Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

ANNO 2021

 

IL TERRITORIO

 

SECONDA PARTE

 

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

  

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

  

 

  

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

    

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

IL TERRITORIO

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Trentino Alto Adige.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Friuli Venezia Giulia.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Veneto. 

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Lombardia. 

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Piemonte.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Liguria.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA. (Ho scritto dei saggi dedicati)

Succede in Emilia Romagna.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Toscana.

SOLITA SIENA. (Ho scritto un saggio dedicato)

SOLITA SARDEGNA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Sardegna.

SOLITE MARCHE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede nelle Marche.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

SOLITA ROMA ED IL LAZIO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede nel Lazio.

SOLITO ABRUZZO. (Ho scritto un saggio dedicato)

SOLITO MOLISE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Molise.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede a Napoli.

SOLITA BARI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede a Bari.

Hanno fatto cessare La Gazzetta del Mezzogiorno.

SOLITA FOGGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede a Foggia.

SOLITA TARANTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede a Taranto.

La guerra all’ex Ilva.

Succede ad Avetrana.

Succede a Manduria.

SOLITA BRINDISI. (Ho scritto un saggio dedicato)

SOLITA LECCE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede a Lecce.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Basilicata.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Calabria. 

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Sicilia.

  

 

 

 

 

IL TERRITORIO

SECONDA PARTE

 

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Succede a Napoli.

L'unica strada: i camorristi muoiono ammazzati. Gomorra e il finale che cristallizza la visione di Saviano: lo Stato non esiste, l’alternativa è la morte. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 18 Dicembre 2021. Cinque stagioni, 58 episodi, per ribadire due concetti principali, cristallizzati nel “gran finale” della serie Gomorra. Il primo: chi sceglie la camorra, e più in generale, la malavita muore ammazzato. Il secondo: lo Stato, in tutte le sue forme (e quindi non sono con la repressone) non esiste. Nessuna fiducia nei confronti delle istituzioni. Per lo scrittore e giornalista Roberto Saviano e per gli autori della serie Sky celebrata in tutto il mondo l’unica alternativa alla camorra è la morte. Non il carcere, non la collaborazione con la giustizia, non la possibilità di fuggire e ricominciare una nuova vita. I camorristi non hanno seconde possibilità in Gomorra. Nella vita reale, per fortuna, sì.

Nella serie perdono tutto, a partire dagli affetti familiari (è le storia di Ciro Di Marzio, interpretato da Marco D’Amore, e di Genny Savastano, interpretato da Salvatore Esposito, sono il manifesto di tutto questo). Non hanno la possibilità di ritornare sui propri passi. Quindi o fai il camorrista o muori ammazzato. Muoiono gli “infami” (i traditori) come ‘o Munaciello. Muore donna Nunzia che vuole vendicare la morte del marito e finisce con l’essere ammazzata poco dopo aver dato ordine a un commando di fuoco di raggiungere il molo dove si trova la barca che “Don Gennaro” aveva preparato per la fuga.

Un aut aut che è stato costante in queste cinque stagioni dove tutti i principali personaggi sono stati uccisi. Genny e Ciro pure. Nessuno di loro finisce in carcere (solo don Pietro Savastano e Scianel). Nessuno di loro passa dalla parte dello Stato iniziando a collaborare. Chi lo fa è solo per avere un tornaconto come il caso del fedelissimo di Donna Nunzia, moglie del ‘Galantuomo’, che collabora per ‘inguaiare’ Genny e Azzurra e fargli togliere la potestà genitoriale sul figlio Pietro. Oppure chi diventa pentito viene intercettato e ucciso (Patrizia e Michelangelo Levante). Nessuno decide di uscire dal sistema e ripartire lavorando onestamente. Nessuno viene riabilitato attraverso il carcere.

Tralasciando alcuni episodi che poco hanno a che vedere con la realtà (ad esempio il sequestrato del figlio del magistrato) e ricordando che la stessa realtà camorristica napoletana è più agghiacciante e raccapricciante di quello che si vede nella serie (l’omicidio di Antonio Natale è solo uno degli ultimi esempi delle ferocia e dell’efferatezza della criminalità organizzata), Gomorra non boccia soltanto la camorra ma anche, e forse soprattutto, l’assenza cronica dello Stato.

“Anche Gratteri può sbagliare, nessuno è infallibile. Si venga a fare un giro con noi a Scampia, Ponticelli, Caivano, così si rende conto che in questi territori lo Stato non c’è. I giovani con Gomorra si fanno quattro risate”. Queste le parole di Marco D’Amore durante la conferenza stampa di presentazione della quinta e ultima stagione. Una replica stizzita al solito ritornello di “Gomorra esempio negativo”, che va avanti da anni e che può essere considerato attendibile solo da chi non conosce davvero le realtà di Napoli, ma anche di tantissime zone dell’Italia, dove lo Stato fatica a imporre la sua presenza. Una presenza che non riguarda solo la prevenzione e la repressione delle forze dell’ordine e degli organi inquirenti ma riguarda anche i servizi essenziali che dovrebbero essere garantiti (scuola, strutture ricreative) oltre alla cronica assenza del lavoro, soprattuto a livello giovanile.

“Robbè  (Saviano, ndr) scusami se parlo di getto ma sono dieci anni e non ce la faccio più con questa storia” sbottò D’Amore dopo la domanda di un giornalista relativa agli esempi positivi che nella serie mancano. La sintesi finale è la seguente: se fai il camorrista muori ammazzato perché lo Stato non c’è.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Don Luigi Merola, prete anti-camorra, scomunica “Gomorra” e Saviano: “È devastante per i giovani”. Vittorio Giovenale giovedì 9 Dicembre su Il Secolo d'Italia. Sul fenomeno televisivo Gomorra, arriva una qualificata voce fuori dal coro. È la voce squillante di don Luigi Merola, coraggioso prete anti-camorra, a ribellarsi contro la “creatura” generata da Roberto Saviano. «Quella serie tv – dice don Luigi Merola all’Adnkronos – è stata devastante, purtroppo. Anche nell’ultima stagione lo Stato non c’è e a vincere è sempre il camorrista, il prepotente, colui che lotta per accaparrarsi le piazze di droga. E’ un messaggio distruttivo quello che abbiamo trasmesso con Gomorra. Io giro tutta l’Italia e ogni volta mi chiedono: ma a Napoli davvero succede questo? Non è che non si deve parlare di camorra, assolutamente. Anzi, più se ne parla meglio è. Ma il messaggio lanciato dalla serie va verso l’imitazione». Don Luigi Merola, parroco anticamorra e fondatore dell’associazione A voce d’e creature, ha preso di petto lo stesso giornalista e scrittore. Racconta di avere affrontato la questione proprio con l’autore del bestseller da cui è tratta la fortunata serie televisiva. «Ne ho parlato spesso con Roberto Saviano. Lui mi dice che alla fine il camorrista perde sempre, viene ucciso. Ma i nostri ragazzi sono fragili e cedono all’imitazione. Ho trovato ragazzi che conoscono tutte le battute di Gomorra a memoria, mentre non sanno nulla di Divina commedia o dei Dieci comandamenti. Il 90% di questi ragazzi ha i genitori in carcere, sono persone a rischio. Abbiamo 102 clan attivi tra Napoli e provincia eppure la Campania è la Regione che ha più forze di polizia in assoluto», osserva Don Merola. «L’unica terapia per curare Napoli, l’unica ricetta per sconfiggere la camorra è la prevenzione: tenere scuole e oratori aperti, per non regalare soldati alla camorra. È la prevenzione che ci salva – chiosa il parroco anticamorra – e purtroppo lo Stato non la fa». Don Luigi Merola non è il primo prete napoletano a scagliarsi contro il business di Gomorra.  “Gomorra rischia di far apparire eroi i criminali. Non raffigura il Bene che lotta contro il Male, c’è solo il Male reso un modello.  Saviano illude i ragazzi, mentre a loro servono soluzioni e soldi”. Parlava così due anni fa, il prete di strada don Aniello Manganiello. Le sue parole sono rimaste inascoltate.

Da areanapoli.it il 7 dicembre 2021. Ospite in trasmissione Peppy Night Fest condotta da Peppe Iodice è intervenuto Giampiero Mughini. Sul brutto periodo della Juventus: “Non te lo ha consigliato il medico di vincere lo Scudetto ogni anno, 9 anni sono sufficienti. Ci sono stati valorosi avversari che di volta in volta sono stati battuti, 9 scudetti uno migliore dell’altro, lo sport è così. Noi eravamo andati in Serie B per una porcata che ci era stata fatta, conosco bene l’argomento. Andando in Serie B la squadra è stata distrutta, siamo risaliti e abbiamo vinto 9 volte, va bene così. A me sembrava che questo fosse l’anno del Napoli, ma…“ Mughini è nato a Catania, ed ha parlato del suo rapporto con il meridione: “Io sono nato in meridione, ho vissuto la condizione della provincia meridionale. Quando io ero ragazzo i libri che uscivano in Italia, scusatemi il termine ma intendo Milano e il nord, arrivavano a Catania dopo 20 giorni. A Catania è sepolta mia madre, ma sin dall’inizio mi sono sentito italiano. Catania veniva definita la Milano del Sud molti anni fa, ma non mi sento siciliano, mi sento italiano. Era siciliano uno dei più grandi musicisti dell’età moderna, Franco Battiato. Ma Franco Battiato è divenuto Franco Battiato andando a Milano, cantando al pubblico del nord. Napoli è una delle grandi città della storia italiana, è stata una grande capitale europea”. “Gli intellettuali non esistono più nel modo in cui li intendi tu. Parlando di Napoli, un intellettuale era Benedetto Croce, ma quel tipo di intellettuale non esiste più. Gli intellettuali attuali preparano programmi per i computer, aerei da guerra, o preparano i vaccini e salvano delle vite. Poi ci sono gli intellettuali umanisti, e sto parlando di me. Ho scritto più di 30 libri, da tanti anni a questa parte la mia anima la metto in quello". Chiosa finale sulle differenze tra il calcio passato e quello attuale: “Dire il calcio di una volta non ha senso, lo sport evolve. Omar Sivori mi diceva che quando aveva la palla il difensore restava a 5 metri perché avevano paura di un tunnel. Oggi gli arriverebbero 3 giocatori addosso, le difese attuali paralizzano anche il miglior attaccante. Se prima andavano a 10km/h, oggi vanno a 40. Con Il VAR attualmente vedi anche un risvolto di camicia in fuorigioco, ma questa è una porcata. Il fuorigioco deve essere palese”

Da areanapoli.it il 7 dicembre 2021. "Milano in ginocchio, Napoli fa barba e capelli a tutti", Roberto D’Agostino, giornalista e opinionista, parla di Napoli nel suo articolo per Vanity Fair e lo fa con parole sublimi. “L’ultima stoccata è arrivata, pesante come un casatiello lievitato male, dalle pagine del quotidiano parigino “Le Figaro”: ‘’Napoli è il terzo mondo d’Europa”. Mammamia! Un disprezzo duro, sordo, e soprattutto ingiustificato, se ti tiene conto che la malavita di Napoli è in gran parte quella di tutte le capitali del mondo; una paranoia che poi sfiora sornionamente il Vangelo, dove com’è noto le priorità alla fine s’invertono". "Ad esempio, chi si ricorda più della capitale “economica e morale” del Paese? Era la “Milano da bere”, secondo il borioso slogan pubblicitario che gli anni Ottanta avevano assunto come parola d’ordine. Alla fine, a furia di sentirselo ripetere dagli aedi di un sistema basato sugli affaristi, le clientele, le mazzette e i ladri, la città a misura Duomo si è sbronzata. Ed è finita come normalmente finiscono gli ubriachi: in ginocchio. Da “Milano da bere” a “Milano da Borrelli”, il passo è stato breve. Ed oggi, alla faccia di “Le Figaro”, la città di Totò e di Eduardo, di Massimo Troisi e Sophia Loren, fa barba e capelli a chiunque, perché è la città più creativa e sorprendente d’Italia, campionato di calcio compreso. E quando qualcuno studierà, fra una ventina d’anni, la scena culturale italiana degli anni 2000, avrà la sorpresa di scoprire quanti incendi hanno fatto schiattare il Vesuvio". D'Agostino aggiunge: "Da Pompei ai Campi Flegrei, l’arco del golfo è una linea di fuoco che schizza una cinematografia di assoluto talento: dall’oscarizzato Paolo Sorrentino (con l’ultimo film, “E’ stata la mano di Dio”, sta viaggiando di nuovo verso Hollywood) a Mario Martone, acclamato regista di “Qui rido io”, con la storia di Eduardo Scarpetta. Protagonista-feticcio, sia di Sorrentino che di Martone, è Toni Servillo, pieno di quella proverbiale esuberanza tellurica che rimescola godimento e sentimento, passione narcisistica e scoramento malinconico". "All’ultima Mostra del Cinema di Venezia, ha colpito l’immaginazione del pubblico anche un altro autore partenopeo: Michelangelo Frammartino, regista de “Il buco”. Napoli è adesso la città con più attori di talento per cinema e fiction, come Serena Rossi e Massimiliano Gallo, Luisa Ranieri e Alessandro Preziosi, Silvio Orlando e Teresa Saponangelo (oggi la migliore attrice italiana)". "L’Eden e le Malebolge, la bellezza e l’inferno, la miseria e la nobiltà, la pizza margherita e la camorra, Maradona e Totò: questa città è stata anche tra i più straordinari cantieri dell’arte in Italia. Qui avvenne la consacrazione dell’Arte Povera, qui Andy Warhol non esitò a mettere il Vesuvio accanto alla zuppa Campbell’s e alla Coca Cola, a Mao e a Marylin; qui è nata l’esperienza (unica) delle stazioni della metropolitana fatte ad arte, da Gae Aulenti a Joseph Kosuth. Qui c’è il più memorabile museo italiano, l’Archeologico, zeppo di opere di una bellezza assoluta". "Ecco Napoli non ha bisogno di fare cultura. E’ cultura. Ogni angolo di Napoli è un capitolo di un’ipotetica Storia universale. La cultura a Napoli non ha nulla di accademico. Non è neppure museale, pur essendo la città un enorme museo. E’ una cultura umana, dove il semaforo rosso non è un divieto, ma solo un consiglio. E destra e sinistra, solo delle mere indicazioni stradali”, ha concluso D'Agostino.

Roberto D’Agostino per VanityFair.it il 29 novembre 2021. Seduta tra un Vesuvio e una Scampia, contesa tra il mare e la lava, stretta tra Dio e Satana, da sempre Napoli riesce a coagulare brividi e lividi, denunce catastrofiche, ammissioni d'inferiorità, irresponsabilità, incompetenza, cronica arretratezza, disprezzo. Una vulcanica città da bombardare e degradare a metafora: è un binario morto, un bel paio di manette, una polpetta avvelenata, una piedigrotta svaccata, un puttanone antico, un pascolo di mostri, un pre-assaggio dell'Inferno, una Calcutta senza vacche. L’ultima stoccata è arrivata, pesante come un casatiello lievitato male, dalle pagine del quotidiano parigino “Le Figaro”: ‘’Napoli è il terzo mondo d’Europa”. Mammamia! Un disprezzo duro, sordo, e soprattutto ingiustificato, se ti tiene conto che la malavita di Napoli è in gran parte quella di tutte le capitali del mondo; una paranoia che poi sfiora sornionamente il Vangelo, dove com'è noto le priorità alla fine s'invertono. Ad esempio, chi si ricorda più della capitale "economica e morale" del Paese? Era la "Milano da bere", secondo il borioso slogan pubblicitario che gli anni Ottanta avevano assunto come parola d'ordine. Alla fine, a furia di sentirselo ripetere dagli aedi di un sistema basato sugli affaristi, le clientele, le mazzette e i ladri, la città a misura Duomo si è sbronzata. Ed è finita come normalmente finiscono gli ubriachi: in ginocchio. Da "Milano da bere" a "Milano da Borrelli", il passo è stato breve. Ed oggi, alla faccia di “Le Figaro”, la città di Totò e di Eduardo, di Massimo Troisi e Sophia Loren, fa barba e capelli a chiunque, perché è la città più creativa e sorprendente d’Italia, campionato di calcio compreso. E quando qualcuno studierà, fra una ventina d’anni, la scena culturale italiana degli anni 2000, avrà la sorpresa di scoprire quanti incendi hanno fatto schiattare il Vesuvio. Nella letteratura, ad esempio, oltre a Roberto Saviano e Maurizio De Giovanni, Napoli ha fornito una irresistibile miscela di spirito e materia, ossia qualcosa di invisibile, di metafisico, di spirituale, ai romanzi dell’enigmatica Elena Ferrante, che svetta nelle classifiche dei libri più venduti nel mondo, idolatrata anche dalla critica più severa. Alla Ferrante si sovrappone il mitologico 94enne Raffaele La Capria, autore di capolavori come "Ferito a morte", da sempre critico nei confronti di ogni messinscena stereotipata e cartolinesca della "napoletanità". Da Pompei ai Campi Flegrei, l'arco del golfo è una linea di fuoco che schizza una cinematografia di assoluto talento: dall’oscarizzato Paolo Sorrentino (con l’ultimo film, “E’ stata la mano di Dio”, sta viaggiando di nuovo verso Hollywood) a Mario Martone, acclamato regista di “Qui rido io”, con la storia di Eduardo Scarpetta. Protagonista-feticcio, sia di Sorrentino che di Martone, è Toni Servillo, pieno di quella proverbiale esuberanza tellurica che rimescola godimento e sentimento, passione narcisistica e scoramento malinconico. All’ultima Mostra del Cinema di Venezia, ha colpito l’immaginazione del pubblico anche un altro autore partenopeo: Michelangelo Frammartino, regista de “Il buco”. Napoli è adesso la città con più attori di talento per cinema e fiction, come Serena Rossi e Massimiliano Gallo, Luisa Ranieri e Alessandro Preziosi, Silvio Orlando e Teresa Saponangelo (oggi la migliore attrice italiana). L’Eden e le Malebolge, la bellezza e l’inferno, la miseria e la nobiltà, la pizza margherita e la camorra, Maradona e Totò: questa città è stata anche tra i più straordinari cantieri dell’arte in Italia. Qui avvenne la consacrazione dell’Arte Povera, qui Andy Warhol non esitò a mettere il Vesuvio accanto alla zuppa Campbell's e alla Coca Cola, a Mao e a Marylin; qui è nata l’esperienza (unica) delle stazioni della metropolitana fatte ad arte, da Gae Aulenti a Joseph Kosuth. Qui c'è il più memorabile museo italiano, l'Archeologico, zeppo di opere di una bellezza assoluta. Ecco Napoli non ha bisogno di fare cultura. E' cultura. Ogni angolo di Napoli è un capitolo di un'ipotetica Storia universale. La cultura a Napoli non ha nulla di accademico. Non è neppure museale, pur essendo la città un enorme museo. E' una cultura umana, dove il semaforo rosso non è un divieto, ma solo un consiglio. E destra e sinistra, solo delle mere indicazioni stradali. 

Le Figaro impietoso: «Napoli è terzo mondo d’Europa». E salva solo il Polo hi tech di San Giovanni a Teduccio. Reportage del giornale francese. «Manfredi? Le élite napoletane lo aspettano come un messia». E ancora: «Mentre tutte le città si trasformano, essa resta arroccata ai suoi cliché». Anna Paola Merone su Il Corriere della Sera il 16 novembre 2021. Napoli fra luci e ombre. Una città «fatiscente e soffocata dai suoi debiti, in attesa del suo salvatore». Le Figaro ha raccontato le elezioni in Italia dedicando quasi una pagina al caso Napoli. L’articolo di Valèrie Segond è stato pubblicato domenica 3 ottobre. E parte da un assunto. «Se non fosse tifoso dichiarato della Juventus Gaetano Manfredi avrebbe buone possibilità di essere eletto al primo turno sindaco di Napoli... É l’opposto del sindaco uscente... Le élite napoletane lo aspettano come il Messia» scrive Segond, che è stata profetica. «Gaetano Manfredi si è effettivamente imposto su tutti, ha vinto a mani basse — rileva —. Noi abbiamo scelto di raccontare Napoli proprio perché immaginavamo che la vittoria sarebbe stata immediata e schiacciante, perché Napoli è una città di riferimento per tanti francesi che ci vivono e la scelgono per i propri viaggi. É una vera città del Sud, ricca di problemi, di contraddizioni, affogata dai debiti e dal problema della camorra e più suscettibile ad eventuali cambiamenti. La cronaca di quei giorni è un punto di partenza per decifrare il presente e mettere a fuoco le priorità, le emergenze, i punti critici ma anche per sottolineare la grandezza di una città, che fa innanzi tutto riferimento allo sviluppo tecnologico. Voi avete una piccola Silicon Valley, autentiche eccellenze».

La vita quotidiana difficile

Per il resto c’è poco da stare allegri: «Napoli è il terzo mondo d’Europa» racconta Segond che ricorda il tunnel della Vittoria chiuso, Bagnoli e i suoi trent’anni di promesse e progetti caduti nel vuoto, il traffico nelle strade, il degrado, il verde abbandonato. «Mentre tutte le città d’Europa si trasformano, Napoli resta arroccata ai suoi cliché, che sono anche il suo fascino». Perciò i turisti la amano, la vita culturale è vivace e i musei di certo affollati, ma la vita quotidiana resta difficile, con i trasporti pubblici che affannano, i cantieri della metropolitana aperti dal 1990 e ancora in sospeso e i servizi comunali poco efficienti, con un organico di addetti insufficiente e la povertà nelle periferie esplosiva. «Una povertà dei servizi— che ha raccontato a Le Figaro il direttore del Corriere del Mezzogiorno , Enzo d’Errico — ha innanzi tutto penalizzato gli indigenti, che non possono permettersi di ricorrere a servizi privati».

«Apple in una terra desolata»

La piccola delinquenza e la camorra occupano in modo diverso i territori e fanno affari anche nel settore della sanità. Intanto la Regione ha avviato alcune azioni di rigenerazione urbana, come a Scampia, «città dormitorio a Nord di Napoli celebre per Gomorra » rileva il giornale francese. Ma il vero polo d’eccellenza è a San Giovanni a Teduccio. «Una terra desolata dove Apple ha creato nel 2016 un centro europeo di formazione per sviluppatori di app, l’Apple Academy al quale si sono aggregate altre nove aziende tecnologiche.... Un polo dal quale in totale un migliaio di giovani escono ogni anno» rileva Le Figaro al quale Giorgio Ventre direttore scientifico di Apple Academy, dice con grande chiarezza che a Napoli «c’è una piccola Silicon Valley, la terza per il numero di star up create». Altra luce nella città dolente è Tecno: «Alla Riviera di Chiaia vista mare c’è una società — racconta Valérie Segond — per il monitoraggio a distanza dell’impatto ambientale dei grandi siti». Il presidente e fondatore Giovanni Lombardi racconta con orgoglio alla testata francese che dei suoi 140 dipendenti, 25 vengono dal Nord. Ma le ombre sono cupe. «Napoli è sommersa dai debiti e ha il più alto debito procapite in Italia» come conferma a Segond il candidato Manfredi. Che adesso, da sindaco, si è rimboccato le maniche, ha una sua squadra e aspetta che il Governo mantenga alcune promesse. Mentre la Francia osserva da lontano.

Sorrentino: Napoli si difende da sola

E, sollecitati dai cronisti, sul tema oggetto dell’articolo di Le Figaro si sono soffermati anche il regista premio Oscar Paolo Sorrentino , nella sua città per presentare «È stata la mano di Dio», e l’attore Toni Servillo. «Quando giravamo “L’uomo in più” - dice Servillo - il set era affollato di curiosi. Come si chiama sto film? Chiese un ragazzo. E io: “L’uomo in più”. Ah, già l’aggio visto, rispose. Anche oggi è così spiazzante e magnifica: è il terzo mondo questo? Se sì, io lo amo». E Sorrentino: «Misi Toni e gli altri della band in una decappottabile molto piccola: erano in 5. Un ragazzo mi fece la stessa domanda e disse: in più nel senso che state stritt stritt dentro la macchina?». E dunque: «Mi pare che Napoli si difenda benissimo da sola».

MA PERCHÉ LE FIGARO NON FA LA CAMPAGNA PER IL BIDET NEI BAGNI FRANCESI? Napoli è “il terzo mondo dell’Europa” si legge in un articolo del giornale parigino. Il complesso di inferiorità dei francesi si manifesta, ormai, in maniera sistematica. Michele Inserra su Il Quotidiano del Sud il 17 novembre 2021. Napoli è “il terzo mondo dell’Europa”. Il complesso di inferiorità dei francesi si manifesta, ormai, in maniera sistematica. D’altronde come si può pretendere che si percepiscano le bellezze e l’unicità di Napoli in tutta la sua complessità e problematicità se ancora oggi non si è riusciti a comprendere l’importanza e la funzione di un bidet in un bagno? 

“Mi pare che Napoli si difenda benissimo da sola”. Di poche e sentite parole è stato ieri Paolo Sorrentino, in occasione della presentazione napoletana del suo film “È stata la mano di Dio”. D’altronde la non curanza è il miglior disprezzo, come ci insegnano i nostri avi. “Le Figaro”, con un articolo scritto dall’inviato Valerie Segond, pubblicato il 3 ottobre e ripreso ieri dal Corriere del Mezzogiorno, ha fatto una analisi con la solita letteratura a senso unico che vuol vedere la città prevalentemente come terra di camorra, malaffare, munnezza, spaghetti, pizza e mandolino. “Napoli è il terzo mondo d’Europa”, dice parlando del tunnel della Vittoria chiuso, di Bagnoli, del traffico e del verde abbandonato. “Mentre tutte le città d’Europa si trasformano, Napoli resta arroccata ai suoi cliché, che sono anche il suo fascino”, continua. Tante ombre, pochissime luci. Le Figaro parla di San Giovanni a Teduccio come una cattedrale nel deserto: «Una terra desolata dove Apple ha creato nel 2016 un centro europeo di formazione per sviluppatori di app, l’Apple Academy al quale si sono aggregate altre nove aziende tecnologiche…. Un polo dal quale in totale un migliaio di giovani escono ogni anno». Il reportage, uscito prima delle elezioni amministrative, descriveva – questo il titolo – una città «fatiscente e soffocata dai debiti, in attesa del suo salvatore», ossia Gaetano Manfredi: «Se non fosse tifoso dichiarato della Juventus avrebbe buone possibilità di essere eletto al primo turno… è l’opposto del sindaco uscente… le élite napoletane lo attendono come il Messia», scriveva l’autrice del servizio. “Gaetano Manfredi si è effettivamente imposto su tutti, ha vinto a mani basse – continua -. Noi abbiamo scelto di raccontare Napoli proprio perché immaginavamo che la vittoria sarebbe stata immediata e schiacciante, perché Napoli è una città di riferimento per tanti francesi che ci vivono e la scelgono per i propri viaggi. É una vera città del Sud, ricca di problemi, di contraddizioni, affogata dai debiti e dal problema della camorra e più suscettibile ad eventuali cambiamenti. La cronaca di quei giorni è un punto di partenza per decifrare il presente e mettere a fuoco le priorità, le emergenze, i punti critici ma anche per sottolineare la grandezza di una città, che fa innanzi tutto riferimento allo sviluppo tecnologico. Voi avete una piccola Silicon Valley, la terza per il numero di star up create”. A replicare al giornale francese è anche l’attore Toni Servillo sempre in occasione della presentazione della pellicola di Sorrentino. “Parto da una constatazione: tra settembre e dicembre io ho tre film in sala di tre grandi autori campani (‘Qui rido io’ di Mario Martone, ‘Ariaferma’ di Leonardo Di Costanzo e ‘E’ stata la mano di Dio’ di Paolo Sorrentino, ndr), quindi mi sembra che il bilancio di questa città sia molto buono – ha commentato –  Io non saprei vivere da un’altra parte del mondo, quindi amo profondamente questo terzo mondo”.   Raccontare Napoli e in generale il Sud abolendo una letteratura a senso unico potrebbe essere un grosso passo in avanti. Non si deve oscurare nulla. Nel bene e nel male. Oggi, purtroppo, negare il fermento e la voglia di cambiamento che si registra in alcune periferie di Napoli, significa mortificare il lavoro di tanti volontari che hanno scelto di sporcarsi le mani, rischiando in prima persona. C’è ancora tanto da fare. Questo è palese. Ma la speranza c’è, nonostante tutto.

NON È LA PRIMA VOLTA 

Una “class action”, con annessa richiesta di scuse e danni alla tv francese per il video, diventato virale sui social, con il quale si sbeffeggia con ironia di pessimo gusto la pizza italiana sfruttando il dramma del coronavirus: nel marzo del 2020 ad annunciare l’iniziativa furono l’associazione napoletana “Noiconsumatori”, presieduta dall’avvocato Angelo Pisani e il presidente di “FareAmbiente Campania”, Francesco Della Corte. «Il tentativo di sporcare l’immagine dell’Italia e le sue eccellenze alimentari, – scrissero in una nota – che non rappresentano di certo un mero e semplice piatto ma il frutto di storia, cultura e tradizioni italiane, non può e non deve passare inosservato». «Ci aspettiamo, – spiegarono Pisani e Della Corte – oltre al risarcimento danni, anche che le istituzioni francesi prendano immediatamente le distanze da quanto accaduto. Nessuno può mettere in dubbio le eccellenze dei prodotti italiani nel mondo, da sempre orgogliosamente simbolo della nostra identità nazionale e di elevata qualità».  Dalla Francia arrivò solo silenzio.

"Macaronì", "Les italians": i francesi contro i nostri operai. Roberto Vivaldelli su il Giornale il 17 novembre 2021. Sembra di fare un salto indietro nel tempo, quando gli italiani emigravano verso gli altri Paesi europei in cerca di lavoro e di maggiore fortuna. In Belgio, dove moltissimi erano finiti a lavorare nelle miniere, i nostri connazionali venivano chiamati con disprezzo macaronì, epiteto che prende il nome dalla pasta che gli italiani mangiavano e che i belgi non conoscevano. Qui invece siamo in Francia e li chiamano semplicemente les italians. Come riportato dal quotidiano La Nazione, fino al 31 dicembre, in alcuni casi addirittura fino a giugno, lo stabilimento Stellantis (ex Fiat) di Noidans-les-Vesoul, comune francese situato nel dipartimento dell'Alta Saona nella regione della Borgogna-Franca Contea, ospiterà circa 200 operai metalmeccanici provenienti da Melfi e Pomigliano d’Arco. Le condizioni di lavoro in Francia sono un compenso per vitto e alloggio, ma nessun bonus specifico. Possono tornare a casa ogni 45 giorni e lo stipendio è lo stesso: i sindacati parlano apertamente di "ricatto". Come scrive la stampa francese, les italiens "in città si riconoscono dai vestiti invernali come se stessero sciando, cappello all'altezza delle orecchie, grande piumino chiuso fino al mento". Dopo il lavoro, "questi italiani di Melfi e Pomigliano vicino a Napoli si incontrano alla Bella Vita, una pizzeria gestita da un italiano che fa loro da interprete e che è diventata il fulcro di buoni affari per trovare un alloggio economico". No, non siamo negli Anni '20 del secolo scorso ma nel 2021, anche se il tempo sembra essersi fermato. Come riporta France Info, il gruppo automobilistico, che cerca di ottimizzare la propria forza lavoro, ha offerto a 200 dipendenti italiani di percorrere 1.300 chilometri per lavorare a Vesoul. Lo stabilimento dell'Alta Saona, infatti, non è così colpito dalla crisi come gli altri siti perché non produce automobili: è l'hub globale per i pezzi di ricambio e dunque il lavoro non manca. Il problema è un altro: gli italiani hanno inconsapevolmente preso il posto di 300 precari francesi, notizia che ha fatto infuriare i cugini d'oltralpe e rischia di scatenare una "guerra" fra poveri. Jean-Pierre Mercier, delegato sindacale CGT a Stellantis, ha denunciato la volontà dell'azienda di "trasformare i dipendenti in nomadi dell'industria automobilistica". Secondo il sindacalista, "il sito di Vesoul è oberato di lavoro, c'è un ritardo di produzione monumentale. Non sarà sufficiente l'arrivo dei lavoratori di Mulhouse e di Sochaux, e dei lavoratori italiani della Fiat. Soprattutto se la direzione licenzia tutti i precari". Per Mercier, Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis, "vuole dislocare in giro per l'Europa, italiani, francesi e polacchi, per guadagnarci. Vorrebbe metterci in competizione tra di noi". È una politica davvero mortale per noi dipendenti, insiste, Una "vera politica di concorrenza tra i lavoratori". L'obiettivo di Stellantis, secondo i sindacati, è aumentare ulteriormente i profitti nonostante la crisi dei semiconduttori, per abbassare i salari, con un conseguente peggioramento delle condizioni lavorative generali. Esattamente come in passato, gli italiani si presentano nel Paese che li ospita con grande umiltà e voglia di lavorare. Ciro, ad esempio, racconta a France Info di essere partito a causa della "crisi" in Italia dopo essere "rimasto a lungo senza lavorare". "Anche se facciamo sacrifici per partire, almeno qui ci restituiscono un po' di dignità" spiega. I siti produttivi vengono chiusi per mancanza di semiconduttori e le giornate in cui non si lavora non vengono pagate. "In Italia i siti sono stati chiusi per molto tempo. Lì lavoravamo due o tre giorni alla settimana" racconta un altro operaio approdato in Francia. A Vesoul gli italiani lavorano come magazzinieri, preparano gli ordini. Domenico si è dovuto adattare alle nuove mansioni: "Siamo pronti a tutto. Da 1.300 chilometri, anche per fare un altro lavoro. L'importante è poter sfamare i nostri figli e vivere, semplicemente", spiega. Circostanze che ricordano da vicino l'emigrazione italiana del Novecento e fine Ottocento. Come ricorda l'enciclopedia Treccani, fra il 1880 e 1900 in Europa la meta preferita dell'emigrazione italiana fu la Francia, seguita da Austria, Germania e Svizzera, oltre al Sud America e agli Stati Uniti. La Francia divenne la meta preferita degli italiani anche nel decennio 1920-30, anche se con il fascismo il fenomeno migratorio si ridusse drasticamente (e riprese nel secondo dopoguerra). I numeri erano importanti: basti pensare che all'inizio degli anni '30 erano più di 800.000 i nostri connazionali in terra francese. Molti arrivavano dal nord Italia, in particolare dal Piemonte ma anche da regioni come la Toscana. E ora, dopo tanti anni, nel 2021 in Francia tornano Les Italiens.

Ecco quanto costa agli italiani il flop dei supermercati francesi. Andrea Muratore il 17 Novembre 2021 su Il Giornale. Auchan e Carrefour: i francesi rompono e i cocci sono italiani, in termini di problemi economici, posti di lavoro a rischio, attività legate all'indotto, alla logistica, alla subfornitura danneggiate o costrette a chiudere. Per anni sono stati marchi di grande distribuzione organizzata noti e apprezzati nel nostro Paese, ma l'ultimo biennio ha cambiato tutto: i due colossi francesi della grande distribuzione organizzata, Auchan e Carrefour, hanno drasticamente corretto le proprie strategie nella penisola. Ritirandosi completamente, come ha fatto Auchan, o accorciando notevolmente le proprie linee, come ha annunciato di voler fare Carrefour, i due marchi francesi hanno segnato e segneranno profondamente un mercato fortemente concentrato e in cui ogni riorganizzazione settoriale costa notevolmente in termini di occupazione e impatto economico, soprattutto a livello locale. Il recente caso di Esselunga che è stata capace di sfondare il "muro" delle Coop e insediarsi a Livorno dopo una battaglia pluriennale segnala la complessità del mercato della Gdo italiana in cui, forti del loro potere di mercato, Auchan e Carrefour negli ultimi decenni erano entrate a passo di carica forte di un potere economico e finanziario sostenuto dal capitalismo nazionale transalpino. Che della battaglia per l'espansione dei suoi marchi di punta aveva fatto una punta di lancia per la promozione del suo brand in termini di prodotti e sistema-Paese all'estero. Auchan e Carrefour hanno penetrato il mercato italiano, ne hanno modificato gli assetti e trasformato le dinamiche salvo poi decidere strategie strutturali con un semplice tratto di penna.

Il ridimensionamento di Carrefour

Ultima tegola in ordine di tempo per l'economia italiana è arrivata da Carrefour. Il gruppo, un autentico gigante con diffusione globale, col suo piano industriale per il 2022, ha avviato una procedura di licenziamento collettivo per 769 lavoratori e lavoratrici: 261 dipendenti in 27 Ipermercati, 313 in 67 market, 168 in 10 cash&carry e 168 posti di lavoro presso le sedi amministrative di Milano, Nichelino, Roma, Airola, Gruliasco, Napoli, Rivalta e Moncalieri. Previste inoltre 106 chiusure, 82 di Carrefour Express e 24 di Carrefour Market. Un problema strutturale, quello che potrebbe aprirsi, legato principalmente al fatto che i Carrefour chiusi corrispondono ad altrettanti contesti di comunità locali e di vicinato che con l'avanzata tentacolare del gruppo francese, ben esaminabile in città come Milano, hanno visto la chiusura di attività di prossimità e la distribuzione organizzata finire in mano a un sostanziale oligopolista.

Proiezione diretta del sistema-Paese Francia, come dimostrato dalle manovre del governo di Emmanuel Macron per evitarne la scalata da parte di operatori stranieri nei mesi scorsi. Non sembra sufficiente la giustificazione di Carrefour Italia circa un piano che sarà "gestito su base esclusivamente volontaria" per la riduzione del personale: che ne sarà di chi lavora in punti vendita destinati alla chiusura, senza possibilità di trovare un altro market nelle vicinanze? Come conciliare questa dichiarazione con la certosina distribuzione dei tagli al personale tra le varie fasce di punti vendita? Come per Auchan, anche Carrefour sembra esser stata colpita dal contraccolpo della passata volontà di esercitare un assiduo, forse eccessivo presidio del territorio. Una "bulimia" di presenza che alla lunga ha potuto incentivarsi per la superiore potenza finanziaria del gruppo francese, ma non è stata finanziariamente sostenibile.

L'addio di Auchan

Nel 2019 Auchan ha scelto di ritirarsi dal mercato italiano promuovendo l'idea di un calo sensibile del fatturato retali e ceduto i suoi asset a Conad in seguito all’acquisizione realizzata dal veicolo Bdc, controllato dal gruppo distributivo (51%) e dalla WRM (49%) del finanziere Raffaele Mincione. La Conad è un gruppo in salute, ha chiuso il 2019 pre-pandemico con un fatturato da 14,3 miliardi di euro arrivato nel 2020 a 15,95 miliardi, in aumento del 12,3%, ma ha sempre messo in chiaro che l’operazione Auchan avrebbe portato in dote tagli ai punti vendita dei marchi controllati, compreso Simply, ridimensionamento delle attività non alimentari e sforbiciate al numero dipendenti. In sostanza, Auchan ha lasciato dietro di sé una situazione difficilmente gestibile in termine di management del patrimonio immobiliare, sviluppo della rete logistica, piani di crescita industriale.

Tanto da lasciare una vera e propria "patata bollente" in mano a Conad: "l’acquisizione di Auchan Italia da parte di Conad avvenne senza debiti pregressi e con un capitale sociale di un miliardo di cui 500 milioni versati da Auchan holding per coprire circa 30 mesi di possibili perdite", ha scritto Il Sole 24 Ore. Nel corso di un anno e mezzo attraversato dalla pandemia, è andato in scena un gigantesco processo di ristrutturazione nel corso del quale è stata data nuova forma alla struttura di rete costituita da 17 mila addetti in 269 negozi, più varie sedi regionali, poco più della metà delle quali (55%) è entrata in Conad. Il 40% è stato diviso tra varie sigle, insegne, dettaglianti. Il resto, invece, rischia di trasformarsi in una "Rust Belt" commerciale fatta di vani sfitti, negozi ridotti di dimensione, ipermercati in parte vuoti e, soprattutto, lavoratori nell'incertezza. A maggio in queste vertenze seguite alla precipitosa ritirata di Auchan dall'Italia rimanevano incerti i destini di 32 punti vendita ex Simply/Auchan con 838 addetti, di cui 5 quadri.

In entrambi i casi, i francesi rompono e i cocci sono italiani, in termini di problemi economici, posti di lavoro a rischio, attività legate all'indotto, alla logistica, alla subfornitura danneggiate o costrette a chiudere. Il protagonismo francese nella Gdo è dunque da tenere seriamente sotto controllo: e non è l'unico campo in cui la volontà transalpina di giocare un ruolo dominante nel nostro Paese può condurre a squilibri. Come, dagli alimentari alle Tlc, numerosi altri noti casi insegnano. Andrea Muratore

La polemica. Le Figaro sbaglia, Napoli è una città-mondo. Nino Daniele su Il Riformista il 18 Novembre 2021. Dall’empireo del primo mondo i giornalisti de Le Figaro hanno fatto ricorso alla più abusata metafora per descrivere Napoli: quella di essere una città da terzo mondo. Stereotipo talmente ripetuto da sconfinare nella ovvietà e nella banalità seriale. Se è tutto qui lo sforzo analitico dei redattori del giornale francese non possiamo che mostrarcene delusi. Prima ancora che addolorati. Non offesi. Non ci tange. Già l’espressione in sé contiene residui colonialistici nella visione del mondo che manifesta ma, soprattutto, stride con il fortissimo legame storico e culturale che lega Napoli alla Francia. Un rapporto che, grazie al lavoro di ambasciatori, consoli, direttori dell’Istituto francese di Napoli presso il Grenoble, ha prodotto iniziative culturali ed artistiche di estremo interesse e carica innovativa. Sia nella ricerca storica e filosofica che nei linguaggi dell’espressività artistica contemporanea la circolazione e la produzione culturale tra Napoli e la Francia è intensa, di mutuo arricchimento, feconda, creativa. Consideriamo pertanto l’angusta lettura de Le Figaro espressione di un punto di vista molto parziale e per nulla rappresentativo dello sguardo e della considerazione rispettosa con cui dalla Francia si guarda a Napoli. Le parole generose e amichevoli del presidente Macron e della sua consorte, così intimamente connessi con la nostra città, ne sono testimonianza preziosa e mettono al riparo un rapporto che ha molto da dare all’Europa e ai grandi ideali riformisti che devono guidarla fuori dalla crisi drammatica e dalle difficoltà presenti. La Napoli contemporanea è una grande metropoli euromediterranea nella quale sono riscontrabili mali, disagi sociali, croniche arretratezze, disuguaglianze di reddito ed opportunità ma nel contempo livelli alti ed eccellenti in molti campi della produzione, della ricerca scientifica, dei saperi e della conoscenza, dell’immaginario artistico, delle reti della solidarietà sociale e dei legami civili. Nella cultura, nelle arti, nella ricerca scientifica, nell’innovazione tecnologica Napoli è oggi uno dei luoghi più interessanti e stimolanti; attrae e affascina non solo per il suo patrimonio universale di pensiero e storia ma per la vitalità creativa e il talento che alimentano teatro, musica, letteratura, cinema, arti figurative ecc. Napoli è una città attraversata da aspre contraddizioni. I conflitti che la connotano non sono i residui di un passato non più redimibile, di un angolo morto della storia. Sono il cuore delle drammatiche alternative del presente dell’Occidente. In questo senso Napoli come in altri momenti cruciali della sua storia è città-mondo. Città che anche nei momenti più difficili della sua storia ha saputo parlare al mondo. Dialogare con il mondo. Idee e modelli di sviluppo, modi e forme delle relazioni tra ceti e classi sociali, gerarchie territoriali e di potere sono in discussione. Napoli vive, li attraversa, si rappresenta. Lo fa senza nascondersi e senza nulla occultare della drammaticità della posta in gioco. A volte spietata e senza indulgenze anche con sé stessa. Forse è per questa radicalità popolare e dei sentimenti che respinge le ipocrisie e si fa patria delle inquietudini e città rifugio per gli insoddisfatti del migliore dei mondi possibili dove alberga l’areopago de Le Figaro. Nella narrazione impegna il suo essere la città più filosofica del mondo e l’orgoglio dei grandi pensieri, delle grandi personalità, dei moti storici e civili che l’hanno messa in relazione da protagonista con i punti più alti della civilizzazione europea, dei diritti universali dell’uomo, della libertà e della giustizia. Napoli è uno dei centri di cultura dove si prova a forgiare un nuovo umanesimo. Napoli ha coscienza che non può farcela da sola. Che nessuno si salverà da solo. È scritto da sempre nella sua lingua, nella sua musica, nelle sue canzoni, nella sua drammaturgia, nella sua cinematografia, nei suoi testi letterari e poetici. C’è molta più Europa qui cari amici corrispondenti. Quella Europa che ha iniziato un cambio di passo per affrontare i drammi della Pandemia. Quell’Europa che ha forse cominciato a comprendere che muri, fili spinati, periferie sterminate, oceani di esclusione, fratture sociali e generazionali non sono terzo mondo ma all’interno del mondo. Viva Napoli e Parigi. Siano esse all’altezza della loro storia, guida verso un mondo che offra a tutti la possibilità di ricercare la felicità. Nino Daniele

I numeri sulla criminalità minorile. I figli di Gomorra, tra loro si chiamano “fratelli” ma sono pronti ad accoltellarsi. Viviana Lanza su Il Riformista il 20 Novembre 2021. Tra di loro si chiamano «fratelli» ma sarebbero pronti ad accoltellarsi anche solo per uno sguardo, maneggiano armi da quando sono bambini, a scuola ci vanno «ma solo un po’», guardano alle istituzioni come a qualcosa di lontano tanto dalle loro terre quanto dalla loro vita, vivono con l’ossessione per il rispetto, che cercano dove non lo troveranno mai, nelle trame oscure e deformate della malavita. Sono i figli della Gomorra napoletana, i protagonisti di storie di devianza minorile, e sempre più spesso anche di fatti legati alla camorra vera e propria. Cresce, infatti, il numero dei minorenni in carcere per reati di associazione a delinquere di stampo camorristico, coinvolti in traffici di droga o nel giro delle estorsioni. E cresce anche il numero dei reati commessi da ragazzini e adolescenti: si stima, infatti, che il dato reale sia di ben cinque volte superiore a quello ufficiale. Ebbene sì, se sulla carta la devianza minorile sarebbe un problema più di città come Milano e Bologna, nei fatti è a Napoli che il fenomeno ha proporzioni ben più ampie di quelle che appaiono. Colpa del fatto che si denuncia in un caso su cinque. Questa è una delle statistiche che sta emergendo da uno studio condotto dalla professoressa Maria Luisa Iavarone, ordinario di Pedagogia sperimentale dell’università Parthenope, e dal professor Giacomo Di Gennaro, ordinario di Sociologia giuridica e della devianza dell’università Federico II. “Devianza e uso di armi da parte dei minorenni” è la traccia dello studio promosso dall’ex prefetto Marco Valentini, con la collaborazione del direttore del carcere di Nisida Gianluca Guida e con la procuratrice Maria De Luzenberger, capo della Procura dei minori. Un’analisi che servirà non solo a far luce sui predittori del rischio potenziale di devianza nelle varie aree della città per consentire controlli più mirati nella sfera della repressione del fenomeno, ma anche a favorire un approccio innovativo, finalizzato a studiare e capire i significati di comportamenti. Si parte da una domanda: perché i giovani delinquono in un determinato modo? E la risposta la si sta cercando scavando nelle storie dei ragazzi reclusi a Nisida, storie di vita vera, testimonianze tanto dirette quanto allarmanti. «L’indagine qualitativa biografica serve a rintracciare quei sentieri “infetti”, l’antigene educativo, precursore che consente di creare poi percorsi di rieducazione precoce» spiega la professoressa Iavarone. Storie che hanno protagonisti diversi ma tutto il resto in comune: la scuola frequentata poco e male, il motorino per le stese e gli scippi, i soldi come status symbol, il rispetto come mantra. Alla prima comunione la bomboniera è una pistola di ceramica e il regalo l’ingresso ai poligoni della camorra. «Questi ragazzi – aggiunge Iavarone – crescono con un’educazione che li proietta in un immaginario criminogeno, verso una subutopia criminale. Potere, denaro e rispetto sono le categorie interpretative su cui si forgia la loro mente». Con la scuola hanno un rapporto opportunistico, con le istituzioni incidentale e marginale nella loro vita, con la giustizia accidentale, ci inciampano quando va male e si finisce in manette. «I reati più gravi – sottolinea il professor Di Gennaro – sono indicatori non solo di un disagio di un’area di devianza occasionale ma di una prossimità verso uno stile delinquenziale criminale preoccupante». «Bisogna insistere molto sulle politiche di prevenzione – aggiunge Di Gennaro – . Scuola, servizi di accompagnamento a uno stile di vita diverso, sport, tempo libero sono condizioni da sostenere ma in maniera costante e duratura (non si può pensare di risolvere in un anno o due), per abbattere il problema della povertà educativa e dell’evasione scolastica e accompagnare questi ragazzi a inserirsi nel mercato del lavoro in maniera celere e legale, non quindi quello del lavoro nero che li farebbe sentire sfruttati riportandoli verso quello criminale».

LE STATISTICHE

Carcere

Sono 317 in Italia i minori reclusi in istituti penali. A Nisida se ne contano 39, 26 ad Airola. Dei 39 ragazzi che si trovano nell’istituto di Nisida 12 sono minorenni e 27 maggiorenni, cioè giovani adulti. Quello della convivenza di adolescenti e ventenni nello stesso istituto è uno degli argomenti più dibattuti dagli esperti e al centro degli studi sulla devianza minorile. Il nodo riguarda i percorsi di rieducazione e recupero. Si parte dal presupposto che il mondo di un 14enne sia molto diverso da quello di un 20enne, e questo gap trasferito in contesti particolarmente deviati o devianti, come quelli da cui provengono spesso i giovanissimi reclusi negli istituti penali minorili, rischia di avere un effetto negativo sui percorsi di recupero. Gli istituti penali sono i luoghi in cui vengono condotti i minori accusati di reati più gravi. Sono luoghi in cui l’attività di recupero si sviluppa su un piano multidisciplinare, con un operatore socio-educativo di riferimento stabile appartenente all’amministrazione e la collaborazione di associazioni sociali e volontari per le attività culturali e formative.

Comunità

Le comunità sono un’alternativa agli istituti penali per i minorenni. Ministeriali o del privato sociale, sono strutture caratterizzate da una forte apertura verso l’ambiente esterno, nelle quali fanno ingresso i giovani destinatari anche di un provvedimento di messa alla prova o di concessione di una misura alternativa alla detenzione o di applicazione delle misure di sicurezza. Alcune comunità sono connesse ai centri di prima accoglienza. Il tema della rieducazione e del recupero dei minori è estremamente delicato. la normativa è finalizzata a preferire, tranne che nei casi particolarmente gravi, il collocamento dei minori accusati di reati in comunità prevedendo dei percorsi di reinserimento sociale. Dall’inizio dell’anno, in tutta Italia si sono contati 13.528 minori presi in carico agli uffici di servizio sociale, di cui 2.744 sottoposti alla messa alla prova (2.254 alla misura in casa, 490 in comunità) e 245 in misura penale di comunità alternativa alla detenzione (200 in casa e 45 in comunità). I dati sono riferiti sia ad adolescenti sia a giovani adulti, quindi dai 18 ai 24 anni.

Reati

Droga, furti, scippi. Sono questi i reati nei quali più frequentemente si imbattono i giovani della malaNapoli, bambini e adolescenti che finiscono nei giri infernali della criminalità perché vivono in luoghi dove ci sono poche alternative di legalità e grandi vuoti culturali e istituzionali. Secondo dati ministeriali aggiornati al 15 ottobre scorso, sono i reati contro il patrimonio quelli più diffusi e più al centro delle accuse di chi viene condotto in centri di prima accoglienza per essere poi destinato al carcere minorile o alle comunità di rieducazione. Tra i giovanissimi è boom di rapine (271 casi su un totale di 638 delitti di vario tipo), seguono i furti (88 casi), le estorsioni (11). Il trend che riguarda lo spaccio di stupefacenti è in crescita: 155 casi dall’inizio dell’anno, stando alla tabella ministeriale sui delitti a carico dei minori entrati nei centri di prima accoglienza da gennaio a ottobre scorsi. In preoccupante aumento anche i reati contro la persona (124 casi): si tratta in particolare di risse (84 episodi), omicidi volontari (5), tentati omicidi (17), sequestri di persona (5), violenze sessuali (5).

Disagio

Il disagio e il degrado fanno da sfondo a quasi tutte le storie di devianza minorile. Storie che arrivano dalle periferie di Napoli, quelle del centro cittadino e quelle ai margini. Avvocata, Montecalvario e Mercato sono i quartieri dove è maggiore l’incidenza dei crimini commessi dagli adolescenti napoletani. Barra e Ponticelli sono le aree dell’hinterland dove il fenomeno devianza fa registrare maggiori picchi. Lo studio che si sta conducendo su minori e criminalità mira anche a tracciare una mappa del crimine, individuando i giorni, le ore, i luoghi dove i minorenni delinquono più di frequente e questo in un’ottica di prevenzione dei reati. L’età più critica è quella attorno ai 17 anni: sono 17enni la maggior parte dei giovanissimi reclusi che fanno ingresso nei centri di prima accoglienza. Su 253 giovani, 110 hanno 17 anni, 89 sono 16enni, 42 hanno 15 anni, 11 sono 14enni. La stragrande maggioranza è di sesso maschile, ha interrotto precocemente gli studi, è condizionato dall’illusione del denaro facile, vive in un contesto familiare difficile e in un ambiente sociale in genere degradato.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

GOMORRA, MITO E REALTÀ DI NAPOLI.  Paolo Speranza su La Voce delle Voci il 29 Novembre 2021. L’onda lunga di Gomorra, partita nel 2008, è arrivata undici anni dopo anche sul Lido di Venezia, dove alla 76° Mostra del Cinema è stato presentato in concorso Il Sindaco del Rione Sanità, trasposizione cinematografica del regista Mario Martone dal celebre dramma (1960) di Eduardo De Filippo, uno dei più illustri e popolari autori/attori del XX secolo. Un classico della grande tradizione teatrale di Napoli rivisitato in maniera fedele al testo originale ma con una connotazione più esplicita dell’egemonia sociale della camorra e un’atmosfera chiaramente influenzata (nella fotografia, nel linguaggio, nel ritmo) dagli stilemi estetici di Gomorra. Anzi, delle due Gomorra: il film di Matteo Garrone, Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes del 2008, e la serie televisiva, giunta alla quinta edizione, che sta spopolando nel mondo.

“Atto primo. Vicoletto lungo, strettissimo, sporchissimo. Dettagli di cumuli di immondizia accumulata alle cantonate. […] Entrata del Guappo: faccia patibolare, pantaloni di velluto a campana, camicia aperta sul petto, larga fascia alla cintura. Didascalia: Guappo, emerito camorrista, terrore del rione. Guappo raggiunge Nennella, l’afferra per i capelli e la guarda fissamente. Didascalia: t’amo e sarai mia. Guappo, sempre tenendo Nennella per i capelli, la bacia furiosamente, le dà uno schiaffo, la rialza, la bacia ancora. Nennella lo respinge furiosamente…”

Sono le scene iniziali di Napule!, il finto soggetto per film che la rivista “Cinematografo”, diretta dal regista Alessandro Blasetti, pubblicò nel 1927 per ironizzare sulle pellicole “d’ambiente” che in Italia e nel mondo diffondevano l’immagine folkloristica e stereotipata della città di Napoli. Insieme al sole e al mare, alla luna di Marechiaro e alle canzoni, l’altro elemento costitutivo e opposto dell’immaginario su Napoli era appunto la camorra, con la sua realtà di violenza e disperazione nei quartieri più miseri e degradati. Il Paradiso e l’Inferno, la “città del sole” e Gomorra. Già un secolo fa. E nella parodia di Cinematografo risaltano diversi dettagli che ritroviamo nella fiction di oggi: dall’eterno problema dei rifiuti alla Napoli buia e abbandonata delle periferie, dalla cultura della prepotenza alla mentalità maschilista tipiche della malavita, e perfino quella ricerca di uno statusestetico (basato sull’ostentazione della ricchezza e di un’eleganza “moderna”) che oggi fa parlare di un vero e proprio Gomorra style, anche sulle copertine di eleganti riviste di moda, alimentato dal successo internazionale del film e della serie televisiva prodotti in Italia.

Ha dunque origini antiche il genere camorra movie, che nel cinema muto compare in alcuni drammi di Elvira Notari, la prima regista e produttrice italiana – film molto popolari a Napoli e tra gli emigrati in America e per questo censurati dal Fascismo (che non tollerava una rappresentazione realistica della città e dell’Italia) – e nella seconda metà del Novecento dà vita ad alcuni titoli importanti, di due tipologie differenti: le coproduzioni internazionali, con una cifra folkloristica più spiccata, come Amore e sangue (1950) e Il re di Poggioreale (1961), e la seconda con titoli made in Italy di forte impronta realistica, apprezzati da pubblico e critica, come Processo alla città (1952), di Luigi Zampa, e i più recenti Il camorrista (1986), che lanciò il futuro premio Oscar Giuseppe Tornatore, e Pianese Nunzio, 14 anni a maggio (1996), del regista napoletano Antonio Capuano.

Con il film di Tornatore si chiude definitivamente la rappresentazione (spesso folkloristica e superficiale) della camorra “storica”, quella dei “guappi”, figure arroganti e vistose, facilmente riconoscibili e con una dimensione rionale, per cedere il passo a una Nuova Camorra Organizzata, il clan del celebre boss Raffaele Cutolo, che a sua volta ha costituito il modello dell’organizzazione “manageriale” e dei traffici internazionali dell’attuale criminalità napoletana. 

IL NUOVO IMMAGINARIO CRIMINALE

La svolta che apre la strada al “fenomeno Gomorra” arriva nel 2006, quando escono in contemporanea due libri destinati a segnare una nuova stagione di inchieste e di analisi sulla camorra e, soprattutto, un nuovo linguaggio per rappresentarla.

Il primo è ‘O sistema, dei reporter Matteo Scanni e Ruben H. Oliva, libro + documentario ambientati nelle periferie di Napoli, “in quell’immenso Bronx metropolitano che lo Stato ormai non raggiunge più e dove spadroneggia un sistema criminale più radicato e violento della vecchia camorra, con un insieme di comportamenti e linguaggi e un’economia illegale che stringe i napoletani fino a soffocarli”, dice il giornalista Enrico Fierro, autore di inchieste su camorra e ‘ndrangheta.

I boss del “Sistema” vengono dall’hinterland di Napoli, da Casal di Principe, in provincia di Caserta, dove il clan guidato da Francesco Schiavone, detto “Sandokan”, organizzato come la mafia siciliana, ha costruito un impero economico attraverso la gestione di affari illeciti “tradizionali” (racket, usura, prostituzione) e soprattutto di appalti per l’edilizia e del nuovo “business” miliardario dello smaltimento di rifiuti tossici, provenienti dal Nord Italia, in quella vasta area della Campania che oggi, per l’inquinamento, è conosciuta come “la terra dei fuochi”.

Sono sempre loro, i “casalesi”, a minacciare di morte lo scrittore Roberto Saviano (che ancora oggi vive sotto scorta), autore nel 2006 di Gomorra, che da best seller internazionale è diventato un brand planetario e multimediale che sta connotando una nuova immagine di Napoli. Il successo del libro è replicato due anni dopo dal film di Garrone, che dopo l’affermazione a Cannes porta nelle sale di tutto il mondo le quattro storie di malavita e degrado (ambientale e morale) non direttamente comunicanti fra loro ma esemplari delle varie “facce” dell’universo camorristico: “Lo smaltimento dei rifiuti tossici, lo sfruttamento del lavoro nero, il meccanismo con cui il “sistema” arruola i ragazzini, il tentativo dei giovani cani sciolti di scalare le gerarchie criminali rappresentano altrettanti tasselli di un universo dal quale è impossibile fuggire: Garrone illumina di luce livida questo mondo pieno di morte e vitalità ferina, disegnando anche grazie all’abilità con cui mixa attori professionisti e volti presi dalla strada una credibile antropologia del Male. Ma i suoi protagonisti restano fino alla fine “personaggi”. Sarà poi la popolare saga televisiva targata Sky a farne dei “tipi” che nella serialità troveranno il loro fascino ma anche il loro limite,” spiega il critico cinematografico Antonio Fiore.

Il legame tra il prototipo cinematografico ed il serial sul piccolo schermo viene ribadito dal critico e docente universitario Diego Del Pozzo, autore del libro Ai confini della realtà. Cinquant’anni di telefilm americani: il film di Garrone porta il “´fenomeno Gomorra´ su un livello nuovo e ne suggerisce le potenzialità multimediali e transmediali che saranno successivamente esplorate dalla serie televisiva. Grazie al premio conquistato a Cannes l’universo criminale portato alla luce dal libro di Saviano diventa materia narrativa squisitamente audiovisiva, esaltata dallo sguardo registico di Garrone e dalla sua capacità di raccontare i luoghi e i corpi”.Ad alimentare l’eco mediatica del film di Garrone ha contribuito negli anni successivi la contaminazione tra fiction e cronaca, tra schermo e realtà: alcuni degli interpreti del film, attori non professionisti, sono diventati nella vita quotidiana protagonisti di reati e situazioni criminali, in una sorta di effetto collaterale imprevedibile e tragico, che a sua volta è materia congeniale per un nuovo romanzo o un’opera metacinematografica di amaro realismo. La trasformazione di questa realtà sociale richiede tempi lunghi, ma è evidente che Gomorra (film e libro) ha provocato un benefico choc sulle coscienze, come nel 1963 Le mani sulla città (Leone d’Oro a Venezia), il film di Francesco Rosi che rivoluzionò la rappresentazione, fino ad allora folkloristica, di Napoli e favorì una nuova consapevolezza popolare dei problemi della città. Non a caso l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, alla prima di Gomorra, indicò il film di Rosi come illustre antecedente di quello di Garrone, in virtù del cotè giornalistico e sociologico che li accomuna e che risulta invece quasi impercettibile nella serie televisiva. 

L’EFFETTO SAVIANO

Già prima del film di Garrone, la popolarità di Saviano, alimentata da uno dei quotidiani più diffusi in Italia, la Repubblica, e poi dalla Tv di Stato, è stata all’origine di un nuovo micro-genere, il “cinema domiziano” (dal nome della Domiziana, l’antica strada dell’Impero Romano che collega i litorali delle province di Napoli e Caserta, oggi emblema di degrado umano e ambientale in cui spadroneggia la malavita), con una serie di film coraggiosi: Biutiful Cauntri (r. Esmeralda Calabria, Andrea D’Ambrosio, Peppe Ruggiero, 2007), La Domiziana (r. Romano Montesarchio, 2008), La bàs – Educazione criminale (r. Guido Lombardi, 2011) e infine Nato a Casal di Principe (r. Bruno Oliviero, 2017): questi ultimi due presentati alla Mostra del Cinema di Venezia, come il documentario Camorra (r. Francesco Patierno, 2018) e i film sull’”infanzia criminale” L’intervallo (r. Leonardo Di Costanzo, 2012), il più poetico e apprezzato, e Robinù (2016), del popolare giornalista tv Michele Santoro, fino al recente successo al Festival di Berlino 2019 di La paranza dei bambini, diretto da Claudio Giovannesi, come Gomorra tratto da un libro di Saviano e sceneggiato da Maurizio Braucci, scrittore napoletano molto impegnato nel sociale.

Due anni fa La paranza dei bambini è stato uno spettacolo di successo anche in teatro, scritto dallo stesso Saviano con il regista Mario Gelardi, direttore di un teatro nel popolare quartiere della Sanità, che nel 2007 aveva già messo in scena Gomorra, gratificato da importanti premi della critica e da oltre 300 repliche in tutta Italia.

Da questa pur rapida ricognizione risalta la notevole portata del romanzo di Saviano sul cinema e sullo spettacolo italiano, soprattutto su quello made in Naples, che da un decennio ha riconquistato vitalità economica e appeal internazionale, scalzando la Sicilia di Cosa Nostra dal vertice dei crime movie e diventando la location privilegiata da produttori e registi, fino al successo planetario della serie televisiva Gomorra, prodotta da Cattleya per Sky, giunta quest’anno alla 5° edizione, esportata in più di cento Paesi.

Ancor più del film di Garrone e dello stesso romanzo di Saviano, è questa serie televisiva ad aver diffuso un nuovo immaginario, in Italia e nel mondo, di Napoli e del suo hinterland: una città “senza”, privata di tutto quello che fino a oggi la identificava e la sosteneva. Una città buia, senza luce, mare e sole. Disperata, senza canzoni e senza valori. Abbandonata, senza lavoro e senza Stato. Spietata, e violentata da una malavita senza regole, sempre più feroce e sempre più giovane, e più femminile, con la scalata  di alcune donne-boss, mirabilmente interpretate dalle attrici Cristina Donadio (Scianèl), Maria Pia Calzone (Imma) e Cristiana Dell’Anna (Patrizia), che gli sceneggiatori hanno raffigurato altrettanto volitive, e persino più astute, dei capiclan di spicco: il “boss dei boss” Pietro Savastano, suo figlio Genny e il braccio destro, poi traditore, Ciro, rispettivamente gli attori Fortunato Cerlino, Salvatore Esposito e Marco D’Amore, che di alcune puntate della quarta serie tv è stato anche regista. 

UN SERIAL “ALL’AMERICANA”

Per il suo produttore, Riccardo Tozzi, la Gomorra televisiva rappresenta una svolta epocale per l’Italia: “È per la tv italiana quello che nel 1945 fu Roma città aperta per il cinema”, afferma. Gli danno ragione i numeri, ma anche autorevoli esperti come il critico Alberto Castellano, della Fipresci (è “la serie che ha spezzato la tradizionale, piatta, scolastica serialità televisiva italiana per traghettarla nei territori della grande serialità americana”), lo storico del cinema Mario Franco (“un ottimo esempio di prodotto seriale di arte e fantasia”).

Simili pareri positivi si riscontrano presso gli stessi addetti ai lavori d’oltreoceano: la redazione di Hollywood Reporter, ad esempio, la definisce “la risposta italiana” alla serie Usa di successo Breaking Bed, ma c’è di più: la Gomorra televisiva non ha soltanto metabolizzato in maniera brillante la lezione di Hollywood ma si è imposta a sua volta anche sul mercato americano, tanto che – soprattutto per la qualità e il successo di questa produzione italiana – il regista delle prime due stagioni Sergio Sollima (poi sostituito da Francesca Comencini, Claudio Cupellini, Claudio Giovannesi), è stato scelto dalla produzione di Soldado per dirigere questo film da 50 milioni di dollari con attori del calibro di Benicio Del Toro, Josh Brolin, Matthew Modine, e ora si prepara a dirigere un western, molto atteso, da Colt, un soggetto inedito di Sergio Leone.

Nel frattempo, pur senza raggiungere i vertici di audience di Gomorra, le altre due serie dirette da Sollima, Romanzo criminale (2008 – 2010) e Suburra (2017), ambientati nelle periferie di Roma, restano fra i prodotti tv più amati dal pubblico, soprattutto giovanile.

Ma quali sono le ragioni di un successo così inedito e straordinario?

Per gli esperti la risposta è unanime: l’altissima qualità tecnica del prodotto, che si esprime nel rigore del plot narrativo, nel ritmo “all’americana” della regia, decisamente più vibrante rispetto agli standard europei, nell’alto profilo della sceneggiatura e dei dialoghi, nella caratterizzazione dei personaggi (interpretati in maniera eccellente dagli attori, quasi tutti formatisi nella grande tradizione teatrale e cinematografica di Napoli), che suscitano inevitabilmente appeal o repulsione facendo grande presa sul pubblico.

Si adatta perfettamente, al caso di Gomorra. La serie, la teoria esposta dal filosofo Umberto Curi nel saggio Appunti su cinema e mito (in Metamorfosi del mito classico nel cinema, Il Mulino, 2011): “È il mythos, e più in particolare il modo con cui esso è costruito, ciò che conferisce ad un’opera […] la capacità di suscitare il coinvolgimento emotivo” negli spettatori, e spesso anche l’identificazione con i personaggi del grande e piccolo schermo, benchè il realismo di molte situazioni finisca per rivelarsi più apparente che sostanziale.

Questo vale soprattutto nel confronto con il film di Garrone, più in linea con la tradizione veristica italiana laddove Gomorra. La serie segue il modello hollywoodiano anche nel tributo al noir più estremo e al fumetto: “Con la serie tv – sostiene Del Pozzo – il racconto criminale di Gomorra sconfina definitivamente nei territori della fiction pura, declinata secondo le regole del genere crime, con Napoli che somiglia sempre di più a una nerissima Gotham City e i personaggi tratteggiati fra tragedia classica e fumetto horror-supereroico”.

E poi c’è il “metodo Cattleya”, una novità per l’Italia (e l’Europa), basato sul lavoro collettivo e sull’interazione creativa tra regista, sceneggiatori e interpreti. Fondamentali risultano inoltre i modelli artistici di riferimento, diversi ma tutti di grande spessore. In Gomorra. La serie si respira l’eco del grande teatro, dalla tragedia greca (come rivela nelle interviste il regista Sollima) a Shakespeare, come della migliore tradizione del noir americano, e gli sceneggiatori mostrano di aver assimilato la lezione di alcuni importanti registi hollywoodiani contemporanei: il realismo della dimensione familiare e di clan in Scorsese, lo spirito pulp di Quentin Tarantino, e soprattutto la visione epica e al tempo stesso disperata di un classico gangster movie come Scarface (1983) di Brian De Palma. 

ANTI-GOMORRA

L’importanza di questa serie tv è inoltre confermata, paradossalmente, dalla quantità e dal numero dei suoi detrattori.

Mentre il film di Garrone, e in precedenza il libro di Saviano, hanno suscitato consensi pressoché unanimi in pubblico e critica, nel caso di Gomorra. La serie il grande successo di audience ha provocato fin dalla prima edizione un’ondata di polemiche e reazioni che non tende ancora a placarsi.

Una parte dell’opinione pubblica di Napoli, delle istituzioni (fra gli “anti-Gomorra” spiccano sia il sindaco di Napoli Luigi De Magistris che il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, divisi su tutto il resto), degli intellettuali, e dello stesso mondo dello spettacolo, accusano gli autori della serie televisivia di diffondere un’immagine negativa e a senso unico della città, e soprattutto di un effetto diseducativo sui ragazzi, che nei personaggi di Genny o Ciro vedrebbero modelli da imitare.

“Anche i ragazzini romani sognano di essere Genny Savastano”, ha dichiarato di recente al “Corriere del Mezzogiorno” il popolare regista e attore Carlo Verdone, unendosi al coro di tanti insegnanti preoccupati. Un suo collega, Davide Ferrario, invoca sul “Corriere della sera” la rappresentazione di un altro Sud, che non è solo mafia e camorra. Per Giuseppe Montesano, uno dei più noti scrittori napoletani, la serie tv ha perso per strada quell’indignazione anti-camorra che caratterizzava sia il libro di Saviano che il film di Garrone, finendo per mitizzare, rendendoli “affascinanti e seduttivi”, i personaggi dei giovani capiclan Genny e Ciro.

Anche per questo sono state premiate dal pubblico, a Napoli e in Italia, alcune rappresentazioni recenti e più suggestive della città, al cinema (Napoli velata, di Ferzan Ozpetek, protagonista Giovanna Mezzogiorno) e in tv, con la serie I bastardi di Pizzofalcone, tratta dai romanzi polizieschi di Maurizio de Giovanni, girata soprattutto in alcuni dei luoghi più solari e panoramici del centro storico.

“Ma è la realtà di Napoli, non la sua rappresentazione, a essere terribile”, ribatte ai detrattori Maurizio Braucci. Secondo lo sceneggiatore del film di Garrone “molti napoletani respingono la fiction per evadere psicologicamente dalla realtà così difficile in cui vivono, o perché inconsciamente vogliono rimuoverla, sentendosi anch’essi chiamati in causa. Occorre invece interrogarsi sulle cause di questo scenario sociale, che derivano soprattutto da una disoccupazione giovanile che a Napoli e nel Sud sta diventando endemica”, ha dichiarato Braucci alla presentazione del film La paranza dei bambini, svoltasi al cinema Partenio di Avellino il 22 febbraio 2019 su iniziativa dello Zia Lidia Social Club.

Concorda Francesco De Falco, il magistrato che ha condotto le inchieste sulla “paranza dei bambini” descritta nell’ultimo romanzo di Saviano: “A un certo punto delle indagini ci rendemmo conto che non si trattava più soltanto di criminalità, ma che anche fra bambini di 10, 11 anni si stava affermando uno stile di vita prepotente e violento. Era il 2013, prima del serial tv. Purtroppo Napoli è anche questo, e nascondendo la realtà non si risolvono i problemi”.

Più dei dibattiti sulla stampa, a ridimensionare la portata del “fenomeno Gomorra” sono state le parodie che ha generato, come ogni film di grande successo.

Sul web, ad esempio, spopolano gli episodi comici Gli effetti di Gomorra sulla gente del gruppo di videomaker napoletani “The Jackal”[1] (e, fino a qualche anno fa, gli spettacoli teatrali del trio “I Gomorroidi”), mentre al cinema hanno trionfato – ricevendo anche numerosi premi – i film dei Manetti Bros Song’ e Napule e Ammore e malavita (entrambi con protagonista l’attore napoletano Giampaolo Morelli), due brillanti parodie dei camorra movie che per ritmo, originalità di idee e qualità degli interpreti non hanno nulla da invidiare ai migliori film di genere, non solo in Italia.

Per rappresentare quel “teatro a cielo aperto” che è Napoli, del resto, non occorrono effetti speciali. La realtà è sotto gli occhi di tutti, è sufficiente filmarla con intelligenza e rispetto, come dimostra il recente successo (alla Berlinale 2019 e in vari festival) di Selfie, il film di Agostino Ferrente ambientato nel degradato Rione Traiano, all’estrema periferia di Napoli, dove il regista ha affidato a due sedicenni il ruolo di registi-attori nel quartiere in cui vivono, una sorta di autoritratto personale e collettiva che è una versione moderna (il film è interamente girato con uno smartphone) della tecnica del “pedinamento” teorizzata negli anni ’40 dal Maestro del Neorealismo Cesare Zavattini.

È la conferma che la realtà artistica di Napoli è ricca e varia, creativamente dinamica, e che la metropoli del Sud Italia possiede anche gli anticorpi culturali per far fronte agli “effetti collaterali” dello show business. E la stessa scelta di una canzone dal titolo Nuie vulimme ‘na speranza, del rapper napoletano Lucariello, per la sigla finale della quarta edizione del serial, prelude forse a uno scenario più aperto e ad una rappresentazione meno fosca e monocromatica di una realtà per molti versi terribile ma al tempo stesso piena di bellezza e di pensiero.

La periferia di Napoli e i luoghi comuni. Gomorra e Saviano sono vecchi, Scampia è cambiata ma i giornalisti amano “campare” nel male. Davide Cerullo su Il Riformista l'1 Dicembre 2021. Poter esprimere il proprio pensiero credo sia un atto indiscutibile. Provo con quella che è la mia conoscenza, la mia esperienza, ad abitare il territorio di Scampia praticando la strada e tessendo relazioni. Lo scrivo e ne parlo tutti i giorni, ma è soprattutto nel concreto e nella pratica quotidiana, pur con tutto il carico dei miei limiti e la complessità dei problemi di un territorio con molte zone depressive, che mi sento di rappresentare una Scampia vera, che si trova proprio a un livello diverso ormai rispetto alla narrazione di Roberto Saviano. Credo che sia finito quell’atteggiamento dell’informazione nei confronti di questi fatti, non solo a Scampia ma un po’ ovunque, che è denuncia nel racconto giornalistico, ma non è finalizzato a capire fino in fondo quello che succede, e soprattutto a convivere con le difficoltà ed approcciarle dal punto di vista giusto, cioè quello dell’umanità delle persone che abitano questi luoghi. Voglio dire senza offesa, Saviano nel suo modo narrativo è proprio vecchio, forse sbaglierò, ma credo che nel giro di un anno questo atteggiamento sembrerà una cosa archeologica. Da queste parti la violenza ha un fascino terribile che nasce da un’ingiustizia subita e non riscattata, cicatrizzata, e il suo ripetersi come se non ci fosse altro modo o via d’uscita. Spesso nella cornice delle ingiustizie si passa da vittime a carnefici e viceversa, perpetuando il dolore. Per questo credo che la serie Gomorra non sia più una denuncia e che non serva più. A volte ho la sensazione che quando si “campa” solo di denuncia del male, alla fine si voglia perpetuarlo, anche a spese di chi lo subisce. Oggi Scampia non ha bisogno di essere illuminata per le sue catastrofi, o salvata dai suoi traffici; perché la realtà dura da affrontare è che Scampia non ha nessun bisogno di scalare classifiche di degrado. Non si può pensare di continuare a offrire solamente un’immagine deformata di un territorio fragile, dando forza al fascinoso luogo comune per la divulgazione retorica e pubblicitaria del proprio nome. Bisogna avere il coraggio di uscire dai recinti del passato, da un linguaggio che si usa per i propri utili di basso valore. Bisogna avere il coraggio e l’onestà di chiudere con il vizio di sentirsi delle vittime o dei supereroi, solo perché si viene da un territorio che è passato attraverso il fuoco. Scampia non è semplicemente il quartiere del malaffare, non è solo il territorio delle camorre che spesso tornano utili a quelli che dicono di combatterle. Bisogna avere il coraggio di fare le cose perché ne sentiamo la responsabilità e non perché ci diano visibilità. Bisogna avere il coraggio di essere disposti veramente a voler cambiare un territorio con le sue innumerevoli complessità, facendo emergere sempre più forte la positività dei tanti che si impegnano tutti i giorni per un bene comune. Bisogna avere il coraggio di rompere con quella nostra incapacità di leggere ambienti diversi dal nostro immaginario abitudinario, per cominciare ad inciampare in possibili speranze. Penso che se un giorno Scampia non ci fosse più, o meglio, non ci fosse più quella Scampia delle Vele, della camorra, dei senza speranza, il luogo maledetto del degrado sociale, e magari avesse prevalso la Scampia onesta e dignitosa, che pure silenziosamente esiste, molti non saprebbero né più scrivere né più parlare di una Scampia diversa. Molti giornalisti, scrittori e opinionisti magari meridionalisti, si ritroverebbero di fronte alla scelta dolorosa di dover cambiare posto, eleggendo qualche altro quartiere a simbolo del Male. Troppe volte in questi anni, soprattutto da Gomorra in poi, ci si è avvicinati a Scampia sperando di replicare con successo la denuncia-racconto di Roberto Saviano: non per cercare davvero di capire questo complicato e difficile territorio, ma per sfruttare questo nuovo immaginario collettivo su Scampia come unica sede della Camorra. Sinceramente l’Anticamorra gridata come un Vangelo giusto, mi ricorda l’effetto che mi facevano la Chiesa e l’Oratorio da bambino, a me che crescevo nelle zone grigie delle periferie. Tutto bello, tutto solare, tutto pulito, tutto giusto. E quindi non era per me, era lontano dalle mie “colpe”, peccati originali, ambiguità, complessità. Avrei sentito più vicino un profeta dolente e di poche parole, a bassa voce, perché la vita non è sempre chiara, facile. Resistere da dentro alle cose brutte necessita di comprensione, non di scelte definitive, trincee, guerre. L’anticamorra si fa ascoltando, e al boss non si contrappone il supereroe, ma la comunità che resiste e può vincere. Quindi cerco di proporre la mia versione di “abitare questo luogo” che prende spunto dall’antico significato della parola “abitare” che vuol dire “ continuare ad avere” perché è questo che io propongo, qui a Scampia, dove i bambini esistono e hanno questo posto in maniera continuativa e non solo durante i ciak e le stagioni delle serie tv; questo posto va vissuto esattamente come ogni altro, coltivando piante e prendendosi il tempo per instaurare legami e progetti di futuro.

All’infanzia che rischia di cadere nel tranello ingiusto del sentirsi “predestinata” perché nata in un non luogo, è giusto garantire spazi che possano essere riparati e sicuri proprio qua, per comprendere che il senso di salvezza può diventare di casa anche dove, secondo tutti, c’è solo inferno. Portare alla portata di tutti il benessere dovrebbe essere un imperativo non solo per chi vive a Scampia, ma anche per quelli che abitano città, colline e deserti altrove, la lontananza dalla criminalità non la sancisce una fuga o un viaggio, ma un progetto che metta al centro l’infanzia e la bellezza. Alle Vele, come ovunque, un bambino nasce bambino, quindi l’unica soluzione per garantire che possa non sentirsi parte di una tragedia è costruire intorno a lui un’isola del tesoro; ed è questa scelta educativa che dobbiamo portare avanti, smettere di dare per scontato che i problemi siano più grandi rispetto alle mille occasioni di felicità. Per queste occasioni vale davvero la pena vivere… a Scampia e in ogni altro pezzo di mondo. Davide Cerullo

Osservatorio napoletano. Intervista a Marino Niola: “Le Figaro ha fatto un giornalismo “da zoccole”, Napoli come Gomorra perché ci temono”. Francesca Sabella su Il Riformista il 23 Novembre 2021. «Raccontare una Napoli sempre più simile a Gomorra fa comodo al Nord, ma è una versione che ha stancato. Parliamo invece di turismo e di cultura cinematografica. Per quanto riguarda la nuova amministrazione mi piacerebbe vedere finalmente i vigili in strada». Il professore Marino Niola analizza Napoli tra stereotipi e realtà.

Professore, a due mesi dalle elezioni che idea ha della nuova amministrazione guidata da Gaetano Manfredi?

«È quasi impossibile dare giudizi, visto che si è insediato da poco però mi sembra che la scelta degli assessori e delle persone da tenere in squadra sia stata la scelta giusta».

Però in Giunta ci sono molte donne, ma pochi giovani.

«In questo momento è più importante che ci siano molte donne che molti giovani, loro arriveranno dopo. Sono contrario ai criteri anagrafici, ci sono persone brave e intelligenti a 30 come a 60 e ci sono cretini di vent’anni».

Patto per Napoli e “piagnisteo” Manfredi, le ministre Lamorgese e Carfagna attenzionano il debito: solo chiacchiere?

Cosa pensa dei continui appelli del sindaco al Governo per ricevere risorse?

«Credo sia giusto che lui le chieda. Ho cercato di mettermi nei suoi panni e non avrei mai accettato di fare il sindaco di Napoli senza una sorta di rassicurazione, di patto con il Governo».

Però pare che il Patto per Napoli sia sfumato e che le parti politiche che si erano impegnate a firmarlo siano sparite. Non crede che in questo caso la politica abbia mostrato il suo lato meno credibile?

