di Roma nei confronti del dossier libico, arginando l’influenza italiana nel paese africano e giocando sulla debolezza dell’allora premier Fayez al-Serraj per mettere definitivamente piede in Libia. Ankara inoltre continua a sfruttare la presenza di 5 milioni di profughi sul suo territorio per ricattare l’Italia e l’Unione europea, dicendosi costantemente pronta ad aprire i propri confini e a scatenare una nuova crisi umanitaria. A partire da questa posizione di forza, Ankara ha anche potuto minacciare gli interessi greci ed europei nel Mediterraneo senza incorrere in alcuna sanzione, grazie anche alla posizione conciliante assunta dall’Italia in sede comunitaria. Per Roma, quindi, la tutela dei rapporti economici con la Turchia continua ad essere la vera priorità. D’altronde secondo i dati Istat l'interscambio commerciale con il paese anatolico nel 2020 ha fruttato 15 milioni all’Italia, nonostante i danni causati dalla pandemia. Il nostro paese è il quinto partner commerciale della Turchia a livello mondiale e il secondo tra gli Stati Ue dopo la Germania. Nel mercato turco inoltre sono attive oltre 1.500 imprese italiane e gli investimenti diretti nel 2018 hanno raggiunto i 523 milioni di euro. Non vanno poi dimenticati gli interessi del settore militare e della difesa: nel 2020 le autorizzazioni per le esportazioni di materiale di armamento hanno raggiunto un valore di 34.6 milioni, dopo i 63.7 del 2019 e i 362.3 del 2018. Alla luce di questi dati è facile farsi un’idea di quanto profondi siano i legami economici tra Italia e Turchia, ma tutto ciò è abbastanza perché il governo italiano continui ad avere un atteggiamento così tanto accondiscendente nei confronti di Ankara? La Turchia non ha riguardi verso gli interessi geopolitici di Roma o dell’Unione europea, né tantomeno per quei diritti umani che la stessa Italia si è impegnata a promuovere anche al di fuori dei propri confini. Eppure neanche il governo guidato da Mario Draghi sembra intenzionato a modificare la posizione dell’Italia nei confronti della Turchia. Ad aprile il premier ha definito il presidente Erdogan un “dittatore”, ma non ha mai messo in discussione i rapporti con la Turchia, specificando che con il leader turco bisogna continuare “a cooperare per gli interessi del paese”. Anche se questi non vengono in realtà rispettati.
Migranti, gas e petrolio: come la Turchia di Erdogan ricatta l’Europa. Francesco Battistini e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 10 ottobre 2021. Si dice spesso che i migranti possono diventare una straordinaria risorsa economica e politica. Vero. Se c’è un posto dove il concetto viene applicato alla lettera, questo è la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, ma in tutt’altro senso. Per lui le grandi crisi umanitarie dall’Afghanistan alla Siria, fino alla Libia, sono diventate l’occasione per incassare soldi, e lo strumento di ritorsione con il quale giocare una complessa partita strategica ed energetica. La sua linea è chiara: dall’uso dei migranti all’influenza politico-militare, ogni mezzo è buono per diventare l’anello forte tra il mondo islamico e l’Europa.
L’ascesa di Erdogan
Come s’è arrivati a un Erdogan così determinante? Bisogna risalire al primo decennio del Duemila. Quando le tre guerre che via via scoppiano in Afghanistan (2001), in Iraq (2003) e in Siria (2011) fanno della Turchia il passaggio obbligato di milioni di rifugiati. Erdogan, l’ex sindaco d’Istanbul e leader del nuovo partito islamista che si batte per l’ingresso della Turchia nell’Ue, viene eletto premier. Fino alle Primavere arabe del 2011, garantisce un contenimento della cosiddetta Rotta Balcanica, la via dei disperati che attraversa Bulgaria, Grecia, Macedonia, Serbia e raggiunge il cuore continentale in Ungheria e in Croazia. Per lungo tempo, sulle isole greche, non si superano mai i 10 mila sbarchi l’anno. E gli immigrati entrano in Europa soprattutto dall’Africa, attraversando il Mediterraneo centrale. Le cose però cambiano in poco tempo per tre ragioni. La prima: la scoperta di gas davanti alle coste mediorientali. La seconda: dopo un lungo dibattito si chiudono definitivamente le porte all’ingresso della Turchia nell’Ue, a causa dell’ostilità della Germania che teme un’enorme onda di «asylanten» turchi. La terza: la guerra in Siria ha mosso quattro milioni di rifugiati verso la Turchia, con mezzo milione di bambini nati solo negli ultimi cinque anni. Isolato dagli europei, assediato dai profughi ed escluso dalla partita energetica, Erdogan cambia obbiettivi e strategie. Vediamo quali.
Chiamiamolo «pizzo»
La Turchia oggi è uno dei Paesi al mondo col più alto numero di rifugiati, oltre 5 milioni, su una popolazione di 80. Stanco di fare da portinaio al passaggio via terra di siriani e iracheni, pakistani e afghani, dal 2016 decide di monetizzare l’emergenza – 6 miliardi e 700 milioni di euro incassati dall’Ue, più un altro mezzo miliardo in arrivo, purché i gommoni non sbarchino sulle isole greche – e di farne uno strumento di ricatto per acquisire peso internazionale. All’assemblea generale dell’Onu, il 24 settembre 2021, mentre Kabul precipitava nel caos, il leader turco ha dichiarato: «Se gli americani mandano da noi i profughi afghani, ci diano il sostegno logistico, diplomatico e finanziario che ci serve. E coi talebani tratteremo noi». Il governo di Ankara, senza fornire dettagli, ha stimato in 40 miliardi di dollari gli aiuti necessari a gestire i dieci anni di crisi siriana. E ora che le emergenze si sono moltiplicate, la sua politica è diventata quella di «esternalizzare» il controllo delle frontiere europee: io mi tengo i migranti che verrebbero da voi, ma in cambio voi mi pagate in denaro sonante e in aperture politiche.
L’oro sottomarino
La ritorsione sui migranti però non funziona sul tavolo della guerra per le risorse di gas in quel pezzo di mare davanti a casa. Nei fondali del Mediterraneo orientale, dal 2010, sono stati scoperti enormi giacimenti di gas naturale. Alla corsa all’oro sottomarino partecipano l’Egitto, la Grecia, Cipro, Israele, tutti Paesi che hanno rapporti poco amichevoli con Ankara e che, d’accordo con l’Europa, stanno progettando un gasdotto per tagliare fuori gli inaffidabili turchi. Chiuso nella doppia morsa, Erdogan s’è dovuto chiedere come uscirne. La soluzione l’ha trovata guardando all’altra sponda del Mediterraneo: la Libia. Proprio là, dove dovrebbe passare il nuovo gasdotto, e dove è possibile riproporre lo stesso schema di taglieggiamento sperimentato con la crisi siriana. Nel 2015, quando un milione e 300 mila profughi siriani si muovono dalle coste turche per entrare in Europa, Erdogan li contiene ottenendo in cambio diverse concessioni, compresa una quota di visti più facili per i suoi cittadini.
Gas, armi, e migranti
L’occasione per Erdogan si presenta nel gennaio 2020. La debolezza della nostra politica estera in Libia durante i due governi Conte, ha lasciato spazio libero, e consentito a Erdogan di sbarcare in meno di due anni, centinaia di «consiglieri militari». Facendo sì che Ankara e Tripoli firmassero un accordo esclusivo per il controllo delle coste della Tripolitania, per la difesa reciproca e per lo sfruttamento di gas e petrolio nel Mediterraneo centrale. Approfittando della guerra civile tra il generale Khalifa Haftar (appoggiato da russi ed egiziani) e il governo di Tripoli, sostenuto dalla comunità internazionale, la Turchia invia truppe, armi, e sposta dalla Siria in Libia i suoi miliziani mercenari, in appoggio al governo di Tripoli. Una mossa abile: da quel momento, Erdogan può sedersi al tavolo dell’undicesimo maggior produttore di petrolio al mondo, chiedendo a Tripoli pure la gestione dell’aeroporto e del porto di Misurata per i prossimi 99 anni. Solo un mese prima dell’intervento militare contro Haftar, Erdogan ha firmato proprio coi tripolini un accordo per lo sfruttamento delle loro risorse naturali sottomarine, 10 miliardi per la ricostruzione di strutture e infrastrutture, e nel frattempo ha iniziato a controllare i flussi in arrivo dal Sahel e dall’Africa subsahariana. Un esempio di questo nuovo ruolo nel Mediterraneo centrale si vede subito: nel gennaio 2020 la fregata turca Gaziantep, impegnata a scortare un carico d’armi diretto a Tripoli, recupera di sua iniziativa un barcone di migranti diretto in Italia e lo riporta in Libia. È un respingimento illegale, ma sufficiente a legittimare la presenza turca nel mare «nostro».
Le minacce all’Europa
Dopo l’accordo con l’Ue sui migranti siriani, il gioco turco è evidente: le frontiere prima si chiudono, passando dal milione 300 mila profughi sulle rotte balcaniche del 2015 a una media di 20 mila nel 2018, per poi riaprirsi nel 2019 con 159 mila profughi sulle coste greche. E quando l’Europa decide di imporre sanzioni economiche per le operazioni militari di Erdogan in Siria, o peggio ancora sui curdi, ecco la minaccia: «Se provate a chiamare invasione le nostre operazioni – dice il leader turco nel 2019 –, spalancheremo i nostri confini e vi manderemo tre milioni e mezzo di rifugiati». E le sanzioni si attenuano. La promessa è mantenuta l’anno dopo: nel 2020 Ankara batte cassa, ma Bruxelles è lenta a rispondere, e allora la Turchia sposta 130 mila disperati sui 120 km di frontiera terrestre con la Grecia. Tempo pochi mesi e l’accordo economico con l’Ue viene rinnovato. È un gioco facile, se sei tu a regolare i rubinetti delle migrazioni sia da Est sia da Sud e, intanto, ti prepari a controllare anche quelli di gas e petrolio. E in spregio a ogni regola: la Turchia non ha mai rispettato la clausola, contenuta nell’accordo con l’Ue, che le impone di riaccogliere un migrante sbarcato nelle isole greche per ogni migrante che viene ricollocato in Europa. In cinque anni se n’è ripresi 2.140, contro i 15 mila sbarcati in Grecia solo nel 2020. Lo stesso vale per i soldi che l’Europa ha versato per bloccare il traffico: sono destinati al riammodernamento di dogana e frontiere, in realtà vengono usati per comprare armi e combattere la minoranza curda. Questa situazione sta esasperando i Paesi europei più esposti sull’ultimo confine Ue con la Turchia, Grecia e Bulgaria, che sono fra i 12 governi che hanno chiesto a Bruxelles di alzare muri, da aggiungere a quelli che già ci sono. E ora sulla rotta mediterranea si potrebbe prospettare lo stesso scenario: se l’Europa o l’Italia oseranno sollevare obiezioni sui gasdotti, o su tutte le altre partite libiche sulle quali Erdogan sta negoziando, è pronta la leva dei migranti. Sappiamo bene che il fenomeno dei flussi migratori non lo risolvi costruendo muri, ma anche aver pensato di uscirne indenni nascondendoli sotto al tappeto del dittatore turco la dice lunga sulla incapacità strategica dell’Unione.
Il Mit, il servizio segreto della Turchia. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 22 settembre 2021. Ogni grande potenza meritevole di tale titolo possiede degli eserciti paralleli, rispondenti unicamente al comando dello stato profondo, attivabili in caso di necessità. Necessità che possono essere il soffocamento di una pericolosa sedizione, l’annichilimento di una o più quinte colonne e/o la prevenzione di un colpo di Stato in divenire. Questi eserciti ombra possono essere delle realtà del mercenariato, come il Gruppo Wagner o l’Academi (ex BlackWater), oppure delle organizzazioni guerrigliere e/o terroristiche che, con la scusante del denaro – come nel primo caso – o della battaglia ideologica – come nel secondo caso –, combattono per conto di una capitale e sono fedeli ad una sola bandiera. E questi eserciti alternativi, talvolta, possono assumere le fattezze di veri e propri stati paralleli la cui esistenza è nota ad una cerchia ristrettissima di persone – in Italia è celebre il caso di Gladio. Nel caso della Turchia, una delle potenze più lungimiranti e fraintese dell’età attuale, le armate che difendono fondamenta e mura del sistema erdoganiano sono diverse, variegate e risultano accomunate da un elemento: la micidialità. Perché queste armate sono i Lupi Grigi del Partito d’azione nazionalista di Devlet Bahceli, i narcotrafficanti stanziati tra America Latina e Asia centrale, i padrini del crimine organizzato come Alaattin Cakici, una galassia di sigle e movimenti appartenenti all’islam politico e al jihadismo – dalla Fratellanza Musulmana all’Esercito Siriano Libero –, la compagnia Sadat e l’Organizzazione di Intelligence Nazionale (Mit).
Mit: che cos'è, cosa fa, quando nasce. L’Organizzazione di Intelligence Nazionale (MIT, Millî İstihbarat Teşkilatı) è l’agenzia di intelligence della Turchia. Il quartier generale si trova a Etimesgut, provincia di Ankara, in un edificio che il volgo ha ribattezzato evocativamente kale, ovvero il castello. Fondato nel 1965, in sostituzione al Servizio di Sicurezza Nazionale (MEH, Milli Emniyet Hizmeti) risalente all’epoca di Mustafa Kemal, il Mit è stato ed è un insieme di cose (simultaneamente) sin dal giorno uno: un ente dall’impronta fortemente militare, uno strumento nelle mani del governo di turno ed un Grande Fratello in grado di sorvegliare e punire i nemici dello Stato ovunque si trovino, sia in patria sia all’estero. Legato ad alcuni dei principali servizi segreti dell’Occidente e dell’Oriente da accordi di collaborazione in materia di antiterrorismo, come la Cia e il Fsb, il Mit agisce nel e gode del massimo riserbo – missioni e operazioni sono oggetto di una classificazione quasi-imperitura, similmente al Mossad – ed è dotato di una struttura verticistica a livelli contingentati, ovvero che precludono la possibilità di carriera negli alti ranghi agli agenti appartenenti a gruppi religiosi minoritari. Deputato alla raccolta di intelligence su fascicoli critici per la sicurezza nazionale, ad attività di controintelligence e guerra cibernetica, nonché al contrasto diretto e fattivo di minacce effettive e potenziali alla Turchia e ai suoi abitanti, il Mit è teoricamente obbligato a fare rapporto delle sue attività al presidente, al comandante in capo delle forze armate e al segretario generale del Consiglio di sicurezza nazionale, sebbene negli anni recenti sia divenuto ostaggio di una persona sola: Recep Tayyip Erdoğan.
Colonna portante del sistema erdoganiano. A partire dal giorno dopo il tentato colpo di Stato del luglio 2016, l’evento che sembra aver determinato il collasso dell’antico ordine kemalista e consacrato l’ascesa definitiva del sistema erdoganiano, il Mit è stato assoggettato completamente al nuovo potere, per conto del quale è divenuto il cacciatore di gulenisti. Nell’aprile 2018, cioè a poco meno di due anni dal fallito golpe, il Mit aveva esperito consegne straordinarie (extraordinary rendition) in 18 nazioni, portando dinanzi ai tribunali anatolici ottanta cittadini turchi ricercati per la presunta adesione alla rete gulenista. Una caccia all’uomo globale, senza limiti di giurisdizione, che con il tempo si è estesa ulteriormente e le cui dimensioni possono essere rappresentate soltanto per mezzo dei numeri:
Più di 130 i cittadini turchi che il Mit ha arrestato illegalmente all’estero, e successivamente riportato in patria, da luglio 2016 a luglio 2021.
Più di 31 i Paesi che, in accordo o meno con Ankara, sono stati interessati dalle suddette extraordinary rendition.
622mila i cittadini turchi che, nello stesso periodo di riferimento, sono stati indagati per terrorismo a causa dei loro presunti rapporti con la rete gulenista.
Più di 125mila i dipendenti pubblici che hanno perduto il lavoro a causa della loro presunta adesione al circolo gulenista.
Più di 5 i Paesi del Vecchio Continente in cui il Mit ha proceduto a catturare e rimpatriare presunti membri della rete gulenista, quando agendo legalmente (a mezzo di regolare estradizione) e quando illegalmente (consegna straordinaria): Albania, Bulgaria, Kosovo, Moldavia, Romania, Ucraina.
Più di 5 i Paesi del Vecchio Continente in cui le indagini del Mit hanno portato la giustizia turca ad inoltrare richieste di estradizione nei confronti di presunti gulenisti, il cui processo di rimpatrio è attualmente in corso e/o in fase di esame: Bosnia ed Erzegovina, Germania, Macedonia del Nord, Montenegro, Polonia e Repubblica Ceca.
I numeri della caccia al gulenista sembrano, e in effetti sono, stratosferici. Numeri che parlano delle capacità del Mit, i cui agenti sono in grado di operare nei teatri più impensabili e remoti – come il Gabon, il Sudan, la Malesia e la Mongolia –, anche in assenza di contatti in loco, e che sono il risultato di una lunga tradizione in materia di spionaggio internazionale e arresti illegali. Non è dal 2016, in effetti, che il Mit è coinvolto in questo tipo di attività – le extraordinary rendition –, essendo stato fondato all’acme della guerra asimmetrica tra Ankara e il PKK. Guerra che aveva portato il Mit nel mondo dapprima della comparsa di Fethullah Gulen. Guerra che, il 15 febbraio 1999, aveva portato il Mit a Nairobi (Kenya) per compiere l’extraordinary rendition più importante della storia recente della Turchia, quella ai danni di Abdullah Öcalan, il fondatore del PKK.
I tentacoli del Mit in Europa. Non è soltanto a causa della rete gulenista che la Turchia ha inviato i propri agenti segreti in tutto il mondo. Perché prima che emergesse questa minaccia, come è arcinoto, Ankara ha dovuto affrontare l’insurgenza curda – che ancora oggi pone un serio pericolo per l’integrità territoriale e per la sicurezza fisica dei cittadini turchi. Non sorprende, dunque, che uno dei due obiettivi principali del Mit in Europa (e nel mondo) sia il rintracciamento di tutti quei militanti del PKK ritenuti una minaccia alla sicurezza nazionale. Come il Mit agisca in Europa, che è l’area dell’estero vicino turco ospitante il maggior numero di espatriati curdi, è stato svelato nel corso del tempo, grazie alle indagini delle forze di polizia, dei servizi di sicurezza e dei giornalisti investigativi del Vecchio Continente. In una sola parola: diaspora. Diaspora turca, per l’esattezza. Gli agenti del Mit, in breve, hanno infiltrato da tempo immemorabile le diaspore turche spalmate a macchia d’olio in Europa, in particolare quelle datate e numerose di Austria, Francia, Germania e Paesi Bassi. Un’infiltrazione che, con molta probabilità, risale all’epoca della Guerra fredda e che negli anni è stata approfondita, consolidata e sofisticata, come mostrano e dimostrano i numeri e i fatti:
13 gli imam turchi attualmente indagati in Germania perché presumibilmente legati al Mit e coinvolti in attività di spionaggio.
Circa 6mila i turchi di Germania che il Mit avrebbe reclutato per portare avanti operazioni spionistiche e/o di raccolta di intelligence ai danni di gulenisti, militanti curdi e politici “di interesse” per la Turchia.
Circa 200 i turchi di Austria che il Mit avrebbe arruolato per le medesime ragioni di cui sopra.
Tre i militanti curdi che il Mit, grazie all’intelligence raccolta dai propri informatori in loco, avrebbe assassinato a Parigi nel 2013.
Più di 300 le persone e più di 200 le associazioni che l’esercito invisibile del Mit avrebbe spiato in Germania nell’anno 2017.
568 i turchi in Grecia che, secondo documenti diffusi da Nordic Monitor, il Mit avrebbe spiato nel corso del 2019 per via dei loro presunti legami con la rete gulenista.
Gli strumenti con i quali il Mit avvicinerebbe i compatrioti, che si trovino ad Amsterdam o che vivano a Stoccolma, sono sempre gli stessi. I primari, per frequenza d’utilizzo, sono i gruppi criminali – come l’oggi estinto Osmanen Germania –, le associazioni patriottiche – come Millî Görüş –, le moschee – che Ankara gestisce attraverso Diyanet, operante in tutta Europa – e le sedi diplomatiche – cioè ambasciate e consolati. Le capacità nell’arte del sorvegliare-e-punire hanno reso il Mit uno dei servizi segreti più efficienti del pianeta, ma sono i numeri della demografia turca in Europa – perché la demografia è potere; potere (geo)politico – che gli hanno permesso di espandersi capillarmente nell’intero continente, neutralizzando obiettivi sensibili da Londra a Parigi e compiendo arresti illegali in lungo e in largo nei Balcani. Numeri che con il tempo dovrebbero aumentare e che, incidendo pesantemente sulla composizione etnica di diversi Paesi – dalla Svezia alla Germania –, potrebbero facilitare un incremento della presa del Mit sul continente. La poststorica e anziana Europa è dunque avvisata: gli 007 del Mit sono qui tra noi, già oggi, e domani saranno sempre di più. Essi sono e simboleggiano questo mondo che cambia; questo mondo sempre meno eurocentrico e sempre più turco.
La guerra santa di Erdogan contro l’Europa. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 21 luglio 2021. I giornalisti hanno il costume di dare appellativi accattivanti ai personaggi famosi, che siano degli atleti o che siano degli statisti, che siano degli onesti imprenditori o che siano dei temibili criminali. L’appellativo è un marchio rispondente al dogma attronomico del nomen omen, cioè è esplicativo delle caratteristiche della persona che lo ha ricevuto, ed è suscettibile di esercitare dei potenti effetti mitopoietici presso le masse, che da sempre abbisognano di qualcosa o di qualcuno in cui credere e immedesimarsi. Nel caso della Turchia contemporanea, una potenza alla ricerca di rivalsa su antichi rivali e di spazi vitali nei quali prosperare, si può affermare come i giornalisti occidentali dei primi anni Duemila abbiano avuto un’incredibile lungimiranza nel ribattezzare Recep Tayyip Erdoğan osmanicamente, attribuendogli il titolo di Sultano. Perché oggi, 2021, a vent’anni esatti dalla fondazione del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp, Adalet ve Kalkınma Partisi), Erdoğan è molto di più di un presidente: è il califfo di una Sublime Porta ricostruita, sulla quale riecheggiano nuovamente gli adhān del muezzino dell’Ayasofya – che aveva promesso di rimoscheizzare nel lontano 1994 –, che ha saputo trasformarsi dal malato d’Europa all’incubo d’Europa e che sogna con ardore e in armi di sventolare la mezzaluna e stella turca dall’Adriatico alla Grande muraglia.
Il Sultano incompreso. Oggi è Erdoğan contro la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (rea di una sentenza sgradita circa l’utilizzo del velo islamico negli ambienti di lavoro), ieri era Erdoğan contro Charlie Hebdo e la campagna anti-islamista di Emmanuel Macron (che aveva svegliato terroristi dormienti in Francia e innescato proteste antifrancesi dal Marocco all’Indonesia), domani – e sempre – sarà Erdoğan contro chiunque si metta fra lui e il sogno di una Turchia a capo di quella realtà transcontinentale che è il Türk dünyası, ovverosia il mondo turcico.
Capire Erdoğan non è difficile né impossibile, ma il punto è che agli analisti e ai politologi occidentali, abituati a leggere la Turchia utilizzando occhiali rosa Made in the West, mancano sia la volontà sia l’umiltà. La volontà di guardare la Turchia per ciò che è, e non per ciò che essi vorrebbero che fosse. E l’umiltà di superare quell’elefantiaco limite interpretativo che è l’occidentalo-centrismo. Erdoğan, come abbiamo ripetuto innumerevoli volte sulle nostre colonne – pronosticando con successo eventi e corsi d’azione, tra i quali lo sveltimento dei lavori lungo il cosiddetto “corridoio panturco” e il potenziamento del Consiglio Turco –, non è né un incidente della storia né una mosca bianca circondata da forze politiche e cittadini frementi dalla voglia di tornare sul cammino dell’Occidente. Erdoğan è la storia, nonché la più potente espressione di quella Turchia profonda che più volte, dal secondo dopoguerra ai Novanta, ha tentato di porre fine al dominio armato del kemalismo nella politica e nella società – vedasi, a questo proposito, il paragrafo Menderes e l’ascesa di Necmettin Erbakan. Erdoğan è il figlio legittimo di una nazione fondata sui miti sempiterni della valle di Turan, dei lupi di Ergenekon, di padre Osman e del conquistatore Maometto II. Una nazione che ha vissuto e voluto l’Occidente il tempo di una forzatura storica chiamata Atatürk. Una nazione che in Occidente viene identificata con l’ingannevole cosmopolitismo libertineggiante di Istanbul, ma la cui complessità sfugge alle letture con gli occhiali rosa dei turisti della politologia. Complessità che spiega perché, ad esempio, la politica estera erdoganiana goda del supporto unanime di ogni partito – dall’estrema destra all’estrema sinistra e dagli islamisti ai laicisti – o perché la rimoscheizzazione di Ayasofya (ex Santa Sofia), quivi ritenuta una mera mossa distrattiva – ignorando la promessa di un giovane Erdoğan datata 1994 –, fosse sognata da sette turchi su dieci.
La complessità della Turchia. La complessità di quella nazione che è la Turchia, derisa nel peggiore dei casi e semplicemente ignorata nel migliore, andrebbe colta, valorizzata ed integrata nelle analisi relative alle questioni interne ed esterne che la riguardano. Perché l’alternativa all’equanimità è l’occidentalo-centrismo: un limite interpretativo che vizia e inquina i tentativi di comprendere il mondo. Nel caso della Turchia, la grande incompresa della contemporaneità, l’applicazione dell’occidentalo-centrismo alle letture analitiche è l’equivalente di un’autocondanna all’inefficacia nella formulazione di pronostici e scenari. Perché le letture occidentalo-centriche, ad esempio, dipingono Erdoğan come perennemente prossimo alla ghigliottina, nonostante la realtà sia ben diversa: è ancora sul trono, è stato difeso dalla popolazione nel corso del golpe del luglio 2016 e l’Akp sta registrando un boom di iscrizioni. E le letture occidentalo-centriche, inoltre, descrivono l’economia turca come sull’orlo di un’implosione a causa delle periodiche svalutazioni della lira e delle ondate inflattive, ignorando la rilevanza del fattore storico e le peculiarità del sistema Turchia: l’economia anatolica non è mai stata connotata dalla stabilità, ragion per cui i suoi scienziati della moneta sono abituati a galleggiare tra stati di crisi semi-permanenti e ragion per cui, nonostante le previsioni distopiche, il pil quest’anno crescerà del 5,5% e il pil calcolato a parità dei poteri d’acquisto lo scorso anno ha superato quello dell’Italia.
Riequilibrare i rapporti con l’Europa. Le letture occidentalo-centriche, infine, tendono a ritrarre erroneamente Erdoğan come un uomo solo, costretto a reggersi sul supporto del Partito Nazionalista e dei Lupi Grigi di Devlet Bahceli e a fare leva su una continua opera di distrazione delle masse, pena un probabile rovesciamento dal basso. Pensieri illusori, che non riescono ad andare oltre la superficie, che non sono in grado di spiegare perché il popolo sarebbe insorto a difesa di Erdoğan la notte del 15 luglio 2016 e perché le diaspore stanziate in lungo e in largo per l’Europa siano tendenzialmente a favore dell’Akp. La dirigenza comunitaria non riuscirà a venire a capo dell’annoso dossier anatolico fino a quando non capirà la dogmatica verità alla base di tutto: la Turchia non è solo Erdoğan, ma Erdoğan è la Turchia. E questa potenza, tanto incompresa quanto sottovalutata, ha cessato di essere il malato d’Europa da molto tempo – l’invasione di Cipro fu il primo segno di convalescenza –, trasformandosi in qualcos’altro: nel Terror Europae. L’Europa, secondo la diagnosi infausta e irreversibile effettuata da Erdoğan, può essere assoggettata nel nome del riscatto – la revisione del trattato di Losanna – e dell’emancipazione – una maggiore autonomia geopolitica dall’Occidente – perché nolente a mostrare muscoli a causa del sonno poststorico e destinata al tramonto per via di ragioni etno-demografiche. Queste ultime, di cui la dirigenza turca ha colto la significanza strategica nel lungo e lunghissimo termine – si pensi a quando Erdoğan invitò i turchi europei “a fare cinque figli” per sveltire il ritmo della sostituzione etnica in Europa –, potrebbero condurre la progenie di Osman a convertirsi da minoranza irrilevante a quasi-maggioranza nelle prossime decadi in Bulgaria e Germania, sullo sfondo di simultanei processi di islamizzazione traversanti un nugolo di nazioni, tra le quali Belgio, Francia, Paesi Bassi e Svezia. L’Europa, in breve, oltre che avvolta dal manto soporifero del coma poststorico, va lentamente de-europeizzandosi, perdendo progressivamente i propri caratteri etno-religiosi originari; una combinazione tanto irripetibile quanto cataclismica dalla quale gli strateghi dell’aquilina presidenza Erdoğan stanno tentando di capitalizzare in ogni ambito: diplomatico, economico, politico e religioso. Questo è il motivo per cui la Turchia sta seguendo con interesse il diffondersi nel Vecchio Continente di partiti confessionali di ispirazione islamica – oramai presenti in Belgio, Finlandia, Francia, Paesi Bassi e Svezia –, investendo nelle attività di proselitismo portate avanti dal quartetto Diyanet–Fratellanza Musulmana-Lupi Grigi-Milli Gorus e, non meno importante, interferendo in ogni questione interna all’Europa in grado di mobilitare la umma attorno al nuovo sultanato – dalla controversia sul discorso di Ratisbona alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue. Erdoğan, in estrema sintesi, non è un incidente della storia e i problemi della vecchia e sterile Europa con la Turchia non si estingueranno con la sua dipartita. Perché Erdoğan è l’uomo della Turchia profonda, una realtà che, silenziata per decenni dalla difesa armata della costituzione, è riuscita, dopo il trauma della detronizzazione di Erbakan, a rimettere al centro della politica e della società quelli che sono stati i valori fondanti della nazione sin dall’antichità: l’islam, il culto dell’impero e il panturchismo. E l’Europa, per questa Turchia tornata alle origini, non può che rappresentare ciò che è stata sin dai tempi della cattura di Costantinopoli: un rivale con cui competere sempre, da combattere quando necessario e da vassalizzare se possibile.
Il reality show del super boss che svela il patto Stato-mafia del governo Erdogan. Corruzione, traffico di droga, omicidi e armi ai jihadisti: Sedat Peker, dall’esilio forzato di Dubai, dichiara guerra al ministro dell’Interno Soylu. A colpi di video-scoop postati su YouTube. E il presidente tace. Mariano Giustino su L'Espresso il 24 giugno 2021. Con una piccola telecamera e un treppiede, un mafioso turco, che fino a poco tempo fa organizzava manifestazioni a sostegno del presidente Recep Tayyip Erdogan e che ha goduto del favore dei circoli filo-governativi, sta scuotendo la Turchia dall’inizio di maggio. È Sedat Peker, ultranazionalista e boss della criminalità organizzata, rifugiatosi dal 2019 a Dubai, che come in un reality show, davanti a milioni di telespettatori, fa la guerra ad alti funzionari turchi e ministri pubblicando una serie di video-scoop dal suo account YouTube, accusando di corruzione, di omicidio, di stupro, racket e di traffico di stupefacenti alcune delle figure politiche più potenti del paese, compresi parlamentari, alti funzionari della sicurezza e in particolare il ministro degli Interni turco, Süleyman Soylu. Con i libri dello scrittore americano Mario Puzo, “La Famiglia” e “Il Padrino”, poggiati in bella vista sulla scrivania, Peker ha rivelato, nei suoi video, che gli sono stati commissionati da funzionari ed ex ministri dell’Akp l’uccisione di un giornalista turco-cipriota, il pestaggio di un parlamentare che aveva insultato la famiglia di Erdogan e le spedizioni illegali di armi ai jihadisti siriani. In uno dei suoi ultimi video ha rovesciato una valanga di accuse contro il ministro Soylu accusandolo di collusione con il losco uomo d’affari Sezgin Baran Korkmaz, attualmente ricercato dalle autorità turche per riciclaggio di denaro sporco. Soylu lo avrebbe aiutato a fuggire dalla Turchia per evitargli l’arresto. Peker ha anche raccontato di aver spedito in Siria, nel novembre 2015, giubbotti, binocoli e altri dispositivi militari per l’equipaggiamento dei combattenti turkmeni siriani, ma ha aggiunto che il Sadat, una forza paramilitare fondata dal generale di brigata in pensione Adnan Tanrıverdi, allora consigliere di Erdogan, gli aveva chiesto di aggiungere al carico della spedizione camion pieni di armi ufficialmente destinate ai ribelli turkemi alleati di Ankara, ma che invece erano andate a Jabhat al-Nusra, la propaggine siriana di al-Qaeda in Siria. E così il Sadat, considerata da alcuni media come «esercito parallelo» del presidente, già impiegato in Libia e Siria, torna di nuovo all’ordine del giorno. Peker ha goduto per anni, ufficialmente, della protezione della polizia e, come altri esponenti della mafia turca, ha un background ultranazionalista e ha fatto parte del backstage dell’alta politica del suo paese. È presente in foto e video con celebrità anche politiche, compreso il presidente Erdogan. Ha ripetutamente minacciato di morte gli oppositori del governo, in particolare curdi ed esponenti di sinistra, inclusi i 1.300 accademici per la pace che nel 2016 lanciarono un appello per un ritorno al processo di pace nel sudest anatolico: «Faremo scorrere il vostro sangue e ci faremo una doccia col vostro sangue», disse in un suo comizio. Peker dice che le sue rivelazioni sono un vero e proprio regolamento di conti, una risposta a tutto quello che ha subito dagli agenti di polizia che su mandato del ministro degli Interni Soylu avevano fatto irruzione nella sua casa e avevano puntato le pistole contro sua moglie e le sue figlie. Non è un caso che nei suoi video abbia preso di mira particolarmente l’ambizioso ministro che gli aveva promesso protezione, ma che non aveva mantenuto la sua parola; da qui, la decisione del boss di regolare i conti accusandolo di essere colluso con uomini di affari senza scrupoli e con esponenti della criminalità organizzata. Il quadro che Peker dipinge nei suoi video va oltre la corruzione e potrebbe essere descritto come criminalizzazione dell’intero apparato statale. Le sue dettagliate accuse suggeriscono che la criminalità organizzata sarebbe stata utilizzata nelle lotte di potere all’interno dell’amministrazione dello Stato e del partito di governo, nonché per diffondere propaganda politica, gestire economie clandestine, manipolare i media, intimidire l’opposizione e la società civile. Le rivelazioni di Peker accendono i riflettori anche sulla nuova rotta della cocaina che dalla Colombia attraversa la Turchia, traffico che, secondo il leader mafioso, vedrebbe coinvolte figure di alto profilo. Lungo una delle principali rotte del contrabbando di eroina, che dall’Afghanistan giunge in Europa, la Turchia negli ultimi anni ha visto un aumento anche del traffico di droga; ciò ha indotto alcuni osservatori a ipotizzare che il paese sia diventato per l’Europa un centro di distribuzione di stupefacenti che provengono dall’America Latina e dall’Oriente. Peker ha affermato in un suo video che il porto di Izmir, terza città più grande del paese, era la destinazione di 4,9 tonnellate di cocaina sequestrate in Colombia lo scorso anno e che l’ex ministro degli Interni Mehmet Agar era coinvolto in quel traffico e ha accusato il ministro dell’Interno in carica di aver insabbiato le indagini. Il leader turco era rimasto a lungo muto dinanzi alle accuse contro Soylu e non sembrava volere o potere impedire che il fango continuasse ad abbattersi contro il suo partito, forse per timore di essere coinvolto direttamente nelle rivelazioni del boss. Ma qualche giorno prima del Vertice Nato di Bruxelles, il Presidente ha rotto il silenzio dicendo che dietro le “calunnie” che hanno colpito il suo partito vi è la longa manus di organizzazioni criminali, quali il gruppo curdo armato PKK, la rete dei seguaci del predicatore islamico Fethullah Gülen, FETÖ, ritenuto responsabile del fallito golpe del 2016, e residui di organizzazioni armene. Subito dopo il ministro degli Interni Suleyman Soylu ha presentato una richiesta di estradizione alle autorità degli Emirati Arabi Uniti. È noto che tra Ankara e Dubai non intercorrono buoni rapporti, sono rivali regionali e inoltre non esiste un trattato di estradizione tra i due paesi. Peker, ha dunque sospeso le pubblicazioni dei suoi esplosivi video e ha affermato che la polizia degli Emirati lo avevano fermato per interrogarlo, ma che contro di lui non vi è al momento alcuna decisione di arresto. Da tempo, all’interno dell’Akp e del cerchio magico che ruota attorno a Erdogan, è in corso una faida, una guerra senza quartiere. Un feroce scontro per il potere tra le correnti tayyipciler (erdoganiani) dei Pelikancilar (la corrente Pelikan dell’ex ministro delle Finanze Albayrak, genero del presidente, che prende il nome dal film con Julia Roberts, “Il Rapporto Pelican”) e quella dei Soylucular (che fa capo al ministro Soylu) forte dei güvenlikçiler, i securitari, funzionari della polizia che spingono per una ferrea politica securitaria. Le rivelazioni di Peker segnalano anche una spaccatura esistente all’interno del campo nazionalista turco: tra filoccidentali da una parte ed eurasisti anti Nato (filorussi e filocinesi), dall’altra. E mettono in luce anche una prassi statale inquietante che si basa sull’impiego di mezzi illegittimi per combattere i cosiddetti «nemici dello Stato». Infatti, in diversi momenti della storia della Turchia moderna, i tentacoli dello Stato hanno preso di mira comunisti, socialisti, minoranze, islamisti, oppositori liberal e politici curdi, a seconda di chi in quel momento veniva percepito come una minaccia dal potente di turno. Gli ex presidenti turchi Süleyman Demirel e Kenan Evren (il generale del golpe del 12 settembre 1980) hanno entrambi ammesso pubblicamente l’esistenza dello «Stato profondo». Per questo è illuminante la nota frase di Demirel: «Quando è necessario, lo Stato esce dalla routine della legalità». Negli anni ’90 ciò significava uccisioni extragiudiziali di politici curdi, omicidi di giornalisti di alto profilo e l’intervento mafioso nelle gare d’appalto statali. E, per rendere accettabile tutto questo, si invocava la necessità della «difesa della nazione» per la sua «sopravvivenza», definita col termine nazionalista-islamico di Beka. Lo Stato profondo è quella rete oscura di funzionari della sicurezza e criminalità organizzata che opera al di fuori dei canali legali e che si erge a difensore dell’interesse supremo della nazione, ma che in realtà protegge gli interessi del regime di turno sostenendo politiche di sicurezza antidemocratiche. E insieme all’interventismo dei militari ha spesso contrastato i governi democraticamente eletti. L’ironia della sorte è che il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) di Erdogan salì al potere quasi due decenni fa con la parola d’ordine di liberare lo Stato da questa mentalità autoritaria e di ripulirlo dalla presenza di «bande criminali». Il presidente turco era riuscito nella prima parte del suo mandato ad arginare l’influenza della criminalità organizzata e delle sue reti, forte dell’agenda europeista, del processo di adesione della Turchia all’Ue. Ma dopo il fallito colpo di stato del 2016, ha epurato tutta l’amministrazione dello Stato per estirpare dal suo corpo ogni possibile nemico e, per rimpiazzare i funzionari licenziati, ha fatto ricorso agli ex apparati dello Stato profondo, stringendo alleanze con gli ultranazionalisti, legittimando personaggi come Peker e richiamando in servizio ex funzionari della sicurezza. L’ancoraggio della Turchia all’Occidente è stato sempre uno dei fattori che ha mantenuto viva la speranza di un percorso democratico del paese e il suo Stato profondo sembrava essersi dissolto. Ora che l’ancoraggio sta venendo meno, quegli oscuri demoni sono di nuovo alla ribalta.
Il duello che avrebbe cambiato il mondo di oggi. Andrea Muratore il 27 Maggio 2021 su Il Giornale. Nel 1916 Ataturk rifiutò il comando delle truppe turche intente a domare la rivolta in Arabia. Dove la storia avrebbe potuto riservare un confronto diretto con Lawrence d'Arabia. Mustafa Kemal Ataturk è ricordato e, spesso inopportunamente, presentato in antitesi all’attuale presidente Recep Tayyip Erdogan come padre della Turchia contemporanea succeduta all’Impero ottomano. Uno dei padri non solo della Turchia ma anche del Medio Oriente contemporaneo, visto in prospettiva. Un'altra figura fondamentale che operò sul campo opposto rispetto a Mustafa "Pascià" ai tempi della Grande Guerra fu Thomas Edward Lawrence, passato alla storia come "Lawrence d'Arabia", l'organizzatore e il condottiero della Grande rivolta araba che contribuì a destabilizzare l'Impero Ottomano dall'interno e a aprire alla Gran Bretagna la porta della regione, sempre più strategica per il suo ruolo nelle dinamiche energetiche globali e nei collegamenti intercontinentali. Ebbene, inconsapevolmente, ben prima che la storia incidesse a caratteri cubitali i loro nomi tra i grandi del Novecento, Ataturk e Lawrence avrebbero potuto trovarsi a combattere direttamente. In uno scontro che avrebbe potuto riscrivere i destini personali di uno dei due, forse di entrambi, in prospettiva della regione intera. Accadde sul finire del 1916, quando il governo imperiale di Costantinopoli propose a Ataturk la possibilità di comandare l’armata turca impegnata nell’Hegiaz a domare la rivolta araba. Il rifiuto di Ataturk a darsi disponibile per un’azione di controguerriglia impedì un incontro storico con Thomas Edward Lawrence che avrebbe rappresentato un duello di portata storica. L’autorevolezza del “Pasha” Ataturk non sarebbe stata, dopo la fine della Grande Guerra, la stessa se il comandante della rivoluzione repubblicana turca non avesse potuto uscire con onore della disfatta nel conflitto da combattente invitto nelle varie battaglie e consolidare ulteriormente la sua fama negli anni successivi al 1918, segnato dall’armistizio di Mudros e dall’occupazione alleata di Costantinopoli. Da Gallipoli fino agli ultimi giorni di conflitto, passati affrontando nella zona di Aleppo le truppe dell'Intesa, Ataturk non ottenne un singolo insuccesso in battaglia, includendo nel computo anche le sfide con le truppe russe nel Caucaso. Parimenti, Lawrence fu audace e geniale condottiero che innovò al deserto l'arte della guerriglia. La prese di Aqaba, fortezza ottomana sul Mar Rosso espugnata con un raid dalla terraferma compiuta dalle truppe cammellate sbucate nel deserto bruciato dalla calura estiva nel 1917, fu indubbiamente facilitata dall'incapacità dei comandanti ottomani di contrapporre alla rivolta una strategia efficace. Come avrebbe potuto cambiare il destino della rivolta se ad affrontare Lawrence fosse stato proprio il futuro presidente della Turchia postbellica? La storia non si fa con i se e con i ma. Tuttavia, porsi una domanda del genere è lecito alla luce del fatto che Ataturk ben conosceva le dinamiche della guerriglia avendole applicate lui stesso pochi anni prima, nella difesa della Tripolitania e della Cirenaica ottomane: Ataturk si distinse con onore nella guerra combattuta dagli Ottomani contro l’Italia in Libia tra il 1911 e il 1912, comandando le unità nella zona di Derna, organizzando la guerriglia e la resistenza delle tribù locali, dopo aver anticipato Lawrence d’Arabia attraversando l’Egitto britannico vestito con gli abiti tribali tradizionali per poter far la spola con la madrepatria. Il 18 ottobre 1912, alla firma dell’armistizio con l’Italia, Derna fu consegnata senza esser stata espugnata sul campo. Come Lawrence, Ataturk capì che l'errore principale degli ottomani nei confronti delle tribù arabe era la loro volontà di porre esplicitamente il ceppo turco come dominante a scapito degli abitanti delle province dominate dalla Sublime Porta. Nazionalista panturco, Ataturk capì che per comandare con efficacia la difesa delle roccaforti libiche avrebbe dovuto inevitabilmente conquistare la fiducia dei leader locali. Il Gazi non esitò a stringere patti di ferro con la tribù dei Senussi, a promuoverne le pratiche sufi nelle bande di irregolari poste al suo comando, a vestire con gli abiti tradizionali per conquistare il loro consenso: tutte dinamiche che Lawrence avrebbe applicato nei deserti arabi. Prima di Lawrence, il comandante turco portò all'innovazione l'arte della guerra nel deserto, fatta di movimenti sotto traccia, di spostamenti notturni, di dinamiche simili a quella della guerra navale, in cui avanzate e ritirate hanno senso nel quadro di una strategia complessiva che non mira esclusivamente al controllo del territorio. E, ancora, prima di Lawrence, Ataturk seppe capire il peso politico del riconoscimento di una causa nazionale per sostenere la coesione con truppe "straniere" da parte delle tribù arabe. Il Feisal, sceriffo della Mecca, di Ataturk fu Seyid Ahmed Senussi, zio del futuro re di Libia Idris I. Vi è dunque da pensare che lo scontro avrebbe, in un certo senso, segnato i destini della regione. Ataturk era statista e uomo d'armi e non avrebbe esitato a cercare di isolare il guerrigliero Lawrence politicamente, mirando a creare un nuovo consenso con gli Arabi soggetti a Costantinopoli. Campo in cui il fallimento ottomano fu, alla prova dei fatti, totale, spianando la strada alla dissoluzione del dominio turco nella regione. Se in una contesa del genere a prevalere fosse stato Mustafa Kemal, difficilmente la causa araba avrebbe potuto svilupparsi con la stessa dinamicità e si sarebbe potuto arrivare con eguale velocità alla spartizione del Medio Oriente imposta dopo la fine dell'Impero ottomano da francesi e britannici. Vincendo contro Ataturk, invece, Lawrence avrebbe potuto togliere al futuro "Padre dei Turchi" ed eroe nazionale l'aura di invincibilità in battaglia su cui Mustafa Kemal fece presa quando guidò la rivoluzione contro le condizioni punitive imposte dal Trattato di Sevres e la riconquista completa dell'Anatolia, sede della Repubblica di Turchia postbellica. In entrambi i casi, questa ucronia avrebbe cambiato decisamente gli assetti mediorientali per come li conosciamo. Visto dall'ottica dell'Ataturk politico, l'aver rifiutato di domare la ribellione nell'Hegiaz e di sfidare Lawrence fu la decisione, col senno di poi, migliore in quando accelerò il progetto di "turchizzazione" dell'Anatolia, catalizzato dalla disfatta bellica a cui Lawrence diede un contributo fondamentale. Ma vista con l'occhio del soldato la scelta fu, dal punto di vista del futuro leader della Repubblica turca, un errore. Kemal uscì invitto da una guerra persa. E questo nessun comandante può definirlo un trionfo, se non dal punto di vista dell'onore personale. Le sabbie del Medio Oriente avrebbero potuto, in tal caso, decidere di consegnare solo uno dei due nomi all'epoca della storia del Novecento. Su cui militarmente le figure di Ataturk e Lawrence ancora oggi troneggiano.
Da repubblica.it il 12 aprile 2021. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha discusso oggi pomeriggio con il presidente del Consiglio europeo Charles Michel della visita ad Ankara, esattamente una settimana dopo l'incidente del Sofagate. Lo ha reso noto una fonte della Commissione europea precisando che la presidente ha chiarito che non permetterà mai più che una situazione del genere si ripresenti un'altra volta. Nel corso del loro faccia a faccia i due leader hanno discusso una serie di argomenti di attualità. Domani parteciperanno entrambi alla Conferenza dei presidenti al Parlamento europeo.
Dagoreport il 7 aprile 2021. La notizia del giorno nel mondo occidentale è il trattamento da sguattera riservato alla presidente della Commissione Europea, Von der Leyen, da parte di Erdogan. Il sultano di Ankara lascia Ursula senza poltrona durante la visita dei leader Ue: lui e il presidente del consiglio europeo Charles Michel prendono posto con le rispettive bandiere alle spalle, mentre la presidente viene lasciata prima in piedi, poi in un divano. Mancava poco che Erdogan le chiedesse di passare lo straccio e di portare il caffè. Come è stata possibile una pubblica umiliazione cosi' clamorosa dell'Europa tutta, attraverso la persona che la rappresenta? Un passo indietro, di natura tecnica. L'Unione Europea non è uno Stato sovrano, e come tale manca di quelle strutture che possono sembrare inutili orpelli ma sono parte integrante della struttura di un Paese. Il cerimoniale della Repubblica, ad esempio, da noi saldamente piazzato tra il primo piano della Farnesina e il palazzo del Quirinale. Presieduto da un ambasciatore di grado, è quello che si occupa di "incarrozzare" le macchine nelle visite ufficiali, che stabilisce chi debba sedersi e dove, seguendo gerarchie e protocolli rigidissimi e molto antichi. In una visita di Stato ogni dettaglio è studiato, stabilito, negoziato nei minimi dettagli da mani esperte e capaci. Perché la forma è sostanza. In un mese la Commissione ha collezionato due sconfitte clamorose in politica estera. Prima della mortificazione di Ursula senza seggiola, c’era stata la visita a Mosca dell'Alto rappresentate per la politica estera, Josep Borrell, con l’obiettivo di ottenere la liberazione del dissidente politico Alexei Navalny: non solo Borrell non ha ottenuto il risultato - e lo si sapeva in anticipo - ma ha anche subito l'espulsione di tre diplomatici europei accusati di aver partecipato alle manifestazioni antigovernative (Ha subìto anche l’affronto, durante la conferenza stampa con il ministro degli esteri russo Lavrov, di vedere l’Europa accusata di violazione dei diritti umani. Sul piano diplomatico, un disastro clamoroso). La Commissione Europea dispone solo di un servizio per le relazioni esterne, a cui a capo siede Josep Borrell, lo spagnolo che è alto rappresentante dell'Unione. Come direttore generale ha scelto Stefano Sannino, diplomatico di lungo corso e indubbia esperienza. Ma forse non è abbastanza. La mancanza di un corpo diplomatico e di un servizio di cerimoniale capace di fare il proprio dovere sta emergendo in modo prepotente. Il dito è puntato contro Erdogan, ci mancherebbe. Ma chi avrebbe dovuto proteggere Ursula Von der Leyen e, con lei, l'Europa tutta, non è stato in grado di farlo. Non ci si può aspettare condiscendenza da parte di un ceffo come Erdogan, bisogna pretendere il rispetto delle regole e bisogna farlo attraverso i canali che da secoli sono preposti a questo. Inutile ogni commento su quel merluzzo lesso di Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, che si è seduto assecondando lo sgarbo di Erdogan e lasciando in piedi la Von der Leyen.
(ANSA il 7 aprile 2021) - ROMA, 07 APR - La visita dei leader Ue in Turchia lascia in eredità un incidente di protocollo che sui social, fra numerose critiche, è stato già ribattezzato "sofagate". Di mezzo c'è infatti un divano, quello su cui il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ieri ha fatto accomodare la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, mentre lui e il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, prendevano posto su due poltrone con le rispettive bandiere alle spalle. La scena è ripresa in un video diventato virale in cui si sente un mugugno di disappunto da parte di von der Leyen mentre gli altri due si accomodano sulle poltrone. Nella scena successiva si vede la presidente della Commissione Ue seduta su un divano posto alla destra degli interlocutori. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen "chiaramente è rimasta sorpresa, lo si vede nel video, ma ha preferito dare priorità alle questioni di sostanza rispetto al protocollo". Lo ha detto il portavoce della commissione europea Eric Mamer rispondendo ai giornalisti sul 'sofagate' durante la visita ieri ad Ankara precisando comunque che la Commissione "si aspetta di essere trattata secondo il protocollo adeguato" e che "saranno presi contatti con tutte le parti coinvolte perché non si ripeta in futuro". (ANSA).
Monica Ricci Sargentini per corriere.it il 7 aprile 2021. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen trattata come una presenza marginale per la quale non è nemmeno prevista una sedia. È successo ieri ad Ankara durante l’incontro con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. «Le donne sono le nostre madri» ama ripetere il presidente turco per sottolineare quanto le rispetti e le consideri. Ma evidentemente devono saper stare al loro posto. Tutte. Persino Ursula von der Leyen che occupa la carica più alta nell’Unione Europea. Nessuno, però, sembra aver protestato nella giornata di ieri. La presidente della Commissione Ue era giunta in Turchia insieme al presidente del Consiglio europeo, Charles Michel ma quando i tre sono entrati in una sala riccamente decorata nel palazzo presidenziale di Ankara c’erano solo due sedie predisposte. Gli uomini si sono seduti mentre von der Leyen, in chiaro imbarazzo, li fissava incerta. Alla fine la leader europea ha fatto un cenno con la mano destra come a dire «non vi preoccupate» e si è andata a sedere su un divano beige a circa tre metri di distanza, di fronte al ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, che però è ben al di sotto di lei nel protocollo diplomatico. L’increscioso episodio, immortalato dai fotografi e dal video ufficiale dell’incontro è immediatamente rimbalzato sui social con l’hashtag #sofagate. Come mai Michel non ha mosso un dito? Perché non ha offerto il suo posto a von der Leyen? Perché lei ha accettato la situazione senza reagire? Sono le domande che si pongono gli internauti sui social. L’eurodeputata olandese Sophie in’t Veld ha fatto notare su Twitter che nei precedenti incontri tra il leader turco e i due presidenti europei i tre occupavano sedute equivalenti. Foto di precedenti incontri tra Erdogan e gli allora presidente del Consiglio Ue Tusk e capo della Commissione Jean-Claude JunckerFoto di precedenti incontri tra Erdogan e gli allora presidente del Consiglio Ue Tusk e capo della Commissione Jean-Claude Juncker. La gaffe diplomatica avviene a ridosso dell’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. Una decisione criticata dall’Unione Europea e dal mondo intero.
Dimenticanza o gesto politico? Erdogan e lo sgarbo all’Europa, il "Sultano" turco lascia von der Leyen senza sedia: scoppia il "sofagate". Fabio Calcagni su Il Riformista il 7 Aprile 2021. La recente visita di una delegazione europea in Turchia, alla "corte" del presidente Recep Tayyip Erdogan, ha lasciato dietro di sé strascichi e polemiche dall’eco vastissimo. Soltanto oggi è emerso infatti il video, già ribattezzato del "sofagate" (sofa in inglese significa divano, ndr), in cui infrangendo o dimenticando volutamente qualsiasi cerimoniale, il ‘Sultano’ turco fa accomodare la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo, l’ex premier belga Charles Michel, rispettivamente su un divano e una sedia. Entrati nel sontuoso palazzo presidenziale di Ankara, ad attendere i tre e il ministro degli Esteri turco Melvut Cavusoglu ci sono però solo due sedie: Erdogan senza pensarci fa sedere Michel, con la von der Leyen che resta attonita in piedi. Dopo qualche secondo di imbarazzo, in cui lo stesso Michel resta fermo senza reagire, la numero della Commissione Ue emette un verso quasi gutturale fino a quando viene fatta accomodare su un divano, ben distanziata da Erdogan e dallo stesso Michel. Una scena che Ursula von der Leyen non ha commentato direttamente. Il portavoce della Commissione europea Eric Mamer rispondendo ai giornalisti sul "sofagate" ha spiegato che la presidente “chiaramente è rimasta sorpresa, lo si vede nel video, ma ha preferito dare priorità alle questioni di sostanza rispetto al protocollo”. Mamer ha comunque sottolineato che la Commissione “si aspetta di essere trattata secondo il protocollo adeguato” e che “saranno presi contatti con tutte le parti coinvolte perché non si ripeta in futuro”. L’incontro era servito a Turchia ed Unione Europea per discutere di alcuni dossier chiave: dalla questione migranti alla lotta al cambiamento climatico, fino al rispetto dei diritti umani. Su quest’ultimo punto la von der Leyen si era detta “molto preoccupata” per la scelta turca risalente ad alcune settimane fa di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. Che la mossa di Erdogan di far sedere Michel sia un gesto sessista e politico? Ad evocarlo è stata l’eurodeputata olandese Sophie in ‘t Veld, che su Twitter ha ricordato come in passato negli incontri tra Erdogan e i precedenti presidenti europei, Jean-Claude Junker e Donald Tusk, occupavano tutti sedute "equivalenti". Il non detto è che la mossa di Erdogan potrebbe essere un incidente voluto, l’ennesimo gesto di disprezzo verso le donne da parte di un presidente che sta portando il suo Paese sempre più verso l’islamismo radicale, unito ad un nazionalismo sempre più sfrontato ed evidente anche dall’interventismo negli scenari di guerra esteri.
Erdogan lascia Von der Leyen senza sedia: è “sofagate”. Il Dubbio il 7 aprile 2021. Il presidente turco riceve il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e la presidente della Commissione europea ad Ankara. Ma per lei non c'è la sedia. Un incidente o uno sgarbo ben studiato? L’episodio è già diventato un caso diplomatico. E a Bruxelles lo hanno soprannominato il «sofagate» con tanto di hashtag per i social. Parliamo del torto commesso dal presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ma anche dal presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, nei confronti della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, lasciata senza sedia al ricevimento nel Palazzo di Ankara. La presidente della Commissione europea era giunta in Turchia insieme al presidente del Consiglio europeo, Charles Michel e i tre sono entrati in una sala riccamente decorata. Ma c’erano solo due sedie predisposte: si sono seduti i due uomini e Von der Leyen è rimasta in piedi. Il filmato che ritrae la scena è già la parte più vista e discussa del vertice. «Ehm», è stata la reazione muta ma indignata di von der Leyen che con un cenno ha voluto chiedere spiegazioni e ricevere indicazioni su dove accomodarsi. Le è quindi stato assegnato un divanetto a tre metri di distanza, di fronte al ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, declassandola secondo il protocollo diplomatico e, soprattutto, come donna. La presidente è stata «chiaramente sorpresa, come si vede nel video», dal trattamento ricevuto, ma «ha scelto di concentrarsi sulla sostanza dei problemi e non sulla forma», ha chiarito il portavoce della Commissione europea, Eric Mamer. «La visita è stata preparata usando i canali con la nostra delegazione ad Ankara. L’ufficio di protocollo della Commissione non ha partecipato per limitare i contatti a causa del Covid», spiega Mamer. «L’episodio – sottolinea – non dovrebbe far passare in secondo pianole ragioni del viaggio». «Mettiamo le cose in chiaro. Qualcuno dovrebbe vergognarsi a causa della mancanza di un posto adeguato per Ursula von der Leyen nel palazzo di Erdogan. L’Ue ha segnalato l’apertura al dialogo, ma siamo fermi sui nostri valori. Le donne meritano lo stesso riconoscimento dei loro colleghi maschi», ha scritto il Ppe, principale formazione politica all’Europarlamento, in un tweet. «La presidente von der Leyen lasciata senza sedia da Erdogan se ne sarebbe dovuta andare, vendicando così anche le donne turche, i cui diritti sono oggi sotto attacco. Vergognoso l’atteggiamento di Charles Michel che non sembra aver mosso un dito», ha rincarato il capo delegazione del Pd al Parlamento europeo, Brando Benifei. Certo è che il simbolismo dell’ex ministra tedesca confinata in un divanetto laterale è potente: visi può leggere la scarsa coesione tra istituzioni Ue, il declino della Germania post Merkel, un residuo di maschilismo nelle relazioni internazionali o un semplice disastro dei responsabili del cerimoniale. La sedia, del resto, è sempre stata un’immagine evocativa: nell’arte può indicare una presenza ma anche un’assenza, una perdita o la speranza di un ritorno. Nella costruzione europea è passata alla storia la politica della «sedia vuota» adottata nel 1965 da Charles de Gaulle: la Francia boicottò tutte le riunioni della Cee per contestare la svolta federalista proposta dalla Commissione di istituire un bilancio comunitario autonomo e di rafforzare i poteri del Parlamento europeo. La crisi si concluse solo l’anno dopo con il «compromesso di Lussemburgo» che introdusse il diritto di veto: da allora basta una sedia per bloccare le decisioni in materia di sicurezza, affari esteri e imposizione fiscale.
"Arrogante", "Ursula signorile". E ora è rivolta contro Erdogan. Per la rubrica il bianco e il nero abbiamo interpellato la forzista Gabriella Giammanco e l'ex ministro Livia Turco sullo sgarbo istituzionale compiuto dal premier turco Erdogan nei confronti del presidente della Commissione Ue, Ursula Von Der Leyen. Francesco Curridori - Ven, 09/04/2021 - su Il Giornale. Per la rubrica il bianco e il nero abbiamo interpellato la forzista Gabriella Giammanco e l'ex ministro Livia Turco sullo sgarbo istituzionale compiuto dal premier turco Erdogan nei confronti del presidente della Commissione Ue, Ursula Von Der Leyen.
Secondo lei, la Von der Leyen ha fatto bene a comportarsi così? E lei che avrebbe fatto al suo posto?
Turco: “Credo che Ursula Von Der Leyen si sia comportata bene. Il suo atteggiamento così elegante rende ancora più evidente l'ineleganza e l'arroganza di Erdogan”.
Gianmanco: “Allo stesso modo. Ursula von der Leyen si è comportata in modo signorile, ha evitato di discutere sulla forma concentrandosi sulla sostanza dell’incontro, dando una vera e propria stoccata a Erdogan nel momento in cui gli ha posto la questione dei diritti femminili. Discutibile, invece, il comportamento di Michel. Nel 2015, ad Antalya, entrambi i leader dell’Ue dell’epoca, Juncker e Tusk, furono fatti accomodare in due poltrone equidistanti da quella di Erdogan. Come ha osservato il portavoce della Commissione Ue, durante gli incontri coi capi di Stato o di governo esteri, il Presidente della Commissione e del Consiglio europeo siedono allo stesso modo. Evidentemente ad Ankara qualcosa è andato storto nonostante le delegazioni, quella ospitante e quella in visita, si confrontino sempre prima dell’inizio di una missione”.
Charles Michel avrebbe dovuto alzarsi e lasciare il posto alla Ursula?
Turco: “Sì, assolutamente. O comunque non sarebbe dovuto essere tacito e complice di questa situazione”.
Gianmanco: “Sicuramente non avrebbe dovuto sedersi facendo finta di nulla”.
L'Unione Europea esce indebolita da questa vicenda?
Turco: “Non credo che ne esca indebolita. Più che altro emerge una grande differenza tra le istituzioni europee e quelle turche. Vedo solo l'arroganza altrui, non la nostra debolezza”.
Gianmanco: “Questo episodio non ha restituito l’immagine di un’ Europa pronta a lottare per i propri principi liberali e democratici, per i diritti e i valori su cui si fonda. Non parlerei, però, di ‘indebolimento’, non è un singolo episodio a determinare la forza o la debolezza dell’Unione europea semmai l’assenza di una politica estera e di difesa comune. Tutte questioni che si potranno risolvere solo se il processo di integrazione sarà portato avanti, anche superando il diritto di veto dei singoli Paesi membri su certe tematiche”.
Questa vicenda segna la fine di ogni ipotetico ingresso della Turchia in Europa?
Turco: “L'ingresso della Turchia in Europa diventa sempre più complicato sicuramente a causa di gesti così poco rispettosi che rivelano una cultura un po' patriarcale e arrogante, ma non solo. L'accantonamento della Convenzione di Istanbul sulla lotta contro la violenza sulle donne è un fatto gravissimo. È il regime illiberale di Erdogan che rende difficile l'ingresso della Turchia in Europa”.
Gianmanco: “L’Europa non è solo un’unione economica, occorre aderire a principi liberali, democratici, di laicità e rispettare i diritti umani per poter pensare a un percorso comune. Di certo, al momento, con Erdogan, tutto ciò appare impraticabile”.
L'Unione Europea dovrebbe continuare a finanziare la Turchia sui migranti?
Turco: “Credo che l'Europa debba cambiare la sua politica migratoria perché appaltare alla Turchia il controllo delle frontiere mi pare una scelta di debolezza dell'Europa. Credo che doversi affidare ai controllori delle frontiere esterne sia un elemento ulteriore di revisione della politica europea dell'immigrazione”.
Gianmanco: “Ritengo che il fenomeno migratorio non possa prescindere da accordi con i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo e quindi dalla necessità di dialogare, per quanto possibile, con Ankara. È, però, anche vero che la Turchia non può continuare ad utilizzare i migranti come strumento di pressione senza poi rispettare alla lettera i patti. Quello che sta accadendo al confine con la Grecia è intollerabile".
Draghi a Erdogan: "Dittatore". La Turchia convoca l'ambasciatore. Il premier attacca il "Sultano" sul caso Von der Leyen. La Turchia reagisce sul piano diplomatico. Tensione con Roma. Lorenzo Vita - Gio, 08/04/2021 - su Il Giornale. Il caso diplomatico tra Unione europea e Turchia riecheggia anche a Roma, nelle stanze di Palazzo Chigi. Dopo le accuse dei parlamentari, ora è il turno del premier Mario Draghi, che risponde così a una domanda in conferenza stampa su quanto accaduto in Turchia con protagonisti Ursula von der Leyen, Charles Michel e Recep Tayyip Erdogan: "Non condivido assolutamente il comportamento di Erdogan nei confronti della presidente Von der Leyen, credo non sia stato appropriato. Mi è dispiaciuto tantissimo per l'umiliazione che Von der Leyen ha dovuto subire. La considerazione da fare è che con questi dittatori di cui però si ha bisogno di collaborare, o meglio di cooperare, uno deve essere franco nell'esprimere la differenza di vedute, di comportamenti, di visioni, ma pronto a cooperare per gli interessi del proprio paese". Draghi entra a gamba tesa nel dibattito sul "sofa-gate" di Ankara e lo fa con parole molto dure nei confronti del presidente turco. "Dittatore" non è un termine che si usa in modo casuale. E di certo Draghi non è un presidente del Consiglio che solitamente si inerpica in frasi roboanti o in pura propaganda. Le parole hanno un peso e definire in quel modo il presidente della Turchia significava lanciare un segnale chiarissimo non solo nei confronti della Turchia, ma anche per far comprendere la direzione intrapresa dal blocco euro-atlantico di cui Draghi è uno dei principali interpreti. Parole che ovviamente hanno acceso lo scontro diplomatico. E non poteva essere altrimenti. Subito dopo la conferenza stampa in cui il premier ha definito Erdogan un "dittatore" sostanzialmente necessario, il ministero degli Esteri turco ha convocato l'ambasciatore italiano, Massimo Gaiani. A renderlo noto è stata l'agenzia di stampa ufficiale turca Anadolu. A stretto giro arriva anche la condanna del ministro degli Esteri, Mevut Cavusoglu. "Il premier italiano, nominato, Mario Draghi, ha rilasciato una dichiarazione populista e inaccettabile nei confronti del nostro presidente della Repubblica, che è stato scelto attraverso elezioni", ha detto il capo della diplomazia turca. E ha poi aggiunto: "Condanniamo con forza le parole riprovevoli e fuori dai limiti e le rispediamo al mittente". Cavusoglu ha poi chiesto che "vengano immediatamente ritirate le dichiarazioni sgradevoli e fuori dai limiti" dette da Draghi nei confronti di Erdogan. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio è intervenuto durante la trasmissione "Dritto e Rovescio" su Rete 4 e ha commentato così la tensione tra Italia e Turchia dopo le parole del premier: "In queste ore sentirò Mario Draghi e coordineremo le iniziative che si devono intraprendere, non anticipo niente". E sulla questione "sofa-gate" ha sentenziato: "Ritengo che si tratti prima ancora di protocollo di un minimo di galanteria".
Turchia, Draghi ritiri subito le frasi su Erdogan. (ANSA l'8 aprile 2021) All'ambasciatore italiano ad Ankara Massimo Gaiani, convocato stasera al ministero degli Esteri turco, "è stato sottolineato che ci aspettiamo che queste brutte e sfacciate affermazioni" del premier italiano Mario Draghi sul presidente turco Recep Tayyip Erdogan, "che non sono conformi allo spirito di amicizia e di alleanza tra Italia e Turchia, vengano immediatamente ritirate". Così una nota del ministero degli Esteri di Ankara.
(ANSA il 9 aprile 2021) "A seguito delle inaccettabili dichiarazioni fatte oggi dal primo ministro italiano" Mario Draghi "sul nostro presidente" Recep Tayyip Erdogan, "l'ambasciatore italiano ad Ankara è stato immediatamente convocato questa sera presso il nostro ministero", riferisce il comunicato turco. A conferire con il nostro ambasciatore è stato Il viceministro degli Esteri con delega agli Affari Ue, Faruk Kaymakci, che nell'esprimere la "forte condanna" della Turchia per le parole di Draghi, ha sottolineato che Erdogan "è il leader eletto con il più forte sostegno del voto popolare in Europa". La nota di Ankara entra poi nel merito della vicenda del caso 'Sofagate', da cui sono partite le dichiarazioni di Draghi. "Nessuno può mettere in dubbio l'ospitalità della Turchia. Il nostro Paese - si legge - non prenderà parte a una insensata e maliziosa discussione all'interno dell'Ue" e giudica "vani i tentativi di danneggiare l'agenda positiva tra Turchia e Ue". "Da noi non ci sono dittatori. Se volete vedere un dittatore, guardate alla vostra storia. Guardate Mussolini". Così il vice-leader dell'Akp del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, Numan Kurtulmus, rivolgendosi all'Italia, dopo che il premier Mario Draghi ha definito Erdogan un "dittatore". (ANSA). "Il primo ministro nominato d'Italia ha superato i limiti definendo come "dittatore" Recep Tayyip Erdogan, che è stato eletto Presidente dal popolo turco con il 52%. Condanniamo fermamente questo stile, che non ha posto nella diplomazia. Chi cerca il dittatore guardi alla storia d'Italia". Lo scrive su Twitter il capo della comunicazione della Presidenza di Ankara, Fahrettin Altun, in un messaggio in italiano. Una condanna analoga giunge anche dal portavoce del capo dello stato turco, Ibrahim Kalin, che sempre via Twitter chiede che "questa affermazione venga corretta immediatamente". (ANSA).
Draghi contro Erdogan. Da “Anteprima. La spremuta di giornali di Giorgio Dell’Arti” il 9 aprile 2021. A un certo punto, durante la conferenza stampa, hanno chiesto a Draghi: cosa ne pensa dello sgarbo di Erdogan alla presidente Ursula von der Leyen? Risposta: «Non condivido assolutamente le posizioni di Erdogan e penso non sia stato un comportamento appropriato. Mi è dispiaciuto moltissimo per l'umiliazione che la presidente della Commissione von der Leyen ha dovuto subire. La considerazione da fare è che con questi dittatori, chiamiamoli per quel che sono, uno deve essere franco nell'esprimere la propria diversità di vedute, di opinioni e di visione della società».
Il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha definito «offensive e imprudenti» le dichiarazioni di Draghi. «Condanniamo con forza le inaccettabili parole del premier nominato italiano sul nostro presidente eletto». In serata, poi, ha convocato l'ambasciatore italiano in Turchia Massimo Gaiani per protestare.
Riguardo alla faccenda della sedia per Ursula, il ministro ha detto: «Nel protocollo implementato nella riunione su scala ristretta tenutasi presso l'ufficio del nostro Presidente, le richieste della parte dell'UE sono state soddisfatte».
«Stando a una nota del Consiglio europeo ai diplomatici non è stato permesso di visitare in anticipo la sala dell'incontro poiché troppo vicina agli uffici di Erddgan. Lo stesso è avvenuto per la sala da pranzo, che però è stata vista qualche minuto prima, e si è provveduto ad aggiungere una sedia, anche lì, mancante. Come non farsi venire il sospetto - vista la sala da pranzo - che lo stesso sarebbe accaduto per la sala dell'incontro? La sedia per von der Leyen, è chiaro, non era stata prevista dai turchi, ma senz'altro non è stata richiesta dagli europei. Se così fosse stato, "la richiesta sarebbe stata soddisfatta"» [Sta].
«Il colpo da ko: un (anonimo) alto funzionario turco insinua che il "sofagate" sia nato dalle "gelosie" tra Michel e von der Leyen. Bersaglio centrato, visto che il dubbio serpeggia anche a Bruxelles, dove viene attribuita al belga una certa gelosia verso la tedesca» [D'Argenio, Rep)].
La Turchia, per l'Italia, è il quinto partner commerciale più importante, il secondo a livello europeo dopo la Germania.
A Roma, intanto, i deputati del Partito democratico hanno sistemato una sedia vuota al centro dell'emiciclo di Montecitorio per protestare contro quella che definiscono «un'offesa a tutte le donne».
Emanuele Bonini per La Stampa l'8 aprile 2021. Bruxelles – Adesso il sofagate finisce in Parlamento. Gli eurodeputati, ancora in pausa a Bruxelles sulla scia delle festività pasquali, non restano a guardare e dai loro collegi elettorali organizzano il lavoro delle prossime settimane. Per la sessione plenaria di fine mese (26-29 aprile) i due gruppi più numerosi, popolari (Ppe) e socialdemocratici (S&D) chiedono che si discuta in Aula della missione ad Ankara dei presidenti di Commissione e Consiglio europeo, per fare luce sulla vicenda e chiedere la testa di Charles Michel, reo di essersi prestato al gioco del presidente turco. La missione di Ursula von der Leyen e Charles Michel in Turchia «avrebbe dovuto essere un messaggio di fermezza e unità del nostro approccio al presidente Erdogan». Invece, lamenta il capogruppo del Ppe, Mafred Weber, «purtroppo ha portato a divisioni, poiché l'Ue non è riuscita a stare insieme quando era necessario». Da qui la richiesta di calendarizzare il dibattito, che trova d’accordo anche il centro-sinistra. «Le relazioni UE-Turchia sono fondamentali, ma lo sono pure l'unità dell’Ue e il rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle donne», incalza la capogruppo S&D, Iratxe Garcia Perez, che vuole «chiarire» cosa è successo e cosa non ha funzionato in Turchia. Proprio dai banchi dei socialdemocratici parte l’attacco frontale a Michel, liberale, accasato nel stesso gruppo (Renew) del partito del presidente francese Emmanuel Macron. Alla loro capogruppo Perez le europarlamentari del PD Alessandra Moretti e Patrizia Toia chiedono di farsi promotrice di una «iniziativa di censura nei confronti del Presidente del Consiglio Michel» per la sua «palese inadeguatezza». Parlamento contro Consiglio, popolari contro liberali, macroniani contro non-macroniani. Comunque andrà a finire il presidente turco ha già vinto. L’Unione europea è caduta nella trappola orchestrata ad arte, e dopo il sofagate litiga e si divide. E sul caso “Sofà-gate”, questa sera, nel corso della conferenza stampa sul punto pandemia-vaccini e futuro economico dell’Italia, è intervenuto anche il premier Mario Draghi che ha toccato anche temi di carattere nazionale. «Erdogan è un dittatore di cui si ha bisogno. Non condivido affatto il comportamento di Erdogan. E' stato un comportamento di cui mi dispiace moltissimo per l'umiliazione che la presidente della Commissione Ue, Von der Leyen, ha dovuto subire». E poi: «Con questi..chiamiamoli dittatori, bisogna essere franchi nell'espressione della visione della società ma pronti a cooperare per gli interessi del Paese. Bisogna trovare l'equilibrio giusto».
Draghi all’assalto di Erdogan: cosa c’è dietro l’affondo del premier. Lorenzo Vita su Inside Over il 9 aprile 2021. Mario Draghi irrompe nella crisi tra Europa e Turchia e lo fa con una presa di posizione durissima nei confronti del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. In conferenza stampa il presidente del Consiglio ha apostrofato il leader di Ankara come un “dittatore“, definendolo tutt’al più necessario, come interlocutore, per tutelare gli interessi nazionali. Una mossa che ha scatenato l’ira della Turchia che non solo ha convocato l’ambasciatore italiano ad Ankara ma ha anche chiesto ufficialmente che Draghi faccia marcia indietro per le parole rivolte nei confronti del presidente. La tensione tra i due Paesi è palese. Il premier italiano, non certo noto per la durezza del suo linguaggio in conferenza stampa, ha espresso parole chiare e gravi. Impossibile pensare che il governo turco non reagisse di fronte a quelle frasi. E quindi è del tutto evidente che se non vogliamo parlare di gaffe, possiamo allora parlare di una scelta di comunicazione precisa da parte del presidente del Consiglio. Una mossa che svela non soltanto una rinnovata assertività diplomatica italiana nel Mediterraneo, ma anche la scelta da parte di Draghi di muoversi sui due binari che hanno da subito contraddistinto il suo incarico: europeismo e atlantismo. Sul fronte europeo, è chiaro che Draghi abbia voluto inviare un segnale. Mentre l’Ue si è dimostrata impacciata e rigida nei confronti del presidente turco, e mentre Angela Merkel ed Emmanuel Macron non hanno manifestato in modo netto la loro distanza da quanto avvenuto ad Ankara, Draghi ha fatto capire di poter essere un elemento molto più importante nelle gerarchie europee. La sua è una presa di posizione netta, dura e particolarmente incisiva. E la decisione di entrare così a gamba tesa a difesa di Ursula von der Leyen ma soprattutto contro Erdogan sembra voler dire qualcosa a tutta l’Europa: la sua leadership in Italia può tramutarsi in una leadership europea. E lo può fare sfruttando non solo le occasioni che gli si presentano nel corso del tempo ma anche l’indubbia fragilità mostrata sia da Macron che da Merkel. Con l’asse franco-tedesco indebolito, Draghi può puntare a entrare come “terzo incomodo” tra i due poli d’Europa. E può farlo per il credito ottenuto in questi anni a Francoforte ma anche per convergenze internazionali particolarmente importanti. In questo allineamento planetario in favore di Draghi rientra anche l’arrivo di Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti. Il presidente democratico non è per niente soddisfatto di quanto avvenuto in questi anni in Turchia. Considera Erdogan un problema, non ha nemmeno provato a telefonargli dopo settimane dal suo insediamento, e l’impressione è che da parte della Casa Bianca si voglia rendere chiaro un concetto: la Turchia è un importante alleato Nato ma deve sottostare a quanto deciso dal quartier generale atlantico. Una questione che è diventata molto rilevante per Biden soprattutto nell’ottica di contrapposizione a Cina e Russia, che in questi anni hanno invece stretto con la Turchia dei legami molto forti. Il divario tra Biden e Erdogan può sicuramente fare il gioco di Draghi, dal momento che invece il premier italiano gode eccome dei favori di Washington. Il presidente del Consiglio ha già fatto capire di avere molto a cuore le relazioni con gli Stati Uniti. Ed è chiaro che l’avversione della Casa Bianca per l’attuale amministrazione turca trova in Italia una sponda importante. Soprattutto perché la possibilità di avere il placet americano aiuterebbe Roma a riprendere settori vitali della Libia finiti in questi anni nelle mani proprio di Ankara. E il viaggio a Tripoli è stato particolarmente importante proprio per far capire il ruolo italiano nel Paese. Tutto così semplice? Non proprio. Vero che Draghi ha il sostegno di Europa e Stati Uniti anche sul fronte turco, ma il premier ha detto una frase un po’ più complessa quando si riferiva Erdogan come a un “dittatore”. Il presidente del Consiglio ha infatti detto: “Con questi dittatori, di cui però si ha bisogno per collaborare, bisogna essere franchi per affermare la propria posizione ma anche pronti a cooperare per gli interessi del proprio Paese, bisogna trovare l’equilibrio giusto”. Ecco, su questa frase occorre riflettere. Perché è proprio qui che l’Italia si gioca tutto. La Turchia è un partner molto importante dell’Italia nel Mediterraneo. L’interscambio commerciale è ottimo, gli accordi in diversi settori economici sono fondamentali, esistono progetti bilaterali sul fronte della logistica, ma è soprattutto una relazione che vede in Libia il suo principale teatro di incontro. E di scontro. Ankara e Roma hanno condiviso, pur con posizioni diverse, l’asse con Tripoli quando Fayez al Sarraj rischiava di capitolare. La Turchia addestra la Guardia costiera libica, che a sua volta dovrebbe interrompere il traffico di esseri umani dalle coste nordafricane. E non va dimenticato che i militari italiani, insieme a quelli turchi, sono presenti sia a Tripoli che Misurata, e sono loro ad aver reso possibile la permanenza di un governo a Tripoli. È chiaro che il gioco turco sia quello (anche) di strappare spazio di manovra all’Italia in Tripolitania. Inviare droni, mercenari e navi non è certo per beneficienza: e l’Italia è la prima a essere stata lesa ne suoi interessi nel Paese nordafricano. Ma la cooperazione esiste ed è innegabile. Se non altro perché non va dimenticato che mentre Italia e Turchia supportavano l’ex premier Sarraj, altri sostenevano più o meno velatamente l’assedio di Khalifa Haftar, tra cui Russia, petromonarchie arabe e, in parte, la Francia. La stessa Grecia, rappresentata in questi giorni a Tripoli da Kyriakos Mitsotakis, non ha nascosto in certe fasi un’infatuazione per il maresciallo della Cirenaica. E anzi, il vertice di ieri in Libia tra Draghi e l’omologo greco potrebbe essere stato il preludio di questo scontro con Erdogan e di un rinnovato allineamento con Ue e Nato. Insomma, se la questione del sofa-gate può essere semplice da analizzare e commentare, diverso è il caso dei rapporti tra due Stati quando si è sul campo di battaglia. E quelli tra Italia e Turchia sono rapporti non solo complessi, ma anche molto delicati. Dalla Libia al Mediterraneo orientale fino al Corno d’Africa, lì dove l’Italia ha perso il suo ascendente facendo spazio proprio alle manovre di Ankara, c’è una Turchia con cui bisogna trattare. La durezza nei confronti di Erdogan è legittima; ma se poi lo si considera un interlocutore necessario per gli interessi nazionali, allora le cose cambiano. Specialmente perché le armi contrattuali, al Sultano, non mancano affatto.
L’Italia, l’ira del Sultano e lo spettro dell’effetto farfalla. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 9 aprile 2021. Si dice che il battito d’ali di una farfalla a New York possa provocare un urugano dall’altra parte del mondo o, parafrasando Alan Turing, che un evento apparentemente insignificante come lo spostamento femtometrico di un elettrone al tempo uno potrebbe innescare una catena di eventi culminante in una valanga omicida al tempo due. Si chiama effetto farfalla ed è una teoria che pertiene alla matematica e alla fisica, sebbene possa trovare valida applicazione anche nella geopolitica e nelle relazioni internazionali. Perché historia homines docet che gli eventi più impensabili, spesso e inconsapevolmente, hanno dato vita agli esiti più inattesi, improbabili e travolgenti, senza che l’Uomo, guidato com’è da un orizzonte temporale terreno, transitorio e labile, potesse prevenirli o cavalcarli. È il caso di una rivoluzione partita in Francia nel 1789, che vent’anni dopo avrebbe dato avvio all’emancipazione dell’Iberoamerica dall’impero spagnolo, o di uno sciopero operaio nel porto di Danzica nel 1970, che ventuno anni più tardi avrebbe condotto all’estinzione dell’Unione Sovietica. La cognizione del ruolo giocato dall’effetto farfalla nella storia apre gli occhi allo statista, che soltanto allora comprenderà la nodalità del fissare gli occhi sull’orizzonte e del tenere il ritmo spasmodico degli eventi del mondo. Non v’è altra maniera, infatti, per determinare se e quando la farfalla ha battuto le ali. E, peraltro, già lo scriveva Niccolò Machiavelli in quell’opera intramontabile intitolata “Il principe” che “bisogna sempre presagire non solo i pericoli presenti, ma soprattutto quelli futuri, per contrastarli in ogni modo”. Quelle insedie attuali di cui ci ha messo in guardia lo stratega fiorentino sono rappresentate dalle due ali di lepidottero che battono. È vero: non sappiamo né quando né dove la valanga colpirà, perché potrebbe essere oggi come fra dieci anni, ma siamo tenuti a rammentare anche la parte salvifica della tesi di Turing, cioè che dalle slavine ci si può salvare. Nel caso italiano, sapendo quando la farfalla ha battuto le ali – il 6 aprile, giorno dello sbarco a Tripoli di Mario Draghi – e sapendo quali teatri potrebbero essere travolti dalla cascata mortifera di neve – perché tornati in Libia su mandato dell’amministrazione Biden per fronteggiare Russia e Turchia –, è imperativo che il recupero del nostro posto al Sole venga inquadrato all’interno di una strategia lungimirante, onnicomprensiva, focalizzata sulla prevenzione ed estesa dal Mediterraneo al Caucaso meridionale.
Il peso delle parole. L’8 aprile, all’indomani dell’incidente che ha coinvolto Ursula von der Leyen ad Ankara, Mario Draghi ha definito Recep Tayyip Erdogan “un dittatore di cui si ha bisogno”; parole che hanno determinato la convocazione dell’ambasciatore italiano in Turchia. Scettico riguardo la teoria secondo cui la sedia non pervenuta sarebbe il frutto di un errore di protocollo, il primo ministro italiano ha voluto apporre un’etichetta magniloquente al capo di Stato turco, consapevole dell’importanza della semantica nella politica e, dunque, dei rischi ai quali andava incontro. Perché etichettare qualcuno equivale a categorizzarlo, dotarlo di un’identità e di un’appartenenza specifiche, che, in questo caso, risultano antagonistiche e antipodiche alla liberal-democratica Italia, rispondendo alla logica schmittiana e manichea dell’amico–nemico. Definendo Erdogan un dittatore, Draghi lo ha catalogato come un membro di quella comunità di stati illiberali che l’amministrazione Biden ha promesso di combattere, operando una netta distinzione tra “noi” (democratici) e “loro” (dittatoriali), segnando una profonda discontinuità con il passato recente, ovverosia con la politica dell’accomodamento di necessità di Luigi di Maio, e confermando implicitamente di aver ricevuto un mandato antiturco da oltreoceano. Il punto dell’intera questione, però, è un altro: il governo Draghi è sicuro di volersi imbarcare nella missione ad alto rischio affidatagli dagli Stati Uniti (e a latere da Francia e Germania)? In palio c’è il recupero dell’influenza sulla Libia, per quanto parziale e risibile rispetto all’epoca Berlusconi, ma dietro l’angolo si celano innumerevoli insidie, che, urge il coraggio di ammetterlo, potrebbero dare vita ad una slavina. Perché l’Italia non si ritroverà ad affrontare una potenza in declino, ma una in ascesa, e l’eventuale decisione di trattare simultaneamente la Russia con aperta ostilità non farà che elevare l’aleatorietà della partita, anche perché, occorre tenerlo in considerazione, non abbiamo una forma mentis imperiale e impostata sull’offensiva.
Dove potrebbe colpire la Turchia. La farfalla ha battuto le ali, perciò è giunto il momento di capire quando, come e dove avrà luogo il cataclisma. Non è dato sapere il quando, ma il come e il dove possono essere pronosticati con una certa disinvoltura dato che la provvidenza sembra aver unito in maniera (quasi) indissolubile Italia e Turchia: dove c’è l’una, lì c’è anche l’altra. Nel decennio del profondo sonno, cominciato nel lontano 2011 con il semaforo verde al cambio di regime in Libia, l’Italia si è progressivamente e silenziosamente ritirata da Balcani occidentali e Mediterraneo allargato, regalando o appaltando a terzi la gestione del proprio estero vicino, divenuto sempre più estero e sempre meno vicino. Approfittando dell’uscita dall’Orbe dell’Urbe, i giannizzeri della Sublime Porta rinata hanno creato avamposti fortificati lungo e dentro lo spazio di prosperità nostrano – disegnato malignamente dal fato come una terra eternamente condivisa e contesa tra popoli italici e turchi sin dai tempi della Serenissima e dello Stato Pontificio –, che, presto o tardi, potrebbero essere volti contro di noi. Urgono, a quest’ultimo proposito, delle precisazioni a scopo di disambiguazione: non si sta facendo riferimento a scenari fantapolitici di guerre aperte o per procura, ma a realistiche operazioni asimmetriche, manovre destabilizzanti e campagne di bellicismo economico che potrebbero assumere le seguenti forme: La riaffermazione della primazia italica in Libia, specialmente nei settori energetico e infrastrutturale, potrebbe venire sfidata da atti di sabotaggio, insurgenze estemporanee in prossimità degli obiettivi nostrani e concorrenza aggressiva da parte dei grandi privati turchi (e russi). Da non trascurare, infine, le seguenti realtà: intere sezioni del Paese sono divenute dei protettorati informali di Ankara e Mosca, l’era dell’italocentrismo è terminata da un decennio, la carta migratoria. Complicazioni potrebbero sorgere nei Balcani occidentali, dove l’impronta italiana è andata sbiadendo e arretrando, soprattutto tra Albania, Kosovo e Bosnia ed Erzegovina. Tre nazioni, le suddette, dove la Turchia può vantare un’influenza culturale (e politica) crescente e raccoglierà sicuramente i frutti prelibati dell’impareggiabile macchina umanitaria messa in moto durante la pandemia. Anche in questo caso, progetti di cooperazione, agende congiunte e piani di investimento potrebbero subire dei bruschi e improvvisi arresti. La situazione non è più splendente nell’Africa orientale, dove la Sublime Porta ha dato prova dell’avvenuto sorpasso sull’Italia in occasione del caso Silvia Romano, liberata grazie all’opera di mediazione dei servizi segreti turchi, e sta siglando accordi riguardevoli in materia di sicurezza e cooperazione militare. Delle molteplici lezioni che l’Italia dovrebbe aver tratto dal caso Romano, una risalta tra tutte: la nostra rete spionistica nello spazio ex coloniale è prisca, anacronistica, da riciclare, cioè non è all’altezza di vivere la competizione tra grandi potenze. Ultimo ma assolutamente non meno importante è il mondo turcico, compreso fra Caucaso meridionale e Asia centrale, dove la diplomazia nostrana ha gettato con successo le basi per una trasmigrazione geopolitica. Scontro frontale con la Turchia e antagonizzazione della Russia, sino ad oggi silente sulla nostra espansione nello spazio postsovietico, significherebbero avvio delle ostilità su teatri per noi pivotali (l’Azerbaigian è il nostro primo rifornitore di petrolio dal 2013) e difficilmente difendibili a causa dell’assenza di alleati utili e validi in loco.
Cosa fare e cosa non fare. L’Italia ha le carte in regola per competere con la Turchia, ponendo fine all’epoca dell’accomodamento varata da Luigi di Maio ed emancipandosi dallo status di socio di minoranza? Sì. Abbiamo il capitale necessario, il sicuro appoggio dei grandi privati nostrani e, sembrerebbe, il supporto tacito degli Stati Uniti, quindi di Francia e Germania. Se vogliamo cogliere l’opportunità di rendere il Mediterraneo allargato meno caotico e più italiano, però, è tassativa la formulazione di una strategia studiata nei minimi dettagli e basata sulla considerazione di ogni possibile scenario. È nell’interesse italiano coltivare l’inimicizia della Russia? No. Un filo invisibile lega il caso Biot e le prese di posizione anti-erdoganiane dell’esecutivo: la volizione di segnalare alla Casa Bianca che l’Italia vuole giocare la partita, preferibilmente in posizione d’attacco. La linea dello scontro su due fronti sarebbe controproducente per una ragione molto semplice: le due potenze unirebbero le forze per contrastarci e indebolirci sia in Libia sia nell’Asia postsovietica. A quel punto il vantaggio detenuto nei confronti di entrambe, se affrontate singolarmente, sarebbe annullato. Fedeltà all’atlantismo e linea morbida con il Cremlino non si escludono vicendevolmente, anzi sono una peculiarità storica e consolidata della tradizione diplomatica italiana. Scontro frontale o aggiustamento dei ruoli? L’Italia ha i mezzi, gli alleati e l’economia, ma è priva dell’elemento (possibilmente) più importante: la forma mentis imperiale. La Turchia ha potuto ricostruire un’influenza rilevante sugli ex territori ottomani perché, pur essendo carente del fattore economico, è in possesso di volontà di potenza e lungimiranza. L’attuale modus convivendi non è sostenibile nel lungo termine, perché favorirà Ankara a nostro detrimento, ma la soluzione non proverrà dallo scoppio di venefiche rivalità con una potenza avvezza alla diplomazia delle cannoniere – che potrebbero avvantaggiare il terzo spettatore: la Francia –, bensì dal riaggiustamento paritario dei ruoli attraverso una semplice quanto efficace solerzia geopolitica da parte italiana. Quale strategia per l’Italia di Draghi? Sappiamo che la farfalla ha battuto le ali, possediamo un elenco delle baite esposte al rischio valanga e abbiamo cognizione dell’alta rischiosità di combattere su due fronti simultaneamente, dunque abbiamo tutto ciò di cui necessitiamo per evitare di cadere nell’errore fatale della discalculia. Proattività in luogo dell’abulia, prudenza anziché azzardo e occhi puntati sulla cima della montagna: la partita può avere inizio.
Ankara replica a Draghi: «Chi cerca un dittatore guardi alla storia d’Italia». Durante la conferenza stampa di ieri Draghi aveva commentato l'incidente diplomatico con Ursula von der Leyen definendo il presidente turco «un dittatore di cui si ha bisogno». Dura la reazione: «Parole gravissime». Il Dubbio il 9 aprile 2021. Il capo della comunicazione della presidenza turca, Fahrettin Altun, ha attaccato il premier Mario Draghi, definito «nominato», al contrario del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, eletto con il 52% dei voti. «Il premier nominato d’Italia ha superato i limiti e definito dittatore il nostro presidente, eletto con il 52% dei voti dal popolo turco. Parole che non trovano posto nella democrazia, pronunciate con uno stile da condannare. Se qualcuno cerca un dittatore allora guardi alla storia d’Italia», ha twittato Altun. Il PM nominato d’Italia ha superato i limiti definendo come “dittatore” Recep Tayyip Erdoğan che è eletto Presidente dal popolo turco con il 52%. Condanniamo fermamente questo stile che non ha posto nella diplomazia. Chi cerca il dittatore guardi alla storia d’Italia. Nella conferenza stampa organizzata ieri a Palazzo Chigi il premier Draghi aveva commentato il recente incidente di protocollo avvenuto lo scorso 6 aprile che ha coinvolto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen durante visita ad Ankara da Erdogan, condotta con il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. «Non condivido il comportamento del presidente turco nei confronti della presidente della Commissione europea e credo non sia stato appropriato», ha risposto Draghi alle domande dei giornalisti. «Mi è dispiaciuto moltissimo per l’umiliazione subita dalla presidente von der Leyen», ha aggiunto il premier italiano in merito all’incidente di protocollo che ha relegato su di un divano la presidente della Commissione Ue mentre il presidente turco Erdogan e Michel erano seduti l’uno a fianco all’altro su di una sedia. «Con questi dittatori, di cui però si ha bisogno per collaborare, bisogna essere franchi per affermare la propria posizione ma anche pronti a cooperare per gli interessi del proprio Paese, bisogna trovare l’equilibrio giusto», ha detto Draghi. Dura la replica di Ankara: «Condanniamo fortemente il discorso inaccettabile e populista, e le affermazioni brutte senza alcun limite del Presidente del Consiglio nominato sul nostro Presidente della Repubblica eletto e le rimandiamo al mittente», ha scritto in un tweet del ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu. Mentre il vicepresidente turco Fuat Oktay, ha dichiarato: «Condanno le dichiarazioni indecenti del primo ministro Draghi sul nostro presidente e lo invito a scusarsi».
Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" l'8 aprile 2021. Che Erdogan fosse Erdogan, lo si sapeva. Adesso sappiamo che anche Michel è Michel. Il despota turco riceve a palazzo i due presidenti d' Europa, Ursula von der Leyen (Commissione) e Charles Michel (Consiglio), ma di sedie per gli ospiti ce n' è una sola. A rigor di cerimoniale spetterebbe a von der Leyen, e non in quanto donna, ma per la maggiore rilevanza politica del suo ruolo. Mentre Erdogan è proprio in quanto donna che intende umiliarla e così invita Michel a occupare la seggiola dorata con i braccioli. Ci sono momenti che definiscono un carattere e un continente. Se Michel cedesse il posto alla collega, Erdogan verrebbe retrocesso di colpo a quello che è: un autocrate misogino, convinto che il potere di ricatto che esercita sull' Europa riguardo ai migranti lo autorizzi a infliggerci qualsiasi insolenza. Come europei ne usciremmo ingigantiti nell' autostima. Invece Michel si siede senza fare una piega, con un mix deprimente di inconsapevolezza e paura di sbagliare, lo stesso che ha guidato le istituzioni di Bruxelles nella fallimentare partita dei vaccini. Per un attimo spero che von der Leyen schiaffeggi quei due maschi inutilmente alfa, ma è una signora di buone maniere e contiene il suo imbarazzo nei limiti di un suono onomatopeico: «Ehm». Poi, per non peggiorare le cose, accetta di accomodarsi su un sofà laterale. Che rabbia. Ecco, se proprio devo trovare un aspetto positivo in questa vicenda, è la prima volta che mi arrabbio non come italiano, ma come europeo.
Turchia, Michel: “Mi dispiace di essere sembrato indifferente”. Ilaria Minucci su Notizie.it l'08/04/2021. Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha pubblicato un lungo post su Facebook per spiegare quanto avvenuto durante la visita in Turchia. Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha pubblicato un lungo post su Facebook relativo all’incontro avvenuto ad Ankara con il presidente turco Recepe Tayyip Erdogan, al quale si era recato in compagnia della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. In particolare, oltre a ribadire l’importanza e la risonanza internazionale dell’evento, il presidente del Consiglio europeo ha scelto di commentare lo spiacevole episodio che ha coinvolto la collega von del Leyen, noto con l’espressione “sofa-gate”. Continuano le polemiche sorte in seguito alla visita di Charles Michel e Ursula von der Leyen a Erdogan, durante la quale non è stata riservata nessuna sedia d’onore alla presidente della Commissione europea. Mentre Michel ed Erdogan occupavano le rispettive sedie, infatti, la donna si è vista costretta ad accomodarsi sul divano, posizionandosi di fronte a Mevlut Cavusoglu, ministro degli Esteri turco. In merito alla spiacevole vicenda verificatasi Ankara, il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel è stato accusato di aver mostrato distacco e indifferenza nei confronti del trattamento riservato alla collega. Nella giornata di mercoledì 7 aprile, quindi, Charles Michel ha deciso di fare chiarezza in merito all’accaduto, pubblicando un lungo post sul suo profilo Facebook ufficiale nel quale dichiara: “Le poche immagini che sono state mostrate hanno dato l’impressione che sia stato insensibile alla situazione. Niente è più lontano dalla realtà né dai miei sentimenti profondi né, infine, dai principi di rispetto che mi sembrano essenziali. In quel momento, pur percependo la natura deplorevole della situazione, abbiamo scelto di non peggiorarla con un incidente pubblico e di privilegiare in questo inizio di riunione la sostanza della discussione politica che stavamo per iniziare, Ursula e io, con i nostri ospiti”.
Il presidente del Consiglio europeo, poi, si è mostrato dispiaciuto principalmente per due motivi: “In primo luogo, mi dispiace di aver dato l’impressione di essere stato indifferente alla goffaggine del protocollo nei confronti di Ursula. Tanto più che sono onorato di partecipare a questo progetto europeo, di cui due grandi Istituzioni su quattro sono guidate da donne, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde. E sono anche orgoglioso che una donna, la prima nella storia, mi sia successa come Primo Ministro del Belgio. Infine, sono rattristato, perché questa situazione ha messo in ombra l’importante e benefico lavoro geopolitico che abbiamo svolto insieme ad Ankara e di cui spero che l’Europa raccolga i frutti”.
(AGI il 28 aprile 2021) - Istanbul, 28 apr. - La Turchia risponde alla presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, che ieri aveva parlato del sofagate, accusando Ankara di averla lasciata senza poltrona in quanto donna. "L'essere donna e l'abbandono della convenzione di Istanbul con l'episodio del divano della Von der Leyen non hanno alcuna relazione. Quanto accaduto e' il risultato della mancanza di coordinamento dell'Ue nello stabilire il protocollo. Un errore nel protocollo non puo' diventare un problema sulla parita' di genere. Abbiamo massimo rispetto e siamo fieri dell'amicizia con la Presidente Von der Leyen", si legge nel comunicato del ministero degli Esteri.
EMANUELE BONINI per lastampa.it il 26 aprile 2021. Quanto accaduto ad Ankara ha il sapore dell’umiliazione e del tradimento. Ursula von der Leyen torna sull’incidente della sedia mancante all’incontro con il presidente turco Recep Tayip Erdogan, e il massimo vertice della Commissione europea rimprovera e accusa il presidente del Consiglio europeo di averla condannata alla figura che ha fatto il giro del mondo. «Sono una donna, sono la prima donna a capo della Commissione europea, sono la presidente della Commissione europea e mi aspettavo di essere trattata come tale. Ma così non è stato», lamenta von der Leyen prendendo la parola nell’Aula del Parlamento europeo, che apre i lavori con quanto accaduto durante la visita in Turchia due settimane fa. «Ho cercato una giustificazione per quanto accaduto nei trattati, ma non le ho trovate». Vuol dire che «sono stata trattata in questo modo perché donna». Quindi l’affondo nei confronti di Michel. «Mi sono sentita ferita e sola, come donna e come europea». L’intervento di von der Leyen segue quello di Michel, sotto il fuoco dei parlamentari che hanno raccolto firme per chiedere le dimissioni del leader dei liberali europei. Il presidente del Consiglio europeo conferma la sua versione dei fatti. Ripete che i servizi protocollari non hanno avuto accesso alla sala della riunione, che non potevano sapere quale fosse la disposizione dei posti a sedere. Ripete che al momento dell’incontro ha preferito non fare nulla per evitare di creare un incidente ancora maggiore. Chiede scusa e assicura di essersi chiarito con von der Leyen, ma quando la presidente della Commissione prende la parola emerge lo strappo tra i due. «Dobbiamo garantire che ragazze e donne siano protette sempre e ovunque in Europa, perché il rispetto della donna misura lo spettro della democrazia» di un Paese e di un sistema di Paesi. In questo l’Ue ha fallito, con Michel che ha contribuito. Le parole di von der Leyen scatenano inevitabilmente le critiche in Aula. Particolarmente critica la capogruppo dei socialdemocratici europei, Iratxe Garcia Perez. «So che non si è reso conto del problema, ci credo. Ed è proprio questo il problema. Come donna mi sono sentita offesa».
Marco Gervasoni per "il Giornale" l'8 aprile 2021. Miracolo! Ursula von der Leyen si è accorta che Erdogan è islamico. Ma che non è solo tale, è anche a capo di un progetto di espansione della religione maomettana in tutti i Paesi della Ue. E che usa il suo potere ogni momento per raggiungere questo obiettivo. Potere anche simbolico, anzi soprattutto simbolico - secondo alcuni la forma più alta di potere. La fotografia della presidente della Commissione Ue assisa su un canapé in basso e a distanza dagli uomini resterà negli annali come memento. Essa non ci dice tanto su Erdogan: tutti ormai sappiamo chi sia e quale siano i suoi intenti. Condannare il suo gesto come sgarbo diplomatico, politico, culturale, è ovvio. Talmente ovvio che verrebbe da chiedere a Ursula: ma lei era rimasta l' unica nel mondo a non conoscere il Sultano? Che potesse agire così era prevedibile. No, la foto rimarrà negli annali come testimonianza dell' infingardaggine della Ue e dell' ipocrisia del suo «Stato guida», la Germania, principale sponsor del Sultano. Von der Leyen era presente infatti alla riunione non per sorseggiare un tè ma per discutere dell' ennesimo cedimento al capo di Stato turco. Da anni infatti la Ue elargisce una gran quantità di fondi (che poi sono soldi nostri, dalle nostre tasse) a Erdogan perché, con metodi non molto ortodossi, freni l' invasione degli immigrati. Invece di adottare una propria politica di difesa dei confini Ue, che dovrebbe prevedere in primo luogo il blocco navale, Bruxelles affida il compito sporco al capo di Stato turco, in cambio di generose elargizioni di denaro. Regalando così al Sultano un potere immenso di ricatto: regolarmente infatti Erdogan minaccia di far saltare il patto, sapendo di impugnare la scimitarra dalla parte del manico. Senza il muro turco, infatti, l' afflusso sarebbe talmente devastante da far sembrare il 2015 un anno di bonaccia. E in cambio di questo la Ue chiude gli occhi su tutto, a cominciare dalle violazione dei diritti umani, tema su cui è occhiutamente severa verso Paesi della stessa Ue come Ungheria e Polonia, neppure lontanamente comparabili alla Turchia. La Ue gira poi il capo di fronte ai metodi utilizzati da Erdogan per frenare l' invasione, mentre sostiene politicamente le Ong che fanno sbarcare clandestini sulle nostre coste. E finge di non accorgersi del progetto espansionistico del Sultano. Che non vuole solo soldi: non accetta che alcuno si opponga alla costruzione di moschee nelle città europee, vedi da ultimo quella gigantesca di Strasburgo. Molto ipocrita e molto falsa l' indignazione attuale. Dopo le proteste di maniera, gli affari con Erdogan infatti ricominceranno. E il Sultano avrà vinta l' ennesima partita, quella simbolica.
Pietro Senaldi sul sofa-gate di Ankara: "L'Europa ha steso i tappeti rossi a Erdogan: ora impari". Libero Quotidiano l'08 aprile 2021. Il direttore di Libero Pietro Senaldi sul caso diplomatico della sedia negata a Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue, nel palazzo presidenziale di Ankara: “Sedersi sul sofà di un sultano è molto più comodo che sedersi su una seggiola. Detto questo, per quello che non ha fatto la von der Leyen in Europa avrebbero potuto fare ben di peggio, soprattutto dopo aver steso i tappetti rossi a Erdogan. Perché Laura Boldrini che indossava il velo venne osannata per aver rispettato la cultura musulmana e in questo caso invece si accusa Erdogan di essere maschilista? Il politicamente corretto distorce la realtà: a tal punto che la von der Leyen sta dove sta solo perché è madamigella della cancelliera Angela Merkel”.
L’umiliazione del sofa gate di Erdogan è il simbolo della debolezza dell’Europa con la Turchia. di Federica Bianchi su L'Espresso l'8 aprile 2021. La poltrona negata alla presidente della Commissione Ursula von der Leyen dimostra quanto il presidente turco si senta potente. Mentre la Ue promette altri tre miliardi al “sultano” nel giorno in cui lui fa arrestare i suoi oppositori. Ottenere la propria autonomia strategica è sicuramente un obiettivo nobile e, soprattutto, possibile per l'Unione europea. Peccato però che nei fatti sia la Commissione sia il Consiglio si stiano dimostrando incapaci di farcela. Dopo la disastrosa visita a Mosca, in cui Borrel quest'inverno si è fatto letteralmente bullizzare dalla stampa di regime, ad avere fatto fare una pessima figura alle istituzioni europee e ai cittadini europei questa settimana sono stati la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Che poi, nell'ordine di gravità, è il secondo a meritare il podio. Durante la visita ad Ankara del 6 aprile, dopo i saluti in piedi, Recep Tayiip Erdogan ha fatto accomodare Charles Michel sulla sedia accanto alla sua nella grande sala delle udienze mentre ha lasciato in piedi Von der Leyen, la quale è stata ripresa in un video diventato virale a tossire nella mascherina, come per dire «Ed io?». Lei, che non ha protestato, si è dovuta accontentare di un divanetto posto a tre metri di distanza dalle sedie dei due leader uomini, davanti al divanetto su cui era accomodato il ministro degli Esteri, di grado più basso di quello di Von der Leyen. Con un gesto da bullo machista, non certo da statista, Erdogan ha voluto ribadire che non cederà sul mancato rispetto dei diritti umani e sul trattamento delle donne come cittadine di serie B perché tanto è certo che alla fine l'Europa non insisterà davvero. Non solo. Lasciando in piedi la presidente della Commissione, a differenza di quanto aveva fatto nel 2015 con Jean-Claude Juncker, ha inviato anche un chiaro segnale di cosa pensa dell'Europa federale e delle sue istituzioni mentre ha dato valore al ruolo di rappresentante dei singoli 27 stati di Michel. Quest'ultimo sarebbe da rimandare all'asilo ad imparare le regole del vivere comune europeo: non solo non ha avuto la normale reazione di alzarsi per cedere la sedia alla presidente ma non ha nemmeno chiesto al cerimoniale una seconda sedia per Von der Leyen. È rimasto lì, seduto accanto al sultano in fieri, emblema diventato virale di come in Europa non ci si comporta. Erdogan in un colpo solo è riuscito a dividere le istituzioni europee e a umiliare le donne. Michel, sarà per ambizione, ripicca o narcisismo, si è prestato al gioco del dittatore. Si è difeso su Facebook dicendo che le autorità turche hanno rispettato strettamente il protocollo e che né lui né Von der Leyen hanno voluto fare scene ma concentrarsi sugli interessi dei cittadini. Eppure con questa toppa mal riuscita ha dimostrato di non avere nessuna idea che il protocollo è politica in sé, come ha sottolineato Wolfang Ischinger, capo della Conferenza sulla Sicurezza di Monaco (luogo principe della geopolitica globale) ed esperto di linguaggi diplomatici, e di non avere capito la gravità del suo gesto davanti a uno dei personaggi politici più detestati dagli europei. Tutto quello che è venuto dopo ha perso d'importanza. A partire dalla richiesta a Erdogan del rispetto dei diritti umani e dei diritti delle donne da parte di Ankara. D'altronde, come possono la Turchia e il resto del mondo ritenere l'Europa capace di far rispettare i propri valori se i suoi stessi leader non sanno farsi rispettare? Se è finita male non è che la missione europea in Turchia sia cominciata meglio. Forse non avrebbe dovuto cominciare affatto. Due capi di stato europei che si recano ad Ankara per offrirle soldi e aiuto in cambio di assistenza sul controllo delle loro frontiere esterne proprio nei giorni in cui Erdogan arresta generali e ammiragli pensionati, rei di avere criticato pubblicamente il progetto di costruzione del canale di Istanbul accanto al Bosforo perché viola la convenzione di Marsiglia sulla demilitarizzazione del Mar Nero. Una repressione che s'innesta su anni di repressioni indiscriminate contro qualsiasi forma di dissenso contro la politica islamista. Solo pochi giorni prima Erdogan aveva ritirato la Turchia dalla Convenzione di Istanbul sulla protezione delle donne come richiesto dal clero fondamentalista. «Erdogan sta giocando con l'Europa», dice Wolfang Munchau del think tank Eurointelligence: «La cosa è sorprendente visto che è lui a trovarsi in una situazione di bisogno economico. Ma sa che l'Europa non imporrà sanzioni perché né l'Italia né la Germania le accetteranno mai, e che l'Unione dipende dalla volontà turca di agire da cuscinetto per i rifugiati, alla quale è disposta a pagare qualsiasi prezzo». Che poi aggiunge: «Lo stesso gioco lo sta facendo Putin in Russia. Il successo diplomatico dei due (Putin e Erdogan) si basa sulla mancanza di una strategia di politica estera da parte dell'Unione che vada oltre la ricerca del proprio interesse commerciale, per il quale non occorre strategia». Così Von der Leyen ha lasciato Ankara promettendo a Erdogan «come gesto di buona volontà» oltre tre miliardi di euro che dovranno essere varati dal Consiglio europeo (sono soldi degli stati membri e non dell'Unione) a giugno e un'eventuale ammodernamento dell'unione doganale, che però dovrà passare dalle forche caudine del Parlamento europeo, molto meno tenero con i dittatori. La linea rossa dei diritti umani e dei diritti delle donne appare ormai sbiadita, più vecchio ritornello che minaccia concreta. Come perfino il #sofagate ha dimostrato.
Estratto dell'articolo di Giordano Stabile per "la Stampa" l'8 aprile 2021. […] Il portavoce della Commissione, Eric Mamer, ha puntualizzato che Ursula von der Leyen «è stata chiaramente sorpresa come si può vedere nel filmato, ma ha scelto di dare la priorità alla sostanza sulle questioni di protocollo o di forma, è quello che i cittadini europei si sarebbero attesi da lei». Non tutti. Sulla Rete in molti sottolineano come «da un dittatore abituato a non rispettare i diritti umani basilari te lo aspetti, da un collega democratico no». Tanto più che al centro dei colloqui c' erano proprio diritti fondamentali e la parità fra donne e uomini. Per il Nouvel Observateur la scena dimostra che su questo fronte «c' è ancora molto da fare, persino in Europa, visto che Charles Michel avrebbe potuto quanto meno lasciarle il suo posto». La presidente si è presa una piccola rivincita nella dichiarazione finale. «I diritti umani non sono negoziabili», ha ribadito. E questa volta intendeva anche i propri.
DAGONOTA il 9 dicembre 2021. Molti ricorderanno il "Sofa-gate", durante la visita della presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, ad Ankara. Fu lasciata in piedi, la Signora, con un gesto che provocò l'indignazione del mondo intero. A sedere, invece, il presidente turco Erdogan e il presidente del Consiglio dell'Unione europea, il belga Charles Michel. La foto della Presidente senza seggiola fece il giro del mondo, tutti puntarono il dito contro il dittatore misogino e maschilista. Su questo disgraziato sito, scrivemmo che le visite ufficiali vengono preparate dalle rispettive delegazioni. In modo condiviso e congiunto, nei più minimi dettagli. E che i posti attribuiti ai rappresentanti delle istituzioni europee vengono decisi e concordati dai rispettivi servizi di protocollo. Non sono decisioni che vengono prese in modo unilaterale, non è nonna Peppina che fa i posti per la cena di Natale. Che, forse, la colpa dell'offesa alla Von der Leyen e, con lei, a tutte le donne del mondo, non era da cercare solo ad Ankara. A qualche mese dallo scandalo, scopriamo che il pomposo capo del protocollo della Commissione Europea, il diplomatico francese Nicolas de la Grandville, è stato spedito a schiarirsi le idee in Norvegia. Era a capo del servizio dal 2010, dai tempi della Commissione Barroso. Lo troviamo ora negli uffici della Commissione europea...in Norvegia. Nel frattempo è stato pubblicato un bando anche per il posto del capo del cerimoniale del Consiglio dell'Unione europea, ora vacante. Siamo davvero sicuri che il delitto (e il castigo) siano da cercare solo ad Ankara? Ah, non saperlo
(ANSA l'8 aprile 2021) - "Durante la visita" di martedì ad Ankara dei presidenti della Commissione e del Consiglio Ue, Ursula von der Leyen e Charles Michel, "è stato seguito il protocollo standard. La presidente della Commissione europea non è stata trattata in modo diverso. Né la delegazione Ue ha chiesto una diversa disposizione. In questa situazione, ci saremmo aspettati che i due ospiti si fossero accordati tra loro". Lo dichiarano all'ANSA fonti governative turche.
Dagoreport l'8 aprile 2021. L'Europa, che dall'esterno viene percepita come entita' unica e compatta, è in realtà formata da organi diversi guidati e gestiti in modo diverso. Con un po' di esegesi della visita ad Ankara dei vertici europei, cerchiamo di capire chi abbia la responsabilità di fare in modo che vada tutto secondo creanza. I viaggi e gli incontri all'estero della presidente Von der Leyen sono gestiti dall'ufficio del protocollo della Commissione e dalle ambasciate all'estero, che dipendono dal servizio estero e dunque da Borrell e Sannino. A capo del protocollo della Commissione c'è un ambasciatore francese. A capo dell'ambasciata di Ankara c'è invece un ambasciatore tedesco. Non sono funzionari europei, euroburocrati che possono inciampare su come sistemare le seggiolinine, ma ambasciatori di grado che ben padroneggiano le regole del gioco. L'inchiesta interna che sta partendo tra gli ovattati corridoi europei punta il dito contro l'ambasciatore europeo ad Ankara, Nikolaus Meyer-Landrut. Non e' un funzionario europeo, ma un diplomatico tedesco, che e' stato consigliere della Merkel dal 2011 al 2015 e ambasciatore tedesco in Francia dal 2015 al 2020. L'ambasciata europea in Turchia ha senza dubbio organizzato la visita. L'umiliazione di Von der Leyen potrebbe dunque essere frutto di un "errore" proprio di un ambasciatore tedesco. Mani troppo esperte però per poter pensare ad un errore…Altro responsabile della visita è il servizio di protocollo della Commissione. A capo c'e' un francese, Nicolas de La Grandville. Siede lì dal 2010. Anche lui, come Meyer-Landrut, è un diplomatico di carriera e non un funzionario europeo. Ha passato la vita al Ministero degli esteri francesi, è stato consigliere diplomatico del presidente Sarkozy e addirittura capo del protocollo del ministero degli Esteri francese. Anche lui, dunque, conosce e maneggia le regole del protocollo. La tesi della mancanza di attenzione da parte degli uffici della Commissione o della loro sciatteria nell'organizzare la visita ad Ankara per il G20 diventa assai poco verosimile. Chi avrebbe dovuto occuparsene, sia dal lato del servizio protocollo sia da quello dell'ambasciata di Ankara, ha mani troppo capaci per commettere errori così grossolani. Con queste premesse, qualche "addetto ai livori" di Bruxelles evoca l'idea di un tremendo trappolone fatto alla Von der Leyen, in un momento in cui lei si ritrova debole a causa di una campagna vaccinale che non va come dovrebbe…
Fr.Bas. per il "Corriere della Sera" l'8 aprile 2021.
1 Come funziona il protocollo nelle visite ufficiali dei capi di Stato? In occasione di cerimonie o visite ufficiali da parte di capi di Stato e di governo niente è lasciato al caso. Ma anche l'organizzazione di summit internazionali prevede un cerimoniale preciso. I protocolli in genere sono il risultato di un confronto tra la delegazione ospitante e quella in visita ancora prima dell'inizio della missione. È chiaro che durante la visita ad Ankara della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen e del presidente del Consiglio europeo Charles Michel qualcosa è andato storto, perché c'era solo una sedia accanto a quella del presidente turco Recep Tayyip Erdogan.
2 Qual è l'ordine delle precedenze tra le istituzioni europee? In base al cerimoniale di Stato, pubblicato sul sito di Palazzo Chigi, e non diversamente da quanto prevede Bruxelles, tra le istituzioni europee prima viene il presidente del Parlamento Ue, poi quello del Consiglio europeo e infine quello della Commissione. In base al Trattato di Lisbona il presidente del Consiglio europeo assicura la rappresentanza esterna dell'Ue per le questioni relative alla politica estera e di sicurezza comune, fatte salve le competenze dell'Alto rappresentante dell' Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Però come ha osservato il portavoce della Commissione Ue, durante gli incontri con i capi di Stato o di governo esteri (ad esempio durante i vertici tra l'Ue e un Paese terzo), il presidente della Commissione e del Consiglio europeo siedono allo stesso modo.
3 Quali sono i precedenti? Il 16 novembre 2015 ad Antalya entrambi i leader Ue dell'epoca, Jean-Claude Juncker e Donald Tusk, furono fatti accomodare in due poltrone equidistanti ai lati di Erdogan. Il 23 gennaio 2020 a Gerusalemme, alla cerimonia del 75mo anniversario della liberazione di Auschwitz, l'ordine di intervento dei presidenti fu: Parlamento Ue, Commissione e Consiglio europeo.
Von der Leyen sul divano, l’ex-capo cerimoniale di Palazzo Chigi “assolve” Michel: «Se si alzava, era peggio». Valerio Falerni venerdì 9 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. D’accordo, Erdogan non è si rivelato quel gentleman che tutti pensavamo che fosse. Ma è solo sua la colpa dell’imperdonabile sgarbo a Ursula von der Leyen? Si fosse trattato di una visita priva, sia lui sia Charles Michel avrebbero meritato un corso intensivo di bon ton, quantunque di questi tempi non faccia esattamente tendenza. Ma si tratta di rapporti tra Stati, tra istituzioni e in questo caso non esistono delikatessen, ma solo regole, protocolli e cerimoniali. E a sentire uno che se ne intende come Massimo Sgrelli, che per tre lustri proprio queste orchestre ha diretto a Palazzo Chigi, siamo di fronte ad un «incidente diplomatico-protocollare». Si poteva evitare? «Sì», risponde lui. Bastava che il «protocollo turco e quello di Bruxelles» assicurassero alle«tre autorità partecipanti all’incontro le stesse sedie». Più facile di così. Sgrelli è una vera autorità in materia. È l’autore de Il galateo istituzionale, una sorta di bibbia per addetti ai lavori. C’è dunque da credergli quando dice che nella mancata poltrona alla Von der Leyen l’errore è triplo. Il primo è del protocollo turco che «non ha allestito lo scenario adatto». Significa «dare delle sedute omogenee a tutti, visto che le autorità partecipanti all’incontro avevano un rango omogeneo». Non assegnare una sedia d’onore anche alla presidente della Commissione Ue è da matita blu. Relegandola infatti su un sofà, i protagonisti dell’incontro sembravano solo Erdogan e Michel. Dal canto suo, Bruxelles ha sbagliato a non verificare preventivamente che «lo scenario fosse corretto e idoneo». Infine, Michel: che però Sgrelli “assolve”. «Se si fosse alzato – spiega – l’incidente sarebbe diventato di carattere istituzionale e non più solo tra persone». La sua passività, invece, ha evitato che lo sgarbo di Erdogan alla Von der Leyen si trasformasse in uno scontro tra Ue e Turchia. Ora c’è un solo modo per capire se l’incidente sia stato voluto o meno dal Sultano. «Dipenderà molto – dice Sgrelli – dal destino del capo del cerimoniale della presidenza turca». Scommettiamo?
Dagospia l'8 aprile 2021. Jean Quatremer per liberation.fr. L’ufficio del presidente turco Recep Tayyip Erdogan è rimasto sbalordito quando ha ricevuto, mercoledì mattina, un'e-mail poco diplomatica firmata dal capo di gabinetto di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea. Secondo le nostre informazioni, la tedesca Bjoern Seibert si è indignata per l'"umiliazione" inflitta alla von der Leyen dalla Turchia durante la visita ufficiale che ha fatto ad Ankara il giorno prima, e non esita ad affermare che ciò renderà più difficile la trattativa sulla modernizzazione dell'accordo dell’unione doganale che lo lega ai Ventisette...Ankara ha subito chiamato Charles Michel, il presidente del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo, anch'egli presente al viaggio, per informarsi sui motivi di questa minacciosa e-mail, visto che la presidenza turca non ha capito assolutamente come avrebbe maltrattato Von der Leyen. L'ex primo ministro belga ha dovuto rassicurare i suoi interlocutori spiegando che si è trattato di uno sfortunato malinteso...Perché Seibert ha avuto una tale esplosione di rabbia, che avrebbe potuto portare a un incidente diplomatico mentre gli europei stanno cercando di riallacciare i rapporti con questo partner difficile? La scena, che ha fatto il giro dei social network, si è svolta martedì nel palazzo presidenziale del presidente turco, all'inizio dell'incontro tra Recep Tayyip Erdogan, Mevlüt Cavusoglu, il suo ministro degli Esteri, Charles Michel e Ursula von der Leyen. I quattro entrano nell'enorme sala riunioni per accomodarsi, non attorno a un tavolo, ma in modo più informale su poltrone e divani. Ma la scena appare, a prima vista, scioccante: se Erdogan e Michel siedono su poltrone affiancate (a distanza per via del Covid), Von der Leyen e Cavusoglu devono sedersi su divani posti perpendicolarmente. Von der Leyen rimane in piedi, sbalordita, e non esita a mostrare la sua sorpresa. Alla fine, va a sedersi con disappunto al centro dell'enorme divano, lontano da Michel ed Erdogan. Insomma, la regia dà l'impressione che Erdogan l'abbia consapevolmente maltrattata relegandola su un divano come semplice segretaria. Da lì a fare il collegamento con il suo disprezzo verso le donne (ha ritirato il suo Paese il 19 marzo dalla Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne), è stato un attimo: un passaggio che hanno fatto in tanti, sia sui social che al Parlamento europeo. E nemmeno Charles Michel è risparmiato: perché non ha reagito? Come sempre, attenzione alle immagini. In realtà, i turchi non hanno assolutamente nulla a che fare con questa “coreografia” che è frutto del protocollo dell'Unione Europea. Infatti si tratta di un "accordo interistituzionale" del 1 marzo 2011 che prevede che il presidente del Parlamento europeo venga prima, seguito dal presidente del Consiglio europeo, dal presidente di turno del Consiglio dei ministri e, infine, il presidente della Commissione. In altre parole, quando i presidenti del Consiglio europeo e della Commissione sono in missione in paesi terzi, il primo è ufficialmente il capo della delegazione, non il secondo. Insomma, non esiste "una poltrona per due", contrariamente a quanto ha detto Eric Mamer, portavoce della Commissione: «I presidenti delle due istituzioni hanno lo stesso grado nel protocollo e spetta alle autorità turche, responsabile dell'incontro, spiegare perché è stato offerto quel posto alla signora Von der Leyen». In realtà spiega un diplomatico: «I turchi, che hanno una mente molto gerarchica, hanno semplicemente applicato alla lettera l'ordine del protocollo europeo». Soprattutto «non è chiaro quale sarebbe stato l'interesse di Erdogan di umiliare il presidente della Commissione quando, come tedesca vicina ad Angela Merkel, è la sua migliore alleata. Se avesse voluto trasmettere un messaggio, Michel, considerato l’uomo di paglia della Francia, sarebbe stato più appropriato». «Pensare che voleva umiliare una donna vuol dire conoscerlo male: ha dimostrato di non avere problemi a trattare con le donne occidentali», ha aggiunto un suo collega. Soprattutto «Erdogan è stato molto premuroso durante la visita - ha detto un testimone - È nel suo interesse stringere la mano tesa dagli europei in un momento in cui gli Stati Uniti non sono più pronti ad accettare il loro espansionismo aggressivo, con la loro economia in declino e le difficoltà sulla scena politica interna». Tuttavia, quando è entrato nella stanza, Charles Michel, vecchio politico, ha visto che c'era un problema, soprattutto quando ha notato la furia di che Ursula von der Leyen. Ma cosa poteva fare? Alzarsi e dare la precedenza a Ursula von der Leyen? Chiedere una sedia aggiuntiva? Sarebbe stato umiliante far capire ai turchi di aver commesso un errore quando tutto era stato attentamente negoziato a monte...Da qui la reazione particolarmente inopportuna di Seibert, il suo capo di gabinetto, che, senza alcun mandato, si è permesso di minacciare un governo straniero per fargli piacere... Insomma, se ci fosse stato uno scandalo, non avrebbe dovuto rivolgersi ad Ankara, ma a Bruxelles. Sui giornali e sui social network di mezza Europa si sta parlando molto dell’incidente diplomatico avvenuto lunedì ad Ankara, in Turchia, durante un incontro ufficiale fra Unione Europea e governo turco. All’inizio dell’incontro, la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, è rimasta senza un posto dove sedersi, dato che le uniche due sedie disponibili erano state occupate dal presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e dal presidente turco, Recep Tayyip Erdogan. Dell’incidente se ne sta parlando così tanto per questioni oggetto di un ampio dibattito da tempo: per esempio lo scarso riguardo nei confronti dei capi delle istituzioni europee da parte di leader stranieri, il sessismo nei confronti delle leader donne, i rischi e le difficoltà di avere a che fare con presidenti autoritari come Erdogan, e il conflitto latente fra istituzioni dell’Unione Europea. Sul fatto che l’incidente sia avvenuto davvero, e che non si sia trattato di uno spiacevole equivoco, non ci sono dubbi. Nella stanza dove si è tenuto l’incontro non era stata predisposta una sedia per von der Leyen, che si è dovuta sedere sul divano lontano da Michel e Erdogan. «La presidente della Commissione è rimasta chiaramente sorpresa, e lo si può vedere anche dal video», ha detto il portavoce di von der Leyen, Eric Mamer, in una conferenza stampa tenuta martedì. Una fonte europea del Wall Street Journal ha raccontato che Von der Leyen non era entrata nella stanza prima dell’incontro con Erdogan, lasciando intendere che se se ne fosse accorta avrebbe chiesto una sedia per sé. Von der Leyen si è invece seduta di fronte a un altro divano su cui c’era il ministro degli Esteri turco, Mevlüt Çavusoglu, che per protocollo diplomatico non siede sulla sedia dato il suo ruolo meno importante rispetto a Erdogan. La versione più aggiornata del trattato fondativo dell’Unione Europea prevede all’articolo 15 comma 6 che il presidente del Consiglio Europeo, cioè Michel, «assicura la rappresentanza esterna dell’Unione per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune»: cioè i due temi di cui Michel e Von der Leyen hanno discusso con Erdogan. Anche una delle ultime versioni del protocollo ufficiale del Consiglio dell’Unione Europea spiega che «fra le più alte cariche dell’Unione Europea, nell’ambito della rappresentanza esterna», il presidente del Consiglio Europeo precede il presidente della Commissione. Secondo la prassi in vigore, però, nessuno dei leader nazionali tratta Von der Leyen come se la sua carica fosse di grado inferiore rispetto a quella di Michel, a prescindere dal protocollo ufficiale. Anche perché in termini di potere, se proprio bisogna fare un confronto, Von der Leyen ne ha assai più di Michel: la prima dirige infatti l’organo esecutivo dell’Unione Europea, che conta quasi 33mila dipendenti e gode di notevoli autonomie in vari ambiti; il secondo svolge quasi solo la funzione, molto rilevante ma anche assai delimitata, di mediatore delle riunioni del Consiglio Europeo, l’organo in cui siedono i 27 capi di stato e di governo dell’Unione e che ne decide l’agenda politica. In tutti i più recenti incontri con leader nazionali a cui Michel e Von der Leyen hanno partecipato insieme, alla presidente della Commissione è stato riservato lo stesso trattamento di Michel. In un caso, come durante la visita fatta nel marzo del 2020 al confine fra Grecia e Turchia, a Von der Leyen è stato persino riservato un posto di maggiore rilevanza rispetto a Michel, a fianco del primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis. Nelle ultime ore stanno emergendo delle foto scattate nel 2015 durante una riunione del G20 ad Adalia, in Turchia, in cui l’allora presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, e il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, erano seduti ai lati di Erdogan, su poltrone identiche. Per molti osservatori l’incidente diplomatico è stato un sintomo del sessismo che le leader donne subiscono da sempre a tutti i livelli della politica, anche ai più alti. Del resto Erdogan aveva spesso fatto già in passato commenti discriminatori e offensivi nei confronti delle donne, come quando nel 2016 disse che le considerava «prima di tutto delle madri». Di recente il suo governo ha annunciato il ritiro dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, mentre diverse inchieste hanno mostrato come negli ultimi anni la libertà delle donne turche sia progressivamente peggiorata. Alcuni politici e commentatori europei hanno sostenuto però che anche Michel avrebbe potuto prendere una posizione più netta, e rifiutarsi di partecipare all’incontro oppure cedere la sua sedia a Von der Leyen. «Perché è rimasto zitto?», si è chiesta su Twitter la parlamentare europea Sophie in ‘t Veld, olandese e appartenente al gruppo dei Liberali. «Da Erdogan non ci aspetta niente di diverso, ma fa amarezza il fatto che il presidente del Consiglio Europeo sia sceso al suo livello», ha commentato l’ex cancelliere austriaco Christian Kern. A Bruxelles esiste da tempo un movimento piuttosto sotterraneo che segnala episodi di sessismo all’interno delle istituzioni: uno dei più attivi è MeTOOEP, che lavora al Parlamento Europeo e oltre a fare pressione per ottenere una piena parità di genere nelle istituzioni raccoglie testimonianze di molestie e violenze subite dalle donne. Altri hanno segnalato che non è la prima volta che rappresentanti delle istituzioni europee fanno figure del genere durante delicate visite diplomatiche. «È la seconda volta in due mesi che avvengono imbarazzanti incidenti diplomatici con vicini problematici», ha fatto notare la giornalista di affari europei Beatriz Ríos, citando la recente e fallimentare visita dell’Alto Rappresentante dell’Unione Europea, Josep Borrell, in Russia. Secondo alcuni, quello che è successo è la dimostrazione che l’Unione Europea non abbia l’autorevolezza e la credibilità necessarie per condurre una politica estera indipendente. «Il passo falso del divano è una perfetta allegoria della politica estera europea», ha scritto Roman Pable, esperto di relazioni internazionali e consulente politico del gruppo dei Liberali al Parlamento Europeo: «sul piano internazionale veniamo trattati senza alcun rispetto, ma invece che discutere del perché succede ci mostriamo indignati senza cambiare niente di sostanziale, ma restando in pace con noi stessi». Altri invece ne parlano come di un errore strategico. «Se l’Unione Europea deve impegnarsi in rischiosi passaggi diplomatici, non dovrebbe mandare Von der Leyen e Michel insieme», ha commentato su Twitter Alexander Clarkson, ricercatore di studi europei per il King’s College di Londra: «mandare due importanti istituzioni europee offre più margine a una figura autoritaria per giocare col protocollo, e dare una simbolica dimostrazione di forza. Questi sono i punti su cui il Servizio europeo per l’azione esterna [il servizio dell’Unione Europea per gli affari esteri] dovrebbe alzare il proprio livello». Clarkson ha lasciato intendere, insomma, che la responsabilità dell’incidente non sia stata di Michel, quanto dei funzionari che avevano preparato l’incontro. Infine, la gestione dell’incidente ha anche dimostrato un certo disallineamento fra due importanti istituzioni europee come il Consiglio e la Commissione. Gli uffici della comunicazione delle due istituzioni non hanno concordato una risposta condivisa, e anzi si sono dati reciprocamente la colpa per l’incidente diplomatico. La Commissione ha fatto commentare l’incidente a Mamer, che fra le altre cose ha sottolineato come i sopralluoghi degli incontri siano stati eseguiti dallo staff del Consiglio Europeo; il Consiglio Europeo invece non ha commentato pubblicamente l’incidente, ma parlando informalmente con Politico ha fatto sapere che dal proprio punto di vista il protocollo è stato rispettato, dato che Michel era la carica europea più alta presente durante l’incontro.
(ANSA il 9 aprile 2021) - I presidenti del Consiglio e della Commissione europea, Charles Michel e Ursula Von der Leyen, non si sono ancora parlati, a tre giorni dal sofagate di Ankara. Per il momento non sono previste telefonate, secondo quanto si apprende a Bruxelles. Ieri in un'intervista alla tv belga LN, Michel aveva detto di aver provato a raggiungere von der Leyen al telefono, e pensava di riuscire a parlarci in serata.
Francesca Sforza per “La Stampa” il 9 aprile 2021. Non c' era diplomatico europeo, nella giornata di ieri, che non avesse al suo attivo, nella memoria, almeno un aneddoto relativo all' arte antica, complicata e sottile del cerimoniale: bicchieri rimossi all' ultimo momento, placement corretti pochi minuti prima dell' impiattamento, macchine da incarrozzare in un modo o nell' altro durante i cortei di accoglienza, istruzioni dettagliate negli allineamenti delle receiving line. Per questo, mai come in questa occasione il «Non è come pensi» dichiarato dal presidente del Consiglio Ue Charles Michel a giustificazione di quanto accaduto mercoledì ad Ankara - con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen costretta a sedersi su un sofà in mancanza di una sedia accanto al presidente turco Erdogan e a Michel medesimo - ha ricordato il genere più patetico delle giustificazioni possibili. «Alcune delle immagini che sono state trasmesse - ha scritto Michel in un post su Fb nella sera di mercoledì - hanno dato l' impressione che potessi essere insensibile alla situazione che si era prodotta: niente di più lontano dalla realtà o dai miei sentimenti profondi». Non una scusa, dunque, né un' ammissione di leggerezza - volendo essere particolarmente benevolenti con se stessi - ma l' ultimo degli errori di una gran brutta giornata del suo mandato: il rinvio di responsabilità al protocollo turco, alle sue regole, e «all' interpretazione rigorosa che ne è stata data». La considerazione per cui «Non mi sono alzato in piedi per non creare un incidente ancor più grave», diciamolo, non fa che peggiorare le cose. A quel punto i turchi, che fino ad allora avevano preferito tacere, sono stati costretti a replicare, e lo hanno fatto con le parole del ministro degli Esteri Cavusoglu, numero due del governo, e seduto durante l' incontro con Erdogan nel sofà di fronte a Von der Leyen. «Arrivano accuse estremamente ingiuste contro la Turchia ha detto da una conferenza stampa in Kuwait. La Turchia è uno Stato dalle radici profonde che non accoglie un ospite per la prima volta, così come non è la prima volta che viene effettuata una visita in Turchia». Senza risparmiare dettagli, Cavusoglu ha ricordato che non esiste un protocollo turco a sé stante per le visite di leader stranieri, ma c' è sempre un coordinamento tra le regole internazionali e l' ospitalità nazionale. «E anche stavolta si è agito così». Come funziona in pratica? Prima di ogni visita, le diverse delegazioni del cerimoniale, composte da funzionari diplomatici, si incontrano per definire i dettagli della visita. Discussioni apparentemente di lana caprina su posti a sedere, menu, vini o non vini da servire, cose o non cose da indossare sono in realtà fili sottilissimi a cui sono appese intere carriere. «Nel protocollo implementato nella riunione su scala ristretta tenutasi presso l' ufficio del nostro Presidente - ha rivelato il ministro turco Cavusoglu - le richieste della parte dell' UE sono state soddisfatte». Stando a una nota del Consiglio Europeo ai diplomatici non è stato permesso di visitare in anticipo la sala dell' incontro poiché troppo vicina agli uffici di Erdogan. Lo stesso è avvenuto per la sala da pranzo, che però è stata vista qualche minuto prima, e si è provveduto ad aggiungere una sedia, anche lì, mancante. Come non farsi venire il sospetto - vista la sala da pranzo - che lo stesso sarebbe accaduto per la sala dell' incontro? La sedia per Von der Leyen, è chiaro, non era stata prevista dai turchi, ma senz' altro non è stata richiesta dagli europei. Se così fosse stato, «la richiesta sarebbe stata soddisfatta». Si può forse rimproverare ai turchi di non aver informato il cerimoniale Ue dell' assenza di una terza sedia per la presidente? «Protocol is politics», ha twittato ieri al proposito Wolfgang Ischinger, capo della Conferenza sulla sicurezza di Monaco, ricordando un vecchio adagio al suo collega, l' ex ambasciatore tedesco Nikolaus Meyer-Landrut, che ha guidato la delegazione Ue ad Ankara e che appare come il maggiore indiziato del pasticcio «Sofà-Gate». Il protocollo è politica, non tè e pasticcini.
Emma Bonino per “la Stampa” il 9 aprile 2021. Appurato che l'incidente diplomatico di Ankara non ha nulla a che vedere con la mancanza di sedie e tantomeno con il galateo, proviamo a rimettere in fila i fatti a partire dall' ultimo in ordine di tempo: la versione della Turchia, che si è chiamata fuori e ha attribuito l'errore ai responsabili del cerimoniale europeo, non è stata smentita. Tanto per cominciare ci sono le ambizioni incrociate delle tre principali istituzioni europee. Per quanto si lavori insieme, la rivalità tra il Consiglio Europeo, la Commissione e il Parlamento è vecchia quanto l' UE. Altrettando nota è la competizione personale tra Charles Michel e Ursula von der Leyen, una corsa a primeggiare che era meno evidente in altri tempi, come quando nel 2015 Donald Tusk e Jean-Claude Junker trovarono ad Ankara una sedia per ciascuno. La seconda questione riguarda la Von der Leyen, che stavolta viaggiava senza consiglieri diplomatici e aveva affidato il protocollo all' ufficio di Michel e ai turchi. Mi sembra evidente che ci sia un vulnus e che certe missioni andrebbero preparate con maggiore attenzione anche ai dettagli per prevenire potenziali insidie, soprattutto nelle capitali con le quali i rapporti non sono esattamente amichevoli. Ma l' aspetto più importante riguarda i dossier di cui i rappresentanti europei avrebbero dovuto discutere con la controparte, il presidente Recep Tayyip Erdogan, "il dittatore" di cui si ha bisogno, come ha scandito il premier Mario Draghi con la sua capacità di parlare chiaro. Nessuno lo aveva espresso così chiaramente prima di lui, a parte me, ovviamente, che a differenza di Draghi non faccio testo. Attenzione, perché il problema alla fine è tutto lì, il dilemma quotidiano tra diritti umani e interdipendenze, connessioni economico-strategiche, posti di lavoro. Dicevamo però dei dossier. Basta rileggersi le ultime pagine sulla Turchia del documento finale dell' ultimo vertice dei capi di stato e di governo per aver un' idea della posta in gioco: si cita il contenimento dei migranti finanziato da un fondo ad hoc annuale, che deve essere rinnovato anche dal parlamento europeo, c'è poi la partita dell' update dell' unione doganale vecchia e da sempre imperfetta e c'è infine una parte sulle trivellazioni a Cipro. Non a caso neppure una parola sul ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul. Ne hanno parlato durante l'incontro di mercoledì? Immagino di sì. Sarebbe interessante sapere allora con quale esito dal momento che i due dossier più importanti di cui avevano mandato devono passare dal Parlamento di Strasburgo. La Turchia fa la Turchia. E siamo comunque davanti ad uno sgarbo politico evidente, di mancato riconoscimento dell' Europa. Charles Michel dal canto suo avrebbe potuto muoversi diversamente, per esempio lasciare la sua poltrona alla presidente Ursula von der Leyen, gesto inequivoco di coesione istituzionale europea. Invocarne oggi le dimissioni mi sembra una richiesta esagerata ma in questo caso, a conti fatti, chi ne esce con le ossa rotte sono le istituzioni europee. E non è la prima volta. Ricordate alcune settimane fa la visita dell' Alto rappresentante per la politica estera Ue Josep Borrell a Mosca, quando sotto i suoi occhi furono espulsi dei funzionari europei? Appunto.
Caso Von der Leyen, le magistrate italiane accanto ad Ursula: "Atto discriminatorio". Liana Milella su La Repubblica l'8 aprile 2021. Le giuriste del nostro Paese protestano per il sofa-gate: "Calpestata nuovamente la dignità delle donne". Anche le donne magistrate italiane - oltre la metà di tutti i giudici del nostro Paese - protestano per il sofa-gate. Per Ursula von der Leyen marginalizzata sul divano turco anziché nel posto che le spetta. Nell'indifferenza e nel complice silenzio del presidente del Consiglio europeo Charles Michel. "Calpestata nuovamente la dignità delle donne". "Scorrettezza istituzionale". "Atto palesemente discriminatorio". "Segnale di allontanamento dai valori della Carta dell'Unione europea dei diritti dell'uomo". E quindi "ferma condanna" di un episodio che - secondo le toghe rosa italiane - dimostra come sia in atto "un arretramento nel percorso di uguaglianza di cui proprio Ursula può ritenersi un simbolo". È una nota durissima quella che l'Admi, l'Associazione donne magistrato italiane, con la sua presidente Isabella Ginefra, aggiunge alle migliaia di proteste di queste ore. Un episodio di cui le giuriste del nostro Paese mettono in luce il chiaro intento "discriminatorio", il pessimo segnale contro il cammino di parità delle donne nel mondo.
Il rammarico dopo il caso di Ankara. Von der Leyen sul Sofagate: “Mi sono sentita sola come Presidente, donna ed europea”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 13 Aprile 2021. Ursula von der Leyen ad Ankara ha provato imbarazzo. Anzi di più: si è sentita sola, come “presidente”, come “donna”, come “europea”. Queste le parole della Presidente della Commissione oggi alla Conferenza dei presidente del Parlamento Europeo. Il riferimento all’incidente, al caso cosiddetto del “sofagate“, ovvero di quello che è successo martedì scorso nella capitale turca, quando il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel si sono accomodati sulle sedie lasciando la Presidente sul divano. Le parole di von der Leyen apprese dall’AdnKronos. Michel si sarebbe invece cosparso il capo di cenere: si è difeso e si è scusato ripetutamente. Ha espresso rammarico, ha definito il caso un’offesa a tutte le donne, riporta l’Ansa. Un errore, secondo l’ex premier belga, che il servizio di protocollo del Consiglio non abbia avuto accesso alla sala riunioni con Erdogan. Da questo momento le missioni dovranno essere preparate congiuntamente da Commissione e Consiglio, ha aggiunto. Per von der Leyen il caso resta legato alla questione di genere, da legare a doppio filo al ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. La Presidente ha fatto riferimento agli articoli 15 e 17 del Trattato dell’Unione Europea (Tue), che attribuiscono pari dignità a Commissione e Consiglio. In una frazione di secondo ha deciso di restare, ha raccontato. Il Presidente del Parlamento Europeo David Sassoli ha sottolineato che la vicenda deve insegnare alle istituzioni Europee a “procedere insieme”. Critici gli interventi dei presidenti dei gruppi. Impegno solenne a procedere insieme da parte di Michel e von der Leyen. Il Sofagate non si chiude quindi. In Italia ha avuto un lungo strascico dopo che il Presidente del Consiglio Mario Draghi, interpellato sulla vicenda in conferenza stampa, ha definito Erdogan un “dittatore”.
Da tg24.sky.it il 2 maggio 2021. A quasi venti giorni di distanza non si placano le polemiche per il Sofagate che ha coinvolto la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen durante la visita ad Ankara al presidente turco Recep Tayip Erdogan. A tornare sull'argomento, il 26 aprile, è stato Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, anche lui presente al summit. "Ho espresso diverse volte il mio rammarico per la situazione che si è venuta a creare nel viaggio ad Ankara. Le nostre squadre non hanno potuto avere accesso alla sala. Insieme alla Commissione ci siamo impegnati perché non accada più in futuro - ha detto Michel intervenendo al parlamento europeo al dibattito sulla Turchia (VIDEO) - in quell'istante avevo deciso di non reagire ulteriormente per non creare un incidente politico che avrebbe rovinato mesi di preparativi e sforzi politici e diplomatici", ha aggiunto Michel. "Sono la prima donna a esser presidente della Commissione europea ed è così che mi aspettavo di essere trattata nel viaggio in Turchia, come una presidente della commissione - ha detto poco dopo invece Von der Leyen (VIDEO) -. Non riesco a trovare una giustificazione e devo concludere che quello che è successo è accaduto perché sono una donna". E ancora: "Mi sono sentita ferita come donna e come europea - ha aggiunto - questo riguarda i valori che sono alla base della nostra Unione e dimostra quanto dobbiamo ancora fare perché le donne siano trattate con parità".
Perché Erdogan umilia l’Europa. Draghi lo infilza: è un dittatore. La Turchia non ha nessuna intenzione di cedere su almeno quattro dossier: i profughi, le frontiere marittime del Mediterraneo orientale, la Libia e i diritti umani. Il tutto è funzionale a uno scopo: mostrare che l’Unione europea è ostile agli interessi del Paese e causa della crisi economica devastante. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud il 9 aprile 2021. «Sono dispiaciutissimo per l’umiliazione inflitta alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Erdogan è un dittatore, di cui però si ha bisogno» Il presidente del consiglio Mario Draghi è molto netto nel condannare il “sofà-gate” di Ankara. ma la pantomima di poltrone e sofà sta oscurando il vero problema. La Turchia non ha nessuna intenzione di cedere su almeno quattro dossier: i profughi, le frontiere marittime del Mediterraneo orientale, la Libia e i diritti umani. Il tutto è funzionale a uno scopo: mostrare che l’Unione europea è ostile agli interessi della Turchia e che è una delle cause della crisi economica spaventosa che sta attraversando il Paese. Un crisi dovuta alla politica economica spericolata di Erdogan che coinvolge l’Europa in pieno visto che il 50% del commercio estero di Ankara è con l’Unione, così come sono europei una buona parte dei prestiti in sofferenza alle imprese e ai soggetti turchi. La storia della sedia della presidente della commissione Ue Ursula von der Leyen e del belga Charles Michel, capo assai inadeguato del Consiglio europeo, è uno degli scherzetti che ama giocare Erdogan ai suoi ospiti più sprovveduti, che ovviamente ci sono cascati in pieno. Erdogan, che tiene in galera migliaia di persone, gli oppositori politici e nega i diritti umani e quelli delle donne, vuol far capire che a casa sua fa quello che vuole. Ma ha una nozione di casa parecchio “allargata”, che si estende a buona parte del Mediterraneo. L’Unione europea come è noto paga profumatamente Erdogan (sei miliardi di euro) per tenersi in casa oltre tre milioni di profughi siriani e di altre nazionalità ma non ha nessuna intenzione di rinunciare all’arma dei rifugiati per tenere sotto pressione Bruxelles sulla rotta dell’Egeo e dei Balcani, valvola di sfogo tanto temuta dalla Germania della cancelliera Merkel ormai sul viale di un rapido tramonto visto che si ritirerà con le elezioni politiche di settembre. Quindi il “reis” turco continuerà a dare rassicurazioni a parole, a incassare i quattrini europei ma anche a fare quello che vuole nel momento in cui i suoi interessi e quelli di Ankara venissero minacciati. Le frontiere marittime sono un altro contenzioso bollente. La Turchia non accetta le frontiere marittime internazionali e più volte ha inviato in maniera provocatoria le sue navi da esplorazione nelle acque ritenute da Grecia e Cipro “zone esclusive di sfruttamento”. In queste zone offshore operano i francesi con la Total, l’Eni italiana e anche le società americane. Per difendere lo stato attuale delle cose si è formata una coalizione capeggiata dalla Francia con Grecia, Cipro, Israele ed Egitto che intende contrastare le ambizioni della Turchia. In queste acque dovrebbe passare il gasdotto verso l’Europa con le risorse energetiche del Mediterraneo orientale che renderebbe meno decisive le pipeline che trasportano il gas russo in Turchia e nei Balcani. L’Europa ha sanzionato la Turchia ma si tratta di misure cosmetiche perché la Germania intende trattare con Ankara in quanto teme il ricatto sui profughi. Anche l’Italia è possibilista ma per un’altra ragione: in Tripolitania la Turchia è la potenza militare dominante, sono stati i turchi a salvare la capitale dall’assedio di Haftar e gli italiani dipendono per la loro sicurezza dalle milizie turche e filo-turche. Anche l’ambasciata italiana visitata l’altro giorno dal premier Draghi. Erdogan ci ricatta su quasi tutto perché siamo fessi e codardi. Nel novembre del 2019, con il generale Khalifa Haftar alle porte di Tripoli, il governo libico chiese aiuto militare a Italia, Usa e Gran Bretagna per fermarlo: era una questione di vita o di morte. Noi questo aiuto lo abbiamo rifiutato e i libici si sono rivolti a Erdogan per contrastare il generale Khalifa Haftar sostenuto dai mercenari russi, dagli Emirati e dall’Egitto. Quindi la Turchia ha mandato uomini, droni e persino le milizie jihadiste reclutate in Siria riportando una netta vittoria militare. Che ci piacciano o meno le cose stanno così e le chiacchiere della nostra diplomazia e dei nostri governi stanno a zero. Questo è il secondo grave errore che abbiamo commesso in Libia in un decennio, il primo fu quello di bombardare Gheddafi nel 2011: allora sì avremmo dovuto restare neutrali visto che lo avevamo ricevuto in pompa magna soltanto sei mesi prima a Roma firmando oltre ad accordi economici intese sulla reciproca sicurezza. Insomma un’alleanza in piena regola e votata dal 90% del Parlamento. Che cosa succede adesso? Gli Stati Uniti hanno aperto un nuovo fronte di guerra fredda con la Russia anche in Libia dove Mosca potrebbe insediare una base militare in Cirenaica. Quindi gli Usa hanno chiesto ai leader europei di darsi da fare per sostenere il governo di Tripoli: è questo il vero motivo geopolitico per cui l’atlantista Draghi, su richiesta e con il pieno appoggio di Washington, è andato in Libia dove ha incontrato tra l’altro il premier greco Mitsotakis. In un solo giorno a Tripoli c’erano due primi ministri europei: un messaggio chiaro rivolto a Mosca ma anche a Erdogan che è l’uomo forte della situazione. Anche la Turchia è nella Nato, anche la Turchia si confronta con la Russia in Siria e in Azerbaijan oltre che in Libia, ma Erdogan e Putin si mettono d’accordo quando vogliono come hanno già dimostrato, una cosa che fa saltare la mosca al naso a Biden e al suo segretario di stato Blinken che ai tempi dell’amministrazione Obama sostenne la caduta di Gheddafi e ora vorrebbe cacciare la Russia dalla Cirenaica. Ecco perché Erdogan tratta a pedate i rappresentanti europei e li umilia, visto tra l’altro che Francia e Germania non hanno mai voluto la Turchia dentro l’Unione. Il suo punto di vista è questo: lui rischia i suoi soldati in Siria e in Libia e adesso gli europei e gli americani vorrebbero che se ne andasse da Tripoli lasciando che fossero gli altri a godere i frutti politici ed economici della situazione? Non se ne parla proprio: e infatti nessuno ritirerà le truppe, né i turchi né i russi, tutti attestati su una linea del cessate il fuoco che l’Unione europea vorrebbe monitorare con un suo contingente allargando così i compiti della missione Irini per l’embargo navale sulle armi. Si capisce bene allora che una sedia non è solo una questione di arredamento diplomatico ma rappresenta cosa si muove davvero dietro la pace e la guerra nel Mediterraneo: una spasmodica lotta di potenze.
Da repubblica.it il 14 aprile 2021. La dichiarazione del presidente del Consiglio italiano è stata una totale maleducazione, una totale mancanza di tatto". Lo ha detto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, citato da Anadolu, replicando al premier Mario Draghi, che una settimana fa lo aveva definito "dittatore". Finora Erdogan non aveva risposto direttamente al premier italiano. A intervenire erano stati vari esponenti del governo turco più i media ufficiali. Erdogan lo ha detto parlando in occasione di un evento alla Biblioteca nazionale presidenziale turca. Le dichiarazioni di Draghi hanno suscitato reazioni di indignazione da parte di diversi esponenti della classe politica e delle autorità turche. Il leader ultraconservatore Devlet Bahceli, del partito del Movimento nazionalista (Mhp), principale partner di coalizione di Erdogan, ha detto ieri ai membri del suo gruppo parlamentare che le dichiarazioni di Draghi rivelano "un'ammirazione segreta per Mussolini".
Draghi. Sui giornali governativi: "Mussolini dittatore". Ma la gente sui social: "Finalmente qualcuno dice la verità". Marco Ansaldo su La Repubblica il 9 aprile 2021. La stampa riporta le parole "scioccanti" del primo ministro italiano contro il presidente turco dopo lo sgarbo del sofa-gate a Ursula von der Leyen. Gli anti-Erdogan: "Una voce libera: l'Italia". I Lupi grigi soffiano sul fuoco contro Roma. I curdi con Palazzo Chigi. “Italia mafia”. “Mussolini dittatore”. “Dura reazione di Ankara a Draghi”. Però anche: “Il premier italiano ha detto quello che tutti, anche qui, pensano e non possono dire”. La Turchia si è svegliata oggi con una nuova crisi, e c’è purtroppo abituata. Da quasi vent’anni il Paese è stressato dai contenziosi causati dal suo leader, e non passa giorno senza un nuovo fronte aperto.
Questa mattina è il momento dell’Italia. E i giornali e i siti online, al 95 per cento filo governativi, riportano le parole “scioccanti”, come si legge, del presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, “un premier di ripiego”, commenta l’osservante quotidiano Yeni Safak. Le reazioni istituzionali e governative non si sono fatte attendere. I collaboratori principali del capo dello Stato, Recep Tayyip Erdogan, hanno fatto scudo attorno al loro presidente puntando su un approccio difficilmente smontabile: in Turchia si svolgono regolari elezioni e i nostri rappresentanti vengono eletti democraticamente. Ma un conto è quanto dice la casta al potere, fra istituzioni e media. Un alto discorso è la pancia del Paese. E allora, se si vanno a vedere i social, quelli almeno non ancora silenziati finora (molti lo sono già, ma i turchi sono un popolo molto creativo e hanno trovati sistemi alternativi per comunicare in rete), danno il polso di quello che emerge oltre i comunicati ufficiali. Gli utenti si sbizzarriscono allora nell’applaudire “il premier italiano che finalmente ha detto la verità”. E quindi: “Bravo Draghi”. “Qualcuno in Europa si accorge della realtà di quel che avviene in Turchia”. “Una voce libera: l’Italia”. “Draghi coraggioso”. E, anche, qualche preoccupato “Adesso Turchia e Italia sono in guerra”. C’è così chi si spinge a ricordare i tempi, poco più di vent’anni fa, del confronto aspro sul caso Ocalan. Quando tra il 1998 e il 1999 il leader e fondatore curdo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), estromesso dalla Siria dove si era rifugiato nella guerra combattuta contro l’esercito turco in Anatolia, scelse di andare a Roma dove si era appena formato il governo rosso-verde di Massimo D’Alema. “Apo” allora era descritto nei giornali di Istanbul come “il killer dei bambini”, così dovevano scrivere i giornalisti ogni volta che lo nominavano. E in ogni caso era il “nemico numero uno” di Ankara. Ne nacque una crisi con Roma che portò alla quasi rottura delle relazioni diplomatiche fra i due Paesi, a una difficilissima ricucitura, a una partita di Champions League fra Galatasaray e Juventus blindata da decine di migliaia di forze di polizia a Istanbul con Giovanna Melandri e Piero Fassino come ambasciatori, e le aziende italiane che non vendevano più una sola ruota di gomme (la Pirelli, ad esempio, per bocca del suo rappresentante). Oggi si rischia uno scenario simile, se le scuse italiane non arriveranno prontamente per bocca di Draghi o dell’ambasciatore ufficiale ad Ankara, Massimo Gaiani, subito convocato nella stessa serata al ministero degli Esteri turco. Difficile però che l’Italia, adesso apprezzata anche in Europa per le parole “franche” espresse dal suo presidente del Consiglio, le ritiri. Le istituzioni comunitarie devono trovare unità, dopo il sofa-gate di Ankara che ha indignato tutto il mondo, e il litigio formidabile tra Ursula von der Leyen e Charles Michel appena usciti dalla stanza di Erdogan, facendo ritardare vistosamente la conferenza stampa successiva prevista. Occorrerà però trovare una soluzione anche interna, a Roma, visto che il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, è rimasto sorpreso dalle parole del premier, mai concordate con la Farnesina. Un altro fronte turco è quello dell’opposizione, composta dunque dai repubblicani del Chp e dai filo curdi dell’Hdp, mentre il Partito di azione nazionalista Mhp (composto dalle frange di Lupi grigi pronti a ricordare tra poche settimane il 40° anniversario dell’attentato al Papa) è allineato sulle posizioni di Erdogan, e lo spinge anzi a dichiarazioni più aspre. I repubblicani non hanno al momento espresso posizioni: osservatori turchi rilevano che lo shock dovuto alla recente fine del processo ai golpisti con decine di ergastoli comminati, e al fermo di dieci ammiragli dichiaratisi contrari al progetto faraonico di Kanal Istanbul (un secondo Bosforo), è forte, e il partito non reagisce avendo altri pensieri, pandemia inclusa e la Turchia è molto preoccupata in proposito. Plausi invece si raccolgono fra i curdi. I due co-leader, un uomo e una donna, come da tradizione curda, del Partito democratico dei popoli, Pervin Buldan e Mithat Sancar, guardano con attenzione e interesse agli sviluppi internazionali. La loro formazione rischia la chiusura, così sta progettando Erdogan che ne teme la forza propulsiva alle elezioni, e un forte impegno anche all’estero può aiutare un movimento che rigetta con forza le accuse di terrorismo e si dichiara pienamente coinvolto nelle istituzioni democratiche. Anche tra i curdi, ora, Draghi è il benvenuto.
Erdogan risponde a Draghi: "Totale maleducazione, colpite le relazioni tra Italia e Turchia". Marco Ansaldo su La Repubblica il 14 aprile 2021. Il presidente turco ha atteso giorni prima di replicare al premier italiano, che lo aveva definito "dittatore". ERDOGAN “dittatore”? Le scuse dall’Italia alla Turchia non sono ancora arrivate. Sono passati giorni, ma Roma non ha risposto all’invito di “ritrattazione” fatto da Ankara all’ambasciatore italiano Massimo Gaiani che se ne è fatto latore con il governo. E allora ecco che la rabbia del presidente turco si abbatte direttamente su chi ha espresso quelle parole: Mario Draghi.
Draghi: "Dispiace moltissimo per l'umiliazione subita da Ursula Von der Leyen. Erdogan è un dittatore". “Le dichiarazioni del primo ministro italiano sono di una totale indecenza e maleducazione”. Erdogan non usa mezzi termini. E’ assertivo e determinato tanto nelle azioni, quanto nelle affermazioni: “Le sue parole hanno colpito come un’ascia le relazioni fra Italia e Turchia, che erano arrivate a un livello molto buono fino a quando il signor Draghi non ha parlato in questo modo”, dice. I suoi sottoposti, che spesso ne misurano la durezza e lo guardano con grande timore reverenziale, lo sanno benissimo. Erdogan è esplosivo nei sui scoppi di ira. Così il capo dello Stato turco, dopo alcuni giorni di attesa, è infine intervenuto sulla “questione italiana”, come ormai la definiscono in Turchia. Parlando a un evento tenuto in una biblioteca di Ankara, si è riferito direttamente al caso delle parole pronunciate giovedì scorso da Draghi durante una conferenza stampa a Palazzo Chigi. "Vi dico di non dare alcuna importanza a quali parole utilizza o non utilizza il presidente del Consiglio italiano. Questo signore di nome Draghi, rilasciando questa dichiarazione, ha purtroppo colpito i nostri rapporti. Noi, grazie alla forza che ci ha conferito il popolo, avendo preso in consegna questa volontà popolare, continueremo il nostro percorso al servizio della Nazione". L’uomo definito da tutti il Sultano per le mire espansionistiche che rimandano all’Impero ottomano ha poi argomentato sulla vicenda, usando per sé la terza persona singolare e per Draghi è passato direttamente al tu: “Prima di dire una cosa del genere a Tayyip Erdogan devi conoscere la tua storia. Ma abbiamo visto che non la conosci. Sei una persona che è stata nominata, non eletta”. Chiaro il riferimento a Benito Mussolini, evocato nei giorni scorsi dalla stampa filogovernativa di Ankara che ha ricordato all’Italia il proprio passato, rivendicando le molte elezioni in cui, dal 2002 a oggi, il leader turco è stato eletto, vincendo spesso con largo margine, forte di un consenso ampio ottenuto soprattutto in Anatolia, più che sulla costa, saldamente repubblicana. Erdogan ha anche parlato di “totale impertinenza” delle affermazioni del presidente del Consiglio italiano. I media turchi hanno subito riportato come “Draghi abbia purtroppo danneggiato” lo sviluppo delle “relazioni Italia-Turchia”. E ora, dunque, aspettiamo che cosa accadrà sul fronte diplomatico e economico fra Ankara e Roma.
Ilario Lombardo per "la Stampa" il 15 aprile 2021. Chi frequenta il mondo della diplomazia e conosce i turchi diceva: non lasceranno cadere l' offesa. E così è stato. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha aspettato una settimana, per dare modo a Mario Draghi se non di scusarsi, almeno di correggere il tiro dopo averlo definito «un dittatore con cui dobbiamo avere a che fare». Una frase pronunciata a commento dell' umiliazione subita dalla presidente della commissione Ue Ursula Von der Leyen, costretta a sedere su un divano mentre il presidente del Consiglio europeo Charles Michel si accomodava su una sedia accanto al presidente turco. A nulla è servito il gesto di convocare l' ambasciatore italiano ad Ankara Massimo Gaiani e l' esplicita richiesta di una marcia indietro. Draghi è rimasto in silenzio, con grande imbarazzo della diplomazia italiana poco abituata a questi affondi ruvidi e attentissima a calibrare le parole, soppesandole sulla bilancia dei rapporti economici e politici. Passata una settimana senza nemmeno un segnale di riavvicinamento Erdogan ha risposto. E lo ha fatto a suo modo, lasciando trapelare attraverso le agenzie ufficiali un incontro con i giovani in una biblioteca di Ankara: «Quello che ha fatto - ha detto a commento delle parole del capo del governo italiano - è una totale mancanza di tatto, una totale scortesia e maleducazione. Con queste osservazioni ha minato come un' ascia lo sviluppo delle relazioni Turchia-Italia. Lui è stato nominato, non è stato neanche eletto, prima di parlare in questi termini tenga a mente la propria storia». Un affondo che rilancia la difesa indignata che ha animato l' opinione pubblica turca in questi giorni, secondo la quale il Paese di Benito Mussolini non potrebbe dare lezioni a un presidente eletto democraticamente e che per questo motivo non può essere definito «dittatore». Non è però solo una sottile questione di lessico se pure nei più alti ambienti diplomatici l' argomento fa breccia. Il primo a spiegarlo a Draghi è stato il suo consigliere diplomatico Luigi Mattiolo, a caldo, subito dopo la dichiarazione del presidente del Consiglio. Fonti di governo raccontano alla Stampa che subito dopo la conferenza stampa di Draghi, alla presenza di altri membri dello staff, Mattiolo ha spiegato al capo del governo che la sua uscita avrebbe potuto generare «gravi conseguenze»: «Non può essere definito un dittatore, dobbiamo rettificare in qualche modo». Ex ambasciatore italiano ad Ankara, Mattiolo conosce gli spiriti turchi ma il suo consiglio è stato subito respinto da Draghi: «Io non rettifico nulla». Questa la posizione e questa resta. Anche una settimana dopo. È il suo modo di parlare, dicono a Palazzo Chigi, «franco e diretto». Nessun retroscena, aggiungono: non ha voluto lanciare un avvertimento al presidente turco sulla Libia, dove si scontrano gli interessi di Roma e di Ankara. E confermano: «Non replicherà alle parole di Erdogan». Lo fanno le forze di maggioranza e di opposizione che da destra a sinistra si scagliano contro il Sultano, mentre gli ambasciatori Gaiani e Mattiolo sono a lavoro per ricucire la lacerazione che è già costata all' Italia l' importante commessa di quattro elicotteri destinati dalla Leonardo ad Ankara. Secondo quanto si apprende da fonti diplomatiche, si starebbe puntando a organizzare un faccia a faccia pacificatore, anche se il clima rovente di queste ore rende impossibile prevederlo a breve. Ma la Turchia è un tassello troppo importante per gli interessi italiani (quasi 20 miliardi di scambi commerciali). Alla Farnesina, lontano da ogni tipo di riflettore, si fatica a trovare una parola diversa da «gaffe» per definire la dichiarazione di Draghi e una fonte spiega che ormai tutto si gioca sull'«autorevolezza del presidente del Consiglio, che può spingere l' Europa a seguire questa linea di franchezza nei rapporti», facendo dimenticare a poco a poco quanto successo.
Erdogan e il sofa-gate: diplomazia al lavoro con la Turchia. Ma la linea di Draghi non cambia. Tommaso Ciriaco su La Repubblica il 9 aprile 2021. Il premier deciso a giocare un ruolo di testa in Europa. Il peso del nuovo corso negli Usa e dello scenario libico. Nessuno, ventiquattr'ore dopo, è in grado di affermare con certezza se quella definizione così dura dedicata al presidente turco Recep Tayyip Erdogan, "dittatore", sia stata preparata, studiata e quindi scagliata in conferenza stampa seguendo un copione già scritto. Probabilmente no, o comunque: non tutto era stato pianificato. E nessuno può prevedere fino in fondo gli effetti di questa sortita. La sostanza, però - quella sì - ricalca una linea che Mario Draghi intende seguire nei prossimi mesi. Frutto di convinzioni consolidate e della nuova fase internazionale. Di certo, il premier è descritto in queste ore come sereno e non troppo turbato da quanto accaduto. Sia chiaro: i canali diplomatici sono già in movimento, com'è ovvio che sia in casi del genere. Ma il presidente del Consiglio non dà segnali di bruschi cambi di direzione, né di clamorose marce indietro. Esistono due piani, in questa partita. E vanno tenuti ben distinti. Il primo attiene all'incidente diplomatico della "sedia" negata alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che ha generato la reazione di Draghi. Netta, pubblica, in diretta televisiva, con il logo della Presidenza del Consiglio alle spalle. La più dura registrata in Europa. Ed è culminata con due parole che non si prestano a fraintendimenti: la presidente della Commissione è stata "umiliata" e, soprattutto, Erdogan è un "dittatore" con cui comunque "si ha bisogno di collaborare". La reazione di Ankara, immediata, ha portato alla convocazione dell'ambasciatore italiano in Turchia. E anche il ministro degli Esteri si è subito scagliato contro l'ex banchiere centrale. A fronte di questi eventi, molto si è messo in moto. "Se ne stanno occupando le diplomazie", fanno sapere da Palazzo Chigi a metà giornata. Significa che i contatti tra le due rappresentanze sono in corso. Significa che il premier italiano ha già avuto modo di discutere della questione con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, al telefono. E che nelle prossime ore incontrerà il responsabile della Farnesina, appena farà rientro in Italia reduce da due giorni di missione in Malì. Ridurre il danno significa anche gradire la scelta di Matteo Salvini di rinviare a data da destinarsi il sit-in - previsto per stamane - di fronte alla rappresentanza diplomatica turca nella Capitale. Questa, dunque, è la tela diplomatica. Che sarà condizionata, evidentemente, anche dall'eventuale reazione pubblica di Erdogan, attesa per oggi ma che ancora, a sera, non è stata registrata dai media turchi. Ma le parole di Draghi vanno inquadrate anche allargando lo sguardo al contesto geopolitico internazionale. E' questo il punto che segnalano tutti gli interlocutori di Palazzo Chigi, in queste ore. Un filo che partendo da Bruxelles, arriva fino a Tripoli e Washington. È cronaca che Draghi abbia di recente visitato la Libia, nel corso del suo primo viaggio internazionale. In quello scacchiere Ankara gioca da oltre un anno una partita assai aggressiva, proprio in un teatro tradizionalmente caro a Roma. Gli interessi, è evidente, non collimano, anche se questa "concorrenza" non basta da sola a spiegare l'affondo verbale del premier italiano. E infatti c'è di più. L'attivismo di Draghi va letto alla luce della nuova fase che potrebbe presto aprirsi in Europa e che, di certo, si è già aperta negli Stati Uniti. L'imbarazzo con cui Bruxelles ha reagito al caso della "sedia" è emblematica, e sotto gli occhi di tutti. In questo senso, il premier ha scelto scientificamente di intestarsi la reazione più dura contro Erdogan. L'ambizione pare quella di conquistare un ruolo centrale nel Continente. In questo, interpretando anche alcuni indizi che arrivano dagli Stati Uniti. Non sono solo le mosse di Joe Biden rispetto alla Russia, o quell'esplosivo "killer" scelto per definire Putin. Nel corso dell'ultimo Consiglio europeo, il presidente degli Stati Uniti ha selezionato concetti durissimi verso le autocrazie e indicato la rotta ai partner Ue: "Stando insieme, fianco a fianco, Usa e Unione europea possono dimostrare che le democrazie sono più adatte a proteggere i cittadini". Chi conosce la filosofia di Draghi non nasconde la sintonia con questo approccio. E d'altra parte, anche il linguaggio sembra adattarsi alla nuova era, con quali conseguenze "sul campo" si vedrà. Nel frattempo, vanno registrate alcune reazioni gelide con cui a Bruxelles è stata accolta la sortita del premier italiano. "La Turchia è un Paese che ha un Parlamento eletto e un presidente eletto - ha detto oggi un portavoce della Commissione, interpellato sulle parole di Draghi - verso il quale nutriamo una serie di preoccupazioni e con il quale cooperiamo in molti settori. Si tratta di un quadro complesso, ma non spetta all'Ue qualificare un sistema o una persona". Una freddezza che non sembra però scalfire le convinzioni dell'ex banchiere. Che, spiegano da più fronti, ha sempre usato e continuerà a usare un linguaggio diretto, in un certo senso non mediato e quindi anche a suo modo rischioso, soprattutto rispetto alle potenze esterne all'alleanza democratica occidentale. Ma che nello stesso tempo promette comunque, in nome della real politik, di continuare a promuovere il dialogo con questi leader, in nome di un pragmatismo necessario.
Francesca Sforza per “la Stampa” il 10 aprile 2021. Impertinenti, inopportune, inaccettabili»: è questa l' aggettivazione che la diplomazia turca ha usato per definire le dichiarazioni del premier italiano Mario Draghi a proposito del presidente turco Erdogan («un dittatore di cui si ha bisogno»). Ankara chiede senza mezzi termini che quelle dichiarazioni vengano «immediatamente ritirate», ma forse si accontenterebbe di una telefonata di scuse. Le scuse tuttavia non arriveranno, se si guarda alla linea assunta dal governo italiano nei confronti della Turchia non da ieri, ma almeno dall' ultimo Eurosummit del 25 marzo scorso, quando Draghi ha duramente criticato lo stato di diritto turco e l' uscita dalla Convenzione di Istanbul. Oltre agli americani, tradizionalmente su questa posizione, il premier Draghi incontra il sostegno dell' opinione pubblica e dell' intero arco parlamentare italiano - ostile alla Turchia in chiave anti-islamica a destra e filo-curda a sinistra - e ieri ha anche incassato il sostegno del Ppe, che con Manfed Weber ha dichiarato: «Con la Turchia meglio parlare chiaro e togliere dal tavolo la procedura di allargamento dell' Unione». Tutto bene dunque? Insomma, perché i nostri interessi con la Turchia ammontano al momento a circa 20 miliardi di interscambio l' anno - ambienti vicini a Leonardo vedevano in bilico, ieri, la commessa per l' acquisto di 15 elicotteri, tanto per cominciare - e poi ci sono i nostri interessi geopolitici nel Mediterraneo. Negli ultimi anni, a fatica, con la tecnica di due passi avanti e uno indietro, l' Italia era comunque riuscita a ritagliarsi uno spazietto strategico nell' area, che con la Libia da ricostruire aveva i margini per diventare più largo. L' imperfetto però a questo punto è d' obbligo, perché in quella zona sono due i Paesi con cui bisogna dialogare: uno è l' Egitto - con cui i rapporti sono congelati per via del caso Regeni - e l' altro è la Turchia. I sostenitori della linea moderata, che tradizionalmente sul dossier turco dimorano al Ministero degli Esteri, hanno già cominciato a mettere sul tavolo possibili soluzioni. Ma anche lì, si fatica a trovare una traiettoria, almeno stando a una delle poche dichiarazioni rilasciate: «Coordineremo tutte quelle iniziative che si devono coordinare», ha detto il ministro Di Maio nel corso di una trasmissione tv. Da una parte c' è la gestione del breve e medio termine - chi conosce la diplomazia turca sa che la tecnica dell' attendismo, del rinvio, del lasciar decantare nell' attesa che passi la bufera, è destinata a fallire - dall' altra quella del lungo termine, che riguarda la collocazione strategica italiana futura. Ci si chiede se non siamo all' alba di un cambio strutturale della politica estera nazionale, un turning point che potrebbe vederci sostanzialmente fuori dal Mediterraneo che conta, più vicini a Stati Uniti e Francia, più lontani da Berlino. I più preoccupati sembrano essere proprio i tedeschi, che ieri si sono mossi alla ricerca di spiegazioni per capire come regolarsi: se anche l' Italia si sposta su posizioni decisamente antiturche come già la Francia, Grecia e Cipro, come sarà possibile condurre una mediazione nell' area del Mediterraneo orientale? Che i tedeschi ci vengano dietro è da escludere, non fosse altro per la composizione etnica delle loro città: un problema con la Turchia diventerebbe un problema di politica interna nell' arco di ventiquattr' ore. Mai come questo momento l' ancoraggio a Bruxelles sembra quello da cui gli interessi italiani possono venire difesi al meglio. Anche se mai come dopo il Sofà-Gate le fragilità dell' Unione sono sembrate tanto grandi.
Mario Draghi contro Erdogan e il silenzio di Angela Merkel: il premier italiano lancia la sua scalata in Europa? Libero Quotidiano il 10 aprile 2021. Chiamandolo “dittatore” in una conferenza stampa con tanto di logo di Palazzo Chigi alle sue spalle, Mario Draghi ha fatto letteralmente perdere le staffe a Recep Erdogan, che evidentemente si è sentito toccato nel profondo. D’altronde quella espressa dal presidente del Consiglio è una verità incontrovertibile, oltre che una mossa politica dai risvolti molto chiari: “Dopo aver strizzato l’occhio alla Cina e alla Russia con i due governi guidati da Giuseppe Conte - è l’analisi di Adalberto Signore su Il Giornale - Draghi torna su quelli che sono storicamente i due capisaldi della nostra politica estera, fin dai tempi della Dc: europeismo e atlantismo. Con la realpolitik come faro”. Nelle ore successive alla sua uscita pubblica contro Erdogan, definito “dittatore” con cui bisogna però “cooperare” (e non collaborare, scelta di parole non casuale), Draghi è stato descritto dal suo staff come “tranquillo” e “per nulla turbato” dalla reazione dura della Turchia, che ha subito convocato l’ambasciatore italiano. Ma al di là di questo, già ieri Erdogan ha evitato di tornare sull’argomento e di esprimere pubblicamente una posizione contro l’Italia. Evidentemente il presidente del Consiglio ha colpito nel segno… Ma la sua uscita è importante non solo per marcare le distanze dalla Turchia di Erdogan. Sempre Signore su Il Giornale fa notare che in Europa si è registrato un certo silenzio delle cancellerie più importanti, a partire da quella tedesca di Angela Merkel. Sia lei che la Commissione Ue hanno scelto di lavarsene le mani: “Certamente un eccesso di prudenza. Ed è in questo eccesso di cautela dell’Europa che Draghi inizia a muoversi con un piglio che inizia a far breccia, non tanto in casa nostra quanto all’estero. E a far pensare - per la prima volta dopo molti anni - che un premier italiano possa ambire ad un ruolo di leadership a livello europeo”.
Che pena l’Europa che si inginocchia ai piedi del sultano sessista e liberticida. Che l’età dei diritti sia al tramonto, ce lo hanno dimostrato con chiarezza Draghi, von der Leyen e Michel. Coloro che avrebbero il compito di preservare e difendere le istituzioni democratiche tuttora esistenti in Europa. Barbara Spinelli su Il Dubbio il 9 aprile 2021. Leggendo i giornali degli ultimi due giorni, viene da pensare che davvero i diritti umani siano un’ideologia occidentale in declino. E che a favorire tale lento ma inesorabile declino siano proprio quei governanti europei che invece avrebbero il compito di preservare e difendere le istituzioni democratiche tuttora esistenti in Europa, sorte dalle ceneri dei campi di concentramento nazisti nel secondo dopoguerra del secolo scorso. Che l’età dei diritti sia al tramonto, ce lo hanno dimostrato con chiarezza Draghi, von der Leyen e Michel. Draghi, pur di recuperare gli interessi economici in Libia, si è spinto ad affermare che “Sul piano dell’immigrazione noi esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa nei salvataggi e nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia”, anche dopo che, al contrario, Fatou Bensouda, la procuratrice della Corte penale internazionale dell’Aia, ha messo nero su bianco nel suo rapporto al Consiglio di sicurezza dell’ONU la responsabilità del generale Haftar e delle milizie dal medesimo controllate nei crimini di guerra e nelle “sistematiche atrocità” commesse contro migranti e profughi. Von der Leyen e Michel, dopo i già sonori schiaffi assestati da Erdogan al sistema europeo di tutela dei diritti umani, il primo attraverso il menefreghismo dimostrato davanti alla sentenza della Corte Europea dei diritti umani con la quale si chiedeva l’immediata liberazione del leader HDP Selahattin Demirtas, dichiarando urbi et orbi che “la sentenza non è vincolante per Ankara”, il secondo, con la fuoriuscita dalla Convenzione di Istanbul, si sono dimostrati propensi ad accettare sottomessi anche il terzo, inflitto a favore di telecamere in occasione della visita ad Ankara. Che si sia trattato di un pasticcio diplomatico è fuor di dubbio: strano però che i funzionari della Commissione non si siano coordinati con quelli del Consiglio d’Europa per la preparazione della visita, e ancor più strano che i funzionari di Ankara ignorassero la pari dignità di entrambe le istituzioni. Perché è pur vero che il capodelegazione era Michel, ma quando si ricevono due istituzioni di pari importanza, le si assegnano posti di pari rilievo. Invece Ursula, a sedia mancante, si è accontentata del divanetto, declassata alla compagnia del Ministro degli Esteri Cavasoglu, lasciando la scena ai due uomini di potere. Ammesso che l’assenza della sedia sia stato frutto dell’imperizia dei funzionari europei, tuttavia a sedia mancante era chiaro che la scelta sul che fare avrebbe avuto una portata simbolica pregnante. Accettare il terzo schiaffo o ribadire il necessario rispetto della pari dignità istituzionale, a maggior ragione in quanto l’istituzione messa in disparte era rappresentata da una donna, attendendo in piedi l’arrivo della terza sedia? Purtroppo, Ue e Consiglio d’Europa hanno incassato il terzo schiaffo senza colpo ferire, ed anzi nella conferenza stampa congiunta hanno pure spiegato il motivo di tanto aplomb: intensificare gli scambi economici e rafforzare i finanziamenti per la gestione dei flussi migratori. Erdogan è stato scaltro: come nel gioco delle tre carte, rimbalzando tra i protocolli, ha mostrato al mondo intero la debolezza della diplomazia europea e la relatività dell’ideologia occidentale dei diritti umani, predicata ma non praticata. L’immagine che Michel e Von der Leyen ci hanno consegnato, come d’altronde Draghi con le sue dichiarazioni, è quella di un esecutivo fragile, vulnerabile, per il quale il prevalere degli interessi politici ed economico- finanziari impone la relativizzazione nella tutela dei diritti umani, la sudditanza a criminali di guerra, dittatori e despoti, che se ne compiacciono ingrassando le loro tasche, per fare il lavoro sporco. E così, mentre Al- Sisi, Haftar ed Erdogan se la ridono compiaciuti della fragilità italiana ed europea – fragilità ideologica e politica- e si godono i vantaggi economici che ne derivano, noi guardiamo la democrazia morire lentamente, affossata dalle logiche speculative dei governi, che non esitano a barattare sicurezza, commesse milionarie e rifornimenti energetici con il silenzio assenso ai regimi dittatoriali del Mediterraneo all’eliminazione interna della resistenza democratica, e all’erosione dello stato di diritto mediante la cancellazione della separazione dei poteri, dell’indipendenza della magistratura, dei principi di uguaglianza e non discriminazione.
I migranti dietro al "sofa-gate". Il retroscena sulla sedia proibita. Il vertice di Ankara serviva ad Unione Europea e Turchia per riprendere il dialogo su alcuni dossier vitali per l'agenda politica internazionale, tra cui la gestione dei rifugiati siriani. Daniele Dell'Orco - Ven, 09/04/2021 - su Il Giornale. Per "sofà-gate" si intende la dimostrazione plastica della capacità dell'Europa di spostare l'attenzione dalle tematiche rilevanti per concentrarsi sul colore. Perché sì, l'atteggiamento di Erdogan nei confronti del Presidente della Commissione Ue Ursula von Der Leyen è stato brutale, ma forse meno rispetto al nocciolo centrale del vertice: i migranti. Attorno alla gestione dei flussi migratori ruotano tutti gli altri dossier che animano i rapporti tra Turchia e Unione Europea: diritti umani (la Turchia ha deciso di ritirarsi dalla Convenzione europea contro la violenza sulle donne), ingerenze geopolitiche, scontri diplomatici. La von Der Leyen, insieme al Presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, si sono resi conto che l'escalation degli scontri con Ankara non conviene a nessuno. E anzi, il meeting rappresentava una tappa importante verso una ripresa della dialettica che la stessa Turchia, in piena crisi finanziaria, auspica con l'Ue, dopo un 2020 di massima tensione e la minaccia di sanzioni contro Erdogan per le azioni "illegali e aggressive" su vari fronti. I diplomatici francesi l'hanno definita “offensiva di charme”, e si tratta di una strategia, quella del Sultano, di provare a tendere la mano all'Europa dopo mesi a dir poco turbolenti: dagli insulti con Macron, alla disputa sulle trivellazioni nel Mar Egeo, fino ovviamente alla riapertura dei confini con la Tracia che aveva proiettato centinaia di migliaia degli oltre 4 milioni di profughi siriani stipati in Anatolia lungo la cosiddetta Rotta Balcanica. Proprio in questo senso, dopo i 6 miliardi di euro già elargiti con l'accordo del 2016 da Bruxelles per "proteggere" i confini tra Grecia e Turchia, entrambe le parti in causa caldeggiano un rinnovo dei finanziamenti. Questi nodi dell'agenda diplomatica rappresentano punti di interesse comune tra tutti gli Stati dell'Ue, dalla Francia che appunto con la Turchia non nutre buoni rapporti (addirittura dall'Eliseo accusano Erdogan di aver tentato di interferire nelle scorse elezioni presidenziali), alla Germania che con la Turchia cerca di tenere saldo un rapporto secolare, fino alla stessa Italia, che ha ancora il suo bel daffare nella gestione dei flussi migratori dalla Libia (quasi 10mila sbarchi da inizio del 2021), che con Ankara condivide diversi dossier di politica internazionale (Nord-Africa, Maghreb, Balcani, Mediterraneo orientale, Africa orientale) e che in quella "cooperazione" auspicata da Draghi nelle sue dichiarazioni su Erdogan che hanno creato un incidente diplomatico non da poco si riferisce proprio alla gestione degli accordi commerciali e politici, della convergenza sul riconoscimento di un governo in Libia, del blocco dei migranti. Il sofà-gate, insomma, ha mostrato chiaramente come tematiche "simboliche" in seno all'Europa finiscano per sovvertire l'ordine gerarchico degli argomenti davvero importanti. È anche così che, il Vecchio Continente, mostra il suo ventre molle.
Il Canale, la Libia e Washington: la vera sfida tra Draghi ed Erdogan. Lorenzo Vita su Inside Over l'11 aprile 2021. Quella che si sta per concludere non è stata una settimana come le altre per la Turchia. È iniziata con una retata che ha coinvolto i più importanti ammiragli in pensione del Paese accusati di golpe ed è finita con il “sofa-gate” di Ankara fino ad arrivare alle parole di Mario Draghi nei confronti di Recep Tayyip Erdogan, definito come un “dittatore” dal presidente del Consiglio. I tre episodi sembrano completamente slegati tra loro, almeno in apparenza. Cosa può unire dieci ammiragli accusati di aver firmato un documento che paventava un golpe a una conferenza stampa del premier italiano a Palazzo Chigi? Tutto farebbe propendere per due questioni completamente sperate, eppure esiste un filo conduttore: una sottile linea rossa che lega Ankara a Roma e che fa tappa a Istanbul e Tripoli e che svela uno dei più complessi equilibri di potere del Mediterraneo. Partiamo dagli arresti che hanno coinvolto gli ex ammiragli turchi, tra i quali l’ideatore di Mavi Vatan, Cem Gurdeniz. Tutto nasce da una dichiarazione con cui 104 personalità legate alla Marina e al mondo nazionalista hanno criticato aspramente l’idea del Canale di Istanbul (il progetto faraonico per creare una via d’acqua parallela al Bosforo) e l’ipotesi di uscire dall’accordo di Montreux del 1936. I mandati di arresto per gli alti ufficiali in pensione della Marina sono il frutto di un sospetto: secondo Erdogan e la magistratura turca quella lettera firmata dai militari ormai non più servizio sarebbe molto simile a certi documenti firmati in concomitanza dei colpi di Stato che hanno coinvolto la Turchia. Ma l’accusa nasconde anche un altro segnale: non solo si ferma un blocco, quello nazionalista e laico, che contesta Kanal Istanbul e l’uscita da Montreux, ma si fa vedere a Russia e Stati Uniti – cioè le due potenze coinvolte nel Bosforo – che la possibilità di escludere il canale dalla Convenzione del 1936 è un’ipotesi reale. Tanto reale che si considera pericoloso chi ne condanna aspramente l’ipotesi, pure se questo significa arrestare un uomo che ha plasmata l’attuale dottrina navale turca. Alla Russia, l’idea che la Turchia esca da Montreux non piace per nulla. Vladimir Putin ha chiamato Erdogan proprio per esprimergli il punto di vista russo sulla necessità di mantenere vivo l’accordo evitando di manomettere il regime del transito negli Stretti Turchi. Il presidente turco ha voluto evitare di tornare sull’argomento dicendo che per adesso l’uscita non è in discussione, ma è chiaro che l’attenzione del Cremlino è la spia di cosa può succedere dal punto di vista internazionale. Perché se Mosca ha tutto l’interesse a evitare che si infranga l’equilibrio del Mar Nero, a Washington c’è molta curiosità sul punto: specialmente perché avviene in una fase di escalation che riguarda l’Ucraina e le coste meridionali della Russia. Gli Stati Uniti sarebbero molto interessati a un canale escluso da quella convenzione firmata ai tempi di Atatürk e della prima Unione Sovietica. La Convenzione limita non solo il passaggio delle navi militari dei paesi che non si affacciano sul Mar Nero, ma anche il loro stazionamento, limitato a un massimo di 21 giorni. Se la Turchia decidesse di rinegoziare i termini del trattato o escludere il Canale da questa Convenzione, per Washington si concretizzerebbe la possibilità di liberare un choke point fondamentale dando libero sfogo alla libertà di navigazione e all’idea di armare il Mar Nero. E questo Erdogan lo sa benissimo, perché usando quest’offerta e fermando i più alti ufficiali e strateghi anti Usa, il messaggio arrivato in America è chiarissimo. Il riavvicinamento agognato da Erdogan con gli Stati Uniti chiaramente passa anche per la Libia. E qui viene in gioco l’Italia. È chiaro che la Turchia dalla Tripolitania non se ne andrà così facilmente. Ha inviato droni, armi, navi, mercenari dalla Siria e consiglieri militari: difficilmente abbandonerà il campo senza ottenere garanzie di mantenere il controllo su Tripoli e Misurata e sulle sue maggiori basi in Libia. Ma questo significa che avrà per forza bisogno di un minimo placet americano. Anche perché la Turchia ha già dimostrato di essere molto brava a trattare con la Russia, presente in Cirenaica, pur rimanendo formalmente nella Nato. L’offerta di Kanal Istanbul può sembrare avventata e quasi utopistica: ma è chiaro che a Erdogan in questo momento serve far capire agli Stati Uniti di poter di nuovo fare affidamento sulla Turchia. Una necessità tale da far rispolverare al governo turco anche il tema degli uiguri in Cina, tanto caro all’America ma con il rischio di infastidire il potente partner cinese. Questo gioco turco ovviamente complica molto le mosse di chi si considera il miglior alleato degli Stati Uniti nel Mediterraneo, e cioè l’Italia. Draghi ha confermato più volte che la sua linea politica è quella europeista e atlantista. Il caso Biot in questo senso è esemplare. Ma è evidente che nella partita libica e in quella del Levante la Turchia ha molte più armi da mostrare a Joe Biden. Il presidente Usa di certo non apprezza Erdogan, ma l’ipotesi di Ankara che torna nell’alveo Nato e che spezza l’asse con Mosca non può essere presa sottogamba. Specialmente perché abbiamo visto come Biden veda come fumo negli occhi sia la Russia che la Cina. Ecco quindi che le parole di Draghi su Erdogan assumono un ben altro significato: la “gaffe” del premier non è evidentemente collegata alla sedie negata a Ursula von der Leyen, ma molto più pragmaticamente serve a tirare una linea rossa tra il modus operandi italiano e quello turco. Per Draghi non c’è possibilità di paragonare i due paesi, a tal punto che considera Erdogan un dittatore con cui collaborare. Concetto decisamente in contrasto con il fatto che la Turchia non è solo un importante partner italiano ma anche un alleato in seno alla Nato. Quell’uscita dopo il viaggio a Tripoli e dopo l’incontro con il nuovo premier libico e con il premier greco Mitsotakis indica un segnale anche da parte dell’Italia: per Palazzo Chigi è Roma il vero referente di Washington nel Mediterraneo.
Massimo Giannini per “la Stampa” l'11 aprile 2021. Mario Draghi che dà del “dittatore” a Erdogan. È la classica buccia di banana sulla quale scivola un leader arrivato al potere con le apparenti credenziali di un “impolitico”, o è invece la ruvida frustata di un primo ministro che insegue un più raffinato disegno diplomatico? Le sacre fonti di Palazzo Chigi invitano a non caricare di significati eccessivi l’accusa che il presidente italiano ha rivolto al suo omologo turco: era indignato per il trattamento scandalosamente sessista riservato alla presidente della Commissione europea in visita ufficiale ad Ankara, e questo è tutto. Può darsi che sia così. Ma quello che è accaduto, depurato dalla possibile motivazione psicologica, sollecita comunque qualche riflessione politica. Intanto perché l’affondo del premier rappresenta in ogni caso uno strappo lessicale e istituzionale: nel galateo delle diplomazie nessun capo di Stato e di governo usa dire ciò che pensa in modo così netto e quasi brutale. E poi perché, a distanza di quattro giorni e nonostante le proteste ufficiali della Turchia, il premier non ha fatto nulla per troncare e sopire. Dunque, cosa c’è dietro la sortita di Draghi? Suggerisco due chiavi di lettura. La prima chiave di lettura è fattuale: Erdogan è un dittatore perché viola sistematicamente i diritti del suo popolo e del popolo curdo e reprime le libertà fondamentali, di espressione e di genere. Comprensibile nella sostanza, irricevibile nella forma: come ha scritto giustamente Nathalie Tocci, Erdogan è un pessimo autocrate, maschilista e nazionalista, ma in Turchia non c’è una dittatura, il presidente è stato eletto dai cittadini, le tre maggiori città sono in mano a sindaci dell’opposizione e tra due anni si svolgeranno nuove elezioni. Draghi non può non saperlo. Se nonostante questo ha evocato la “dittatura”, e poi non ha fatto nessuna marcia indietro, è verosimile che abbia voluto lanciare qualche messaggio. Agli amici e ai nemici. E qui siamo alla seconda chiave di lettura, che è invece geo-strategica. Con la sua intemerata, per quanto “tecnicamente” imprecisa, il premier riempie a modo suo l’inquietante vuoto di leadership dell’Unione in Europa, in Medioriente, nel mondo. Un vuoto che deriva dal declino dell’asse franco-tedesco, con una Merkel in uscita e un Macron in attesa. Che precipita nella ritirata comunitaria dai grandi teatri globali del conflitto militare-industriale, dal Corno d’Africa alla Siria all’Iraq. Che si manifesta nel clamoroso fallimento della campagna vaccinale, con una copertura finora limitata al 14% dei cittadini europei, contro il 38% degli americani e il 58% dei britannici. Che deflagra simbolicamente proprio con il “Sofà-gate” in terra turca, con un patetico Charles Michel che invece di cedere la poltrona alla collega Von der Leyen usa a vanvera il “protocollo” per giustificare la sua figuraccia, quasi più oscena di quella di Erdogan. Prendendo di petto il Sultano, Draghi sembra voler ridare voce all’Unione e tono all’Italia. A partire proprio dal Mediterraneo, che un tempo era Mare Nostrum e adesso è risucchiato nel gorgo dei nuovi imperialismi asiatici. Mettiamo in fila i fatti degli ultimi dieci giorni. Il capo del governo ha prima lanciato un segnale chiaro a Putin, facendo arrestare una spia che vendeva segreti a Mosca. Poi è volato a Tripoli a dare sostegno al governo provvisorio di Dbeiba e a supportare la presenza dell’Eni (anche se ha commesso il grave errore di “ringraziare” la Guardia Costiera libica per i salvataggi, mentre avrebbe dovuto denunciarne i misfatti). Infine ha sferrato il colpo a freddo su Erdogan. Tre atti che sembrano uniti da una sola trama: dimostrare ai russi e ai turchi che in Libia, e non solo in Libia, l’Italia c’è e vuole giocare la sua partita. Un avviso ai naviganti che vale anche per gli alleati europei: deboli, divisi e indecisi a tutto. E in questo caso, forse, c’è una saldatura più marcata con l’America post-trumpiana. L’Erdogan “dittatore” di Draghi fa il paio con il Putin “killer” di Biden. Un linguaggio comune, improprio ma inequivoco, per riallacciare le relazioni transatlantiche all’insegna della difesa delle democrazie occidentali e della denuncia esplicita dei regimi illiberali. Che se non sono dittature (come nel caso della Cina) sono per lo meno “democrature” (come nel caso della Turchia e della Russia). E che al di là della “volontà di potenza” di chi le comanda, non sono né insensibili né impermeabili al “soft power” esercitato dal mondo libero. Erdogan è in palese difficoltà. Si avvicina alle elezioni del 2023 col fiato sempre più corto. È in crisi nera sull’economia: il Pil non cresce, l’inflazione vola al 15% e la cacciata del governatore della Banca centrale Naci Abgal ha prodotto una svalutazione della lira turca pari al 15% sul dollaro. È in conflitto con interi pezzi della società: milioni di giovani non dimenticano le proteste di Piazza Taksim e centinaia di migliaia di donne scendono in piazza ogni fine settimana dopo la clamorosa decisione del governo di uscire dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere. È in caduta verticale nei sondaggi: ad oggi il suo partito, l’Akp, non raggiungerebbe il 51% neanche con gli alleati del Movimento Nazionalista. Putin non se la passa tanto meglio. In patria cresce il disagio alimentato dal martirio a bassa intensità di Navalny nella colonia penale di Pokrov, dove il leader dei dissidenti si consuma in uno sciopero della fame che nutre le speranze malcelate del Cremlino su una sua fine rapida e magari non troppo dolorosa. Fuori dai confini crescono le tensioni nel Donbass, dove lo Zar non ha ancora deciso quale strategia intraprendere, mentre il ministro degli esteri ucraino Dmitro Kuleba denuncia ufficialmente “l’aggressione armata della Federazione Russa” e il New York Times scrive “le intenzioni di Putin non sono chiare ma la manovra, decisa per mettere alla prova il nuovo presidente statunitense, potrebbe rapidamente degenerare”. Queste autocrazie non sono superpotenze inespugnabili. E con queste autocrazie dobbiamo comunque “fare i conti”, come ha detto lo stesso Draghi. In senso diplomatico, ed anche in senso economico: perché dove passano le merci non passano gli eserciti, perché in Turchia lavorano 1.500 aziende italiane e perché con Ankara abbiamo un interscambio che vale 19 miliardi. Ma queste autocrazie vanno affrontate a viso aperto. Perché, come scrive Anne Applebaum nel suo “Tramonto della democrazia”, è anche possibile che la nostra civiltà stia già dirigendosi verso l’anarchia o la tirannia, che il XXI secolo vedrà arrivare al potere una nuova generazione di “chierici”, fautori di idee autoritarie, e che la paura del Covid genererà anche la paura della libertà. Ma dipende solo da noi far sì che la pandemia ispiri invece un nuovo senso di solidarietà, e che la realtà del dolore e della morte insegni alle opinioni pubbliche a diffidare di bugiardi, populisti, imbonitori. E persino dittatori, veri o falsi che siano.