«No, non credo. Probabilmente la politica deve fare il suo mestiere e non dovrebbe fare proclami. Si vedrà col tempo se poi questo patto verrà onorato o meno, si tratta di questioni che non vengono enunciate, perché una cosa del genere potrebbe suscitare reazioni in alcune parti politiche. Aspettiamo di vedere cosa succederà concretamente».

Sarebbe stato meglio, quindi, non annunciarlo a gran voce?

«No, secondo me non è stato annunciato a gran voce. è stato detto che si sarebbe fatto e sicuramente la questione Napoli verrà affrontata. Qui la garanzia ora è Manfredi, ne va della sua credibilità. È la prima volta dopo quindici anni che abbiamo un sindaco credibile, quindi diamogli il beneficio d’inventario».

Ma oggi Napoli è credibile o passiamo per una città che mendica sempre?

«Credo che il Sud e la nostra città siano molto più credibili di quanto non appaia dai media che vendono un’immagine allarmata e allarmante del Sud che non rende giustizia alle cose. In realtà c’è un Mezzogiorno che fa economia. Basti guardare in quanti settori siamo trainanti, ma questo non appare nelle statistiche ufficiali: c’è uno scarto tra la realtà del Sud e le sue narrazioni. In questo momento è ancora forte la “narrazione Gomorrista”, una narrazione manieristica che ha stancato».

Perché è ancora così radicata questa narrazione di una Napoli specchio di Gomorra?

«In Italia questa immagine giova, conferma dei pregiudizi, degli stereotipi ed è innegabile che il successo di una serie come Gomorra abbia poi portato acqua a questo mulino del giudizio sommario. Questa narrazione resiste perché sta bene a tutti, mette d’accordo tutti, fa pensare al Nord di essere migliore, porta a pensare che il Sud non è guaribile, ma in realtà non è vero niente. Pensiamo anche alla sanità della Campania, durante la pandemia abbiamo retto molto meglio che altrove, molto meglio della Lombardia che sono vent’anni che si pone come modello di efficienza e invece abbiamo visto tutti cosa ha combinato e come si sia coperta di ridicolo. Questo per dire che il Sud funziona a macchia di leopardo, ma bene o male funziona e in questo siamo il doppio concentrato dell’Italia: vista dall’esterno tutti pensano che non possa funzionare e invece funziona».

Eppure siamo in fondo alla classifica delle città italiane per vivibilità, e Le Figaro ha addirittura definito Napoli “terzo mondo d’Europa”.

«Le Figaro ha detto una cosa che dà ragione a quei tifosi che hanno portato lo striscione sugli spalti del Paris Saint- Germain. Le Figaro ha fatto un giornalismo “da zoccole”, come disse Antonio Bassolino a proposito di un altro quotidiano che fece un’operazione simile. Dire che Napoli è una città da terzo mondo innanzitutto non è vero e poi è una banalità, è un luogo comune che c’è da sempre ma qualunque città è nello stesso tempo occidente e terzo mondo. Napoli ha degli aspetti di città avanzata, basta guardare la sua cultura, i film di Sorrentino e all’arte che produce. Questa è un’altra immagine che sta passando di Napoli ed è un’immagine che sta passando anche all’estero e lo prova il turismo che nonostante i servizi giornalistici come quello de Le Figaro continua a cresce in maniera esponenziale. Non è il caso di preoccuparsi più di tanto, quindi, bisognerebbe chiedersi piuttosto quali sono le ragioni che hanno spinto la stampa francese a fare un articolo del genere».

Quali sono secondo lei?

«Per esempio potrebbe essere che questa crescita impetuosa del turismo a Napoli cominci a dare fastidio alle altre città».

Invece cosa pensa del reddito di cittadinanza, alla luce dei dati che riferiscono di un boom di percettori a Napoli e in Campania?

«Bisognerebbe incentivare le occasioni di lavoro e questo lo dicono tutti. La politica, l’economia e la società civile di concerto devono trovare delle soluzioni perché non si può aspettare sempre tutto dalla politica, altrimenti rinnoviamo l’idea di un paese sempre a trazione politica e invece la trazione deve essere politica ed economica. Ci vogliono investimenti e una sinergia di tutte le forze sane della mia città. La politica in realtà non deve essere nemmeno troppo invadente, deve far sì che le energie si liberino».

Finora i simboli della città sono stati il lungomare Caracciolo e una rivoluzione inesistente. Quali potrebbero essere i nuovi?

«L’arte, il paesaggio, il cibo e ne aggiungo un altro: la tecnologia. I napoletani hanno un talento particolare in questo settore. A differenza della vecchia industrializzazione che aveva bisogno di ferro, la tecnologia ha la leggerezza e la liquidità dei cristalli. I napoletani hanno una particolare predisposizione a dialogare con l’immateriale».

La nuova amministrazione, invece, cosa dovrebbe fare per restituire un po’ di fiducia nelle istituzioni ai cittadini?

«Dovrebbe far sentire ai cittadini la sua presenza, anche severa in certi momenti, ma senza essere invadente. Ci vuole una rifondazione delle città e delle abitudini. Mi piacerebbe vedere, per esempio, i vigili urbani in strada. Me lo auguro, perché a Napoli sono un oggetto fantasma, non li vede mai nessuno».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Riflettori puntati sui minori a rischio in città. La lezione di Eduardo De Filippo sui ragazzi di Napoli ancora attuale dopo 40 anni. Viviana Lanza su Il Riformista il 23 Novembre 2021. La cronaca è di ieri ma potrebbe essere quella di un qualsiasi giorno, nessuno si sorprenderebbe. Una velina della polizia riporta la notizia di un 17enne e di un 20enne, entrambi armati di coltello, con lama 12 centimetri, denunciati al corso Umberto, e di un ragazzo di 15 anni trovato in possesso di uno sfollagente telescopico e alla guida di una moto che non poteva guidare. Due minorenni arrestati in un sol giorno. I dati su Nisida e Airola raccontano le storie di una sessantina di ragazzi, adolescenti o poco più, in contesti di povertà culturale, economica affettiva. «Giovanissimi con la morte nel cuore» dice Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti, che negli anni ‘80 partecipò al gruppo di lavoro che porrò alla Legge 41 del 1987, nota anche come Legge Eduardo, perché fortemente voluta dal grande De Filippo. Quella legge rese la Campania pioniera in fatto di interventi a sostegno della condizione giovanile, puntava a sostenere i ragazzi a rischio di emarginazione sociale e devianza. Dal 2006 quella legge non è più finanziata. Oggi il contrasto alla devianza minorile è affidato soprattutto all’iniziativa di singoli. Tra pochi giorni sarà presentato un breve film, il corto «Into your eyes», realizzato da un gruppo di ragazzi a rischio di San Giovanni a Teduccio. Giovedì saranno consegnate ad Airola scarpe e maglie per tre giovanissimi, reclusi per reati anche gravi come l’omicidio, ma poveri e soli. Perché spesso devianza minorile e povertà viaggiano in parallelo nei destini segnati da scelte sbagliate, piccoli o grandi errori, alternative non sempre possibili. «Onorevole presidente, onorevole ministro, onorevoli colleghi….con tutto il da fare che ho avuto non ho trascurato di occuparmi dell’istituto Gaetano Filangieri di Napoli e dei ragazzi che, spesso a causa di carenze sociali, hanno dovuto deviare dalla retta via… Si tratta di migliaia di giovani e del loro futuro ed è essenziale che un’assemblea come il Senato prenda a cuore la ripartizione delle carenze dannose, e posso dire catastrofiche, che da secoli coinvolgono quasi l’intero territorio, dal Sud al Nord dell’Italia. Mi sono sempre domandato quale potrebbe essere il mio contributo affinché la barca di questi ragazzi, che sta facendo acqua da tutte le parti, possa finalmente imboccare la strada giustizia. Sono convinto che se si opera con energia, amore e fiducia in questi ragazzi molto si può ottenere da loro». Era il 23 marzo 1982 ma potrebbe essere ieri. A pronunciare queste parole fu Eduardo De Filippo. Era un figlio di Napoli che ce l’aveva fatta, lui. E Napoli la raccontava e la portava in scena ma soprattutto la amava con impegno concreto, e amava i figli di quella Napoli milionaria. «Con quella commedia ponevo sul tappeto questioni che sul tappeto sono rimaste» disse con quel suo tono ironico e vero. E ancora sono sul tappeto. A distanza di quarant’anni ormai. Eduardo è sempre stato sensibile al tema della devianza minorile, con il suo modo guardare oltre e in profondità aveva intuito che per curare la città bisognava partire dai suoi figli. «I ragazzi di 11, 12 e 13 anni, che sono poi le vere vittime di una società carente come la nostra nei riguardi della gioventù – disse in quel marzo 1982 durante il suo primo discorso da senatore –, entrano nell’istituto in attesa di giudizio e vi restano spesso per anni e anni, in quanto o per la mole di lavoro o per l’asmatico meccanismo burocratico, i processi subiscono sempre lunghissimi ritardi e rinvii… E finalmente celebrato il processo, mettiamo che l’imputato venga assolto, dove si presenta una volta messo in libertà? Chi è disposto a dare fiducia e lavoro ad un avanzo di galera? Questa – aggiunse Eduardo – non è una domanda che mi sono posto io, che non conoscevo il Filangieri. È una domanda angosciosa che si pongono gli stessi ragazzi dell’istituto». Eduardo parlò poi della nave Caracciolo, enorme corazzata su cui i figli di marinai, pescatori e gran parte dell’infanzia abbandonata venivano ospitati per imparare un lavoro, a leggere e scrivere, avere la possibilità di entrare in contatto con altri popoli e altre civiltà. «Non desidero una seconda nave Caracciolo – disse Eduardo in Senato –. Propongo invece di sollecitare il Governo affinché dia il via all’assegnazione al Filangieri di uno spazio in una località ridente su cui costruire un villaggio con abitazioni e botteghe dove i giovani, già avviati a mestieri e artigianato antico, possano abitare e lavorare, assaggiando il sapore del frutto della loro sacrosanta fatica, recuperando la speranza e la fiducia di una vita nuova…». Quanta attualità in queste parole! In tantissimi si proclamano per la Costituzione, parlano di giustizia riparativa, si definiscono non giustizialisti ma poi storcono il naso appena sanno che un minorenne accusato di un grave reato sta seguendo un percorso di recupero e reinserimento sociale, che frequenta una scuola calcio o un corso per diventare rapper. E il paradosso è evidente nella realtà oggi come quarant’anni fa. Eduardo lo aveva evidenziato nel suo primo discorso da senatore, raccontando di aver visitato il Filangieri e aver notato «camere con doccia, cucina pulitissima, un accogliente ambiente per il tempo libero, un cortile molto vasto, un gruppo di ragazzi che va a lavorare fuori presso artigiani… C’è persino un teatrino… I ragazzi vengono curati e assistiti secondo principi umani e civili, istruiti e perfezionati ognuno nel mestiere da lui scelto». Peccato che dovessero, e devono tuttora, farlo passando per il carcere. Un grande paradosso.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Gaetano Manfredi: «Io sono juventino (e scaramantico) ma, sì, il Napoli è lo specchio dell’intera città». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 16 novembre 2021. Il neo sindaco, candidato da Pd e M5S ed eletto al primo turno, parla di calcio, musica e politica: per lui il capoluogo partenopeo è un «laboratorio nazionale». «Da ministro, prima di chiudere l’Università per la pandemia, sono stato sveglio tutta la notte». Dalle casse dell’automobile che ha accompagnato Gaetano Manfredi al Comune di Napoli per il suo primo giorno da primo cittadino della città uscivano “a palla” le note di Stairway to heaven dei Led Zeppelin. «Sono un collezionista di vinili da quando ero ragazzo. E la musica è una delle mie più grandi passioni di sempre. Progressive rock, blues e cantautori italiani su tutto», scandisce celando dietro gli occhialetti da accademico consumato lo sguardo rigoroso di chi va bene i cantautori italiani, forse va bene anche il blues, ma la passione per il rock progressivo no, non l’avresti mai detta. «E invece sì, Led Zeppelin, tanto per cominciare. E così, per il tragitto da casa al mio primo giorno da sindaco ho scelto Stairwain to heaven , la cui traduzione letterale del titolo (Le scale per il paradiso) può essere un bellissimo programma per la città. Ovviamente, prima di arrivare in Comune, le casse hanno diffuso per tutta la superficie dell’automobile anche Pino Daniele. Che rimane una delle anime più incredibili di questa incredibile Napoli». Classe ‘64, ingegnere, già rettore dell’Università Federico II, presidente della Conferenza dei rettori, ministro dell’Università nel governo Conte II, Manfredi è stato scelto da Pd e M5S per la corsa alla successione di Luigi de Magistris. Ha vinto al primo turno con un risultato larghissimo, quasi 63 percento.

Lei è uno scienziato approdato alla politica nel momento storico in cui all’antipolitica si è aggiunta l’antiscienza. Più che sfortunato, se le va cercando.

«Il fenomeno che rimanda al tentativo di messa in stato d’accusa nei confronti della scienza, come possiamo vedere dalle paure irrazionali a proposito del vaccino per il Covid-19, è un fenomeno mondiale, non solo italiano. È un qualcosa di più semplice ma al contempo più complicato della critica alla scienza; è di più, è la nuova versione dell’attacco all’ establishment ».

Come si comporta uno scienziato di fronte a chi non crede nei vaccini?

«Faticando il doppio e con la voglia di farlo, di faticare. In questo momento storico a uno scienziato non sono richiesti solo studio e ricerca ma anche divulgazione. Dobbiamo spiegare, spiegare e ancora spiegare anche le cose che dal nostro punto di vista sono le più scontate. L’educazione scientifica è importante quanto il progresso, adesso. Parlare con le persone, spendere il proprio tempo e la propria credibilità, informare: questo è il compito che tocca oggi sia alla scienza che alla politica».

Lei è entrambe le cose: scienziato e politico. Com’è successo?

«Nel gennaio del 2020 ero rettore della Federico II di Napoli e presidente della Conferenza dei rettori. Ero a un convegno, inizia a squillare il telefono che tenevo con la suoneria silenziata. Tante telefonate, contemporaneamente. Tra i tanti, il numero del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte».

Risponde al primo squillo?

«E come facevo (sorride, ndr )? Stavo parlando io, in quel momento, al convegno. Finito l’intervento, richiamo Conte».

Le proponeva di diventare ministro dell’Università e della Ricerca scientifica.

«La separazione dei due dicasteri, Istruzione e Ricerca, era da anni un tema caro alla Conferenza dei rettori».

Quanto tempo le ha dato per decidere? Una notte?

«Macché. Il tempo di quella telefonata».

Da lì a qualche settimana quel governo avrebbe dovuto fronteggiare una pandemia.

«In quell’esperienza ci sono stati momenti di cui faccio ancora fatica a parlare, difficilissimi da raccontare anche a distanza di quasi due anni. Prima della decisione di chiudere le università, marzo 2020, non ho chiuso occhio per tutta la notte. E poi quei giorni a Bergamo... Bergamo è una città a cui ero molto legato anche prima di vederla da ministro alle prese con le grandi ferite che le ha inferto il Covid-19. A Bergamo avevo continuato a studiare subito dopo la laurea a Napoli, con gli ultimi due rettori avevo e ho un rapporto strettissimo. Ecco, il giorno della consegna delle lauree agli studenti di Bergamo che avevano raggiunto il traguardo durante la pandemia è stato pieno di momenti impossibili da dimenticare. Soprattutto il piccolo concerto dei Pinguini Tattici Nucleari, che hanno fatto qualche pezzo durante la cerimonia all’università e faticavano a trattenere la commozione».

I suoi ricordi di studente?

«La prima assemblea a cui ho partecipato al liceo si è tenuta il giorno dopo il sequestro di Aldo Moro e l’uccisione della scorta in via Fani. Sono stato giovane negli anni in cui Napoli e provincia vivevano la grande paura del terrorismo e della guerra di camorra, che a un certo punto hanno anche trovato una saldatura. Anni di preoccupazione ma anche segnati dalla consapevolezza che la democrazia ci avrebbe salvati».

Il giorno in cui è diventato sindaco, a Napoli, c’era tutto il gotha di Pd e Movimento 5 stelle. Alleanza replicabile a livello nazionale?

«Napoli è una città di centrosinistra che spesso, come negli anni del primo Bassolino, è stata un laboratorio nazionale. Se la legge elettorale rimane quella in vigore, sarà impossibile prescindere da questa alleanza».

Guarderà l’ultima stagione di Gomorra in tv?

«L’ho sempre guardata e quindi la guarderò. Gomorra mostra una delle facce di Napoli che per fortuna negli ultimi anni sta un po’ scomparendo».

È davvero così, sindaco?

«Napoli ha tante facce. E sono contento che, oltre a quelle raccontate da Roberto Saviano, si vedano anche le facce dei film di Paolo Sorrentino, dei libri di Maurizio de Giovanni...».

Una sua cartolina dal passato.

«Dei concerti di Pino Daniele ho memoria visiva soprattutto di uno, molto importante, che si tenne al Palamaggiò di Caserta. Forse perché ero già grande, avevo più di trent’anni. Ma c’ero anche io il giorno dello storico concerto di Napoli, in piazza Plebiscito, del settembre del 1981».

Si stimarono oltre duecentomila persone. Una massa superata, nell’immaginario partenopeo, soltanto dalle celebrazioni dello scudetto del 1987.

«Esatto».

A proposito del Napoli calcio, lei è juventino.

«Mi crede se le dico che Juventus-Napoli e Napoli-Juventus non le guardo mai, neanche in televisione? E comunque, sono felicissimo di essere diventato sindaco col Napoli primo in classifica. È uno dei tanti segnali di una città che vuole tornare a primeggiare».

Lei è scaramantico?

«Tantissimo».

Tipo?

«Non inizio mai cose importanti di martedì e di venerdì; uso una certa cravatta, sempre la stessa, in determinate occasioni; ho una certa ripetitività di determinati gesti, tutti i giorni».

Antonio E. Piedimonte per “la Stampa” il 14 novembre 2021. La silenziosa strage dei parenti dei boss. Una lenta mattanza che colpisce figli, nipoti e altri familiari, a volte coinvolti negli affari criminali e altre volte invece no. Come l'incensurato Carmine D'Onofrio, massacrato un mese fa a Ponticelli mentre era in auto con la compagna incinta. Il 23enne era figlio di un noto boss dell'area orientale e nipote del padrino che aveva fondato lo storico clan De Luca-Bossa (sulle basi messe dal genitore, pretoriano di Raffaele Cutolo). Le colpe dei padri e le colpe dei figli, questione delicata sin dai tempi biblici ma che in terra di camorra (e di altre mafie) rivela una sua dolorosa attualità. Nei quartieri della periferia orientale è ben viva la memoria di un agguato che colpì la famiglia Mignano: il nonno, il figlio, e il nipotino di 3 anni. Un commando fece fuoco a pochi passi da una scuola di San Giovanni a Teduccio e solo l'imperizia dei sicari salvò la vita del piccolo e del padre (ferito), mentre non ebbe scampo il capostipite. A scatenare il raid - passato alla storia come l'omicidio dello zainetto (per una famosa foto) - fu la volontà di colpire un boss imparentato con i Mignano. Da una periferia all'altra, ma sempre nel segno delle vendette trasversali. Tre giorni fa a Fuorigrotta il trentenne Andrea Merolla, padre di una bimba di 6 anni, è stato abbattuto mentre rientrava a casa in scooter. Il giovane non aveva alcun ruolo criminale ma era il nipote di un ras e questo è bastato. Nemmeno 24 ore dopo a cadere sotto i colpi dei sicari nel quartiere Miano è stato «Peppe 'a recchia», al secolo Giuseppe Tipaldi, figlio di un vecchio boss in difficoltà. In questo caso però non si è trattato di un messaggio alla famiglia, o almeno non solo, perché il giovane era già noto ed era stato scarcerato di recente. Di certo però è l'ennesima vittima della guerra apertasi con la caduta di uno dei grandi regni della periferia Nord, quello dei «Capitoni», i tristemente noti Lo Russo. Dopo il crollo dell'ultimo bastione, infatti, l'area è stata divisa in due dalle faide: da una parte la coalizione «Abbasc Miano» (Miano di sotto), dall'altra le bande di «Ncopp Miano» (Miano di sopra). Eliminare eredi e i parenti per disarticolare e paralizzare le «famiglie», rocciosa spina dorsale dei grandi clan ed essenza vitale delle piccole cosche (sempre più numerose) che proprio sui legami parentali basano la loro forza. Un tempo i codici della camorra lo impedivano, non si potevano ammazzare i familiari, ma le cose erano cambiate già ai tempi di Cutolo (nel 1990 gli uccisero il figlio Roberto), stessa sorte per «Lovgino», all'ex re di Forcella nel 2005 ammazzarono il fratello Nunzio e nel 2006 il figlio Giovanni. Più recente (2017) si ricorda il massacro del 21enne Nicola Notturno, figlio di uno dei capi degli Scissionisti, per restare tra i nomi di spicco. Un elenco troppo lungo. Dalle stragi di consanguinei alla «pulizia etnica». Confermata a mezza voce dagli investigatori, la notizia circola da qualche giorno: sul «fronte» di Ponticelli, dopo anni di agguati, stese e bombe, la guerra si è fermata. Gli sconfitti hanno dovuto fare un passo indietro, diversi nuclei familiari hanno lasciato il quartiere e i vincitori hanno già «riassegnato» le loro case (si tratta di abitazioni del Comune). Niente di nuovo: Ponticelli è stata per decenni il feudo del clan Sarno, il cui padrino (don Ciro) era chiamato «'o Sindaco» perché gli piaceva gestire gli alloggi pubblici. Una storia antica: famiglia, casa, camorra.

Il testimone. Com’è la vita di chi decide di rompere con la camorra. Pietro Mecarozzi Il Quotidiano del Sud il 13 novembre 2021. Salvatore è un giovane ragazzo di Casal di Principe che insieme alla famiglia ha deciso di non far parte di un clan dei Casalesi. Una posizione coraggiosa che li ha esposti a rischi e pericoli, senza la minima tutela da parte dello Stato. «Ho preso tutto quello che poteva entrare in valigia. Fatto forza a mio fratello minore e salutato la casa dove sono cresciuto. Ci siamo sentiti soli. Abbiamo abbracciato i nostri genitori, asciugando le loro lacrime con i nostri maglioni. È l’ultima volta che siamo stati tutti insieme come famiglia». Con voce rotta e lo sguardo di chi ha troppi traumi per avere solo 25 anni, Salvatore ripercorre gli ultimi istanti della sua vita a Casal di Principe. Una vita da emarginato, da mosca bianca; Salvatore, i suoi genitori e suo fratello hanno deciso di non far parte del sodalizio che da generazioni lega il suo cognome alla Camorra. Una famiglia affiliata ai Casalesi, insospettabile e ben mimetizzata nell’economia legale. Appalti, edilizia, ma anche smaltimento di rifiuti ed estorsioni. Il clan di appartenenza è quello di Francesco Bidognetti, soprannominato Cicciotto ’e Mezzanotte, boss camorrista ed ex braccio destro di Francesco Schiavone. «Anche se è detenuto dal 1993, Bidognetti continua ad avere un ruolo chiave all’interno del clan, nonostante sia ristretto al 41 bis. I miei zii e i miei cugini fanno tutti capo a lui, anche se il clan si è indebolito dopo le faide con gli Schiavone, gli arresti e i pentimenti», spiega Salvatore. A 22 anni Salvatore ha deciso di lasciare casa con il fratello di due anni più piccolo. Destinazione: bassa Toscana, dove potevano contare sull’appoggio di conoscenti e compaesani. «Non era più vita la nostra. Abbiamo sempre guardato tutto da dietro un vetro. Molti dei nostri compagni sono diventati boss o sono morti durante le guerre tra clan. Mio padre invece ha sempre chiuso le porte a ogni tipo di proposta da parte della Camorra e della nostra famiglia, dimostrando coraggio», spiega il ragazzo. Ma cosa significa rompere un legame di sangue con i Casalesi? «Spezzare il patto che ti rende una loro proprietà, e per cui devi essere sempre pronto a soddisfare ogni loro ordine – a costo anche della vita – ha un prezzo molto alto» assicura Salvatore. Provenire da una famiglia di teste di legno e camorristi fa sì che il tuo futuro sia già segnato. E l’unico modo per uscirne «è con le proprie forze, perché per lo Stato non sei nulla: né collaboratore, né testimone di giustizia». L’Italia in questo campo non ha mai trovato gli strumenti giusti per intervenire. Molti anni fa in Calabria una manciata di giudici provarono ad allontanare i minori dalle famiglie di ’ndrangheta (che per struttura e per credibilità è molto più solida della camorra ed è molto più difficile vedere figli di ’ndranghetisti scendere in piazza contro il padre), avvalendosi anche della collaborazione di testimoni di giustizia come Lea Garofalo, Piera Aiello o Ignazio Cutrò che hanno deciso di denunciare persone molto vicine a loro interrompendo legami di amicizia se non addirittura familiari. Ma non servì a nulla. Idem a Napoli pochi anni fa. Un decreto temporaneo di affidamento del giudice del Tribunale dei minori di Napoli, che accoglieva la richiesta della Procura minorile e della Direzione distrettuale antimafia per allontanare dal contesto familiari due minori figli di un camorrista latitante, è stato seguito da un assalto armato contro la stazione dei carabinieri di Secondigliano, con quaranta colpi esplosi. Un commando armato di due kalashnikov che in meno di dieci secondi ha vomitato una quantità di fuoco impressionante sulla caserma dell’Arma dei carabinieri. Un attentato di stampo camorrista-terrorista che dimostra l’impotenza delle istituzioni hanno sulle dinamiche interne di queste famiglie. «Non mi vergogno di dirti che per salvare la nostra vita non abbiamo mai testimoniato o denunciato. Avimmo fatto a’ uèrra, ogni giorno. Mio padre ha ricevuto prima delle pressioni da parte di fratelli e zii, che sono diventate poi minacce da tutto il mandamento. Fino all’esplosione della pompa di benzina che avevamo in gestione. Solo perché non volevano unirci ai loro affari. Da quel momento è crollato tutto», confessa Salvatore. Combattere da soli un clan è impensabile, ma l’alternativa «è vivere nella paura, perché da indifferenti siamo passati a essere loro nemici». Lo stigma di traditori rese la famiglia di Salvatore un bersaglio troppo facile. «Chi te ne fa una te ne fa ciento, mi disse mio padre, che aveva cominciato ad andare in giro con una pistola», chiosa il ragazzo. Il trattamento ricevuto dimostra come la camorra ha ormai dimenticato la “legge d’onore”, che per decenni ha protetto donne, bambini e in parte i familiari. A dimostrarlo sono anche i dati dal 1993 al 2018: la Campania è una regione piegata dalla violenza camorrista e seconda per numero di vittime solo dopo la Sicilia: 203 morti in quest’arco temporale. «I Casalesi sono gli abitanti di Casal di Principe, o sei con loro o contro di loro. C’è anche Casapesenna, Comune confinante con Casal di Principe, dove ha comandato la famiglia di Michele Zagaria. Per la disperazione, quando non avevamo più la pompa di benzina e mio padre non sapeva come mettere cibo in tavola, abbiamo pensato anche di chiedere protezione a quel clan. Ma abbiamo fatto di meglio: avimm trovàt nu’ lavorò, lontàn ra quell’’infèrn», singhiozza Salvatore. Adesso i due ragazzi lavorano entrambi nella ristorazione, e quando possono mandano soldi a casa, dove il padre riesce a racimolare qualche entrata con espedienti e lavoretti saltuari, nonostante i boicottaggi del clan che hanno fatto terra bruciata intorno al capo famiglia. «Con la camorra si lavora, senza no. È vero. Ma non nel nostro caso. Con orgoglio, in un modo o nell’altro, non ci piegheremo mai a loro», conclude Salvatore.

Giuditta, il “fantasma degli avvocati” che infesta il vecchio Tribunale di Napoli. Condannata alla forca nell'ottocento, Giuditta, l'impiccata di Castel Capuano, ogni anno rivive nel giorno della sua esecuzione...Francesca Spasiano su Il Dubbio l'8 novembre 2021. Un’ombra nera s’aggira nei corridoi del vecchio Tribunale di Napoli. Per tutti è il “fantasma degli avvocati”: l’anima errante che il 19 aprile di ogni anno infesta con urla strazianti le stanze di Castel Capuano, ex sede della sezione civile, Palazzo di Giustizia dal XVI secolo. Fu lì, duecento anni dopo, che la Gran Corte della Vicaria condannò a morte Giuditta Guastamacchia per l’efferato omicidio di suo marito. Dopo un processo sommario, i giudici liquidarono la sua sorte e quella dei suoi complici con una pena esemplare. Non bastò infatti la forca per “rimediare” al delitto: dopo l’impiccagione, ai condannati furono amputate la testa e le mani e i resti esposti sulle mura della Vicaria, come pretendeva la legge. I loro crani divennero in seguito oggetto di studio, per la fisionomia criminale, e furono trasportati al Museo Anatomico di Napoli, dove tutt’ora sono conservati. Mentre l’anima di Giuditta cerca ancora riposo, e nell’anniversario di quella sentenza, in aprile, grida vendetta: a lei, “l’impiccata della Vicaria”, la fantasia popolare attribuisce lo spettro del tribunale. Le cronache del tempo ne parlano come di una donna bellissima, astuta, malvagia. Visse negli anni della rivoluzione napoletana, a cavallo tra il settecento e l’ottocento. Rimase vedova da giovanissima, dopo che suo marito fu giustiziato per frode al Regno. Con sé aveva un figlio e quattro soldi: suo padre non poteva badare ad entrambi, così la chiuse nel monastero di Sant’Antonio alla Vicaria. Ma in quel luogo consacrato alla castità nacque un amore proibito. Il fascino irresistibile di Giuditta infiammò l’abito talare di un prete, e i due consumarono la loro passione all’ombra del crocifisso. Fino a quando lo scandalo non cominciò a serpeggiare nei viali stretti della Napoli antica. Per mettere a tacere le voci, il prete raccontò di essere uno zio della donna, e la diede in sposa a un suo nipote di Bari, appena sedicenne. Il matrimonio di copertura diede modo ai due di lasciare il monastero e vivere indisturbati il loro amore nella casa che condividevano. Il piano, però, non andò come previsto. Il giovane sposo capì l’inganno e si mise di traverso. Ripartì per la Puglia, lasciando gli amanti al loro doloroso destino. Avrebbe raccontato ogni cosa? Il rischio era troppo grande: bisognava ucciderlo. Leggenda vuole che fu la stessa Giuditta ad orchestrare l’omicidio fin nei dettagli, mettendo insieme una squadra di complici alquanto bizzarra. Cresciuta al riparo dai venti progressisti della realtà cittadina, come donna aveva subito per tutta la vita il destino che per lei si era scritto. Ma questa volta fu diverso. Questa volta elaborò ella stessa un piano. E dopo le prime riserve, anche il suo amante clandestino acconsentì al progetto. Alla compagnia criminale si aggiunse il padre di Giuditta, al quale la donna raccontò di essere maltratta dal marito. Poi si unirono anche un barbiere e un chirurgo, ospiti nella dimora del prete. Ognuno di loro giocò la sua parte, nel feroce delitto. Innanzitutto bisognava riportare il giovane sposo in casa, attirarlo con una scusa: proposero un chiarimento. E il poveretto acconsentì. Giuditta mise allora a bollire dell’acqua, e invitò suo marito a farsi sistemare i capelli dal barbiere. Fu il modo più semplice per stringergli un cappio al collo. Che però non uccise il ragazzo: così Giuditta gli salì sul petto fino ad ucciderlo. A quel punto fu il turno del chirurgo, che disfò il cadavere in pezzi e li gettò nel pentolone d’acqua. «Pensarono che ammazzandolo in casa, sfigurandolo, e facendolo in pezzi si sarebbe potuto occultare il delitto, ed attribuirsi ai soliti rei di Stato, per cui avevano anche pensato di attaccare su qualche pezzo del cadavere un cartello che ciò indicasse», racconta nel 1800 Carlo De Nicola, nel suo Diario napoletano. L’unico a non partecipare a quel macabro rituale fu il prete, rientrato in casa troppo tardi per fermare lo scempio. A nulla valsero le sue rimostranze, il piano era compiuto: bisognava sbarazzarsi del corpo. E così fece il barbiere, tentando di trascinare i sacchi ricolmi dell’orrendo bottino fuori dalla città. Ma alle porte di Napoli le guardie che presidiavano i confini non se la bevvero: aprirono il sacco e videro l’atroce spettacolo. Intanto, il resto della compagnia capì che qualcosa era andato storto. E tentò la fuga verso Capodichino. Ma furono le stesse guardie a catturarli: il barbiere, messo alle strette, aveva parlato. Il seguito è noto, furono tutti condannati alla forca tranne il prete, che se la cavò con un ergastolo per non aver partecipato materialmente al delitto.

Pignasecca e i Quartieri Spagnoli: tutti i colori di Napoli. Claudio Schirru l'11 Novembre 2021 su Il Giornale. Pignasecca e i Quartieri Spagnoli sono due dei luoghi più veri e affascinanti di Napoli: ecco tutti i colori della città storica. Pignasecca e i Quartieri Spagnoli sono due dei luoghi più veri e affascinanti di Napoli. Inutile girarci attorno: in molti li vedono come anelli deboli dell’offerta turistica partenopea, senza la pazienza di guardare un po’ più in là dei pregiudizi. Perché se è vero che in alcune città valere il detto “Non è tutto oro quel che luccica”, qui può essere paragonata la coppia di angoli napoletani a uno splendido fuoco che arde sotto la cenere dei pregiudizi. 

Pignasecca

Colori, sapori e leggende ruotano intorno alla zona di Pignasecca e al suo omonimo mercato, frequentato da migliaia di persone ogni giorno. Un luogo estremamente folkloristico dove si può trovare praticamente di tutto, dai generi alimentari (carne, pesce e verdura) fino all'abbigliamento o all'oggettistica più varia. Si trova nelle immediate vicinanze dei Quartieri Spagnoli, ai quali in realtà vengono associati, anche se appena fuori dai confini settentrionali di questi, nel quartiere di Montecalvario. Irrinunciabili gli assaggi del cuoppo fritto o della pizza a portafoglio.

Tra storia e leggenda, l'origine di Pignasecca

Una curiosità in particolare è relativa al nome stesso di Pignasecca. Secondo una delle varie teorie il nome di questa zona di Napoli deriverebbe da una vicenda legata ai lavori di realizzazione di via Toledo. In quell'occasione vennero eliminati tutti i terreni agricoli della zona, lasciando soltanto un pino (in napoletano pigna) indenne. Quando anni dopo quel pino si seccò l'area prese il nome di Pignasecca. Un'altra teoria spiegherebbe il seccarsi del pino con l'intervento degli abitanti della zona. Stanchi dei continui furti subiti dalle gazze che abitavano la pigna, decisero di scacciarle. Poco dopo esserci riusciti l'albero iniziò a seccarsi. Esistono però alcune altre leggende che "spiegherebbero" il cambio di nome. Un esempio è questa versione alternativa. Tutto sarebbe accaduto a causa di una gazza ladra, che avrebbe sottratto l'anello al vescovo mentre questo amoreggiava con la perpetua. Arrabbiato per quanto accaduto, il prelato avrebbe scomunicato tutte le gazze una per una. Dopo pochi giorni tutto si sarebbe seccato, lasciando soltanto un terreno arido. 

Napoli e i Quartieri Spagnoli

A lungo considerati una delle zone più difficili di Napoli, i Quartieri Spagnoli stanno vivendo negli ultimi anni una progressiva rinascita. Ben lontana nel tempo dalla loro nascita, da cui traggono il nome. Ai tempi della dominazione spagnola si trattava della zona in cui alloggiavano le truppe del re o del viceré Don Pedro di Toledo (che ordinò la realizzazione del quartiere) come anche dei soldati diretti verso un fronte di guerra. Da tale utilizzo ha preso la sua particolare conformazione, fatta di vicoli stretti e palazzi a più piani composti da piccoli appartamenti (ai tempi perlopiù dormitori). Grazie all'impegno di alcune associazioni è possibile apprezzare la storia e i mille colori dei Quartieri Spagnoli. Fatti di botteghe artigiane storiche, palazzi settecenteschi e ottocenteschi, le edicole votive e i pittoreschi murales (tema sacro in alcuni casi, in altri i richiami sono a Maradona e a Totò). Attraverso i quartieri spagnoli è possibile inoltre accedere alla Pedamentina, un complesso sistema di scalinate che permette di raggiungere la Certosa di San Martino. Percorrendone i 400 scalini si arriverà inoltre sulla collina del Vomero, da dove sarà possibile ammirare l'inimitabile panorama della Baia di Napoli. I Quartieri Spagnoli sono anche espressione della religiosità napoletana, a cominciare dalle già citate edicole votive (in onore della Madonna). Possibile visitare diverse chiese dal prezioso valore artistico come quella di Sant’Anna di Palazzo o quella di Santa Maria della Mercede a Montecalvario. Piccola curiosità: è presente anche la chiesa di Santa Maria Francesca, adiacente a quella che fu la casa della santa quando ancora in vita. I Quartieri Spagnoli possono rappresentare un piacevole modo di scoprire la magia, la "veracità" e l'anima di Napoli, magari anche attraverso delle visite guidate. Fatta di sapori, profumi, gente calorosa e colori. Prestare la consueta attenzione è richiesto, come nella maggior parte delle città del mondo, ma niente che valga il perdersi un'esperienza piacevolmente indimenticabile.

Melito di Napoli è un paese completamente in mano alla camorra. Vigili, negozi, funerali, vendita di mozzarelle e aggressioni contro i politici che si ribellano. Il clan Amato-Pagano controlla tutto e con la coca fattura 24 milioni di euro. (Foto di Stefano Schirato per l'Espresso). Antonio Fraschilla su L'Espresso l'8 novembre 2021. In via Giuseppe Verdi due uomini si piazzano al centro della strada. Un terzo si affianca alla macchina: «Per caso cercate qualcuno? Lo chiedo per voi, ma anche per noi, sapete com’è qui», dice dopo aver fatto cenno di abbassare il finestrino per vedere bene se qualcuno oltre ai cellulari ha altro in mano. Funziona così a Melito di Napoli nel cuore del comparto 219, palazzine prefabbricate di cinque piani che dovevano essere temporanee nella ricostruzione del dopo terremoto del 1980 e che invece sono diventate eterne. Il numero, 219, si riferisce alla legge che le ha finanziate, voluta dalla Democrazia cristiana con un fiume di denaro poi in gran parte sprecato. Dall’angolo di via Verdi si vedono i bambini della succursale Giovanni Falcone che escono dalla scuola cercando di non pestare i cumuli di immondizia lasciati sul marciapiede. Le mamme sfrecciano veloci con le auto dopo aver fatto salire in macchina i piccoli e le piccole, cercando a loro volta di scansare assi di legno, vetri rotti e mobili abbandonati nelle strade adiacenti. Funziona così nelle case del comparto 219, uno dei fortini del clan Amato-Pagano che a Melito comanda e detta legge. Spazzatura in basso, vedette in alto. Qui chi entra e chi esce è controllato, come lo è nel vicino parco Monaco, quattro palazzine costruite come un cubo aperto, diventate il quartier generale del clan, dei «compagni», come si chiamano tra loro. A Melito le parole hanno un senso, ma all’inverso. I «parchi» sono agglomerati di cemento senza un filo d’erba, i «compagni» non sono reduci del Pci che qui ha difeso sempre gli ultimi, ma i componenti della “famiglia” nata dopo la scissione dai Di Lauro con la costruzione di un asse di ferro tra i boss Raffaele Amato e Cesare Pagano. A Melito comandano loro e comandano tutto. La procura di Napoli guidata da Giovanni Melillo, dopo anni di indagini prima dei carabinieri e poi della Guardia di Finanza, ha arrestato una trentina di affiliati al clan la scorsa estate. E dalle carte dell’inchiesta è emersa la vera storia di questo centro a ridosso della circonvallazione di Napoli, diventato tra gli anni Novanta e Duemila dormitorio del capoluogo e uno dei più grandi mercati di cocaina del Paese grazie anche ai legami con il narcotrafficante Raffaele Imperiale, da poco arrestato a Dubai: qui il clan, secondo fonti investigative, fattura dalla cocaina 24 milioni di euro all’anno, più del bilancio del Comune. Melito è a due passi dalle altre piazze di spaccio di Napoli gestite invece dai Licciardi e dai Di Lauro, Scampia e Secondigliano, che quasi si intravedono sullo sfondo. Se ne percepisce solo una vaga presenza perché qui, nel quarto Comune più cementificato d’Europa, il cielo si vede solo a fette, tagliato dai cornicioni cadenti dei palazzoni tutti uguali, e lo sguardo è sempre spezzato da qualche muro. La vera storia di Melito, scritta nelle centinaia di pagine allegate all’ordinanza, è quella di un paese nelle mani di un solo clan che ne controlla ogni aspetto della vite sociale. Tutto era, ed è ancora, in mano loro. Non a caso non c’è stata una sola denuncia da parte dei commercianti, se non quella di un coraggioso salumiere che si è rifiutato di acquistare la mozzarella imposta dal clan e di pagare in alternativa 500 euro al mese ai camorristi: «Nessun altro ha collaborato», dice a denti stretti il comandante provinciale del nucleo di polizia economico-finanziaria Domenico Napolitano che con i suoi uomini ha dato una svolta alle indagini quando un giorno ha piazzato una cimice nell’ufficio di un insospettabile presidente della principale associazione dei commercianti, scoprendo un mondo nero. Un uomo chiave di questa storia in terra di camorra è Antonio Papa, presidente dell’Ascom con sede in una stradina che taglia il corso principale di via Roma. Oggi le insegne sono coperte da adesivi bianchi, ma qui Papa, uomo per gli inquirenti legato a doppio filo a Mario Riccio, Rosaria Pagano e Marco Liguori (i capi dell’asse Amato-Pagano che si sono succeduti dal 2020 a oggi dopo l’arresto dei fondatori, Raffaele Amato e Cesare Pagano), ha coordinato le estorsioni. La Finanza ascolta Papa che dà istruzioni agli uomini messi a disposizione dal clan per fare le estorsioni: «È un lavoro un poco complicato, nel senso che si deve capire un poco che sono i “compagni” di Melito che ci hanno mandato per fare questa cosa di recuperare qualcosa… il signore che dice no, arrivederci… l’unica cortesia, quale signore che vi ha detto no, vogliamo sapere solo chi è». In alcuni casi Papa mandava i vigili urbani, visto che l’ex comandante Giovanni Marrone e il suo assistente Giovanni Boggia erano a servizio. Come accaduto nei confronti del commerciante cinese Ye Jing per una estorsione da 1.500 euro: «Dobbiamo vedere, dobbiamo mandare un po’ i vigili per vedere cosa possiamo fare», dice Papa. Il cinese deve pagare. Tramite Papa, il clan fa una estorsione anche a Luigi Barretta che si era aggiudicato con la sua azienda la gara per la manutenzione del verde del Comune. Intercettato, Papa si lamenta perché l’allora sindaco Venanzio Carpentieri del Pd aveva fatto una procedura aperta quando loro avevano «già pronto tutto, noi tenevamo l’agronomo, tenevamo la persona che doveva fare tutta la gara». Papa incontra Barretta che non sembra scomporsi più di tanto: «L’appalto mio è 300 mila euro, quanto mi volete fare pagare… quanto tocca pagare a Melito il 3, il 4 il 5?». La tangente sarà il 10 per cento. Il clan ha alzato i prezzi. Come funzionano le estorsioni a quasi 500 commercianti attraverso i gadget per Natale lo racconta Paolo Caiazza, per anni killer fidatissimo degli Amato-Pagano, dal 2016 collaboratore di giustizia: «In concreto la vicenda si svolgeva in questo modo: verso settembre-ottobre “i ragazzi” facevano il giro dei negozi e io stesso ho fornito i ragazzi al Papa. I ragazzi avevano una specie di album in cui vi erano le fotografie dei singoli gadget, ossia penne-calendari-porta patenti, che mostravano ai negozianti. Ogni pacco costava 160 euro. Ogni commerciante era obbligato a prendere almeno un pacco. Mi ricordo in particolare di aver agito nei confronti del negozio di abbigliamento Cean. È bastata la mia presenza, non l’ho minacciato, e lui ha comprato due pacchi». Negli ultimi anni, il ruolo di Caiazza, che con la sola presenza intimoriva i negozianti, è stato preso da Salvatore Chiarello: ruolo che ricopre forse ancora oggi, visto che la scorsa estate è sfuggito al blitz. «Proprio la sua latitanza dà il segnale della forza del clan a Melito», dice il comandante Napolitano. Il collaboratore di giustizia Carmine Cerrato racconta invece il racket per il settore edile: «Per tutte le costruzioni di Melito, Mugnano e Casavatore il clan impone una percentuale che varia in base al valore dell’opera. Per esempio, se l’opera è di valore inferiore a 100 mila euro, noi prendiamo l’8 per cento; superiore ai 100 mila euro prendiamo il 3-4 per cento, mansarde a parte: cioè per le mansarde, secondo della grandezza, chi costruisce paga 5 ovvero 10 mila euro… Tutti i soldi proventi delle estorsioni sono solo della famiglia Amato-Pagano». Cerrato racconta anche che chi si occupa di estorsioni ha stipendi che variano da 6 mila euro, se è un capo, a 1.500 euro se è semplice manovalanza, con tanto di tredicesima a Natale. Estorsioni, ma non solo. Gli Amato-Pagano gestiscono anche i servizi funebri, entrando direttamente nelle ditte che poi, guarda caso, ricevevano il maggior numero di richieste per i funerali. Secondo gli inquirenti le ditte di Gaetano e Luigi Marrone e di Edoardo Moio versavano inizialmente al clan 500 euro a defunto. Ad un certo punto il clan impone che per i servizi di tumulazione il monopolio doveva essere di Moio. Gaetano Marrone, parlando con Papa, minaccia di andare dalle forze dell’ordine: «Allora facciamoci arrestare tutti», dice. E Papa risponde: «Gaetano, mi è stato imposto». Nel 2016 il clan decide quindi di far entrare nella gestione dei servizi funebri la società di Andrea Coppola che assume il fratello di Antonio Papa, Rocco. Il risultato? Tra il 2015 e il 2019 su 600 funerali a Melito, quasi 500 li ha fatti l’asse Marrone-Coppola. Il clan mette le mani dentro il Comune. Lo fa con i vigili urbani, ma anche con un funzionario, Claudio Valentino, già dipendente del Comune di Sant’Antimo, chiamato all’ufficio tecnico dall’ex sindaco Antonino Amente su suggerimento di uomini degli Amato-Pagano. E proprio su Amente le carte del blitz a Melito aprono un filone che lega politica e camorra. Amente è recentemente scomparso, per anni è stato sindaco del centrodestra in alternanza a Bernardo Tuccillo e Carpentieri per il centrosinistra. Amente è stato sindaco anche negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, durante la realizzazione dei parchi di cemento e dei comparti post terremoto. Le passate amministrazioni, guidate dal Pci, avevano realizzato prima del terremoto una bozza di piano regolatore per salvare il verde e le aree delle aziende florovivaistiche che a Melito erano molto importanti per l’economica locale: «Le giunte democristiane, sia regionali sia di Napoli, stravolgeranno proprio quel piano per risolvere i loro problemi abitativi cementificando selvaggiamente Melito e portando qui il fior fiore delle famiglie dei clan, che subito hanno gestito in proprio la distribuzione delle case e di fatto tutto il paese», dice sconfortato l’ex sindaco comunista Felice Chiantese. Nel 2011 a sorpresa contro Amente viene eletto sindaco il giovane democratico Carpentieri, che inizia a dare fastidio al clan: «Abbiamo fatto un protocollo con la stazione appaltante unica per gare le gare superiori ai 250 mila euro, abbiamo realizzato protocolli di legalità e aperto lo sportello antiracket, inoltre ho fatto un regolamento sulle feste di piazza, tutte cose che evidentemente hanno dato fastidio», dice oggi Carpentieri. Lo confermano, intercettati, anche gli uomini degli Amato-Pagano. Durante i giorni della sfiducia a Carpentieri diversi consiglieri vengono minacciati fino all’aggressione selvaggia al consigliere dem Carmine Ciro Marano, che pochi giorni dopo lascerà il Consiglio: «Ho la passione per la politica, ma per la politica non sono disposto a rimetterci la pelle», dirà firmando le dimissioni. Dopo anni di indagine, nell’ordinanza degli ultimi arresti gli inquirenti su quel clima coinvolgono anche Amente: avrebbe utilizzato Paolo Caiazza per intimorire alcuni consiglieri comunali, compreso Marano, consentendo quindi poi la sfiducia a Carpentieri. Alcuni collaboratori di giustizia parlano anche di voti comprati per 100 mila euro. All’indomani dell’aggressione a Marano, Amente dirà: «Minacce e aggressioni, ma è evidente che la politica non c’entra». C’entrava la camorra. In questi giorni si è tenuto il ballottaggio e ha vinto con il 51 per cento Luciano Mottola, già vicesindaco di Amente, contro la candidata del centrosinistra Dominique Pellecchia. Una vittoria sul filo di lana con meno di 400 voti di differenza. I consensi nelle sezioni elettorali sono stati quasi sempre un testa a testa. La differenza l’hanno fatta alcune sezioni, come la numero dieci (con 120 voti di scarto), la undici (con 170 voti di scarto) e la dodici (200 voti di scarto): le sezioni di parco Monaco e delle abitazioni che confinano con Scampia. I fortini degli Amato-Pagano. Qui funziona così e nessuno, a parte procura e forze dell’ordine, sembra più volersi davvero occupare di queste terre di camorra.

Petronilla Carillo Leandro Del Gaudio per il Messaggero il 7 novembre 2021. Incontri conviviali, accordi di sapore clientelare, possibili incastri elettorali. Seduti attorno allo stesso tavolo - ma sarebbe meglio dire tavolata - c'erano manager del mondo privato, quello delle coop; politici salernitani interessati al voto regionale, ma anche soggetti istituzionali di alto profilo. Tra questi, il governatore della Campania Vincenzo De Luca, che appena due giorni fa è stato raggiunto da una richiesta di proroga delle indagini (che è un avviso di garanzia a tutti gli effetti), da cui ha appreso le mosse della Procura di Salerno.

IL PESO Corruzione di pubblico ufficiale, chiaro lo schema investigativo: De Luca si sarebbe mosso per sbloccare appalti che facevano gola a Vittorio Zoccola, il manager delle coop a Salerno. Avrebbe fatto valere il suo peso rispetto alle istituzioni salernitane, rappresentate dal sindaco Vincenzo Napoli e dal suo fedelissimo Felice Marotta, entrambi indagati nella stessa inchiesta. Una influenza che avrebbe avuto un ritorno preciso: voti. Non solo a Salerno, ma anche nella corsa a Palazzo Santa Lucia, in vista delle regionali del 2020, in uno scenario in cui potrebbero aggiungersi altri nomi di pubblici ufficiali coinvolti (oltre a De Luca, il sindaco Napoli e lo stesso Marotta). Ma restiamo ai dati finora emersi. Sono diverse le intercettazioni in cui Zoccola spende il nome di De Luca, facendo riferimento alla possibilità di un suo intervento per disincagliare procedure amministrative. Quanto basta a sottolineare l'importanza di una data - il 16 febbraio del 2020 -, in cui il governatore De Luca accetta l'invito a cena di Zoccola. Una tavolata, alla quale sono presenti anche i manager di altre cooperative, dal momento che - come ammette candidamente Zoccola - «ho invitato pure altre coop perché sembra brutto se andavo solo io»). Ma da dove nasce la convinzione che in quella sera, si sia parlato di affari, voti, finanche di possibili condizionamenti di gare pubbliche? Agli atti spuntano due intercettazioni di appena due giorni prima, in cui un candidato alle regionali, Franco Picarone (non è indagato), sembra «compulsare Zoccola ad attivarsi». In quale occasione? «Nell'incontro da tenere per una cena programmata la domenica sera». Scrive ancora il gip: «Picarone, nella conversazione sollecitava l'amico Zoccola affinché nell'incontro si definisse la questione della gara, lasciando intendere che la situazione dovesse risolversi prima delle elezioni amministrative regionali». Bastano queste suggestioni per dare vita a un processo? Nell'indagine condotta dalla Mobile di Salerno, sotto il coordinamento del procuratore Giuseppe Borrelli e del procuratore aggiunto Luigi Alberto Cannavale, non ci sono solo telefonate intercettate agli atti. Come è noto, un anno e mezzo dopo quella conversazione, Fiorenzo Vittorio Zoccola ha confessato nel corso di due interrogatori in gran parte omissati. Difeso dal penalista Michele Sarno, Zoccola è stato scarcerato dopo qualche giorno di cella (ora è ai domiciliari), fornendo un contributo concreto alle indagini. Difeso dal penalista Andrea Castaldo, il presidente della Regione non replica alle accuse, mostrandosi fiducioso - come in altre occasioni - di dimostrare la propria correttezza. Doveroso a questo punto attendere riscontri concreti. Altro punto destinato ad essere confrontato con il contenuto di intercettazioni e gli interrogatori finora depositati riguarda la presenza di alcuni fogli manoscritti, che sono stati sequestrati dalla Mobile, ma anche di altri documenti che vengono citati nel corso di conversazioni captate. È sempre Zoccola a fare riferimento a «una lettera di quattro fogli fatta recapitare dal consigliere comunale Peppe Polverino», per chiedere un intervento del presidente della Regione. Secondo la sintesi del gip, in ballo c'era un appalto per la manutenzione del comune di Salerno. Quale sarebbe stata la reazione di De Luca? «Dopo averla letta, avrebbe bestemmiato tutti i santi, avrebbe chiamato Marotta e il sindaco e li avrebbe fatti una monnezza, rimproverandoli duramente... adesso il sindaco e Marotta stanno vedendo come risolvere il problema, fanno una delibera di giunta, scavalcando tutte le cose...». Parole intercettate, che ora attendono riscontri. 

L'inchiesta a Salerno. De Luca: "Noi tranquilli. Spero non scuse tra 10 anni". Arrestato il consigliere regionale Nino Savastano, il fedelissimo di De Luca ai domiciliari: “Mazzette in cambio di appalti”. Redazione su Il Riformista l'11 Ottobre 2021. Una inchiesta giudiziaria scuote il Consiglio regionale della Campania. Giovanni ‘Nino’ Savastano, consigliere eletto tra le fila di "Campania Libera", lista riconducibile al presidente della Regione Vincenzo De Luca, è stato arrestato e posto ai domiciliari questa mattina. Savastano è stato arrestato a Salerno nell’ambito di una inchiesta della procura locale su presunti appalti truccati. Sono dieci le ordinanze di custodia cautelare disposte dal gip del Tribunale di Salerno, mentre sono 29 gli indagati che rispondono a vario titolo dell’ipotesi di reato di turbata libertà degli incanti, induzione indebita, associazione per delinquere e corruzione elettorale. A Savastano viene contestato anche il reato di corruzione elettorale, così come a Fiorenzo Zoccola, presidente di una cooperativa sociale e gestore di fatto di altre coop che avevano in gestione la manutenzione ordinaria e conservativa del Comune di Salerno. Tra le persone finite agli arresti domiciliari c’è anche il dirigente del settore ambiente del Comune di Salerno, Luca Caselli, accusato di associazione a delinquere finalizzata alla turbata libertà degli incanti inerenti l’aggiudicazione di appalti. Savastano, attualmente nel gruppo consiliare di “Campania Libera – Noi Campani – Psi”, era stato il più votato tra i candidati di “Campania Libera”. Eletto nella circoscrizione Salerno, aveva ottenuto 16.587 preferenze ed è attualmente vicepresidente della Commissione politiche sociali, istruzione, cultura e ricerca scientifica. Considerato un fedelissimo del governatore De Luca, tra il 1993 e il 2001, e tra il 2011 e il 2016, Savastano è stato assessore allo sport e alle politiche sociali del Comune di Salerno, in Giunte guidate dall’allora sindaco De Luca, oggi invece presidente della Regione.

INDAGATO ANCHE IL SINDACO DI SALERNO – Tra i 29 indagati nell’inchiesta della Procura di Salerno figura anche il sindaco del capoluogo, Vincenzo Napoli, appena riconfermato primo cittadino lunedì scorso col 57% voti, a capo di una coalizione di centrosinistra.

Napoli risulta indagati per fatti risalenti alla precedente amministrazione. “In relazione all’indagine in corso, esprimiamo piena fiducia nell’azione della Magistratura. Attendiamo sereni gli esiti dell’inchiesta, che ci auguriamo facciano rapidamente piena luce sui fatti contestati”, ha spiegato in una nota Napoli.

DE LUCA: “SPERO NON SCUSE TRA 10 ANNI” – “Spero che non si ritorni a dover ascoltare le scuse dopo magari 10 anni di una vicenda giudiziaria”. Queste le parole del presidente della Giunta regionale della Campania, Vincenzo De Luca, in risposta alle domande dei giornalisti, a margine del Forum Francia-regioni meridionali, in relazione all’inchiesta sugli appalti truccati. “Tranquilli tutti quanti – ha aggiunto De Luca – C’è un lavoro che è in corso, grande rispetto, serenità e grande fiducia. Punto, tutto il resto è bene toglierlo di mezzo”.

Titti Beneduce per corriere.it il 5 dicembre 2021. Il terremoto giudiziario che sta colpendo Salerno, dall'arresto del consigliere regionale Nino Savastano a quello del ras delle cooperative Fiorenzo Zoccola, sull’intreccio tra politica e appalti con la gestione di interi pacchetti di voti, aveva anche un indagato eccellente: il governatore Vincenzo De Luca. A rivelare la notizia è stato Massimo Giletti, con un video sul sito del Corriere della Sera. Secondo quanto anticipato dal conduttore di “Non è l’Arena” su La7, la polizia ha notificato al governatore un avviso di proroga delle indagini preliminari. Atto consegnato nella sede del Genio Civile di Salerno dove De Luca registra ogni venerdì la sua tribuna social. 

Il reato contestato

Il governatore, dunque, era già indagato nell’ambito dell’inchiesta sulle cooperative. Ma la circostanza non era ancora nota. Il reato contestato sarebbe quello di corruzione. La proroga di indagini avrebbe interessato almeno un’altra persona vicina al presidente della giunta regionale. 

Il filone di inchiesta

La proroga delle indagini potrebbe avere un ulteriore effetto dirompente anche alla luce delle rivelazioni del ras delle cooperative, Fiorenzo Zoccola, che in due interrogatori ha parlato con i magistrati per oltre 14 ore, svelando un sistema che - secondo quanto da lui confermato - sarebbe in piedi da diversi anni coinvolgendo politici e cooperative. La Procura, alla vigilia delle elezioni comunali di Salerno, ha anche avviato un ulteriore filone d’inchiesta su un messaggio audio inviato da un esponente delle coop ai lavoratori invitandoli a votare per un candidato deluchiano.

Campania, appalti truccati e coop. De Luca indagato per corruzione. Dario del Porto,  Conchtia Sannino su La Repubblica il 6 novembre 2021. Il nome del governatore della Campania entra nelle indagini della Procura di Salerno. È l’inchiesta che, un mese fa, ha travolto il suo cerchio magico e paralizzato le attività del comune. Indagato per corruzione. È decisamente il venerdì nero di Vincenzo De Luca: il nome del governatore della Campania entra nelle indagini della Procura di Salerno sugli appalti truccati e il voto di scambio nelle cooperative sociali. È l'inchiesta che, un mese fa, ha travolto il suo cerchio magico e paralizzato le attività nel Comune-feudo: mandando ai domiciliari uno dei fedelissimi, il supervotato consigliere regionale Nino Savastano, e in carcere il dominus delle coop, Fiorenzo Zoccola.

L'annuncio del conduttore e l'inchiesta sulle Coop a Salerno. De Luca indagato, Giletti “grida” sui social l’avviso di garanzia: ma la Procura tace. Redazione su Il Riformista il 5 Novembre 2021. “Il capo della Squadra Mobile ha consegnato al governatore della Campania un avviso di garanzia”. Ad annunciarlo in un video pubblicato sui social è il conduttore di “Non è l’Arena” (La7) Massimo Giletti secondo il quale Vincenzo De Luca sarebbe coinvolto nell’inchiesta sui presunti appalti truccati e i rapporti tra Amministrazione comunale salernitana e cooperative sociali, culminata a inizio ottobre con diversi arresti e un totale di 29 persone indagate. Questa mattina “due auto della polizia si sono fermate davanti alla sede del Genio Civile di Salerno, è sceso il capo della Squadra Mobile, il dottor Castello, e ha consegnato al governatore De Luca un avviso di garanzia. Noi continueremo a seguire – aggiunge Giletti – l’inchiesta della Procura sui rapporti tra la politica e le cooperative nella città di Salerno”. La notizia, inizialmente smentita, è stata confermata alle agenzie stampa da fonti dello staff dello stesso De Luca. Il governatore ha ricevuto oggi un avviso di proroga indagini per la vicenda relativa alle coop di Salerno sulla quale sta indagando la Procura. Una inchiesta che ha visto misure cautelari per un consigliere regionale, Nino Savastano, e per il presidente di una cooperativa, Fiorenzo Zoccola.  Quest’ultimo A De Luca in queste ore è stato notificato un provvedimento di proroga delle indagini. Ma la Procura della Repubblica diretta da Giuseppe Borrelli – stando a quanto riportato da Repubblica – si rifiuta “categoricamente di rispondere a qualunque domanda su vicende in corso”. Lo scorso 11 ottobre, in relazione all’inchiesta sugli appalti truccati, De Luca commentò: “Spero che non si ritorni a dover ascoltare le scuse dopo magari 10 anni di una vicenda giudiziaria. Tranquilli tutti quanti c’è un lavoro che è in corso, grande rispetto, serenità e grande fiducia. Punto, tutto il resto è bene toglierlo di mezzo”.

“Sistema Salerno” De Luca indagato. Dopo le dichiarazioni di Fiorenzo Zoccola rese ai giudici. Laura Pirone su Il Quotidiano del Sud il 6 novembre 2021. Un avviso di ‘proroga delle indagini preliminari’: anche Vincenzo De Luca, presidente della Regione Campania è indagato dalla Procura di Salerno nell’ambito dell’inchiesta sugli intrecci tra politica e mondo delle coop. Una iscrizione nel registro degli indagati di cui, finora, non si è saputo nulla. Il reato ipotizzato nei confronti del governatore campano, al quale è stato recapitato l’avviso di proroga indagini, è di corruzione. De Luca, dunque, era già coinvolto nell’inchiesta della Procura di Salerno che ha portato, nello scorso mese di ottobre, a 10 misure cautelari e 29 indagati, scatenando una bufera sul Comune di Salerno per i presunti appalti truccati. Ai domiciliari Nino Savastano, al quale viene contestato anche il reato di corruzione elettorale, consigliere regionale di Campania Libera, lista ‘deluchiana’ che alle scorse regionali è risultato il più votato dopo il governatore. Misura cautelare in carcere, invece, per Fiorenzo Zoccola, presidente di una cooperativa sociale e gestore di fatto, stando alle indagini, di diverse altre cooperative che avevano in gestione la manutenzione ordinaria e conservativa del patrimonio del Comune di Salerno. Ai domiciliari finì anche Luca Caselli, dirigente del settore ambiente del Comune di Salerno. Nell’ordinanza emessa dal gip del Tribunale di Salerno emerge un presunto “consolidato accordo corruttivo” tra Savastano e Zoccola, secondo il quale il consigliere regionale “stabilmente asserviva le funzioni pubbliche agli interessi personali propri e del privato in cambio del sostegno elettorale assicuratogli da Zoccola, garantendo a quest’ultimo l’affidamento degli appalti banditi dal Comune di Salerno aventi ad oggetto servizi pubblici alle società cooperative sociali riferibili al privato e ai suoi sodali”. Le indagini svolte avevano accertato – stando all’ordinanza del gip – come la gestione degli affidamenti per la manutenzione del patrimonio comunale e delle relative proroghe da parte del Comune di Salerno in favore delle cooperative sociali, sia stata caratterizzata da rilevanti profili di illiceità penale, con gravi ricadute in termini di gestione del denaro pubblico, violazioni del principia di libera concorrenza tra operatori economici e possibili inquinamenti nelle consultazioni elettorali. Al sindaco di Salerno, Napoli, fu invece contestato il reato di turbata libertà degli incanti con l’aggravante del pubblico ufficio. Secondo la Procura, Napoli “nella qualità di sindaco del Comune di Salerno” insieme con Felice Marotta, quale collaboratore, “agendo in concorso tra loro e nelle rispettive qualità, con collusioni e mezzi fraudolenti, turbavano il procedimento amministrativo di scelta del contraente”, avente ad oggetto “l’affidamento del servizio di noleggio automezzo lavastrada per un periodo di mesi 2” indetto con determinazione dell’amministratore unico della società ‘Salerno Pulita spa’ in data 20 marzo 2020, predeterminando l’oggetto dell’appalto e rivelando il contenuto delle offerte presentate dagli altri operatori economici, in modo che la conclusione del relativo contratto fosse assicurato a vantaggio della coop “Terza Dimensione”.

Salerno e coop, avviso di garanzia a De Luca: si indaga per corruzione. Giletti dà la notizia. Redazione venerdì 5 Novembre 2021 su Il Secolo d'Italia.  Avviso di garanzia per Vincenzo De Luca. Il governatore della Campania sarebbe indagato per corruzione. Ma al momento non c’è nessuna conferma ufficiale. Non è ancora chiaro se a coinvolgere il governatore sceriffo sia l’inchiesta sui rapporti tra l’amministrazione comunale di Salerno e alcune cooperative sociali o un altro filone. A dare la notizia sui social per primo è stato Massimo Giletti. Che ha dedicato all’inchiesta diverse puntate di Non è l’arena. Con un video pubblicato su Twitter e ripreso dal sito del Corriere della Sera il giornalista ha dato l’annuncio. “Pochi minuti fa è stato consegnato a De Luca un avviso di garanzia”. E ha assicurato che continuerà a seguire l’inchiesta della Procura. Sui rapporti tra la politica e le cooperative nella città di Salerno. Il cosiddetto Sistema Salerno. Che è stato al centro dell’ultima puntata di Non è l’Arena. Durante la quale sono volate scintille tra Giletti e De Luca. Che ha definito il conduttore un esaltato e il format una “trasmissionaccia”.  Giletti era stato accostato a “personaggi ricoverati all’ospedale Cardarelli per coma etilico”. Per tutta risposta Giletti aveva replicato: “Lei è libero di dire che sono un ubriacone. Ma a me piacciono i fatti”. Dopo una giostra di conferme e smentite, la notizia è stata ufficializzata dallo staff del governatore campano. De Luca dunque sarebbe stato notificato un provvedimento di proroga delle indagini. L’atto sarebbe stato consegnato nella sede del Genio Civile di Salerno. Ma il condizionale è d’obbligo visto che la Procura diretta da Giuseppe Borrelli si sarebbe rifiutata categoricamente di parlare di vicende in corso. Al centro dell’indagine alcuni appalti per la manutenzione delle strade cittadine, del verde pubblico e del controllo dei parchi. L’inchiesta – secondo quanto riporta il Corriere della Sera – ha portato a ipotizzare la presenza di un cartello, composto da otto cooperative, per concordare le offerte per l’appalto e quindi per pilotare la gara. Ikl caso è scoppiato lo scorso 11 ottobre. Quando la Squadra mobile di Salerno ha eseguito dieci arresti. Nell’ambito di un’indagine nata due anni fa. Sugli appalti pubblici gestiti da alcune cooperative, destinate al recupero dei lavoratori disagiati. Le accuse, a vario titolo, sono turbata libertà degli incanti, induzione indebita. Associazione per delinquere. E un caso di corruzione elettorale. Tra i 26 indagati anche l’attuale sindaco di Salerno Vincenzo Napoli. Per la sola turbativa d’asta. Il nome più pesante nell’indagine si è rivelato quello di Nino Savastano, consigliere regionale, finito agli arresti domiciliari. In manette anche il ras delle coop salernitane Fiorenzo Zoccola. Tra gli atti dell’inchiesta della Procura di Salerno ci sarebbe anche una cena a cui avrebbe partecipato Vincenzo De Luca. Il governatore a febbraio 2020 avrebbe cenato, in un ristorante di Salerno, insieme con rappresentanti di alcune società cooperative salernitane.

Rapina choc a Napoli: malviventi puntano armi contro famiglie e bambini. Francesca Galici l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. Due uomini armati di kalashnikov e fucile a pompa hanno fatto irruzione in una pizzeria: il bottino è di 4 orologi e un bracciale. Rapina choc a Casavatore, grande agglomerato urbano dell'area metropolitana di Napoli. Due rapinatori armati di kalashnikov e fucile a pompa hanno fatto irruzione in una pizzeria e non hanno esitato a puntare le armi addosso a un bambino come deterrente per gli adulti per evitare una loro reazione. È stata un'azione lampo, durata pochi minuti, che si è compiuta il 9 ottobre è terminata fortunatamente senza feriti. I banditi sono andati via con quattro orologi, di cui due di lusso, e anche un bracciale d'oro. Le telecamere hanno ripreso tutto da due angolazioni diverse, che mostrano l'ingresso dei rapinatori mentre i clienti erano al tavolo a mangiare. I due malviventi non sono immediatamente riconoscibili, in quanto indossano un passamontagna e i guanti con le armi già in pugno. In sala era presente anche un musicista con la chitarra che intratteneva i clienti. Uno dei due rapinatori entra per primo con il fucile a pompa mentre il secondo entra qualche attimo dopo impugnando il kalashnikov. I clienti si sono immediatamente immobilizzati per la paura. Una donna, per spirito di protezione, ha afferrato il figlio piccolo per difenderlo da un eventuale pericolo. I due vengono subito raggiunti dal marito, che si è assicurato di metterli in sicurezza. In quella sala i malviventi sono stati solo di passaggio, perché subito dopo si sono spostati nella sala successiva ed è qui che uno dei due malviventi si è avvicinato a un tavolo a cui era attovagliata una famiglia. È qui che uno dei due ha puntato l'arma contro un adulto. La reazione degli altri presenti al tavolo è stata di difesa. Uno dei ragazzi, per evitare che la situazione degenerasse, si è sfilato l'orologio e l'ha posato sul tavolo. Una donna, come si vede dal video, ha fatto lo stesso. L'altro uomo, invece, nel frattempo teneva il fucile puntato contro il volto di un altro uomo, con la canna quasi attaccata al viso, con il bambino. La durata dell'assalto è stata breve ma, oltre all'orologio offerto dal ragazzo e al bracciale, i rapinatori sono riusciti a portare via due orologi di grande valore del titolare e di suo padre. Il girato delle telecamere di sicurezza è ora stato sequestrato dai carabinieri di Casoria. Gli inquirenti ipotizzano che possa trattarsi dello stesso gruppo che ha effettuato un raid in un pub di Cardito qualche settimana fa.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Elezioni comunali 2021: Gaetano Manfredi, chi è il nuovo sindaco di Napoli. Ilaria Minucci il 04/10/2021 su Notizie.it. Le elezioni comunali si sono concluse, a Napoli, con la vittoria di Gaetano Manfredi che ricoprirà il ruolo di nuovo sindaco del capoluogo campano. L’ex rettore dell’Università Federico II di Napoli ed ex ministro dell’Università e della Ricerca durante Governo Conte bis, Gaetano Manfredi, è stato eletto come nuovo sindaco di Napoli. A Napoli, le elezioni amministrative tenute nelle giornate di domenica 3 e lunedì 4 ottobre, si sono concluse con l’elezione di Gaetano Manfredi in qualità di nuovo sindaco del capoluogo campano. Manfredi ha annunciato la sua vittoria nella serata di lunedì 4, in occasione di un lungo discorso pronunciato presso il suo comitato elettorale, riunito all’hotel Terminus. Gaetano Manfredi, nato a Ottaviano il 4 gennaio del 1964 e residente nel comune di Nola, ha conseguito la laurea in Ingegneria ed è stato docente universitario e rettore dell’Università di Napoli “Federico II”. Dal 2015, Gaetano Manfredi è Presidente della CRUI, la conferenza dei rettori delle università italiane mentre, durante il Governo Conte II, ha rivestito il ruolo di ministro dell’Università e della Ricerca. Il 4 ottobre 2021 è stato eletto come 25esimo sindaco di Napoli, al primo turno delle elezioni, come candidato della coalizione di centrosinistra composta, principalmente, dal Partito Democratico e dal Movimento 5 Stelle. Gaetano Manfredi è sposato con il medico Concetta “Cettina” Del Piano, con la quale ha una figlia di 22 anni, Sveva, che frequenta la facoltà di Economia presso la Bocconi di Milano. Dopo aver conseguito il diploma di liceo classico, l’attuale sindaco di Napoli si è laureato in ingegneria con 110 e lode alla Federico II di Napoli, seguendo le orme del padre Gianfranco. In questo modo, inizia una lunga carriera in ambito accademico, proseguita con una borsa di ricerca e una cattedra universitaria in Tecnica delle Costruzioni. Nel corso dei suoi anni da docente universitario, Gaetano Manfredi ha preso parte a ricerche teoriche e sperimentali che trattavano argomenti come il comportamento sismico delle strutture murarie, il comportamento non lineare degli edifici, la vulnerabilità e la riabilitazione dei beni culturali, il rischio sismico nel contesto degli impianti industriali o, ancora, l’innovazione tecnologica. In totale, l’ex rettore dell’Università di Napoli ha realizzato oltre 500 pubblicazioni. Nel 2014, Gaetano Manfredi è stato nominato rettore dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e ha svolto l’incarico fino al 2020. In questi anni, l’ateneo partenopeo ha vissuto una fase di grande sviluppo, culminata nell’inaugurazione del polo universitario di San Giovanni a Teduccio, nell’istituzione della Scuola Superiore Meridionale (creata sul modello della Normale di Pisa) e nella creazione dell’Academy Apple. Nel 2015, invece, è stato nominato presidente della CRUI, ruolo per il quale è stato riconfermato anche nel 2018. Gaetano Manfredi non è l’unico membro della sua famiglia ad aver avuto esperienze in politica. Il padre Gianfranco, infatti, è un convinto socialista ed è stato consigliere comunale di Nola mentre il fratello Massimiliano, parlamentare del Partito Democratico, è membro del consiglio regionale della Campania. Per quanto riguarda Gaetano Manfredi, prima di diventare sindaco di Napoli o di far parte del Governo Conte II, era stato scelto come tecnico nel 2006, durante il secondo Governo Prodi.

Le parole del cantante. Cesare Cremonini e l’amore per Napoli: “Va ascoltata, un laboratorio che non conosce soste”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 27 Settembre 2021. È una dichiarazione d’amore, e di fascinazione, e di ricerca e di poesia e poetica. Cesare Cremonini e Napoli, Napoli per Cesare Cremonini: il cantante e autore e popstar bolognese ha lanciato sui social altre parole al miele per la metropoli partenopea. Che va sempre “ascoltata”, “guardata”, come succede con un punto di riferimento, una stella polare per la sua effervescenza artistica e i suoi talenti. Cremonini che ha appena registrato un nuovo album agli storici studios di Abbey Road a Londra e che spera di tornare finalmente in tout, negli stadi, nel 2022. Cremonini che Lucio Dalla incoronò a suo “unico erede”. Dalla che diceva di non poter “fare a meno, almeno due o tre volte al giorno di sognare di essere a Napoli. Sono dodici anni che studio tre ore alla settimana il napoletano, perché se ci fosse una puntura da fare intramuscolo, con dentro il napoletano, tutto il napoletano, che costasse 200.000 euro io me la farei, per poter parlare e ragionare come ragionano loro da millenni”. Una corda tesa quella tra i due artisti di Bologna e la metropoli partenopea, e le parole che sembrano ripetersi. “Le canzoni di Bologna e quelle di Napoli si riconoscono da lontano da molti anni, perché nascono entrambe dalla terra, dove tutti si inginocchiano prima di ripartire – scriveva qualche mese fa dedicando da un balcone affacciato sul golfo una canzone, Poetica, dal suo ultimo album studio Possibili Scenari, come in una serenata – Quella che qui è una grande tavola di mare, con le onde che arrivano da lontano e i profumi d’oriente, da noi è una distesa di campi verdi, fertili e generosi. ‘Dove lo sguardo si perde è invogliato a immaginare’, per dire una banalità. Lucio Dalla si sentiva figlio di Napoli (e non solo), Gianni Morandi è uno dei massimi esperti in Italia di canzone napoletane”. Ebbene Cremonini è tornato sui social network a scrivere per e di Napoli in occasione dell’uscita dell’album di Davide Petrella, cantautore e paroliere partenopeo, amico di Cremonini, Non esiste amore a Napoli, sotto lo pseudonimo di Tropico. L’ex leader dei Lunapop ha ricordato l’incontro e l’amicizia con Petrella e ha ricordato: “E poi è di Napoli, la città che secondo me va guardata sempre, più di tutte le altre, perché è un centro culturale da cui stanno nascendo e continuano a nascere grandi artisti e come un laboratorio che non conosce soste. Ci parla anche nei sogni. Va ascoltata”. That’s Amore. 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Gianluca Nicoletti per “La Stampa” il 27 settembre 2021. Lo spazzino lordatore di Napoli diventerà simbolo dell'avverarsi di un pregiudizio. La città su cui negli anni si sono addensate tutte le possibili facezie denigratorie sulla stratificazione del pattume urbano, ha operatori ecologici che invece di pulire le strade le insozzano, sparpagliando rifiuti con meticolosa dovizia. Allo stesso tempo ci chiederemo fino allo sfinimento il perché di quello sciorinare a terra, per poi scalcettare una a una, le misere sconcezze da pattumiera con il tratto creativo di un artista concettuale che cerca la giusta composizione nello spazio degli elementi della sua performance. È stato il suo un gesto apparentemente senza alcun senso, masochistico in quanto lascia una traccia della propria negligenza da addetto alla pulizia, inutilmente faticoso perché costava meno impegno buttare un sacchetto pieno nel camioncino che, con alla guida un collega-spalla, si affiancava al suo lucido insozzamento. Sarebbe come se le guardie municipali di Roma girassero nottetempo con sacchi pieni di cinghiali da sguinzagliare nei giardinetti; un paradosso che sfiora l'acme del ridicolo in cui tracima ogni sconcezza oltre il tetto del probabile. Forse solo Superciuk, il ladro mascherato che rubava ai poveri per dare ai ricchi, poté sfiorare una così impervia quota dell'assurdo. Quello però era solo il personaggio di un fumetto, l'operatore ecologico (solo definirlo così fa ridere) che si è prodotto nell'infiorata da cassonetto, è un regolare dipendente dell'azienda municipale addetta alla pulizia delle strade. Non ci si poteva sbagliare, indossava la divisa d'ordinanza con gambaletto fosforescente, tanto che il visore notturno della telecamera di sorveglianza, che ha ripreso il suo show, sembra quasi attribuirgli luminescenze da super eroe. Proviamo a ipotizzare quale potrebbe essere la sua giustificazione, di fronte al superiore che gli contesta il putrescente scempio notturno, oramai entrato nella gloria del meme condiviso, commentato, pubblicato e ripubblicato ovunque in rete. Potrebbe accusare lo stress da Covid, è una realtà e potrebbe anche mitigare la sua responsabilità. Potrebbe incolpare il collega di averlo esasperato perché, con accanimento malevolo, accelerava con il camioncino per rendergli difficile il corretto stoccaggio del pattume. Potrebbe pure confessare di essere stato costretto a compiere l'insana lordatura dal braccio violento di non definibili "poteri forti" che hanno lo scopo di delegittimare, mettere in cattiva luce, minare alla base quello o quell'altro pubblico amministratore. Potrebbe ammettere, con una punta di vergogna, che in quella via abita qualcuno che a lui fece un sanguinoso torto, una donna che lo ha illuso e tradito, un vile che lo bullizzava ai tempi dell'oratorio. Potrebbe anche eroicamente dichiarare che l'ha fatto in nome della libertà, perché è ora di finirla e l'umanità si deve svegliare e scendere in strada per scongiurare il grande reset, i vampiri dissangua bambini, la dittatura sanitaria. Forse allora troverebbe sostenitori, persino la sua scelleratezza sarebbe interpretata come una geniale provocazione situazionista. 

La presidente di Asia: "Bastava una telefonata, strada pulita dagli spazzini". Netturbini spargono rifiuti in strada, Borrelli sporca l’immagine di Napoli: la fake news è virale. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 26 Settembre 2021. Succede che un cittadino o un commerciante invia un video al consigliere regionale di Europa Verde Francesco Emilio Borrelli e, quest’ultimo, che sempre più spesso rimarca il suo essere giornalista professionista da oltre un decennio, si limiti semplicemente a fare da passacarte, pubblicandolo senza alcuna verifica. Venendo meno di fatto sia a quanto impone, o imporrebbe (perché del nostro ordine professionale latitano), la professione giornalistica, sia al suo ruolo di rappresentate delle istituzioni che oltre a denunciare alla stregua di un influencer qualsiasi cosa sui social, dovrebbe anche provare a risolvere i problemi o, almeno, a relazionarsi con gli altri enti istituzionali, rinunciando ogni tanto alla gloria effimera dei social. Capita così che un video in cui si vede un operatore di Asia, l’azienda del comune di Napoli che si occupa della raccolta dei rifiuti, spostare con i piedi alcuni rifiuti caduti da un cestino presente in strada, diventi virale a livello nazionale, con i principali media che raccolgono la denuncia del consigliere-giornalista-influencer (“sparge rifiuti in strada e va via”) senza provare a far luce su quanto accaduto e ‘sparano’ le immagini in homepage o addirittura sul cartaceo, contribuendo a danneggiare ulteriormente l’immagine di un città, Napoli, già ricca di problemi e contraddizioni ma che non ha bisogno di fake news. Consigliere poi che punta subito il dito, da giustizialista di razza, contro i dipendenti di Asia chiedendone l’immediata rimozione perché “si tratta di un gesto inqualificabile per il quale chiedo all’azienda di prendere provvedimenti severi nei confronti di questi due lavoratori e degli altri eventualmente presenti”. Poi la chicca: “Sono sicuro che in questo periodo di grande crisi occupazionale sono in tanti che vorrebbero il loro posto per lavorare onestamente”. Eppure bastava fare una telefonata all’Asia, e nella fattispecie alla presidente Maria De Marco, per chiedere delucidazioni sul comportamento dell’operatore in questione. I fatti risalgono alle prime ore del mattino del 25 settembre. Il primo camioncino, dedito alla raccolta dei rifiuti lasciati all’interno dei cestini presenti lungo il marciapiede, passa lungo il Corso Vittorio Emanuele poco dopo le 3.30. “Come si vede chiaramente nel filmato inviato al consigliere Borrelli che, inconsapevolmente monta, perché preso dall’enfasi non si preoccupa di verificare, il nostro lavoratore – spiega De Marco – apre il cestino e i rifiuti cadono dallo sportello. Con molta evidenza si nota che all’interno non c’è il sacco che raccoglie i rifiuti. Non sappiamo il perché ma questo lo verificheremo. Il netturbino proprio per non lasciarli sul marciapiede, con i piedi li sposta a bordo strada in attesa dell’arrivo, successivo, degli spazzini”. Arrivo che puntualmente c’è stato qualche ora dopo, prima dell’alba, così come ogni mattina. Si tratta, secondo la presidente di Asia, di “un frainteso anche perché il video si interrompe bruscamente. Dispiace perché Borrelli ci tiene alla città, è sempre molto attivo nel raccogliere le denunce dei cittadini ma lanciare frecce avvelenate contro i lavoratori Asia non è giusto. Si tratta di persone esposte sempre più spesso a critiche a volte ingiustificate, altre volte invece giustificate e quando questo c’è colpa, c’è la punizione. L’immagine ci dice che il lavoratore con i piedi ha cercato di togliere dalla strada i rifiuti, lasciandoli lateralmente in attesa del passaggio successivo degli spazzini, addetti a pulire materialmente le strade”.