Gianluca Di Feo per “la Repubblica” l'11 aprile 2021. La crisi non è affatto chiusa. Ad Ankara le parole di Mario Draghi, che ha definito «un dittatore» il presidente Erdogan, continuano a provocare dichiarazioni infuocate di ministri e leader politici. Il governo turco pretende scuse ufficiali e non sembra disposto ad accontentarsi di un chiarimento attraverso i canali diplomatici. E poiché da Roma non arrivano risposte, le autorità turche hanno cominciato a lanciare segnali minacciosi, marchiando la disponibilità di alzare il livello del confronto. Una pressione nell' ombra, destinata a pesare senza però ricorrere ad atti formali. Con un obiettivo chiaro: far capire che il prezzo del braccio di ferro potrebbe pagarlo l' economia italiana. La prima a finire nel mirino è stata Leonardo, la holding tecnologica a controllo statale. Dopo due anni di trattative, proprio in questi giorni era prevista la firma del contratto per l'acquisto di dieci elicotteri d' addestramento AW169. Una commessa del valore di oltre 70 milioni di euro, che doveva essere la prima trance di un accordo per sostituire i vecchi Agusta-Bell 206 della scuola delle forze armate turche: l'importo complessivo per l' azienda italiana potrebbe superare i 150 milioni. A fine marzo Ismail Demir, il presidente delle Industrie della Difesa ossia l' ente governativo che gestisce le commesse, aveva annunciato l' accordo con Leonardo. Ma dopo le parole di Draghi i turchi hanno fatto sapere che "al momento" l' operazione è sospesa. Avvisi simili sono stati recapitati anche ad altre compagnie nazionali attive in Anatolia. Tra loro ci almeno due società private e Ansaldo Energia, proprietaria del 40 per cento di un gruppo che da un anno sta negoziando con banche e autorità turche la gestione dei debiti per centinaia di milioni accumulati dalla centrale elettrica di Gebze, nella zona industriale di Istanbul. È chiaro che Ankara intende far valere la rilevanza delle relazioni economiche tra i due Paesi. Prima del Covid, l'interscambio era arrivato a toccare 17 miliardi l'anno con quasi 1500 società italiane impegnate in Turchia: una delle più importanti è Ferrero, che produce lì una parte consistente delle nocciole con un business da centinaia di milioni l' anno. Fonti di Palazzo Chigi minimizzano la situazione, sostenendo che la nostra diplomazia è all' opera per rasserenare le relazioni. E finora il presidente Erdogan ha scelto di non affrontare il tema. Ma uno dietro l'altro i suoi ministri hanno preso posizione, condannando Draghi. Quello dell' industria Mustafa Varank ha dichiarato: «Non esistono lezioni di democrazia che la Turchia può ricevere dal primo ministro "incaricato" dell' Italia, che ha inventato il fascismo». Poi ha detto che i governanti italiani lasciano morire i richiedenti asilo e devono prendere lezioni di umanità dalla Turchia, invitandoli ad ammirare il presidente. Non a caso, quasi tutti gli interventi fanno leva sul tema dell' immigrazione. Il portavoce dell' Akp, il partito di Ergogan, ha usato parole durissime: «Hanno chiamato il nostro presidente "dittatore" e poi hanno aggiunto che devono collaborare con noi sull' immigrazione - ha scandito Omer Celik - . È il massimo dell' ipocrisia. Queste persone che trattano i migranti in maniera dittatoriale e immorale, pensano di doverci dare lezione di democrazia. Per prima cosa portate la vostra democrazia fuori dalle acque del Mediterraneo, poi parlate».
L’attacco di Erdogan ai diritti umani è l’ultima mossa di un leader allo sbando. Contestato nelle piazze, in calo di popolarità, con un partito diviso. Il presidente turco sceglie il pugno di ferro. Ma questa volta rischia. Mariano Giustino su L'Espresso il 6 aprile 2021. I primi mesi di quest’anno in Turchia sono stati particolarmente foschi: con la nomina di fiduciari del presidente turco ai vertici delle accademie, come è avvenuto alla Bogaziçi, l’Università del Bosforo, a seguito di un decreto presidenziale varato nella notte del 2 gennaio e poi, sempre di notte, dal 17 marzo, in 72 ore, con una scarica di colpi allo stato di diritto e ai diritti umani fondamentali senza precedenti da quando il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) di Recep Tayyip Erdogan è al potere. Dapprima, vi è stata la richiesta della messa al bando del terzo maggior partito del paese, il Partito democratico dei popoli (Hdp), accompagnata da quella dell’interdizione di 687 suoi membri dall’esercizio dell’attività politica perché accusati di sostegno al terrorismo. Poi, il 19 marzo, l’uscita, per decreto presidenziale, dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e sulla lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, ratificata dalla Turchia il 12 marzo del 2012 dopo averla sottoscritta l’11 maggio del 2011. Erano altri tempi per l’Akp. La cancellazione dall’ordinamento turco della Convenzione del Consiglio d’Europa era da più di un anno al centro delle richieste dei circoli islamisti e dell’estrema destra che costituiscono lo zoccolo duro della base militante ed elettorale dell’Akp e del suo prezioso alleato, Devlet Bahçeli, presidente del Partito del movimento nazionalista (Mhp), formazione politica dei Lupi Grigi, con basi ideologiche nell’estrema destra panturanica, xenofoba e antioccidentale. Ma, come si sa, il movimento femminista e quello Lgbtiq in Turchia sono molto agguerriti e subito si è levata la loro protesta in diverse città del paese. Per giorni nei quartieri centrali della megalopoli turca, alle ore 21, si è udito il fragore della “tencere ve tava çalmak”, la battitura di pentole e padelle, fatte risuonare dalle donne affacciate alle finestre e ai balconi. Le femministe della piattaforma “We Will Stop Femicide” assieme a gruppi Lgbtiq, manifestano ogni giorno e nel fine settimana si danno appuntamento al molo di Kadıköy, uno dei quartieri più iconici della sinistra turca. «Non puoi cancellare la nostra lotta di decenni. Non rinunceremo mai ai nostri diritti, li abbiamo conquistati lottando con i denti e con le unghie», gridano al ritmo della musica pop. In un momento in cui alcuni circoli islamisti in Turchia stanno discutendo di riportare le leggi anti-adulterio (che presumibilmente includerebbero la condanna e la repressione del sesso prematrimoniale), le donne con le loro canzoni, anche sulla passione erotica, esprimono un’aperta ribellione e costituiscono il motore della lotta contro l’oppressione. Il richiamo all’uguaglianza di genere e la promozione dei diritti Lgbtiq presenti nella Convenzione di Istanbul erano da sempre indigesti per i conservatori turchi. Ma i numeri della violenza sulle donne e della violenza di genere sono agghiaccianti: dall’inizio dell’anno sono già 71 le donne uccise e nel 2020 sono state 284. Negli ultimi 18 anni, da quando l’Akp è al potere, sono state 6.732. Ma perché il presidente turco ha deciso di rinnegare un trattato internazionale che nel 2011 era un fiore all’occhiello della sua politica riformatrice di avvicinamento all’ordinamento dell’Unione europea? Il direttorato delle Comunicazioni presso la presidenza della Repubblica turca in un suo comunicato, di lunedì 22 marzo, esprime molto bene le motivazioni che sono alla base di questa decisione: «la Turchia si è ritirata dalla Convenzione di Istanbul perché il trattato internazionale considera l’omosessualità una condizione umana del tutto normale e ciò è incompatibile con i valori sociali e familiari della Turchia». In sintesi, il governo turco ritiene che la Convenzione incoraggi gli orientamenti non eterosessuali e che dunque minacci l’istituzione fondamentale della famiglia. Anche l’associazione Kadem, co-fondata dalla figlia del Presidente (Sumeyye Erdogan Bayraktar), ha ora cambiato idea sostenendo che «a tutelare le donne ci sono già le leggi nazionali, a partire dalla Costituzione». La visione della nuova Turchia di cui parla tanto il Capo dello Stato consiste nel recupero dei valori locali e nazionali che rappresenterebbero le radici dell’identità turco-islamica che la rivoluzione kemalista aveva represso, cancellato, introducendo appunto valori estranei. E dunque quelli di genere non sono considerati valori della tradizione turca, ma sono importati e dunque dovrebbero essere soppiantati da quelli locali e nazionali (Yerli ve Milli). Per questo sta smantellando stato di diritto e diritti umani. Il leader turco vede, mese dopo mese, i suoi consensi diminuire e sembra convinto che possa risalire nei sondaggi toccando le corde della identità nazionalista-islamista anche più radicale. Si rende conto che per avere la certezza di vincere le prossime elezioni dovrà eliminare dalla scena politica ed elettorale il più insidioso partito d’opposizione, per questo è disposto anche a correre il rischio di passare alla storia come capo di un governo che chiude un partito come aveva fatto il potere kemalista e golpista nel corso della storia repubblicana contro i partiti islamisti e contro il suo stesso partito nel 2007. È dal 2018 che il partito del Presidente non ha la maggioranza assoluta in Parlamento e dunque ha bisogno del suo prezioso alleato Devlet Bahçeli al quale ora ha offerto su un piatto d’argento la testa del Partito democratico dei popoli (Hdp), terza maggiore forza politica rappresentata nel Parlamento turco. Bahçeli sembra sempre più il “leader ombra” della Turchia, dopo aver “intrappolato” Erdogan in un angolo con accanto gruppi di potere politico-affaristici, corrotti e vicini a ideologi dell’estremismo di destra-nazionalista, come quella dei Lupi Grigi con basi ideologiche nell’estrema destra panturanica, xenofoba e antioccidentale. Il leader turco appare sempre più allo sbando, in piena difficoltà, soprattutto per la grave crisi economica che sta attraversando la Turchia. Logorato e indebolito da diciotto anni di potere, ora è anche alle prese con una faida interna al suo partito che ha vissuto già due scissioni con la fuoriuscita di leader storici e fondatori e non sembra più in grado di concepire e dettare una sua agenda e una sua strategia. Ecco perché si affida oltre che al Mhp anche al piccolo partito anti Nato, Vatan Partisi (Partito della Patria) e a circoli del nazionalismo estremo, a quelli islamisti e agli eurasisti che guardano alla Russia e alla Cina, tutte correnti, che seppur elettoralmente marginali, hanno non poca influenza nella società turca dal momento che, dopo il tentato golpe del 2016, sono tornate ad occupare posizioni di rilievo in particolare nelle Forze armate e controllano gangli vitali delle istituzioni del paese. Siamo alla versione moderna del sogno antico dei primordi della Repubblica di una “Turchia senza curdi” quando tutte le minoranze, specialmente quelle escluse dal Trattato di Losanna (24 luglio 1923), si videro bandite e negate, costrette a celare la propria identità non turchizzata, la propria lingua nelle scuole, nei media e, più in generale, nelle istituzioni pubbliche. Se l’Hdp dovesse essere chiuso, sarebbe l’ottavo partito filocurdo ad essere messo al bando per il suo presunto coinvolgimento in attività “terroristiche”. Il potere di chiudere un partito politico spetta alla Corte costituzionale che dovrà decidere con la maggioranza dei due terzi. Assieme alla richiesta di dichiarare fuorilegge l’Hdp, è stata presentata anche quella del divieto di esercitare politica per suoi 687 membri. Si vuol dunque impedire che i dirigenti dell’Hdp ancora in libertà attivino un altro partito. L’Hdp infatti ha già pronta un’altra organizzazione, pienamente operante e che è il Partito democratico delle Regioni (Dbp). I curdi sono abituati ad essere messi fuorilegge, hanno sempre saputo che quando la loro presenza sarebbe diventata scomoda per il regime, quest’ultimo avrebbe chiuso il loro partito come è accaduto ben sette volte. Quando fondano una organizzazione politica, contemporaneamente ne aprono una di riserva perché la legge sui partiti in Turchia richiede che una forza politica per operare deve avere sedi aperte e registrate in almeno 41 province, cioè nella maggior parte del paese. E l’interdizione dalla vita politica di 687 dirigenti di questo partito servirà proprio a impedire che vi possano essere in libertà esponenti politici pronti a trasferirsi nella nuova formazione politica. Questa volta però la criminalizzazione e la repressione degli esponenti curdi non sta raccogliendo consensi al di fuori della ristretta cerchia dell’alleanza di governo. Se una grande maggioranza del partito anticurdo di Bahçeli sostiene la chiusura dell’Hdp, nell’Akp di Erdogan vi sono diffuse voci di dissenso e, al di fuori di questo schieramento, questa pratica mutuata dai regimi del passato è quasi unanimemente condannata. Contrari sono, oltre al maggior partito d’opposizione, il Partito repubblicano del popolo (Chp) di Kemal Kılıçdaroglu; Meral Aksener, sua alleata con l’Iyi Parti (Il Buon Partito di destra nazionalista), il leader del Partito del Futuro (Gelecek Partisi), dell’ex primo ministro Ahmet Davutoglu, il leader del Partito della democrazia e del progresso (Deva), dell’ex vice primo ministro, Ali Babacan, e il leader del piccolo partito islamista, Saadet Partisi, di Temel Karamollaoglu. Contrario è anche l’ex capo di stato Abdullah Gül, fondatore assieme a Erdogan dell’Akp, ma ora fuoriuscito anch’egli dal partito e ispiratore del Deva. Contrari sono anche i sindaci delle due maggiori città turche, il sindaco di Ankara, Mansur Yavas, e il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, entrambi del maggior partito d’opposizione Chp. Sia Yavas che Imamoglu hanno accresciuto fortemente la loro popolarità scavalcando addirittura nei sondaggi, seppur di pochissimo, il leader turco. E dunque l’obiettivo del Presidente è quello di limitare fortemente il loro potere a livello locale privando le casse delle municipalità amministrate dal Chp dei fondi statali necessari per i servizi di pubblica utilità in maniera tale da provocare disagio e contrarietà nella popolazione. Recentemente il governo ha sottratto alla gestione della municipalità di Istanbul centinaia di aree pubbliche, compreso il parco Gezi di piazza Taksim, affidandole a una fondazione di facciata che fa capo allo stato. Se dovesse essere chiuso l’Hdp, si potrebbe creare uno scenario simile a quello a cui abbiamo assistito nelle elezioni locali del 31 marzo 2019 quando il partito di Erdogan subì una sconfitta bruciante in tutti i grandi centri urbani del paese grazie anche ad una intelligente ed efficace alleanza elettorale: quella tra il Chp e l’Iyi Parti che vedeva l’Hdp praticare la “desistenza” con la rinuncia a presentare propri candidati nei grandi centri urbani, dirottando tutti i suoi elettori sul Partito repubblicano del popolo. Questa desistenza potrebbe essere una carta vincente se praticata anche nel sudest anatolico. Per questo il presidente turco potrebbe decidere di convocare elezioni anticipate, per evitare che l’opposizione prenda le sue contromisure e si rafforzi ulteriormente. E intanto il governo cambia i confini di quattro province dell’Anatolia, quelle di Diyarbakir, Ordu, Giresun e Mus, per modificare i collegi elettorali e riequilibrare l’elettorato a favore dell’Akp e del suo alleato Mhp. La pratica che gli americani definiscono di Gerrymandering: manipolazione dei distretti elettorali.
Il pugno di ferro di Erdogan contro diritti e opposizioni per recuperare consensi. Mariano Giustino su L'Espresso il 26 marzo 2021. Dopo aver deciso l’uscita dalla Convenzione di Istanbul, il presidente turco cerca di eliminare dalla scena il partito filocurdo Hdp: interdetti 687 membri, rischia la messa al bando. Il deputato Gergerlioğlu arrestato dentro il Parlamento e portato via in pigiama
La catena della repressione in Turchia sembra non avere limite. Dopo la richiesta della messa al bando del terzo maggior partito del paese, il Partito democratico dei popoli (HDP), di sinistra libertaria e filocurda, vi è stata l’interdizione di 687 suoi membri dall’esercizio dell’attività politica perché accusati di sostegno al terrorismo. Poi il governo turco ha annunciato l’uscita, per decreto presidenziale, dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e sulla lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, ratificata dalla Turchia il 14 marzo del 2012 dopo averla sottoscritta l’11 maggio del 2011. La Corte costituzionale esaminerà il caso della richiesta di chiusura dell’HDP il 31 marzo e nello stesso giorno verrà esaminata la domanda di Ömer Faruk Gergerlioğlu, parlamentare di questo partito a cui è stato tolto il seggio e che ora rischia di finire in prigione. Erdoğan sembra convinto, col suo alleato Devlet Bahçeli, che potrà arrestare la sua emorragia di consensi coltivando l’elettorato di estrema destra nazionalista e quello dell’islamismo più radicale ed eliminando dalla scena politica ed elettorale il più insidioso partito d'opposizione, l’HDP. Il presidente turco, come è noto, dal 2018 non ha la maggioranza assoluta in Parlamento: dunque ha bisogno del suo prezioso alleato di estrema destra e gli ha offerto su un piatto d'argento la testa dell'HDP. Era stato infatti il leader del Partito del movimento nazionalista (MHP), Devlet Bahçeli in persona, a inoltrare presso la Corte suprema la richiesta di messa in stato d’accusa dell’HDP; ora la Corte costituzionale dovrà decidere, a maggioranza dei due terzi, se scioglierlo o meno. Se lo facesse, l’HDP sarebbe l'ottavo partito filocurdo ad essere chiuso. Secondo l’atto d'accusa si chiede lo scioglimento dell'HDP a norma dell'articolo 68 della Costituzione, perché ritenuto antidemocratico in quanto accusato di rappresentare il braccio politico del partito fuorilegge dei lavoratori del Kurdistan (PKK) ritenuto un’organizzazione terroristica oltre che dalla Turchia anche dagli Stati Uniti e dell’Unione europea. Bahçeli sembra il "leader ombra" della Turchia, dopo aver "intrappolato" Erdoğan in un angolo con accanto gruppi di potere politico-affaristici, corrotti e vicini a ideologi dell’estremismo di destra-nazionalista, come quella dei Lupi Grigi con basi ideologiche nell’estrema destra panturanica, xenofoba e antioccidentale. Il leader turco appare sempre più allo sbando, in piena difficoltà, soprattutto per la grave crisi economica che sta attraversando la Turchia. Logorato e indebolito da diciotto anni di potere, il Presidente è anche alle prese con una faida interna al suo partito che ha vissuto già due scissioni con la fuoriuscita di leader storici e fondatori e non sembra più in grado di concepire e dettare una sua agenda e una sua strategia. Ecco perché si affida, oltre che al MHP, anche al piccolo partito anti NATO, Vatan Partisi (Partito della Patria) e a circoli del nazionalismo estremo, a quelli islamisti e agli eurasisti che guardano alla Russia e alla Cina. Tutte correnti, che seppur elettoralmente marginali, hanno non poca influenza nella società turca, dal momento che, dopo il tentato golpe del 2016, sono tornate ad occupare posizioni di rilievo, in particolare nelle Forze armate, e controllano gangli vitali delle istituzioni del Paese. I primi giorni di primavera in Turchia sono stati segnati da scene che ricordano i terribili anni '90 quando la repressione contro i curdi assunse proporzioni impressionanti. L’arresto avvenuto in Parlamento del deputato dell’HDP, Ömer Faruk Gergerlioğlu, ha ricordato la detenzione di parlamentari curdi eletti tra le file dell’allora Partito socialdemocratico (SHP) colpevoli di aver giurato in Parlamento in lingua curda il 6 novembre 1991. Tra questi vi furono Orhan Doğan, Leyla Zana, premio Sakharov nel 1995, che persero lo status di parlamentari e il 2 marzo del 1994 furono arrestati. Dopo 27 anni un altro parlamentare eletto nel partito di sinistra filocurda viene arrestato in Parlamento e ciò rivela come l'approccio della Turchia alla questione curda sia rimasta dopo tanti anni immutato. Gergerlioğlu, fervente musulmano, tenace attivista dei diritti umani, si è visto privato del suo seggio parlamentare il 17 marzo, per aver condiviso nel 2016 sui social media un articolo sul PKK. Sebbene il suo post non includesse alcun incitamento alla violenza, a febbraio la corte d'appello ha confermato la condanna del 2018 a due anni e sei mesi di prigione con l’accusa di «aver svolto propaganda per un'organizzazione terroristica». Con una mossa senza precedenti, Gergerlioğlu ha deciso di adottare una forma di lotta nonviolenta e si è rifiutato di abbandonare gli uffici del Parlamento occupando la stanza del gruppo parlamentare del suo partito. «Nessuno può cacciarmi via dal Parlamento perché sono stato mandato qui da novantamila elettori», ha dichiarato alla stampa Gergerlioğlu. Ha trascorso quattro notti nel suo ufficio parlamentare, ma all'alba del 21 marzo, un folto gruppo di agenti di polizia ha fatto irruzione nella sua stanza e lo ha arrestato. Gergerlioğlu era in pigiama e da osservante musulmano si preparava alla preghiera del mattino. Non indossava scarpe né abiti e non gli è stato permesso di vestirsi. "Fatemi prima pregare, poi mi vesto e vengo con voi", aveva implorato, ma le sue richieste sono state respinte. È stato portato nel quartier generale della polizia in pantofole e canottiera. Dopo qualche ora è stato liberato ed è in libertà condizionale. Il 2 marzo 1994, Orhan Doğan fu arrestato assieme ad altri deputati curdi in modo analogo: la polizia entrò in Parlamento, circondò il gruppo di parlamentari, li trascinò fuori e li caricò con forza nella volante. La foto di quell’arresto con la polizia nell’aula parlamentare diventò in seguito un simbolo dell'approccio della Turchia alla questione curda. E ora, 27 anni dopo, anche questa foto di Ömer Faruk Gergerlioğlu, in pantofole e in canottiera, mostra che dopo più di un quarto di secolo, l’approccio turco alla questione curda non è per nulla cambiato. Gergerlioğlu è uno dei più prestigiosi attivisti per i diritti umani del paese, vittima della persecuzione post tentato golpe del 2016, quando fu raggiunto dai famigerati decreti KHK varati durante lo stato di emergenza, la sua carriera di prestigioso medico pneumologo fu distrutta. Licenziato dall’ospedale e ridotto in condizione di indigenza, fu accusato di sovversione contro i poteri dello stato per un suo tweet in cui proponeva la ripresa del dialogo col PKK. Ha impegnato tutta la sua vita al servizio dei diritti dell’uomo. Sua moglie si è ammalata gravemente e l’HDP nel 2018 lo ha candidato alle elezioni parlamentari, dove è risultato eletto. La sua attività filantropica si era concentrata sui diritti dei detenuti, fino a rappresentarne la voce, la voce dei senza voce, dei prigionieri, dei dimenticati nelle carceri turche. È stato anche perseguitato per aver denunciato, sempre su Twitter, episodi di tortura avvenuti prevalentemente contro alcune detenute nelle carceri e nei commissariati di polizia. Per questo pende su di lui anche l’accusa di aver fomentato l’odio e di aver diffamato le istituzioni dello stato. L’arresto di Gergerlioğlu era scattato dopo le dichiarazioni del leader del MHP Bahçeli che lo aveva additato come «un separatista impegnato in attività illegali, uno spregevole individuo da rimuovere dal Parlamento con urgenza». Oggi, centinaia di membri dell'HDP sono dietro le sbarre con accuse legate al terrorismo, una pratica, questa, preferita dal governo per mettere a tacere i curdi.
Gli ammiragli difendono un trattato del 1936 ed Erdogan li fa arrestare. La Repubblica il 5 aprile 2021. Dieci ex alti ufficiali in pensione sono stati detenuti per aver firmato una dichiarazione di appoggio alla Convenzione di Montreux che vedevano messa in discussione dal raddoppio del Bosforo voluto dal presidente. Per le autorità la critica richiama i golpe militari. Domani Michel e Von der Leyen ad Ankara. In Turchia dieci ammiragli in pensione sono stati arrestati per aver firmato una lettera in cui dichiaravano il proprio appoggio a un accordo marittimo ratificato 85 anni fa: l'accusa contro di loro è cospirazione contro l'ordine costituzionale, ha riferito l'agenzia di stampa Anadolou. La dichiarazione in favore della Convenzione di Montreux - firmata da un centinaia di ex ufficiali di alto grado - è stata considerata una sfida al potere civile e una evocazione dei passati interventi del potere militare nella gestione dello Stato, un riferimento ai tre colpi di Stato militari avvenuti tra il 1960 e il 1980. Gli ufficiali avevano espresso le proprie preoccupazioni a proposito della Convenzione di Monteux, da cui il presidente Recep Tayyip Erdogan potrebbe decidere di ritirarsi. Il governo intende costruire un grande canale parallelo al Bosforo per mettere in comunicazoone il Mare Nero e il mar di Marmara.
IL CASO. Una fonte ufficiale turca ha sottolineato che la Convenzione di Montreux non potrebbe coprire il canale. La Convenzione firmata nel 1936 dà alla Turchia il controllo sul Bosforo e sui Dardanelli e in tempo di pace garantisce l'accesso alla navigazione civile. Limita inoltre l'accesso ai battelli militari e regolamenta il traffico commerciale straniero. Gli ufficiali facevano notare che andrebbero evitate dichiarazioni o azioni che possano mettere in discussione la convenzione di Montreux "un trattato importante per la sopravvivenza della Turchia". Lo scontro con gli ammiragli è solo l'ultimo capitolo della profonda frattura tra il potere secolare dell'esercito e il partito religioso al potere. Un portavoce dela presidena ha dichiarato "Un gruppo di soldati in pensione si sta mettendo in una posizione ridicola e meiservole riecheggiando i passati colpi di Stato militari". Questo aprile si preannuncia come il mese della resa dei conti tra il governo turco e i golpisti accusati di aver tentato di rovesciare il governo il 15 luglio 2016. Sono ben 33 i processi in programma, il cui svolgimento è previsto in 9 diverse province del Paese, con ben 816 imputati alla sbarra, tutti accusati di far parte della rete di Fetullah Gulen, ideologo islamico residente negli Usa, ritenuto da Ankara la mente del tentato golpe. Nel fitto calendario delle udienze in programma spicca il prossimo mercoledì la lettura della sentenza per i 497 imputati nel processo alla "guardia presidenziale, così denominato perché molti degli accusati avevano l'incarico di garantire l'incolumità del presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan e del suo entourage. Il "maxi-processo" e' relativo agli scontri avvenuti la notte del 15 luglio 2016 tra diverse fazioni dell'esercito, quando i golpisti e lealisti arrivarono ad aprire il fuoco gli uni contro gli altri, mentre diverse decine di civili scesi per protestare nelle strade della capitale Ankara furono falciati dai colpi delle armi automatiche. La sentenza sarà letta nelle aule allestite fuori dal carcere di Sincan, ad Ankara, in cui sono detenuti gran parte degli imputati. Domani ad Ankara saranno i leader del Consiglio europeo Charles Michel e della Commissione, Ursula von der Leyen. Incontreranno il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, con l'intento di dare nuovo impulso alle relazioni e presentare la roadmap europea stabilita al summit dei capi di stato e di governo del 25 marzo. In particolare, si parlerà di una nuova tranche di finanziamenti Ue affinché il paese anatolico continui ad accogliere sul suo territorio i rifugiati siriani, ma anche di possibili avanzamenti nella politica dei visti, e di un approfondimento dell'unione doganale. Prima dell'incontro con Erdogan, Michel parteciperà ad una tavola rotonda con i rappresentanti dell'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Unicef e l'ente dell'Onu per la parità di genere (la Turchia si è ritirata di recente dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne).
La notte della Marina turca: retata per gli ex ammiragli. Lorenzo Vita su Inside Over il 6 aprile 2021. Una notte che cambia, ancora una volta, il destino della Turchia e della sua Marina. Le autorità di Ankara hanno arrestato 10 ex ammiragli ritenuti colpevoli di aver scritto una dichiarazione che ha accusato il governo turco sull’idea del ritiro del Paese dalla Convenzione di Montreux. Tra i detenuti c’è anche Cem Gurdeniz, l’ideatore di Mavi Vatan, la dottrina strategica della Patria Blu. La dichiarazione, firmata da 104 ex alti ufficiali della Marina turca ormai in pensione, era una forte presa di posizione in difesa dell’accordo siglato nel 1936 e che regola il transito attraverso Bosforo e Dardanelli. Una convenzione messa in dubbio da uomini vicini all’Akp, il partito di Recep Tayyip Erdogan, perché, con il progetto di costruire un canale che bypassi il Bosforo, questo accordo – dicono – perderebbe di senso. Ipotesi letta con terrore da parte degli ex alti ufficiali di Marina, che invece ritengono essenziale il mantenimento di Montreux proprio per evitare che il controllo del Bosforo e dei Dardanelli passi dalla Turchia a potenze straniere. E che considerano ancora oggi quel trattato come uno dei capolavori della strategia di Atatürk, ritenuto da questi segmenti della Marina un modello da seguire. La dichiarazione degli ex ammiragli è stata letta dai funzionari di Erdoğan come una minaccia di colpo di Stato. Un incubo per un presidente con una leadership sempre più debole e che ha vissuto sulla sua pelle il fallito golpe del 2016. Ma è un timore che affiora ciclicamente in tutta la Turchia anche per la sua storia più recente: i militari hanno sempre avuto un ruolo molto attivo in politica a tal punto da aver organizzato colpi di Stato nel momento in cui ritenevano in pericolo la Costituzione repubblicana. Erdogan non ha mostrato alcun dubbio. Il Sultano ha accusato gli ex ammiragli dicendo che quella dichiarazione non era da considerare frutto della libertà di espressione ma un messaggio che racchiudeva l’ipotesi di un golpe. “Questo atto, avvenuto a mezzanotte, è sicuramente in malafede”, ha detto Erdogan, sia “nel tono” che “nel metodo”. “Non è in nessuna circostanza accettabile per ammiragli in pensione fare un tale attentato nel cuore della notte in un Paese la cui storia è piena di colpi di stato e memorandum”, ha aggiunto Erdogan una volta terminato il vertice con il capo dell’intelligence, il capo di stato maggiore e i principali membri del gabinetto. E per adesso non sembrano esserci annunci di alcuna marcia indietro. La raffica di arresti è particolarmente interessante per tutta la Turchia. Non è un mistero che Ankara da tempo viva una situazione fatta di arresti e di accuse di cospirazioni e tentativi di golpe. E tutto questo si è ampiamente accentuato dopo il fallito golpe del 2016, vero momento di svolta della politica di Erdogan sia a livello interno che a livello esterno. Ma fa riflettere che a finire questa volta sotto la scure della procura turca sia quel mondo kemalista e nazionalista che in realtà sembrava aver ottenuto il sostegno dallo stesso presidente dopo il fallito golpe. Lo dimostra l’importanza che Mavi Vatan ha assunto in questi anni nel dibattito pubblico turco, ma lo conferma anche il fatto che i suoi principali ideologi sono diventati personaggi noti al grande pubblico proprio dopo il 2016, anno in cui Erdogan non solo ha ricominciato a interessarsi al mare, ma anche a ricucire i rapporti con l’universo dei militari kemalisti. Per il mondo di Gurdeniz e degli alti ufficiali di Marina turchi, il momento in cui la Patria Blu è diventata parte della strategia nazionale ha rappresentato il vero punto di svolta di una rapporto difficile con l’Akp iniziato già anni prima, quando la Marina era stata completamente decapitata da un’altra pesantissima raffica di arresti che aveva coinvolto anche in quel caso il contrammiraglio Gurdeniz. Era il 2011, l’esplosione dei processi “Ergenekon” e “Sledgehammer” portò alla condanna del contrammiraglio e di altri ufficiali di Marina. Un’altra lunga notte che la moglie dell’ammiraglio ricorda benissimo e che, intervistata a Cumhuriyet, ha messo in parallelo con quanto accaduto in queste ore: “Dieci anni fa, abbiamo avuto un processo di tre anni e mezzo. Adesso è un déjà vu in tutte le sue forme. Sento che stanno accadendo le stesse cose e sono preoccupata sia per me che per il mio paese. Questi uomini hanno espresso un’opinione, e in nessun altro paese al mondo sarebbe avvenuta un’indagine per questo motivo”. In quell’occasione, Gurdeniz accusò indirettamente gli Stati Uniti di essere il vero mandante degli arresti, e in molti articoli si cita proprio il pericolo nato dalla rete del predicatore Fetullah Gulen. La sua teoria è che gli apparati turchi più atlantisti avrebbero provveduto a decapitare la Marina prima che potesse aumentare la propria forza e soprattutto provare a spostare il baricentro turco verso una progressiva autonomia strategica. Gli stessi indiziati – nella prospettiva di Erdogan – del fallito colpo di mano del 2016. Una ferita che si è chiusa solo momentaneamente dopo il golpe ma che ha iniziato a riaprirsi in questi ultimi mesi in cui la Patria Blu, Mavi Vatan, sembrava in grado di essere la dottrina portante della strategia turca. Ricordiamo infatti che l’altro alto ufficiale che si era prodigato per Mavi Vatan, l’ammiraglio Yachi, aveva subito un decreto presidenziale con cui si ordinava la sua degradazione. Onta che Yachi ha preferito evitare dimettendosi e tornando a insegnare all’università, ma che ha comunque fatto comprendere allo stesso Gurdeniz di dover stare particolarmente attento ai movimenti del governo. Ora, con la nuova ondata di arresti, l’impressione è che Erdogan abbia effettuato due azioni in contemporanea. Da un lato ha fermato quella componente della Marina che ha spinto per una nuova dottrina molto pervasiva della strategia del Paese e che si rifà apertamente ad Atatürk. Una scelta diametralmente opposta all’islamismo erdoganiano dell’Akp e alle direttive di Devlet Bahçeli, regista oscuro della politica del Sultano e artefice della svolta estremista degli ultimi tempi confermata dall’uscita dalla Convenzione per i diritti delle donne. E questo probabilmente ha inciso (e non poco) sulla rapidità con cui i funzionari turchi hanno proceduto all’arresto della scorsa notte. Erdogan ha sfruttato la Patria Blu per espandere la proiezione di forza turca nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale, gli serviva dopo l’ondata di arresti per il presunto golpe, e soprattutto aveva bisogno di quella lettura geostrategica indipendente da Washington. Dall’altra parte, il presidente turco ha fatto intendere a tutti i partiti e movimenti extra-governativi che non saranno tollerate “fughe in avanti”, mettendo bene in chiaro che la giustizia è di nuova pronta a intervenire. E a tal proposito, non va dimenticato che questo mese ci sarà una vera e propria resa dei conti tra Erdogan e gli accusati del golpe del 2016, con 33 processi in programma e 816 imputati. Già mercoledì sarà data lettura della sentenza per 497 imputati per quello che viene chiamato il processo alla “guardia presidenziale”. E con gli arresti in Marina il giro di vite sembra essere sempre più netto. Questi arresti sono anche un segnale di una nuova politica strategica turca? La domanda ora affiora con le analogie per i processi del 2011. Arrestando Gurdeniz, l’impressione è che la sua Mavi Vatan possa essere trasformata nuovamente in una dottrina che serpeggia nelle patrie galere e non più, come avveniva fino a pochi giorni fa, nei talk show televisivi e sui manifesti in giro per le strade. Patria Blu si presentava come la dottrina strategica di ascesa della potenza navale turca, ma anche come un segnale di riscossa dei kemalisti. In assenza del suo ideologo e con l’arresto di così tanti ex ammiragli, potrebbe anche essere l’inizio di un’ulteriore nuova era di rapporti tra Ankara e il Mediterraneo. La questione del Bosforo diventerà pertanto centrale per capire da che parte vorrà dirigersi la Turchia anche sul fronte marittimo. Russia e Stati Uniti osservano con molto interesse. Montreux interessa a entrambi e a nessuno sfugge che il Bosforo e il prossimo Canale di Istanbul rappresentano prima di tutto le porte di Mosca per il Mediterraneo. Una Turchia che mette in dubbio l’accordo sul transito in quello stretto è un problema che il Cremlino non potrà certo sottovalutare: specialmente se andrà avanti il piano del nuovo canale.
Per Erdogan un matrimonio funziona se picchi la moglie: Turchia, altro colpo alla laicità. Libero Quotidiano il 22 marzo 2021. Erdogan assesta un nuovo colpetto allo Stato laico trascinando la Turchia fuori della Convenzione europea contro la violenza sulle donne. E dire che il documento in questione era stato sottoscritto dai Paesi appartenenti al Consiglio d'Europa proprio a Istanbul nel 2011. La mossa del Sultano è, come detto, l'ennesima di una lunga serie; soltanto il giorno prima la magistratura turca aveva iniziato a vagliare la richiesta governativa di bandire il partito curdo (moderato) Hdp. L'uscita dalla Convenzione di Istanbul è un favore agli amici di lunga data del presidente e leader islamista, cioè i religiosi sunniti, che Recep Tayyip sta cercando con successo di tenere alleati alla destra nazionalista. Insomma: un colpo al curdo e uno alla laicità. Dei 47 Paesi del Consiglio d'Europa (organismo non Ue che vigila sul rispetto dei diritti dell'uomo) 34 avevano firmato e ratificato il documento. Ora restano 33 con la Turchia che raggiunge la Russia fra quelli totalmente contrari. Gli altri (tra cui Armenia, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Moldavia, Slovacchia, Cechia, Regno Unito, Ucraina) hanno firmato ma poi i rispettivi parlamenti non hanno ratificato. Gli ambienti religiosi turchi non hanno mai digerito in particolare l'articolo 37 e il 42, il primo contro il matrimonio forzato, il secondo sul delitto d'onore, entrambi diffusi nelle aree arrretrate dell'Anatolia. Ma tutti i numeri sulla violenza contro le donne in Turchia sono drammatici. Secondo i dati della piattaforma contro i femminicidi (Kadin Cinayetlerini durduracagiz platformu), nel 2021 sono già state uccise 74 donne per mano di uomini, dopo che nel 2020 erano stati contati almeno 300 casi e 171 fra morti e suicidi sospetti. Nel 2019 e nel 2018 in Turchia erano stati contati rispettivamente 474 e 440 femminicidi. Tra i casi ritenuti sospetti non ci sono solo le morti avvenute in circostanze ancora da chiarire ma anche i suicidi, a cui molte donne si trovano costrette dal clima familiare di ripudio e odio che può scattare per una relazione che la famiglia non approva, o per aver rifiutato matrimoni combinati. La magistratura, ancora in parte laica, ha cercato di porre un freno, con 5.748 condanne a pene detentive inflitte lo scorso anno. Un numero minimo, se si considera che, in base ai dati forniti dal ministero degli Interni, nel 2020 ben 271.927 uomini sono stati soggetti a restrizioni imposte da autorità giudiziaria, 6.050 uomini sono stati condannati per violenza domestica, 99 donne sono state costrette a cambiare identità e residenza e 409 hanno dovuto abbandonare il luogo di lavoro. Migliaia di donne sono scese in piazza ieri a Istanbul per protestare contro la decisione del governo. Con loro anche attivisti gay e lesbiche. Il motivo della presenza di questi ultimi è che la Convenzione non si occupa delle donne in senso biologico ma in base alla "teoria del genere". Nell'art.3 (Definizioni), al comma c, si specifica che l'identità sessuale è «socialmente costruita». La formulazione è tuttora contestata anche da altri Paesi, in particolare dalla Polonia. Discussi sono anche gli articoli 60 e 61 che impegnano i firmatari a concedere permessi di soggiorno alle donne migranti vittime di abusi.
· Quei razzisti come i marocchini.
Era reclusa da giugno in carcere. Ikram Nzihi libera, svolta per la studentessa italo-marocchina condannata per una vignetta sull’Islam. Fabio Calcagni su Il Riformista il 23 Agosto 2021. La giovane studentessa italo-marocchina Ikram Nzihi “a breve sarà liberata”. A darne l’annuncio oggi è stato il sottosegretario agli Affari europei Enzo Amendola a Marrakech, a margine dell’udienza in appello a carico della studentessa 23enne. Ikram Nzihi, nata in Italia da genitori marocchini e studentessa di giurisprudenza a Marsiglia, era stata condannata a tre anni per offese contro la religione per aver condiviso una vignetta satirica su Facebook sull’Islam nel 2019 e dallo scorso giugno era reclusa in carcere. “Nel processo d’appello sono state ascoltate le ragioni della difesa e, grazie all’ottima collaborazione istituzionale con le autorità locali, Ikram uscirà di prigione. La nostra connazionale sta bene, a lei e alla sua famiglia vanno i miei migliori auguri”, ha sottolineato Amendola. “In queste settimane – ha aggiunto il sottosegretario – abbiamo lavorato insieme al nostro ambasciatore a Rabat Armando Barucco, al Consolato e di concerto con il ministro Di Maio e la Farnesina. Ad agosto ho seguito il caso personalmente, parlando con le parti interessate e andando a trovare Ikram Nzihi nel luogo di detenzione. Continuano i solidi rapporti tra Italia e Marocco, frutto di un partenariato strategico”. Soddisfazione per il risultato è stata espressa anche dalla Farnesina. Voglio ringraziare l’Ambasciatore italiano in Marocco Armando Barucco e il sottosegretario Enzo Amendola per l’impegno che hanno dedicato alla causa. Assieme abbiamo seguito la vicenda dal primo momento, avendo a cuore unicamente il benessere della nostra connazionale, nel pieno rispetto del lavoro delle istituzioni e della giustizia marocchine”, ha affermato il ministro Di Maio. Ikram era stata fermata lo scorso 20 giugno all’aeroporto di Marrakech dalla polizia di frontiera: era giunta nel Paese dalla Francia per raggiungere la famiglia in vista dell’Eid al Fitr (Festa del sacrificio) del 21 luglio. Una volta mostrati i documenti alla dogana, è stata accusata di aver “offeso pubblicamente l’Islam” per un post satirico su Facebook pubblicato nel 2019.
· Quei razzisti come gli egiziani.
Egitto, condannato a cinque anni l’attivista Alaa Abdel Fattah. Marta Serafini Il Corriere della Sera il 20 dicembre 2021. Quattro anni al suo avvocato e al blogger Mohamed «Oxygen». Tutti e tre accusati di diffusione di notizie false. Non si fermano le condanne in Egitto agli attivisti per i diritti umani. Il noto blogger Alaa Abdel Fattah, attivista per i diritti umani e protagonista della rivoluzione del 2011, è stato condannato a cinque anni. Condannati anche il suo avvocato Mohamed el-Baqer e il blogger Mohamed «Oxygen» Ibrahim entrambi a quattro anni. I tre imputati erano accusati di «diffusione di notizie false», stessa accusa per cui Patrick Zaki, dopo il rilascio, dovrà comunque presentarsi a processo il primo febbraio. Alaa Abdel Fattah e Mohamed el-Baqer sono accusati di aver criticato le autorità circa il trattamento dei detenuti e per alcuni decessi in custodia avvenuti in circostanze sospette; Mohamed «Oxygen» Ibrahim, invece, per aver denunciato sui social media il mancato rispetto dei diritti sociali ed economici da parte del governo. «I loro scritti non hanno in alcun modo incitato alla violenza e all’odio e i tre avrebbero dovuto essere tutelati dalla costituzione egiziana e dagli obblighi internazionali in materia di libertà d’espressione», sottolinea Amnesty International. «Sono tre condanne crudeli e senza appello, nei confronti di tre dissidenti e difensori dei diritti umani che mai avrebbero dovuto mettere piede in una prigione. C’è grande preoccupazione per l’impatto che queste condanne potranno avere sulle loro condizioni di salute psicofisica. Chiediamo al presidente al Sisi di usare le sue prerogative, in modo che queste condanne siano annullate», ha commentato Riccardo Noury portavoce di Amnesty International in Italia. Alaa Abdel Fattah era stato arrestato il 29 settembre 2019 così come Mohamed Baker, suo avvocato, proprio mentre andava a incontrare il suo cliente in un ufficio della procura. In occasione del loro trasferimento in carcere, nel mese di ottobre, Alaa Abdel Fattah era stato bendato, denudato, preso a calci e a pugni e, insieme a Mohamed Baker, sottoposto a insulti e minacce. La procura non ha disposto indagini. Mohamed «Oxygen» Ibrahm era stato arrestato il 21 settembre 2019. Il 19 novembre 2020 un tribunale del Cairo aveva arbitrariamente aggiunto Alaa Abdel Fattah e Mohamed Baker alla «lista dei terroristi» per cinque anni. Oltre all’impossibilità di ricorrere in appello a un tribunale di grado superiore, le procedure dei tribunali d’emergenza non riconoscono molti diritti, come quello ad avere un periodo di tempo adeguato a preparare la difesa, a comunicare coi propri avvocati difensori e a un’udienza pubblica. Alaa Abdel Fattah e Mohamed Baker non hanno colloqui privati coi loro legali dal mese di maggio. Alaa Abdel Fattah blogger, attivista e pensatore è uno dei protagonisti della rivoluzione egiziana del 2011, che ha trascorso sette degli ultimi otto anni in carcere insieme ad altri 60mila prigionieri politici egiziani. Il padre, Ahmed Seif al Islam, fu imprigionato due volte sotto il presidente Anwar al Sadat e altre due sotto Hosni Mubarak. Durante la prigionia fu torturato con scariche elettriche e gli furono rotte le braccia e le gambe. Nonostante questo, si laureò in legge nel carcere dove stava scontando una pena di cinque anni. Uscito di prigione, fondò l’Hicham Mubarak center e divenne uno dei più rispettati avvocati per i diritti umani in Egitto. La madre, Laila Soueif, è docente di fisica e attivista della prima ora.
Marta Serafini per corriere.it il 7 dicembre 2021. È iniziata - e terminata rapidamente dopo qualche minuto - stamattina a Mansura, in Egitto sul delta del Nilo, la terza udienza del processo a carico di Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna sotto accusa per diffusione di false informazioni attraverso articoli giornalistici e detenuto in carcere esattamente da 22 mesi. Quando lo hanno portato velocemente in aula, non era ammanettato. Era vestito di bianco come altre volte. Ha detto «sto bene», ma era agitato. Due secondi al volo per parlare con la mamma e poi l’hanno portato via. Si è appreso che uno dei due diplomatici italiani presenti in tribunale ha potuto parlagli brevemente per rappresentargli la vicinanza delle istituzioni italiane e Patrick ha ringraziato per quello che l’Italia e l’Ambasciata stanno facendo per lui. Il diplomatico italiano si era intrattenuto anche con i genitori di Patrick poco prima. La legale di Patrick Zaki, Hoda Nasrallah, ha chiesto l’acquisizione di altri atti per dimostrare sia una presunta illegalità durante l’arresto del 7 febbraio 2020 e sia la correttezza dell’articolo sui copti alla base del processo. L’udienza, dopo l’intervento del legale, è stata sospesa dopo appena 4 minuti. Al Tribunale non circolano ipotesi accreditabili circa la possibile durata dell’interruzione.
Marta Serafini per corriere.it il 7 dicembre 2021. Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna in carcere da quasi due anni con l’accusa di diffusione di notizie false, è formalmente libero. Il giovane «non è stato assolto», ma verrà rilasciato dal carcere nelle prossime ore e dovrà apparire davanti alla corte di nuovo il 1 febbraio. L’ordine di scarcerazione — secondo fonti legali vicine a Zaki — è stato già firmato. Hoda Nasrallah, la legale di Zaki, ha confermato al Corriere che il rilascio dovrebbe avvenire a breve dal carcere di Tora al Cairo. Lobna Darwish di Eipr, la Ong con cui collaborava Zaki e che si occupa della sua difesa legale, ha confermato al Corriere che Zaki a breve verrà trasferito al Cairo. L’annuncio è stato accolto con un urlo di gioia nel tribunale di Mansoura, dove oggi si è svolta una nuova udienza del processo. Alla base del procedimento contro Zaki — che al momento dell’arresto aveva 28 anni, e ne ha compiuti 30 in una cella egiziana — c’erano tre articoli giornalistici sulla persecuzione dei cristiani copti in Egitto. L’Italia, nei mesi scorsi, aveva trattato e ricevuto assicurazioni per ottenere che la condanna corrispondesse al tempo che Zaki aveva già trascorso in carcere. «Primo obiettivo raggiunto: Patrick Zaki non è più in carcere», ha scritto su Facebook il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. «Adesso continuiamo a lavorare silenziosamente, con costanza e impegno. Un doveroso ringraziamento al nostro corpo diplomatico». «Quando lo hanno arrestato nel febbraio 2020 abbiamo aspettato per ore all’aeroporto del Cairo sperando di vederlo arrivare, aveva appena passato i controlli, “tutto bene mamma”, mi ha detto per telefono. Poi lo hanno fermato», ha detto la madre di Zaki nei giorni scorsi al Corriere. «Diceva sempre così Patrick. “Tutto bene”». Il 20 novembre a Zaki è stato riconosciuto il premio Cutuli. «Mi piacerebbe scrivere presto per il Corriere della Sera», aveva fatto sapere il ricercatore attraverso la sorella Marise in occasione della premiazione. Il Corriere, come promesso, si augura presto di poter pubblicare il suo articolo.
Patrick Zaki sarà scarcerato, le mani gelate della sorella e poi l’urlo liberatorio del papà: «Grazie Italia». Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 7 Dicembre 2021. MANSOURA — Una giornata che sono cento. E che cambia temperatura come le mani di Marise, la sorella di Patrick. Fredde come il ghiaccio mentre il giudice si prende il suo tempo per deliberare. «Grazie, grazie, per quello che state facendo per lui». E Marise si tormenta la manica del maglione blu mentre gli occhi non smettono di correre in giro. Vedere il fratello durante la prima parte dell’udienza, anche solo per pochi minuti, ha portato un po’ di caldo nelle vene. Ma è durato poco, troppo poco, dopo 22 mesi di angoscia. «È riuscito a salutare la mamma era tanto che non si vedevano, almeno un mese», sussurra. E lui è ancora lì, dietro le sbarre. Poi tutti fuori dall’aula, in mezzo ai parenti degli altri detenuti. Una guardia con la pistola viene a controllare i documenti. Le voci iniziano a rimbalzare. «Ci sarà un rinvio». Si rientra. Marise e mamma Hala in prima fila si stringono l’una all’altra. Le mani sono calde ora, il sangue circola più veloce. Nell’altro banco Hoda Nasrallah, l’avvocata della Eipr, la ong con cui Patrick collaborava, sta ferma immobile con la schiena dritta, nei banchi dietro di lei, tutti gli attivisti e i compagni della Eipr. Poi i rappresentati diplomatici della delegazione di osservatori voluta dall’ambasciata italiana. Entrambi che non smettono di andare avanti e indietro. «L’ho visto bene, dai, meno nervoso delle altre volte». In ultima fila papà George. C’è tempo per due parole. «Io non dico niente. Solo pensarlo a casa mi pare impossibile, un sogno. Ma grazie, grazie davvero». Nella gabbia c’è un detenuto «comune», un uomo che ha firmato un assegno in bianco. «Il giudice ora ordinerà il suo rilascio», dice qualcuno. E di nuovo le mani di Marise sono di ghiaccio. Rientra il giudice, c’è via vai con il banco. Mr. Salim, l’avvocato dell’ambasciata italiana, che tutti conosce e tutto sa sussurra piano, «buon segno, buon segno». Il magistrato dà la notizia all’avvocata: Patrick sarà liberato . Ecco l’urlo di Hala e Marise. «Mabrouk, mabrouk» congratulazioni, come per una nascita. «Tamem, tamem», va tutto bene, va tutto bene, la frase che Patrick ripete sempre alla mamma. I funzionari del tribunale fanno allontanare tutti. In strada Hoda e Lobna Darwish, dirigente della Eipr che fin qui è rimasta ferma in mezzo alla tempesta, si abbracciano stretto. Lacrime, sorrisi, pacche sulle spalle. Da Bologna arriva il messaggio della professoressa Rita Monticelli, del master. «Lo aspetto, aspetto qui». Marise e Hala si precipitano a cercare del cibo. Patrick non mangia da domenica. «Ma dov’è Patrick ora? Dove lo portano?». Forse lo rilasciano già oggi, forse no. Forse prima lo riportano a Tora. Forse esce qui a Mansoura. Forse. C’è chi salta in auto e parte per il Cairo, chi resta. Poi cala il silenzio. E restano i clacson incessanti della città. Iniziano a rimbalzare le notizie. «Marise dov’è Patrick ora? L’hanno rilasciato?». «Non sappiamo niente di certo. Non l’abbiamo ancora visto». Il sole cala sulla casa dove Patrick è cresciuto e dove lo aspettano. Le mani tornano ad essere fredde. Lobna della Eipr paziente risponde a tutti. «Dovrebbero avergli fatto firmare dei documenti». Marise va al commissariato a verificare se hanno portato lì Patrick. «No, niente». Anche all’ambasciata italiana aspettano. I telefoni accesi fino a tardi. Papà George spera ancora sia per oggi. Ma alla stazione di polizia dove Patrick dovrebbe essere portato dalla prigione di Mansoura sono chiari. «Non è ancora qui. Forse è al dipartimento della Nsa, l’intelligence egiziana». Ed è di nuovo freddo. Sudore ghiacciato sul palmo delle mani. Patrick non è ancora fuori.
Patrick Zaki sarà scarcerato, ma non assolto. Albert Voncina su L'Espresso l'8 Dicembre 2021. Il ricercatore egiziano dell’università di Bologna potrà uscire dal carcere dopo 22 mesi di reclusione. La prossima udienza è prevista il primo febbraio. Rilasciato, ma non assolto. Il ricercatore dell’università di Bologna Patrick Zaki potrà finalmente uscire dal carcere, dove è rinchiuso dal 7 febbraio 2020, e potrà attendere la prossima udienza prevista il prossimo primo febbraio lontano dalle sbarre che lo hanno circondato per 22 mesi. Lo ha stabilito oggi la corte di Mansoura, dove Zaki è stato trasferito nei giorni scorsi dal carcere cairota di Tora, in cui aveva trascorso quasi tutta la sua custodia cautelare. Lo studente egiziano sarà dunque libero, «anche se non è stato assolto» dalle accuse, come riferito da alcuni avvocati al termine dell’udienza. Ad attendere all’esterno dell’aula del tribunale la sentenza su Patrick - vestito di bianco, colore simbolo degli imputati - c’erano il padre George, la madre Hela, la sorella Marise, gli amici e alcuni attivisti. Oltre ai legali di Zaki in tribunale erano presenti anche due diplomatici italiani. Alla loro domanda su come stesse, lo studente ha risposto: «Bene, bene, grazie». Zaki potrebbe essere liberato già nelle prossime ore, anche se per il momento non c’è alcuna conferma ufficiale. A Patrick, secondo quanto si apprende, non è stato imposto l’obbligo di firma in vista della prossima udienza, fissata il primo febbraio. «Abbiamo appreso che la decisione è la rimessa in libertà ma non abbiamo altri dettagli al momento», ha spiegato la legale Hoda Nasrallah all'Ansa. Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha espresso con una nota di Palazzo Chigi soddisfazione per la scarcerazione di Zaki, la cui vicenda è stata e sarà seguita con la massima attenzione da parte del Governo italiano. Immediata anche la reazione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. «Primo obiettivo raggiunto: Patrick Zaki non è più in carcere. Adesso continuiamo a lavorare silenziosamente, con costanza e impegno. Un doveroso ringraziamento al nostro corpo diplomatico», ha scritto Di Maio su Twitter. «Un enorme sospiro di sollievo perché finisce il tunnel di 22 mesi di carcere e speriamo che questo sia il primo passo per arrivare poi ad un provvedimento di assoluzione. L'idea che Patrick possa trascorrere dopo 22 mesi una notte in un luogo diverso dalla prigione ci emoziona e ci riempie di gioia. In oltre dieci piazze italiane questa sera scenderemo con uno stato d'animo diverso dal solito e più ottimista», commenta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. «La notizia che tanto aspettavamo. Patrick Zaki sarà scarcerato. Speriamo presto di poterlo riabbracciare qui a Bologna», ha invece esultato il sindaco di Bologna Matteo Lepore. Una sentenza, quella emessa durante la terza udienza a carico dello studente 30enne, tutt’altro che scontata. Contro Patrick ci sono diversi capi di accusa, per cui rischia fino a cinque anni di carcere. Il mandato di cattura contiene le accuse di minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento a manifestazione illegale, sovversione, diffusione di notizie false e propaganda per il terrorismo.
Lo studente 30enne detenuto da 22 mesi per “diffusione di notizie false”. Patrick Zaki scarcerato ma non assolto, la svolta all’udienza in Egitto. Antonio Lamorte su Il Riformista il 7 Dicembre 2021. Patrick George Zaki sarà scarcerato ma non assolto. È quanto fa sapere l’Ansa da Mansoura, in Egitto, dove lo studente è detenuto e dove stamane al Palazzo di Giustizia si è tenuta la terza udienza sul caso. Il 30enne, ricercatore e studente all’Università di Bologna è in carcere da 22 mesi, dal febbraio 2020, con l’accusa di “diffusione di notizie false”. La notizia è stata confermata da alcuni avvocati all’esterno del Palazzo di Giustizia. Non è ancora stato chiarito ma la scarcerazione potrebbe avvenire già tra oggi e domani. L’ordine sarebbe stato comunque già firmato. La decisione è stata accolta con urla di giubilo all’interno del tribunale. Zaki dovrà ricomparire davanti alla Corte il prossimo 1 febbraio. “Sto bene, grazie Italia”, le parole del 30enne, in una cella nel Palazzo di Giustizia di Mansoura dove si è tenuta l’udienza, a un diplomatico italiano come riportato dall’Ansa. Presenti, come nelle precedenti udienze, due diplomatici italiani, su richiesta dell’Ambasciata italiana anche funzionari di altri Paesi (USA, Spagna, Canada), un avvocato della Delegazione dell’Unione Europea e un legale di fiducia della rappresentanza diplomatica italiana al Cairo. Tutti per monitorare il processo come prima avevano fatto per tutte le sessioni di rinnovo della custodia cautelare. Zaki non era ammanettato ed era vestito di bianco quando è arrivato in aula. Da poco è stato trasferito dalla prigione di Tora, nei pressi de Il Cairo, a quella di Mansoura, vicino casa sua. “In carcere ha freddo, nemmeno una coperta, ha ancora fortissimi dolori alla schiena. Non gli lasciano i libri per continuare a studiare”, ha detto a Il Corriere della Sera la madre Hala, intervistata nella casa dove lo studente è cresciuto. “Non gli fanno avere né acqua né cibo”, ha aggiunto il padre George. A soli quattro minuti dall’inizio l’udienza era stata sospesa: la legale del ragazzo, Hoda Nasrallah, ha chiesto l’acquisizione di altri atti per dimostrare sia una presunta illegalità durante l’arresto del 7 febbraio 2020 e sia la correttezza dell’articolo sui copti alla base del processo. Articolo che era comparso sul sito Darj. Zaki è accusato di propaganda sovversiva per alcuni post sui social network e per alcuni articoli sulle persecuzione ai danni dei cristiani copti. È stato arrestato il 7 febbraio 2020, appena atterrato per una vacanza in Egitto. Da allora la sua custodia in carcere è stata puntualmente rinnovata. Il rinvio a giudizio è arrivato per “diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese” sulla base di un articolo scritto dallo stesso studente. Zaki era arrivato a Bologna dopo aver vinto una Borsa di Studio per un master Gemma dedicato agli studi di genere e delle donne. La nota della Presidenza del Consiglio: “Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, esprime soddisfazione per la scarcerazione di Patrick Zaki, la cui vicenda è stata e sarà seguita con la massima attenzione da parte del Governo italiano”. La giornalista di Rai3 e del quotidiano Domani ha fatto sapere di aver “appena parlato al padre di Patrick. Dovrebbe uscire alle 18. È molto contento e ringrazia tutti”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Zaki ritrova la libertà: "Grazie Italia". Chiara Clausi su Il Giornale l'8 dicembre 2021. Un abbraccio e un pianto liberatorio. È stato quello tra la sorella di Patrick Zaki, Marise, e la madre, Hala, dopo una notizia attesa da quasi due anni. Patrick, il ricercatore egiziano di 30 anni, che frequentava un master in Studi di Genere all'Università di Bologna in carcere da 669 giorni, è stato liberato. Non è ancora stato assolto però, e dovrà apparire davanti alla corte di nuovo il primo febbraio. Patrick, durante i 4 minuti in cui è stato in aula fuori dalla gabbia, era vestito di bianco, colore simbolo degli imputati, portava una mascherina nera calata sul mento, codino, occhiali rotondi. Come sempre. Fuori dall'aula del tribunale insieme alla madre e alla sorella, c'erano anche il padre e gli amici. Lo studente invece non era in aula al momento dell'annuncio. Ma poco prima dell'inizio dell'udienza aveva detto «grazie, grazie sto bene» alzando il pollice. Il padre di Patrick, George, dopo la decisione, ha abbracciato i due diplomatici italiani presenti all'udienza e ha detto: «Vi siamo molto grati per tutto quello che avete fatto». Zaki era stato da poco trasferito dal carcere cairota di Tora, dove ha trascorso quasi tutta la sua custodia cautelare, dove dormiva per terra, a una prigione di Mansura, la sua città natale. Immediatamente dopo l'arresto, aveva raccontato il suo avvocato, Patrick era stato torturato. Picchiato, spogliato, bendato, sottoposto a scosse elettriche sulla schiena e sull'addome, insultato verbalmente. Per molti mesi gli era stata negata la possibilità di comunicare con l'esterno e di ricevere visite dalla famiglia, anche se ufficialmente era stato detto a causa dell'emergenza coronavirus. Ma non finisce qui. C'erano state gravi polemiche sul fatto che le autorità egiziane gli stessero negando le cure mediche. Patrick soffre di asma, oltre che di ansia e depressione. Il suo dolore alla schiena si era aggravato ed era molto dimagrito negli ultimi tempi. Ma la partita non è conclusa. In tribunale, la legale, Hoda Nasrallah, ha chiesto l'acquisizione di altri atti per dimostrare sia una presunta illegalità durante l'arresto avvenuto il 7 febbraio 2020 all'aeroporto del Cairo che la correttezza dell'articolo sui copti alla base del processo. I capi d'accusa menzionati nel mandato di arresto sono minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento alle proteste illegali, sovversione, diffusione di notizie false, propaganda per il terrorismo. Inoltre, Patrick avrebbe compiuto propaganda sovversiva attraverso alcuni post pubblicati su Facebook. Il rinvio a giudizio è avvenuto invece per «diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese» sulla base di tre articoli scritti da Zaki. In particolare ne spicca uno, scritto nel 2019, sul giornale Daraj, sui cristiani copti in Egitto perseguitati dallo Stato Islamico, e discriminati da alcuni segmenti della società musulmana. Tema caro a Zaki perché anche lui appartiene alla comunità copta egiziana. Subito dopo la sentenza è arrivato il commento di Riccardo Noury portavoce di Amnesty International Italia: «È un enorme sospiro di sollievo perché finisce il tunnel di 22 mesi di carcere e speriamo che questo sia il primo passo per arrivare a un provvedimento di assoluzione», ha dichiarato. «Non me l'aspettavo. Non siamo abituati a ricevere buone notizie sul processo, ma oggi sono molto contento per lui, la sua famiglia e per tutti quelli che hanno portato avanti la campagna per la libertà di Patrick». ha raccontato Rafael Garrido Alvarez, amico prima di tutto ma anche ex compagno di studi di Patrick Zaki, quando frequentava il master in studi di genere all'Università Alma Mater di Bologna.
Free PatrickZaki è libero, ma l’Egitto continuerà il suo assurdo processo politico. Futura D’Aprile su L'Inkiesta.it il 7 dicembre 2021. Il giovane egiziano è stato scarcerato dopo 22 mesi di detenzione, ma la prossima udienza del primo febbraio 2022 potrebbe concludersi con una condanna definitiva. Rischia fino a 5 anni di carcere a causa di un articolo in cui si denunciavano i mancati provvedimenti del regime di al-Sisi per garantire la sicurezza della minoranza dei cristiani copti. Dopo ventidue mesi di carcere, Patrick Zaki è tornato libero, per ora. Il 7 dicembre il tribunale egiziano ha ordinato la scarcerazione del giovane studente iscritto all’Università di Bologna e detenuto in Egitto dal febbraio 2020 con l’accusa di “diffusione di notizie false dentro e fuori il paese”. Il caso Zaki però non può dirsi ancora concluso. Le accuse contro il giovane sono ancora in piedi e il primo febbraio 2022 si attende la nuova udienza. Lo studente rischia fino a 5 anni di carcere per diffusione di false informazioni a causa di un articolo in cui si denunciavano i mancati provvedimenti del regime di Abdel Fattah al-Sisi per garantire la sicurezza della minoranza dei cristiani copti, a cui lo stesso Zaki appartiene. Nonostante ciò, la notizia della scarcerazione è stata accolta con grande gioia all’interno dell’aula, dove erano presenti i parenti del giovane oltre alla delegazione dell’Unione europea, due diplomatici italiani e alcuni funzionari delle ambasciate di Stati Uniti, Spagna e Canada. I legali di Zaki temevano l’ennesimo prolungamento della detenzione preventiva, a cui il giovane è stato sottoposto negli ultimi ventidue mesi. Le udienze tenutesi fino a ieri si sono sempre concluse con un nulla di fatto e con un rinnovo della detenzione del giovane, trasferito tra l’altro dal carcere di Mansura, sua città natale, a quello di Tora al Cairo, noto per la durezza dei trattamenti riservati ai detenuti. Per più di cinque mesi gli è stato anche negato il diritto a ricevere visite familiari, ufficialmente a causa delle restrizioni imposte dal governo per contenere i contagi da coronavirus.
La difesa
L’udienza in cui si è decisa la scarcerazione di Zaki è stata breve. La sospensione è arrivata dopo soli quattro minuti, dopo che il capo del team della difesa, Hoda Nasrallah, aveva chiesto di aver accesso a tutte le prove a carica del suo cliente, facendo specifico riferimento alle immagini delle telecamere di sicurezza dell’aeroporto del Cairo. Zaki è stato fermato il 7 febbraio durante il controllo passaporti e portato in un edificio della National security agency dove, secondo i suoi avvocati, sarebbe stato picchiato, torturato con scosse elettriche, abusato verbalmente e minacciato di stupro.
Nelle carte delle indagini, però, è riportato che il giovane è stato arrestato l’8 febbraio a Mansura, mentre era nell’abitazione della sua famiglia. Tramite le registrazioni dell’aeroporto, la difesa vuole invece dimostrare che Zaki è stato prelevato appena atterrato in Egitto e che il suo arresto è stato formalizzato solo 24 ore dopo. Gli avvocati hanno anche richiesto l’accesso al verbale redatto dal funzionario della Sicurezza nazionale riportante l’arresto al Cairo e a quello in cui viene ufficialmente registrato il fermo a Mansura del giovane. La difesa ha anche chiesto di poter ascoltare la testimonianza del fratello di un soldato cristiano ucciso da terroristi islamici, per dimostrare che quanto riportato da Zaki nell’articolo uscito nel 2019 sul portale el-Daraj corrisponde al vero.
La stampa egiziana
La notizia dalla scarcerazione di Zaki ha riempito i media italiani, ma ha invece trovato poco spazio in Egitto. Alcuni giornali online indipendenti in lingua inglese e che sfuggono alle maglie della censura hanno dato la notizia della sentenza emessa ieri dal giudice, ma la questione è passata abbastanza sotto traccia nel paese nordafricano. Il tema d’altronde è piuttosto delicato. Zaki è ufficialmente accusato di diffusione di notizie false, ma le motivazioni hanno una forte connotazione politica e riguardano sia il trattamento riservato nel paese alla minoranza copta, quanto (più indirettamente) il lavoro svolto dal giovane a Bologna all’interno della comunità Lgbt.
I rapporti con il Cairo
Eppure i rapporti tra Egitto e Italia in questi ventidue mesi non hanno subito alcuna modifica. I due paesi continuano ad avere normali rapporti diplomatici e commerciali, come dimostra anche la recente partecipazione delle maggiori aziende dalla Difesa all’Expo militare tenutosi al Cairo. D’altronde nemmeno l’omicidio del ricercatore Giulio Regeni e i continui depistaggi operati dai servizi di intelligence e di sicurezza sono stati sufficienti perché il governo italiano facesse le dovute pressioni alla controparte egiziana. Per quanto riguarda quest’ultima vicenda, si attende adesso la data del 10 gennaio, quando si terrà una nuova udienza davanti dal Gup di Roma dopo la pubblicazione della relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte del giovane ricercatore. Una data vicina a quella della prossima udienza di Patrick Zaki, che potrebbe concludersi con una condanna definitiva e senza appello.
Da ansa.it l'8 dicembre 2021. Patrick Zaki è stato scarcerato da un commissariato di Mansura. Appena uscito, lo studente egiziano dell'Università di Bologna, in carcere da 22 mesi, ha abbracciato la madre. "Tutto bene": queste le prime parole che Patrick Zaki ha pronunciato, parlando in italiano, appena rilasciato. L'abbraccio è avvenuto in una stretta via su cui affaccia il commissariato, fra transenne della polizia del traffico e un camion con rimorchio. Per abbracciare la madre Patrick ha lasciato a terra un sacco bianco di plastica che portava assieme a una borsa nera.
"Un abbraccio che vale più di tante parole.
Bentornato Patrick!". Lo scrive su Fb il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, postando una foto dell'abbraccio tra Zaki e la sorella all'uscita dal carcere.
"Aspettavamo di vedere quell'abbraccio da 22 mesi e quell'abbraccio arriva dall'Italia, da tutte le persone, tutti i gruppi e gli enti locali, l'università, i parlamentari che hanno fatto sì che quell'abbraccio arrivasse".
Così all'ANSA Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia commenta la notizia del rilascio di Zaki. "Un abbraccio - dice Noury - soprattutto ai mezzi di informazione che hanno tenuto alta l'attenzione per questi 22 mesi. Ora che abbiamo visto quell'abbraccio aspettiamo che questa libertà non sia provvisoria ma sia permanente. E con questo auspicio arriveremo al primo febbraio, udienza prossima".
Carlo Verdelli per il “Corriere della Sera” l'8 dicembre 2021. Nei giorni del naufragio della civiltà, appena denunciati con forza disperata da papa Francesco, una notizia finalmente diversa, controcorrente, di gioia invece che di ripetuto dolore. Un sommerso che invece si salva, torna libero, si riguadagna un pezzo inatteso di futuro. Preparati a lasciare la tua cella, Patrick Zaki, figlio sgradito d'Egitto, fratello di tanti studenti italiani che ti hanno adottato. Questione di ore, massimo di giorni, e l'incubo senza fine dove eri precipitato svanirà. O almeno dovrebbe, condizionale d'obbligo quando si ha a che fare con Paesi che non praticano la democrazia ma il suo contrario. Hai nelle ossa, nei polmoni, negli occhi l'enormità di 670 giorni di carcere infame, senza materasso per dormire, senza medicine per curarti l'asma, senza una colpa da cui difenderti né una ragione per sopportare il fatto che di colpo, un giorno, il 7 febbraio 2020, a neanche 29 anni, ti hanno tolto all'improvviso la libertà. Ma tu hai resistito a tutto. Ti sei aggrappato come un naufrago alla speranza che da qualche parte, specialmente in quell'Italia dove eri stato studente per un master a Bologna, non si erano dimenticati di te. E forse questo ha contato nell'esito clamoroso di queste ore. Forse la mobilitazione di movimenti, università, città, instancabile nonostante le frustrazioni dei ripetuti prolungamenti della tua detenzione preventiva (45 giorni più altri 45 più altri 45), qualcosa ha smosso nei meccanismi ineluttabili e perversi del potere. Forse la richiesta di cittadinanza italiana, avanzata all'unanimità dalla maggioranza del Parlamento che sostiene il nostro governo, ha aiutato una diplomazia impigrita da una ragion di Stato che, in nome degli affari e delle convenienze strategiche, è spesso capace di chiudere un occhio, e anche tutti e due. Forse hanno avuto un peso le parole di Liliana Segre, quando si è spinta fino in Senato a Roma per sostenerti: «Sono qui come nonna di Zaki, e come lui so che cosa vuole dire la porta chiusa di una cella e l'angoscia che possa succedere di peggio quando si apre». E forse, da ultimo, non è stata inutile anche la pressione di alcuni giornali, e il Corriere della Sera è tra questi quando ancora ieri raccontava il tormento dei tuoi genitori e di tua sorella, in attesa come tutto il mondo libero di quello che ti sarebbe successo all'indomani, udienza importante del tuo irreale calvario giudiziario. I fari tenuti accesi sul buio della tua prigione hanno magari impedito che quel buio diventasse impenetrabile. Vero che non è finita. Non è quasi mai finita quando c'è di mezzo un regime che si considera arbitro e padrone delle vite degli altri, dei suoi cittadini, dei sudditi. Dovrai ripresentarti davanti a una Corte egiziana il primo febbraio, perché sarai anche libero ma non ancora assolto (da quale accusa, chissà). Potrebbero decidere di tornare a rovinarti l'esistenza in qualsiasi momento. Ma intanto sei praticamente fuori, potrai dormire prestissimo, una delle prossime notti, nella tua casa di Mansoura, con la famiglia che ti ha aspettato ogni secondo di questi 22 mesi, o magari anche tornare a studiare in quella Bologna, dove in ogni tua lettera dal carcere bestiale di Tora, al Cairo, chiedevi di poter ripartire dopo il tunnel dove ti avevano cacciato. «Riportatemi in piazza Maggiore. Grazie alla città, alle bandiere gialle. Io combatterò per questo». Combattere e vedere riconosciuto, in un giorno di festa, che non è impossibile, che non è tutto inutile, è un segno che pretende un seguito. Le pressioni delle piazze, della società civile, e l'effetto domino che determinano sulle attenzioni di un Paese come l'Italia, possono davvero cambiare il corso delle cose, anche per gli ultimi, le vittime più incolpevoli della perdita di qualsiasi valore per il rispetto dei diritti fondamentali dell'essere umano. Salvato, per adesso, il soldato Zaki, arruolato in una guerra di inciviltà che non lo ha mai riguardato, diventa ancora più urgente proseguire con convinzione sulla stessa strada. È evidente che il prossimo passo, nei confronti dell'Egitto, non può che avere a che fare con la riapertura del processo sulla fine ignobile di Giulio Regeni. Quella vita meravigliosa non si può più salvare. Ma almeno tutta la verità sulla sua esecuzione e i suoi assassini, ecco, quello è un obiettivo non contrattabile, non più rinviabile, irrinunciabile. La liberazione di Patrick è benedetta ma si completa soltanto con la fine dell'omertà sullo studente Giulio, italiano del mondo.
Patrick Zaki è libero, ma le accuse non sono cadute: «Grazie a chi mi ha sostenuto. Avete tenuto accesa la luce». Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 9 dicembre 2021.Intervista a Zaki, scarcerato dopo 22 mesi: «In cella leggevo quel che potevo, il mio libro preferito è “L’amica geniale”. E scrivevo, quando mi era permesso. Vorrei pubblicare i miei diari. In carcere una delle cose che ti fa più soffrire è il pensiero del dolore che provochi a chi ti vuol bene. Ora vorrei andare a Napoli. E conoscere Liliana Segre»
«Sono ancora un po’ confuso, tutto sta andando velocemente. Ma ora sono felice, sono qui con la mia famiglia, con tutte le persone che amo. Tutto qui».
Non indossa più la tuta bianca dei detenuti in attesa di giudizio, Patrick Zaki. È seduto nel salotto della sua casa di infanzia a Mansoura. Alle sue spalle un arazzo di spugna che raffigura Cristo. È il più calmo di tutti, nella stanza. Intorno a lui, il magico «dream team» di donne. La sorella Marise, la fidanzata, un’amica, mamma Hala che, dopo 22 mesi di lontananza, angoscia e paura, ora non lo perdono di vista un attimo. C’erano loro ad aspettarlo fuori dal commissariato di polizia di Mansoura da cui è stato rilasciato ieri dopo 670 giorni di detenzione. E ci sono loro mentre Patrick entra nell’appartamento dove è cresciuto e sull’auto verso il Cairo. In salotto, intanto, papà George non smette di sorridere un attimo. Zaki ha cambiato montatura di occhiali («l’altra l’ho persa durante un trasferimento da una cella all’altra»). La barba è lunga, il sorriso quello delle fotografie di prima dell’arresto. Sotto il maglione scuro, la maglietta dell’Università di Bologna. Poi i jeans preferiti. I palmi della mani, neri al momento del rilascio, ora sono puliti. Intorno, la cagnetta Julie scodinzola felice.
Patrick, innanzitutto ben trovato. Quando hai capito che stavi per tornare libero?
«Non mi hanno annunciato che sarei stato rilasciato. All’improvviso mi hanno portato al commissariato, e hanno iniziato a prendermi le impronte. Non capivo cosa stesse succedendo, non c’erano segnali che mi stessero per scarcerare. Ero confuso. Non posso dire tutti i dettagli e preferisco non parlare delle condizioni di detenzione. Ma poi ho capito che c’era una speranza. È la speranza, sai, la cosa più difficile da tenere in vita quando ti tolgono la libertà».
Hai abbracciato prima tua mamma, poi la tua fidanzata e infine tua sorella Marise. Qual è stata la prima cosa che hai detto a questo gruppo di donne che lotta per te da 22 mesi, insieme a tuo padre e tutto lo staff della Eipr?
«Ho detto grazie. E poi “Temam”: va tutto bene».
Patrick ride, si interrompe.
La frase che hai sempre ripetuto a tua madre fin da quando lei stava in angoscia nel 2011 ai tempi della rivoluzione e tu ti eri trasferito a vivere al Cairo…
«Già. Una delle cose che più ti fa soffrire quando sei in carcere è il pensiero del dolore che provochi alle persone cui vuoi bene. Io devo solo dire grazie, grazie all’Italia per essere stata vicina a me e alla mia famiglia. Grazie a tutti quelli che hanno tenuto accesa la luce. E l’elenco è lunghissimo».
Abbiamo tempo, ora.
«Gli amici in ogni parte del mondo, che si sono dati da fare per me. Ma anche la vostra delegazione diplomatica che è venuta alle udienze. Poi l’università di Bologna. Tutti i compagni di master, ma in particolare c’è una persona».
Chi è?
«La professoressa Rita Monticelli. È la mia mentore al master Gemma a Bologna (quando Patrick è stato arrestato nel 2020 stava frequentando il primo semestre). Una persona che mi ha trattato come un figlio. E non mi ha trasmesso solo conoscenza ma anche valori. L’empatia, il rispetto. E l’ascolto. E poi mia sorella Marise. Ma sicuramente così faccio arrabbiare qualcuno, mi fermo qui».
L’Italia si è adoperata per il tuo rilascio a più livelli. Il premier Mario Draghi ha seguito costantemente il tuo caso. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ti ha dedicato un abbraccio pubblico. L’ambasciatore Quaroni ti ha chiamato al telefono.
«Vedere in aula i vostri rappresentanti diplomatici durante le udienze mi ha dato forza. E sono sicuro che ci sono decine e decine di altre persone cui dovrò stringere la mano».
Anche la società civile ha avuto un ruolo fondamentale. «Aspettavamo di vedere quell’abbraccio da 22 mesi», ha commentato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.
«Non dimenticherò mai tutte le volte in cui durante le visite mi venivano raccontato delle manifestazioni, delle piazze. E di tutte le iniziative organizzate per chiedere il mio rilascio in questi quasi due anni».
La senatrice Liliana Segre ha votato per la richiesta di cittadinanza dicendo di essere in Aula idealmente come tua nonna, come persona che sa cosa vuole dire stare chiusa dentro stanza da cui non si può uscire. Vuoi dirle qualcosa?
«Mi ha riempito di orgoglio sapere che una persona del suo livello e della sua statura morale si sia interessata a me. Voglio conoscerla. Assolutamente. Spero che questo avvenga quanto prima».
Patrick ora sei libero ma le accuse a tuo carico non sono cadute. Il giudice ha fissato un’udienza all’inizio di febbraio come dice la tua legale Hoda Nasrallah. Pensi di poter tornare in Italia un giorno?
«Spero, ovviamente, che questo avvenga presto. Non so se ci sia un’interdizione per viaggiare all’estero. Per ora so che posso tornare al Cairo».
Dalle tue lettere traspariva grande dolore per il master in studi di parità di genere dell’Università di Bologna che non hai potuto finire. Lo riprenderai?
«Spero davvero presto. Il prima possibile. Non vedo l’ora di poter riabbracciare i miei compagni, i miei professori. E c’è un posto dove vorrei andare prima o poi, in Italia».
Qual è?
«Napoli. Non ci sono mai stato. La mia bisnonna Adel veniva da Napoli. Non parlo così bene l’italiano, ma l’accento di quella parte del Paese mi ha sempre affascinato. Amo molto gli autori napoletani».
Hai potuto leggere in carcere?
«Sì. Dostoevskij, Saramago. E poi L’amica geniale di Elena Ferrante. Il mio preferito, forse. I libri dell’Università invece erano più complicati da avere. Ho provato anche a scrivere qualche volta ma non sempre mi era permesso tenere il blocco».
Già, scrivere… Ti piace?
«Permette di rielaborare, di processare l’accaduto. Una persona a me vicino mi ha insegnato questo».
Alza lo sguardo Patrick, e in cambio gli arriva un sorriso di rimando indietro. Ma in quegli occhi c’è anche un rimprovero, dolce. Basta parlare con gli altri. Prenditi il tuo tempo, Patrick. Ricordati cosa ti hanno fatto, sembrano dire quegli occhi.
Dal Corriere il 20 novembre scorso hai ricevuto un premio che speriamo di poterti consegnare molto presto di persona, il premio alla memoria di Maria Grazia Cutuli, l’inviata uccisa in Afghanistan nel 2001…
«Sì, mia sorella mi ha detto. Maria Grazia… questo premio significa tanto per me. Non lo merito, ci sono eroi là fuori che combattono, in Egitto, più di me, molto più di me. Ma è un premio per cui ringrazio di cuore, Maria Grazia è molto molto importante per me, e questo riconoscimento rappresenta un grande sostegno che ho ricevuto dal Corriere, come istituzione. E presto spero di scrivere i miei diari, quello che ho passato, sul Corriere. Aspettatemi!».
Uscito dal commissariato di Mansura ha abbracciato la madre. Le sue prime parole sono state in italiano. Di Maio: «Bentornato Patrick». La Repubblica l'8 dicembre 2021. Patrick Zaki è stato scarcerato da un commissariato di Mansura. Appena uscito, lo studente egiziano dell'Università di Bologna, in carcere da 22 mesi, ha abbracciato la madre. "Tutto bene": queste le prime parole che Patrick Zaki ha pronunciato, parlando in italiano, appena rilasciato. L'abbraccio è avvenuto in una stretta via su cui affaccia il commissariato, fra transenne della polizia del traffico e un camion con rimorchio.
Per abbracciare la madre Patrick ha lasciato a terra un sacco bianco di plastica che portava assieme a una borsa nera.
"Un abbraccio che vale più di tante parole. Bentornato Patrick!". Lo scrive su Fb il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, postando una foto dell'abbraccio tra Zaki e la sorella all'uscita dal carcere.
"Aspettavamo di vedere quell'abbraccio da 22 mesi e quell'abbraccio arriva dall'Italia, da tutte le persone, tutti i gruppi e gli enti locali, l'università, i parlamentari che hanno fatto sì che quell'abbraccio arrivasse". Così all'ANSA Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia commenta la notizia del rilascio di Zaki. "Un abbraccio - dice Noury - soprattutto ai mezzi di informazione che hanno tenuto alta l'attenzione per questi 22 mesi. Ora che abbiamo visto quell'abbraccio aspettiamo che questa libertà non sia provvisoria ma sia permanente. E con questo auspicio arriveremo al primo febbraio, udienza prossima".
Giu. Sca. per "il Messaggero" il 9 dicembre 2021. Per adesso Patrick Zaki non potrà venire in Italia. Il rientro nella città che l'ha adottato, Bologna, è solo rinviato. Anche se occorre prudenza. Le reazioni del regime del presidente Abdel Fattah al-Sisi sono imprevedibili. Zaki è, infatti, considerato un problema locale. La sua storia va vista nella più ampia condizione dei cristiani Copti in Egitto. Una minoranza costantemente perseguitata, cittadini di serie b rispetto al resto della popolazione musulmana. La colpa di Zaki, per la locale magistratura, è quella di aver avuto, da cristiano, il coraggio di scrivere articoli a difesa dei cristiani nel 2019. Una lunga ricostruzione in cui il 30enne denunciava una serie di vessazioni patite dai Copti che poi gli è valsa l'arresto, la detenzione lunga 22 mesi con annesse torture. Come scrive in una relazione la Onlus Porte Aperte «nella società egiziana, i cristiani sono considerati cittadini di seconda classe dalla maggioranza islamica. Una minoranza svantaggiata nella sfera politica e nei rapporti con lo Stato. In tale contesto, il Governo è restio a rispettare e fare rispettare i loro diritti». E ancora, si legge sempre sul sito di Porte Aperte, «lo Stato sembra concedere poca attenzione ai diritti umani fondamentali e al pluralismo democratico. Il livello di violenza contro i cristiani rimane estremamente elevato». Una minoranza ampia, di 16 milioni di persone, in una popolazione di 100 milioni. Nella visione del regime non deve assolutamente passare il messaggio che la pressione internazionale possa avere contribuito alla scarcerazione del 30enne. Sarebbe un segno di debolezza che il Cairo non vuole proiettare al proprio interno. E sebbene le richieste incessanti dell'Italia, con il sostegno degli Usa, siano andate avanti nei 22 mesi di carcerazione, il principale motivo che ha spinto l'Egitto a concedere la liberazione (il processo continuerà) di un suo cittadino è collegato all'assassinio di Giulio Regeni. Lo studente italiano ammazzato dai servizi di sicurezza locali tra gennaio e febbraio del 2016. Il messaggio che il Cairo manda sotto voce a Roma è quella di una sorta di compensazione, una comunicazione cinica. Sull'omicidio Regeni gli egiziani non vogliono che venga fatta giustizia né in Patria né in Italia. È quindi difficile che dall'altra sponda del Mediterraneo collaborino per la notifica dell'avviso di garanzia dell'inchiesta che il pm Sergio Colaiocco ha condotto dalla Capitale per individuare i responsabili delle torture culminate con l'omicidio di Regeni. E senza la notifica dell'atto della richiesta di rinvio a giudizio, in Italia non si può processare nessuno. Ecco allora che Zaki viene liberato come una concessione rispetto a un muro che il Cairo solleva sul brutale assassinio dello studente di Cambridge. È in quest' ottica che negli ambienti di governo italiano si legge la scarcerazione di Zaki. Occorre sempre ricordare che sulla testa del 30enne pende la spada di Damocle del processo. In qualsiasi momento le autorità locali possono ritornare sui loro passi. La Farnesina che ha lavorato a fari spenti lo sa bene. E nessuno, negli ambienti diplomatici, vuole urtare la sensibilità egiziana ben sapendo quale possa essere la reazione. Nessuno vuole che la macchina di repressione inghiottisca lo studente egiziano dell'Università di Bologna come è accaduto allo studente italiano dell'Università di Cambridge.
Patrick Zaki, Nicola Porro: "Sapete come funziona la giustizia in Italia?", quello che i giornali non dicono. Libero Quotidiano il 9 dicembre 2021. "Oggi c’è solo Patrick Zaki, la più ridicola è la Stampa con quattro pezzi che partono in prima pagina": Nicola Porro, nella sua consueta rassegna stampa della mattina, annota gli articoli e gli argomenti più importanti della giornata. Oggi in primo piano c'era, appunto, la scarcerazione dello studente egiziano, dopo 22 mesi di detenzione. Il giornalista, però, ha voluto far notare un dettaglio, che molti giornali non hanno riportato: "Nel frattempo in Italia arrestano come se non ci fosse un domani. Sul Riformista Tiziana Maiolo avverte che nel nostro Paese è peggio che in Egitto con il caso Pittella, arrestato per la terza volta, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, uno di quei reati difficilmente dimostrabili". "La cosa straordinaria - continua Porro - è che l'hanno arrestato perché ha scritto una lettera a Mara Carfagna. Così avrebbe violato i suoi arresti domiciliari". Parlando della ministra per il Sud, il giornalista ha chiarito: "Sono certo che Carfagna non abbia fatto altro che dare questa lettera alla polizia perché preoccupata". Anche se poi ha aggiunto: "Maiolo fa notare però che non è vietato mandare lettere se si è agli arresti domiciliari, perfino se sei al 41bis". E' un discorso di giustizia e garantismo quello fatto da Porro, che poi sull'argomento chiosa in questo modo: "Giusta l'indignazione nei confronti di Zaki, ma poi in Italia arrestiamo per tre volte Pittella". Specificando: "Che nemmeno conosco".
Patrick Zaki, Nicola Porro e il paradosso della giustizia in Italia: "Quello che non viene scritto". Il Tempo il 09 dicembre 2021. Dopo 22 mesi di detenzione, il tribunale egiziano di Mansura ha ordinato il rilascio, in attesa del processo, per Patrick Zaki, l'attivista per i diritti umani e studente incarcerato a febbraio 2020. La prossima udienza si terrà il 1 febbraio, ma mentre difesa e pubblici ministeri prepareranno le loro argomentazioni finalmente Zaki sarà libero, probabilmente da mercoledì o nei giorni seguenti. Zaki, studente dell'Università di Bologna oggi 30enne, è stato arrestato nel febbraio 2020 poco dopo essere atterrato al Cairo per un breve viaggio di ritorno dall'Italia. Da allora è stato detenuto e accusato di aver diffuso notizie false sull'Egitto a livello nazionale e all'estero. Le accuse derivano da articoli di opinione scritti da Zaki nel 2019 e che parlano della discriminazione contro i cristiani copti in Egitto. Nicola Porro, nella sua rassegna stampa mattutina segnala gli articoli più importanti della giornata evidenziando che su tutti i quotidiani c'è solo la notizia di Zaki fuori dal carcere dopo mesi di apprensione e di interessamento da parte dell'Italia: "Oggi c’è solo Patrick Zaki, la più ridicola è la Stampa con quattro pezzi che partono in prima pagina" commenta il giornalista che evidenzia un particolare di cui invece pochi parlano: "Nel frattempo in Italia arrestano come se non ci fosse un domani. Sul Riformista Tiziana Maiolo avverte che nel nostro Paese è peggio che in Egitto con il caso Pittella, arrestato per la terza volta, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, uno di quei reati difficilmente dimostrabili". "La cosa straordinaria - continua Porro - è che l'hanno arrestato perché ha scritto una lettera a Mara Carfagna. Così avrebbe violato i suoi arresti domiciliari". Parlando della ministra per il Sud, il giornalista ha chiarito: "Sono certo che Carfagna non abbia fatto altro che dare questa lettera alla polizia perché preoccupata". Anche se poi ha aggiunto: "Maiolo fa notare però che non è vietato mandare lettere se si è agli arresti domiciliari, perfino se sei al 41bis". Porro ritiene "giusta l'indignazione nei confronti di Zaki ma poi - evidenzia - in Italia arrestiamo per tre volte Pittella". "La cosa straordinaria - spiega Porro - è che l'hanno arrestato perché ha scritto una lettera a Mara Carfagna. Così avrebbe violato i suoi arresti domiciliari".
Scarcerazione Patrick Zaki, Roberto D'Agostino: "Sono intervenuti i servizi segreti americani, non certo i nostri..." La7.tv l'08/12/2021
Un appello (e gli aiuti): Usa decisivi. Fausto Biloslavo il 9 Dicembre 2021 su Il Giornale. Lettera di 56 deputati Usa. E ora si complica l'affaire Regeni. La lista Usa dei prigionieri da rilasciare, centinaia di milioni di dollari di aiuti militari in ballo e lo stop in punta di diritto al processo Regeni hanno dato il via libera alla liberazione di Patrick Zaki. «È un'operazione americana spinta dal Congresso e negoziata dalla Casa Bianca per ottenere delle concessioni nel campo dei diritti umani - rivela una fonte del Giornale - A livello politico siamo ai ferri corti con l'Egitto dopo la decisione del governo di costituirsi parte civile nel processo sul caso Regeni».
Otto mesi dopo l'arresto al Cairo dello studente egiziano dell'università di Bologna, 56 membri democratici del Congresso di Washington hanno inviato al presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi una lettera di una pagina e mezza. Nella missiva su carta intestata del Congresso i parlamentari chiedono la liberazione di sedici attivisti compreso «Patrick George Zaki». I rappresentanti americani vanno dritti al punto: «La esortiamo a rilasciare immediatamente e incondizionatamente i prigionieri che abbiamo citato (...). Queste sono persone che non avrebbero mai dovuto essere incarcerate», si legge nella lettera.
Una volta insediato alla Casa Bianca il presidente americano Joe Biden ha usato il bastone e la carota con l'Egitto per ottenere un'apertura sui diritti umani. «Gli Stati Uniti garantiscono 1,3 miliardi di dollari all'anno di aiuti militari al Cairo - fa notare la fonte del Giornale che conosce il tema - Gli egiziani devono anche ammodernare i loro F-16 e Biden ha congelato qualche fondo sbloccando altri. Ottenendo alla fine un gesto distensivo soprattutto nei confronti della richiesta del Congresso».
Il 15 settembre la Casa Bianca ha concesso il via libera a 170 milioni di dollari di aiuti militari e ne ha congelati altri 130. La cifra fa parte del pacchetto di 300 milioni che il Congresso lega al rispetto dei diritti umani. Non è un caso che all'udienza che ha concesso la libertà vigilata a Zaki era presente pure un inviato Usa assieme ai diplomatici della nostra ambasciata al Cairo e rappresentanti di Canada e Spagna.
La mossa americana sarebbe stata caldeggiata dall'ambasciatore italiano in Egitto Cairo Giampaolo Cantini, Al Cairo fino ad agosto, e poi seguita dalla nuova feluca Michele Quaroni. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio solo da settembre a oggi ha discusso di Zaki con il suo pari grado egiziano alla media di una volta al mese.
Gli Stati Uniti hanno blandito il presidente al Sisi anche in campi non militari, come l'assegnazione al Cairo della Cop 27 del prossimo anno sui cambiamenti climatici. Ad annunciarlo ci ha pensato il 3 ottobre l'inviato Usa sul clima, John Kerry, proprio alla pre-Cop di Milano. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, «esprime soddisfazione per la scarcerazione di Patrick Zaki, la cui vicenda è stata e sarà seguita con la massima attenzione da parte del Governo italiano». Nelle stesse ore del vittorioso comunicato di Palazzo Chigi, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani metteva il dito sulla piaga della Cop 27 in Egitto e l'impunito omicidio di Giulio Regeni. «Andiamo lì - dice il ministro - e che facciamo? Facciamo finta di nulla. Per me questo è un grosso problema».
Oltre alle mosse americane gli egiziani hanno liberato Zaki dopo lo stop al processo ai funzionari dei servizi segreti del Cairo per il brutale omicidio deciso dalla Corte d'Assise a causa di cavilli legati alla notifica degli atti.
Il rischio adesso è che la liberazione di Zaki allontani sempre più qualsiasi spiraglio sul caso Regeni con al Sisi che pensa di avere fatto abbastanza. Non solo: lo studente egiziano è libero, ma con una spada di Damocle sulla testa. Il primo febbraio dovrà tornare in tribunale per la sentenza sulle accuse che lo hanno già tenuto in galera 688 giorni. All'Italia conviene mantenere, almeno per ora, un profilo basso sul suo caso e su Regeni.
Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”, il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace.
Fausto Biloslavo per “il Giornale” il 10 dicembre 2021. Patrick Zaki è libero, dopo 22 mesi, meno che a metà. Lo studente egiziano potrebbe tornare in carcere soprattutto se i media, la politica e i suoi fan non manterranno un rigoroso basso profilo, fino a quando non tornerà in Italia. Non solo: il silenzio tombale sul caso Regeni rischia di trasformarsi in definitivo epitaffio, ma giustamente la famiglia e la sua battagliera legale, pur felici per la liberazione di Zaki, non intendono fare buon viso a cattivo gioco. E oggi mamma Paola, papà Claudio e l'avvocato Alessandra Ballerini, in un evento pubblico a Genova, potrebbero non essere teneri con il governo e le mosse egiziane. Zaki è formalmente in libertà cautelare fino alla prossima udienza del 1° febbraio. Lo sa bene la stessa Amnesty international che si è battuta per la sua scarcerazione. E lo sa ancora meglio il governo e soprattutto l'ambasciata italiana al Cairo, guidata da Michele Quaroni, che segue la linea del «silenzio operativo». Non è un caso che l'ambasciatore non avrebbe preso contatti diretti con la famiglia Regeni. Il 1° febbraio è difficile che Zaki venga prosciolto dalle accuse con una conclusione a tarallucci e vino. Ben più probabile che per il reato «di diffusione di notizie false» si becchi una multa, che in Egitto significa praticamente la grazia oppure una pena equivalente ai 22 mesi già passati in carcere. I nostri servizi avevano informalmente lavorato in tal senso. Però il reato è punibile fino a cinque anni di carcere, una bella spada di Damocle sulla testa dello studente copto. Ed esiste anche una seconda fantomatica accusa, apparentemente sospesa, di «associazione terroristica», comune ai detenuti politici in Egitto, che prevede 12 anni di carcere. Mohamed Hazem, attivista e caro amico di Zaki, ha dichiarato ieri con chiarezza che «dobbiamo rimanere focalizzati sul processo, la battaglia non è ancora finita». Lo sanno bene le «amazzoni» che circondano lo studente egiziano dall'avvocato Hoda Nasrallah, alla sorella e fidanzata di Zaki. Proprio loro si sono prodigate per farlo parlare il meno possibile con la stampa italiana se non su banalità come la maglietta del Bologna calcio. Niente, ovviamente, sui maltrattamenti che avrebbe subito al momento dell'arresto. Una parola in più potrebbe costargli caro, ma non tutti in Italia vogliono rendersi conto della realtà egiziana. I rinnovati appelli da sinistra sulla cittadinanza auspicata dal Parlamento rendono la libertà di Zaki sempre più provvisoria. Sul fronte del caso Regeni l'attesa scarcerazione dello studente che frequentava l'università di Bologna rischia di favorire lo stallo. Il processo è fermo fino a quando l'ambasciatore Quaroni non trova il domicilio dei funzionari dei servizi egiziani imputati della morte di Giulio. Una missione praticamente impossibile. L'ipotesi di arbitrato internazionale, che allungherebbe i tempi, non è vista di buon occhio dai familiari. Alla spiacevole sensazione che gli egiziani abbiano mollato Zaki per non fare alcuna concessione su Regeni si aggiungono i paragoni con altri casi di serie B. Vicende giudiziarie che riguardano cittadini italiani, non egiziani, «prigionieri del silenzio», che non hanno la fortuna dei riflettori accesi come è avvenuto con il Cairo. Primo fra tutti Chico Forti, che secondo il ministro Luigi Di Maio, doveva tornare in Italia un anno fa dopo quasi un quarto di secolo in carcere negli Usa, forse innocente. Per non parlare delle tante, clamorose, vicende dimenticate fra i 2.024 detenuti italiani all'estero, che non sono prigionieri di al Sisi.
Zaki, la libertà pagata a caro prezzo. In cambio silenzio e lo stop su Regeni. Fausto Biloslavo il 10 Dicembre 2021 su Il Giornale. Chi tiene alle sorti dello studente sa che non ha senso esultare. E il caso dell'italiano ucciso potrebbe impantanarsi per sempre. Patrick Zaki è libero, dopo 22 mesi, meno che a metà. Lo studente egiziano potrebbe tornare in carcere soprattutto se i media, la politica e i suoi fan non manterranno un rigoroso basso profilo, fino a quando non tornerà in Italia. Non solo: il silenzio tombale sul caso Regeni rischia di trasformarsi in definitivo epitaffio, ma giustamente la famiglia e la sua battagliera legale, pur felici per la liberazione di Zaki, non intendono fare buon viso a cattivo gioco. E oggi mamma Paola, papà Claudio e l'avvocato Alessandra Ballerini, in un evento pubblico a Genova, potrebbero non essere teneri con il governo e le mosse egiziane.
Zaki è formalmente in libertà cautelare fino alla prossima udienza del 1° febbraio. Lo sa bene la stessa Amnesty international che si è battuta per la sua scarcerazione. E lo sa ancora meglio il governo e soprattutto l'ambasciata italiana al Cairo, guidata da Michele Quaroni, che segue la linea del «silenzio operativo». Non è un caso che l'ambasciatore non avrebbe preso contatti diretti con la famiglia Regeni.
Il 1° febbraio è difficile che Zaki venga prosciolto dalle accuse con una conclusione a tarallucci e vino. Ben più probabile che per il reato «di diffusione di notizie false» si becchi una multa, che in Egitto significa praticamente la grazia oppure una pena equivalente ai 22 mesi già passati in carcere. I nostri servizi avevano informalmente lavorato in tal senso. Però il reato è punibile fino a cinque anni di carcere, una bella spada di Damocle sulla testa dello studente copto. Ed esiste anche una seconda fantomatica accusa, apparentemente sospesa, di «associazione terroristica», comune ai detenuti politici in Egitto, che prevede 12 anni di carcere. Mohamed Hazem, attivista e caro amico di Zaki, ha dichiarato ieri con chiarezza che «dobbiamo rimanere focalizzati sul processo, la battaglia non è ancora finita». Lo sanno bene le «amazzoni» che circondano lo studente egiziano dall'avvocato Hoda Nasrallah, alla sorella e fidanzata di Zaki. Proprio loro si sono prodigate per farlo parlare il meno possibile con la stampa italiana se non su banalità come la maglietta del Bologna calcio. Niente, ovviamente, sui maltrattamenti che avrebbe subito al momento dell'arresto. Una parola in più potrebbe costargli caro, ma non tutti in Italia vogliono rendersi conto della realtà egiziana. I rinnovati appelli da sinistra sulla cittadinanza auspicata dal Parlamento rendono la libertà di Zaki sempre più provvisoria.
Sul fronte del caso Regeni l'attesa scarcerazione dello studente che frequentava l'università di Bologna rischia di favorire lo stallo. Il processo è fermo fino a quando l'ambasciatore Quaroni non trova il domicilio dei funzionari dei servizi egiziani imputati della morte di Giulio. Una missione praticamente impossibile. L'ipotesi di arbitrato internazionale, che allungherebbe i tempi, non è vista di buon occhio dai familiari.
Alla spiacevole sensazione che gli egiziani abbiano mollato Zaki per non fare alcuna concessione su Regeni si aggiungono i paragoni con altri casi di serie B. Vicende giudiziarie che riguardano cittadini italiani, non egiziani, «prigionieri del silenzio», che non hanno la fortuna dei riflettori accesi come è avvenuto con il Cairo. Primo fra tutti Chico Forti, che secondo il ministro Luigi Di Maio, doveva tornare in Italia un anno fa dopo quasi un quarto di secolo in carcere negli Usa, forse innocente. Per non parlare delle tante, clamorose, vicende dimenticate fra i 2.024 detenuti italiani all'estero, che non sono prigionieri di al Sisi.
Patrick Zaki, il primo politico seguito dopo il carcere? Foto clamorosa: trionfo nel centrodestra. Libero Quotidiano il 10 dicembre 2021. Patrick Zaki, finalmente scarcerato ma ancora sotto processo in Egitto, ha appena aperto un suo account su Twitter. Il suo primo messaggio è stato: "Libertà, libertà, libertà". Un concetto semplice ma forte allo stesso tempo. A corredo una foto in cui si mostra sorridente e con un'etichetta del Bologna calcio tra le mani. Lo studente, infatti, si trovava a Bologna prima di finire in carcere. Lì frequentava un master, dove adesso - come detto da lui stesso - spera di tornare. Impossibile non notare che per il momento Zaki segue solo due persone su Twitter. Uno è l'account ufficiale di Google. L'altro invece è il profilo di Antonio Tajani, ex presidente del Parlamento europeo e numero due di Forza Italia. Un riconoscimento non di poco conto per il partito di Silvio Berlusconi e, in generale, per tutto il centrodestra. I follower, invece, per il momento sono circa 600. Tanti i commenti sotto il suo primo post. "Torna preso in Italia, ti aspettiamo", ha scritto un utente. Un altro invece: "Bellissimo vederti sorridente e libero". Nonostante la scarcerazione, però, il 30enne non è ancora stato assolto dalle accuse di aver diffuso notizie false "dentro e fuori" il suo Paese d'origine. La prossima udienza, infatti, si terrà il primo febbraio 2022. Zaki è stato rinviato a giudizio alla fine della scorsa estate, ma la sua permanenza in carcere, da febbraio 2020, era stata rinnovata di volta in volta sulla base di ordinanze di custodia cautelare.Sapete come funziona la giustizia in Italia?"
Patrick Zaki, ecco l’articolo sui cristiani copti per cui l’Egitto accusa lo studente. Patrick Zaki su Il Corriere della Sera il 14 settembre 2021. L’incriminazione: «diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese». Pubblicato nel 2019 sul sito web Daraj, l’articolo è una sorta di diario delle persecuzioni cui sono sottoposti nel Paese musulmano i copti, minoranza a cui il giovane appartiene. Non passa un mese senza che si verifichino incresciosi atti di violenza contro i copti egiziani, dai tentativi di trasferimento forzato nell’alto Egitto fino ai sequestri di persona, chiusura delle chiese o attentati dinamitardi. Questo articolo si propone il semplice scopo di seguire gli avvenimenti di un’unica settimana, come annotati nei diari dei cristiani d’Egitto. Il primo giorno dell’ultimo Eid al-Fitr, l’Egitto è stato colpito da un gravissimo attacco terroristico che ha reclamato la vita di quattordici effettivi tra le forze armate e la polizia egiziana, di vario ordine e rango. Poiché non sono state menzionate vittime cristiane tra le reclute, siamo rimasti sorpresi nel ricevere la notizia di un funerale militare tenutosi nella cittadina natale di uno dei soldati cristiani, Abanoub Marzouk, proveniente da Bani Qurra, e dal centro di addestramento Qusiya di Assiut. Ho diffuso la notizia sul mio blog, nel quale chiedevo come mai si era taciuto il nome di Abanoub. Mi sono visto piombare addosso una valanga di critiche dagli utenti delle reti social, come pure da parte di certi giornalisti egiziani, i quali mi hanno confermato che cose del genere sono «normali», in quanto le forze armate non pubblicano mai i nomi delle vittime degli attacchi terroristici nel Sinai per motivi di sicurezza e per non deprimere il morale delle truppe stazionate in quei luoghi. Tutte queste pressioni mi hanno convinto a cancellare il mio post. Ho aggiunto che forse mi ero sbagliato e non si era trattato di un atto di discriminazione e ho chiesto scusa ai miei colleghi. Qualche ora più tardi, si è diffusa la notizia di scontri e violenze nella cittadina natale della recluta Abanoub Marzouk, poiché l’esercito voleva intitolare una scuola a suo nome e la popolazione locale si era violentemente opposta alla decisione, in quanto la recluta era «cristiana». I media egiziani si sono guardati bene dal far luce sulla vicenda, ma alcuni giornalisti e attivisti cristiani hanno sollevato obiezione. Nader Shukri, un reporter che tratta di affari cristiani in Egitto, ha scritto: «Il governatore della provincia ha consigliato a Abanoub Naheb, fratello della vittima, che se qualcuno lo invita a un matrimonio, e offre agli sposi dieci sterline, l’altro non vada in giro a dire che doveva offrirgliene cento. Questo in risposta al rifiuto del fratello di mettere il nome del martire su un ponte, che è un semplice attraversamento di un canale, «facendo inoltre notare che una targa del genere non è assolutamente indicata a onorare il sacrificio di un soldato morto in un attacco terroristico». Successivamente Ishaq Ibrahim, ricercatore presso l’Iniziativa egiziana per la tutela dei diritti della persona, ha commentato su Facebook: “Coloro che hanno rifiutato di dare il nome di Abanoub a una scuola non fanno parte né dei fratelli musulmani, né dei salafiti, né degli integralisti. Siamo coraggiosi e diciamo chiaramente che la decisione è stata presa da un funzionario dello stato per motivi discriminatori. Dare la colpa ai gruppi religiosi equivale a uno scaricabarile delle responsabilità». Per poi aggiungere: «Il governatore di Assiut, dopo aver criticato il funzionario per non aver dato il nome di Abanoub a una scuola, ha fatto sistemare una targa commemorativa su un ponticello della sua città natale, che scavalca un canale, malgrado l’opposizione della famiglia del defunto! Con questa soluzione, il governatore ha pensato da un lato di accontentare tutti, dando formalmente il nome della vittima a “qualcosa”, e dall’altro di scansare ogni seccatura che gliene verrebbe se avesse dato il nome a una scuola. Tra l’altro, il nome di ponti e strade nei piccoli centri non ha nessuna importanza, perché non viene nemmeno registrato nel piano urbanistico, né utilizzato dai residenti». Ibrahim ha rimarcato, nel suo post, l’assenza del ruolo dello stato e la totale indifferenza davanti al razzismo sistematico praticato dagli abitanti del luogo, mai affrontato dai funzionari statali, che hanno ceduto alle pressioni e non hanno intitolato una scuola alla giovane vittima. Il governo egiziano ha fatto prova di estrema passività in questa vicenda, rifiutandosi di adottare misure decisive per impedire la sistemazione della targa commemorativa di Abanoub Marzouk su un ponticello. Il governatore della provincia è intervenuto allora per risolvere il problema e ho scoperto che aveva dato il nome di Abanoub Marzouk a uno dei ponti in costruzione all’ingresso della cittadina natale della vittima. E così almeno uno, tra i tanti problemi che affliggono i cristiani d’Egitto, è stato risolto grazie a un «ponte»! Indagando sui modi più comuni per onorare ufficiali e militari morti in servizio, ho scoperto che il governo ha dedicato un certo numero di strade, scuole e piazze principali alla memoria delle vittime del Sinai, dal 2013 a oggi. Questo mi spinge a sollevare non poche domande su come il governo abbia gestito il caso di Abanoub Marzouk, la recluta cristiana, che i suoi concittadini hanno rifiutato di onorare intitolandogli una scuola, con il beneplacito del governatore, per timore dei militanti islamici più estremisti. Il figlio maschio eredita la quota di due figlie femmine, anche se sono cristiani! «Nella legge egiziana, non è stabilito da nessuna parte che al maschio spetti la quota di eredità di due femmine». È così che si è espresso il giudice, nella dichiarazione del tribunale, in risposta alla relazione pubblicata di recente dall’avvocata per i diritti umani Hoda Nasrallah. Dopo la morte del padre, Hoda ha deciso di proseguire la battaglia da sola, ma non a suo esclusivo beneficio, bensì a tutela di tutte le donne cristiane. Il terzo articolo della costituzione del 2014 dichiara che «i principi contenuti nelle sacre scritture dei cristiani e degli ebrei d’Egitto rappresentano la fonte legislativa principale nel dirimere ogni questione relativa al loro statuto personale, affari religiosi e la scelta dei loro capi spirituali». L’articolo 245 dell’Ordinamento copto ortodosso, varato nel 1938, afferma nel terzo capitolo, per quanto riguarda l’eredità e il diritto di ciascun erede, che «i discendenti diretti avranno la precedenza sugli altri familiari, pertanto riceveranno tutta l’eredità o quanto resta dopo aver attribuito la quota legale al marito o alla moglie. Nel caso di più eredi, con il medesimo grado di parentela, l’eredità verrà suddivisa tra di loro in parti uguali, senza alcuna differenza tra eredi maschi ed eredi femmine». Hoda ha respinto la proposta dei due fratelli, quando hanno chiesto che venisse seguito l’iter stabilito dalle autorità giudiziarie secondo la normativa vigente, promettendo tuttavia di suddividere successivamente l’eredità in parti uguali. Ma Hoda mirava a un obiettivo più alto, ben al di là del suo caso personale, e cioè all’introduzione di normative che in futuro avrebbero cancellato le ingiustizie patite dalle donne cristiane attraverso la legge egiziana sul diritto di famiglia, dalle questioni delle separazioni fino all’eredità. Molti maschi cristiani approfittano della legge egiziana che non riconosce i diritti dei cristiani nella normativa sull’eredità e si accaparrano più di quanto a loro spettante, grazie alle sentenze dei tribunali e all’esecuzione delle stesse. La legge pertanto diventa un ostacolo per tutte le donne, impedendo loro di accedere ai loro diritti, specie nel caso delle donne cristiane.
È una battaglia che si traduce in una forma di persecuzione contro le donne cristiane sotto la legge islamica, benché la religione cristiana non sottoscriva queste idee né tuttavia le abbia mai affrontate, né da vicino né da lontano: le ingiustizie della società patriarcale sono tendenzialmente sostenute e giustificate dalla legge.
«Non accettiamo la tua testimonianza perché sei un cristiano!»
Un post di questo tenore ha raggiunto una diffusione inverosimile su Facebook qualche settimana fa, e si riferisce a quanto accaduto al padre di un dottore, Mark Estefanos, coperto d’insulti in tribunale. Tutto ciò in seguito a lunga storia del padre, ingegnere e dipendente statale per 35 anni. Il padre doveva recarsi in tribunale per testimoniare in una vertenza riguardante un collega, ma il giudice ha respinto la testimonianza dell’ingegner Makarios perché cristiano. «Un copto non avrà mai nessuna autorità su un musulmano». Il padre e il figlio, dottore, sono rimasti sbalorditi, e quest’ultimo ha pubblicato un post per riferire che a causa di situazioni come queste sta pensando di lasciare l’Egitto, perché non gode degli stessi diritti dei suoi connazionali.
Questo problema fu sollevato per la prima volta nel 2008, quando Ahmed Shafiq, cittadino musulmano, chiese la testimonianza del suo vicino di casa cristiano, Sami Farag, in una questione ereditaria, caso 1824 del 2008, ma il tribunale di Shubra El-Kheima respinse le dichiarazioni di un cittadino cristiano, in quanto la sua testimonianza non era ritenuta ammissibile, sotto il profilo legale nonché religioso, contro un musulmano.
Il tribunale costrinse Shafiq a reperire un testimone musulmano. Per tornare alla costituzione… scopriamo che esiste una palese contraddizione sul diritto alla testimonianza e la sua normativa, visto che nel secondo articolo si dichiara che «l’Islam è la religione di stato, l’arabo la sua lingua ufficiale, e i principi della Sharia islamica sono alla base della legislazione», mentre l’articolo 53 recita che «i cittadini sono uguali davanti alla legge e godono di uguali diritti, libertà e doveri pubblici, e non esiste discriminazione tra di loro in base a fede religiosa, credenze, genere, origine, razza, colore, lingua, disabilità, classe sociale, appartenenza politica o geografica, o qualunque altra ragione. La discriminazione e l’incitamento all’odio costituiscono un crimine, punito dalla legge. Lo Stato ha l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie per eliminare ogni forma di discriminazione e a tal scopo la legge regola la nomina di una commissione indipendente». D’altro canto, la Sharia islamica respinge la testimonianza di un non musulmano in più di un testo. «Nel diritto in materia di assunzione di prove, non si trova nulla che faccia distinzione tra cristiani e musulmani e impedisca di accogliere la testimonianza di qualsiasi cittadino», con queste parole si è espresso l’avvocato Reda Bakir dell’Iniziativa egiziana per i diritti della persona. Facendo riferimento al diritto sull’assunzione delle prove, è chiaro che non esiste alcun articolo legale che imponga di respingere la testimonianza di un non musulmano.
Muhammad Hassan, ex avvocato dei diritti umani e ricercatore in campo giudiziario, tuttavia conferma: «Sono propenso all’applicazione della legge islamica per tutto ciò che riguarda questioni religiose incontestabili. Non si tratta di essere al di sopra della legge o altro. Ma l’esercizio dell’autorità è riservato ai musulmani, e l’Egitto è la patria dell’Islam, mentre il dhimmi (non musulmano) paga la jizya (tasse) per agevolare le sue istanze».
Basta questa semplice osservazione per spiegare quello che la comunità cristiana in Egitto è costretta a sopportare in una sola settimana! (Traduzione Rita Baldassare)
«Il calvario dei cristiani copti in Egitto», l’articolo per cui Zaki è incriminato. Da editorialedomani.it il 14 settembre 2021.
Pubblichiamo in versione integrale l’articolo di Patrick Zaki del 2019 per cui i pm egiziani accusano lo studente di diffusione di notizie false. «Questo articolo è un semplice tentativo di seguire gli eventi» scriveva Zaki. Traduzione di Monica Fava
Pubblichiamo in versione integrale l’articolo di Patrick Zaki del 2019 per cui i pubblici ministeri egiziani accusano lo studente di diffusione di notizie false. Patrick è in carcere da febbraio del 2020, il processo è partito il 14 settembre 2021. Traduzione di Monica Fava.
Non passa mese senza che si verifichino incidenti dolorosi contro i copti egiziani, dai tentativi di sfollamento nell’alto Egitto, ai rapimenti, alla chiusura di chiese o ad altri attentati. Questo articolo è un semplice tentativo di seguire gli eventi di una settimana della vita quotidiana di cristiani egiziani…
Non passa un mese per i cristiani in Egitto senza 8 o 10 incidenti dolorosi, dai tentativi di sfollarli nell’alto Egitto, ai rapimenti, alla chiusura di una chiesa o qualcosa che viene fatto saltare in aria, all’uccisione di un cristiano, la conclusione è sempre «disturbo mentale».
Questo articolo è un semplice tentativo di seguire gli eventi di una settimana dai diari dei cristiani d’Egitto, una settimana è sufficiente per rendersi conto della portata del calvario che vivono.
Il giorno seguente la fine dello scorso Ramadan, nella festa di Eid al-Fitr, l’Egitto è stato vittima di un enorme attacco terroristico che ha causato la morte di quattordici membri delle forze egiziane, di diversi ranghi della polizia e dell’esercito. Poiché non era stato fatto il nome di alcun soldato cristiano, ci ha sorpreso la notizia di un funerale militare nella città natale di uno dei soldati cristiani egiziani, Abanoub Marzouk del villaggio di Bani Qurra, affiliato al Centro Qusiya di Assiut.
UN POST
Ho scritto un post sul blog per chiedere le ragioni di questo blackout sul nome di Abanoub. Ho ricevuto una serie di attacchi da utenti di social network e anche da giornalisti egiziani che confermavano che queste cose sono “normali”, perché le forze armate non pubblicano i nomi di chi muore martire negli attentati terroristici in Sinai, per ragioni di sicurezza e per il morale delle truppe che si trovano là. Tutte queste pressioni mi hanno indotto a cancellare il post. Ho detto che forse mi ero sbagliato, che non era un atto di discriminazione, e mi sono scusato con i colleghi.
Alcune ore dopo, si è diffusa la notizia dell’insorgere di gravi problemi nel paese natale del soldato, Abanoub Marzouk, al cui nome le forze armate avevano deciso di intitolare una scuola: la gente della città si era opposta con decisione perché il soldato era un “cristiano”. I media egiziani non hanno fatto abbastanza luce sulla questione, ma diversi giornalisti e attivisti cristiani hanno espresso le loro obiezioni.
Nader Shukri, un giornalista che segue le vicende dei cristiani in Egitto, ha scritto: «Un governatore dice al fratello del martire Abanoub Naheh: “Se andassi a un matrimonio e regalassi agli sposi 10 sterline, non mi dire che avrei dovuto regalargli 100 sterline”. Questa è la sua risposta al rifiuto di un fratello del martire a farsi intitolare un ponte, quando si tratta solo di un passaggio sopra un canale”, sottolineando che quella dedica non è commisurata al valore di onorare un soldato caduto in un attentato terroristico.
Poi Ishaq Ibrahim, un ricercatore dell’Egyptian Initiative for Personal Rights, ha commentato su Facebook. “Quelli che hanno rifiutato di intitolare ad Abanoub una scuola non appartengono ai Fratelli musulmani, non sono salafiti, non sono estremisti o altro. Abbiate il coraggio di dire che è stato un pubblico funzionario che ha preso questa decisione lasciandosi influenzare dai suoi pregiudizi. Qualsiasi tentativo di addossare la colpa a gruppi religiosi è un modo per annacquare le proprie responsabilità”. Poi ha aggiunto: “Il governatorato di Assiut, dopo aver criticato la sua decisione di non intitolare al martire Abanoub una scuola, ha messo il suo nome accanto a un piccolo ponte sopra uno dei canali nel suo villaggio, nonostante i familiari del defunto si fossero opposti!! In questa maniera il governatorato ha voluto accontentare tutti: gli ha formalmente intitolato ‘qualcosa’ e, al tempo stesso, si è tirato fuori dalle polemiche nate dopo la decisione di dedicargli una scuola. Peraltro, i nomi dei ponti e delle strade nei villaggi non sono importanti, perché non sono registrati nei documenti ufficiali e spesso non sono utilizzati dalla gente comune”.
Nel suo post Ibrahim ha messo in evidenza l’assenza del ruolo dello stato e il condono del razzismo sistematico della gente del villaggio, che le autorità hanno deciso di non affrontare, cedendo alle pressioni e rinunciando all’idea di dedicare la scuola ad Abanoub.
IL GOVERNO EGIZIANO
Il governo egiziano non ha reagito e non ha preso alcuna nessuna misura decisa per impedire di intitolare la scuola ad Abanoub Marzouk, così è intervenuto il governatore a risolvere il problema. Quando ho cercato di capire in che modo il governatore avesse risolto problema, ho scoperto che aveva dedicato a Abanoub Marzouk il ponte in costruzione all’ingresso del villaggio. Insomma, il problema, come tutti i problemi dei cristiani in Egitto, è stato risolto con un “ponte”!
Quando abbiamo cercato come fosse stato reso omaggio ad altri ufficiali o altre reclute morti nello stesso attentato o in altri, abbiamo scoperto che il governo in generale ha dedicato un buon numero di strade, scuole e piazze frequentate a molti dei soldati che sono caduti in Sinai dall’inizio del 2013 a oggi. Questo ci spinge a fare domande sulle ragioni per cui il governo ha gestito in questo modo il caso di Abanoub Marzouk, il soldato cristiano a cui i compaesani hanno rifiutato di intitolare la scuola del villaggio, cosa che il governatore ha accettato temendo l’ira dei militanti.
Un uomo riceve un’eredità pari a quella di due donne, anche nel caso dei cristiani!
«Nel diritto egiziano non c’è questa cosa che un uomo riceve una quota di eredità pari a quella di due donne». Così ha stabilito un giudice e così dice la relazione del tribunale dopo la dichiarazione sull’eredità dell’avvocata per i diritti umani Huda Nasrallah (che oggi difende Zaki, ndr), di recente pubblicazione. Huda ha dichiarato che, dopo la morte del padre, ha deciso di combattere la sua battaglia da sola, ma non solo per sé, bensì in nome di tutte le donne cristiane.
Il terzo articolo della Costituzione del 2014 afferma che “i principi delle scritture dei cristiani e degli ebrei egiziani sono la fonte legislativa principale per regolare lo statuto personale, gli affari religiosi e la selezione delle guide spirituali”.
L’articolo 245 del Regolamento della Chiesa ortodossa copta, pubblicato nel 1938, afferma nel terzo capitolo, riguardo agli eredi e al diritto di ciascuno di loro all’eredità, che «i discendenti dell’erede hanno la priorità sugli altri parenti sull’eredità, pertanto ricevono tutta l’eredità o quello che ne resta dopo che il marito o la moglie hanno ricevuto la loro parte. Nel caso ci siano eredi multipli con lo stesso grado di parentela con il defunto, le proprietà saranno divise tra di loro in parti uguali, senza differenza fra uomini e donne».
Huda ha rifiutato la proposta dei suoi due fratelli, quando hanno chiesto che il processo si svolgesse nel modo solito in cui le autorità giudiziarie sono solite procedere e che la dichiarazione di eredità fosse ricevuta in qualsiasi forma, e poi l’eredità divisa tra loro in parti uguali. Hoda aveva un obiettivo più ambizioso, ben oltre il suo caso personale, e cioè di istituire provvedimenti che fossero applicati anche in seguito, per far fronte alle ingiustizie che subiscono le donne egiziane riguardo al diritto della persona, dai casi di separazione all’eredità. Molti cristiani uomini approfittano del fatto che i tribunali non riconoscono la religione cristiana nelle sue norme sull’eredità e prendono più di ciò che gli spetterebbe per diritto secondo la loro religione, perché lo ha ordinato il tribunale e devono rispettarlo. Di conseguenza la legge è diventata un ostacolo per le donne nell’ottenere i propri diritti, specialmente per le donne cristiane.
Questa battaglia dimostra una forma di persecuzione contro le donne cristiane in base al diritto islamico, anche se la religione cristiana non afferma questi concetti e non li ha affrontati, né da vicino né da lontano. Tuttavia, i mali della società patriarcale sono sostanzialmente supportati e giustificati dalla legge.
«Non accettiamo la sua deposizione perché è un cristiano!»
Questo post è stato diffuso ampiamente su Facebook qualche settimana fa e racconta che cosa è successo al padre del dottor Mark Estefanos e degli insulti che ha ricevuto in tribunale. Questo dopo una lunga vicenda del padre, un ingegnere che ha lavorato in un’istituzione pubblica per 35 anni. Il padre doveva presentarsi in tribunale per testimoniare di fronte al giudice su un caso riguardante un collega, ma il giudice ha rifiutato la deposizione dell’ingegner Makarios perché cristiano. «Non c’è tutela legale per un copto rispetto a un musulmano». Il padre e suo figlio, un medico, sono rimasti estremamente turbati e quest’ultimo ha pubblicato il post, sottolineando che episodi così lo inducono sempre a pensare di andarsene dall’Egitto, perché non gode degli stessi diritti degli altri.
Il problema è stato sollevato per la prima volta nel 2008, quando Ahmed Shafiq, un cittadino musulmano, richiese la testimonianza del suo vicino cristiano, Sami Farag, nel caso di dichiarazione d’eredità 1824/2008, ma il tribunale di Shubra el-Kheima rifiutò la deposizione di un cittadino cristiano adducendo il motivo che la deposizione di un cristiano non era legalmente/religiosamente consentita contro un musulmano. Il tribunale obbligò Shafiq a portare un testimone musulmano.
Tornando alla costituzione...
C’è una chiara incoerenza sul diritto a testimoniare e la sua applicazione, poichè il secondo articolo afferma che «l’islam è la religione di stato, l’arabo è la lingua ufficiale e i principi della shari’a islamica sono la principale fonte legislativa».
L’articolo 53 afferma che «i cittadini sono uguali di fronte alla legge e hanno gli stessi diritti, libertà e doveri pubblici, non c’è discriminazione fra di essi sulla base della religione, delle convinzioni, del genere, dell’origine, della razza, del colore, della lingua, della disabilità, della condizione sociale, dell’affiliazione politica o geografica, o di qualsiasi altra ragione. La discriminazione e l’incitamento all’odio costituiscono un reato perseguibile dalla legge. Lo stato è obbligato a prendere le misure necessarie per eliminare tutte le forme di discriminazione e la legge regola l’istituzione di una commissione indipendente a tale scopo».
D’altro canto, la shari’a in più di un testo non accetta la deposizione di un non musulmano. «Non c’è nulla nel diritto procedurale che distingua fra cristiani e musulmani e impedisca di accettare la deposizione di un qualsiasi cittadino», ha dichiarato l’avvocato Reda Bakir dell’Egyptian Initiative for Personal Rights. Facendo riferimento al diritto procedurale è già evidente che non esiste nessuna disposizione di legge che impedisca di accettare la testimonianza di un non musulmano.
Muhammad Hassan, un ex avvocato per i diritti umani e ricercatore giuridico, ha confermato: «Sono incline alla legge islamica in questioni relative a costanti religiose che non sono in discussione. Non si tratta di legge o cose del genere. La tutela è nella casa dei musulmani, dato che l’Egitto è dimora dell’Islam e il dhimmi (non-musulmano) paga le jizya (tasse) per facilitare i suoi affari».
Questa era una semplice osservazione di quello che può succedere alla comunità cristiana in Egitto solo in una settimana!
Il cuore antico del cristianesimo in Medio Oriente. Mauro Indelicato su Inside Over il 7 dicembre 2021. “Nel mondo milioni di cristiani continuano a vivere emarginati, in povertà, ma soprattutto discriminati e in pericolo. Dopo due anni di pandemia vogliamo tenere acceso un faro su questa oppressione e aiutare Aiuto alla Chiesa che Soffre Onlus a portare conforto e sostegno ai fedeli di tutto il mondo: in particolare coloro che vivono in Libano, Siria e India“. Il Libano, rispetto ai vicini arabi, ha una particolarità: è l’unico Paese del mondo arabo ad essere a maggioranza cristiana. O almeno così era fino all’immediato secondo dopoguerra. L’afflusso di profughi palestinesi prima e siriani poi, ha rivoluzionato il mosaico demografico. Tuttavia la presenza di cristiani è ancora molto significativa. I censimenti nel Paese dei cedri si fanno oramai a bassa voce, non esistono statistiche ufficiali, ma la comunità dovrebbe rappresentare circa il 40% della popolazione. Ed è questo il dato principale. Perché dona al Libano, quando si parla di cristianità in medio oriente, un ruolo politico, storico e sociale fondamentale.
Il ruolo dei maroniti
La diffusione del cristianesimo nell’area libanese la si deve soprattutto alla Chiesa cosiddetta “maronita“, sviluppatasi intorno al V secolo. Il suo nome deriva dal fondatore San Marone, un asceta vissuto in Siria e morto nel 452. I suoi discepoli hanno dato vita a una comunità che nel corso dei decenni ha considerato l’odierno Libano come sua base principale. Inizialmente la chiesa maronita ha seguito il Patriarca di Antiochia. Successivamente si è dotata di maggiore autonoma, pur rimanendo comunque all’interno dell’alveo romano. I maroniti infatti hanno sempre riconosciuto l’autorità papale. Dunque oggi è possibile considerare la Chiesa maronita come pienamente organica alla Chiesa cattolica. Una sorta di “dualismo identitario” sancito ufficialmente nel sinodo maronita nel 2004. Qui i vescovi maroniti hanno approvato i cinque elementi distintivi della comunità. Gli ultimi due riguardano proprio la fedeltà alla Cattedra di San Pietro e il suo radicamento nella storia del Libano. Per questo ancora oggi sono proprio i maroniti a costituire il numero più rappresentativo dei fedeli cristiani nel Paese. Una circostanza ben rintracciabile a livello politico. Quando nel 1943 il Libano ha optato per l’indipendenza dalla Francia, è stato stilato un “patto nazionale“, valevole ancora oggi, con il quale si è sancita la divisione delle più importanti cariche politiche. Ai cristiano maroniti è stata affidata la nomina del presidente della Repubblica. Da allora fino ad oggi i capi di Stato libanesi sono sempre stati maroniti. L’afflusso di profughi dalla Palestina dopo la prima guerra arabo-israeliana del 1948 ha determinato non poche tensioni. Gli equilibri tra le varie comunità etniche e religiose in Libano sono stati messi pesantemente in discussione. L’ingresso dell’Olp, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, i disagi economici avvertiti dalla popolazione sciita e i timori dei maroniti di perdere la maggioranza, hanno esasperato il clima. Tutto questo ha portato al periodo più buio della storia recente libanese, culminato con la grande crisi del 1958 e la guerra civile iniziata nel 1975. A livello politico, i partiti rappresentanti i maroniti sono confluiti nelle Falangi e nelle Forze Libanesi, queste ultime vere e proprie milizie sciolte poi soltanto negli anni ’90. In questa fase la sicurezza è rimasta precaria per tutti i vari cittadini libanesi, tanto cristiani quanto musulmani. Le ferite aperte durante il conflitto ancora oggi non sono state del tutto rimarginate.
I cristiani nel Libano di oggi
Quella maronita non è comunque l’unica comunità cristiana libanese. Fino al 1932 il 10% della popolazione professava la religione ortodossa. Una percentuale oggi inferiore e non meglio precisata. Gli ortodossi libanesi in gran parte appartengono alla comunità greco-ortodossa. Sono presenti, con percentuali inferiori al 10%, i cattolici romani e in minor misura i cattolici di rito armeno. Poco meno del 2% invece appartiene alla famiglia protestante. Più o meno tutte le varie comunità cristiane sono rappresentate da partiti politici. I maroniti hanno come riferimento soprattutto le Falangi e le Forze Libanesi, ma dal 2005 sulla scena parlamentare si è affacciato anche il Movimento Patriottico Libero di Michel Aoun, attuale presidente della Repubblica. In parlamento sono presenti anche membri di partiti armeni e indipendenti appartenenti alle altre confessioni cristiane. Il punto di equilibrio, in un sistema che privilegia la suddivisione su base settaria degli incarichi, è stato raggiunto con gli accordi di Taif del 1989. Con quel documento, che ha sancito la fine della guerra civile, ai cristiani è stata riservata la metà dei seggi in parlamento, mentre l’altra metà è suddivisa tra sciiti, sunniti e drusi. Un compromesso che, unito alla conferma dell’attribuzione ai maroniti del ruolo di presidente della Repubblica, ha contribuito a far diminuire le tensioni. Ma i problemi non mancano. I cristiani, al pari del resto della popolazione, stanno patendo gli effetti di una lunga e deleteria crisi economica. Oggi a Beirut e in tutte le altre principali città del Paese, i principali servizi sono a rischio: manca il carburante, l’elettricità viene erogata per poche ore al giorno, il prezzo dei beni di prima necessità è alle stelle. Crisi politiche e mancanza di riforme hanno lasciato sul lastrico il Libano e questo, tra le altre cose, sta facendo sorgere il timore di nuovi scontri tra le varie comunità. I cristiani libanesi hanno quindi due sfide davanti a loro. Da un lato respingere le tensioni e, dall’altro, contribuire alla rinascita del Paese dei cedri. Obiettivi non semplici, anche considerato il mai domato spettro del terrorismo jihadista.
Da rainews.it il 3 aprile 2021. Lo ha annunciato il generale Ossama Rabei, capo dell'authority che gestisce il canale, precisando che all'imbarcazione e al suo carico non sarà permesso lasciare l'Egitto se la questione dei danni verrà portata in tribunale. In un'intervista telefonica durante un talk show televisivo, Rabei ha riferito che l'importo tiene conto dell'operazione di salvataggio, dei costi del traffico bloccato e delle tasse di transito perse per la settimana. "È un diritto del Paese", ha detto Rabei, senza specificare chi dovrebbe pagare il risarcimento. Nel frattempo è ripresa la navigazione nel canale di Suez. L'enorme nave da carico si trova attualmente in uno dei laghi di contenimento del canale, dove sono in corso le indagini per ricostruire la dinamica dell'incidente. Giovedì, i responsabili tecnici della nave, Bernard Schulte Shipmanagement, hanno riferito in una e-mail all'Associated Press che l'equipaggio sta collaborando con le autorità nell'inchiesta che deve chiarire il motivo per il quale la portacontainer si è arenata. Gli investigatori dell'authority del Canale di Suez hanno avuto accesso al Voyage Data Recorder, la scatola nera della nave. Rabei dal canto suo ha fatto sapere che se l'indagine andrà a buon fine e il risarcimento verrà pagato, la nave potrà viaggiare senza problemi. Tuttavia, se la questione del risarcimento sfociasse in un contenzioso, allora l'Ever Given e il suo carico di circa 3,5 miliardi di dollari non sarebbero autorizzati a lasciare l'Egitto. Il contenzioso sarebbe complesso, considerato che la nave è di proprietà di una società giapponese, gestita da uno shipper taiwanese e batte bandiera panamense. La nave è stata disincagliata lunedì grazie alle operazioni condotte da una serie di rimorchiatori e con l'aiuto dell'alta marea, da allora il blocco del traffico marittimo nel Canale di Suez, causato dall'incagliamento, ha continuato ad attenuarsi, con il numero di navi in attesa di transito che è sceso a 206 unità. La società Leth Agencies, che gestisce il canale, ha affermato che, da quando la portacontainer è stata liberata, Suez è stato attraversato da 357 navi.
Da tgcom24.mediaset.it il 27 marzo 2021. L'Authority del Canale di Suez ha annunciato la fine delle operazioni di dragaggio e l'inizio delle manovre di rimorchio del portacontainer Ever Given che da martedì blocca l'importante collegamento marittimo tra Asia ed Europa. La stessa Authority ha però avvertito che si tratta di una procedura complessa che prevede vari tentativi, che potrebbero anche andare a vuoto. L'aiuto degli Stati Uniti- Intanto la marina degli Stati Uniti si è detta disponibile a contribuire alle operazioni e valuta di inviare una squadra di esperti per consigliare le autorità locali. "Abbiamo offerto l'assistenza degli Stati Uniti alle autorità egiziane per aiutare a riaprire il canale", affermano funzionari Usa. "Ci stiamo consultando con i nostri partner egiziani su come possiamo sostenere al meglio i loro sforzi". La portavoce della Casa Bianca Jen Psaki ha riferito che gli Stati Uniti hanno ufficialmente offerto la loro assistenza alle autorità egiziane. Psaki ha detto che le conversazioni con i funzionari egiziani sono "in corso" e ha confermato che la Casa Bianca "sta monitorando la situazione da vicino".
Dailymail.com il 27 marzo 2021. Fermi tutti! Ma quali ‘forti venti”, potrebbero esserci stati "errori tecnici o umani" che hanno portato la nave cargo Ever Given ad arenarsi contro le rive del Canale di Suez. Lo afferma Osama Rabie, capo dell'Autorità egiziana del Canale di Suez, che ha confermato che "i forti venti e i fattori meteorologici non erano le ragioni principali" per l'affondamento della nave nell'affollato canale, avvenuto cinque giorni fa. Un video di Vessel Finder ricrea l'incidente utilizzando il tracker di bordo della nave e mostra il momento in cui ha virato a sinistra prima di andare improvvisamente a dritta e colpire le sponde. Due tentativi per rimuovere la nave portacontainer lunga 400 metri - e riaprire la rotta commerciale che facilita il 12% delle spedizioni internazionali - saranno effettuati oggi dopo che gli sforzi di ieri sono falliti. La nave battente bandiera di Panama, lunga quanto l'Empire State Building, si è arenata a circa 6 km a nord dell'ingresso meridionale, vicino alla città di Suez, e ha causato una coda di circa 280 navi. Navi che sembrano fare affidamento sulla liberazione del cargo nave e stanno ancorando fuori dalla Suez piuttosto che girare intorno al Capo di Buona Speranza - il che potrebbe aggiungere 14 giorni e 5.000 miglia nautiche al viaggio, col rischio di esporli alla pirateria. I lavoratori del canale stanno tentando di estrarre la sabbia intorno alla prua della nave che è incastonata nella parete orientale del canale e potrebbe dover scavare decine di metri per consentire alla nave di galleggiare. Nel frattempo rimorchiatori e draghe stanno lavorando nella parte posteriore della nave per liberare la poppa contro la parete occidentale. Se questi sforzi falliscono, dovranno intervenire gru specializzate per aiutare a rimuovere parte del carico, con container che pesano fino a 33 tonnellate ciascuno. Non solo: si preparano piani per pompare acqua dagli spazi interni della nave per alleggerire il carico, e domenica dovrebbero arrivare altri due rimorchiatori per unirsi ad altri che stanno già cercando di spostare l'enorme nave. Un funzionario dell'Autorità del Canale di Suez ha comunicato del progetto di fare almeno due tentativi oggi per liberare la nave quando la marea cala. Secondo la società giapponese Shoei Kisen KK, proprietaria della nave portacontainer, almeno 10 rimorchiatori sono già stati schierati per aiutare a rimettere a galla la nave. Intanto, dalla Casa Bianca, Joe Biden, ieri ha detto: "Abbiamo attrezzature e capacità che la maggior parte dei paesi non ha e stiamo vedendo cosa possiamo fare e quale aiuto possiamo essere". Il fatto che la Casa Bianca sia pronta al soccorso sottolinea quanto sia essenziale il Canale di Suez per il buon funzionamento del commercio globale. Aziende e governi stanno già avvertendo ritardi per le merci in arrivo dall'Asia. Ikea ha avvertito di ritardi nelle forniture, che interesseranno principalmente le merci dall'Asia, come elettricità e mobili. Gli analisti affermano che ogni ora in cui la nave rimane incuneata sul canale ha un costo per stimato di 290 milioni di sterline. Una chiusura prolungata del corso d'acqua è particolarmente cruciale per il trasporto del petrolio e gas in Europa dal Medio Oriente. Si teme che merci come lavatrici, parti di automobili e giocattoli che vengono comunemente importati dalla Cina e altri partner commerciali asiatici potrebbero scarseggiare poiché le navi da carico destinate all'Europa rimangono bloccate nel canale di Suez. Prevedendo lunghi ritardi, i proprietari della nave bloccata hanno invece dirottato una nave gemella, la Ever Greet, su una rotta intorno all'Africa. Anche altri cargo vengono deviati. Il vettore di gas naturale liquido Pan Americas ha cambiato rotta nel medio Atlantico, ora punta a sud per aggirare la punta meridionale dell'Africa, secondo i dati satellitari di MarineTraffic.com. La Quinta Flotta della Marina degli Stati Uniti, che opera nel Mar Rosso, è stata contattata negli ultimi due giorni da un certo numero di compagnie di navigazione, temendo di poter essere attaccate. Zhao Qing-feng, responsabile dell'ufficio dell'Associazione degli armatori cinesi a Shanghai, ha dichiarato al Financial Times che le navi che scelgono di percorrere la rotta africana dovranno assumere personale di sicurezza aggiuntivo per garantire che siano al sicuro. Nel frattempo Willy Lin, presidente del Consiglio dei caricatori di Hong Kong, ha detto che una coalizione internazionale di navi da guerra navali potrebbe dover essere coinvolta per proteggere le navi da carico se la crisi si trascina. La Ever Given, costruita nel 2018 con una lunghezza di quasi 400 metri e una larghezza di 60 metri, è tra le più grandi navi da carico del mondo. Può trasportare circa 20.000 container alla volta. In precedenza era stato nei porti della Cina prima di dirigersi verso Rotterdam nei Paesi Bassi.
Cristiano Tinazzi per "Il Messaggero" il 31 marzo 2021. Dopo sei giorni di attesa, la nave Ever Given è stata liberata. Il traffico nel canale di Suez è finalmente ripreso. In coda, per passare nel canale, si sono accumulate più di quattrocento navi e ci vorranno giorni per smaltire il passaggio di tutte le imbarcazioni e riportare alla normalità il traffico navale. Un incidente che ha tenuto con il fiato sospeso il mondo intero, a causa delle sue ripercussioni sulla catena globale degli approvvigionamenti energetici e commerciali. Un blocco che è costato quasi dieci miliardi di dollari al giorno. Poco prima del disincagliamento della portacontainer, l'agenzia di rating Fitch aveva prospettato danni per centinaia di milioni di euro per le compagnie di riassicurazione. La svolta è avvenuta poco dopo le tre del pomeriggio, quando il cargo battente bandiera panamense è tornato a navigare. Già nella notte il portacontainer era stato raddrizzato per l'ottanta per cento grazie al lavoro di tredici rimorchiatori, col contributo anche del rimorchiatore italiano di altura Carlo Magno, che ha lavorato tirando la poppa. Ma la parte più problematica era sbloccare la prua, come rilevato uno degli esperti intervenuto sul posto, Peter Berdowski, direttore esecutivo della Royal Boskalis, casa madre di Smit Salvage, alla radio pubblica olandese. Per rimettere in navigazione il portacontainer della classe megaship è stato necessario dragare in questi giorni trentamila tonnellate di sabbia dal fondo del canale. Il capitano della portacontainer e i venticinque membri indiani dell'equipaggio intanto rischiano gli arresti domiciliari e accuse penali. «C'è un pericolo evidente che l'equipaggio della nave venga usato come capro espiatorio», ha detto il capitano Sanjay Prashar, membro del National Shipping Board (Nsb), al Times of India. «Prima di tutto è necessario accertare le cause che hanno portato la gigantesca nave ad arenarsi», ha affermato Prashar, aggiungendo che «per verificare i fatti è necessario ascoltare ed esaminare le registrazioni delle conversazioni fatte durante il viaggio della nave e così si può arrivare a capire che cosa abbia causato l'intoppo». Dopo l'annuncio della ripresa della navigazione, il capo dell'Authority del Canale di Suez, l'ammiraglio Osama Rabie, ha previsto che ci vorranno circa tre giorni e mezzo per smaltire tutto il traffico nel canale. Le perdite da parte egiziana per mancati pedaggi sono dai dodici ai quindici milioni di dollari, ha confermato Rabie, il quale ha sottolineato come l'incidente abbia «messo in luce l'importanza del canale». La portacontainer si è poi diretta con i propri motori verso in un bacino interno allo stretto per essere sottoposta a una revisione tecnica. In tono trionfalistico, è intervenuto anche il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, recatosi in visita a Suez dopo il disincaglio della Ever Given: «Sono qui per lanciare un messaggio attraverso i media e dire che il canale di Suez è potente e in grado di assumersi la responsabilità del commercio internazionale». Al-Sisi ha celebrato «l'enorme complessità tecnica» dell'impresa ricordando, con toni nazionalistici, che gli egiziani «hanno scavato il canale con i corpi dei loro antenati e lo hanno difeso con le anime dei loro padri nella guerra dei sei giorni del 1967». Retorica nazionalista vecchio stile che in Egitto ha ancora un certo effetto su parte della popolazione. Le reazioni sui social media a proposito della crisi di Suez, definita un calvario, per al-Sisi sono state «una dimostrazione di quanto gli egiziani amino il loro Paese». Il presidente egiziano ha infine ringraziato «gli amici dell'Egitto del Golfo e nel mondo per aver offerto sinceramente la loro assistenza e per aver contribuito a risolvere in tempi record e con il numero minimo possibile di perdite la crisi del Canale di Suez». Dopo la notizia della riapertura del canale sono migliorate le principali borse europee, nonostante le notizie sulla pandemia, e il petrolio è sceso dello 0,5%, attestandosi a 60,6 dollari al barile.
La crisi di Suez dimostra il fallimento delle grandi opere promesse da al-Sisi. Giuseppe Acconcia su Notizie.it il 29/03/2021. Lo stop al commercio globale potrebbe aprire il vaso di Pandora delle mille contraddizioni di un presidente che impoverisce il suo popolo in nome della salvaguardia della propria immagine. Dopo il colpo di stato militare del 2013, l’Egitto era stato definito da molti capi di stato un modello di stabilità per il Nord Africa e il Medio Oriente. Tutto sembrava andare in questa direzione quando nell’agosto del 2015 venne inaugurata un’estensione di appena 35 km del Canale di Suez. Sembrava che l’esercito egiziano volesse confermare la sua immagine di modernizzatore del Paese. L’opera è stata conclusa a tempo di record in poco più di un anno. Eppure a distanza di sei anni il Canale di Suez è stato chiuso per una settimana a partire dallo scorso martedì, il cargo portacontainer Ever Given di 400 metri è stato a fatica liberato e si è creato un enorme ingorgo che ha bloccato le 370 navi in transito. Le operazioni vanno avanti mentre si stima che le perdite ammontino a circa 9,6 miliardi di dollari al giorno. Eppure, nonostante progetti faraonici di città satellite e per attrarre investimenti esteri, gli egiziani continuano ad impoverirsi.
Il Canale di Suez da Nasser ad al-Sisi. Il Canale originale, nazionalizzato dal presidente egiziano Gamal Abdel Nasser nel 1956, era lungo 193 chilometri, 80 dei quali già a doppia corsia (una bretella di 53 chilometri è stata aggiunta nel 1980). Con l’estensione del Canale, inaugurato il 6 agosto 2015 alla presenza del presidente francese François Hollande e del premier russo Dimitry Medvedev, si è passati a 115, 5 chilometri percorribili nei due sensi. In altre parole cargo e navi mercantili possono raggiungere i porti della Gran Bretagna partendo dai Paesi del Golfo in 14 giorni anziché 24. Non solo, si sono accorciati i tempi di attesa per le navi dirette in Europa: da undici passano a tre ore. Si riducono anche i tempi di attraversamento del Canale (da 18 a 11 ore). Secondo i piani, si sarebbe dovuti passare così dalle 49 navi al giorno che attraversavano Suez a 97. Al momento dell’estensione nel 2015, il Canale controllava il 19% (240 mila tonnellate di merci) dei traffici marittimi mondiali e la sua centralità è continuata ad andare crescendo esponenzialmente dal 2000 in avanti. Eppure, l’opera, costata 8 miliardi di dollari, ha accresciuto i profitti del Canale di Suez di appena il 4,7% tra il 2015 e il 2019, ben al di sotto dei 100 miliardi all’anno annunciati alla vigilia. Molti analisti critici nei confronti del progetto di estensione del Canale di Suez avevano sottolineato che gli effetti sull’economia egiziana in seguito alla realizzazione dell’opera sarebbero stati minimi. Non solo, i lavori per l’estensione del Canale hanno fatto registrare un impatto ecologico consistente. Non sono stati disposti studi sufficienti per l’impatto ambientale dell’opera. 1500 case sono state rase al suolo per la costruzione dei cantieri. Cinquemila abitazioni sono state distrutte lungo lo scavo. Gli abitanti di Ismailia hanno denunciato di non aver ricevuto nessuna compensazione per aver perso la loro casa. Durante i lavori gli ingegneri hanno riscontrato quantità eccessive di acqua da drenare che hanno fatto temere per la stabilità dell’opera. In più, al-Sisi aveva promesso per la realizzazione della bretella la creazione di «un milione di posti di lavoro». Eppure l’opera non ha inciso sugli alti tassi di disoccupazione giovanile che restano preoccupanti per il Paese.
Gli sforzi per le grandi opere di al-Sisi. Secondo i piani entro la fine del 2019 dovevano essere terminati anche i lavori per la realizzazione della città satellite del Cairo, centro amministrativo del paese. Tra i progetti realizzati c’è una delle torri più alte in Africa, con i suoi 350 metri. Sono state realizzate qui ampie zone residenziali e imponenti centri commerciali. A lavori terminati, la città ospiterà un totale di 5 milioni di abitanti potenziali. Tra i finanziatori dei lavori c’è anche Mohammed Alabbar, uno degli emiri che ha realizzato con ingenti investimenti i lavori di costruzione di imponenti grattacieli a Dubai. Nei primi anni di presidenza al-Sisi, sono stati numerosi i segnali positivi in termini di investimenti esteri in Egitto al tempo della presidenza di Donald Trump. Un esempio concreto è venuto da grandi imprese statunitensi ed europee che sono tornate a fare affari in Egitto. Per esempio, il consigliere di amministrazione di Visa, Alfred Kelly, ha realizzato nuovi investimenti nel Paese in seguito ai risultati ottenuti in tema di digitalizzazione dell’economia. Kelly ha anche salutato positivamente l’obiettivo promosso dalle autorità egiziane nel favorire i pagamenti digitali. Il Cairo ha puntato così ad attrarre nuovi investimenti dopo i contratti da oltre 8 miliardi di dollari siglati nella visita di al-Sisi in Francia nel 2015 con imprenditori francesi. A quota 8,5 miliardi di dollari ammontavano gli accordi commerciali conclusi con l’Italia nella visita a Roma e Milano del premier egiziano Ibrahim Mahleb nel luglio 2014. Il Golfo di Suez, insieme al Mediterraneo orientale e al Delta del Nilo, è l’area dove sono cresciuti di più gli investimenti esteri per lo sviluppo di giacimenti nel mercato petrolifero egiziano. Non solo, la realizzazione di quest’opera, in una regione colpita da grave instabilità politica com’è il Sinai, ha anche permesso al Cairo di puntare di più sulla produzione di gas: grazie alla gestione del Canale di Suez e della Suez-Med Pipeline. Dopo gli attacchi jihadisti ai gasdotti nel Sinai e lo stop all’esportazione di gas verso Israele e Giordania (2012), le imprese energetiche Usa (Noble) e l’israeliana Delek guardano sempre di più al mercato energetico egiziano per le loro esportazioni.
L’economia egiziana è al collasso. Eppure, nonostante gli annunci e l’avvio delle grandi opere, l’economia egiziana è al collasso. Mentre al-Sisi è stato impegnato a ricostruire la sua immagine all’estero e a tagliare la spesa pubblica per ottenere le tre tranche di prestito di 12 miliardi di dollari del Fondo monetario internazionale (FMI), povertà e disuguaglianze in Egitto non hanno accennato a diminuire. E così nel 2015, al-Sisi ha chiesto al mondo tra i 200 e i 300 miliardi di dollari per lo sviluppo del Paese. Eppure, tra il 2015 e il 2019, il presidente egiziano ha fatto crescere il debito pubblico investendo 200 miliardi di dollari in mega progetti infrastrutturali. Ha radicato nuove forme di capitalismo di Stato, guidato dall’élite militare, e fondato sull’appropriazione di fondi pubblici, la proprietà in mano ai militari delle principali aziende del paese (dalla produzione del latte e dei frigoriferi fino ai grandi resort turistici) e politiche di austerità, inclusi tagli ai sussidi sul pane e le bollette dell’elettricità. La politica economica di al-Sisi ha prodotto il deprezzamento della lira egiziana del 50% rispetto al dollaro, alti tassi di inflazione e la crescita dei tassi di povertà in un paese dove già un terzo delle persone vive con meno di un dollaro al giorno. Lo scorso novembre la Banca mondiale ha pubblicato un report secondo il quale il debito pubblico egiziano avrebbe raggiunto il 96% del Pil nel 2020-2021, nel 2013 era all’87%. Non solo, lo scorso maggio, l’Egitto ha emesso 5 miliardi di dollari in eurobond, seguiti da 3,75 nel mese di marzo 2021, si tratta della maggiore emissione nella storia del paese. I problemi non riguardano solo l’aumento dei prezzi e il debito pubblico, la crescita economica tra il 2015 e il 2019 (4,8%) è stata inferiore alla media degli ultimi anni di presidenza Mubarak. La crescita al di sotto delle aspettative riguarda anche il settore non petrolifero, confermando che l’aumento della povertà sta facendo diminuire il livello di consumi nel Paese. Non si sono fermati neppure gli scioperi e le mobilitazioni degli operai. Quattromila operai dell’ Egyptian Iron e Steel Company , impegnata in mega progetti voluti dal presidente al-Sisi, hanno avviato un sit-in di protesta lo scorso 17 gennaio contro la liquidazione della fabbrica. Simili proteste hanno avuto luogo nel dicembre 2020 da parte dei lavoratori delle fabbriche tessili di Kafr al-Dawar preoccupati della possibile liquidazione dell’impianto che resterà fermo almeno per i prossimi nove mesi. L’incapacità di al-Sisi nella gestione economica dopo il suo insediamento in seguito al colpo di stato del 3 luglio 2013 è stata messa a dura prova dalla crisi del Canale di Suez. Lo stop al commercio globale potrebbe aprire finalmente il vaso di Pandora delle mille contraddizioni di un presidente che in nome della salvaguardia della sua immagine e di quella dell’esercito, di una millantata stabilità politica sinonimo di repressione permanente, sta impoverendo il suo popolo e esacerbando le carenze infrastrutturali del Paese.
Come ha fatto l'Egitto a passare dalla primavera Araba alla repressione di al-Sisi. Piazza Tahrir al Cairo è stata il simbolo del movimento di democratizzazione che ha interessato nord-Africa e medio Oriente dieci anni fa. Ma quel sogno è morto presto, lasciando spazio alla dittatura militare. Federica Bianchi su L'Espresso il 2 febbraio 2021. A dieci anni dalla Primavera araba, suo tentativo di risveglio, l’Egitto è ormai sprofondato in un lungo inverno dittatoriale che ha permanentemente congelato ogni anelito di democrazia. L’esercito non soltanto ha ripreso il controllo del Paese con astuzia nel 2013 ma, complice un Occidente, dagli Usa alla Francia, più interessato alla stabilità della regione che ai diritti dei suoi cittadini, negli ultimi anni Il Cairo non ha sentito il bisogno di sbandierare o fingere un sostegno popolare per esercitare il potere assoluto. Ogni opposizione è stata definitivamente stroncata senza nessuna concreta obiezione. L’Egitto del generale Abdel Fattah al-Sisi ospita nelle sue carceri oltre 60mila prigionieri politici, negli ultimi due mesi del 2020 ha eseguito 57 pene capitali (il doppio rispetto a tutto l’anno precedente) e occupa il 166esimo posto su 180 in termini di libertà di stampa. Appena salito al potere nel 2013, al-Sisi non solo massacrò durante la prima protesta 800 oppositori politici ma impose subito nuove leggi per impedire ogni futura protesta; poi nel 2015 impose una legislazione anti-terrorismo che lascia all’esercito arbitrio assoluto; nel 2017 varò una legge per privare della cittadinanza gli egiziani residenti all’estero (se ritenuti pericolosi per lo Stato) e nel 2018 passò una norma anti-terrorismo cibernetico per impedire ogni aggregazione in rete. D’altronde la rivoluzione del 25 gennaio 2011 era nata sul web e si era organizzata sui social. Questo il clima in cui nel gennaio 2016 è stato arrestato e torturato a morte Giulio Regeni, colpevole di fare troppe domande scomode, e in cui è oggi in carcere Patrick Zaki, reo di difendere i diritti umani e, in particolare, quelli delle donne. In Egitto i mariti sono ancora padroni assoluti e le mogli marciscono in galera per adulterio. Sono anni che il mondo si interroga su come una rivoluzione che ha ridato speranza a milioni di disperati possa essere finita così male. Come dal temuto Hosni Mubarak si sia passati al crudele al-Sisi. E dire che per per due anni e mezzo piazza Tahrir, un’enorme rotonda nel cuore del Cairo, schiacciata tra il Nilo e il museo egizio, era divenuta il simbolo mondiale della democrazia, dove i progressisti del movimento 6 Aprile e di Kefaya si confrontavano con i giovani della setta islamica dei Fratelli musulmani, riconoscibili per quei lividi in fronte, orgogliosamente ottenuti appoggiando di continuo il capo a terra in preghiera. Tutti intorno a una tazza di tè alla menta, uniti dallo stesso anelito non solo di democrazia ma soprattutto di espressione, un lusso, sull’altra sponda del Mediterraneo. Ad unirli avevano il nemico. A dividerli l’ideologia senza compromessi. Gli islamisti, sostenuti dalla maggioranza del Paese, volevano ottenere il potere politico dopo decenni di oppressione. I progressisti erano e restano minoranza, ma una minoranza più preparata e dialogante con un Occidente afflitto dal terrorismo islamico. Entrambi i fronti non hanno saputo scendere a patti. Inesperienza politica e una certa dose di sfortuna hanno giocato contro. Quando il professore islamista Mohamed Morsi è stato votato democraticamente presidente nel 2012, ha fatto guerra agli ex compagni rivoluzionari anziché scendere a compromessi con i liberali di Mohamed El Baradei e tessere insieme reti per imbrigliare l’immenso potere dell’esercito, che in Egitto controlla tutto, dall’economia alla società. Quest’ultimo ha prima finto di sostenerlo, poi si è organizzato, reclutando giornalisti locali e servizi segreti per alimentare il discontento nella popolazione verso il “terrore islamico”, utilizzando con sapienza i giornalisti occidentali per diffondere la propria propaganda come fosse la volontà del popolo. Ma un movimento come Tamarod, Ribelle, di Mahmoud Badr, il giovane dalla retorica facile che passava ore a conversare con la stampa di mezzo mondo, si scoprì dopo, era tutto tranne che figlio del popolo. Così, senza rendersene conto, in un tripudio di bandiere e canti patriottici, l’Egitto è finito contento nel colpo di Stato ordito dall’esercito, salutato come custode della Patria, il 3 luglio 2013. Non intuendo neppure che, l’arresto del presidente Morsi, avvenuto qualche giorno dopo, rappresentava un nefasto presagio del futuro. Un futuro che oggi è cronaca.
· Quei razzisti come i somali.
Una catena infinita di vendette. Cosa sta succedendo in Somalia e perché da 10 anni si combatte senza sosta. Sergio D'Elia su Il Riformista il 2 Luglio 2021. La Somalia è la terra africana dove la storia millenaria di Caino e Abele continua a rappresentare una tragica attualità. I nemici dello Stato si chiamano Al-Shabaab. Lo Stato che li combatte è diviso in altrettanti Stati, tutti gelosi della loro indipendenza, uniti solo nella lotta senza quartiere al terrorismo islamico. Da oltre dieci anni gli uni, i “buoni”, si confrontano con gli altri, i “cattivi”. Si combattono senza sosta e si somigliano nella sostanza. La catena infinita dell’odio e della vendetta è un gioco di specchi delle parti in causa nel quale il bene e il male si confondono, il giusto e lo sbagliato si annullano. La stessa legge, quella del taglione, ispira gli uni e gli altri, gli islamisti e gli anti-islamisti. L’amalgama di sistemi giuridici, di tradizioni e diritto consuetudinario, un tempo, disegnava un codice molto più civile della legge della Sharia che la Somalia a un certo punto ha introdotto nel tentativo di placare l’ira degli Al-Shabaab. Alla mossa politica “pacifista” del governo, gli estremisti islamici hanno corrisposto con una ferocia ulteriore e un integralismo religioso rafforzato. Gli Al-Shabaab hanno decapitato o fucilato centinaia di persone: cristiani o apostati dell’Islam, ladri, adulteri e maghi, spie al servizio del governo somalo, della forza militare dell’Unione Africana, della CIA e dell’MI6 inglese. La scena è sempre la stessa: un sedicente giudice coranico emette la condanna a morte davanti a centinaia di residenti convocati con gli altoparlanti al centro della città e costretti ad assistere all’esecuzione dei malcapitati legati a un palo. Dopo l’esecuzione, gli Al-Shabaab seppelliscono le vittime in luoghi chiamati “cimiteri degli infedeli”. Il governo somalo risponde in automatico, e con una violenza uguale e contraria. Processi da giustizia sommaria sono celebrati da tribunali militari che operano ad ampio spettro e non vanno molto per il sottile. Non solo processano soldati accusati di reati militari, ma anche soldati, poliziotti, combattenti di Al-Shabaab e civili accusati di reati comuni. La velocità con cui le condanne a morte sono eseguite impedisce agli imputati di presentare ricorso e al Presidente di esaminare il caso per una possibile grazia o commutazione della pena. Anche le Nazioni Unite hanno espresso la propria preoccupazione per il “frettoloso” procedimento giudiziario che ha portato a decine di esecuzioni. Domenica scorsa, nell’arco di una sola giornata, la Somalia ha vissuto una sequenza impressionante di azioni e reazioni, di cause ed effetti, di delitti e vendette. Al mattino, cento islamisti hanno attaccato Wisil, una piccola città nello stato di Galmudug. Al-Shabaab ha rivendicato l’azione che avrebbe causato 34 vittime tra le forze di sicurezza. Circa due ore dopo l’attacco a Wisil, le autorità dello stato del Puntland hanno giustiziato 21 uomini accusati di appartenere ad Al-Shabaab. Il giorno prima, il ministro della sicurezza del Puntland era sfuggito a un attentato dinamitardo di Al-Shabaab che avevano preso di mira il suo corteo di auto. I 21 giustiziati per vendetta erano stati condannati in processi separati per una serie di omicidi e attacchi terroristici che sono costati la vita a leader regionali e comunitari, agenti di sicurezza e giornalisti. Diciotto di loro sono stati allineati vicino a una collina di sabbia fuori dalla città di Galkayo. Il plotone di esecuzione ha aperto il fuoco, giustiziandoli. Nelle stesse ore, altri tre uomini sono stati fucilati a Garowe e nella città di Qardho. È stata la più grande esecuzione singola di militanti di Al-Shabaab in Somalia. Domenica pomeriggio, un altro plotone d’esecuzione, stavolta di Al-Shabaab, ha giustiziato in pubblico sei persone, tra cui una donna di 36 anni, Fartun Omar Abkow. Erano accusate di spionaggio per conto della CIA e sono state fucilate in una piazza nella città di Sakow, nella regione del Medio Jubba. È stata la vendetta degli Al-Shabaab per l’esecuzione dei suoi militanti nel Puntland. A New York, al Palazzo di Vetro, la Somalia ha sempre votato a favore della moratoria sulla pena di morte. A Mogadiscio, non hai mai smesso di praticarla presso l’Accademia di polizia del generale Kahiye. In questi anni, la comunità internazionale non gli ha mai chiesto conto di questa doppiezza. Anzi, ha continuato ad assistere la Somalia nel peggiore dei modi. Con il paternalismo della cooperazione allo sviluppo ha speso molto in “aiuto umanitario” e investito poco in Stato di Diritto. Con il militarismo nella lotta al terrorismo ha affidato la giustizia ai plotoni d’esecuzione dell’esercito somalo e ha praticato in proprio quella segreta e più sbrigativa delle uccisioni coi missili sparati dai droni. Occhio per occhio, la Somalia è diventata oggi un Paese accecato dall’odio, paralizzato dalla paura, desertificato dalla violenza. Una terra dove abita solo Caino. Sperando contro ogni speranza, scriviamo ora un’altra storia, in cui a emergere siano il diritto e la coscienza, grazia e giustizia. Sergio D'Elia
La ricostruzione. Chi sono gli al-Shabaab, gli estremisti islamici che hanno rapito Silvia Romano. Redazione su Il Riformista il 11 Maggio 2020. Il nome degli al-Shabaab è tornato alla ribalta con il rapimento della volontaria italiana Silvia Romano, rilasciata venerdì 8 maggio dopo 18 mesi di prigionia. Secondo quanto ricostruito dalla Procura di Roma e dai carabinieri del Ros, la 25enne è stata tenuta prigioniera in Somalia da uomini vicini al gruppo jihadista di al-Shabaab. Emersi nel 2006 dopo la sconfitta dell’Unione delle Corti Islamiche da parte del Governo Federale di Transizione, gli al-Shabaab, dal 2008 sono nella lista delle organizzazioni terroristiche degli Usa e nel 2012 hanno giurato fedeltà ad al-Qaeda. Sono stati protagonisti e firmatari di sanguinosi attentati, tra cui quello al centro commerciale Westgate a Nairobi che nel settembre del 2013 costò la vita a 67 persone. Due anni dopo, nel 2015 fecero una strage contro un campus universitario in Kenya, con un bilancio di almeno 147 morti, e nel dicembre 2018 un attentato con autobomba a Mogadiscio che ha contato almeno 85 morti. E’ dello scorso settembre invece l’attacco degli al-Shabaab contro la base americana all’aeroporto militare di Baledogle, nello stesso giorno in cui a Mogadiscio una bomba è esplosa al passaggio di un convoglio di mezzi militari italiani. GLI AL-SHABAAB – Definiti come la peste del Corno d’Africa in quanto identificati come uno dei più violenti gruppi di guerriglieri somali, gli al-Shabaab, in italiano “i giovani”, sono un movimento di resistenza popolare nella terra delle due migrazioni. La loro nascita è dovuta ad uno scopo preciso: quello di rovesciare il governo di Mogadiscio, utilizzando regolarmente attentatori suicidi contro il governo, i militari ed i civili. Di stampo islamico, il gruppo è opposto al TFG, Governo Federale Transitorio della Somalia, e a tutto ciò che non rientra nei canoni islamisti, oltre che essere alleato di al-Qaeda. Il gruppo dei ‘giovani’ inizia ad allinearsi ad al Qaeda sia nell’ideologia che nella tattica e ad avere come obiettivi i civili con attacchi suicida molto più frequenti. Infatti al-Shabaab fa leva sulla sua relazione con al Qaeda per attrarre combattenti stranieri, i cosiddetti foreign fighters e donazioni in denaro dai sostenitori della cellula jihadista. Anche se i loro efferati attentati sono stati commessi in maniera ricorrente dal 2008, quando sono stati dichiarati terroristi dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, la loro esistenza risale al 2006 formando l’Unione dei Tribunali Islamici (ICU) che governavano la Somalia prima di essere cacciati da Mogadiscio con l’intervento delle truppe etiopiche. L’obiettivo principale del gruppo è quello di riconquistare tutte le terre storicamente “islamiche” ora in mano ai non credenti imponendo la stretta osservanza della Sharia Law o comunemente conosciuta come legge di Maometto. Questa formazione islamista è presente nelle regioni del sud della Somalia e mantiene vari campi di addestramento nei pressi di Chisimaio. Alcuni finanziamenti per al-Shabaab provengono dalle attività dei pirati somali, anche se per quanto riguarda le armi il loro principale rifornitore è l’Eritrea, da sempre nemico dell’Etiopia. L’attuale leader degli al-Shabaab è Ahmed Umar, nominato dopo che nel 2014 l’allora leader degli al-Shabaab, Ahmed Abdi Godane, è stato ucciso in un raid di un drone americano. Dal 2016 gli Stati Uniti, infatti, hanno intensificato i raid aerei, gli attacchi con droni e le operazioni contro il gruppo in Somalia.
· Quei razzisti come gli etiopi.
Chi è Abiy Ahmed. Mauro Indelicato su Inside Over il 21 novembre 2021. Abiy Ahmed è il primo ministro dell’Etiopia dal 2 aprile 2018. Di etnia oromo, la maggioritaria nel Paese ma anche tra le più emarginate, deve la sua fama internazionale al premio nobel per la pace ricevuto nel 2019 e alla sua immagine di giovane primo ministro modernizzatore. Tuttavia il nome di Abiy Ahmed è destinato a essere legato anche alla guerra avviata dal suo governo nella regione etiope del Tigray.
La famiglia multireligiosa di Abiy Ahmed
Abiy Ahmed nasce a Beshasha, piccola località dell’attuale Stato di Oromia, il 15 agosto 1976. La sua famiglia appartiene all’etnia oromo. Si tratta dell’etnia predominante in Etiopia, ma allo stesso tempo quella che negli anni accusa le maggiori discriminazioni. Nell’anno di nascita di Abiy Ahmed, al potere vi è il cosiddetto “negus rosso”, ossia Hailé Menghistu, a capo di un regime filo comunista.
La sua famiglia non sembra risentire molto dei trambusti politici di quel momento. Il padre è un semplice contadino, uno dei tanti impegnati nelle terre di Oromia. C’è però una particolarità, non così rara nelle province a maggioranza oromo. Se il padre è di religione musulmana, la madre invece è cristiano ortodossa. Sono diverse già all’epoca le famiglie formate da due differenti religioni. A Beshasha, così come nei villaggi circostanti, la percentuale di musulmani e cristiani si equivale.
La famiglia di Abiy Ahmed, oltre a essere multireligiosa, è anche molto numerosa. Il futuro premier è il tredicesimo figlio di suo padre, nonché il sesto avuto dal rapporto tra suo padre e sua madre, quest’ultima sua quarta moglie. Questo contesto familiare influisce in futuro sulla formazione politica di Abiy Ahmed, la cui linea da premier è quella di superare le varie divisioni settarie sia etniche che religiose.
Il giovane Abiy aderisce comunque alla formazione religiosa della madre, anche se in un secondo momento lascerà il cristianesimo ortodosso per sposare l’adesione alla Chiesa Evangelica Pentecostale.
La formazione del futuro premier etiope
Le scuole in Etiopia in quegli anni iniziano ad essere diffuse e ad arrivare anche nei paesi più remoti. Abiy Ahmed può quindi permettersi la formazione elementare nel suo villaggio natio. Si sposta a 14 anni ad Agaro per frequentare gli istituti superiori.
Riesce, nonostante limitate risorse economiche familiari, ad iscriversi all’università. I suoi studi accademici iniziano comunque dopo i 20 anni in quanto Abiy Ahmed in quel periodo è maggiormente concentrato nello sviluppo della carriera militare. La sua prima laurea arriva nel 2009. Il primo titolo è in ingegneria informatica e viene conseguito ad Addis Abeba. Successivamente Abiy Ahmed, in parallelo con la sua carriera politica, continua a studiare nella capitale etiope in economia, con una laurea presa nel 2011, e in filosofia. La fine degli studi universitari in quest’ultima facoltà risale al 2017, con un dottorato su “pace e conflitti”.
L'affiliazione di Ahmed all'Oromo Democratic Party
Ma l’avvicinamento di Abiy Ahmed al mondo politico non si ha all’università. Al contrario, il primo contatto con la politica è a 14 anni, quando il futuro premier aderisce all’Oromo Democratic Party (Odp). Si tratta di una formazione partitica e paramilitare impegnata nella lotta contro Menghistu. Il movimento è alleato con quello di altre etnie contro il governo centrale di Addis Abeba. Per questo Abiy Ahmed entra a contatto con altri contesti del suo Paese, uscendo dalla sua regione di origine.
Buona parte dei ribelli sono di etnia tigrina e infatti il giovane inizia a parlare tigrino e amarico, quest’ultima lingua franca del Paese. Nello stesso anno in cui Abiy aderisce all’Odp, ossia nel 1991, il governo del negus rosso viene rovesciato. A quel punto le varie milizie ribelli danno vita al nuovo esercito etiope e il futuro premier decide intraprendere la carriera militare.
Abiy Ahmed ha 16 anni quando nel 1993 diventa ufficialmente un soldato del nuovo esercito. L’anno dopo fa parte del contingente etiope spedito in Ruanda a sostegno della missione delle Nazioni Unite. Come soldato viene coinvolto nel conflitto scoppiato nel 1998 tra Etiopia ed Eritrea. Il suo impiego però non è come soldato semplice. Al contrario, Abiy risulta organico a una squadra incaricata a scoprire il posizionamento delle forze avversarie lungo i confini contesi. Entra quindi a tutti gli effetti nell’intelligence etiope.
Durante i suoi anni nell’esercito, conosce Zinash Tayachew. Si tratta di una giovane donna di etnia ahmara impegnata anch’essa a prestare servizio militare. Tra i due nasce una storia sentimentale che li porta presto al matrimonio. È lei, peraltro cantante delle canzoni gospel in chiesa, a far avvicinare Abiy Ahmed alla religione evangelica. I due in futuro hanno tre figli e adottano un quarto figlio.
Con il cessate il fuoco nel 2000 tra Etiopia ed Eritrea, il futuro premier decide di continuare la sua carriera nell’esercito e alternarla con gli studi universitari.
La fondazione dell'Agenzia Etiope per la sicurezza informatica
La sua laurea in informatica e le competenze acquisite nel settore, fanno di Abiy un riferimento all’interno dell’esercito per la sicurezza informatica. Non a caso nel 2006 figura tra i fondatori dell’Agenzia Etiope per la sicurezza informatica (Insa), di cui diventa anche vice presidente. Per un periodo ricopre l’incarico di direttore ad interim.
L'ingresso in politica di Abiy Ahmed
Nel 2010 arriva un’importante svolta. Abiy Ahmed decide di lasciare l’esercito e l’agenzia Insa per dedicarsi unicamente alla politica. Punto di partenza per questa sua nuova avventura è ancora una volta l’Oromo Democratic Party (Odp). Il partito fa parte della coalizione del Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (EPRDF), al potere dal rovesciamento di Menghistu e dominata al suo interno dal Tplf, il partito cioè dell’etnia tigrina.
Nell’anno in cui Abiy Ahmed decide di impegnarsi esclusivamente alla politica, viene eletto alle elezioni nazionali quale deputato del collegio di Agaro. Durante il suo primo mandato parlamentare scoppiano tensioni e scontri tra musulmani e cristiani nelle sue zone di origine. Per questo viene mandato dall’Odp a mediare. Il suo ruolo per arginare le violenze viene considerato importante. Tanto che pochi anni dopo è uno dei deputati scelti per la fondazione del Forum per il dialogo e per la pace, organismo creato proprio per dirimere le controversie tra le diverse confessioni religiose presenti in Etiopia e in particolare nello Stato di Omoria.
Nel 2015 arriva la rielezione per un secondo mandato in parlamento. In quell’anno scoppia la questione relativa ai piani urbani di sviluppo di Addis Abeba. I progetti, mandati avanti dall’allora governo guidato dal tigrino Desalegn, prevedono la costruzione di nuovi quartieri della capitale in terreni posseduti soprattutto dagli oromo.
Molti cittadini di etnia oromo scendono in piazza. Non solo c’è la questione della salvaguardia delle terre ma anche, più in generale, quella dell’emarginazione politica di cui i membri di questa etnia si sentono vittime. Abiy è tra i politici che si oppongono al progetto. Nel 2016 il governo congela i piani e per il deputato oromo arriva un’importante ventata di popolarità. Da questo momento in poi, oltre ad essere riferimento dell’Odp, Abiy viene visto come uno dei leader politici etiopi in maggiore ascesa. Per un anno diventa anche ministro della Scienza e della Tecnologia.
L'ascesa politica e la nomina a premier il 2 aprile 2018
La certificazione della sua scalata politica arriva nell’ottobre 2017, quando Abiy viene eletto segretario generale dell’Odp. Adesso è a tutti gli effetti leader del partito di cui fa parte già da quando ha 14 anni.
Il contesto politico è caratterizzato ancora una volta dalle proteste degli oromo. Il governo risponde con il pugno di ferro, arrestando molti manifestanti e in alcuni casi le violenze culminano anche con diverse vittime in piazza. Non riuscendo a far rientrare la tensione, il premier Desalegn decide a inizio 2018 di gettare la spugna e annuncia le dimissioni.
A questo punto si apre la corsa per la successione all’interno del Fronte Rivoluzionario democratico del popolo etiope. Dal 1991 in poi il leader infatti della coalizione viene per consuetudine anche nominato capo del governo. Per 27 anni questi ruoli sono spettati a membri tigrini del Tfpl. Nel 2018 ci sono oramai i presupposti per un cambio di mano. E così, spinto anche dalla popolarità acquisita negli anni precedenti, Abiy Ahmed è eletto segretario della coalizione di governo. Il 2 aprile 2018 giura formalmente come capo del nuovo governo, diventando quindi premier. È il primo cittadino oromo ad assumere questo compito.
Il premio nobel per la pace del 2019
Abiy Ahmed viene da subito visto, all’interno come all’estero, quale leader riformatore. In economia avvia alcune liberalizzazioni e spera di attrarre capitali stranieri. Dà seguito inoltre ai progetti infrastrutturali quali, tra tutti, la cosiddetta diga della rinascita. Ma all’estero la sua notorietà arriva soprattutto dalla pace con l’Eritrea. Stipulata sul finire del 2018 e firmata ufficialmente a Gedda, la fine definitiva delle ostilità con Asmara segna un punto importante nella carriera politica di Abiy Ahmed. Tanto da essere insignito, nell’anno successivo, quale vincitore del nobel per la pace. Al premier etiope viene riconosciuta buona parte del merito per il termine della guerra.
La fondazione del Partito per la Prosperità
L’ideale politico portato avanti da Abiy Ahmed è possibile tradurlo con un termine specifico, quello cioè di “etiopianismo”. Si tratta della volontà da parte del premier di rendere maggiormente centralizzato lo Stato etiope, partendo dai tratti in comune tra le varie etnie che compongono la nazione. Storia, tradizioni e appartenenza al mondo etiope sono quindi i tratti prevalenti di quella identità con la quale Ahmed vorrebbe cementificare lo Stato.
In tal modo si andrebbe a superare l’attuale impostazione basata sul federalismo etnico e sull’autonomia di cui godono tutte le principali componenti etniche e religiose dell’Etiopia. Per mandare avanti questo obiettivo il premier, in qualità anche di segretario della coalizione di governo, decide di fondare un partito unico in grado di raggruppare tutti i vari movimenti fino a quel momento federati. Abiy Ahmed nel 2019 scioglie l’Odp, passo seguito anche dai segretari degli altri partiti della coalizione. Viene data vita al partito unico denominato Partito della Prosperità. Il primo segretario della nuova formazione è lo stesso Abiy Ahmed. L’intento, da qui in avanti, è dare forma a partiti fondati su una base ideologica e non etnica.
La guerra nel Tigray
L’unico partito a tirarsi fuori dalla nuova formazione è il Tplf. I tigrini, al potere per 27 anni, non vedono di buon occhio né il Partito della Prosperità e né l’etiopianismo del premier. Inizia un braccio di ferro politico tra le due parti che culmina con le elezioni locali dell’ottobre 2020 nel Tigray, lo Stato dove vive gran parte dei tigrini e dove il Tplf è molto radicato. Il governo di Abiy Ahmed nell’estate del 2020 decide, in ragione anche dell’epidemia di Covid-19, di rinviare le consultazioni locali. Ma i dirigenti del Tplf convocano ugualmente le elezioni, vinte dal partito tigrino con una grande maggioranza.
A quel punto, il premier decide di intervenire militarmente. Per lui si presenta davanti l’occasione per sconfiggere l’ultima forza in grado di ostacolare il suo progetto politico. Il 3 novembre 2020 Abiy Ahmed dà ordine alle truppe federali di avanzare nel Tigray. A fine mese viene conquistata Makallè, capoluogo della regione.
La guerra tuttavia non volge al termine. Al contrario, il Tplf passa al contrattacco. A giugno i tigrini riprendono il capoluogo e si alleano con l’Ola, un gruppo indipendentista oromo. Nel novembre 2021 le forze ostili al governo centrale sono a 220 km da Addis Abeba. Abiy Ahmed proclama lo stato d’emergenza nazionale. La guerra ha dinamiche negative che il premier alla vigilia non si aspetta. E anche la sua reputazione internazionale rischia di essere rivista.
· Quei razzisti come i liberiani.
Gorge Weah ha 55 anni: dai gol e dal Pallone d’Oro con il Milan alla presidenza della Liberia. Fiorenzo Radogna su Il Corriere della Sera l'1 ottobre 2021. L’ex attaccante viene una infanzia poverissima: 13° figlio, con l’aiuto della nonna lui e i fratelli evitarono di finire bimbi soldato. Primi calci in Camerun, poi la Francia e la gloria con i rossoneri.
Pallone d’oro e presidente dei diamanti
Questo 1 ottobre compie 55 anni l’ex top player, oggi a capo di un Paese problematico eppure ricchissimo; di diamanti e significati geo-politici: la Liberia di George Tawlon Manneh Oppong Ousman Weah da Monrovia (classe 1966). Ieri devastante ariete (fra le altre) soprattutto di un Milan a cavallo di due cicli europei vincenti, oggi al vertice di una democrazia, come suo 25° presidente. Grafico di un’esistenza fuori dal comune — e condotta sempre al vertice — fra gli assi cartesiani del calcio internazionale e un impegno politico; ai tempi del Pallone d’Oro (1995) imprevisto e imprevedibile. Portato avanti con la veemenza di certi gol, la caparbietà radicale di chi conosce bene il proprio obiettivo: lo punta, lo afferra, ne fa storia. «King» George, quando un soprannome d’antan ha in sé il seme di un futuro destino. Sette aspetti di uomo fuori dal comune.
Una nonna (e un pallone) nel destino
Tredicesimo di tredici figli – «pa’» William e «mà» By, separati, erano spariti —; infanzia fra baracche di legno, lamiera e zanzare fra Clara Town e Gibraltar (periferie portuali di Monrovia). 14 in una stanza; caldo umido che si appiccica addosso; come il grasso degli ingranaggi di quell’Ak47 che rischia, bimbo, di ritrovarsi in mano. Come tanti (troppi) piccoli liberiani. Bambini-soldato – la metà non sanno né leggere né scrivere — arruolati in chissà quale esercito (contro)rivoluzionario. Due comete a indicargli la strada: l’amorevole nonna Emma, una palla di pezza che rotola. Sono gli anni 70, una via di fuga c’è. Sì, George supererà i 40 anni, l’età media liberiana di quegli anni...
Radicalmente liberiano (e africano)
Al netto dei suoi remoti trascorsi calcistici liberiani, George resterà sempre profondamente «africano». A differenza di molti suoi colleghi-calciatori guarderà sempre al Paese di origine, come riferimento passato, presente e futuro. Emerso, dopo il campionato liberiano nel Mighty Barollee nell’Invincible Eleven, nel più performante massimo torneo camerunese (Tonnerre Yaoundé), comincerà a consacrarsi in Francia al Monaco (dall’88 al ‘92; 129 partite, 59 reti). In breve sarà ricco ed investirà tantissimo nel proprio Paese, fra la propria gente.
Solo gli stupidi...
«Solo gli stupidi non cambiano mai idea». George Weah era già un calciatore planetario — a metà anni 90 – quando abbracciò la fede mussulmana, aggiungendo Ousmane nel suo (già lungo) nome. Rimangono negli occhi di molti tifosi del Psg (poco prima che passasse al Milan) le immagini del campione (dal ‘92 al ‘95: 96 presenze, 32 gol a Parigi) che in campo, prima di ogni gara — in ginocchio, braccia aperte — si raccoglieva nella preghiera islamica. Poi la morte della nonna, scintilla del ritorno alla fede cristiana. E il 1995. In quel dicembre, già rossonero, France Football gli consegnerà il Pallone d’Oro. Periodo milanista (dal ‘95 al 2000 due Scudetti: 95-96 e 98-99; 147 gare, 58 reti in tutto), George si spiega alla stampa. «Non voglio far politica. Anche perché l’Africa tutta, non solo la Liberia, non ha ancora capito cos’è la democrazia. La gente della Liberia mi vuole bene, sono un simbolo di unità e voglio stare al di sopra delle fazioni». No, cambierà idea (anche la Liberia). Lui non sarà mai uno stupido.
Bizzarrie e lauree
Sfoggerà ricchezze e altruismi. Sua, in Liberia, una villa con quasi venti camere, centinaia di paia di scarpe – per un ex-bambino sempre scalzo –, abiti e decine di immobili (mai dimenticati i tetti in lamiera dell’infanzia). Dall’Africa alla Francia; dall’Italia agli Usa. E poi una laurea negli States (Gestione d’impresa alla DeVry University), un’altra – in Arte e amministrazione sportiva alla Parkwood University di Londra, accademia poi chiusa dai Federali Usa in accordo col governo britannico — che perse valore; e nel 1999 un dottorato onorario in umanità dal A.M.E. Zion University College della Liberia. Nel frattempo il matrimonio con Clar Weah, statunitense di origine giamaicana e i tre figli (George Jr., Martha e Timothy George). In viaggio alloggerà negli hotel più lussuosi, ma dormirà (quasi sempre) per terra. «Sono fatto così».
L’impegno alle urne
Chiuso col calcio, dopo le ultime residuali esperienze calcistiche anglo-francesi (Chelsea, ManCity e Marsiglia) e una passerella negli Emirati (2002, Al-Jizira), il ritiro. Per darsi alla politica: figura di riferimento nello stato fondato da ex-schiavi liberati, già nel 2005 sfiorò l’elezione a Presidente (sconfitto dall’economista Ellen Johnson Sirleaf) e divenne senatore (2014). Poi ricandidatosi alla massima carica nel 2017, dopo l’annullamento delle elezioni (per brogli), a dicembre fu regolarmente eletto Presidente della Liberia (61,5 % dei voti). In carica dal 22 gennaio 2018, dopo 12 anni di presidenza di Ellen Johnson-Sirleaf (premio Nobel per la pace e prima donna alla guida di uno stato africano).
La sua presidenza
Carica di (immancabili) polemiche e accuse la politica dell’ex attaccante, nel 1999 incoronato dall’IFFHS come «calciatore africano del secolo». Deciso, in quella estera, nel cercare partner per la sua Liberia (in particolare la Francia) e fra i paesi confinanti (Senegal). E avviluppato in una politica interna che non ha tardato a portare strascichi. Come nelle grandi manifestazioni di piazza (dal giugno ‘19), emerse dal declino economico: salari differiti, inflazione, prezzi delle materie prime alle stelle e – presunta – corruzione. Il «Weah step down campaign» (il movimento per le dimissioni di Weah) ha raccolto migliaia di adesioni; King George li ha accusati di essere uno strumento in mano alle opposizioni. Un’ennesima difesa (opposizione) da saltare, fendere, dissolvere. Come in quell’incredibile gol – il coast to coast al Verona dell’8 settembre 1996 -: 90 metri di corsa solitaria a schivare avversari e avversità. Come in una vita (di successo), intera.
· Quei razzisti come i nigeriani.
Boko Haram ultimo atto: lo jihadismo sembra aver i giorni contati. Daniele Bellocchio su Inside Over il 15 settembre 2021. Forse la storia della ribellione islamista di Boko Haram è arrivata a un punto di svolta. La setta jihadista che dal 2009 ad oggi ha provocato oltre 350.000 morti e un esodo di 4 milioni di persone nel nord est della Nigeria e nella regione transfrontaliera del Lago Ciad, ha subito nell’ultimo mese una durissima battuta d’arresto. Stando infatti a quanto riportato dall’emittente britannica BBC, a partire da fine agosto, oltre 6mila ribelli musulmani hanno disertato consegnandosi alle autorità militari nigeriane e camerunensi. A diffondere la notizia della resa di migliaia di mujaheddin è stato il governo di Abuja che ha fatto sapere che l’avanzata delle truppe regolari nel nord ovest del Paese e la morte di una delle figure cardine della formazione jihadista, Abubakar Shekau, sono stati i principali motivi all’origine della consegna delle armi e della diserzione di un numero considerevole di ribelli islamici. “Stanno disertando a frotte. Per grazia di Dio e, con la dovuta cautela, speriamo che con questa svolta tutto finisca presto”, ha detto una fonte della sicurezza di Abuja alla testata nigeriana Vanguard. Nell’articolo della testata nigeriana ufficiali dell’esercito regolare spiegano anche che l’impiego congiunto di artiglieria e mezzi corazzati, della marina sulle acque del Lago Ciad e dell’aviazione nei cieli nigeriani sono stati i fattori principali che hanno portato alla smobilitazione in massa dei combattenti islamisti. Un successo militare che, unito ai contrasti interni alla formazione ribelle, alle faide intestine per la successione alla leadership dopo la morte di Shekau e anche a una situazione di crisi alimentare che ha travolto il Sahel e il nord est della Nigeria, ha visto sgretolarsi poco a poco, tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, uno dei gruppi terroristici più feroci e spietati all’interno della galassia dello jihadismo internazionale. Da un lato la notizia dell’implosione del gruppo terrorista fa sperare la popolazione civile e, in molte città che sono state travolte negli ultimi anni dalla violenza ferina dei combattenti di Shekau, la disfatta delle bandiere nere è stata accompagnata da celebrazioni e dimostrazioni di giubilo. Parallelamente però sono sorti molti interrogativi su come affrontare questa resa di massa e quale futuro disegnare per gli ex terroristi. Per il governatore dello stato del Borno Babagana Zulum, leader di uno dei territori che negli ultimi anni sono stati maggiormente colpiti dal terrorismo di Boko Haram, la diserzione in massa dei ribelli jihadisti porta a un problema di carattere etico e morale di estremo spessore che, se non affrontato nei modi corretti, potrebbe far insorgere problematiche molto serie e gravose per il Paese. “Siamo in una situazione molto difficile perché ora ci si parano davanti due interrogativi; o intraprendere un cammino di riconciliazione e reinserimento oppure proseguire con una logica di guerra e far pagare ai terroristi arresi la propria pena per ciò che hanno fatto. È un quesito molto annoso perché o proseguiamo con la guerra oppure dobbiamo accettare nella società i combattenti jihadisti, gli stessi uomini che per 12 anni hanno ucciso la popolazione e sono stati gli assassini di uomini, donne e bambini”. Proseguendo nella sua dichiarazione alla testata nigeriana il governatore dello stato del Borno ha poi aggiunto: “Accettare i pentiti di Boko Haram ha il rischio di offendere gravemente i sentimenti delle vittime. Ma nel momento in cui i combattenti di Boko Haram disposti ad arrendersi non dovessero affrontare un percorso di reinserimento e deradicalizzazione, c’è il rischio che si uniscano all’ISWAP (la branca africana di ISIS operativa in Nigeria e nel bacino del Lago Ciad) o ad altre formazioni islamiste operative nel Sahel e la via della pace quindi si restringerebbe considerevolmente. Io al momento posso solo dire questo: possiamo perdonare ma non possiamo dimenticare”. Un aspetto importante è che la stragrande maggioranza dei combattenti che si sono arresi appartenevano all’ala di Boko Haram conosciuta come JAS, e con a capo il leader storico Abubakar Shekau. Al momento in Nigeria e nella zona di frontiera con Ciad, Camerun e Niger opera però anche l’ISWAP, un gruppo nato da Boko Haram ma che poi si è separato giurando fedeltà a Daesh e iniziando a creare un Califfato tra le sabbie saehliane. Il timore dell’esecutivo di Abuja è quindi quello che se non vengono attuate le giuste politiche di amnistia e reinserimento questi miliziani pentiti possano andare ad allargare le fila del gruppo jihadista ancora attivo o addirittura divenire una quinta colonna del Califfato all’interno della società civile nigeriana. Ad oggi la volontà del governo sembra proprio quella di sottoporre i terroristi a un percorso di deradicalizzazione e graduale inserimento nella società. InsideOver, nel 2019, aveva raccontato attraverso un reportage esclusivo come le pratiche di deradicalizzazione e accompagnamento nel tessuto sociale, in Ciad, avessero permesso poi ad ex terroristi di divenire delle figure cardine nella lotta al proselitismo e alla propaganda delle bandiere nere. Ora in Nigeria la questione è però più complessa perché il numero di pentiti è estremamente consistente, e un loro inserimento significa anche occuparsi di una loro formazione culturale e professionale, di un loro ritorno alle comunità d’origine e di un ingresso graduale anche nel mondo del lavoro. Tutte politiche che spesso non sono state attuate per le centinaia di migliaia di vittime di Boko Haram che vivono nelle tendopoli del più popoloso paese d’Africa. Il quesito in massima sintesi si riduce a questo interrogativo: ”è legittimo aiutare i carnefici quando non è stato possibile farlo con le vittime?”. Una risposta a questa domanda è difficile darla, il Paese è diviso e spaccato tra chi sostiene la politica della linea dura e chi invece predica la necessità della riconciliazione, in ogni caso la Nigeria oggi si trova ad affrontare non solo un semplice interrogativo di carattere nazionale ma una sfida globale, perché scegliere la strada giusta significa nei fatti mettere fine allo jihadismo, intraprendere un nuovo corso della storia e dimostrare che la Nigeria non sarà il nuovo Afghanistan ma una terra libera dal totalitarismo dell’odio.