“Dispiace – prosegue De Marco – perché a Borrelli hanno mandato solo quelle prime immagini e non quelle successive dopo la strada veniva liberata dai rifiuti caduti dal cestino. Mi auguro che tutte le prossime volte in consigliere mi cerchi per parlarne prima di pubblicare simili video. Dispiace perché Borrelli svolge un lavoro prezioso per la cittadinanza, è un punto di riferimento di molti cittadini ma talvolta bisogna verificare bene prima di pubblicare le numerose segnalazioni che gli arrivano”. Non è la prima volta infatti che il consigliere-giornalista inciampa in casi di fake news. Celebre nel luglio del 2020, quella ripresa anche dai media nazionali di un bambino alla guida di un autobus pubblico. Una figuraccia finita, come sempre più spesso accade, nel dimenticatoio.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Il video diffuso da Borrelli e condannato dalla presidente De Marco. Netturbini spargono rifiuti in strada, l’Asia smentita dal titolare del bar: “Ho pulito io, spazzini arrivati dopo”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 29 Settembre 2021. “Ho aperto il bar poco dopo le 6 del mattino e ho trovato il marciapiede invaso dai rifiuti, così ho ripulito quel tratto di strada perché non potevo aspettare l’arrivo degli spazzini dell’Asia”. Dopo giorni di esitazione, il titolare del bar presente lungo il Corso Vittorio Emanuele a Napoli smentisce la versione fornita dalla presidente di Asia Maria De Marco e ricostruisce i fatti della notte del 25 settembre scorso, quando in un video diventato virale sui social, un netturbino nel raccogliere i rifiuti presenti in un cestino a bordo strada, li lascia cadere a terra perché all’interno non era presente la busta per contenerli. Il dipendente di Asia, l’azienda che si occupa della raccolta a Napoli, li sposta con il piede a bordo strada e va via a bordo del furgoncino. “I rifiuti sono stati poi raccolti dagli spazzini così come accade ogni mattina” aveva raccontato al Riformista la presidente De Marco. Versione smentita dal titolare del bar in questione che ci mostra le foto con gli orari in questione (che al momento preferisce non pubblicare) e ricostruisce come sono andati davvero i fatti.

LA RETTIFICA – Netturbini spargono rifiuti in strada, l’Asia smentita dal titolare del bar: “Ho pulito io, spazzini arrivati dopo”.  “Il furgoncino è passato alle 4.30 di notte, così come si vedere dal video pubblicato (l’orario presente nel filmato è settato un’ora indietro). Io apro il bar alle 6.30 e non potendo aspettare l’arrivo degli spazzini, che puliscono la strada a partire dalle 7, mi sono rimboccato le maniche e ho liberato il marciapiede, anche perché – aggiunge – c’era un cattivo odore dovuto agli escrementi dei cani raccolti nei sacchetti e caduti in strada”. Così quando è passato successivamente lo spazzino dell’Asia, la strada era già stata ripulita dal titolare del bar. Rettifichiamo quanto scritto nel precedente articolo LINK ALL’ARTICOLO e quanto detto del consigliere regionale Francesco Emilio Borrelli, che si è limitato a diffondere il primo video senza approfondire i fatti neanche con l’azienda di raccolta rifiuti, poiché la ricostruzione inesatta degli eventi è stata fornita da Asia.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Eduardo Scarpetta: «A 9 anni ero già in scena e papà mi diede 100 euro. Ma volevo fare il calciatore». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 3 Ottobre 2021. L’attore: «Il mio trisavolo? Un genio, so tutti gli aneddoti». Al Centro sperimentale un giorno non ero preparato e la prof mi rimproverò: anche se porti quel cognome non puoi pensare di non lavorare come gli altri. «Quel giorno il mio trisavolo, Eduardo Scarpetta, era in carrozza a passeggio. A un certo punto ordina al suo cocchiere, mi pare si chiamasse Pasquale, di fermarsi, perché doveva fare una pipì urgente. Il cocchiere esegue l’ordine, Eduardo scende, si volta verso il muro per dar seguito alla sua necessità impellente, ma arriva un carabiniere che, rivolgendosi a lui con grande rispetto, gli dice: “don Eduardo, purtroppo debbo farle una contravvenzione”. Scarpetta risponde seccato: vabbè, quant’è la multa? Il militare dice la cifra, ma Scarpetta tira fuori una banconota intera che era esattamente il doppio dell’ammenda richiesta. Siccome però il carabiniere non aveva il resto, Scarpetta taglia corto e ordina al cocchiere: Pasca’, scendi e piscia pure tu così paghiamo la multa intera». Il ventottenne Eduardo Scarpetta junior ricorda divertito aneddoti della sua famiglia: «Me li ha raccontati mia zia, Maria Vittoria Scarpetta, sorella di mio padre, che essendo molto in là con l’età, ha avuto modo di conoscere alcuni dei miei avi, raccoglierne le testimonianze. E mi ricordo un’altra storiella».

Ce la racconti...

«Sempre Eduardo, il capostipite, consegna alla sua cameriera un bigliettino ripiegato e la spedisce in farmacia. La donna pensa che vi sia scritto un farmaco da acquistare, quindi lo presenta al farmacista, che però la manda in un’altra farmacia... la cameriera si reca in un’altra farmacia, presenta il bigliettino, ma riceve la stessa risposta... Di farmacie ne gira tre o quattro, finché il farmacista di turno le fa finalmente vedere cosa c’era scritto nel bigliettino...».

Che cosa?

«“Mandatela in un’altra farmacia”. Insomma, niente farmaci da acquistare, ma l’ennesimo scherzo del padrone a quella poveraccia che aveva girato inutilmente».

Facciamo un po’ d’ordine nella sua genealogia: lei è figlio di Mario Scarpetta, che è figlio di Eduardo Scarpetta, che è figlio di Vincenzo Scarpetta, a sua volta figlio di Eduardo Scarpetta senior.

«Esatto e adesso impersono il mio bisnonno Vincenzo nel film Qui rido io, a fianco di Toni Servillo nel ruolo del mio trisavolo, con la regia di Mario Martone».

Come si è sentito nei panni di un personaggio non solo realmente esistito, ma oltretutto parente stretto?

«Non è stato facilissimo, per fortuna sapevo molte cose dalla mia famiglia, inoltre ho letto vari libri e poi mi sono affidato alla visione del regista. Vincenzo era un bravissimo attore, un ottimo cantante e come autore la sua opera più famosa è ’O tuono ’e marzo. Però, essendo figlio di cotanto padre, non ha avuto lo stesso successo».

In altri termini il suo talento è stato schiacciato dalla ingombrante figura paterna...

«Il figlio di Maradona non ha fatto la carriera del padre... e lui era erede di don Eduardo: famosissimo, ricchissimo, personaggio straordinario che ha dato vita a una rivoluzione teatrale. Ovvero, dall’improvvisazione della commedia dell’arte, Scarpetta passa alla creazione di testi, copioni scritti che i suoi attori dovevano interpretare e ai quali si dovevano attenere. Un nuovo orizzonte, dove era l’attore che andava verso il personaggio e non viceversa, com’era avvenuto fino a quell’epoca».

Inoltre, il suo bisnonno aveva per fratellastri Eduardo, Titina e Peppino De Filippo, figli naturali di Scarpetta, grandi attori, autori...

«Eh già... in pratica era assediato, per lui era come giocare in un campionato dove devi sgomitare per essere illuminato dai riflettori. Nel film, ho cercato di esaltare il suo côté elegante. Vincenzo era un po’ un gagà, un po’ dandy e, oppresso dal padre per il personaggio di Felice Sciosciammocca, che avrebbe dovuto sempre recitare ma lui non amava, voleva fare altro e tentava di ribellarsi».

Sotto il profilo umano e morale, come giudica il suo trisavolo, sposato con Rosa ma pieno di amanti, di figli illegittimi?

«Diciamo... piuttosto attivo in ambito privato, moralmente rocambolesco. Ha fatto sempre quello che voleva e, forse, se non si fosse comportato così non sarebbe stato il genio artistico che si è dimostrato. Però, certo, non si può affermare che sia stato molto corretto e proprio nella commedia Filumena Marturano, da parte di Eduardo De Filippo è molto evidente il riferimento alla questione dei figli naturali, quando fa dire dalla protagonista a Domenico Soriano: questi sono figli tuoi, li devi riconoscere, dar loro il tuo cognome e basta».

Peppino, nella sua biografia «Una famiglia difficile», racconta addirittura di aver subito delle presunte molestie dal padre. Tale rivelazione fece molto arrabbiare il fratello Eduardo che era estremamente discreto e che, quando gli veniva chiesto un parere sul padre, si limitava a rispondere: è un grande attore.

«Ho letto ovviamente il libro, ma non so quanto la vicenda sia realmente avvenuta e, se lo fosse, sarebbe davvero troppo. In famiglia non se n’è mai parlato e, se fosse ancora vivo mio padre, che ho perso quando avevo undici anni e che ha iniziato la sua carriera artistica proprio con il fratellastro Eduardo, glielo chiederei ora che sono adulto».

All’ombra di una discendenza così importante, entrare nel mondo dello spettacolo è stato per lei un azzardo o aveva il destino segnato?

«In casa tutti mi dicevano fai qualcos’altro, non fare questo mestiere. Ma nonostante mio nonno Eduardo facesse il farmacista, quindi aveva scelto davvero un altro mestiere per interrompere la catena, papà e mamma erano attori. Da quando sono nato, mi hanno sempre portato con loro in tournée, forse perché... (scherza) non volevano pagare una baby sitter... Tant’è, ma io ero felice di assistere ai loro spettacoli da dietro le quinte, ridevo come un matto, saltavo dalla gioia, quindi capii subito che quella era la mia strada. Il mio debutto avviene a nove anni accanto a loro nella commedia Feliciello e Feliciella, ovviamente di Eduardo Scarpetta. Al termine delle repliche, papà mi pagò con una banconota da 100 euro: è stampata nella mia memoria, bella, grande, di colore verde... ero illuminato dalla sua luce».

Ma se non avesse intrapreso questa strada, quale altra avrebbe potuto percorrere?

«In verità, mio padre voleva fare di me un calciatore. Tra gli otto e i dieci anni mi allenavo e lui mi accompagnava sempre al campo di calcio, mi dava consigli, indicazioni, istruzioni, si metteva in porta e parava i miei tiri. A quindici anni, quando lui purtroppo non c’era più, mi iscrivo a una scuola di calcio, ma proprio lì accade che, facendo una mossa sbagliata, sento un crac alla schiena: mi è venuta una scoliosi e, per curare il problema, ho iniziato a fare nuoto. Basta, archiviato il sogno del calciatore».

Basta tiri al pallone ed entra in una scuola di recitazione.

«La prima idea, dopo aver frequentato il liceo classico Umberto I a Napoli, con scarso rendimento scolastico, era quella di iscrivermi all’Accademia Silvio D’Amico. Per mia incuria, feci scadere il bando per presentare la domanda di ammissione e mia madre, che mi ha fatto anche da padre, mi iscrisse al Centro sperimentale».

Con scarso rendimento anche là?

«No, assolutamente. Ero attento alle lezioni, disciplinato, interessato a imparare il metodo, perché a questo serve una scuola, ed ero, di solito, sempre preparato nelle materie da studiare...».

Di solito? Non sempre?

«Bè una volta è accaduto un fatto sgradevole. Effettivamente non mi ero molto applicato e, quando la professoressa di turno si accorge della mia impreparazione, mi fa un cazziatone, aggiungendo una frase poco simpatica: “Anche se porti questo cognome importante, non puoi pensare di non lavorare come tutti gli altri compagni”. Ma la mia impreparazione non era dettata da arroganza dovuta alla mia ascendenza... e trovai quel rimprovero ingiusto».

Insomma, un cognome importante non è la scorciatoia per arrivare al successo?

«Semmai è una grossa responsabilità, imposta dalla mia carta d’identità. Devi dimostrare molto di più, proprio perché hai un’etichetta addosso. Devi essere all’altezza del compito con umiltà, lavorare onestamente e onorare i tuoi predecessori. La vera fortuna è di essere impegnato in un mestiere che mi piace, anche se la vita degli attori è piuttosto randagia: sei sempre in giro, tra set e tournée teatrali. E non solo gli attori, anche le maestranze che ci assistono fanno la stessa vita. Mentre giravo il film di Martone Capri revolution, ho assistito per caso al dialogo, su facetime, di un nostro tecnico con il figlioletto appena nato: il neo-padre non poteva andare ad abbracciare il suo bimbo! Mi ha fatto una certa impressione».

In altri termini, una vita da cani?

Ride: «No, anche se io ho un bellissimo labrador, di nome Megan, con cui faccio lunghe passeggiate quando ho tempo. Direi una vita instabile, la nostra: oggi sei qui, domani là e i rapporti personali con eventuali fidanzate o compagne sono piuttosto estemporanei, come capita. Basti dire che ho comprato una casa a Napoli, la mia città, e ancora non sono riuscito ad abitarla. Per fortuna, ci pagano bene e questo bilancia il sacrificio».

La famiglia “larga” di Scarpetta (sofferta, diversa, salda) che non lo salvò dall’odio. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 24 settembre 2021. Questa settimana vi propongo una foto di famiglia, un’immagine d’epoca, quella della famiglia di Eduardo Scarpetta, il genio di Miseria e nobiltà. Tra i bambini, se ci fate caso, potreste riconoscere Eduardo, Peppino e Titina De Filippo, figli illegittimi che lo chiamarono zio per tutta la vita. Quella che vedete è una foto di famiglia: la famiglia Scarpetta. Eppure, i bambini ritratti non hanno il cognome del padre; questo perché erano figli illegittimi. Tra i bambini, se ci fate caso - ma solo se siete tra i loro cultori - potreste riconoscere Eduardo, Peppino e Titina De Filippo, figli illegittimi del genio Eduardo Scarpetta, che chiamarono zio per tutta la vita. Mario Martone ha il coraggio di investire tempo e impegno in storie che nessuno definirebbe di mercato: un film sul Risorgimento (Noi credevamo, 2010), uno su Giacomo Leopardi ( Il giovane favoloso, 2014), uno sulla comune di artisti a Capri alla vigilia della Prima Guerra Mondiale ( Capri Revolution, 2018) e adesso Scarpetta. Il mondo di piattaforme e algoritmi avrebbe certo da ridire: a chi interessano queste vicende morte e rimaste nelle antologie di scuola? Ammiro ogni volta il suo coraggio nello scegliere queste storie e infatti me le godo. Qui, il film è il racconto di un uomo, Eduardo Scarpetta, un genio che con l’incasso di una sola opera, Miseria e nobiltà, guadagnò quanto oggi ammonterebbe a circa 5 milioni di euro (con una sola opera!). Fece questa fortuna perché rese il teatro indispensabile: per ridere, riconoscersi, capire. Il film racconta anche un altro Scarpetta: quello che aveva relazioni con tutte le donne a cui voleva bene o di cui si invaghiva, e dalle quali ebbe molti figli. Vincenzo gli venne da sua moglie, Rosa De Filippo, a sua volta già madre di Domenico, frutto di una liaison con Vittorio Emanuele II. Ebbe una relazione con la sorellastra di sua moglie, Anna, da cui nacquero Eduardo, Pasquale e probabilmente il padre di Roberto Murolo (genio della musica napoletana), Ernesto. Dalla relazione con Luisa De Filippo, nipote di sua moglie, vennero Eduardo, Titina e Peppino. E ancora altri.

Il racconto di questa smodata passione erotica è anche una smodata voglia di famiglia e di bene, una famiglia che soffre anche, per il suo essere diversa, ma che in qualche modo riesce a trovare un equilibrio. Il film a tratti sembra essere da un lato un’accusa all’insopportabile famiglia monogamica, dall’altro una denuncia alla violenta condizione delle donne più povere, che non avevano altra possibilità se non legarsi a chi aveva il potere di toglierle dalla miseria. Si ha la sensazione che Scarpetta seducesse perché brillante, geniale, ma anche perché la ricchezza, forse, gli permetteva di comprare la miseria delle persone. Scarpetta emerge come una personalità dal talento incontenibile tanto pronta ad ascoltare il pubblico quanto sorda ai richiami dei potenti. Si racconta dell’odio per il suo successo dei colleghi Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio, Ferdinando Russo. L’odio emerse chiaro quando Gabriele D’Annunzio fece causa a Scarpettta contro la parodia di un suo spettacolo teatrale, La figlia di Iorio. Il Figlio di Iorio, così Scarpetta intitolò la parodia, prendeva per il culo tutto il tono dannunziano. D’Annunzio aveva prima autorizzato e poi, sotto la pressione politica, denunciato Scarpetta. Pare, come raccontato nel film, che allora l’unico alleato di Scarpetta sia stato Benedetto Croce, che argomentò che la parodia non è plagiare né infangare un’opera: al contrario, è riscriverla, celebrarla, capovolgerla. La sentenza di non luogo a procedere decretò il diritto di parodia, introducendo grazie al tribunale di Napoli una nuova forma di libertà. Questo film mostra abilmente che si è soli, sempre, anche con una numerosa e travagliata famiglia, anche aiutando e carezzando i propri colleghi. Il successo non è mai perdonato: rovescia la realtà secondo un’antica legge degli uomini, accusando la bravura di superbia e arroganza, il successo di ambizione, la seduzione di depravazione. Scarpetta non poteva che avere su di sé quest’odio, che è da sempre dell’uomo eccezionale. Alla fine, quello che Scarpetta aveva fatto a Pulcinella, rendendo la maschera nei teatri non più brillante e di successo, sarà reso a lui e al suo Felice Sciosciammocca, protagonista di diverse commedie esilaranti che però verranno rese celebri ovunque da Eduardo e Totò. Il cinema distrugge la potenza economica e politica del teatro, i giovani distruggono i vecchi. L’eterna legge spietata dell’arte, della storia, della politica, non risparmia nemmeno un genio, pieno di tracotanza e generosità, amore e indifferenza, egocentrismo, narcisismo, solidarietà, slancio: l’espressione della Napoli eterna.

Marco Giusti per Dagospia il 7 settembre 2021. Costruito sulle grandi canzoni napoletane di sempre, si inizia con “Indifferentemente”, ma si va avanti davvero con tutto, e l’effetto è che come se avessimo, come colonna sonora, venti pezzi dei Rolling Stones, ma anche su una serie di battute magistrali riprese da un testo sacro come “Miseria e nobiltà”, reso popolare dal Felice Sciocciammocca di Totò e sul ruolo fondamentale del bambino Peppiniello (“Vincenzo m’è padre a me!”), “Qui rido io”, terzo film italiano in concorso, ultima opera di Mario Martone, che lo ha scritto assieme a Ippolita di Majo, non è fortunatamente un biopic sulla vita complessa di Eduardo Scarpetta, padre mai riconosciuto dei tre fratelli De Filippo, quanto la ricostruzione precisa del mondo di Scarpetta e della sua famiglia “difficile” e della scena teatrale e culturale napoletana di inizio ’900. Un momento però, che vede Scarpetta passare da dominatore assoluto a teatro, dopo aver sconfitto con la maschera di Felice Scioccammocca quella del Pulcinella dei Petito, a comico antiquato che non vede la modernità del realismo napoletano portato sulle scene, la “Assunta Spina” di Salvatore Di Giacomo. “Popolare non vuol dire comico”, dicono i giovani contestatori del dominio scarpettiano, un elenco che da Libero Bovio a Ernesto Murolo a Federico Russo a Di Giacomo. E, sappiamo dalla storia, che proprio suo figlio Eduardo, assieme ai fratelli Titina e Peppino, dopo la sua morte, sapranno fondere a teatro la commedia scarpettiana con il realismo napoletano. Il film, però, si ferma prima, non mostrandoci il declino inevitabile di Scarpetta, arriva fino all’incredibile scena del processo intentato dalla Società degli Autori per plagio a Scarpetta, reo di aver costruito la sua farsa “Il figlio di Jorio” non come una parodia, ma come un vero e proprio furto del dramma di Gabriele D’Annunzio “La figlia di Jorio”.Martone, ovviamente, gioca in casa, può contare su una serie di attori magistrali, ovviamente Toni Servillo come Don Eduardo, Maria Nazionale come sua moglie Rosa, Cristiana Dell’Anna come la madre dei De Filippo, Luisa, nonché nipote di Rosa. Ma ci sono meravigliose apparizioni di Gianfelice Imparato come Gennaro Pantalena, secondo attore della compagnia, Gigio Morra e Nello Mascia come giudici, Benedetto Casillo come padre di Luisa, per non parlare della presenza di attori fedelissimi del cinema e del teatro martoniano, Iaia Forte, Lino Musella, Roberto Di Francesco, Chiara Baffi, Francesco Di Leva. L’unico non napoletano è il curioso D’Annunzio di Paolo Pierobon, che ne fa un simil Sgarbi un po’ cialtrone. Inutile dire che la ricostruzione delle commedie e della vita teatrale di inizio secolo è perfetta, inoltre Martone e di Majo hanno la bellissima trovata di costruire tutta la prima parte del film proprio sulla commistione fra teatro e famiglia, come se facessero parte della stessa situazione, al punto che Scarpetta-Sciocciammocca può giocare coi propri figli riconosciuti e non riconosciuti su più piani. Tutti hanno un ruolo preciso, meraviglia!, perfino il cuoco Salvatore, che non crede all’invenzione del frigorifero, “Salvato’ ’o munno cagna!”, che fa nascere una battuta tipica del repertorio di Tina Pica, “Non perde un colpo”, detta però da Scarpetta. Perfino Benedetto Casillo che si gioca la gag del “mellone di Cardariello” che mi ha fatto davvero ridere. Le cose cambiano quando, dovendo costruire una storia con degli sviluppi narrativi che mandino avanti il racconto, si punta tutto, forse troppo, sullo scontro con i poeti napoletani avversi a Scarpetta che difendono D’Annunzio. “Don Nunzio”, lo chiama Maria Nazionale, bravissima nel suo ruolo di donna forte e cattiva che vuole difendere solo i suoi figli ufficiali a discapito di quelli della nipote, una perfetta Cristiana D’Anna, e delle tante altre che Don Eduardo bazzicò e portò nella sua corte-famiglia. Insomma, mi sembra che la parte legata alla causa per plagio sia da una parte un po’ antica, chi se li ricorda più “La figlia di Jorio” e “Il figlio di Jorio”, e da un’altra sviluppi un tema, quella della cultura popolare che non vuol dire solamente teatro comico, trattata un po’ didatticamente, vedi la spiega del Benedetto Croce di Lino Musella. Per fortuna la grandiosa scena della famiglia “difficile”, come la chiamava nella sua autobiografia, qui ampliamente saccheggiata, Peppino, e quella altrettanto fenomenale del finale di fronte al giudice, che Don Eduardo legge come un grande palcoscenico teatrale, riportano il film al suo giusto valore. Non era facile mettere in piedi un film come questo, e devo dire che Martone era probabilmente l’unico a poterlo mettere in scena con rigore, passione, competenza e, soprattutto, conoscenza. Come è forse l’unico a poter far funzionare un numero così grande di attori napoletani di questo tipo dando a ognuno una sua specificità e coloritura. Ancora una volta, dopo “E’ stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino, Napoli vince. Che ci volete ffà…

 Natalia Aspesi per “il Venerdì di Repubblica” il 23 agosto 2021. IL NUOVO film di Mario Martone, uno dei cinque italiani in concorso alla 78ª Mostra del cinema di Venezia (e in sala dal 9 settembre) ha un titolo bizzarro: Qui rido io!. 

Posso chiedere chi ride, dove ride, perché ride?

 «Quella frase spicca in rilievo sulla facciata di una bella e vecchia villa turrita in stile neogotico sopra Napoli, nella zona tuttora privilegiata del Vomero, che allora era campagna, ci si andava a villeggiare. Eduardo Scarpetta se la fece costruire nel 1889, con i proventi di una sola commedia di strepitoso successo, Na Santarella, e così chiamò il suo castelletto dove organizzava feste lussuose con fuochi di artificio che illuminavano tutta la città. Quella frase era una specie di rivendicazione del suo immenso successo, come a dire, "io vi faccio ridere, per voi sono un servizio, un pagliaccio, un Felice Sciosciammocca, ma chi si diverte davvero adesso, qui, chi se la gode in questa esplosione di ricchezza, sono io!"».

Martone e sua moglie Ippolita Di Maio rispondono spesso insieme, come una voce sola, perché insieme il film l'hanno scritto, pure lei è napoletana e di massima cultura storica e letteraria, e a noi signore piace molto questa cosa che non capita sempre: che una coppia di vita sia anche coppia nel lavoro, in una composizione armoniosa e senza frastuono che evita la sovrapposizione delle voci e delle idee. Questa volta raccontano un personaggio indimenticabile della cultura popolare napoletana, Eduardo Scarpetta, autore e interprete di 120 commedie, attore di almeno 13 film ai tempi del muto, adorato da una città nonostante la sua vita non esemplare e sfacciatamente esibita. Era certo molto chiacchierato, con le sue donne, i nove figli, 3 legittimi e 6 no, riuniti in una specie di gineceo, provvedendo a tutti, amando tutti, legando tutti insieme. E facendo studiare maschi e femmine, cercando di avviarli a una carriera teatrale, quindi a un futuro, sin da bambini. Era un re, quella società della fame gli perdonava tutto, quando usciva in carrozza per i vicoli, la gente riempiva le strade e gli faceva regali, grata del buon umore che portava nelle loro vite difficili. Al suo imponente funerale, nel 1925, partecipò tutta la città, i negozi abbassarono le saracinesche, il carro funebre regale era tirato da otto cavalli e tra la folla che lo seguiva c'erano anche tanti attori celebri venuti da tutta Italia: il suo corpo fu imbalsamato e chiuso in una bara di cristallo come certi santi, perché la folla potesse piangerlo pubblicamente. Breve biografia sentimentale e familiare di Scarpetta. La popputa diciottenne Rosa De Filippo, di modeste origini, è incinta, ma come si fa a dire di no al re, a Vittorio Emanuele II, che non risparmia le belle ragazze povere? Però niente paura, Scarpetta sistema lo scandalo in cambio di un assegno di 25 mila lire che gli servirà per sistemare il teatro San Carlino: sposa Rosa, riconosce Domenico, poi arriva il loro primo e solo figlio, Vincenzo, infine affida alla sua signora la bimba Maria, riconoscendola, avuta dalla relazione con la maestra di musica Francesca Giannetti. Gli gira per casa la figlia del fratello di Rosa, la nipote, pure lei popputa e giovane, Luisa De Filippo: altra famigliola accasata nelle vicinanze del grandioso palazzo di via dei Mille, opera dell'architetto Salvietti, quello del teatro Bellini, dove vivono gli Scarpetta legali (ed è tuttora degli eredi); nascono Titina, Eduardo, Peppino, che chiamano zio quello che non sanno essere il padre, sono figli di N.N. col cognome della madre, De Filippo. La famiglia si era già allargata sempre in famiglia, con Anna De Filippo, sorellastra di Rosa dalla parte del padre, figli Ernesto (adottato dai Murolo), Eduardo (pseudonimo Passatelli), Pasquale De Filippo. Ci sono tutti nel film, e ovviamente Scarpetta è Toni Servillo, complice e rivale di Martone sin dai tempi del teatro d'avanguardia. Ci sono le migliori attrici del teatro napoletano e anche uno Scarpetta, Vincenzo, 28 anni, figlio di Mario Scarpetta, nipote di Eduardo Scarpetta, bisnipote di Vincenzo Scarpetta, trisnipote del capostipite Eduardo Scarpetta. «Il nodo che mi ha spinto a fare questo film» dice Martone «è proprio quello della paternità negata, che ha segnato molto la vita di Eduardo e Peppino De Filippo. Basta pensare a quanta sofferenza familiare Eduardo ha raccontato in Filumena Marturano e nel Sindaco del Rione Sanità da cui ho tratto il mio ultimo film, quanta rabbia e odio Peppino riversò nel suo scandaloso libro Una famiglia difficile, rendendo insanabili i rapporti col fratello. Appena nato Peppino fu messo a balia in una famiglia di contadini che amava come i suoi veri genitori, a 5 anni tornò a casa e cominciò a detestare quello zio troppo invadente. I tre De Filippo, già famosi, seguirono il funerale del padre, ma nessuna cronaca li nominò, perché tutti sapevano e tutti ignoravano. Eduardo mai parlò del padre e quando, molti anni dopo, Luigi Compagnone gli disse, siamo vecchi, ormai puoi dirlo, Scarpetta era un padre severo o cattivo? Eduardo rispose: "Era un grande attore"».

Come avete raccontato la vita di queste tre donne, costrette a condividere lo stesso uomo, la stessa vita, anche se con diversi privilegi, due sorellastre, una nipote, tutte con lo stesso cognome, De Filippo?

«Abbiamo cercato di capire questo tipo di rapporto stretto, di sorellanza ma anche di inevitabile rivalità, forse nato dalla comune estrema povertà: erano donne forti, alla fine solidali tra loro, soprattutto impossibilitate a decidere del loro destino, prigioniere di una cultura patriarcale allora impenetrabile. Però era il teatro a unirle, perché in famiglia, per tutti, non c'era separazione tra palcoscenico e vita».

Ci racconta il rapporto tra il vate D'Annunzio e il comico Scarpetta?

«A Scarpetta non bastavano la celebrità, la ricchezza, voleva anche la consacrazione artistica, l'ammirazione di Maksim Gor' kij non gli era sufficiente, il suo ego smisurato gli faceva sfidare gli intoccabili. Chiese quindi all'osannato D'Annunzio il permesso di parodiare quel dramma potente che è La figlia di Iorio: ci siamo ispirati alla autobiografia scarpettiana per ricostruire questo incontro in una notte di tempesta, nella casa di vacanza del Sommo Poeta a Marina di Pisa, che lo tratta con sufficienza e non gli dice né si né no. Ma Il figlio di Iorio in dialetto napoletano va in scena lo stesso il 3 dicembre 1904 al teatro Mercadante di Napoli. Nel film raccontiamo il disastro di quella sera, il pubblico che in piedi grida basta!!!, i tafferugli, lo spettacolo interrotto. Poi ci saranno le scene affollate in tribunale. Contro l'autore depone la nuova generazione di intellettuali napoletani, Ferdinando Russo, Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio e anche il giornalista Ernesto Murolo (figlio naturale di Scarpetta e Anna), che lo accusano di contraffazione.  Lo salverà Benedetto Croce, sostenendo che si tratta non di un plagio ma solo di una brutta parodia, e scrivere una brutta commedia non è reato. Scarpetta è assolto, ma il suo ego è distrutto e da allora comincia la sua fine». 

Ci divertiremo?

«Qui rido io! è un film rigorosamente antico, girato senza droni, senza steadycam, è drammatico e comico, leggero e dolente. Ci tengo molto a dire che le scene di teatro sono state girate a Roma, al Valle abbandonato, sperando che si riapra al più presto. La prima di Miseria e nobiltà di Scarpetta fu data, nel 1888, al Mercadante di Napoli, poi andò anche al Valle e nel 1954 diventò il capolavoro con Totò e una folgorante Sophia Loren ventenne. L'abbiamo capito dopo, Ippolita ed io: il film è anche un modo di ironizzare sulla libertà culturale di allora rispetto al conformismo di oggi - di cui per fortuna tanti ridono». 

Sabina Minardi per "L'Espresso" il 18 settembre 2021. Rinascimento napoletano è un'espressione che non piace a nessuno: «Napoli rimane una città complicatissima», puntualizzava l'attore Toni Servillo, a margine del Festival del cinema di Venezia, di cui è stato volto simbolo: «Nasce e muore in un ciclo di esperimento sociale continuo, che ne fa forse la vera metropoli italiana» (la Repubblica). Però così tanti napoletani - registi, interpreti, compositori - non si erano mai visti tutti insieme sul red carpet della città lagunare. Col risultato di proiettare sul grande schermo la città dalle mille identità, la Napoli "è mille culure", e i suoi protagonisti, in una dozzina di film. Tre quelli con Servillo: "Qui rido io" di un altro napoletano doc, Mario Martone, sulla vita del commediografo Eduardo Scarpetta; "È stata la mano di Dio", di Paolo Sorrentino, il ritorno alla Napoli anni Ottanta in cui il regista ha il suo appuntamento col destino, col volto di Diego Armando Maradona. E "Ariaferma" di Leonardo Di Costanzo, racconto carcerario sospeso tra responsabilità e compassione, con Silvio Orlando, che a sua volta a Venezia ha fatto il bis con "Il bambino nascosto" di Roberto Andò: storia di un professore di pianoforte alle prese con un ragazzino figlio di un camorrista, nel quartiere Forcella. Un bambino con tutta la vita davanti, e poche chances per conquistarla: come il protagonista del romanzo "La vita davanti a sé" di Roman Gairy, che l'attore sta per portare in tournée da ottobre, e che ha appena anticipato alla Cerimonia di assegnazione del Premio letterario Neri Pozza. E non ci sono solo i film in concorso a farsi portavoce di napoletanità, attrici come Serena Rossi, Luisa Ranieri, Teresa Saponangelo, Marina Confalone, o il premio Kinea al regista Antonio Capuano, per "Il buco in testa". Napoli riaffiora anche dove non te l'aspetti: nell'esordio alla regia di Maggie Gyllenhaal, per esempio, stregata dalle verità pericolose de "La figlia oscura" di Elena Ferrante. «Per farsi un'idea delle dimensioni: negli ultimi cinque anni sono stati girati a Napoli circa mille titoli, tra film, serie tv e spot: un numero monstre che ne fa il primo set d'Italia», ragiona lo scrittore Peppe Fiore, che distingue tra un prima e un dopo "Gomorra" sull'ultimo numero di The Passenger (Iperborea, in uscita il 22 settembre), non a caso dedicato al capoluogo campano. E l'elenco potrebbe continuare: con "Naviganti" di Donpasta, alle Giornate veneziane degli autori, "Coriandoli" di Maddalena Stornaiuolo, "Il turno" di Chiara Marotta e Loris Giuseppe Nese, "La Santa Piccola" di Silvia Brunelli, "Californie" di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, "Lovely boy" di Francesco Lettieri, "Il silenzio grande" di Alessandro Gassmann, con Massimiliano Gallo, girato a Posillipo e tratto dalla pièce di Maurizio de Giovanni. Che con i suoi libri tradotti in 43 Paesi, 2 milioni e mezzo di copie vendute in Italia, tre serie tv dalle sue opere , "I bastardi di Pizzofalcone", "Mina Settembre" e "Il Commissario Ricciardi", è il più indicato per riflettere sul boom partenopeo. Napoli, con le sue tante identità, soggetto d'opera: in tv, nei romanzi, al cinema.

È incantesimo napoletano?

«C'è un'evidente concentrazione di produzioni, e non posso che esserne felice: sono espressioni di questa città-mondo, che offre punti di vista forti, diversi, e tutti legittimi. Ma non credo che sia un fenomeno magico attuale. Da Totò ai De Filippo, da Giacomo Furia a Nino Taranto fino a De Crescenzo, straordinari talenti hanno contrassegnato la cinematografia. Siamo in perfetta continuità. Sono cambiate le modalità di esprimersi: grazie a stampa, festival, social».

Quanto conta che al centro ci sia Napoli?

«È decisivo: è la peculiarità napoletana a portare questi risultati. In un tempo nel quale la globalità finisce per esaltare il local, le peculiarità emergono con chiarezza. Questa città non assomiglia a nessun'altra città al mondo: è un luogo assolutamente unico». 

Sempre più spesso lei interviene sulla sua città, in termini di responsabilità.

«Una decina di anni fa mi capitò di essere intervistato dal Tg3 a Napoli, in prossimità di un palazzo in cui immaginavo che vivesse Ricciardi, il mio personaggio più famoso. Mentre la troupe mi stava microfonando, si avvicinò un gruppo di ragazzi e mi disse: "Dottò, potete dire per favore che qua non c'è lavoro?". Questa cosa mi colpì al punto che quando cominciai l'intervista dissi: "Primariamente vorrei dire che in questo quartiere non c'è lavoro". Ovviamente il giornalista mi guardò come se fossi pazzo, ma io avevo sentito un dovere di rappresentanza: dovevo essere il megafono di quei ragazzi. Tutti quelli che hanno un microfono in mano, a qualunque titolo, cantanti calciatori politici, hanno il dovere di esprimere le cose con chiarezza: per esempio che prima della pandemia a Napoli c'era il 34 per cento di dispersione scolastica, oggi i dati sono drammaticamente peggiorati. Ci rendiamo conto di cosa significhi questo, di un ragazzo della scuola dell'obbligo che non frequenta la scuola e nessuno se ne preoccupa? È manovalanza immediatamente reclutabile dalla delinquenza. Il crimine è figlio del disinteresse istituzionale. Questa è la terza città di uno dei sette Paesi più industrializzati del mondo. Ed è ancora più ignobile che in alcuni quartieri la polizia non entri senza permesso. Anche uno scrittore di narrativa popolare come me ha il dovere di mettere l'indice su ciò che non va». 

Cosa intende per scrittore popolare?

«Cultura significa coltivazione. E la coltivazione dà luogo ad alimenti che vanno bene per tutti. Non esiste una cultura per pochi, di nicchia, e sempre di più la lettura è strumento necessario per l'esercizio dell'immaginazione. Davanti a uno schermo non siamo attivi ma passivi. Quando leggiamo un libro lo costruiamo. Un libro è al cinquanta per cento dello scrittore, al cinquanta per cento del lettore. Sciascia diceva che mentre un film è un film, chiunque lo veda rimane uguale, un libro diventa un libro nel momento in cui viene letto. Se non lo leggi il libro non è mai esistito».

"Una sirena a settembre" è considerato il più napoletano dei suoi libri. Perché?

«Ho perso mia madre il 6 settembre dell'anno scorso. Mia madre era una di quelle donne meravigliose che esprimono il loro modo di amare attraverso due gesti ancestrali: fare da mangiare e raccontare storie. Con questo libro ho voluto immaginare una storia incentrata su una donna, più o meno misteriosa, all'origine della città di Napoli, la Sirena, che nutre raccontando storie e facendo da mangiare. È intimamente napoletano questo libro. Ed è ambientato nei Quartieri spagnoli, luogo simbolo del ventre materno». 

La sua formidabile capacità di raccontare viene da sua madre, dunque?

«Ho una capacità di narrare largamente inferiore alla sua. Lei è stata una maestra elementare. La sua attitudine a parlare, a spiegare, a essere immaginifica era fantastica: raccontando storie faceva le facce, muoveva le mani, imitava le voci, ascoltarla era un teatro unipersonale straordinario. Lei viveva nel discorso diretto. Ho dedicato a lei questa storia perché ho ingoiato i racconti che mi dava. Era cibo anche quello, napoletano».

Come arrivano a lei le storie che scrive?

«Prendo pezzi di realtà, frammenti, impressioni, una parola, una frase, una pagina di un libro, poi da lì tesso la mia ragnatela». 

È metodico nella scrittura?

«Sufficientemente. Quando l'idea si è formata compio ricerche estremamente rigorose. Appena sono pronto scrivo per 8-10 ore al giorno. Giusto con gli intervalli necessari a prendere fiato. Scrivo da un minimo di dieci a un massimo di venti cartelle al giorno. E chiudo il libro entro un mese. Dal primo capitolo all'ultimo, senza tornare indietro». 

Non torna indietro a rileggere ed eventualmente a modificare: è così sicuro da considerare la prima stesura definitiva?

«È un tributo alla verosimiglianza. Se incontri un personaggio biondo a pagina 3 non è che se dopo ti serve che sia bruno cambi: non puoi, è già successo. È il contrario della sicurezza. È totale delegazione alla storia». Sta dicendo che scrivere è trascrivere? «Io sono uno affacciato alla finestra che racconta a chi è dentro ciò che vede. Provo a interpretare, non posso cambiare».

La Sirena lega i fili delle storie. E sovrappone gli strati sociali della città.

«Napoli ha un'area metropolitana di 3 milioni e mezzo di persone, il che implica situazioni diversissime. Ha un centro storico angusto, il più esteso d'Europa ma pieno e fitto, perché per i napoletani allontanarsi dal mare è sempre stata una sconfitta, quindi le periferie sono frutto di una deportazione e ciò spiega il degrado di gente che non si è mai riconosciuta cittadina di quel luogo. Il centro della città prevede la coesistenza forzata di molti strati sociali: nello stesso condominio abitano persone estremamente diverse. Questo accade soltanto qui. La mescolanza, i confronti, i contrasti, generano storie. La convivenza è complicata, ma per un autore è l'avvio di storie di una bellezza senza uguali».

Cosa può salvare una città come Napoli?

«La bellezza. E Napoli ne ha fin troppa. Questa bellezza fatalmente vincerà, nel senso che, col decadere di tutte le vocazioni industriali che non abbiamo mai avuto, rimarrà l'utilizzo della bellezza, che è in sé un'industria. Del resto, un'area di 50 chilometri che ha al suo interno Capua, Ischia, Capri, Procida, Positano, Amalfi, la reggia di Caserta, Ercolano e Pompei, i Campi Flegrei solo citando i dintorni, e poi una città antica quanto Roma, con dentro tutto e il contrario di tutto, è davvero un posto irrinunciabile».

Ma se la bellezza non è curata? Non crede che questa attrattività venga meno?

«È sempre più curata. Sono sempre di più i giovani che lavorano sul territorio, nel turismo, nell'enogastronomia. Credo che le cose stiano cambiando. Smartworking e e-commerce rappresenteranno opportunità nuove. Questa è la città di Elena Ferrante, Roberto Saviano, Valeria Parrella, Lorenzo Marone, Diego De Silva, Domenico Starnone, Patrizia Rinaldi, e potrei continuare con altri autori straordinari che vivono qui, e qui lavorano e sono tradotti all'estero e sono tra gli scrittori più venduti d'Italia...». 

Eppure?

«Eppure non c'è un'industria culturale che li promuova. E potrei dire la stessa cosa per la musica: manca la distribuzione. Siamo privi di una grande imprenditoria culturale». 

Ma lei ha ancora fiducia nella politica?

«Ho una progressiva maggiore fiducia nella politica. Credo che oggi sia sempre più difficile fare brogli, rubare. Oggi il controllo è maggiore. Siamo alle porte dell'arrivo di un'enorme quantità di denaro. Io ricordo cosa successe dopo il terremoto, con i soldi in larga parte confluiti nelle casse della camorra. Oggi la politica ha maggiore trasparenza». 

Napoli è alla vigilia delle elezioni comunali. Lei si è apertamente schierato.

«Ho dato il mio appoggio a Gaetano Manfredi, ex rettore dell'Università Federico II. Ma ci tengo a dire che tutti i candidati che si presentano a Napoli sono degni di fiducia, li conosco direttamente e nessuno di loro ha zone d'ombra. Però penso che Manfredi abbia più di altri una connessione istituzionale che in questo momento serve alla città».

I poveri e i nobili, i devoti a San Gennaro e gli scettici, i luoghi di una bellezza commovente e i più degradati. Ogni cosa e il suo opposto convivono a Napoli. C'è una peculiarità che accomuna tutti?

«Eduardo De Filippo diceva che in una giornata si deve piangere almeno una volta e ridere almeno una volta. Penso che questa sia una modalità tipica del nostro modo di raccontare: non troverai mai un libro così nero da non avere dentro un sorriso, né uno così comico da non avere dentro una lacrima. Perché entrambe le cose fanno parte della nostra vita: se non ho pianto o riso almeno una volta, che ho vissuto a fare la mia giornata?».

Antonio E. Piedimonte per “la Stampa”. Bestemmie sui muri e sui cartelloni elettorali del Comune, bufera a Napoli. «Non bastavano i murales celebrativi della camorra, mo' pure le "maleparole" artistiche?»: sin dai primi commenti, ieri, si è capito che la provocazione non sarebbe stata apprezzata. L'idea, a quanto pare, è venuta ad alcuni artisti che in questo avrebbero voluto fare pubblicità all'esposizione Ceci n'est pas un blasphème, realizzata nell'ambito del «Festival delle arti per la libertà d'espressione contro la censura religiosa» organizzato al Pan (Palazzo delle Arti di Napoli).  La direttrice artistica, Emanuela Marmo, sembra prendere le distanze dal clamoroso exploit stradale: «Alcuni dei subvertiser in mostra stanno lasciando tracce della loro presenza. Si tratta di una loro spontanea e autonoma iniziativa di cui so poco, se non quello che amici e conoscenti mi riferiscono». Ugualmente spiazzato l'assessore alla Cultura del Comune (ente che ha patrocinato ed è co-promotore della manifestazione) Annamaria Palmieri: «Saranno rimossi tutti. Anche perché il Comune non ha ricevuto alcuna comunicazione relativa a questa tipologia di affissioni, che quindi risultano abusive e come tali sono soggette alla immediata rimozione». I manifesti taroccati riproducono immagini di Topolino (e altri personaggi Disney), ma anche celebri pubblicità (come quella del Crodino, inserita in un gioco di parole), oppure fanno il verso ai messaggi elettorali (in primis quelli di Forza Italia) ma sempre con imprecazioni e altre frasi palesemente blasfeme. Un'operazione che forse avrebbe voluto creare scandalo ma, a quanto pare, ha solo ingenerato fastidio e indignazione tra i passanti, che di fronte alle bestemmie a caratteri cubitali non hanno reagito bene: «Forse la mostra era poco visitata e volevano finire sui giornali, ma è tutto molto squallido», dicono due ragazze. Tra i primi a chiedere la rimozione un consigliere comunale di sinistra, Federico Arienzo, che ha raccontato il suo disagio come padre di una bambina che si è trovata le scritte in bella evidenza proprio di fianco alla scuola.

Il domestico: "Non l'ho buttato giù", lunedì l'udienza. Gli sciacalli di Samuele, video al piccolo agonizzante dopo la caduta. La madre: “Basta foto del mio bimbo”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 19 Settembre 2021. Persone in strada che riprendevano in video il corpo agonizzante del piccolo Samuele negli istanti immediatamente successivi al volo dal terzo piano dell’abitazione in cui viveva con i genitori in via Foria a Napoli. In attesa dell’arrivo dei soccorsi per la disperata, quanto inutile, corsa all’ospedale dei Pellegrini, alcuni curiosi venerdì 17 settembre hanno ben pensato di immortalare quei drammatici istanti in un filmato. Una circostanza emersa nel corso delle indagini sulla morte del bimbo di 4 anni. Sono in corso verifiche da parte della Squadra Mobile di Napoli, guidata dal dirigente Alfredo Fabbrocini, per capire se quelle raccapriccianti immagini sono finite sui social. Intanto nelle scorse ore Carmela, madre del piccolo Samuele, ha lanciato un appello agli organi di informazione: “Per piacere non pubblicate più fotografie di mio figlio, né video” ha supplicato la donna, incinta all’ottavo mese, le cui condizioni di salute sono in questi giorni costantemente monitorate dai medici che potrebbero anche farla partorire a breve per evitare ulteriori complicazioni. Carmela, così come il marito Giuseppe, hanno chiesto “pietà” per il loro figlioletto tragicamente scomparso. Continuare a vedere le foto sui social, in televisione, sui giornali e in numerosi siti di informazione rappresenta un dolore troppo grande per la giovane coppia. Al momento è indagato per omicidio Mariano Cannio, 38 anni, che da diversi anni lavorava come domestico per la famiglia del piccolo Samuele. L’uomo ha riferito agli investigatori che teneva in braccio il bimbo e non aveva intenzione di lanciarlo nel vuoto. Sarebbe stato un incidente: questa la sua versione. Al momento Cannio è detenuto in isolamento presso il carcere di Poggioreale in attesa dell’udienza di convalida del fermo in programma nella giornata di lunedì 20 settembre. L’uomo, accusato di omicidio dalla procura di Napoli, soffre – come egli stesso ha ammesso – di problemi psichici. Era considerato una persona fidata da parte dei genitori del piccolo Samuele. Con loro, così come con altri parenti del piccolo, lavorava da anni. Ad oggi la dinamica della tragedia è ancora al vaglio degli investigatori che al momento – stando a quanto riferisce all’Ansa Carmen Moscarella, legale d’ufficio del 38enne – non considerano oggetto di contestazione il video in cui il piccolo Samuele, nei mesi scorsi, diceva al domestico “ti butto giù”, accompagnando la frase con un insulto in dialetto napoletano. Intanto prosegue il pellegrinaggio sul luogo della tragedia dove sono stati lasciati fiori, lumini, magliette del Napoli e peluche per ricordare il bimbo di 4 anni. Sul posto i familiari hanno lasciato un cartello che chiede a “curiosi e giornalisti di non fare sciacallaggio”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

L'indagine sulla tragedia. “Non volevo buttare giù Samuele”, il domestico accusato di omicidio spiega cosa è successo. Carmine Di Niro su Il Riformista il 18 Settembre 2021. Ha negato di aver volutamente scaraventato giù dal balcone al terzo piano il piccolo Samuele, ammettendo però di esser stato lì col bambino, tenendolo in braccio. Sono le prime parziali ammissioni di Mariano Cannio, 38 anni, domestico fermato dalla polizia di Napoli perché  ritenuto gravemente indiziato dell’omicidio del piccolo Samuele, il bambino morto dopo essere precipitato da una altezza di 15 metri a Napoli. Durante l’interrogatorio terminato a tarda notte Cannio, difeso da un avvocato d’ufficio, la cassazionista Carmen Moscarella, ha anche confermato di soffrire di disturbi psichici. Il collaboratore domestico della famiglia non ha saputo però spiegare con esattezza come il bambino sia caduto dal balcone. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, con le indagini condotte dagli agenti del commissariato di Polizia San Carlo-Arena e dalla Squadra Mobile della Questura di Napoli, Cannio avrebbe approfittato di un momento di distrazione della madre, all’ottavo mese di gravidanza, per prendere Samuele e lanciarlo dal balcone al terzo piano della palazzina all’angolo tra tra via Foria e via Giuseppe Piazzi. Una svolta clamorosa quella arrivata questa mattina: nessuno nella giornata di ieri, quando poco prima delle 13 è avvenuta la tragedia, aveva delineato la possibilità di un omicidio dietro la morte del piccolo Samuele. Il bambino, 4 anni compiuti ad aprile, è morto dopo il trasporto d’urgenza all’ospedale Pellegrini. Inutile la corsa dell’ambulanza, scortata da agenti motociclisti della polizia: troppo gravi infatti le ferite riportate precipitando da 15 metri di altezza. Cannio, incensurato e seguito da un centro di igiene mentale, è un collaboratore domestico molto conosciuto nella zona dove peraltro abita, riferisce l’Ansa, e aveva accesso alle abitazioni di diverse famiglie del quartiere che si fidavano di lui.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Fulvio Bufi per "corriere.it" il 20 settembre 2021. «L’ho preso in braccio e sono uscito fuori al balcone. Con il bambino tra le braccia mi sono sporto e ho lasciato cadere il piccolo. Ho immediatamente udito delle urla provenire dal basso e mi sono spaventato consapevole di essere la causa di quello che stava accadendo. Sono fuggito e sono andato a mangiare una pizza». Quando Mariano Cannio ha confessato con queste parole di essere il responsabile della morte del piccolo Samuele (il bambino di quasi quattro anni precipitato venerdì dal terzo piano del palazzo dove abitava al Rione Sanità), i poliziotti della squadra mobile di Napoli, che certo di storie terribili ne hanno viste tante, sono rimasti attoniti. Un omicidio senza movente e con l’assassino che poi fugge fino alla pizzeria più vicina, è difficile da accettare e pure da credere. E infatti il giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Napoli Valentina Gallo, che ieri ha convalidato il fermo e ha emesso nei confronti di Cannio una ordinanza di custodia cautelare per omicidio volontario, non crede che l’indagato abbia detto tutta la verità. «Il movente del gesto, di estrema gravità, non può dirsi, allo stato, pienamente accertato», scrive nel provvedimento. Davanti a lei Cannio si è avvalso della facoltà di non rispondere, ma il magistrato ha potuto basarsi su quanto l’uomo ha dichiarato venerdì sera alla polizia, e su quello che ha detto poco dopo, interrogato dal pubblico ministero e con l’assistenza di un difensore d’ufficio. La ricostruzione è quasi identica, ma spuntano due elementi in più: un capogiro e uno spuntino pomeridiano. «Ho preso Samuele in braccio perché con una sedia è salito vicino alla cucina», fa mettere a verbale Mariano Cannio. E aggiunge: «Dopo poco sono uscito fuori al balcone, avendo sempre il piccolo in braccio, e in prossimità della ringhiera ho avuto un capogiro. Mi sono affacciato dal balcone mentre avevo il bambino in braccio perché udivo delle voci provenire da sotto. A questo punto lasciavo cadere il bambino di sotto. L’ho fatto perché in quel momento ho avuto un capogiro. Dopo non mi sono affacciato perché ho avuto paura. Sono scappato e mi sono diretto nel vicino Rione Sanità dove ho mangiato una pizza. Avevo infatti una fame nervosa scaturita dalla paura». Dopo la pizza «sono tornato a casa e mi sono messo sul letto a riposare. Dopo un poco sono sceso di nuovo e ho raggiunto un bar dove ho bevuto un cappuccino e mangiato un cornetto». All’udienza di convalida l’avvocato che assiste Cannio ha depositato una serie di certificati medici che attestano le cure psichiatriche ricevute negli ultimi anni dal suo cliente presso un centro pubblico di igiene mentale. Sulla base anche di questa documentazione, oltre che dell’atteggiamento di Cannio e di una sua dichiarazione in cui sostiene di essere affetto da schizofrenia, il gip ha disposto che sia recluso «nella apposita sezione speciale per infermi e minorati psichici» del carcere di Poggioreale.

Fabio Bufi per il “Corriere della Sera” il 21 settembre 2021. La casa dove viveva Samuele con la sua famiglia è in via Piazzi, una strada del Rione Sanità. A lungo Mariano Cannio ha abitato a pochi palazzi di distanza: il bimbo e i suoi genitori al civico 3, l'uomo al 24. Poi ha dovuto lasciare per questioni economiche e se n'è tornato a Forcella, dove è cresciuto con i genitori, che adesso non ci sono più. Ma alla Sanità tutti lo conoscono e il clima che si respira in questa zona da sabato è profondamente diverso da quello che si respirava venerdì dopo la tragedia. Nelle prime ore sembrava un dolorosissimo incidente, ma da quando si è capito che la morte di Samuele non è stata una tragica fatalità si percepisce una voglia di giustizia sommaria. Nessuno va a dirlo ai giornalisti, che in più occasioni sono stati allontanati non solo a maleparole ma anche a spintoni se non peggio. Ma se si ha qualche amico che vive nella zona non è difficile sapere che il rimorso di più d'uno è che la responsabilità di Cannio sia emersa quando già la polizia lo aveva preso in consegna. «E non ci fa affatto piacere che il giudice oggi lo abbia tenuto in galera. Sarebbe stato meglio se fosse uscito», dice qualcuno che non appartiene alla famiglia del bambino. Ma non sono parole che esprimono posizioni innocentiste, tutt'altro. «Sarebbe stato meglio se fosse uscito perché così qualcuno sarebbe potuto andare a cercarlo. Tanto dove poteva nascondersi? Lo conosciamo tutti troppo bene, sappiamo dove abitava qui e dove abitava a Forcella. Che ci voleva a rintracciarlo?». C'è un bruttissimo clima, che rischia di avvolgere nella tensione anche il giorno del funerale, che per ora è ancora da stabilire in attesa dell'autopsia. Fortuna che alla Sanità, come a Forcella, ci sono parroci di grande capacità e personalità. Sicuramente capaci di parlare d'amore e non di odio anche in questa tragedia. 

Grazia Longo per "la Stampa" il 20 settembre 2021. Stamattina il giudice per le indagini preliminari di Napoli deciderà se Mariano Cannio, 38 anni - arrestato con l'accusa di aver gettato il piccolo Samuele Gargiulo, 4 anni, dal balcone al terzo piano della sua casa dove lavorava come domestico a ore - dovrà rimanere in carcere. Intanto il tribunale dei social media lo ha già condannato e si moltiplicano i commenti su quello che potrebbe accadergli se venisse liberato. Le indagini della squadra mobile, coordinate dalla pm Barbara Apreia, proseguono intanto per far luce su quello che è successo venerdì scorso sul balcone che affaccia su via Foria, angolo via Piazzi nel quartiere popolare San Carlo all'Arena. «Ho preso in braccio Samuele poi non so com' è che è caduto dal balcone» si è giustificato l'uomo che soffre di problemi psichici. Aveva appena terminato una cura farmacologica e ne avrebbe dovuto iniziare a breve una nuova. Era seguito dal Centro di igiene mentale di Napoli e la polizia sta cercando riscontri delle sue condizioni nelle cartelle sanitarie. Nel frattempo i primi accertamenti degli investigatori sul video in cui Samuele dice «Io ti butto là sotto perché sei una lota (una schifezza in dialetto napoletano)» escludono collegamenti con Mariano Cannio. E a proposito delle immagini del bimbo, la sua mamma Carmen Razzano, 22 anni, incinta di 8 mesi, ha lanciato un appello affinché non vengano più pubblicati suoi video o foto. Un invito condiviso dagli amici e dai parenti dei giovani genitori che hanno sistemato un cartello vicino all'altarino a cielo aperto per ricordare Samuele sul marciapiede di via Foria: «Nel rispetto dell'immenso dolore della famiglia preghiamo giornalisti e curiosi di non fare pellegrinaggio e sciacallaggio mediatico». Ieri mattina, nel corso dell'omelia per la celebrazione di San Gennaro l'arcivescovo di Napoli, monsignor Domenico Battaglia, ha riferito di essersi recato sabato sera a casa di Samuele: «Ho davanti agli occhi il dolore dei suoi genitori, sentivo il bisogno di abbracciare Carmen e Giuseppe».

"Non ho detto ai genitori che ero in cura". Il piccolo Samuele lanciato nel vuoto, il domestico: “Ho avuto un capogiro, poi sono andato a mangiare una pizza”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 20 Settembre 2021. E’ uscito fuori al balcone con in braccio il piccolo Samuele Gargiulo, “ho avuto avuto un capogiro” e “ho lasciato cadere il bambino”. Dopo la tragedia “ho immediatamente udito delle urla provenire dal basso e mi sono spaventato consapevole di essere la causa di quello che stava accadendo…”. Quindi “sono fuggito a casa e sono andato a mangiare una pizza nella Sanità (quartiere di Napoli, ndr)”. Sono le raccapriccianti parole rilasciate agli investigatori da Mariano Cannio, il 38enne accusato dell’omicidio di Samuele, il bimbo di 4 anni precipitato dal terzo piano dell’abitazione in via Giuseppe Piazzi (all’angolo con la centrale via Foria) lo scorso venerdì 17 settembre. Nelle scorse ore il gip Valentina Gallo ha convalidato il fermo emesso sabato dalla Procura di Napoli (le indagini sono coordinate dai pm Barbara Aprea e Vincenza Marra) all’esito degli accertamenti portati avanti dalla Squadra Mobile guidata dal dirigente Alfredo Fabbrocini. L’accusa è di omicidio volontario. La difesa di Cannio, che lavorava come domestico per la famiglia di Samuele e per tante altre famiglie della zona, ha presentato una documentazione nel quale si evince che l’indagato soffre di disturbi psichici. L’uomo si trova recluso nel carcere di Poggioreale. Secondo il Gip si tratta di una persona “di spiccata pericolosità, nonostante l’assenza di precedenti”.  A tale conclusione, si legge nell’ordinanza, “si giunge in considerazione delle modalità del fatto commesso che deve giudicarsi estremamente grave e allarmante, così come la personalità del Cannio ricostruita in base agli elementi a disposizione, ovvero tenuto conto della gravità del gesto compiuto ma anche del comportamento del predetto, immediatamente dopo i fatti, circostanze da cui deve desumersi che si tratti senz’altro di una persona di spiccata pericolosità, nonostante l’assenza di precedenti”.

Pizza e caffè dopo il volo del bimbo. Nell’ordinanza vengono riportate le sommarie informazione fatte nella tarda serata di venerdì 17 settembre e successivamente confermate al magistrato durante il primo interrogatorio. Oggi, durante l’udienza di convalida, Cannio, assistito dall’avvocato Maria Assunta Zotti, si è avvalso della facoltà di non rispondere. “…Fuori al balcone, avendo sempre il piccolo in braccio, e appena uscito in prossimità della ringhiera, ho avuto un capogiro. Mi sono affacciato dal balcone mentre avevo il bambino in braccio perché udivo delle voci provenire da sotto a questo punto lasciavo cadere il bambino di sotto”. Poi il ritorno a casa, la pizza nel rione Sanità, il successivo ritorno a casa dove “mi sono steso sul letto e ho iniziato a pensare a quello che era accaduto, dopo sono sceso e sono andato a un bar in via Duomo ed ho preso un cappuccino e un cornetto, poi sono rientrato a casa dove mi avete trovato”. Circostanza quest’ultima che non corrisponde a quanto effettivamente successo. Cannio infatti è stato trovato dagli agenti della Squadra Mobile in un’altra abitazione, episodio che ha spinto il Gip a ravvisare il pericolo di fuga.

“Sono in cura ma non ho detto niente”. “Attualmente sono in cura al centro di igiene mentale in via Santa Maria Antesecula (Sanità), e vengo seguito da un dottore che mi ha riferito che sono affetto da schizofrenia”, ha poi aggiunto Cannio. “Non ho detto alla famiglia Gargiulo che ero in cura presso il centro di igiene mentale tantomeno che soffrivo di schizofrenia”. Quando è avvenuta la tragedia, Carmela, la mamma del piccolo Samuele, era nel bagno di casa perché colta da un malore dovuto all’avanzato stato di gravidanza (è all’ottavo mese). La donna dunque non si sarebbe accorta subito di quello che è accaduto. Nelle scorse ore aveva lanciato un appello agli organi di informazione: “Per piacere non pubblicate più fotografie di mio figlio, né video” ha supplicato la donna, incinta all’ottavo mese, le cui condizioni di salute sono in questi giorni costantemente monitorate dai medici che potrebbero anche farla partorire a breve per evitare ulteriori complicazioni. Carmela, così come il marito Giuseppe, hanno chiesto “pietà” per il loro figlioletto tragicamente scomparso.

Il Gip: “Malore poco credibile, giallo su movente”. Per il Gip tuttavia non è chiaro il movente dell’omicidio. Se da un lato, si legge nell’ordinanza di convalida del fermo, non si prospetta “nessun dubbio” su chi ha commesso l’omicidio, il movente del gesto “non può dirsi allo stato pienamente accertato”. Non appare credibile, scrive il gip, la circostanza del capogiro: “Non si reputa verosimile che l’indagato avesse avvertito un malore di tale intensità della durata circoscritta all’istante in cui lasciava la presa del bimbo che aveva in braccio, facendolo precipitare nel vuoto ed essendosi dimostrato, invece, totalmente cosciente, nei momenti immediatamente precedenti e in quelli successivi al gesto, momenti che l’indagato ha descritto, infatti, con grande precisione”. Secondo il gip “la ricostruzione complessiva della vicenda depone nel senso della volontarietà dell’azione posta in essere”. 

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Perizia psichiatrica per il domestico che ha tenuto nascosto tutto. I funerali di Samuele, il bimbo lasciato cadere nel vuoto mentre la madre incinta era in bagno per un malore. Redazione su Il Riformista il 21 Settembre 2021. Sono in programma mercoledì 22 settembre i funerali del piccolo Samuele, il bimbo di 4 anni lasciato cadere nel vuoto a Napoli il 17 settembre scorso, dal terzo piano della casa in cui viveva, dal domestico 38enne affetto da schizofrenia. L’ultimo saluto è previsto alle ore 12 nella chiesa di Santa Maria degli Angeli alle Croci in via della Veterinaria. “Vietato fare foto e video”, recita un cartello affisso davanti alla chiesa così come quello posizionato sul luogo della tragedia avvenuta all’esterno di una palazzina che si trova all’angolo tra via Piazzi e via Foria, dove lungo il marciapiedi sono stati posti fasci di fiori, peluche e magliette del Napoli. Nelle scorse ore è stato convalidato il fermo, con l’accusa di omicidio volontario, per Mariano Cannio, il 38enne che da poco tempo lavorava come domestico nell’abitazione dove Samuele viveva con il papà e la madre, incinta all’ottavo mese. L’uomo ha ammesso le proprie responsabilità, confermando di aver lasciato cadere il bimbo dal balcone perché colto da un capogiro mentre lo teneva in braccio con una mano. La tragedia è avvenuta quando la madre, Carmela, era in bagno in seguito a un malore a causa dello stato avanzato della gravidanza. Nei prossimi giorni verrà effettuata una perizia medica tesa a valutare le condizioni di salute e lo stato mentale di Cannio anche al momento dell’omicidio per provare ad appurare se fosse capace di intendere e di volere. L’uomo, in cura presso un centro di igiene mentale nel Rione Sanità, è affetto da disturbi psichici. Particolare che ha tenuto nascosto ai genitori di Samuele. Cannio era considerato una persona fidata perché faceva pulizie in diverse abitazioni della zona, in alcune delle quali abitano i parenti del povero piccolo. Subito dopo il volo nel vuoto di Samuele, avvenuto poco prima delle 12.30, il 38enne ha lasciato l’abitazione perché scosso e turbato. E’ sceso in strada ed è andato a mangiare una pizza nel Rione Sanità (“avevo una fame nervosa perché” ha raccontato agli investigatori per poi aggiunge “mi sentivo in colpa per quello che era accaduto essendo consapevole di esserne la causa”). Poi è tornato a casa, si è riposato qualche instante sul letto, infine è nuovamente uscito nel pomeriggio per andare a mangiare un cornetto e bere un cappuccino in un bar di via Duomo. Successivamente è rincasato e nelle ore successive è stato raggiunto dai poliziotti della Squadra Mobile indirizzati dalle testimonianze dei genitori e della zia materna di Samuele. In tutto questo lasso di tempo, Cannio non si sarebbe preoccupato di verificare le condizioni del bambino, precipitato per oltre 15 metri. Intanto nella mattinata di martedì 21 settembre al Secondo Policlinico si è svolta l’autopsia sul corpo di Samuele e la relazione sarà pronta tra sessanta giorni. Il piccolo ha riportato gravi ferite alla testa ed è deceduto poco dopo l’arrivo all’ospedale dei Pellegrini. “Voglio rappresentare a tutti gli operatori della cronaca la necessità di comprendere il dolore che ha colpito la giovane famiglia – dice l’avvocato Domenico De Rosa, che assiste la famiglia Gargiulo – i genitori confidano nell’accertamento della verità da parte della Procura e non intendono contribuire alla marea di notizie che può solo inquinare l’opera di polizia e magistrato e solo acuire lo strazio del loro animo”.

"Aveva gli occhi di fuori". I testimoni inchiodano il killer di Samuele. Angela Leucci il 25 Settembre 2021 su Il Giornale. Alcuni testimoni hanno raccontato della morte di Samuele Gargiulo e di Mariano Cannio immediatamente dopo la vicenda luttuosa che ha sconvolto una famiglia. La morte di Samuele Gargiulo solleva ancora tantissimi interrogativi. Uno su tutti: c’era un movente dietro al gesto di Mariano Cannio, che ha confessato di aver lasciato cadere il bambino di 4 anni dal terzo piano di un palazzo in via Foria a Napoli lo scorso 17 settembre? A Quarto grado sono state ascoltate alcuni testimonianze: un uomo riferisce della caduta di Samuele da 15 metri, mentre alti due vicini di casa, nel quartiere di San Gregorio Armeno, dove pare l’uomo vivesse abusivamente, raccontano il suo cambiamento dopo il gesto. “Io non mi ricordo l’orario, stavamo fuori, come tutti i giorni. E abbiamo visto questo bambino che cadeva. L’abbiamo proprio visto, è andato giù. Però lui (Mariano Cannio, ndr) stava fuori al balcone”, dice un uomo in via Fora. Cannio, che sbarcava il lunario grazie a piccoli lavori di pulizia nelle case, pare fosse in cura in un centro di igiene mentale per un episodio giovanile di schizofrenia. I vicini ne parlano come di un uomo tranquillo, ma poi quel giorno c’è stato qualcosa che è cambiato. “La notte all’improvviso urlava - ha spiegato una vicina che non si aspettava l’epilogo dell’arresto con l’accusa di omicidio - Tu pensa che quando sono venuti i poliziotti, io credevo che era uno sfratto esecutivo”. Sembra che Cannio non avesse amici, che seguisse sempre una stessa routine: lavoro e casa, casa e lavoro. “Una persona che anch’io mi fiderei a portare a casa, per farlo stare un po’ con me in compagnia, perché dal mio punto di vista è tranquillissimo - ha commentato un vicino, che però ha raccontato quello che ha visto il 17 settembre dopo la morte di Samuele - Tredici e trenta, tredici e quaranta, questo l’orario. Salgo il vicolo: ‘Ciao Maria’!’. Lui abbassò la testa a terra e invece tutte le mattine mi salutava. Abbassò la testa a terra, stava rosso, con gli occhi di fuori e la faccia tutta sudata. Lui ha calcolato la gravità della cosa che ha fatto e automaticamente è sceso, è scappato. È andato a mangiare una pizza per farsi un alibi”. Cannio aiutava nella casa dei genitori di Samuele come aiutante in piccoli lavori di pulizia della casa. Non un vero e proprio governante di famiglia a quanto pare, anche se, quel giorno, ha trascorso del tempo con il bimbo di 4 anni, poiché la madre, Carmela Gargiulo, essendo incinta, era dovuta andare a distendersi. È a quel punto che restano gli interrogativi, dato che Cannio ha raccontato due versioni dei fatti e qualcuno solleva dubbi su un possibile movente o la casualità che potrebbe aver mosso l’uomo al gesto, interrogativi e dubbi che starà agli inquirenti sciogliere.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Giustizialisti da tastiera scatenati. La morte di Samuele, la schizofrenia tenuta nascosta da Cannio e la bulimia informativa. Viviana Lanza su Il Riformista il 21 Settembre 2021. L’interrogatorio di garanzia di Mariano Cannio, il domestico della famiglia Gargiulo accusato di aver preso in braccio il piccolo Samuele e di averlo lasciato cadere giù dal balcone, ha aggiunto a questa tragedia particolari che sicuramente attireranno clamore mediatico, bulimia informativa, spettacolarizzazione e condivisioni social. Cannio, per il quale il gip di Napoli ha disposto ieri la convalida del fermo, ha ammesso di aver preso Samuele in braccio e di averlo lasciato cadere nel vuoto, dal terzo piano. Quel venerdì mattina, come altre mattine, stava facendo le pulizie in casa Gargiulo. Il piccolo Samuele gli aveva chiesto aiuto per raggiungere il pensile della cucina dove c’erano le merendine e Cannio lo aveva preso in braccio. Samuele gli aveva raccontato che sarebbe andato a giocare a calcio nel pomeriggio e lui, il domestico, gli aveva detto di fare tanti goal. Poi, sempre tenendo il piccolo tra le braccia, si era diretto verso il balcone. «Perché avevo udito delle voci provenire dalla strada», ha raccontato. A quel punto si è sporto e ha lasciato cadere il bambino. «Era sveglio, non ha urlato», ha aggiunto. Perché? «Ho avuto un capogiro», ha ammesso Cannio come a dare un movente. Ma per gip e pm non basta ad alleggerire la situazione. «Racconta con precisione le fasi precedenti e successive la tragica morte di Samuele», sostengono gli inquirenti. E proprio il racconto di quello che Cannio ha detto di aver fatto dopo il volo nel vuoto di Samuele aggiunge particolari che si prestano ad alimentare dibattiti talk show sulla banalità del male e a moltiplicare le condivisioni e l’indignazione social. Dopo il tonfo, «ho udito delle urla provenire dal basso, mi sono spaventato e sono fuggito dalla casa – ha ammesso l’indagato – Sono andato a mangiare una pizza nella Sanità, avevo una fame nervosa. Poi ho fatto ritorno nella mia abitazione, mi sono steso sul letto e ho iniziato a pensare a quello che era accaduto. Sono sceso e sono andato in un bar di via Duomo a prendere un cappuccino e un cornetto, poi sono rientrato a casa dove la polizia mi ha trovato». Ecco la verità di Mariano Cannio, tragica e assurda al tempo stesso. Una storia che non dovrebbe ispirare solo clamore e sciacallaggio mediatici, ma anche più serie riflessioni. Da parte di tutti. E a partire, forse, da come viene gestita la delicata questione legata al trattamento delle persone con problemi di salute mentale sia dentro che fuori al carcere. Mariano Cannio, 38 anni, da ieri è in cella. «Essendo emerso dagli atti a disposizione il fumus di una infermità psichica, deve disporsi l’assegnazione del detenuto all’apposita sezione speciale dell’istituto per infermi e minorati psichici», ha deciso il gip escludendo per l’indagato qualunque altra misura «alla luce dell’estrema gravità del fatto commesso». «La custodia in carcere si ritiene, inoltre, proporzionata alla pena che potrebbe essere irrogata all’esito del giudizio» ha motivato il gip Valentina Gallo, convalidando il fermo dell’indagato. Quanto alle patologie psichiatriche dell’uomo evidenziate dalla difesa (avvocato Mariassunta Zotti), il giudice ha annunciato una perizia psichiatrica nel prossimo futuro ma non ha ravvisato al momento elementi per valutare Cannio incapace di intendere e di volere. In carcere, quindi, Cannio sarà recluso nella sezione di Poggioreale dedicata ai detenuti con problemi di salute mentale e «la direzione della casa circondariale provvederà a eseguire una costante attività di osservazione e monitoraggio delle condizioni di salute psichica dell’indagato». Cannio ha raccontato di essere in cura presso il centro di igiene mentale di via Santa Maria Antesaecula. «Questo mese mi è stata somministrata la dose prevista», ha affermato ammettendo di non aver informato i Gargiulo dei suoi problemi di schizofrenia. Venerdì mattina, come altre mattine, si era presentato a lavoro nella casa di via Foria puntuale alle 9,15. Dopo tre ore, la tragedia.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

L'ultimo saluto di Napoli a "Samu". Funerali Samuele, la toccante lettera dei genitori: “Dio aveva bisogno di un angioletto speciale”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 22 Settembre 2021. “Non sarà mai un addio, ciao Samu”. Si è conclusa così, tra gli applausi della chiesa gremita, la lettera letta dai genitori di Samuele nel giorno dell’ultimo saluto al piccolo di 4 anni, morto venerdì dopo essere caduto dal terzo piano di famiglia in via Foria a Napoli. La bara bianca di Samuele è stata accolta da due ali di folla e da palloncini, circa cinquecento le persone all’interno della chiesa di Santa Maria degli Angeli con la messa celebrata dall’arcivescovo di Napoli, don Mimmo Battaglia. Proprio Battaglia ha rivolto parole toccanti, in lacrime, ricordando il bambino scomparso a soli quattro anni. Si è orfani se si perdono genitori, si è vedovi se si perde il coniuge, non si è niente se si perdono i figli”, ha detto don Mimmo nella chiesa gremita. Rivolgendosi poi idealmente a Samuele, chiamato “piccolo principe”, ispirandosi al celebre capolavoro di Antoine de Saint Exupery, l’Arcivescovo lo ha affidato “alle cure di Dio e ti chiediamo di prenderti cura di mamma e papà e del tuo fratellino che ancora deve venire al mondo. Continua a disegnare per noi, buon viaggio Samuele”. Quindi la lettera dedicata a “Samu” dai genitori al termine della messa: “Dio aveva bisogno di un angioletto speciale, di un bambino dalla simpatia unica, dalla gioia contagiosa. Forse Gesù ti voleva tra le sue braccia perché aveva bisogno di tutto quello che ci stavi regalando quaggiù”. “Mamma e papà col tempo impareranno a rivederti in ogni bambino che tira un calcio a un pallone, perché tu sei e resterai per sempre in ogni cosa – continua la lettera – Ma noi che rimaniamo qui dobbiamo solo chiederti perdono perché ti abbiamo dato un mondo cattivo e marcio, che non è stato degno di te”. Quindi la conclusione tra gli applausi dei tanti presenti nella chiesa di Santa Maria degli Angeli: “Non sarà mai un addio, ciao Samu”.

L’INCHIESTA – Per la morte del piccolo è accusato di omicidio volontario il domestico, il 38enne Mariano Cannio, attualmente detenuto in carcere. L’uomo ha ammesso parzialmente le proprie responsabilità, confermando di aver lasciato cadere il bimbo dal balcone perché colto da un capogiro mentre lo teneva in braccio con una mano. La tragedia è avvenuta quando la madre, Carmela, era in bagno in seguito a un malore a causa dello stato avanzato della gravidanza. Nei prossimi giorni verrà effettuata una perizia medica tesa a valutare le condizioni di salute e lo stato mentale di Cannio anche al momento dell’omicidio per provare ad appurare se fosse capace di intendere e di volere. L’uomo, in cura presso un centro di igiene mentale nel Rione Sanità, è affetto da disturbi psichici. Particolare che ha tenuto nascosto ai genitori di Samuele. Quanto alla famiglia Gargiulo, il legale Domenico De Rosa incontrando la stampa ha sottolineato che nessuno “cerca vendetta o soluzioni catastrofiche nei confronti di Mariano Cannio. La famiglia aspetta la verità, di capire perché è successo”. Quanto al video diffuso sui social network di Samuele, De Rosa ha sottolineato che ad oggi “non sappiamo come sia stato diffuso in rete. È un video che va contestualizzato, che non è neanche un video attuale. È un video che risale perlomeno a due anni fa per quel che mi è stato detto, ed è completamente scollegato a quello che è successo. Sono meccanismi mentali di chi associa quel video alla tragedia, come a far ipotizzare e questo è un altro timore della famiglia, le cose più incredibili”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

La tragedia del piccolo lasciato cadere nel vuoto. La lezione dei genitori di Samuele: “Nessuna vendetta contro Cannio, vogliamo la verità”. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 23 Settembre 2021. Chi si aspettava un moto di rabbia, una dichiarazione scomposta o l’immancabile anatema nei confronti del “mostro”, è rimasto a bocca asciutta. Già, perché dalla famiglia di Samuele Gargiulo, il bambino di quattro anni che il domestico Mariano Cannio avrebbe fatto precipitare dal balcone di casa in via Foria, è arrivata una lezione di stile prima ancora che di umanità e di garantismo. «I genitori di Samuele non cercano vendette né soluzioni catastrofiche nei confronti di Cannio», ha chiarito l’avvocato Domenico De Rosa nel giorno in cui centinaia di persone hanno dato l’estremo saluto al piccolo nella chiesa di Santa Maria degli Angeli. Le parole del legale hanno spento il furore dei forcaioli che, nei minuti immediatamente successivi al fermo di Cannio, non avevano esitato a invocare per lui la classica pena esemplare. Certo, l’omicidio è il crimine più odioso di cui ci si possa macchiare. Ed è ancora più esecrabile se commesso ai danni di un bambino. Ma anche a un (presunto) assassino va riconosciuto il diritto di spiegare le proprie ragioni e di essere giudicato e magari condannato al termine di un processo con tutte le garanzie di legge. Vale anche per Cannio che, dopo la convalida del fermo da parte del gip di Napoli, si trova in isolamento a Poggioreale con l’accusa di omicidio volontario aggravato e del quale bisognerà ora verificare l’effettiva sussistenza della schizofrenia emersa durante l’interrogatorio di garanzia. Ecco perché, attraverso l’avvocato De Rosa, la famiglia Gargiulo ha fatto sapere di non essersi fatta «un’idea della dinamica o delle cause della tragedia» e di attendere solo ed esclusivamente «la verità». Insomma, niente pene esemplari, vendette e gogna: solo un giusto processo per Cannio e la verità per Samuele. Per quanto provata, la famiglia Gargiulo ha affrontato anche un altro aspetto della morte di Samuele: la spettacolarizzazione del dolore. Subito dopo  la tragedia, infatti, il web è stato invaso da fotografie e video di ogni sorta. Sui social network ha cominciato persino a circolare un filmato che ritraeva la madre di Samuele piegata dalla disperazione davanti al cadavere del figlio. La stampa mainstream ha divulgato qualsiasi dettaglio della vita del bambino e del suo presunto assassino. Davanti al tritacarne mediatico, che troppo spesso spappola sentimenti e diritti, la famiglia Gargiulo si è limitata a invocare riserbo: «Rispettiamo il lavoro della stampa, quello della Procura e quello dell’avvocato di Cannio che ha già dato prova della riservatezza giusta e adeguata al caso». Quella di ieri è stata anche la giornata dell’estremo saluto a Samuele. Una giornata in cui a farla da padrone sono stati il dolore e la rabbia, soprattutto quando un gruppo di persone ha scambiato per giornalista e aggredito un poliziotto in borghese che riprendeva il funerale con lo smartphone. A riportare la calma sono stati l’intervento delle forze dell’ordine e le parole di don Mimmo Battaglia che, dopo aver pregato in ginocchio davanti al feretro, ha esaudito la richiesta dei genitori di Samuele celebrando il funerale. «Chi perde i genitori è orfano, chi perde il coniuge è vedovo ma non esiste una parola per definire un genitore che perde un figlio», ha sottolineato l’arcivescovo di Napoli con la voce rotta dal pianto prima di rivolgere un messaggio direttamente a Samuele: «Prenditi cura di mamma, di papà e del tuo fratellino che ancora deve venire al mondo».