Nigeria. Assalto al collegio: rapite 300 studentesse. Redazione Internet su Avvenire venerdì 26 febbraio 2021. Un drammatico copione che si ripete: uomini armati hanno fatto irruzione, nella notte, in una scuola secondaria femminile del Nord-ovest. Ancora un rapimento di massa da una scuola-convitto nigeriana. Uomini armati hanno rapito, nella notte, circa trecento studentesse a Zamfara, nella Nigeria nordoccidentale. Lo riferiscono i media nigeriani, spiegando che a essere stata presa di mira è la Government Secondary School di Jangebe. Uomini armati, alcuni dei quali in uniforme, avrebbero preso di mira la scuola verso l'una di notte e avrebbero prelevato le studentesse a bordo di veicoli. Confermando l'attacco in un incontro con i giornalisti, il commissario Suleiman Anka ha detto che si sta ancora verificando il numero delle studentesse rapite. Un dipendente della Government Girls Secondary School ha dichiarato a condizione di anonimato al quotidiano 'Punch' che uomini armati hanno fatto irruzione all'interno dell'istituto scolastico e rapito più di trecento studentesse. Il padre di una di loro e una professoressa hanno confermato alla Bbc lo stesso numero di studentesse prese in ostaggio. Secondo il portale di notizie Pm News Nigeria, gli assalitori hanno raggiunto la scuola dopo aver attaccato un posto di blocco dell'esercito di Abuja nella zona. Non si hanno notizie di vittime. La scorsa settimana, 42 persone sono state rapite da una scuola nello Stato nigeriano del Niger, nell'ovest. A dicembre oltre 300 ragazzi sono stati sequestrati da un istituto a Kankara, nello Stato settentrionale di Katsina, e poi rilasciati dopo una serie di negoziazioni con funzionari del governo.
Alessandro Da Rold per "La Verità" il 26 febbraio 2021. C'è un documento del 14 giugno 2018 che potrebbe mettere in serio imbarazzo il governo della Nigeria, costituitosi parte civile nel processo Opl 245, dove Eni e Shell sono accusate di corruzione internazionale. È una lettera firmata dall'ex ministro del petrolio Emmanuel Ibe Kachiwu dove si possono leggere le richieste da parte di Abuja di esercitare il diritto di «back-in right» (il diritto di rientrare con una quota dopo i rischi di esplorazione), in linea con gli accordi del 2011 stipulati proprio con le due compagnie petrolifere sotto accusa. La missiva, indirizzata a Massimo Insulla (direttore di Nigerian Agip exploration), rivela quindi che il governo nigeriano, a ben sette anni di distanza dal contratto e per di più a processo già in corso, non ravvedeva alcun problema o illecito nella condotta di Eni e Shell. I toni del ministro del Petrolio sono molto cordiali, si legge appunto che Abuja intende rispettare l'articolo 11 dell'accordo del 2011 e che soprattutto è interessata alla decisione delle compagnie petrolifere di iniziare a estrarre petrolio. In pratica i nigeriani convengono con Eni e Shell, come si dice nel gergo petrolifero, di passare dalla «oil prospecting license» alla «oil mining lease»: dopo aver trovato il petrolio bisogna iniziare a estrarlo. La lettera smentisce anche la costituzione di parte civile decisa dal governo il 5 marzo del 2018, in apertura del processo Opl 245 di fronte alla settima sezione del Tribunale di Milano. Perché chiedere i danni su una licenza di estrazione che sarebbe stata comprata grazie alla corruzione e poi invece, tre mesi dopo, riconoscere la validità del prodotto di quella stessa licenza? Per di più nella richiesta di parte civile presentata dall'avvocato Lucio Lucia si smentisce il ministro nigeriano dell'epoca, perché si sostiene che le clausole di «back-in rights» siano stata ottenute «illegittimamente» e siano persino un ostacolo per il rientro del governo. Di più, si sostiene che Eni e Shell abbiano cercato in ogni modo di escludere la Nigeria da diritti contenuti nel contratto: un'affermazione smentita dalla lettera del 2018 di Emmanuel Ibe Kachiwu. Non è l'unico dei tanti misteri che ha caratterizzato in questi anni la linea difensiva del Paese africano. Del resto nel 2017 la Nigeria non intendeva costituirsi parte civile. Poi nel 2018 cambiò idea, decidendo di affidarsi allo studio legale Johnson & Johnson, dove il titolare è lo sconosciuto Babatunde Olabode Johnson, un presunto avvocato che si fa coprire le spese legali da una società anonima, l'americana Poplar falls llc, fondata nel 2016 nel Delaware dal fondo Drumcliffe partners. Come già raccontato dalla Verità lo scorso anno, in questa ragnatela di sconosciute società si nascondono particolari molto particolari. Stando ai contratti, infatti, Poplar falls incasserà il 35% in caso di successo nella causa. Si potrebbe trattare di una cifra spropositata, perché gli avvocati che seguono la Nigeria nel processo di Milano hanno chiesto danni per 1,1 miliardi di euro. La cifra, quindi, dovrebbe toccare i 382 milioni di euro per la Poplar, a cui si aggiungerebbero anche 55 solo per Drumcliffe. Sempre stando agli accordi con Johnson & Johnson, i soldi che potrebbero arrivare in caso di condanna di Eni e Shell non andranno subito al governo di Abuja, quindi non torneranno ai cittadini nigeriani, ma rimarranno su un conto vincolato controllato da un avvocato nominato sempre da Poplar. Queste strane vicende sono da mesi all'attenzione dell'opinione pubblica nigeriana. In Italia in tanti hanno iniziato a porsi delle domande su dove voglia davvero andare a parare il presidente della Nigeria Muhammadu Buhari. Del resto, il comportamento incomprensibile del 2018 negli anni successivi è proseguito. Mentre il processo continuava a celebrarsi nelle aule del Tribunale di giustizia di Milano, sempre la Nigeria - a metà 2020 - ha deciso di affidarsi a un altro studio legale di Londra, Franklin Wyatt. Quest' ultimo sarebbe stato incaricato di trovare un nuovo accordo con Eni e Shell, con l'obiettivo di evitare la data di scadenza della concessione, ovvero il maggio del 2021. Ma qualcosa è andato storto. Non a caso Eni ha deciso di avviare un arbitrato internazionale presso la Banca mondiale per dirimere la controversia sul giacimento. Il prossimo 17 marzo si aprirà la camera di consiglio sul processo. E i giudici di Milano decideranno l'innocenza o la consapevolezza delle due compagnie petrolifere come dei loro amministratori, tra cui l'attuale amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi. Dopo un investimento di 2 miliardi di dollari, infatti, Eni e Shell perderanno a maggio i diritti di estrazione senza aver mai estratto una goccia di petrolio. Il governo di Abuja spera di incassare 1,1 miliardi di euro. Ma non si sa dove andranno a finire i soldi. Mentre l'indotto delle estrazioni petrolifere, 200.000 posti di lavoro e 41 miliardi di dollari in 25 anni, è andato perso. Del resto, dopo dieci anni così, quale compagnia vorrà occuparsi di Opl 245?
· Quei razzisti come i Burkinabè.
Thomas Sankara, il Che Guevara d’Africa che voleva cambiare il suo Paese. E aspetta ancora giustizia. Rivoluzionario, carismatico, il presidente dello Stato africano fu ucciso da un commando il 15 ottobre 1987, in una congiura internazionale. Ora finalmente si apre il processo contro i suoi assassini. Giovanni Pigatto su L'Espresso il 18 maggio 2021. Rivoluzionario, ma senza l’idealismo di Che Guevara, fervente socialista, ma senza le derive staliniste o maoiste, terzomondista, ma senza mai piangersi addosso, pur da presidente di una delle Nazioni più povere e arretrate del mondo, mente libera, ma pratica e tutto fuorché utopista. Nell’Africa nera è molto difficile incontrare qualcuno che non sappia chi sia Thomas Sankara. Il presidente del Burkina Faso morto nel 1987 è diventato un simbolo grazie al suo esempio, perché ha fatto vedere al mondo che non servivano tante utopie per cambiare le cose, ma volontà, carisma e idee chiare. Per questo è stato ucciso dopo neanche quattro anni di governo, in una congiura internazionale dalle tinte fosche che proprio in queste settimane si tenta di definire grazie, finalmente, a un processo formale nei confronti dei suoi assassini, quasi trentaquattro anni dopo quel 15 ottobre 1987, «giorno in cui uccisero la felicità», come recita un documentario dedicato a questa storia. Il 12 aprile, infatti, il tribunale militare di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, ha aperto ufficialmente un processo nei confronti di Blaise Compaoré, il successore di Sankara alla presidenza, nonché amico e compagno di una vita, accusato di attentato alla sicurezza dello Stato e complicità nell’assassinio. Un processo tardivo, ma necessario, perché attorno alla morte di Sankara non c’è solo una vendetta o la sete di potere di un compagno che diventa traditore, ma c’è un caso internazionale che ha coinvolto Stati stranieri e che si inserisce nel periodo storico dell’ultima fase della Guerra Fredda. Thomas Sankara è stato senza ombra di dubbio un personaggio diverso da tutti gli altri, e per questo difficile da inquadrare con comode etichette. Nei suoi appena quattro anni di governo intervenne in tutti gli aspetti della vita dei suoi concittadini, dimostrando una lungimiranza e una visione molto concreta: fece costruire pozzi, scuole, centri per la maternità, ospedali, farmacie, cercando però allo stesso tempo di emancipare il proprio Paese dagli aiuti internazionali che, sosteneva, altro non erano se non un nuovo controllo neocolonialista sugli Stati dell’Africa. Invitava a consumare “burkinabé”, prodotti locali, fece costruire ferrovie, formò insegnanti per abbattere il tasso altissimo di analfabetismo, fece coltivare milioni di piante per fermare la desertificazione (ogni occasione pubblica era buona per mettere un albero a dimora). Iniziò una imponente campagna vaccinale contro morbillo, meningite e febbre gialla che coinvolse volontari e militari dell’esercito, arrivando a vaccinare fino a un milione di bambini a settimana, e ora più che mai ci rendiamo conto di che numero impressionante potesse essere, a maggior ragione in condizioni difficili come quelle del Burkina Faso degli anni Ottanta. Si adoperò fin da subito per combattere la piaga della fame che colpiva la maggior parte del suo popolo e che fu il suo vero chiodo fisso, promettendo e riuscendo a garantire almeno due pasti e dieci litri di acqua al giorno per tutti i burkinabé. Quando a cavallo tra anni Settanta e Ottanta il Partito Radicale di Marco Pannella fece propria la battaglia contro la fame nel mondo, l’interlocutore simbolico e naturale divenne proprio Sankara, incontrato a Ouagadougou da Pannella e dall’allora segretario del Partito Radicale Giovanni Negri, nel marzo del 1985. Duro nei confronti dei Paesi del Nord del mondo, non ebbe mai paura di pronunciare interventi scomodi scegliendo le occasioni di maggiore portata e mediaticità. Celeberrimo il suo discorso alle Nazioni Unite del 4 ottobre 1984 in cui fece un discorso sferzante contro il neocolonialismo: «Parlo, anche, in nome dei bambini. Di quel figlio di poveri che ha fame e guarda furtivo l’abbondanza accumulata in una bottega di ricchi. Il negozio è protetto da una finestra di vetro spesso; la finestra è protetta da inferriate; queste sono custodite da una guardia con elmetto, guanti e manganello, messa là dal padre di un altro bambino che può, lui, venire a servirsi». Il discorso fu talmente dirompente e scomodo che venne presto tolto dagli archivi delle Nazioni Unite, e sopravvisse a lungo solo grazie alla registrazione audio di un giornalista burkinabé che aveva seguito il presidente a New York. Sankara ereditava un Paese poverissimo, all’entrata del deserto del Sahara, senza un accesso al mare, che aveva ottenuto l’indipendenza dalla Francia nel 1960, in cui si erano susseguiti uno dopo l’altro diversi colpi di Stato che di volta in volta avevano apparentemente sconvolto le istituzioni, per poi in realtà non cambiare niente per davvero. Ma il colpo di Stato del 1983, quello di Sankara e compagni, sarebbe stato profondamente diverso. Per il primo anniversario del golpe, il 4 agosto 1984, Sankara volle dare una svolta al suo Paese, a partire dagli odiosi simboli che ancora ricordavano il passato coloniale. Quel giorno sarebbe partito proprio dal nome, Alto Volta, e l’avrebbe cambiato in Burkina Faso, “la terra degli uomini integri” nelle lingue dioula e mooré. Poi avrebbe annunciato che anche tutti gli altri simboli dello Stato sarebbero cambiati: la bandiera, l’inno nazionale. Il Burkina Faso era veramente uno degli Stati più poveri del mondo, senza alcuna materia prima da vendere o da sfruttare, senza il petrolio che aveva la Nigeria, senza le miniere del Mali, senza le pietre preziose del Congo, solo un vasto territorio semidesertico, terra di pastori e agricoltori che vivevano lì da secoli combattendo con le stagioni. I sette milioni di persone che ci vivevano contavano un medico ogni 50 mila abitanti, una mortalità infantile di 107 neonati ogni mille nascite, un tasso di scolarizzazione del 2 per cento, un’aspettativa di vita che sfiorava appena i 44 anni, un debito estero di oltre il 40 per cento del Pil, una desertificazione galoppante, e così via. Ma tutto questo, e tantissimo altro, venne stroncato violentemente il 15 ottobre del 1987, quando un commando di uomini armati fece irruzione nell’edificio dove Sankara stava presiedendo un consiglio dei ministri, aprì il fuoco e ammazzò il presidente insieme a una dozzina di collaboratori. Se da una parte fu chiaro fin da subito che in mezzo ci doveva essere Blaise Compaoré, l’amico e il compagno di una vita che decise di tradirlo per diventare lui presidente (cosa che puntualmente accadde), dall’altra negli anni sono emersi sospetti e accuse che hanno fatto diventare la morte di Sankara un caso internazionale che conserva ancora oggi diverse zone d’ombra. Sono molti i motivi per cui della morte di Sankara non sappiamo ancora tutto e per cui l’istituzione di un processo è arrivata così tardivamente. Prima di tutto, Blaise Compaoré riuscì a rimanere presidente del Burkina Faso fino al 2014, quando una serie di manifestazioni di protesta lo costrinsero a dimettersi e a fuggire e chiedere asilo in Costa d’Avorio, Paese del quale ha la cittadinanza per via del suo matrimonio con una ivoriana. Durante la sua presidenza, Compaoré non solo ha sempre negato la sua complicità nell’assassinio di Sankara, ma ha anche (inutilmente) tentato in tutti i modi di cancellarne la memoria, costringendo la sua famiglia a fuggire all’estero, impedendo di fatto che venissero condotte delle indagini per trovare la verità, facendo sequestrare e distruggere diversi documenti e carte di Sankara. In secondo luogo, la Francia, che aveva mantenuto (e mantiene tuttora) un certo controllo sulle sue ex colonie, possedeva nei suoi archivi sottoposti a segreto di Stato una serie di documenti riguardanti la morte di Sankara e i fatti immediatamente precedenti e immediatamente successivi. Questi documenti sono stati desecretati solo negli ultimi anni, e addirittura l’ultimo collo è stato consegnato alle autorità burkinabé solo nel marzo di quest’anno, per volontà del presidente Macron. Infine, quello che c’è dietro la morte di Sankara è oggettivamente intricato, e risalire alle responsabilità precise di ciascuno è e sarà molto complicato. Negli anni, grazie al lavoro di molti giornalisti, tra i quali è doveroso citare l’italiano Silvestro Montanaro (scomparso da poco) e il suo documentario “Ombre africane”, si è riusciti a fare un po’ di chiarezza almeno su chi fossero gli autori e gli Stati stranieri coinvolti. Una rete che parte da Oltreoceano, con un ruolo degli Stati Uniti e della Cia, coinvolge la Liberia del signore della guerra Charles Taylor, la già citata Costa d’Avorio del presidente filofrancese Félix Houphouët-Boigny, fino alla Francia, con tutti i suoi “Monsieur Afrique” usati nel tempo per mantenere i contatti politici ed economici con le ex colonie, e alla Libia di Gheddafi, allora terra di addestramento e fornitore di armi a chi volesse avventurarsi in un colpo di Stato. Questo processo ora ha tutte le carte in regola per poter proseguire e arrivare finalmente alla verità, se non alla giustizia. Verità forse tardiva, ma importante anche e soprattutto per comprendere i rapporti sovranazionali spesso tossici tra il Nord e il Sud del mondo.
Thomas Sankara: il debito è il nuovo colonialismo. Piccole Note il 13 luglio 2021 su su Il Giornale. Thomas Sankara è sconosciuto ai più, almeno per noi che riconduciamo il mondo ai nostri piccoli confini. In Africa è un eroe, un modello, un’ispirazione per tutti quelli che sognano la fine del colonialismo (o neo che è uguale) che costringe ancora tanta parte del continente a forme di schiavitù meno manifeste (sulle quali nessuna parola dei Black Lives Matters e nessun inginocchiamento). Proprio contro la più subdola e potente di queste forme di schiavitù si schierò Sankara con una lungimiranza rara, oggi forse estinta: la schiavitù del debito. L’allora presidente del Burkina Faso – che vuol dire “terra degli uomini integri”, nome che lui stesso diede al suo Paese, già Alto Volta – a metà degli anni ’80 capì con grande anticipo che la nuova schiavitù dei Paesi africani – ma non solo, visto il recente caso della Grecia – è l’accoppiata finanziamento/debito. In una drammatica sessione dell’Unione africana che si tenne ad Addis Abeba Sankarà tenne un discorso memorabile, che gli costò la vita, come d’altronde aveva profetizzato nel suo intervento, denunciando con forza il sistema del debito che i paesi occidentali usavano – e usano – per conservare controllo e supremazia sulle ex colonie. Un sistema che strangolava, e strangola, i Paesi, prosciugandone le scarne risorse ed impedendo qualunque forma di investimento e sviluppo. L’infernale circolo vizioso, infatti, fatto di interessi progressivi, rende il debito inestinguibile, tanto che ormai gli Stati che ne sono soggiogati si ritrovano a pagare gli interessi degli interessi, cumulando nuovi prestiti e nuovi cappi al collo. Sankara aveva capito bene il meccanismo, e tentò di convincere tutti i Paesi africani a combattere insieme questo meccanismo, semplicemente non pagando. Un’idea eversiva? Sul punto si può ricordare la più recente presa di posizione di Giovanni Paolo II, che in occasione del Giubileo del 2000 chiese con insistenza ai Paesi creditori di rimettere i debiti dei Paesi africani. Di seguito riportiamo passi dell’intervento.
[Sankara] “Non possiamo rimborsare il debito perché non abbiamo di che pagarlo…perché non siamo responsabili del debito…perché gli altri ci devono ciò che le più grandi ricchezze non potranno mai ripagare: il debito del sangue. Noi pensiamo che il debito si analizzi prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo”. “Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato…che gestivano i nostri stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali. Noi non c’entriamo nulla con quel debito né possiamo pagarlo”.
Se l’origine del debito non era imputabile agli stati africani, non lo era nemmeno il suo incremento progressivo negli anni del post-colonialismo. Infatti, non era una libera scelta dei popoli dell’Africa, ma una collusione tra governi fantoccio, mandati al potere e sostenuti dai Paesi creditori, e i “tecnici”, parola magica sotto il cui cappello è uso, ancora oggi, nascondere qualunque nefandezza. I “tecnici” ovviamente arrivavano sempre dall’Occidente.
[Sankara] “Il debito è la prosecuzione del colonialismo con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici… sono loro che ci hanno proposto i canali di finanziamento... siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per 50anni… Il debito, nella sua forma attuale, controllato e dominato dall’imperialismo, è una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata, in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a norme che ci sono completamente estranee, così che tutti noi siamo resi schiavi della finanza”.
Sankara smaschera anche il gioco della “onorabilità” del debito, perché la partita non è giocata ad armi pari. Infatti, pagare il debito, per gli Stati africani, vuol dire morire di fame, malattie, carestie e altri flagelli che la mancanza di risorse rende impossibile fronteggiare.
[Sankara] “…Rimborsare il debito…non è un problema morale…non è un problema di onore. Il debito non deve essere rimborsato prima di tutto perché se noi non paghiamo in nostri finanziatori non moriranno… invece, se paghiamo, noi moriremo”.
Straordinariamente attuale anche la definizione degli schieramenti. Non è un problema tra Europa e Africa o tra Nord e Sud del mondo. È una partita che si gioca tra ricchi e poveri, tra chi sfrutta e chi è sfruttato, a Nord come a Sud.
[Sankara] “Del resto le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari africane, piuttosto quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa… dobbiamo dire agli uni e agli altri che il debito non sarà pagato”
Thomas Sankara è coraggioso e lungimirante, ma non è affatto ingenuo e sa bene che se rimarrà solo a combattere questa battaglia, non ha alcuna speranza…
“Chi non vorrebbe che il proprio debito sia cancellato subito? Chi non lo vuole, può prendere il proprio aereo e andare subito alla Banca Mondiale a pagarlo! Lo vogliamo tutti! La mia non è una provocazione… vorrei che la nostra conferenza possa dire chiaramente che noi non possiamo pagare il debito. Non dobbiamo dirlo con spirito bellicoso, questo per evitare che ci facciano assassinare individualmente. Se sarà solo il Burkina Faso a rifiutarsi di pagare il debito, non sarò qui alla prossima conferenza, invece con il sostegno di tutti, di cui ho molto bisogno, potremo evitare di pagare, consacrando le nostre magre risorse al nostro sviluppo”.
L’ultima parte dell’intervento di Sankara è forse quella che scaccia i residui dubbi in chi lo voleva eliminare. Thomas si scaglia, infatti, contro le armi e le guerre (in)civili che insanguinano il continente.
[Sankara] “Vorrei concludere dicendo che ogni volta che un paese africano compra un’arma è contro un africano…perciò dobbiamo anche, nella scia della risoluzione del problema del debito, trovare una soluzione al problema delle armi. Sono un militare e porto un’arma, ma vorrei che ci disarmassimo… potremo fare la pace a casa nostra. Potremmo anche usare le nostre immense potenzialità per sviluppare l’Africa. Perché il nostro suolo è ricco: abbiamo abbastanza braccia e un mercato immenso…abbiamo abbastanza capacità intellettuali per creare e utilizzare la scienza e la tecnologia”..
L’appello finale per un Africa unita e pacificata suona forse un po’ utopistico, ma l’alternativa al sogno di Sankara è l’incubo irreversibile al quale era ed è consegnato il suo continente.
“Dobbiamo realizzare un fronte unito di Addis Abeba contro il debito… prendiamo la decisione di limitare la corsa agli armamenti di cui sono preda i paesi deboli e poveri… facciamo sì che il mercato africano sia il mercato degli africani: produciamo in Africa, lavoriamo i nostri prodotti in Africa, consumiamo in Africa… dobbiamo avere come orizzonte di vivere come africani: è il solo modo di vivere liberi e degni”.
Il discorso di Adis Abeba è del luglio dell’87. Sankara sarà ucciso il15 ottobre successivo.
Thomas Sankara: il debito è il nuovo colonialismo. Piccole Note il 14 luglio 2021 su su Il Giornale. L’avventura di Thomas Sankara alla guida del Burkina Faso è durata poco più di 4 anni, ma non è stata vana utopia. Era un uomo pratico, di estrazione popolare, e sapeva quali erano le battaglie che andavano combattute per permettere ai burkinabè di provare a risollevare il paese, uno dei più poveri del mondo, con un tasso di analfabetismo altissimo, una aspettativa di vita di 40anni e lo spettro della carestia sempre alle porte.
Due pasti al giorno e acqua potabile. In due anni di lavoro riuscì ad assicurare ai 7 milioni di burkinabè due pasti al giorno e acqua potabile, un traguardo utopistico ancora oggi per quasi tutte le nazioni africane.
Fece costruire infrastrutture di cui il Burkina Faso era quasi totalmente privo, come pozzi, scuole e ospedali e, in parallelo, cercò di affrancare il proprio paese dalla schiavitù degli aiuti internazionali sostenendo una sorta di autarchia, invitando cioè i cittadini a utilizzare i prodotti locali per favorire lo sviluppo agricolo e industriale, al quale aveva messo mano. Sapeva che il ruolo della scuola era fondamentale per lo sviluppo del Paese e si impegnò a fondo e con lungimiranza nella lotta contro l’analfabetismo, iniziando col formare una classe di insegnati. Con un singolare anticipo sui tempi, iniziò una vera e propria battaglia green, non tanto a livello ideologico, ma sul concreto, combattendo la desertificazione che stava erodendo le terre del suo Paese, piantando alberi ovunque fosse possibile. Pari fu l’impegno per promuovere imponenti campagne vaccinali contro le malattie che ogni anno chiedevano migliaia di vite alla sua gente, come il morbillo, la meningite e la febbre gialla. Straordinariamente moderno anche l’approccio alla condizione femminile a cui Sankara dedicò particolare attenzione: per la prima volta in Africa (e non solo) le donne assunsero per meriti ruoli di potere vero, nell’esercito, nella polizia e nella politica, fino ad assurgere alla dirigenza di alcuni ministeri dello Stato (e quando ancora la politica occidentale era appannaggio esclusivo degli uomini). “Dobbiamo dare un lavoro a ogni donna, dobbiamo dare alle donne i mezzi per una vita dignitosa”, diceva.
Il piccolo Burkina Faso in pochi anni era diventato non solo un Paese migliore, ma anche un esempio per altri Paesi africani. Cosa inaccettabile per i tanti ambiti di potere che avevano costruito imperi – finanziari, imprenditoriali, politici – grazie al saccheggio delle ricchezze del continente.
L’omicidio e la sua eredità. Come accennato nella nota precedente, Sankarà venne ucciso tre mesi dopo il discorso di Addis Abeba dal suo più grande amico e collaboratore, Blaise Compaoré, con l’appoggio di mercenari di quel Charles Taylor che, “evaso” da una prigione americana, approdò in Africa divenendo in breve presidente della Liberia (dove consumò varie atrocità, per le quali in seguito venne condannato a 50anni di carcere). Il bel documentario di Silvestro Montanaro “E quel giorno uccisero la felicità”, che RAI3 mandò in onda nel 2013, in orario da semi-clandestinità, narra anche delle complicità occidentali in questo tipico golpe africano, orchestrato da servizi più o meno segreti di tali Paesi. Ucciso il suo ex amico, Compaorè prese il suo posto alla presidenza del Paese e si adoperò a cancellare tutte le riforme attuate dal suo predecessore, come anche la sua memoria, arrivando al punto di distruggere più volte la sua tomba, sempre ricostruita dai tanti che non l’avevano dimenticato. Come recita la Treccani “Compaorè avviò un formale processo di democratizzazione (nel 1991 si fece eleggere alla presidenza della Repubblica, carica in cui è stato riconfermato nel 1998, nel 2005 e nel 2010). Il Burkina Faso ha avuto un periodo di stabilità politica fino allora sconosciuta, che ha consentito l’apertura agli investimenti stranieri e l’adozione di misure di privatizzazione e liberalizzazione dell’economia in linea con le direttive del Fondo monetario internazionale”. L’anomalia è rientrata e il mondo lo registra con la soddisfazione del caso. Dell’aprile di quest’anno “la notizia che un tribunale militare burkinabè processerà l’ex presidente Blaise Compaoré per l’assassinio del suo predecessore, Thomas Sankara” (Il Fatto Quotidiano). Che questo tribunale possa fare piena luce sull’assassinio di Sankara, cioè anche sulle responsabilità dell’Occidente, appare alquanto impossibile, ma va così va il mondo. “La nostra rivoluzione avrà valore solo se, guardando intorno a noi, potremo dire che i burkinabé sono un po’ più felici grazie a essa: perché i burkinabé hanno acqua potabile e cibo abbondante e sufficiente, sono in buona salute, perché hanno scuole e case decenti, perché sono vestiti meglio, perché hanno diritto al tempo libero; perché hanno l’occasione di godere di più libertà, più democrazia, più dignità. La rivoluzione è la felicità. Senza felicità, non possiamo parlare di successo”.. Thomas Sankara aveva descritto così il senso della sua azione, pochi giorni prima di morire. Alla sua morte saranno resi noti tutti i suoi averi: 100 dollari e una chitarra. Nota a margine. Spesso, nel criticare la Via della Seta cinese, l’America accusa la Cina di approcciarsi ai Paesi interessati a tale progetto globale usando la trappola del debito. Esattamente quella trappola che America ed Europa hanno usato e usano per soggiogare l’Africa e altri Paesi poveri del mondo… bizzarrie della propaganda.
· Quei razzisti come i ruandesi.
Manila Alfano per "il Giornale" il 21 settembre 2021. Considerato un eroe per il mondo, accusato di terrorismo nel suo Paese. Il Ruanda ha emesso la sentenza contro l'uomo che durante il genocidio del 1994 salvò oltre mille persone. Oggi il governo gli presenta il conto: nove capi di imputazione pendono sulla sua testa, compreso quello di «terrorismo», condannato a 25 anni di carcere. Paul Rusesabagina, è l'uomo che ha ispirato il film «Hotel Rwanda», è lo «Schindler africano», che con il suo coraggio è riuscito a mettere in salvo centinaia di persone. Rusesabagina, 67 anni, non era presente all'annuncio della sentenza, dopo aver dichiarato più volte negli anni di non aspettarsi giustizia in un processo definito una «vergogna». Le stesse organizzazioni per i diritti umani e l'opposizione al governo ruandese denunciano il processo come atto di vendetta politicamente motivato. «Non ha beneficiato di un processo equo e pertanto la sentenza è da rivedere», ha dichiarato la ministra degli Esteri belga Sophie Wilmès, secondo la quale non è stata rispettata neppure la presunzione di innocenza. Sinora è stato dichiarato colpevole di formazione di gruppo armato illegale e adesione a gruppo terroristico, ma restano sospese le accuse di omicidio, sequestro, rapina a mano armata legate a terrorismo. Paul Rusesabagina era diventato una celebrità mondiale dopo che il film di Terry George del 2004 raccontò la sua storia: nel 1994, durante il genocidio che in 100 giorni uccise più di 800.000 persone, lui riuscì a salvare più di 1.000 tutsi nascondendoli nell'hotel dove lavorava. Rusesabagina è passato negli anni da essere una figura celebrata a una contrastata dal governo, a causa delle critiche mosse al presidente Paul Kagame. Dopo l'uscita del film, ha utilizzato la sua popolarità per denunciare quelli che secondo lui erano gli abusi e le violazioni del governo di Kagame, comandante tutsi che con le sue truppe pose fine al genocidio del 1994 e che dal 2000 è il presidente del Rwanda. La sentenza è arriva oltre un anno dopo la scomparsa di Rusesabagina mentre era in visita a Dubai: l'uomo era ricomparso giorni dopo in manette in Ruanda, accusato di aver sostenuto il braccio armato della sua piattaforma politica di opposizione, il Movimento ruandese per il cambiamento democratico. Il gruppo aveva rivendicato la responsabilità di attacchi nel 2018 e 2019 nel sud del Paese, in cui erano morti nove ruandesi. Rusesabagina ha sempre dichiarato la propria innocenza, e la famiglia denuncia che fu sequestrato e riportato in Ruanda contro la sua volontà. L'ex manager e i suoi avvocati hanno boicottato le udienze da marzo, denunciando un processo «politico» reso possibile dal suo «sequestro» organizzato dalle autorità ruandesi, nonchè i maltrattamenti durante la detenzione. L'eroe di Hotel Rwanda viveva in esilio dal 1996 tra gli Stati Uniti e il Belgio, paesi da cui aveva ottenuto la cittadinanza. È stato arrestato nell'agosto 2020 in Ruanda in circostanze oscure, quando è sceso da un aereo che pensava fosse diretto in Burundi. Invece, una volta a terra, l'amara sorpresa. Dopo denunce e indignazione della stampa straniera, il governo ruandese ha dovuto ammettere di aver «facilitato il viaggio» a Kigali, ma ha affermato che l'arresto era «legale» e che «i suoi diritti non sono mai stati violati». Gli Stati Uniti, il Parlamento europeo e il Belgio di cui è cittadino hanno espresso preoccupazione.
“Terrorista”: ecco la sentenza contro l’eroe di Hotel Rwanda. Daniele Bellocchio su Inside Over il 20 settembre 2021. A un anno dal suo arresto, Paul Rusesabagina, l’eroe del film Hotel Rwanda, è stato condannato per “terrorismo” e ora rischia il carcere a vita. Questa mattina la Corte Suprema ruandese si è pronunciata in questo modo nei confronti dell’uomo conosciuto in tutto il mondo come l’Oscar Schindler africano, per aver salvato, durante il genocidio ruandese del 1994, oltre 1200 cittadini tutsi dalle milizie genocidarie hutu. Per comprendere come si è arrivati a questa sentenza storica che fa di uno degli eroi di fine ‘900 un terrorista, e che, nel giro di poche ore dal suo pronunciamento, ha già sollevato polemiche a livello internazionale, occorre riavvolgere il rocchetto degli eventi sino al 1994 quando nel Paese delle Mille Colline si consumava uno dei crimini e delle tragedie più efferate della nostra contemporaneità. Da aprile a luglio del 1994 nel Paese dei Grandi Laghi si registrò un massacrò che vide oltre 800’000 cittadini di etnia tutsi morire sotto i colpi di machete delle milizie suprematiste hutu. In quei mesi di follia e ferocia, che sarebbero stati poi consegnati alla storia come i giorni del genocidio ruandese, Paul Rusesabagina era il manager del lussuoso Hotel delle Mille Colline a Kigali e l’uomo, di origine hutu, sfruttò la sua carica e i mezzi a sua disposizione per mettere al riparo 1.268 tutsi e hutu moderati, dalle esecuzioni sommarie e dalle barbarie che travolgevano le strade della capitale e i villaggi del Paese africano. La fine della guerra in Ruanda coincise con la presa del potere da parte del leader del Fronte Patriottico Ruandese Paul Kagame e Rusesabagina si trovò subito in contrasto con il nuovo esecutivo che accusò di metodi autoritari. Nel 1996, l’ex gestore dell’albergo delle ”Mille Colline” si trasferì prima in Belgio, dove chiese asilo politico, e poi negli USA. Nel 2004, con l’uscita nelle sale del film candidato all’Oscar “Hotel Rwanda” la storia di Rusesabagina raggiunse una notorietà di livello planetario e l’uomo ottenne nel 2005, dal presidente George W. Bush, la Presidential Medal of Freedom, la massima onorificenza civile degli Stati Uniti. Dal suo esilio Rusesabagina ha sempre lanciato duri attacchi nei confronti di Kagame e del suo cerchio magico accusando l’esecutivo ruandese di aver preso una deriva autoritaria e di non rispettare la popolazione hutu. Negli anni però, alle accuse mosse da Rusesabagina, hanno fatto seguito numerosi racconti che hanno macchiato la figura di colui che era considerato uno dei massimi esponenti della difesa dei diritti umani a livello planetario. Testimonianze raccolte dalla stampa internazionale hanno ridisegnato la figura dell’ex manager dell’Hotel di Kigali dipingendolo come uno speculatore che si è arricchito chiedendo soldi e beni alle migliaia di civili che ha messo in salvo nel suo albergo. Ciò che però non è stato mai appurato è se queste fossero accuse comprovate o costruzioni fatte a tavolino dal governo di Kagame per infangare e discreditare la figura di uno dei suoi più conosciuti e autorevoli oppositori. Certo è che Rusesabagina ha proseguito la sua attività di oppositore dando vita nel 2017 al Movimento ruandese per il cambiamento democratico (Mrcd), e questa sigla si sospetta che abbia avuto anche un’ala armata, il Fronte di liberazione nazionale (Fln), resosi responsabile di alcuni attentati nel sud del Ruanda, tra il 2018 e il 2019, che hanno provocato la morte di 9 persone. Lo scontro tra Rusesabagina e Paul Kagame è proseguito con attacchi e accuse reciproche ma nessuno avrebbe mai immaginato che l’esito di questa controversia sarebbe stato quello di una condanna per terrorismo arrivata al termine di un iter giudiziario caratterizzato più da ombre che da luci e che in molti, tra editorialisti, attivisti dei diritti umani e legali, ritengono avere i connotati di una resa dei conti personale tra il governo ruandese e il suo nemico pubblico numero uno. Alla sentenza di poche ore fa si è arrivati infatti dopo un anno di accuse, incongruenze e denunce di violazioni dei diritti dell’accusato a partire dall’arresto avvenuto lo scorso agosto quando l’aereo su cui viaggiava l’ex gestore dell’albergo ruandese è atterrato in Ruanda anziché in Burundi dov’era diretto. Le dinamiche e le circostanze dell’arresto ad oggi rimangono molto caliginose così come tutto l’iter giudiziario che ha portato questa mattina l’eroe di Hotel Rwanda ad essere accusato di terrorismo. Durante questi tredici mesi di detenzione molti sono stati gli appelli fatti dalle organizzazioni umanitarie, tra cui Human Rights Watch, affinché venisse fatta chiarezza su quanto stava avvenendo nel carcere di Kigali. A Rusesabagina infatti é stato impedito di essere scarcerato sotto cauzione per motivi di salute, Vincent Lurquin, l’avvocato belga dell’imputato é stato espulso dal Paese in quanto persona non grata, é stato provato che materiale riservato, appartenente a Rusesabagina, é stato intercettato e sequestrato dalle autorità del penitenziario e inoltre ci sono stati casi di testimoni che hanno ritrattato più volte le loro deposizioni. Ma, nonostante la richiesta del parlamento europeo che venissero garantiti a Rusesabagina i diritti di un cittadino europeo, avendo lui cittadinanza belga, nonostante la mobilitazione internazionale e le richieste dei famigliari e degli attivisti dei diritti umani di fare chiarezza sui numerosi quesiti irrisolti; l’iter giudiziario é comunque proseguito e questa mattina é arrivato al suo epilogo. Rusesabagina si é presentato davanti al giudice indossando la divisa rosa dei detenuti e con le manette ai polsi e si è ritrovato alla sbarra a dover rispondere di nove capi d’accusa tra cui terrorismo, formazione di un gruppo armato illegale, rapimento, incendio doloso e omicidio. Dopo ore di attesa, il giudice Beatrice Mukamurenzi ha emesso la sentenza esprimendosi in questi termini nei riguardi dell’accusato: “Ha fondato un’organizzazione terroristica che ha attaccato il Ruanda. Ha contribuito finanziariamente alle attività terroristiche. Ha approvato disposizioni mensili di fondi per queste attività. Ha inventato un codice per nascondere queste attività”. Alla fine Rusesabagina è stato condannato per i suoi legami con il Fronte di Liberazione Nazionale ma gli avvocati della difesa hanno dichiarato che non esistono prove inconfutabili riguardo al fatto che l’organizzazione agisse come braccio armato del Movimento ruandese per il cambiamento democratico, di cui Rusesabagina era uno dei fondatori. La figlia di Rusesabagina, che ha assistito al processo in remoto da Bruxelles, sulle colonne del New York Times, ha gridato allo scandalo e alla messinscena, molti opinionisti e giornalisti hanno parlato di processo politico e una delle analisi più efficaci, sempre per il quotidiano statunitense, è stata fatta da Timothy P. Longman, professore di scienze politiche e affari internazionali alla Boston University e autore di due libri sul Ruanda. “Questo processo si inserisce all’interno di una lunga storia di repressione di qualsiasi voce di dissenso da parte del governo ruandese”. E poi il professore Longman ha proseguito dicendo: “Il verdetto nel caso Rusesabagina a questo punto è quasi irrilevante. Ciò che è stato fatto attraverso questo processo è qualcosa di molto più grande, è stato mandato un chiaro messaggio ad ogni cittadino ruandese in patria e all’estero: nessuno potrà mai sentirsi al sicuro nel momento in cui dirà qualcosa contro il presidente Kagame e il Fronte patriottico ruandese”.
· Quei razzisti come i congolesi.
Il Congo sanguina. Daniele Bellocchio su Inside Over il 6 dicembre 2021. “Vogliamo raccontare i drammi senza fine del Congo, una terra tormentata da gruppi armati anche di matrice islamista, depauperata dallo sfruttamento delle risorse minerarie, travolta da epidemie e da sfide che riguardano tutti noi. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo di chi da anni si occupa di questo Paese: il fotografo Marco Gualazzini e il giornalista Daniele Bellocchio.
“Era un uomo di grande umanità, umile e un vero amico del popolo congolese. Amava il Congo e i congolesi. Dentro di lui c’era un grande calore umano e un grande rispetto per le persone. Nutrivamo grande stima nei suoi confronti. La sua memoria resterà indelebile nei nostri cuori”. E poi: “Dalle stelle da cui ci sta guardando ora, potrà essere fiero se noi porteremo avanti i sogni per i quali è vissuto e morto”. È con queste parole che il Premio Nobel Denis Mukwege ha ricordato Luca Attanasio, l’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo che ha perso la vita in seguito a un attacco condotto da alcuni ribelli nella provincia congolese del Nord Kivu soltanto 9 mesi fa.
Luca Attanasio, nato a Varese nel 1977, uno dei più giovani ambasciatori italiani nel mondo, la mattina del 22 febbraio 2021 sta percorrendo la Route Nationale 2, la direttrice che mette in comunicazione Goma, il capoluogo della regione del Nord Kivu, con le aree settentrionali della provincia, per verificare la distribuzione del cibo nelle scuole di Rutshuru. Il convoglio, composto da un pick delle Nazioni Unite e da uno del World Food Programme, viaggia senza scorta, il vulcano Nyragongo troneggia all’orizzonte, la savana lentamente lascia spazio alle colline e nell’impenetrabile florilegio di piante, boschi e sterpaglie, intanto sono annidati decine di ribelli, sbandati, e disertori che nascosti nella vegetazione, pianificano attacchi, programmano sequestri, preparano le armi e passano all’azione.
All’improvviso un posto di blocco nei pressi della cittadina di Kanyamahoro. Un gruppo di uomini armati dapprima posiziona dei tronchi sulla strada, poi alza i kalashnikov, i miliziani sparano contro le macchine e uccidono l’autista Mustapha Milambo. Alcuni rangers del Parco del Virunga, insieme ad alcuni regolari dell’esercito di Kinshasa, si precipitano sulla scena dell’accaduto. L’arrivo dei militari provoca uno scontro a fuoco tra i banditi e i governativi e in pochi minuti, questioni di istanti, dalle remote regioni del Congo sopraggiunge una notizia che pietrifica il mondo intero: l’ambasciatore italiano Luca Attanasio di 43 anni, il carabiniere Vittorio Iacovacci di 31 e l’autista Mustapha Milambo sono stati assassinati.
L’esecutivo di Kinshasa, da subito, punta il dito contro i ribelli hutu dell’FDLR, poi, in seguito alla smentita da parte dei rivoluzionari, spiega che si è trattato di un tentativo di rapimento finito drammaticamente. Il governo congolese apre un’indagine, lo stesso fanno l’UNDSS (United Nations Department of Safety and Security) e la magistratura italiana che invia sul campo un nucleo dei ROS. Ad oggi però, nonostante il lavoro degli investigatori, a una verità su quanto successo ancora non si è arrivati, tutto rimane ondivago, permeato da ipotesi, supposizioni e punti di domanda senza risposta.
L’unica certezza è quella dell’evidenza di una tragedia pubblica e privata che ha visto l’ambasciatore Attanasio, diplomatico italiano, padre di famiglia e marito, morire insieme a un militare dei Carabinieri di soli 30 anni, in quelle terre che lui amava e per le quali stava lavorando e dedicando tutta la sua professionalità.
Di nuovo Italia e Congo, due Paesi apparentemente lontani, si trovano quindi vicini, uniti nel dolore e travolti dal gorgo delle maledizioni. Perché, sempre in Congo, nel 1960, è stato assassinato dai ribelli il Viceconsole italiano Tito Spoglia e un anno dopo a Kindu, 13 aviatori italiani, che facevano parte della missione dei caschi blu, sono stati barbaramente uccisi da un gruppo di insorti.
La storia si ripete, di nuovo e, a unire Roma con Kinshasa, oggi come ieri, è un anatema, un filo rosso, sottile ma evidente, netto e tranchant; proprio come i confini del Congo, che non limitano soltanto una nazione ma sono uno scisma fisico e temporale del nostro presente, una presenza di coscienza di un mondo altro al di fuori di questo mondo nostro.
Lo spartiacque del Congo
Come si arriva a uno dei numerosi punti di frontiera che puntellano la Regione dei Grandi Laghi, immediatamente, si ha infatti la percezione di essere sospesi su uno spartiacque. Da un lato l’Africa che, uscita da conflitti e crisi umanitarie, ha intrapreso un percorso di crescita economica e sviluppo; dall’altro lato il Congo che invece travolge, investe e disorienta ancora prima che vi si acceda.
Si osservano, appena arrivati al confine, le colonne di cittadini che lasciano il Paese per cercare riparo nell’accogliente terra di Kampala. All’istante, una volta giunti alla frontiera, si viene accerchiati dal bailamme dei venditori di chincagliere e, nel momento stesso in cui ci si incammina per l’ispezione dei bagagli, si è immediatamente scrutati senza sosta dagli sguardi indagatori dei funzionari governativi. Solo dopo aver atteso, con ascetica pazienza, che i controlli doganali siano stati effettuati, ecco che la Repubblica Democratica del Congo apre le sue porte.
Pigri militari intabarrati in divise madide di sudore, nascosti in garrite e aggrappati ai loro kalashnikov, sollevano la sbarra che dà accesso al cuore dell’Africa; l’universo Congo si svela e da quel momento la terra dei minerali e della miseria endemica, dei bambini soldato e dei missionari eroi, degli stupri di guerra e del premio Nobel che lotta contro la violenza sulle donne, delle ribellioni orfane dei ribelli e dei costruttori di pace mai domi nella loro missione, travolge e trascina dentro di sé.
L’odore di carbone nell’aria, la nebbia sottile che si solleva dalle montagne, la terra nera, vulcanica, che contrasta con il verde di una natura feroce e matrigna che tutto circonda, colpiscono nell’istante stesso in cui si varca la frontiera. E sebbene siano anni ormai che ci rechiamo in questo lacerto di Africa centrale per raccontarne conflitti ed epidemie, condanne e remissioni, mai siamo riusciti ad abituarci a questo scontro frontale, a questa calata verso un precipizio di contraddizioni e di dicotomie, di tragedie e salvezze. E tra poco, di nuovo, dovremo affrontare tutto questo, perchè a breve ci recheremo per InsideOver nelle province orientali del Paese della regione dei Grandi Laghi per raccontare alcuni dei problemi più gravi e iconici della nostra contemporaneità che qui si stanno consumando lontano dai riflettori dei media internazionali: l’avanzata dello jihadismo, lo sfruttamento illegale del sottosuolo, la distruzione delle foreste e il divampare costante di nuove zoonosi.
Abbiamo deciso di tornare nell’ex colonia belga per descrivere la lotta che sta conducendo il governo di Kinshasa contro i gruppi islamisti dell’Adf, la formazione legata all’Isis che, in Congo, ha dato vita all’Iscap, la Provincia dell’Africa Centrale del Califfato. Sfruttando l’assenza di infrastrutture, la povertà assoluta, la porosità delle frontiere e la situazione di instabilità che perdura da decenni, le forze islamiste hanno avviato una guerriglia che attraverso rapimenti, massacri di civili e attacchi indiscriminati ha condannato la popolazione locale a vivere in uno stato di terrore assoluto. Nelle regioni orientali del Paese è stata proclamata a maggio dell’anno scorso la legge marziale; un estremo provvedimento adottato dal governo del presidente Thsisekedi per cercare di contrastare le milizie ribelli e porre un freno all’insicurezza che travolge la zona.
Tutte le autorità civili in Ituri e Nord Kivu sono state sostituite dalle autorità militari e proveremo a seguire quindi gli uomini dell’esercito congolese, le FARDC, nella loro guerra contro le formazioni irregolari e per la pacificazione del territorio. Non ci limiteremo a raccontare solo l’esercito di Kinshsasa ma anche il contingente di interposizione dei Caschi Blu dell’Onu che, dopo una missione decennale, probabilmente verrà smobilitato nel breve termine e quindi è quanto mai necessario ora interrogarsi e verificare, direttamente sul campo, soprattutto dopo quanto successo in Afghanistan, quali conseguenze potrebbe avere un ritiro di una forza di pace da un’area così instabile come la regione orientale del Congo.
Nell’est del Congo non ci sono solo i gruppi islamisti, le formazioni ribelli sono più di cento e il motivo per cui questa terra è infettata da un coacervo di sigle irregolari è uno solo: la ricchezza del sottosuolo. Dal momento che non possono essere raccontati gli effetti senza prima aver analizzato le cause dei fenomeni, cercheremo di andare a descrivere l’origine della dannazione dell’est del Congo: i giacimenti minerari. Proveremo quindi a calarci nelle miniere di Rubaya dove, per una manciata di dollari al giorno, decine di uomini consumano le proprie vite estraendo quintali del minerale più prezioso che esista: il coltan.
Ribelli e regolari, materie prime e minatori, sono tutti i fattori di un’equazione che ha come risultato finale la dannazione della popolazione civile. Le genti dell’est del Congo vivono sotto assedio della guerra, delle malattie e della miseria più assoluta. Dall’inizio del 2020 i civili uccisi per mano delle milizie armate sono stati oltre 2000 e gli sfollati 2milioni, inoltre il World Food Programme ha dichiarato, nel suo ultimo report sulla Repubblica Democratica del Congo, che sono 22 milioni le persone che soffrono la mancanza di cibo. Ci spingeremo allora nei villaggi assediati e nei campi profughi per raccontare il dramma che sta travolgendo uomini, donne e bambini, e poi cercheremo di raccontare anche gli sforzi di chi sta cercando di trovare una soluzione a una tragedia che troppo spesso è stata dipinta come irrisolvibile e ontologica.
Il Congo sanguina ed è nostro dovere, in quanto giornalisti, non girarci dall’altra parte ma raccontare quanto sta avvenendo immergendoci, ancora una volta, in questa terra di estremismi e di contrasti dove se da un lato è tangibile e concreto il concetto di morte allo stesso tempo, in nessun luogo come il Congo, si può conoscere e comprendere la dimensione più alta del valore della parola vita racchiusa in storie come quella di Luca Attanasio: ambasciatore, marito, padre e per sempre, uomo di pace.
Le milizie che insanguinano la Repubblica Democratica del Congo. Lorenzo Vita su Inside Over il 7 dicembre 2021. “Vogliamo raccontare i drammi senza fine del Congo, una terra tormentata da gruppi armati anche di matrice islamista, depauperata dallo sfruttamento delle risorse minerarie, travolta da epidemie e da sfide che riguardano tutti noi. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo di chi da anni si occupa di questo Paese: il fotografo Marco Gualazzini e il giornalista Daniele Bellocchio.
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Nel territorio più orientale della Repubblica Democratica del Congo, le milizie si muovono a decine e come schegge impazzite. Compiono rapimenti, mietono vittime, combattono tra loro e contro l’esercito, gestiscono traffici di minerali e lottano non solo per se stesse, ma anche per i Paesi limitrofi. O forse anche molto più lontani.
La morte dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, ucciso mentre percorreva la strada che collega Rutshuru-Goma, ha riportato tragicamente all’attenzione di molti la terribile situazione della Repubblica democratica del Congo. Un Paese in cui la parte orientale è costellata da fazioni ribelli che non sono semplici predoni o bande armate improvvisate. Tante, spiegano gli analisti, sono composte da uomini che sono militari di professione, convertiti in ribelli semplicemente per sopravvivenza o per ambire a guadagni più elevati legati al traffico di materie prime.
Un caos infernale in cui si muovono i Paesi che confinano con quell’area (in particolare Burundi, Ruanda e Uganda) e che si trovano così a poter sfruttare i gruppi ribelli per provare a espandere l’influenza su un territorio ricchissimo, che proprio per questo è condannato a subire il terrore e il sangue.
Angelo Ferrari, analista e africanista per Agi, spiega in un suo articolo che “nell’area si confrontano oltre venti gruppi etnici con propri miliziani”. La formazione più nota e radicata sul territorio è quella Mayi Mayi, che raccoglie al suo interno diverse anime. Sorte come resistenza alle forze ruandesi che penetravano nelle regioni oltre il confine, le milizie hanno assunto diverse identità e obiettivi e i suoi leader sono spesso stati accusati di crimini di guerra. Il nome, spiegano gli autori del “Historical Dictionary of the Democratic Republic of the Congo” deriva da una parola Swahili che significa “acqua”. I suoi miliziani credevano infatti che attraverso alcune pratiche magiche legate all’acqua potessero salvarsi dai proiettili dei nemici. E così quel termine collegato a questi rituali propiziatori è diventato il simbolo di questa galassia di signori della guerra e miliziani che si muove nei territori orientali del Congo. Un gruppo con decine di morti sulla coscienza e con accuse che riguardano alcuni tra i più efferati delitti avvenuti nel Paese.
Non sono le uniche milizie a combattere nel Paese. Una delle più importanti – quella che Bienvenue Pombo, membro della commissione d’inchiesta per la morte di Attanasio, aveva definito a Repubblica come la milizia responsabile dell’assalto – è quella che va sotto il nome di Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr). Per la missione Monusco, l’operazione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione della Repubblica democratica del Congo, questa forza rappresenta “il più grande gruppo armato straniero illegale” del Paese africano. Per l’Onu, non è chiaro se le Fdlr siano lì per premere sul governo del Ruanda o per rovesciare il potere prendendo il sopravvento sulla madrepatria. Quello che è certo è che migliaia di loro uomini operano nel territorio del Kivu, nei pressi del vulcano Nyiragongo, e proprio nel settore in cui Attanasio è stato tragicamente ucciso.
Un altro nome che terrorizza le aree orientali e settentrionale della Repubblica democratica del Congo è quello guidato da Joseph Kony, il Lord’s Resistence Army (Lra), l’Esercito di resistenza del Signore. È una delle armate più inquietanti del panorama delle milizie locali. Unite da un fanatismo religioso cristiano, misticismo animista e da spirito nazionalista, gli uomini di Kony sono accusati di crimini orrendi. La Corte Penale Internazionale li ritiene colpevoli di schiavitù, rapimenti, arruolamenti di bambini e di innumerevoli omicidi. Per gli Stati Uniti sono un’organizzazione terroristica. Un’orda di centinaia di persone che ha terrorizzato tutta quella regione dell’Africa e che si è spostata dall’Uganda fino al Sud Sudan e ora in Congo. La sua forza si è ridotta nel tempo, ma questo non ha escluso attacchi e le conseguenza nefaste della sua guerra.
Un altro gruppo che ha le sue radici in Uganda è quelle delle Allied democratic Forces (Adf), le Forze democratiche alleate. Le milizie Adf, nate nell’area del Rwenzori e guidate, come spiega sempre Ferrari su Agi, dall’ex cristiano convertito all’Islam, Jamil Mukulu, sono salafiti che vogliono imporre la più dura delle leggi islamiche in Uganda e in tutti i territori che controllano. A novembre del 2021, l’ultimo assalto è stato nel Nord Kivu, con la morte di alcuni civili e la reazione dell’esercito nazionale che ha ucciso i terroristi. Da qualche anno, spiegano gli osservatori di Africanews, alcuni attacchi da parte delle Adf sono stati rivendicati dallo Stato islamico, qui identificato come “Provincia dell’Africa centrale” (Iscap in inglese). Anche per gli analisti del Centre for Strategic and International Studies, dall’arresto di Mukulu nel 2015, “l’Adf ha rilasciato quantità crescenti di propaganda che riflette l’allineamento ideologico con lo Stato Islamico. Ciò include una maggiore attenzione agli sforzi per uccidere i civili non musulmani”. Un segnale di come l’islamismo sia esteso ormai anche in quest’area dell’Africa.
I fantasmi dell’Ebola infestano gli incubi del Congo. Federico Giuliani su Inside Over il 12 dicembre 2021. “Vogliamo raccontare i drammi senza fine del Congo, una terra tormentata da gruppi armati anche di matrice islamista, depauperata dallo sfruttamento delle risorse minerarie, travolta da epidemie e da sfide che riguardano tutti noi. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo di chi da anni si occupa di questo Paese: il fotografo Marco Gualazzini e il giornalista Daniele Bellocchio.
L’illusione ha retto per circa cinque mesi. Sembrava che nella Repubblica Democratica del Congo Ebola fosse ormai un nemico sconfitto, un virus da relegare negli archivi della storia, una battaglia vinta da raccontare alle future generazioni. Lo scorso maggio Kinshasa annunciava la fine dell’ultima epidemia di Ebola a tre mesi dalla segnalazione di una ricomparsa del “nemico invisibile” nel Kivu Nord, a est del Paese. In una nota, l’Unicef spiegava che l’epidemia era stata contenuta grazie alla rapida risposta delle autorità congolesi, e che quella appena soffocata era la terza fiammata di Ebola nel Paese in meno di un anno.
A ottobre la realtà ha stravolto i piani di una nazione nel frattempo aggredita anche dal Sars-CoV-2. Tre nuovi casi di Ebola sono apparsi nell’est del Paese, nel distretto sanitario di Butsili, nei pressi della città di Beni, dove tra l’altro si era verificato l’ultimo focolaio estinto. I funzionari provarono a giustificare quanto accaduto ipotizzando che la riacutizzazione del virus potesse essere collegata alla massiccia epidemia che, a cavallo tra il 2018 e il 2020, aveva ucciso oltre 2.200 persone e infettate più di altre mille. Il risveglio del “fantasma” può essere stato causato da infezioni latenti che, in qualche modo, sono riuscite a resistere all’interno degli organismi dei sopravvissuti. C’era infatti stato un precedente di casi legati all’epidemia 2018-2020: era scoppiato a febbraio e, dopo esser stato contenuto a maggio, aveva causato sei vittime.
Il passato che ritorna
Inizio, fine, inizio, fine. E così fino alla prossima illusione di aver neutralizzato la minaccia Ebola. Il Congo è salito su queste montagne russe fin troppe volte, visto che ha annunciato la fine di oltre undici epidemie. Se i numeri relativi ai recenti contagi e ai decessi sono stati tutto sommato contenuti, lo si deve ai vaccini sperimentali, vero e proprio punto di svolta nel contenere più rapidamente i recenti focolai.
Intanto, l'Università di Oxford ha iniziato a reclutare volontari per uno studio di Fase 1 volto a testare un vaccino contro il virus Ebola, sia del ceppo Zaire che del ceppo Sudan, due delle specie più letali. Ma la scienza non può permettersi di perdere un istante, perché la Repubblica Democratica del Congo, nonostante abbia imparato a fare i conti con il "fantasma", si trova in una situazione delicatissima. L'area più a rischio, come detto, sembrerebbe essere quella localizzata nel nord est del Paese, già teatro di un contesto di guerra di vari focolai. Da agosto 2018 sono emersi numeri spaventosi, con oltre 2mila morti e più di 3,100 contagi. Adesso la domanda che si fanno gli esperti è una: l'ultimo focolaio è soltanto un ritorno di fiamma correlato alla precedente ondata oppure è un nuovo capitolo?
Un nemico temibile
La febbre emorragica dell'Ebola è una delle malattie più virulente che l'essere umano conosca. I sintomi provocati da questo virus comprendono febbre, mal di testa e mal di gola. Poco dopo si scatenano dolori addominali, vomito e diarrea, seguiti talvolta da un'eruzione cutanea purpurea e singhiozzo, forse dovuto all'irritazione dei nervi che controllano il diaframma. Di solito, i sintomi più pericolosi si manifestano giorni dopo l'insorgenza della malattia, quando le cellule infettate dal virus si attaccano dentro i vasi sanguigni, provocando la fuoriuscita del sangue da naso e bocca (e non solo).
I contagiati finiscono col subire un calo della pressione sanguigna e morire a causa di choc e collasso multiplo degli organi. L'autore Richard Preston ha definito Ebola "un parassita che trasforma ogni parte del corpo in una melma digerita di particelle virali". E non c'è da sorprendersi di una descrizione del genere, visto che il tasso di mortalità di questa malattia oscilla intorno al 90%. Ebola non è contagiosa ma, allo stesso tempo, è altamente infettiva. Ecco perché il fantasma che infesta gli incubi della Repubblica Democratica del Congo è così spaventoso.
· Quei razzisti come i sudsudanesi.
Dieci anni di Sud Sudan, storia di uno Stato fallito. Daniele Bellocchio su Inside Over il 31 ottobre 2021. Dieci anni sono passati da quando il mondo volgeva lo sguardo verso il continente africano e celebrava la nascita del Sud Sudan. L’indipendenza del nuovo Paese dell’Africa, il 9 luglio 2011, veniva festeggiata non solo a Juba e tra i confini della nazione racchiusa tra il Sudan, l’Etiopia, il Kenya, la Repubblica Democratica del Congo, l’Uganda e la Repubblica Centrafricana, ma anche a livello internazionale. Il mondo intero infatti vedeva nella nascita del cinquantaquattresimo stato africano la fine di una guerra che durava da decenni e di una situazione che costringeva le genti del Sud Sudan a vivere oppresse, discriminate, escluse economicamente e segregate dalla popolazione di origine araba del nord e dai vertici di Khartoum. L’autonomia e l’indipendenza sono state plaudite dai leader di tutti i Paesi del primo mondo e, da Tokyo a Washington, tutti i capi di stato si sono prodigati nel promettere aiuti e sostegni al neonato stato africano. Le parole però si sono infrante sul frangiflutti della realtà. Quello che era stato battezzato come un sogno di pace si è tramutato in breve tempo in un nuovo incubo di guerra. Sebbene la comunità internazionale si sia impegnata nel costruire le infrastrutture di un Paese che usciva frantumato da una guerra civile inclemente e feroce, ciò che non è stato fatto e non è stato considerato, è che non erano assenti solo i sistemi basici del Paese, ma persistevano a mancare le fondamenta vere e proprie della nazione: la coesione nazionale, l’unità dei leader politici, la riconciliazione sociale e l’idea di cittadinanza. Così il più giovane stato africano ha catalizzato in sé gli errori e gli orrori che dopo le indipendenze degli anni ’60 si erano verificati in molti altri paesi del continente: tribalismo, nepotismo, furto di risorse pubbliche e autoritarismo, e la violenza ha infettato in breve tempo i gangli vitali della società sud sudanese e ha trascinato il Paese, in soli tre anni, in una guerra civile che ancor oggi, nonostante siano stati firmati dei fragili accordi di pace, prosegue a intermittenza. In questi giorni in cui si dovrebbe festeggiare l’anniversario della nascita di una nazione invece si assiste con impotenza all’ennesimo fallimento di uno stato africano che ,su una popolazione di 11milioni di abitanti, ne registra 4 milioni e mezzo nei campi profughi interni e in quelli dei paesi confinanti e ad oggi, secondo il Global Crisis Severity Index, il Sud Sudan risulta essere uno dei Paesi più instabili al mondo e le prospettive di una ripresa nel futuro prossimo sono al momento intangibili. Per comprendere perché il Sud Sudan sia oggi tormentato da odio e crisi umanitarie bisogna riavvolgere il rocchetto della storia almeno sino agli anni sessanta e conoscere così alcune vicende storico e politiche e alcune parole chiave che sono determinanti per avere una visione chiara di ciò che è successo dalla metà del ‘900 sino ad oggi in questa regione africana.
La storia
Il Sud Sudan ha sempre fatto parte, sino al 2011, del Sudan, uno stato che, anche durante il periodo coloniale, ha avuto una storia alquanto travagliata e atipica rispetto agli altri paesi africani. E’ stato, questo Paese, nell’occhio di diverse potenze europee, ed, è qui, per l’esattezza a Fascioda, che si sono fronteggiati inglesi e francesi e si è rischiata una guerra aperta tra due eserciti coloniali. E’ questa terra bagnata dal Nilo ad essere stata una dei palcoscenici delle prime resistenze armate anticoloniali mosse da una forte componenti religiosa islamica, ed è sempre il Sudan ad aver avuto una forma coloniale unica essendo stato dalla fine del ‘900 sino al 1955 un protettorato anglo egiziano abitato da popolazioni islamiche e arabe nel nord e da gruppi etnici dell’Africa equatoriale e sub-sahariana nel sud.
La scoperta del petrolio
La divisione etnica e geografica ha sempre caratterizzato la storia di questa nazione tanto che già nel 1955, un anno prima dell’indipendenza del Paese, nelle regioni meridionali è nato un gruppo guerrigliero che rivendicava l’indipendenza del sud: il Movimento di resistenza del Sud Sudan (Ssrm nell’acronimo inglese). La guerra civile vera e propria però tra il nord e il sud è iniziata nel ’62 e solo nel ’69, quando i militari hanno portato al potere il colonnello Nimeiri che ha ascoltato le istanze autonomista delle genti del sud si è avuta la parvenza di una fine delle ostilità. Nel ’72 infatti, ad Addis Abeba, c’è stata la firma di un accordo di pace che ha sancito lo statuto di regione autonoma al Sud Sudan. Ma nel ’78 è successo un qualcosa che ha sparigliato le carte, ha annullato ogni accordo pregresso, ha infiammato avidità e corruzione e ha acceso gli istinti più brutali nelle leadership locali: nella regione autonoma del Sud Sudan sono stati rinvenuti giacimenti di petrolio. La scoperta dell’ oro nero ha portato il colonnello Nimeiri a imporre la sharia in tutta la nazione e a revocare l’autonomia al sud. Una decisione che ha avuto il peso di una dichiarazione di guerra e infatti nel 1983, i partigiani del Sud Sudan hanno ripreso in mano le armi e, sotto la guida di John Garan, è nato l’SPLA (Sudan People Liberation Army), ed è iniziata la seconda guerra civile. Nel 1989 il Paese è stato sconvolto da un altro colpo di stato, quello Omar El Bashir, uno dei dittatori più sanguinari della storia recente africana che rimarrà in carica per 30 anni e che proseguirà la sua guerra contro l’esercito indipendentista del sud.
Il cessate il fuoco
Una data importante, che porterà da lì a qualche anno alla separazione del Sud Sudan è il 2004 perchè il 7 gennaio di quell’anno è stato firmato un protocollo che prevedeva la divisione in parti uguali delle rendite petrolifere del Sudan (in gran parte nel sud) tra il governo di Khartoum e il Movimento/esercito di liberazione del popolo sudanese (Spla/m). Una stretta di mano molto significativa tanto che, l’anno dopo, il 9 gennaio del 2005, è stato siglato l’ Accordo globale di pace (Agp) tra Khartoum e l’Spla, a Nairobi, che prevedeva un cessate-il-fuoco permanente, autonomia per il sud, un governo di coalizione tra Khartoum e Spla/m, e un referendum da tenere nel sud, entro sei anni, per decidere sull’indipendenza o meno di quelle regioni. Nella parte meridionale del Paese questo accordo è stato salutato come una vittoria soprattutto perchè John Garang, il capo dei ribelli, divenuto vicepresidente del Sudan, ha concesso enorme autonomia alla sua gente. Pochi mesi dopo però, in un incidente aereo, Garang è morto e il suo posto è stato preso da Salva Kiir e gli accordi di pace sono stati sul punto di saltare e la guerra sembrava doversi infiammare di nuovo. Si sono registrati infatti scontri tra lealisti e irregolari in tutto il paese, soprattutto nelle regioni contese dei Monti Nuba, dello Stato del Blu Nile e della contea di Abey, zone ricchissime di giacimenti petroliferi. Ma la crisi umanitaria e un arbitrariato internazionale che ha stabilito a chi appartenessero i pozzi petroliferi hanno convinto le due parti a silenziare le armi e a dicembre 2009 si è arrivati all’accordo tra il governo di Khartoum e quello di Juba sul referendum per l’indipendenza del sud da tenere nel 2011.
L’indipendenza e la guerra civile
Si è arrivati quindi, nel 2011, al fatidico referendum sull’autodeterminazione del Sud Sudan, che ha visto i favorevoli all’indipendenza trionfare alle urne con il 98,83% dei voti, e il 9 luglio, è stata de facto proclamata la nascita del più giovane stato africano. E’ una vita da subito travagliata, quella del nuovo stato che, un anno dopo il referendum, ha affrontato una crisi politica ed economica con Karthoum in merito all’esportazione del greggio e i due Paesi sono stati molto vicini dall’intraprendere una guerra. Ma una volta risolta la situazione in politica estera a Juba si è assistito all’inizio di una crisi interna che non ha ancora visto la fine. Nel 2013 il presidente Salva Kiir ha sospeso dapprima il ministro delle finanze, Kosti Manibe, e il ministro per gli affari di governo, poi ha rimosso il vicepresidente, Riek Machar Teny, ha sciolto l’intero governo e licenziato tutti i ministri; poi ha dato vita a un nuovo governo con i suoi fedelissimi e ha nominato come vicepresidente James Wani Igga, ex comandante ribelle dell’Spla/m. Ma l’epurazione dei rivali politici e la deriva autoritaria di Salva Kiir non erano finite. A dicembre il Presidente ha accusato l’ex vice Machar di aver ordito un golpe, e a questo punto non c’è stato più nulla da fare: in Sud Sudan è scoppiata la guerra civile. Violenze a Juba, nelle principali città del Paese e anche nei villaggi più remoti hanno lasciato subito una scia di sangue e migliaia di morti e la guerra, che ufficialmente si protrarrà sino a febbraio 2020, ha visto contrapporsi le due principali etnie: i dinka, maggioritari, fedeli a Kiir e i nuer invece fedeli a Machar. Il bilancio finale, dopo svariati accordi di pace risultati fallimentari, sarà di 4 milioni di sud sudanesi costretti a fuggire dai propri villaggi, oltre 400mila vittime, massacri e casi di pulizia etnica, stupri di guerra e una crisi umanitaria senza pari che ha portato persino il Papa a invitare al digiuno e alla preghiera per la pace nel Paese africano. Si è dovuto attendere il 2020 prima che la guerra in Sud Sudan potesse dirsi definitivamente conclusa. A Roma il 12 Gennaio 2020, presso la Comunità di Sant’Egidio è stata firmata la “Dichiarazione di Roma”, che per la prima volta ha visto tutte le parti politiche del Paese firmare un accordo di cessate il fuoco e a febbraio una delegazione di Sant’Egidio si è recata in Sud Sudan per la firma dell’Accordo politico di Juba, frutto dell’intesa tra il presidente Kiir e il leader dell’opposizione Machar e che ha portato alla formazione di un governo di unità nazionale.
Un bilancio
Nonostante gli accordi di pace, la formazione di un esecutivo transitorio e la riapertura del Parlamento la violenza non è mai del tutto finita in Sud Sudan e secondo l’ONG sud sudanese Community Empowerment Progress Organization (CEPO), tra gennaio e maggio 2021 oltre 3000 persone sono state uccise o ferite in scontri intercomunitari e ad oggi la situazione, aggravata anche dall’epidemia di Covid, rimane estremamente precaria: l’economia è criticissima, le armi continuano a circolare e le differenze etniche permangono divenendo un argine concreto a una rinascita unitaria del Paese. E sebbene dal 2013 ad oggi, molti sforzi siano stati fatti per uscire dalla crisi bellica, il Sud Sudan però se vuole cambiare rotta e, a dieci anni di distanza della sua nascita, intraprendere un percorso diverso deve ascoltare e fare tesoro delle parole di un suo illustre cittadino, Koj Madut Jok, antropologo e sottosegretario del ministro della cultura che, nel suo libro ”A Shared struggle: people and cultures of Sud Sudan”, ripreso in un editoriale della rivista Nigrizia, ha scritto queste parole per parlare di quella che è la grande piaga della sua nazione e quale deve essere la soluzione:“In questo momento, quasi tutte le questioni riguardanti la violenza di stato sono basate sull’etnia, con i gruppi minoritari che si lamentano di essere esclusi e che la loro terra è invasa. Quasi tutte le frequenti ribellioni hanno radici in risentimenti etnici o settoriali. Il Sud Sudan diventerà mai una nazione unificata, dove, ad esempio, l’appartenenza etnica non sarà più un elemento da considerare nelle interviste per un lavoro, dove non ci saranno più gruppi politico-militari fondati su base etnica, dove l’assegnazione di servizi, progetti di sviluppo, contratti pubblici non dipenderà dal gruppo etnico? Ora tutto questo è la norma e crea un contesto politico caratterizzato da sospetto e sfiducia…Se non si trova una soluzione a questa questione divisiva, la stabilità politica in Sud Sudan rimarrà con ogni probabilità un concetto vago”.
· Quei razzisti come i giordani.
Igor Pellicciari per formiche.net il 7 aprile 2021. Due orientamenti opposti regolano una delle questioni più dibattute nelle scienze sociali, ovvero il rapporto ideale auspicabile tra ricercatore e oggetto di studio. Uno prescrive che egli mantenga un distacco da ciò che osserva per evitare che un coinvolgimento emotivo finisca con il falsarne percezione e conclusioni. L’altro suggerisce al contrario che egli si cali quanto più possibile nella realtà studiata per poterne cogliere il senso che altrimenti faticherebbe a comprendere da estraneo. Nell’appello del 14 marzo scorso a sostenere il modello giordano sviluppammo considerazioni oggettive di politica internazionale, seppure mossi nell’occasione da una esperienza soggettiva (lo svolgere un incarico diplomatico presso il Regno Hashemita di Giordania). A meno di un mese di distanza, un commento sull’ “attentato alla stabilità del paese” (nelle parole del vice-premier e ministro degli affari esteri Ayman Safadi) non può prescindere da entrambe queste prospettive: quella del ricercatore distaccato e quella del diplomatico coinvolto. Fatta questa doverosa premessa, su quanto accaduto (e trapelato) si possono per ora avanzare alcune osservazioni sia di politica internazionale che interna. La prima è che l’immediata ed enorme eco mondiale suscitata dalle notizie provenienti dalla Giordania è forse la migliore conferma di quella esponenziale crescita di centralità vissuta dal Paese negli ultimi due decenni, amplificata dall’essere rimasto l’unico stabile dell’area medio-orientale. La seconda è che forse è in questa stessa importanza che vanno cercati sia gli elementi ispiratori del tentativo di sovvertire l’ordine ad Amman, sia i motivi del suo fallimento. La stabilità giordana ha radicalmente trasformato il Paese, storicamente povero di risorse naturali, aumentandone attrattività geo-politica ed economica. Da semplice territorio di sfogo “temporaneo” della questione palestinese in attesa di una improbabile soluzione, la Giordania è diventata crocevia degli equilibri di tutto il Medio-Oriente, arrivando ad influenzare anche quelli del Golfo. La cosa iniziò a delinearsi con la guerra in Iraq quando il Paese divenne per anni base logistica prima e poi sempre più centro di orientamento strategico delle principali operazioni multilaterali e bilaterali su Baghdad. La cui presenza si è istituzionalizzata con l’aggiungersi di attività qui decentrate dalla Siria, Yemen, Libano. Di pari passo, Amman è diventata nuova cassaforte per ingentissimi capitali in fuga dai ricordati scenari in crisi. In una parte minore essi sono stati investiti nel Paese (in particolare nell’immobiliare ad opera di gruppi libanesi come la famiglia Hariri) mentre per il resto hanno creato una ricchezza finanziaria di rendita, parcheggiata in attesa di tempi migliori. Per inciso, come in tutti gli scenari con un eccesso di stranieri stanziali di lungo periodo (profughi e operatori internazionali), essa ha drogato un’economia locale fatta di servizi che ha aumentato costi, diseguaglianze sociali, corruzione e malcontento nella popolazione locale. Con la Giordania nuovo centro di interesse politico-finanziario non è da escludere che l’idea di un cambio di leadership nel Paese sia partita da fuori, da una delle potenze regionali dell’area. Tuttavia, la stabilità di Amman è oramai questione che va oltre i confini del Medio Oriente o del Golfo e coinvolge i principali attori internazionali del momento. Il suo mantenimento è uno dei pochi punti su cui, nel corrente dis-ordine mondiale, concordano all’unisono Stati Uniti, Russia, Cina. Considerando il loro forte dispiegamento di intelligence in Giordania (senza dimenticare quella di Israele, che vi ha un’importante presenza diplomatica) si può ipotizzare che da questi ambienti sia partito in anticipo un avvertimento indirizzato al Mukhabarat locale, la cui proverbiale formazione professionale ha beneficiato negli anni dalla stretta collaborazione con lo stesso Mossad. Una considerazione finale riguarda invece lo sviluppo che ha preso il sistema politico-costituzionale giordano durante il regno di Re Abdallah II. E porta ad ipotizzare che, anche qualora non sventato dai servizi, il complotto ad Amman comunque non sarebbe andato a buon fine. Divenuto Sovrano a sorpresa nel 1999 e sconosciuto ai più, Re Abdallah fu accolto da commenti scettici sulla possibile durata del suo Regno. Alcuni osservatori internazionali ne paragonarono la posizione all’ultimo Scià di Persia, Reza Pahlavi: debole nel carisma, quasi assoluto nelle prerogative sovrane. In due decenni il Re ha chiaramente sovvertito le aspettative e di fatto invertito il punto di partenza iniziale. Da un lato è riuscito a diventare figura carismatica e popolare anche per avere mantenuto viva la sua vocazione militare che lo ha portato ad essere leader riconosciuto dell’esercito, che rimane insieme all’intelligence uno dei capisaldi della stabilità interna giordana. Dall’altro, la monarchia si è costituzionalizzata in senso parlamentare con un progressivo aumento del legame fiduciario dell’esecutivo rispetto al legislativo e una minore invadenza arbitraria nell’azione di governo sul piano interno da parte del Sovrano, rimasto ad occuparsi in prima persona della cruciale politica estera iniziata dal padre Re Hussein. Con la parlamentarizzazione della vita politica e una definizione costituzionale più chiara delle prerogative del Sovrano, inevitabilmente hanno perso di importanza ed incidenza i profili e gli eventuali disegni politici dei restanti membri della famiglia reale. Relegati da tempo a ruoli marginali, essi hanno scarsa presa in quelle forze armate fedeli direttamente al Sovrano, in quanto credibile e riconosciuta autorità militare. Non a caso, sventata la crisi, Re Abdallah ha dichiarato di volere risolvere la questione con il Principe Hamzeh “all’interno della famiglia”. Come a dire, il Regno è superiore a tutto.
Giordania, l'audio del principe Hamzeh alla guida delle tribù contro re Abdullah. Il capo di Stato maggiore spiega al principe che viene arrestato per gli incontri con persone "che hanno parlato troppo..." Chiara Clausi - Mer, 07/04/2021 - su Il Giornale. La saga della casa reale giordana riserva ogni giorno colpi di scena. Tanto che ieri Amman ha imposto il divieto di pubblicare qualsiasi cosa riguardasse il caso del principe Hamzeh bin Hussein, accusato di ordire un colpo di stato contro il fratellastro, il re Abdullah II. L'ordine arriva il giorno dopo che l'ex erede al trono aveva firmato una dichiarazione in cui riaffermava la sua fedeltà al monarca. «Per assicurare il rispetto della segretezza delle indagini dei servizi di sicurezza sul principe Hamzeh e altri soggetti, è stato deciso di vietare la pubblicazione di qualsiasi cosa relativa all'indagine in questa fase», ha spiegato alla televisione il magistrato Hassan al-Abdallat. I trasgressori saranno sottoposti a sanzioni penali. Ma la disposizione difficilmente fermerà le continue fughe di notizie. Ieri è emerso un nuovo audio. È la registrazione dell'incontro fra il principe Hamzeh e il capo di Stato maggiore dell'esercito, Yousef Huneiti. L'audio è circolato poco dopo che il palazzo e un mediatore vicino al principe Hamzeh hanno riferito che era in corso una trattativa. Nella registrazione si sente il capo dell'esercito dire che il principe viene punito per incontri avuti con persone che «hanno cominciato a parlare più di quanto avrebbero dovuto». Hamzeh ha criticato apertamente le politiche del governo e ha stretto legami con potenti leader tribali, in una mossa considerata una minaccia al re. Ma il principe nel corso della conversazione si infuria e alza la voce arrabbiato contro Huneiti: «Vieni da me e mi dici a casa mia cosa fare e chi incontrare nel mio Paese, chi del mio popolo? Mi stai minacciando?». E ancora: «La cattiva performance dello Stato è a causa mia? Perdonami ma gli errori sono colpa mia?». Il generale Huneiti, parlando con voce calma, nega di averlo minacciato e dice che sta semplicemente consegnando un messaggio da parte di capi dell'intelligence, ma Hamzeh gli grida addosso e gli chiede di andare via. Nessun accenno al coinvolgimento nella vicenda di potenze straniere. La registrazione trapelata è arrivata il giorno dopo che il principe ha firmato una lettera rilasciata dalla corte reale. «Gli interessi della patria devono rimanere al di sopra di ogni altra cosa, e dobbiamo tutti sostenere sua maestà il re e i suoi sforzi per proteggere la Giordania e i suoi interessi nazionali», diceva Hamzeh nella lettera dattiloscritta firmata in presenza del principe Hassan, lo zio utilizzato per mediare il conflitto. Hamzeh è molto temuto dalla corte perché ha un seguito nel Paese, per la sua sorprendente somiglianza con suo padre, il defunto re Hussein. I video del principe sono spesso condivisi quando il malcontento bolle nel regno e molti in più occasioni lo hanno invocato per salvare la nazione. Ma ora anche le potenze della regione iniziano a muoversi. Lunedì c'è stata una visita non programmata in Giordania da parte di una delegazione saudita di alto rango, guidata dal ministro degli Esteri Faisal bin Farhan al-Saud. Riad ha offerto il suo «pieno sostegno al re Abdallah II» e i funzionari sauditi hanno chiesto il rilascio di Bassem Awadullah, un personaggio di spicco arrestato sabato. Awadullah è un ex consigliere supremo del re e ha servito come inviato speciale del monarca in Arabia Saudita, che gli ha concesso la cittadinanza. Anche se la Giordania ha solo circa 10 milioni di abitanti, ha un'importanza strategica enorme in una regione turbolenta. Confina con Israele e la Cisgiordania, la Siria, l'Irak e l'Arabia Saudita, ospita truppe statunitensi e milioni di palestinesi e oltre mezzo milione di rifugiati siriani. «Questo è solo l'inizio di una crisi e non la fine», ha detto il capo dell'istituto di ricerca Phenix Center for Economic and Informatics di Amman.
Il Regno hashemita. Intrigo in Giordania, 20 arresti per presunto golpe: coinvolto il principe Hamza, fratellastro del re. Antonio Lamorte su Il Riformista il 4 Aprile 2021. Complotto di portata e interesse internazionale in Giordania. Un’ondata di arresti. Giro di vite si potrebbe dire se non si susseguissero in queste ore ipotesi, dichiarazioni, smentite, trame ancora oscure. Ci sarebbe dietro un colpo di stato ai danni del re Abdallah II. E quindi una ventina di arresti tra alti dignitari del regno. Il nome che fa scalpore è quello di Hamzah bin Hussein, fratellastro del monarca. Il principe ha mandato un video alla BBC affermando di essere stato costretto agli arresti domiciliari. “Ho avuto una visita del capo di stato maggiore delle forze armate giordane che mi ha informato che non mi era permesso uscire, comunicare o incontrare persone perché durante incontri a cui avevo partecipato – o sui social o durante visite da me compiute – erano state espresse critiche al governo o al re “. E quindi ha aggiunto di non essere stato accusato direttamente di aver espresso delle critiche. “Non sono responsabile del crollo della governance, della corruzione e dell’incompetenza che è stata prevalente nella nostra struttura di governo negli ultimi 15-20 anni e che ora sta peggiorando. E non sono responsabile neanche della mancanza di fiducia che le persone hanno nelle istituzioni. Si è raggiunto un punto in cui nessuno è in grado di parlare o esprimere opinioni su qualsiasi cosa senza essere vittima di bullismo, arrestato, molestato e minacciato”. La tesi del complotto contro il re è stata subito riportata dal Washington Post che ha parlato con fonti dell’intelligence. Il capo di stato maggiore giordano, generale Yousef al Huneiti, ha fatto sapere che ad Hamzah è stato intimato di astenersi da spostamenti e da altre attività che potrebbero essere sfruttate per destabilizzare il regno hashemita. Amman ha negato ufficialmente gli arresti domiciliari di Hamzah. Gli altri venti dignitari sono stati motivati per ragioni “di sicurezza”. Hamzah, ex principe ereditario, è stato privato del titolo nel 2004. È figlio di re Hussein e di Noor, quarta moglie di origini americane. È cresciuto con dodici tra fratelli e fratellastri. Il suo titolo è stato conferito a Hussein, primogenito di Abdallah II e della regina Rania. Ha denunciato che il suo telefono e internet gli sono stati interrotti. La dichiarazione alla Bbc sarebbe arrivata attraverso l’avvocato. L’intrigo di palazzo o il presunto tale è quindi al momento ancora un enigma. Il palazzo di Abdallah II è protetto da mezzi blindati e militari. La Giordania è un Paese fondamentale per la nuova amministrazione americana del presidente Joe Biden. Un Paese fondamentale negli equilibri della Regione. Sulla monarchia preme la crisi economica, peggiorata dalla pandemia da coronavirus, e le pressioni affinché il re riveda l’accordo di pace firmato con Israele ventisette anni fa.
Lo scontro tra il re Abdallah II e il principe Hamzah bin Hussein. Giordania, il golpe fallito e lo zio a fare da mediatore nella sfida tra fratellastri. Redazione su Il Riformista il 5 aprile 2021. La pace, almeno apparante, dopo il tentativo di golpe avvenuto in Giordania. Il principe Hamzah bin Hussein ha promesso di “restare fedele” al re Abdallah II, suo fratellastro. “Resterò fedele all’eredità dei miei antenati, a Sua Maestà (il re) e al suo principe ereditario e mi metterò a loro disposizione”, ha scritto il principe in una lettera, secondo una nota di palazzo reale. Dal canto suo, il re di Giordania ha deciso di risolvere i dissidi con il fratellastro ed ex principe ereditario Hamzah all’interno della famiglia e ha affidato il compito di mediare a suo zio, il principe Hassan. Lo ha annunciato la Corte reale, secondo quanto riportano i media locali. “Alla luce della decisione del re Abdullah II di affrontare la questione del principe Hamzah nell’ambito della famiglia hashemita, sua Maestà ha affidato il compito a suo zio, il principe Al Hassan”, ha detto la Corte in un comunicato pubblicato su Twitter. La tensione in Giordania è salita alle stelle dopo l’arresto di almeno 16 persone, tra cui il principe Hamzah, accusate di aver cospirato per destabilizzare il Paese insieme al principe Hamzah bin Hussein, fratellastro del re Abdallah II. Lo stesso principe è intervenuto nelle scorse ore affermando di aver ricevuto dall’esercito “ordini inaccettabili” a cui non obbedirà. “Il capo di stato maggiore dell’esercito è venuto da me e ha lanciato minacce a nome dei capi delle agenzie di sicurezza”, ha detto Hamzah in una registrazione circolata online, “Ho registrato i suoi commenti e li ho inviati ai miei conoscenti all’estero e alla mia famiglia nel caso in cui accadesse qualcosa”. “Non voglio un’escalation ora”, ha poi assicurato il fratellastro del re ma, ha aggiunto, “ovviamente non mi atterrò” agli ordini di “non uscire, twittare o entrare in contatto con le persone”. “E’ inaccettabile che un capo di stato maggiore dell’esercito dica questo”, ha aggiunto. Le autorità giordane hanno riferito domenica di aver sventato un “complotto” di Hamzah per destabilizzare il regno con il sostegno straniero. Il principe ha negato di aver preso parte a qualsiasi cospirazione e ha affermato di essere stato preso di mira per essersi espresso contro la corruzione e il malgoverno. Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi ha riferito che nell’ambito dell’operazione sono stati arrestati dai 14 ai 16 associati di Hamzah, oltre a Bassem Awadallah, ex ministro di gabinetto e un tempo capo della corte reale, e Sharif Hassan bin Zaid, un membro della famiglia reale. Il capo della diplomazia non ha però fornito ulteriori dettagli sul presunto complotto. Abdullah e Hamzah sono entrambi figli del defunto re Hussein, che, a due decenni dalla morte, resta una figura amata nel Paese. Dopo essere salito al trono nel 1999, Abdullah ha nominato Hamzah principe ereditario, ma gli ha poi revocato il titolo cinque anni dopo. In this Monday, April 2, 2001 file photo, Jordan’s King Abdullah II laughs with his brother Prince Hamzah, right, shortly before the Jordanian monarch embarked on a tour of the United States. Prince Hamza said he has been placed under house arrest. in a videotaped statement late Saturday, April 3, 2021. Il rapporto tra i due è stato descritto generalmente come buono ma Hamzah a volte si è espresso contro le politiche del governo e più recentemente ha stretto legami con potenti leader tribali, una mossa che è stata avvertita come una minaccia per il re. Le potenze occidentali e i Paesi arabi si sono schierati tutti al fianco di Abdallah, il che riflette l’importanza strategica del Paese nella regione. L’appoggio al re è arrivato da Usa, Arabia Saudita, Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Israele e anche dall’Unione europea. “L’Ue sostiene pienamente il re Abdallah II e il suo ruolo di moderatore nella regione”, ha scritto su Twitter Nabila Massrali, portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Eeas). La stabilità di Amman è da tempo sotto osservazione nella regione, soprattutto da quando l’amministrazione Trump si è schierata con forza con Israele, mettendo all’angolo i palestinesi, molti dei quali sono ospitati dalla Giordania che è custode dei luoghi sacri a Gerusalemme. Dopo la pace del 1994, tra Israele e Giordania in anni recenti ci sono stati momenti di tensione, proprio in relazione alla questione palestinese.
Barak Ravid per axios.com il 5 aprile 2021. Un uomo d'affari israeliano ha contattato l'ex principe ereditario giordano Hamzah bin Hussein sabato e ha proposto di inviare un jet privato per portare la moglie e i figli in Europa. L'intrigo: Il governo giordano sostiene che l’israeliano abbia legami con l'agenzia di spionaggio del Mossad, mentre l'uomo d'affari sottolinea di essere solo un amico del principe. Perché è importante: Il governo giordano sostiene che il principe Hamzah e i suoi associati abbiano cospirato contro il re Abdullah insieme ad alcune persone straniere. I presunti collegamenti con Israele e il Mossad sono molto efficadi dal punto di vista comunicativo per la campagna del governo giordano contro il principe Hamzah, visto che l’opinione pubblica giordana non vede di buon occhio lo stato ebraico. Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi ha detto in una conferenza stampa domenica che una persona con collegamenti con un servizio di sicurezza straniero ha avvicinato la moglie del principe Hamzah e si è offerta di organizzare un jet privato per scortare lei e la sua famiglia in un paese straniero. Diverse ore più tardi l'agenzia di stampa giordana "Ammon", vicina ai servizi di sicurezza giordani, ha pubblicato il nome di un presunto ex ufficiale del Mossad, Roy Shaposhnik. Shaposhnik mi ha contattato e ha rilasciato una dichiarazione che nega quanto affermato dal governo giordano sul suo coinvolgimento nel presunto colpo di stato. Mi ha detto di non essere mai stato un ufficiale del Mossad, ma ha confermato di aver proposto assistenza al principe Hamza e alla sua famiglia come parte della loro amicizia. Cosa dice Shaposhnik: "Sono un israeliano che vive in Europa. Non ho mai lavorato nei servizi segreti israeliani. Non ho alcuna conoscenza degli eventi che hanno avuto luogo in Giordania o delle persone coinvolte. Sono uno stretto amico personale del principe Hamzah". Ha aggiunto che voleva solo aiutare la moglie del principe e i loro figli in questo momento difficile. Tra le righe: Shaposhnik, 41 anni, 15 anni fa faceva parte del partito centrista Kadima in Israele, ed è stato consigliere dell'allora primo ministro Ehud Olmert. Più tardi è passato al settore privato e ha lavorato per una società di sicurezza, che fa capo all’uomo d’affari americano Erik Prince. Dopo diversi anni ha fondato la propria azienda, RS Logistical Solutions, che lavora con il Dipartimento di Stato americano e altri governi in tutto il mondo. La società di Shaposhnik ha anche fornito servizi logistici alla società di Prince mentre addestrava i soldati iracheni in Giordania. Fu allora che incontrò il principe Hamzah attraverso un amico comune. I due e le loro famiglie divennero amici intimi. Una fonte che ha familiarità con la questione mi ha detto che Shaposhnik ha inviato subito un messaggio di testo alla moglie del principe Hamzah e ha proposto di inviare un jet a prendere lei e i loro figli fino a quando la situazione non si sarà chiarita.
Da allora, Shaposhnik non ha avuto alcun contatto con il principe Hamzah e la sua famiglia, che sono agli arresti domiciliari e senza possibilità di comunicare con il mondo esterno, ha detto la fonte.
· Quei razzisti come gli israeliani.
Davide Frattini per il "Corriere della Sera" il 23 dicembre 2021. I capelli sempre impomatati, il sorriso lucido quanto quel ciuffo pettinato all'indietro. Gli israeliani hanno imparato negli ultimi cinque anni a conoscere il volto e gli atteggiamenti di questa ex spia che di anni ne ha compiuti 60 a settembre. Dei predecessori sapevano a mala pena il nome e fino al 1996 neppure quello, il capo dell'Istituto veniva identificato con l'iniziale. A Yossi Cohen una semplice Y non sarebbe bastata. Anche prima di concludere il mandato da direttore del Mossad ha voluto costruirsi un profilo pubblico, riflettori accesi sull'ombra in cui l'organizzazione incaricata delle operazioni esterne cerca sempre di muoversi.
Quando nel 2018 Benjamin Netanyahu - allora primo ministro, ha considerato Cohen un possibile successore alla guida della destra - annuncia che gli agenti segreti sono riusciti a recuperare i dossier del programma nucleare iraniano, ai reporter arriva la conferma da fonti anonime che il blitz dentro a Teheran sia stato pilotato in diretta da Cohen stesso (la fonte anonima secondo tutti).
Ormai in pensione (dallo scorso giugno) è sempre lui a divulgare altri dettagli su quel raid durante un'intervista televisiva: la squadra - dice - era composta da 007 che parlavano diverse lingue straniere; l'archivio era nascosto in una zona industriale e a un certo punto le guardie e gli operai iraniani hanno cominciato ad arrivare mentre gli operativi stavano scassinando («non è che puoi saltare dall'altra parte del muro e scappare»).
Sceglie un paragone hollywoodiano: «Lo stile è alla Ocean's Eleven con George Clooney, fiamma ossidrica per aprire la cassaforte». Avrebbe spiattellato ancora di più a quella che il programma investigativo del Canale 13 sostiene essere stata la sua amante, una relazione iniziata nel 2018 quando Cohen era il boss delle spie israeliane.
I due si sarebbero conosciuti sull'aereo dove la donna lavorava come assistente di volo e di altri viaggi in giro per il mondo - che però avrebbero dovuto rimanere clandestini - Yossi si sarebbe vantato con lei e con il marito. Che ha deciso di rivelare la vicenda al giornalista Raviv Drucker in una lunga confessione trasmessa l'altra sera.
Ha spiegato di aver conosciuto Cohen attraverso la moglie, di averci cenato. «È un chiacchierone - dice Guy Shiker, noto nell'ambiente finanziario - e una volta ha raccontato che il Mossad controllava il medico personale di un leader arabo. Oppure di come avesse dovuto travestirsi da guida turistica per una missione. Si vantava del suo stile manageriale, che diventato direttore aveva cacciato sei capi divisione perché non gli erano leali».
Shiker ha scritto sulla sua pagina Facebook di essere andato in tv per proteggere i due figli (Cohen ne ha quattro): «Il prezzo del silenzio è sempre più caro». L'ex 007 smentisce e la donna ha cercato di fermare la messa in onda attraverso un intervento del giudice: i suoi avvocati negano «la relazione con Cohen o che lui abbia parlato di azioni segrete alla coppia». Sostengono «che il matrimonio non è finito a causa di Cohen come dichiarato da Shiker, la nostra cliente aveva presentato la domanda di divorzio già nel 2016». L'inchiesta di Drucker rivela anche che Cohen avrebbe sfruttato la posizione al Mossad per raccogliere informazioni sul marito e che lo stesso Shiker lo avrebbe sollecitato ad assumere la sua assistente personale offrendole un posto nella stazione dell'agenzia a Bangkok. La richiesta sarebbe stata accolta.