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

Funerale del piccolo Samuele, poliziotto scambiato per giornalista e aggredito. Chiesa e strade gremite, palloncini bianchi in cielo e momenti di tensione. Il Quotidiano del Sud il 23 settembre 2021. Una toccante cerimonia quella che si è svolta nella chiesa di Santa Maria degli Angeli alle Croci, a Napoli, per dare l’addio a Samuele, il bimbo di tre anni morto dopo essere precipitato dal terzo piano di un antico edificio di via Foria. Migliaia le persone al funerale celebrato dall’arcivescovo don Mimmo Battaglia che durante l’omelia si è commosso più volte: “Non c’è parola per definire un genitore che perde un figlio”. “Chi perde i genitori è orfano, chi il coniuge è vedovo ma non c’è parola per definire un genitore che perde un figlio”. E’ quanto ha detto l’arcivescovo di Napoli, don Mimmo Battaglia, nel corso dell’omelia pronunciata ai funerali del piccolo Samuele Gargiulo. Per la sua è stato arrestato il collaboratore domestico della famiglia. Battaglia, con la voce rotta e il voto solcato dalle lacrime, ha letto una “lettera a Samuele”, definito più volte “caro dolce, piccolo principe”. “Tu solo Samuele avresti in questo giorno diritto di parola”, ha aggiunto don Mimmo Battaglia. I funerali hanno visto la partecipazione di migliaia di persone. In tanti indossano una maglietta bianca con la foto del bimbo e la scritta “Sei un angelo speciale “. Tutti i negozi della centralissima via Foria, a Napoli, su entrambi i lati, hanno esposto palloncini bianchi come segno di vicinanza alla famiglia Gargiulo. Centinaia di palloncini bianchi sono stati lanciati all’uscita del feretro del piccolo Samuele. Poi il corteo funebre ha percorso le vie del quartiere fino ad arrivare dinanzi al palazzo dove il piccolo abitava con la famiglia. Ed anche qui sono stati lanciati dei palloncini bianchi. Momenti di tensione si sono registrati dinanzi alla chiesa quando un agente della polizia .- presente per il servizio d’ordine – scambiato per un giornalista, ha preso una telecamera da una borsa. Alcune persone hanno lasciato capire di non gradire la presenza di video operatori. “La famiglia di Samuele Gargiulo non cerca né vendetta né soluzioni catastrofiche nei confronti di Mariano Cannio. La famiglia aspetta solo la verità ed attende di capire perché sia successo”. A dirlo è Domenico De Rosa, avvocato della famiglia del piccolo Samuele. “La famiglia Gargiulo mi ha chiesto di chiedervi attenzione per il loro dolore e loro aspettano con estrema tranquillità la verità che verrà fuori dall’indagine della procura”. “La famiglia gargiulo si fidava del domestico” – “Sulla base di quello che mi è stato riferito, Cannio non aveva mai dato segni di squilibrio mentale. Era una persona tranquilla, anzi godeva della loro fiducia perché era una persona che dava un senso di tranquillità. La famiglia non aveva alcuna contezza di segni di schizofrenia”. Lo conferma l’avvocato De Rosa nella conferenza stampa organizzata prima dei funerali di Samuele. “La riservatezza e la tranquillità che dimostrava erano un motivo in più per continuare a trattarlo in quel modo. – evidenzia l’avvocato – Mariano Cannio risultava una persona tranquilla a cui affidare le pulizie in presenza di una signora in stato di gravidanza”. “

Paola Pellai per “Libero Quotidiano” il 19 settembre 2021. Troppo facile andare a Scampia a farsi parare due calci di rigore su un campo da calcio con le righe bianche verniciate a lucido. Ancora più facile fingersi tennista in completo gessato, come ha fatto Giuseppe Conte nel suo tour elettorale. Scampia, periferia nord di Napoli, non si identifica in tutto ciò e neppure nell'omonima fermata metropolitana con installazione sonora "firmata" e un design da Guggenheim Museum. Scampia è la vergogna di quelle Vele che ancora disegnano un paesaggio di lamiere, degrado, inciviltà. Sono le nostre favelas, qui ci si intossica di cemento, amianto, fumo, infiltrazioni. Qui tutto è rotto, sporco, pericolante. Il campo da calcio non ha l'erba, non ci sono reti alle porte arrugginite, mancano le linee regolamentari: è uno spazio di terra rinsecchita e sterpaglia. Qui cammini nella paura e nel ventre di ruggine, infiltrazioni e amianto. Molte persone si sono ammalate di tumore e in troppe sono morte. Vedi l'acqua scendere dai muri già impregnati di umidità, trovi gli scheletri di appartamenti arsi dalle fiamme, annusi l'insalubre presenza dell'amianto e ogni pertugio è pieno di spazzatura e rifiuti. Qui si vive nell'anonimato, addensati senza controlli in gironi infernali, con numeri simili a pallottolieri impazziti. Ma sai per certo che in quelle scatole di latta vivono tanti bambini, te ne accorgi dalla sfilata baby di magliette, calzini, bavaglini, tute sui balconi. Non esistono citofoni e neppure cassette delle lettere. C'è chi scrive il proprio nome (mai il cognome) sulla porta in lamiera, talvolta c'è pure un numero di cellulare. Ci sono fili e cavi elettrici che penzolano ovunque e che passano da un ballatoio all’altro. Altri, insieme a lunghi tubi, sono a terra ed è facile inciamparci. Gli allacciamenti sono fai da te, se qualcosa va storto o vuoi fare un dispetto al tuo nemico, saltare in aria o appiccare un incendio è un attimo. L'ultima volta è successo a giugno, con un rogo domato dai vigili del fuoco e una colonna di fumo avvistata a chilometri di distanza. Si vive alla giornata in una delle aeree a maggior tasso di disoccupazione in Italia. Se t'infili nei dedali bui e intricati dei piani sotterranei ti accorgi in fretta che l'arte dell'arrangiarsi diventa per molti la sopravvivenza. C'è chi lava auto, chi le aggiusta, chi ha aperto un bar e chi vende generi alimentari. Chi abita qui invecchia nell'umidità, nella precarietà, nel pericolo. Questo è il luogo delle aspettative tradite e della vergognosa processione dei candidati politici che in campagna elettorale arrivano barattando finte promesse con i voti, ingolositi dalle 41 mila presenze, ma è una cifra al ribasso. La verità è che qui lo Stato non esiste, ne sta al di fuori e vogliono tenerlo al di fuori. Le originarie sette Vele di Scampia sono state costruite su un'area di 115 ettari tra il 1962 e il 1975 su progetto dell'architetto Francesco De Salvo. Un intervento di edilizia economica popolare a forma triangolare che, ispirandosi alle Unités d'habitation di Le Corbusier, doveva favorire l'integrazione, grazie ad ampi spazi verdi con percorsi pedonali, aree giochi, centri scolastici, commerciali e religiosi. Il modello architettonico è quello di due blocchi a gradoni - ciascuno alto al massimo 14 piani - separati da un vuoto centrale e collegati da scale, ascensori e ballatoi volti proprio a favorire le relazioni tra gli abitanti. Quella favola progettuale si limitò ad immensi agglomerati di cemento finiti presto in mano alla camorra, che li trasformò nel più importante supermercato europeo della droga. Quello che doveva essere un modello si trasformò in un ghetto, complice il terremoto dell'Irpinia del 1980 che portò molte famiglie senza tetto ad occupare anche abusivamente gli alloggi. Ad aggravare la situazione la totale assenza dello Stato: il primo commissariato di Polizia fu insediato nel 1987. Troppo tardi, mafia e delinquenza lì avevano già trovato alloggio. La camorra "dava lavoro" e l'illusione della ricchezza, le auto di grossa cilindrata dei boss erano il traguardo da inseguire: i bambini facevano le vedette sui ballatoi, i ragazzi erano i pusher e famiglie intere custodivano droga, soldi e armi in casa o nei garage. In seguito la guerra alla camorra e gli arresti eccellenti hanno mobilitato cooperative e associazioni, difendendo «le tante persone oneste che abitano le Vele». Eppure per tutti questo resta il regno di Gomorra, raccontato da Roberto Saviano e trasformato in fiction televisiva. La fantasia napoletana ha fatto di una piaga un business inventando i "Gomorra Tour", organizzati da diverse agenzie per "esplorare il quartiere con i suoi caratteristici edifici degradati" che hanno "fatto da sfondo alle storie dei personaggi della serie televisiva”. Si passeggia, talvolta si raggiungono Forcella e Secondigliano, magari con una colazione o un brunch di specialità napoletane su una terrazza panoramica: il tour dura 4 ore, costa dai 60 ai 75 euro ed è fortemente "sconsigliato a donne in gravidanza e cardiopatici”. Chi abita nelle Vele non ne può più di tour e serie tv, così a lettere cubitali scrivono che non sono Gomorra e neppure uno zoo. «Siamo stufi di essere trattati come un safari fotografico - mi racconta Pina -. Vengono qui fanno selfie, fotografano tutto e tutti come se fossimo leoni e giraffe in gabbia. Abbiamo il diritto di vivere e di essere rispettati». Quattro Vele sono già state abbattute (nel 1997, 2000, 2003 e 2020), altre due (la Vela Rossa e quella Gialla) seguiranno la stessa sorte mentre l'ultima (quella Celeste) verrà riqualificata, ospitando gli uffici della Città Metropolitana. Tutto ciò ha un costo, 26 milioni di soldi pubblici che si spingeranno fino ad un piano di fattibilità complessiva da 120 milioni, comprensivo di abbattimenti, ricostruzioni, riqualificazioni, servizi e un polo universitario. Si fa e si disfa, si costruisce e si abbatte: è il gioco degli appalti. Ho girato a lungo all'interno delle Vele, tutti mi hanno salutato, qualcuno mi ha sorriso. Ho visto la dignità della miseria in buchi "truccati" da appartamenti, una camera da letto sotto una tettoia all'aperto, un bimbo che spingeva un monopattino tra l'immondizia, un'anziana con due sacchi di spesa che saliva arrancando i tremolanti e infiniti gradini tra un piano e l'altro. Una ricerca universitaria condotta tra i giovani ha sottolineato che l'80% ritiene che a Scampia la camorra sia più presente della Chiesa (8%) e persino dello Stato (5%). Il 51% di loro ha contatti con chi si droga e il 44% ammette che la criminalità è una scorciatoia per avere tutto e subito, soprattutto oggetti "firmati". «In questo quartiere non c'è nulla - spiega Tony, 14 anni -, o scappi o ti schieri con la camorra o lotti per cambiare le cose, ma perché farlo? Per noi lo Stato non trova neppure il tempo di toglierci l'immondizia. Io non porto rispetto a chi non me ne porta».

Fuori anche una delle due liste civiche di Maresca. Lega bocciata a Napoli, figuraccia Salvini: sognava sindaco ma dimentica di presentare il simbolo. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 17 Settembre 2021. Dal sogno un sindaco leghista a Napoli alla definitiva esclusione della lista Prima Napoli, quella di riferimento del Carroccio, alle prossime elezioni in programma il 3 e il 4 ottobre. Figuraccia per Matteo Salvini e tutto l’entourage leghista a Napoli che ha dimenticato, scusate se è poco, di presentare il simbolo Prima Napoli nella documentazione (o non lo ha presentato nelle forme previste dalla legge). La decisione finale del Consiglio di Stato, dopo quella iniziale della commissione prefettizia e quella successiva del Tar, arriva nella tarda serata di venerdì 17 settembre e segna la fine della corsa per il partito di Salvini che appoggiava la colazione di Catello Maresca. “Brutta notizia per Napoli e per la democrazia. Migliaia di napoletani sono stati derubati dalla possibilità di scegliere il cambiamento”. Questa la nota del coordinatore regionale Valentino Grant e il coordinatore cittadino della Lega a Napoli Severino Nappi. Nessun mea culpa ma il solito scarica barile populista. “Da oggi pancia a terra per sostenere i nostri candidati presidente sulla Prima, Quarta, Quinta e Sesta Municipalità. Siamo regolarmente in corsa con le liste sulla Quinta e sulla Sesta. Non perdiamo entusiasmo. Noi vero motore per il cambiamento”, concludono Grant e Nappi. Il tribunale amministrativo regionale, nei giorni scorsi, aveva rigettato il primo ricorso specificando: “Il problema della tardività della presentazione della lista e della mancanza della dichiarazione di collegamento, la mancata presentazione del contrassegno elettorale nella forma di legge è sufficiente a giustificare l’esclusione della lista, sia in quanto essa è espressamente prevista dall’art. 32 del Tuel, sia perché la presentazione del modello di contrassegno della lista (depositato a mano su supporto digitale o in triplice esemplare in forma cartacea) deve ritenersi essenziale, proprio al fine di consentire alla commissione elettorale circondariale di ricusare i contrassegni identici o che si possano confondere”. “Per quanto riguarda le liste di diretta emanazione di Maresca c’è l’ufficialità soltanto per la lista Catello Maresca Sindaco (logo con sfondo bianco), per la seconda, Catello Maresca (logo blu) non ancora” fa sapere in una nota Catello Maresca.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Comunali 2021, Catello Maresca: “I candidati impresentabili che abbiamo allontanato dalle nostre liste si sono accasati altrove”. Fabrizio Capecelatro il 28/09/2021 su Notizie.it. Intervista a Catello Maresca, magistrato e candidato sindaco del centrodestra, alla vigilia delle elezioni comunali 2021 a Napoli. Magistrato, uomo di legge, il dottor Catello Maresca a Napoli – e non solo a Napoli – è famoso per il suo impegno nella legalità, che non è basato soltanto sul contrasto all’illegalità, ma anche sulla prevenzione. Tante sono le attività in cui il dottor Maresca si è impegnato, fuori dal suo orario lavorativo, perché il braccio della giustizia non fosse solo repressivo, ma soprattutto preventivo. E su questa scia ora ha deciso di dismettere, seppur momentaneamente, la toga da magistrato per provare a indossare la grisaglia di sindaco, candidandosi alle elezioni comunali 2021.

Dottor Maresca, da cosa nasce la scelta di lasciare – seppur momentaneamente – la magistratura per provare questa avventura politica?

È un’esigenza che forse nasce addirittura nelle aule dei tribunali nell’esercizio della mia funzione di servizio giustizia che ho fatto per ventidue anni.

E proprio lì che ho sentito forte l’esigenza di andare oltre, cioè non solo certificare quello che è il fallimento dello Stato e delle sue istituzioni, ma di evitare o rendere almeno più difficile questo fallimento.

Rendere meno frequente, per esempio, il fenomeno dell’abbandono scolastico che porta i giovani tra le fila della micro e della macro criminalità. Purtroppo le istituzioni hanno difficoltà a dare risposte e alternative ai ragazzi, è proprio quello che io ho constatato di persona e su cui cerco di intervenire: cerco di uscire dai nostri uffici e dalle aule della giustizia e di portare una testimonianza proprio a partire dalle scuole.

Questo mio impegno risale a quindici anni fa, da allora ho scritto diversi libri e diversi interventi, ho partecipato a iniziative e percorsi di approfondimento. Proprio da questa certezza che dobbiamo fare di più deriva anche il mio impegno sociale, che è riuscito concretamente a offrire questa opportunità ad alcuni ragazzi che hanno voluto essere accompagnati lontano dalla cattiva strada che avevano intrapreso per uscire dalle sabbie mobili della criminalità dove sono caduti.

Oggi penso al mio impegno da primo cittadino proprio come portatore di legalità, come modo per riuscire a dare a tutti questi ragazzi un’alternativa concreta, un’altra chance.

Un aspetto che non si può fare a meno di constatare guardando alle elezioni napoletane è che lei si candida a subentrare a un altro magistrato che ha poi intrapreso la carriera politica. Napoli ha necessariamente bisogno di un magistrato che la guidi anche dal punto di vista amministrativo?

Quello che so è che ho riposto con cura e con affetto la toga nel mio armadio e per un periodo che ho deciso di dedicarmi alla mia città. Ma mi propongo di farlo come uomo più che come magistrato. Gli uomini sono diversi, hanno idee diverse, approcci diversi. Voglio partire da un dato che è forse quello più realistico e concreto: il magistrato antimafia. Io ho avuto la fortuna di interpretare un periodo particolarmente delicato della lotta contro i clan, molto pericoloso e con i risultati che sono stati ottenuti grazie a quella consapevolezza, quella della concretezza operativa. Proprio da questa esperienza è nata l’esigenza di andare oltre, di cercare di intervenire in maniera decisa, radicale addirittura sul fenomeno sul fenomeno mafioso. Non voglio scomodare Falcone e Borsellino, che sono stati i nostri maestri, ma loro sostenevano che le mafie si combattono più nelle scuole, per strada, tra la gente, che non nelle aule di giustizia.

Quello che sicuramente avrà fatto suo da questi anni di lotta alla criminalità organizzata e che deriva proprio da un insegnamento di Falcone e Borsellino è che vincere è il gioco di squadra. Tuttavia già ha dovuto affrontare alcune problematiche connesse alle liste che la appoggiano e da cui, ovviamente, andrà poi a scegliere quella che sarà la sua eventuale “squadra di governo”. Quale sarà il criterio con cui sceglierà i suoi collaboratori?

Il segreto si può riassumere in due parole: autonomia e professionalità. Avremo bisogno di una squadra di governo determinata, improntata subito a intervenire sulle problematiche enormi che trent’anni di governo della città ci hanno lasciato. Anche a me, che di difficoltà ne ho viste nella mia carriera e nella vita personale, a volte tremano i polsi.

Ho obiettivi che sono molto ambiziosi. Per realizzarli ho bisogno di qualcuno che si assuma la responsabilità e che lavori con professionalità, ma non professionalità sterile, che è data da un tecnicismo o da un titolo. Serve quella professionalità maturata sul campo, quella che si acquisisce, si conserva, si consolida anche nei momenti di difficoltà, di grande stress. Ci sarà bisogno di gente determinata, valida, gente che ha passione e voglia di accompagnarmi in questa sfida: è questo il vero valore aggiunto.

Dobbiamo tutti essere consapevoli che le difficoltà saranno enormi, dobbiamo essere pronti a metterci in campo, a mettere in campo tutto quello che abbiamo. Noi sicuramente ci metteremo delle tonnellate di anima. Vorremmo cercare veramente di rappresentare il cambiamento, la svolta in questa città.

Restando sul tema magistratura e politica, il centrodestra ha avuto una trasformazione in questo senso negli ultimi anni. Oltre che a Napoli, anche a Roma ci sono candidati che provengono dal mondo della magistratura. sembra quindi lontano il tempo delle “toghe rosse”. Anche a Milano si è andati a pescare dalla cosiddetta società civile, scegliendo personaggi che come lei ci tengono a ribadire una certa forma di autonomia rispetto agli schieramenti politici. nel centro destra mancano quindi leadership forti?

Io credo invece che scegliere un candidato che proviene dalla cosiddetta società civile significhi mettere in campo un valore aggiunto. Tutti i soggetti che sono stati individuati e proposti provengono da quel mondo di cui parlava prima, da quel mondo delle professioni, dell’impegno, del sacrificio che hanno dimostrato con i fatti di saper affrontare le questioni, saperle risolvere per perseguire degli obiettivi importanti. Io credo che questo non possa che essere una scelta consapevole e condivisibile, un’apertura importante da parte dei partiti di centrodestra.

Nel momento in cui la politica accusa una crisi generale, bisogna portare anche nei confronti dei cittadini un senso di fiducia. Quella stessa fiducia che sentivo da ragazzo quando ero molto impegnato in associazioni cattoliche e durante un’esperienza politica a San Giorgio a Cremano, prima di fare il magistrato: questa voglia, questa determinazione a fare politica nel senso autentico della parola, cioè curare davvero l’interesse dei cittadini.

Qualche tempo fa in un’intervista a La Confessione, il programma condotto da Peter Gomez, Giorgia Meloni , a proposito delle infiltrazioni di cui anche il suo partito è stato vittima, ha raccontato di essersi rivolta al suo collega e attuale Procuratore Nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho, il quale, stando a quello che ha riportato in quell’intervista la leader di Fratelli d’Italia (uno dei partiti che appoggia la sua candidatura), le diceva che effettivamente è molto difficile, se non impossibile, per un partito riuscire ad avere gli anticorpi necessari per evitare queste infiltrazioni. Lei come ha fatto a evitarlo nella creazione delle sue liste?

Ho messo subito in chiaro qual è la nostra famiglia. Peraltro il fatto che io sia un magistrato credo che già rappresenti un biglietto da visita importante. Abbiamo cercato, visti i tempi stretti, di controllare tutto il controllabile e speriamo non ci sia sfuggito nulla. Ma abbiamo subito detto che siamo pronti poi ad intervenire se necessario. Fino ad oggi sembra che sia andato tutto per il verso giusto. Quello che devo constatare con amarezza è che qualcuno che noi abbiamo allontanato, anche per motivi di opportunità, si è subito accasato da altre parti. Penso che davvero il rinnovamento politico non possa che partire dal fatto che se ci sono dei soggetti impresentabili, indipendentemente dalle condanne definitive, queste persone devono essere invitate ad andarsene.

Quindi è possibile attuare tutte le strategie necessarie per evitare di avere contrazioni all’interno delle proprie liste.

Delle strategie ci sono e funzionano, noi le abbiamo viste in campo. Il problema è se altri preferiscono il consenso alla pulizia delle liste. Abbiamo subito messo in chiaro che questo non ci appartiene.

La replica dell'artista dopo le polemiche cavalcate anche da Maresca. Tina Sacco a Manfredi: “Nessun passo indietro, non sono una criminale: ho rifiutato Scianel in Gomorra”. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso su Il Riformista il 16 Settembre 2021. E’ incensurata e fa l’artista (“non sono una neomelodica”) da 40 anni. Non conosce”. “Nel 2015 nel corso di una stesa alcuni proiettili finirono contro il basso dove viveva nella zona di corso Malta a Napoli, con i pistoleri che “pronunciarono il mio nome prima di sparare ma io con la malavita non ho mai avuto nulla a che fare e su quell’episodio non ci sono stati sviluppi investigativi”. Tina Sacco, nome d’arte di Immacolata Lamula, compirà 60 anni il prossimo 17 dicembre ed è candidata al consiglio comunale di Napoli nella lista “Centro Democratico” che sostiene la colazione di Gaetano Manfredi. Dopo la decisione di scendere in campo “per il popolo”, sono state sollevate polemiche sterili, relative al brano “L’omertà”, cantato con il neomelodico Anthony in cui la Sacco interpreta una madre preoccupata per la decisione del figlio di intraprendere la strada della malavita e che prova in tutti i modi a farlo tornare sui propri passi. Insomma “è una canzone che manda un messaggio completamente diverso” spiega Emilio Coppola, legale della Sacco. “E’ un messaggio per la legalità perché la madre spiega al figlio che facendo un determinato tipo di vita si rischia di perdere i propri affetti. Non vorrei che dietro questo polverone ci sia un attacco di tipo classista. Piaccia o meno Napoli è anche Tina Sacco” chiosa l’avvocato. Polemiche sterili prontamente cavalcate dal candidato giustizialista Catello Maresca che, senza conoscere la storia, ha subito puntato il dito (proprio come fa il suo principale sponsor elettorale, il leghista Matteo Salvini) contro la 60enne. Lo stesso Manfredi, intervistato da Fanpage.it, ha auspicato un passo indietro della candidata pur ammettendo che “non ha alcun precedente con la giustizia” anche se il brano in questione va “contro i nostri principi di legalità”. Passo indietro che la Sacco non ha intenzione di fare. “Vado avanti più forte di prima e mando un bacio a Manfredi. Perché non ero all’apertura della campagna elettorale di Centro Democratico? Semplice, non ne sapevo nulla ma non ritiro la mia candidatura. Di cosa dovrei pentirmi? Non ho fatto niente, mi pento solo quando litigo con mio marito”. Poi aggiunge: “Mi dicono che sono una criminale ma non so neanche la Questura come è fatta. Sono un’artista non una neomelodica, i miei riferimenti sono Mario Merola, Sergio Bruni. Mi hanno chiamato anche in Gomorra per interpretare la parte di Scianel ma ho rifiutato perché non mi piaceva interpretare quel ruolo”. Sulla canzone finita nel mirino di media e politici spiega: “L’omertà parla di una mamma che ha cresciuto un figlio con tanti sacrifici. Poi una volta cresciuto questo figlio ha deciso di prendere una strada diversa e la madre prova a spiegargli i rischi a cui va incontro”.

Ciro Cuozzo e Rossella Grasso

Lo Sceriffo contro il “presentismo” in politica. Altro che grillini, il “vaffa” è l’arma preferita da De Luca. Domenico Giordano su Il Riformista il 9 Settembre 2021. A Vincenzo De Luca, prima o poi, qualche università dovrà consegnare una laurea honoris causa in comunicazione politica. Il presidente della Campania si è guadagnato l’accesso alla ristretta cerchia di leader capaci di polarizzare il dibattito pubblico. In trent’anni e più di onorata carriera, da Salerno a Napoli passando per Roma, De Luca ha replicato un solo schema: scegliersi un nemico, funzionale a rinnovare per sé la narrazione di politico decisionista e anti-sistema, per poi dileggiarlo cesellando accuratamente un linguaggio per nulla convenzionale, aggressivo nei toni e spesso offensivo nelle forme. Anzi, il vocabolario deluchiano ha rappresentato, in moltissime occasioni, non tanto il mezzo quanto il contenuto stesso della narrazione del politico salernitano: apostrofare pubblicamente, in tv o sui social, nei talk-show o negli interventi in Aula, il proprio interlocutore come un «imbecille» o un’«anima morta» non è soltanto irriverente, ma è la dimostrazione che De Luca è uno che non accetta le regole d’ingaggio verbali della politica, le stesse che i cittadini non tollerano più perché le vedono come un insormontabile diaframma che li separa dalle istituzioni. «Ma voi veramente pensate che sia ragionevole che alle elementari facciamo la giornata di riflessione sull’omotransfobia? Andate al diavolo, ma andate al diavolo», ha risposto alla giornalista che gli chiedeva cosa pensasse del ddl Zan. Ospite della Festa dell’Unità di Bologna, De Luca ha sferrato un jab al volto, già in parte tumefatto, della dirigenza del Partito democratico scegliendo però non un’offesa qualsiasi, ma una versione, all’apparenza più nobile ma non meno efficace, del “vaffa” di matrice grillina. Il suo «andate al diavolo» è una “dichiarazione di sfratto” al segretario Enrico Letta, rimasto ancora una volta sorprendentemente in silenzio più per snobismo, perché De Luca rimane “solo” un presidente di regione, che per una scelta ragionata. De Luca ha adattato al suo stile l’offesa identitaria che negli ultimi 15 anni è stata associata all’ascesa politica del Movimento Cinque Stelle e alla sua carica rivoluzionaria. Solo che dopo tre anni e mezzo di governo, di gaffe e di sanguinosi tormenti interni, il “vaffa” ha reciso il cordone ombelicale con il M5S e così lo Sceriffo ha colto la palla al balzo e se n’è appropriato. Nel suo «andate al diavolo», però, c’è anche una quota di frustrazione per una carriera politica che sta per imboccare il viale del tramonto, nonostante i tentativi di rivitalizzarla con la proposta del terzo mandato, e che non ha mai raggiunto la vetta delle istituzioni. Una frustrazione che emerge anche da un secondo elemento: De Luca è tra i pochi politici di periferia a mettere nel mirino ministri o leader nazionali, da Di Maio a Salvini, da Letta al commissario Figliuolo. Ieri si è scagliato nuovamente contro il leader leghista accusandolo di “presentismo social”, ma dimenticando che una piattaforma può essere presidiata anche senza un post diretto.

Su Tik-Tok, per esempio, l’hashtag #vincenzodeluca, raccoglie una serie di video pubblicati dagli utenti da marzo 2020, che hanno ottenuto finora oltre 12 milioni di visualizzazioni. Eppure De Luca non ha un account ufficiale, il che non gli impedisce di essere presente sulla piattaforma. Il suo è presentismo da second screen, ma che ha una pervasività affatto marginale: basti pensare che il leader della Lega, che invece ha un account da due anni, con l’hashtag #matteosalviniufficiale è a 20 milioni di visualizzazioni. Domenico Giordano

Nico Falco per "fanpage.it" il 4 settembre 2021. “Guardate pure voi, ho visto bene? Ho vinto 500mila euro?”. Il titolare della tabaccheria prende il biglietto del Gratta & Vinci, lo guarda, lo controlla, capisce. Si, quel pezzo di carta vale mezzo milione di euro. E non ci pensa due volte: mette il foglietto in tasca, si infila il casco, esce in strada, salta sullo scooter e fugge di corsa, tra gli sguardi attoniti della donna, del dipendente e di alcuni altri clienti. La scena, più adatta a un film comico che alla realtà, è avvenuta ieri mattina, 3 settembre, in una tabaccheria del centro di Napoli, zona Stella. Protagonisti: una donna che aveva acquistato il tagliando fortunato della lotteria istantanea e uno dei titolari dell’esercizio commerciale. La signora, dopo aver grattato via la patina e aver controllato i simboli, era rimasta incredula. Pensando di aver visto male aveva chiesto aiuto al dipendente, perché verificasse anche lui con un dispositivo dedicato. Il terzo controllo lo aveva fatto uno dei titolari, e anche lui si era accorto che, in effetti, tra le mani aveva mezzo milione di euro. Una somma forse non in grado di cambiare una vita, ma di darle una bella aggiustata sicuramente. Senza pensare alle conseguenze, alla facilità con cui sarebbe stato identificato, e alle difficoltà che avrebbe inevitabilmente incontrato per incassare quei soldi (oltre al reato commesso), l'uomo era semplicemente scappato di corsa fuori, si era infilato il casco ed era fuggito sullo scooter. Dopo la denuncia sporta dalla vittima i carabinieri sono sulle sue tracce, è ancora irreperibile. Il biglietto, invece, è diventato carta straccia: il furto è stato segnalato all’Agenzia dei Monopoli ed è stato chiesto il blocco.

Napoli, tabaccaio ruba il Gratta e Vinci da 500mila euro alla nonnina? Sconcertante: secondo i parenti del tabaccaio-ladro...Libero Quotidiano il 05 settembre 2021. La storia, grottesca, è di ieri, sabato 4 settembre. La storia è quella che è arrivata da Napoli, dove una anziana signora ha vinto 500mila euro al Gratta e Vinci e dunque si è rivolta al tabaccaio, mostrandogli il tagliando: "Giovanotto, ma davvero ho vinto 500mila euro?". E lui: "Signora, è una fortuna...". Dunque si è preso il grattino vincente e si è dato alla macchia, fuggendo in scooter. Una fortuna rubata. Vicenda surreale, in primis perché tutti sanno chi fosse l'uomo, il gestore della tabaccheria, e poi perché il grattino vincente è stato subito bloccato. Il ladro ancora non è stato trovato.  Un gesto impulsivo, del tutto insensato, in seguito al quale la signora si è ovviamente rivolta ai carabinieri, i quali hanno chiesto ai Monopoli di sospendere la validità dell'intero blocchetto da cui provenivano i due Gratta e vinci, non esistendo una fotocopia del tagliando vincente. Il tabaccaio, ora, è altrettanto ovviamente indagato per furto. Ma non è tutto. Ci sono altri dettagli sconcertanti in questa vicenda, di cui dà conto il Corriere della Sera. In primis ciò che dicono i parenti del tabaccaio: negano l'accaduto, insomma sostengono che non sia vero che il tizio è fuggito con il Gratta e Vinci vincente. E ancora, i commercianti degli esercizi vicini alla tabaccheria: "Tornerà e restituirà tutto, perché è una brava persona". Già, una "brava persona", uno che ruba una fortuna a una nonnina. Nel frattempo, ore d'angoscia per la signora, che non sa se potrà avere mai quei soldi piovuti dal cielo. 

Il biglietto da 500mila euro. “Ho sbagliato a fidarmi, dove sono i miei soldi?”, la rabbia della donna “scippata” del Gratta e Vinci dal tabaccaio. Vito Califano su Il Riformista il 5 Settembre 2021. Si dispera e si mangia le mani la signora scippata, praticamente, del biglietto vincente del Gratta e Vinci a Napoli dal titolare della tabaccheria in via Materdei. La notizia ha fatto il giro dei social, dei media e d’Italia. Non si sono risparmiati i paragoni con il cinema, il teatro, con Non ti pago di Eduardo De Filippo. Quei 500mila euro che però la cliente abituale della tabaccheria ha vinto adesso non fanno dormire la signora. “Ho sbagliato a fidarmi – ha detto la vittima della vicenda grottesca a Il Mattino – ho solo chiesto aiuto”. Nessuna traccia ancora dell’uomo. Le ricerche dei carabinieri sono in corso. “E adesso? Adesso ditemi che avrò quei soldi …”, dice ancora la signora colta da rabbia, disperazione e sconforto. Per giocare aveva speso dieci euro. Alle prime aveva pensato di aver letto male. Il caso incredibile si è verificato venerdì mattina. La donna si era recata in tabaccheria, aveva acquistato due Gratta e Vinci. Uno vincente: 500mila euro. “Giovanotto, ma davvero ho vinto 500mila euro?”. Un giovane impiegato controllava il biglietto e lo passava allora al titolare che lo intascava e fuggiva. Secondo alcuni il biglietto era stato comprato in un’altra tabaccheria: ma poco cambierebbe nella vicenda. Dell’uomo, scappato in scooter, si sono perse le tracce. Immediata la richiesta dell’Arma al Monopolio di bloccare tutti i Gratta e Vinci del blocchetto. Il caso è diventato in pochi minuti virale. Sul posto si è radunata in poco tempo una folla di curiosi. Gli intervistati sono sicuri sul conto del commerciante: “È una brava persona – dicono – sarà stato un colpo di testa”. Il titolare adesso è ricercato per furto. E la donna aspetta a casa una telefonata dei Carabinieri.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Da "tgcom24.mediaset.it" il 5 settembre 2021. Il tabaccaio che a Napoli ha sottratto a una anziana un Gratta e vinci da 500mila euro ha provato a lasciare l'Italia, ma è stato bloccato a Fiumicino dalla polizia di frontiera in seguito all'alert diramato dai carabinieri in tutto il territorio europeo. L'uomo era in possesso di un biglietto per Fuerteventura ma non del tagliando vincente. I militari lo hanno identificato e denunciato per furto, in stato di libertà. Il tentativo di partenza del tabaccaio per Fuerteventura, isola delle Canarie, è avvenuto nella tarda serata di sabato. A carico dell'uomo, G.S., 57 anni, incensurato, non ci sono misure restrittive, quindi il tabaccaio è libero di recarsi dove vuole e in teoria, dopo la denuncia per furto, potrebbe comunque lasciare il Paese. I carabinieri della compagnia Stella proseguono le indagini sul caso, nonché le ricerche del Gratta e vinci rubato. In seguito a tutta la vicenda l'uomo potrebbe subire la revoca della licenza da parte dell'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli.

Fulvio Bufi per corriere.it il 6 settembre 2021. Il tabaccaio più famoso d’Italia voleva espatriare. Destinazione Canarie: Fuertaventura. E dopo la brillante idea di scappare dalla sua rivendita di via Materdei con in tasca il Gratta e Vinci da cinquecentomila euro che una cliente gli aveva portato a vedere per avere conferma della fortuna capitatale, aveva elaborato un’altra strategia da genio del crimine: esibire al check-in i suoi documenti, presentarsi, cioè, con quel nome e cognome segnalato a tutte le polizie d’Italia dopo la denuncia presentata dalla donna ai carabinieri.

Fermato dalla polizia di frontiera. Ora si starà chiedendo dov’è che il suo piano perfetto ha toppato, e come avranno fatto a accorgersi di lui quei due agenti della polizia di frontiera che, mentre aspettava tranquillo di sapere a quale gate dell’aeroporto di Fiumicino avviarsi, gli si sono avvicinati e gli hanno chiesto di seguirli. Gli hanno notificato una denuncia a piede libero per furto e, per quanto in questi casi non sia previsto un interrogatorio, gli hanno chiesto di restituire il tagliando sottratto alla cliente. E qui il tabaccaio di via Materdei, che ha 57 anni e si chiama Gaetano Scutellaro, ha offerto un altro colpo di teatro, spiegando di non avere con sé nessun Gratta e Vinci — cosa peraltro confermata dalla perquisizione sia personale che dei bagagli alla quale è stato sottoposto — ma spingendosi addirittura a sostenere di essere lui la vittima del furto e di voler denunciare la donna che lo ha denunciato. Insomma, un comportamento sconclusionato in linea con tutta la storia, almeno per come appare finora. Una storia senza senso sin dal principio, perché Gaetano, che da qualche tempo aveva trasferito la licenza d’esercizio della tabaccheria a sua moglie, non poteva non sapere che quel tagliando sarebbe stato immediatamente bloccato e quindi non avrebbe mai potuto incassare il mezzo milione della vincita. 

Il biglietto annullato. Ora l’Adm (l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli) non solo ha annullato la validità dell’intero lotto di Gratta e Vinci al quale appartiene quello sparito, ma ha anche sospeso la licenza alla tabaccheria di via Materdei, alla luce del rapporto di stretta parentela tra l’uomo denunciato per il furto del biglietto e la titolare della rivendita. Che, spiega il direttore generale dell’Agenzia, Marcello Minenna, «dovrà dimostrare la sua completa estraneità». Dalle parole del dirigente pare di capire che la titolare della tabaccheria potrà riaprire solo «se in giudizio verrà dimostrato che lei non c’entra nulla», ma per il momento un giudizio non è nemmeno all’orizzonte. C’è una inchiesta che deve chiarire ancora molte cose ed è decisamente troppo presto per dire se la denuncia nei confronti di Gaetano arriverà o meno a una fase dibattimentale. Un dato importante dell’indagine, però, potrebbe essere disvelato già oggi. Gli inquirenti dovrebbero fare un sopralluogo in una agenzia bancaria di Latina dove pare che Scutellaro si sia fermato venerdì e abbia aperto un conto corrente stipulando anche una polizza assicurativa.

Accertamenti in corso in una banca. Gratta e Vinci rubato, il tabaccaio ribalta tutto: “E’ mio, vi spiego dove sta. L’anziana è una bugiarda”. Redazione su Il Riformista il 6 Settembre 2021. “Quel Gratta e Vinci è mio, la vecchietta è una bugiarda”. Prova a ribaltare tutto il tabaccaio napoletano di 57 anni protagonista sabato della fuga dalla sua ricevitoria presente nel quartiere Materdei dopo, secondo la ricostruzione dei carabinieri, la vincita di ben 500mila euro da parte di un’anziana donna che aveva chiesto a un dipendente del tabaccaio di verificare l’avvenuta vincita. Gaetano Scutellaro, che insieme alla moglie gestisce l’attività (che nelle prossime ore potrebbe subire la sospensione della licenza), si è impossessato del tagliando vincente dandosi poi alla fuga in scooter. E’ stato rintracciato dopo circa 24 ore, domenica 5 agosto, all’aeroporto di Fiumicino mentre tentava di imbarcarsi per un volo diretto a Fuerteventura, in Spagna. La Polizia di Frontiera ha rilevato l’alert sulla sua identità e lo ha bloccato. Il 57enne è stato denunciato a piede libero (ovvero è in libertà, non ha alcuna limitazione, ndr) e sono in corso indagini per trovare il biglietto vincente. Secondo Scutellaro, l’anziana donna vincitrice del tagliando da 500mila euro sarebbe “una bugiarda”. L’uomo sostiene infatti di essere il proprietario del Gratta e Vinci e di averlo depositato in banco, probabilmente a Latina. Aggiunge, secondo quanto riportato da Il Mattino, di essere intenzionato a querelare per calunnia l’anziana donna. Insomma prova a ribaltare la questione anche se gli indizi raccolti dai carabinieri della Compagnia Stella, che indagano sull’accaduto, vanno in tutt’altra direzione. Saranno ora gli accertamenti nell’istituto di credito indicato dall’uomo a Latina a far luce su quanto accaduto. Il tabaccaio sostiene infatti di aver depositato l’assegno addirittura venerdì, un giorno prima la presunta vincita della donna avvenuta nell’esercizio commerciale di Materdei. Intanto a Napoli è corsa al lotto dopo l’incredibile vicenda che ha fatto il giro d’Italia. I numeri più gettonati sono 42 e 72, che nella smorfia indicano denaro e stupore. “E’ la prima volta che ci capita ma i sistemi informatici che abbiamo messo a punto hanno funzionato perfettamente”. A spiegarlo all’Adnkronos è il direttore generale dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli Marcello Minenna a proposito della rocambolesca vicenda del Tabaccaio napoletano. “Sappiamo qual è il tagliando (l’erogazione della vincita, ovviamente, è stata sospesa) grazie al fatto che il marito della tabaccaia, titolare della licenza, ha usato un telefonino per verificare per ben tre volte il biglietto fortunato. E’ stato, quindi, possibile risalire al cellulare e ai movimenti del telefonino e del suo proprietario fino a Fiumicino. C’è stata per questo un’importante collaborazione tra i carabinieri, l’ufficio investigazioni dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e la polizia di frontiera. “Da noi è tutto registrato, monitorato sui nostri sistemi informatici, per questo è importante che il Gioco sia legale. E’ stato così che abbiamo capito cosa stava succedendo”. Il tagliando, però, non è stato ancora trovato. “Nel momento in cui dovessimo recuperare il biglietto sarà mia cura restituirlo alla legittima titolare” aggiunge il direttore Minenna che si dice “certo che la vicenda avrà un lieto fine”. Se non si dovesse ritrovare, spiega Minenna, “allora si esploreranno le vie del contenzioso”, ma “sono ottimista visto che i Carabinieri di Napoli stanno operando con grande senso del dovere”. Al momento “la licenza della tabaccheria è stata sospesa”. Quanto alla titolare, “la signora dovrà dimostrare la sua completa estraneità visto che è stato il marito ad aver compiuto il furto e, se in giudizio verrà dimostrato che lei non c’entra nulla, da parte nostra verranno perfezionati atti equilibrati ed oggettivi”.

Dagospia. Estratto da “Anteprima - la spremuta di giornali di Giorgio Dell’Arti” il 6 settembre 2021. In tanti a Napoli hanno giocato al Lotto 22, 46 e 71, il pazzo, i soldi e l'omm'e mmerda. Ieri non è uscito nessuno dei tre numeri.

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 6 settembre 2021. La rocambolesca iniziativa del tabaccaio di Napoli che secondo le accusa di una cliente le ha rubato il biglietto del Gratta e vinci da mezzo milione ed è fuggito riporta a galla il tema: come riscuotere felicemente la propria vincita? Risponde Stefano Saracchi, direttore dell'Ufficio giochi numerici e lotterie dell'agenzia delle Dogane e dei Monopoli di Stato: «La norma prevede semplicemente che il vincitore presenti il tagliando originale e integro, in modo da incassare il denaro al quale ha diritto. In questo caso abbiamo sospeso l'erogazione della vincita». 

Quindi il ladro non incasserà un euro. Come finirà?

«Sono stato costantemente in contatto con il comando dei carabinieri di Napoli incaricati di recuperare il biglietto e di fermare il dipendente della tabaccheria infedele. Ora sono fiducioso che la signora potrà recuperare il maltolto».

Ma se il biglietto non fosse ritrovato? Avrà perso la sua vincita?

«C'è un'altra strada. La signora può fare causa alla tabaccheria. Sporgendo denuncia arriverà a rivalersi sui proprietari del negozio, peraltro, al momento, senza problemi di liquidità». 

Provvedimenti da parte vostra nei confronti del tabaccaio in questione?

«Ieri sera (sabato 4 settembre, ndr ) ho firmato un provvedimento con il quale avviavo il procedimento di sospensione cautelare in attesa che l'autorità giudiziaria faccia chiarezza su ciò che è effettivamente accaduto. Non potrà più vendere "Gratta e vinci" né altri biglietti della lotteria e rischia di non poter più vendere anche i tabacchi». 

Una misura severa: l'avete adottata anche in altri casi?

«Sì. Ogni volta che viene meno il rapporto fiduciario tra lo Stato e il titolare della concessione quest' ultima viene revocata».

Il tabaccaio di Napoli potrebbe difendersi dicendo che non è stato lui ma un suo dipendente a impadronirsi del biglietto vincente...

«Tutte le persone che operano all'interno della ricevitoria sono affidate alla diretta responsabilità del titolare. Qui, dagli approfondimenti effettuati dai carabinieri, risulta che il soggetto fuggito con il tagliando era legato alla titolare da un rapporto di stretta parentela.

Inoltre quando la ricevitoria firma il contratto con i Monopoli si rende responsabile del suo "coadiutore", si chiama così. Insomma, chiunque sia il proprio dipendente è tenuto a garantire la correttezza del suo operato». 

Vi danneggiano casi del genere oppure no?

«Cose così si traducono in grossi svantaggi per l'erario. Il danno d'immagine inflitto alla categoria dei tabaccai può portare a un calo delle vendite dei biglietti con meno introiti per lo Stato».

Gratta e Vinci rubato, "il tagliando è mio"? Basta balle, per il tabaccaio-ladro si mette malissimo: la svolta in procura.  Libero Quotidiano il 06 settembre 2021. Un epilogo con pochi precedenti quello accaduto a Napoli. I Carabinieri hanno infatti eseguito il fermo disposto dalla Procura della Repubblica di Napoli nei confronti di Gaetano Scutellaro, il tabaccaio del quartiere Stella di Napoli che giovedì scorso avrebbe sottratto dalle mani di un dipendente il Gratta e Vinci da 500mila euro. Quest'ultimo, stando alle ricostruzioni, vinto da una signora anziana. Con quello in tasca Scutellaro si sarebbe dato alla fuga in sella al suo scooter. Salvo poi essere rintracciato domenica 5 settembre all’aeroporto di Fiumicino, a un passo dal salire su un aereo diretto a Tenerife, alle Canarie. Ai poliziotti di frontiera, che lo hanno incastrato grazie all’alert sulla sua identità, ha detto di voler sporgere denuncia nei confronti della stessa cliente, una 70enne, che, a suo dire, lo avrebbe accusato falsamente. Insomma, stando alla sua versione il biglietto vincente sarebbe del tabaccaio. Riconosciuto dagli agenti, è stato perquisito e denunciato per furto pluriaggravato e tentata estorsione ai danni della donna. Gli accertamenti effettuati nelle ore successive al fermo, hanno permesso di appurare che l’uomo, dopo essersi reso irreperibile in seguito alla sottrazione del tagliando vincente, si era rifugiato a Latina dove ha depositato il biglietto vincente in un noto istituto di credito, aprendo un conto corrente bancario a suo nome. Lo scopo era quello di depositare il Gratta e Vinci, ora sotto sequestro, e poterlo incassare successivamente. A confermare la ricostruzione lo stesso istituto bancario, informato dell’indagine in corso e diffidato a bloccare l’operatività del conto nell’attesa dell’emissione del provvedimento di sequestro. Scutellaro, afferma Repubblica, sarebbe ora in carcere.

Gratta e Vinci, tolta la licenza del tabaccaio-ladro: da quali accuse deve difendersi dopo l'arresto.  Libero Quotidiano il 06 settembre 2021. Scattata la misura di fermo per l’uomo che aveva provato a far perdere le proprie tracce dopo aver rubato il Gratta e Vinci da 500mila euro a una signora 70enne. Il tabaccaio-ladro è stato bloccato a Fiumicino dalla polizia di frontiera mentre cercava di imbarcarsi su un volo diretto alle Canarie. I carabinieri della compagnia di Napoli stella avevano potuto soltanto denunciarlo per furto in stato di libertà, una misura che gli avrebbe permesso di pianificare eventualmente una fuga. E allora nella giornata di oggi è scattato il provvedimento di fermo nei confronti del 57enne, che era incensurato prima di questo assurdo episodio. Il tabaccaio ora dovrà difendersi dalle accuse di furto pluriaggravato e di tentata estorsione ai danni dell’anziana, che era la vera proprietaria del biglietto da 500mila euro. Addirittura l’uomo aveva provato una mossa disperata: voleva sporgere denuncia nei confronti della signora, che a suo dire l’aveva accusato ingiustamente di averle sottratto il tagliando vincente. Quest’ultimo è stato recuperato in una filiale bancaria nella città di Latina. Dopo l’arresto dell’uomo, l’agenzia delle Dogane e dei Monopoli ha avviato il procedimento di sospensione dell’attività sia della ricevitoria che della stessa rivendita a causa del gesto del titolare: una decisione definitiva verrà poi presa una volta che le indagini avranno fatto il loro corso naturale.

Gratta e Vinci rubato, "bande napoletane specializzate in rapine nelle gioiellerie": la scoperta sul tabaccaio. Libero Quotidiano il 07 settembre 2021.Dopo essere stato intercettato a Fiumicino, dove voleva prendere un volo per le Canarie, il tabaccaio di Napoli Gaetano Scutellaro è stato fermato dalle forze dell'ordine con l'accusa di aver rubato un biglietto Gratta e Vinci da 500 mila euro a un'anziana signora. Intervistato da un giornale locale, Inews24.it, l'uomo ha dato la sua versione dei fatti. In particolare, ha sostenuto di essere il legittimo proprietario del tagliando che si è poi rivelato vincente. E non solo. Scutellaro ha detto anche che non lavora nella tabaccheria dove è avvenuta la vicenda, in via Materdei. La licenza d'esercizio sarebbe intestata a sua moglie, dalla quale sarebbe - a suo dire - separato. Poi ha aggiunto di non essere rimasto in buoni rapporti con i familiari. Ecco perché avrebbe mandato qualcun altro a comprare il Gratta e Vinci al posto suo. E poi avrebbe chiesto alla signora che adesso lo ha denunciato di riscuotere il denaro al posto suo. L'uomo, inoltre, pensava che il premio fosse di 500 euro e perciò credeva di poterlo ritirare in tabaccheria. Poi, informato dalla stessa signora che la cifra era un’altra, se ne sarebbe andato con il biglietto in tasca per depositarlo in una banca di Latina. Gli inquirenti, comunque, non avrebbero creduto affatto alla sua versione. Di certo nei prossimi giorni Scutellaro dovrà essere più convincente davanti al giudice. Tra l'altro, non si tratterà nemmeno del suo primo interrogatorio. In passato, come riporta il Corriere della Sera, è stato coinvolto in indagini su bande napoletane specializzate in rapine a diversi gioiellieri. Bande che agivano lontano da Napoli, soprattutto al Centro-Nord. Una di queste rapine si sarebbe anche conclusa tragicamente, con la morte della vittima. Certamente si tratta di faccende superate, visto che lui era un uomo libero. Ma potrebbero aiutare gli investigatori nelle indagini sul "tranquillo tabaccaio che ha perso improvvisamente la testa".

Melina Chiapparino per “il Mattino” il 7 settembre 2021. «Non ero con mio padre ma gli credo». Nelle parole di Simone Scutellaro, figlio del tabaccaio sottoposto a fermo per il furto di un gratta e vinci da mezzo milione di euro, non c'è solo la volontà di difendere il proprio genitore ma, in qualche modo, traspare anche l'intenzione di capire cosa sia realmente accaduto. «Non posso confermare che lui stesso abbia acquistato il biglietto vincente, come ha detto ma sicuramente c'è stato qualche errore» spiega il 23enne napoletano convinto che, nelle dichiarazioni rilasciate da Gaetano Scutellaro alla testata iNews24.it «ci sia della verità». Gaetano Scutellaro, si è difeso dall'accusa di aver sottratto il biglietto vincente a una 70enne del quartiere Materdei, rivendicando la propria titolarità sul tagliando da 500mila euro. Nel quartiere c'è chi immagina sia stato un colpo di follia, come se l'uomo fosse stato colto da un raptus all'idea di arricchirsi così tanto, molti altri invece si sono scatenati con insulti ed epiteti sulle pagine social dove l'uomo, in passato, ha pubblicato molte foto di viaggi, luoghi esotici e orologi di lusso al polso. «Il biglietto l'ho fatto comprare io da un mio conoscente il giorno prima, alla signora avevo chiesto soltanto di andare a riscuotere la vincita che credevo ammontasse soltanto a 500 euro» ha raccontato il 57enne al giornale online iNews24.it, specificando di essere l'ex marito della titolare della tabaccheria, come conferma il figlio. «Mio padre da anni, non ha più la licenza da tabaccaio che ha intestato a mia madre, da cui è separato - ha assicurato Simone a Il Mattino - lui non gestisce più alcun aspetto dell'attività commerciale che ha lasciato a noi figli». Per questi motivi, legati al venir meno dei buoni rapporti con la ex moglie, Gaetano Scutellaro ha sostenuto che, sabato scorso, non è entrato in tabaccheria. «Dopo aver grattato, mi ero accorto di una vincita, ma credevo ammontasse solo a 500 euro. Ho chiesto un piacere alla signora, se potesse ritirarla al posto mio» ha raccontato l'ex tabaccaio affermando che l'anziana tardava a uscire dal negozio. «Le ho chiesto cosa fosse successo e lei mi ha detto che bisognava andare in banca per ritirare la vincita. Mi sono fatto consegnare il tagliando e sono andato via» ha dichiarato a iNews24.it aggiungendo che «tutto è registrato dalle telecamere della tabaccheria». Anche sulla tappa a Latina e la successiva tentata fuga a Tenerife, l'uomo ha fornito una propria versione dei fatti alla testata online. «Il gratta e vinci l'ho portato in una banca a Latina perché lì ho una seconda casa, volevo allontanarmi il più possibile da Napoli e metterlo al sicuro» ha riferito Scutellaro giustificando la «vacanza a Tenerife per staccare dalla situazione stressante che si era creata». Nel raccontare la sua versione dei fatti, l'ex tabaccaio è andato avanti con sfrontatezza e una certa faccia tosta che ha conservato persino quando è stato raggiunto dai carabinieri per essere sottoposto al fermo, ieri pomeriggio. «Vi do' uno scoop veloce, mi hanno arrestato» ha detto il 57enne, contattato telefonicamente da Il Mattino, pochi istanti prima di essere isolato da ogni genere di comunicazione se non quella con il suo avvocato. Lo stesso tipo di atteggiamento, senza alcuna esitazione nel sostenere le proprie ragioni, lo aveva adottato per giustificare la fuga dal capoluogo campano. «Mi sono allontanato da Napoli per paura, non avevo nemmeno letto le notizie della denuncia della signora» aveva spiegato a iNews.24.it aggiungendo: «Non immaginavo che ci fosse un tale putiferio. Quando mi hanno detto della denuncia, sono stato io stesso ad andare all'ufficio della Guardia di Finanza all'aeroporto».

Giuseppe Crimaldi per “il Mattino” il 7 settembre 2021. È finita come in tanti immaginavano, con le manette. Si aprono le porte del carcere per Gaetano Scutellaro: ieri mattina i carabinieri lo hanno intercettato sull'autostrada Roma-Napoli - all'altezza di Teano - mentre rientrava a casa. Il 59enne indagato per la vicenda del Gratta e vinci da 500mila euro rubato ad un'anziana nel quartiere di Materdei è ora sottoposto a fermo in quanto indiziato dei delitti di furto pluriaggravato e tentata estorsione: avrebbe cioè tentato il classico cavallo di ritorno, minacciando l'anziana vittima di restituirle il biglietto solo in cambio di soldi. Accuse gravissime alle quali, ancora ieri attraverso un'intervista telefonica rilasciata ad un'agenzia di stampa online, l'uomo ha cercato di replicare arrampicandosi sugli specchi, continuando a insistere sul fatto che la vittima del furto non era la legittima titolare del tagliando, ma lui. Tanto tuonò che piovve. Ma sarà il caso di riepilogare le fasi cruciali della giornata di ieri, che sul piano investigativo hanno portato alla decisione da parte della Procura partenopea guidata da Giovanni Melillo di emettere il decreto di fermo a carico di Scutellaro. Di buon mattino i carabinieri del comando provinciale di Napoli si erano presentati nell'istituto di credito di Latina ove l'uomo aveva riferito di aver aperto un conto corrente e stipulato una polizza assicurativa. Questi dettagli Scutellaro li aveva riferiti agli agenti della Polaria di Fiumicino, gli stessi che lo avevano bloccato prima che si imbarcasse su un aereo diretto a Fuerteventura, isole Canarie. All'interno di una cassetta di sicurezza intestata a suo nome i militari hanno trovato il biglietto vincente: un titolo vuoto, ormai carta straccia visto che l'importo della vincita dei 500mila euro era stato bloccato dai Monopoli di Stato. Ma la vera svolta nel caso è stata segnata dalla decisione dei pm della Procura di Napoli, che già nella serata di domenica avevano acquisito elementi indiziari pesanti a carico del tabaccaio. Quali? Innanzitutto una documentazione visiva della dinamica dei fatti riferiti dalla vittima. Dalle telecamere interne ed esterne alla tabaccheria di via Materdei 36 sono arrivate conferme alla versione fornita dalla anziana derubata del biglietto. Ma nelle mani dei magistrati inquirenti (i sostituti Stella Castaldo, Enrica Parascandolo, Daniela Varrone e l'aggiunto Pierpaolo Filippelli) potrebbe esserci anche dell'altro: alcune intercettazioni telefoniche acquisite dagli investigatori che inchioderebbero Scutellaro alle sue responsabilità. All'uomo, assistito dall'avvocato Vincenzo Strazzullo, viene contestato anche il reato di tentata estorsione. Ed è presumibile, dunque, che l'indagato possa - successivamente al furto del Gratta e vinci - aver tentato di chiedere alla legittima proprietaria del titolo vincente somme di denaro in cambio della restituzione del biglietto stesso. Ma nella valutazione fatta dai magistrati che hanno firmato il decreto di fermo che ha portato Scutellaro in una cella del carcere di Santa Maria Capua Vetere ci sono anche altre due considerazioni determinanti. La prima è relativa ad un pericolo di fuga. L'ex marito della titolare della tabaccheria di via Materdei 36 aveva già tentato, sabato scorso, di imbarcarsi su un volo diretto in Spagna. Lo status di indagato per il reato di furto non avrebbe infatti impedito all'uomo di spostarsi e, magari, di ritentare una fuga. L'uomo è peraltro un pregiudicato. Nel suo poco trasparente passato figura essere stato condannato due volte, nel 1994 e nel 2004, per rapina. 

Leandro Del Gaudio per “Il Messaggero” l'8 settembre 2021. Quando ha capito la pasta di uomo che aveva di fronte, ha agito di riflesso. E si è improvvisato detective. In una manciata di secondi, ha chiuso il caso, grazie a un'applicazione del proprio smartphone. È il 4 settembre scorso - due giorni dopo il furto del tagliando di 500mila euro dalle mani della zia -, quando un giovane riesce a chiudere il caso che infiamma i vicoli di Materdei. Riesce a registrare la telefonata di Gaetano Scutellaro, il tabaccaio che ha sottratto il biglietto gratta e vinci da 500mila euro dalle mani di una donna inerme o comunque incapace di contrastarlo. Ed è questa registrazione fai da te che consente di spiccare il provvedimento di fermo, che tiene bloccato da due giorni in cella a Santa Maria Capua Vetere il commerciante mano lesta. Furto e tentata estorsione, dunque, inchiesta condotta dai pm Stella Castaldo, Enrica Parascandolo, Daniela Varone, con il coordinamento dell'aggiunto Sergio Ferrigno. Gli elementi a carico di Scutellaro sono diversi: c'è la telefonata registrata e il video del due settembre, grazie alla telecamera interna alla tabaccheria che dimostra - senza alcun margine di dubbio - che ad acquistare il gratta e vinci fortunato è stata la donna.

IL FERMO Stando alla lettura del fermo, l'uomo avrebbe fatto questo ragionamento: «Ho saputo che avete denunciato, ritirate la querela. Non ti preoccupare, troviamo una soluzione, dammi dei soldi, perché qui i soldi ci sono e sono tanti, alludendo al possesso del biglietto della fortuna». Il tutto condito da parole minacciose, che consentono alla Procura di Napoli di configurare un tentativo di estorsione, a mo' di cavallo di ritorno. C'è un altro punto che spinge gli inquirenti a chiedere il carcere per il commerciante. È il video ricavato dalla telecamera di sorveglianza della tabaccheria. Un video chiarissimo. Si nota la donna entrare una prima volta e acquistare un gratta e vinci, che risulta subito vincente. Importo basso, solo 10 euro. Non si arrende la signora. Ci riprova, acquista altri due tagliandi. Le immagini mostrano che la donna lascia la tabaccheria con i due biglietti. C'è un momento in cui la donna ha un sussulto, quando si accorge che la sua vita è cambiata all'improvviso, lì sotto le sue dita, grazie a quella sequenza magica costruita dalla Dea bendata. Non crede ai suoi occhi, ma il suo viso parla chiaro, dal momento che appena entra di nuovo nel locale ha un viso sorridente. Ha il biglietto con sé, un sorriso stampato sulle labbra, ma soprattutto ha tanta pazienza che prima non aveva. Attende che tutti gli altri avventori siano usciti dal negozio. Cerca discrezione, ha bisogno di confidarsi con l'uomo che le ha venduto il tagliando. È il momento clou: la donna mostra il ticket, abbassa un attimo la mascherina, tradisce un lampo di gioia nel viso. LA CONFERMA Pochi secondi ancora, il tempo di passare il biglietto sotto lo scanner, che c'è la conferma. Bingo. È fatta. Quel biglietto vale 500mila euro. Da quel momento però la donna non avrà più il tagliando. L'uomo alla cassa fa una telefonata. Chiama la moglie, che è la figlia di Scutellaro, mentre la donna prova a contattare il nipote, usando il suo cellulare. Di fatto, Scutellaro si materializza di lì a poco. Parcheggia lo scooter, entra in tabaccheria senza togliere il casco, si limita a prelevare il tagliando, prima di sibilare delle parole verso la signora: «Vado a vedere se è tutto a posto...». Monta sullo scooter e via. Passano i minuti, monta il nervosismo. La donna comprende di essere stata derubata. La Procura non ha dubbi: furto con destrezza, aggravato dalla minorata difesa e dall'ingente importo, ce n'è per far scattare le manette. Due giorni dopo, la telefonata estorsiva, che il nipote registra incastrando mano lesta. Leandro Del Gaudio

Gratta e Vinci, la mossa del legale: "Non in grado di intendere e di volere". Federico Garau il 7 Settembre 2021 su Il Giornale. Sarebbe in corso anche una accurata valutazione dello stato di salute mentale del 57enne. Nè il reato di furto nè quello di rapina sarebbero imputabili al tabaccaio accusato di aver sottratto il Gratta e vinci da 500mila euro all'anziana proprietaria del tagliando: questa è una delle motivazioni sulla base delle quali si sta muovendo ora il legale del presunto responsabile. L'avvocato Vincenzo Strazzulo ritiene inoltre altamente probabile, dal momento che già in altre occasioni il suo assistito era stato assolto perchè giudicato incapace di intendere e di volere, che Gaetano Scutellaro possa aver agito in un momento di scarsa lucidità. Ecco spiegato il motivo per il quale, come ha riferito ancora lo stesso legale alla stampa, sarebbero tuttora in corso delle accurate verifiche per valutare lo stato di salute mentale del 57enne. Dopo essere entrato in possesso del biglietto vincente, quest'ultimo aveva cercato di allontanarsi repentinamente dalla tabaccheria da lui gestita a bordo di uno scooter, riuscendo, tra l'altro, a far perdere le proprie tracce fino alla tarda serata dello scorso sabato. In seguito alla denuncia dell'anziana vittima, l'agenzia delle Dogane e dei Monopoli si era attivata per bloccare l'esigibilità della vincita, mentre i carabinieri avevano dato avvio alle ricerche del fuggitivo. Scutellaro era stato quindi rintracciato a Fiumicino, grazie alla segnalazione della polizia di Frontiera: la sua intenzione sarebbe stata quella di allontanarsi dal Paese, visto il possesso di un biglietto aereo per Fuerteventura, la seconda per grandezza delle isole Canarie. Anche questo, tuttavia, è un punto contestato dal legale di Gaetano Scutellaro.

La difesa dell'avvocato. "Sto effettuando dei controlli", ha dichiarato quest'ultimo, come riportato da Open. "In passato è stato assolto dall’autorità giudiziaria in un paio di occasioni perché ritenuto incapace di intendere e di volere". La ferrea volontà di lasciare il Paese del tabaccaio sarebbe, sempre secondo il legale, assolutamente contestabile: Scutellaro infatti, una volta giunto a Fiumicino, "si è recato dalla Polizia: una mossa stupida se l’obiettivo era fuggire dall’Italia". Sulla base di tale motivazione, quindi, l'avvocato Strazzulo ritiene eccessiva la misura cautelare del carcere imposta dagli inquirenti al suo cliente.

Gratta e vinci, il tabaccaio è in stato di fermo. Il tabaccaio dovrà difendersi in tribunale dalle accuse di furto pluriaggravato e di tentata estorsione ai danni della anziana, ma anche questo punto è contestato dal suo legale. "Il biglietto vincente è stato consegnato dalla signora nelle mani del mio cliente: nessuno glielo ha sottratto con destrezza e neppure con la forza", prosegue Strazzulo."Solo attraverso queste due modalità si sarebbero potuti configurare i reati di furto o rapina. Nutro dei dubbi anche in merito all’ipotesi di tentata estorsione formulata dai pm", conclude.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronaca.

Gratta e vinci rubato, la difesa di Scutellaro: “Ha problemi psichiatrici ma non si curava”. Viviana Lanza su Il Riformista il 10 Settembre 2021. Gaetano Scutellaro era già adeguatamente in cura oppure aveva bisogno di una terapia mirata per i suoi problemi di natura psichiatrica? Ruoterà attorno a questo interrogativo il futuro dell’inchiesta sul gratta e vinci rubato dal tabaccaio di Materdei e ritrovato nella cassetta di una banca a Latina dopo due giorni di ricerche. È il caso dell’anno, la storia di cronaca del momento. Ne parlano tutti, in tutto il mondo. E ieri si è arricchita di nuovi sviluppi. Il gip del tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha convalidato il fermo nei confronti di Gaetano Scutellaro, per il solo reato di furto e non per la tentata estorsione che pure è tra le ipotesi contestate dagli inquirenti. Gaetano Scutellaro, quindi, resta in cella. Al giudice aveva provato a fornire la sua versione dei fatti. «Ci troviamo di fronte a una persona che ha dei seri problemi psichiatrici – spiega l’avvocato Vincenzo Strazzullo, difensore del 57enne – Abbiamo consegnato al giudice la documentazione medica e i certificati che lo attestano e che dimostrano che non rispettava le cure che gli erano state prescritte». Ed è questo, a parere della difesa, il dettaglio che potrebbe fare la differenza e che sarà argomento del ricorso al tribunale del Riesame che il difensore è pronto a presentare. Il gip del Tribunale sammaritano ha lasciato in carcere Gaetano Scutellaro sulla base dei fatti e della considerazione sullo stato di salute mentale dell’indagato. Quanto ai fatti, lo stesso indagato non li ha negati, dicendosi pentito e rivolgendo le proprie scuse alla cliente derubata e alla sua famiglia finita nel tritacarne mediatico per via di questa vicenda. Quanto allo status di paziente psichiatrico, per il gip l’uomo era in cura e tanto vale, mentre per il difensore il 57enne non seguiva esattamente le prescrizioni dei medici e dunque è come se non seguisse alcuna cura. Intanto su questo caso dovrà intervenire a breve anche la burocrazia giudiziaria, per cui, entro i prossimi venti giorni, gli atti dovranno essere trasferiti all’autorità giudiziaria di Napoli e la misura cautelare dovrà essere replicata dal giudice territorialmente competente. Un passaggio formale, un prossimo step dell’iter giudiziario che ha ormai intrapreso la vicenda. Storia singolare, questa, forse più unica che rara. Gaetano Scutellaro, 57 anni, fugge con il gratta e vinci da mezzo milione di euro vinto da una delle abituali clienti della tabaccheria gestita dalla moglie di Gaetano, dalla quale l’uomo si sta separando. La cliente è una 70enne che il 2 settembre tenta la fortuna, acquista un biglietto, vince quanto basta per tentare con altri due biglietti. Gratta i numeri del primo e nulla, fa lo stesso con quelli del secondo biglietto e scopre di aver vinto 500mila euro. Stenta a crederci, chiede conferma a un dipendente della tabaccheria, poi anche a Gaetano S. L’uomo afferra il tagliando e si allontana. Fugge. Raggiunge Latina, lì apre un conto corrente in banca e vi deposita il gratta e vinci milionario. Poi si dirige all’aeroporto di Fiumicino con un biglietto aereo per Fuerteventura. Ma su quel volo non salirà perché viene fermato agli imbarchi. Sulle prime per lui scatta una denuncia a piede libero, il giorno dopo le manette. Ieri il fermo è stato convalidato. Scutellaro resta in carcere. Intanto da quasi una settimana tutto il mondo parla di lui. E anche della sua famiglia e di quella che nella ricostruzione accusatoria è la sua vittima. Nessuno dei protagonisti di questa storia vive più sonni tranquilli. L’anziana vincitrice ha dovuto lasciare la città, la famiglia del tabaccaio rischia di perdere la licenza.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Antonio Di Costanzo per repubblica.it il 7 settembre 2021. Se il suo piano di fuga fosse andato in porto, Gaetano Scutellaro, il tabaccaio scappato con il Gratta e vinci da 500 mila euro rubato a una cliente nella ricevitoria di Materdei, ora sarebbe su una spiaggia delle Canarie. Da ieri, invece, il 57 enne, con un passato complicato alle spalle, è rinchiuso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. I carabinieri l'hanno fermato sull'autostrada A1, all'altezza di Teano, e gli hanno notificato un decreto di fermo del sostituto procuratore Daniela Varone e del procuratore aggiunto Pierpaolo Filippelli. I reati ipotizzati nei suoi confronti sono furto pluriaggravato e tentata estorsione. Non si esclude, infatti, che l'uomo possa avere chiesto soldi in cambio della restituzione del tagliando vincente. Vittima un'anziana di 70 anni che venerdì sera si è vista sottrarre dall'uomo il biglietto vincente da mezzo milione. La donna quel Gratta e vinci lo aveva passato per farlo controllare prima al dipendente della ricevitoria, fidanzato della figlia di Scutellaro, e poi a quest'ultimo, dopo che sul monitor era comparsa l'avviso che la somma, a causa dell'importo, non poteva essere pagata dal punto scommesse. Il ragazzo, almeno così ha dichiarato in questi giorni ha passato il Gratta e Vinci al suocero che, pur non essendo titolare né socio dell'attività, era nel locale, affinché spiegasse cosa fare. Ma Scutellaro dopo aver preso tra le mani il Gratta e vinci è uscito fuori dalla tabaccheria, è saltato su un scooter ed è fuggito via. Le telecamere presenti nella ricevitoria confermerebbero questa sequenza. Quindi la fuga a Latina dove l'uomo ha una casa e poi il tentativo di imbarcarsi per Tenerife. Ma in aeroporto passando il documento sotto lo scanner è scattato l'allerta diramato in tutta Europa dai carabinieri che si erano messi sulle tracce del 57enne dopo la denuncia dell'anziana. A quel punto Scutellaro, assistito dall'avvocato Vincenzo Strazzullo del foro di Napoli, ha provato la mossa d'azzardo e si è presentato alla Polaria per dare una versione propria e per molti versi assurda: "Mi vogliono rubare il Gratta e vinci, devo denunciare una donna". Una versione riproposta in un'intervista concessa al sito iNews24 poche ore prima che fosse arrestato: "Il biglietto l'ho comprato io, volevo fuggire all'estero perché non mi sento sicuro a Napoli. Io non sono il tabaccaio, ma l'ex-marito della titolare. Il biglietto l'ho fatto comprare io da un mio conoscente il giorno prima, - afferma - alla signora avevo chiesto soltanto di andare a riscuotere la vincita che credevo ammontasse soltanto a 500 euro". Il fuggitivo ha ribadito di non avere nulla a che fare con la tabaccheria: "Io non ci entro in quella tabaccheria, perché non sono più in buoni rapporti" spiega. "Dopo aver grattato -continua Gaetano- mi ero accorto di una vincita, ma credevo ammontasse solo a 500 euro. Ho chiesto un piacere alla signora, se potesse ritirarla al posto mio". Quando però la donna, così come ricostruisce Scutellaro, ha tardato a uscire dalla rivendita con il denaro, lui si sarebbe avvicinato all'entrata col motorino: "Le ho chiesto cosa fosse successo e lei mi ha detto che bisognava andare in banca per ritirare la vincita. Mi sono fatto consegnare il tagliando e sono andato via. Questo è stato tutto registrato dalle telecamere della tabaccheria. Mi sono allontanato da Napoli per paura, non avevo nemmeno letto le notizie della denuncia della signora". Quindi Scutellaro, una volta nell'aeroporto internazionale "Leonardo da Vinci" si è presentato negli uffici della Polizia di Frontiera per denunciare la donna che, a suo dire, lo aveva accusato falsamente di avergli sottratto un tagliando vincente. Una versione non ritenuta credibile dai carabinieri e dalla Procura che ha emesso il decreto di fermo. Evidentemente gli inquirenti hanno ritenuto che ci fosse il rischio che l'uomo fuggisse, questa volta davvero, o che inquinasse le prove. I carabinieri hanno recuperato il Gratta e vinci da mezzo milione in una banca di Latina dove Scutellaro aveva aperto un conto corrente a suo nome. Chiaro l'obiettivo di farci confluire la vincita non appena le acque si fossero calmate. E emergono più particolari anche sulla personalità del commerciante. L'uomo è noto alle forze dell'ordine per vecchi rapine. Tra l'altro come conferma il suo avvocato fu coinvolto ma prosciolto per l'omicidio dell'imprenditore ternano Sergio Contessa, ucciso nel corso di una rapina il 7 luglio del 1989. Scutellaro da quanto filtrato è beneficiario di una pensione di invalidità. La notizia dell'arresto divide il quartiere. In molti difendono il commerciante, altri invece si schierano con la donna: "Le deve essere restituito il Gratta e vinci". E si annunciano tempi complicati per la moglie di Scutellaro (i due però sarebbero in fase di divorzio), titolare della ricevitoria. L'Adm (l'agenzia delle accise, dogane e monopoli) ha avviato la procedura per sospenderle la licenza, dal momento che il titolare risponde di tutto ciò che avviene dietro il bancone.

"Signora, sui soldi…": la telefonata che incastra il "tabaccaio". Gabriele Laganà il 9 Settembre 2021 su Il Giornale. Gaetano Scutellaro, il tabaccaio ora in carcere, per restituire il tagliando del Gratta e vinci aveva proposto all’anziana di dividere la vincita. Il nipote della donna, con una app sul telefono, ha registrato la telefonata. Non smette di regalare colpi di scena la vicenda del Gratta e vinci da 500mila che sarebbe stato rubato ad un’anziana da Gaetano Scutellaro, il tabaccaio napoletano di 57 anni che attualmente si trova nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Nelle ultime ore la posizione dell’uomo si era aggravata. La Procura di Napoli ha, infatti, contestato all’uomo anche la tentata estorsione in quanto il tabaccaio avrebbe proposto di restituire il biglietto vincente con la spartizione al 50% del premio in cambio del ritiro della denuncia. A incastrare Scutellaro è stato il nipote della vittima che ha registrato la telefonata. Il Gip di Santa Maria Capua Vetere, Rosaria Dello Stritto, ha convalidato il fermo dell’uomo solo per il reato di furto. Il giudice ha confermato nei suoi confronti la detenzione in carcere. Erano passati due giorni dalla sparizione del tagliando vincente quando Scutellaro ha contattato telefonicamente l'anziana. O meglio il nipote di quest’ultima in quanto la donna aveva chiesto al ragazzo di aiutarla in questa vicenda. Il giovane non si è tirato indietro di fronte alla richiesta della parente e ha fatto il possibile per cercare di venire a capo di una situazione piuttosto complessa. Il tabaccaio, appresa la notizia della denuncia da parte della cliente, ha provato a giungere un accordo con l’anziana. "Ho saputo che avete denunciato, ritirate la querela. Non ti preoccupare, troviamo una soluzione, dammi dei soldi, perché qui i soldi ci sono e sono tanti", ha spiegato Scutellaro al ragazzo, facendogli capire che il biglietto era nelle sue mani. "Comincia a far togliere la querela. Quando torno ci sentiamo", ha detto lo stesso fuggitivo, stando alle carte dell'inchiesta. A queste frasi si sarebbero aggiunte diverse parole minacciose. Si crede più forte, Scutellaro. Ma in realtà non lo è. La persona dall'altro lato del telefono non si perde d’animo. Registra tutto grazie ad una app sul cellulare. Il ragazzo, con grande freddezza, fa anche finta di voler assecondare le richieste del 57enne. "Basta che finisce questa storia. Tanto i soldi ci stanno, sono tanti", è la sua risposta. Se le parole non bastassero ecco che esiste un'altra prova che incastra il tabaccaio: si tratta del video registrato dalle telecamere di sicurezza della tabaccheria di via Materdei. Una scena chiarissima, secondo quanto trapela dalla Procura. Nel filmato si vede la donna entrare per acquistare un biglietto del Gratta e vinci. Un tagliando da 10 euro che riscuote subito. I soldi vengono reinvestiti con l’acquisto di altri due biglietti. L'anziana esce dalla tabaccheria ma, una volta all’esterno del negozio, guardando un tagliando ha una sorta di sussulto. La donna rientra nella tabaccheria, lascia passare avanti altri clienti e, quando rimane sola, mostra al ragazzo che gli ha venduto il biglietto vincente da 500mila euro. Questo, in sostanza, è l’ultimo istante in cui la donna ha in mano il tagliando fortunato. Nelle immagini si vede il biglietto che passa dall'uomo alla cassa a sua moglie (la figlia di Scutellaro). Nel frattempo l’anziana, felice per la vittoria, chiama il nipote al telefono per informarlo della splendida notizia. Poi accade l’impensabile. Improvvisamente in tabaccheria spunta Scutellaro. E qui la storia prende una strana piega. Il 57enne parcheggia lo scooter e senza togliersi il casco entra nel negozio, prende il tagliando e, rivolgendosi alla signora le spiega che andrà a controllare se tutto fosse a posto. Parole rassicuranti. La vincitrice si fida. Non sospetta delle reali intenzioni dell'uomo. Scutellaro, preso il biglietto, però sparisce. L'anziana rimane due ore in tabaccheria ad attenderlo. Tutto inutile. Del 57enne non c’era più traccia. Anche i familiari non sapevano dove fosse. E così l’anziana, temendo il peggio, non ha aspettato altro tempo ed è corsa a sporgere denuncia per furto. Intanto di fronte all'interrogatorio del gip non è escluso che il tabaccaio possa giocare la carta dell'infermità. "Non sappiamo ancora se risponderà o no. Lui piange e chiede scusa a tutti. È pentito. Ho visto un uomo prostrato", ha fatto sapere il suo avvocato, Vincenzo Strazzullo, dopo il colloquio avuto con il suo assistito. Ma la storia non finisce qui. Perché, come riposta l’Ansa, l'Agenzia dogane e monopoli ha avviato il procedimento di revoca "alla vendita delle scommesse" nei confronti della tabaccheria di via Materdei. "A causa del venir meno del rapporto fiduciario che è alla base del rapporto concessorio", ha comunicato ieri l'Agenzia, è stato "avviato il procedimento di revoca dell'autorizzazione alla vendita delle scommesse al punto vendita ubicato nella tabaccheria coinvolta nell'episodio del biglietto rubato". Sarà quindi immediata, spiega Agipronews, la sospensione del collegamento al sistema di raccolta a totalizzatore. I figli del 57enne sono pronti al ricorso. Ma prima faranno causa contro il padre. "Non vogliamo sapere niente della sua vicenda giudiziaria. Ha procurato un danno devastante alle nostre vite. Lui non si occupa della tabaccheria, siamo noi a gestirla, ma con questa vicenda ha scaricato solo su di noi le conseguenze di un gesto assurdo. Ma siamo pronti a tutelarci in ogni sede", hanno spiegato. Un sogno, quella vittoria, trasformato in un incubo per molti. Di sicuro tutti i protagonisti della vicenda sperano che la vicenda possa concludersi al più presto.

Gabriele Laganà. Sono nato nell'ormai lontano 2 aprile del 1981 a Napoli, città ricca di fascino e di contraddizioni. Del Sud, sì, ma da sempre amante dei Paesi del Nord Europa. Seguo gli eventi di politica e cronaca dall'Italia e dal mondo. Amo il calcio, ma tifo in modo appassionato solo per la Nazionale azzurra. Senza musica non potrei vivere. In tv non perdo i programmi che parlano di misteri e i film horror, specialmente del genere zombie. Perdono molte cose. Solo una no: il tradimento

Nino Materi per “il Giornale” il 9 settembre 2021. La storia è ridicola di suo. Quindi, inutile fare gli spiritosi. Città (Napoli), trama (sottrazione di un biglietto vincente al legittimo proprietario) e perfino i nomi dei protagonisti (il tabaccaio Gaetano Scutellaro e il suo valente avvocato, Vincenzo Strazzullo) sembrano usciti da una commedia di Eduardo. E non una commedia ipotetica, ma quella che De Filippo rappresentò per la prima volta nel 1940, dal titolo «Non ti pago». Una vicenda tragicomica centrata sulla cocciutaggine del titolare (Eduardo De Filippo, nella parte di Ferdinando Quagliuolo) di un «banco lotto» nel non voler pagare la vincita milionaria di una quaterna (numeri estratti: 1,2,3,4) al fortunato giocatore (Peppino De Filippo, nella parte di Procopio Bertolini). Eduardo pensava di narrare una vicenda paradossale, ma ora - 81 anni di distanza - la realtà si mostra più irragionevole della fantasia. Tutto merito del tabaccaio Scutellaro, che ha fatto meglio del «collega» Quagliuolo: Scutellaro si è infatti addirittura impossessato («per una verifica», sì, come no) del «Gratta e Vinci» da 500 mila acquistato da un'anziana in una giornata, per lei, decisamente di buona sorte; quindi è montato sullo scooter; poi ha depositato il biglietto «in banca» (ma da quando le banche accettano i «Gratta e Vinci»?); infine si è fiondato in aeroporto, sognando di atterrare a Fuerteventura. È invece planato in commissariato. Non pago infatti delle tante cavolate appena compiute, il geniale Scutellaro è finito tra le braccia della polizia, allertata dall'anziana (evidentemente stufatasi di attendere la «verifica» in tabaccheria). Sotto interrogatorio, il tabaccaio ha cercato di rivoltare la frittata: «Il biglietto è mio». Peccato che tutte le prove fossero invece contro di lui. Ma in quella fase il perspicace Scutellaro era ancora a piede libero, libertà che però il tabaccaio ha usato per telefonare alla signora proponendole un fifty-fifty: «250 mila euro a te e 250 mila a me». Conversazione registrata dal nipote della vittima dell'imbroglio. A questo punto è scattata l'accusa di tentata estorsione e con essa sono scattate le manette. Ora vistosi incastrato, il tabaccaio del «gratta e perdi» - attraverso il suo bravo difensore Vincenzo Strazzullo - ha deciso di giocarsi la carta dell'«incapacità di intendere e volere»: un «jolly» che va sempre bene, dalla strage più efferata fino alla stangata più sconclusionata. In attesa che il giudice decida oggi sulla «capacità psichica» dello Scutellaro e quindi sull'opportunità di tenerlo in carcere o di farlo curare da uno specialista in malattie mentali, il tabaccaio ha chiesto scusa a tutti: alla vittima turlupinata e alla propria famiglia (con cui - pare - i rapporti fossero già critici prima dell'ultima bravata, figuriamoci ora). Intanto l'avvocato Strazzullo si fa portavoce del disagio del suo cliente: «È confuso e addolorato. Molte cose non le ricorda. In passato ha avuto problemi di salute. Ora teme che, dopo il suo gesto, i suoi cari potrebbero girargli le spalle». La tabaccheria nel rione Mater Dei, teatro della farsa, resta intanto assediata da giornalisti e telecamere. Presto Scutellato potrebbe diventare una star del piccolo schermo. Certi salotti televisivi sono pronti a contenderselo. Per «vincere» negli ascolti, d'obbligo «grattare». Foss' anche il fondo del barile.

La Procura irrompe nella vicenda. Gratta e vinci rubato, il tabaccaio è stato fermato ma non la gogna per Napoli. Viviana Lanza su Il Riformista il 7 Settembre 2021. È da sabato che non si parla di altro. La notizia rimbalza dagli organi di informazione alle pagine dei social, ispirando vignette e commenti dall’ironia più varia. Certo, si tratta di una notizia che ha dell’incredibile. Che poteva accadere ovunque ed è accaduta a Napoli. E la città ne paga lo scotto, come sempre. La notizia riguarda il furto di un biglietto gratta e vinci del valore di 500mila euro e l’arresto del tabaccaio che lavora nella ricevitoria dove il biglietto è stato acquistato. Tra il furto e l’arresto ci sono stati due giorni di fuga scriteriata del tabaccaio e indiscrezioni sulla sua vita privata che sono finite sulle prime pagine dei giornali, assieme alle foto di lui in vacanza in Thailandia o al mare con il Rolex. Ieri la Procura di Napoli ha deciso di intervenire con un decreto di fermo. Il provvedimento è stato notificato nel primo pomeriggio a Gaetano S., 57 anni, il tabaccaio salito alla ribalta delle cronache degli ultimi giorni. Furto pluriaggravato e tentata estorsione ai danni della donna che aveva acquistato il biglietto vincente sono le accuse di cui dovrà rispondere. La sua posizione si è aggravata nelle ultime ore. Domenica mattina per Gaetano S. era scattata solo una denuncia, ieri c’è stato il fermo. Tra oggi e domani il giudice delle indagini preliminari deciderà se convalidarlo o meno. Gaetano S. rischia di finire in carcere o agli arresti per questa vicenda. Una storia cominciata venerdì quando, nella tabaccheria di via Materdei 36, una donna di 69 anni, tra l’altro abituale cliente, acquista un gratta e vinci e scopre di aver vinto mezzo milione di euro. Stenta a credere ai suoi occhi e chiede conferma prima a uno dei dipendenti della tabaccheria, poi a uno dei titolari. Quando Gaetano S. verifica al terminale che il biglietto è quello da 500mila euro, in un istante gli passano nella mente tutte le infinite possibilità di reazione: sceglie di tenersi stretto il biglietto fra le mani, indossare il casco e correre via dalla tabaccheria. Un gesto rapido e sbalorditivo. Gaetano S. comincia a fuggire in scooter macinando chilometri nella pia illusione di utilizzare quel mezzo milione di euro per cambiare la sua vita. Una lucida follia che lo spinge fino all’aeroporto di Fiumicino dopo una sosta a Latina per aprire un conto corrente e depositare in banca il gratta e vinci milionario. Intanto è domenica mattina e Gaetano S. è pronto a imbarcarsi su un aereo per le Canarie. Direzione Fuerteventura. Ha un biglietto last minute e chissà quali progetti per la testa. Lo fermano in aeroporto gli agenti della Polaria che in collaborazione con i carabinieri della compagnia Stella di Napoli, che coordinano le indagini, sono sulle sue tracce. Per Gaetano S. scatta la denuncia. Lui si difende lanciando a sua volta accuse nei confronti della cliente 69enne: «Il biglietto l’avevo fatto comprare io da un mio conoscente il giorno prima e alla signora avevo chiesto soltanto di andare a riscuotere la vincita che credevo ammontasse a 500 euro. Quando mi ha detto che bisognava andare in banca per ritirare i soldi, mi sono fatto consegnare il tagliando e sono andato via», sostiene Gaetano S, presentandosi negli uffici della polizia di frontiera per denunciare la donna. Ieri la posizione del 57enne è cambiata, si è aggravata e ora rischia una misura cautelare. Il gratta e vinci, intanto, è stato bloccato: l’Agenzia Accise Dogane e Monopoli fa sapere che per il momento non potrà essere riscosso e annuncia di valutare una procedura di sospensione della concessione rilasciata alla tabaccheria. Si vedrà. Molto dipenderà anche da ciò che emergerà dalle indagini. La vicenda ha ancora molti aspetti da chiarire. Intanto sul piano mediatico la gogna è scattata, rapida e puntuale. Anche la gogna sulla città di Napoli, perché è vero che poteva accadere ovunque ma il fatto che sia accaduto a Napoli è un dettaglio che non si perdona. E così via allo “Sputtanapoli”, via alla solita denigrazione della città. «E io la ribalto – commenta Domenico Ciruzzi, avvocato penalista, intellettuale e presidente della Fondazione Premio Napoli – Non entro nel merito della vicenda sulla quale ci sono indagini in corso e rispetto alla quale vale sempre la presunzione di innocenza, ma dico che questa è una città che vive milioni di complessità e contraddizioni, assoluta bellezza e un enorme carico di fantasia e di artisticità. Se ci porta ad avere le meraviglie di Venezia, tre straordinari film in concorso, Silvio Orlando, Toni Servilllo e Paolo Sorrentino, vorrà dire che sopporteremo anche il presunto tabaccaio che scappa con il gratta e vinci».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

"Come si chiama? Dove vive? E' possibile intervistarla?" Gratta e Vinci rubato, assalto con telecamere sotto casa della nonnina vincitrice: “E’ sotto pressione, è andata via”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 7 Settembre 2021. La sua ‘colpa‘ è stata quella di aver comprato un Gratta e Vinci rivelatosi poi fortunato. La donna di 70 anni è la vittima di tutta questa inquietante storia. Si è prima vista sottrarre il biglietto da 500mila euro dal proprietario del tabaccaio, dopo che aveva chiesto a un dipendente di verificare se la cifra vinta fosse proprio un milione delle vecchie lire. Poi, dopo aver sporto denuncia ai carabinieri e fatto partire le indagini, ha dovuto fare i conti con la ‘tangente‘ che avrebbe richiesto lo stesso Gaetano Scutellaro, 57 anni. Ha dovuto anche fare i conti con la curiosità ossessiva e morbosa dei suoi concittadini e, soprattutto, conoscenti che da giorni non parlano d’altro. Si è poi dovuta difendere dall’invadenza e dello sciacallaggio di molti media che, incuranti dello stato di choc vissuto dalla 70enne, hanno provato in tutti i modi a rintracciarla e intervistarla, avvicinando figli, parenti, amici e gente del quartiere, molti dei quali pronti a tutto per un po’ di visibilità.

Così la 70enne si è ritrovata nel pomeriggio di lunedì 6 settembre, quando non era stata ancora diffusa la notizia del fermo di Scutellaro, con le telecamere di trasmissioni televisive sotto la propria abitazione, pronte per collegamenti, servizi, dirette. Altro che privacy e tutele varie. Solo il provvidenziale intervento dei carabinieri ha fatto desistere gli avvoltoi di turno. Carabinieri tra l’altro tartassati in questi giorni da giornalisti sbucati all’improvviso da tutta Italia (e non solo) e a caccia dello scoop sensazionalistico. “Come si chiama la signora? Dove vive? E’ possibile intervistarla?”. Queste solo alcune delle singolari richieste arrivate nelle scorse ore a forze dell’ordine e residenti della zona. Adesso, dopo il caos e le tensioni degli ultimi giorni, sembrerebbe che la 70enne, stando ad alcune testimonianze dei residenti, abbia lasciato il suo quartiere di residenza, Materdei, trasferendosi momentaneamente altrove per ritrovare serenità e attendere l’evoluzione degli accertamenti sul biglietto vincente da lei acquistato. Troppa l’esposizione mediatica avuta in una vicenda unica nel suo genere. Mai si era infatti verificato un episodio analogo. Scutellaro è stato inoltre ‘scaricato’ dagli stessi familiari che temono ripercussioni sulla loro attività con la possibile sospensione della licenza. Sia la moglie, dalla quale si starebbe separando, che la figlia asseriscono di non averlo sentito in questi giorni. Dal canto suo il 57enne, dopo essere stato beccato all’aeroporto di Fiumicino prima di imbarcarsi su un volo per le isole Canarie, ha provato a ribaltare tutto, accusando la povera donna di essere una ladra (“Il gratta e vinci era mio, lei doveva solo ritirare la vincita”). Poi ha spiegato di non lavorare più nel tabacchi di famiglia, intestato da qualche tempo alla moglie. Quel giorno tuttavia era lì e, dopo aver ricevuto il tagliando dal dipendente e realizzato l’ingente vincita della 70enne, è scappato via in scooter. Il suo legale, Vincenzo Strazzullo, chiede di verificarne lo stato di salute mentale. “Sto effettuando dei controlli: in passato è stato assolto dall’autorità giudiziaria in un paio di occasioni perché ritenuto incapace di intendere e di volere“. Scutellaro adesso si trova nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) in attesa dalla convalida del fermo da parte del Gip. Lunedì è stato fermato all’altezza di Teano mentre in auto tornava verso Napoli. Adesso dovrà difendersi dall’accusa di furto pluriaggravato e di tentata estorsione. “Il biglietto vincente – sostiene l’avvocato Strazzullo – è stato consegnato dalla signora nelle mani del mio cliente. Nessuno glielo ha sottratto con destrezza e neppure con la forza. Solo attraverso queste due modalità si sarebbero potuti configurare i reati di furto o rapina. Nutro dei dubbi – conclude – anche in merito all’ipotesi di tentata estorsione formulata dai pm”. Dalle immagini delle telecamere visionate dai carabinieri e dall’autorità giudiziaria emergerebbe tutt’altro.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

L'ironia sulla vicenda di Napoli. L’incredibile storia del tabaccaio in fuga col Gratta e Vinci: i meme più divertenti sul caso. Vito Califano su Il Riformista il 7 Settembre 2021. È già nella storia il caso del cosiddetto “tabaccaio” che a Napoli è stato accusato di aver sottratto un Gratta e Vinci da 500mila euro a una donna. La vicenda si sta ingarbugliando, con l’uomo respinge le accuse, dice che il tagliando era suo, e la famiglia che prende le distanze; le indagini stanno prendendo comunque una piega ben precisa. L’uomo, dopo esser stato bloccato all’aeroporto di Fiumicino a Roma mentre cercava di imbarcarsi per Fuerteventura, è stato fermato e condotto in carcere a Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta. Il sostituto procuratore di Napoli, Daniela Varone, e il procuratore aggiunto, Pierpaolo Filippelli, hanno emesso un decreto di fermo ipotizzando nei suoi confronti i reati di furto pluriaggravato e di tentata estorsione ai danni della donna. Il legale di Scutellaro Vincenzo Strazzullo: “In passato è stato assolto dall’autorità giudiziaria in un paio di occasioni perché ritenuto incapace di intendere e di volere”. Il biglietto vincente è stato intanto recuperato. Da quando la vicenda, che si è verificata nella mattina di venerdì 3 settembre nel Rione Materdei, è emersa è diventata un vero e proprio caso. È già tutta un romanzo, e infatti in molti si sono lanciati in parallelismi con opere letterarie e cinematografiche. Che questo sia successo proprio nella città de “La Smorfia” rende tutto ancora più incredibile. Le dichiarazioni, e anche le speculazioni, si sprecano in queste ore. Prima che la verità giudiziaria possa essere stabilita, a impreziosire ulteriormente tutta la vicenda la creatività e l’ironia degli utenti che come sempre si sono dilettati a creare meme sul caso del “tabaccaio fuggito con il Gratta e Vinci da 500mila euro”. Ne abbiamo raccolti di seguito alcuni tra i più divertenti: si va da Forrest Gump alla medaglia d’oro nei 100m e nei 400m in staffetta Marcell Jacobs, da Forrest Gump a Il Signore degli Anelli, da La Casa di Carta a Cormac McCarthy (i credit sono spesso indicati, e qualora non dovessero essere esplicitati ci scusiamo con gli autori dichiarandoci disponibili a rettificare).

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Giuseppe Crimaldi per "il Mattino" il 23 settembre 2021. A Napoli ieri sera c'è qualcuno che ha festeggiato brindando alla fortuna e a un mucchio di soldi piovuti dal cielo all'improvviso. Dopo settimane di passione e di tensione, l'anziana che incrociò la dea bendata in una tabaccheria di Materdei può finalmente incassare i 500mila euro della vincita al Gratta e vinci che le venne sottratto da un uomo poi finito in carcere. La conferma è arrivata ieri alla diretta interessata, e prima ancora al concessionario delle lotterie nazionali dopo che il direttore dell'Agenzia delle dogane e monopoli lo ha informato che le indagini svolte dalla Procura della Repubblica di Napoli non lasciano dubbi in ordine alla riconducibilità di quanto in sequestro. A darne notizia è stato il telegiornale di La7 con un servizio andato in onda nell'edizione serale delle 20. 

FINE DELL'INCUBO Un incubo, quello vissuto dalla donna che con cinque euro era riuscita a moltiplicare per centomila la vincita, cominciato all'inizio di settembre e che per settimane ha fatto palpitare la signora derubata dal 57enne Gaetano Scutellaro, ex marito della titolare di una tabaccheria di via Materdei. L'uomo, dopo essersi impossessato con l'inganno del prezioso tagliando, si era dileguato facendo perdere ogni traccia, prima di essere intercettato dalla polizia di frontiera all'aeroporto di Fiumicino, dove tentava di imbarcarsi su un volo per le isole Canarie. Ieri il direttore dell'ADM Minenna ha fatto recuperare - sulla base delle evidenze investigative svolte dai carabinieri coordinati dalla Procura di Napoli - il biglietto vincente che era ancora custodito in una filiale della Banca Intesa di Latina: in una cassetta di sicurezza scelta dallo stesso Scutellaro durante la fuga da Napoli. E nella email mostrata (assieme al biglietto superfortunato) sempre da «La7» si legge ancora che «è stata pertanto disposta la restituzione del tagliando in analisi a favore della persona offesa». 

LA PROCEDURA Dunque, gran lieto fine. Mancano ancora solo alcuni dettagli finali per completare la pratica di accredito dei 500mila euro alla signora di Materdei. Nelle prossime ore, infatti, si riunirà a Roma la commissione di esperti che dovrà espletare le ultime formalità sul tagliando dissequestrato, verificandone la integrità e validità. Subito dopo dall'amministrazione dell'Agenzia delle dogane e monopoli potrà finalmente partire il lauto bonifico sul conto corrente della legittima proprietaria. 

VICENDA TORMENTATA Il caso del Gratta e vinci rubato, degno della trama di una commedia scritta da Eduardo de Filippo, Non ti pago, ha fatto il giro d'Italia e d'Europa; scatenando - inutile dire - la fantasia tutta napoletana degli appassionati del gioco, e in particolare del gioco del lotto. Una vicenda che sulle prime era apparsa contorta e ingarbugliata, ma che grazie alle indagini dei carabinieri si è riusciti a ricostruire. Anche grazie alla tempestiva denuncia della vittima, alla visione delle telecamere di videosorveglianza interne alla tabaccheria e alla prontezza di riflessi di un nipote della signora derubata del titolo di gioco: il quale avrebbe registrato una telefonata fatta da Scutellaro alla anziana nella quale le prometteva la restituzione del biglietto in cambio di una fetta della vincita. Comportamenti costati molto cari al 57enne: l'uomo è stato infatti arrestato con accuse pesanti, furto pluriaggravato e tentata estorsione (quest' ultima contestazione è caduta in sede di convalida dell'arresto da parte del gip).

FESTA GRANDE E bene ha fatto la signora, in tutto questo periodo di tribolazione, a rimanere dietro le quinte. Sebbene nel quartiere di Materdei sia conosciuta da moltissime persone, la donna ha lasciato il suo domicilio per garantirsi la massima privacy. Il che, da ieri sera, non le impedirà certo di festeggiare la fine di un incubo e l'arrivo della sospirata vincita.

Grazia Longo per "la Stampa" il 24 settembre 2021. «La prossima settimana la signora Anna (nome di fantasia) compirà 70 anni. Non poteva arrivarle regalo più bello di questo: la possibilità di incassare la vincita dei 500 mila euro. Sono contenta per lei, perché è una brava persona e non meritava di essere derubata da quel delinquente di tabaccaio. Del resto è cosa nota che Anna sia una gran giocatrice, insisti insisti alla fine ha vinto per davvero». Nel palazzo dove abita la donna che si è aggiudicata mezzo milione di euro con un gratta e vinci che le è poi stato sottratto da Gaetano Scutellaro, 57 anni, ora in carcere per furto e tentata estorsione, c'è un tripudio di felicità. Il motivo è semplice: dopo il dissequestro disposto dalla procura di Napoli, il direttore generale dell'agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli ha incaricato il dirigente dell'Ufficio Giochi numerici e Lotterie, di recarsi nella caserma dei carabinieri di Latina per acquisire formalmente il tagliando all'amministrazione e contestualmente autorizzare il concessionario Lotterie Nazionali Srl per il pagamento del premio. Anna, zia Anna come la chiamano gli abitanti del quartiere popolare poco più su di Materdei, dove si trova la tabaccheria in cui è stato venduto il biglietto vincente, abita al primo piano di una palazzina di cinque. Non si è mai sposata e vive con il fratello che si guadagna da vivere come idraulico. Lei lavora come domestica a ore. E si vede che le tabaccherie sono nel suo karma: pulisce l'appartamento del proprietario della tabaccheria vicino casa sua. Anche qui ha comprato diversi Gratta e vinci, ma poiché il proprietario l'aveva un po' affettuosamente rimproverata di spendere troppi soldi lei si è spinta un po' più giù fino a quella di via Materdei. «La passione del gioco l'ha ereditata da sua madre che ora, pace all'anima sua, non c'è più - racconta il titolare di un negozio dove Anna fa solitamente la spesa -. Ma più che il super Enalotto, le piacciono i grattini. Già in passato ha vinto piccole sommette, ma roba da poco. Stavolta invece ha sbancato!». Un altro commerciante spiega che «zia Anna ha tanti parenti: sono 9 fratelli fra maschi e femmine, e ha pure un mucchio di nipoti. I soldi li dividerà con loro? Se così fosse, alla fine le rimarrà ben poco, come dice un proverbio napoletano: «"ti entra ricchezza e sparte povertà", nel senso che le arriva la ricchezza dei soldi che però deve dividere tra i parenti e così alla fine è povera come prima». Certo qui si sprecano le previsioni e le scommesse su come utilizzerà il mezzo milione di euro. «Magari si compra l'alloggio dove vive perché sta in affitto - azzarda un pensionato -. O magari la smette con le pulizie. Stamattina l'ho incontrata mentre usciva per andare a lavorare. Avevo sentito al telegiornale che può incassare i soldi e le ho chiesto se è contenta "Certo che sono contenta, quei soldi mi spettano perché li ho vinti io" m' ha riposto e nulla di più. È una donna di poche parole, cammina sempre in fretta presa dai suoi impegni e scambia appena poche battute con chi incontra per strada». Scutellaro dopo il furto si era recato in una banca di Latina dove aveva depositato il tagliando, poi aveva raggiunto l'aeroporto di Fiumicino con un biglietto aereo per le Canarie. Ma è stato prima denunciato dalla polizia, poi rintracciato sull'A1 dai carabinieri e infine arrestato. Dopo due giorni di carcere si è dichiarato pentito. Il suo difensore, l'avvocato Vincenzo Strazzullo, ha spiegato che «al momento del furto non riusciva a ragionare». La storia, per la sua originalità, ha conquistato l'attenzione di giornali e tv. E sono cominciate anche a circolare fake news. La più bella è sicuramente quella in cui Anna avrebbe raccontato di essersi insospettita di fronte al tabaccaio ladro quando lui le avrebbe detto «Esco un attimo a comprare le sigarette». Ma al netto delle battute false, questa storia ha certamente la sceneggiatura degna di un film di Totò.

Gratta e Vinci, le regole per riscuotere le vincite (e cosa fare in caso di furto del biglietto). Diana Cavalcoli su Il Corriere della Sera il 6 settembre 2021. Gratta e Vinci, dalla vincita alla riscossione: cosa sapere. Dopo il caso del tabaccaio di Napoli scappato con un Gratta e Vinci da 500 mila euro, sono diversi gli utenti e i giocatori d’Italia che si chiedono come evitare situazioni simili e ridurre i rischi in caso di vincita. Il Corriere della sera ha rivolto alcune domande all’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli (Adm) per fare chiarezza sulla questione e far conoscere le regole da seguire in caso di vincita fortunata.

Cosa fare quando si vince?

Nel caso in cui si vinca per sapere cosa fare bisogna guardare all’importo. Dice Stefano Saracchi, dirigente dell’ufficio giochi numerici e lotterie: «È possibile identificare una prima soglia di 500 euro come netto spartiacque per le procedure che il giocatore deve seguire per il reclamo ed il ritiro della vincita». Nei casi in cui il premio vinto fosse sotto tale soglia, il giocatore dovrà richiedere, presso qualsiasi punto vendita italiano autorizzato, la riscossione immediata della vincita.

«Sopra tale soglia e fino a 10 mila euro, il giocatore dovrà presentare il biglietto presso un qualsiasi punto vendita autorizzato per richiedere la prenotazione del pagamento della vincita», aggiunge. Sopra la soglia dei 10 mila invece sarà necessario presentare il biglietto all’ufficio premi del Concessionario o, in alternativa, presentandolo presso uno sportello di Intesa Sanpaolo che provvederà all’avvio delle procedure di reclamo.

Cosa succede se si subisce il furto del biglietto?

Il caso di Napoli però insegna che i furti sono rari ma possibili. La regola nel caso in cui un biglietto vincente sia stato rubato è presentare tempestiva denuncia presso le Autorità competenti. «I regolamenti in vigore — dice Saracchi — prevedono che l’Agenzia possa autorizzare i pagamenti dei tagliandi risultati vincenti solo se presentati in originale. Pertanto, nel momento in cui si dovesse presentare apposita denuncia di furto, è necessario sia il rinvenimento del biglietto sia che l’Autorità Giudiziaria possa accertare la legittima proprietà del tagliando in capo a chi ne reclama la titolarità». Se il biglietto non si trova l’unica possibilità è il contenzioso legale con tanto di eventuali richieste di risarcimento danni in capo al soggetto che ha commesso il furto.

Cosa succede se ci sono dubbi sulla proprietà del biglietto vincente?

Ma come si decide di chi è il biglietto? «Le norme e i regolamenti di settore — sottolinea Saracchi — prevedono che chi presenti il tagliando vincente sia il legittimo titolare, salve le regole della rappresentanza. Questo accade tutte le volte in cui non risultasse agli atti alcun tipo di diversa dichiarazione da parte di terzi come ad esempio una denuncia o un esposto. In quest’ultimo caso si presume la titolarità in capo a chi ha presentato il tagliando ma tale presunzione trova il limite dell’accertamento dei fatti in giudizio». Prima di allora la situazione viene congelata e l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli blocca temporaneamente la vincita come nel caso di Napoli. «L’Autorità Giudiziaria può sospendere il pagamento a favore di chi ne reclama la vincita in attesa della conclusione delle indagini», aggiunge. 

I numeri. Per l’Agenzia il caso di Napoli e in generale il furto di un biglietto vincente sono eventi rari. É più facile che i cittadini si dimentichino di riscuotere le vincite . Dal 2017 ad agosto 2021, secondo dati dell’Agenzia, non sono stati riscossi oltre 500 milioni di euro. Nel dettaglio 502.455.754 di euro dalle lotterie istantanee. Che rappresentano l’1,56% del totale complessivo vinto che vale oltre 32 miliardi di euro.

L'errore da non fare col Gratta e Vinci e come difendersi dai furti. Alessandro Ferro il 7 Settembre 2021 su Il Giornale. Il caso di Napoli fa correre ai ripari: cosa bisogna fare quando si vincono determinate somme di denaro ma, soprattutto, se il tagliando viene rubato. Dopo la vicenda del Gratta e vinci che ha visto protagonista il titolare di una tabaccheria di Napoli che ha rubato un biglietto vincente da 500mila euro ad un'anziana signora e tutto quello che ne è seguito, gli italiani saranno più "attenti" quando capiterà sotto mano un'altra vincita.

Le regole per riscuotere la somma. Stefano Saracchi, dirigente dell’ufficio giochi numerici e lotterie, al Corriere della Sera ha spiegato quali sono le procedure quando si vince. "È possibile identificare una prima soglia di 500 euro come netto spartiacque per le procedure che il giocatore deve seguire per il reclamo ed il ritiro della vincita", afferma. Se si tratta di una somma inferiore, il giocatore può riscuotere il denaro immediatamente e presso qualsiasi punto vendita italiano, non necessariamente quello in cui è stato acquistato il biglietto. Invece, se la cifra comincia a diventare importante ed arrivo fino a 10mila euro, "il giocatore dovrà presentare il biglietto presso un qualsiasi punto vendita autorizzato per richiedere la prenotazione del pagamento della vincita", aggiunge. Sopra la soglia dei 10 mila invece sarà necessario, invece, presentare il biglietto all’ufficio premi del Concessionario o, in alternativa, presentandolo presso uno sportello di Intesa Sanpaolo che provvederà all’avvio delle procedure di reclamo.

Cosa succede se il Gratta e vinci viene rubato. Nei casi come quello di cui ci siamo occupati, e cioé del furto del biglietto, bisogna denunciare immediatamente l'accaduto presso le Autorità competenti. "I regolamenti in vigore - dice Saracchi - prevedono che l’Agenzia possa autorizzare i pagamenti dei tagliandi risultati vincenti solo se presentati in originale. Pertanto, nel momento in cui si dovesse presentare apposita denuncia di furto, è necessario sia il rinvenimento del biglietto sia che l’Autorità Giudiziaria possa accertare la legittima proprietà del tagliando in capo a chi ne reclama la titolarità". Se il biglietto non si trova, l’unica possibilità rimane il contenzioso legale con tanto di eventuali richieste di risarcimento danni in capo al soggetto che ha commesso il furto.

I dubbi sulla titolarità. È un problema che non dovrebbe esistere ma può capitare che ci sia un problema sulla titolarità del possessore del biglietto: la norma prevede che chi presenti il tagliando vincente sia il legittimo titolare tutte le volte in cui non risultasse agli atti alcun tipo di diversa dichiarazione da parte di terzi come ad esempio una denuncia o un esposto. "In quest’ultimo caso si presume la titolarità in capo a chi ha presentato il tagliando ma tale presunzione trova il limite dell’accertamento dei fatti in giudizio". Prima di definirlo, quindi, la situazione viene congelata e l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli blocca temporaneamente la vincita come nel caso di Napoli. "L’Autorità Giudiziaria può sospendere il pagamento a favore di chi ne reclama la vincita in attesa della conclusione delle indagini", aggiunge. Comunque, per fortuna, nonostante il caso di Napoli, il furto di un biglietto vincente fa parte degli eventi rari: l'Agenzia fa sapere che è più facile che i cittadini si dimentichino di riscuotere le vincite . Dal 2017 ad agosto 2021, secondo i dati dell’Agenzia, non sono stati riscossi oltre 500 milioni di euro (esattamente 502.455.754 di euro dalle lotterie istantanee), in pratica l’1,56% del totale complessivo vinto che vale oltre 32 miliardi di euro.

Il dossier Openpolis. Rifiuti, Napoli spende più di tutti ma resta una discarica. Francesca Sabella su Il Riformista il 2 Settembre 2021. Tra le cinque grandi città italiane al voto, Napoli è quasi quella che spende di più per la gestione dei rifiuti. Verrebbe da pensare a “Napule è ‘na carta sporca” di Pino Daniele come a un periodo buio e oramai lontano dal presente della città. Invece Napoli è ancora una “carta sporca” perché, se è vero che Palazzo San Giacomo spende 223,82 euro pro capite per lo smaltimento dei rifiuti, cioè poco meno di Roma e Torino che ne sborsano rispettivamente 273 e 230, è altrettanto vero che questo sforzo economico non si traduce in una città pulita, con un sistema di gestione dei rifiuti degno della terza città d’Italia. Anzi, Napoli appare perennemente sporca. A chiudere la classifica stilata da Openpolis ci sono Milano (con 207 euro pro capite) e Bologna (con 206) che spendono di meno ma senza dubbio con più criterio. A Napoli la questione rifiuti è un nodo gordiano che negli anni è stato allentato o stretto ma mai sciolto, fino a far considerare cassonetti stracolmi di sacchetti e spazzatura buttata qui e là come parte dell’arredo urbano. Spendere molto non vuol dire spendere bene e i numeri sulla quantità di rifiuti urbani raccolti lo confermano: nel 2018, a Napoli, sono stati raccolti 581,10 chilogrammi di immondizia per abitante, mentre nello stesso anno ne sono state prodotte addirittura 505mila tonnellate. Senza dimenticare che in Campania si paga la tassa sui rifiuti più alta di tutto il Paese: 421 euro in media all’anno, circa 120 in più rispetto al resto degli italiani, per ricevere un “servizio fantasma”. E non va meglio quando guardiamo l’andamento della raccolta differenziata. Se Milano e Bologna riescono a differenziare più del 50% dei rifiuti e Torino e Roma più del 40, Napoli riesce non va oltre la soglia del 36, occupando così l’ultimo posto della classifica a grande distanza dai numeri imposti dalla legge, che chiede di differenziare almeno il 65% dei rifiuti prodotti, e dalle promesse del sindaco uscente. Proprio la raccolta differenziata e l’emergenza rifiuti, infatti, furono lo slogan preferito dall’attuale primo cittadino di Napoli Luigi de Magistris che, nella campagna elettorale del 2011, prometteva che la città avrebbe raggiunto in pochi mesi il lusinghiero obiettivo del 70% di raccolta differenziata. Tutto ciò con il contributo offerto dalla costruzione di tre impianti di compostaggio. Ebbene, dopo dieci anni, la realtà è ben lontana dalle aspettative create dal sindaco e dei tre impianti nemmeno l’ombra. La faccenda dei rifiuti pare voler incontrare il destino di Dema fino all’ultimo giorno del suo mandato da sindaco. E così il primo cittadino, che prometteva di liberare Napoli dalla munnezza, è riuscito a liberare solo il lungomare: migliaia di strade e piazze della città sono ancora ostaggio dell’immondizia. Seppur impegnato a seguire il sogno della presidenza della Calabria e a preparare le valigie per lasciare Palazzo San Giacomo, de Magistris ha trovato il tempo per aiutare Roma, sommersa dai rifiuti. Pochi giorni fa i napoletani il sindaco ha accolto la richiesta di emergenza di Ama, l’azienda che gestisce i rifiuti a Roma, impegnandosi a ricevere 150 tonnellate di immondizia dalla Capitale dal 4 ottobre al 31 dicembre. «Non ci sarà alcuna ricaduta di efficienza nel trattamento dei rifiuti sui nostri territori che hanno ovviamente l’assoluta priorità», ha assicurato Dema che si è subito giustificato spiegando che «accogliere la richiesta di Roma è un atto istituzionale doveroso e giusto per scongiurare una crisi gravissima sui rifiuti». La decisione di far arrivare altri rifiuti in una città già allo stremo non è piaciuta neanche ai candidati sindaci di Napoli, non proprio entusiasti all’idea di dover cominciare il mandato alla guida di Palazzo San Giacomo con l’ulteriore incombenza legata ai rifiuti provenienti da Roma. Ecco perché gli aspiranti sindaci hanno criticato duramente la decisione di Dema. A questo punto e a pochi giorni dalla presentazione dei programmi per la città – fatta eccezione per Gaetano Manfredi che ha già consegnato il suo documento – tocca agli aspiranti sindaci mettere in campo una proposta seria e concreta per liberare Napoli dai rifiuti e dalla demagogia che l’hanno sfregiata dal 2011 a oggi.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Il dramma a Caserta, fermato 19enne napoletano: ha confessato. “Perché lo hai fatto?” e poi la coltellata, Gennaro morto dissanguato: fermato coetaneo. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 29 Agosto 2021. “Perché mi guardi così? Perché lo hai fatto?”. Sarebbero state queste le parole rivolte da Gennaro Leone, 18 anni, al suo assassino nel corso di una banale lite nata, poco prima della mezzanotte, da uno spintone involontario tra i baretti del centro di Caserta, affollati di giovani sabato 28 agosto. Dalle parole di Gennaro (“Che vuoi da me?”), il giovane è passato direttamente ai fatti, estraendo un coltello e scagliando un fendente all’altezza della gamba destra. Doveva essere solo uno sfregio, una punizione per lavare col sangue “l’affronto” ricevuto in via Giambattista Vico, uno dei vicoli della movida casertana dove i ragazzi si ritrovano soprattutto nel weekend. Invece la coltellata ha reciso l’arteria femorale del 18enne, promessa del pugilato casertana, morto dissanguato tre ore dopo l’arrivo all’ospedale Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta. I carabinieri di Caserta, guidati dal capitano Pietro Tribuzi, hanno lavorato senza sosta, raccogliendo le testimonianze delle persone presenti al momento della lite e visionando le immagini delle telecamere di videosorveglianza presenti nella zona.

Fermato 19enne del Napoletano: ha confessato. Il coetaneo che ha accoltellato e ucciso il 18enne è stato raggiunto nel pomeriggio di domenica da un decreto di fermo, disposto dalla procura di Santa Maria Capua Vetere. Si tratta un 19enne di Caivano, incensurato, identificato grazie alle testimonianze raccolte. Il giovane, sotto choc, durante l’interrogatorio ha confessato. Dopo l’arresto, è stato trasferito nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Dopo la tragedia, il prefetto di Caserta Raffaele Ruberto ha convocato per lunedì 30 agosto alle 11 un comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica sulla movida violenta. Nelle scorse settimane sono avvenute diverse risse nel centro di Caserta con giovani ragazzi feriti, tanto che il sindaco Carlo Marino aveva emesso un’ordinanza anti-alcol, che non ha però sortito l’effetto sperato anche perché i controlli non sono sempre all’altezza della situazione. Intanto sono numerosi i messaggi di cordoglio e di vicinanza alla famiglia del 18enne, originario di San Marco Evangelista. “Che la terra ti sia lieve, piccolo Campione”. E’ il messaggio di condoglianze del mondo del pugilato. Con un tweet della federazione, il mondo pugilistico “Nazionale si stringe attorno alla famiglia Leone alla ASD Energy Boxe Caserta per la scomparsa di Gennaro”, nel giro delle giovanili della Nazionale azzurra di pugilato. “Riposa in pace, Campione”.

Il sindaco: “Famiglia perbene, sconvolti”. “Siamo sconvolti”. Queste le parole pronunciate dal sindaco di San Marco Evangelista Gabriele Cicala commenta la tragedia ed è vicino al dolore della famiglia. Il padre del 18enne è un ufficiale dell’Aeronautica Militare mentre la madre è imprenditrice. “Conosco la mamma di Gennaro – ha spiegato Cicala – Non ho avuto ancora la forza di chiamarla. E’ una tragedia straziante. Purtroppo ormai accadono troppo spesso risse durante i fine settimana, soprattutto nei Capoluoghi che sono un po’ il polo di attrazione per i comuni circostanti. Sta diventando una triste abitudine e trovo preoccupante, da genitore di due ragazzi, che ci siano giovani che girino in strada con un coltello in tasca. Mi spaventa. Quella di Gennaro è una tragedia che ha sconvolto la comunità di San Marco e siamo vicini ai familiari in questo momento di grande dolore”.

Il comitato: “Nostre denunce inascoltate, la politica se ne frega”. Durissime le parole di Rosi Di Costanzo, presidente del Comitato di Vivibilità Cittadina, che da tempo denuncia la presenza di giovani armati di coltello in giro per le strade. Sono stati chiesti controlli, sia dal comitato sia dagli stessi commercianti, ma nulla. Il nostro Comitato “Vivibilità cittadina Caserta” oggi è in lutto. Sono anni che ci battiamo, inascoltati, per una Vivibilità migliore.  Quante denunce, quante Pec, quante suppliche all’amministrazione pro tempore affinché si progettasse sicurezza per i giovani. Si, i giovani, i nostri figli, quelli che ci chiedono di uscire, quelli ai quali non sappiamo più dire no, quelli che amiamo, quelli che vorremmo proteggere, quelli per cui chiediamo aiuto alle Istituzioni che non se ne fregano”. “Siamo in lutto per Gennaro e per la sua famiglia” prosegue Di Costanzo. “A lui dovevamo offrire di meglio, ma non siamo stati capaci. Ieri sera, da madre che ama i propri figli, ho pregato il mio, 21enne, di non andare in centro. Mentre lo dicevo mi sentivo sconfitta, ma l’egoismo di pensare a mio figlio era più forte. Solo 7 giorni fa, inviavo un messaggio al Sindaco raccontandogli di un episodio accaduto all’altro mio figlio 28enne, molestato con il coltello alle 1.30 in via Sant’Agostino da un gruppo di 18enni. Il giorno dopo avevo fatto un post, con la foto di un coltello a serramanico, e qualche commerciante mi tacciava di essere fuorviante, vista la foto in evidenza del coltello. Mio figlio era stato minacciato proprio con un coltello a serramanico, e lui sa riconoscerlo. Mi sarei aspettata, da un esercente solidarietà, non critica, mi sarei aspettata aiuto per combattere il problema, non opposizione”. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Anarchia totale nel centro di Napoli. Si arrampica sul palazzo dell’Università e cade nel vuoto: “E’ la piazza delle scimmie, lo fanno spesso”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 29 Agosto 2021. Poteva finire in tragedia come nel giugno del 2016, quando un ragazzo di 23 anni, Emmanuele Pirozzi, si arrampicò lungo l’obelisco di piazza San Domenico Maggiore a Napoli per poi precipitare nel vuoto per circa una decina di metri e perdere drammaticamente la vita. Cinque anni dopo, nel centro storico del capoluogo partenopeo è andata in scena un’altra follia: sono da poco passate le 21 quando in largo San Giovanni Maggiore Pignatelli (conosciuta anche come piazza Kestè dal nome del locale presente da decenni), nei pressi dell’università l’Orientale di Napoli, un ragazzo si arrampica sul portale in pietra dell’università. Sale per qualche metro, incitato dai presenti che anziché fermarlo o posizionarsi di sotto per attutire l’eventuale caduta, girano un video, commentano ad alta voce il gesto pericoloso del giovane (“Qui si sta perdendo la testa”). Galvanizzato, il ragazzo prosegue, prima di perdere l’equilibrio e cadere nel vuoto per circa tre metri. Una caduta accompagnata dalle urla delle persone presenti. Il protagonista perde i sensi, poi si riprende in attesa dell’arrivo dell’ambulanza. Il lavoro dei sanitari viene però ostacolato dalla fiumana di gente che sabato 28 agosto ha invaso il centro storico di Napoli. Il ragazzo, non senza difficoltà, viene caricato in ambulanza e portato all’ospedale Fatebenefratelli dove i medici hanno riscontrato ferite lievi al polso e alla caviglia. Poco dopo il video della sua impresa è stato caricato sui social diventando virale nel giro di poche ore. Numerose le denunce dei comitati di vivibilità cittadina, dei residenti e dei gestori dei locali che da tempo lamentano l’assoluta anarchia che regna in alcune strade della movida della città. Dure le parole di Francesco Caliendo, proprietario del Kestè: “Stanotte un ragazzo ha rischiato di morire in piazza. Sono realmente sotto shock. Sono anni che denunciamo e lavoriamo per un decumano del mare e una piazza diversi. L’amministrazione è responsabile? Le forze dell’ordine? E la politica che da 30 anni taglia fondi a cultura e giovani? E noi che assecondiamo tutto questo? A volte mi manca la forza per continuare”. Anche i residenti si scagliano contro episodio del genere “che sempre più spesso si ripetono. E’ diventata la piazza delle scimmie, si arrampicano ovunque. Lo fanno per gioco ma non sono consapevoli dei rischi che corrono”. “Il filmato che abbiamo pubblicato ieri sera, sulla nostra pagina Facebook, del ragazzo che è caduto al suolo mentre si arrampicava sul portone di un palazzo storico della piazza dell’Orientale, nel pieno centro storico di Napoli, mostra un episodio che purtroppo non è isolato” commenta l’avvocato Gennaro Esposito del Comitato Vivibilità Cittadina. “Nella medesima piazza, infatti, nei giorni scorsi si sono visti ragazzi che per divertirsi, in piena notte, si arrampicavano sui lampioni della luce. Speriamo che il ragazzo non si sia fatto troppo male. Abbiamo la urgente necessità che questi episodi non accadano mai più, poiché potremmo assistere di nuovo al ripetersi di morti assurde, come quella del giovane Emmanuele che qualche anno fa cadde dall’obelisco di piazza san Domenico Maggiore”. “Ormai sono anni che denunciamo che le notti del divertimento napoletano e non solo napoletano sono sempre più accompagnate da fiumi di superalcolici mischiati con sostanze psicotrope di vario genere e natura. Tanta la cocaina e l’erba che si spaccia e si consuma accompagnata da quantità impressionati di alcol testimoniate dai tappeti di bottiglie che rinveniamo il giorno dopo i quotidiani bagordi”. Poi l’appello alle forze dell’ordine: “E’ evidente che occorrono più controlli e presidi. Le Istituzioni devono capire che, se la notte deve essere viva, allora occorre anche un maggiore contingente di Forze dell’Ordine a presidio dei luoghi della movida in uno a politiche di sensibilizzazione sugli effetti dell’alcol e delle droghe specialmente sui più giovani. Purtroppo stamane il Presidente del Comitato Vivibilità Cittadina di Caserta, la Prof. Rosi Di Costanzo ci ha comunicato che nella notte appena trascorsa ha perso la vita un giovane appena diciottenne a seguito di un accoltellamento avvenuto in una strada della movida casertana. Manifestiamo la nostra solidarietà ai familiari della vittima per questa inaccettabile morte ma non ci arrendiamo continueremo a denunciare ed ad opporci a questi fenomeni di degrado sociale e cittadino le Istituzioni devono ascoltarci”. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Patrizio Mannu per il "Corriere della Sera" il 4 agosto 2021. Derby politico in piena regola in casa Maradona, su fronti opposti zio e nipote. Hugo, fratello del Pibe, è sceso in campo con il centrodestra per un posto in consiglio comunale a Napoli. Capolista in Napoli Capitale, associazione politica guidata da Enzo Rivellini (uno che viene da An e oggi è con Giorgia Meloni), a sostegno della corsa a sindaco di Catello Maresca. Sul fronte opposto, quello del centrosinistra, Diego Armando jr., da qualche giorno allenatore del Napoli United, squadra di extracomunitari e rifugiati, sotto l'egida di Gesco, holding del terzo settore, il cui patron Sergio D'Angelo ha scelto, da candidato sindaco, di fare un passo indietro e appoggiare Gaetano Manfredi, ex rettore ed ex ministro (ma fervente juventino), in corsa sotto con Pd e M5S. Diego jr. si sta spendendo molto nella campagna elettorale di Manfredi, condividendone ideali e obiettivi. Che ovviamente non sono quelli di Hugo; nipote e zio, divisi in una Guerra dei Roses in salsa napoletana. Ieri a Napoli per Hugo è stata la prima uscita pubblica accanto a Maresca. «Da tempo - ha detto - sono impegnato a sostegno di bambini e ragazzi e voglio aiutarli come faceva Diego. Vorrei provare a garantire loro l'accesso allo sport». Già, il fratello Diego. Chissà cosa direbbe oggi della scelta di Hugo, lui che - a chi gli chiedeva il perché di quel tatuaggio di Che Guevara sul braccio - spiegava: «Io sono sinistro, tutto sinistro: di piede, di fede, di cervello».

Antonio E. Piedimonte per "La Stampa" il 4 agosto 2021. Fuor di metafora, è una campagna elettorale di stampo decisamente calcistico quella che sta divampando all'ombra del Vesuvio. Dopo il tackle (da cartellino) assestato a inizio partita ai danni del candidato sindaco del centrosinistra - additato al pubblico sdegno in quanto di fede juventina - la coalizione di centrodestra continua il suo pressing a tutto campo: ieri mattina, dinanzi allo stadio, è stato presentato un candidato al Consiglio comunale il cui solo nome tocca i cuori azzurri: Hugo Hernán Maradona, detto «El Turco», il molto umano fratello della più nota delle divinità calcistiche planetarie. Meno vivace l'altro versante, dove sino ad ora ci si è limitati a qualche incerto contropiede, come le foto dell'aspirante primo cittadino Gaetano Manfredi sotto uno dei poster-altarini dedicati al Pibe de oro. E poi un guizzo al limite dell'area che avrebbe potuto avere interessanti sviluppi: l'abboccamento con un altro Maradona, Diego junior, pare per inserirlo nella lista di Sergio D'Angelo (leader delle coop Gesco nonché ex assessore con De Magistris), che ha poi scelto di ritirarsi per aderire allo schieramento guidato dall'ex rettore ed ex ministro. Un Maradona per parte? Alla fine Junior ha declinato, ma non senza confermare le sue simpatie per il raggruppamento più lontano possibile dalle derive antimeridionali della Lega. Insomma, proprio come il leggendario babbo, amico personale di Fidel Castro, anche il giovane Diego penderebbe a sinistra. Inevitabile sollevare la delicata questione allo zio Hugo, il quale però non la prende affatto bene e piuttosto che citare Gaber (che cos'è la destra? che cos' è la sinistra?) minaccia di interrompere immediatamente l'intervista a La Stampa. A salvarci sono i buoni uffici della gentile consorte, la signora Paola, con la quale l'ex calciatore argentino (venne a giocare in Italia nel 1987) vive da diversi anni a Monte di Procida, ameno paesino dei Campi Flegrei. «Mi sono già arrabbiato per questo - ribadisce "El turco" cercando di contenersi -, queste domande non mi piacciono, io non sono né di destra né di sinistra. E comunque io sono Hugo e Diego era Diego, ognuno col suo pensiero e con le sue posizioni». Lei si è mai occupato di politica? «No. Mi hanno detto che c'è la possibilità di continuare a fare quello che faccio da anni, cioè aiutare i bambini e il calcio, tutto qua. Io non sono un politico e non voglio fare il politico». Tuttavia se fosse eletto si troverebbe costretto a occuparsi di politica, non crede? «Non credo. Io mi occupo di calcio basta. E continuerei a fare quello. E ora devo andare», replica Hugo. Restano quei bambini che lui, sia per i trascorsi familiari sia come docente nelle scuole calcio, conosce bene: «Voglio fare qualcosa per i tanti ragazzi in difficoltà. In troppi qui hanno poche alternative alla strada. E come se non bastasse sono due anni che siamo fermi per colpa del Covid...». La famiglia è importante - fu Diego a convincere Corrado Ferlaino ad acquistare il cartellino del fratellino per 400 milioni di lire - e la generosità è nel dna, quello che però manca all'appello è un requisito fondamentale: la cittadinanza italiana. Dettaglio che sottoponiamo all'attenzione dello stratega dell'«operazione Maradona», l'ex eurodeputato Enzo Rivellini, anima della lista «Napoli Capitale»: «Hugo è in Italia da quarant'anni, da cinque è sposato con un'italiana, ha due figli italiani, e ha fatto la domanda diversi anni fa, si tratta di un problema burocratico. E per questo i nostri legali hanno presentato un decreto d'urgenza». Non nuovo a iniziative provocatorie (come mettere una maglia della Juve alla statua di Garibaldi), Rivellini chiarisce: «Non è una candidatura blindata come quelle che abbiamo visto in passato da più parti, se vorranno votare Hugo lo faranno, altrimenti continuerà a fare la sua vita». Rimane quello che è stato definito «sfruttamento indebito dell'altrui popolarità», o anche «effetto allodola», ma il candidato sindaco Catello Maresca non si fa avviluppare dalle polemiche: «Noi non sfruttiamo il nome di nessuno. Siamo aperti a tutte le risorse», dice il magistrato, rimettendo la palla al centro.

Intervista a Paolo Cirino Pomicino: “Napoli condannata all’immobilismo dai partiti”. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 3 Agosto 2021. «Nei decenni passati la politica ha avviato e realizzato decine di progetti strategici per Napoli. È stato possibile perché i partiti avevano identità, cultura e visione. Oggi non è così ed è per questo che prevedo un futuro difficile per la città, a meno che il prossimo sindaco non sia adeguatamente sostenuto dalle forze di governo». Ne è convinto Paolo Cirino Pomicino, per decenni tra i politici napoletani più influenti e oggi presidente della società che gestisce la Tangenziale.

Onorevole, il suo è un duro atto di accusa nei confronti dei partiti…

«La loro inconsistenza culturale è sotto gli occhi di tutti così come la loro crisi d’identità. Se agli esponenti di ciascun partito chiedessimo “scusa, ma tu chi sei politicamente?”, nessuno sarebbe in grado di dare una risposta convincente. L’azzeramento delle radici culturali ha trasformato i partiti in comitati elettorali e la prova lampante sono le liste “alla carlona” che stanno nascendo a Napoli proprio in questi giorni. L’unica eccezione potrebbe essere Azzurri per Napoli che nel simbolo indica un’identità popolare e liberale».

Tutto ciò quali conseguenze ha avuto su Napoli?

«L’ha ridotta in uno stato comatoso. Napoli è viva, ma non vitale. Il Comune è ormai destrutturato e non ha la benché minima visione della città. A tutto ciò si sommano mali antichi come la mancanza di lavoro, la marginalizzazione di intere fasce sociali, la criminalità. E la politica si è completamente sfarinata: possibile che nessun partito abbia avuto il coraggio di candidare a sindaco un proprio dirigente? Lo dico soprattutto al Partito democratico: perché il segretario metropolitano Marco Sarracino e il presidente Paolo Mancuso non corrono per Palazzo San Giacomo? Come si può guidare Napoli se non si ha il coraggio di sottoporsi al vaglio popolare?»

In compenso, però, questa campagna elettorale è stata caratterizzata da un forte richiamo al civismo: è un bene?

«Il civismo è una virtù in aggiunta alla politica, non se la sostituisce. La prospettiva è quella di vedere più di venti liste, tra centrodestra e centrosinistra, sulla scheda elettorale. Vuol dire che il prossimo sindaco si troverà in un Consiglio comunale dal quale la politica rischia di essere espulsa e nel quale trionferà l’istituto del negozio, cioè della contrattazione su ogni singolo provvedimento da votare, come sta accadendo da un po’ di tempo a questa parte».

Secondo lei non c’era alternativa?

«Certo che sì. Ma i partiti avrebbero dovuto avere un sussulto di dignità e candidare i propri dirigenti, mentre gli aspiranti sindaci avrebbero dovuto dire no alle liste civiche».

Prevede un futuro difficile per Napoli, quindi…

«Purtroppo sì. Spero che Gaetano Manfredi, al quale auguro di essere eletto sindaco, sia debitamente sostenuto dalle forze di governo. In passato i sindaci erano assistiti dai gruppi parlamentari che reperivano le risorse necessarie per realizzare progetti strategici. Così, a Napoli, sono nati il Centro direzionale, la metropolitana, la tangenziale, il palazzo di giustizia».

Chiaro il suo endorsement per Manfredi. Come giudica gli altri aspiranti sindaci?

«Antonio Bassolino è un antico avversario, ma le sue qualità politiche e amministrative sono indiscutibili. Catello Maresca deve dare ancora prova di sé perché non basta una sola esperienza giovanile da consigliere comunale per amministrare una città complessa come Napoli. La sua candidatura nasce da ciò che ho appena detto, cioè dalla crisi dei partiti e dall’inconsistenza delle classi dirigenti».

A prescindere dal nome, da che cosa dovrà cominciare il prossimo sindaco?

«Da tante cose. Da tempo, per esempio, Napoli ha una sola arteria di collegamento da Est a Ovest, cioè la tangenziale. In passato suggerimmo la realizzazione di un sottopasso da piazza Sannazaro a piazza Municipio. La proposta è rimasta lettera morta, mentre il lungomare liberato si è trasformato in un paesotto. Il risultato è che basta anche un piccolo intervento sulla tangenziale per paralizzare la città. A ciò si aggiungono una metropolitana che dopo decenni attende ancora di essere ultimata. Eppure la mobilità è un elemento essenziale per tutte le città e per Napoli in particolare».

In passato lei è stato tra i proponenti di Neonapoli, il progetto finalizzato a fermare il degrado civile ed economico della città: lo ritiene ancora attuale?

«Certo che lo è. Basta guardarsi intorno per comprenderlo. Per Bagnoli sono stati sprecati centinaia di milioni di euro, ma il rilancio dell’area è ancora lontano. La società Tangenziale ha proposto la realizzazione di una serie di svincoli per rendere più fluido il traffico, ma dal Comune sono arrivati soltanto rifiuti, senza dimenticare il mancato potenziamento dei collegamenti assicurati dalla Circumvesuviana e della tratta Napoli-Nola. E poi c’è il Centro direzionale: poteva essere un grande centro di attrazione, invece è diventato un’occasione sprecata e un simbolo di degrado. E andrà sempre così se i partiti non recupereranno l’identità, la cultura e la visione indispensabili per governare la comunità».

Quindi come se ne esce?

«In Europa governano quattro culture politiche: socialismo, popolarismo, liberalismo ed ecologismo. I partiti italiani devono identificarsi in una di queste culture e agire di conseguenza. Sarebbe un bene per l’Italia, a cominciare da Napoli».

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

Le disparità sono la morte della capitale del Mezzogiorno. Napoli tra élite e plebe: un’ora per volare a Milano, due da Secondigliano a piazza del Plebiscito. Vincenzo Strino su Il Riformista il 27 Luglio 2021. Ho seguito la polemica sollevata dal candidato sindaco di centrodestra Catello Maresca sulle parole usate da Berardo Impegno per incentivare la presenza del suo Partito democratico in una Napoli dilaniata dalle disuguaglianze e, da abitante di una delle periferie più bistrattate della storia di Napoli, mi permetto di spiegare perché, quella del candidato sindaco del centrodestra, è una querelle sbagliata. A Impegno, che in un’intervista ha descritto una Napoli ancora drammaticamente divisa tra élite e plebe, Maresca ha risposto: «Noi pensavamo che la sinistra fosse ferma a 30 anni fa. Oggi scopriamo che è ferma a 300 anni fa. Questa divisione “élite – plebe” è ridicola». Faccio una premessa necessaria: non sono un tesserato del Pd né ho mai conosciuto di persona Impegno. Certo, conosco la sua storia politica come conosco quella da magistrato di Maresca, tutto qui. Provengo da una zona della città che presenta un tasso di evasione scolastica quasi quattro volte superiore alla media europea, un livello di disoccupazione che in certi casi arriva al 50% e che, durante lo scorso mese di aprile, ha visto quartieri come Miano e Secondigliano come i territori con più casi di contagiati dal Covid nell’intera Campania. Gli echi del risorgimento bassoliniano e della rivoluzione arancione, dalle mie parti, non li ha mai uditi nessuno. L’unico prodotto della politica che ha avuto un effetto positivo è il reddito di cittadinanza, grazie al quale centinaia di famiglie sono state sottratte al giogo della camorra e hanno potuto cominciare a guardare al futuro con più serenità. Di fronte a questo scenario, l’invito di Impegno nei confronti del suo Pd e del candidato sindaco di centrosinistra Gaetano Manfredi a intervenire in modo tempestivo per rimediare alle enormi disparità che limitano e affossano gran parte della città, mi sembra più che corretto. Anzi, mi appare come la più sensata delle analisi politiche. E chi sostiene il contrario lo fa in malafede. Voglio dire, è forse sbagliato sostenere che un bambino di Secondigliano ha meno possibilità di laurearsi rispetto a uno del Vomero? La risposta è no. E lo dico da secondiglianese laureato, con una maturità classica ottenuta in un liceo del centro storico distante un’ora e mezza da casa. Anche di fronte al problema del trasporto pubblico, per esempio, invece di cercare la polemica facile mi piacerebbe leggere di possibili soluzioni. Non è paradossale che chi, come me, proviene dalla VII municipalità (Miano, San Pietro a Patierno e Secondigliano) possa arrivare in un’ora a Milano prendendo un aereo (Capodichino è all’80% proprio sul territorio della VII) e poi impiegare quasi due ore per raggiungere piazza del Plebiscito con i mezzi pubblici? Questo è lo scandalo per me. Su questo sì che siamo tantissimi anni indietro ad altre città d’Italia (non dico d’Europa, altrimenti finisco preda della tristezza). Ed è evidente che la spaccatura tra una città che è sopravvissuta decentemente a dieci anni di amministrazione de Magistris e un’altra che già prima doveva arrangiarsi come poteva, non solo lavorativamente, non è una provocazione di Impegno, ma un mero e tristissimo dato di fatto su cui tutti non solo dovrebbero ragionare, ma lavorare come mai è stato fatto fino a oggi.

Vincenzo Strino. *scrittore e presidente del Laboratorio di riscossa secondiglianese (Larsec)

Il processo sull'edificio di Salerno. De Luca assolto anche in Appello nel processo Crescent, crollano ancora le accuse della Procura. Redazione su Il Riformista il 23 Luglio 2021. Vincenzo De Luca è stato assolto anche nel processo d’Appello per l’inchiesta riguardante presunte irregolarità nella realizzazione del Crescent, un complesso architettonico a forma di mezzaluna realizzato a Salerno dall’architetto catalano Ricardo Bofill, dove domina piazza della Libertà. Il presidente della Regione Campania, accusato di abuso d’ufficio, falso e lottizzazione abusiva, si è visto quindi confermare la sentenza di primo grado, mentre la Procura generale aveva chiesto per il governatore ed ex sindaco di Salerno una condanna a 18 mesi. Un secondo flop dunque per l’accusa, che ha visto confermare l’assoluzione non solo per De Luca ma anche per gli altri imputati, esattamente come in primo grado, vedendosi respinta la richiesta di sequestro dell’area dove è stato realizzato il Crescent, una delle opere simbolo del potere di De Luca nella città. Un processo iniziato il 23 dicembre 2014 e durato 57 udienze, fino alla sentenza di primo grado del settembre 2018. Altre 22 invece le udienze tenute per il processo d’Appello. Nell’aula bunker del Tribunale di Salerno sono arrivate le assoluzioni anche per Lorenzo Criscuolo, Davide Pelosio, Matteo Basile, Anna Maria Affanni, Giovanni Villani, Eugenio Rainone, Eva Avossa, Gerardo Calabrese, Luca Cascone, Luciano Conforti, Domenico De Maio, Augusto De Pascale, Ermanno Guerra, Aniello Fiore, Vincenzo Maraio, Franco Picarone, Nicola Massimo Gentile, Bianca De Roberto e Rocco Chechile. Per quindici imputati è intervenuta la prescrizione per l’abuso d’ufficio mentre per De Luca è andato prescritto il reato di falso relativamente a un atto che riguarda la lottizzazione.

L’avvocato Andrea Castaldo, legale di Vincenzo De Luca, si è detto “estremamente soddisfatto” per l’esito del processo che “ha confermato quanto noi abbiamo sempre detto e, cioè, la legittimità dell’operato del sindaco e della Giunta, la mancanza di un interesse privato e viceversa un interesse pubblico che è stato realizzato grazie anche alla spinta propulsiva del sindaco De Luca e che ha permesso un’opera che ha comunque rappresentato un segno nel panorama edilizio e urbanistico e nel rilancio della città”, ha spiegato all’Agi. Dello stesso avviso l’altro legale di De Luca, l’avvocato Paolo Carbone, che ha rimarcato come “c’era assolutamente niente in questo processo. È nato male, è stato condotto in primo grado con grande maestria da un tribunale responsabile e colto”. La sentenza di primo grado del tribunale di Salerno era stata appellata, tra gli altri, dal pm e dalle parti civili. Le motivazioni della sentenza saranno pubblicate entro novanta giorni. Redazione

Il gioco delle tre scimmiette. Camorra e omertà, omicidi "fantasma" a Napoli: “Non abbiamo visto e sentito niente”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 25 Giugno 2021. “Non vedere il male, non sentire il male, non parlare del male”. A terra c’è un morto ammazzato in pieno giorno mentre era in sella su uno scooter e finiva di mangiare uno snack. Intorno però i residenti e le persone presenti in via Teano, nel rione San Gaetano a Miano, periferia nord di Napoli dove da circa due anni è in corso una guerra tra due gruppi per raccogliere l’eredità malavitosa del clan Lo Russo (decapitato da arresti e, soprattutto, pentimenti eccellenti), fanno il gioco delle tre scimmiette. Nessuno ha sentito e visto nulla. Nessuno riesce a fornire ai carabinieri qualche dettaglio utile su un omicidio avvenuto intorno alle 11 di mattina di giovedì 24 giugno. Ad entrare in azione probabilmente un commando di due killer in sella a uno scooter di grossa cilindrata. Due le ‘botte‘ esplose, una ha centrato alla zona cervicale la vittima designata, Antonio Avolio, 30enne tornato libero da circa un anno dopo aver scontato una condanna per estorsione (anche lui faceva parte del clan Lo Russo). Sono le 11 del mattino e ci sono più di 35 gradi a Miano, in strada c’è gente, a terra c’è il cadavere di Avolio coperto in parte dello scooter, c’è una chiazza bella grossa di sangue. A 100 metri dal luogo dell’omicidio ci sono i carabinieri della stazione di Secondigliano impegnati in una operazione di sgombero di alcune case occupate. I militari sentono gli spari e si precipitano subito in via Teano. Qui inizia lo spettacolo surreale. Lacrime e disperazione dei familiari di Avolio da una parte, omertà totale dall’altra. “Avete sentito gli spari?” chiedono i carabinieri della Compagnia Stella ad alcune persone presenti nella zona, comprese quelle che si trovano nelle attività commerciali. “Non abbiamo sentito niente” il ritornello che in alcune aree di Napoli è diventato di dominio pubblico. Se da una parte si registra una escalation criminale preoccupante, che sta interessando l’intera città di Napoli, dal centro storico (Quartieri Spagnoli) alle periferie nord (Scampia, Miano, Piscinola), est (Ponticelli, Barra, San Giovanni) e ovest (Pianura, Fuorigrotta e Rione Traiano), dall’altra diventa sempre più difficile per le forze dell’ordine operare in alcune zone di periferie dove lo Stato non è ben accetto anche perché latitante da anni.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Da blitzquotidiano.it il 19 giugno 2021. A Napoli una scena surreale, come in un film: rubano un’ambulanza per soccorrere un parente, poi vengono identificati e bloccati grazie alle immagini della videosorveglianza. La storia ma reale è quella successa nel quartiere di San Giovanni a Teduccio. Un familiare sta male, così i parenti chiamano il 118, ma poi decidono di non attendere l’arrivo dell’ambulanza. Si recano nella sede della Croce Rossa. Lì, mentre uno attende, fuori, in sella a uno scooter, l’altro entra di soppiatto e costringe i dipendenti a farsi consegnare un’ambulanza. L’uomo, secondo il racconto del presidente della Croce Rossa di Napoli, Paolo Monorchio, che era presente, dopo essersi introdotto furtivamente negli uffici ha inveito contro il personale, con minacce e percosse, costringendo un dipendente a consegnargli le chiavi di un’ambulanza. L’uomo si è messo alla guida e si è allontanato. Seguito dal complice in scooter. Quando però sono arrivati in via Marina dei Gigli, dove avevano lasciato il congiunto che si era sentito male, questi era stato già prelevato dal 118 e soccorso. A questo punto hanno pensato di abbandonare l’ambulanza e di fuggire. Entrambi sono stati poi rintracciati e bloccati grazie alle immagini del sistema di videosorveglianza. La Polizia di Stato li ha arrestati, entrambi, con l’accasa di rapina in concorso.

Il Presidente della Fondazione Scurati si dimette. Saviano contro De Luca: “Mi ha escluso dal Ravello Festival, don Vicié stai senza pensieri: non vengo”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 18 Giugno 2021. Piccolo terremoto, diciamo smottamento, sul Festival di Ravello. La frana è partita dall’accusa di Roberto Saviano, scrittore e giornalista, che ha accusato Vincenzo De Luca, Presidente della Campania, di averlo escluso dall’evento culturale e ha anticipato che al festival non parteciperà. Il governatore, senza fare nomi, ha dato spiegazione del caso nella sua consueta diretta del venerdì. Infine le dimissioni di Antonio Scurati, scrittore ed editorialista, come Saviano firma de Il Corriere della Sera, dalla Presidenza della Fondazione Ravello. L’autore diventato celebre con il best seller Gomorra, trasposto anche in un film e in una serie tv di grande successo, ha pubblicato un video sui social network nel quale ha lanciato la sua accusa. “Vincenzo De Luca blocca la mia presenza al Ravello Festival. Nessun problema, don Vicié, non ci sarò… arripigliateve tutt chell che è o vuost…”, ha postato lo scrittore lanciandosi anche in una imitazione del governatore nel video di quasi quattro minuti. “’Roberto Saviano non esiste proprio, va cancellato…’, credo che Don Vincenzo abbia fatto così … Considera la Campania un suo regno – ha esordito Saviano – In breve: sono stato invitato al Festival di Ravello. Il cda propone gli ospiti e poi il ‘cdi’, acronimo sembra direttamente preso dal romanzo di Aldous Huxley, Il Nuovo Mondo, il comitato di indirizzo composto da figure politiche amiche di De Luca… Io sarei andato a titolo gratuito, anche se gli ospiti di un Festival andrebbero pagati… I festival culturali sono sempre più determinati dalla politica: Italia, cultura, amici, amichetti, paranze … Stanno avvelenando un festival che poteva essere meraviglioso e che è condizionato dalle consorterie. Don Vicié… arripigliateve tutt chell che è o vuost… Adesso è tornato nelle vostre mani, non tenete pensieri… Non c’è nessun problema: non vengo… A presto, Ravello…”. Il Presidente della Fondazione Ravello era Antonio Scurati, Premio Strega per M nel 2019. Aveva inserito nel programma due talk show, uno con Saviano e un altro con il ministro della Salute Roberto Speranza. Il Corriere della Sera scrive che entrambi gli ospiti sarebbero stati sgraditi, per motivi diversi, al governatore. Da qui la decisione di cancellare la conferenza stampa di presentazione degli eventi dello storico Festival costiero. Nel pomeriggio quindi è arrivato l’annuncio delle dimissioni da parte di Scurati: “Mi sono bastati, purtroppo, pochi giorni per accertare che i soci fondatori della Fondazione Ravello non rispettano la libertà intellettuale e ignorano i valori della cultura. Da uomo di cultura e, soprattutto, da uomo libero, scelgo di rassegnare le mie dimissioni dalla carica di presidente. Le dimissioni, spontanee e irrevocabili, hanno valore immediato”. Sotto attacco soprattutto il Cdi e lo stesso governatore dunque, che durante la sua consueta diretta del venerdì aveva fatto riferimento al caso, ma senza mai fare i nomi dei protagonisti: “Le indicazioni vanno rispettate in generale e quelle date dalla Regione sono molto semplici. Le iniziative che si mettono in piedi devono essere coerenti con la natura dei festival che si fanno o delle fondazioni. Non si possono fare delle cose estemporanee che non c’entrano niente. Gli eventi che si propongono non devono essere segnati da conflitti di interesse da parte di chi li propone. Tutto quello che finanzia la Regione Campania non deve essere per nessuno un’occasione per promuovere un sistema di relazioni personali o per passare qualche giornata di ferie a spese della Regione, ma devono essere eventi nella più assoluta trasparenza. Siamo in una stagione nella quale sono in movimento tanti enti, fondazioni, rassegne, manifestazioni. Le regole sono quelle che vi ho ricordato, se non ci sono coincidenze di obbiettivi e ci si separa. Niente di particolarmente drammatico”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 20 giugno 2021. Lo scrittore Antonio Scurati venerdì si è dimesso dall'incarico di Presidente dell'ente culturale di Ravello - che dipende dalla Regione Campania - a sole due settimane dalla nomina. Non sapremmo dire se in modo più plateale o più coraggioso. Era del resto l'ora delle decisioni irrevocabili. Nel pomeriggio infatti era successo che il governatore Vincenzo De Luca, pur senza fare riferimenti precisi, ma diciamo così: alludendo, aveva parlato di tensioni dentro la Fondazione Ravello. Sembra che il Presidente della regione non abbia gradito l'inserimento nel programma del Ravello Festival di un paio di nomi fatti da Scurati: il ministro della Salute Roberto Speranza e lo scrittore Roberto Saviano. Ora: noi non sappiamo come siano andate davvero le cose. E ognuno, come sempre, darà la propria versione. Gli avversari di De Luca accusano il governatore-satrapo di volere sempre imporre la propria linea, e fare della Regione un sultanato aperto agli amici e chiuso ai nemici. I fan di Scurati e Saviano - scrittori di primissima fila, bestselleristi, colleghi al Corriere della sera, intellettuali di lotta e di festival -invocano la libertà di pensiero e rivendicano la scelta di dignità. Scurati mostra la faccia offesa, mascella tesa. Saviano usa il sarcasmo, citando Gomorra e camorra. E la Fondazione Ravello fa invece timidamente presente che la politica non c' entra, né c' entrano i nomi degli ospiti: semplicemente Scurati non ha condiviso il suo programma con il Consiglio di Indirizzo, scavalcando ruoli e funzioni istituzionali. Chi ha ragione? Chi ha strumentalizzato chi? Cosa è successo davvero a Ravello? L' impressione, considerando che le lotte peggiori, anche fratricide, non avvengono mai per motivi ideologici ma solo squisitamente personali, è che si sia di fronte al solito, inguaribile, insopportabile narcisismo della Sinistra italiana - così provinciale, così permalosa, così rissosa - travestito da lotta politica. E così c' è uno scrittore premio Strega, nell' ambiente considerato tanto bravo quanto antipatico, il quale - forse per eccesso di protagonismo - decide ospiti e programmi senza consultare l'organizzazione del festival. C' è un altro scrittore, forse meno bravo del primo ma probabilmente ancora più antipatico, bravissimo a fare polemiche vittimistiche. C' è un politico di ferro, e in questo molto di sinistra, al quale piace confondere il governare col comandare, e che mal sopporta l'autonomia intellettuale. Poi c' è chi - ancora più tipico della sinistra - non vede l'ora di parlare sui social e sui giornali di nuovi martiri della libertà. «La cultura deve essere libera!» (sì, giusto: ma prima deve esserci qualcuno che paga). E infine un segretario del Partito democratico che - per non passare in secondo piano nella polemica - ha già invitato Scurati e Saviano alla prossima Festa nazionale del Pd. Anche se, per non sembrare troppo poco di sinistra, non caccerà certo De Luca dal Partito. Loro sono bravissimi a tenere insieme censori e censurati.

In cella senza condanna, in Campania 4 detenuti su 10 in attesa di giudizio. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 22 Giugno 2021. Salute mentale e sovraffollamento: commentando la relazione annuale del Garante nazionale dei detenuti, Marta Cartabia non ha avuto esitazioni nell’indicare i principali problemi che affliggono i penitenziari italiani. Alla guardasigilli non saranno sfuggiti i dati sulla carcerazione preventiva che vedono la Campania al primo posto per numero assoluto di condannati non definitivi (1.233, pari al 18,8% del totale) e di reclusi in attesa del primo giudizio (1.252, cioè il 19,6% dell’intera popolazione carceraria). Numeri allarmanti che dimostrano come certa magistratura abusi delle misure cautelari e come, nella nostra regione come nel resto del Paese, dilaghi quella cultura giustizialista che vede nel carcere la principale – se non l’unica – risposta al fenomeno criminale. A sollevare la questione è stato il deputato Enrico Costa che ha invitato Cartabia ad affrontare il problema del sovraffollamento «partendo dal 30,5% di presunti innocenti»: su un totale di 53.660 detenuti, nelle carceri italiane se ne contano 16.362 in attesa di giudizio di cui 8.501 in attesa del primo giudizio. In proporzione, come dicevamo, la Campania fa segnare dati ancora più allarmanti se si pensa che, al 31 maggio scorso, addirittura il 37,9% dei 6.554 detenuti ospitati nelle 15 carceri regionali è composto da presunti innocenti. Peggio fanno solo Friuli Venezia Giulia e Sicilia, dove i detenuti in attesa di giudizio costituiscono rispettivamente il 41,2 e il 38,1% dell’intera popolazione carceraria. Se invece analizziamo i valori assoluti, la Campania è saldamente al comando della poco lusinghiera classifica sia dei detenuti in attesa di primo giudizio sia dei condannati non definitivi, seguita da Sicilia e Lombardia. «Si ha l’impressione che, sul territorio regionale, si faccia un uso sopra la media della custodia cautelare in carcere – osserva Vincenzo Maiello, punto di riferimento dell’avvocatura partenopea e docente di Diritto penale all’università Federico II – Questo è l’indizio di un uso forse non particolarmente sorvegliato delle norme in materia di misura cautelare che, in ragione della loro natura eccezionale, dovrebbero soggiacere a un regime stretta interpretazione e di rigorosa applicazione». Secondo il professore Maiello, inoltre, «il problema è soprattutto culturale: il legislatore è già intervenuto e ha fornito indicazioni inequivoche sul carattere di extrema ratio del ricorso al carcere come presidio cautelare. Spetta alla giurisprudenza uniformarsi.  Lo sta già facendo la Cassazione che ha impresso uno svolta intrisa di sensibilità garantistica agli orientamenti ermeneutici in materia. Tuttavia, nella prassi della giurisprudenza di merito, permangono impostazioni non sempre vicine al valore della presunzione d’innocenza e al principio del minimo sacrificio necessario della libertà personale». Il tema dell’eccessivo ricorso alla carcerazione preventiva, però, s’intreccia anche con quello del disagio psichico e della dipendenza dalla droga. Si stima che circa 450 persone afflitte da simili problemi si trovino attualmente nelle carceri campane sulla base di denunce presentate dai familiari. Proprio così: “spedire” dietro le sbarre un proprio figlio o fratello tossicodipendente o affetto da disturbi psichici rappresenta talvolta un disperato tentativo di cura e di cambiamento. «Ma per quelle persone – sottolinea Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti – la detenzione rappresenta un problema in più. Attenzione, dunque, alla custodia cautelare che spesso non costituisce la risposta più appropriata a problematiche di natura psicologia ed emotiva». Ovviamente, l’abuso della carcerazione preventiva incide negativamente sulla qualità della vita all’interno del carcere. Se si arresta con troppa nonchalance, non bisogna meravigliarsi del fatto che, in alcune celle di Poggioreale, siano stipati fino a 14 detenuti e che non tutti possano partecipare alle attività trattamentali previste. A spiegarlo è Antonio Fullone, dirigente generale dell’amministrazione penitenziaria campana: «Se la carcerazione preventiva fosse l’eccezione, la vita in carcere sarebbe più sostenibile perché le celle non sarebbero sovraffollate e l’attività di rieducazione e risocializzazione, riservata ai soli condannati in via definitiva, risulterebbe molto più efficace». Come se ne esce, dunque? «Con un’ampia riflessione sulla detenzione – conclude Fullone – ma soprattutto cominciando a considerare il carcere come extrema ratio in coerenza con la Costituzione e i valori che ispirano il nostro ordinamento giuridico».

Ciriaco M. Viggiano. Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.

Arresti facili e processi lumaca. Benvenuti a Napoli, capitale degli errori giudiziari: arrestati 101 innocenti nel 2020. Viviana Lanza su Il Riformista il 9 Aprile 2021. Innocenti in manette. Nel 2020 a Napoli sono stati 101. Un record nazionale. Il dato è stato diffuso dall’associazione Errori giudiziari che da oltre 25 anni si occupa del fenomeno dell’ingiusta detenzione nel nostro Paese, mantenendo alta l’attenzione su uno dei grandi nodi irrisolti della giustizia italiana. Si tratta di stime aggiornate al 31 dicembre 2020 e relative sia ai casi dell’ingiusta detenzione, cioè di coloro che vengono sottoposti a custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari salvo poi essere assolti, sia ai casi di errori giudiziari in senso stretto, cioè di chi subisce un processo e una condanna salvo poi dimostrare con un processo di revisione di essere innocente. A pesare di più su questa realtà che pone Napoli in cima alla classifica delle città italiane, è l’ingiusta detenzione: sono ancora troppi gli innocenti arrestati. Il dato è strettamente collegato al modus operandi di alcune Procure, ancora orientate verso un uso eccessivo della misura cautelare. Nel 2020, in Italia, i casi di ingiusta detenzione sono stati 750 per una spesa complessiva in indennizzi che ha sfiorato i 37 milioni di euro. Rispetto al 2019 c’è stato un lieve calo: anche a Napoli i 101 casi del 2020 segnano un trend in calo rispetto ai 145 casi del 2019. Secondo gli esperti, però, questa flessione è più che altro effetto dei rallentamenti nell’attività giudiziaria causati dalla pandemia da Covid e quindi, presumibilmente, anche dei rallentamenti nel lavoro delle Corti d’Appello incaricate di smaltire le istanze di riparazione per ingiusta detenzione. Il trend in diminuzione, dunque, non può ancora considerarsi come la spia di un cambiamento di cultura giudiziaria, di un cambio di passo degli organi inquirenti. I 101 casi, accertati nel 2020 nel distretto di Napoli e relativi a persone ingiustamente arrestate, portate in carcere o recluse ai domiciliari per poi essere assolte o scagionate, sono un record in Italia. Fra le dieci città con più casi di detenzioni ingiuste, dopo Napoli ci sono Reggio Calabria con 90 casi e Roma con 77, mentre Venezia chiude la classifica con 23 casi. Ora è vero che errare è umano, ma non si può considerare fisiologica l’ingiusta detenzione. Il fenomeno ha del patologico in un sistema, come quello della giustizia, per il quale ormai da troppo tempo si invoca una riforma ancora mai attuata. Sullo sfondo, inoltre, continua a esistere il paradosso di una Giustizia che si affretta ad arrestare sospettati ma poi fa durare i processi anche dieci anni, non riesce a eseguire le sentenze di condanna e arranca in un perenne stato di carenze ed emergenze. Tutto questo ha un costo e a pagarlo sono i contribuenti, quindi i cittadini che pagano le tasse. Nel distretto della Corte d’Appello di Napoli, nel solo 2020, sono stati liquidati indennizzi per circa due milioni e 900mila euro. Il dato, anticipato dal presidente della Corte d’Appello di Napoli Giuseppe De Carolis, è destinato a confluire nelle statistiche elaborate dal Ministero della Giustizia con cui periodicamente viene tracciato il quadro della situazione nei vari distretti giudiziari. Pur tenendo presente che le stime sull’ingiusta detenzione fanno riferimento a casi di misure cautelari emesse anni fa, c’è da immaginare che il trend sugli errori giudiziari non cambierà in maniera significativa nemmeno nel prossimo futuro se prima non cambia l’impostazione degli inquirenti, l’utilizzo che si fa della misura cautelare, i ritmi e la durata dei procedimenti nel nostro sistema giudiziario. Dei circa 6.400 detenuti attualmente reclusi nelle carceri della Campania, 2.349 sono in attesa di giudizio: di questi quanti saranno assolti e risulteranno vittime di una detenzione ingiusta? Difficile dare una risposta, il tema è complesso e delicato. Di oggettivo, al momento, ci sono solo le stime annuali sull’andamento di processi e indagini (circa il 40% dei processi si chiude con un’assoluzione e circa il 50% delle indagini sfocia in richieste di archiviazione) e l’amara consapevolezza che, per avere una risposta dalla giustizia, si è costretti ad attendere tanti, troppi anni.

Dramma carceri: sovraffollamento, Covid e caldo rendono le celle un inferno. Viviana Lanza su Il Riformista il 17 Giugno 2021. Dopo il Covid è il caldo la nuova minaccia nelle carceri. Come ogni anno l’arrivo dell’estate ripropone, infatti, l’annoso problema del caldo asfissiante che rende più difficile la vita dei detenuti e il lavoro degli agenti penitenziari all’interno delle prigioni campane trasformando la vita nelle celle e nei padiglioni in un vero e proprio inferno. Il sovraffollamento non aiuta. Così come nel periodo di picco dell’emergenza pandemica, il problema del numero spropositato di persone presenti nelle celle rischia di essere aggravato dall’arrivo del caldo estivo. Vivere in sei o in otto in uno spazio di pochi metri quadrati, d’estate, diventa ancora più insostenibile. Quali diritti saranno tutelati? Se lo chiedono i garanti e tutti coloro che non riescono a restare indifferenti di fronte ai drammi del mondo penitenziario pensando che la pena non debba essere solo afflizione e che la Costituzione vada rispettata anche quando stabilisce che la reclusione deve tendere alla responsabilizzazione e alla rieducazione del condannato. Sarà assunta qualche iniziativa in tal senso oppure la politica continuerà a essere orba? I report sulle criticità e sulle buone prassi di ciascun istituto penitenziario campano, stilati nell’ultimo mese dal garante regionale dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello, fotografano la realtà del “mondo carcere” nella sua attuale complessità. Uno spiraglio di luce nel buio dei vari problemi irrisolti sembra essere l’iniziativa presentata proprio ieri per dare lavoro ad alcuni detenuti delle carceri di Poggioreale e Secondigliano. Nei prossimi due anni i detenuti a basso indice di pericolosità, provenienti dalle case circondariali Pasquale Mandato e Giuseppe Salvia, saranno impiegati in lavori di manutenzione e conservazione del decoro nello stadio militare Albricci, occupandosi principalmente di pulizia delle aree esterne e della cura del verde. Lo stabilisce il protocollo firmato da garante, Esercito, Dap e Tribunale di Sorveglianza di Napoli: un primo passo importante, a patto che non resti l’unico.

Qui Napoli

Niente chance di reinserimento social ma ora una speranza per i reclusi c’è 

Poggioreale  e Secondigliano, le due grandi realtà carcerarie di Napoli, diventano protagoniste di un progetto di reinserimento sociale dei detenuti presentato proprio ieri dai vertici dell’amministrazione penitenziaria e il garante regionale, con il Tribunale di Sorveglianza e il Comando delle forze armate del Sud. Una novità nel panorama di criticità e sovraffollamento, difficoltà sanitarie e problemi di vivibilità, che si vive in cella. Il progetto prevede che per i prossimi due anni i detenuti a basso indice di pericolosità saranno impiegati in lavori di manutenzione e conservazione del decoro nello stadio militare Albricci, occupandosi del verde e delle aree esterne. L’obiettivo del progetto è fare “rete” sul territorio e promuovere azioni concrete per il recupero sociale delle persone detenute che si impegnano a cambiare il proprio percorso di vita e in un certo senso a restituire alla collettività ciò che stato tolto con il reato.