Israele, sei ong "umanitarie" sotto indagine per terrorismo. Fiamma Nirenstein il 25 Ottobre 2021 su Il Giornale. Le organizzazioni, finanziate da Onu e Ue, sono il volto presentabile del Fronte popolare di liberazione palestinese. La disputa in atto dovrebbe far tremare tutto il mondo: tu chiamalo terrorismo, io lo chiamo organizzazione per i diritti umani, e lo finanzio coi nostri soldi. Il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha collocato sei fra le maggiori organizzazioni non governative palestinesi nella lista delle organizzazioni terroriste. Questo significa che i loro traffici bancari e i movimenti dei loro leader e affiliati sono adesso sotto controllo. Le informazioni: molto accurate. L'accusa è servire da mano pubblica all'organizzazione terrorista Fronte popolare per la liberazione della Palestina, Fplp, fornendole un'identità ibrida, e rastrellare così consenso e denaro dall'Onu e dall'Unione europea. Questi soldi alimentano, secondo Gantz, il fiume di sangue; le organizzazioni accusano Israele di persecuzione e rivendicano un ruolo caritativo. Certo, anche gli Hezbollah, Hamas, i talebani si prendono cura di bambini, vedove, vecchi. Così sorride il professor Gerald Steinberg, che con costanza ha indagato il tema col suo Ngo Monitor. Sul sito troviamo tutti i particolari: «Dieci anni fa presentammo i risultati all'Unione europea, la Mogherini ci disse che le prove non bastavano». E oggi il Dipartimento di Stato Americano, protesta di non essere stato informato. Israele nega l'accusa. Le organizzazione nella lista terrorista sono: Adameer, Al Haq, Bisan, Difesa dei bambini-Palestina (Dci-P) Unione delle donne (Upwc); Unione degli Agricoltori (Uawc). Il punto di partenza è l'Fplp, un vulcano di attività terrorista, che ha ucciso il ministro israeliano Rehavam Ze'evi nel 2001, ha compiuto sei attacchi suicidi nell'Intifada con 13 vittime, tre al mercato a Gerusalemme; ha tentato di uccidere il rabbino capo Ovadya Yossef; ha ucciso a colpi d'ascia cinque persone alla sinagoga Har Nof nel 2014. Terribile anche l'assassinio della 17enne Rina Shnerb nell'agosto del 2019, in cui il padre e il fraatello vennero feriti. Gli assassini sono parte dell'organizzazione degli agricoltori, finanziata dall'UE. L'Fplp, paleomarxista, radicata a Ramallah, in competizione con Fatah che non osa metterla ai margini, è stata, come spiega bene Steinberg, capace di mettere in piedi, priva dei finanziamenti di Abu Mazen, una rete autonoma di organizzazioni non governative che l'alimenta autolegittimandosi. Così che i documenti provano, dice Steinberg, con le foto, che i diplomatici in visita dei vari Paesi, di fatto si incontrano con leader del Fplp. Un paradosso per cui negli ultimi dieci anni gli sono stati dati dall'Europa circa 200 milioni euro del contribuente, sostiene Steinberg. Il direttore amministrativo degli «agricoltori» è stato arrestato, e così anche il contabile, per bombe, attentati, reclutamento di terroristi. Hashem Abu Maria, il leader dell'organizzazione per i bambini, è morto in uno scontro a fuoco con l'esercito, il presidente dell'asseblea dei soci è stato direttore della rivista dell'Fpl. Questa organizzazione è finanziata anche direttamente dall'Italia. Le leader dell'Unione femminile sono quasi tutte membri dei comitato centrale e del direttivo dell'Fplp; il Centro palestinese per i diritti umani, già nella lista, ha un vicepresidente che è stato capo dell'ala militare dell'Fplp di Gaza, condannato all'ergastolo: Al Haq ha un direttore, Shawan Jabarin, che fu accusato di reclutare e organizzare il training dei membri del Fplp. L'Italia finanzia direttamente anche al Haq. La lista è lunga, ma parla chiaro: ammantarsi di diritti umani è un'abitudine consolidata per chi vuole distruggere Israele, e il cinismo della politica internazionale fa finta di non capire, anzi, aiuta questo sistema. Per cui il diritto va in polvere, la vittima diventa persecutore, il terrorista che ignora ogni principio democratico diventa il protagonista dell'era delle organizzazioni non governative.Fiamma Nirenstein
(ANSA il 18 settembre 2021) - E' stato un robot killer capace di sparare 600 colpi al minuto e operato da remoto via satellite dagli israeliani ad uccidere lo scorso novembre lo scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh alla periferia di Teheran. Lo scrive il New York Times rivelando i retroscena dell'operazione, in parte già trapelati all'indomani dell'attacco. Il robot è come un tiratore scelto ad alta tecnologia, equipaggiato con intelligenza artificiale e occhi a più telecamere. Una macchina da guerra che va ad arricchire l'arsenale delle armi ad alta tecnologia per eliminare target remoti. Col vantaggio che, a differenza di un drone, non attira l'attenzione nel cielo e può essere collocato ovunque: caratteristiche, sottolinea il Nyt, che probabilmente cambieranno il mondo della sicurezza e dello spionaggio.
Da open.online il 10 ottobre 2021. Enrico Michetti torna sulle polemiche scoppiate ieri per un suo vecchio articolo sulla Shoah. «Nonostante abbia con fermezza condannato ogni forma di discriminazione razziale, anche in tempi non sospetti, ed in primis quella rappresentata dalla Shoah, mi rendo conto che in quell’articolo ho utilizzato con imperdonabile leggerezza dei termini che alimentano ancora oggi storici pregiudizi e ignobili luoghi comuni nei confronti del popolo ebraico», ha dichiarato il candidato sindaco di Roma. «Per questo mi scuso sinceramente per aver ferito i sentimenti della comunità ebraica, che come tutti gli italiani apprezzo e ritengo parte perfettamente ed orgogliosamente integrata della città di Roma da sempre e nel Paese tutto». Nell’articolo finito al centro delle polemiche, Michetti scriveva: «Ogni anno si girano e si finanziano 40 film sulla Shoah, viaggi della memoria, iniziative culturali di ogni genere nel ricordo di quell’orrenda persecuzione. E sin qui nulla quaestio, ci mancherebbe. Ma mi chiedo perché la stessa pietà e la stessa considerazione non viene rivolta ai morti ammazzati nelle foibe, nei campi profughi, negli eccidi di massa che ancora insanguinano il pianeta. Forse perché non possedevano banche e non appartenevano a lobby capaci di decidere i destini del pianeta».
The Believer (film). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. The Believer è un film del 2001, diretto da Henry Bean e scritto con la collaborazione di Mark Jacobson. Tratta da un'opera teatrale scritta dallo stesso Bean, la pellicola narra fatti biografici e vicende personali ispirati alla vita di Daniel Burros, membro attivo dell'American Nazi Party, antisemita convinto seppure sia stato circonciso e cresciuto secondo le tradizioni ebraiche della famiglia.
Trama. The Believer è la storia di Daniel Balint, un giovane skinhead neonazista di periferia. Fin dall'inizio mostra il suo sentimento riguardo al concetto di razza: sceso da un bus insieme a un ebreo aspetta di avvicinarlo in una strada isolata per colpirlo con calci e pugni. La sera stessa partecipa a un raduno di militanti nazisti, che sembrano voler parlare della sola politica e del concetto di nazione e identità: infatti, non appena Daniel si intromette parlando delle leggi razziali naziste e dell'idea di razza pura, nessuno gli dà credito, ma riuscirà comunque ad aprire un lungo discorso che colpirà il capo della riunione, Curtis Zampf. Facendosi strada nel mondo del neofascismo e del neonazismo si convince di uccidere Ilior Manzetti, un ebreo bulgaro direttore di una banca d'investimento. Per fare ciò occorre tempo e denaro, e di questo si occupa Curtis, il quale comunque mostra timore nel farsi avanti politicamente con un omicidio. Dopo essere uscito dalla casa di Curtis, Danny si ritrova con alcuni suoi amici neonazisti e con loro fa a botte contro tre neri che li avevano importunati in una strada di New York. Entrambe le parti vengono incarcerate, ma Danny e i suoi amici vengono liberati sotto cauzione pagata da Carla, un'amica di Curtis. Per tutto il film è ricorrente una scena d'infanzia di Daniel: ancora piccolo in una classe di una scuola ebraica, comincia una lunga conversazione con il professore di religione su Abramo, sul peccato originale e sui problemi dell'ebraismo e del "popolo eletto", fino a quando scappa di classe correndo per le scale scendendo i piani. Daniel viene contattato da un giornalista del New York Times - che si era in precedenza inserito sotto mentite spoglie nel circolo dei seguaci di Curtis - e una mattina lo incontra in un ristorante. Con lui apre un lungo discorso sul sionismo, gli ebrei e la sessualità, un possibile complotto ebraico (dal controllo dei media, alla finanza), ma durante l'intervista il giornalista fa capire di essere molto arguto dal momento che, informandosi sul passato di Danny, è venuto a scoprire che da piccolo è stato istruito in una scuola ebraica arrivando a celebrare il bar mitzvah. La cosa fa innervosire Danny a tal punto che tira fuori una pistola minacciando il giornalista di uccidersi se avesse pubblicato l'articolo sul quotidiano. Su invito di Curtis, Daniel, insieme al suo amico Billings, si reca presso un campo di skin neonazisti per adempiere a ciò che ha promesso, cioè uccidere Manzetti, e nel frattempo imparare il più possibile del nazismo e del problema ebraico. Ma è proprio durante questo periodo di addestramento che la banda di neonazisti viene portata in tribunale da due ristoratori ebrei che sono stati da loro picchiati. Il giudice dà ai ragazzi due possibilità: passare un mese in carcere o partecipare a una seduta con sopravvissuti all'Olocausto. Durante la seduta, i ragazzi scherniscono e insultano i partecipanti all'incontro. Uno dei presenti ricorda un episodio di crudeltà che ha vissuto durante la guerra: suo figlio, a soli tre anni, è stato ucciso da un soldato tedesco sotto i suoi occhi. Daniel è disgustato dal fatto che il sopravvissuto non avesse avuto la forza di reagire e, quando gli anziani presenti gli rispondono che lui stesso non si sarebbe comportato diversamente, decide di lasciare l'incontro: l'episodio diventerà un pensiero ricorrente per il protagonista, che immagina di riviverlo dapprima nel ruolo del soldato e successivamente nel ruolo dell'ebreo, in un futile tentativo di resistenza. Daniel, insieme ai nuovi amici, organizza un attentato dinamitardo nella sinagoga principale della città piazzando una bomba sotto il pulpito, programmandola per l'esplosione alcuni giorni dopo la celebrazione religiosa. Tuttavia la bomba non esplode, probabilmente a causa di un difetto nell'alimentazione del detonatore. Danny, nel frattempo, si muove per fare un passo avanti e viene coinvolto da Drake nel tentato omicidio di Manzetti. Appostati fra i cespugli di notte, Drake e Daniel attendono che Manzetti esca da un edificio dove ha tenuto una conferenza: Daniel mira, spara ma sbaglia, forse di proposito. Ciò fa infuriare Drake che crede che lo abbia fatto apposta e si rende conto che il suo camerata in realtà è ebreo, cosa che sospettava da tempo: ne nasce una lite durante la quale Daniel spara a Drake prima che lui faccia altrettanto e scappa via convinto che Drake sia morto. Curtis apre un'associazione fascista alla luce del sole e incarica Danny di farsi carico della raccolta fondi. Le prime conferenze di Daniel sembrano un successo ma dato che, oltre ai militanti, servono anche i soldi per la retta e l'affitto, Daniel si muove anche in questa direzione. Durante un colloquio con un bancario circa la donazione di quest'ultimo nasce un diverbio durante il quale Daniel accusa il potenziale finanziatore di essere un ebreo. La vita di Daniel si fa sempre più complicata, stretta tra l'antisemitismo e la sua riscoperta della religione ebraica, che avviene a seguito dell'incontro con ex compagni di scuola, ormai adulti, che frequentano la sinagoga. Anche Carla, la ragazza di cui Daniel si è invaghito, si appassiona allo studio dell'ebraico e dell'ebraismo, apparentemente al fine di conoscere il nemico. A tal proposito, resasi conto che Daniel legge e parla l'ebraico, si fa insegnare questa lingua e insieme leggono passi della Torah; addirittura Carla arriva a partecipare a incontri in sinagoga. I due hanno anche una discussione su come il Dio degli ebrei sia essenzialmente indefinibile e distante dagli uomini. Daniel sembra ritrovare l'identità ebraica persa, ma, mentre partecipa a una preghiera insieme a dei vecchi amici, litiga con un vecchio compagno di scuola, Avi, circa il sionismo e il nazismo, che Danny pone sullo stesso livello, ovvero ideologie razziste. Su queste parole scatta la rissa con Avi e Daniel viene accompagnato fuori dall'edificio. La sera stessa, Daniel tiene un discorso con personalità importanti impegnate nel neofascismo a New York su invito di Curtis ma, durante il discorso, invita i presenti ad amare gli ebrei in quanto ritiene che questo sia l'unico modo per distruggere un popolo che con l'odio si rafforza. Il messaggio non viene colto e quando Daniel inizia a cantare una preghiera in ebraico viene allontanato dalla moglie di Curtis, infuriata per l'atteggiamento tenuto da Danny. Tuttavia Daniel, ancora preso dal proposito di uccidere un ebreo, mette una bomba nella sinagoga, proprio sotto il pulpito e la programma per le 19:30 del giorno seguente, orario in cui si svolgerà la funzione del Yom Kippur. La mattina del giorno dell'esplosione, al telegiornale viene data la notizia dell'omicidio di Manzetti: anche se tutti credono sia stato Daniel, in verità il responsabile è Drake, fortunosamente sopravvissuto al colpo di fucile. La sera del fatidico attentato il protagonista viene colpito dal rimorso, soprattutto perché alla preghiera vi sono alcuni suoi amici cari: di conseguenza, dopo essersi sostituito al lettore ufficiale dell'orazione, avverte tutti di fuggire il prima possibile dalla sinagoga. Solo lui rimane all'interno aspettando l'esplosione per liberarsi di quella vita oramai diventata un tormento. Prima di morire ha nuovamente la visione ricorrente di lui alla scuola ebraica: questa volta però Daniel si vede adulto. Il professore desidera continuare il discorso su Isacco che, dice, potrebbe essere morto e risorto nel nuovo mondo. Simbolicamente, Danny lo ignora e continua testardamente a salire le scale, trovando solo infinite altre scale, altri pianerottoli e lo stesso insegnante che lo invita a desistere poiché "non c'è niente lassù".
Film The Believer: frasi
Danny Balint (Ryan Gosling):
"Prendi le più grandi menti ebree: Marx, Freud, Einstein. Che cosa ci hanno dato? Il comunismo, la sessualità infantile e la bomba atomica!"
"Il nulla senza fine..."
"Danny, dove stai andando? Lo sai che non c'è niente lassù!"
The Believer, il coraggio delle riflessioni scomode. Di Riccardo Rosati su Ereticamente il 21 luglio 2015. I “Protocolli dei Savi di Sion”, apparsi all’inizio del secolo scorso, sono stati oggetto di vari studi e critiche, e sono ormai chiaramente giudicati un falso in chiave antisemita, redatto dalla polizia segreta russa tra il 1903 e il 1905. Ciò malgrado, il punto non è questo, ovvero quello della non autenticità di tali scritti, ma è un altro: benché falsi, alcune delle teorie in essi contenute sono da considerarsi plausibili? Per giunta, esse si sono poi attuate nel tempo e hanno una qualche logica di base nello scenario politico internazionale? Piuttosto che subire sempre la “fobia antisemita”, la quale impedisce oggi di criticare qualsiasi ebreo che possa addirittura aver commesso dei reati, senza venir immancabilmente bollati come “antisemiti” – pensiamo all’entourage di Dominique Strauss-Kahn che ha accusato il film di Abel Ferrara “Welcome to New York” (2004), ispirato alle note vicende dell’uomo d’affari francese di religione ebraica, di essere antisemita – dovremmo ragionare su alcune evidenti influenze della finanza e intellighenzia ebraiche sul mondo occidentale. Ci sarebbe poi la necessità di fare dei distinguo tra “antisemitismo” e “antisionismo”, che non sono affatto la stessa cosa. Per far ciò, ci vorrebbe ben più spazio di quello messo a nostra disposizione. Purtuttavia, anni fa uscì in America un film che con immenso coraggio ebbe modo di raccontare una storia realmente accaduta e che dovrebbe farci riconsiderare la melassa buonista in cui siamo impantanati da anni e che ha fatto degli ebrei una comunità praticamente di intoccabili. La storia di cui andremo a parlare è realmente accaduta e, proprio in virtù di ciò, ci permettere di “parlare”, senza essere messi subito a tacere, poiché determinati membri delle nostre società non si possono più nemmeno criticare. “The Believer”(2001) è un film diretto da Henry Bean e scritto con la collaborazione di Mark Jacobson. La pellicola narra i fatti biografici di Daniel Burros (1937 – 1965), membro attivo dell’American Nazi Party, antisemita di primo piano nel suo Paese. Due fatti in questa storia lasciano davvero senza parole: 1) Non si tratta dello sfogo razzista di qualche folle sceneggiatore, bensì di una storia vera. 2) Il protagonista – Danny è stupendamente interpretato da Ryan Gosling – è un nazista ebreo. “Il mondo moderno è una invenzione ebraica”, questa è in sintesi la essenza del pensiero di Danny. Certo, il tutto sa molto di complottismo mondiale, lo stesso che spinse alla creazione dei sopracitati “Protocolli dei Savi di Sion”. Ciononostante, la storia raccontata nel film di Bean non si perde affatto nel più becero antisemitismo, anzi, ogni concetto viene affrontato in modo talmente profondo, anticonvenzionale, che durante la visione della pellicola si resta in più occasioni interdetti, con un tarlo che monta nella forma della seguente domanda: “Forse ci hanno mentito su molte cose?”. Sia ben chiaro che le riflessioni di Danny non si esauriscono in un insopportabile negazionismo sulla Shoah! Esse intaccano invece efficacemente dei precetti culturali che sono ormai Legge! “Perché così tanti ebrei comunisti?”. Ecco una altra domanda che esce prepotentemente fuori nel film. Non possiamo certo negare questo dato, come il fatto che poi il marxismo sia penetrato nei gangli della società occidentale, alterandone almeno in parte l’identità. Quello che Danny contesta, e la fa con un eloquio raffinato, mai volgare, è la “cultura del pianto” che ha permesso a una minoranza, come quella ebraica, di ottenere un potere sovente superiore a quello della stessa maggioranza. Economia, stampa, università, difficile contestare come la influenza di molte figure di spicco in questi campi e, di conseguenza, sulla vita e il modo di pensare occidentali siano state e sono tutt’ora degli ebrei. Strano no? O vogliamo forse credere alla baggianata che gli ebrei sono più intelligenti? Sarebbe razzismo al contrario. Non ci risulta che Bernini o Pirandello fossero di confessione giudaica. Il personaggio di Danny è davvero “malevolmente” seducente, esercitando una attrattiva tipica di quelle intelligenze scomode, le quali hanno il brutto vizio di dire quelle verità che nessuno vuole sentire. Egli sa bene di cosa parla, avendo frequentato da bambino una scuola ebraica, dove però litigava con i suoi insegnanti, poiché si permetteva di mettere in discussione i dogmi della Fede, che nell’Ebraismo sono ben più consolidati che nel Cristianesimo di oggi. Egli si mostra palesemente come una persona erudita, che ama leggere, quanto fare a pugni. Il suo spessore intellettuale si nota, ad esempio, in una delle scene iniziali, quando presenzia a un incontro politico in un salotto di destra. Qui, ha un fitto scambio di vedute con Curtis, il quale ha una visione assai meno estremista della sua. La loro sofisticata polemica permette inoltre di mettere in evidenza le chiare differenze ideologiche tra una interpretazione fascista e una nazista della società. Colpisce la lucida, quanto fredda, capacità di analisi politica del protagonista, che lo spinge a dire frasi del tipo: “La Germania una altra volta, ma fatto per bene”. Sempre in questa scena, Curtis, che nella trama gioca talvolta la parte dell’antagonista politico di Danny, sottolinea un concetto di grande importanza, definendo quello che lui chiama: “Errore americano”, riferito alla ostilità mostrata verso il fascismo dalla società statunitense dal Secondo Dopoguerra in poi. Trattasi di una assoluta verità, anzi potremmo persino spingerci oltre, sostenendo come la cultura ufficiale americana, nelle università, nei libri e nei film, abbia persino manipolato il concetto stesso di fascismo, descrivendolo come la origine di ogni sistema totalitario, negandone qualsiasi lato positivo, e proponendone una lettura talmente artefatta da farlo diventare col tempo sinonimo di “nazismo”; quando basta avere una discreta e onesta conoscenza dei fatti per sapere che vi erano enormi differenze tra i due regimi. Strano è comunque che in tutta la storia non venga mai pronunciato il nome di Mussolini. L’espressione “ebreo che odia se stesso” è usata per indicare una persona di religione ebraica che nutre pensieri antisemiti. Essa è apparsa per la prima volta nel libro “Der Jüdische Selbsthass” (“L’odio di sé ebraico”, 1930) del filosofo tedesco ed ebreo Theodor Lessing. Solitamente questa scottante e assai poco nota tematica è legata alla critica al sionismo, la quale ha avuto dei sostenitori persino all’interno della stessa comunità ebraica internazionale. Va de sé, che si è sempre trattato di una minoranza intellettuale, ma è una realtà che va in ogni modo conosciuta, studiata e compresa: cosa spinge un ebreo a considerare la propria cultura come nociva per il mondo? Ci vorrebbero vari dottissimi libri, e non certo un semplice articolo, per cercare di abbozzare almeno una risposta a un quesito tanto complesso e scomodo. Una cosa però la possiamo dire, ovvero che la storia raccontata in “The Believer” può senz’altro fornire un valido aiuto per cercare le risposte a un problema che sembra quasi paradossale, ma che se poi ci si addentra nella questione, proprio così folle non è: Daniel Burros è esistito veramente, aveva idee politiche ben precise e, alla fine, non potendo in alcun modo conciliarle con la sua origine ebraica si è tolto la vita, come del resto fa anche il protagonista del film. “The Believer” potrebbe ricordare un altro ottimo titolo, forse però non così riuscito come quello di Bean. Ci riferiamo a “American History X” (1998) di Tony Kaye. Siamo sempre in quella America degradata dove cova una destra nazista che si nutre del disagio sociale dei bianchi più poveri. Tuttavia, il protagonista Derek (Edward Norton) se la prende principalmente con i neri e non è certo intellettualmente paragonabile a Danny, giacché quest’ultimo è veramente una “mente autodidatta” e decisamente più colto di Derek. Per non parlare poi del finale, assai più lieto che in “The Believer”, ma non avrebbe potuto essere differentemente, visto che il conflitto insanabile tra fede e politica in Danny poteva solo che risolversi col suo totale annientamento. Il film di cui abbiamo parlato, e del quale consigliamo spassionatamente la visione a quelle persone che nutrono un necessario dubbio, in una società dove la menzogna è la unica regola, è politicamente notevole; forse uno dei migliori di sempre da questo punto di vista. Trattasi di una storia che riecheggia involontariamente “Il mito del sangue” (1942) di Julius Evola, con tutte le scomodissime argomentazioni sulla razza che ne conseguono. Come quello del grande filosofo italiano, il ragionamento che presenta questa pellicola non è fazioso, bensì coraggioso! Una qualità, il coraggio, assai rara di questi tempi. Lo scrittore americano Ray Bradbury ebbe modo di dichiarare in una intervista a Herman Harvey del 1962: “I giornali sono il boccone di
traverso della nostra epoca”; parole degne di una grande penna come era lui. Proprio alla stregua delle sue spesso impopolari dichiarazioni a giornali e quotidiani (pubblicate di recente: Ray Bradbury, “Siamo noi i marziani. Interviste [1948-2010)]”, a cura di Gianfranco de Turris e Tania Di Bernardo, Bietti, 2014), “The Believer” è un film che spinge, anzi, potremmo dire persino impone una riflessione, politica, ma anche teologica, adempiendo a una delle due funzioni principali della Settima Arte: da una parte intrattenere, dall’altra far pensare. Daniel Burros è stato un uomo in carne ed ossa, un attivista politico di un certo peso. Ragion per cui, i soliti benpensanti del progresso non se la possono cavare, liquidando il tutto con la, ormai, solita incontrastabile parola: “razzismo”. Noi ci offriamo, da intellettuali e studiosi di cinema, di sostenere il peso pure delle riflessioni più scomode: cosa spinge un ebreo a odiare se stesso? Se all’ascolto c’è ancora qualche – come diceva Italo Calvino – Uomo di Coscienza, allora magari si potrà condividere questo peso assieme. Pubblicato da Ereticamente il 21 Luglio 2015
The Believer, il più bel film sull’antisemitismo, fra polemica e profondità. Roberto Zadik su mosaico-cem.it il 26 Gennaio 2016. In questo periodo di Giornata della Memoria, di riflussi tremendi di antisemitismo, di antisionismo e di aggressività di vario tipo, mi sembrava doveroso ripescare in questo mio blog un bel film come “The believer”. Uscito 15 anni fa sugli schermi italiani, chiacchieratissimo e criticato negli Usa e qui cestinato nel dimenticatoio dopo il solito “botto” iniziale, questa pellicola è davvero originale per tanti motivi e malgrado sia uscita diversi anni fa, ero un baldo giovane di 25 anni quando l’ho visto, merita di essere riesumato dal solaio. In questo mio blog dedicato a cinema, musica e cultura del mondo ebraico contemporaneo non parlo solo di film nuovi ma mi piace ogni tanto ripescare prodotti notevoli anche se di un po’ di tempo fa. Per quale motivo “The Believer è un film importante? Innanzitutto perché ha lanciato il bravissimo attore mormone canadese Ryan Gosling, (trucido e affascinante Scorpione ascendente Pesci, 35 anni, esploso anni dopo con lenta e scivolosa scalata e ora famoso per film come “Drive” e “La grande scommessa” di recentissima produzione. Poi perché questa pellicola americana, che nel cast oltre allo straordinario Gosling vede altri due solidi attori come Billy Zane, sconosciutissima star del film “Titanic” e Theresa Russell, non parla al passato, con storie di Shoah, di ricordi, di anni ’30 e ’40, ma dell’antisemitismo oggi attraverso la crisi esistenziale e identitaria profondissima del protagonista ebreo Daniel Balint che diventa uno spietato e sarcastico naziskin influenzato dai suoi amici e dalla sua ragazza che invece si avvicinerà all’ebraismo.
Una storia fortissima che incatena lo spettatore e lo ammalia grazie a un ritmo da film d’azione, merito del bravo regista Henry Bean, (strano nome che può tradursi come “Enrico Fagiolo” e poi sparito come fugace lampo) e a dialoghi affilati, azzeccati e molto ben confezionati. Com’è possibile essere ebreo e al tempo stesso antisemita? Da dove deriva l’antisemitismo e quali sono i suoi stereotipi e le sue subdole trappole? Sebbene molti spettatori e critici attaccarono il film, accanto ai tanti elogi, definendolo “esagerato” o “paradossale” questo lungometraggio premiato a vari prestigiosi festival si ispira, invece, alla storia vera dell’ebreo Daniel Burros che divenne naziskin. Sono passati quindici anni dal film che in certi passaggi ricorda un altro bel lavoro come “Talk Radio” di Oliver Stone ma Gosling e il regista sono più profondi, emotivi e esistenziali e l’America rappresentata è diversa, non quella ottimista e anni ’80 del film di Stone ma gli Usa violenti, cupi e feriti e insospettabilmente razzisti degli anni 2000. Diverse scene sono memorabili, dall’aggressione del crudele Balint diventato naziskin all’indifeso seminarista ebreo che apre in maniera angosciante la pellicola, che rappresenta la crudeltà di attaccare verbalmente e fisicamente persone indifese solo perché “diverse”, situazione che tristemente si è ripresentata più volte nelle recenti cronache di antisemitismo e di violenza europea e mondiale. I ricordi di Balint quando nella scuola ebraica poneva domande scomode e imbarazzanti al suo insegnante di Torah che rispecchiano i dubbi di tanti laici e il dissidio laici-religiosi molto vivo nell’ebraismo contemporaneo. L’intervista del giornalista del New York Times anche lui ebreo come Balint che rimane sconvolto nell’ascoltare i discorsi deliranti e gelidamente articolati del ragazzo mentre sciorina i soliti stereotipi antisemiti con inquietante rabbia. Dallo strapotere degli ebrei nei media, alla mentalità manipolatrice e attaccata al denaro, al fatto che “gli ebrei sono tutto astrazione e diverse idee contorte dalla psicanalisi, al comunismo sono colpa loro” come dice Balint. Gosling è veramente eccezionale e all’epoca aveva solo 22 anni nell’impersonare un personaggio tanto fragile e crudele come Balint che rappresenta un certo “odio di sè” ebraico del mondo ashkenazita, seppure all’estremo, l’assimilazione e l’influenzabilità, la confusione e il senso di disorientamento che molti ebrei della mia generazione e più giovani spesso vivono nei tempi odierni circondati da sentimenti ambigui, da compagnie sbagliate, indecisi su valori e convinzioni e immersi in questo clima che oscilla fra tolleranza e diffidenza. Molto accurata nel film anche la rappresentazione della Sinagoga, i dialoghi sullo Shabbat, sulla kasherut, coinvolgenti le liti su sionismo, nazismo, antisemitismo e le discussioni di Balint coi sopravvissuti alla Shoah. Il rabbioso protagonista contesta tutto e vorrebbe credere, da lì il titolo “The Believer” (Il credente), che si oppone e aggredisce perché si sente ferito, che parla preoccupato di assimilazione, che si commuove quando ascolta i racconti delle vittime dei lager e si innervosisce con loro perchè non hanno reagito alle barbarie subite. Per questi dialoghi e situazioni, per i sentimenti che è in grado di risvegliare e le riflessioni che questa stimolante pellicola suscita, “The Believer” è più di un semplice film che si avvale della sceneggiatura del bravo giornalista Mark Jacobson e della sensibilità del regista Henry Bean e dalla travolgente espressività di Gosling. Molto utile e educativo, sebbene decisamente provocatorio, scomodo e a tratti polemico, come “Arancia Meccanica” di Kubrick che creò al regista diversi problemi, il film è complesso e va filtrato dal buon senso data la forza delle sue immagini e dei contenuti e posso capire che tanti ne siano rimasti perplessi e spiazzati. Del resto l’originalità in questa epoca di banalità e di conformismo, di filmetti commerciali e “facili” è un dono preziosissimo e com’è giusto che sia il film si rivela spiazzante e splendido per forza narrativa e emotiva. Magistrale anche la scena finale dove Balint cerca di far saltare la Sinagoga ma alla fine si suicida e torna a litigare col suo professore di Torah in cerca del senso della sua esistenza.
IL FILO A PIOMBO DELLE SCIENZE. A volte la gente non vuole ascoltare la verità perché non vuole vedere le proprie illusioni distrutte. Le convinzioni, più delle bugie, sono nemiche pericolose della verità. (Friedrich Wilhelm Nietzsche)
THE BELIEVER su perpendiculum.blogspot.com mercoledì 3 ottobre 2018.
Lingua originale: Inglese, ebraico
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Anno: 2001
Durata: 102 min (secondo altri 98 min)
Dati tecnici: Colore e B/N
Rapporto: 1.66: 1
Genere: Drammatico
Regia: Henry Bean
Soggetto: Henry Bean, Mark Jacobson
Sceneggiatura: Henry Bean
Produttore: Susan Hoffman, Christopher Roberts
Produttore esecutivo: Daniel Diamond, Jay
Firestone, Adam Haight, Eric Sandys
Casa di produzione: Fuller Films, Seven Arts
Pictures
Fotografia: Jim Denault
Montaggio: Mayin Lo, Lee Percy
Effetti speciali: Drew Jiritano, Thomas Viviano,
Andrew Mortelliti, Andrea Swistak
Musiche: Joel Diamond
Scenografia: Susan Block
Costumi: Alex Alvarez, Jennifer Newman
Trucco: Renee Di Dio, Renee Von Maluski, Angela
Gallagher, Seth Lombardi
Interpreti e personaggi
Ryan Gosling: Danny Balint
Billy Zane: Curtis Zampf
Theresa Russell: Lina Moebius
Summer Phoenix: Carla Moebius
Heather Goldenhersh: Linda
A.D. Miles: Guy Danielsen
Natasha Leggero: Valerie
Joshua Harto: Kyle
Elizabeth Reaser: Miriam
Glenn Fitzgerald: Drake
Sacha Knopf: Cindy Pomerantz
Henry Bean: Ilio Manzetti
Jordan Lage: Roger Brand
Ebon Moss-Bachrach: Priaty
Doppiatori italiani
Massimiliano Manfredi: Danny Balint
Massimo De Ambrosis: Curtis Zampf
Isabella Pasanisi: Lina Moebius
Barbara De Bortoli: Carla Moebius
Budget: 1,5 milioni di dollari
Incassi al botteghino: 1,3 milioni di dollari, di cui:
USA: 416.925 dollari
Italia: 56.786 dollari
Francia: 56.493 dollari
Messico: 35.204 dollari
Spagna: 743.908 dollari
(Fonte: Box Office Mojo)
Riconoscimenti: 2001 – Courmayeur Noir in festival
Premio Leone Nero al miglior film
2001 – Festival cinematografico internazionale di Mosca
San Giorgio d'oro
2001 – Sundance Film Festival
Gran Premio della Giuria
Trama: Daniel "Danny" Balint è un neonazista suburbano, un giovane skinhead fanatico e violento che consuma la sua vita spettrale in una periferia desolata di New York. C'è soltanto un piccolo problema: Daniel Balint è ebreo. Aveva ricevuto un'educazione ortodossa e da bambino era uno studente di una yeshiva, ossia una scuola talmudica. Brillante e dotato di un intelletto molto acuto, si era fin da subito fatto notare per le sue interpretazioni non ortodosse delle Scritture. La sua idea portante era di una logica ferrea. Dio aveva comandato ad Abramo di sacrificare suo figlio Isacco, trattenendo all'ultimo la mano armata pronta ad uccidere. Tuttavia nel momento stesso in cui il patriarca aveva levato il coltello per compiere il sacrificio umano, era come se lo avesse compiuto davvero. Isacco era stato davvero ucciso e subito era resuscitato, dando però origine a una ferita insanabile, che aveva piagato gli Israeliti per sempre. Ogni ebreo mostrava i segni dell'accaduto e li avrebbe portati su di sé fino alla Fine dei Tempi. Ovviamente queste idee non piacevano all'insegnante di Torah, che litigava con il giovane eterodosso ogni giorno in modo furioso. La Verità compresa da Daniel non era colta né compresa dagli altri studenti, tutti stupidissimi e conformisti. Questa Verità possiamo scriverla a caratteri cubitali e incorniciarla. DIO È UN BULLO. Egli ti dice così: "Io sono tutto e tu non sei niente, per questo posso farti tutto ciò che voglio". Sì, il Dio Bullo può anche uccidere ogni persona, mutilarla, renderla invalida, renderla demente, colpirla con una malattia immonda, farla incarcerare, torturarla e perseguitarla in modo atroce. Non c'è scampo, non c'è riparo dall'arbitrio del Boia Cosmico. Come ci si sente a sapere di essere in balia di un mostro sadico? Ecco, Daniel Balint non ha retto a questa consapevolezza e ha iniziato la sua discesa agli Inferi, che lo porterà all'incontro col Mostro della Follia. Incurante dei dolori arrecati a suo padre e a sua sorella, gira per la città con una maglietta con una grande svastica, ricavata da una bandiera del Terzo Reich. Porta bene in evidenza anche un piccolo stemma delle SS su una spalla. La sua vita è violenta. Su un autobus si imbatte in uno studente ebreo, lo segue quando scende, gli tende un'imboscata, lo insulta e lo massacra di botte. Tuttavia qualcosa lo distingue da altri skinhead, la cui brutale esistenza si esaurisce nella mera fisicità, senza alcuna forma di pensiero nel cranio: egli cerca invece di trasmettere le proprie idee, di diffonderle come un virus. In questa sua ricerca Daniel si imbatte nel circolo neofascista guidato da Curtis Zampf e da sua moglie Lina Moebius, così inizia a partecipare alle riunioni. Quando parla delle leggi razziali naziste e della necessità dell'antisemitismo, tutti lo guardano come se fosse un extraterrestre. Il neofascismo di Curtis Zampf è più che altro una forma di politica identitaria, per certi versi simile a quello che oggi viene etichettato come "sovranismo". Questa dottrina auspica la decomposizione degli Stati Uniti d'America nelle comunità etniche che ne formano il tessuto sociane, ognuna sovrana e indipendente. C'è profondo scetticismo sull'odio antisemita, ritenuto una cosa del passato da superare, in grado soltanto di arrecare danni. Eppure i discorsi di Daniel, fondati sulla retorica del Mein Kampf, finiscono con l'affascinare il circolo di Curtis e della sua consorte. Entra in scena la figlia dei due coniugi, Carla Moebius, che è subito colpita dal giovane neonazista: se ne innamora perdutamente. Tutti sono colpiti dall'intelligenza acuta di Daniel nell'esporre i propri argomenti. Quando arriva a proporre l'uccisione del banchiere ebreo Ilio Manzetti, Curtis e Lina si oppongono recisamente. Tuttavia è chiaro che l'antisemitismo cova come brace sotto la cenere ed è tenuto nascosto persino in privato per paura dei delatori e di subire persecuzione. Per questo Curtis e la moglie investono molto nel ragazzo, arrivando a pagare la cauzione per lui e per i suoi compagni quando vengono arrestati per aver scatenato una rissa di strada con alcuni robusti Mandingo. I guai sono appena iniziati: il giornalista biondiccio Guy Danielsen, che sta scrivendo un articolo sui gruppi dell'odio, intervista Daniel e ascolta la sua dettagliata esposizione di rabbiose invettive antisemite, quindi gli rivela qualcosa di traumatizzante: egli ha scoperto la sua vera identità e ha anche contattato il rabbino Stanley Nadelman, l'insegnante che lo ha preparato al Bar Mitzvah. Daniel riesce a cavarsela estraendo la pistola e minacciando il suicidio. A questo punto Daniel viene invitato da Curtis e da Lina nel loro campo, dove numerosi neonazisti si radunano e si esercitano con le armi. Subito sa farsi valere. Accade però qualcosa di decisamente bizzarro. Egli ha una relazione con Carla Moebius, che finisce con dargli appuntamento nella propria stanza a mezzanotte, dicendogli di entrare dal balcone. Quando Daniel si reca all'appuntamento, vede la ragazza che copula con il padre nella posizione della cowgirl. Non ci sono dubbi: lei siede a cavalcioni sull'uomo, impalata dal suo fallo e a un certo punto riceve nella vagina lo sperma che l'ha generata! Sconvolto dall'incesto, il giovane si reca con i suoi compagni in un ristorante kosher, dove inizia ad attaccare briga. Ne scaturisce una rissa: lui e i suoi sodali, dopo aver chiesto di potersi ingozzare di prosciutto e di formaggio, le prendono e finiscono nuovamente in carcere. Il giudice dà loro una scelta tra un mese di carcere e un incontro con sopravvissuti all'Olocausto. I neonazisti scelgono la seconda opzione. Durante questo incontro accade qualcosa di decisivo. Gli anziani superstiti vengono scherniti più volte, tanto che l'assistente sociale minaccia l'interruzione della misura alternativa. A un certo punto uno di loro racconta che un soldato tedesco ha ucciso suo figlio di soli tre anni, trafiggendolo con la baionetta. Daniel è preso dalla furia e si chiede come l'uomo possa essere rimasto immobile, senza tentare di difendere il figlio. La moglie del sopravvissuto afferma che lui al suo posto avrebbe fatto lo stesso, non avrebbe avuto possibilità alcuna, o sarebbe stato annientato. Per il resto della sua vita, Daniel avrà terribili flash mentali, in cui si vedrà sia con le sembianze del soldato che con quelle del padre del bambino ucciso. Qualcosa in lui si sta incrinando. Liberato, Daniel torna dai suoi amici e insieme organizzano un attentato in una sinagoga. Entrano di notte nel tempio per piazzare una bomba sotto il pulpito. Durante il raid, Daniel cerca di impedire la profanazione dei rotoli della Torah, dando prova di conoscere il mondo ebraico. I compagni, che sono stolti bestioni, non riescono davvero a capire. La bomba si rivela un fallimento. Daniel porta a casa la Torah e ripara con cura i danni che ha subìto. Il fanatico Drake coinvolge il giovane nell'attentato al banchiere Manzetti, vantandosi di aver ucciso quattro ebrei. Così viene preparato un agguato, che non va a segno: Daniel manca il colpo. Drake lo accusa di aver fallito apposta e vede qualcosa di strano: un panno con caratteri ebraici che pende dal fianco del compagno. Ne scaturisce una lite e Daniel spara a Drake, pensa di averlo ucciso, quindi fugge nella notte. Anziché sbrogliarsi, la matassa si complica incredibilmente. Il tentativo di Curtis di far uscire alla luce del sole il suo movimento neofascista, l'incontro di Daniel con i suoi ex compagni di scuola, la sua relazione con Carla, che si fa da lui insegnare l'ebraico e arriva a frequentare la sinagoga. L'azione procede tra vari colpi di scena fino all'unico epilogo possibile: la nemesi del protagonista.
Recensione: Un film da vedere e rivedere. Un capolavoro totale, che purtroppo non ha avuto i riconoscimenti che meritava. In fondo non dovrebbe stupire più di tanto se è stato un tale insuccesso. Le genti del mondo non sono in grado di comprendere argomenti troppo complessi. Non capiscono il modo di pensare degli Israeliti proprio come non capiscono la natura del Nazionalsocialismo e più in generale delle ideologie antisemite. Allo stesso identico modo. Banalizzano ogni cosa, proprio perché non è loro impossibile afferrare categorie troppo distanti da quelle che hanno ricevuto dall'ortodossia del pensiero unico politically correct. Per questo motivo l'opera di Henry Ban è andata incontro al disastro economico: un milione e mezzo di dollari spesi per produrre il film, soldi che poi non sono tornati nemmeno tutti indietro. All'appello mancavano duecentomila dollari e non è stato generato alcun nuovo reddito. Un vero peccato. L'ennesima occasione persa per dare fastidio al conformismo vigliacco delle masse acefale. Quando qualcuno è un genio, la vita in genere non gli si presenta facile, mentre è consentito a squallidi speculatori come i neoblogger e gli influencer di accumulare denari manipolando il vuoto assoluto, vendendo pataccate come i loro ridicoli brand. Nel Web anglosassone The Believer è ritenuto una vera e propria patata bollente e rifuggito come un'epidemia di peste. A quanto pare nessun distributore di una certa importanza ha voluto averci a che fare, dopo che una sua proiezione al Centro Simon Wiesenthal ha dato origine a vivaci proteste. Trasmesso qualche volta sulla TV via cavo, è stato cancellato in seguito agli attentati dell'11 settembre alle Torri Gemelle. Certo, non c'entra una cippa col fondamentalismo islamico, ma andatelo a spiegare ai Neocon!
Daniel Balint e i pompini. Intervistato dal giornalista Guy Danielsen in un bar, il protagonista introduce un argomento che in genere viene taciuto. Comincia a parlare dei pompini! Innanzitutto chiede all'uomo dai capelli ricci color paglia se è mai stato a letto con una ragazza ebrea. Alla risposta affermativa, scava ulteriormente e vuole sapere se lei gli ha fatto un pompino. Ebbene sì, è proprio quello che è accaduto. La ragazza ha preso l'uccello in bocca al suo amante e lo ha succhiato, portandolo a schizzare lo sperma. A questo punto inizia l'astioso trattato di Daniel Balint sul sesso orale, da lui tecnicamente etichettato come una perversione. Egli sostiene che i pompini sarebbero stati inventati dal Popolo Eletto, che ne sarebbe ossessionato. Quindi accusa gli Israeliti di non essere in grado di penetrare e di aver quindi inventato questa forma di sesso, da lui considerata "infantile" e fondamentalmente "omosessuale". Fa l'elogio della copula, che definisce come il mezzo adatto per fare godere una donna. Per contro, i pompini sono in grado di manipolare l'uomo e di compromettere la sua integrità, riducendolo a un essere incapace di affermarsi. Questo pur ammettendo che ricevere il sesso orale è "molto piacevole" - segno che deve averlo sperimentato. A questo punto scatta la rappresaglia del biondo e occhialuto Danielsen, che tira fuori la scomoda faccenda del Bar Mitzvah e del rabbino Nadelman. Tutto ciò sembra essere passato inosservato, nonostante sia ben raro che in un film si arrivi a parlare esplicitamente dei pompini e ancor più raro che li si condanni. Sarebbe il caso di compiere un approfondito studio antropologico sull'argomento "estremisti di destra in USA e pompini". Ci si potrebbe fare una tesi di laurea. Peccato che gli antropologi non ritengano queste cose degne di interesse. Una volta mi è capitato di trovare nel famoso sito Stormfront.org un commento di un tale che in sintesi condannava i pompini perché "piacciono da morire agli ebrei". Non so fino a che punto sia diffuso questo bizzarro pacchetto memetico che associa la cultura ebraica alla pratica del sesso orale. Ogni tanto capita di imbattersi nei forum pornografici americani in narrazioni di uomini che non amano farsi fare i pompini. Per indagare è sufficiente digitare in Google stringhe del tipo "men who don't like blowjobs". Si trovano resoconti davvero molto morbosi. Ricordo di aver letto di una ragazza che si lamentava del fatto che il suo ex la allontanava ogni volta che lei cercava di avvicinare la bocca ai suoi genitali. Sospirava, affermando di non essere riuscita a farglielo nemmeno una volta. Un'altra era una milf che ha raccontato di aver avuto un incontro occasionale in un bar con un uomo che non le ha permesso di prenderglielo in bocca e si è limitato a copulare more ferarum. Come lei ha cercato di convincerlo a farlo spruzzare nella sua bocca, lui l'ha spinta via e ha emesso il seme nel vuoto. In genere nelle comunità online testimonianze di questo tipo destano grande scalpore. Una milf scandalizzata ha paragonato l'uomo che non ama i pompini al bigfoot, ossia a una creatura inesistente. Non so però dire se le motivazioni alla base di questi strani episodi siano collegate in qualche modo all'estremismo di destra. Erano questi uomini neonazisti? Erano membri del Ku Klux Klan? Non ho prove sufficienti per affermarlo. In alcune narrazioni da me rinvenute nel Web, il rifiuto della fellatio era connesso a brutte esperienze con donne inesperte che sfregavano il glande con i denti: queste occorrenze vanno quindi espunte dalla casistica. Nel film di Bean, vediamo la sensuale Carla Moebius con le labbra che le fremono dalla libidine, tanto è presa dalla voglia di succhiarlo a Daniel. Ci sarà riuscita?
L'ultimo monologo di Daniel Balint. L'atteso discorso dell'agitatore neonazista inizia in un modo assolutamente inatteso, che trasforma ogni astante in una statua di sale come la moglie di Lot. Questo è l'incipit: "SHEMA YISRAEL!" Già alla prima emissione salmodiata di quei fonemi si registrano reazioni di grande sconcerto e di insofferenza tra il pubblico, che reagisce come un gruppo di musulmani riuniti in una moschea in cui fosse trascinato all'improvviso un grosso porco estinto tutto coperto di sterco. C'è persino un afroamericano, che contorce le narici quasi per sfuggire ai lezzi di un fantomatico stronzo. La grande ipocrisia di quella congrega è degna della massima stigmatizzazione. L'incestuoso Curtis Zampf, fottitore della propria figlia, voleva fondare un partito neofascista alla luce del sole e invitare ai dibattiti ebrei come Noam Chomsky, appoggiando al contempo la diffusione dell'antisemitismo. Poi Daniel Balint col suo genio folgorante gli rompe le uova nel paniere! Senza mezzi termini, spiazza tutti dicendo che bisogna amare gli Ebrei, in modo incondizionato e non ipocrita. Dice che bisogna accoglierli, che l'integrazione è la sola arma in grado di neutralizzarli. Poi passa a spiegare le ragioni del suo sentire. L'antisemitismo è ciò che ha permesso nei secoli la conservazione dell'identità ebraica. Senza l'antisemitismo, non esisterebbero più Israeliti da tempo, perché avrebbero contratto matrimoni misti e avrebbero smarrito la propria cultura, il proprio senso di alterità. La peggior maledizione per il Popolo Eletto è proprio questa. "Vi perderete voi tra le genti", minaccia il Signore degli Eserciti, pieno d'ira. Per evitare questo destino di annientamento peggiore della morte stessa, l'ostilità dei Gentili è un prezzo che è necessario pagare, anche se comporta oppressione, omicidi e pogrom. Senza l'Olocausto, lo Stato di Israele non sarebbe mai esistito, le ciance di Theodor Herzl non sarebbero bastate a far tornare gli Ebrei alla Terra Promessa. Questi concetti, perfettamente razionali e corrispondenti alla realtà dei fatti, non sono capiti dal pubblico, che rumoreggia pieno di sdegno. Tutti si aspettavano da Daniel qualcosa di elementare nella sua banalità, un discorso ventrale e crepitante, privo di concetti e ricco di bile. Invece ecco una vera e propria sfinge, in grado di far crollare l'intero edificio su cui si regge l'estremismo di destra.
Daniel Balint e Daniel Burros. Il regista-sceneggiatore e il suo collaboratore Mark Jacobson hanno preso spunto da una storia vera, quella di Daniel Burros. Questa è la sintesi apparsa sul Jerusalem Report: "The film has its roots in a true story. Daniel Burros was a nice Jewish boy from Queens who somehow went from being his rabbi's star pupil to a hotheaded proponent of the long-defunct Third Reich. After a stint in the Army, he became involved with the American Nazi Party and the Ku Klux Klan. In 1965, following Burros' arrest at a KKK event in New York City, the New York Times disclosed that he was Jewish. Hours after the paper hit the stands, Burros took his own life."
Questa è una traduzione per coloro che ancora non hanno nozione alcuna della lingua inglese: "Il film ha le sue radici in una storia vera. Daniel Burros era un bravo ragazzo ebreo del Queens che per qualche motivo divenne da pupillo del suo rabbino a impetuoso proponente del Terzo Reich, da tempo defunto. Dopo un periodo nell'esercito, venne coinvolto nel Partito Nazista Americano e nel Ku Klux Klan. Nel 1965, in seguito all'arresto di Burros a una manifestazione del KKK a New York, il New York Times ha rivelato che egli era ebreo. Qualche ora dopo l'uscita del quotidiano, Burros si è tolto la vita." La vicenda terrena di Daniel Burros non è un infetto parto della mia fantasia. Vien voglia di sbattere l'accaduto in faccia a coloro che reputano impensabile che un ebreo possa essere al contempo un antisemita viscerale. Al momento non mi è dato sapere se il bravo ragazzo del Queens odiasse i pompini come il protagonista del film di Bean, salvo poi farseli fare ugualmente.
La sindrome dell'ebreo che odia se stesso. C'è una cosa molto singolare che Daniel Balint riporta ai suoi stupidissimi compagni appartenenti al White Trash. Adolf Eichmann conosceva bene la Torah e il Talmud. Conosceva perfettamente la lingua ebraica e si districava nella complessa terminologia, che disorienterebbe chiunque. Eichmann sapeva tutto. Come spiegarsi questa cosa? Semplice: il genocida, poi rapito dal Mossad e processato in Israele, era un ebreo rinnegato, proprio come Daniel Burros. La cosa non deve stupire: vi erano numerosi Mischlinge in posti chiave del Partito. Sappiamo che Eichmann è un cognome nobiliare tedesco, di per sé non tipico di discendenti di Abramo. Probabilmente è il ramo materno a riservare grandi sorprese. Anche se Daniel non lo menziona, possiano analizzare in breve anche il caso di Reinhard Heydrich, rimandando a una successiva e più approfondita trattazione. Colui che fu chiamato "La Bestia Bionda" o "Un giovane e crudele Dio della Morte" in un'occasione si ubriacò e fu sentito inveire davanti a uno specchio, maledicendo il suo "ebreo interiore". Suo padre parlava alla perfezione lo Yiddish e in più occasioni raggelò in presenti, che iniziarono a domandarsi chi fosse realmente. A scuola era bullizzato in modo pesante: lo soprannominavano "Moshe Heydrich" e "Süss l'Ebreo". Tra gli stessi membri del Partito era noto come "Mosè biondo". Chiaramente il mondo è pieno di persone pronte a fare l'impossibile per screditare chi menziona questi dati di fatto. Quella del bullismo subìto è stata un'esperienza comune ad Adolf Eichmann. Si vede quanto il bullismo sia devastante. Anziché essere combattuta con la massima severità, questa piaga è sempre stata tollerata da insegnanti che sono anche complici. I nodi però alla fine vengono al pettine. Gratta un uomo che ha subìto bullismo e potresti trovare un potenziale genocida. Non esito a dichiarare che se per uno scherzo del destino avessi davanti a me la fatidica valigetta del Presidente degli Stati Uniti d'America, darei immediato avvio alle procedure per il lancio di tutto l'arsenale nucleare, senza nemmeno un istante di esitazione.
Ain Soph, il Nulla senza confini. In un'intervista trasmessa sui canali televisivi all'indomani del fallito attentato alla sinagoga in cui era stata collocata una bomba inesplosa, il rabbino afferma che Dio è intervenuto per salvare la comunità. Le sue parole sono sorprendenti, perché chiama Dio con l'epiteto Ain Soph, spiegato come "Il Nulla senza confini". Si converrà che è una cosa ben strana. Come può un capo religioso assimilare Dio a una condizione che le genti reputano essere sinonimo di non esistenza? La locuzione Ain Soph (varianti ortografiche Ayin Sof, Ein Sof, etc.) la tradurrei più propriamente come "Senza confini", anche se la glossa "Il Nulla senza confini" è frequentemente riportata. L'argomento rabbinico è molto sofisticato: Dio è inassimilabile a qualsiasi cosa concepibile da mente umana, quindi persino allo stesso concetto di esistenza. Sarebbe impossibile riassumere qui la complicatissima teologia che sta alla base di queste definizioni. Perché Bean e Jacobson hanno voluto fare menzione di questo aspetto di certo incomprensibile alla maggior parte degli spettatori? Bisogna arrivare al finale del film per capirlo.
Visione di pre-morte. Poco prima di morire a causa dell'esplosione della bomba collocata sotto il pulpito della sinagoga durante lo Yom Kippur, Daniel Balint ha una visione molto significativa. Sale le scale dell'edificio della yeshiva e a ogni piano incontra il suo insegnante. L'uomo gli dice che ha riflettuto sulla teoria eretica di Isacco morto e resuscitato, giungendo ad accettarla. La sequenza sembra quella di un loop infinito: Daniel, il cui corpo è quello che aveva al momento della morte - non è più il bambino ribelle - è intrappolato negli stessi fotogrammi ad ogni piano. Questo finché a un certo punto il circuito temporale chiuso sembra rompersi. Egli arriva a un piano in cui qualcosa cambia: filtra dall'alto una strana luce. L'insegnante lo avverte che là in alto non c'è nulla. C'è il Nulla.
Riflessioni conclusive. In nessun modo il giovane ebreo che odia se stesso è riuscito a superare il monoteismo, a lasciarsi alle spalle l'idea secondo cui tutta l'esistenza risale a un unico principio, a un unico Creatore. Se avesse compiuto questo salto, sarebbe diventato un Manicheo. A volte si ha l'impressione che mancasse poco, ma questa trasformazione gli era impossibile a causa della sua educazione teologica, che lo ha spinto in un vicolo cieco.
Giordano Stabile per "la Stampa" il 22 luglio 2021. Dove arrivava Benjamin Netanyahu, arrivava Pegasus. Un filo rosso lega i Paesi che hanno utilizzato lo spyware ideato dall'israeliana Nso e i viaggi all'estero l'ex premier israeliano. Arabia Saudita, Ungheria, Azerbaigian, Ruanda, Messico. Tutti Stati che hanno allacciato o riallacciato, anche in segreto, le relazioni con Israele e sono diventati clienti privilegiati dei suoi prodotti militari e di intelligence. In dodici anni filati da primo ministro Netanyahu è riuscito ad allargare molto la sfera di influenza dello Stato ebraico, uno dei suoi maggiori successi. Ma adesso l'exploit tecnologico che ha accompagnato la sua azione diplomatica rischia di ritorcersi contro. Le rivelazioni di Forbidden Stories sulle centinaia se non migliaia di politici, giornalisti, attivisti, oppositori spiati e a volte arrestati suscitano preoccupazioni. In Francia sono già state avviate indagini, dopo che i telefoni del presidente Emmanuel Macron sono stati infettati dal malware. L'Ungheria è di nuovo nel mirino delle ong per i diritti umani e Reporter senza frontiere ha esortato lo Stato ebraico a sospendere l'esportazione di «tecnologia volta alla sorveglianza». Un mercato lucroso, ma con riflessi pesanti sul rispetto dei diritti umani. Il governo israeliano ha respinto le accuse su un legame diretto con i servizi offerti dall'Nso. Di certo però i viaggi di Netanyahu aprivano molte porte. Nell'estate del 2016 l'ex premier parte per uno «storico viaggio» in Africa, con la tappa principale in Ruanda. Nel dicembre dello stesso anno visita il Kazakhstan e l'Azerbaigian. Nel luglio del 2017 è il primo leader israeliano ad arrivare in Ungheria. A settembre parte per il Messico, altra prima assoluta. Nel gennaio del 2018 è in India. In tutti questi Paesi l'uso di Pegasus per infiltrarsi nei cellulari dei cittadini comincia pochi mesi o al massimo un anno e mezzo dopo, nel caso di Budapest. Israele ha interesse a potenziare le capacità di intelligence dei nuovi alleati. Il Ruanda si offre per accogliere immigrati irregolari dall'Africa che lo Stato ebraico vuole espellere. L'Azerbaigian confina con l'Iran, è una base ideale per controllare il principale avversario in Medio Oriente. Viktor Orban si pone come la voce più vicina alle posizioni israeliane nella Ue, anche su Gerusalemme e Territori occupati. L'uso di Pegasus comincia nel febbraio del 2018, subito dopo l'incontro fra Netanyahu e il consigliere per la sicurezza Jozsef Czukor. Coincidenze che hanno insospettito, fra gli altri, anche il Financial Times. Il quotidiano londinese sottolinea come Pegasus sia diventato «una componente essenziale dell'espansione diplomatica» israeliana. Anche l'export di armi, fin dagli anni Cinquanta, lo è stata, ma la sorveglianza di massa pone maggiori problemi. Il ministero della Difesa, che approva ogni licenza per le esportazioni, ha ribadito che vengono prese «misure appropriate» per evitare abusi. Il co-fondatore di Nso, Shalev Hulio, è tornato a negare che il software sia stato usato per spiare «rappresentanti della società civile non legati a fatti di terrorismo o crimine». Ma la condanna in Marocco del giornalista Omar Radi, controllato da Pegasus, o i telefoni infettati della moglie e della fidanzata dell'editorialista del «Washington Post» Jamal Khashoggi, ucciso nel consolato saudita di Istanbul, gettano ombre preoccupanti. Pure questi Paesi rientrano nella «rete diplomatica» di Netanyahu, che nel dicembre del 2020 aveva annunciato il ristabilimento delle relazioni con Rabat, e nel novembre dello stesso anno aveva incontrato in segreto sul Mar Rosso il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Anche perciò Reporter senza frontiere chiede, con il suo numero uno Christophe Deloire, una moratoria sulla vendita di questi prodotti, «fino a quando non sarà istituito un quadro normativo di protezione».
Perché scoppiano così facilmente le guerre in Medio Oriente (e contro Israele). Daniel Pipes su L'Inkiesta il 16/6/2021. I leader arabi minimizzano la disfatta militare perché le terribili implicazioni dei conflitti non li riguardano minimamente. La sofferenza della popolazione è irrilevante e il governante può aspettarsi di sopravvivere illeso. Anzi, il disastro sul campo di battaglia può essere politicamente utile. Quando il portavoce di Saddam Hussein incontrò il segretario di Stato americano alla vigilia della guerra del Kuwait nel gennaio 1991, Tariq Aziz disse qualcosa di importante a James Baker. «Mai», lo cita una trascrizione irachena, «un regime politico (arabo) è entrato in guerra con Israele o con gli Stati Uniti e ha perso a livello politico». Elie Salem, ministro degli Esteri libanese per la maggior parte degli anni Ottanta e noto professore di politica, ha concordato: la logica della vittoria e della sconfitta non trova piena applicazione nel contesto arabo-israeliano. Nelle guerre con Israele, gli arabi celebravano le loro sconfitte come se fossero vittorie, e presidenti e generali erano più conosciuti per le città e le regioni che avevano perso che per quelle che avevano liberato. Esagerano leggermente, poiché la sconfitta subita da Israele nel 1948-1949 da parte degli eserciti siriano, egiziano, iracheno e giordano costò molto a quei regimi con tre di loro che crollarono e uno che sopravvisse a malapena. A parte questa eccezione, le perdite militari di solito non danneggiano i governanti arabi sconfitti. In effetti, il disastro sul campo di battaglia può essere politicamente utile, e non solo contro Israele o gli Stati Uniti, ma anche nei conflitti intra-arabi e con iraniani, africani o europei. Nei sessantacinque anni trascorsi dal 1956, le perdite militari non hanno quasi mai rovinato i governanti di lingua araba e talvolta sono state loro utili. L’analisi che segue mostra questo schema attraverso ventuno esempi, diciannove dei quali brevi e due analisi più lunghe, ne dà una spiegazione e infine ne trae una conclusione.
Esempi, 1956-2014.
La crisi di Suez del 1956. Il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser ha subito un’umiliante disfatta militare per mano di inglesi, francesi e israeliani, eppure, questo evento «lo ha rafforzato politicamente e moralmente», scrive Shukri Abed. Questa sconfitta, di fatto, ha aiutato Nasser a diventare la figura dominante nella politica araba del successivo decennio.
La guerra d’Egitto in Yemen, 1962-1967. Dopo cinque anni di intensa guerra, grandi spese e molte vittime, Nasser ritirò incondizionatamente le truppe egiziane, già debilitate dalla guerra dei Sei Giorni, dalla guerra civile dello Yemen. Nasser non ha pagato quasi nessun prezzo politico interno per questo disastro.
Lo scontro tra Siria e Israele, aprile 1967. Il 7 aprile, i siriani persero sei MiG-21 e gli israeliani non persero nessun aereo, ma la battaglia non causò costernazione a Damasco. Al contrario, dieci giorni dopo, il presidente Nur ad-Din al-Attasi definì la perdita degli aerei «molto utile per noi».
La guerra dei Sei giorni, giugno 1967. Una delle più grandi sconfitte militari nella storia umana indusse l’egiziano Nasser a scusarsi con i suoi elettori e ad offrire loro le sue dimissioni, ma essi reagirono riversandosi in massa nelle strade e chiedendo al loro ra’is (presidente) di rimanere al potere, cosa che fece, più potente che mai, fino alla sua morte per cause naturali, nel 1970. In Siria, il ministro della Difesa Hafez al-Assad, tre anni dopo il disastro del 1967, divenne il dittatore assoluto del suo Paese per tre decenni. Re Hussein di Giordania rimase sul trono fino alla sua morte, avvenuta anch’essa tre decenni dopo, mantenendo intatto il suo potere e molto rispettato.
La battaglia di Karama, 1968. Sebbene Fatah di Yasser Arafat avesse perso il suo primo grande scontro armato con gli israeliani, rivendicò la vittoria, convincendo molti, cosa che avrebbe fatto molte volte da allora in poi. Anche il generale israeliano Aharon Yariv ammise che «sebbene sia stata una sconfitta militare per loro, è stata una vittoria morale».
La guerra dello Yom Kippur, 1973. All’inizio. gli israeliani fecero un passo falso, a si ripresero ottenendo un brillante successo militare contro gli eserciti di Egitto e Siria. Tuttavia, il presidente egiziano Anwar Sadat dipinse la guerra come un trionfo egiziano celebrato ancora oggi, e utilizzò questo presunto successo per legittimare la successiva diplomazia con Israele.
Anche il siriano Assad ottenne una grande vittoria. Il suo biografo, Moshe Ma’oz, osserva: «Sebbene da un punto di vista puramente militare, Assad avesse perso la guerra, è riuscito a trasformare la sua sconfitta in una vittoria agli occhi di molti siriani e altri arabi». I siriani, riferisce Ma’oz, hanno sostenuto «La conduzione fiera e audace della guerra da parte di Assad nelle sue ramificazioni militari e diplomatiche». Di conseguenza, il suo «prestigio e la popolarità aumentarono vertiginosamente in Siria durante la guerra e in seguito».
La guerra d’Algeria nel Sahara occidentale, 1975-1991. Il governo marocchino e quello algerino appoggiarono le parti opposte in una lunga guerra civile in cui, alla fine, prevalsero il Marocco e i suoi alleati. Chadli Bendjedid, presidente dell’Algeria dal 1979 al 1992, pagò poco il prezzo politico del fallimento.
L’occupazione siriana del Libano, 1976-2005. Il debole e diviso governo del Libano non poté impedire alle forze siriane di entrare nel Paese o di rimanervi per ventinove anni. Nonostante questo lungo fallimento, l’élite al potere proseguì come se nulla fosse fondamentalmente cambiato. Quando una rivolta popolare finì per cacciare i siriani, quell’élite andò avanti impassibile.
La guerra Iran-Iraq, 1980-1988. Saddam Hussein iniziò la guerra tra Iran e Iraq, che si divise in due fasi principali. Nella prima, dal settembre 1980 al luglio 1982, Saddam fu all’attacco. Quando le cose si misero male, e l’Iraq dovette successivamente giocare in difesa per sei lunghi anni, il rais non pagò alcun prezzo interno. Ma la cosa più sorprendente fu che, due anni dopo la fine della guerra, il 15 agosto 1990 (tredici giorni dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq), Saddam Hussein restituì all’improvviso all’Iran tutte le conquiste ottenute in otto anni di combattimenti: «In un annuncio fatto alla radio di Baghdad, l’Iraq ha dichiarato che avrebbe riconosciuto i contesi confini dell’Iran antecedenti alla guerra, che avrebbe rilasciato tutti i prigionieri di guerra e che avrebbe iniziato a ritirare le truppe da circa mille miglia quadrate della parte sudoccidentale dell’Iran occupate fin da venerdì». Questo ignominioso ritiro passò quasi inosservato e non lese Saddam.
Israele contro la Siria, 1982. In una guerra aerea in Libano, le forze siriane persero una novantina di aerei contro le forze israeliane, senza abbatterne nessuno. Ma Assad ne uscì illeso, semmai, la sua audacia nell’affrontare il terribile nemico israeliano accrebbe la sua statura.
Israele contro l’OLP a Beirut, 1982. Attraverso la magia verbale, Arafat trasformò un’umiliante ritirata da Beirut in una vittoria politica rilevando quanto tempo impiegarono gli israeliani (ottantotto giorni) per sconfiggerlo, molto più del necessario per sconfiggere gli eserciti arabi convenzionali (nove giorni nel 1956, sei nel 1967 e venti nel 1973). Rashid Khalidi, allora esponente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e ora professore alla Columbia University, arrivò al punto di confrontare la minuscola operazione di Beirut (e i suoi ottantotto morti israeliane) con i due anni e mezzo di assedio di Leningrado da parte dei nazisti (con i suoi circa due milioni di morti). Il passare del tempo trasformò ulteriormente questa disfatta in un glorioso successo; nella rivisitazione di Hamas alcuni anni dopo: «Il nostro popolo (…) ha umiliato [Israele] (..). e ha incrinato la sua determinazione».
Il ritiro dell’OLP da Tripoli, 1983. Quando le forze siriane costrinsero l’OLP a lasciare la sua ultima roccaforte in Libano, Arafat reagì prevedibilmente trasformando questo ritiro in un successo morale. Secondo i suoi biografi, ’il leader dell’OLP, nel bel mezzo di un’altra storica battuta d’arresto, era ancora intento a sfruttare l’occasione, per tutto il suo valore teatrale».
Il bombardamento statunitense della Libia, 1986. Dopo aver subito l’ignominia di essere stato attaccato dagli aerei da guerra statunitensi, Muammar Gheddafi trasformò la sua stessa sopravvivenza in qualcosa di magniloquente. Tra le varie misure, il rais libico commemorò questo risultato aggiungendo la parola “Grande” (’uzma) al nome formale del suo Paese, che divenne la Grande Jamahiriya Araba Libica Popolare Socialista. Nove anni dopo, ricordava ancora l’episodio come un disastro per gli Stati Uniti:
L’America non ammette mai le sue perdite. Non abbiamo abbattuto quindici dei suoi aerei quando fecero irruzione [nel 1986]? Ma ha ammesso solo la perdita di due aerei. L’America non parla mai delle sue sconfitte e delle sue perdite: tiene la bocca chiusa. Si è persino rifiutata di ammettere che il capo della squadriglia che ha attaccato la mia casa è stato abbattuto e ucciso nello schianto. Non hanno mai ammesso la sua perdita fino a quando non li abbiamo messi in imbarazzo mostrando il suo cadavere che abbiamo consegnato al Vaticano.
Milizie ciadiane contro Libia, 1987. In Ciad, la Libia perse in modo umiliante contro forze decisamente inferiori a livello numerico e per equipaggiamento, come scrissi a quattro mani all’epoca: «Le Toyota a quattro ruote motrici sconfissero un convoglio di carri armati». Questo disastro, tuttavia, non ebbe ripercussioni visibili sul prestigio o sul dominio di Gheddafi sulla Libia.
Iraq contro Kuwait, 1990. L’attacco iracheno al Kuwait fece seguito a mesi di minacce da parte di Baghdad; le forze kuwaitiane non erano in allerta e vennero rapidamente sopraffatte, spingendo immediatamente e ingloriosamente l’emiro Jaber al-Ahmad as-Sabah a fuggire oltre il confine in Arabia Saudita, dove supervisionò il governo kuwaitiano in esilio da una suite d’albergo. Nonostante la sua mancanza di preparazione e le azioni non eroiche, Jaber non affrontò sfidanti durante o dopo i combattimenti.
Hezbollah contro Israele, 2006. Hezbollah perse contro Israele, ma lo fece in modo rispettabile, rafforzando così la presa di Hassan Nasrallah sull’organizzazione. Parlando a una manifestazione di massa dopo i combattimenti, il leader di Hezbollah rivendicò una «vittoria divina e strategica». Paradossalmente, Nasrallah in seguito ammise di aver commesso un errore nell’iniziare il conflitto [16], ma si dette poca attenzione a ciò, e quindici anni dopo mantiene il controllo.
Hamas contro Israele, 2008-2009. Chiamata in Israele operazione “Piombo fuso”, questa guerra di 3 settimane vide Israele fare molto bene sul campo di battaglia (come simboleggiato dalla morte di circa cento volte più palestinesi che israeliani) e in modo schiacciante nell’arena politica (come simboleggiato dal Rapporto Goldstone delle Nazioni Unite e da una conferenza internazionale per la ricostruzione di Gaza che fruttò 4,5 miliardi di dollari). I leader di Hamas emersero dalla guerra rafforzati dalla sconfitta militare.
Hamas contro Israele, 2012. Le Forze di Difesa Israeliane potrebbero aver ucciso molti dei leader di Hamas, distrutto le sue infrastrutture e lasciato Gaza vacillante, ma, come previsto, il giorno dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco, Hamas indisse dei festeggiamenti di celebrazione che si conclusero drammaticamente con la morte di una persona e il ferimento di altre tre a causa di colpi di arma da fuoco sparati in aria. Non solo questo, ma Hamas sancì che il 22 novembre sarebbe stato un giorno da celebrare ogni anno da allora in poi: «Chiediamo a tutti di festeggiare, visitare le famiglie dei martiri, i feriti, coloro che hanno perso la casa».
Hamas contro Israele, 2014. La guerra devastò Gaza, ma un sondaggio condotto dai palestinesi dopo la fine delle ostilità rilevò che il 79 per cento affermava che Hamas aveva vinto; al contempo, Ismail Haniyeh risultò essere il preferito degli intervistati a ricoprire la carica di presidente palestinese, passando dal 41 per cento al 61 per cento. (Poche settimane dopo, queste percentuali scesero leggermente, rispettivamente al 69 e al 55 per cento). Quel sostegno si estese anche alle tattiche, con il 94 per cento degli intervistati a favore dello scontro militare con le truppe israeliane e l’86 per cento che si espresse a sostegno del lancio di razzi contro Israele.
Questo sondaggio mostra che i leader arabi possono perdere contro chiunque: una potenza occidentale (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia), Israele, una milizia africana, uno Stato musulmano non arabo (Iran) o uno Stato confinante arabo (Yemen, Siria, Iraq), e poco importa. Il prezzo politico è quasi sempre minimo e talvolta la sconfitta comporta un vantaggio effettivo.
Case study I: la guerra del Kuwait, 1991
L’invasione irachena del Kuwait portò alla formazione di una coalizione guidata dagli Stati Uniti di trentanove Stati che attaccò le forze irachene il 17 gennaio 1991 e le ostilità terminarono il successivo 28 febbraio, quando Baghdad capitolò. Emerse rapidamente un chiaro consenso sul fatto che il leader iracheno Saddam Hussein dovesse rassegnare le dimissioni o sarebbe stato deposto.
Il rais, però, non aveva tali intenzioni e aveva preparato il terreno per grandiose rivendicazioni. Il suo regime inizialmente parlò di una «battaglia veramente decisiva e storica» che segnò «l’inizio della fine dell’imperialismo mondiale». Dopo che ebbe inizio l’attacco guidato dagli Stati Uniti, Baghdad istituì la radio a onde corte “Mother of Battles Radio” (in arabo, : Idha’at Umm al-Ma’arik) per trasmettere la sua imminente vittoria sulle forze alleate.
In seguito, le cose non andarono così bene, con la disfatta delle forze irachene (tiro al tacchino) e il conseguente danno semi-apocalittico alle infrastrutture irachene. Nonostante ciò, i media del regime insistettero con sconsideratezza per ottenere una famosa vittoria sull’operazione “Tempesta del Deserto”. «Avete trionfato su tutti i leader del male messi insieme», informò Radio Baghdad le forze irachene, affermando di aver calpestato «nel fango» il prestigio dell’America.
Anche dopo aver ammesso formalmente la sconfitta, Baghdad continuò a rivendicare la vittoria. Un incredibile esempio di ciò, arrivò quattro anni dopo la fine dei combattimenti, quando il capo Stato maggiore Iyad ar-Rawi affermò: «La nostra vittoria è stata leggendaria. Il magnifico esercito iracheno ha inciso nel libro della Madre di Tutte le Battaglie il massacro più impressionante, quando ha schiacciato le forze americane e alleate durante la prima battaglia terrestre». Rawi proseguì parlando della battaglia (fittizia) dell’Aeroporto del Kuwait e di un enorme scontro di carri armati a sudovest di Bassora, definendolo come una delle «più feroci battaglie di carri armati che sia mai stata combattuta». George H.W. Bush, concluse Rawi fu «costretto a dichiarare un cessate il fuoco unilaterale il 28 febbraio 1991, perché sapeva che le forze statunitensi non potevano sostenere le perdite derivanti dalle battaglie terrestri».
I sostenitori all’estero approvarono queste pretese di vittoria. Nel novembre 1994, alla cerimonia di consegna dei diplomi della polizia palestinese, un coro intonò canzoni in omaggio a Saddam Hussein. Il fatto che ad alcuni sostenitori di Saddam non importasse se avesse effettivamente vinto o meno sul campo di battaglia, contribuì ad alimentare la finzione. Così Hichem Djaït, l’intellettuale più noto della Tunisia e fervido sostenitore di Saddam, rilevò: «Non abbiamo nulla da perdere da questa guerra, anche se finisce con una sconfitta».
Questa chiara mistificazione contribuì a tenere ancora in piedi il governo di Saddam, permettendogli di intimidire qualsiasi aspirante ribelle, fluttuando al di sopra dei disastri che colpirono il suo Paese, compreso un calo del 90 per cento del reddito pro capite, e a rimanere al potere per altri dodici anni. Solo quando le forze guidate dagli Stati Uniti tornarono nel 2003, questa volta con l’intento specifico di deporlo, cadde dal potere e finì in un buco.
Case Study II: Hamas contro Israele, 2021
Hamas e i suoi alleati concordano quasi all’unanimità sul fatto di aver vinto il conflitto con Israele del maggio 2021, nonostante quello che l’Associated Press ha definito «l’orribile peso che la guerra ha avuto su innumerevoli famiglie palestinesi che hanno perso i propri cari, le case e gli esercizi commerciali».
Appena due giorni dopo l’inizio dei combattimenti, il leader di Hamas Ismail Haniyah aveva già annunciato che la sua organizzazione aveva «conseguito la vittoria nella battaglia per Gerusalemme». Tali affermazioni si sono moltiplicate dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco il 21 maggio, quando Haniyah ha rivendicato una «vittoria strategica e divina» e ha inoltre annunciato che Hamas «ha sconfitto le illusioni dei negoziati, ha sconfitto l’affare del secolo, ha sconfitto la cultura della sconfitta, ha sconfitto i progetti di disperazione, ha sconfitto i progetti di insediamento, ha sconfitto i progetti di coesistenza con l’occupazione sionista e ha sconfitto i progetti di normalizzazione [delle relazioni] con l’occupazione sionista».
Allo stesso modo, Khalil al-Hayya, un leader di Hamas, partecipando a un raduno di massa a Gaza ha detto che «ci sono festeggiamenti in tutte le città della Palestina (…) perché noi abbiamo ottenuto questa vittoria insieme», aggiungendo: «Abbiamo il diritto di gioire. (…) Questa è l’euforia della vittoria». Ziad al-Nahala, leader della Jihad Islamica Palestinese (JIP), si è rallegrato del trionfo della sua organizzazione e ha minacciato di bombardare Tel Aviv come rappresaglia per «qualsiasi operazione omicida mirata ai nostri combattenti o leader».
Hanno festeggiato anche i sostenitori stranieri. Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, ha definito gli attacchi di Hamas contro Israele una «grande vittoria». L’ayatollah iraniano Ali Khamene’i si è congratulato per una «vittoria storica» e il comandante della Forza Quds, forza speciale del Corpo della Guardia della Rivoluzione Islamica, Esmail Ghaani, ha acclamato i combattimenti perché hanno «distrutto l’orgoglio dell’esercito sionista». (A sua volta, un portavoce della JIP ha ringraziato il governo iraniano per essere «partner della nostra vittoria».) Anche il primo ministro marocchino Saad Eddine El Othmani, che mesi prima aveva firmato un accordo di normalizzazione delle relazioni con Israele, si è congratulato con Haniyeh per la «vittoria del popolo palestinese».
E pare che anche la popolazione palestinese ne fosse convinta. Infatti, non appena è entrato in vigore il cessate il fuoco delle due di notte, «per le strade di Gaza è tornata una frenesia di vita. La gente è uscita dalle proprie case, alcuni gridando Allahu Akbar o fischiando dai balconi. Molti hanno sparato in aria, festeggiando la fine dei combattimenti. Grandi folle hanno celebrato la fine del conflitto, elogiando Hamas». I festeggiamenti si sono diffusi ampiamente nel cuore della notte:
I residenti di Gaza hanno applaudito dalle loro terrazze. Spari celebrativi sono risuonati nei quartieri per lo più bui, alcuni clacson di auto strombazzavano, con i conducenti che hanno sfidato le strade butterate di crateri di bombe, e le lodi a Dio risuonavano dalle moschee intorno a Gaza City. I gaziani hanno sfilato in spiaggia, rivolgendo verso l’alto le luci dei loro telefonini.
Nei giorni successivi ci sono state celebrazioni su larga scala da parte di Hamas e del suo alleato più piccolo, la Jihad Islamica Palestinese.
Questi festeggiamenti hanno delle implicazioni politiche. «La reputazione di Hamas tra i palestinesi è cresciuta notevolmente», osserva Khaled Abu Toameh, «a causa del lancio di migliaia di razzi e missili in tutto Israele». I palestinesi, arguisce Toameh, «considerano i leader di Hamas come i veri eroi dei palestinesi e cercano di impegnarsi in una lotta armata contro Israele»: non sopportano Mahmoud Abbas e l’Autorità Palestinese. In altre parole, la sconfitta sul campo di battaglia ha apportato a Hamas importanti vantaggi politici.
Spiegazioni
Da dove deriva questa impunità? Sei fattori contribuiscono a spiegarlo: onore, fatalismo, cospirazionismo, retorica, propaganda e confusione.
Onore. L’onore riveste importanza tra gli arabofoni al punto che tenerlo alto può contare più del raggiungimento dell’obiettivo. «Per gli arabi, l’onore è più importante dei fatti», spiega Margaret K. Nydell, insomma, la causa conta più dei risultati ottenuti. Elie Salem concorda, e parlando degli arabi dice: «Sono stati glorificati per i loro intenti, non per i loro risultati». Questo spiega perché «nel perdere la guerra del giugno 1967, Jamal Abd al-Nasir divenne un eroe. Ottenendo la pace, ma dissentendo dalla prevalente psicologia araba, Anwar al-Sadat divenne un infame». Più in generale, Fouad Ajami spiega:
In una storia politica araba disseminata di sogni infranti poco onore sarebbe stato concesso ai pragmatici che conoscevano i limiti di ciò che si poteva e non si poteva fare. La cultura politica del nazionalismo ha riservato la sua approvazione a coloro che hanno condotto campagne rovinose perseguendo missioni impossibili.
Fatalismo. Il participio passato maktùb (scritto) riassume il fatalismo musulmano, pertanto, non il leader non va incolpato. As’ad Abu Khalil della California State University osserva la tendenza a spiegare in tempi di sconfitta che «le persone non hanno alcuna influenza né alcun effetto sulle loro azioni e sui loro comportamenti. È solo Dio che agisce». Invocando «l’ineluttabilità del destino», assolvono «i regimi e gli eserciti arabi da ogni responsabilità» per la sconfitta. Questo schema, osserva, «è diventato tipico al punto da essere prevedibile».
Così, all’indomani della disfatta israeliana delle forze armate egiziane nel giugno 1967, Nasser cercò di dimostrare che né lui né l’esercito avrebbero potuto evitare la sconfitta subita. Per assolvere il suo governo dalla colpa e segnalare che non avrebbe potuto fare altro che quello che aveva fatto, ricorse a un proverbio arabo («La precauzione non cambia il corso del destino») e a un’analogia quotidiana (l’Egitto era «come un uomo investito in strada da un’auto»). Al contempo, re Hussein di Giordania consolò i suoi sudditi con questa riflessione: «Se non siete stati ricompensati con la gloria, non è stato perché vi mancasse il coraggio, ma perché è volontà di Allah».
Cospirazionismo. Il cospirazionismo presuppone che ogni scontro con Israele o con le potenze occidentali implica che il nemico intende eliminare i loro governanti, occupare i loro Paesi, cambiare i loro sistemi politici e sfruttare le loro risorse. Quando queste implicazioni non si verificano, la loro elusione viene dipinta come una vittoria. Abdel-Moneim Said, un analista egiziano, osserva: «Abbiamo celebrato la vittoria perché il nemico non è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi come li abbiamo definiti. Quanto ai nostri obiettivi, è stato dato per scontato fin dall’inizio che non sarebbero entrati nelle nostre equazioni di guerra e pace». Ad esempio, gli egiziani ritenevano che questo fosse l’obiettivo israeliano nel 1967, sostenuto dagli Stati Uniti, e Said ricorda la sua esperienza in una pubblicazione studentesca dopo quella perdita: «Con mia grande sorpresa, ho scoperto che alcuni dei miei colleghi di quel giornale credeva che avessimo vinto la guerra del 1967!». In che modo?
La logica era la seguente: lo scopo dell’aggressione israelo-americana era quello di rovesciare il glorioso presidente e il sistema socialista in Egitto, ma dato che il presidente era ancora al potere dopo che la popolazione aveva sfilato in manifestazioni di massa a suo sostegno e della sua saggia leadership, il 9 e il 10 giugno, e dato che il sistema socialista era ancora in vigore, i nemici non avevano raggiunto i loro obiettivi. Quindi, abbiamo vinto!
Said rileva che questa stessa “linea generale di logica” prevale in altri casi, come per Saddam Hussein dopo la guerra del Kuwait del 1991, per Hassan Nasrallah dopo la guerra tra Hezbollah e Israele del 2006, per Bashar Assad nella guerra civile siriana e i combattimenti del 2014 tra Hamas e Israele.
Nel caso del 2014, Said nota l’enorme disparità di morti in guerra (2.100 palestinesi contro 72 israeliani) e di distruzione, quindi conclude che «i risultati della recente guerra a Gaza difficilmente possono essere considerati una vittoria palestinese». Tuttavia, i leader di Hamas hanno proclamato la vittoria sulla base del fatto che «l’obiettivo israeliano era eliminare Hamas e porre fine al lancio di missili. Pertanto, finché sia Hamas sia i missili esisteranno, i palestinesi dovrebbero gioire di questa clamorosa vittoria».
Retorica. La retorica è una caratteristica di spicco della vita politica araba, che fa sì che leader e seguaci siano affascinati dal potere delle parole anche se estranee alla realtà. E. Shouby, di madrelingua araba e psicologo, nel 1951, disse che gli arabofoni «enfatizzavano il significato delle parole in quanto tali, prestando meno attenzione al loro significato» rispetto a quanto avviene nelle lingue occidentali, portando a una «confusione tra le parole e le cose che rappresentano». Walter Laqueur notò nel 1968 la «capacità quasi illimitata [degli arabi] di credere ciò che vogliono credere».
Theodore Draper spiegò ulteriormente questa nozione nel 1973:
Ogni volta che vengono citate dichiarazioni arabe, sorge la questione della “retorica” araba. Dovrebbe essere presa sul serio o gli arabi sono propriamente dediti a una retorica esagerata? Ogni volta che un portavoce arabo dice qualcosa di particolarmente provocatorio o di oltraggioso, c’è sempre qualcuno che dice che «non lo pensano mai veramente». (…) Ho perfino sentito il ministro degli Esteri di un Paese arabo informare un gruppo di americani che gli arabi sono allergici al razionalismo occidentale e che, se gli occidentali desiderano trattare con gli arabi, devono adottare l’apparentemente irrazionale modo di pensare arabo.
Propaganda. La propaganda induce alcuni leader arabi a cercare sostegno per la loro causa. Curiosamente, questo assume due forme opposte, una per gli arabi e i musulmani, l’altra per gli israeliani e la Sinistra globale. Nel primo caso entra in gioco l’adagio del “cavallo forte”: i governanti cercano di mostrarsi come figure eroiche che le masse dovrebbero seguire. I motivi per cui Saddam Hussein ha conquistato la maggior parte del mondo occidentale sono così spiegati da Hussein Sumaida, un iracheno: «Vincere non contava. Quello che importava era dare spettacolo e conquistare i cuori e le menti del mondo arabo focoso».
Gli israeliani e la Sinistra globale rispondono all’esatto contrario, vale a dire presentarsi come deboli e vittime comprensivi. A tal fine, Hamas attacca periodicamente (2008-2009, 2012, 2014, 2021) Israele, sapendo molto bene di perdere sul campo di battaglia militare, ma aspettandosi di ottenere un vantaggio nell’arena politica: tra la Sinistra israeliana, nei campus universitari di tutto il mondo, nella stampa internazionale, nelle organizzazioni internazionali, e non solo.
Barry Rubin la definisce la strategia del suicidio e ne parafrasa la logica: «Inizierò una guerra che non posso vincere per creare una situazione in cui l’altra parte distrugga la mia infrastruttura e uccida la mia gente. Allora perderò militarmente, ma vincerò la battaglia. Come?» Rubin elenca tre vantaggi: gli israeliani sono codardi, quindi qualsiasi danno subiscono li farà tirare indietro; la sofferenza degli abitanti di Gaza farà sentire in colpa gli israeliani e si ritireranno; la “comunità internazionale” spingerà gli israeliani a smettere di combattere e a concedere benefici a Hamas.
Confusione. Qual è la verità? Presi tra due resoconti contraddittori della realtà, gli esseri umani tendono a optare per quello che preferiscono, che si tratti di immigrazione (Angela Merkel: Wir schaffen das [“Ce la faremo!”]), di prospettive referendarie (Brexit), o di esito delle elezioni (Stop the steal [Fermate il furto]). Cosa pensare quando “Baghdad Bob” dice che gli americani troverebbero il loro “cimitero” a Baghdad nel momento in cui cominceranno a intravedersi i carri armati statunitensi? Naturalmente, quando Saddam Hussein venne catturato, alcuni arabi reagirono con incredulità, e un certo Hassan Abdel Hamid, un commerciante egiziano, si rifiutò di credere alla notizia, definendola «propaganda e bugie americane». Questo miasma incoraggia le popolazioni arabe a ignorare la realtà delle sconfitte militari, così come i massacri che provocano, e ad appoggiare piuttosto questi leader.
Conclusione
Questo modello di sopravvivenza o di beneficio dalla sconfitta si estende ad altri leader. Nella guerra indo-pakistana del 1965, ad esempio, il ministro degli Esteri pakistano Zulfikar Ali Bhutto guidò il suo governo in un disastroso conflitto con l’India e ne uscì più popolare che mai, e questo lo portò a ricoprire la carica di primo ministro otto anni dopo. Nelle parole del suo biografo, «Quanto più diventava oltraggiosa la sua retorica (…) tanto più Zulfi Bhutto appariva eroico al pubblico pakistano». Allo stesso modo, la leadership iraniana estese la sua guerra con l’Iraq e passò all’attacco dal luglio 1982 all’agosto 1988; fallita questa offensiva, l’Ayatollah Khomeini «bevve dal calice avvelenato» accettò un cessate il fuoco, e né lui né il suo regime soffrirono per i loro sei anni di follia. Più di recente, le cupe avventure militari di Recep Tayyip Erdoğan in Siria e in Libia non hanno intaccato il suo potere.
Al contrario, perdere le guerre di solito ha importanti implicazioni per un leader non musulmano. In Medio Oriente, Golda Meir e Moshe Dayan pagarono a caro prezzo la deludente prestazione israeliana del 1973, così come Nikol Pashinyan per la terribile esibizione armena del 2020. Anche le sconfitte nelle guerre periferiche di solito hanno un impatto importante: l’Algeria sulla politica francese, il Vietnam su quella americana e l’Afghanistan sulla politica sovietica. È particolarmente difficile immaginare leader non musulmani che sopravvivano a sconfitte così devastanti come quella dell’Egitto, nel 1967, e dell’Iraq, nel 1991.
Il fatto che i governanti sconfitti possano celebrare le disfatte invita al rischio morale e li rende più aggressivi. Perché preoccuparsi se una sconfitta e le sue terribili implicazioni non ti riguardano? Questo schema spiega ampiamente perché il Medio Oriente è teatro di così tante guerre. Il denaro per le armi è sempre abbondante, la sofferenza della popolazione è irrilevante, le perdite economiche sono insignificanti e il governante può aspettarsi di sopravvivere illeso. Con una posta in gioco così bassa, occorre dare una possibilità alla guerra e sperare per il meglio.
Daniel Pipes e Middle East Quarterly, traduzione di Angelita La Spada.
Chi è Lehava, il movimento estremista anti-assimilazione. Futura D'Aprile su Inside Over il 14 giugno 2021. Prevenire l’assimilazione della Terra Santa è sia il nome che la missione di Lehava, il gruppo estremista che sta guadagnando sempre più consensi in Israele e in particolar modo a Gerusalemme. Il movimento, fondato nel 2015 da Bentzi Gopstein, chiede l’espulsione dei palestinesi, l’annessione della Cisgiordania (e non solo) allo Stato di Israele, il divieto di matrimoni misti e l’allontanamento dei cristiani dalla Terra Santa. Il successo di Lehava è in crescita da quando la formazione Sionismo religioso, creata alla vigilia delle elezioni grazie agli sforzi di Benjamin Netanyahu, è riuscita ad entrare nella Knesset, segno dello spostamento sempre più a destra di una parte della popolazione israeliana.
Come nasce Lehava. Lehava è stato fondato nel 2005 dal 51enne Bentzi Gopstein, studente del rabbino Meir Kahane e seguace del Kahanismo, l’ideologia alla base del movimento politico Kach bandito da Israele negli anni Novanta. Il partito fu escluso dalle elezioni del 1988 e del 1992 e definitivamente sciolto nel 1994 sulla base della Legge elettorale che bandiva formazioni considerate razziste. Ad oggi, sia Kach che Kahane Chai – formazione nata nel 1990 dopo l’assassinio del rabbino Kahane – sono considerate organizzazioni terroristiche da Israele, Stati Uniti, Canada, Giappone ed Unione europea. Nel 2015, secondo quanto riportato da Channel 2, l’allora ministro della Difesa Moshe Ya’alon aveva chiesto allo Shin Bet di raccogliere informazioni sul movimento per una eventuale classificazione quale entità terroristica. Tra gli idoli di Lehava, oltre a Kahane, vi è anche Baruch Goldstein, l’uomo che nel 1994 aprì il fuoco nella Moschea di Abramo a Hebron durante le preghiere per il Ramadan, causando la morte di 29 fedeli. Come si legge sulla pagina ufficiale, il movimento nasce per proteggere le donne ebree, contrastando la nascita di relazioni con uomini appartenenti ad altre religioni o riportando sulla “retta via” le ragazze che si sono allontanate dalla comunità di appartenenza.
Cosa vuole Lehava. Alla base dell’ideologia di Kahane, a cui Lehava si ispira, vi è la creazione del Grande Israele, uno Stato unicamente ebraico che comprenda non solo la Cisgiordania, ma anche il Sinai egiziano, il Libano, la Siria e parte dell’Iraq. La creazione di una terra per i soli ebrei implica non solo l’espulsione degli arabi, ma anche di coloro che non appartengono alla religione ebraica. Il movimento anti-assimilazione si è distinto fin dal primo momento per la sua totale avversione ai matrimoni misti, principale motore della tanto temuta assimilazione contro cui Lehava si batte. Emblematico a questo proposito fu l’opposizione che il gruppo dimostrò nel 2014 nei confronti del matrimonio tra il palestinese Mahmoud Mansour e Morel Malka, ebrea convertitasi all’islam. I seguaci di Lehava inscenarono delle vere e proprie proteste durante la celebrazione delle nozze per convincere Morel Malka a tornare sui suoi passi. Ma a finire nel mirino del movimento estremista non sono solo gli arabi. Nel 2015, Gopstein organizzò delle manifestazioni contro la celebrazione del Natale in Israele, definendo i cristiani dei “vampiri” e chiedendone l’allontanamento dalla Terra Santa. “Gli ebrei non possono essere uccisi, ma possono essere convertiti”, aveva scritto al tempo Gopstein. “Dobbiamo cacciare questi vampiri prima che succhino nuovamente il nostro sangue”. Lo stesso anno, il fondatore di Lehava era anche stato interrogato dalla polizia dopo aver giustificato il rogo delle Chiese presenti in Israele in quanto luoghi di culto di falsi idoli. Una convinzione in linea con il Kahanismo, secondo cui anche la Moschea al-Aqsa a Gerusalemme dovrebbe essere rasa al suolo per costruire al suo posto il Terzo Tempio.
Un successo crescente. Le elezioni di marzo 2021 e le proteste che hanno infiammato Gerusalemme il mese seguente sono due eventi importanti per capire l’attuale successo di Lehava. I movimenti khanisti erano assenti dallo spettro parlamentare israeliano dagli anni Ottanta, ma le ultime elezioni hanno sancito l’entrata nella Knesset di Sionismo religioso, una formazione di estrema destra erede del partito Kach. Al suo interno vi è anche Otzma Yehudit (Potere ebraico) dell’avvocato Itamar Ben-Gvir, considerato una delle figure più influenti all’interno di Lehava. L’entrata in Parlamento di Sionismo religioso e la possibilità che faccia parte del prossimo governo preoccupano buona parte dell’opinione pubblica israeliana, ma sono il segno di un costante spostamento sempre più a destra di una parte dell’elettorato. Il movimento può anche fare affidamento sulla tacita approvazione delle autorità nei confronti delle sue manifestazioni. A fine aprile i seguaci di Lehava hanno organizzato una marcia di protesta a Gerusalemme scandendo slogan come “Morte agli arabi” e attaccando i passanti senza alcun ostacolo da parte delle forze dell’ordine, che hanno invece represso duramente le manifestazioni dei palestinesi svoltesi negli stessi giorni.