Qui Salerno

Troppi detenuti, pochi educatori e agenti in cella boom di atti di autolesionismo

Nelle carceri salernitane il rapporto è di un agente ogni due reclusi. Il report sui numeri e sulle criticità dei penitenziari salernitani (Salerno, Fuorni, Eboli, Vallo della Lucania) svela i nodi irrisolti sul fronte controlli e sicurezza. E la sproporzione è evidente se si considera che, a fronte di un numero di agenti pari alla metà di quelli che sarebbero necessari (e la carenza negli organici è altrettanto seria anche per quanto riguarda il personale socio-educativo), ci si ritrova a fare i conti con un numero di detenuti che è più alto di quello previsto. Ed ecco che con una popolazione detenuta di 537 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 482 posti, il sovraffollamento diventa la principale piaga che, sommata ad altre criticità, genera un cocktail scarsamente sostenibile. Solo nel carcere di Fuorni, il quarto della Campania, nell’ultimo anno si sono contati 122 atti di autolesionismo, un suicidio, 93 casi di sciopero della fame.

Qui Caserta

Le violenze denunciate a Santa Maria Capua Vetere sotto la lente d’ingrandimento dei pm

Tre suicidi, 59 tentati e poi gli episodi di violenze denunciati da alcuni detenuti e ora al centro di un’inchiesta della Procura che dovrà accertare se e come sono avvenuti quei fatti. Nelle carceri casertane sono i numeri a descrivere la realtà della vita in cella. Una realtà che condividono 1.527 persone, divise tra le strutture di Carinola, Santa Maria Capua Vetere, Arienzo, Aversa e la rems di Calvi Risorta. Praticamente un mondo, un mondo ancora a parte, distante dal territorio circostante per le criticità e le carenze che ancora non si è riusciti a risolvere. L’avvio dei lavori per la condotta idrica nel carcere sammaritano, inaugurato qualche mese fa dopo oltre vent’anni di attesa, è sembrato una grande conquista. Ma la vera sfida sarà dotare queste strutture di personale a sufficienza per rendere la pena in linea con la funzione di rieducazione prevista dall’articolo 27 della Costituzione repubblicana.

Qui Benevento e Avellino

Attività rieducative e assistenza sanitaria bloccate dalla solita burocrazia

«Il campo sportivo – ricorda il garante Samuele Ciambriello – fu occupato quasi trent’anni fa da paletti perché si temeva che potesse arrivare lì un elicottero e favorire la fuga di un boss all’epoca detenuto. Da allora sono trascorsi trent’anni e il campo sportivo è ancora inutilizzabile». Il riferimento è al campo sportivo di Avellino, esempio di situazioni rimaste invariate da troppo tempo, di una criticità legata agli spazi della pena che da Avellino si estende a molte altre strutture detentive della Campania. Stesso discorso per l’assistenza sanitaria, soprattutto in campo psichiatrico. A Sant’Angelo, per esempio, potrebbero esserci sette detenuti malati di mente e ce n’è uno solo perché manca lo psichiatra. Stesso discorso per il carcere di Benevento dove sanità e attività di rieducazione devono essere la priorità se si vuole evitare il bilancio dello scorso anno: due suicidi, decine di tentati suicidi, scioperi della fame, atti di autolesionismo.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

"La terza carica dello Stato fa il tifoso". Fico fa campagna elettorale per Manfredi, Maresca furioso: “Non ha studiato abbastanza, intervenga Mattarella”. Giovanni Pisano su Il Riformista l'11 Giugno 2021. Il presidente della Camera Roberto Fico “se ne va in giro per i vicoli di Napoli a fare campagna elettorale per un candidato”. E’ quanto denuncia il magistrato (in aspettativa) Catello Maresca, in corsa per la poltrona di primo cittadino del capoluogo partenopeo con una serie di liste civiche e con l’appoggio, ancora da chiarire, da parte del centrodestra. L’ex pm della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli riserva parole durissime nei confronti della terza carica dello Stato, auspicando un intervento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. A far infuriare Maresca sono le dichiarazioni da “tifoso” rilasciate in mattinata da Fico nel corso di un evento a San Gregorio Armeno, nel centro storico di Napoli. L’esponente del Movimento 5 Stelle ha infatti elogiato l’ex rettore e ministro dell’Università Gaetano Manfredi, candidato a sindaco per la coalizione giallorossa. “Sono convinto che Manfredi – ha dichiarato Fico – abbia le idee assolutamente chiare, quando parla lo trovo centratissimo, in un modo di fare politica dialogante istituzionale concreto e anche decisionista, in un laboratorio importante. Senza dubbio lo sosterrò al massimo perché penso che sia la scelta migliore per la città”. Il presidente della Camera ha poi aggiunto: “La prima volta ho incontrato Manfredi tanti anni fa quando era rettore, ho sempre avuto l’impressione di una persona attenta onesta sincera e molto capace. Fuori dalla politica tradizionale, proprio perché è un civico, non è di nessuno Manfredi, è dei napoletani e oggi una parte politica composta da M5S-Pd-LeU che lo sostiene per il bene di Napoli”. Durissima la reazione di Catello Maresca: “E’ spiacevole continuare a constatare che alcuni uomini di partito non abbiano alcun rispetto per l’Istituzione che provvisoriamente rappresentano. Dal loro atteggiamento si comprende che non hanno studiato abbastanza e non hanno dunque capito che le Istituzioni sono sacre, non tifose. Forse qualcuno dovrebbe spiegarlo a chi indossando i panni di presidente della Camera se ne va in giro per i vicoli di Napoli a fare campagna elettorale per un candidato in una competizione elettorale”. Poi l’appello a Mattarella: “Spero che intervenga il Capo dello Stato a ricordagli la sacralità delle istituzioni in questo Paese. Può essere anche fico quello che fa Fico, ma non è degno della terza carica dello Stato. E’ questa degenerazione delle istituzioni che vogliamo combattere con forza. Noi siamo orgogliosamente diversi, saremo davvero l’Istituzione di tutti i cittadini”. Dal canto suo Fico è anche tornato sulla possibilità, poi sfumata, di candidarsi a sindaco di Napoli, rimarcando proprio il suo ruolo istituzionale: “Non ho nessun rimpianto, perché è vero che in un momento ci ho pensato, ma senza dubbio quando sei presidente della Camera lasciare le istituzioni all’improvviso anche per andare a lavorare nella città che ami e che vivi, comunque in qualche modo, non funziona e non va bene”. “Io devo portare avanti – ha aggiunto – il ruolo che mi è stato dato nel 2018 e lo porterò fino a fine legislatura – ha spiegato la terza carica dello Stato parlando a margine di un evento a Napoli – era la strada giusta e quando prendi la strada giusta non hai alcun rimpianto. Sono qui oggi, ci sarò, c’ero prima, lavorando per la città. I napoletani sanno quando sono vicino a loro perché io sono di questa città, sono un figlio di questa città”.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Da "liberoquotidiano.it" il 16 maggio 2021. Violenza, orrore e sommossa a Scampia, nel quartiere al Nord di Napoli. Il caos esplode sabato 15 maggio, quando un uomo viene accusato di avere "abusato di un minore", questo quanto sostenuto da diversi testimoni che lo avrebbero colto in flagrante. Così, la gente del quartiere, inferocita, si è scagliata in massa contro l'uomo, in un vero e proprio linciaggio. Molte persone della vicina Vela Celeste si sono fiondate in strada a filmare le scene del pestaggio, immagini che sono poi state postate sui social. Il pestaggio del presunto pedofilo è proseguito a lungo e vi hanno preso parte via via sempre più persone. E non solo: al termine, l'uomo è stato gettato agonizzante in un cassonetto dell'immondizia. Costretta ad intervenire la polizia, che ha sottratto l'uomo al linciaggio e alla furia della folla: è stato caricato su un’ambulanza e portato al Cardarelli. L'uomo è in gravi condizioni ma non sarebbe in pericolo di vita. Ancora non è stato confermato il presunto abuso di minore che avrebbe scatenato il linciaggio. Sui social, nel frattempo, continuano a circolare le immagini della mattanza. 

Dall'ospedale: "Bimbi maltrattati". “Abusi e violenze su tre bambini”, la rivolta della Vela Celeste: linciati genitori e zio. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 16 Maggio 2021. Quindici ore di tensione e violenza dopo i particolari raccapriccianti su presunti abusi sessuali e maltrattamenti che due genitori residenti nella Vela Celeste a Scampia, periferia nord di Napoli, riservavano ai tre figli, tutti minorenni. Il passaparola tra familiari e conoscenti della coppia si è rapidamente diffuso e, probabilmente dopo l’ennesimo lamento arrivato dall’abitazione popolare, è partito l’assedio. E’ iniziato tutto nella notte tra giovedì e venerdì (13-14 maggio). I genitori dei tre bambini (lui 36 anni, le 28) vengono aggrediti all’interno della Vela. “Dovete smetterla di trattare male i vostri figli” e poi giù con schiaffi, pugni e calci. Poco dopo interviene la polizia del locale Commissariato nel tentativo di placare gli animi e approfondire la questione. L’uomo e la donna vengono sottratti alla folla e condotti al pronto soccorso dell’Ospedale del Mare, assistiti dal personale sanitario per le contusioni riportate. Nel frattempo gli agenti hanno chiesto l’intervento dei servizi sociali del comune di Napoli. I tre bambini sono stati trasferiti all’ospedale pediatrico Santobono per accertamenti. Dalle visite mediche successive non sarebbero emersi segni di violenza sessuale. Ma i piccoli vengono maltrattati confermano i sanitari. Passano poche ore e, nel primo pomeriggio di sabato 15 maggio, a finire nel mirino di una folla di almeno trenta persone è lo zio dei tre bambini, fratello maggiore del padre, anche lui “colpevole” di abusi e violenze. Parte un linciaggio a colpi di schiaffi, pugni e calci, con il corpo dell’uomo gettato infine all’interno di un cassonetto della spazzatura (le immagini fanno rapidamente il giro dei social). Sul posto oltre alle volanti del commissariato di Scampia sono arrivati a supporto anche gli agenti del Reparto Mobile. La situazione è rientrata non senza difficoltà con lo zio dei tre bambini condotto in ambulanza all’ospedale Cardarelli: non ha riportato fratture ma escoriazioni e contusioni e al momento è ricoverato in osservazione. Adesso saranno le indagini coordinate dalla Procura presso il tribunale per i Minorenni a far luce sull’accaduto.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

I conti dell’amministrazione. Personale del Comune di Napoli: costoso e poco qualificato. Francesca Sabella su Il Riformista il 12 Maggio 2021. Il reclutamento e la formazione del personale all’interno degli uffici comunali di Napoli costituiscono un’attività che assume un’importanza strategica per il funzionamento dell’ente. Ebbene, quanto spende Palazzo San Giacomo per la voce di spesa denominata “risorse umane”? Stando ai dati di Openpolis, non poco: con una spesa di 68.77 euro pro capite, dopo Milano, è proprio Napoli la città che investe di più per formare e assumere i dipendenti comunali; fanalino di coda è Verona che spende solo 6.69 euro per residente. È bene specificare che la voce in questione non comprende le vere e proprie spese per il personale, come gli stipendi, ma include tutti gli importi necessari all’amministrazione e al funzionamento delle politiche generali del personale, dalla programmazione dell’attività di formazione alla qualificazione e all’aggiornamento dei dipendenti passando per l’esborso necessario per il reclutamento di questi ultimi. Eppure questi investimenti così cospicui non trovano riscontro nella realtà: le performance del Comune di Napoli sono quasi sempre deludenti. Ancora una volta i soldi ci sono, ma vengono spesi male e il fatto che che il Comune guidato da Luigi de Magistris negli ultimi dieci anni sia passato da un organico di 12mila dipendenti a uno di 4mila e 700 ne è un’ulteriore conferma. «I dipendenti con un contratto a tempo indeterminato sono 4mila e 700 – spiega Lorenzo Medici, segretario regionale della Cisl Funzione Pubblica – e a loro vanno aggiunti circa 1.500 dipendenti che hanno un contratto a tempo determinato, assunti con fondi del Programma operativo nazionale (Pon) o con leggi speciali come il caso del reddito di inclusione (Rei). Se poi consideriamo la stabilizzazione dei lavoratori socialmente utili (Lsu) è chiaro come il cumulo di queste voci faccia innalzare la spesa per reclutamento». Ma basta guardare con attenzione i numeri per capire che la realtà è molto diversa da come appare.  «Si tratta di un’illusione – continua Medici – perché di fatto siamo al minimo storico per numero di dipendenti che, tra l’altro, hanno un’età media tra le più alte in Italia e un inquadramento giuridico medio-basso, il che incide sicuramente sulla qualità dei servizi offerti alla collettività». Le ultime statistiche disponibili, infatti, riferiscono che all’interno del Comune di Napoli il 44,38% dei dipendenti ha più di 60 anni (la maggior parte degli impiegati ha tra i 60 e i 64), più del 45% ha un titolo di studio che non va oltre la licenza media, solo il 37,55% ha terminato la scuola media superiore e appena il 16,66% ha conseguito la laurea. Senza contare che la presenza di donne negli uffici del Comune è ridotta al minimo: solo il 30% dell’intero organico è composto da lavoratrici. È evidente che con questi dati la macchina comunale non potrà mai funzionare come si deve.

«Occorre un piano straordinario di reclutamento per ingaggiare le nuove competenze necessarie a innovare la macchina comunale – conclude Medici – Penso soprattutto a ingegneri informatici e gestionali e ad architetti. Tutto ciò anche in funzione del nuovo ordinamento professionale che sarà definito insieme col rinnovo del Contratto collettivo nazionale di lavoro. La classificazione è ferma dagli anni ‘90: una cosa inaccettabile per chi vuole innovare la pubblica amministrazione e le autonomie locali».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Vedi Napoli e poi vivi. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista il 31 Marzo 2021. Vivendo da oltre trent’anni all’estero, sono più che consapevole dei grandi vizi come delle incomparabili virtù del Bel Paese. Che da tre decenni difendo a spada tratta in Europa. Non con meno convinzione di quella con la quale mi trovo spesso a difendere, soprattutto negli ultimi tempi, l’Europa in Italia. Perché Italia ed Europa unita sono le mie due Patrie. Devo sempre spiegare ai miei amici stranieri che l’Italia racchiude il meglio, ma spesso anche il peggio, dell’umanità. E che per conoscerla e giudicarla bisogna saperla vedere ed osservare. Con occhi capaci di vederne i vari colori e le diverse sfumature. Privi di lenti deformanti o colorate. Siano esse quelle rosa pittoresco di una “romantica donna inglese” del celebre Montesano, che quelle nere delle più truci serie televisive e degli inflazionati talk show televisivi in cui volano solo gli stracci. Oltre al trash della maleducazione dilagante. Ma è cosa che deve essere spiegata spesso anche a noi italiani. Che più di altri in Europa e nel mondo, abbiamo la tendenza a passare in un batter d’occhio dall’autoflagellazione all’auto-esaltazione. Con poca capacità di auto-osservazione. Avendo dimenticato da tempo il  monito dei nostri antenati, che ricordavano che in medio stat virtus. Anche nel giudizio su noi stessi e gli altri. Stereotipo italiano, ma anche metafora della metafora italiana, è senza ombra di dubbio Napoli. Patria delle patrie delle contraddizioni e degli estremismi più flagranti. Dove nell’arco di pochi chilometri, quando non di metri, bellezze naturali mozzafiato riescono a mischiarsi agli sfregi ambientali e umani più sconvolgenti. E lo stesso può dirsi dell’umanità che la abita. Caratterizzata dalla proverbiale nobiltà d’animo, generosità, empatia ed eleganza senza pari al mondo , che può mischiarsi alle forme sub-umane del più vergognoso degrado, morale ed etico dell’umanità. In una città nelle cui vie possono incrociarsi personaggi usciti dai film di De Sica o del Principe De Curtis, a quelli, sub-umani, delle serie televisive tipo Gomorra. Entrambi appartengono alle due facce della stessa medaglia. Simbolo di questo splendido e tragico teatro dell’umanità, che giustifica il detto «vedi Napoli e poi muori». Forse perché, vista Napoli, si è certi di aver visto sia il Paradiso che l’Inferno. Ma anche il Purgatorio. Ed è a questo che ho pensato nell’ultima settimana. Percorrendo la via crucis personale di un periodo di preoccupazioni per la salute di mia mamma. Scopertasi inaspettatamente malata oncologica in piena pandemia. Brutta esperienza che spero a lieto fine. E che mi ha però anche offerto delle belle conferme. Che non sono state per me sorprese. Come quella di dover rendermi da Roma, capitale d’Italia dove abita mia madre, proprio a Napoli, capitale e stereotipo del caos e della disorganizzazione nazionale, per farla operare (in piena zona rossa) da uno dei più grandi chirurghi laparoscopici d’Italia, e non solo. Il Prof. Franco Corcione, Direttore della Chirurgia Generale e oncologica mini-invasiva del Policlinico Universitario Federico II. Le cui mani d’oro confermano l’arte dei grandi maestri napoletani di tutti i campi dell’arte e della scienza. Maestro che non ha infatti mai accettato di lasciare i suoi pazienti, oltre che i suoi allievi, napoletani e dell’Italia del Sud. Nemmeno di fronte ad allettanti offerte dei migliori ospedali del Nord. Rifiuto fatto soltanto per amore della sua città, della sua regione e del nostro meridione. I cui malati non devono essere sempre costretti a lasciare la loro terra per salvarsi la vita. Neppure se incoraggiati dalla possibilità di prezzi aerei ridotti, grazie a convenzione con strutture ospedaliere del Nord-Italia o del Nord-Europa. Ed é cosa che va ad onore di un grande napoletano. Grande nella scienza, ma anche nell’umanità. Che tanto riscatta la Napoli raccontata, a volte anche troppo, dai vari Saviano & C. L’altra conferma è stata quella di poter trovare, in momenti di difficoltà, il conforto ed il sostegno umano di amici di vero valore. Tra questi quello della famiglia delle Fiamme Gialle Napoletane. Che hanno a capo generali del livello di  Ignazio Gibilaro (comandante Interregionale dell’Italia Meridionale) e Virgilio Pomponi (comandante regionale Campania) della Guardia di Finanza. E non ho potuto non pensare a questa conferma leggendo il bel libro con dedica di Ignazio Gibilaro, « C’era una volta il pool antimafia. I miei anni nel bunker». Col quale l’autore, Leonardo Guarnotta, membro « storico » del pool antimafia guidato da Antonino Caponnetto con Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello, racconta quegli anni di guerra. Una guerra mai ufficialmente dichiarata dallo Stato italiano ma combattuta ogni giorno a Palermo da quegli autentici eroi. Alcuni diventati martiri. Con quel pool, come raccontato nel libro, lavorava con la silenziosa tenacia da figlio della terra agrigentina, l’allora giovane Capitano Ignazio Gibilaro. Leggendo quel libro e sfogliando il bel calendario 2021 del  Comando Regionale Campania della Guardia di Finanza, dedicato a Totò in Fiamme Gialle, non ho potuto non ripensare all’alchimia delle proporzioni che spiega la storia contemporanea, e forse anche moderna del nostro splendido e sciagurato Paese. Alternata di eroismo e tragedie. Alchimia della composizione del popolo italiano, secondo il dire di un mio compagno di liceo. Oggi apprezzato chirurgo vascolare in quel di Udine. Secondo il Dottore Giulio Andolfato “gli italiani si dividono in un terzo di delinquenti, un terzo di ignavi e un terzo di eroi”. Sulle spalle dell’ultimo terzo (che altri paesi non hanno la fortuna di avere) vivono i primi due terzi. La vulgata vuole che Napoli alimenti soprattutto, e di molto, il terzo di delinquenti. Che rappresenta una delle facce più feroci del nostro Paese nel mondo. Pochi però ricordano che Napoli alimenta anche quel terzo che è sempre minoranza, ma che altri paesi non hanno. Quello fatto di autentici eroi. Anche del quotidiano. Spesso silenziosi e operosi. Proprio come il professore Corcione ed il suo formidabile team di colleghi e infermieri. E come i Generali Gibilaro e Pomponi, napoletani nel cuore. E penso sia un dovere farlo sapere o ricordarlo. A tutti. Ma soprattutto a quel terzo di ignavi. Che da soli, se ne avessero il coraggio, potrebbero fare la differenza. Dando maggiore speranza al futuro di Napoli. E con essa a tutto il nostro Paese.

Avellino, uomo ucciso in casa: la figlia e il fidanzato confessano. Volevano compiere una strage. Pierluigi Melillo su La Repubblica il 24 aprile 2021. Aldo Gioia, 53 anni, è morto in ospedale per le gravi ferite, sarebbe stato raggiunto da almeno 7 coltellate. Non condivideva la relazione della figlia con un pregiudicato. Le discussioni in casa erano state frequenti. Non accettava la relazione della figlia diciottenne che si era fidanzata con un giovane più grande di lei. Pregiudicato e noto come consumatore di sostanze stupefacenti. Sarebbe questo il movente alla base del delitto consumato nella tarda serata in un appartamento in pieno centro, al Corso Vittorio Emanuele di Avellino. Aldo Gioia, 53 anni, dipendente della Fca di Pratola Serra, è stato aggredito a coltellate mentre stava dormendo sul divano.

Il delitto dei fidanzati-killer, Giovanni lo annunciò ad un'amica: "Lei mi ha chiesto di eliminare la sua famiglia...". Dario del Porto su La Repubblica l'1 maggio 2021. Dalle chat un'altra sconcertante rivelazione sull'omicidio compiuto ad Avellino. In carcere, Elena sta male e al suo avvocato ha chiesto quando potrà rivedere la madre. La sorella di Giovanni, invece, in una lettera indirizzata al giornale locale "Il Caudino" scrive: «La nostra famiglia è distrutta, scioccata, incapace tutt’ora di accettare che ciò che stiamo affrontando sia la realtà. Ciò che Giovanni ed Elena hanno fatto non ha perdono».

Su whatsapp i messaggi dei due che pianificavano il massacro. Papà ucciso a coltellate, i due fidanzati confessano: “Volevano sterminare tutta la famiglia”. Rossella Grasso su Il Riformista il 24 Aprile 2021. I due ragazzi si amavano, Elena 18 anni compiuti da poco e Giovanni di 23. Aldo Gioia, 53 anni, il papà della ragazza, non aveva mai nascosto i suoi dubbi nei confronti del giovane con cui la figlia aveva una relazione. Tanto da averla ostacolata apertamente e in più occasioni si erano scatenate feroci liti in famiglia. Anche la mamma era preoccupata per quell’amore. Così la famiglia di lei era diventata per i due ragazzi un ostacolo. Che andava eliminato. I due ragazzi poche ore dopo essere stati fermati hanno confessato di aver ucciso Aldo. Non solo hanno ammesso di avere architettato e perseguito il terribile delitto ma hanno confessato un piano criminale che avrebbe dovuto portare alla morte anche della madre e della sorella della ragazza. Per poi darsi alla fuga. Sui cellulari dei due ragazzi gli investigatori hanno trovato tutti i messaggi con cui avevano progettato lo sterminio della famiglia in quella che sarebbe dovuto essere un normale venerdì sera in famiglia. La mamma in cucina finiva di rassettare le ultime cose mentre Elena stava in cameretta con sua sorella maggiore. Aldo, geometra impiegato nella Fca di Pratola Serra, si rilassava sul divano dopo una settimana di lavoro facendo zapping in tv. Intanto Giovanni camminava sotto casa dei Gioia in corso Vittorio Emanuele, ad Avellino, in costante contatto con Elena che gli avrebbe dovuto dire quando era il momento giusto per salire a casa e compiere il piano efferato. Quando Aldo intorno alle 22.30 è sprofondato nel sonno sul divano, Elena ha silenziosamente aperto la porta di casa con la scusa di dover buttare la spazzatura e Giovanni è entrato armato di un coltello da cucina. Si è scagliato sul papà sul divano infliggendogli 7 coltellate. Ma qualcosa è andata storta. Secondo il piano progettato nei dettagli, dopo il papà Giovanni si sarebbe dovuto scagliare sulla mamma, colpevole come Aldo di ostacolare quella relazione giudicata pericolosa, e poi di eliminare la sorella, scomoda testimone di quel delitto. I due si sarebbero poi dati alla fuga simulando un tentativo di furto in casa. Ma il rumore ha allarmato mamma e sorella che sono corse nel salotto. Sarebbe stata la stessa Elena a lanciare l’allarme gridando “al ladro”. A quel punto Giovanni è fuggito lasciando tracce di sangue sul pianerottolo, trovando riparo a casa dei suoi genitori a Cervinara in provincia di Avellino. Per Aldo non c’è stato nulla da fare. Inutile la corsa all’Ospedale Moscati di Avellino dove è morto poco dopo. Gli investigatori sono subito accorsi hanno interrogato Elena ma le sue dichiarazioni erano confuse e contraddittorie. Nel giro di poche ore hanno fermato anche Giovanni. Ora i due ragazzi sono in stato di fermo nel carcere di Avellino in attesa di convalida dell’arresto. La relazione tra la 18enne e il 23enne era avversata dalla famiglia dalla ragazza preoccupata per il carattere e il passato di lui, più volte protagonista di eccessi di violenza. La famiglia della ragazza, soprattutto il padre, inutilmente aveva cercato di allontanarla da quel ragazzo, disoccupato, con precedenti per reati contro la persona e segnalato come assuntore di sostanze stupefacenti. Un ragazzo difficile, già in due occasioni sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, che assieme alla famiglia vive a Cervinara (Avellino). E che alcune settimane fa era stato protagonista di un furibondo litigio con suo padre, operatore ecologico, nel corso del quale non si era fatto scrupolo di mettergli le mani addosso promettendogli che l’avrebbe ucciso. Inoltre alcuni anni fa Giovanni aveva minacciato di lanciarsi da un ponte dopo che una ragazza minorenne del suo paese aveva rifiutato le sue avances. La città è rimasta impietrita e sgomenta per la vicenda che ha colpito una famiglia stimata da tutti e che ricorda per alcuni versi quella di Novi Ligure (Alessandria) quando nel febbraio del 2001 Erika De Nardo e Mauro “Omar” Favaro, fidanzati che allora avevano 16 e 17 anni, uccisero la madre e il fratellino di 11 anni di Erika, risparmiando per puro caso il padre.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Il papà non accettava la relazione dei due ragazzi. Ucciso a coltellate sotto gli occhi della moglie, fermati la figlia e il fidanzato 20enne. Elena Del Mastro su Il Riformista il 24 Aprile 2021. La furia omicida è scoppiata intorno alle 22.45 in un appartamento di Corso Vittorio Emanuele ad Avellino. Aldo Gioia, 53 anni, dipendente della FCA di Pratola Serra è stato colpito da numerose coltellate sotto gli occhi disperati della moglie e delle figlie. Poche ore dopo sono stati fermati la figlia 18enne e il suo fidanzato 23enne nella casa di lui a Cervinara con l’accusa di omicidio volontario. Il papà non accettava l’unione dei due fidanzati. Sarebbe questo il movente e lo scenario che è stato subito delineato dagli investigatori. Da tempo Aldo litigava con la sua figlia 18enne. I vicini di casa hanno raccontato agli investigatori di aver sentito più volte nell’ultimo periodo la famiglia Gioia litigare: ai genitori di lei non convinceva quell’unione con un ragazzo più grande con cui la ragazza era disposta ad andare a vivere. Forse proprio per questo motivo sarebbe sfociata l’ennesima lite, l’ultima per Aldo. Il 23enne avrebbe così afferrato un coltello da cucina per colpire ripetutamente l’uomo, almeno 7 volte. In casa c’erano anche la moglie di Aldo e la figlia minore che hanno assistito al terribile delitto. Poi il 23enne e la fidanzata 18enne sono scappati nella casa di lui a Cervinara nella Valle Caudina. Per Aldo è stata inutile la corsa all’ospedale Moscati di Avellino dove è morto poco dopo. Sull’accaduto sono ancora in corso le indagini coordinate dal procuratore di Avellino, Domenico Airoma. Sono state ascoltate a lungo la moglie della vittima e l’altra figlia, che sulle prime erano ancora in stato di shock e non riuscivano a riferire tutti i particolari di quanto avvenuto nel corso della notte. Poi per gli investigatori sono state chiare le dinamiche e subito sono scattate le ricerche dei due fuggitivi. Ora i due ragazzi sono in stato di fermo con l’accusa di omicidio volontario. Una vicenda drammatica che vede protagonisti due giovanissimi.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Aggredito con un compressore e un coltello: ad agire più di una persona. Omicidio Maurizio Cerrato, parla la figlia: “A mio padre è stato fatto un agguato, voleva solo difendermi”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 20 Aprile 2021. ”Ci tengo a precisare che non è corretto dire che mio padre è morto in una lite. A mio padre è stato fatto un agguato in piena regola, solo per difendere me, che ero la luce dei suoi occhi. Mio padre è stato pugnalato e con questa gente non aveva mai avuto a che fare”. Sono le parole di Maria Adriana, 20 anni, figlia di Maurizio Cerrato, il 61enne di Torre Annunziata (Napoli) ammazzato nella serata di lunedì 19 aprile in un piazzale privato di via IV Novembre, nel comune vesuviano. L’uomo, che lavorava come custode presso gli Scavi archeologici di Pompei, era intervenuto per difendere la figlia nel corso di una lite nata presumibilmente per motivi di parcheggio. Era sceso dalla vettura, poco dopo le 21, per andare a comprare cibo da asporto quando proprio alla figlia sarebbero state indirizzate le invettive di chi rivendicava la titolarità di quel posto auto, tra l’altro occupato con una sedia, all’interno del parcheggio. La giovane avrebbe successivamente trovato una ruota squarciata con il genitore intervenuto in suo soccorso.

In azione più di una persona. Cerrato, mentre cambiava le ruote, sarebbe stato aggredito da più persone prima a colpi di di cric e poi con una coltellata al torace. Inutile il tentativo di trasporto al pronto soccorso dell’ospedale San Leonardo di Castellammare dove il 61enne è arrivato già privo di vita. L’assassino, che potrebbe aver agito non da solo, è attualmente ricercato dai carabinieri della sezione operativa della Compagnia di Torre Annunziata che stanno setacciando le immagini di videosorveglianza presenti nella zona. Il responsabile dell’omicidio sarebbe già stato identificato dai militari dell’Arma ma risulterebbe irreperibile. Gli inquirenti hanno rinvenuto al momento il solo compressore portatile usato durante l’aggressione, mentre non è stato ancora recuperato il coltello.

Lutto cittadino. Lutto cittadino nel giorno dei funerali di Maurizio Cerrato. Ad annunciarlo è il sindaco della città vesuviana, Vincenzo Ascione: ”Sono profondamente scosso e scioccato. L’omicidio del nostro concittadino Maurizio Cerrato e la violenza e l’efferatezza con le quali è stato perpetrato, fanno letteralmente accapponare la pelle. Questo vile e brutale assassinio è l’ennesima ferita inferta ad una città che cerca faticosamente di risalire la china dopo decenni caratterizzati dalla presenza asfissiante della criminalità organizzata e da sanguinose faide tra clan camorristici rivali”. “Sono certo – prosegue il sindaco Ascione – che le forze dell’ordine, che in queste ore sono impegnate senza sosta nelle indagini, sapranno assicurare alla giustizia nel più breve tempo possibile i responsabili di questo assurdo ed efferato delitto. A nome dell’amministrazione comunale, esprimo profondo cordoglio ai familiari di Maurizio per la gravissima e assurda perdita che hanno subito. Siamo vicini a tutti loro, pronti ad offrire qualsiasi tipo di supporto e sostegno. Condividiamo il devastante dolore che stanno provando in questi momenti e che proveranno per il resto della loro vita. Nel giorno dei funerali verrà proclamato il lutto cittadino”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 faccio parte della redazione del Riformista.

Svolta nelle indagini sull'omicidio di Torre Annunziata. Ucciso per un parcheggio, ore contate per il branco. Gli ultimi istanti di Maurizio: “Le urla della figlia sempre impresse”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 22 Aprile 2021. Hanno le ore contate gli aggressori di Maurizio Cerrato, il 61enne ucciso lunedì sera, 19 aprile, a Torre Annunziata mentre soccorreva la figlia Maria Adriana aggredita da un gruppo di più persone per motivi riconducibili a un parcheggio occupato abusivamente con una sedia. Le indagini coordinate dalla procura di Torre Annunziata, guidata da Nunzio Fragliasso, e condotte dai carabinieri della Compagnia di Torre Annunziata sono arrivate a un punto di svolta nonostante l’omertà dilagante incontrata in questi giorni di investigazioni. In serata potrebbero essere emessi i primi decreti di fermo nei confronti del branco entrato in azione (inizialmente due poi supportati da almeno altre due persone) che avrebbero teso un vero e proprio agguato a Cerrato mentre stava cambiando la ruota, bucata per dispetto, alla giovane figlia di 20 anni. L’uomo è stato aggredito a colpi di crick prima di ricevere un fendente al torace. Gli inquirenti hanno rinvenuto al momento il solo compressore portatile mentre non è stato ancora recuperato il coltello. A soccorrere Cerrato è stata la figlia che lo ha accompagnato in ospedale insieme ad un amico. Proprio dal pronto soccorso del San Leonardo di Castellammare di Stabia arriva il racconto da brividi di un testimone, Michele Cirillo, che ricostruito quei drammatici attimi. “Verso le 21:30 accompagnai un mio amico al pronto soccorso dell’ospedale del San Leonardo per medicarsi ed è pochi minuti dopo che la mia vita è stata sconvolta nell’assistere all’arrivo del Sig. Maurizio Cerrato trasportato dalla figlia ed un amico sui sedili posteriori steso, forse già privo di vita e cosparso di sangue. Le urla della figlia, mi rimarranno impresse nella testa: “Il mio papà è stato accoltellato, il mio papà è stato aggredito, aiutooo, auitooo, auitooo”. Intervenuta telefonicamente mercoledì 21 aprile a “La vita in diretta” su Rai 1, Tania Sorrentino, moglie di Cerrato: “Io voglio che li prendano. Ma devono fare le cose per bene. Avere fretta per poi rivederli fuori dopo due giorni non serve. Voglio essere sicura che vengano presi tutti e che dentro ci restino. Che poi buttino le chiavi”. “Chi ha sbagliato deve pagare realmente,  non deve far finta di pagare, pe questo ho tanta pazienza, aspetto che vegano fatte tutte le opportune indagini” aggiunte la donna tra le lacrime. Poi sulla figlia maggiore dice: “Se l’è visto morire davanti, lui l’ha guardata e se n’è andato. È una cosa che una ragazza di 20 anni non supererà mai più”. “Ho una bimba di 7 anni che non lo accetta. Una efferatezza contro una persona che non buttava nemmeno un chewingum per terra per non far morire gli uccellini” conclude.

Le parole del vescovo Battaglia. Sulla vicenda è intervenuto anche l’arcivescovo di Napoli Domenico Battaglia: “Dolore e indignazione accompagnano la notizia legata all’uccisione di Maurizio Cerrato, per la brutale aggressione da lui subita a Torre Annunziata la sera del 19 aprile per soccorrere la figlia Maria Adriana, “colpevole” di aver parcheggiato l’auto in un posto “riservato”. L’indignazione è per il perpetuarsi di delitti, violenze, soprusi sanciti da un abusivo codice del diritto in virtù del quale un manipolo di prepotenti si permette di condannare chi giorno per giorno, con semplicità e senso del dovere, cerca di vivere la propria vita, nel rispetto della sana e santa convivenza umana e civile”. “Il dolore diventa suffragio per l’anima di Maurizio e compassione per la sua famiglia e per l’intera comunità di Torre Annunziata. Alla famiglia la nostra vicinanza e il nostro impegno. L’ umana pietà non può bastare – aggiunge – e non rende giustizia ad una vittima innocente! E’ doveroso riconoscere nella vittima un padre impegnato a soccorrere senza fare violenza!. La Speranza però non può venir meno! La speranza nelle istituzioni, che sono chiamate a fare la loro parte, vincendo la tentazione del facile consenso, la speranza nella società civile perché – conclude – non ceda a forme di arrendevolezza o peggio ancora di atteggiamenti omertosi, la speranza nella comunità ecclesiale perché non ceda al pessimismo, ma inviti ad ancorare sempre più la fede in Gesù che è capace di fare nuove tutte le cose. In questo momento così grave, affidiamoci alla nostra Madre perché asciughi le nostre lacrime e colmi il nostro cuore di consolazione”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 faccio parte della redazione del Riformista.

Svolta nell'omicidio di Torre Annunziata. Ucciso per un parcheggio, fermati i quattro killer di Maurizio Cerrato. Carmine Di Niro su Il Riformista il 23 Aprile 2021. Una svolta rapidissima nelle indagine ha portato al fermo nella notte di quattro persone, ritenute responsabili dell’omicidio del 61enne Maurizio Cerrato, custode del Parco Archeologico di Pompei, assassinato lunedì sera a Torre Annunziata. I carabinieri del comando provinciale di Napoli hanno eseguito un decreto di fermo di indiziato di delitto emesso dalla procura della Repubblica di Torre Annunziata nei confronti di quattro persone, portate nel carcere di Napoli Poggioreale. Cerrato era stato aggredito ed ucciso davanti alla figlia lunedì sera, in un parcheggio: probabilmente l’omicidio era scaturito al culmine di una lite per un posto auto. Cerrato era stato prima massacrato di botte con un compressore, poi il colpo fatale con una coltellata al torace. “Ci tengo a precisare che non è corretto dire che mio padre è morto in una lite, a mio padre è stato fatto un agguato in piena regola, solo per difendere me, che ero la luce dei suoi occhi”, aveva scritto su Facebook la figlia, Maria Adriana, aggiungendo che “mio padre è stato pugnalato e con questa gente non aveva mai avuto a che fare”. Le indagini sono state coordinate dalla procura di Torre Annunziata, guidata da Nunzio Fragliasso, e condotte dai carabinieri della Compagnia di Torre Annunziata. Nonostante l’ondata di omertà già nella giornata di ieri le investigazioni erano arrivate ad una svolta, con l’identificazione del "branco" che aveva ucciso Cerrato. Il 61enne è stato ammazzato mentre stava cambiando la ruota, bucata per dispetto, alla giovane figlia di 20 anni. L’uomo è stato aggredito a colpi di crick prima di ricevere un fendente al torace. Gli inquirenti hanno rinvenuto al momento il solo compressore portatile mentre non è stato ancora recuperato il coltello. Era stata la stessa figlia, Maria Adriana, ad accompagnarlo in ospedale insieme ad un amico. Proprio dal pronto soccorso del San Leonardo di Castellammare di Stabia era arrivato il racconto da brividi di un testimone, Michele Cirillo, che ha ricostruito quei drammatici attimi. “Verso le 21:30 accompagnai un mio amico al pronto soccorso dell’ospedale del San Leonardo per medicarsi ed è pochi minuti dopo che la mia vita è stata sconvolta nell’assistere all’arrivo del signor Maurizio Cerrato trasportato dalla figlia ed un amico sui sedili posteriori steso, forse già privo di vita e cosparso di sangue. Le urla della figlia, mi rimarranno impresse nella testa: “Il mio papà è stato accoltellato, il mio papà è stato aggredito, aiutooo, auitooo, auitooo”. Sulla vicenda era intervenuto anche l’arcivescovo di Napoli Domenico Battaglia: “Dolore e indignazione accompagnano la notizia legata all’uccisione di Maurizio Cerrato, per la brutale aggressione da lui subita a Torre Annunziata la sera del 19 aprile per soccorrere la figlia Maria Adriana, “colpevole” di aver parcheggiato l’auto in un posto “riservato”. L’indignazione è per il perpetuarsi di delitti, violenze, soprusi sanciti da un abusivo codice del diritto in virtu’ del quale un manipolo di prepotenti si permette di condannare chi giorno per giorno, con semplicità e senso del dovere, cerca di vivere la propria vita, nel rispetto della sana e santa convivenza umana e civile”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia.

Indagini tra omertà, finti alibi e inquinamento delle prove. La sedia sull’auto, gli occhiali rotti (“te li ricompro”) e la spedizione di morte: prese le belve di Maurizio Cerrato. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 23 Aprile 2021. In tre lo tenevano bloccato mentre una quarta persona lo accoltellava al torace. E’ questa la ricostruzione del brutale omicidio di Maurizio Cerrato, il 61enne di Torre Annunziata morto ammazzato lunedì 19 aprile mentre tentava di difendere la figlia che aveva parcheggiato la propria auto in uno spazio occupato arbitrariamente con una sedia da una famiglia residente in IV Novembre. Nella serata di giovedì 22 aprile carabinieri della sezione Operativa della Compagnia di Torre Annunziata hanno dato esecuzione a un decreto di fermo di indiziato di delitto, emesso dalla procura di Torre Annunziata, guidata da Nunzio Fragliasso, nei confronti di quattro uomini. Si tratta dei fratelli Giorgio, 41 anni, e Domenico Scaramella, 50 anni, e di Antonio Venditto, 26 anni, e Antonio Cirillo, 33 anni. L’accusa è di omicidio volontario in concorso, aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi. Sono tutti stati condotti nel carcere di Poggioreale in attesa della convalida. Denunciata a piede libero una sorella della famiglia Scaramella. Secondo la ricostruzione degli investigatori, sono state due le aggressioni subite da Cerrato e dalla figlia Maria Adriana, 20 anni. La prima è avvenuta poco dopo le 20 quando la giovane, al ritorno dal lavoro, ha trovato la ruota della sua auto forata per ritorsione. Nel pomeriggio infatti aveva parcheggiato la vettura in strada occupando lo spazio delimitato con una sedia dalla famiglia di uno dei quattro fermati. La reazione della giovane non si è lasciata attendere e, dopo aver chiamato il papà in suo soccorso, ha posizionato la sedia in questione sul tetto dell’auto della famiglia che – ricostruisce la Procura – occupava abusivamente lo spazio sulla pubblica via. Così mentre Cerrato cambiava la ruota dell’auto, si è consumata la prima aggressione verbale e fisica. Ad intervenire uno dei due fratelli Scaramella che ha prima insultato e poi aggredito violentemente al volto il 61enne con il crick della macchina. Quest’ultimo ha provato a difendersi e, reagendo, ha rotto gli occhiali di Scaramella. “Te li ricompro ma finiamola qui” le parole di Cerrato prima della spedizione di morte.

La spedizione di morte. Poco dopo infatti Scaramella è ritornato in via IV Novembre supportato da altre tre persone, tra i quali il fratello e un altro suo familiare. Ne è nata una seconda, brutale, aggressione nel corso della quale Cerrato veniva violentemente e ripetutamente picchiato prima di essere accoltellato al torace da uno dei quattro mentre gli altri tre lo tenevano fermo. Poi la disperata corsa al pronto soccorso dell’ospedale San Leonardo di Castellammare di Stabia da parte della figlia e di un suo amico, con Cerrato steso sul sedile posteriore in una pozza di sangue. Nonostante l’intervento dei medici l’uomo è deceduto nel giro di pochi minuti.

L’omertà e l’inquinamento delle prove. Nel corso delle indagini – rilevano Procura e carabinieri – si sono dovute registrare da un lato l’assoluta mancanza di collaborazione da parte delle persone presenti al fatto e che avevano assistito all’omicidio e, dall’altro, alcune condotto di inquinamento probatorio quali l’occultamento dell’arma del delitto, la predisposizione di un alibi fittizio da parte di uno dei fermati e il tentativo di lavare, subito dopo il fatto, gli indumenti indossati da un altro die fermati, trovati già nella lavatrice della sua abitazione poco dopo il fatto.

Le parole della moglie. “Non sentiamo di dire a loro niente, non meritano le nostre parole, sono solo vigliacchi. Mio marito non l’avrebbero mai ammazzato se non fosse stato da solo. Ci volevano quattro di loro, ci volevano le armi”. Così Tania Sorrentino, moglie di Maurizio Cerrato,  all’esterno della procura di Torre Annunziata insieme alla figlia Maria Adriana nel giorno dell’arresto dei 4 presunti responsabili della morte del marito.

Il cordoglio dei colleghi. Il direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte Sylvain Bellenger e tutto il personale di vigilanza sono vicini al terribile dolore della famiglia del loro collega Maurizio Cerrato, barbaramente ucciso per futili questioni di parcheggio a Torre Annunziata. “Ci stringiamo intorno alla moglie e alle figlie per una brutalità che non conosce eguali” dice Bellenger. “Abbiamo perso un amico sincero, un collega leale, una bella persona che cominciava il suo lavoro tutte le mattina con il sorriso” lo ricordano in lacrime i colleghi, sgomenti per l’accaduto. Cerrato aveva lavorato dal 2002 al 2012 a Capodimonte fino alla richiesta di trasferimento al Parco Archeologico di Pompei, proprio per stare più vicino alla famiglia.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 faccio parte della redazione del Riformista.

Delitto di Avellino, l'omicida accusa la fidanzata: "Suo il piano per sterminare la famiglia". Pierluigi Melillo su La Repubblica il 25 aprile 2021. Domani la convalida degli arresti. La madre della ragazza nomina un difensore per la figlia: "Non posso abbandonarla". Giovanni Limata, 23 anni, autore materiale dell'uccisione del padre di Elena, la sua ragazza, avrebbe scaricato ogni colpa sulla 18enne. Piena confessione agli agenti della squadra mobile del capoluogo irpino dell'assassinio commesso nella notte tra venerdì e sabato. E' il giorno della verità per Elena e Giovanni, i due fidanzati che avrebbero immaginato di sterminare la famiglia di lei che si opponeva alla loro relazione sentimentale. Un piano diabolico che ha portato solo alla morte del padre della diciottenne Elena, Aldo Gioia, ucciso a coltellate dal 23enne Giovanni Limata mentre dormiva sul divano nell'appartamento al quinto piano al civico 253 del Corso Vittorio Emanuele di Avellino.

Il dramma di Avellino. Uccide il papà della fidanzata nel sonno e confessa: “Elena ha ideato piano per sterminare famiglia”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 25 Aprile 2021. Il piano per sterminare l’intera famiglia sarebbe stato ideato e fortemente voluto da Elena Gioia. E’ quanto avrebbe dichiarato, nel corso della confessione, Giovanni Limata, il 22enne  di Cervinara (Avellino) autore materiale dell’omicidio di Aldo Gioia, papà della 18enne che si opponeva da tempo alla loro relazione. Il giovane avrebbe ricostruito con gli agenti della Squadra Mobile di Avellino quanto accaduto prima delle serata in cui si è consumato il brutale omicidio (venerdì 23 aprile) nell’abitazione della famiglia Gioia, presente in corso Vittorio Emanuele ad Avellino. Secondo il suo racconto sarebbe stata proprio la fidanzatina a ideare il piano per uccidere anche la madre Liliana Ferraiolo e la sorella. Versione che Limata potrebbe ribadire domani, lunedì 26 aprile, nel corso dell’interrogatorio di garanzia davanti al Gip del tribunale di Avellino. I due ragazzi dovranno rispondere di concorso in omicidio aggravato dalla premeditazione contro un familiare. Sempre nella giornata di domani, Vincenzo Russo, pm della procura irpina, conferirà l’incarico per eseguire l’autopsia sul corpo del 53enne, raggiunto da almeno 7 coltellate mentre dormiva sul divano e deceduto all’ospedale Moscati di Avellino. Sono state le grida di aiuto dell’uomo, geometra dipendente della Fca di Pratola Serra (Avellino), ad allarmare la moglie e l’altra figlia e ad evitare la strage. Un omicidio premeditato nei minimi dettagli dalla coppia che voleva poi simulare un tentativo di furto in casa. Così Elena ha lasciato la porta di casa aperta con la scusa di andare a gettare la spazzatura. Limata, intorno alle 22.30, è entrato accoltellando sette volte il suocero mentre dormiva sul divano e aveva lasciato accesa la televisione. La madre, seppur sconvolta dal dolore e consapevole di essersi salvata dal piano diabolico della coppia, si è detta disposta ad aiutare la figlia: “Devo trovarle subito un legale, devo fare in modo che possa difendersi. Io non la lascio sola“. La relazione tra la 18enne e il ragazzo di Cervinara era da tempo ostacolata dalla famiglia a causa degli eccessi di violenza del 22enne che in passato aveva minacciato di lanciarsi giù da un ponte dopo essere stato rifiutato da una ragazza minorenne. L’ultimo qualche settimana fa quando ha aggredito il padre, operatore ecologico, promettendogli anche che l’avrebbe ucciso.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

La strage pianificata dalla coppia. Omicidio Aldo Gioia, la madre di Elena: “Voleva ucciderci ma non la lascio sola”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 25 Aprile 2021. “Devo trovarle subito un legale, devo fare in modo che possa difendersi”. Sono le parole di Liliana Ferraiolo, la madre di Elena Gioia, la 18enne che insieme al fidanzato Giovanni Limata, 22 anni, aveva pianificato lo stermino di tutta la famiglia ‘colpevole’ di opporsi alla sua storia d’amore per consentire al fidanzato di accoltellare a morte mentre dormiva sul divano il papà, Aldo Gioia, 53enne geometra dipendente della Fca di Pratola Serra (Avellino). “Io non la lascio sola” avrebbe detto la donna stando a quanto ricostruito dal Corriere, anche se “voleva uccidere tutti”. Il giorno dopo la strage avvenuta venerdì sera, poco prima delle 23 in un’abitazione di Corso Vittorio Emanuele ad Avellino, la mamma di Elena è sconvolta ma l’amore materno va oltre. Aveva da tempo capito che la figlia non avrebbe dato ascolto alle raccomandazione sue e del marito che si sono da sempre opposti alla relazione nata con il 22enne di Cervinara (Avellino) con diversi precedenti per droga e reati contro la persona. L’ultimo qualche settimana fa quando ha aggredito il padre, operatore ecologico, promettendogli anche che l’avrebbe ucciso. Un omicidio premeditato nei minimi dettagli dalla coppia che voleva poi simulare un tentativo di furto in casa. Così Elena ha lasciato la porta di casa aperta con la scusa di andare a gettare la spazzatura. Limata è entrato accoltellando almeno sette volte il suocero mentre dormiva sul divano e aveva lasciato accesa la televisione. Gioia è rimasto in vita il tempo necessario a consentire alla moglie a all’altra figlia di lanciare l’allarme e di mettersi in salvo evitando che il piano fosse portato a termine. Le indagini della Squadra Mobile, coordinate dalla Procura irpina, in poche ore hanno ricostruito l’inquietante scenario che ha portato all’arresto della ragazza e del fidanzato che hanno reso piena confessione. La relazione tra la 18enne e il ragazzo di Cervinara era da tempo ostacolata dalla famiglia a causa degli eccessi di violenza del 22enne che in passato aveva minacciato di lanciarsi giù da un ponte dopo essere stato rifiutato da una ragazza minorenne.

Domani davanti al Gip. Elena Gioia e Giovanni Limata sono in stato di fermo e reclusi nel carcere di Avellino. Lunedì 26 aprile compariranno davanti al gip del tribunale di Avellino. Devono rispondere entrambi di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione; per lei l’aggravante in più del legame stretto di parentela. Entrambi hanno confessato. Per Elena è stata la madre a nominare un avvocato. Al legale la donna ha spiegato chiaramente di non voler abbandonare la figlia. Sempre nella giornata di domani, dovrebbe essere conferito l’incarico per l’affidamento dell’autopsia su Aldo Gioia.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 faccio parte della redazione del Riformista.

Omicidio Avellino, ecco tutti i dettagli dell'assassinio di Aldo Gioia. Attilio Ronga su Il Quotidiano del Sud il 25 aprile 2021. Fidanzati diabolici pianificano il delitto della famiglia che si opponeva alla loro storia d'amore. Apre la porta di casa al suo fidanzato, che avrebbe dovuto uccidere tutta la sua famiglia che osteggiava il loro legame sentimentale. Una strage che è solo parzialmente riuscita, visto che a finire vittima di una serie di coltellate è stato il papà della diciottenne complice di un piano folle quanto diabolico: scappare insieme al fidanzato dopo aver eliminato l’unico ostacolo alla loro relazione: la sua famiglia. Una storia che sembra uscire da un noir, un film dell’orrore. Invece è la tragica realtà che ha avuto come scena del crimine il «salotto buono» della città capoluogo, il Corso Vittorio Emanuele, al quinto piano di un palazzo al Civico 253. E’ proprio lì che venerdì sera, poco dopo le ventidue scatta il piano di quelli che sono stati già ribattezzati i «fidanzati diabolici». A fare da prologo a questo episodio ci sono mesi di diatribe legate proprio al rapporto tra i due ragazzi, mai accettato dalla famiglia della diciottenne. Elena Gioia , la ragazza e complice del delitto di suo padre ha appena diciotto anni, studia al Liceo, da qualche tempo è legata ad un ventiduenne di Cervinara, Giovanni Limata, che nonostante la giovane età è stato già raggiunto da un avviso orale da parte del Questore e vanta precedenti per reati contro la persona. Un legame che alla famiglia di Elena non va giù. Papà Aldo Gioia, 53 anni, geometra e caporeparto alla Fma di Pratola Serra e mamma Liliana Ferraiolo, anche lei impegnata nel settore imprenditoriale, non accettano la relazione con il ragazzo che già vanta diversi precedenti. Per questo venerdì sera dovevano morire, insieme ad Emilia, l’altra figlia ventitreenne della coppia. Così, passate le ventidue, mentre la madre e la sorella dopo aver cenato si ritirano nelle loro stanze, Elena resta sola con il papà Aldo, che nel frattempo si era addormentato sul divano. Il momento giusto per far scattare il piano diabolico evidentemente. Elena finge di scendere per depositare rifiuti, ma sarebbe solo un escamotage. In realtà la ragazza apre solo il portoncino del palazzo al suo fidanzato Giovanni, che era arrivato da Cervinara con un coltello di quelli usati per la caccia. Elena lascia aperta anche la porta di casa, al quinto piano della Palazzina nel cuore della città, poi torna nella cameretta condivisa con la sorella. Il piano però non riesce come avevano previsto i due complici. Aldo Gioia stava dormendo, ma quando è stato raggiunto dal primo fendente da parte del suo assassino ha accennato ad una reazione. E’ stato colpito altre sei volte, alla gamba, alla mano e il colpo che verosimilmente ne ha causato il decesso al torace. Giovanni Limata però non porta a termine la sua missione di morte. Scappa, lasciando tracce un po ovunque. Nella colluttazione e dopo, lascia anche nel garage della palazzina, il piano seminterrato usato per dileguarsi, il suo giubbotto. Giovanni Limata smette di colpirlo, si spaventa, avrebbe dovuto uccidere anche la madre di lei e la sorella, che nel frattempo sono accorse a vedere cosa fosse successo. Il giovane torna a Cervinara. Intanto sono passate le 23:30 e nell’appartamento della famiglia Gioia le urla della mamma richiamano anche le due figlie. Perchè lei, la complice dell’omicidio era tornata in camera con la sorella fingendo che non fosse avvenuto nulla e avrebbe mostrato anche stupore per la scena che si è trovata di fronte. Il papà è invece agonizzante all’ingresso della loro abitazione. Arrivano i soccorsi, ma a causa delle ferite riportate Aldo Goia muore al Pronto Soccorso del Moscati di Avellino pochi minuti prima della mezzanotte. Sul posto è giunta prima una Volante della Questura, poi gli agenti della Squadra Mobile agli ordini del dirigente Giancarlo Aurilia e quelli della Scientifica. Qualche parziale ammissione di mamma e sorella, poi la prima traccia nel locale sotterraneo dell’abitazione, il giubbotto ancora macchiato di sangue lasciato nella fuga dal ventiduenne. Una notte di interrogatori in Questura, alla presenza del pm della Procura di Avellino Vincenzo Russo e in mattinata il decreto di fermo di indiziati di omicidio volontario in concorso per la ragazza e per il suo fidanzato, trasferita nel carcere di Bellizzi Irpino.

Da ilmessaggero.it il 25 aprile 2021. Si terrà domani in carcere l'interrogatorio di garanzia d Giovanni Limata ed Elena Gioia, i «fidanzatini» di Avellino che nella serata di venerdì hanno portato a termine l'omicidio di Aldo Gioia, 53 anni, il papà di Elena, 18 anni, che si opponeva alla loro relazione. Ma agli agenti della Squadra Mobile di Avellino ai quali ha reso piena confessione, il 23enne, secondo quanto si apprende, avrebbe dichiarato che il piano per sterminare l'intera famiglia, con l'uccisione programmata anche della madre e della sorella della giovane, sarebbe stato messo a punto e fortemente voluto proprio da Elena. Sono state le grida di aiuto di Aldo, geometra dipendente della Fca di Pratola Serra (Avellino), colpito da sette coltellate inferte da Giovanni, ad allarmare la moglie e l'altra figlia e ad evitare la strage. Il papà di Elena è poi spirato nella notte all'ospedale di Avellino. Nella giornata di domani il pm della Procura di Avellino, Vincenzo Russo, conferirà anche l'incarico per eseguire l'autopsia. Il quadro della vicenda che ha sconvolto la città sarebbe già abbastanza chiaro. Nella notte tra venerdì e sabato, Giovanni ha reso piena confessione agli agenti. Dopo aver colpito il padre della ragazza, Aldo Gioia, aggredito mentre dormiva sul divano, colpendolo per sette volte con un coltello di tipo Cobra, Limata è scappato ed è tornato a Cervinara, nella casa dove vivono i genitori con un fratello. Quando gli agenti della Squadra Mobile si sono presentati alla sua porta, ha indicato dove avrebbero potuto trovare il coltello utilizzato per uccidere e avrebbe anche dichiarato che il piano per sterminare l'intera famiglia sarebbe stato messo a punto e voluto dalla fidanzata. I due ragazzi dovranno rispondere di concorso in omicidio aggravato dalla premeditazione contro un familiare. Rischiano l'ergastolo. Forti della confessione di Giovanni Limata, agli inquirenti è bastato poco per ricostruire come sono andate le cose. Limata ha fatto irruzione in casa intorno alle 22,30 mentre Aldo Gioia dormiva sul divano davanti alla televisione lasciata accesa. Dopo essersi scambiati diversi messaggi telefonici, la ragazza ha fatto scattare l'agguato lasciando aperta la porta di casa dopo essere uscita con la scusa di gettare la spazzatura. Entrato in casa, il giovane ha colpito con furia la vittima che non ha avuto alcuna possibilità di difendersi. È stata la figlia stessa poi a lanciare l'allarme, inscenando, con il padre morente, un presunto furto da parte di fantomatici ladri. La relazione tra la 18enne e Limata era avversata dalla famiglia della ragazza, preoccupata per il carattere ed il passato del giovane, più volte protagonista di eccessi di violenza. La famiglia della ragazza, soprattutto il padre, inutilmente aveva cercato di allontanarla da quel giovane, disoccupato, con precedenti contro la persona e segnalato come assunto di sostanze stupefacenti e che nelle scorse settimane aveva minacciato di morte anche suo padre al termine di un litigio. A quanto si è appreso, la famiglia della ragazza aveva nominato un avvocato di fiducia, Innocenzo Massara, ma ha rinunciato all'incarico (non si conoscono i motivi della decisione) mentre al fidanzato sarà assegnato un difensore d'ufficio visto che non è stato nominato uno di fiducia.

Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 25 aprile 2021. Come fossero la scatola nera di una storia dove il nero è dappertutto, gli smartphone di Elena e Giovanni raccontano le ore e i minuti che precedono la morte di Aldo Gioia, ucciso venerdì sera poco prima delle 23 nella sua casa al quinto piano di un palazzo di corso Vittorio Emanuele, nel centro di Avellino. Elena è la figlia di Aldo, ha da poco compiuto diciotto anni, e con il padre ha smesso di andare d'accordo quando lui le ha detto di chiudere con Giovanni. Perché Giovanni Limata non è mai stato un bel tipo. Uno che con la droga si è rovinato il cervello fino ad arrivare all'autolesionismo, e che a 23 anni ha messo insieme più denunce per rissa che ore passate a lavorare. Venerdì sera Elena è chiusa nella sua stanza e scambia continui messaggi con Giovanni. Ma non si scrivono frasi da ragazzi innamorati, stanno definendo gli ultimi dettagli per ammazzare Aldo, e non solo lui. Giovanni è giù in strada, e ha in tasca un coltello da cacciatore. Elena gli descrive la situazione in casa, e gli ricorda quello che si sono già detti: «Dobbiamo sterminarli tutti». Non deve morire solo il padre: deve morire anche la madre, Liana Ferrajolo, perché pure lei è contraria al loro amore. E deve morire anche Emilia, la sorella più grande di Elena, che la pensa come i genitori. Ritengono di aver organizzato tutto i due fidanzati. Deve solo accadere quello che accade tutte le sere: ognuno chiuso nella propria camera e solo Aldo - che ha 53 anni e lavora come impiegato alla Fca di Pratola Serra - in soggiorno davanti alla tv. Lì, puntualmente, cede al sonno. E infatti il messaggio che Giovanni aspetta è proprio quello: «Si è addormentato, sali». Senza che la madre e la sorella se ne accorgano, Elena gli fa trovare la porta socchiusa. Giovani entra e si scaglia su Aldo. Una coltellata, poi un'altra e un'altra ancora. Alla fine saranno sette i colpi che massacrano il papà di Elena. Ma ammazzare un uomo addormentato non è come fare a botte in strada. Giovanni va nel panico, e quando vede Emilia e Liana entrare nel soggiorno urlando non riesce ad aggredire anche loro. Ha paura, scappa schizzando sangue sul pianerottolo, lungo le scale e nell'androne. Il piano è saltato, Elena ora deve farsi venire un'idea. Tira fuori la solita storia del rapinatore spuntato da chissà dove, come ai tempi del massacro di Novi Ligure provò a fare Erika dopo aver ucciso, con l'aiuto del fidanzato Omar, la madre e il fratellino. Ma non è una storia che sta in piedi, quella che racconta Elena, anche perché Liana e Emilia sono vive, e lo sanno che cosa è successo. Ma lei la ripete per ore alla polizia, mentre la madre e la sorella sono troppo sconvolte e non riescono a dire nulla davanti a Elena che mente. Però le contraddizioni sono tante, e di fronte alla diciottenne ci sono investigatori esperti. Le domande degli uomini della Squadra Mobile e del pm di turno della Procura guidata da Domenico Airoma - il magistrato che risolse l'omicidio di Fortuna Loffredo - fanno andare la diciottenne in contraddizione. Il resto lo raccontano i messaggi WhatsApp. C'è riportato il numero di Giovanni in quelle conversazioni, e in questura ci mettono un attimo a identificarlo e ad andare a cercarlo al suo paese, Cervinara, dove lui si è nascosto a casa dei genitori. La resistenza di Limata alle accuse dura poco o niente. Non lo inchiodano solo i messaggi: ha lasciato impronte dappertutto, a cominciare dal coltello. E poi lo sanno tutti che odiava Aldo, una volta in strada addirittura lo minacciò con una sciabola. Giovanni capisce che gli conviene confessare, ma prova a giocarsi l'unica carta che gli resta, un classico in casi del genere: accusa Elena. Dice che l'idea è stata sua, che lui ha provato a convincerla a rinunciare, ma lei insisteva e alla fine ha ceduto perché cosi avrebbero potuto vivere liberamente il loro amore. E invece l'unica cosa che probabilmente ancora faranno insieme sarà comparire imputati al processo per omicidio.

Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 25 aprile 2021. Liana ha capito subito tutto. Probabilmente ha anche riconosciuto subito l’assassino di suo marito, Aldo Gioia. In un attimo le sono passati davanti agli occhi mesi e mesi di discussioni e litigi con la figlia più piccola. Le sono tornati alla mente quei discorsi di Elena che sembravano così insensati e dettati solo dalla sua ingenuità adolescenziale. Quando urlava che lei con Giovanni ci sarebbe rimasta «a qualunque costo». E diceva: «Poi vedrete», prima di sbattere la porta e chiudersi nella sua stanza.

Sette coltellate al marito. Sua mamma ha capito tutto subito ma disperatamente ha provato a non crederci. E mentre Elena in questura continuava a ripetere che quello che aveva accoltellato suo padre era un rapinatore, uno che voleva derubarli e chissà come era riuscito a infilarsi in casa loro, Liana stava zitta. Non riusciva a dire una parola. Guardava verso Emilia, l’altra figlia, ma non apriva bocca. Solo quando è arrivata la notizia che Aldo non ce l’aveva fatta, che quelle sette coltellate lo avevano ammazzato, Liana ha realizzato di non poter continuare a illudersi che con il tempo tutto potesse tornare a posto. Magari un giorno, al ritorno di suo marito dall’ospedale, ne avrebbero parlato in famiglia e insieme avrebbero trovato una soluzione, una via d’uscita che non segnasse per sempre la vita di Elena.

L’istinto di madre. «Basta. Basta», ha ripetuto sconvolta dal dolore. E in quel momento le bugie di sua figlia hanno iniziato a sbriciolarsi. E Elena stessa si è accorta di non poter insistere ancora con quella storia della rapina.  Davanti alle domande degli uomini della Squadra Mobile ha iniziato a contraddirsi, ad attorcigliarsi in una ricostruzione sempre meno credibile. Fino a quando non le è rimasto altro da fare che rassegnarsi a qualche ammissione. Ma senza mai dare l’impressione di volersi liberare di un peso, senza mai lasciarsi andare a una collaborazione completa. E in quel momento è stata ancora sua madre a pensare a come proteggerla: «Devo trovarle subito un legale, devo fare in modo che possa difendersi». Anche se ha fatto uccidere il padre e «voleva farci uccidere tutti, io non la lascio sola». Anche se la sua famiglia l’ha distrutta comunque, pure se la strage che aveva in mente non si è compiuta fino in fondo.

Strategia difensiva. Liana si è attaccata al telefono e ha svegliato l’avvocato Innocenzo Massaro. «Si occupi di mia figlia, la prego». Sarà lui ad assistere Elena durante l’udienza di convalida. Toccherà a lui individuare in queste ore una strategia difensiva e portarla davanti al gip. Poi avrà modo di parlare a fondo con Elena e provare a capire che cosa è successo veramente nella sua testa di diciottenne che definire ribelle sarebbe riduttivo. Ma un giorno, nemmeno lontano, sarà Liana ad andare a parlare con Elena. E quel giorno non potrà che essere drammatico per tutte e due.

Il vescovo Battaglia: "Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti". L’addio a Maurizio Cerrato, il manifesto di moglie e figlie: “Una lama ha trafitto 4 cuori”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 25 Aprile 2021. Folla e commozione ai funerali di Maurizio Cerrato, il 61enne di Torre Annunziata morto ammazzato con una coltellata al petto lunedì 19 aprile mentre tentava di difendere la figlia che aveva parcheggiato la propria auto in uno spazio occupato arbitrariamente con una sedia da una famiglia residente in IV Novembre. Numerose le persone presenti sia all’interno (nel rispetto delle norme anti-covd) che all’esterno della chiesa Spirito Santo di corso Vittorio Emanuele III nel giorno dove è stato proclamato lutto cittadino nella cittadina torrese. La cerimonia funebre è stata celebrata dal vescovo di Napoli Mimmo Battaglia che ha rivolto un appello contro l’omertà, che ha contrassegnato le indagini di carabinieri e procura, citando Martin Luther King: “Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti. La mafia – ha aggiunto – si annida nell’omertà e nell’indifferenza che uccidono. Dobbiamo rendere conto dei nostri silenzi al Tribunale di Dio”. Tania Sorrentino, moglie di Cerrato, e le figlie Maria Adriana, 20 anni, e Andre Sveva, appena 7 anni, hanno scritto un ultimo messaggio sul manifesto funebre, affisso in più punti della città di Torre Annunziata. ”Come è possibile che una sola pugnalata abbia trafitto quattro cuori‘. Che il silenzio delle persone che si sono voltate da un’altra parte, abbia reso queste ferite non rimarginabili. Il dolore che ci porteremo dentro tutta la vita sarà alleviato solo dal ricordo del tuo amore immenso’. Cercheremo – si legge – in ogni sguardo la luce dei tuoi occhi, in ogni sorriso la gioia del tuo cuore, in ogni gesto il tuo essere. Dacci la forza di continuare a vivere senza te e accompagna il nostro cammino sempre. Mostraci i tuoi occhi quando ci sentiremo perse e senza alcun dubbio ritrovare la retta via. Ci mancherai sempre, "grande eroe". Ti amiamo”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 faccio parte della redazione del Riformista. 

La polizia locale interviene per liberare gli spazi pubblici. Ucciso per un parcheggio, l’ordinanza del sindaco dopo decenni di soprusi: “Vietate le occupazioni abusive”. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 27 Aprile 2021. A una settimana dalla morte di Maurizio Cerrato, l’uomo di 61 anni ucciso a Torre Annunziata per aver difeso la figlia alla quale erano state squarciate le ruote dell’auto per aver spostato una sedia che occupava abusivamente un posto auto, il sindaco della città vesuviana, Vincenzo Ascione, ha firmato un’ordinanza per “rimuovere dal suolo pubblico tutte le occupazioni effettuate dai cittadini non autorizzate dagli uffici comunali competenti”. Nel provvedimento si diffida l’intera popolazione da “qualsiasi occupazione illegittima della sede stradale finalizzata al riservarsi un posto auto o moto senza averne alcun titolo o diritto”. Usanza che va avanti da molti anni nel territorio. Una stretta che arriva troppo tardi per Cerruto, ma che potrebbe evitare il verificarsi di nuovi episodi simili. Lo scorso fine settimana, gli agenti della polizia locale hanno effettuato una ricognizione per rimuovere dal suolo pubblico di oggetti indebitamente posizionati. Infine – fa sapere il Comune – sono stati affidati i lavori di manutenzione straordinaria dell’impianto di videosorveglianza. “Ho posato un fiore in memoria di Maurizio Cerrato e lì ho trovato una comunità che reagisce e respinge la criminalità”, è il messaggio contenuto in un post su Facebook del deputato del Movimento 5 Stelle Luigi Gallo. “Io come cittadino di questi territori – prosegue – ci sono per costruire regole comuni per le forze politiche che vogliano contrastare seriamente l’ecosistema criminale”.

“Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti. La mafia si annida nell’omertà e nell’indifferenza che uccidono. Dobbiamo rendere conto dei nostri silenzi al Tribunale di Dio”, con queste parole il vescovo di Napoli Mimmo Battaglia aveva dato l’ultimo saluto a Maurizio nel corso dei funerali di domenica scorsa.

Massimiliano Cassano. Napoletano, Giornalista praticante, nato nel ’95. Ha collaborato con Fanpage e Avvenire. Laureato in lingue, parla molto bene in inglese e molto male in tedesco. Un master in giornalismo alla Lumsa di Roma. Ex arbitro di calcio. Ossessionato dall'ordine. Appassionato in ordine sparso di politica, Lego, arte, calcio e Simpson.

Da leggo.it " il 27 aprile 2021. Elena e Giovanni si sarebbero scambiati dei messaggi prima di uccidere il padre di lei, Aldo Gioia. La coppia di fidanzati è entrata nella casa di famiglia ad Avellino e ha accoltellato l'uomo. Le sue grida hanno svegliato il resto della famiglia che ha chiamato i soccorsi, facendo così saltare il piano dei due fidanzati che era quello di uccidere tutti. I due fidanzati sono stati arrestati e ora stanno andando avanti le indagini per comprendere meglio la dinamica dei fatti. Sono emerse anche delle chat della coppia, come riporta il Corriere della Sera, conversazioni avvenute pochi giorni prima del delitto in cui Elena scrive al fidanzato «Quando li uccidiamo?», ripetendogli poco dopo la stessa frase e ricevendo in risposta da lui un «Lo faccio perché li odi». Proprio Giovanni subito dopo l'arresto ha puntato il dito contro la fidanzata dicendo che lo avrebbe costretto a compiere il delitto. Una versione dei fatti che la famiglia di lei non accetta, il fratello del padre di Elena la descrive come una ragazza speciale che sarebbe stata plagiata. Il giudice per le indagini preliminari Paolo Cassano ha confermato ieri la custodia cautelare in carcere per i due, dopo che la coppia, seguita da due avvocati differenti, si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Intanto l'autopsia ha confermato che ad uccidere Aldo sono state 14 coltellate inferte con un coltello da caccia.

La strage pianificata: "Non deve restare nessuno". “Sali amo’, papà sta dormendo”, la chat dei fidanzati prima del massacro di Avellino. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 28 Aprile 2021. Un piano architettato fin nei minimi dettagli, che a una lettura superficiale appare anche innocuo: “Sali amò, papà sta dormendo. Appena hai finito vieni da me e ce ne andiamo”. Sono i messaggi che Elena Gioia invia al suo fidanzato, Giovanni Limata, per avvertirlo che l’agguato verso suo padre Aldo poteva finalmente compiersi. Giovanni lo ha ucciso venerdì scorso, con 14 coltellate, dopo essere riuscito a entrare in casa dalla porta, lasciata aperta di proposito da Elena: “Scendo a buttare la spazzatura, così non desto sospetti né nulla, poi mi prendo a Milly (il cane, ndr) e mi chiudo in camera, quando hai finito ce ne andiamo”. Anche la fuga era stata organizzata, a poche ore dall’omicidio. Negli zaini, poi ritrovati dagli investigatori, anche un paio di costumi da bagno. E ancora, la preoccupazione per la batteria del cellulare: “Se si scarica a entrambi saremo nei guai perché dovremmo aspettare la mattina dopo per lasciare Avellino, non avremmo come chiamare”. Un passaggio chiave, poi, il messaggio inviato intorno alle 21.10, pochi minuti prima del crimine: “Amo’ no mia sorella non può rimanere, capisci meglio cosa intendo per favore”, scrive Elena a Giovanni, che le risponde: “Anche lei, hai deciso?”, e Elena: “Ho deciso, non deve rimanere nessuno”. “Dai messaggi di testo che i due si sono scambiati si desume il loro fermo proposito di uccidere il padre di lei”, scrive il magistrato nell’ordinanza di custodia cautelare. Ma il piano complessivo prevedeva lo sterminio dell’intera famiglia Gioia. Le altre donne di casa, la madre Liana Ferrajuolo e la sorella Emilia, riescono a salvarsi. Limata scappa, e gli inquirenti stanno cercando di capire se una ragazza lo abbia accompagnato a casa, dove è stato poi ritrovato dalle forze dell’ordine. Ieri intanto si sono svolti i funerali nella parrocchia San Ciro di Avellino. Presenti i colleghi di Aldo, Liana ed Emilia che cercano di evitare i fotografi, e le amiche di Elena, adolescenti come lei, visibilmente scosse. Una di loro ha confidato ai cronisti: “Da qualche mese non era più la stessa, di sicuro è stata plagiata, le è successo qualcosa”.

Massimiliano Cassano. Napoletano, Giornalista praticante, nato nel ’95. Ha collaborato con Fanpage e Avvenire. Laureato in lingue, parla molto bene in inglese e molto male in tedesco. Un master in giornalismo alla Lumsa di Roma. Ex arbitro di calcio. Ossessionato dall'ordine. Appassionato in ordine sparso di politica, Lego, arte, calcio e Simpson.

Gianni Colucci per "il Mattino" il 26 aprile 2021. È già rimpallo di responsabilità: da una parte Giovanni Limata, 23 anni, dall' altra la sua ragazza diciottenne Elena Gioia. Lui la accusa: «Mi ha detto quello che dovevo fare»; Lei replica: «Abbiamo deciso insieme». I due sono considerati gli assassini del padre della giovane, Aldo Gioia, 53 anni, geometra della Fca di Pratola Serra. L' omicidio è avvenuto venerdì sera con sette colpi di coltello mentre l'uomo era appisolato sul divano di casa. A sferrarli il giovane di Cervinara che aveva deciso tutto insieme alla ragazza, organizzando l'omicidio con una serie di messaggi telefonici: «Sto scendendo», è l'ultimo in ordine di tempio, partito dal telefono della ragazza. Ma anche: «Sei giù? Scendo e poi saliamo insieme», insomma la scansione dei momenti precedenti al delitto è nelle mani della squadra Mobile di Avellino diretta dal vice questore Gianluca Aurilia. I due si erano messaggiati via whatsapp (ma sono in corso verifiche su una serie di messaggi cancellati da Elena e che invece sono sul telefono di Giovanni) anche nei giorni precedenti, fino all' incontro di venerdì sera, dopo le 22 a Corso Vittorio Emanuele, in pieno centro ad Avellino. Verifiche sopratutto nelle parti in cui i messaggi facevano riferimento alla volontà di uccidere anche madre e sorella. Un caso complesso che ha subito creato qualche difficoltà: l'avvocato della famiglia Gioia, Innocenzo Massaro, ha rinunciato all' incarico alla vigilia dell'interrogatorio di garanzia fissato per oggi. La madre della ragazza, Liana Ferraiolo, ha dato l'incarico ieri sera a suo fratello, l'avvocato Umberto Ferraiolo. Oggi anche la nomina al perito per l'esame autoptico della salma. In casa Limata a Cervinara ore di angoscia. Il papà di Giovanni, Pietro, che fa l'autista del camioncino di IrpiniAmbiente, la società dei rifiuti, ha provato a ricostruire con l'avvocato Mario Picca, il dramma del figlio: «Non riesco a spiegarmelo». Con lui la madre del giovane e i due fratelli, una ragazza più grande che vive fuori dal paesino e il fratello ancora minorenne. La camera da letto di Giovanni è sigillata. Dentro la piccola scrivania, non c' è più il computer, portato via dalla polizia; restano i poster alle pareti con i suoi eroi: i wresteler che venerava, su tutti John Cena. Ma bisogna scavare nella vita di questo ragazzo che aveva alle spalle episodi inquietanti come quel tentativo plateale, risalente a due anni fa, di gettarsi in un torrente per attirare l'attenzione di una ragazza che gli piaceva. Quella di stamattina sarà una giornata decisiva, nel corso degli interrogatori di convalida degli arresti saranno ricostruiti i drammatici momenti della notte di venerdì scorso, come sono stati messi in fila, in una scansione da giallo di Jo Nesbø, dal sostituto procuratore della Repubblica Vincenzo Russo. Lo scontro che si profila sulla base delle due versioni, tuttavia non può prescindere dalla sequenza dei minuti precedenti all' omicidio, come dalle confessioni dei fidanzatini. Poca gente in strada, ma loro due confabulavano fitto fitto sotto al portone. Poi Elena sale a casa. Qualche parola con i genitori, con la sorella Emilia. Intanto Giovanni è in strada, giubbotto con il coltello modello Cobra in tasca. Aspetta un segnale. Arriva con il whatsapp di Elena e lui si avvicina al portone. Elena scende di casa, porta il sacchetto con l'immondizia. Lui la incontra giù e sale con lei al quinto piano. L' appartamento è in penombra. La sorella maggior della ragazza, la madre Liana sono in camera. Il papà, il primo della lista che i due si erano fatti. Era appisolato. Quindi lesplosione di una furia omicida cieca. Gioia si alza, prova ad alzarsi, ma i fendenti che l'hanno colpito arrivano in sequenza sul petto, sulle mani che solleva nel tentativo estremo di difendersi. Giovanni vede il sangue a fiotti, si impaurisce, la lucida follia cede il passo al terrore, scappa. Finalmente l'incubo pare svanire. Ma Elena mette in campo la seconda parte del piano. Dice che si tratta di un tentativo di rapina, che qualcuno si è introdotto in casa. La madre chiama la polizia, forse ha intuito che quel ragazzo poteva essere Giovanni, quello che per mesi e mesi aveva occupato i discorsi in famiglia, quello sui cui Elena si era incaponita. Vibrante il commento del vescovo Arturo Aiello: «Sento che il sangue ha macchiato questa città in tutte le vie, in tutti i palazzi, un sangue che non si può nettare: riguarda tutti, chiama in causa tutti, singole persone e nuclei familiari, le istituzioni dello Stato e della Chiesa, i giovani sul corso e quelli che stazionano, nonostante divieti, dietro la Cattedrale o sotto i platani». Il prefetto di Avellino, Paola Spena, nel corso della cerimonia per il 25 aprile, ieri mattina ad Avellino, è tornata sulla vicenda: «La situazione pandemica ha favorito un chiudersi in sè stessi e forme deliranti di progettazioni folli».

Omicidio di Avellino, la mamma di Giovanni: “Non era solo, è stato manipolato da Elena”.
Alberto Pastori su Notizie.it il 29/04/2021.  "Giovanni era manipolato da Elena": queste le parole di Maria Crisci, madre di Giovanni Limata, il 23enne accusato dell'omicidio di Avellino. Maria Crisci, la madre di Giovanni Limata, il ragazzo di 23 anni reo confesso dell’omicidio di Aldo Gioia, sostiene la stessa versione già raccontata dal figlio. Il 23enne avrebbe agito come una sorta di burattino nelle mani della fidanzata Elena Gioia, la quale avrebbe deciso e pianificato l’omicidio di tutti i componenti della sua famiglia. Le forze dell’ordine e gli inquirenti hanno ricostruito quanto accaduto la sera del 23 Aprile 2021. Giovanni Limata, armato di un coltello da caccia, sarebbe entrato nell’abitazione della famiglia Gioia, situata al centro di Avellino, con in mente di uccidere il padre 53enne di Elena, la madre e la sorella. Con il pretesto di buttare la spazzatura, Elena avrebbe lasciato la porta di casa aperta in modo che il fidanzato potesse entrare per compiere gli omicidi. Le urla del padre, accoltellato 14 volte e morto durante il trasporto in ospedale
, avrebbero però messo in fuga il ragazzo prima di compiere la strage. Limata si sarebbe fatto accompagnare a casa da un’amica e dalla madre di lei, ignare di quanto accaduto qualche istante prima e già ascoltate in procura.

Omicidio di Avellino: la confessione. Interrogata, Elena avrebbe inizialmente raccontato di una irruzione da parte di alcuni ladri. Ma la verità fu subito scoperta. Rintracciato a casa sua, Giovanni avrebbe confessato l’omicidio di Aldo Gioia e dove aveva nascosto l’arma del delitto. Inoltre, disse che a pianificare tutto era stata la 18enne fidanzataIl motivo sarebbe stato l’opposizione alla loro relazione da parte della famiglia Gioia. Secondo Mario Villani, l’avvocato della famiglia, la vicenda è ancora da definire. Villani, infatti, sostiene che la sera dell’omicidio Giovanni non fosse solo all’interno della casa.

Omicidio di Avellino: la madre di Giovanni. La madre di Giovanni Limata, Maria Crisci, in una intervista rilasciata al quotidiano Il Mattino, ha spiegato dei momenti difficili vissuti dal figlio in passato. Il 23enne, in seguito ad una delusione d’amore, avrebbe tentato il suicidio, ma ha “sempre reagito trovando la famiglia dalla sua parte a sostenerlo”. La donna ha poi ricostruito il pomeriggio del 23 Aprile dicendo che Giovanni aveva preso l’autobus per andare ad Avellino, tornando a casa la sera “stanco, strano, accompagnato da qualcuno. Poi sono arrivati i poliziotti e l’hanno preso”. Secondo la madre Giovanni “era convinto di non avere ucciso nessuno”. Maria Crisci ha concluso dicendo: “Non è la nostra famiglia che non ha amore al suo interno”.

Alberto Pastori. Nato a Magenta (MI), classe 1984, è laureato in Teoria e Metodi per la Comunicazione presso l'Università Statale di Milano. Prima di collaborare con Notizie.it, ha scritto per ChiliTV, That's All Trends e Ultima Voce.

Gli rubano Rolex, li insegue in auto e li sperona: i due fuggitivi morti nella caduta. Irene de Arcangelis su La Repubblica il 27 marzo 2021. E' accaduto in provincia di Napoli. La vittima della rapina si presenta in caserma e racconta tutto. Poi l'interrogatorio fiume. Ora è accusato di omicidio volontario. Ma nega: "Mi hanno sottratto la Smart". A bordo della sua auto la vittima della rapina insegue i due giovani che gli hanno preso il Rolex, una corsa ad alta velocità tra Marano e Villaricca, in provincia di Napoli. Li raggiunge e li sperona. L’impatto è violento, i due malviventi muoiono sul colpo. Poi la vittima, Giusepe Greco, si presenta ai carabinieri e racconta quanto è successo. L'accusa: omicidio volontario. E' indagato a piede libero per questo reato l'uomo che alla guida della sua Smart For 4 ha inseguito e speronato lo scooter con a bordo Domenico Romano, 40 anni, e Ciro Chirollo 30 anni. Ma Greco, nel corso del lungo interrogatorio reso al pm Paolo Martinelli, ha riferito di essere stato rapinato ma non di aver investito i due uomini. In particolare ha raccontato che i due banditi lo avrebbero rapinato, pistola in pugno, del Rolex, mentre altri complici gli avrebbero sottratto la Smart su cui viaggiava. Si tratta di un giovane di ventisei anni incensurato. Tutto è successo venerdì sera intorno alle 19.30 in via Consolare Campana a Marano. I carabinieri poco dopo trovano i corpi di accanto c’è una moto T Max, una pistola con matricola abrasa e un orologio Rolex, poco distante una Smart For Four contro un muro. Vengono identificati i due corpi. Si tratta di Domenico Romano, 40 anni, e Ciro Chirollo, 30 anni, entrambi pluripregiudicati di Sant’Antimo. Intanto in caserma arriva Giuseppe G. e racconta della rapina del Rolex e dell’inseguimento. Ci sono alcune telecamere di videosorveglianza. Durante la corsa l’incidente e la caduta dei due rapinatori dallo scooter, morti per politrauma, mentre Giuseppe G. finisce con la Smart contro un muro.

Scenario raccapricciante. Schianto e sangue a Napoli: due cadaveri, pistola e rolex a terra e possibile fuga. Redazione su il Riformista il 26 Marzo 2021. Smart schiantata contro un muro e a terra, vicino, il cadavere di un uomo, poco distante uno scooter T-max sempre a terra e, a una ventina di metri, il corpo senza vita di un altro uomo con vicino un rolex e una pistola. E’ questo lo scenario che si sono ritrovati davanti agli occhi polizia municipale e carabinieri in via Consolare Campana a Villaricca, comune in provincia di Napoli. L’episodio è avvenuto intorno alle 21 di venerdì 26 marzo. I militari della compagnia di Marano stanno vagliando tutte le ipotesi: dal tentativo di rapina finito male, ad un’esecuzione. Al momento non si esclude nessuna pista anche se quella privilegiata sembra essere la prima. Non si esclude la presenza di una terza persona che potrebbe essere fuggita. Le due vittime non sono state al momento identificate. Non è chiaro se nella zona sono presente le telecamere di videosorveglianza per provare a ricostruire con esattezza quanto accaduto. I militari sono anche alla ricerca di testimonianze.

I rapinatori sono morti sul colpo. Gli rubano il Rolex, li investe con l’auto poi confessa: 25enne indagato per omicidio volontario. Elena Del Mastro su il Riformista il 27 Marzo 2021. Gli hanno puntato contro una pistola e portato via il Rolex in sella a uno scooter. Lui li ha inseguiti a bordo della sua auto, una corsa ad alta velocità tra Marano e Villaricca, comuni della Provincia di Napoli. Li ha speronati e i due rapinatori Domenico Romano, 40 anni, e Ciro Chirollo, 30 anni, di Sant’Antimo, sono morti sul colpo. Resosi conto di ciò che aveva fatto è sceso dall’auto e si è allontanato a piedi facendosi accompagnare alla caserma dei carabinieri di Marano per costituirsi e confessare tutto. Ora l’uomo, un 26enne incensurato di Marano è indagato per omicidio volontario. Durante un interrogatorio nella notte ha raccontato cosa era successo ammettendo di aver inseguito e investito i due rapinatori. I due lo avevano fermato intorno alle 20 in via San Rocco. A bordo di uno scooter e puntandogli la pistola contro gli avevano intimato di sfilarsi il rolex e consegnarglielo. Ma lui non si è arreso e ha iniziato a inseguirli a bordo della sua Smart per alcuni metri, fino all’altezza della rotonda di via Consolare Campana dove li ha raggiunti e li ha speronati. I due sono balzati sull’asfalto e l’auto è finita contro un marciapiede. Poi preso dal panico ha lasciato l’auto sul posto ed è corso via a piedi. Due automobilisti che passavano da lì hanno visto a terra i due corpi e hanno allertato i Carabinieri. Ma per i due rapinatori non c’era più niente da fare. Le indagini chiariranno se i due rapinatori sono morti per l’impatto con l’asfalto o dopo essere stati travolti dall’auto. Sui corpi dei due sono stati riscontrati infatti diversi politraumi. Sul luogo dello scontro è stato ritrovato anche un proiettile ma per gli inquirenti nessuno dei coinvolti ha espoloso colpi di arma da fuoco. Al vaglio le immagini di vidosorveglianza della zona. Il 25enne è stato ascoltato per ore dal pm del tribunale di Napoli Nord per chiarire la sua versione dei fatti su quanto accaduto a Marano. Avrebbe anche detto che i due volevano rubargli anche l’auto. Secondo quanto si è appreso, al momento è a piede libero ma indagato per omicidio volontario. Le indagini sono coordinate dal pm di Napoli Nord Paolo Martinelli con il procuratore aggiunto Carmine Renzulli.

Rapinatori morti a Marano, fermata la vittima di Chirollo e Romano: “Li ha travolti e uccisi in auto”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 31 Marzo 2021. Prima svolta nella vicenda della rapina di Marano, dove venerdì scorso il 30enne Ciro Chirollo e il 40enne Domenico Romano sono morti dopo aver compiuto una rapina ai danni del 26enne Giuseppe Greco. Il giovane è stato fermato questa mattina dai carabinieri del comando provinciale di Napoli, che hanno dato esecuzione ad un ordine di fermo emesso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli Nord. Agli inquirenti, le indagini sono coordinate dal pm di Napoli Nord Paolo Martinelli con il procuratore aggiunto Carmine Renzulli, sono serviti alcuni giorni per ricostruire il caso, attraverso testimonianze, sopralluoghi e l’acquisizione di numerosi filmati. Secondo le ipotesi della Procura di Napoli Nord le due vittime, dopo aver commesso la rapina di un orologio Rolex mentre Greco si trovava a bordo della sua Smart in via Consolare Campana, tra Marano e Villaricca, nell’area Nord di Napoli, si sono allontanate a bordo di uno scooter, inseguite da Greco alla guida della sua vettura. Greco li avrebbe quindi raggiunti e investiti, causando loro traumi talmente gravi da provocarne la morte. Sul luogo dell’impatto è stato ritrovato un orologio, corrispondente per marca a quello che sarebbe stato provento della rapina, ed una pistola Beretta che era probabilmente in possesso dei due rapinatori. Non ha retto dunque la versione fornita dal 26enne Greco, che aveva confermato al pm di essere stato rapinato del rolex e dell’auto, respingendo l’accusa di aver travolto Chirollo e Romano, pregiudicati ed entrambi di Sant’Antimo. Subito dopo la rapina e “l’incidente”, Greco si era presentato ai carabinieri ed era stato interrogato per ore dal sostituto procuratore di Napoli Nord Paolo Martinelli, con la decisione di iscriverlo nel registro degli indagati senza richiedere misure cautelari.

Il 26enne ha ammesso di aver raccontato bugie "per paura". Travolti e uccisi dopo rapina, Greco confessa: “Volevo solo prendere la targa, sono sconvolto”. Redazione su Il Riformista l'1 Aprile 2021. Inchiodato da prove schiaccianti, a partire dalle immagini delle telecamere di videosorveglianza agli audio whatsapp girati alla fidanzata subito dopo l’incidente, Giuseppe Greco, visibilmente sotto choc, ha confessato di aver tamponato lo scorso 26 marzo lo scooter con a bordo i due rapinatori Ciro Chirollo e Domenico Romano aggiungendo che “non aveva alcuna intenzione di ucciderli”. Nel corso dell’interrogatorio di garanzia avvenuto durato un’ora e mezza e avvenuto questa mattina, giovedì primo aprile, nel carcere di Poggioreale dopo il fermo con l’accusa di duplice omicidio, il 26enne ha ammesso di aver raccontato il falso e ha chiesto più volte scusa alle famiglie delle due vittime. Il gip ha convalidato il fermo disponendo il carcere per Greco e rigettando la richiesta degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico avanzata dal suo legale. Stando alla ricostruzione della Procura di Napoli Nord, guidata dal procuratore facente funzioni Carmine Renzulli, e dei carabinieri della Compagnia di Marano, Greco ha speronato con la sua Smart forfour di colore bianco lo scooter Tmax con a bordo i due uomini che poco prima, armati di una pistola, lo avevano rapinato di un rolex (i 200 euro denunciati sempre dalla vittima non sono stati trovati in possesso dei due rapinatori). Difeso dal penalista Domenico Della Gatta e alla presenza del sostituto procuratore Paolo Martinelli, Greco ha ammesso tutto davanti al gip di Napoli Nord Nicola Paone. “Volevo solo prendere la targa“. Il giovane, che con la fidanzata gestisce un sito internet di vendita di capi di abbigliamento, ha spiegato di aver detto falsità dopo la rapina (“Erano loro alla guida”) “per paura di ritorsioni, per non deludere la mia fidanzata e la mia famiglia. Ho sbagliato, cercate di capirmi, sto male vi prego aiutatemi” ha implorato al magistrato. “Anch’io volevo tornarmene a casa, poi li ho incrociati alla rotonda di San Rocco, a meno di un chilometro di distanza dal punto della rapina, e a quel punto ho pensato di inseguirli, ma non per ucciderli, ma per la targa; in prossimità di una curva, lì ho tamponati e ho perso il controllo della mia Smart, che dopo qualche metro si è fermata. L’auto non funzionava più, così sono sceso, e non sono passato sopra i loro corpi come ho letto. Poco dopo ho incontrato un ragazzo in scooter che mi ha riaccompagnato sul luogo della rapina e poi a casa. Quindi, con mio fratello, mi sono recato dai carabinieri. Sono sconvolto. Se volete vi accompagno sul posto”.

IL MESSAGGIO ALLA RAGAZZA – “Sto con la macchina mia, si sono rubati la macchina, sono andato a vedere… per vedere se li acchiappavo, si sono schiattati nella via del Padreterno, si sono uccisi…”. Parole contraddittorie quelle inviate alla fidanzata subito dopo l’incidente avvenuto venerdì 26 marzo a Marano in via Antica Consolare Campana. C’è poi la testimonianza di due guardie giurate che hanno riferito di aver visto la Smart inseguire a tutta velocità il Tmax con a bordo Chirollo e Romano.

LA PRIMA VERSIONE – “Ero impaurito e insanguinato – ha detto parlando del momento post-rapina – fortunatamente è passato un ragazzo in scooter che conosco di vista, si è fermato e mi ha aiutato; con lui ho fatto un giro della zona, scoprendo un chilometro più avanti i pezzi della carrozzeria della mia Smart e i due corpi vicini. Mi sono fatto quindi accompagnare a casa e sono poi andato dai carabinieri”. Greco ha poi aggiunto di aver visto un’auto modello giapponese scura che forse aspettava i rapinatori, forse per tendere loro un agguato, ma dell’auto non c’è traccia. La dinamica del sinistro stradale ha comunque convinto gli inquirenti ad indagare Greco; uno dei banditi era vicino allo scooter, l’altro poco più avanti nei pressi della Smart di Greco, in posizioni compatibili con uno speronamento che li avrebbe fatti cadere mentre erano sul mezzo.

STRISCIONI RIMOSSI – Sono stati rimossi nella mattinata di lunedì 29 marzo gli striscioni esposti a Sant’Antimo, comune a nord di Napoli, per ricordare Ciro Chirollo, il 30enne ucciso venerdì 26 marzo a Marano nel corso di un tentativo di rapina. La Commissione Straordinaria della Prefettura, assistita dai Carabinieri della locale Tenenza, ha provveduto a far rimuovere due striscioni dedicati all’uomo. L’operazione si inquadra nel piano di interventi per il ripristino della legalità con la rimozione di manufatti o altri simboli che insistono abusivamente sulla pubblica via, ferma restando l’eventuale sussistenza di specifici reati. “Resterai per sempre nei nostri cuori. Ciro vive” è il testo presente sul primo striscione. Sul secondo: “Hai lasciato un vuoto incolmabile, un vuoto dentro che nessuno potrà riempire. Eri una persona fantastica, sapevi tanto amore a tutti. Ora sei volato in cielo dal tuo papà. Sono sicura che ti ameranno tutti gli angeli del paradiso”.

 “Care toghe, rispettate la Costituzione”. A Napoli è scontro aperto tra penalisti e magistrati. Lo scontro a causa dei ritardi per l'accesso ai benefici e la loro registrazione: "Cari magistrati di sorveglianza o ripristinate la legalità costituzionale della pena risolvendo tutte le criticità evidenziate, oppure vi autosospendete". Valentina Stella su Il Dubbio il 27 marzo 2021. È scontro durissimo tra penalisti e magistrati a Napoli: da un lato le Camere Penali del Distretto di Corte di Appello, dall’altro il Tribunale di Sorveglianza e la giunta dell’Anm. Il casus belli, come vi abbiamo raccontato due giorni fa,  è rappresentato da un documento dei penalisti campani in cui denunciano gravissime e non più tollerabili criticità degli uffici di sorveglianza: «Inaccettabile» è per loro il tempo tra la presentazione delle richieste di accesso ai benefici e la loro registrazione, il tempo tra quest’ultima e la fissazione dell’udienza, l’elevato numero di rinvii delle udienze per carenza o assenza di istruttoria, la tempistica di invio delle impugnazioni alla Cassazione, di decisione sui permessi premio, di valutazione sulle istanze di liberazione anticipata, reclamo e riabilitazione. «Da troppi anni nel distretto di Napoli viene sistematicamente mortificato il diritto dei detenuti a espiare la pena secondo principi e modalità conformi al dettato costituzionale», ci aveva detto Marco Campora, Presidente della Camera Penale di Napoli. E invero lo stesso Presidente della Corte di Appello di Napoli, Giuseppe de Carolis di Prossedi, all’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario aveva sottolineato le disfunzioni riguardanti gli uffici di sorveglianza: «Risulta significativamente aumentata del 21 per cento la pendenza dei procedimenti del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, passati da 28.039 a 33.983; così anche nell’ Ufficio di Sorveglianza di Napoli, anche qui è aumentata la pendenza, e nell’ufficio di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere. Mentre invece risulta ridotta la pendenza negli uffici di sorveglianza di Avellino, passando da 2.372 a 2.042. Nel complesso però gli uffici di sorveglianza sono in grande sofferenza. Siccome sono un ufficio molto delicato, questo sicuramente è un dato che ci fa riflettere». Tuttavia la miccia che ha fatto scoppiare lo scontro è stata la richiesta che concludeva il documento dei penalisti: cari magistrati di sorveglianza o «ripristinate la legalità costituzionale della pena», risolvendo tutte le criticità evidenziate, oppure «vi autosospendete dal servizio per impossibilità di rispettare le norme codicistiche e costituzionali». Proposta irricevibile da parte della Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, Angelica Di Giovanni, che ha richiesto l’apertura di una pratica a tutela al Csm, la cui attività istruttoria rimarrà non pubblica fino al suo esito nel plenum. A tale iniziativa, replica così la Camera Penale di Napoli: «Il senso del nostro documento era – ed è – chiarissimo e non suscettibile di fraintendimenti: le condizioni in cui versa il Tribunale di Sorveglianza sono gravissime e producono la sistematica violazione dei principi costituzionali e dei diritti dei detenuti. Avevamo invitato i magistrati di sorveglianza a partecipare con noi ad una battaglia per il ripristino delle condizioni minime di legalità e giustizia. La risposta fornitaci è stata invece una chiusura corporativa netta, intrisa di riflessi pavloviani laddove si riesuma l’istituto vintage del “fascicolo a tutela”». Per i penalisti partenopei l’invocazione della «carenza di mezzi e risorse» è un «mero alibi deresponsabilizzante. Sarà forse impopolare dirlo ma la carenza di mezzi e di risorse impone a ciascuno di noi, a seconda dei propri ruoli e delle proprie responsabilità, di fare qualcosa di più». Nel dibattito, come anticipato, è intervenuta anche la giunta dell’Anm di Napoli, il cui Presidente, Marcello De Chiara, dice al Dubbio: «La magistratura di sorveglianza napoletana è da sempre avanzato baluardo nella tutela dei diritti dei detenuti; mi pare che, con grande onestà, ciò sia stato riconosciuto dagli stessi avvocati, ma con la stessa onestà debbo dire che attribuire ai magistrati di sorveglianza la sistematica violazione delle norme costituzionali è un’accusa ingiusta ed in alcun modo aderente alla realtà dei fatti». E prova a distendere i toni: «Auspico che con la Camera Penale di Napoli possano esservi al più presto occasioni di reale confronto. Le proposte di collaborazione non possono però essere veicolate attraverso comunicati stampa o accompagnate da richieste di autosospensione che rischiano di assumere il significato di una inutile, anche se involontaria, provocazione: bisogna invece al più presto incontrarsi, ragionare insieme, unire le nostre alte professionalità per individuare tutte le possibili soluzioni; in questa direzione va il mio auspicio ed intendo adoperarmi personalmente».

Lo scontro. Tribunale di Sorveglianza nel caos, a Napoli è guerra tra magistrati e penalisti. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 26 Marzo 2021. Decisioni sulla scarcerazione dei detenuti non sempre tempestive, difficoltà nel completamento delle istruttorie, organici ormai ridotti all’osso: le difficoltà del Tribunale di Sorveglianza di Napoli sono evidenti. Ma quelli dell’ufficio giudiziario partenopeo non ci stanno a passare per giudici poco rispettosi delle norme costituzionali e di legge, come sostenuto dalle Camere penali in un durissimo comunicato. E così la presidente Angelica Di Giovanni ha chiesto al Csm di aprire una pratica a tutela di tutte le toghe della Sorveglianza: una decisione clamorosa che determina uno scontro frontale tra magistrati e avvocati che forse non si vedeva dagli anni Novanta, quando i penalisti puntarono il dito contro la gestione della Procura partenopea all’epoca guidata da Agostino Cordova. L’iniziativa di Di Giovanni è la risposta al documento con cui le Camere penali di Napoli e dintorni hanno denunciato le disfunzioni del Tribunale di Sorveglianza del capoluogo, chiedendo alle toghe di sollecitare un intervento risolutivo da parte del governo Draghi e minacciando l’astensione dalle udienze. Dalla parte dei vertici dell’ufficio giudiziario si è già schierata la giunta partenopea dell’Anm: «I toni utilizzati dagli avvocati non rispondono alla necessità di un confronto sereno e proficuo – spiega Marco Puglia, componente della giunta locale dell’associazione e, tra l’altro, giudice di sorveglianza a Santa Maria Capua Vetere – Noi magistrati siamo consapevoli delle criticità che affliggono il Tribunale, ma non possiamo essere additati come soggetti che violano la Costituzione e le leggi. Anche perché, durante l’emergenza Covid, lo stesso Tribunale di Sorveglianza ha continuato a lavorare senza sosta». Emblematica, in questo senso, è la vicenda del carcere di Carinola dove, tra marzo e maggio 2020, il numero dei detenuti si è ridotto da 480 a 360 proprio per effetto delle scarcerazioni disposte dall’Ufficio di Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere. Ciò non toglie che il Tribunale partenopeo viva una situazione di impasse dovuta soprattutto alla mancanza di circa il 45% del personale amministrativo e dei cancellieri. Non ci sono scoperture significative, invece, per quanto riguarda i magistrati che, da un anno a questa parte, sono stati comunque falcidiati dal Covid. Fatto sta che avvocati e detenuti devono spesso fare i conti con istruttorie spesso incomplete e tempi delle decisioni sulle scarcerazioni troppo lunghi, come denunciato dalle Camere penali. «C’è da dire – replica Puglia – che spesso le istruttorie presuppongono l’acquisizione di documenti da parte di altri soggetti, per esempio dalle forze dell’ordine, che sono oberati di lavoro e quindi non in grado di fornire una risposta celere alle sollecitazioni dei nostri uffici». Quanto alla lentezza del Tribunale di Sorveglianza, secondo il segretario dell’Anm napoletana «si tratta di una circostanza quasi fisiologica alla luce dell’enorme mole di lavoro che grava sugli uffici». A confermarlo sono i numeri: dall’ultimo bilancio annuale emerge che la Sorveglianza deve occuparsi di una popolazione carceraria che supera stabilmente le 6mila e 500 unità e gestire le circa 8.426 persone prese in carico dall’Ufficio esecuzione penale esterna. Ma come la mettiamo con le istanze di differimento della pena per detenuti gravemente malati? «Quelle beneficiano di un canale privilegiato – fa sapere il giudice Puglia – che è costantemente monitorato da magistrati e cancellieri e, dunque, gode di particolare attenzione». Di sicuro il Tribunale di Sorveglianza di Napoli è e resta il simbolo di una giustizia perennemente impantanata, anche e soprattutto a causa della scarsa attenzione riservatale dal Governo nazionale, quasi come se l’attività dei tribunali fosse una questione di secondaria importanza rispetto a quelle più direttamente legate all’economia e allo sviluppo. Ora, però, non c’è solo da risolvere le criticità dell’ufficio diretto dalla giudice Di Giovanni, ma anche da ricomporre una clamorosa frattura tra la magistratura e l’avvocatura napoletane: «Non ci aspettavamo quelle parole dalle Camere penali – conclude il componente della giunta locale dell’Anm Marco Puglia – e mi auguro che questa ferita venga presto risanata. Perché ciò avvenga, però, occorre il rispetto reciproco della professionalità altrui».

Campania, è boom di opere bloccate da cavilli: così si frena l’economia. Francesca Sabella su Il Riformista il 21 Marzo 2021. Cantieri aperti da decenni, progetti che non hanno mai visto la luce, cavilli burocratici che rendono biblici i tempi di realizzazione di più di 200 opere pubbliche incompiute: è la fotografia dello stato del Mezzogiorno. In Campania risultano oggi 41 grandi interventi non ancora portati a termine, per un totale di 208 milioni di euro. Reperire carte e dati in merito è un’impresa titanica, al pari della realizzazione di una grande infrastruttura, di un parco o di una scuola. ce l’ha fatta la piattaforma Sensoworks ha censito sedici delle 41 opere incompiute nella nostra regione. Tra queste c’è la costruzione di una scuola media nel Comune di Cimitile per la quale sono stati stanziati 1.153.850 euro e solo il 16% dei lavori è stato eseguito. Situazione analoga ad Altavilla Irpina per la costruzione di una piscina all’interno del Parco Sant’Angelo: 297mila euro investiti, solo la metà dei lavori portata a termine. Capita anche che il progetto ci sia, l’impresa appaltatrice anche, che si stanzino 1.187.850 euro e che i lavori non comincino mai: è il caso della riqualificazione urbana del centro abitato di Laviano. La lista dei progetti abbandonati, in realtà, è molto più lunga. La Campania non è l’unica regione con centinaia di cantieri aperti, visto che la questione tocca tutto il Mezzogiorno. La Sicilia presenta la situazione più critica con 162 opere incompiute, seguita dalla Sardegna con 86, dalla Puglia con 54 e dal Lazio con 45. La Provincia autonoma di Trento, invece, è la più virtuosa con una sola opera incompiuta. Nel complesso, secondo Sensoworks, il nostro Paese conta 640 opere iniziate e mai inaugurate, tra le quali infrastrutture fondamentali per lo sviluppo economico, per un totale di circa quattro miliardi di euro. Il che è paradossale se si considera che l’Italia ha la percentuale più elevata in Europa di piccole imprese che esportano direttamente e, allo stesso tempo, presenta un indicatore infrastrutturale inferiore del 19,5% rispetto alla media europea. La condizione della Campania è particolarmente preoccupante se si considera che è la regione con la più alta densità abitativa in Europa e che presenta ancora un gap di sviluppo significativo rispetto alle località del Nord. Ma perché i lavori cominciano e procedono a singhiozzo fino a uno stop spesso definitivo? «Quasi sempre è perché sorgono imprevisti che fanno lievitare il costo dei lavori – spiega Edoardo Cosenza, presidente dell’Ordine degli ingegneri di Napoli ed ex assessore regionale alle Grandi Opere – situazione che sfocia in un contenzioso tra l’impresa esecutrice e l’amministrazione che ha commissionato l’intervento». E così l’impresa ritiene che ci siano degli imprevisti, la Regione decide di non erogare altri fondi e i lavori si fermano. Ripartire dopo lo stop è quasi sempre drammatico perché difficilmente una ditta subentra a un’altra, soprattutto perché, se non ha vinto la gara, è perché chiedeva più soldi per la realizzazione di quello stesso lavoro e difficilmente accetterà di limare i costi in secondo momento. Ora, però, stanno per arrivare i fondi del Recovery Fund e per il Sud si presenta un’occasione imperdibile per mettersi al pari con il resto del Paese. Il rischio di un ennesimo fallimento, però, è concreto. «Spendere questi fondi in opere pubbliche sarà difficilissimo perché dovrebbero essere completate entro il 2026 ed è impossibile – sottolinea Cosenza – È contro ogni statistica: per realizzare un’opera di valore superiore ai 100 milioni di euro, in Italia ci vogliono circa 15 anni». La soluzione? «Affidare la realizzazione di grande opere pubbliche, penso soprattutto alle infrastrutture, a commissari con poteri di deroga, sul modello del Ponte di Genova o dell’Expo di Milano – conclude Cosenza – Questa semplificazione, però,  significa anche dire che le norme ordinarie non vanno bene e che quindi la soluzione ragionevole è quella di creare una legge nazionale semplificata in materia di opere pubbliche: l’eccezione diventi la regola nel rispetto dei tre requisiti fondamentali di trasparenza, legalità e concorrenza».

Accuse e inesattezze del primo cittadino. De Magistris nasconde i suoi fallimenti con le bugie: e fa autogol. Viviana Lanza su Il Riformista il 9 Marzo 2021. Cita la Costituzione, ma sembra farlo solo per quella che nello slang del linguaggio parlato viene definita «paraculaggine». E racconta fatti del passato, ma a modo suo e in maniera completamente inesatta. Di chi parliamo? Di lui, Luigi de Magistris, il sindaco di quella rivoluzione arancione che a Napoli ha procurato solo confusione e disagi. In quanto ex magistrato, la Costituzione dovrebbe essere per lui il faro che illumina il pensiero garantista, invece la getta nel buio del populismo più giustizialista. Come? Basta leggere il più recente post pubblicato sulla sua pagina Facebook: «Il Gup del Tribunale di Napoli dispone il processo per numerosi imputati per il cosiddetto Sistema Romeo. La presunzione d’innocenza fino a sentenza passata in giudicato non va mai dimenticata. Sono fiero, però, da sindaco di Napoli, di aver estromesso Alfredo Romeo, imputato per reati gravissimi, dalla gestione del patrimonio immobiliare, da noi internalizzato ed affidato a lavoratrici e lavoratori pubblici». Poi lancia accuse anche su Ciro Verdoliva, direttore dell’Asl Napoli 1, e sugli «uomini del presidente De Luca travolti come birilli da una devastante questione morale». Di fronte a questo fiume di parole in libertà è necessario fare chiarezza, perché l’unico dato oggettivo è che lui, de Magistris, è sindaco di Napoli (ancora per poco, visto che tra pochi mesi ci saranno le amministrative, lui vuole candidarsi in Calabria e Napoli si libererà di una gestione i cui risultati sono sotto gli occhi, stanchi e avviliti, di tutti). Il post è un insieme di accuse e inesattezze. A cominciare da quelle relative al “sistema Romeo”: sarebbe il caso che de Magistris desse un’occhiata alla sentenza con cui, nel 2017, la Cassazione ha escluso l’esistenza di quel sistema. Altra inesattezza è quella relativa al rinvio a giudizio che serve solo a far sì che venga valutata, in dibattimento, la fondatezza di accuse tutte da provare; senza dimenticare che, disponendo il proscioglimento per vari capi di imputazione, il gup ha comunque ridimensionato l’iniziale quadro accusatorio delineato dalla Procura. Altre inesattezze ancora, invece, fanno riferimento al fatto che Alfredo Romeo non è mai stato estromesso dalla gestione del patrimonio immobiliare di Napoli. E de Magistris dovrebbe ricordarlo bene visto che, carte alla mano, i numeri del patrimonio immobiliare della città, durante il periodo della Romeo gestioni, sono stati esaltanti. Difficile immaginare che il sindaco possa averne perso memoria, forse preferisce non ricordare. Perché? Probabilmente perché i numeri fatti segnare dalla Romeo gestioni sono stati il frutto di una strategia efficace, mentre quelli attuali sono valori tipici di un’amministrazione che arranca. Quanto ai rapporti tra la Romeo gestioni e il Comune di Napoli per i servizi di inventariazione e gestione del patrimonio immobiliare comunale, il primo contratto fu stipulato nel 1998, il secondo nel 2005 per la durata di sette anni e infine ci fu un ulteriore rinnovo per altri sette anni fino alla naturale scadenza nel dicembre 2012. Ciò significa che la società di Romeo non è mai stata estromessa dalla gestione del patrimonio comunale, ma ha semplicemente esaurito il suo mandato. Tutto molto diverso, quindi, da quanto scrive su Facebook de Magistris. Inoltre, proprio nel 2012 la Romeo gestioni concluse la vendita di oltre 3mila unità del patrimonio comunale portando nelle casse di Palazzo San Giacomo introiti per oltre 108 milioni di euro. Si trattava di immobili di edilizia popolare, tra Ponticelli e il Vomero: vendendoli agli inquilini si riuscì a salvare l’amministrazione dal dissesto. Inoltre, si ebbe anche un positivo effetto di riqualificazione urbana perché gli inquilini, divenuti proprietari, decisero di rimettere a nuovo immobili e spazi circostanti. Alla Romeo gestioni fu anche erogato un incentivo di buona gestione, 1.143.870,17 euro, che come ha stabilito la Corte dei Conti era stato correttamente erogato in base al criterio di calcolo stabilito nel contratto col Comune. È dunque la storia a smentire de Magistris che di sicuro non ha reso un buon servizio alle casse comunali dicendo addio a Romeo gestioni. «È l’evidenza dei fatti – aggiunge Michele Saggese, ex assessore comunale al Bilancio – Una volta passato alla Napoli Servizi, il patrimonio immobiliare comunale non ha subìto quell’accelerazione che de Magistris immaginava. Ed è altrettanto evidente che un rinvio a giudizio non è una condanna. Quindi, il sindaco si attenga ai fatti e pensi alla città che mai come oggi ha bisogno di essere amministrata. Alla sua campagna elettorale ci penserà più in là».

La città del Pibe de Oro. Mappa di Maradona a Napoli: tutti i luoghi di Diego da vedere in città. Antonio Lamorte su Il Riformista il 24 Marzo 2021. Maradona è stato per Napoli più di quello che John Lennon è stato per New York, poco meno di quello che Che Guevara è stato per Cuba. In sette anni tutte le dimensioni del campione e dell’uomo: una promessa, la rivelazione, il capo-popolo, la vittoria, la bella vita, la malavita, la droga, l’amore, un figlio di nome di Diego Jr, il culto, la repulsione, la fuga, l’addio. Quando è morto, all’improvviso, il 25 novembre 2020, i napoletani sono scesi in strada a realizzare e a piangere. Si sono incontrati nei luoghi dell’idolo – al murales nei Quartieri Spagnoli e allo Stadio San Paolo soprattutto –, dentro e lungo le tracce che una delle icone del ‘900 ha lasciato in città. Le scalette dello Stadio sono state il limes che il fenomeno e Napoli hanno attraversato insieme entrando in un’altra dimensione. Un warmhole. Il 5 luglio del 1984 erano in 70mila a Fuorigrotta. Mille lire il costo del biglietto. Mai vista un’accoglienza simile. In 58 anni di storia in azzurro erano arrivati Attila Sallustro, Antonio Vojak, Hasse Jeppson, Omar Sivori, José Altafini, Ruud Krol, Beppe Savoldi. Tutti ridotti a comparse: ci sarebbe stato solo un avanti e un dopo Diego. La città era quella del dopo terremoto del 23 novembre 1980, della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, e quindi della Nuova Famiglia, una decina d’anni prima l’epidemia di colera. Maradona fuggiva da Barcellona: come ha detto Daniel Gamper, filosofo e nipote del fondatore dei blaugrana Hans Gamper, la metropoli catalana “è stata un luogo di riposo per il ritorno allo specchio transatlantico di Buenos Aires: Napoli”. “Questo ragazzino con l’aria di scugnizzo napoletano …”, aveva preannunciato Giacomo Mazzocchi su Tuttosport nel giugno 1979, costò 13 miliardi e mezzo di lire. Uno scandalo, secondo molti, per un 24enne con la faccia da Mapuche e un’elasticità alla Nureyev, in una città a pezzi, in crisi. È diventato Capitano di Napoli, non del Napoli, ha scritto Gianni Mura. Due Scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa Italiana, una Coppa UEFA. “È la cosa più grande della mia vita”, disse a Galeazzi dopo il primo Scudetto nel 1987. L’anno prima aveva conquistato da solo o quasi il Mondiale in Messico con l’Argentina. Ha vinto a Napoli come sa vincere Napoli: con la sfrontatezza e con l’estro. Il San Paolo stesso è cambiato nel frattempo, e non solo per gli interventi in vista di Italia ’90: è diventato un luogo di festa, di spettacolo, dopo anni di delusioni. La città riscattata da uno scetticismo cronico, un popolo che si sfiziava e che si arricreava. Fabrizia Ramondino ha scritto che i gol di Maradona hanno avuto la funzione del miracolo di San Gennaro: una ricostruzione dell’identità. Un campione, anche nel senso di simbolo, di parte, un rappresentante della napoletanità. E quindi tutta la retorica sul riscatto, la rivincita sui club del Nord, del Sud del mondo sul Nord del mondo, fino alle parole prima della semifinale dei Mondiali del ’90 con l’Italia: “Dopo che per 364 giorni all’anno li chiamano terroni, appestati, terremotati. Dopo averli presi a schiaffi in tutte le maniere possibili, ora dicono che anche i napoletani sono italiani”. Scoppiò un caso. Alla fine il San Paolo tifò per l’Italia; molti napoletani tifarono comunque per lui, per Isso, el diez, dios, Dieco, Tièco, Tiechìto, e l’Argentina arrivò in finale, poi persa con la Germania. L’ultima partita a Fuorigrotta, con l’assist per il gol vittoria di Gianfranco Zola, il 17 marzo 1991, contro il Bari. Dopo il test anti-doping positivo alla cocaina, la squalifica di un anno e mezzo. E il numero 10 se ne tornò a Buenos Aires, senza il tempo per i napoletani di dirgli grazie. Senza quel congedo in molti rimasero ad aspettarlo, per anni. La mappa di Maradona a Napoli percorre i luoghi del mito. Quelli attraversati, quelli vissuti, le tracce in collezioni private e musei al momento improvvisati o poco più, i luoghi di una devozione sempre condita da ironia, e comunque additata da bacchettoni e moralisti. Il capello, la boccetta con le lacreme napulitane, le statuette dei maestri presepai, i murales – gli street artist si sono fatti prendere la mano, a partire dal primo nei Quartieri Spagnoli dopo il secondo Scudetto nel 1990, ragion per cui si invita a segnalare altri omaggi – si progettano statue e monumenti. Tutti effetti collaterali di una malia, una malatia; un patrimonio materiale e immateriale straordinario che il Comune ha annunciato di voler capitalizzare con il Maradona Experience. Chissà. Quando l’11 maggio del 1991 un gruppo di intellettuali si riunì per il convegno Te Diegum in onore del campione argentino, i soliti moralisti e bacchettoni si affrettarono ad additare la celebrazione di un pessimo esempio di vita; un mito che doveva essere mito in ogni dimensione, altrimenti che scandalo, e jamm. Questo mentre la città – forse non se ne accorgeva – ma usciva da sette anni che erano stati come vivere dove combatteva Muhammad Alì ogni domenica, dove Frida Kahlo esponeva puntualmente, dove Andy Warhol animava la sua Factory. Alla fine di otto ore di dibattito, quegli screanzati e irresponsabili di intellettuali si strinsero in lacrime guardando un video con le magie del Pibe de Oro al San Paolo – che giustamente oggi si chiama Stadio Diego Armando Maradona – sulle note di Ancora di Eduardo De Crescenzo. Se i napoletani hanno smesso di aspettarlo, non hanno smesso di cercarlo, di interrogarlo forse. E non solo i napoletani.

Dal blitz all'addio, l'esponente del centro sociale Insurgencia contro il sindaco. Napoli, l’assessora de Majo si dimette e distrugge le briciole di Dema: “Clemente raccomandata”. Redazione su Il Riformista l'8 Marzo 2021. Dopo le polemiche e le indagini della procura di Napoli sulla commissione comunale istituita per la realizzazione della statua di Diego Armando Maradona, continua a sfaldarsi quel che resta dell’amministrazione comunale guidata da Luigi de Magistris, impegnato in queste settimane nella campagna elettorale per le elezioni regionali in Calabria. Ha rassegnato le dimissioni l’assessora alla Cultura Eleonora de Majo, 33enne esponente del centro sociale Insurgencia, recentemente denunciata insieme al compagno Egidio Giordano, leader del laboratorio politico e assessore alle Politiche sociali e alla Cultura della Terza Municipalità, perché nel corso di una perquisizione avvenuta a metà febbraio scorso la Digos ha trovato sette fumogeni classificati come “botti di Capodanno” dimenticati in un cassetto dalla diretta interessata. L’inchiesta della Procura, che mira ad accertare presunte pressioni per entrare a far parte della stessa commissione municipale da parte di un capo ultrà del Napoli, è solo l’ultima goccia di un vaso destinato ad andare in frantumi da tempo. Con le sue dimissioni, annunciate su Facebook con un lungo post, Eleonora de Majo (che resta consigliera comunale) prova a distruggere quel che resta del Movimento Dema, contestando apertamente la candidatura a sindaco di Alessandra Clemente perché “calata dall’alto” e, ricordandosi dopo anni di politica condivisa, che l’attuale amministrazione “è sempre più distante dalla città reale, dai suoi problemi, dalle sue contraddizioni, e sempre più concentrata nella costruzione di partite interne che hanno il consenso elettorale come unico obiettivo”. L’ADDIO – “Termina oggi la mia esperienza di Assessora. Ho maturato questa decisione dopo aver riflettuto a lungo e non nascondo il grande rammarico di non poter portare a termine tante delle cose a cui stavo lavorando (e anzi mi scuso con chi apprenderà da questa lettera della mia decisione) così come quello di lasciare una squadra, quella composta da staff e dirigenti, con cui in questo anno e mezzo avevamo costruito un affiatamento incredibile e una comunità umana meravigliosa. Condizioni necessarie per lavorare bene. LA MOTIVAZIONE – “Ho tuttavia deciso di rassegnare le dimissioni e di consegnarle al Sindaco, nonostante non mi sia stato chiesto alcun passo indietro, perché se è vero che oramai da tempo non mi riconosco più in questo progetto politico e amministrativo, devo ammettere che le ultime vicende, quelle che riguardano la composizione della commissione tecnico-popolare per la scelta della statua di Maradona, stanno assumendo la piega di un pesantissimo accanimento personale, che è arrivato alla perquisizione in casa con il sequestro di telefoni e computer (motivo per cui sono irreperibile da qualche settimana) e dalla pubblicazione sui giornali cittadini di atti che mi riguardano relativi ad indagini ancora in corso di cui a stento io stessa avevo avuto conoscenza. Siamo nell’ambito delle scelte politiche. Scelte per le quali non devo in alcun modo giustificarmi perché sono state fatte nella massima trasparenza e correttezza e che rivendico fortemente, perché al di là delle ricostruzioni strumentali, coinvolgere i settori popolari del tifo all’interno di una commissione che avrebbe dovuto giudicare il progetto del monumento da dedicare a Maradona e che vede al suo interno autorevoli esponenti del mondo della cultura e dello sport e della famiglia del Pibe de oro, è esattamente quella idea di politica in cui credo, che è una politica che include, che coinvolge, che permette a tutti di partecipare, che aiuta il dialogo tra pezzi di città apparentemente lontani. Un’idea che voleva provare a rispettare e celebrare nel modo più giusto la figura di Diego, che nella sua potenza e nella sua genialità ha saputo unire in un’unica grande passione la città tutta, facendo emozionare i napoletani dei quartieri alti coma quelli dei quartieri più poveri, stretti in un unico grande sogno, quello del riscatto di un popolo”.

ABBANDONATA DALL’AMMINISTRAZIONE – “Certo fa sorridere che in un territorio dove spessissimo proprio la politica va a braccetto con la criminalità organizzata, dove su ogni grande appalto appare l’ombra tetra della camorra, dove il voto di scambio è prassi consolidata, si discuta e si lavori da mesi sulla scelta di aprire la commissione di valutazione del monumento a Maradona alle tifoserie. Commissione che per altro non prevede alcuna remunerazione. Ma il tempo è galantuomo e questa vicenda alla fine verrà fuori per quella che è. Di questo ne sono convinta. Eppure su ciò che sta accadendo, alla luce del fatto che si tratta evidentemente di una invasione di campo della magistratura sul terreno della politica in cui ad essere oggetto di valutazione è il perimetro delle scelte di chi attraverso un mandato elettivo governa la città, ritengo avrebbe potuto esserci una maggiore esposizione da parte dell’amministrazione, a tutela di scelte che sono stata fin dal primo istante condivise. Non c’è stata e ne prendo atto”.

L’ATTACCO ALLA CLEMENTE – Anche senza nominarla, de Majo boccia la scelta di Dema di candidare a sindaco, dopo il decennio de Magistris, l’attuale assessore al patrimonio, ai lavori pubblici e ai giovani. Parole dure quella dell’esponente di Insurgencia contro la ‘delfina’ del sindaco. Un rapporto mai decollato e incrinatosi ulteriormente lo scorso anno quando, in occasione della notte bianca al centro storico organizzata proprio dalla neo assessora de Majo, un blitz della polizia municipale, la cui delega è nelle mani della Clemente, fece saltare tutto. “Tuttavia – scrive de Majo – la mia decisione è motivata da ragioni assai più profonde e di più lunga durata rispetto ai fatti recenti, che hanno di certo amplificato la sensazione di estrema lontananza da questa amministrazione. Non ho mai fatto mistero dell’enorme scetticismo nei confronti dell’indicazione di un candidato sindaco per le prossime amministrative, calata dall’alto e senza confronto con la città. Nessun pregiudizio. Piuttosto la convinzione da principio che quella candidatura non sarebbe riuscita ad interpretare né a farsi portavoce delle battaglie, delle rivendicazioni e delle scelte più radicali, innovative e progressiste che hanno caratterizzato le fasi migliori di questo decennio né a costruire una visione di città inclusiva, capace di guardare innanzitutto alle fragilità e di sfidare l’asfittico dibattito tra ceto politico che si sta sviluppando alla vigilia del voto. Ho atteso, cercando di comprendere se nonostante questa scelta così lontana dai miei auspici, si sarebbero potuti creare i presupposti per costruire una strada di condivisione, di dibattito, di confronto sul presente e sul futuro della città. A distanza di sei mesi però non solo tutto questo non è accaduto e la candidata lavora esclusivamente per se stessa, ma l’amministrazione appare in larga parte, anche a chi non vive il “palazzo”, sempre più distante dalla città reale, dai suoi problemi, dalle sue contraddizioni, e sempre più concentrata nella costruzione di partite interne che hanno il consenso elettorale come unico obiettivo”.

Blitz in casa dell’assessore: la pasionaria de Majo trovata con 7 razzi. Redazione su Il Riformista il 19 Febbraio 2021. Fabio Sasso/LaPressecronaca25 05 2018 NapoliAssemblea nazionale del nuovo movimento politico DEMA al Cinema modernissimo di Napoli Nella Foto la consigliera comunale di napoli di DEMA Eleonora Di Majo. Sette fumogeni sono stati trovati nel corso di una perquisizione a casa dell’assessore alla Cultura del Comune di Napoli, Eleonora de Majo e del suo compagno, assessore alle Politiche sociali e alla Cultura della terza Municipalità, Egidio Giordano. I due sono stati denunciati per detenzione di materiale esplodente. Lo riportano alcuni quotidiani locali. La perquisizione rientra nelle indigni condotte dai pm Antonello Ardituro, Celeste Carrano, Luciano D’Angelo e Danilo de Simone, relative all’iter che ha portato alla composizione della commissione comunale che avrà il compito di scegliere i progetti per realizzare la statua di Maradona. La procura sta provando ad accendere i riflettori sul caso che vede tra i membri della commissione un capo ultrà del gruppo ‘Masseria’, Gennaro Grosso, e su presunte pressioni per entrare a far parte della stessa commissione municipale. Grosso è indagato per violenza privata per gli scontri del 23 ottobre scorso, quando a Chiaia e sul lungomare, la protesta pacifica dei ristoratori napoletani atterriti dalla pandemia, si trasformò in guerriglia. C’è un episodio in particolare, riportato dal quotidiano il Mattino, che sarebbe emerso dalle indagini, ovvero di pressioni che Grosso avrebbe fatto su Giordano, compagno della de Majo, per entrare nella commissione che dovrà scegliere il progetto vincente per la costruzione della statua di Maradona. Quasi a pretendere un posto in commissione. Tutte ipotesi che andranno verificate dalla procura e dal pool di pm al lavoro. Ora i due assessori denunciati dovranno chiarire la provenienza dei 7 fumogeni e del perché fossero nella loro casa. Inoltre, le dichiarazioni rilasciate in procura dai due assessori (oltre alla de Majo la procura ha ascoltato come teste nelle scorse settimane anche l’assessore allo Sport Ciro Borriello), rispetto alla presenza in commissione di Grosso, e sull’incontro avuto in Comune con alcune frange ultras della tifoseria azzurra sono state ritenute “contraddittorie e reticenti”.

I conti del Comune. Comune di Napoli, è flop pubblicità: in 10 anni in fumo 50 milioni. Francesca Sabella su Il Riformista il 24 Febbraio 2021. In dieci anni il Comune di Napoli ha perso certamente 50 milioni di euro di canoni pubblicitari e diritti delle pubbliche affissioni tra mancata riscossione e spese effettuate per la gestione dei relativi servizi. Somme che si aggiungono, nello stesso arco di tempo, ad altre decine di milioni di canone di occupazione suolo pubblico, di concessioni di aree mercatali, e di altri tributi che Palazzo San Giacomo non è stato in grado di riscuotere. Un disastro senza fi ne: milioni di euro buttati al vento. La pubblicità esterna su impianti privati e i diritti affissionali sugli impianti del Comune rappresentano una fonte di reddito per i Comuni italiani e consentono di ottenere servizi e vantaggi per i cittadini. Altrove, non qui. Come si è arrivati a perdere tanto denaro? Fino al 2015, tutte le attività di gestione afferenti alle pubblicità e alle affissioni erano affidate alla Elpis, una società in origine partecipata al 51% dal Comune, poi diventata interamente di proprietà di Palazzo San Giacomo. «È difficile ricostruire le vicende perché di fatto l’amministrazione comunale non fornisce conti dettagliati, solo un groviglio di numeri tra i quali è difficile districarsi. Quel che è certo è che il Comune avrebbe dovuto introitare dieci milioni di euro l’anno dai canoni pubblicitari e gli unici conti disponibili segnano incassi pari a zero o addirittura in perdita»: a spiegare le dinamiche che hanno portato Palazzo San Giacomo allo scatafascio è Ida Alessio Vernì, ex direttore centrale a Palazzo San Giacomo, un tempo a capo di uno dei settori più strategici dell’amministrazione comunale, cioè quello che si occupa di commercio e pubblicità, e coinvolta in un’inchiesta in questo ambito terminata pochi giorni fa con la definitiva assoluzione. «Asserire che il Comune incassava zero dai canoni pubblicitari è impossibile – afferma la Vernì – Eppure avviene in anni in cui il privato è ormai fallito e la Elpis è diventata tutta di esclusiva pertinenza dell’ente Comune. Per questi anni il Consiglio Comunale, nella delibera 60 del 2014, riporta incassi zero o molto vicini allo zero e ciò sembra francamente incredibile. Dal 2015, poi, tutta la gestione delle affissioni pubblicitarie è passata alla Napoli Servizi. Un altro disastro. Palazzo San Giacomo paga alla società che si occupa di gestire il servizio un prezzo altissimo a fronte di un introito che era, con la mista Elpis, di dieci milioni di euro all’anno. Un calcolo ragionevole se applicato alle entrate potenziali, peccato però che i numeri rivelino tutta un’altra storia». Palazzo San Giacomo non percepisce niente e spende troppo. Nel 2019 il Comune ha deliberato di aumentare del 50% i canoni e, quindi, le potenziali entrate sarebbero dovute aumentare a 15 milioni di euro. Dove sono questi introiti? Eppure non risultano impianti eliminati o smontati, semmai qualche abusivo di troppo. E ancora, molto di recente, il Comune ha stabilito che tutti gli impianti affissionali e pubblicitari vengano eliminati nel 2021: quindi zero diritti affissionali e zero canoni pubblicitari. La conclusione? I cittadini napoletani hanno servizi pessimi e vivono in una città abbandonata. E questo soprattutto perché il Comune non è stato finora in grado di gestire spese ed entrate. Un disastro che dura da un decennio e al quale si aggiunge una notizia di pochi giorni fa. Palazzo San Giacomo aveva emanato una delibera con la quale assegnava la pubblicità di gran parte della città alla Clear Channel, multinazionale che ha gestito le affissioni per nove anni. Nulla di strano se non fosse che nella delibera si stabiliva che la Clear Channel poteva fare pubblicità gratis per sei anni, avendo il 30% di sconto sul canone: non il massimo per le casse comunali, come riconosciuto dal Tar che ha annullato che ha annullato il relativo provvedimento comunale al termine della causa intentata dall’avvocato Gaetano Brancaccio, presidente dell’associazione Mario Brancaccio, contro Palazzo San Giacomo.

 “Il metodo Palamara funziona anche a Napoli”, l’accusa del Pm Raffaele Marino. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 9 Febbraio 2021.  «Lo scenario è angosciante se si pensa non solo alla spartizione degli incarichi tra le varie correnti in base a logiche che poco hanno a che vedere col merito, ma soprattutto alla tendenza a eliminare per via giudiziaria i concorrenti del magistrato destinato a un certo ufficio. Anch’io sono vittima di certi metodi, a riprova del fatto che Napoli rientra a pieno titolo in questa organizzazione». Raffaele Marino ha appena finito di leggere Il Sistema, il libro-intervista in cui l’ex pm Luca Palamara descrive gli scandali che agitano la magistratura italiana, quando accetta di svolgere alcune riflessioni sulla situazione delle toghe napoletane. Per anni icona della lotta alla camorra e procuratore aggiunto a Torre Annunziata, Marino è oggi sostituto procuratore generale della Corte d’appello di Napoli, quindi conosce bene le dinamiche della magistratura descritte da Palamara. La prima è senza dubbio la lottizzazione degli incarichi realizzata attraverso “nomine a pacchetto” e accordi di cartello tra le varie correnti che animano il Csm. Per quanto riguarda questo aspetto, tra i vari casi di nomine votate all’unanimità sulla base di precedenti accordi Palamara cita quello dei procuratori generali di Milano, Roma e Napoli. Senza dimenticare che, almeno secondo quanto si legge ne Il Sistema, le correnti non si sarebbero risparmiate reciproci colpi bassi anche per quanto riguarda la nomina dei vertici della Procura di Napoli e della Direzione nazionale antimafia. Segno che certe logiche sembrano aver attecchito anche nel capoluogo campano in tempi non sospetti. «Ciò che più inquieta – osserva Marino, in passato leader partenopeo di MD  – non è il gioco delle correnti che si svolge da sempre, quanto la tendenza a estromettere i concorrenti del collega già individuato per ricoprire un certo incarico». Proprio di questo metodo Marino si ritiene vittima. In passato, infatti, il pm era tra i più autorevoli aspiranti al ruolo di procuratore aggiunto di Napoli. La sua esperienza in materia di lotta alla criminalità organizzata lo collocava in pole-position tra i magistrati che ambivano a quella funzione e, soprattutto, alla guida del Direzione distrettuale antimafia. A pochi giorni dalla decisione del Csm, ecco l’amara sorpresa: Marino, all’epoca aggiunto a Torre Annunziata, finì sotto inchiesta per rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravati dalla collusione con la camorra nell’ambito di un’inchiesta sui rapporti tra un carabiniere, suo ex collaboratore, e un imprenditore. «Ci sono indizi gravi, seri e concordanti per ritenere che a qualcuno non andasse giù che fossi io a ricoprire la casella di aggiunto a Napoli», riflette il pm a distanza di dieci anni. A questa vicenda, nel suo libro, Palamara non fa alcun riferimento pur conoscendola bene: era lui il relatore della pratica sulla base della quale il Csm avrebbe dovuto restituire le funzioni direttive a Marino, nel frattempo assolto in sede penale e disciplinare, assegnandogli il ruolo di aggiunto a Napoli o a Torre Annunziata. Così non è andata, tanto che il sostituto procuratore generale partenopeo si è rivolto al Tar che dovrebbe esprimersi a marzo. Ma c’è un’altro caso con contorni simili: quello di Paolo Mancuso, magistrato in pensione e oggi presidente del Partito democratico napoletano. «Mancuso, anni fa, era procuratore di Nola e in corsa per succedere a Lepore alla guida dei pm di Napoli – racconta Marino – All’improvviso, però, spuntò l’intercettazione di un sms dal quale si sarebbe dedotto che Paolo avrebbe chiesto una raccomandazione. Successivamente la vicenda si sgonfiò e Mancuso fu scagionato in tutte le sedi. Fatto sta che l’incarico al quale poteva tranquillamente ambire, in virtù della sua esperienza e dei suoi titoli, non gli fu assegnato». In certi casi, secondo quanto rivelato da Palamara e confermato da Marino, il metodo preferito dal Sistema sarebbe «l’omicidio del concorrente», per giunta «perpetrato con l’arma giudiziaria». «Uno scenario simile scoraggia quei magistrati che legittimamente nutrono delle ambizioni professionali e che, alla luce di certi episodi, preferiscono non esporsi al rischio di azioni giudiziarie – evidenzia Marino – In questo modo l’amministrazione della giustizia viene affidata non ai candidati migliori, ma solo a quelli in grado di preservare certi equilibri politici». La conseguenza più grave, tuttavia, è la compromissione dell’immagine della magistratura non solo a Roma, città dove Palamara si muoveva con particolare disinvoltura, ma anche nel resto d’Italia: «Certe dinamiche non sono semplicemente deprecabili – conclude Marino – ma sono la morte della nostra categoria: con quale credibilità si continua ad amministrare la giustizia alla luce di vicende così gravi?»

Gli scandali che agitano la magistratura. Caso Palamara, Napoli è coinvolta ma troppi non parlano. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. Le cose stanno più o meno così. C’è un libro, intitolato Il Sistema, in cui l’ex pm Luca Palamara traccia un quadro impietoso della magistratura italiana e getta più di un’ombra anche sulle toghe napoletane. Logica vorrebbe che non solo qualche addetto ai lavori, ma anche cittadini comuni e associazioni si mobilitassero per chiedere a chi di dovere di fare chiarezza. Non fosse altro perché la magistratura è uno dei poteri dello Stato e perché pm e giudici “maneggiano” quotidianamente la libertà, il patrimonio, la carriera (la vita, per farla breve) di tutti. E invece niente. Al netto di qualche sparuta voce, a Napoli non c’è nessuno o quasi che batta i pugni sul tavolo per sollecitare nient’altro che un’operazione-verità su quanto raccontato da Palamara nel suo libro. Eppure lo scenario che emerge da quelle pagine è a dir poco inquietante. Si parla di lottizzazione degli uffici giudiziari, assegnati in base ad accordi di carattere politico tra le varie correnti della magistratura. Si parla di uno spietato killeraggio ai danni di giudici “colpevoli” soltanto di ambire a cariche già destinate ad altri. Si parla di inchieste a orologeria e di linciaggi condotti con la collaborazione di alcuni organi di stampa. E c’è persino chi, al netto di quanto si legge nel libro, si dice convinto del fatto che tante altre vite e carriere siano state devastate dai giochi di potere all’interno della magistratura. È il caso del sostituto procuratore generale napoletano Raffaele Marino, a suo tempo accusato di collusione con la camorra proprio mentre sembrava in pole-position per il ruolo di procuratore aggiunto di Napoli. E c’è anche chi, come il giudice Eduardo Savarese, sollecita dal suo ufficio partenopeo l’istituzione di una commissione d’inchiesta che faccia chiarezza sulle pericolose dinamiche descritte da Palamara. Al netto di due “eretici” come Marino e Savarese, intervenuti nei giorni scorsi su queste pagine, nessuno sembra interessato alle modalità con cui la giustizia viene amministrata a Napoli e dintorni. Pochi si sarebbero aspettati una presa di posizione da parte di altri magistrati o di organismi rappresentativi della categoria, ai quali la delicata fase in corso deve aver suggerito una particolare prudenza. In compenso, però, sarebbe stato comprensibile un invito alla trasparenza da parte dell’avvocatura partenopea, sempre in prima linea per la difesa dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione. Qualcuno ricorda il Libro bianco con il quale i penalisti napoletani, negli anni Novanta, misero sotto accusa le modalità con cui la Procura conduceva le indagini? Oggi il problema è di portata ben più ampia, eppure nessuno invoca chiarezza o coglie l’occasione per sollecitare una radicale riforma della giustizia. Silenzio tombale pure da parte di associazioni e movimenti civici che, nei mesi scorsi, hanno fatto una “benefica irruzione” nel dibattito su Napoli e sul prossimo sindaco. Possibile che certe questioni non interessino a questi gruppi? Nemmeno a quelli che, al loro interno, vantano la presenza di alti magistrati? Nemmeno in una fase in cui è a repentaglio la credibilità di un’istituzione che a Napoli, martoriata dalla criminalità, dovrebbe essere ancora più solida? Sarebbe ora che, su questi temi, qualcuno facesse un passo avanti. Con coraggio, senza paura. Perché quella per la giustizia è e resta la madre di tutte le battaglie.

Il metodo Palamara anche a Napoli? Non minimizzare e fare chiarezza. Eduardo Savarese su Il Riformista il 10 Febbraio 2021. Non partire dal libro Il Sistema, vergato da Luca Palamara e Alessandro Sallusti, per osservare oggi la magistratura italiana, la sua storia, i suoi assetti e le sue prospettive, sarebbe come farci un’idea della democrazia ateniese dopo i Trenta Tiranni senza leggere l’Apologia di Socrate: e non perché Palamara sia Socrate, oppure il suo libro valga l’Apologia, intendiamoci. Uso quest’iperbole per dire un’ovvietà: quando vuole giudicarsi (dal tribunale della storia, da quello politico e anche da quello giudiziario) un periodo o una fase, privarsi della testimonianza scritta di uno dei suoi protagonisti, per quanto parziale e inaffidabile quel testimone sia, è un’operazione insensata. Il libro, dunque. Esso ci consegna tre livelli di criticità molto diversi. Il primo attiene alla degenerazione delle correnti in cui si articola la magistratura associata, in quanto veicoli di spartizione dei posti di rilievo dentro l’organizzazione della magistratura (che sia la nomina a Procuratore di Roma, la scelta dei componenti del direttivo della Scuola Superiore, oppure il conferimento della presidenza di sezione del Tribunale di Locri). Questo processo ha modificato e modifica l’assetto costituzionale formale (articolo 107 della Costituzione: «I magistrati si distinguono soltanto per funzione») e realizza un modello sempre più burocratico e gerarchico, asservito com’è a logiche di puro potere. Non che il merito non conti nulla, sarebbe falso sostenerlo, ma di certo il merito da solo non basta, posto che occorre il sostegno di un gruppo associativo. Il secondo livello di criticità riguarda in termini generali la contiguità tra magistratura e politica, e non tanto tra questo o quel magistrato e questo o quel politico, ma, piuttosto, nella dinamica dei rapporti tra poteri costituzionali: la magistratura esprime opzioni politiche, spesso contrarie a una certa parte politica. Il terzo – e più grave – livello di criticità vede il vero e proprio attentato, perpetrato grazie alla complicità tra la politica e alcuni organi costituzionali, tra cui lo stesso organo di autogoverno della magistratura (il Csm), alle garanzie di indipendenza della magistratura tutta nella persona del singolo magistrato: qui – cito i casi riportati nel libro dei magistrati Robledo, Forleo e Nuzzi – i poteri previsti a tutela dell’ordine giudiziario e, quindi, dell’ordinamento repubblicano nella sua interezza, sono stati piegati in modo abusivo al perseguimento di interessi personali e/o politici. Di fronte a questi tre livelli di criticità emergenti dalla lettura del libro che reazione è in atto e cosa potrà accadere? Partiamo dalla reazione della politica e della società civile: mi pare che essa sia semplice, riassumendosi nella domanda se sia vero ciò che il libro testimonia e nell’affermazione che, per sostenerlo, occorre effettuare tutte le verifiche necessarie (alcune a livello politico: l’evocata commissione parlamentare d’inchiesta; altre a livello giudiziario, quando ipotesi specifiche di responsabilità sembrino stagliarsi nitidamente). Di certo, la società civile nelle sue varie articolazioni sta mostrandosi stupefatta e anche sconcertata che la magistratura tardi a reagire. Poi c’è, appunto, la reazione della magistratura: sconfortata, smarrita, indignata, addolorata, la magistratura italiana sta cercando una via e una voce per reagire. Obiettivamente, non è facile. Ma tutto si può fare, ripeto, fuorché ignorare o minimizzare quel libro. Che fare, allora? Cercherò di esprimere il mio pensiero, ripercorrendo i tre livelli di criticità sopra segnalati. Degenerazione o strapotere delle correnti: esso si nutre dei processi di designazione ed elezione dei componenti togati del Csm, da un lato, del potere di assegnare singoli magistrati a posti di rilievo, dall’altro, della discrezionalità di cui l’organo di autogoverno gode nell’esercizio di quel potere, dall’altro ancora. Ma esso si nutre anche della grande illusione – inalata dalla magistratura italiana e dalla società nel suo insieme come un assenzio stordente – che, con le riforme Castelli-Mastella, si sia finalmente introdotta la meritocrazia nella magistratura. Questo è falso, perché il merito è passato per le maglie delle scelte correntizie. Ed è falso ancora più a monte, perché i magistrati si distinguono per funzione, secondo la Costituzione (il che vuol dire che il presidente di tribunale è un collega dei suoi giudici, che coordina il lavoro di tutti per un buon esercizio della giurisdizione a tutela dei cittadini). Allora: il primo livello di criticità si affronta ripensando radicalmente l’ordinamento giudiziario, riducendo largamente la discrezionalità del Csm nelle nomine, introducendo la rotazione negli incarichi direttivi e semidirettivi, valorizzando l’anzianità senza demerito e il costante, umile esercizio della giurisdizione. E naturalmente, rifondando i modi in cui i magistrati debbono scegliere i propri rappresentanti al Csm (ad esempio introducendo il sorteggio temperato o favorendo meccanismi elettorali capaci di supportare una scelta libera dei magistrati in direzione dei colleghi più stimati nei vari distretti di corte d’appello). Il secondo livello di criticità, ovvero della politicizzazione della magistratura: esso attiene ad una seria analisi autocritica del passato anche recente dell’Associazione Nazionale Magistrati, improntata a una domanda serena e onesta: la magistratura ha agito e/o agisce anche come soggetto politico? E se sì, in che senso? Su questo aspetto, la magistratura italiana oggi è molto divisa, sicché l’invocata unitarietà mi pare ridursi a mantra retorico di auto-rassicurazione. Propenderei per una netta presa di distanza da modelli di militanza politica, anche se spacciata per militanza culturalcostituzionale. A ciò si collega, d’altra parte, la necessità di regole certe sulla collocazione fuori ruolo dei magistrati per chiamata politica e sulla stessa partecipazione dei magistrati alla vita politica mediante loro candidatura in competizioni elettorali. Infine, il terzo livello di criticità: sugli aspetti gravissimi che emergono dal libro, non può esserci che analisi storica, politica e giuridica, rigorosa e immediata. Ogni magistrato deve sapere, nei prossimi mesi, e non nei prossimi decenni, se i fatti specifici narrati nel libro corrispondono o meno a verità. Non so se la commissione parlamentare sia il rimedio giusto; forse, giunti a questo punto, è necessaria. Ma la magistratura che lavora ogni giorno sui processi – questo deve essere chiaro – è scottata dagli interventi politici che partorirono la riforma dell’ordinamento giudiziario. Quella visione si è rivelata miope e perniciosa, sicché verso una politica sostanzialmente indifferente alle radici dei mali della giustizia quotidiana alligna in noi magistrati un buon grado di diffidenza. Tuttavia, vada come vada con le scelte parlamentari, è certo che il diritto alla verità ce l’hanno i magistrati forse prima ancora che i cittadini. Questo, oggi, deve diventare la priorità dell’organo di autogoverno e di ogni forma di risposta sistemica, fuori e dentro l’Associazione nazionale magistrati poco importa, che la magistratura intenderà proporre, e anche opporre, al dibattito della società civile e, in specie, ai poteri legislativo e esecutivo. E, si badi, non per un redde rationem interno, non perché qualcuno debba innalzarsi a vittima in cerca di vendicatori angelici, non perché bisogna cacciare i cattivi e prendersi i buoni. Ciò che non può essere eluso è un impegno totalmente volto a constatare ciò che è avvenuto e cercarne le ragioni: solo l’autorevolezza pacata con la quale la magistratura saprà affrontare l’evidenza dei fatti e delineare le misure più utili a che non si ripetano in futuro, farà elevare il vero controcanto al racconto di Palamara e Sallusti capace di ridare piena credibilità all’operato della magistratura. In questo, la magistratura napoletana potrà rivelarsi cruciale. Altrimenti il controcanto lo intoneranno altri, che potranno non essere animati dall’unica intenzione da non violentare: il diritto di tutti al giudice indipendente e imparziale.

"Basta pregiudizi, confrontiamoci". L’appello di padre e figlio a Borrelli: “Sei politico o influencer? Anche tu hai candidato pregiudicati”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 10 Marzo 2021. “Continua a chiamarmi "padre schifoso", personaggio "pregiudicato" ma sono stato in carcere tanti anni fa così come Salvatore Iodice, consigliere municipale dello stesso partito di Borelli”. Non le manda a dire Giuseppe Paternoster, 50 anni, che con il figlio Salvatore, 23 anni, presidente di una associazione (Giovani Promesse) attiva nel quartiere di Materdei, viene spesso aggredito (verbalmente) e insultato dal consigliere regionale di Europa Verde Francesco Emilio Borrelli. Garantista con chi ritiene riabilitato e giustizialista con tutti gli altri che, dopo gli errori commessi in passato, hanno pagato la loro pena e sono ritornati in società con intenzioni diverse. Paternoster non il primo etichettato come “pregiudicato” da Borrelli. In precedenza è toccato anche all’attuale garante dei detenuti del comune di Napoli Pietro Ioia, definito in più occasioni “pluripregiudicato” per i suoi trascorsi in carcere (dove ha scontato 22 anni) nonché “garante della chiavicumma”, offesa questa costata un rinvio a giudizio. “Non ho nulla contro Salvatore Iodice – precisa Paternoster – anzi è uno dei tanti modelli positivi che abbiamo dopo un passato difficile ma non credo si giusto attaccare me ed altre persone per gli errori fatti in passato quando all’interno del proprio partito, Europa Verde, c’è un caso analogo”. Iodice dopo un breve periodo in carcere è diventato un punto di riferimento e di legalità con la sua Miniera ai Quartieri Spagnoli. Le divergenze e le offese gratuite sono nate dopo un video- denuncia relativo a un basso affittato dalla famiglia di Borrelli a un gruppo di cingalesi in vico Solitaria al Pallonetto a Santa Lucia. Un episodio avvenuto nel maggio 2020. “Feci il video per denunciare lo stato di abbandono e degrado in cui vivevano quelle persone che erano più delle quattro denunciate” spiega Salvatore. “Arrivò anche la polizia e dopo qualche tempo in quel box adibito ad abitazione non c’era più nessuno. Ho fatto semplicemente quello che fa lui. Anche io sono un attivista, un blogger. Non ho capito perché devo essere offeso e attaccato da Borrelli per il passato di mio padre”. Poi l’appello a un confronto: “Lui fa l’influencer o il politico? Oltre a sparare pregiudizi su Facebook, Borrelli in qualità di consigliere regionale dovrebbe risolvere i problemi nei tavoli istituzionali e non soltanto facendo dei video sui social”.

LA VERSIONE FORNTIA DA BORRELLI – Borrelli definì quelle dirette “un vero e proprio agguato nei miei confronti sebbene la vicenda in sé non riguardi me direttamente ma mia madre. Un agguato che vede coinvolti, insieme, delinquenti, tra i quali un noto pregiudicato, e alcuni personaggi che da sempre mi avversano. Voglio sottolineare che quel piccolo vano è stato affittato a quattro cingalesi con il permesso di soggiorno attraverso un regolare contratto di affitto registrato presso l’agenzia delle entrate, l’immobile in oggetto ha certificazione catastale A2 (abitazione civile) corredato di attestazione energetica e quindi non c’è nessuna irregolarità, come ha più volte dimostrato mia madre a chiunque le abbia chiesto notizie”. “Si trova in vico Solitaria, storica base di spaccio del clan Elia”, aggiunge Borrelli, “e che più volte alcuni soggetti hanno tentato di cacciare gli inquilini perché volevano impossessarsene. A causa di questo precedente i cingalesi sono stati letteralmente martorizzati da queste persone, per costringerli a andare via. Ma mia madre ha denunciato tutto alle forze dell’ordine alcuni mesi fa e ieri c’è stato l’agguato che vede protagonisti dei delinquenti, tra i quali un noto pregiudicato accompagnato dal figlio, e alcuni soggetti che hanno avviato da tempo una azione denigratoria verso la mia persona. Ho deciso di sporgere anche io denuncia anche perché sono molto preoccupato per l’incolumità di mia madre che ha 76 anni ed è estremamente turbata. Se ieri non avesse chiamato la Polizia, che per fortuna è arrivata rapidamente”, conclude Borrelli, “non so come sarebbe potuta finire”.

"Mio padre ha sbagliato 20 anni fa". Borrelli e il tugurio in affitto, parla l’autore dei video: “Non sono un camorrista”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 23 Maggio 2020. “Mio padre è un pregiudicato, lo ammetto, ma non è mai stato un camorrista perché non è mai stato arrestato per vicende legate alla criminalità organizzata ma per reati contro il patrimonio commessi 20 anni fa”. A parlare è Salvatore Paternoster, poco più che 20enne, uno degli autori delle dirette Facebook (pubblicate sulla pagina Napoli Internazionale) che nei giorni scorsi hanno documentato lo stato di degrado in cui vivono almeno quattro cittadini cingalesi in un locale al piano terra in vico Solitaria al Pallonetto a Santa Lucia. Un immobile di proprietà della famiglia del consigliere regionale dei Verdi, nonché giornalista professionista, Francesco Emilio Borrelli, da anni in giro per le strade di Napoli con dirette-denuncia che nel corso degli ultimi mesi hanno suscitato non poche polemiche. Paternoster è stato definito dallo stesso Borrelli figlio di un “noto pregiudicato”, responsabile di aver teso un “agguato” alla madre per aver ripreso, armato di cellulare (mezzo noto allo stesso consigliere), le condizioni di degrado in cui vivono quotidianamente gli occupanti del basso-tugurio. A rincarare la dose anche il giornalista di Tv Paradise Pino Grazioli che ha definito Paternoster e i gestori della pagina “Napoli Internazionale”  dei “camorristi”. “Mio padre è pregiudicato, ha commesso degli sbagli, ha pagato ed oggi è un’altra persona. Mi ha sempre insegnato l’educazione dicendomi ‘ragazzo mio studia, vai a scuola e diventa una persona migliore di me'” ha spiegato Salvatore nel corso di un video-messaggio. “Sono uno scugnizzo perché cresciuto per strada ma negli anni mi sono diplomato e oggi sono iscritto all’università per costruirmi un futuro migliore” ha aggiunto. Paternoster insieme ad altri ragazzi di Materdei nei mesi scorsi è stato protagonista di diverse iniziative di riqualificazione territoriale. Accomunati da un passato difficile, in tanti si stanno rimboccando le maniche per cercare di costruirsi un futuro migliore. Troppo facile attaccarli, tacciandoli come malavitosi a prescindere solo perché sono “figli di”. In quel tugurio “c’è una situazione di degrado e ci sono più di quattro posti letto. Alcuni cittadini ci hanno detto che c’erano blatte e mangiapane, ovvero piccoli scarafaggi. Quei ragazzi pagavano 90 euro a persone per l’affitto. Non credo che tutto questo sia legale ma saranno gli accertamenti delle autorità competenti a fare chiarezza. Alcuni residenti sostengono che lì dentro sono più di quattro le persone che dormono”. Nella giornata di ieri Borrelli ha definito quelle dirette “un vero e proprio agguato nei miei confronti sebbene la vicenda in sé non riguardi me direttamente ma mia madre. Un agguato che vede coinvolti, insieme, delinquenti, tra i quali un noto pregiudicato, e alcuni personaggi che da sempre mi avversano. Voglio sottolineare che quel piccolo vano è stato affittato a quattro cingalesi con il permesso di soggiorno attraverso un regolare contratto di affitto registrato presso l’agenzia delle entrate, l’immobile in oggetto ha certificazione catastale A2 (abitazione civile) corredato di attestazione energetica e quindi non c’è nessuna irregolarità, come ha più volte dimostrato mia madre a chiunque le abbia chiesto notizie”. “Si trova in vico Solitaria, storica base di spaccio del clan Elia”, aggiunge Borrelli, “e che più volte alcuni soggetti hanno tentato di cacciare gli inquilini perché volevano impossessarsene. A causa di questo precedente i cingalesi sono stati letteralmente martorizzati da queste persone, per costringerli a andare via. Ma mia madre ha denunciato tutto alle forze dell’ordine alcuni mesi fa e ieri c’è stato l’agguato che vede protagonisti dei delinquenti, tra i quali un noto pregiudicato accompagnato dal figlio, e alcuni soggetti che hanno avviato da tempo una azione denigratoria verso la mia persona. Ho deciso di sporgere anche io denuncia anche perché sono molto preoccupato per l’incolumità di mia madre che ha 76 anni ed è estremamente turbata. Se ieri non avesse chiamato la Polizia, che per fortuna è arrivata rapidamente”, conclude Borrelli, “non so come sarebbe potuta finire”.

Bufale e accuse. “Bambino alla guida”, Borrelli non chiede scusa e nasconde la fake news: “Vi è andata male, l’autista è stato sospeso”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 21 Luglio 2020. “Mi dispiace anche questa volta vi è andata male: hanno sospeso l’autista, altro che fake news”. Prova a difendersi così il consigliere regionale, nonché giornalista professionista, Francesco Emilio Borrelli dopo la colossale bufala diffusa nella giornata di ieri (lunedì 20 luglio) e relativa a un bambino alla guida di un autobus dell’Anm, l’azienda del comune di Napoli che si occupa del trasporto pubblico in città. Borrelli, che ha prontamente rimosso il video fake dai suoi canali social dopo la secca smentita dell’Anm, prova a metterci una pezza e nel corso di una delle innumerevoli dirette Facebook quotidiane (ora è anche in campagna elettorale in vista delle prossime elezioni regionali in programma a settembre) risponde così alla domanda del Riformista e punta tutto sull’autista sospeso dal servizio per spostare l’attenzione su un altro aspetto della vicenda. Per Borrelli evidentemente dire che un bambino guida un autobus è uguale a dire che al volante c’era una donna di 44 anni, una tirocinante che stava svolgendo una esercitazione in un tratto considerato difficoltoso e per tale motivo inserito nel percorso di formazione. NIENTE SCUSE – Per il giornalista professionista (Borrelli lo è dal 2005), che con la sua segnalazione fake ha tratto in inganno anche diversi media regionali e nazionali (pure loro non hanno effettuato le opportune verifiche, fidandosi di chi già in passato, soprattutto durante l’emergenza coronavirus, è stato protagonista di episodi del genere), è troppo chiedere scusa, fare mea culpa per aver infangato gratuitamente la città nella quale vive e svolge un ruolo politico e di professionista nel settore dell’informazione. Così alla domanda “Non si sente in dovere di chiedere scusa per il video-fake di un bambino alla guida del bus dell’Anm?“, Borrelli replica (durante la diretta) preferendo spostare l’attenzione altrove: “Vi è andata male: hanno sospeso l’autista, altro che fake news”. LA DOPPIA SMENTITA – L’autista in realtà è stato sospeso non perché faceva condurre l’autobus pubblico a un minore ma perché – chiarisce l’Anm in una seconda nota – è stata avviata questa mattina “un’indagine interna in merito alle immagini diffuse dai social e riprese dagli organi di stampa che ritraggono un bus in difficoltà sabato sera nella svolta alla rotonda di via Caravaggio a Napoli. L’azienda si riserva, alla luce di quanto emergerà da queste verifiche, di emettere tutti i conseguenziali provvedimenti disciplinari qualora dovessero ravvisarsi comportamenti non corretti da parte dei propri dipendenti. Come già riferito nella nota di stamattina, l’azienda intende comunque tranquillizzare i cittadini napoletani che in nessun momento un minorenne è stato alla guida di un suo autobus e che le attività di tirocinio alla guida avvengono secondo procedure rigorose”. “L’indagine – si legge – ha subito appurato che al volante non c’era un minorenne, ma una signora di 44 anni che sta svolgendo attività formativa per essere assunta come autista somministrato a tempo determinato nell’ambito del programma che Anm sta portando avanti da ormai un anno per garantire il numero di autisti necessario a svolgere al meglio il servizio”. L’autista è stato sospeso in via cautelativa perché “a seguito dei primi fatti emersi, Anm ha avviato la sospensione cautelativa dell’autista che era sul bus insieme alla tirocinante e farà partire una indagine interna in quanto la sessione di formazione, diversamente da quanto avviene sempre, non risulta essere stata preventivamente autorizzata”.

LA SMENTITA DEL SINDACATO – Sulla vicenda è intervenuto anche il sindacato USB che in una nota precedente a quella dell’Anm smentisce categoricamente la presenza di un minore alla guida ma critica la gestione dell’azienda di trasporto napoletana: “Parlano di normale procedura e poi sospendono l’autista. Bisogna capire perché lo stesso conducente che ha fatto fare le guide a queste persona, che sicuramente non è un minore, sia stato sospeso”.

Francesco Emilio Borrelli e le fake news sul contagio al Cardarelli. Luigi Ragno su Il Riformista il 19 Marzo 2020. Con il Coronavirus è partita la psicosi che, da paura del virus, è diventata una vera e propria caccia alle streghe, all’untore. Come ha prontamente fatto il consigliere regionale Francesco Emilio Borrelli che con la sua solita solerzia ha deciso di scendere in campo e “fare giustizia”, anche se solo mediatica per il momento. E con orgoglio ha pubblicato sui social la sua “interrogazione a risposta scritta sul presunto comportamento irresponsabile di un primario dell’Ospedale Cardarelli, probabile causa di contagio da Coronavirus tra i sanitari”. Dal titolo poteva andare tutto bene, non ne accusa uno in particolare, se non fosse che tra le premesse addita la segnalazione del “presunto” comportamento scorretto a un post su Facebook di un utente di cui precisa nome e cognome, e ancora non contento, allega anche lo screenshot del post incriminato, attenzione, cancellando il nome di chi lo scrive. Nome che poi inserisce in un documento ufficiale e protocollato in Regione.

IL POST ACCUSATORIO – Nel post su Facebook usato come “prova del delitto” si legge: “E che ne diciamo della primaria del Cardarelli che è andata in visita a ‘parenti’ a Milano dove ha contratto il virus e poi non contenta rientrata a Napoli ha partecipato ad una riunione interna sul tema Covid-19 e per finire ad una cena tra colleghi; ciliegina sulla torta è stata in reparto nonostante avesse la febbre. Epilogo di tutta questa minchiata il Cardarelli è in ginocchio – tantissimi primari contagiati”. Nella frase ci sono numerose fake news. Interrogata dal Riformista la famiglia sostiene che la primaria in questione (di cui si precisa che sempre il valido consigliere Borrelli per primo ha tenuto, sempre tramite Facebook, di avvisare la popolazione che avesse contratto il Coronavirus, a dispetto di qualsivoglia tutela della privacy) non solo non si è mai recata a Milano o come altri hanno riportato “è andata a prendere la figlia febbricitante a Milano”, non si è recata in ospedale con la febbre perché alle prime avvisaglie di malessere è rimasta coscienziosamente a casa, e no, non ha nemmeno partecipato a una cena tra medici, come smentisce anche Repubblica. Inoltre, che epilogo della vicenda sia che “il Cardarelli è in ginocchio”, anche questo è falso perché i validi collaboratori di tutti i reparti dei primari contagiati pare procedano a gonfie vele e nulla si è bloccato. Una verità c’è ed è che la dottoressa ha partecipato a una riunione interna sul tema Covid, come confermato anche dai suoi accoliti. Non avendo alcun sospetto di aver contratto il virus si è recata a fare il suo lavoro, tra l’altro per il bene della comunità. Che i 9 primari ammalati possano essersi contagiati durante la riunione, questo è quantomeno possibile. Ma visto che ancora non è chiaro in che modo si sia verificato il primo contagio italiano, affermare che sia stata la dottoressa la prima a infettare tutti è fantascienza. Il post termina con una precisazione: “Ultima cosa il Cardarelli non rientra nella rete degli ospedali Covid19”. E quindi?