Deposto il re, ecco cosa Bennett non può evitare nel post Netanyahu. Alberto Stabile su L'Espresso/La Repubblica il 15 giugno 2021. Dal conflitto con Hamas alla questione del nucleare iraniano. I dossier che il nuovo governo deve affrontare senza poter prescindere dall’eredità di Bibi. Grazie ad un accordo ad excludendum, traducibile anche come un pasticcio in cui otto partiti che più diversi fra di loro non si può si sono ritrovati concordi sull'unico proposito d'impedire a Benyamin Netanyahu di guidare per l'ennesima volta il governo d'Israele, e sul resto delle questioni più urgenti hanno scelto di tacere, tanto non si sarebbero trovati d'accordo su nulla, hanno raggiunto il loro obbiettivo e quello che era stato definito dai suoi inguaribili sostenitori “il re d'Israele”, titolo che il popolo della destra israeliana aveva già generosamente conferito ad Ariel (Arik) Sharon, è stato alla fine spodestato. Al posto di primo ministro che il popolare Bibi aveva ricoperto per oltre dodici anni, un record superato forse soltanto dal fondatore dello stato ebraico, David Ben Gurion, arriva un personaggio incolore, di modesta statura politica, leader di un partito marginale nella galassia dell'estrema destra nazionalista religiosa, rivelatosi più abile ad arricchirsi con una start-up riguardante un sistema di sicurezza per le banche, che a progredire nella carriera militare abbracciata entusiasticamente nel mito di Yoni Netanyahu, il fratello di Bibi, l'eroico comandante dei Commando dello Stato Maggiore (Sayeret Matkal) morto ad Entebbe il 4 luglio del 1976 in quella che viene tutt'ora considerata come la più ardita operazione militare per la liberazione di ostaggi nella storia d'Israele. Naftali Bennett, questo il nome del nuovo premier, era molto attratto anche dall'altro Netanyahu, il politico, al punto che quando nel 2005 Bibi ascese al vertice del partito conservatore, Likud, sebbene un Likud dissanguato dalla fuoriuscita di Sharon e dei tanti che lo avevano seguito nella nuova formazione da lui fondata, Kadima, dopo il ritiro dagli insediamenti nella Striscia di Gaza, anche Bennett entrò nel Likud e più tardi sarebbe diventato chief of staff, capo di gabinetto, di Netanyahu. Ma per poco, perché la costanza dei legami politici non sembra essere una virtù del nostro, il quale nel 2009 capisce che potrà ottenere molto più da alleato che da seguace di Bibi e fonda la Casa Ebraica, il primo di una serie di partitini colonialisti e razzisti, accomunati dalla fede assoluta nella Terra d'Israele (Eretz Israel) e nella necessità di riscattarla strappandola ai palestinesi. Gli stessi estremisti che adesso accusano Bennett di aver tradito la causa, dando vita ad un governo con i “sostenitori del terrorismo”, allusione al partito arabo guidato dal leader palestinese-israeliano Mansour Abbass, entrato a far parte del governo che domenica scorsa ha ottenuto la fiducia. Il governo del “minimo sindacale”, potremmo definirlo, dopo aver seguito attentamente il discorso programmatico pronunciato alla Knesset del nuovo premier e letto le interviste del co-fondatore della nuova maggioranza del “cambiamento”, Yair Lapid, leader del partito centrista Yesh Atid (“C'è un futuro”) una sorta di “Yes we can” all'israeliana. Il nuovo governo, in realtà una specie di caleidoscopica alleanza di sinistra-centro-destra efficacemente riassunta nello slogan “con tutti tranne che con Bibi”, farà tutto quello su cui i suoi partecipanti sono già d'accordo, vale a dire qualche riforma, la ferrovia Gerusalemme-Tel Aviv, l'Università della Galilea, ovviamente amplierà gli investimenti militari, ma metterà da parte tutto il resto. Che non è poco. L'incendio divampato il mese scorso tra Sheik Jarrah, Gaza e la Galilea, provocando l'ennesima guerra contro Hamas e la risposta mai così temeraria di Hamas contro il territorio israeliano con migliaia di razzi, i morti tra i civili palestinesi, gli scontri all'interno della moschea Al Aqsa e i gravi incidenti tra le due comunità scoppiati nelle città a popolazione mista araba ed ebraica, hanno rappresentato per il nuovo premier, Bennett, il “promemoria che il conflitto coi palestinesi è ancora qui”. Vero. È lì da quasi cento anni, e almeno 73, ufficialmente se solo si contano le guerre guerreggiate. Ma come intende affrontarlo il nuovo governo? A sentire Bennett, sembra di riascoltare le frasi ripetute fino alla noia da Netanyahu, contro “i nostri nemici che negano la nostra stessa esistenza nella Terra d'Israele”. E questo a premessa che “non si tratta di un conflitto sopra la terra”, il che palesemente è. Ma per venirne a capo occorre “forza militare, resilienza e fede nella giusta causa”, che, par di capire, si tradurrà nel “rafforzare gli insediamenti in tutta la Terra d'Israele”, con un'enfasi particolare sulla parola “tutta”. Assieme al monito che, riecheggiando una frase del leader del Movimento revisionista ebraico, Vladimir Jabotinski, avverte Hamas di non provarci a mettere in dubbio la capacità di deterrenza israeliana, o sarà costretta a scontrarsi contro un “muro di ferro”. Quanto all'Iran, idem: Israele non permetterà che la Repubblica islamica acquisisca la bomba atomica. Lo Stato ebraico si ritiene libero di agire. Perché, ha detto Bennett, “soffriamo ancora delle conseguenze sul nucleare che ha imbaldanzito l'Iran a suon di miliardi di dollari e gli ha offerto legittimazione internazionale”. Conclusione, che segnala una prima evidente dissonanza nei confronti di Biden e dei tentativi in atto da parte della nuova amministrazione di ricostruire il tessuto diplomatico che rese possibile il dialogo tra Usa e Iran, “un nuovo accordo sarebbe un errore”. Accenno che a Netanyahu deve esser sembrato acqua fresca al confronto con le sue sparate contro il “peggior accordo diplomatico mai firmato nella storia”, i disegni sulla bomba sventolati all'Assemblea generale dell'Onu, l'odio manifestato verso Obama con l'insultante discorso al Congresso americano e, infine, il sostegno incondizionato offerto a Trump nella decisione di rompere un trattato che, anche secondo i servizi d'Intelligence americani, l'Iran aveva rispettato. Così, il fantasma del sovrano deposto continuava ad svolazzare sugli scranni della Knesset resi invivibili dall'aggressività dei deputati ultra nazionalisti e, l'indomani, nei commenti dei giornali, impegnati ad accompagnare l'uscita di scena dell'ennesimo re d'Israele con un coro degno dell'occasione e dunque a riconoscere che c'era stato del buono nel suo lungo regno e non soltanto del marcio. Anche se, certo, provocare quattro elezioni in due anni, attaccare frontalmente istituzioni che sembravano al di sopra della ciarla politica, come la magistratura, o la polizia, o alcuni Capi di Stato Maggiore, seminare la divisione nel paese accusando gli “arabi (israeliani) di marciare in massa verso le urne”, favorire l'estremismo dei gruppi razzisti e fanatici cui ha teso la mano e proposto alleanze, e tutto questo per evitare di finire sul banco degli imputati, questo, alla fine, è quello che ha provocato la rivolta di molta parte del mondo politico, mascherata da “governo del cambiamento”, e da “con tutti tranne che con Bibi”. Ma come negare, altresì, i risultati ottenuti? Fra questi vengono elencati: la decisione di Trump di spostare l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, con l'evidente riconoscimento dell'annessione unilaterale della parte orientale della città e l'altrettanto unilaterale riconoscimento che trattasi della “capitale unita e indivisibile “dello Stato d'Israele; il riconoscimento americano della sovranità israeliana sulle alture del Golan, territorio siriano strappato alla Siria nella guerra del 1967; la “compartimentazione” del conflitto coi palestinesi per usare un termine che vorrebbe essere elogiativo adoperato dal New York Times, e la sua riduzione della resistenza contro la spietata occupazione militare a semplice problema di ordine pubblico; l'espansione degli insediamenti e infine, udite udite, gli accordi di Abramo che hanno permesso a Netanyahu di dimostrare quanto fondato fosse il suo assunto secondo cui non esiste alcuna questione palestinese che, se non risolta, impedirebbe la pace tra Israele e i Paese Arabi, perché Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e Sudan alla fine, hanno firmato accordi con Israele. Ovviamente non si dice che ad ognuno di questi paesi, gli Stati Uniti (Trump) hanno offerto importanti concessioni e che i palestinesi, cioè l'incarnazione vivente di uno dei più lunghi e sanguinosi conflitti della storia moderna, sono del tutto assenti dalla retorica degli accordi di Abramo stretti fra i popoli discendenti del profeta. Ad osservarle attentamente, le conquiste di Netanyahu sembrano altrettanti colpi mortali inferti al processo di pace, ma c'è da aggiungere che esse non sarebbero state possibili senza la condiscendenza degli Stati Uniti e il silenzio complice della comunità internazionale, paralizzata dai ricatti di Trump. Ma quando è esplosa la guerra di Gaza, l'ultima, davanti alle scene agghiaccianti dei palazzi sbriciolati sotto le bombe a guida intelligente americane esportate in israeliane, anche i quattro aderenti agli accordi di Abramo hanno minacciato di richiamare gli ambasciatori. Ma questo nessuno l'ha scritto.
È la prima volta dopo 12 anni. Naftali Bennett è il nuovo premier di Israele: finisce l’era di Netanyahu. Elena Del Mastro su Il Riformista il 13 Giugno 2021. Finisce l’era di Benjamin Netanyahu. Con una risicata maggioranza di 60 voti contro 59, la Knesset ha accordato la fiducia al nuovo governo di Israele guidato da Natali Bennett. Per la prima volta da 12 anni un governo senza Netanyahu. Ultrazionalista di destra, a capo del piccolo partito Yamina, Bennett ha giurato da premier pochi minuti dopo la votazione. Guida una coalizione varia e fragile che include otto partiti con profonde differenze ideologiche: in base all’accordo di coalizione, Bennett resterà premier fino a settembre del 2023, poi la palla dovrebbe passare a Yair Lapid, leader del centrista Yesh Atid, per altri due anni. Gli otto partiti che compongono la coalizione, che includono una piccola formazione araba che fa la storia entrando nel governo, sono uniti nell’opposizione a Netanyahu e a nuove elezioni (il Paese ne ha già avute quattro in due anni) ma concordano su poco altro. È probabile che proveranno a portare avanti un’agenda limitata che prova a ridurre le tensioni con i palestinesi e a mantenere buone relazioni con gli Usa senza lanciare altre grandi iniziative. Leader più a lungo in carica nella storia di Israele, Netanyahu resta a capo del Likud e diventa leader dell’opposizione. È stato premier la prima volta dal 1996 al 1999 e poi continuativamente dal 2009 al 2021. Durante la votazione è rimasto seduto e in silenzio; poi, indossando una mascherina nera, si è alzato e ha stretto la mano a Bennett, prima di sedersi brevemente sulla poltrona del leader dell’opposizione e andare via. Lui, che è a processo per corruzione, resta il capo del più grande partito in Parlamento, il Likud, ed è atteso che farà un’opposizione molto forte. Se anche un solo partito della coalizione cedesse, il governo potrebbe cadere e per lui si aprirebbe un’opportunità di tornare al potere. La promessa di tornare a guidare il Paese Netanyahu l’ha fatta nell’acceso dibattito alla Knesset che ha preceduto la fiducia a Bennett: “Se è nostro destino essere all’opposizione, lo faremo a testa alta” e “se Dio vorrà, rovesceremo” il governo “prima di quanto pensiate”, ha detto l’ormai ex premier. Per lui, “l’Iran sta festeggiando perché questo è un governo debole”. Dal canto suo Bennett, che durante il suo intervento è stato contestato dall’opposizione, ha assicurato che “Israele non permetterà all’Iran di armarsi di armi nucleari” e “non sarà parte dell’accordo” sul nucleare, il cui rinnovo reputa un errore. Lo stallo politico è cominciato ad aprile del 2019, quando nelle elezioni Netanyahu non riuscì a ottenere il sostegno sufficiente a formare una nuova coalizione di governo. Seguirono altre due elezioni senza un esito chiaro. Le terze elezioni portarono a un governo di unità nazionale in cui Netanyahu accettò di condividere il potere con l’allora leader dell’opposizione Benny Gantz, ma l’accordo saltò a dicembre, facendo scattare le quarte elezioni. Pur avendo ottenuto la maggioranza nella Knesset, Netanyahu non è stato in grado di formare un governo, aprendo la strada a questa nuova coalizione. (Fonte:LaPresse)
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Israele, finisce l'era Netanyahu: al suo posto Bennett. Quale futuro per la Palestina? Le Iene News il 14 giugno 2021. Dopo 12 anni consecutivi al governo, Benjamin Netanyahu è costretto a lasciare la carica di primo ministro d’Israele. Al suo posto arriva Naftali Bennett, alla guida di una eterogenea coalizione che potrebbe avere breve durata. Il nuovo premier sembra avere idee molto simili al suo predecessore sullo scontro tra israeliani ed ebrei: ci sarà mai la pace? Quando Benjamin Netanyahu assunse la carica di primo ministro d’Israele, il mondo era molto diverso da come lo conosciamo oggi. Barack Obama si era insediato da poche settimane come presidente degli Stati Uniti; in Italia Silvio Berlusconi guidava stabile il suo quarto governo; Instagram e Tik Tok non esistevano; la grande crisi finanziaria che ha travolto l’Europa non aveva ancora cambiato il nostro modo di vivere. Era il 31 marzo del 2009. Nel suo discorso di insediamento, Bibi - così è soprannominato Netanyahu - assicurò che lui non intendeva dominare i palestinesi, ma anzi era disposto a concedere loro i poteri di autogoverno, esclusi quelli che avrebbero messo - secondo lui - a rischio lo stato d’Israele. Da pochi anni era finita la "Seconda Intifada", una rivolta palestinese contro l’oppressione esercitata da Tel Aviv in quei territori. Ieri, il 13 giugno del 2021, Bibi ha lasciato lo scranno occupato per oltre 12 anni, il più lungo mandato nella storia di Israele. E lo ha fatto subito dopo la fine dell’ennesima crisi arabo israeliana, che in due settimane ha lasciato sul selciato centinaia di morti (soprattutto palestinesi). I rapporti tra palestinesi e israeliani sono stati spesso, probabilmente troppo spesso, al centro della scena politica durante i 12 anni consecutivi di mandato di Benjamin Netanyahu (ne ha servito anche un altro, tra il 1996 e il 1999). Continue tensioni e scontri che hanno portato l’ormai ex primo ministro a spostarsi, negli anni, da posizioni centriste a posizioni sempre più oltranziste nei confronti dei palestinesi e dei paesi vicini con cui Israele ha pessimi rapporti diplomatici, tra tutti l’Iran. Secondo Haaretz, tra i più importanti quotidiani d’Israele, Netanyahu è arrivato a convincere gli israeliani che l’occupazione dei territori palestinesi non solo è sostenibile, ma anche conveniente. La promessa di concedere ai palestinesi la loro sovranità è ormai sbiadita, lontanissima nel tempo. E sbiadita nel frattempo è anche la leadership dello stesso Netanyahu, costretto a lasciare lo scranno più importante della politica israeliana dopo due anni ininterrotti di crisi di governo. A prendere il suo posto è Naftali Bennett, che è stato assistente di Netanyahu molti anni fa e adesso è a capo del partito dei coloni israeliani, il più oltranzista nelle posizioni contro i palestinesi. Guida una colazione raccogliticcia, che va dalla destra al centro alla sinistra fino al partito arabo conservatore, che per la prima volta accede a un governo israeliano. La sua maggioranza si regge sull’astensione di uno dei 120 deputati della Knesset, e c’è chi è pronto a giurare che il nuovo esecutivo avrà vita brevissima. In effetti, a ben guardare i partiti che compongono la nuova coalizione di governo, è chiaro che a unirli sia un solo desiderio: mandare a casa Benjamin Netanyahu e la sua destra religiosa. Ma la cacciata di Bibi non sembra, e quasi sicuramente non sarà, sufficiente a riaccendere la speranza di pace tra israeliani e palestinesi: Naftali Bennett in passato si è espresso chiaramente contro la soluzione dei due stati. E non solo: Bennett è pure contrario a riconoscere pari diritti tra i cittadini israeliani ebrei e non ebrei. Nel 2013, parlando dell’occupazione della Cisgiordania, disse che “non esisteva” perché “non c’è mai stato uno Stato palestinese qui”. Annunciando l’accordo con il partito centrista e laico di Yair Lapid - rinnegando una promessa fatta in campagna elettorale - ha subito dichiarato che il suo governo “non farà ritiri e non consegnerà territori” ai palestinesi. Insomma il cambio di guida in Israele potrebbe portare a molti cambiamenti, ma difficilmente questi riguarderanno gli scontri tra arabi e israeliani. Una guerra infinta, che dura da cento anni e di cui non si vede la fine: noi de Le Iene abbiamo provato a raccontarvela nel corso degli anni, con una serie di servizi realizzati sia in Israele che nei Territori palestinesi. Abbiamo provato a raccontarvi quanto abbiamo compreso di questo scontro, ascoltando le voci sia dell’una che dell’altra parte. Potete rivedere i nostri servizi nel video in testa a questo articolo. Con la speranza che un giorno questo lungo e durissimo conflitto possa finalmente vedere la parola fine.
La complessa agenda economica di Naftali Bennett punta sulla tecnologia. Andrea Muratore su Inside Over il 14 giugno 2021. Naftali Bennett si è insediato alla guida del governo di larghe intese che in Israele ha detronizzato, dopo dodici anni, Benjamin Netanyahu, scalzato assieme al suo Likud dal potere di larga coalizione imbastito dal leader di Yamina, formazione nazionalista di destra, e nuovo premier di Tel Aviv e dal leader centrista Yair Lapid, che si alternerà con Bennett nel 2023 come premier. L’ampia coalizione che forma l’esecutivo, che comprende anche il partito Bianco e Blu dell’ex militare Benny Gantz, i labruisti, i verdi di Meretz, la destra religiosa di Focolare Ebraico e, attraverso il loro appoggio esterno, la Lista Araba Unita, è in larga parte coesa dalla volontà di mettere in minoranza Netanyahu e spingerlo all’opposizione dopo lungo tempo. “Il potere logora chi non ce l’ha”, diceva Giulio Andreotti, e questa prassi è stata accolta dai partner della nuova coalizione che mirano a trovare coesione e una comune direzione di marcia nel compattamento dell’esecutivo attorno al ritorno dei partiti a lungo messi all’opposizione o ridotti a partner di minoranza del Likud. Per rendere meno brusco il cambio di guida al vertice di Israele e favorire una linea di continuità, Bennett ha anche deciso di mantenere nel loro incarico due pedine chiave della catena di comando dell’ex premier Netanyahu. Si tratta del Consigliere per la sicurezza nazionale Meir Ben Shabbat e di quello militare Avi Blut. Dove invece si potranno vedere maggiori discontinuità è in campo economico. Il motivo è chiaro: un esecutivo tanto complesso nasce per garantire la difesa dello status quo in diversi campi, dal conflitto coi palestinesi alla questione dei coloni, cristallizzando i focolai di tensione politica e spingendo al dialogo forze contrastanti o addirittura diametralmente opposte. Ma per i suoi connotati eterogenei l’esecutivo di Bennet non potrà non orientare su altri punti dell’agenda le sue priorità. L’economia, il rafforzamento della sicurezza industriale e produttiva di Israele, la lotta alle disuguaglianze sono fondamentali per lo Stato ebraico: in primo luogo perché temi meno divisivi; in secondo luogo perché volano per una possibile vittoria politica di lungo termine qualora, per fare un esempio ben comprensibile, a beneficiarne fosse l’intera massa della popolazione, araba ed ebraica. L’obiettivo è creare sviluppo e garantire coesione al Paese. Bennett si troverà a gestire un’agenda economica da lui già guidata dal 2013 al 2015 in qualità di ministro di Netanyahu. L’ex manager e imprenditore nel settore della cybersicurezza ha una visione complessa dell’agone economico. Bennett ritiene infatti, da un lato, che sia necessario in Israele un minor intervento pubblico dello Stato nell’economia così come una riduzione delle facoltà di manovra di apparati come il ministero della difesa in seno al sistema nazionale nei settori strategici, ma ritiene anche che ciò si debba coniugare con un maggior investimento in istruzione, coesione sociale e incentivi all’occupazione per permettere la creazione di competenze nella popolazione che si avvia all’età lavorativa, la trasformazione dei settori e la coesione sociale. Soprattutto, il nazionalista Bennett non ha mai trascurato il fatto che il lavoro, l’imprenditoria e l’istruzione possano essere la strada per rafforzare l’integrazione degli arabo-israeliani, che già di base sperimentano tenori di vita ben più dignitosi di quelli dei palestinesi, ma non sono ancora ai livelli della maggioranza della popolazione. Non a caso Bennett, nota StartMag, “nell’ultima campagna elettorale, all’inizio di quest’anno, ha rivendicato la sua formazione manageriale per ‘guarire’ l’economia israeliana in crisi a causa dell’epidemia di Covid, con una ricetta incentrata sul taglio delle tasse e deregulation”. Fondatore di Cyota, azienda costruita negli Stati Uniti per occuparsi di cybersicurezza e lotta alle frodi, venduta per 145 milioni di euro a Rsa Solutions nel 2005, Bennett è stato poi amministratore delegato di Soluto, azienda pioneristica del cloud computing venduta nel 2013 ad Asurion per oltre 100 milioni di dollari. Il nuovo premier ritiene che le energie del Paese debbano in particolar modo focalizzarsi sul rilancio dell’imprenditorialità dei suoi connazionali e sul coinvolgimento degli arabi, specie nei settori ad alta tecnologia. Adam Fisher, partner del fondo di investimento Bessemer che ha contribuito a far sviluppare finanziariamente Soluto, ha dichiarato: “Spero che in Israele vedremo più personaggi dell’hi-tech entrare in politica. L’hi-tech è il settore economico di punta del Paese, è completamente indipendente, globale e al tempo stesso sionista. È inclusivo e capace di portare insieme arabi e ebrei”. L’innovazione appare il volano strategico per far ripartire l’economia. Anche nel durissimo 2020, contraddistinto da continui lockdown, gli investimenti complessivi, pubblici e privati, nell’innovazione hanno toccato quota 10,6 miliardi di dollari. Erano stati un’enormità, 21,74 miliardi nel 2019, nota Corriere Comunicazioni: il dimezzamento appare solo temporaneo e recuperabile. Inoltre, nello Stato ebraico si contano 45 “unicorni”, società private attive nella tecnologia e nell’informatica con valore superiore al miliardo di dollari, il 10% a livello mondiale. Come spiega Jonathan Pacifici nel saggio “Gli unicorni non prendono il Corona”, Israele ha mostrato punte di successo nella tecnologia anche durante la pandemia. Sanità, sicurezza, energia, aerospazio: i settori in cui l’innovazione ha fatto da driver fondamentale sono numerosissimi. Su questo tessuto Bennett intende operare per rafforzare la fibra dell’economia israeliana, la cui direzione sarà affidata a un “grande vecchio” della politica nazionale, Avigodr Lieberman, esponente di peso di Focolare Ebraico, a lungo braccio destro di Netanyahu ora alla guida delle finanze dopo essere stato ministro degli esteri (2009-2012, 2013-2015) e della difesa (2016-2018). Bennett è un uomo di grande esperienza e, come Liberman, ha ben chiaro il fatto che una delle direttrici su cui l’economia israeliana può crescere è quella del rafforzamento commerciale di Tel Aviv nei campi strategici e dell’alta tecnologia. Non a caso Bennett, già da ministro dell’economia di Netanyahu, ha aperto la strada alla cooperazione multilaterale con diversi Paesi del Medio Oriente, dell’Asia, dell’Africa per rafforzare le partnership di Israele e la sua presenza in mercati terzi. Un’espansione di Israele in mercati terzi si prevede decisiva per rilanciare occupazione, lavoro e sviluppo sistemico. Così come può avvenire anche nel campo del settore energetico che, dall’estrazione nel Mediterraneo alle rinnovabili, vede Israele attivo su tutta la filiera. E si sa che energia e innovazione sono settori saldamente uniti e interdipendenti. Poter mettere assieme istanze ambientaliste, volontà di coesione sociale degli arabi, tutela del lavoro, difesa della produzione e strategie per la ripartenza non sarà facile: ma attorno all’innovazione Bennett ha sicuramente un perno su cui far ruotare una strategia.
Chi è Naftali Bennett. Futura D'Aprile su Inside Over il 14 giugno 2021. Dopo essere stato per anni uno degli uomini più vicini a Benjamin Netanyahu, Nafatli Bennett ha definitivamente preso le distanze dal leader del Likud diventando il king maker delle elezioni di marzo 2021. Ex ministro della Difesa, per gli Affari della diaspora, dell’Economia e dell’Educazione, Bennett si è presentato alle ultime elezioni a capo di Yamina, partito di estrema-destra da lui stesso fondato nel 2019, ottenendo sette seggi. Durante la campagna elettorale non ha preso una posizione esplicita nei confronti di Netanyahu, finendo così con il diventare l’ago della bilancia nella formazione del nuovo governo e diventando il nuovo premier, di fatto chiudendo l’era-Bibi. Ecco la sua storia:
Dall'esercito all'informatica. Nato ad Haifa nel 1972 da genitori americani, Bennett ha passato i primi dieci anni della sua vita tra Israele, Stati Uniti e Canada prima che la famiglia decidesse di trasferirsi definitivamente ad Haifa. Sia la madre che il padre sono ebrei ortodossi moderni, come lo stesso leader di Yamina.
Bennett ha servito nell’esercito israeliano dal 1990 al 1996 e ha fatto parte della Sayeret Matkal, l’unità militare di forze speciali con compiti di ricognizione, operazioni antiterrorismo e raccolta di intelligence in territorio ostile. La Sayeret Matkal si occupa anche del recupero ostaggi fuori dai confini dello Stato ebraico. Di questa stessa unità fece parte anche il fratello di Benjamin Netanyahu, Yonatan. Durante i suoi anni nella Sayeret Matkal, Bennett ha raggiunto il grado di maggiore e ha continuato a servire come riservista, venendo così richiamato durante la guerra in Libano nel 2006 per far parte dell’unità Maglan, cui spettava il compito di svolgere missioni dietro le linee nemiche. Dopo il 1999, Bennett ha ottenuto una laurea in Legge all’Università ebraica di Gerusalemme e si è trasferito a Manhattan dove ha fondato la compagnia di software anti-frode Cyota, successivamente venduta nel 2005 per 145 milioni di dollari. Grazie ai ricavi della vendita della sua start-up, Bennett ha fatto ritorno in Israele ed è entrato in politica.
Carriera politica. Bennett ha iniziato la sua carriera politica al fianco di Benjamin Netanyahu: ha ricoperto per due anni – dal 2006 al 2008 – il ruolo di capo dello staff e si è occupato della campagna per le primarie del Likud del 2007.
Nel 2010, Bennett è stato poi nominato direttore generale dello Yesha Council, una lobby che si occupa di promuovere la costruzione di insediamenti in Cisgiordania, un tema molto caro all’attuale leader di Yamina. Bennett è rimasto nel Likud fino al 2012, quando decise di unirsi a Casa ebraica candidandosi alle primarie per la leadership del partito, in quel momento in forte crisi nei sondaggi. Sotto la sua guida, Casa ebraica riuscì ad ottenere 12 seggi alle elezioni legislative del 2012 e Bennett divenne ministro dell’Economia e degli Affari religiosi. Un mese dopo gli fu affidato anche il ministero per gli Affari della diaspora. Nel governo Netanyahu nato nel 2015, Bennett ottenne invece il ruolo di ministro dell’Istruzione, ma rinunciò alla carica quello stesso anno, tornando a sedersi tra i banchi della Knesset. L’ultimo incarico da lui ricoperto è stato quello di ministro della Difesa dal 2019 al 2020. Entrato nuovamente in Parlamento nel 2018 con Casa ebraica, Bennett decise di lasciare il partito per fondare insieme ad altri parlamentari Nuova destra. L’esperimento fu fallimentare: alle elezioni del 2019 il partito non superò la soglia di sbarramento. Bennett però imparò subito la lezione e diede vita a Yamina, una coalizione con Casa ebraica e Tkuma che vinse sette seggi alle seguenti elezioni. La formazione ha avuto vita breve, ma il successo di Yamina è rimasto invece stabile: in vista delle urne del 2021, Tkuma – oggi Sionismo religioso – ha lasciato la coalizione, ma Bennett è comunque riuscito a vincere sette seggi.
Pensiero politico di Bennett. A livello economico, Bennett è considerato un ultraliberale. A suo parere, il settore privato, vero motore dell’economia, deve essere il più libero possibile dal controllo del governo, mentre le disparità sociali posso essere risolte tramite maggiori investimenti nell’educazione. Da ministro dell’Economia ha poi cercato di diversificare il settore dell’export, aprendo il Paese verso i mercati di Africa, Asia e Sud America e riducendo così la dipendenza dall’Ue. Hanno invece fatto discutere le sue affermazioni sui matrimoni dello stesso sesso, a cui Bennett si oppone in quanto aderente alla corrente ortodossa. Da ministro dell’Educazione ha invece vietato alle scuole di invitare in aula i membri di Breaking the silence o qualsiasi altro movimento critico nei confronti della presenza militare israeliana in Cisgiordania. Bennett è anche ricordato per aver cercato di implementare delle politiche che portassero ad una maggiore integrazione degli ultra-ortodossi e delle donne arabo-israeliane nel settore dell’economia grazie a programmi di apprendimento specifici.
La questione palestinese. La posizione di Bennett nei confronti della questione palestinese è chiara: nessuno Stato palestinese indipendente e sovrano potrà mai vedere la luce. Grande sostenitore dalla costruzione di insediamenti nei Territori occupati, Bennett ha proposto di annettere a Israele l’area C della Cisgiordania offrendo ai palestinesi che vi risiedono la possibilità di ottenere la cittadinanza israeliana. Le aree A e B dovrebbero invece essere amministrate dall’Anp, con Idf e Shin Bet ad occuparsi della sicurezza. Il piano di Bennett prevede anche la costruzione di maggiori infrastrutture nell’area annessa e nelle restanti per garantire la crescita economica di tutto il territorio. Gaza dovrebbe invece passare sotto il controllo dell’Egitto. Il leader di Yamina è quindi contrario alla soluzione dei due Stati e ritiene che non possa esserci alcuna soluzione alla questione palestinese. Secondo Bennett è anche scorretto parlare di occupazione israeliana della Cisgiordania dato che “non è mai esistito uno Stato palestinese”. In caso di formazione di un nuovo governo con lui quale primo ministro, Bennett si è tuttavia impegnato a non promuovere l’aumento degli insediamenti nella West Bank.
CCla. Per "il Giornale" il 14 giugno 2021. Soldato coraggioso, milionario proprietario di società tecnologiche che si è fatto da sé, attivista politico e poi leader di una sua formazione. Naftali Bennett, l'uomo che ha scalzato Netanyahu, è scaltro, instancabile, ambizioso, e molto sicuro di sé. È anche un grande giocatore d' azzardo con una notevole capacità di raggiungere i suoi obiettivi. È nato ad Haifa nel marzo 1972, ma ora vive a Raanana sobborgo a nord di Tel Aviv dove vivono molti anglofoni e hanno sede diverse start-up. Il leader 49enne, è il più giovane di tre figli di genitori immigrati americani Jim e Myrna, che si sono trasferiti in Israele da San Francisco nel 1967, sulla scia della Guerra dei Sei Giorni. Determinato fin dall' inizio, ha superato le prove per far parte dell'unità di comando più prestigiosa dell'esercito, Sayeret Matkal e ha servito poi nel reparto di ricognizione Maglan. Ha lasciato il servizio militare dopo sei anni. Tre anni dopo, alla tenera età di 27 anni, viveva a Manhattan e fondava la sua prima azienda tecnologica, Cyota, che ha venduto sei anni dopo per 145 milioni di dollari. Il suo pallino per la politica è arrivato durante la guerra del Libano del 2006. Ha prestato servizio come riservista in quella guerra, partecipando ad operazioni dietro le linee nemiche per distruggere cellule di Hezbollah. Poi si è dedicato alla politica ed è stato capo di gabinetto sotto Benjamin Netanyahu, allora leader dell'opposizione, dal 2006 al 2008, quando ha litigato con la moglie di Bibi, Sara, ed è stato escluso così dal Likud. Dopo il ritiro da Gaza, che non approvava, si è buttato su una posizione di destra nazionalista, favorevole all' annessione dei Territori in Cisgiordania. È stato ministro delle Finanze e della Difesa in vari governi di Netanyahu, fino a staccarsi dall' alleato di sempre alle ultime elezioni. Una mossa che gli ha fatto guadagnare la premiership. Ma il loro rapporto è stato difficile fin dall' inizio. Bibi nel corso della fulminea ascesa politica di Bennett ha cercato diverse volte di schiacciare il popolare parvenu. Il neo premier invece nella sua scalata ha lavorato molto sulla sua immagine per cercare di andare oltre quella di un leader nazional-religioso e raggiungere anche elettori laici e centristi. Quando è diventato ministro dell'istruzione ha incoraggiato gli studenti delle scuole superiori a specializzarsi in matematica e fisica, e ha sostenuto come il sistema educativo fosse il motore per l'industria tecnologica della nazione. Bennett stringe la mano alle donne, e sua moglie Gilat originaria di una famiglia laica non si copre i capelli. Quando si sono svolte le elezioni del marzo 2021 - la sua scommessa più ambiziosa - ha puntato tutto sulla sfida aperta al potere di un Netanyahu «fallito». Ma per i suoi oppositori è irritante che diventi primo ministro mentre guida una fazione di soli sette seggi e da Netanyahu è pure stato accusato di essere un traditore. La sua scaltrezza e intuito però sembrano dargli ragione e portano sempre più in alto il parvenu che ha spodestato Bibi the King.
Cosa è successo nel 1973: Guerra del Kippur e prima crisi petrolifera. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 6 Giugno 2021. Abbiamo parlato nella scorsa puntata del 1973 senza accennare all’evento più drammatico, imprevisto e carico di conseguenze che allora sembrarono catastrofiche e inguaribili. La guerra di Yom Kippur. Quell’anno la festività ebraica di Yom Kippur, la più importante, quella che raduna la stessa tavola dopo lunghissima preparazione tutte le famiglie religiose e laiche del popolo di Israele, coincise con il mese di digiuno e di pace musulmano del Ramadan. Onestamente, proprio nessuno aveva immaginato che potesse accadere una cosa del genere, nemmeno in Israele dove i servizi segreti e le antenne erano irte e sintonizzate da sempre su tutti i segnali provenienti dal mondo nemico di Israele. Fu una guerra tremenda e improvvisa in cui l’Egitto alleato della Siria dell’Iraq attaccò lo stato di Israele nel tentativo di ribaltare le sorti della guerra di sei anni prima, quella del 1967 che in soli sei giorni si era risolta in una disfatta totale delle forze arabe che avevano lungamente pianto per quella sconfitta cocente e disonorevole. Israele non se l’aspettava. Nessuno al mondo se lo aspettava. Fu un grande colpo dell’intelligence sovietica perché la guerra di Yom Kippur fu una guerra sovietica in cui specialmente l’Egitto ricevette dall’Urss le armi più moderne e anche l’addestramento si dimostrò accurato e perfettamente efficiente sul campo di battaglia. L’ artiglieria funzionava e si batteva con quella israeliana il cui personale era stato colto nel sonno e scaraventato alle sue postazioni. All’inizio fu un trauma da formicaio: man mano che la notizia dell’attacco raggiungeva le case, tutti i cittadini, maschi e femmine, vecchi e giovani, si ritrovarono all’istante soldati rispondendo alle chiamate già prestabilite nei punti convenuti. Ma l’effetto sorpresa fu devastante. La notizia arrivò in Occidente e in Oriente come un colpo di fulmine e – in breve – tutti coloro che odiavano gli ebrei gioirono, tutti coloro che provavano pena e senso di protezione per loro e non soltanto per gli israeliani, caddero in uno stato di profonda depressione finché Tsahal (l’esercito) e l’IDF nel suo complesso si riorganizzarono. Quando andai a intervistare Mohachem Begin, qualche anno dopo, gli chiesi quale fosse stato stata la causa della faticosa ripresa e poi della vittoria, e mi rispose: “Gli egiziani fanno come gli inglesi: raccolgono i loro ufficiali nell’alta borghesia e nell’aristocrazia politica. Mettono al comando i figli dei potenti. I nostri sono selezionati tra gli adolescenti più audaci, nelle strade, e così abbiamo un personale militare pronto a combattere senza arrendersi. Noi odiamo la guerra e non possiamo permetterci il lusso della sconfitta. In questo – mi disse ancora Begin – consiste la differenza fra noi israeliani e gli arabi: loro possono perdere tutte le guerre ma essere ancora pronti a cancellarci dalla faccia della terra, mentre noi possiamo vincere tutte le guerre ma sappiamo che se perderemo la prossima perderemo vita, figli e patria”. Tutti dissero allora: questa sarà la più grave crisi energetica della storia. Chiuderanno i pozzi petroliferi. La benzina andrà alle stelle. Il mondo diventerà povero perché non potrà più trasportare cibi al mercato. È l’inizio della fine della civiltà. Parlavano soltanto dei disastri che la guerra mediorientale avrebbe causato al prezzo del petrolio, non ricordando che quando sale il prezzo del petrolio in Medioriente, quello russo fa affari d’oro. La guerra cominciò il 6 ottobre 1973 con un attacco simultaneo e preparato con segretezza militarmente encomiabile dalla Siria, dall’Egitto, e poi dagli altri paesi arabi della coalizione. Ma fu prima di tutto la vendetta egiziana. Gli egiziani erano stati malamente umiliati nel 1956 quando Nasser nazionalizzò il canale di Suez che apparteneva ad una compagnia privata franco-inglese abilitata ad operare sul territorio nazionale egiziano, e Anthony Eden, già ministro degli Esteri di Winston Churchill, affamato di una guerra che riaffermasse l’esistenza dell’impero britannico, si mise a urlare che Nasser era come Mussolini e che andava trattato come Mussolini e sconfitto come Mussolini. Non che Nasser fosse troppo dissimile da Mussolini, ma era, come quasi tutti gli egiziani, filo-inglese, sentendosi debitore dell’impero per tutte le innovazioni di cui la sua patria aveva fatto uso per diventare una nazione relativamente moderna. Nel ‘56 gli israeliani si accodarono all’attacco franco-inglese mentre americani e sovietici – per la prima volta uniti dopo la seconda guerra mondiale – intimarono l’alt alle operazioni che avrebbero dovuto concludersi con la conquista del Sinai da che lo avevano invaso seguendo un piano secondo cui il Regno Unito avrebbe ottenuto un mandato dell’Onu come peace-keeper per rinsaldare la propria potenza. Nel 1956, sotto la frusta di Mosca e di Washington, inglesi e francesi tornarono alle loro case abbattuti umiliati e gli israeliani semplicemente, si ritirarono. Poi ci fu la grande vittoria israeliana del 1967, i sei giorni. L’esercito di Zahal guidato dal generale Moshe Dyan con una teatrale benda nera, sull’occhio perduto in guerra, travolse l’esercito egiziano con un blitz krieg all’israeliana in cui i soldati combattevano come gruppi di pirati collegati via radio. Stavolta invece le cose andavano per le lunghe: in Siria si era appena installato Hafez al Assad il padre dell’attuale Bashar al Assad, un uomo del partito Baath nazionalsocialista antisemita, a suo tempo alleato dei nazisti tedeschi. Inoltre era un leader laico, anzi ateo e quindi malvisto dei religiosi sunniti che gli negavano il pieno appoggio di una popolazione sensibile quasi soltanto al richiamo dei muezzin. Lo sbandamento israeliano durò sette giorni durante i quali egiziani e siriani penetrarono profondamente in Israele. Ma fu presto chiaro che la loro strategia militare, di scuola tradizionale sovietica, era vecchia anche se bene organizzata. Lo shock nel comando operativo israeliano fu molto duro ma l’analisi che ne seguì dette i suoi frutti. Fu deciso infatti di suddividere le formazioni di carri israeliani in piccoli gruppi di due o tre fra loro dotati di una eccellente comunicazione radiofonica di cui le forze armate sovietiche non erano ancora provviste. I carri israeliani riuscirono così a penetrare attraverso le linee egiziane e con una serie di operazioni di ingegneria molto ardite le avanguardie della fanteria israeliana riuscirono a varcare il canale di Suez su passerelle gettate su pontoni galleggianti dai genieri e su quelle passarono poco dopo gli stessi carri armati israeliani ormai in Africa sulle piste che conducevano al Cairo: alla loro testa era un generale che per questa operazione diventò famoso, Ariel Sharon, che sarà il primo ministro e molti anni dopo decise di donare la striscia di Gaza strappata agli egiziani, personalmente a Yasser Arafat sperando così di chiudere una partita sanguinosa. (Ma Sharon fece questo regalo senza calcolare la forza e la potenza di Hamas, nemica sia dei palestinesi che degli israeliani). Allora i combattimenti furono sanguinosi anche perché i soldati egiziani e siriani si batterono con disciplina e coraggio e morirono in grandi quantità. In tre settimane i morti nel complesso furono 15.000 di cui solo 2000 israeliani. Fu allora che Anwar el Sadat, il presidente egiziano che si era giocato la vita con la guerra, capì che era arrivato il momento di arrivare a far pace con gli israeliani e di mandare al diavolo i russi. Fu a causa di quella guerra del 1973 che l’Egitto decise di normalizzare le relazioni con lo Stato ebraico, di sfidare le forze che si opponevano al suo interno, e furono proprio quelle forze che qualche anno dopo presentarono il conto con un attentato letale che uccise Sadat mentre assisteva alla parata delle sue forze armate. L’Egitto pagò la propria decisione di far pace con Israele, nel ‘73, con l’espulsione immediata dalla Lega araba, un organismo oggi scomparso, bellicoso, militaresco, e che durò finché durò la guerra fredda cioè fino alla caduta di Berlino nel 1989. La guerra per tentare di sopprimere Israele e che Israele invece aveva vinto, divise la destra dalla sinistra in Italia e nel mondo. In breve, quasi tutta la gente di sinistra sia pur tra qualche se e qualche ma, fece il tifo per una operazione che non avrebbe dovuto soltanto correggere confini ma avrebbe dovuto cancellare lo Stato ebraico che le Nazioni Unite avevano ordinato che nascesse insieme ad uno stato palestinese. Dal 6 all’ 11 ottobre del 1973 era durata l’illusione della vittoria ma già all’alba del 12 si vide che la realtà era diversa. La Siria perdeva definitivamente le alture del Golan, su cui aveva piazzato la sua artiglieria per battere Israele. Mentre ancora duravano i combattimenti, gli Stati Uniti si offrirono come mediatori per un cessate il fuoco. Ma Mosca si oppose finché eserciti arabi sembrava vincessero. Nell’ultima fase, gli americani decisero di rifornire massicciamente e senza alcun sotterfugio le forze israeliane che seguitarono a combattere dopo il cessate il fuoco ordinato dall’Onu. Fu quello uno dei momenti di massimo attrito tra Stati Uniti ed Unione Sovietica. Henry Kissinger, segretario di Stato di Nixon, volò a Mosca per chiedere ai sovietici che intenzioni avessero, perché il suo paese – disse – non avrebbe più tollerato l’uso della guerra per annientare Israele. I russi, a parti invertite, furono costretti loro a chiedere agli americani di imporre all’esercito israeliano di cessare la sua avanzata sul Cairo e di deporre le armi. La guerra di Yom Kippur sconvolse i prezzi del petrolio su cui prese il comando l’Opec, l’organizzazione dei paesi produttori, imponendo valori fittizi e cominciò una trattativa che spaccò l’occidente: gli americani erano furiosi con gli europei perché non avevano mosso un dito per soccorrere Israele o anche semplicemente per dire chiaramente da che parte stavano. L’Europa sentiva l’America come una potenza non amica le cui azioni avrebbero potuto compromettere gli interessi europei determinati dal prezzo del petrolio e quindi la guerra di Yom Kippur fu considerata l’evento che mise fine alla perenne amicizia dell’Europa debitrice nei confronti degli Stati Uniti è sua alleata. L’America repubblicana rispose a brutto muso che avrebbe fatto da sola, esattamente come poi accadrà con Donald Trump. Anche l’America si spaccò. La fazione filoeuropea, allora come oggi, cancellò la sua tradizione, che era quella di stare dalla parte degli israeliani, cambiò campo benché il nerbo dell’elettorato democratico americano fosse costituito allora come oggi da ebrei di sinistra. Questo evento gigantesco determinò uno scossone brutale in tutte le agenzie dei servizi segreti europei e americani, un capovolgimento della politica sovietica nei confronti dei paesi arabi, una revisione radicale delle questioni energetiche e dei problemi dei prezzi del petrolio e una risposta conseguente ed immediata di quella guerra fu la vampata del terrorismo sotto le bandiere filopalestinesi e filolibiche pur di creare uno schieramento anti-americano che permettesse la collusione della destra con la sinistra. In Italia subito dopo nacquero le Brigate Rosse cui si sarebbero aggiunte le sedicenti brigate nere dei Nar neofascisti con le stesse modalità e armamenti e sloganistica, di quelle ispirate al mondo sovietico. Cominciava così un lungo decennio in cui si svolse una guerra a bassa intensità coperta da strati di retorica. Le conseguenze più sdolcinate furono quelle delle domeniche ecologiche in bicicletta che tanti ricordano come un’età felice molto simile alle giornate naturalistiche di oggi in cui tutti ci precipitavamo con le bici, i bambini sul collo o in canna, le merende sul portapacchi e le borse a penzolare dal manubrio per raduni in luoghi pieni di zanzare in cui con grande spirito di adattamento ci dichiaravamo ci dichiaravamo tutti più o meno fieri di esser parte di una grande coalizione anticapitalista.
CRONOLOGIA DI VENTI ANNI
1956: Il Presidente egiziano Nasser nazionalizza la Compagnia del Canale di Suez. Fallisce l’attacco Anglo-Francese all’Egitto.
1958: Scoppia la rivoluzione in Iraq. Gli Stati Uniti intervengono in Libano. Viene proclamata la Repubblica Araba Unita fra Egitto e Siria.
1960: Nasce l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC).
1965: Prima azione di resistenza armata da parte dei Feddayn di Yasser Arafat.
5/11 giugno 1967: Guerra dei sei giorni, Israele occupa la parte orientale di Gerusalemme, la Cisgiordania, la striscia di Gaza, la penisola del Sinai e l’altopiano del Golan, che si annetterà del dicembre del 1981.
22 novembre 1967: Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite chiede all’unanimità il ritiro di Israele dai territori occupati.
1970: Muore il Presidente Egiziano Nasser. I Palestinesi vengono espulsi dalla Cisgiordania.
1972: Un gruppo di Palestinesi sequestra gli atleti Israeliani alle Olimpiadi di Monaco, l’azione si conclude in una strage.
1973: Guerra del Kippur e prima crisi petrolifera.
1974: Arafat pronuncia il discorso del mitra e dell’ulivo all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
1975-1976: In Libano è guerra civile, la Siria e Israele invadono il paese.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
La congiura degli (dis)eguali. Uniti solo dall'odio verso Bibi. Fiamma Nirenstein il 31 Maggio 2021 su Il Giornale. Estrema destra, centro, sinistra. Con l'appoggio arabo Accozzaglia con un unico scopo: eliminare il premier. Bennett l'ha ripetuto giustificando la sua scelta, come tutti si aspettavano, e presentandola come un sacrificio politico e personale: è per evitare le quinte elezioni in due anni che accetto di far parte del «governo del cambiamento» di cui sarò il primo ministro, dato che Netanyahu non ha i numeri. Ma non è vero: la destra avrebbe avuto i numeri, ma ha fatto i capricci, si è spaccata, si è abbandonata all'estremismo di Smotrich che ha dichiarato che con l'appoggio arabo non avrebbe mai accettato, e poi, e soprattutto, all'ambizione personale di Naftali Bennett, capo di Yemin, la Destra, e di Gideon Sa'ar; e sempre a destra, anche l'odio inveterato di Lieberman ha bloccato quella che era la scelta degli elettori. Bennett, Sa'ar, Lieberman e anche Benny Gantz: tutti avevano un conto aperto con Netanyahu. Così adesso Bennett il giovane, capace tecnocrate, ufficiale di valore, critico sì, ma fino a ieri da destra, farà il primo ministro a rotazione, prima di Yair Lapid. Sarà il primo anche se ha meno uomini per il maggiore sacrificio ideologico: a lui il premio più grande, e anche l'accusa di aver tradito e venduto tutto il suo patrimonio ideale. La sua base ribolle, e difficilmente accetterà che la metta in gioco col partito Meretz, ultrapacifista e amico di Abu Mazen, o con Yair Lapid, che non può soffrire i religiosi, appena un po' meno di Lieberman che li vuole tutti coscritti. Ma Bennett ha ceduto a due spinte che il suo carattere ambizioso gli ha imposto: l'occasione unica di essere il premier del piccolo Stato a cui il mondo intero guarda dicendogli ogni giorno «non posso vivere né con te né senza di te», e soprattutto far fuori lo statista che da 12 anni siede in Rehov Balfour, riconosciuto come un leader storico da chi lo ama e da chi lo odia, come Sa'ar, come Lieberman, come tanti altri che lo accusano di arroganza, noncuranza, prepotenza. Ma Bennett aveva promesso ai suoi elettori di non fare alleanze con Lapid, di restare fedele al guscio della destra. È un impegno che adesso sarà difficile mantenere: significa liberalismo economico accentuato, apparato della difesa forte e deciso di fronte ai pericoli, fedeltà al sionismo delle origini, compresa la questione dei territori disputati e dei cosiddetti «coloni» di cui Bennett è stato sempre un sostenitore, tanto quanto altri membri del nuovo governo li detestano. Ma la proposta della rotazione con Lapid lo affascinava da tempo, e adesso vi è tornato dopo il breve ripensamento durante le operazioni a Gaza e gli scontri con gli arabi israeliani. Quando avranno realizzato il sogno «chiunque fuorché Bibi» cosa resterà a questo gruppo? La verità è che Netanyahu, che sembra potere uscire indenne anche dall'assalto giudiziario, sarà un macigno sulle spalle dei partitini al governo lontani fra di loro e senza un leader in comune. Netanyahu è il primo ministro che parla, d'accordo o no, a tutto il mondo e a tutta Israele. e che tutti considerano anche per la severità nel considerare la sicurezza di Israele e insieme per la disponibilità a condividerne i risultati col mondo minacciato dal terrorismo; è, oggi soprattutto, il leader che ha salvato con un'azione unica, il suo Paese dalla pandemia. Adesso come potranno Yair Lapid, C'è un futuro, Blu e bianco di Benny Gantz, Israele casa nostra di Avigdor Lieberman, Gideon Sa'ar con Nuova speranza, fin qui di destra o di centrosinistra, Meerav Michaeli, laburista, Tamar Zandberg del partito radicale estremista, e il futuro primo ministro con 5 o 6 seggi di Yemina, la Destra, parlare con una voce forte a fronte della nuova ipotesi di accordo con l'Iran cui Joe Biden tiene moltissimo e che Netanyahu aveva reso una battaglia principale dello Stato d'Israele? Il recupero dell'economia dopo il Covid, l'eventuale guerra a Gaza se Hamas dovesse attaccare di nuovo, o in Libano con gli Hezbollah, o il rapporto con Abu Mazen, la politica verso gli insediamenti, gli Accordi di Abramo... Tutti temi su cui dei convegnisti possono discutere a lungo. Ma in Israele spesso le decisioni si prendono al volo, pena la vita.
Dagotraduzione dal DailyMail il 25 maggio 2021. Sabato scorso il World Values Network ha comprato un’intera pagina del New York Times per un appello particolare alla cantante Dua Lipa e alle modelle Bella e Gigi Hadid. Secondo il rabbino Shmuley Boteach, a capo dell’organizzazione, le tre star hanno «accusato Israele di pulizia etnica» e «diffamato lo stato ebraico». Non si è fatta attendere la risposta di Dua Lipa, che ha condannato l’annuncio: «Respingo completamente le false e spaventose accuse che sono state pubblicate oggi nella pubblicità del New York Times diffusa dal World Values Network». «Questo è il prezzo che pago per aver difeso i diritti umani dei palestinesi contro un governo israeliano le cui azioni sono state già condannate come percecutori e discriminanti sia da Human Rights Watch che dal gruppo israeliano per i diritti umani V’Tselem». «Prendo questa posizione – ha continuato la cantante, che sta uscendo con il fratello delle due Hadid, Anwar – perché credo che tutti, ebrei, musulmani e cristiani, abbiano il diritto di vivere in pace tra cittadini uguali di uno stato che scelgono». «Il World Values Network sta usando spudoratamente il mio nome per portare avanti la sua brutta campagna con falsità e palesi travisamenti di chi sono e di cosa rappresento. Sono solidale con tutte le persone oppresse e rifiuto tutte le forme di razzismo». La polemica non si è fermata il rabbino del World Values network ha risposto così al post di Dua: «Dua Lipa sta facendo i capricci sui social media. Sfoga il suo odio antisemita ma impazzisce quando viene additata per i suoi pregiudizi e il suo bigottismo. Dovrebbe imparare che quando gli ebrei dicono “Mai più”, intendono “Mai più”». «Non permetteremo che il popolo ebraico venga demonizzato da personaggi come Dua Lipa».
Anna Guaita per “il Messaggero” il 28 maggio 2021. La guerra delle bombe e dei razzi è ferma per il momento, ma quella delle parole continua anche più infiammata. Il Consiglio dei Diritti Umani dell'Onu, che ha sede a Ginevra in Svizzera, è entrato fermamente nella lotta fra palestinesi e israeliani, decidendo di aprire un'inchiesta sulla sanguinosa battaglia che si è fermata lo scorso 21 maggio dopo un inteso lavorio diplomatico internazionale. La presidente del Consiglio, Michelle Bachelet, ha preso posizione di condanna sui razzi lanciati da Hamas contro Israele, che ha definito «una chiara violazione della legge umanitaria internazionale», ma è stata più dura nei confronti di Israele e delle sue bombe, rivelando che gli agenti Onu in loco «non hanno trovato prove che le costruzioni colpite fossero usate a scopi militari o ospitassero gruppi armati». Bachelet ha ammonito che se l'inchiesta aperta dimostrasse che effettivamente gli attacchi di Israele a Gaza sono stati «indiscriminati e sproporzionati, potrebbero costituire crimini di guerra», e ha concluso che «non ci sono dubbi che Israele abbia diritto a difendere i propri cittadini e residenti. E tuttavia i palestinesi hanno anch'essi diritti. Gli stessi diritti». La reazione di Israele è stata immediata e arrabbiata. Il premier Benjamin Netanyahu ha accolto la decisione del Consiglio per i Diritti Umani sostenendo che deriva da «una chiara ossessione anti Israele». Netanyahu ha sostenuto che ancora una volta «un'immorale maggioranza automatica al Consiglio ha coperto una organizzazione terrorista genocida (Hamas) che prende deliberatamente di mira i civili israeliani trasformando i civili di Gaza in scudi umani». Secondo il premier, il Consiglio attribuisce automaticamente la colpa «a una democrazia che agisce legittimamente per proteggere i suoi cittadini da migliaia di attacchi indiscriminati con i razzi». E ha concluso che l'apertura dell'inchiesta non è che una farsa che «ridicolizza la legge internazionale e incoraggia i terroristi nel mondo». Una certa disapprovazione è venuta anche dagli Usa, la cui missione a Ginevra ha rilasciato una dichiarazione in cui si esprime rammarico per la decisione del Consiglio. È bene ricordare che gli Usa non fanno parte del Consiglio sui Diritti Umani dell'Onu e quindi sono presenti a Ginevra solo come osservatori. La seduta di ieri è stata convocata su richiesta del Pakistan, uno dei 47 Paesi che formano il Consiglio. A sua volta, il Pakistan agiva per conto dei palestinesi e dell'Organizzazione della Cooperazione Islamica. I palestinesi hanno chiesto all'assemblea dei Paesi riuniti che venga condotta un'indagine sulla «sistematica violazione dei diritti civili» che sarebbe compiuta da Israele sui palestinesi nei territori occupati. È stata ascoltata anche una attivista venuta dal quartiere di Sheikh Jarrah, dove decine di famiglie palestinesi vengono sfrattate da case che secondo la legge appartenevano a israeliani e devono essere restituite a loro: «Non vogliamo la vostra simpatia ha detto Muna El-Kurd -. Vogliamo che fermiate questa pulizia etnica ai danni dei palestinesi». Sono accuse pesantissime, che Israele rintuzza categoricamente, come ha rifiutato la denuncia di «apartheid», attribuita al ministro degli Esteri di Parigi Jean-Yves Le Drian che, in un'intervista dei giorni scorsi, ha parlato appunto di un «rischio apartheid» nello Stato ebraico a causa delle violenze tra arabi e ebrei durante il conflitto. Il ministro degli Esteri israeliano Gabi Ashkenazi ha espresso forte contrarietà: «Quelle di Le Drian - ha detto - sono parole inaccettabili che distorcono la realtà. Ci aspettiamo dagli amici che non si esprimano in maniera irresponsabile».
Da tpi.it il 28 maggio 2021. Totti verrà raggiunto nella capitale israeliana da quattro sorteggiati tra gli iscritti al concorso indetto dal noto marchio di birra, che seguiranno con lui lo scontro finale tra le due squadre inglesi. “Ciao Israele fans, sono molto felice di venire in Israele per partecipare alla fantastica esperienza della finale di Champions League con quattro di voi. Sarete la mia Totti team, un uomo, una squadra. See you soon“, dice il numero uno della Roma nel messaggio di lancio dell’iniziativa. La partenza di Totti per Tel Aviv arriva in un momento delicato, nel pieno del cessate il fuoco raggiunto tra Israele e il movimento nazionalista palestinese Hamas dopo giorni di ostilità che hanno provocato numerose vittime, ufficialmente 232 palestinesi a Gaza, di cui 65 bambini, e 12 in Israele, di cui due bambini. Motivo per cui la notizia della partenza del calciatore ha scatenato diverse polemiche, particolarmente forte è stato l’attacco di Chef Rubio. “Comunque la @OfficialASRoma è più vecchia dello stato illegale, teocratico, d’occupazione e apartheid israeliano fondato dai sionisti, gruppo di sadici fascisti, razzisti e colonialisti. Una carriera da Capitano per poi finire camerata“, scrive su Twitter il cuoco e attivista romano Gabriele Rubini.
Da laroma24.it il 31 maggio 2021. Fabio Sonnino e Samuele Giannetti sono romani di nascita e romanisti per fede e per passione. Ma più di tutto, sono il presidente e il vicepresidente della scuola calcio Roma club Gerusalemme, la città in cui vivono e lavorano da tantissimi anni. La foto, postata sui social, di Totti in posa dietro la bandiera del Club ha avuto immediatamente moltissime condivisioni. Ed ha finito per diventare una sorta di risposta implicita alle polemiche innescate nei giorni scorsi da Gabriele Rutini, nell’arte dei fornelli Chef Rubio, che su Twitter aveva attaccato l’ex giallorosso L’antefatto è la serata di sabato. Serata trascorsa dal Pupone in una villa vicino a Tel Aviv per vedere la partita di Champions che si giocava ad Oporto. Un evento promozionale organizzato da un noto marchio di birra. "Ma quella di Totti - spiega Samuele Giannetti — è stata un’operazione puramente commerciale che nulla ha a che vedere con le ultime tensioni in Israele. Tanto è un’operazione commerciale che allo stesso evento, negli anni passati, sono stati invitati Pirlo, Ronaldinho e Del Piero. E mai nessuno li ha attaccati». E quello di Totti, sabato scorso, era un altro dei suoi regali. «Prima della pandemia, a più riprese, siamo venuti a Roma a Trigoria con una piccola delegazione di giovani leve — spiega Sonnino — E Francesco li ha incantati coi palleggi e i tiri importa». Ragazzini col sogno di diventare calciatori, rapiti dalle prodezze del re del “cucchiaio”.
Giampiero Mughini per Dagospia il 28 maggio 2021. Caro Dago, non è facile indicare quali siano stati “crimini di guerra” dopo che le due parti in campo se le sono date di santa ragione. E’ impossibile farlo scegliendo gli episodi uno a uno, separati dal contesto. Ove i nazi avessero vinto la Seconda guerra mondiale, sui banchi degli accusati al modo del processo di Norimberga sarebbero andati i capi politici e militari britannici che avevano ordinato il mostruoso bombardamento di Dresda, una città tedesca che non ospitava installazioni militari. Vedo adesso che un tribunale dell’Onu punta il dito sui bombardamenti di Gaza ad opera dell’aviazione israeliana. Sono moltissimi i civili palestinesi uccisi da quei bombardamenti, molti i bambini vittime innocentissime. Non ci sono prove, sembrerebbe dire l’Onu, che gli edifici presi a bersaglio dai bombardieri israeliani ospitassero davvero installazioni militari. Nel suo comunicato l’Onu critica “anche” i 4000 razzi lanciati da Hamas su Israele a dove coglieva coglieva. Detta così mi sembra una bestialità inaudita, e lo dico da cittadino repubblicano dell’Europa del terzo millennio. Non ho nessun altro titolo per mettere becco sulla questione. Lo faccio solo per dire quanto sia palmare che alle origini della tragedia di questi undici giorni di distruzione e morte c’è l’operato brutale di una gang terroristica di nome Hamas, i cui primi prigionieri sono i cittadini palestinesi di Gaza. Non è che loro abbiano ammazzato meno bambini israeliani per una loro scelta generosa, non è che loro indirizzassero i razzi solo sulle caserme israeliane o sul quartiere generale del Mossad. Loro hanno fatto meno danni solo perché Israele ha un efficientissimo sistema di difesa contro i razzi e perché la buona parte di quegli ordigni ricadevano sullo stesso territorio di Gaza. Loro stavano semplicemente facendo la prova generale di quella che è la loro strategia finale e la loro ragion d’essere, distruggere Israele fino all’ultima sua donna e all’ultimo suo bambino. Niente di meno che questo, assolutamente niente. Poi succede che quando le ostilità comincino, l’orrore della contesa si dispiega in tutta la sua ampiezza, come racconta benissimo un film israeliano sulla guerra in Libano che ho rivisto qualche giorno fa in streaming. Lasciano allibiti di orrore i paesaggi urbani di una Gaza su cui sono piovute armi micidiali. Case distrutte, gente per strada che non ha più un tetto, bambini nelle braccia delle madri. Solo che tutto questo lo devono a Hamas, assolutamente lo devono a loro. Gaza fosse nelle mani di un gruppo dirigente tedesco o israeliano o nordeuropeo, in questi ultimi vent’anni avrebbe potuto diventare una ridente cittadina che si affaccia sul Mediterraneo. Molti di noi avrebbero scelto volentieri di passarci qualche giorno di vacanza, di tastare con mano le condizioni della gente palestinese, nostri fratelli né più né meno che la gente israeliana. E del resto le istituzioni europee e mondiali pagano dei buoni soldi alla gente di Gaza. Solo che quei soldi passano dalle mani criminali di Hamas, quelli che dopo aver vinto le elezioni a Gaza portarono su dopo averlo legato il cuoco di Abu Mazen e lo scaraventarono giù dal terzo piano, gente che li usa per costruire razzi e tunnel sotterranei. Qualsiasi discorso sugli undici giorni stramaledetti di guerra deve partire da questo presupposto, da questo giudizio di fatto. Se non lo fa non è un discorso ahimè quanto necessario sul futuro possibile di Gaza, e bensì cialtroneria.
Da “Swg” il 25 maggio 2021. IL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE. A otto anni dal conflitto israelo-palestinese del 2014, l’opinione degli italiani sulla responsabilità dei due schieramenti si mantiene stabile: per una larga parte, 4 rispondenti su 10, si tratta di concorso di colpa, mentre il 18% addita gli israeliani e il 9% i palestinesi. Aumenta però il senso di confusione per cui una quota crescente non se la sente di valutare (+17% rispetto al 2014). Insieme agli elettori del PD e dei Cinquestelle, la generazione Z (gli under 26) si schiera maggiormente con i palestinesi (+10%), in linea con il nuovo trend registrato negli Usa, dove molti teen si sono mobilitati online sotto l’hashtag #PalestinianLivesMatter. Sui mezzi impiegati da entrambi gli schieramenti la condanna è forte: 4 su 10 considerano i bombardamenti israeliani un crimine di guerra, 3 su 10 descrivono il lancio di razzi da parte di Hamas come un atto terroristico. In merito alle cause del conflitto, oggi oltre un terzo del campione indica la dimensione geopolitica di competizione internazionale nell’area, prima ancora del movente religioso o di politica interna.
All’Europa i cittadini italiani chiedono di condannare le violenze e muoversi con gli strumenti diplomatici (43%): l’invio di ispettori o forze di pace e l’uso di sanzioni sono citate solo da una minoranza. Escluso invece da tutti il supporto militare.
Israele e Hamas siglano il cessate il fuoco: dopo 11 giorni di guerra stop a raid e razzi. Redazione su Il Riformista il 20 Maggio 2021. La notizia tanto attesa è arrivata. Dopo un conflitto arrivato ormai all’undicesimo giorno, con 227 morti nella Striscia di Gaza (tra cui 65 bambini e 39 donne) e 12 in Israele, arriva la tregua tra lo Stato ebraico e Hamas, il gruppo politico-militare che controlla il lembo di terra ‘casa’ dei palestinesi. Le forti pressioni internazionali, a partire da quelle del presidente americano Joe Biden, hanno avuto un risultato concreto: il gabinetto di sicurezza israeliano, riunitosi per circa tre ore, ha votato all’unanimità per il cessate fuoco. Notizia poi confermata dall’ufficio del premier Netanyahu, in un comunicato nel quale si afferma che i ministri hanno concordato “di accettare l’iniziativa egiziana per un cessate il fuoco reciproco senza condizioni”. Una mossa arrivata dopo la presentazione ai ministri israeliani, da parte dell’esercito, degli vi militari raggiunti durante l’operazione ‘Guardiano delle Mura’, alcuni di questi “senza precedenti”. Un cessate il fuoco confermato dalla controparte palestinese, Hamas, che ha definito l’accordo “simultaneo e reciproco”. Il cessate il fuoco entrare in vigore dalle 2 del mattino di venerdì, l’una di notte in Italia. L’accordo è commentato positivamente dal ministro degli Esteri palestinese Riad Al-Malki, che dal Palazzo di Vetro dell’Onu all’ufficialità della notizia ha spiegato: “È un bene che il popolo palestinese, gli oltre 2 milioni di loro a Gaza, potranno dormire stanotte sapendo che domani avranno un clima migliore. Ma non è abbastanza, non è affatto abbastanza”. L’ipotesi di uno stop al conflitto era stata rilanciata questa mattina dal Wall Street Journal citando fonti vicine ai negoziati, secondo le quali i mediatori egiziani avevano compiuto “progressi nei colloqui con i leader di Hamas”. Il giornale economico statunitense scriveva infatti che Israele aveva “ammesso” di essere vicino al raggiungimento dei suoi obiettivi militari e che un cessate il fuoco poteva essere “imminente, possibilmente entro 24 ore”, secondo quanto confermato anche da fonti vicine ad Hamas alla Cnn. Nella notte era arrivato l’ulteriore pressing americano, col confronto tra il segretario di Stato americano Antony Blinken e l’omologo israeliano Gabi Ashkenazi in cui il ‘ministro degli Ester’ Usa aveva ribadito di aspettarsi “una de-escalation sulla strada per un cessate il fuoco”. Conferme arrivate anche su Twitter, dove Blinken aveva spiegato di aver discusso al telefono degli “sforzi per mettere fine alla violenza in Israele, Cisgiordania e Gaza, che ha causato la perdita di vite di civili israeliani e palestinesi, compresi bambini”.
Israele-Palestina: perché le guerre scoppiano sempre a Gaza. Francesco Battistini e Milena Gabanelli il 21 maggio 2021 su Il Corriere della Sera. La pace impossibile. Uno dei più lunghi conflitti della storia moderna. L’origine di tutti i focolai in Medio Oriente. Dal 1946 a oggi, l’Assemblea generale dell’Onu ha approvato 700 risoluzioni, più di 100 ne ha votate il Consiglio di sicurezza. La comunità internazionale ha esaminato almeno 20 piani di pace. Ma dopo 54 anni d’occupazione dei Territori palestinesi, adesso che fra arabi e israeliani siamo entrati nella dodicesima guerra in più di 70 anni, qualunque soluzione sembra lontanissima.
Sette anni di calma. Era dall’estate 2014 che non si sentivano squillare le sirene con tanta frequenza. Una quiete, solo apparente, perché negli ultimi sette anni quasi 200 palestinesi sono rimasti vittime d’attacchi aerei o d’operazioni di terra; diversi soldati israeliani sono stati uccisi, con decine di civili feriti, e 163 attentati a quei coloni ebrei che, dal 1967, hanno progressivamente occupato la Cisgiordania. E 1.920 palestinesi sono stati feriti dalla polizia, con 8.139 uliveti di proprietà araba vandalizzati dai coloni. Come mai questa linea è stata superata proprio ora? Da una parte c’è Netanyahu, al quinto mandato, bersagliato da inchieste per corruzione, frode e abuso d’ufficio, e senza una maggioranza di governo. Dall’altra parte, i palestinesi che restano divisi. In Cisgiordania, dal 2006 è presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, 85 anni, leader del partito Fatah, ma il suo mandato è scaduto da dodici anni: non si va mai alle urne perché tutti i sondaggi prevedono una vittoria del movimento islamico di resistenza Hamas. Nato negli anni ’80, durante la protesta palestinese della Prima Intifada, nel 2006 prese il controllo della Striscia di Gaza. È un movimento che dichiara incompatibile Israele con una Repubblica islamica di Palestina. E Israele, al pari degli Usa e della Ue, lo considera un’organizzazione terroristica.
Gli amici di Hamas. È questa spaccatura palestinese a spiegare perché, negli ultimi quindici anni, il conflitto si sia concentrato sempre su Gaza. Hamas gode dell’amicizia d’un grande sponsor politico come la Turchia di Recep Erdogan, che dal 2010 tenta di forzare il blocco israeliano intorno alla Striscia. Secondo i servizi israeliani e lo stesso Abu Mazen, però, oggi è l’Iran il grande amico di Hamas. Il finanziamento diretto è per circa 6 milioni di dollari al mese, arrivati fino a 30 negli ultimi due anni. Una cifra versata attraverso gli islamici di Hezbollah che controllano il Sud del Libano. Gli Hezbollah sono sciiti come gli ayatollah di Teheran e si battono, come Hamas, per la distruzione del vicino Israele.
2015: accordo sul nucleare. Dunque per Netanyahu, gli iraniani sono il nemico numero uno. A causa del programma atomico, ripreso nel 2002, che secondo l’Onu ha anche scopi militari e viola il Trattato internazionale di non proliferazione nucleare. Nel 2015 i cinque Paesi del Consiglio di sicurezza Onu, Germania e Ue, hanno firmato con l’Iran un accordo voluto dal presidente americano Obama e osteggiato da Netanyahu, che prevede tra l’altro la fine delle sanzioni economiche imposte dall’Occidente a Teheran. Quel patto è stato una svolta. Ha normalizzato le relazioni tempestose con l’Iran. È da quel momento che contro Israele si sono raffreddate anche le ostilità di Hamas e del piccolo gruppo sunnita che lo fiancheggia, il Movimento per il Jihad in Palestina responsabile di molti attacchi suicidi e finanziato, pure lui, dagli Hezbollah filoiraniani.
2018: l’inversione di Trump. Poi è arrivato Trump, che nel 2018 ha stracciato l’accordo sul nucleare. Non solo: trasferisce l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendola come capitale unica e indivisibile d’Israele. E ha ribaltato le alleanze, riavvicinandosi ai tradizionali alleati dell’Arabia Saudita, grandi nemici tanto dell’Iran quanto della Turchia.
L’inversione a U americana è stata la grande vittoria diplomatica di Netanyahu. E infatti dopo di essa, con la stessa puntualità con cui s’erano fermati, sono ricominciati fra Israele e Teheran gli scontri per aria (colpite in Siria le postazioni delle milizie sciite, finanziate dall’Iran), per mare (con incursioni sui cargo israeliani e sulle petroliere iraniane che transitano per il Golfo d’Arabia) e per terra, con due attentati alle centrifughe nucleari di Natanz. Dall’Iran, sono ripartite verso Gaza forniture d’armi sempre più sofisticate. E dopo dieci anni, è ripresa la campagna di eliminazione degli scienziati iraniani che lavorano al nucleare: il 27 novembre scorso è stato ucciso Mohsen Fakhrizadeh, capo del programma atomico di Teheran. Un assassinio che è seguito a quello, nel gennaio 2020, del generale Qassem Soleimani, il potente capo delle Guardie della Rivoluzione, colpito sulla sua auto da un drone americano.
Pioggia di dollari. La rottura definitiva dell’amministrazione Trump con l’Iran ha portato, il 13 agosto 2020, alla cosiddetta «Pace di Abramo»: l’accordo tra Israele e i più ricchi dei Paesi arabi, Emirati e Bahrein, di tradizione musulmana sunnita e quindi contrapposti agli sciiti iraniani. La «Pace di Abramo» ha un significato politico ben preciso e serve a dirci una cosa: che la soluzione dei Due Popoli e Due Stati, ipotizzata dagli accordi di pace di Oslo e firmata nel 1993 da Rabin e Arafat, non è più una condizione. In altre parole: il mondo arabo non si impunta per contendersi Gerusalemme, i confini restano quelli di oggi senza tirare più in ballo quelli precedenti la guerra dei Sei Giorni del 1967, e i profughi del 1948 in Libano e Giordania restano dove stanno. L’accordo – ammesso che il presidente Joe Biden voglia mantenerlo - prevede una pioggia di soldi sulla Cisgiordania di Abu Mazen, sempre più corrotta e dipendente dagli aiuti internazionali: 50 miliardi di dollari in investimenti stranieri per i prossimi dieci anni, assieme alla promessa d’un Pil raddoppiato entro il 2030, d’un milione di posti di lavoro, della povertà ridotta del 50%, d’un export schizzato dal 17 al 40% del Pil, d’un ranking della Banca mondiale pari a quello del Qatar.
L’avanzata degli insediamenti. Non è detto che i soldi bastino. E basti un accordo disegnato a tavolino nel 2020, peraltro senza i palestinesi. Il pericolo d’una Terza Intifada, se mai scoppierà, è legato a quel che s’è mosso in questi anni di tregua armata. Il complotto di corte contro il re di Giordania — che in aprile ha portato all’arresto del fratellastro del sovrano Abdallah, sospettato di voler rovesciare una famiglia regnante dove la regina (Rania) è una palestinese — anche questo rientra nei timori d’un allargamento della questione palestinese, dove i profughi dalla Cisgiordania sono il 70%. Il sogno d’Abramo rivela i suoi limiti. Due dei tre Paesi che hanno aderito — Emirati, Bahrein — hanno già protestato per le bombe su Gaza. E intanto nei Territori palestinesi non s’è fermata la sistematica violazione dei diritti umani, assieme alla politica degli espropri e degli insediamenti illegali d’Israele. «Più che coi nemici, mi sembra di trattare con agenti immobiliari», un giorno ironizzò amaro il negoziatore palestinese Saeb Erekat, calcolando il tempo a favore delle betoniere che costruiscono insediamenti: nel 2025, i coloni saranno più di 700mila. Un settimo della popolazione palestinese in Cisgiordania. A quel punto sarà la geografia, prima di qualsiasi guerra con Hamas, a impedire definitivamente la nascita di uno Stato palestinese.
E l’Europa. Piccola postilla. C’era una volta la Ue, che si batteva per il rispetto degli accordi di Oslo. «Ormai il conflitto coinvolge più gli euro che l’Europa», disse il famoso mediorientalista, Nathan Brown. E infatti ci laviamo la coscienza finanziando l’Autorità palestinese, che senza i nostri soldi non vivacchierebbe: abbiamo evitato di disturbare il manovratore politico, finché era solo l’America, ma i giochi adesso possono farsi più complessi. Le guerre, più dure. E agli europei si chiederebbe un ruolo diverso.
Soleimani, la “confessione” di Israele. Lorenzo Vita su Inside Over il 23 dicembre 2021. L’uccisione di un nemico non è mai una notizia da dare facilmente. Significa svelare di fronte al mondo quello che viene solo sospettato o detto a mezza bocca. La conferma di una campagna precisa, chirurgica, a volte anche plateale ma senza alcuna vera ammissione di colpa.
Israele, in questo senso, compie da molti anni operazioni di raid e omicidi mirati in cui il suo nome non appare da nessuna parte, ma solo sospettato. È una verità che tutti conoscono eppure che nessuno può dire con certezza, perché sono gli stessi vertici dello Stato ebraico a non dire mai con certezza quando e se colpiscono, nemmeno a fatto avvenuto. Un po’ come avviene da diversi anni in Siria, dove i raid dell’aeronautica israeliana sono ormai regolari eppure le Idf, le Israel defense forces, evitano in ogni caso eccessi di trionfalismo. E lo stesso avviene con i cosiddetti omicidi mirati: quelle operazioni dei servizi di intelligence in cui vengono uccisi gli elementi più importanti degli apparati nemici e in cui non esistono conferme, se non in inchieste giornalistiche o rivelazioni di gole profonde più o meno volute per inviare un segnale. Basti pensare al caso dello scienziato Mohsen Fakhrizadeh, uno dei vertici del programma nucleare iraniano. Lo stesso dicasi per Baha Abu al Ata, guida del braccio militare della Jihad islamica, ucciso da un raid israeliano a Gaza mentre era nella propria abitazione. E sono solo alcuni degli ultimi episodi in cui si parla di veri e propri omicidi chirurgici compiuti da forze militari e agenti segreti dello Stato ebraico.
Stupisce, quindi, (anche se ultimamente non troppo, e scopriremo perché) che Israele, tramite le parole dell’ex capo dell’intelligence militare, generale Tamir Hayman, abbia ammesso il coinvolgimento nell’omicidio di Qasem Soleimani. Il generale iraniano, vertice dei Pasdaran iraniani e a capo delle operazioni all’estero dei Guardiani della rivoluzione, venne ucciso nel gennaio del 2020 in un attacco con un drone condotto dagli Stati Uniti all’aeroporto di Baghdad. In una intervista alla rivista Malam pubblicata dall’Israel Intelligence Heritage and Commemoration Center, Hayman ha affermato che l’eliminazione di Soleimani “fu un successo perché ai nostri occhi il nemico principale è l’Iran”. “È raro che un uomo di grado talmente elevato sia al tempo stesso l’organizzatore della forza combattente, uno stratega e anche colui il quale impartisce ordini”, ha spiegato il generale, il quale ha aggiunto che “Soleimani rappresentava un forte potenziale di danno per la stabilità della regione, era la locomotiva del treno dell’espansione iraniana”. Il generale, che ha terminato il suo incarico a ottobre, ha poi confermato che esistono “due omicidi significativi e importanti” avvenuti durante il suo mandato. Uno è appunto quello di Soleimani, l’altro, citato in precedenza, quello di Abu al-Ata.
Per Israele si tratta di un’ammissione che non è solo la confessione di un ex vertice dell’intelligence militare. Da tempo lo Stato ebraico ha scelto una strada diversa anche nel modo di comunicare: per certi versi anche più sfacciata. Da un lato si inviano segnali molto diretti all’avversario regionale, l’Iran, in un momento di tensione per i pochi risultati sul negoziato per il programma nucleare. Dall’altro lato, il messaggio è rivolto a tutti coloro che sono considerati nemici dagli apparati israeliani: non è solo un avvertimento rivolto a Teheran, ma, come dimostrato anche dalla conferma dell’assassinio di uno dei leader della Jihad islamica, anche per tutti coloro che costruiscono una strategia contro Israele. L’omicidio mirato diventa quindi un’arma al pari di un raid: un metodo pubblico, non per questo ritenuto migliore, ma sicuramente accettabile. Ed è un importante punto di svolta anche per i rapporti di vicinato e con vecchi e nuovi alleati: l’intelligence sa come, dove e chi colpire. Anche più degli Stati Uniti.
Hamas minaccia: "Residenti Tel Aviv state attenti". Guerra di Gaza, Israele bombarda grattacielo sede di Al-Jazeera e AP: “Inorriditi, il mondo saprà meno cose ora”. Redazione su Il Riformista il 15 Maggio 2021. Israele ha abbattuto il grattacielo Al Jala, che agli ultimi piani ospita gli uffici dei media di Al Jazeera e Associated Press e di altre agenzie di informazioni, perché “Hamas lo usava come nascondiglio”. Prosegue la guerra nelle Striscia di Gaza con l’ultimo bombardamento che ha fatto crollare l’edificio di 12 piani. In precedenza Israele aveva bombardato i tunnel dei miliziani costruiti dopo lo scontro del 2014 e un campo profughi provocando la morte di diversi bambini. “Hamas ha trasformato zone residenziali a Gaza in postazioni militari”. Ha giustificato così l’attacco il portavoce militare israeliano. “Usa edifici elevati a Gaza per fini militari di vario genere come la raccolta di informazioni di intelligence, la progettazione di attacchi, operazioni di comando e controllo, e per le comunicazioni”. Il portavoce ha aggiunto che la aviazione israeliana ha avuto cura di non colpire civili, “ricorrendo a messaggi sms” e “colpendo preventivamente il tetto” dell’edificio con un primo attacco di avvertimento “che fa rumore e non danni”. “Tutti i grattacieli colpiti da Israele erano sfruttati per fini militari”, ha rimarcato, specificando che “quando Hamas utilizza un edificio elevato per fini militari, esso diventa un obiettivo militare legittimo. Il diritto internazionale è chiaro”. All’attacco è seguita la reazione di Hamas, che ha minacciato nuovi razzi contro Tel Aviv. Abu Obeida, portavoce dell’ala militare, le Brigate Izz al-Din al-Qassam, ha annunciato una dura reazione: “I residenti di Tel Aviv e del centro d’Israele devono stare attenti”, ha detto, citato da Times of Israel. In precedenza, l’ultimo lancio di razzi su Tel Aviv aveva provocato un morto in un edificio colpito a Ramat Gan, sobborgo cittadino. La vittima è un uomo di 50 anni, colpito nel suo appartamento dalle schegge innescate dall’esplosione. Hamas ha fatto sapere che l’attacco è “la vendetta” per i morti nella famiglia Abu Hatab, colpita a Gaza all’alba, con unico superstite un bimbo di pochi mesi.
La reazione di AP: “Scioccati e inorriditi”. “Siamo scioccati e inorriditi dal fatto che l’esercito israeliano abbia preso di mira e distrutto l’edificio che ospita l’ufficio di AP e altre organizzazioni giornalistiche a Gaza. Conoscevano da tempo l’ubicazione del nostro ufficio e sapevano che c’erano dei giornalisti. Abbiamo ricevuto un avviso che l’edificio sarebbe stato colpito”, ha dichiarato il presidente dell’agenzia americana AP Gary Pruitt, “Stiamo cercando informazioni dal governo israeliano e siamo impegnati con il dipartimento di Stato degli Stati Uniti per cercare di saperne di più. Questo è uno sviluppo incredibilmente inquietante. Abbiamo evitato per un pelo una terribile perdita di vite umane. Una dozzina di giornalisti e liberi professionisti di AP erano all’interno dell’edificio e per fortuna siamo stati in grado di evacuarli in tempo”. “Il mondo”, ha concluso Pruitt, “saprà meno di ciò che sta accadendo a Gaza a causa di ciò che è accaduto oggi”.
La Casa Bianca: “Garantire incolumità giornalisti”. “Abbiamo comunicato agli israeliani che garantire la sicurezza e l’incolumità dei giornalisti e dei media indipendenti è una responsabilità fondamentale”. Lo ha scritto su Twitter la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki.
Giornalista Al Jazeera: “Lavoriamo in ospedale”. E’ l’ospedale Al Shifa di Gaza City “l’unico posto più sicuro che conosciamo” e dove “siamo in grado di lavorare”. A riferirlo è la giornalista di Al Jazeera Youmna al-Sayed che ha poi spiegato che il proprietario dell’edificio ha ricevuto e quindi comunicato l’ordine di evacuazione soltanto un’ora prima dell’attacco e che i militari israeliani hanno rifiutato di concedere ulteriore tempo.
Unicef: “40 bambini uccisi e 38 scuole danneggiate”. “Ieri sera, altri 8 bambini palestinesi sono stati uccisi nella Striscia di Gaza. Il più piccolo aveva 4 anni, il più grande 15. Dall’inizio dell’escalation 5 giorni fa, 40 bambini sono stati uccisi nella Striscia di Gaza e 2 in Israele. Questi sono bambini. Questa è una grave violazione”. E’ quanto rende noto l’UNICEF. “Decine di altri bambini sono stati feriti. Molti giovani palestinesi sono stati arrestati”, prosegue il Fondo Onu per l’infanzia, aggiungendo che “35 scuole nella Striscia di Gaza e 3 scuole in Israele sono state danneggiate dalle violenze. Gli attacchi alle scuole e alle strutture educative rappresentano una grave violazione contro i bambini”.
Francia, tensioni al corteo pro-Palestina. In decine di città francesi si stanno tenendo manifestazione a sostegno dei palestinesi mentre continua il conflitto tra Israele e Hamas. L’attenzione è concentrata in particolare su Parigi dove i manifestanti hanno deciso di marciare nonostante il divieto emesso dalle autorità e confermato dal tribunale amministrativo. Il capo della polizia di Parigi Didier Lallement ha ordinato la chiusura dei negozi intorno al punto di partenza della marcia in un quartiere operaio nel nord di Parigi. Gli organizzatori hanno affermato che intendono “denunciare le aggressioni israeliane” mentre la polizia ha avvertito che userà gli idranti contro chi sfida il divieto. Le proteste sono state consentite in numerose altre città, tra cui Lille e Marsiglia. Le autorità hanno giustificato il divieto a Parigi ricordando che nel 2014 una protesta pro-palestinese vietata contro l’offensiva israeliana a Gaza è degenerata in violenze e scontri con la polizia. L’escalation degli attacchi missilistici tra Israele e Hamas ha messo a dura prova le autorità francesi, che temono il conflitto possa accendere violente proteste nel Paese.
Manifestazioni pro-Palestina anche in Inghilterra. Un fiume di manifestanti a sostegno della Palestina ha sfilato per le vie di Londra lungo Hyde Park verso l’ambasciata israeliana a Kensington. Lo riporta il sito della Bbc. Alcuni fumogeni rossi e verdi – riferisce l’emittente britannica – sono stati salutati da applausi dai manifestanti che sventolavano bandiere palestinesi. Tra i cori “Palestina libera” chiedono che Israele fermi gli attacchi aerei e che il governo britannico intervenga.
Gianluca Perino per "il Messaggero" il 17 maggio 2021. «Se cercheremo di eliminarli? Certo. Chiunque ha organizzato e sta mettendo in pratica questo attacco nei confronti di Israele è un nostro target». L'alto ufficiale dell'IDF, l'esercito di Gerusalemme, per ragioni di sicurezza preferisce mantenere l'anonimato. Ma non fa giri di parole. E spiega che in cima alla lista dello Stato ebraico ci sono soprattutto i tre pezzi da novanta di Hamas che stanno dirigendo le operazioni dall'interno della Striscia: Yahya Sinwar (il cui covo è stato distrutto la scorsa notte ma, a quanto pare, lui si è salvato), Mohammed Deif e Marwan Issa. Ma chi sono questi uomini? E che posto occupano nella catena di comando dell' organizzazione terroristica?
I DOCUMENTI Secondo i rapporti dell'intelligence israeliana il più pericoloso è Mohammed Deif. Il 55enne nato a Khan Younis, nella parte Sud della Striscia, è il potente capo dell'ala militare di Hamas ed è l'uomo che ha progettato e fatto realizzare la rete di tunnel (costata oltre un miliardo di dollari) che doveva servire per spostare armi, difendere Gaza da una eventuale invasione via terra e consentire ai vertici dell'organizzazione terroristica di muoversi con maggiore facilità e meno rischi. Un'opera faraonica, che però è stata di fatto smantellata un paio di giorni fa da una serie di raid israeliani. Non solo. L'IDF, nelle scorse ore, è riuscito anche ad uccidere alcuni dei fedelissimi di Deif, che adesso è più solo e, in parte, anche più vulnerabile. Ma non è detto che per questo sia più facile da colpire. «Nelle nostre operazioni - spiega ancora l'ufficiale dell'IDF - dobbiamo sempre tenere conto della popolazione civile di Gaza, che Hamas sfrutta per raggiungere i propri scopi. Non vogliamo fare vittime innocenti. I terroristi, invece, non hanno scrupoli. Anzi, sperano che muoiano più palestinesi possibile per giustificare la loro esistenza con l'Iran e gli altri sponsor. E per cercare di portare la comunità internazionale dalla loro parte». È quindi molto difficile raggiungere Deif sul proprio terreno. Anche perché spesso, per evitare di essere colpiti, i capi di Hamas si mischiano alla popolazione civile, tenendo riunioni in scuole e in altri uffici pubblici.
GLI ATTENTATI Oltretutto, Mohammed Deif è già sfuggito a cinque tentativi di eliminazione da parte israeliana. Attacchi che gli hanno causato anche pesanti danni fisici (cieco da un occhio, è stato gravemente ferito alla spina dorsale e deve muoversi su una sedia a rotelle) ma dai quali alla fine è riuscito sempre ad uscirne vivo. Gerusalemme gli dà la caccia da oltre venti anni, perché è ritenuto responsabile, tra le altre cose, dell'uccisione dei soldati Shahar Simani, Aryeh Frankenthal e Nachshon Wachsman, e di alcuni attentati agli autobus a Gerusalemme e Ashkelon che hanno causato la morte di oltre cinquanta cittadini israeliani. In realtà è una specie di fantasma, si muove con grande attenzione e frequenta una cerchia molto ristretta di fedelissimi. Tanto è vero che in circolazione ci sono pochissime foto che lo ritraggono e tutte risalenti ad almeno venti anni fa.
GLI ALTRI Ma in cima alla lista ci sono anche Yahya Sinwar e Marwan Issa. Il primo, scampato all'attacco di ieri, è il capo di Hamas di Gaza, in pratica il numero due del movimento guidato da Ismail Haniyeh. Come Deif è nato a Khan Yunis, in un campo profughi, 59 anni fa. Alle sue spalle ha una lunga scia di crimini, che gli hanno garantito la scalata all'interno dell'organizzazione. È stato anche catturato e condannato a quattro ergastoli per il rapimento e l'uccisione di due soldati israeliani. Ma poi è uscito di prigione grazie ad uno scambio di prigionieri per il soldato israeliano Gilad Shalit. Grazie a questa opportunità è potuto rientrare a Gaza nel 2011, dove ha preso il comando di Hamas a partire dal 2017. Tra i tre, quello di peso minore è sicuramente il 56enne Marwan Issa, che però ricopre comunque una posizione di spicco all'interno dell'ala militare di Hamas. E che, soprattutto, gode della fiducia di Mohammed Deif.
Mattatoio Gaza. Piccole Note il 19 maggio 2021 su Il Giornale. Amira Hass verga un durissimo atto di accusa contro i bombardamenti di Gaza in una nota pubblicata da Haaretz dal titolo: “Gaza viene cancellata: Israele sta spazzando via intere famiglie di proposito”. Secondo la Hass, che si rifà a fonti dell’organizzazione israeliana B’Tselem e delle Nazioni Unite, nel corso dei bombardamenti alcuni edifici sono stati abbattuti, “per quanto è noto, senza alcun preavviso” che permettesse agli occupanti di “evacuare le case prese di mira”, come invece è accaduto per altri target, come ad esempio la Torre che ospitava al Jazeera, l’Associated Presse e altri media internazionali. Da qui l’alto numero dei civili uccisi, di cui molti bambini. “Spazzare via intere famiglie attraverso i bombardamenti israeliani è stata una delle caratteristiche della guerra del 2014″, scrive la Hass. “Nei circa 50 giorni di guerra, i dati delle Nazioni Unite dicono che 142 famiglie palestinesi furono cancellate (742 persone in totale). I numerosi incidenti di ieri e di oggi attestano che non si trattava di errori: e che il bombardamento di una casa con tutti i suoi occupanti ancora al suo interno dipende da una decisione dall’alto, esaminata e approvata dai giuristi che supportano i militari”.
Nessun preavviso. Nel 2014, scrive la Hass, tante vittime innocenti furono causate dal fatto “che l’esercito israeliano non ha fornito alcun preavviso ai proprietari della casa [presa di mira] né agli inquilini; o dal fatto che l’avviso non ha raggiunto l’indirizzo corretto in tempo”. Quindi, dopo aver elencato vari casi in cui i bombardamenti sono stati preceduti da un preavviso per salvare i civili, spiega: “Il fatto stesso che l’esercito israeliano e lo Shin Bet [l’intelligence militare ndr] si preoccupino di chiamare e ordinare l’evacuazione delle case dimostra che le autorità israeliane hanno i numeri di telefono correnti degli abitanti di ogni struttura che stanno per distruggere. E hanno i numeri di telefono dei parenti delle persone sospettate o note per essere attiviste di Hamas o della Jihad islamica”. “Il registro della popolazione palestinese, compreso quello di Gaza, è nelle mani del ministero dell’Interno israeliano. e ha dettagli come nomi, età, parenti e indirizzi”. Ciò perché l’Autorità palestinese deve comunicare a Israele nuovi nati, indirizzi e quanto altro, continua la Hass. Informazioni che prima di essere ufficializzate devono “ricevere l’approvazione israeliana, perché senza di essa i palestinesi non possono ricevere la carta d’identità quando sarà il momento o, nel caso di minori, non potranno viaggiare da soli o con i loro genitori attraverso i valichi di frontiera controllati da Israele”, viaggi necessari per quanti si recano a lavorare fuori dalle ristrettezze economiche della Striscia o altro. “È chiaro, quindi, che l’esercito conosce il numero e i nomi dei bambini, delle donne e degli anziani che vivono in ogni edificio residenziale che bombarda”, conclude la Hass. Di obiettivi militari e non. L’altro corno della questione riguarda il motivo per cui un edificio viene abbattuto, cioè la sua definizione di “obiettivo militare”, riguardo al quale non è previsto alcun preavviso ovviamente, che prevede uno spettro molto ampio di possibilità. La Hass spiega che alcuni degli edifici abbattuti “sono stati individuati come infrastrutture operative o di comando e controllo dell’organizzazione o infrastrutture terroristiche, anche se tutto ciò che avevano era un telefono o semplicemente aveva ospitato una riunione” di membri dell’organizzazione. Infine, flessibile è anche il concetto di “proporzionalità” sul quale si basano le operazioni dell’esercito israeliano, che soppesa anche la possibilità e l’entità dei “danni collaterali” dei bombardamenti. “Una volta che l”importanza’ di un membro di Hamas è considerata alta e la sua residenza è identificata come obiettivo legittimo per i bombardamenti, il danno collaterale ‘ammissibile’,- in altre parole il numero di persone innocenti uccise, compresi bambini e neonati – diventa molto ampio”. Commovente la nota della Hass, che elenca nomi e cognomi dei civili innocenti morti a Gaza: ad oggi sono 213, di cui 63 bambini. Resta che anche Hamas non è che lanci fiori sul territorio israeliano, e che i civili innocenti ebrei sono altrettanto importanti, sia i vivi che, purtroppo, i morti, che sono. Detto questo Hamas non ha armi di precisione: un razzo al massimo può essere indirizzato verso una città, non su un obiettivo più specifico, al contrario della controparte, che sa dove e quando colpire. Importante un altro articolo di Haaretz, firmato da Amos Harel, che spiega come nel corso dei colloqui intercorsi in questi giorni tra i più importanti esponenti politici israeliani e i capi dell’esercito è emerso che la “stragrande maggioranza di essi ritiene che l’ operazione a Gaza sia prossima alla conclusione”. Gli obiettivi strategici sarebbero cioè stati conseguiti, dato che all’esercito era stato dato mandato di tagliare le unghie ad Hamas e ripristinare la deterrenza, non altro e più radicale.
Ma, spiega, Harel, Netanyahu vuole una “vittoria netta”, un successo che si riverberi anche nell’ambito politico israeliano. A tale proposito ricorda che il suo rivale Yair Lapid ha ancora due settimane di tempo per cercare di formare un governo alternativo al suo, come da mandato del presidente di Israele. “Nulla di nuovo sotto il sole”, conclude Harel, conclusione alla quale ci associamo. Il mattatoio continua.
L'escalation a Gaza. “I media non cedano alla propaganda di Hamas”, intervista a Noemi Di Segni. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 20 Maggio 2021. Dolore, inquietudine e rigetto di una visione propagandistica della tragedia che si sta consumando a Gaza e in Israele. Sono i sentimenti che dominano nell’ebraismo italiano e di cui Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei), si fa interprete in questa intervista a Il Riformista.
Bombe, razzi, morte e distruzione. A Gaza, in Israele. Quali sentimenti prova di fronte a tutto ciò?
Tantissima tristezza, tantissima angoscia e tantissima disperazione e struggimento. Lo strazio è anche per il crimine di donne e bambini utilizzati come scudi umani. Uffici e centrali terroristiche ubicati nei palazzi ordinari civili. Perché? Poi si comincia a ragionare sui ma e i però e i perché. Tutta l’analisi lato israeliano è un’analisi lunga e complessa. Come comunità ebraiche abbiamo a cuore questa situazione sia per l’identità ebraica che abbraccia e comprende Israele e una storia che comprende tutto il sentire ebraico. Per noi Israele è un punto di riferimento e lo Stato d’Israele va difeso e ha il diritto di difendersi e di essere riconosciuto e salvaguardato. Questo da un punto di vista da qui verso Israele. Ma poi da Israele a qui: quello che succede nei territori israeliani, nei territori che sono il controllo dell’Autorità Palestinese, genera un quadro di pressioni e di sentimenti in qualsiasi altra parte del mondo e anche dove ci sono le comunità ebraiche che a loro volta ricevono l’eco di quello che succede in maniera molto forte, come esplicitazione di antisemitismo a livello locale.
Qual è il segno di questo antisemitismo?
È un antisemitismo che nasce da una rappresentazione assolutamente appiattita e monocolore, frutto di una propaganda ben studiata della parte palestinese nelle sue varie articolazioni. L’Autorità Palestinese, il terrorismo palestinese, Hamas e le altre organizzazioni palestinesi hanno un disegno ben preciso, ben chiaro che non accetta l’esistenza d’Israele. E su questo è assolutamente necessario che governi e media capiscano con chi si ha a che fare, con il supporto di potenze note, Iran, Turchia, Qatar… All’interno di questo disegno di distruzione c’è l’uso della propaganda. Israele non mostra le proprie vittime, né quelle degli altri. E non le fa vedere, quelle degli altri, non per negarle, ma perché non crede che sia un modo di comunicare in una situazione di questo genere. Non fa vedere i propri cittadini feriti, massacrati, assassinati. Non li esibisce. Lo stile urlante, quello della propaganda, non ci appartiene. E qui torno ad Hamas…
E alla sua “guerra” di propaganda…
Una propaganda fatta di immagini struggenti, molto gravi che alcuni giornali italiani hanno messo in evidenza. Cosa che non è stata fatta in anni e anni di conflitti e di guerre. Neanche i bambini siriani venivano messi così sulle pagine dei giornali per creare pietà nel mondo per quel che succede in altri Paesi con guerre tuttora in corso. Ma per la Palestina sì. C’è un modus operandi giornalistico che favorisce la condivisione di immagini, materiali che sono propaganda, non informazioni che arrivano dal lato palestinese. O immagini completamente costruite ad arte, inesistenti nella realtà, di come i soldati israeliani trattano bambini o donne palestinesi. Immagini inventate totalmente, come è facilmente dimostrabile. Questo è qualcosa di letale. Usare una propaganda che penetra a gocce, a gocce che diventano fiumi, nell’opinione pubblica, non solo palestinese ma nei media internazionali ed europei, che finisce per supportare l’azione di chi mira alla distruzione, all’annientamento totale d’Israele e del suo popolo. Questo è esattamente quello che è accaduto prima della Seconda Guerra mondiale. È esattamente la stessa cosa. L’alert io lo rivolgo a chi deve imparare a distinguere un linguaggio da un altro. Questo genera ulteriore stress e ansia. Non si tratta di fare pace “al mignoletto” come fra bambini che hanno litigato. Siamo davanti a una situazione storica e geopolitica estremamente complessa, perché comporta tante ideologie e tanti interessi che vanno anche oltre i confini d’Israele e dei due popoli. Due popoli, due Stati, si ripete.
Impossibile?
È uno slogan troppo facile. Due popoli esistono, ma due Stati con chi? Con chi si fa questo Stato palestinese? Questo è l’enorme punto interrogativo irrisolto. E va ricordato che la proposta di costituire lo Stato palestinese è stata fatta nel ’47, è stata fatta da Ehud Barak nei negoziati di Camp David e fu risposto no. È stato liberato il territorio di Gaza che da anni non è più sotto controllo. È stato fatto il ritiro unilaterale da parte di Sharon, dopo di che si è detto: organizzatevi in questo territorio. E quel territorio, la Striscia di Gaza, ha un confine con Israele e ha un confine con l’Egitto. Perché quel territorio ha oggi quell’assetto, mentre gli altri territori hanno un assetto diverso? Ci sarà una spiegazione legata anche a chi controlla quei territori per davvero. Perché Israele riesce ad arrivare ad accordi di pace con altre potenze arabe e qui no? Non può essere solo la “cattiveria” israeliana che vuole distruggere il popolo palestinese. Se avessimo voluto distruggere Gaza, perché allora le operazioni sono così mirate, chirurgiche? Se uno davvero odiasse, se davvero fossimo come siamo dipinti, allora basterebbe una bomba per radere al suolo tutto in tre minuti. Non è stato fatto perché è chiaro che non è questa la volontà, il disegno. Io vorrei con tutto il cuore che il popolo palestinese vivesse in una situazione di raccordo con la popolazione israeliana, ma quel popolo è sotto il controllo delle proprie autorità che non consente di andare avanti in questa direzione. Come comunità ebraiche siamo preoccupate per questo modo di rappresentare il conflitto israelo-palestinese, in particolare in questo momento così drammatico. E ad aggravare la preoccupazione c’è un altro fatto…
Quale?
Quello che accade nelle città miste, etnicamente vissute da ebrei israeliani e da arabi israeliani. Ciò che sta accadendo fa malissimo. Perché mentre sulla parte degli accordi con i palestinesi la situazione, anche per quanto riguarda Gaza, è molto complessa e investe negoziati anche a livello internazionale, sul piano delle città miste israeliane, lì c’è una sfida che dipende da noi. Da noi tutti, cittadini, autorità locali, governo. Come si vive in armonia, come si convive giorno per giorno, casa per casa, negozio per negozio. Io ricevo tantissimi messaggi, fioccano iniziative per dire noi: vogliamo vivere insieme. Medici, ingegneri, persone che lavorano al supermercato, persone che stanno al lavaggio delle macchine insieme. In qualsiasi fotografia di vita quotidiana, arabi ed ebrei israeliani che esplicitano di voler vivere insieme. E va assolutamente recuperato questo senso di fiducia. La sfida è sul quotidiano. E siccome l’ho visto con i miei occhi, posso testimoniare che si può. Questo dipende da noi. E ciò passa anche per l’isolamento di quelle frange che puntano alla divisione e allo scontro. Israele non è pacco di fiocchi rosa. Ci sono tantissime sfide nella società israeliana, anche all’interno del mondo ebraico. Ma la forza d’Israele non è quella di essere un fiocco rosa. La sua forza è essere una democrazia che affronta i problemi,
E sul versante palestinese?
La diplomazia va sostenuta. Un accordo va ricercato. Ma ci sono presupposti dai quali non si può prescindere. Il primo dei quali è il riconoscimento del diritto di d’Israele all’esistenza e la salvaguardia di questo diritto. E poi c’è la strumentalizzazione ideologica che viene fatta su Gerusalemme, e che va ben oltre ciò che si vorrebbe fare di Gaza o sui confini. Haniyeh, il capo politico di Hamas, ha fatto un discorso ideologico su Gerusalemme, che catalizza molto consenso. Lui si vuole affermare come leader. E anche questo sfugge alla comprensione di chi vive in Europa. C’è una dialettica aspra all’interno degli stessi movimenti palestinesi, di chi vuole affermare il proprio potere sugli altri. Il mondo deve capire le ragioni d’Israele. Ciò che sta avvenendo in Israele, a Gaza, riguarda l’Europa, riguarda l’Italia. Non basta guardare da lontano con pietà. Non basta l’appello del Papa. Qui bisogna intervenire e salvaguardare valori che sono della cultura nostra, in Italia e in Europa. E questi valori sono riflessi nella difesa d’Israele. Se non si comprende questo, se si cede alla propaganda e non si fa informazione, si regala ad Hamas il controllo dei valori distorti. E il mondo perde. Ed è quello che è successo negli anni ’30. Propaganda, propaganda, propaganda. E poi il disastro.
Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.
Guido Olimpio per il "Corriere della Sera" il 17 maggio 2021. È il 16 febbraio 2003. Nidal Farahat è al lavoro in un'officina di Gaza su un modello di drone acquistato sul mercato civile. Con lui alcuni militanti di Hamas, membri dell'apparato impegnato nello sviluppo di armi. Qualche istante dopo sono dilaniati da una bomba nascosta nel mini-velivolo, una trappola del Mossad. L'omicidio mirato è il primo in una lunga campagna di Gerusalemme per neutralizzare gli uomini coinvolti nel programma per lo sviluppo di razzi. All'epoca erano i Kassam, costo sui 300 dollari, gittata una dozzina di chilometri. La morte di Farahat è una perdita simbolica, ma non ferma i progetti delle fazioni che aumentano gli sforzi per avere sistemi migliori. Nel 2009 importano, con l'assistenza dell'Iran, i missili Fajr. I carichi arrivano via nave in Sudan, proseguono lungo le piste dei contrabbandieri verso il Sinai egiziano per essere quindi trasferiti a Gaza. Israele reagisce con i suoi metodi abituali. Nel gennaio 2009 esce la notizia di un raid aereo contro un convoglio di camion nella regione sudanese di al Shananun, informazioni parlano del trasporto di armamenti, girano sospetti persino sugli Usa. Invece sono stati gli israeliani, responsabili anche dell'affondamento di un cargo nei pressi di Port Sudan. A dicembre dello stesso anno una misteriosa esplosione coinvolge un bus a Damasco. A bordo vi erano esperti di Hamas e iraniani, tutti coinvolti nel piano di riarmo. I pasdaran forniscono materiale finito e tecnologia, svolgono la funzione di consiglieri mentre l'alleato mette in piedi una propria «industria» con inventiva e determinazione viste le condizioni di Gaza. L'asse Iran-Hebzollah-Gaza non si interromperà mai. Non passa neppure un mese ed arriva un colpo clamoroso: l'assassinio in un hotel di Dubai di Mahmoud al Mabhouh. La vittima ricopre un ruolo cruciale nella catena di approvvigionamento militare, viaggia molto, è l'interlocutore di Teheran e di personaggi fidati in Sudan. I killer usano una sostanza letale, sperano che il decesso sia imputato ad una crisi cardiaca. La polizia locale non «dorme», denuncia la trama del Mossad, pubblica le foto dei responsabili. Show mediatico per avvertire Gerusalemme. I «cacciatori di teste» si limitano ad attendere. Rispuntano in Ucraina l'11 febbraio 2011, quando rapiscono su un treno Diran Abu Sisi, ingegnere, esperto nel campo missilistico in Est Europa. Lo portano nello Stato ebraico, lo chiudono in cella e ottengono informazioni importanti. Che probabilmente sono usate per un nuovo strike a Port Sudan ai primi d' aprile: il target è il presunto successore di al Mabhouh. E a fine maggio, ancora nel porto sudanese, salta in aria Nasser Said, membro del clan Abada, presentato come uno dei perni dei traffici. A giugno a Damasco trovano il corpo semicarbonizzato di Kamel Ranaja, indicato come procacciatore di armi. Altra sequenza: il 24 ottobre 2012 i sudanesi accusano Gerusalemme di aver bombardato con i caccia una fabbrica di munizioni a Yarmuk. È una lotta senza tregua, perché i palestinesi ad ogni confronto rivelano pezzi più potenti, ne estendono il raggio d'azione, li nascondono meglio. Capacità che provocano le contromosse dell'intelligence contro elementi impegnati in ricerche belliche. Nel 2016 una sofisticata operazione elimina a Sfax, in Tunisia, Mohamed Zawahiri. Superano la sua cautela con il pretesto di un'intervista (finta). Ancora più lontano dal teatro l'agguato dell'aprile 2018: Kuala Lumpur, Malaysia, dove cade sotto il tiro di una coppia di sicari Fadi al Batsh. La guerra segreta del Mossad ha privato il nemico di teste pensanti, ha ostacolato la linea di rifornimento. Non è però riuscita a impedire che i militanti ottenessero ciò che volevano: mezzi non comparabili alla potenza dell'avversario, tuttavia sufficienti per mantenere la sfida.
Israele e Palestina, storia di una guerra infinita e di una convivenza (im)possibile. Le Iene News il 14 maggio 2021. Tra Israele e la fazione palestinese di Hamas a Gaza è di nuovo guerra aperta da giorni, dopo la decisione del governo israeliano di chiudere la "porta di Damasco", un importante varco di accesso alla Spianata. Ma il conflitto tra parte del popolo arabo e quello ebraico che da un secolo convivono su quelle terre affonda le sue radici molto in profondità: ecco da dove nascono gli scontri di questi giorni, anche con un servizio di Antonino Monteleone in cui incontriamo una famiglia palestinese e una israeliana delle colonie. Dessau è una piccola cittadina tedesca nel cuore della Sassonia, una delle regioni che oggi compongono la repubblica federale di Germania. A quasi tremila chilometri di distanza sorge una delle città più famose e importanti della storia, Gerusalemme, che in questi giorni è tornata tristemente alla ribalta per gli scontri tra le autorità israeliane e Hamas. Proprio di Gerusalemme e di questo conflitto infinito vi abbiamo parlato anche nel servizio di Antonino Monteleone del 2017 che vedete qui sopra: abbiamo passato un po’ di tempo in compagnia di una famiglia palestinese e di una israeliana delle colonie per capire meglio questo conflitto che sembra senza fine. I conflitti tra israeliani e palestinesi continuano, a fasi alterne, da oltre settant’anni, da quando il 14 maggio del 1948 David Ben Gurion proclamò la nascita dello Stato di Israele. Ma per capire questo conflitto che insanguina da decenni la Terra Santa bisogna partire da lontano, proprio da quella cittadina tedesca che sonnecchia appoggiata sulle rive dell’Elba. Il 6 settembre del 1729 le gelide acque del più importante fiume dell’Europa centrale tennero a battesimo Moses Mendelssohn, filosofo tedesco di origine ebraica e importante pensatore dell’Illuminismo. Alle sue opere si fa risalire la nascita - o meglio la rinascita - dell’Haskalah: un movimento di pensiero che riteneva necessario introdurre modifiche allo stile di vita tradizionale degli ebrei, permettendone la contaminazione con altre culture senza però rinnegare i fondamenti della propria identità. È a questo movimento di pensiero che si deve, per esempio, la modernizzazione della lingua ebraica. Ed è da questo filone dell’Illuminismo, nato e sviluppatosi in Germania, che un secolo dopo nacque l’ideologia politica del sionismo. Non si può riassumere in breve né la complessità dell’Haskalah, né quella del sionismo. In questo contesto basti sapere che quest’ultimo sosteneva il diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico e la nascita di uno Stato d’Israele in quelle terre che la Bibbia definiva le “terre d’Israele”. A cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, importanti ondate migratorie interessarono l’allora territorio di Palestina sotto il controllo dell’Impero Ottomano: migliaia di ebrei iniziarono a trasferirsi in quelle terre anche per l’impulso culturale del sionismo, un fenomeno che prenderà il nome di Aliyah, “la salita” in ebraico. Alla fine della prima guerra mondiale, nel 1918, la Palestina passò sotto il controllo dell’Impero Britannico e il processo migratorio degli ebrei aumentò considerevolmente: Londra, favorevole all’idea di creare due stati distinti, separò le terre del proprio mandato in Transgiordania a est ed insediamenti ebraici a ovest. È la prima pietra della diffidenza e poi scontro tra ebrei e arabi nella zona. Dalla fine della Grande Guerra all’inizio delle persecuzioni ebraiche da parte della Germania nazista, la popolazione ebraica residente in Israele passò da 80mila a 400mila persone. E già in quegli anni la tensione tra gli abitanti musulmani e quelli ebrei iniziò a montare, dando non pochi problemi alle autorità inglesi nel gestire l’ordine pubblico in Palestina. Nel 1936 la situazione degenerò e iniziò quella che oggi viene chiamata “grande rivolta araba”: un’insurrezione degli arabi palestinesi contro i coloni di origine ebraica durata fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Le popolazioni arabe della zona, che già vent’anni prima si erano sollevate in modo simile contro l’occupazione ottomana, lamentavano la benevolenza con cui i britannici sembravano favorire l’immigrazione ebraica. Migliaia di arabi e centinaia di ebrei morirono durante gli scontri. Alla tensione si aggiunse l’ulteriore ondata migratoria causata dalle feroci persecuzioni contro gli ebrei in Germania prima e in Italia dopo. Lo scontro tra palestinesi ed ebrei, insomma, è iniziato anni prima che Israele nascesse. È in quegli anni che nacque e si sviluppò la città di Tel Aviv, futura capitale de iure di Israele. Ed è proprio in quegli anni che le attività economiche ebraiche e arabe, fino ad allora sostanzialmente interconnesse, si separarono in modo deciso. Furono proprio quegli scontri tra le due fazioni che piantarono definitivamente il seme di quanto stiamo vivendo ancora oggi. Facendo un salto in avanti nel tempo, arriviamo alla fine della Seconda guerra mondiale: l’atrocità della Shoah portò gli occidentali a vedere la nascita di uno Stato d’Israele come una sorta di compensazione di quanto accaduto. Il 29 novembre 1947 l’Onu stabilì ufficialmente la nascita di due stati separati, Israele e la Palestina. Nel primo, che occupava un po’ più della metà del territorio del mandato britannico, avrebbero vissuto mezzo milioni di ebrei e quasi altrettanti arabi. Nel secondo, la popolazione era quasi tutta araba. Ma questi ultimi lamentavano l’ingiusta partizione delle terre: molte di quelle fertili sarebbero infatti state destinate a Israele. Caso a parte Gerusalemme, la città santa per gli ebrei e i cristiani e la terza città più importante per i musulmani: sarebbe stata zona franca gestita direttamente dall’Onu. Senza entusiasmo, gli ebrei accettarono il progetto delle Nazioni unite. Gli arabi della zona, supportati dagli stati circostanti, no: appena finì il mandato britannico sulla Palestina, il leader del popolo ebraico Ben Gurion proclamò la nascita dello Stato d’Israele. Il giorno dopo, il 15 maggio 1948, gli eserciti di Egitto, Siria, Libano, Iraq e Transgiordania invasero il neonato Stato. Contro ogni prospettiva e pronostico, Israele vinse nettamente la guerra. In meno di un anno il conflitto terminò e Israele occupò moltissimi territori esterni ai suoi confini. Quasi un milione di palestinesi furono costretti ad abbandonare le loro case: “al-Nakba”, la catastrofe, così i palestinesi chiamano l’esilio a cui furono costretti dal conflitto. Crucialmente, anche Gerusalemme Ovest fu occupata da Israele, che lì trasferì gli uffici del governo e proclamò capitale dello stato. Molti dei territori che sarebbero dovuti essere parte dello stato di Palestina, furono occupati dagli altri stati arabi: la striscia costiera di Gaza dall’Egitto, la Cisgiordania dalla Giordania. La Città Santa entrò così in uno stato di guerra permanente che dura fino a oggi. Metà città controllata da Israele, l’altra metà controllata dalla Giordania. Intanto, per ritorsione alla cacciata dei palestinesi dai territori occupati da Israele, gli stati arabi limitrofi iniziarono a loro volta a cacciare gli ebrei: quasi un milione di persone si trasferirono così in Israele, aumentando la presenza ebraica nei confini. Nei decenni successivi si sono combattute altre guerre aperte tra Israele e i suoi vicini: nel 1956 Israele partecipò alla guerra di Francia e Gran Bretagna contro l’Egitto per il controllo del canale di Suez. Meno di un decennio dopo, nel 1964, nacque l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, con il sostegno della Lega araba. Nel 1967 si passò nuovamente alle armi, con Israele che attaccò l’Egitto causando la risposta di Siria e Giordania: lo stato ebraico vinse nettamente la guerra, occupando Gerusalemme Est, la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, le alture del Golan e la penisola del Sinai. Nel 1973 Egitto e Siria contrattaccarono, nello scontro divenuto famoso come “guerra dello Yom Kippur”, festività ebraica durante la quale fu lanciato l’attacco. Una battaglia terminata in stallo, con l’Egitto che riottenne il Sinai in cambio del riconoscimento dell’esistenza di Israele (prima di allora nessuno stato arabo l’aveva riconosciuta). Quella del 1973 rimane di fatto l’ultima guerra aperta combattuta tra gli stati confinanti arabi e Israele, ma di certo non è l’ultimo periodo di guerra o guerriglia nella zona. Nel 1987, a seguito delle continue colonizzazioni di Israele dei territori occupati, venne lanciata dai palestinesi la “prima Intifada”: atti di disobbedienza civile, scioperi generali, boicottaggio di prodotti israeliani, barricate e attacchi alle forze militari israeliane. Tel Aviv rispose con durezza: in quattro anni furono oltre mille i palestinesi uccisi dagli israeliani e quasi altrettanti quelli uccisi da altri palestinesi, perché accusati di collaborare con il nemico. Alla prima Intifada, terminata nel 1993, ne seguì una seconda iniziata nel 2000: l’allora leader israeliano Ariel Sharon visitò la Spianata (del Tempio per gli ebrei, delle Moschee per i musulmani), scatenando la reazione dei palestinesi. Furono altri cinque anni di guerriglia, che causarono la morte di mille israeliani e 5mila palestinesi, in grande maggioranza vittime civili. Tra le due Intifade, l’assassinio del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin per mano di un estremista di destra ebraico, avvenuto nel 1995, segnò la fine dei difficilissimi colloqui di pace tra le due fazioni. Il 13 settembre del 1993 infatti è rimasta ancora oggi la data in cui la pace tra israeliani e palestinesi è sembrata più vicina: l’immagine dei due leader, Rabin e Yasser Arafat, che si stringono la mano sotto lo sguardo compiaciuto del presidente americano Bill Clinton, passò alla storia e aveva riacceso le speranze di pace dei due popoli. Speranza che purtroppo è rimasta lettera morta. Nel corso degli ultimi decenni infatti la tensione tra israeliani e palestinesi è continuata a crescere con vicendevoli scontri e attacchi. Il governo di Israele ha colonizzato territori occupati che i palestinesi rivendicano come propri. Alcune città - di cui Betlemme è l’emblema - vivono in uno stato di durissima occupazione militare: l’intero centro abitato è circondato da un muro, con checkpoint per poter entrare e uscire. E la popolazione araba denuncia le continue angherie che è costretta a subire. La Palestina oggi è ridotta alla Striscia di Gaza e a parte della Cisgiordania: Gaza è controllata da Hamas, un’organizzazione politica e paramilitare che - almeno da alcuni stati, tra cui gli Stati Uniti - è indicata come organizzazione paraterroristica. La Cisgiordania è invece governata da al-Fatah, anch’essa un’entità politica e paramilitare che non è però accusata di praticare azioni terroristiche. A rendere ulteriormente complicato il quadro politico della zona - e le condizioni di vita dei palestinesi - c’è il conflitto, che dura ormai da quindici anni, proprio tra Hamas e al-Fatah: nel 2006 le due fazioni palestinesi si sono combattute per il controllo della striscia di Gaza. La guerra è stata vinta a Gaza da Hamas e da allora le due aree non contigue che formano la Palestina odierna sono controllate da due entità che a stento dialogano tra di loro in una situazione di spartizione di fatto. Insomma, come è facile intuire le terre di Israele e Palestina sono una vera polveriera. Per capire fino in fondo le tensioni che animano quelle terre però manca ancora un elemento, quello religioso, fin qui di sottofondo al racconto ma in realtà cruciale negli eventi dell’ultimo secolo. E se si parla di religione, nessun luogo al mondo ne è impregnato come Gerusalemme. Gerusalemme è una Città Santa per ebrei, cristiani e musulmani. Conquistata da re David nel 1000 a.C., fu capitale dello stato ebraico fino alla conquista per mano di Alessandro Magno nel 331. Tutti i tentativi di ellenizzare la città, operati dalle varie occupazioni che si sono succedute nei secoli, hanno però sempre trovato una fiera resistenza da parte degli abitanti ebrei. Nel 70 d.C., a seguito dell’ennesima ribellione contro la dominazione straniera - questa volta romana - l’imperatore Tito ordinò la distruzione del Tempio che sorgeva sulla Spianata. Nel VII secolo Gerusalemme cadde sotto la dominazione araba che, escluso l’intermezzo della conquista cristiana a seguito della prima crociata, è durata quasi ininterrottamente fino alla fine della Prima guerra mondiale e l’arrivo degli Inglesi, di cui abbiamo già raccontato. Gerusalemme dunque è stata al centro di moltissimi eventi storici, che abbracciano le tre grandi religioni monoteiste: è stata la capitale del regno d’Israele dove sorgeva il Tempio ebraico, è stata la città dove s’è svolta la predicazione e l’uccisione di Gesù, è stata anche teatro della preghiera prima di ascendere al cielo del profeta Maometto nel 621. Tutto questo fa di Gerusalemme Città santa per tre distinte religioni, che nel corso dei secoli si sono spesso fatte la guerra per detenerne il controllo. Oggi il Muro del Pianto, che “regge” la Spianata su cui ormai due millenni addietro sorgeva il Tempio, è il luogo di preghiera più sacro dell’ebraismo. Ma sulla Spianata sorgono da secoli la moschea al-Aqṣā e la Cupola della Roccia: insieme formano l’al-Ḥaram al-Sharīf, il terzo sito più sacro del mondo per i musulmani. In poche decine di metri quadrati si concentrano due dei luoghi di preghiera più importanti del mondo. Chi di voi è stato nella Città santa - che come abbiamo raccontato dal 1967 è occupata militarmente da Israele - sa bene cosa sia in realtà oggi il Muro del pianto e la Spianata: una sorte di fortezza, difesa da centinaia di soldati, dove la tensione tra due popoli e due fedi si respira come elettricità nell’aria. La santità ha lasciato da tempo il campo alle armi. E basta una scintilla per far esplodere quell’elettricità. Le rivolte di questi giorni, anche se come abbiamo raccontato hanno radici storiche e culturali ben più profonde, sono state scatenate dalla decisione del governo israeliano di chiudere uno dei più importanti varchi d’accesso alla Spianata, la porta di Damasco che affaccia sulla parte nord ovest della città: un atto visto dai palestinesi come l’ennesima negazione dei propri diritti da parte dell’occupante israeliano. Una scelta legittima di governo al tempo della pandemia per evitare assembramenti, per le autorità ebraiche. E così Israele e Palestina sono di nuovo in guerra aperta. A oggi sono più di cento le persone che hanno perso le vita, in grande maggioranza civili palestinesi: le forze regolari israeliane stanno pesantemente bombardando la Striscia di Gaza costringendo i palestinesi alla fuga, dopo che dalla Striscia stessa erano partiti attacchi missilistici verso le città israeliane (in gran parte naturalizzati dall’Iron Dome, un sistema di protezione antiaereo israeliano). Si dice che: “Chi sarà capace di portare la pace a Gerusalemme, potrà portarla in tutto il mondo”. Noi tutti aspettiamo l’arrivo di quel giorno.
Perché l’ultima chance di pace in Medio Oriente morì con Yitzhak Rabin. Francesca Salvatore su Inside Over il 15 maggio 2021. Nel luglio del 1992 Yitzhak Rabin divenne premier in Israele, il primo ad essere nato nel Paese: era lui l’eroe di guerra che, in qualità di capo di Stato maggiore, polverizzò i progetti tattici egiziani durante la Guerra dei sei giorni. Da quel momento, la vita e le missioni di Rabin si intrecciarono saldamente ai destini della vicenda arabo-israeliana. Prima dell’estate del 1992, infatti, Rabin visse molteplici vite: da militare ad ambasciatore negli Stati Uniti, ministro, perfino uno scandalo finanziario che lo costrinse a stare nell’ombra. Un’eterna rivalità con Shimon Peres, che poi sarebbe stato fondamentale nella svolta verso l’Olp. Ma all’alba di quel nuovo decennio post Guerra fredda, Rabin scelse di abbandonare il pugno di ferro trasformandosi da “Mister sicurezza” a interlocutore, seppur cauto, dell’Olp. Sul tavolo, la sempiterna opzione della nascita di un soggetto autonomo palestinese, osteggiata dal Likud. Una complessa situazione acuita dalle tensioni esacerbatesi dopo lo scoppio dell’intifada a cui il governo conservatore di un altro Yitzahak (Shamir) rispose col pugno di ferro nel 1990.
La svolta del 1993-94. Mentre la diplomazia seguiva i suoi canali, sottotraccia, i laburisti salirono al potere e Rabin impresse una svolta decisiva verso i negoziati. Alla fine dell’estate del 1993 una “dichiarazione di principi” raggiungeva un compromesso storico fra le due parti: autogoverno palestinese per la striscia di Gaza e Gerico e autonomia (seppur inferiore) per i territori occupati. Il 13 settembre di quell’anno a Oslo, Shimon Peres e Mahmoud Abbas firmavano a Washington l’elaborato realizzato con la mediazione norvegese. Un anno dopo, per imporre l’imprimatur internazionale a quello sforzo, il leader palestinese Yasser Arafat, Rabin e il ministro degli esteri israeliano Shimon Peres ricevettero il premio Nobel per la Pace. Quell’anno non era iniziato sotto i migliori auspici: a cominciare dal massacro di Hebron del 25 febbraio, in cui un ebreo israeliano uccise 29 palestinesi musulmani in una moschea. Nello stesso anno, altri attentati, rivendicati soprattutto da Hamas, colpirono Tel Aviv, segnando 22 morti. Nel resto del mondo, il 1994 sembrava imprimere significati nuovi al sistema internazionale, di segno, però, opposto: la guerra nei Balcani, il conflitto somalo, il genocidio ruandese ma anche la cementificazione dell’Unità europea e Mandela presidente del Sudafrica. Un nuovo ordine che guardava al centro del Medio Oriente come a un termometro del mondo che sarebbe venuto. Ecco perché un’ulteriore svolta sarebbe stata impressa, nell’immaginario collettivo, due anni dopo a Washington, quando Rabin e Arafat, con la benedizione di Bill Clinton si strinsero la mano sotto i riflettori del mondo intero.
I contenuti della pace. Al di là della solennità epica del momento, la pace del 1995 era un accordo più che concreto e obbligò i contraenti a mettere sul piatto della bilancia principi fino ad allora irrinunciabili: venivano definiti i paletti di un processo nel quale Israele acconsentiva alla nascita di un’entità statale palestinese (anche se il termine “stato indipendente” non venne utilizzato) e l’Olp si piegava a riconoscere lo stato di Israele, “rinunciando” al desiderio di espellere gli israeliani dall’area. Questi ultimi, inoltre, acconsentivano al ritiro da Gaza e da parte della Cisgiordania. Israele, inoltre, riconobbe l’Olp come unico rappresentante del popolo palestinese. A sottendere gli aspetti militari vi era poi un corposo piano di crescita economica comune, considerato la base per il decollo internazionale dell’area e per la coesistenza pacifica.
Promesse epocali, rinunce epocali. Gli accordi fondevano due serie fondamentali di scambi. In primo luogo, Israele si sarebbe affrancata dalla responsabilità della popolazione palestinese, pur mantenendo il controllo strategico del territorio. I palestinesi si sarebbero sbarazzati del giogo militare israeliano e avrebbero ottenuto l’autogoverno, giungendo gradualmente a conquistare lo status di nazione. In secondo luogo, il disconoscimento della violenza da parte di Arafat e il suo impegno a combattere il terrorismo – attraverso l’uso di una forza di polizia nazionale palestinese – sarebbe stato una garanzia anche per gli israeliani. I palestinesi, inoltre, avrebbero attinto dalla grande quantità di aiuti esteri dagli Stati Uniti (e da altri Paesi ) e dagli accordi economici stipulati con Israele progettati per promuovere l’occupazione e il commercio. La sterzata di Rabin suscitò un’enorme opposizione da parte del Likud, sebbene la maggioranza degli israeliani, in un primo momento, lo sostenne fortemente, soprattutto perché l’accordo avrebbe permesso a Israele di sbarazzarsi della polveriera di Gaza. Specularmente, non tutti i palestinesi, tuttavia, furono favorevoli al nuovo corso di Arafat. Hamas vi si oppose violentemente scagliando una serie di attacchi terroristici contro civili israeliani.
La morte di Rabin e l’occasione perduta. L’atmosfera in Israele e nei territori palestinesi occupati, nei mesi precedenti l’assassinio di Rabin, era turbolenta; un misto di speranza, paura e odio. In alcuni manifesti, sventolati alle manifestazioni contro gli accordi, i nemici israeliani di Rabin solevano ritrarlo come un nazista, con l’uniforme nera delle Ss. Tra i palestinesi, i militanti di Hamas avevano già iniziato una campagna di attentati suicidi: Oslo per loro era una resa e non poteva esserci alcun compromesso territoriale con uno Stato che credevano non dovesse esistere. Eppure, la sensazione generale, popolare e intellettuale, suggeriva che gli estremisti, sebbene scalciassero, fossero stati messi finalmente sotto scacco. Rabin, che era stato a lungo il volto della macchina bellica di Tel Aviv, amava ripetere: Io, che ho inviato eserciti al fuoco e soldati fino alla morte, oggi dico: salpiamo per una guerra che non ha vittime, né feriti, né sangue né sofferenza. È l’unica guerra a cui è un piacere partecipare: la guerra per la pace. Vederlo morire, per poi essere pianto dal mondo intero, costrinse anche Israele a interrogarsi sul non averlo protetto abbastanza. I negoziatori non avevano ancora toccato i punti più difficili dell’accordo di pace: i confini finali di uno Stato palestinese, il futuro di Gerusalemme, dei profughi palestinesi e degli insediamenti ebraici nei territori occupati: presumibilmente, sarebbe stata solo questione di tempo. L’euforia per quelle strette di mano ebbe vita breve. La sera del 4 novembre 1995, alle 21.30, al termine di una manifestazione in favore del processo di pace e degli Accordi di Oslo a Tel Aviv, Rabin venne raggiunto da due proiettili. Erano stati esplosi da Yigal Amir, un giovane estremista “armato” dalle frange ebraiche più radicali, le cui ire Rabin aveva scatenato. Nel 1996 il Likud, ostile agli accordi, vinse le elezioni ed ebbe inizio l’era Netanyahu. Si provò a far rivivere lo spirito di Oslo a Camp David: ma all’alba del nuovo Millennio, i negoziati tornarono a fallire come era accaduto nei cinquant’anni precedenti. La finestra lasciata aperta sulla storia si chiudeva violentemente per non riaprirsi mai più.
La trappola infernale contro Hamas. Lorenzo Vita su Inside Over il 14 maggio 2021. L’annuncio dell’operazione via terra da parte delle Israel Defense Forces non è stato un errore. All’inizio il portavoce delle forze dello Stato di Israele ha parlato di un’incomprensione scusandosi con i media internazionali. Ma a poche ore dalla smentita, l’ipotesi che prende sempre più forza è che non si sia trattato di un “misunderstanding”, ma di una precisa tattica di guerra. La storia è andata più o meno così. Poco dopo la mezzanotte, i media internazionali hanno affermato quasi simultaneamente che le truppe dell’esercito israeliano avevano fatto il loro ingresso nella Striscia di Gaza. In effetti, il giorno prima, il comando meridionale delle Idf aveva presentato i piani di attacco per un’operazione di terra e – anche se l’annuncio appariva più come un avvertimento che come una reale possibilità di attacco – molti parlavano della possibilità di un’incursione su larga scala quantomeno delle forze speciali. Dopo qualche ora, i siti internazionali e i telegiornali hanno cambiato la notizia. Non c’era più l’annuncio dell’invasione di terra ma di bombardamenti con l’utilizzo di carri armati all’interno del territorio israeliano. Un dietrofront importante perché, naturalmente, cambiava completamente la descrizione di quanto stava avvenendo ai confini tra Israele e la Striscia di Gaza. Ma è sembrato abbastanza difficile credere che i reporter, i giornalisti che avevano contatto con le forze armate e i commentatori più attenti avessero preso un abbaglio inventando una presunta invasione da parte dello Stato ebraico. Cosa era successo? Stando alle prime informazioni riportate da diversi quotidiani israeliani, i corrispondenti internazionali avevano ricevuto un messaggio da parte dell’Unità del portavoce delle stesse Idf con cui si annunciava l’avvio delle operazioni terrestri. Steve Hendrix, inviato del Washington Post a Gerusalemme, ha scritto su Twitter un post in cui ha ripercorso i momenti salienti della nottata e i messaggi delle Idf. Secondo il corrispondente, alle 00:17 è stato inviato il seguente messaggio: “Le forze aeree e di terra dell’IDF stanno attualmente attaccando nella Striscia di Gaza”. All’una e mezza una conferma: “* Dichiarazione ufficiale IDF *Ci sono truppe di terra a Gaza”. Alle 2:13 la smentita di quanto sopra: “Chiarimento: attualmente non ci sono truppe di terra dell’IDF all’interno della Striscia di Gaza”. Il portavoce estero delle Idf, Jonathan Conricus, si è scusato con i giornalisti stranieri parlando di un errore e di essere dispiaciuto per averli tratti in inganno. Ma quello che è avvenuto nella notte potrebbe non essere affatto un errore. E i primi a segnalarlo sono stati proprio i media israeliani, in particolare uno, Canale 12, che in un articolo ha parlato espressamente della trappola messa in atto dalle Idf per annientare il più possibile le forze di Hasm durante i bombardamenti avvenuti nella notte nella Striscia di Gaza. L’idea è che quanto avvenuto nella notte non sia stato un errore, ma una scelta precisa delle forze israeliane che hanno così deciso di usare la “nebbia di guerra” per indurre i miliziani di Hamas a rifugiarsi nei tunnel sotto Gaza, la cosiddetta “metropolitana”. I tunnel, quei canali strategici che permettono alle milizie dell’exclave palestinese di rifornirsi di armi, contrabbandare materie prime, spostare uomini e svolgere tutte quelle attività non tollerate da Israele, sono così diventate da armi a trappole. Trappole di fuoco e cemento colpite dalla pioggia di missili lanciata dall’aviazione israeliana e dei droni. I bombardamenti, tra i più massicci degli ultimi anni, sono durati circa 40 minuti e hanno riversato sul suolo di Gaza circa 450 bombe. Una resa dei conti che lo Stato ebraico attende dal 2014, quando dopo l’operazione “Margine di protezione” Hamas ha iniziato a costruire quella rete inestricabile di tunnel che per i comandi delle Idf è ancora il vero grande incubo per qualsiasi operazione di terra.
Davide Frattini per corriere.it il 13 maggio 2021. Ancora bombe, missili, morti e distruzioni: un migliaio di razzi sparati da Hamas verso Israele, centinaia di attacchi aerei dello Stato ebraico su case e strade della Striscia di Gaza. L’escalation non cessa e la situazione è tesa nelle comunità di alcune città israeliane. Al terzo giorno di fuoco il segretario generale dell’Onu António Guterres si dice «preoccupato» dalla prospettiva di «una guerra vera e propria». Il bollettino, per ora: 400 feriti tra i palestinesi e un centinaio tra gli israeliani secondo i rispettivi governi; sei morti israeliani e almeno 65 palestinesi. Tra loro c’erano 14 bambini. E sul fronte israeliano uno di 6 anni è rimasto ucciso a Sderot. Hamas conferma l’annuncio di poche ore prima del premier Benjamin Netanyahu che i raid israeliani di ieri su Gaza hanno ucciso 16 «ufficiali graduati» del movimento paramilitare, tra cui il comandante della brigata locale. Il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha risposto che «il confronto con il nemico non ha una fine prevista», facendo eco alle parole del capo di stato maggiore israeliano Aviv Kochavi, che aveva ordinato a «tutti i comandi di prepararsi a un conflitto esteso e senza limiti di tempo». «Non è che l’inizio», ha detto Netanyahu. «Israele», ha aggiunto il ministro della difesa Benny Gantz, «non è pronto a una tregua». E mentre i razzi di Hamas vengono intercettati dallo scudo Iron Dome (secondo l’esercito l’85%), Israele accusa Hamas di avere annidato i propri quartieri generali nel mezzo dei centri abitati, dove si trova gran parte dei 500 obiettivi militari colpiti negli ultimi due giorni, tra cui un palazzo di dieci piani che sarebbe stato sede dell’«intelligence» del movimento. E più esplosiva — e per il governo di Netanyahu più difficile da gestire dei razzi di Hamas, secondo l’analista americano Jonathan Schanzer su Twitter — è la situazione delle città israeliane dove la popolazione è mista e la convivenza più stretta, come Bat Yam e il villaggio di Lod dove da ieri è stato dichiarato lo stato di emergenza con centinaia di arresti. Da due notti i residenti arabi attaccano quelli che possono riconoscere come ebrei e martedì notte hanno dato fuoco a una sinagoga. Parla di «pogrom» l’ex presidente del Parlamento israeliano Reuven Rivlin, che con la stessa parola aveva condannato gli estremisti ebrei in passato. Ora è indignato con i deputati arabi: «Il loro silenzio è inaccettabile quanto il sostegno al terrorismo e ai disordini». Ayman Odeh, alla guida della formazione araba più grande, invita a «continuare le proteste senza danni a persone e proprietà». Sempre a Lod, martedì, un uomo armato ha sparato contro una folla di arabi, uccidendo il trentatreenne Musa Hassuna: il suo arresto ha aizzato i ministri di Netanyahu. I disordini si sono estesi ad Acri, la fortezza sulla costa a nord, a Ramle e a Jaffa che fa parte della municipalità di Tel Aviv. Lo stato di emergenza permette al capo della polizia di imporre il coprifuoco per domare quella che Netanyahu definisce «anarchia»: «Dobbiamo proteggere la nazione dai nemici all’esterno e dai rivoltosi all’interno».
Netanyahu: "Agiremo per tutto il tempo necessario". Gaza, diluvio di fuoco nella notte: Israele attacca con missili e carri armati, 115 morti. Redazione su Il Riformista il 14 Maggio 2021. E’ di almeno 115 un primo bilancio delle vittime provocate dai raid dell’aviazione israeliana nella Striscia di Gaza a tre giorni dall’inizio del conflitto e dopo l’ultima notte di bombardamenti con il lancio, da parte di 160 caccia, di 450 missili per colpire 150 obiettivi palestinesi, compresa una rete di tunnel che sarebbe stata utilizzata dai militanti del partito Hamas. I feriti sono invece 600 mentre delle 115 vittime, 27 sono minori e 11 le donne. Israele sostiene che la maggior parte delle vittime siano membri di gruppi armati palestinesi o siano state uccise da un razzo di Hamas che è atterrato all’interno della Striscia.
La gaffe sull’invasione via terra. Un portavoce dell’esercito, Jonathan Conricus, ha invece corretto una sua precedente dichiarazione secondo la quale le forze di terra sarebbero già entrate nel territorio di Gaza. Il responsabile ha detto che unità dell’esercito e dell’aviazione stanno conducendo attacchi verso la Striscia con carri armati e artiglieria ma restando dalla parte israeliana del confine. Lungo la frontiera si sarebbero concentrati tra i 3mila e i 4mila soldati. “Le forze di difesa israeliane – scrive il Times of Israel – sembrano aver indotto erroneamente i media stranieri a credere che l’esercito avesse lanciato un’invasione di terra nella Striscia durante il suo massiccio bombardamento del nord di Gaza. Nella sua dichiarazione iniziale in inglese, l’esercito ha espresso in modo ambiguo dove si trovavano le sue forze di terra durante l’attacco, dicendo che ‘le truppe aeree e di terra dell’IDF stanno attualmente attaccando nella Striscia di Gaza’. Quando è stato chiesto di chiarire la questione, ovvero se ci fosse stata un’invasione di terra, il portavoce dell’IDF Jonathan Conricus ha risposto: ‘Si’. Come e’ scritto nella dichiarazione. In effetti, le forze di terra stanno attaccando a Gaza. Questo vuol dire che sono nella Striscia'”. Parole che Conricus tra l’altro ha ripetuto anche al corrispondente dell’ANSA a Tel Aviv che lo ha chiamato per avere conferma diretta dell’avvio dell’intervento di terra. Ma, continua Times of Israel, sebbene dire che l’esercito era dentro Gaza “fosse tecnicamente corretto”, è stato fuorviante: “Alcune truppe dell’IDF erano effettivamente posizionate in un’enclave tecnicamente all’interno del territorio di Gaza, ma a tutti gli effetti sotto il controllo israeliano. Per questo la loro presenza lì non poteva rappresentare un’invasione di terra”. “Tutto ciò – conclude il Times of Israel – ha portato alla diffusione di notizie false in tutto il mondo, incluso da parte del New York Times e del Washington Post, secondo cui Israele aveva lanciato una campagna di terra nella Striscia di Gaza, cosa che invece non aveva fatto”.
Netanyahu: “Agiremo per tutto il tempo necessario”. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha fatto sapere che Hamas pagherà un prezzo alto per i lanci di missili contro la popolazione israeliana e che “l’operazione continuerà per tutto il tempo necessario. Agiremo con tutte le nostre forze contro i nemici all’esterno e contro i fuorilegge all’interno per riportare la calma nello Stato di Israele”. Media locali riferiscono di famiglie palestinesi che stanno scappando dal Nord della Striscia verso Gaza City a causa di quello che viene descritto come un vero e proprio diluvio di fuoco. L’agenzia stampa palestinese Wafa riferisce di due morti e una dozzina di feriti a Beit Lahia. Ieri l’esercito aveva dispiegato al confine con la Striscia unità di fanteria e corazzati e richiamato 9,000 riservisti. L’esercito ha ordinato alla popolazione israeliana nel raggio di 4 chilometri dalla Striscia di rimanere chiusi nei rifugi fino a nuova comunicazione. Nel corso della notte si è registrata un’altra vittima israeliana a Sderot. Sono circa 2.000 i razzi e i colpi di mortaio lanciati dalla Striscia di Gaza in direzione di ISRAELE da lunedì scorso, dall’inizio delle ostilità tra ISRAELE e Hamas. Lo rendono noto le forze israeliane (Idf), secondo quanto riportano i media locali. La maggior parte dei razzi diretti verso aree abitate di ISRAELE sono stati intercettati dal sistema Iron Dome.
Stefano Pioppi per formiche.net il 12 maggio 2021. Nelle ultime 38 ore ben 1.050 razzi sono stati lanciati contro Israele. Sono gli ultimi numeri forniti, questa mattina, dalle Forze di difesa israeliane (Idf). Di quelli diretti contro zone abitate ne sarebbe stato intercettato il 90%. Sempre oggi sarebbe stato inoltre colpito un drone proveniente dalla Striscia di Gaza, a conferma della crescente minaccia rappresentata da sistemi a pilotaggio remoto, anche piccoli e ben poco sofisticati (conta più ciò che portano). Protagonista della difesa è la “Cupola di ferro”, il sistema Iron Dome che sta accompagnando, insieme alle sirene, le notti israeliane. Il sistema è stato progettato appositamente per intercettare razzi a corto raggio, colpi di mortaio e pezzi di artiglieria provenienti dai territori palestinesi e dall’area del Libano sottoposta al controllo di Hezbollah. Sistema mobile terrestre, l’Iron Dome si colloca nella categoria “V-Shorad”, per la difesa di minacce a raggio più che corto, entro i quaranta chilometri. Si compone di tre elementi principali: il radar ELM 2084, il sistema di gestione e controllo (BMC), e i lanciatori trasportabili dotati di missili Tamir, vettori da tre metri di lunghezza per un diametro di 160 millimetri, peso di 90 chilogrammi e raggio da due a 40 chilometri. Secondo Rafael (che guida la realizzazione del sistema), ogni batteria di Iron Dome permette di difendere un’area di 150 chilometri quadrati. È composta da un radar, un sistema di controllo, tre piattaforme di lancio, ciascuna con venti missili Tamir. I vettori sono dotati di apposite alette per la manovrabilità e di sensori elettro-ottici per colpire il bersaglio. L’avanzata tecnologia permette la detonazione nelle immediate prossimità della minaccia; l’esplosione verso l’esterno produce un anello di schegge intorno alla testata del missile, formando come uno scudo (abbastanza visibile nei video che circolano online) per aumentare le capacità di intercettazione. L’ELM 2084, realizzato dalla Israeli Aerospace Industries, è un radar 3D a scansione elettronica. Secondo il costruttore permetterebbe di individuare fino a 1.100 minacce simultaneamente fino a 70 chilometri di distanza. Fornisce rapidamente l’alert agli operatori BMC che attivano l’eventuale lancio di intercettazione. Il radar segue le prime fasi di viaggio della minaccia, distinguendo quelle dirette verso obiettivi sensibili da quelle che invece sono destinate ad aree non abitate. Ciò permette di conservare gli intercettori, capacità molto utile in caso di attacchi massivi come quelli in questione. Lo stesso radar ELM 2084 è impiegato anche sul sistema di fire control di David Sling, la “fionda di Davide”, che copre la difesa aerea a raggio intermedio. A completare il sistema di difesa c’è poi l’Arrow per le minacce a raggi ancora maggiori. Il sistema Iron Dome è operativo dal 2011, e ha visto impieghi importanti a difesa di Israele sin da subito, con progressivi aggiornamenti, per lo più nella parte software. A novembre 2012, le forze armate di Tel Aviv dichiararono l’intercettazione dell’85% dei 400 razzi sparati dalla Striscia di Gaza. Nell’estate del 2014, quando gli scontri furono particolarmente sanguinosi, le batterie di Iron Dome intercettarono il 90% degli 800 razzi diretti contro obiettivi sensibili in territorio israeliano, quota minore dei complessivi 4.500 colpi lanciati, per lo più dunque su aree disabitate. L’efficacia al “90%” è ribadita in ogni comunicazione relativa all’Iron Dome. Per alcuni osservatori è relativamente bassa, considerando le migliaia di razzi a disposizione di Hezbollah. Oggi il Jerusalem Post si chiede: “Is Iron Dome era dominance over?”. L’accento è soprattutto sugli avversari, che nel tempo avrebbero imparato come sfruttare il 10% di spazio disponibile per accrescere la letalità degli attacchi. Il timore israeliano è che il sistema di batterie per la difesa a corto raggio possa essere saturato facilmente in caso di lanci massicci in contemporanea. Per questo, via Haaretz, nel 2018 il già tre volte ministro della Difesa Moshe Arens spiegava che, accanto alla difesa della “Cupola di ferro”, occorreva procedere eliminando le capacità d’offesa dell’avversario. Non è un caso, dunque, che le Forze israeliane rispondano prontamente nei casi di inizio escalation, andando a colpire postazioni di Hamas, magazzini e tunnel. È successo anche questa volta. Il ministro Benny Gantz ha spiegato ieri l’obiettivo di colpire “duramente” le forze attive nella Striscia di Gaza. Il dicastero della Difesa ha fatto sapere che circa 80 velivoli militari si sono attivati a tal fine, compresi gli avanzati caccia di quinta generazione, gli F-35. A maggio 2018, fu l’Aeronautica israeliana a segnare l’assoluto debutto operativo del Joint Strike Fighter, con almeno due bombardamenti in Siria contro postazioni iraniane. L’Iron Dome nasce come sistema totalmente “made in Israel”, con sviluppi risalenti agli anni 2000, quando la difesa di Tel Aviv si trovò poco protetta rispetto alle minacce a corto raggio derivanti dal conflitto in Libano. In linea con il partenariato strategico con gli Stati Uniti, nel corso degli anni l’Iron Dome è entrato nella cooperazione bilaterale, con Washington pronta a coprire con il proprio budget alcune quote del programma, coinvolgendo l’industria e stelle e strisce. Secondo l’attento portale Missile Threat del Csis, oggi circa il 55% delle componenti del sistema è realizzato negli Usa in virtù degli accordi tra l’israeliana Rafael e l’americana Raytheon. Anche gli Stati Uniti hanno beneficiato dell’intesa. Nel 2016 lo US Army testò il proprio sistema MML con il lancio di missili Tamir. Il costo di un singolo intercettore Tamir si aggira intorno ai 100mila dollari, mentre l’intero sistema Iron Dome vale 100 milioni di dollari.
Simona Verrazzo per "il Messaggero" il 12 maggio 2021. Soffiano venti di guerra tra israeliani e palestinesi, nel secondo giorno di violenze tra lanci di razzi e incursioni aeree, ed è in continuo aumento il numero delle vittime. Ieri due donne sono morte nella città di Ashkelon, nel sud di Israele, ultima grande città prima della Striscia di Gaza. Un'altra vittima, sempre una donna, a Tel Aviv. I morti nel territorio palestinese invece sarebbero circa trenta in due giorni. Secondo Hamas, il gruppo islamista che controlla la Striscia di Gaza dal 2007 e che ha lanciato l'offensiva, tra le vittime dei raid ci sono anche «10 bambini». È la notizia più tragica di una giornata cominciata con Israele che annunciava di richiamare 5.000 riservisti per portare avanti le incursioni aeree sulla Striscia di Gaza, e che ha visto il lancio di 480 razzi dal territorio palestinese più altri 130 in serata. Netanyahu ha dichiarato lo stato di emergenza a Lod, dove sono stati inviati rinforzi.
LE PROTESTE E LA RISPOSTA L'escalation di violenze era iniziata lunedì, dopo già una settimana di proteste tra le due parti per i luoghi sacri di Gerusalemme, quando lo Stato ebraico ha risposto a una pioggia di razzi con cui Hamas ha tentato di forzare il sistema antimissili israeliano Iron Dome. All'azione palestinese, denominata Operazione Spada di Gerusalemme, Israele ha risposto con le incursioni aeree da parte dell'Aviazione, in quella che è stata denominata Operazione Guardiano delle Mura, destinata - annunciano i vertici militari - a durare diversi giorni. Ingenti le forze messe in campo, con 80 velivoli israeliani impegnati a centrare oltre 140 obiettivi, con le fonti militari israeliane che hanno riferito dell'uccisione di due dirigenti di Jihad islamica, altro gruppo islamista presente nella Striscia di Gaza, e di Iyad Fathi Faik Sharir, comandante delle unità anticarro di Hamas. Il lancio di razzi non si è comunque fermato e ieri in serata Hamas ha indirizzato i suoi colpi anche verso la città di Tel Aviv, dove è stato chiuso lo scalo. «Abbiamo deciso di accrescere ancora di più la potenza e il ritmo degli attacchi. Hamas riceverà un colpo che non si aspetta», ha detto il premier israeliano, Benyamin Netanyahu, al termine di una consultazione con i vertici militari. Dopo Gerusalemme, dove gli scontri si sono concentrati sulla Spianata delle Moschee, luogo sacro per i musulmani, sotto cui sorge il Muro del Piano, luogo sacro per gli ebrei, le operazioni si sono spostate verso sud e la Striscia di Gaza, territorio palestinese a ridosso con l'Egitto. L'esercito israeliano ha deciso l'invio di rinforzi al confine, tra questi la Brigata di fanteria Volani, la VII Brigata Corazzata e unità di intelligence. Le autorità hanno invitato la popolazione delle città meridionali, tra cui Sderot, Ashdod e Ashkelon, a non uscire di casa ed è in quest'ultima località che si sono registrate le prime vittime civili israeliane, tre donne anziane rimaste uccise in tre separati attacchi. Dalla scorsa settimana la tensione è nuovamente cresciuta, e si temono nuove violenze per domani, ultimo giorno del mese di Ramadan, sacro per i musulmani. Giorno delicato anche venerdì, quando lo Stato ebraico celebra la dichiarazione di indipendenza. All'origine degli scontri lo sfratto di alcune famiglie palestinesi dalle loro abitazioni di Sheiikh Jarrah, rione di Gerusalemme est dove da anni cresce la presenza di famiglie ebraiche attorno alla tomba di un antico rabbino. La comunità internazionale cerca una via diplomatica per un cessate il fuoco. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu, riunito d'urgenza, non ha raggiunto un accordo per una dichiarazione comune. Gli Stati Uniti, membro permanente, hanno ritenuto «non appropriato un messaggio pubblico in questa fase». L'incontro era stato richiesto da Tunisia, Norvegia e Cina, altro membro permanente. L'Unione europea ha chiesto la fine immediata delle violenze, così come il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio. «L'Italia ribadisce la sua preoccupazione per l'escalation di attacchi e violenze in particolare a Gerusalemme Est e nella Striscia di Gaza».
Israele shock: le sinagoghe in fiamme. Chiara Clausi il 13 Maggio 2021 su Il Giornale. Gli arabo-israeliani incendiano i luoghi di culto a Lod. Il presidente Rivlin: "Pogrom". Lo scambio di fuoco micidiale tra i militanti palestinesi nella Striscia di Gaza e l'esercito israeliano si è intensificato ancor più. L'Onu teme una «guerra su vasta scala». La mediazione dei Paesi arabi, come l'Egitto, è per il momento fallita. Hamas e la Jihad islamica in due giorni hanno lanciato 1.050 razzi e colpi di mortaio, 850 sono atterrati in Israele o sono stati intercettati dal suo sistema di difesa aerea «Iron Dome», mentre 200 non sono riusciti a superare il confine e hanno colpito Gaza stessa. La pressione sulle città del Sud è però devastante. Ieri sera un'altra raffica di missili è arrivata fino a Tel Aviv, una casa è stata colpita a Ashkelon e Hamas ha lanciato razzi per vendicare la morte dei suoi comandanti. Un altro razzo ha colpito un condominio a Sderot. Un bambino di sei anni è stato ferito e con lui molti altri. Forti boom e sirene hanno risuonato senza interruzione a Modiin, Beersheba e a Tel Aviv. Fra martedì e ieri sono state demolite anche due palazzine a Gaza. Raid più mirati hanno invece eliminato almeno quattro comandanti di Hamas e tre della Jihad. Sono i combattimenti più duri dal 2014. I palestinesi lamentano 53 vittime, molti «bambini», mentre sei israeliani sono stati uccisi da lunedì. Ieri un razzo anticarro sparato da Gaza ha centrato un veicolo che si trovava nei pressi della linea di demarcazione. Un sergente 21enne dell'esercito è morto in ospedale, due commilitoni sono in gravi condizioni. Le vittime israeliane includono anche un padre di 52 anni e sua figlia di 16 anni che sono morti nella città di Lod, vicino a Tel Aviv, quando un razzo ha colpito la loro auto. Mentre a Gaza cinque membri di una famiglia sono stati uccisi in un attacco aereo israeliano. Le strade sono piene di macerie dove gli edifici sono crollati e molte auto sono state schiacciate o bruciate. Ma è anche il fronte interno a preoccupare. Gli arabi israeliani hanno organizzato proteste violente in diverse città israeliane. La città di Lod, vicino a Tel Aviv, è in stato di emergenza dopo che, oltre a centinaia di auto, sono state incendiate anche diverse sinagoghe. Il presidente israeliano Reuven Rivlin ha denunciato il «pogrom» di Lod da parte di «una folla di arabi assetati di sangue ed esaltati». «Sono scene - ha attaccato - imperdonabili». Mentre il primo ministro Benjamin Netanyahu ha precisato che il governo utilizzerà tutte le sue forze per proteggere Israele dai nemici all'esterno e dai rivoltosi all'interno. Il ministro della Difesa Benny Gantz ha ribadito invece che gli attacchi israeliani sono stati «solo l'inizio». Nel frattempo, l'aeroporto Ben Gurion ha interrotto brevemente i voli martedì ed è stato colpito un gasdotto tra le città di Eilat e Ashkelon. Disordini anche in altre città con una grande popolazione araba israeliana, così come a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha tuonato: «Se Israele vuole intensificare i combattimenti, noi siamo pronti, se vuole fermarsi, siamo anche pronti».
"Hamas ha ingaggiato lo scontro per ottenere la leadership islamista". Fiamma Nirenstein il 13 Maggio 2021 su Il Giornale. Il generale: "Non è ancora la resa dei conti, ci saranno altri round. Ma Israele ha il dovere di proteggere il proprio popolo". No, lo scontro di queste ore fra Israele e Hamas non è una resa dei conti definitiva: è soltanto un round, anche se molto importante. Lo dice il generale Yossi Kuperwasser, uno degli esperti più importanti del Jerusalem Center for Public Affairs, famoso esperto di strategia, di sicurezza e di mondo arabo. Dall'esercito dove ha diretto il settore ricerca, è passato a direttore generale del ministero degli Affari Strategici occupandosi con taglio nuovo di antisemitismo. Adesso fra un incontro e l'altro ci affida i suoi pensieri, molto diretti e privi di illusioni o ideologie. Netanyahu e il ministro Gantz sembrano promettere alla popolazione bombardata, tormentata da Hamas, lo smantellamento definitivo dell'organizzazione. «Si tratta di un altro capitolo di una lunga storia, un capitolo con caratteri di estrema durezza data la smodata aggressività di Hamas che ha bombardato Gerusalemme e Tel Aviv, terrorizza la popolazione civile del sud giorno dopo giorno, ha fatto morti e feriti a tutte le latitudini con un attacco premeditato e sanguinoso». Sta però pagando un duro prezzo, come se ci fosse una risposta non proporzionale. Ci sono crolli imponenti e bambini uccisi durante le eliminazioni mirate dei capi di Hamas. «Penso che stavolta chi non ha un pregiudizio incancrenito e pesante contro Israele capisce che sotto un attacco di migliaia di missili, Israele ha il dovere di fermare l'attacco e di proteggere la popolazione. Israele deve attaccare gli edifici in cui si nascondono i capi di Hamas, e tuttavia noi avvertiamo uno a uno gli abitanti prima di colpire; quanto ai bambini che cerchiamo in tutti i modi di non colpire, secondo Defense for Children Palestine alcuni sono stati uccisi da missili palestinesi mal costruiti e sparati (Dcip). Detto questo, l'escalation di Hamas deve fermarsi».
Lei stesso dice che è solo un round. Presto ci saranno gli stessi problemi?
«Perché presto? Dal 2014, dopo l'ultima guerra abbiamo avuto poche aggressioni. Si tratta di garantire la messa fuori giuoco delle armi e dei leader terroristi per un bel pezzo. È quello che stiamo facendo».
Perché Israele non cerca di smantellare Hamas?
«Perché nessuno ha intenzione di governare di nuovo la striscia di Gaza; non lo vuole l'Egitto, non lo vuole Fatah, non vedo perché dovremmo metterci noi in questo guaio».
L'ipotesi «stivali sul terreno» non è contemplata?
«Ci sono tanti modi di vincere una guerra, quella è la più rischiosa, si cerca di evitarlo».
Hamas lo sa. Perché ha intrapreso una guerra perduta?
«Ne sta ricavando altissimi riconoscimenti nel mondo in cui ambisce alla leadership ideologica, quello islamista che mette la Moschea di Al Aqsa e Gerusalemme in testa ai suoi interessi. Ha intrapreso la guerra perché questo le garantisce di battere Abu Mazen e poi perché deve sperimentare i missili nuovi preparati con l'aiuto dell'Iran».
E questo li compensa dalle distruzioni in corso.
«Reputano i guadagni ideologici maggiori delle perdite».
Hamas conta anche sul sostegno di Iran e Turchia.
«E non solo. Sente anche che i commenti dell'amministrazione americana gli consentono margini di manovra. Si è sentito rassicurato».
Intanto i moti degli arabi israeliani a Lod sono molto preoccupanti. Una nuova Intifada di cittadini israeliani musulmani contro gli ebrei?
«Difficile dirlo. Noi sopravvalutiamo sempre l'integrazione, il senso di comunanza nella democrazia. La loro leadership alla Knesset ha rifiutato il giuramento di fedeltà al Paese, gli abitanti delle case di Lod vedono stupefatti i vicini dare fuoco alle auto nei comuni parcheggi. Storia molto difficile».
Quanto dura ancora questa guerra?
«Se è una guerra, dura ancora settimane. Se invece è solo un grande scontro e possiamo accontentarci di risultati che garantiscano la quiete, poco. Per ora, Hamas ha ancora i missili nascosti, e i terroristi che li lanciano a centinaia».
Netanyahu parla di "campagna militare". Quarta guerra di Gaza, perché è scoppiato il nuovo conflitto Israelo-Palestinese. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 12 Maggio 2021. L’avevano cancellata dall’agenda politica internazionale. Scomparsa dai “radar” dei media. E invece la “polveriera palestinese” è tornata ad esplodere. Prima a Gerusalemme, la Città contesa, e poi nella Striscia di Gaza e nelle città frontaliere israeliane. Raid aerei, razzi, colpi d’artiglieria, mobilitazione di riservisti, sirene che risuonano per segnalare il pericolo che viene dal cielo. La quarta guerra di Gaza è iniziata. A cambiare è il nome in codice dell’operazione avviata dalle Idf, le Forze di difesa israeliane. Stavolta è “Guardiano delle Mura”. E per non essere da meno, anche le milizie palestinesi hanno battezzato la loro resistenza armata, operazione “Spada di Gerusalemme”. Ventiquattr’ore di attacchi ininterrotti, di razzi, feriti e vittime, in un conflitto che si inasprisce ulteriormente con l’invio di truppe israeliane al confine con la Striscia e il richiamo di 5mila riservisti. È di almeno 28 morti, compresi nove bambini, e 152 feriti il bilancio delle operazioni israeliane nella Striscia di Gaza: lo ha reso noto il portavoce del ministero della Salute di Gaza, Ashraf al-Qudra, citato dalla tv satellitare al-Jazeera. Secondo i militari israeliani “vanno ancora chiarite” le circostanze della morte dei nove bambini. E anche Israele conta le sue prime vittime: due donne, ferite mortalmente da uno degli oltre 250 razzi sparati dai miliziani palestinesi da Gaza verso Israele, in particolare verso Gerusalemme, Ashdod e Ashkelon. Più di 70 i feriti curati in ospedale, oltre 30 sono in pronto soccorso e due in gravi condizioni. Lo riferiscono fonti mediche, citate dai media. Un’altra persona anziana, secondo la radio militare, è in fin di vita. La risposta di Tsahal, l’esercito israeliano, non si è fatta attendere: colpiti oltre 130 obiettivi militari nell’enclave palestinese. Un portavoce militare israeliano ha inoltre riferito che a essere stata colpita è anche una cellula di Hamas che usava missili anti-carro a Gaza. L’esercito ha anche deciso l’invio di rinforzi al confine di Gaza: tra questi, la Brigata di fanteria Golani e la 7/a Brigata Corazzata, oltre a unità di intelligence e aviazione. Gli attacchi su Gaza continueranno e “tutti i comandi si devono preparare ad un conflitto più esteso senza limiti di tempo”, annuncia il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Aviv Kochavi, confermando l’ordine ai militari di colpire i membri operativi di Hamas e della Jihad islamica a Gaza. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha convocato ieri mattina consultazioni sulla sicurezza nel suo ufficio a Tel Aviv dopo l’escalation delle ultime ore. Israele «intensificherà ulteriormente la potenza ed il ritmo degli attacchi» contro la Striscia di Gaza, ha dichiarato il primo ministro al termine della una riunione. «Siamo nel mezzo di una campagna militare», afferma Netanyahu, citato dal Times of Israel. «Da ieri pomeriggio (lunedì per chi legge, ndr) l’esercito ha eseguito centinaia di attacchi contro Hamas e la Jihad islamica a Gaza. Abbiamo colpito comandanti e molti obiettivi di alta qualità», ha aggiunto. In serata, Israele avrebbe respinto una richiesta di cessate il fuoco nella Striscia di Gaza che sarebbe stata avanzata da Hamas. Lo riporta l’emittente Channel 12 secondo cui sarebbero stati “intermediari arabi” a consegnare il ‘messaggio’ di Hamas a Israele. Le autorità dello Stato ebraico avrebbero respinto la proposta, sostenendo che il movimento islamista non avrebbe ancora pagato il giusto prezzo per i suoi attacchi contro Israele. «Il nostro obiettivo è di colpire duramente Hamas, indebolirlo e fargli rimpiangere la sua decisione» di lanciare missili contro Israele. A dirlo è il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz, parlando con i giornalisti vicino ad una batteria di missili del sistema di difesa Iron Dome nel sud d’Israele. L’operazione militare in corso durerà diversi giorni con le forze aeree, terrestri e navali israeliane, che bombarderanno obiettivi di Hamas e la Jihad islamica. «Ogni bomba ha il suo indirizzo. Continueremo nelle prossime ore e i prossimi giorni. È difficile dire quanto tempo ci vorrà», ha rimarcato, citato da Times of Israel. Ad accendere lo scontro è stato l’ultimatum di Hamas che, a fronte del mancato ritiro delle truppe israeliane dall’area della moschea di Al Aqsa e da Sheikh Jarrah, quartiere palestinese a Gerusalemme est, ha sparato sei razzi contro la città a circa cento chilometri di distanza. Era dal 2014 che non veniva colpita. Le autorità israeliane hanno chiuso tutte le scuole nelle comunità vicino Gaza, limitando le riunioni di persone a 10 all’aperto e 50 all’interno. Imprese e posti di lavoro sono aperti solo se vi è un accesso ai rifugi per tutti. Hammed a-Rakeb, un dirigente di Hamas citato dalla radio pubblica israeliana, ha affermato che questo attacco è una risposta ad attacchi lanciati in precedenza da Israele contro appartamenti dove si trovavano comandanti militari. «Abbiamo lanciato razzi contro Ashkelon dopo un attacco israeliano che ha colpito una casa a ovest di Gaza City. Se Israele continuerà ad attaccare, trasformeremo Ashkelon in un inferno». È quanto aveva affermato in mattinata il portavoce dell’ala militare di Hamas, – le Brigate Ezzedin al-Qassam – Abu Ubaidah, secondo quanto riporta Haaretz. Intanto due comandanti della Jihad islamica, Kamel Kuraika e Sameh al-Mamluk, sono rimasti uccisi in un attacco condotto dall’aviazione israeliana contro un appartamento in un grande condominio nel rione Rimal di Gaza. Con loro è rimasto ferito in modo grave un altro comandante della Jihad islamica, Muhammad Abu al-Atta, fratello del leader militare della Jihad islamica nel nord della Striscia ucciso da Israele nel 2019. Da Washington a Bruxelles (Ue), dal Palazzo di Vetro (Onu) a Mosca: la comunità internazionale sforna appelli alla moderazione e al freno dell’escalation militare. Appelli che, come sempre, non sortiscono effetto. Gaza e Israele si preparano ad una nuova notte di fuoco. Come le tante che si sono susseguite negli anni. È l’impotenza della forza. In Terrasanta le “colombe” non volano più. A regnare sono i falchi.
Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.
Israele e Gaza, un conflitto nuovo e vecchio allo stesso tempo. Piccole Note il 12 maggio 2021 su Il Giornale. Ancora non è guerra aperta tra Israele e Gaza, ma poco ci manca, o forse gli scambi di colpi di questi giorni sono solo l’avvio della stessa, mentre all’interno del Paese continuano gli scontri tra palestinesi e forze dell’ordine, che potrebbero essere i prodromi di una nuova Intifada. La conta dei morti e dei feriti sale e continuerà a salire se non accade qualcosa. Situazione che appare irreversibile nella sua corsa verso il precipizio di una nuova mattanza di Gaza, e di bambini di Gaza, e di nuove paure per gli ebrei di Israele, dove seppure i morti sono e saranno di meno, non hanno certo minor rilevanza. Nella precedente nota, riferivamo un cenno su Haaretz sul fatto che la situazione favorisce oggettivamente il premier israeliano, che vedeva il suo regno al tramonto e che l’acuirsi delle tensioni può conservare al potere, impedendo la nascita di un governo formato dai suoi antagonisti con l’appoggio del partiti arabi. Yossi Verter, in particolare, riferiva lo stop ai negoziati per la formazione di un nuovo governo, mossa che avrebbe offerto a Netanyahu un “incentivo per mantenere alta la tensione”. Certo, il premier ora è obbligato a mostrare i muscoli a fronte del lancio di razzi da Gaza, dato che nessun Paese, come ha detto il presidente Reuven Rivlin, può tollerare di esser bersagliato da missili (1). Ma sembra solo limitarsi a minacciare sfracelli contro Gaza, non sembrando particolarmente interessato a trovare un modo per far rientrare le armi nelle fondine, come invece accaduto altre volte in tempi recenti, quando invece ha cercato e trovato accordi con Hamas dopo simili – seppur in scala minore – escalation. Interessante, sul punto, un articolo di Times of Israel che inizia così: “L’Egitto ha contattato Israele per aiutare a calmare le tensioni in corso di questi giorni, funestati da disordini a Gerusalemme e dal lancio di razzi da Gaza, ma non ha ancora ricevuto una risposta, come ha detto il suo ministro degli esteri martedì in una riunione di emergenza della Lega araba”. E nel prosieguo dell’articolo si legge: “Un diplomatico che ha familiarità con i tentativi di mediazione ha detto al Times of Israel che Hamas martedì mattina ha fatto sapere di essere interessato a ridurre le tensioni, ma che avrebbe risposto se gli attacchi israeliani fossero continuati […]. Il diplomatico ha anche dichiarato che Israele non ha risposto alle proposte del suo paese dirette a porre fine alle violenze in corso”. Garbuglio ad ora inestricabile. Sul punto, l’editoriale di Haaretz, che spiega come “le ragioni dello scoppio di questa violenta protesta sono collegate a una serie di cattive decisioni prese a Gerusalemme durante il mese di Ramadan”, che hanno acuito le tensioni. Il capo della polizia “Yaakov Shabtai ha svolto un ruolo decisivo in tutto questo, e la sua affermazione che la polizia era stata ‘troppo morbida’ indica un preoccupante problema di percezione della realtà”. Al di là degli errori di Shabtai, continua Haaretz, il fatto è che “la polizia è costretta ad affrontare i sintomi di un problema molto più profondo che sta esplodendo in questi giorni: la realtà di 54 anni di occupazione”. “Nel suo desiderio di combattere il nazionalismo palestinese, indebolirlo e persino farlo sparire, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha attaccato e infiammato gli animi contro gli arabi israeliani in modo criminale. Invece di affrontare il problema, ha preferito escludere, discriminare, giudaizzare e portare dichiarati razzisti alla Knesset. Questa strategia disastrosa sta ora esplodendo in faccia a Israele”. Tempi bui, ma, come dimostra l’editoriale di Haaretz, non tutti in Israele sono concordi nel ritenere che l’unica via che ha il Paese sia un nuovo, sanguinoso, redde rationem con gli arabi. Anche l’America, nonostante non possa che stare a fianco del suo più prossimo alleato, ha uno sguardo meno unilaterale sul lungo conflitto arabo-israeliano. Ciò rende le prospettive un po’ meno catastrofiche, anche se il momento resta buio e gravido di nefasti presagi.
(1) Fa accezione Damasco, che deve invece accettare il lancio di missili dall’enclave terrorista di Idlib. Quando l’esercito siriano e i russi hanno provato a reagire per eliminare la minaccia, la comunità internazionale li ha ammoniti a non rispondere agli attacchi. Allora la Casa Bianca intimò subito lo “stop” a Damasco, arrivando a minacciare addirittura un intervento a sostegno di Idlib. Ieri, invece, nonostante alla Casa Bianca sedesse un altro inquilino, Washington ha dichiarato che Israele ha “diritto a rispondere ai missili“. Certi “diritti” evidentemente non sono per tutti.
Il recente attacco contro Israele rivela il problema dei sistemi antimissile. Paolo Mauri su Inside Over il 12 maggio 2021. L’ultima offensiva missilistica scatenata contro Israele è forse la più violenta che si ricordi, e non è un caso. Secondo le Idf (Israel defense forces), oltre 1050 razzi e colpi di mortaio sono stati lanciati dalla Striscia di Gaza verso il territorio dello Stato ebraico dalla sera del 10 maggio, di cui 200 non sono riusciti a superare il confine e sono caduti all’interno dell’enclave. Oltre 400 sono stati diretti in profondità nel territorio israeliano in due enormi ondate la sera dell’11 e dalle 3 del mattino circa di mercoledì 12. Si tratta del più pesante attacco sin dal 2014. Per fare un paragone, proprio quell’anno, a luglio sono stati sparati 2874 razzi e 15 colpi di mortaio, ma distribuiti nell’arco di tutto il mese, con un picco di 197 il 10. Quella di questi giorni assume le caratteristiche, quindi, di un’offensiva senza precedenti per il rateo dei lanci effettuati.
Come funziona Iron Dome. Questa peculiarità del recente attacco non è affatto casuale, e dipende dalle caratteristiche del sistema difensivo israeliano Iron Dome. Si tratta di un complesso strumento da difesa aerea in grado di intercettare razzi, colpi di mortaio, Uav di cui ricorrono proprio quest’anno i 10 anni dell’ingresso in servizio. Iron Dome è formato da tre elementi fondamentali: un radar di scoperta e tracciamento, un sistema di controllo del fuoco e gestione della situazione di combattimento (Bmc) ed una unità di lancio missili (Mfu). Una batteria di Iron Dome consiste di tre/quattro lanciatori fissi trasportabili su camion ciascuno dei quali dotato di 20 missili “Tamir” associati ad un radar sviluppato dalla israeliana Elta. Ogni batteria può coprire un’area di approssimativamente 150 km quadrati con un raggio di azione compreso tra i 4 ed i 70 chilometri. Il missile “Tamir”, cuore del sistema, è lungo tre metri ed ha una circonferenza di 160 millimetri per un peso di circa 90 chilogrammi. È equipaggiato con un sensore elettro-ottico e ha alette stabilizzatrici mobili in grado di dargli un buon grado di possibilità di cambiare la traiettoria di volo. La testata di guerra, esplosiva, viene innescata da un sensore di prossimità. Iron Dome lavora, secondo il concetto di difesa area multistrato, di concerto con i Patriot, e coi sistemi Arrow-2 e 3, David’s Sling ed Iron Beam pensato per poter intercettare i più insidiosi proietti di mortaio. Il successo più eclatante di Iron Dome è stato durante l’Operazione Pillar nel novembre 2012. L’operazione è iniziata nel pomeriggio del 14 novembre e, quando la sera del 21 entrò in vigore il cessate il fuoco, 1506 razzi erano stati lanciati contro Israele. Di questi 875 sono risultati caduti in aree non abitate e quindi non sono stati intercettati da Iron Dome. Altri 152 lanci sono da considerarsi falliti (questo significa i razzi sono caduti nella Striscia di Gaza) pertanto il sistema israeliano risulta aver intercettato 421 razzi, mancandone 58 caduti in aree edificate causando danni.
L’efficacia della “Cupola di Ferro”. Fonti ufficiali israeliani danno la percentuale di intercettazione di Iron Dome compresa tra l’85 e il 90%; secondo le statistiche dell’industria produttrice, la Rafael, questa si assesterebbe fermamente al 90%. Sono dati non privi di controversie: nel 2014 un ricercatore dimostrò che l’efficacia era molto più bassa (tra il 6 ed il 12%) e lo “scudo” era dato per la maggior parte dalla prontezza del sistema di allarme precoce di Israele e dall’avere un alto numero di rifugi, che insieme all’addestramento della popolazione, che in caso di attacco sa esattamente cosa fare, ha ridotto drasticamente il numero delle vittime. In attesa che l’offensiva di Hamas di questi giorni termini, e quindi di poter sapere quanti razzi e colpi di mortaio sono stati sparati in totale e quanti sono stati intercettati, possiamo però fare alcune considerazioni tattiche su quanto sta accadendo. Iron Dome, come tutti i sistemi di difesa antimissile, nonostante la concentrazione di strumenti atti a rispondere in modo appropriato a diverse offese, ha una falla: in caso di attacco di saturazione, ovvero quando si trova a dover affrontare un alto numero di proietti o razzi, non riesce ad eliminarli tutti e qualcuno sfugge alle “maglie” del sistema. Questo è tanto più possibile quanto più è alto il rateo di lancio. Iron Dome ha quindi un “punto di saturazione” oltre il quale vede la sua efficacia diminuire. Il sistema, cioè, è in grado di intercettare un certo numero (non pubblicato) di bersagli contemporaneamente e non di più. Il lancio massiccio di razzi, effettuato in un’unica salva concentrata, può quindi riuscire a sfondare le difese e causare danni. Questa, stando a quanto ci riporta la cronaca degli ultimi giorni, è proprio la tattica usata da Hamas per la sua offensiva, che quindi sembra aver fatto tesoro delle esperienze fatte negli anni precedenti.
Un problema comune. Una falla, quella di Iron Dome, che non è peculiare solo del sistema israeliano, ma che è comune a tutti gli strumenti antimissile in servizio, dai Patriot e Thaad statunitensi, agli S-300 e 400 russi, passando per il Gmd antimissili balistici sempre di fabbricazione Usa. Questo aspetto può essere mitigato assumendo un’architettura multistrato (e quindi multisistema): l’ombrello Abm (Anti Ballistic Missile) degli Stati Uniti, ad esempio, prevede diversi sistemi che lavorano in coordinazione, su più livelli, e dispiegati su un’ampia area geografica. L’Aegis – imbarcato e ashore – il Thaad, il Gmd ed i Patriot forniscono una copertura maggiore a difesa dei missili balistici proprio grazie a queste caratteristiche appena citate, ma in caso di attacco massiccio la loro efficacia nell’intercettare tutti i vettori, e quindi eliminare la minaccia, resta fortemente in discussione, e possiamo dire, con ragionevole certezza, che lo “scudo” lascerebbe passare qualche decina di vettori. Per quanto riguarda la minaccia data da razzi campali e colpi di mortaio trovano utile impiego anche sistemi tipo C-Ram – una sorta di Ciws (Close In Weapon System) terrestre – ma anche in questo caso vale la stessa considerazione fatta per un attacco di saturazione.
Troppi e troppo vicino. Tornando a Iron Dome e alla sua efficacia, bisogna considerare anche alcune peculiarità date dalla geografia e dal sistema stesso: gli attacchi vengono sferrati dalla Striscia di Gaza, che possiamo considerarla un’enclave stretta tra il mare, Israele e l’Egitto, quindi a pochissima distanza dagli obiettivi nello Stato ebraico. Il sistema israeliano, poi, risulta incapace di far fronte a minacce a brevissimo raggio: non può abbattere razzi o proiettili la cui gittata è inferiore a 5-7 chilometri. Inoltre sembra che Iron Dome abbia difficoltà a intercettare razzi sparati su traiettorie “piatte” anche su distanze più lunghe (fino a 16-18 chilometri). Qualcosa che ci ricorda molto la tattica usata dai veicoli di rientro (Rv) per missili balistici tipo Hgv (Hypersonic Glide Vehicle) di fabbricazione russa che, avendo un profilo di volo molto più basso rispetto ai classici Rv, rendono molto difficoltosa la loro intercettazione restando non visibili dai sistemi di ingaggio radar per lungo tempo, fattore a cui va sommata la loro estrema velocità.
Prima però di trarre ulteriori considerazioni su quanto Iron Dome abbia realmente neutralizzato la maggior parte degli attacchi missilistici a cui stiamo assistendo in questi giorni dobbiamo aspettare che l’offensiva termini, in quanto si tratta della prima volta che Hamas utilizza i suoi razzi in questo modo.
Da "corriere.it" il 16 maggio 2021. Almeno 2 morti e una sessantina di feriti nel crollo di una tribuna nella sinagoga ortodossa di Givat Zeev. Alcuni video pubblicati su Twitter mostrano una sinagoga piena di gente e una gradinata che crolla improvvisamente. L’incidente avviene mentre in Israele si festeggia Shavuot, una delle tre feste di pellegrinaggio. Accade poche settimane dopo che 45 persone sono state uccise in un crollo simile in un santuario sul monte Meron, nel nord del Paese.
Israele, 44 morti nella calca al raduno religioso al Monte Meron: dubbi sulla dinamica. Libero Quotidiano il 30 aprile 2021. Una terrificante tragedia in Israele: almeno 44 sono state calpestate a morte e 150 ferite, all'uscita, dopo la mezzanotte di giovedì, da un raduno religioso a cui hanno partecipato oltre 50mila ebrei ultraortodossi per celebrare la festa di Lag B’Omer a monte Meron, nella regione dell’Alta Galilea. Le immagini che arrivano dal luogo della sciagura sono sconvolgenti, tra le vittime ci sarebbero anche dei bambini piccoli. Magen David Adom — l’equivalente israeliano della Croce Rossa — riferisce che i suoi paramedici stanno prestando cure a oltre 150 persone. Il servizio di soccorso riferisc che sei elicotteri e dozzine di ambulanze stanno trasportando i feriti all’ospedale Ziv di Safed, al Galilee Medical Center di Nahariya, all'ospedale Rambam di Haifa, all'ospedale Poriya di Tiberiade e Ospedale Hadassah Ein Kerem di Gerusalemme. Ancora non è del tutto chiara la causa della strage. Inizialmente si è parlato del crollo di una gradinata con uno stand a uno dei concerti a cui stavano prendendo parte 50.000 persone. Secondo quanto riferito poi dal Time of Israel, al contrario, la sciagura sarebbe stata almeno in parte causata da una passerella scivolosa: nel corso del concerto o circa 20.000 persone si sono riversate lungo una stretta passerella tra due muri. A terra c'era una pavimentazione metallica scivolosa, che avrebbe fatto cadere le persone generando il disastro.
Tra le vittime anche bambini piccoli. Disastro in Israele, pellegrini schiacciati dalla calca a un raduno religioso: 44 morti e 150 feriti. Rossella Grasso su Il Riformista il 30 Aprile 2021. Oltre 50mila ebrei ultraortodossi si erano radunati per celebrare la festa di Lag B’Omer a monte Meron, nella regione dell’Alta Galilea, in Israele. Dopo la mezzanotte il dramma: almeno 44 persone sono morte schiacciate sotto il peso della folla e sono almeno 150 i feriti. Tra le vittime ci sarebbero anche “bambini piccoli”. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha definito l’incidente “un terribile disastro”. E intanto la Magen David Adom, i soccorsi israeliani, stanno continuando a evacuare la zona trasferendo i feriti all’ospedale Ziv di Safed, al Galilee Medical Center di Nahariya, all’ospedale Rambam di Haifa, all’ospedale Poriya di Tiberiade e Ospedale Hadassah Ein Kerem di Gerusalemme. Una vera tragedia. Non si capisce ancora bene cosa sia successo. Da una prima ricostruzione dei fatti sarebbe crollata una gradinata con uno stand di uno dei concerti a cui stavano prendendo parte in 50mila. Secondo quanto riporta invece il quotidiano online Times of Israel la tragedia sarebbe stata causata, almeno in parte, da una passerella scivolosa. Durante il concerto circa 20.000 persone si sono riversate lungo una stretta passerella tra due muri. A terra c’era una pavimentazione metallica scivolosa, che ha fatto cadere alcune persone durante la corsa all’uscita. Le autorità avevano autorizzato solo la presenza di 10.000 persone nel recinto della tomba ma, secondo gli organizzatori, sono stati noleggiati più di 650 autobus in tutto il Paese, vale a dire almeno 30.000 persone. La stampa locale parla addirittura di 100.000. Ogni anno gli ebrei si radunano sul monte Meron per celebrare la festività di Lag B’Omer, che ricorda la ribellione ebraica del 132 d.C contro le legioni romane. Pregano sulla tomba di Rabbi Shimon Ber Yochai, un saggio e mistico del II secolo d.C. Secondo la tradizione questi è l’autore del testo mistico dello “Zohar” (lo splendore). Un evento che attira sempre migliaia di fedeli, a volte fino a mezzo milione di persone. L’anno scorso era stato annullato a causa del Covid ma quest’ anno è stato autorizzato e nonostante le misure di prevenzione e distanziamento è stato impossibile evitare la tragedia. Un altro disastro era avvenuto sul monte Meron anche nel 1911. Allora decine di persone morirono nel crollo di un edificio vicino alla tomba del rabbino.
Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.
(ANSA il 30 aprile 2021) Sale ad almeno 150 il bilancio dei feriti della calca scatenatasi al raduno religioso ebraico sul monte Meron, in Galilea, dove sono morte 44 persone travolte dalla folla. Lo rendono noto fonti di soccorso citate dai media israeliani, secondo le quali almeno 24 persone sono in gravi condizioni e sei di queste rischiano la vita.
Da ilgiorno.it il 30 aprile 2021. Una fuga di massa durante una celebrazione religiosa ha causato una strage in Israele: è di almeno 44 morti e oltre 60 feriti - di cui una ventina in gravi condizioni -, infatti, il bilancio dell'incidente avvenuto dopo mezzanotte tra il 29 e il 30 aprile nella calca durante la celebrazione della festività ebraica Lag B'Omer sul monte Meron, in Galilea. I numeri sono forniti dai media israeliani che citando fonti di soccorso e di sicurezza. Sul posto erano presenti decine di migliaia di persone, si stima oltre centomila ebrei osservanti, e secondo le ultime informazioni, tutto sarebbe avvenuto quando alcune di queste persone sono scivolate dai gradini delle scalinate trascinando con sé altri partecipanti e innescando una fuga di massa in cui decine di persone sono rimaste schiacciate. Secondo un'altra ricostruzione, però, potrebbe essere crollata una sezione di posti a sedere dello stadio, innescando poi la fuga. In ogni caso la polizia avrebbe cercato di trattenere la fuga, come appare dai video postati su Twitter. Alcuni testimoni hanno accusato la polizia di aver bloccato l'uscita. Ai soccorsi hanno partecipato decine di ambulanze e anche elicotteri militari. Il premier Benjamin Netanyahu ha definito l'incidente "un terribile disastro". "È successo tutto in una frazione di secondo; le persone sono cadute, calpestandosi a vicenda. È stato un disastro", ha detto un testimone. Il comandante del distretto settentrionale delle forze di polizia Shimon Lavi, che ha supervisionato le disposizioni di sicurezza al monte Meron, ha detto di assumersi la responsabilità del disastro. "Ho la responsabilità generale, nel bene e nel male, e sono pronto a sottopormi a qualsiasi indagine", ha dichiarato ai giornalisti. C'è un continuo "sforzo per raccogliere prove per arrivare alla verità", dice.
La festività. Come ogni anno in occasione della festività ebraica di Lag ba-Omer, (che ricorda la ribellione ebraica del 132 d.C contro le legioni romane) ieri decine di migliaia di ebrei si sono recati sul monte Meron per pregare sulla tomba Shimon Ber Yochai, un celebre rabbino del secondo secolo d.C. Secondo la tradizione questi è l'autore del testo mistico dello 'Zohar' (lo splendore). Da anni questo evento è il più affollato in Israele, richiamando a volte fino a mezzo milione di persone. L'anno scorso, a causa del coronavirus, era stato annullato. Quest'anno, col miglioramento della situazione sanitaria, era stato autorizzato, ma con numerose limitazioni che però non hanno resistito alla pressione della folla immensa. Secondo alcune notizie, c'erano tre volte più persone di quelle autorizzate. Un altro disastro era avvenuto sul monte Meron anche nel 1911. Allora decine di persone morirono nel crollo di un edificio vicino alla tomba del rabbino.
Francesco Semprini per "La Stampa" l'8 aprile 2021. Agenti stranieri camuffati da reporter de La Stampa hanno tentato di raccogliere e divulgare informazioni volte a screditare la leadership degli Emirati arabi uniti. È quanto emerge da un'inchiesta del giornale online «Daily Beast» secondo cui l'azione è stata condotta da Bluehawk CI, società di investigazioni private con sede in Israele. «All'inizio del 2020 individui che si sono spacciati per ricercatrice di Fox News e giornalista del quotidiano italiano La Stampa hanno approcciato due uomini coinvolti in contenziosi contro Ras Al Khaimah, uno dei sette emirati che compongono gli Emirati Arabi Uniti - spiega la testata Usa -. Gli impostori hanno tentato di carpire dai loro interlocutori informazioni circa le azioni legali che li vedono contrapposti alla leadership dell'Emirato». In un caso hanno agito su Facebook utilizzando nome e foto di utenti reali per creare il profilo fake di «Julia», fantomatica reporter de La Stampa. Con l'obiettivo di approcciare Khater Massaad, cittadino con doppio passaporto svizzero e libanese che ha lavorato come capo del fondo sovrano Rakia sino al 2012. «La scelta della testata - spiegano fonti informate - è legata alla sua assidua copertura delle vicende regionali, sino a quel momento». Nel 2015, i giudici hanno condannato Massaad in contumacia per appropriazione indebita di fondi. Accuse definite dal diretto interessato false e motivate politicamente, perché - sostiene - è considerato oppositore del governo dell'emirato. «La falsa giornalista italiana si è avvicinata a Massaad tramite un messaggio Facebook chiedendo di discutere il suo rapporto con il governo di Ras Al Khaimah», spiega Daily Beast. Lo scambio tra i due sarebbe stato molto limitato. Massaad insospettito da qualche incertezza dell'interlocutore non ha proseguito il colloquio. «A quanto pare, ha fatto bene - prosegue il sito Usa -, visto che il curioso giornalista italiano era un agente legato a Bluehawk CI». A smascherare il cacciatore di segreti reali è stato proprio Facebook che ha dimostrato come il falso profilo di cronista de La Stampa fosse stato illecitamente utilizzato dalla società israeliana di business intelligence. Il social ha adottato provvedimenti immediati tra cui la cancellazione dell' utente "fake". Completa estraneità quindi della testata, come ribadito in una nota del direttore Massimo Giannini. Stesso metodo è stato ha utilizzato con una finta «ricercatrice presso il canale di notizie Fox a New York», interessata a scrivere sui «numerosi casi di immigrazione e detenzione tra i confini degli Emirati e Penisola araba». La fantomatica "Samantha" ha contattato nel febbraio 2020 Oussama El Omari, cittadino americano che aveva lavorato come amministratore delegato della zona di libero scambio di Ras Al Khaimah e ha citato in giudizio l'emirato nel 2016 per un pagamento non corrisposto. La causa è stata archiviata nel 2017. Anche in questo caso è emerso il legame con la società fondata da Guy Klisman, ex ufficiale dell'intelligence militare israeliana. Non è chiaro invece chi potrebbe aver assunto Bluehawk CI e perché. El Omari ha intentato un'azione legale sostenendo che dietro il falso giornalista Fox si celano dipendenti di aziende dell'emirato.
Davide Frattini per il “Corriere della Sera” il 5 marzo 2021. Una volta erano gli agricoltori-soldati dei kibbutz, che poco si preoccupavano dell'estetica e di quella barba germogliata incolta a differenza dei campi. Ancora oggi sono gli ultraortodossi che per fede religiosa non si rasano. Sempre di più avanzano gli hipster che fanno della peluria ben curata un simbolo di identità da indossare ed esibire. Lasciarla andare ispida - come il sabra, il fico d'India in ebraico, simbolo dei pionieri cresciuti spinosi nel deserto - ha sempre fatto parte di una certa mascolinità israeliana, compreso il ritorno a casa dal miluim (il servizio militare nei riservisti, obbligatorio una volta l'anno) arruffati e poco lavati. Fino al 2016, quando i generali che assistevano a un'esercitazione congiunta con le forze americane, hanno notato una differenza nel grugno guerresco: «I nostri erano i soli a esibire tutte quelle barbe lunghe, a volte è un segno di trascuratezza che si trasferisce in battaglia», hanno commentato i portavoce. Così lo Stato Maggiore ha deciso di inserire nel regolamento l'obbligo di radersi e presentarsi all'adunata con il volto ripulito. La Corte Suprema è intervenuta per evitare discriminazioni verso i giovani militari laici, la leva per i maschi dura tre anni: gli osservanti ottengono la dispensa dal taglio per intercessione dei rabbini militari e i giudici hanno decretato che lo stesso diritto andasse accordato a chi dimostri attraverso una procedura su per la catena di comando che la barba è parte profonda della sua identità. Da allora le richieste per questi casi speciali sono state migliaia, le esenzioni concesse dagli ufficiali ben poche. In gennaio un gruppo di 17 soldati ha deciso di presentare una nuova petizione alla Corte e hanno raccolto via Facebook i soldi (120 mila shekel, oltre 30 mila euro) per sostenere le spese legali. Il simbolo della campagna è lo stemma di Tsahal, le forze di difesa israeliane, effigiato da una lunga barba e i promotori spiegano «di voler spingere l'esercito a concentrarsi sulle questioni essenziali: investire tempo e risorse nella difesa della nazione». Sostengono che la discriminazione delle barbe crea «malcontento nei ranghi»: «Perché complicare la vita di questi ragazzi - dicono Bar Pinto e Gilad Levi all'agenzia France Presse - che fanno uno sforzo per proteggere la patria e offrono il periodo migliore della loro vita?». Anche perché quelli disposti al sacrificio - nonostante l'obbligo - sono sempre meno: Benny Gantz, il ministro della Difesa, ha avvertito che tra gli esoneri degli haredim (gli ultraortodossi: situazione mai davvero risolta per legge), certificati medici, studi all'estero, metà dei giovani israeliani non indossa la divisa. Cinque anni fa le nuove regole avevano finito con lo spaccare il pelo anche tra i praticanti: i sionisti religiosi, che spesso sono la maggioranza nelle unità combattenti, hanno protestato perché rischiavano di venire penalizzati rispetto ai più ortodossi. «Non taglierete in tondo i capelli ai lati del capo, né spunterai gli orli della tua barba», prescrive il Levitico. E un potente rabbino aveva allora ordinato ai fedeli nell'esercito di «rispettare la norma anche se dovessero prendersi cento frustate».
Sharon Nizza per "la Repubblica" il 4 marzo 2021. La procuratrice capo della Corte Penale Internazionale dell' Aia (Cpi), Fatou Bensouda, ha annunciato l' apertura di un' indagine "sulla situazione in Palestina" che valuterà potenziali crimini di guerra commessi da Israele in tre ambiti: l' operazione a Gaza Margine Protettivo del 2014, le "marce della rabbia" palestinesi del 2018 al confine della Striscia di Gaza e la politica degli insediamenti israeliani. L' indagine riguarderà anche crimini commessi da Hamas e "altri gruppi armati palestinesi": gli attacchi intenzionali contro civili israeliani e l' uso di civili come scudi umani, nonché crimini contro la popolazione palestinese come la privazione del diritto a un processo equo, omicidi intenzionali e torture. Per il ministro degli Esteri palestinese Riyad al-Maliki è «un passo atteso da tempo che aiuterà lo sforzo incessante della Palestina per ottenere giustizia». Il portavoce di Hamas Hazem Qassem si dice fiducioso che «le nostre azioni ricadano nell' ambito della resistenza legittima». «Il fatto che un' organizzazione terroristica come Hamas accolga con favore la decisione è indice di quanto non abbia alcuna validità morale», ha replicato il ministro degli Esteri israeliano Gabi Ashkenazi, mentre il premier Netanyahu promette che «lotteremo per la verità e ribalteremo la decisione», definita "antisemita". La decisione era attesa, specie dopo che il 5 febbraio la Cpi aveva riconosciuto la propria giurisdizione su Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme, nonostante Israele, non avendo ratificato il Trattato di Roma istitutivo della Cpi, non aderisca alla Corte. In Israele parlano di decisione politica e ipocrita, indicando come Bensouda, che a giugno termina il mandato, abbia deciso di dare priorità a questa indagine rispetto alle inchieste preliminari concluse a dicembre sulla situazione in Ucraina e Nigeria. E, mentre Israele compila una lista di ufficiali che potrebbero trovarsi al centro delle indagini - a cui il ministro della Sicurezza Gantz garantisce ogni sostegno legale - , da un punto di vista procedurale ci vorrà tempo prima che vengano adottate iniziative concrete. Per ottemperare al principio di complementarità, per cui la Cpi può intervenire solo quando gli Stati non vogliano o siano incapaci di investigare autonomamente, la Corte dovrà ancora esprimere una valutazione sui procedimenti aperti in autonomia dalle autorità giudiziarie israeliane in relazione alle accuse. Israele punta sull' autonomia del suo sistema giudiziario, ma per fare leva su questo, ora deve decidere se collaborare con la Corte. L' annuncio potrebbe trasformarsi in merce di scambio in altri scenari: Blinken ha condannato a febbraio la Corte, ma questo sostegno potrebbe ora avere un prezzo per Israele, specie considerando che Netanyahu avrebbe chiesto a Biden di mantenere le sanzioni imposte da Trump alla Cpi: potrebbe costare concessioni su altri dossier, come le trattative sul nucleare iraniano o la ripresa di colloqui con i palestinesi.
Caterina Galloni per blitzquotidiano.it il 22 febbraio 2021. Mohsen Fakhrizadeh, lo scienziato nucleare iraniano assassinato a novembre nei pressi di Teheran, sarebbe stato ucciso da un’arma con un peso totale di una tonnellata contrabbandata in Iran dall’agenzia di intelligence israeliana Mossad. È quanto riportato da The Jewish Chronicle citando fonti dell’intelligence, aggiungendo che una squadra di oltre 20 agenti, tra cui cittadini israeliani e iraniani, ha effettuato l’imboscata a Fakhrizadeh dopo otto mesi di sorveglianza. I media iraniani avevano riferito che lo scienziato era morto in ospedale dopo essere stato colpito a bordo della sua auto da assassini armati. Poco dopo il decesso, l’Iran ha puntato il dito contro Israele, il ministro degli Esteri Javad Zarif su Twitter aveva parlato di “gravi indicazioni di un ruolo israeliano”.
Chi era Mohsen Fakhrizadeh. Fakhrizadeh, 59 anni, da lungo tempo era sospettato dall’Occidente di essere l’ideatore di programma segreto riguardante la bomba nucleare. Per anni, dai servizi segreti occidentali e israeliani era stato ritenuto il misterioso leader di un programma segreto interrotto nel 2003, e che attualmente Israele e Stati Uniti accusano Teheran di tentare di ripristinare. Secondo il Jewish Chronicle, l’Iran ha “segretamente valutato che ci vorranno sei anni” prima che un sostituto dello scienziato sia “pienamente operativo” e che la sua morte avrebbe “prolungato il periodo di tempo necessario all’Iran per sviluppare una bomba atomica da tre mesi e mezzo a due anni”.
L’arma del Mossad che ha distrutto le prove dopo l’omicidio. Jewish Chronicle, ha riferito che il Mossad ha montato la pistola automatica sul pick-up Nissan e che “l’arma su misura, azionata a distanza da agenti a terra mentre osservavano l’obiettivo, era pesante perché includeva una bomba che ha distrutto le prove dopo l’omicidio”. Ha aggiunto che l’attacco è stato effettuato “solo da Israele, senza coinvolgimento americano”, ma che gli agenti statunitensi hanno ricevuto una qualche forma di preavviso”.
Sapevano tutto di lui, anche che dopobarba usava": così Israele ha ucciso il capo del programma nucleare iraniano. Vincenzo Nigro su La Re