LA RICHIESTA DI BORRELLI – Il solerte Borrelli, professione giornalista, ha dimenticato di verificare le sue fonti e anche le fonti che ha citato nella richiesta a De Luca. Chiama in causa un pezzo pubblicato sul Mattino del 17 marzo, dove si legge che i primari sarebbero stati “tutti contagiati, pare, in una cena comune durante un incontro conviviale”, che ancora rientra nel possibilismo. Ma la fonte del Mattino qual è? Preso dall’ansia di un pugno di clic o di scatenare la tempesta d’odio sui social, allarmando ulteriormente la popolazione secondo i dettami della sua funzione amministrativa, Borrelli ha dimenticato di chiederlo e chiederselo. Ma il lavoro del giornalista, che lui dice di fare, è anche quello di verifica delle fonti. Borrelli è amministratore attento e scrive: “Considerato che tale comportamento – se confermato – peraltro proveniente da chi ha competenze mediche, sarebbe non solo di una gravità inaudita, ma rivestirebbe anche responsabilità sul piano penale, oltre che disciplinare”. E chiede al governatore di fare verifiche, le stesse che poteva fare anche lui, evitando di far perdere tempo anche ad altri amministratori, forse impegnati a gestire una grave emergenza. Le stesse che hanno fatto anche Il Riformista o Repubblica, semplicemente telefonando ai familiari. E chiede anche che sia fatta giustizia, provvedimenti, se dopo le verifiche la questione risultasse verità.

LA MACCHINA DEL FANGO – Dopo la diffusione della notizia è partita una interminabile gogna tra social e articoli di giornale. La cosa triste di questa vicenda è che il “medico in questione” è ricoverato al Cotugno e le sue condizioni non sono buone. E mentre fuori spalano palate di fango lei nemmeno può rispondere perché sta male. Ma a chi giova tutto questo?

LA SOLIDARIETA’ – I medici del Pronto Soccorso del Cardarelli, in prima linea nell’emergenza, quelli che dovrebbero stare nella paranoia più totale perché a rischio contagio tutti i santi giorni, non sono rimasti con le mani in mano e hanno deciso di scrivere anche loro una lettera a Vincenzo De Luca. “Si dichiarano disgustati per il modus operandi del suddetto consigliere (Borrelli, ndr). Questi ha assunto deliberatamente un grave tono accusatorio, additando il nostro Primario come untore, in base a notizie diffuse sui social media e non prima verificate, come prevede la deontologia giornalistica. Tale accusa sarebbe gravissima, considerando l’aggravante penale e amministrativa che a compiere tale misfatto sarebbe un medico”. E definiscono l’atteggiamento del consigliere “tanto più deplorevole” “in quanto il Dirigente Medico in questione al momento è ricoverata in un reparto specialistico e pertanto non in grado di rilasciare alcuna dichiarazione in risposta”. E invitano il presidente a dissociarsi dall’operato del consigliere, “per favorire la serenità e coesione di intenti necessarie a fronteggiare questo drammatico periodo di emergenza sanitaria”. Forse la psicosi ha fatto perdere lucidità a molti, ma i medici del Pronto Soccorso testimoniano con i fatti che è soprattutto durante l’emergenza che bisogna restare uniti e non cedere alle fake news che girano su qualsiasi social. Resta il dubbio: questa caccia alle streghe di sapore Medioevale, a cosa serve in un simile momento di emergenza?

Respinta la richiesta di archiviazione della Procura. “Garanti della chiavicumma”, Borrelli a processo per le offese rivolte a Pietro Ioia. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 15 Gennaio 2021. “Garanti della chiavicumma“. Sono solo alcune delle parole irriguardose pronunciate lo scorso 11 maggio 2020 dal consigliere regionale dei Verdi, nonché giornalista professionista, Francesco Emilio Borrelli nei confronti di Pietro Ioia, garante dei detenuti del comune di Napoli, e di Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti. Offese pronunciate nel corso di una diretta Facebook contro chi, durante l’emergenza coronavirus, decideva di impegnarsi nella lotta a tutela dei diritti dei detenuti per evitare il contagio degli stessi. Parole che hanno portato Ioia, assistito dall’avvocato Raffaele Minieri, consigliere della Camera Penale di Napoli e membro della Direzione Nazionale Radicali Italiani, a presentare denuncia-querela presso la Procura di Napoli. A distanza di otto mesi, e dopo l’iniziale richiesta di archiviazione avanzata dal pm Francesca De Renzis perché le espressioni adottate da Borrelli “non appaiono idonee a ledere la reputazione della persona offesa”, il Gip del Tribunale di Napoli, Roberto D’Auria, ha accolto l’opposizione dell’avvocato Minieri chiedendo al magistrato la formulazione dell’imputazione coatta nel giro di 10 giorni, ovvero la formulazione del capo di imputazione. Borrelli dovrà quindi difendersi dall’accusa di diffamazione aggravata dal mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità dopo le frasi pronunciate nel corso della diretta Facebook in questione. Il consigliere regionale utilizzava infatti espressioni offensive e gravi: “Avete i vostri Garanti della chiavicumma”, “Per molti sono Garanti dei detenuti, per quello che hanno fatto, avendo difeso ad oltranza bugie, menzogne, anche infami nei confronti della polizia penitenziaria, con cui i Garanti della chiavicumma hanno fatto dossieraggio”, “Nessuna solidarietà ai Garanti della chiavicumma”, “Loro sono Garanti della chiavicumma perché vogliono avere vantaggi dalla chiavicumma a cui sono legati perché sono gente di chiavicumma”.

Lo stesso Borrelli inoltre invitava i garanti dei detenuti a “rigare dritto”, etichettandoli ancora una volta come “Garanti della chiavicumma”, in modo tale da potersi “godere i soldi”, invece, di “attorcigliarsi lo stomaco dietro la chiavucumma ed ai Garanti della chiavicumma”. Affermando poi che i “Garanti della chiavicumma” fossero collusi con le fake news dei carcerati, nonché solidali con le mogli dei detenuti che avevano fatto assembramenti durante il periodo emergenziale.

Dal "re di Forcella" a Ugo Russo: viaggio tra i santuari dei criminali. Antonio Borrelli il 2 Maggio 2021 su Il Giornale. Viaggio a Napoli nelle mete religiose in cui si generano boss e criminali. Il sacrario in memoria del boss di Forcella Luigi Giuliano. È Spaccanapoli la direttrice intorno alla quale si ramificano vicoletti e viuzze, che scavano nel ventre della città. Come passaggi di un labirinto, conducono quasi all’improvviso a sacrari, cappelle, statue, ex voto. Qui la fede soprannaturale emerge da ogni angolo. Persino sui muri dei palazzi, dove abbondano quadri appesi e murales. È Napoli, una delle metropoli esoteriche d’Europa, dove la religiosità si è fusa inevitabilmente all’esaltazione del crimine e ha generato un vero e proprio credo della camorra, con annessi. Santuari. Il nostro viaggio comincia nel quartiere Pendino e precisamente a Forcella - una porzione di città antichissima, tanto affascinante quanto paradossale. All’ingresso domina un enorme San Gennaro dipinto da Jorit. Qualcuno dice che somigli al pentito Nunzio Giuliano, ma l’artista ha fermamente smentito. Ma è nella minuscola via Sant’Arcangelo a Baiano che d’improvviso si apre e spunta l’enorme sacrario dedicato al boss Luigi Giuliano, "il re di Forcella". La sua fotografia risalente ai fasti criminali di un tempo sembra quasi oscurare la statua di Padre Pio a due passi. E qui per molti Giuliano è un’istituzione: boss indiscusso negli anni Ottanta e Novanta, da collaboratore di giustizia ha raccontato segreti, storie vecchie di camorra e nuovi dettagli da cui hanno preso vita diversi filoni di indagine, alcuni dei quali ancora in corso. Ha raccontato di poliziotti e giudici corrotti, case d'asta truccate, tribunali compiacenti; ha fatto diverse dichiarazioni sull'omicidio del banchiere Roberto Calvi, trovato impiccato sotto il Ponte dei Frati Neri sul Tamigi, a Londra. E le tracce del re di Forcella sono sparse ovunque. Poco distante, in vico Tarallari, da anni i residenti curano e venerano un altarino in pietra con una madonna preceduta da sette scalini e da una piccola fontana. Fu fatto costruire da «Lovigino» in persona. E un tempo qui c’era pure la sua foto per omaggiarlo. Si dice che qui ci sia l’usanza che quando arrivano «buone notizie» membri dei clan e persone del posto facciano la corsa a ringraziare i santi che affollano i vicoli accendendo un cero. E queste sono tra le mete più battute. “Solo nella città di Napoli ci sono oltre 100 tra statue e altarini dedicati a boss o criminali, le edicole votive sono molte di più – spiega il consigliere comunale Francesco Emilio Borrelli, che da anni conduce una battaglia contro il fenomeno para-religioso -, in altri casi i personaggi venerati sono borderline, che vorrebbero essere associati a boss e spesso in quei santuari vengono nascoste armi e droga”. Ma a colpire l’occhio di un osservatore esterno è che a poche decine di metri dai santuari della camorra, ci sono una scuola e una biblioteca intitolate ad Annalisa Durante, 14enne rimasta uccisa in uno scontro tra due clan della Camorra rivali. I paradossi di un angolo di mondo in cui Stato e criminalità si sfiorano ogni giorno. Diverso, ma simile, il fenomeno nei Quartieri Spagnoli. Qui la comunità si è opposta con forza alla rimozione dell’enorme murale dedicato ad Ugo Russo, il 15enne ucciso da un carabiniere durante una tentata rapina. “Si cerca di beatificare, di glorificare questi criminali, ovviamente sfruttando la religione. D’altronde la Camorra ha sempre fatto uso della fede per i propri interessi. Bisogna estirpare questo cancro da Napoli”, continua il consigliere Borrelli. Qualcosa comunque si sta muovendo. Proprio ad aprile del 2021 è scattata la rimozione dell’altarino con tanto di statua di Emanuele Sibillo, il capo della "paranza dei bimbi", ucciso nel 2015 a 20 anni. È solo il primo passo di un lungo cammino, che sulla sua strada incontrerà ancora molti ostacoli.

Fulvio Bufi per il "Corriere della Sera" il 29 aprile 2021. Nella città dove a due minorenni uccisi mentre tentavano altrettante rapine sono stati dedicati murales che cancellare non è stato facile, la memoria di chi da giovanissimo era già diventato un boss andava onorata con qualcosa di più. E infatti per celebrare la breve esistenza terrena di Emanuele Sibillo, ucciso a 19 anni in una guerra tra bande di camorra del centro storico, parenti e fedelissimi non si erano fatti remore di spostare, dal cortile del palazzo dove lui viveva, una immagine della Madonna e trasformare l'edicola votiva che la ospitava in un sepolcro dove l'urna con le ceneri del boss consentiva di celebrarne quotidianamente il culto. E non solo: c' erano anche un busto che di Sibillo riproduceva le sembianze e altri oggetti che gli erano appartenuti o ne testimoniavano il ruolo svolto nei vicoli di Forcella o della Maddalena o tra i decumani. E cioè in quella meravigliosa parte di Napoli - quella della Cappella di San Severo, di San Gregorio Armeno, della ruota degli esposti all' Annunziata - che negli anni scorsi il più potente cartello della camorra, l'Alleanza di Secondigliano, consegnò a un manipolo di giovanissimi criminali, trasformandoli da guardaspalle armati a clan satellite delegato a cacciare dal centro della città le famiglie fedeli ai Mazzarella, i rivali dell'Alleanza. Da ieri mattina il piccolo mausoleo dedicato a Emanuele Sibillo non esiste più. I carabinieri del comando provinciale, d' intesa con la Procura distrettuale antimafia lo hanno smantellato, tra le proteste dei parenti, consegnando l'urna con le ceneri ai familiari del giovane boss e sequestrando tutto il resto. Un' azione non soltanto simbolica ma di reale contrasto alle attività criminali che nel quartiere continuano regolarmente nonostante la faida sia finita da tempo (per ordine degli stessi che la ispirarono e che decisero di scaricare le armi quando le troppe sparatorie cominciarono a pregiudicare gli affari) e nonostante numerosi appartenenti al clan siano stati arrestati e si trovino in carcere con condanne pesantissime. Il crimine continua con lo spaccio, il controllo di ogni attività svolta sul territorio e con le estorsioni. E l'edicola votiva dedicata a Sibillo era diventata anche il luogo dove i commercianti che si rifiutavano di pagare le tangenti venivano convocati o condotti di forza, costretti a inginocchiarsi e minacciati. In una sorta di «sacro giuramento» che per il solo fatto di essere pronunciato davanti a quella che era a tutti gli effetti la tomba di Sibillo, assumeva un potere intimidatorio capace di annullare ogni resistenza.

La decisione. A Napoli lo Stato mostra solo i muscoli: via altarini e murales dedicati ai morti ammazzati. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 10 Marzo 2021. Napoli cancella dai muri della città graffiti e altarini “riconducibili a eventi o persone riferibili alla criminalità organizzata”. In seguito a quanto stabilito nella riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica dell’area metropolitana dello scorso 4 marzo, presieduta dal Prefetto di Napoli, Marco Valentini, sono partite questa mattina le operazioni di rimozione delle icone che inneggiano alla malavita. Nel mirino degli operatori di Palazzo San Giacomo sono finiti oggi una scritta realizzata all’ingresso della Villa Comunale in via Ortolani, nel quartiere San Pietro a Patierno, dedicata a benvenuto Gallo, il ragazzo sparato a novembre dello scorso anno con un colpo alla nuca, e un “altarino” installato all’interno del parco “Troisi”, nel quartiere San Giovanni, in memoria di Ciro Varrello, detto “a Banana”, morto a 24 anni nel gennaio del 2013 in un agguato nel suo quartiere. “Il programma di interventi – fanno sapere dal Comune – proseguirà nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, con la finalità di ripristinare il rispetto della legalità con la progressiva rimozione di manufatti o altri simboli che insistono abusivamente sulla pubblica via, ferma restando l’eventuale sussistenza di specifici reati”. Il provvedimento arriva dopo la decisione che ha fatto discutere nelle settimane scorse di rimuovere il murales dedicato a Luigi Caiafa, il baby rapinatore di 17 anni ucciso il 4 ottobre scorso da un poliziotto nel corso di un tentativo di rapina in via Duomo. Nelle prossime settimane potrebbe essere cancellato anche il volto di Ugo Russo da un edificio nei Quartieri Spagnoli: il ragazzo morì per i colpi sparati da un carabiniere in seguito a una rapina a Santa Lucia. A fine febbraio il Tar ha sospeso l’ordinanza di rimozione del murales fino al 17 marzo, quando si svolgerà l’udienza di merito.

Viola Ardone per "la Stampa" l'11 marzo 2021. È scoppiata a Napoli la guerra dei murales. Tra le tante emergenze della città, ci mancava anche questa: la criminalità si è data alle arti figurative. Non si tratta in realtà di un fatto inedito: quello di celebrare i cari estinti con ritratti ed edicole votive nei vicoli della città è usanza antica, legata a una religiosità arcaica e affine a forme di paganesimo ancestrali. La novità è che, con sempre maggiore frequenza, i volti dei morti di criminalità diventano protagonisti di dipinti che dalla sera al mattino spuntano sui muri della città, per le strade, in mezzo ai vicoli. Si tratta immagini grandi, coloratissime, improntati a un'estetica kitsch, dedicate alla memoria di giovani e giovanissimi deceduti in seguito ad azioni criminose. E mentre le strade di città e provincia si riempiono delle facce di questi antieroi, contemporaneamente vengono cancellati o imbrattati i volti degli eroi, come quello di Giancarlo Siani, giornalista ucciso nel 1985, a soli 26 anni per aver denunciato attraverso i suoi articoli manovre e affari della Camorra. Napoli ha ormai una tradizione in fatto di street art: ospita opere dell'artista britannico Banksy e dell'italo-olandese Jorit, gli ormai innumerevoli omaggi a Maradona e tanti altri lavori che sono diventati parte integrante del tessuto urbano e ne hanno rinnovato l'immagine per i cittadini e per i visitatori. La guerra dei murales però non ha a che vedere con queste manifestazioni artistiche, bensì con il territorio, e con le modalità con cui la criminalità ne amministra il controllo, anche visivamente. Perché marcare il territorio non significa dominarlo solo dal punto di vista economico ma anche simbolicamente, per segni e significati. Raccontare a chi vive in quel quartiere la storia, le imprese, la retorica dello stile di vita malavitoso. Creare una mitologia del crimine, una iconografia profana dei martiri della delinquenza, evocare simbolicamente le gesta d'eroi che si sono immortalati nonostante siano stati uccisi. Questi i motivi che hanno spinto il Comune a decidere di far rimuovere dipinti, scritte e altarini legati a eventi criminosi, una scelta che ha fatto discutere. Da un lato è insindacabile il desiderio di oscurare simboli di uno stile di vita improntato al disprezzo delle regole e della legalità. Dall'altro però c'è la considerazione che non basta una mano di vernice per cancellare automaticamente anche il problema. Perché quelle edicole votive, quei lumini, quei volti non scompaiono, ma restano a deturpare la città, anche se vanno via dalle strade, per quello che rappresentano e cioè la sconfitta della legalità e della cultura delle regole. Ci vorrebbe una vernice molto più potente per far sparire quello che si trova nello strato sottostante ai murales di malavita, e cioè, la marginalità, l'ignoranza, la povertà, il disagio. È questo l'aggrappante a cui i pigmenti di quelle vernici attecchiscono. Perché i murales di camorra sono espressione di modelli e stili di vita molto radicati in alcuni strati della popolazione, in particolare dei ragazzi che vivono in zone degradate del centro e della periferia. Le figure sui muri ne sono solo il riflesso, la conseguenza e non la causa. Rimuoverle significa tentare di risolvere il problema senza raggiungerne l'origine. Un gioco a rimpiattino tra guardie e ladri fatto a colpi di pennelli e ramazze, fino a quando una delle due squadre, quella degli imbrattatori e quella dei pulitori, non si stancherà. Ma i muri della città sono tanti, così come i ragazzi che quotidianamente vivono o muoiono di criminalità. E non basterebbe un esercito di imbianchini per estirpare le loro facce dai muri e dalle coscienze. Se è vero che nella società delle immagini, dei profili social, delle "storie" pubblicate sul web le apparenze contano più della realtà e i messaggi, positivi e negativi, ci arrivano soprattutto da quello che viene mostrato, sarebbe allora necessaria una battaglia diversa: portare bellezza e armonia laddove c'è bruttezza e degrado, garantire più scuola, più sport, più servizi, più alternative, più lavoro, più opportunità laddove ci sono vite segnate da un destino già scritto, che iniziano e finiscono allo stesso modo, nell'indifferenza di molti e nell'amore dei familiari che continuano a venerare i loro morti attraverso il rito devozionale dell'iconografia murale. Forse allora sarebbe più utile tenerseli quei volti, non come ritratti di eroi negativi, ma come testimoni di un morbo che lavora nelle viscere della città, un monito a distruggere non le immagini ma la mentalità che quelle immagini produce, che di per sé restano solamente stimmate sanguinanti di ferite mai curate.

Marco Ciriello per Dagospia il 13 marzo 2021. La Street art è diventato il modo delle amministrazioni comunali di assolvere alle mancanze politiche, decorando le pareti cieche delle stecche architettoniche di periferia, affibbiando ai loro spazi eroi sconosciuti persino a chi abita gli attici delle stesse città, ma quando quelle periferie decidono di decorare i loro muri con gli eroi che gli appartengono, lo stato glieli cancella come è avvenuto a Napoli tra la gioia di giornali e abitanti di altri quartieri. In una città che parla con i morti, e se ne prende cura, aspetta che si sciolga il sangue di un santo facendone discendere il futuro prossimo, che riempie le bare come solo gli egiziani, poi, per un capriccio di legalità, cancella il rispetto per i morti – che non appartiene ai tribunali –, anche quelli che hanno sbagliato in vita, in un purgatorio terrestre che anticipa quello promesso nell’aldilà. Signori miei, torniamo in noi direbbe Totò. In una città che ha una frenesia di raffigurazione, c’è gente che davvero pensa che la faccia su un muro di un ragazzino sparato da un carabiniere in una tentata rapina sia pericolosa? Marca il territorio dicono i camorrologi, perché senza la faccia di quel ragazzino il suo quartiere sarebbe libero? E la finestra aperta senza concessione edilizia? E la tettoia bucata della fermata del bus che non passa? E se passa finisce in un buco. E gli standard urbanistici non rispettati? Forse bisognerebbe far sentire una presenza migliore, di qualità, piuttosto che imbiancare una parete e cancellare per la seconda volta la vita – sbagliata – di un ragazzino, replicabile non per un murale ma per l’assenza di legalità, quella vera, nonostante i maestri di strada, le tante associazioni, i preti di periferia non delle canzoni di Jovanotti, che prima o poi avrà il suo murale tra un Gramsci, un palestinese in kefiah e Martin Luther King. E Malcolm X non è voluto venire? E perché il mitra non glielo disegnate mai? Napoli è diventata un grande album Panini veltroniano con le figurine delle facce buone disegnate sui muri dall’artista Jorit, che va compilando una estesa nazionale che fa leva sull’emozionalità e che annoda Pasolini e Maurizio Sarri in una intercambiabilità da social. In questa grande opera autorizzata – dove un tempo si richiedeva “Le Sette opere della Misericordia” – che tocca le professoresse e gli assessori alla cultura, indugiando sulla palpebra di Fabrizio De André e il carisma di Diego Maradona non dimenticando l’Angela Davis che c’era e sfioriva già nelle canzoni di De Gregori di tanti anni fa, disturbano le facce degli sconosciuti, dei ragazzi che hanno sbagliato, i dimenticati, i laterali, quelli che si sono arrangiati con quello che gli han fatto trovare: poco, niente e una pistola. Questi intrusi vanno cancellati, perché rovinano l’album, sporcano la vetrina, dimenticando che molti dei raffigurati nell’album dei giusti di Jorit sarebbero stati contrari alla cancellazione dei pericolosissimi fantasmi senza bibliografia. De André in uno degli ultimi concerti aveva detto che da anarchico capiva i ragazzi che sceglievano la ’ndrangheta nell’assenza dello stato. Malcolm X era come quei ragazzi prima di incontrare l’islam, e Pasolini quei ragazzi li andava a cercare per scopare. Non è curioso questo corto circuito? A Napoli, poi. D’improvviso la legalità con una mano di vernice. E le altre mani, quelle che mancano? Niente racconta meglio Napoli di un murale con la faccia di un ragazzino criminale a poca distanza dalla casa che fu di Benedetto Croce, perché Napoli è questa qua, ammiscata, fastidiosa, scorticata, non quella ordinata con le facce giuste e i due indianissimi segni rossi sulle guance che Jorit s’è pure fatto tatuare, l’unico sangue autorizzato con delibera comunale, un tatuaggio da corpus domini, per una Napoli da Dolce&Gabbana&DeMagistris. Cancellare il paganesimo, distruggere gli altari improvvisati, significa negare una città che pure esiste, è un gesto vigliacco oltre che inutile, perché significa relegare ai cimiteri l’unico spazio del ricordo, mascherandolo da legalità. E allora si smetta anche di portare fiori al murale di Maradona ai quartieri spagnoli – che nonostante la pandemia è diventato un tour paganissimo – che poi è probabilmente anche l’unico eroe santo ed esempio che quei ragazzi morti per strada, in tentativi maldestri di rapina, avessero. Tutto si tiene, cancellandone una parte non regge nemmeno l’altra. Verrebbe da domandare a Luigi Piccinato – morto per morto parliamo con quello giusto – ma una città si salva con le riverniciazioni o con i piani regolatori? E agli urbanisti, ai questori, ai giudici, ai giornalisti che contenti si sentono al sicuro dietro una mano di bianco, siete proprio sicuri che l’illegalità sia il viso d’un ragazzino rimasto sull’asfalto? E quale sarà il prossimo passo: chiedere a Sky di cancellare “Gomorra” dal palinsesto?

Un anno dopo indagini ferme e giallo autopsia. Ugo, Davide e i murales, lo sfogo dei papà: “Lo Stato li ha uccisi ma siamo noi i carnefici”. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso su Il Riformista il 27 Febbraio 2021. “Non abbiamo più un figlio, ucciso da un carabiniere, ma passiamo come i carnefici di questa vicenda. Chiediamo verità ma ci attaccano dicendo che siamo camorristi”. A un anno di distanza dalla morte di Ugo Russo, ammazzato a 15 anni da un carabiniere libero dal servizio nel corso di un tentativo di rapina con l’utilizzo di una pistola giocattolo, papà Vincenzo continua a non darsi pace per le lungaggini investigative e per le polemiche sul murales dedicato alla giovane vittima nei Quartieri Spagnoli. Gli fa eco Giovanni Bifolco, papà di Davide, il 17enne del Rione Traiano ammazzato anni fa da un carabinieri nel corso di un inseguimento. Due vicende diverse ma accomunate dallo stesso drammatico epilogo. “Lo Stato è l’elefante e noi siamo la formica – dice Giovanni – bisogna continuare a lottare per chiedere giustizia. Mio figlio è stato ucciso perché stava su un motorino senza assicurazione, era disarmato. Ugo ha commesso un reato che non va però pagato con la morte”.

LA DUE VICENDE – Davide Bifolco e Ugo Russo sono entrambi figli dei luoghi abbandonati dallo Stato. Il primo ucciso a 16 anni nel Rione Traiano, la notte del 5 settembre 2014, al termine di un inseguimento con una gazzella dei carabinieri. Davide, insieme ad altre due persone, era in sella a uno scooter che non si fermò all’alt dei militari e venne successivamente speronato. Tentò la fuga a piedi e, mentre era a terra, venne raggiunto da un proiettile al petto partito dalla pistola d’ordinanza di un carabiniere, all’epoca poco più che trentenne. Davide non era armato, era su un “mezzo” senza assicurazione e con a bordo, secondo la tesi degli investigatori, un ragazzo (Arturo Equabile) ricercato per reati contro il patrimonio. Il militare che lo ha ucciso nel 2018 è stato condannato in Appello a due anni con pena sospesa per omicidio colposo. Ugo Russo, nato e cresciuto nei Quartieri Spagnoli (zona ‘periferica’ del centro di Napoli) è stato ucciso a 15 anni il primo marzo 2020. A sparare un carabiniere libero dal servizio nel corso di un tentativo di rapina. Ugo, che impugnava una pistola scenica di ferro e – secondo quanto accertato successivamente da medici e forze dell’ordine – era già in possesso di un orologio d’oro e una catenina, voleva impossessarsi del rolex che il giovane militare di 23 anni (in servizio da pochi mesi a Bologna) aveva al polso. Così si è avvicinato alla Mercedes, ha puntato la pistola contro il carabiniere, che si trovava in auto con la fidanzata, provocando la reazione di quest’ultimo. Tre i proiettili partiti in rapida successione dalla sua arma d’ordinanza. Il primo ha raggiunto Ugo al torace, il secondo alla nuca, il terzo, rivolto contro il complice di 17 anni, non è andato a bersaglio. Il militare, originario dell’area flegrea di Napoli, è al momento indagato per omicidio volontario ma dopo un anno non si sa nulla delle indagini: l’autopsia, gli esami balistici e le eventuali immagini della telecamere di videosorveglianza non sono ancora stati resi pubblici. Dopo la morte di Ugo si sono vissute scene di ordinaria follia: dal pronto soccorso dell’ospedale dei Pellegrini sfasciato da parenti e amici della giovane vittima agli spari all’esterno del Comando provinciale dei carabinieri di Napoli ad opera di due persone a bordo di uno scooter. Tutte successivamente identificate e destinatarie di misure cautelari e nel novembre scorso (2020) sono arrivate le prime condanne al termine del processo di primo grado.

LA VICENDA DEL MURALES – Nelle scorse ore il Tar ha sospeso l’ordinanza di rimozione del murales che chiede “verità e giustizia” per Ugo Russo fino al 17 marzo quando si svolgerà l’udienza di merito. “Ugo è stato ammazzato con tre proiettili di cui uno dietro la nuca. Dopo un anno – racconta il genitore – le indagini sono a un punto fermo, c’è solo un silenzio che ci divora l’anima. Non sappiamo ancora nulla dell’autopsia, sappiamo solo che mio figlio non c’è più: vogliamo chiarezza”. LE INDAGINI FERME – Se le indagini sul militare, accusato di omicidio volontario, sono ancora top secret, non è stato lo stesso per parenti e amici del 15enne che si resero protagonisti di atti di teppismo e vandalismo subito dopo la sua morte: “L’attacco all’ospedale e gli spari fuori alla caserma sono atti gravissimi, che condanno, però gli autori stanno pagando le loro pene, sono stati condannati in primo grado mentre non sappiamo nulla di quello che è successo a mio figlio”. Vincenzo confessa con rammarico che “nessuno ai vertici dell’Arma ci ha contattato, nessuno. Ci stanno solo infangando da un anno. Noi siamo le vittime perché non abbiamo più un figlio ma ci stanno facendo passare come carnefici. Si parla di tutto, del murales soprattutto, ma non che un ragazzino di 15 anni è stato ammazzato con tre colpi d’arma da fuoco da un carabiniere”.

L’SOS ALLO STATO – “Il nostro quartiere avrebbe bisogno di istituzioni, assistenti sociali e scuole presenti. Ci sono ragazzi che hanno talento ma qui il talento non serve perché non ci sono opportunità per loro. Ci siamo stancati di pensare che i ragazzi di Napoli che vivono in luoghi a rischio debbano essere schiacciati. Stiamo pensando di creare una associazione in nome di Ugo per insegnare ai ragazzi a non commettere gli stessi errori di mio figlio, che è un errore scegliere l’illegalità” aggiunge.

L’INTERROGAZIONE PER DAVIDE –  Giovanni Bifolco spiega che “con la parlamentare Gilda Sportiello c’è stata una interrogazione parlamentare (lo scorso ottobre, ndr) per inquinamento delle prove perché non si sono trovati bossoli a terra, non è stata trovata la maglietta che indossava mio figlio. Ci sono ancora troppe cose da chiarire a tanti anni di distanza. Ma il nostro esposto non è stato né archiviato né valutato. Non sappiamo niente, sappiamo solo che chi commette questi reati tra le forze dell’ordine non li paga”.

IL SUO CALVARIO GIUDIZIARIO – Condannato a 9 mesi per fatti relativi a oltre 10 anni fa, Giovanni finito di scontare la sua pena prima della scorsa estate. “Sono stato tre mesi a Secondigliano, mi sono costituito lì perché il carcere di Poggioreale è un inferno, e i restanti sei ai domiciliari”. Adesso ha vari procedimenti in corso: “Non ho tolto un dito a nessun carabiniere da quando è morto mio figlio però ho in corso diversi procedimenti per minaccia, lesioni e oltraggio a pubblico ufficiale con il pm che ha chiesto due anni e 8 mesi mentre il carabinieri che ha ucciso mio figlio ha avuto due anni con pensa sospesa e già sta lavorando di nuovo”.

IL MURALES DI DAVIDE – Presente da anni di fronte all’abitazione della famiglia, il murales di Davide è stato recentemente aggiornato. “E’ un gesto per ricordarlo, un modo di incontrarsi che non ci darà indietro mi figlio ma che ricorda a tutti i ragazzi del Rione la sua drammatica fine” conclude Giovanni Bifolco.

La polemica sulla street art. Scoppia la guerra dei murales a Napoli: “Cancellato Siani, resistono quelli dei baby rapinatori”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Gennaio 2021. Non è solo una questione di decoro e riqualificazione e di espressione artistica. A Napoli i murales – la città del maestro Felice Pignataro, delle scorribande di Ernest Pignon-Ernest, dell’unico Banksy in Italia – sono ormai argomento di dibattito quasi quotidiano. Si fa politica, retorica, filippica intorno ai disegni colorati, agli stencil, alle gigantografie sui muri. E la querelle, trasversale, gira intorno al solito tema: la città di Gomorra, la criminalità, la legalità e i più giovani. I nervi sono saltati negli ultimi mesi del 2020, quando tra Quartieri Spagnoli e Centro Storico sono apparse due opere molto discusse. Entrambi primi piani. Il primo di Ugo Russo, 15 anni, ucciso dai colpi di pistola di un carabiniere fuori servizio mentre tentava di rapinarlo, il primo marzo 2020. Il secondo di Luigi Caiafa, 17enne, ucciso dai colpi di pistola di un poliziotto mentre cercava di rapinare tre persone a bordo di una Mercedes in via Duomo. “Vanno cancellati, ispirano alla malavita!”, hanno detto alcuni tra osservatori e politici. Sono l’equivalente moderno delle edicole votive, hanno detto altri. Naturalmente: solo leggermente più grandi e vistosi, in verità. Il Comune intanto nicchia. Non prende decisioni. Dopo le prime settimane il dibattito si affievolisce fino a spegnersi. Poi arriva Natale, e il 31 dicembre, all’una e 15 di notte, Ciro Caiafa, padre di Ugo, 40 anni, viene ucciso a colpi di pistola in un appartamento in via Sedil Capuano. Era ritenuto elemento di spicco del clan Mazzanti-Terracciano del Centro Storico. E quindi scoppia di nuovo la polemica: i murales di quelli che sono diventati “baby rapinatori” vanno cancellati. Gli autori dei due murales sono Leticia Mandragora – “un volto non può offendere un altro volto” – e Mario Casti – “Un altro ragazzo della nostra città che ci ha lasciato …… e le persone ancora si domandano???? Ancora una volta sono pronte a giudicare …. a puntare il dito”. A loro tocca il destino dei writer delle origini, dei primi tag a New York, di quelli che esercitavano nell’illegalità e come criminali era tacciati. Usurpatori del patrimonio, altro che artisti e decoro – naturalmente in questo caso è tutta un’altra storia. Un’accusa destinata ad aumentare dopo che si è venuto a sapere che il cosiddetto Murales della Legalità dedicato a Giancarlo Siani, il giornalista ucciso dalla Camorra dal 1985, è stato cancellato. Si trovava all’interno dell’Istituto Comprensivo Gabelli, nel centro di Napoli – un altro più famoso si trova al Vomero, via Romaniello, realizzato dagli Orticanoodles. “La dirigenza della scuola ha così deciso di cancellare, immotivatamente e senza alcuna richiesta, un pezzo di legalità che abbelliva l’animo e l’estetica della scuola stessa e non solo, ritinteggiando di bianco la parete che ospitava l’opera”, ha denunciato l’artista Nicholas Tolosa. La dirigente Carmela Mannarelli a Dire ha confessato di non saperne nulla, di non aver mai visto l’opera (si è insediata lo scorso settembre), di aver saputo che una ritinteggiatura era necessaria per il logoramento della parete causata da pioggia e infiltrazioni. È servito a poco, la polemica è ripartita e in molti hanno accusato: “Cancellato il murales in onore di Gianfranco Siani e invece restano quelli dei baby rapinatori”.

Luigi Caiafa, cancellato il murales dopo 4 mesi e un morto ammazzato: lo Stato si rivede a Forcella. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 5 Febbraio 2021. Ci sono voluti quasi quattro mesi, segnati da polemiche, indignazioni, un morto ammazzato in un agguato di camorra, appelli del Prefetto Marco Valentini e del procuratore generale di Napoli Luigi Riello, per spingere l’amministrazione guidata dal sindaco Luigi de Magistris, impegnato da settimane nella campagna elettorale per le regionali in Calabria (dove è in corsa come candidato presidente), a rimuovere il murales dedicato a Luigi Caiafa, il baby rapinatore di 17 anni ucciso il 4 ottobre scorso da un poliziotto nel corso di un tentativo di rapina in via Duomo. Venerdì mattina, 5 febbraio, lo Stato si fa vivo a Forcella ma solo per l’ennesima azione repressiva. In via dei Tribunali, a pochi passi da via Sedil Capuano, dove abitava Luigi, entrano in azione vigili del fuoco per la rimozione dei paletti, la Napoli Servizi per cancellare il murales e l’Asia per la rimozione delle fioriere poste abusivamente davanti all’opera realizzata dall’artista e rapper Mario Casti una decina di giorni dopo il decesso del 17enne. “A seguito delle ordinanze di ripristino dello stato dei luoghi emanate con riferimento al murale di via dei Tribunali – fa sapere il Comune -, dopo aver ricevuto riscontro da parte degli uffici comunali circa l’estraneità del condominio, stamani si è provveduto al ripristino dello stato dei luoghi, dando così seguito all’indirizzo espresso dalla giunta de Magistris”. Non sono mancati momenti di tensione con i familiari di Caifa. Presenti gli agenti della polizia municipale e i poliziotti del commissariato Vicaria. Lo scorso 31 dicembre 2020, il papà di Luigi, Ciro Caiafa, è stato ucciso all’interno del ‘basso’ della sua abitazione nel corso di un agguato di matrice camorristica. I sicari hanno fatto irruzione intorno all’una di notte del 31 dicembre nel locale terraneo. Caiafa si trovava in casa con Gennaro Di Martino, 28enne incensurato conosciuto nella zona come tatuatore. Il 40enne e Di Martino sono stati trasportati poco dopo al pronto soccorso dell’ospedale Vecchio Pellegrini. Caiafa è deceduto in seguito alle gravi ferite riportate, il 28enne è stato invece dimesso con 10 giorni di prognosi per una ferita d’arma da fuoco al fianco sinistro. Nelle prossime settimane la stessa sorte toccherà al murales dedicato a Ugo Russo, l’altro baby-rapinatore 15enne ucciso da un carabiniere 23enne libero dal servizio lo scorso primo marzo 2020. Russo puntò la pistola, poi rivelatasi giocattolo, contro il militare che si trovava alla guida dell’auto in compagnia della fidanzata. L’intento era quello di farsi consegnare il rolex che indossava. Il carabiniere reagì sparando tre colpi di pistola due dei quali raggiunsero Russo al torace e dietro al collo. Il Comune ha diffidato il condominio dove è stato realizzato il murales dall’artista Leticia Mandragora nei Quartieri Spagnoli e se non interverrà si procederà così come fatto oggi a Forcella.

Il "Bergoglio del Sud". Il nuovo arcivescovo di Napoli positivo al covid: sospese le celebrazioni di Battaglia. Antonio Lamorte su Il Riformista il 9 Febbraio 2021. È risultato positivo al coronavirus l’arcivescovo metropolita di Napoli Domenico Battaglia. Le celebrazioni e le visite programmate di monsignor Battaglia sono state quindi sospese. L’arcivescovo è il successore del cardinale Crescenzio Sepe. La cerimonia di insediamento lo scorso 2 febbraio. Lo stesso Sepe era risultato positivo al coronavirus. Perciò non aveva partecipato all’insediamento ufficiale nel salone arcivescovile di Palazzo Donnaregina, sede della curia partenopea. Il cardinale è stato ricoverato all’ospedale Cotugno, eccellenza nella cura delle malattie infettive e avamposto contro la pandemia da coronavirus. Battaglia, 58 anni, è stato definito il “Bergoglio del Sud”. È calabrese ed è noto per il suo impegno nelle periferie. È stato apprezzato a Cerreto Sannita, nel beneventano. Il suo primo giorno ha intrapreso un tour lungo e simbolico. Ha visitato i parenti di Francesco Della Corte, la guardia giurata uccisa a bastonate a Piscinola, periferia nord di Napoli, nei pressi della stazione della metro; ha incontrato una ragazza nigeriana arrivata in Italia nel 2016 dopo un lungo viaggio di sfruttamento e violenze ripetute; ha preso il suo primo caffè napoletano con un operaio della Whirlpool; ha pranzato al Binario della Solidarietà, realtà Caritas della diocesi di Napoli.

Nel suo discorso di insediamento cita Pino Daniele. Don Mimmo Battaglia, le tappe della prima giornata da arcivescovo di Napoli: “E’ il prete di tutti”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 2 Febbraio 2021. Dopo l’era Sepe, nel giorno del suo insediamento come arcivescovo di Napoli, Domenico Battaglia, 58 anni, è partito dalla periferie, dai più deboli, lontano dai riflettori. “Don Mimmo”, così come viene chiamato dai fedeli che in questi anni hanno avuto modo di apprezzarlo a Cerreto Sannita (Benevento), ha voluto incontrare per primi i parenti di Francesco Della Corte, la guardia giurata uccisa a bastonate a Piscinola, periferia nord di Napoli, nei pressi della stazione della metro. Ha incontrato la moglie e i due figli di Franco che, con un progetto di solidarietà, hanno trasformato un’area limitrofa a quella in cui è avvenuta l’uccisione del padre e marito, in un parco giochi per bambini. Poi il suo primo colloquio privato è stato, nella zona dei Camaldoli, con E. D., una ragazza nigeriana arrivata in Italia nel 2016 dopo un lungo viaggio di sfruttamento e violenze ripetute. Giunta nel nostro Paese ha scoperto di avere l’Aids e, dopo un momento di disperazione, grazie all’accoglienza nella “Casa Famiglia Riario Sforza” della Caritas Diocesana di Napoli, gestita dalle Suore Vincenziane, ha ricominciato a sperare e a sognare. Nella carne di E. sono impresse le ferite della migrazione, dello sfruttamento e della violenza sulle donne, dell’emarginazione connessa alla malattia e allo stesso tempo la speranza di Napoli, città del mediterraneo, che si è fatta per lei casa accogliente. Il suo primo caffè napoletano lo ha preso a casa di uno degli operai della Whirlpool. Don Mimmo ha fatto visita alla famiglia del lavoratore della multinazionale americana che ha chiuso lo stabilimento di Ponticelli nei mesi scorsi, lasciando senza lavoro oltre 300 famiglie. Un gesto che rappresenta l’attenzione al mondo del lavoro e alla piaga endemica della sua mancanza nonché la volontà ecclesiale di camminare insieme alle istituzioni e alla società civile per ridare dignità e futuro alle tante famiglie che vedono compromessa la propria sicurezza e serenità a causa della disoccupazione. Pranzo al "Binario della solidarietà", una realtà della Caritas diocesana di Napoli che, grazie alla collaborazione delle suore della Carità si occupa specificamente dei senza dimora accompagnandoli in un percorso di reinserimento sociale, fatto di dignità, autonomia e integrazione: don Mimmo ha condiviso con loro un momento di intimità e convivialità. Poco prima Don Mimmo è andato a San Giovanni a Teduccio nell’associazione ‘Figli in famiglia’: ha incontrato una bambina che, condividendo con tanti suoi coetanei la fatica di crescere in un territorio ferito e periferico, rappresenta per la comunità diocesana e per l’intera città un appello a farsi carico della speranza e dei sogni dei più piccoli, attraverso un’attenzione costante alle problematiche educative e sociali. Un giornata intensa che segue quella di ieri dove l’ex vescovo di Cerreto Sannita ha incontrato i detenuti nel carcere di Poggioreale. Poi l’insediamento ufficiale con il saluto alle autorità cittadine nel salone arcivescovile di Palazzo Donnaregina, sede della curia partenopea. Presenti oltre al sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, e il governatore regionale Vincenzo De Luca, anche i ministri Gaetano Manfredi ed Enzo Amendola e il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho. Don Mimmo cita le parole di una canzone di Pino Daniele: “Saluto con parole che non sono mie, ma sono state importanti nel mio percorso. Le parole di una canzone che ho ascoltato negli anni ’90 da un ragazzo che all’epoca era in comunità. Voglio consegnare a tutti voi un sogno – ha aggiunto l’arcivescovo – quello di riorganizzare la speranza. E Terra mia rappresenta proprio la volontà di non perdere mai la speranza in un cambiamento, perché le cose possono cambiare”. “Una terra capace di togliere il fiato per la sua bellezza, di stupire per l’ingegno, la creatività e l’accoglienza, ma anche sottomessa al gioco pesante della criminalità, della camorra, di affaristi senza scrupoli che crescono e ingrassano sulla sofferenza di tanti disoccupati, di chi per sbarcare il lunario e portare a casa un pezzo di pane, è capace di qualsiasi cosa sulla pelle dei nostri ragazzi. Una terra – ha aggiunto – ricca di belle persone, di volontariato, di associazionismo, di terzo settore, ma anche di disperazione, di fiumi di droga che scorrono indisturbati nei quartieri più abbandonati, di gioco d’azzardo e di vite a perdere, di emarginazione e di solitudine. Di tutto questo noi dobbiamo essere pienamente consapevoli, avere il coraggio di guardare negli occhi i mali delle nostre terre e di chiamare i problemi con il loro nome. Solo così, insieme, potremo affrontarli”. Poi la lotta alla camorra: “Sarà una dura, difficile, però è possibile perché se davvero saremo capaci di farci forza di quella che è la nostra speranza, se davvero saremo capaci di camminare insieme, è possibile costruire un mondo migliore, ma è importante che ognuno faccia la sua parte. Come chiesa non ci tireremo indietro. Bisogna avere coraggio di ritrovare quella credibilità perduta – osserva – perché solo così saremo forti nell’affrontare ogni tipo di criminalità”.

Medico e due figli nei guai insieme ad altre 21 persone. Patente rinnovata ad anziani allettati e invalidi, oltre 50mila certificati falsi: “Papà è ricoverato, li facciamo noi”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 18 Gennaio 2021. Rinnovo della patente anche ad anziani ultranovantenni, alcuni dei quali allettati da anni e affetti da gravi patologie invalidanti, grazie a certificazioni mediche false. Oltre 50mila quelle rilasciate da un dottore e dai suoi due figli (quando il genitore si trovava ricoverato in clinica). E’ quanto emerge dalle indagini condotte dalla sezione della polizia stradale di Napoli (distaccamento di Nola) e coordinate dalla procura di Napoli nord guidata da Francesco Greco. L’ordinanza di applicazione di misura cautelare è stata emessa dal Gip del Tribunale di Napoli nord nei confronti di 24 persone (20 ai domiciliari, 3 destinatari dell’obbligo di dimora e una sottoposta all’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria). Sono tutte residenti tra le provincie di Napoli e Caserta e dovranno rispondere di associazione per delinquere finalizzata al falso in atto pubblico. Il totale degli indagati è di oltre 40 persone con il giro d’affari stimato in circa un milione e 600mila euro. Il modus operandi dell’organizzazione è stato ricostruito con intercettazioni e servizi di osservazione, controllo e pedinamento. Protagonista un medico e i suoi familiari oltre a faccendieri, titolari e collaboratori di autoscuole ed agenzie presenti nel territorio in questione. Un’organizzazione ben strutturata con una precisa ripartizione di ruoli, compiti e responsabilità. Molte delle oltre 50maila false certificazioni mediche, emesse per una sola annualità, erano caratterizzate da valori bollati contraffatti. A rilasciarle erano spesso i figli del medico in questione, anche quando quest’ultimo per un periodo è stato ricoverato in una clinica ed era quindi impossibilitato ad esercitare la sua professione. I due figli, utilizzando le credenziali informatiche del genitore compiacente, avevano trasmesso telematicamente le risultanze delle visite, mai sostenute, alla Motorizzazione Generale di Roma. Molti dei documenti rinnovati erano stati rilasciati a persone anziane, ultranovantenni, allettate da anni e affette da gravi patologie invalidanti e, dunque, non compatibili con i requisiti richiesti per il rilascio della necessaria idoneità psicofisica. Veri e propri prestanomi, probabilmente a loro insaputa, ai quali potevano presumibilmente essere intestate vetture noleggiate o sottratti i punti sulla patente in seguito a infrazioni del codice della strada. E’ emerso inoltre che alcune autoscuole organizzavano, aggirando i controlli della Motorizzazione Civile di Napoli, falsi corsi di formazione periodica per conducenti professionali: ovvero lezioni di teoria e pratica ad allievi effettuati da personale non qualificato.

Il video e l'indignazione: il lavoratore napoletano di 50 anni assalito mentre lavora. Rider aggredito, picchiato e rapinato da sei bestie: “Fatti avanti, ti aiutiamo”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 3 Gennaio 2021. Sei animali. Sei uomini aggrediscono a calci, pugni e schiaffi un rider di circa 50 anni mentre si trova in sella al suo scooter ed è intento ad effettuare l’ennesima consegna. Lo accerchiano, lo tamponano più volte con un altro scooter, provano a tirarlo già dal motorino. Lui resiste, prova a difendersi ma alla fine deve soccombere. Viene trascinato a terra da uno della banda mentre un altro sale in sella al suo scooter e fugge via. E’ accaduto a Calata Capodichino, zona a nord di Napoli. A denunciare l’episodio sono alcuni residenti che immortalano la scena dai balconi delle proprie abitazioni. Un video di poche decine di secondi che è già stato acquisito dalla polizia. Le immagini, che hanno fatto il giro del web, hanno indignato e spinto numerosi cittadini a lanciare una raccolta fondi per aiutare il rider, padre di due figli. La mobilitazione sulla piattaforma Gofoundme.com (“Comprare subito un motorino al ragazzo rapinato”) ha già raccolto oltre 8mila euro in poche ore. “Stasera ho ricevuto un video sconvolgente su un’aggressione a un rider che sarebbe avvenuta intorno alle 20.30 a Calata Capodichino a Napoli. Un gruppo di delinquenti circonda e picchia il giovane con inaudita violenza per sottrargli lo scooter con il quale sta effettuando le consegne. Lo abbiamo subito girato alle forze dell’ordine. Al giovane diciamo di farsi avanti, anche in forma anonima, perché lo vogliamo aiutare. Chi e’ vittima di una tale barbarie va aiutato dalla parte sana della città”. Queste le parole del consigliere regionale di Europa Verde Francesco Emilio Borrelli a cui è stato inviato il video. Borrelli poi aggiunge: “Si chiama Gianni, ha 50 anni, e la famiglia chiede giustizia”. L’uomo è sposato e ha due figlie. L’appello è stato subito accolto da parte del giovane rider: “Non vogliamo dirvi molto, solo che abbiamo appena ascoltato un messaggio che il nostro amico (ormai lo è) ci ha inviato in privato” scrive Gianni Simioli, conduttore della Radiazza su Radio Marte. “Sapete cosa dice? Che ci ringrazia, ma che al momento non può rispondere perché dopo lo “stop” per la rapina subita, ha ripreso a lavorare per completare il giro di consegne con un’auto. Insomma, avete capito bene: sta proprio continuando a lavorare. Applausi e rispetto per questo disoccupato di 50 anni “che non può stare senza fare niente aspettando che arrivi un lavoro” conclude Simioli che si augura di averlo presto in trasmissione.

La mobilitazione: bruciata in poche ore la quota minima. Rider picchiato e rapinato, il gran cuore dei napoletani: raccolti migliaia di euro per Gianni. Redazione su Il Riformista il 3 Gennaio 2021. Quasi 10mila ero raccolti in poco più di due ore. E le donazioni continuano ad arrivare. Non ha eguali il cuore dei napoletani per Gianni, il rider di circa 50 anni brutalmente (spostato e padre di due ragazze) aggredito, picchiato e rapinato del suo scooter da sei “bestie” (perché così è giusto definirle) a Napoli. Sulla vicenda sono in corso le indagini della polizia che ha acquisito il video, girato da alcuni residenti, diventato virale sui social. La raccolta fondi lanciata sulla piattaforma “Gofundme.com” da Vincenzo Perrella, residente a Casalnuovo (Napoli), ha rapidamente raggiunto l’obiettivo minimo prefissato (5mila euro). “Stiamo facendo una raccolta per donare subito un motorino nuovo al ragazzo brutalmente rapinato e picchiato da 6 balordi”. Tra i donatori c’è anche chi ha voluto mettere a disposizione del rider ben 2500 euro. Si tratta di Mohamed Fares che, facendo una breve ricerca su Google, risulta essere omonimo del centrocampista della Lazio (ex Spal). “Non vogliamo dirvi molto, solo che abbiamo appena ascoltato un messaggio che il nostro amico (ormai lo è) ci ha inviato in privato” scrive Gianni Simioli, conduttore della Radiazza su Radio Marte. “Sapete cosa dice? Che ci ringrazia, ma che al momento non può rispondere perché dopo lo “stop” per la rapina subita, ha ripreso a lavorare per completare il giro di consegne con un’auto. Insomma, avete capito bene: sta proprio continuando a lavorare. Applausi e rispetto per questo disoccupato di 50 anni “che non può stare senza fare niente aspettando che arrivi un lavoro” conclude Simioli che si augura di averlo presto in trasmissione.

Fermati 6 giovani (tra cui 4 minori): "Tra loro c'è chi fa il falegname, chi il muratore, chi il salumiere". Rider picchiato e rapinato, i familiari dei sei baby-aggressori: “Erano ubriachi, una bravata”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il  5 Gennaio 2021. “Erano ubriachi, è stata una bravata, non roviniamogli la vita, sono tutti ragazzi che lavorano”. Sono le parole dei parenti dei giovani, quattro minorenni e due maggiorenni (tutti dell’area nord di Napoli), sottoposti a decreto di fermo per il pestaggio e la rapina dello scooter al rider 52enne Gianni Lanciano. Sono circa una trentina all’esterno della Questura. Ci sono nonne, mamme, zie, sorelle, cugine, bambine. Tra loro pochi uomini. Sono in attesa dell’arrivo delle auto civetta della polizia che portano negli uffici di via Medina i loro "cari" sospettati di aver fatto parte del raid ripreso in un video dai residenti di via Calata Capodichino e diventato virale in poche ore sui social. Il pestaggio e la rapina dell’Sh 125 del rider è avvenuto poco dopo l’una di notte del 2 gennaio scorso. Le immagini della brutale aggressione sono iniziate a circolare solo nella serata del giorno successivo, scatenando rabbia e indignazione e provocando una rapida risposta delle forze dell’ordine che in meno di 12 ore hanno ritrovato lo scooter rubato nel rione dei Fiori a Secondigliano, fortino del clan Di Lauro, arrivando a identificare parte dei componenti della banda. Sono quattro i fermi disposti dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni nei confronti di due diciassettenni e due sedicenni. Altri due provvedimenti di fermo sono stati emessi dalla Procura di Napoli, guidata da Giovanni Melillo, a carico di due ventenni. Provvedimenti eseguiti dalla Squadra Mobile, diretta dal primo dirigente Alfredo Fabbrocini, e dal Commissariato Secondigliano. Fermi che verranno sottoposti alla convalida al competente Giudice delle Indagini Preliminari. “Hanno commesso una bravata ed è giusto che paghino” commenta al Riformista un uomo, familiare di uno dei destinatari del provvedimento restrittivo che ha portato quattro minori al Centro di Prima Accoglienza dei Colli Aminei. “Erano scesi di casa per mangiare un panino, poi hanno bevuto e ubriachi hanno commesso la rapina” aggiunge. La gang, tuttavia, si trovava in strada in un orario non consentito: alle 22 è in vigore il coprifuoco e sia il primo che il 2 gennaio Napoli così come tutta Italia era in zona rossa anche se i controlli, soprattutto nelle zone periferiche della città sono quasi inesistenti. “E’ difficile trattenerli a casa” commenta l’uomo “ma vi assicuro che sono tutti ragazzi che lavorano: c’è chi fa il falegname, chi lavora in una salumeria, chi va a lavorare come muratore“. Nel decreto di fermo firmato dal sostituto procuratore Nicola Ciccarelli emerge che il gruppo entrato in azione si trovava in sella a due scooter, uno con la targa contraffatta, l’altro rubato nelle ore precedenti. Secondo la testimonianza del rider, erano armati di una pistola (senza tappo rosso, non è chiaro se scenica) e di un coltello. Dettagli quest’ultimi emersi solo nella serata del 4 gennaio. Inoltre i due sedicenni risultano essere parenti stretti di esponenti storici del clan Di Lauro. “Credetemi – prosegue il familiare – anche io vengo da un passato difficile, con diversi anni di carcere alle spalle, ma questi sono ragazzini che hanno commesso una leggerezza. Basta vedere le immagini della rapina: erano impacciati, disorientanti. Una bravata dettata dall’alcol che avevano bevuto poco prima”.

LE PAROLE DEL RIDER – Anche il rider vittima della brutale aggressione si dice “dispiaciuto per questi ragazzi. Non devono arrivare a questo, devono capire i valori della vita, devono lavorare, anche facendo mestieri utili”. Gianni ha ricevuto in poche ore tanta solidarietà da parte dei suoi concittadini. La raccolta fondi lanciata sulla piattaforma “Gofundme.com” da Vincenzo Perrella, titolare di un’agenzia di viaggi a Casalnuovo, con l’aiuto di familiari e amici tra cui l’influencer Vincenzo Galasso detto "Bambolina".

LA RACCOLTA FONDI E LA BENEFICENZA – Degli 11.068 euro raccolti (frutto di oltre 800 donazioni), tolte le tasse da pagare alla piattaforma, restano 10.539 euro di cui 2.439 ancora in fase di elaborazione. Quest’ultimo dato è relativo alla generosa donazione del calciatore della Lazio Mohamed Fares. “Quando arrivano cifre così elevate viene fatta una ulteriore verifica da parte di “Gofundme.com” con il diretto interessato prima di approvare la donazione” spiega Perrella. Dei circa 10mila euro che verranno dati al rider la metà potrebbe essere devoluta in beneficenza dallo stesso 52enne.

IL LAVORO DI SEMPRE – Intanto Gianni Lanciato presto tornerà a lavorare in macelleria: “Sono un paio di mesi che sto facendo il rider perché sono disoccupato e non posso stare fermo” spiega aggiungendo: “Nelle scorse ore ho ricevuto diverse offerte di lavoro. Ringrazio tutti, dal consigliere Borrelli alla macelleria Bifulco. Presto tornerò a fare il lavoro che ho fatto per tanti anni”.

Napoli, orrore in strada: rider picchiato e rapinato da 6 malviventi. La rapina, ripresa in un video, è avvenuta a Calata Capodichino, zona nord di Napoli. L’uomo ha provato a difendere lo scooter ma è stato massacrato di botte. Avviata una raccolta fondi per ricomprare al rider un motorino. Gabriele Laganà, Lunedì 04/01/2021 su Il Giornale. Una violenza che lascia senza parole quella accaduta nella serata di sabato tra le strade di Napoli. Un rider di 50 anni è stato circondato, picchiato selvaggiamente e trascinato via dal proprio scooter da una banda composta da 6 rapinatori. Il gravissimo episodio è accaduto in Calata Capodichino, zona nord del capoluogo partenopeo, ed è stato ripreso da un residente della zona. La svolta sul caso, che ha suscitato un enorme clamore, è stata quasi immediata. Nella notte sono stati fermati i presunti autori della rapina: sono di Secondigliano e Miano e alcuni sono minorenni. Le forze dell'ordine hanno anche recuperato lo scooter. Le immagini della rapina riprese con un telefono mostrano tutta l'efferatezza dell’azione compiuta dai malviventi con il volto travisato anche dalle mascherine anti-Covid. I banditi, per sottrarre il mezzo con cui l’uomo stava effettuando le consegne, non si sono fatti scrupolo di massacrare la vittima a pugni e a calci, arrivando persino a andargli addosso con gli altri motorini per farlo cadere a terra. Il rider, nonostante fosse da solo contro il branco di belve, non si è arreso ed ha eroicamente provato a difendere se stesso e lo scooter dai rapinatori. Approfittando di un momento di distrazione dei malviventi, che forse temevano il sopraggiungere delle forze dell’ordine, il 50enne ha provato anche ad allontanarsi ma è stato subito bloccato dai criminali. Alla fine il rider è stato costretto a capitolare. L’uomo è stato scaraventato sull’asfalto mentre uno degli aggressori si è impadronito dello scooter ed è fuggito via. Compiuto il colpo, gli altri cinque malviventi, divisi sugli altri motorini, sono scappati via dileguandosi lungo Calata Capodichino. Le immagini sono crude e raccontano una violenza assurda compiuta da un gruppo di malviventi e il coraggio indomito dell’uomo ma non mostrano quanto accaduto dopo. Nonostante il grandissimo spavento ed il dolore per le botte ricevute, Gianni (questo il nome del 50enne) ha preso l'auto del titolare ed ha continuato a fare le consegne per guadagnarsi ancora una volta in modo onesto il pane. Il rider ha perso di recente il lavoro e si è dovuto reinventare: utilizzava il motorino della figlia, regalo per i 18 anni della ragazza, per effettuare le consegne. Il video della rapina è divenuto subito virale in rete. Non solo indignazione per quanto accaduto ma anche gesti concreti. Sul web, infatti, è partita una raccolta fondi sul sito "Gofundme" per ricomprare al rider un motorino. L’iniziativa ha avuto subito successo: in poche ore il denaro raccolto ha superato gli 11mila euro. Tra i donatori anche il calciatore Mohammed Fares che ha elargito 2500 euro. Gianni ha raccontato a FanPage che la sera della rapina aveva appena fatto una consegna nei pressi di via Janfolla e poi aveva percorso il corso Secondigliano prima di imboccare calata Capodichino. "Mi hanno bloccato dopo il ponte dell'Asse Mediano", ha affermato il 50enne. "Erano tutti ragazzini – ha proseguito-tutti ventenni. Non parlavano, mi dicevano solo di lasciare lo scooter". Gianni ha fatto di tutto per non farsi prendere lo scooter ma alla fine ha dovuto arrendersi. "Ho dolori ovunque, ho preso calci ovunque", ha confessato il rider dicendo di essere pieno di lividi, soprattutto sulle gambe. "Quando mi hanno intimato di consegnare il motorino, ho provato a resistere urlando ma non ho avuto paura perché ho solo provato a difendere qualcosa di mio, utile alla mia famiglia", ha raccontato in seguito Gianni. Dopo aver visto il video della rapina, il rider ha riflettuto a lungo. "Quanta crudeltà Sono ragazzini ma non dovrebbero agire così", ha poi aggiunto la vittima della brutale rapina. In merito alla raccolta fondi organizzata su internet Gianni è stato chiaro: "Ringrazio tutti per la solidarietà: c'è tanta gente di buon cuore. Ma io vorrei solo un lavoro stabile, pagare le tasse come ho sempre fatto e vivere tranquillamente". Il rider ha ammesso di essersi commosso per l'affetto ricevuto: "Io ringrazio tutti coloro che mi sono vicini. Io non vorrei approfittare della bontà dei napoletani". "L'aggressione al rider avvenuta a Napoli è una pagina indegna e criminale in un momento così terribile. Evidenzia la precarietà di un lavoro non di rado espletato senza adeguate garanzie; la violenza di una banda di criminali che agisce indisturbata senza che nessuno intervenga; la desertificazione dei territori dovuta ad una pandemia che sta piegando le nostre città", ha denunciato il sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Il primo cittadino si è augurato che i responsabili "di questa brutale aggressione siano presto assicurati alla giustizia e che la vittima possa ritornare a lavorare con un nuovo motociclo e con maggiore serenità". Solidarietà al rider picchiato e derubato dello scooter è stata espressa anche dal ministro per il Lavoro, Nunzia Catalfo, che su Facebook ha scritto che "quella ripresa da alcuni residenti è un'aggressione brutale, su cui mi auguro che le Forze dell'Ordine facciano luce al più presto, assicurando i colpevoli alla Giustizia". Duro anche il commento di Giorgia Meloni che sui social ha scritto: "Immagini agghiaccianti. A Napoli un rider è stato assalito e derubato da un branco di rapinatori. Spero che questi vigliacchi vengano immediatamente identificati e severamente puniti". Sempre sui social il parlamentare di Italia viva, Gennaro Migliore, ha inviato "un abbraccio al rider aggredito" a Napoli. "Sei contro uno: vigliacchi oltre che delinquenti. Unica nota positiva le migliaia di euro raccolti in poche ore sul web per ricomprare lo scooter: l'Italia solidale è meravigliosa", ha scritto ancora Migliore.

Francesco Emilio Borrelli fa macelleria sociale, avvocati penalisti non sono complici della camorra. Viviana Lanza su Il Riformista il 6 Gennaio 2021.  «Desta sgomento l’individuazione degli avvocati come complici delle associazioni criminali che imperversano sul territorio, argomentata con l’accumulo di “ricchezze” in ragione della difesa della camorra». Parole dell’avvocato Luca Panico, segretario napoletano di Nuova avvocatura democratica (Nad), che ha replicato al post del consigliere regionale Francesco Emilio Borrelli sulla storia del rider aggredito e rapinato da una banda di giovanissimi. «Ci sta un pezzo della nostra popolazione, anche colletti bianchi, anche gente altolocata… fior fiore di penalisti che sono diventati ricchi grazie al fatto di essere esperti nel difendere, sostenere e muoversi a favore di camorristi», aveva scritto Borrelli. Di qui la polemica social. «Gli avvocati, tutti gli avvocati – ha precisato Panico nel suo post in difesa della categoria forense – non difendono Tizio o Caio, ma il loro diritto a un processo celebrato in ossequio alle garanzie e ai diritti previsti dall’ordinamento giuridico nazionale e internazionale, senza alcuna partecipazione o condivisione morale con le vicende umane alle quali lavorano. Questo vale in ogni campo del diritto, senza differenza alcuna: che si tratti di un sinistro stradale o del più efferato omicidio, di un ricorso alla giustizia amministrativa o della difesa in giudizio di imputati per fatti di camorra. Bisogna respingere con forza questa impostazione culturale che vede nel professionista non un soggetto partecipe dell’esercizio, nell’interesse del proprio assistito a un giusto processo, della funzione giurisdizionale ma un compartecipe dei fatti a quella giurisdizione sottoposti. Questa non è una battaglia per la legalità ma macelleria sociale, che in nulla contribuisce alla soluzione dei problemi, drammatici, che affliggono la nostra città». Di qui l’invito a Borrelli a «rettificare le sue parole e a meglio indirizzare le proprie energie e le proprie battaglie capendo che l’avvocatura penalista non si adopera per raggirare la legge ma proprio affinché essa trovi la più corretta e giusta attuazione nelle aule di giustizia». Quindi, la controreplica del consigliere regionale per precisare che il senso delle sue parole non voleva essere un attacco indiscriminato a tutta la categoria forense: «Non ce l’ho con i penalisti che devono difendere qualsiasi cittadino, compreso chi ha commesso i più efferati delitti. I miei riferimenti erano verso casi specifici e non di certo verso la categoria».

Valentina Errante per "il Messaggero" il 5 gennaio 2021. La raccolta fondi, con la gara di solidarietà per ricomprare il motorino, che vede in testa il giocatore della Lazio Mohamed Fares, è partita subito. E l' offerta di lavoro in una macelleria c' è già. Ma Gianni Lanciano, 52 anni, dopo essere stato violentemente picchiato e rapinato del suo scooter, nella notte tra l' 1 e il 2 gennaio, a Napoli, non ha atteso la beneficenza. A poche ore dal pestaggio ha preso l' auto e ha continuato a lavorare: rider come la sera prima. «Che dovevo fare. Devo andare avanti», ha detto orgoglioso. Ha continuato a consegnare cibo, come quella notte, pizzette e cornetti. Da sei anni, quando aveva perso l' impiego di macellaio in una catena commerciale, Gianni attende di trovare di meglio, ma intanto non si ferma. «Ogni lavoro ha la sua dignità anche il più umile», commenta adesso, facendo un appello proprio ai ragazzi che gli hanno portato via il motorino della figlia. Le immagini del pestaggio hanno fatto il giro del web: ad assalirlo sono in sei in sella a due scooter. Tutti sarebbero identificati e interrogati in questura a Napoli, quattro di loro sono minorenni. I fermi potrebbero arrivare già nelle prossime ore.

L' AGGRESSIONE. «Quando mi hanno intimato di consegnare il motorino, ho provato a resistere urlando - racconta Gianni - ma non ho avuto paura perché ho solo provato a difendere qualcosa di mio, utile alla mia famiglia. Quanta crudeltà. Sono ragazzini ma non dovrebbero agire così». Le immagini del pestaggio sono state riprese da un balcone e postate su Facebook dal consigliere regionale di Europa Verde, Francesco Emilio Borrelli. «Adesso le mie figlie e mia moglie sono umiliate e hanno paura - dice Gianni - ma io no. Voglio continuare a lavorare, a pagare le tasse, come ho sempre fatto. E a versare i contributi. Nonostante tutto mi dispiace per quei ragazzi, erano ragazzini. Ho pensato perché fanno così? Non dovrebbero fare così. Fare il male al prossimo è la cosa più brutta. Sono arrabbiato - conclude - ma mi dispiace per loro, vorrei che lavorassero onestamente, accettassero anche i lavori più umili rinunciando a delinquere. Napoli è bellissima e questi ragazzi non devono rovinarla».

LA SOLIDARIETÀ. I soldi sono arrivati da ogni parte di Italia: il difensore della Lazio, Mohamed Fares, ha donato 2.500 euro. «Ho visto su Instagram un post di un mio amico di Napoli e sono venuto a conoscenza di questo episodio. La vicenda - ha commentato Fares ai microfoni di sslazio.it - mi ha particolarmente colpito e ho deciso di agire in prima persona. Ho notato un link per fare una donazione e l' ho voluta effettuare in forma anonima, perché non volevo che questo mio gesto suscitasse clamore mediatico. La mia intenzione era quella di aiutare una persona in difficoltà». Ma a contribuire sono stati anche tanti sconosciuti. E in poche ore è stata superata la somma di undicimila euro. Commosso da tanta solidarietà, Gianni Lanciano chiede però un lavoro; quel lavoro da macellaio che ha fatto fino a sei anni in un ipermercato dell' area a nord di Napoli. E un' offerta è arrivata da una macelleria di Ottaviano. Il titolare dell' esercizio commerciale si dice felice di potere esaudire il desiderio di Gianni.

LE INDAGINI. Intanto le indagini sugli aggressori sono andate avanti. Lo scooter della vittima è stato ritrovato dinanzi all' abitazione di un sospettato e in questura, sono finiti in sei. Quattro minorenni. A incastrarli ci sono state anche le immagini di alcune telecamere di videosorveglianza. Due dei ragazzi avrebbero già confessato e i fermi potrebbero scattare nelle prossime ore. Ma la polizia punta a chiarire anche perché prima dell' aggressione ci sia stato un dialogo tra la vittima e gli aggressori. Ma sulla storia di Gianni, che racconta i due volti opposti della stessa città, interviene anche la politica. Parla di immagini che fanno male il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ma, fortunatamente, osserva «C' è dell' altro, ovvero la sensibilità e la grande umanità di un' altra fetta di popolazione che in queste ore ha lanciato una raccolta fondi per ricomprare lo scooter al rider». Invoca il pugno duro e pene severe per i responsabili la presidente di Fratelli d' Italia, Giorgia Meloni. Un gesto «vigliacco e di inaudita violenza che condanniamo con forza. Siamo vicini a lui e alla sua famiglia», scrive su Facebook Vincenzo De Luca, governatore della Campania, mentre il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris parla di «una pagina indegna e criminale in un momento così terribile. Evidenzia la precarietà di un lavoro non di rado espletato senza adeguate garanzie; la violenza di una banda di criminali che agisce indisturbata senza che nessuno intervenga; la desertificazione dei territori dovuta ad una pandemia che sta piegando le nostre città»

Le due facce di Napoli: la criminalità spadroneggia ma la comunità reagisce. Ciriaco M. Viggiano su Il Riformista il 5 Gennaio 2021. Accerchiato, insultato, picchiato. Il tutto mentre, in sella allo scooter della figlia, consegnava cibo ai clienti per guadagnare una manciata di euro. Protagonista della vicenda, immortalata da un residente in Calata Capodichino e immediatamente divenuta virale sul web, è Gianni Lanciato, il 52enne rider napoletano assalito da sei persone domenica sera. Per aiutarlo si sono mobilitate parte della politica, a cominciare dal consigliere regionale Francesco Emilio Borrelli che l’ha accompagnato in questura, e della società civile, incluso il calciatore laziale Mohamed Fares che ha offerto 2mila e 500 euro per far sì che Lanciato potesse acquistare uno scooter nuovo. Non ne avrà bisogno, visto che la polizia ha recuperato il mezzo e individuato i presunti responsabili dell’episodio. Quale fotografia ci restituisce la vicenda di cui il 52enne è stato protagonista? Quella di una città in cui la criminalità troppo spesso spadroneggia, certo. Ma anche quella di una comunità capace di indignarsi davanti alle ingiustizie e di offrire aiuto a chi si trova in difficoltà. Ciò che non deve passare inosservato, però, è il contesto in cui la rapina ai danni di Lanciato è stata messa a segno. Per comprenderlo occorre riflettere sul profilo della vittima: un 52enne che fino a cinque anni fa ha lavorato come macellaio in un grande supermercato, prima di sperimentare sulla propria pelle il dramma della crisi economica e dei conseguenti licenziamenti. A quel punto Lanciato ha deciso di diventare un rider, cioè un fattorino addetto alla consegna di cibo a domicilio. Il che significa spesso essere pagati a cottimo, guadagnare pochi euro a fronte di un impegno di diverse ore al giorno, non avere garanzie solide per quanto riguarda malattia, ferie e contributi. Senza dimenticare la piattaforma punitiva, cioè quel meccanismo che sanziona il rider che rifiuti una consegna trattenendo una parte del suo guadagno o riducendo le chiamate e, per questa strada, le possibilità di guadagno. Alcuni hanno parlato di nuova schiavitù, altri hanno paragonato il lavoro dei fattorini al caporalato, altri ancora hanno tentato di accendere i riflettori sulle condizioni di lavoro di persone come Gianni che domenica sera, dopo essere stato aggredito, è salito a bordo di un’automobile e ha continuato a effettuare consegne prima di vedersi offrire un posto in una macelleria di Ottaviano. Tutto ciò dimostra come, a Napoli come nel resto d’Italia, sempre più persone siano costrette a lavorare in condizioni improponibili pur di non cedere alle lusinghe della malavita che, soprattutto in periodi di crisi, può rappresentare una fonte di occupazione e di guadagno. E le prospettive per il capoluogo campano non sono rosee, se si pensa che il Covid ha travolto il fragile modello economico basato sull’attività ricettiva e sulla ristorazione. I politici di casa nostra, intanto, continuano a discettare di candidature vere o presunte (come quella di Catello Maresca a sindaco di Napoli o di Luigi de Magistris a governatore della Calabria) e di alleanze più o meno plausibili. Nessuno, però, tenta di immaginare la Napoli del futuro, magari dotata di un modello economico legale, sostenibile e inclusivo. La cecità di certa classe dirigente: ecco il virus più preoccupante.

Gianluigi Nuzzi per “La Stampa” il 6 gennaio 2021. La favola del rider rapinato dello scooter e sommerso dalla beneficenza della Napoli onesta rischia di incrinarsi in meno di ventiquattro ore. Giorgio Mascitelli, figlio del boss di camorra Bruno detto 'o Canotto, spunta addirittura tra i sostenitori più attivi della raccolta fondi, avviata appena la notizia della rapina a Calata Capodichino domenica scorsa diventava virale, rimbalzando sui social. La presenza emerge in un video del quotidiano Il Riformista nel quale per consacrare il lieto fine lunedì viene intervistato chi ha sostenuto la colletta. Siamo a Casalnuovo, comune dell'area metropolitana, nell'agenzia viaggi di Vincenzo Perrella, il commerciante regista della generosa raccolta dei fondi on line, oltre 11mila euro in poche ore. La telecamera del cronista inquadra i volti dei presenti. Oltre alla vittima, viene così intervistato Perrella che descrive quanto fatto, vicino ad altre due persone. Alla fine, Perrella sottolinea: «Voglio precisare che se non arrivavamo all'obiettivo (ovvero la raccolta dei soldi per comprare il motorino al rider rapinato, ndr), la differenza la mettevamo noi: io, Enzo, Giorgio e una serie di imprenditori». A questo punto la telecamera inquadra per pochi secondi, a sinistra del commerciante, proprio Giorgio che annuisce in silenzio. E Giorgio è appunto il figlio del boss Bruno Mascitelli ora detenuto e per gli inquirenti attivo tra Pomigliano e proprio Casalnuovo. Ma che ci fa lì il figlio del boss? E che c'entra con il nobile intento di aiutare il povero fattorino disoccupato? «Giorgio è molto seguito a Napoli, - spiega ora Perrella -, così quando ho lanciato questa raccolta di soldi, lui e diverse persone a lui vicine hanno subito ripreso l'iniziativa e condivisa sui social. Quando poi sono venuti a conoscenza del mio incontro con Gianni, hanno voluto presenziare ed esprimere la loro solidarietà al rider». Parrella a Casalnuovo è titolare di un'agenzia viaggi, Mascitelli è il presidente della squadra di calcio. Che rapporti ha con il figlio del boss? «Niente, lo conosco perché per lavoro - prende le distanze - presenzio a molte cerimonie, a quei matrimoni dove vengono regalati pacchetti viaggio agli sposi, cosi ci incontriamo lì. Infatti, Giorgio è lì come manager di cantanti neomelodici famosi». Ma perché sono venuti da lei? «Secondo me volevano essere presenti e conoscere il rider, perché a dir loro la raccolta ha avuto successo proprio grazie al fatto che sono molto seguiti». E, in effetti, Mascitelli jr. è un volto noto soprattutto per essere il manager di Tony Colombo, re dei cantanti neomelodici, marito di Tina Rispoli, vedova di Gaetano Marino, boss degli secessionisti di Secondigliano, ucciso sulla spiaggia di Terracina nel 2012. A questo punto c'è da capire perché Mascitelli abbia voluto mostrarsi in questa vicenda. Perrella fa capire che il giovane manager avrebbe interrotto i rapporti con il padre Bruno da tempo. E in effetti le strade sembrano diverse. Ma agli inquirenti questa scelta di prendere una posizione pubblica nella storia del rider non è passata inosservata. Anzi la giudicano meritevole di un necessario approfondimento. Tuttavia, l'ipotesi dell'aspetto sociale, della volontà di mostrare un volto pulito e distante dalle attività del padre, che potrebbe rilevarsi la motivazione più immediata e scontata, non pare essere presa in particolare considerazione. Del resto, l'attenzione dei media su Giorgio si era già accesa a ottobre quando il rampollo del boss era comparso durante le proteste contro il coprifuoco a Napoli. Le telecamere lo avevano ripreso alle spalle della delegazione che interloquiva con le forze dell'ordine dopo i primi scontri tra polizia e manifestanti. Solo pochi giorni prima di Natale i carabinieri avevano compiuto un blitz proprio contro il clan Mascitelli: all'alba i militari avevano eseguito 21 arresti su richiesta della direzione distrettuale antimafia di Napoli che ipotizza un'associazione mafiosa per il traffico di stupefacenti del gruppo camorristico con al vertice Bruno Mascitelli, sodale del clan Sarno che si estende tra Ponticelli e l'area del Vesuvio. In questo quadretto, il povero rider Gianni Lanciato, ex macellaio che fa il rider dopo 27 anni passati come macellaio nei grandi supermercati napoletani, è estraneo evidentemente al contesto sociale dei suoi benefattori e inconsapevole di chi siano. Anche perché «l'ho conosciuto solo dopo l'incidente - precisa Perrella - e non prima». Il rider ha ritirato metà della somma e si è detto favorevole a devolvere il resto. «I soldi andranno a una fondazione per aiutare i ragazzi poveri di Napoli, Gianni sceglierà quale. Appena trasferiamo la somma pubblicherò sui social la ricevuta».

Mascitelli jr incensurato, l'ideatore della raccolta: "Un incubo, volevamo solo dare una mano". Fa solidarietà ma è figlio del boss, la Procura apre indagine sulla raccolta fondi per il rider rapinato. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 7 Gennaio 2021. Dal gran cuore dei napoletani alla solidarietà “organizzata” dalla camorra. Nel giro di un paio di giorni la storia del rider rapinato e pestato da un gruppo di sei ragazzini, tutti fermati dalla polizia in poche ore, e destinatario di una raccolta fondi che in 120 minuti ha racimolato oltre 11mila euro (grazie alle 822 donazioni) viene macchiata dal fango mediatico e social. Poco importa se Gianni Lanciato, il 52enne fattorino vittima della brutale aggressione, e Vincenzo Perrella, promotore della raccolta e titolare di un’agenzia di viaggi a Casalnuovo (Napoli), hanno deciso di comune accordo di destinare parte della somma raccolta alla Fondazione Cannavaro-Ferrara. Passa tutto in secondo piano perché a fare notizia è la presenza all’incontro tra le parti, documentato dal Riformista, di Giorgio Mascitelli, produttore discografico e manager di alcuni artisti del panorama neomelodico napoletano (tra cui Tony Colombo e Luciano Caldore) ma soprattutto (questa la “condanna” che si porta dietro) figlio di un camorrista, Bruno Mascitelli, detto ‘o canotto, in carcere dal 2017 e destinatario poche settimana fa di un’altra ordinanza sempre per spaccio di droga. Giorgio ha 33 anni, è incensurato ed è amico dei promotori della raccolta fondi nata “istintivamente” nei minuti successivi alla diffusione del video dell’aggressione a Lanciato. Viene spesso chiamato in causa dai media solo per il suo rapporto di parentela con un genitore che non può certo rinnegare ma con il quale dice di non avere rapporti da tempo, addirittura prima del suo arresto avvenuto nel 2017. Un imprenditore dalla fedina penale immacolata ma “pregiudicato” dai media e dai giustizialisti di turno solo per il cognome che porta e per la vicinanza al cantante neomelodico Tony Colombo e alla moglie Tina Rispoli, vedova di Gaetano Marino, ucciso in un agguato di camorra nell’agosto del 2012 a Terracina. Ad oggi sia Mascitelli che i coniugi Colombo sono incensurati e non si capisce perché debbano finire a prescindere nel tritacarne mediatico senza elementi concreti. Dopo il video dell’incontro tra il rider Lanciato e i promotori della raccolta, e le relative polemiche sulla presenza di Mascitelli e sulle ipotetiche pressioni che avrebbe ricevuto lo stesso rider per devolvere parte della somma in beneficenza, la piattaforma GoFundme ha chiesto a Perrella ulteriori spiegazioni su come verranno utilizzati i fondi perché “dalla stampa si evince che Gianni ha rinunciato alla sua parte, quindi l’obiettivo iniziale della raccolta fondi è cambiato”. Pressioni smentite allo stesso Riformista dai parenti di Lanciato che si dicono sorpresi della gogna mediatica che stanno subendo gli autori della raccolta. Una fake news che lo stesso ideatore della raccolta ha provato a smontare inviando una serie di documenti alla piattaforma, aggiungendo, con tanto di video dell’incontro, che “dopo essermi accordato con Gianni e con chi ne fa le veci, telefonicamente, siamo giunti alla conclusione che il 50% del ricavato sarebbe comunque stato donato a lui, che intanto aveva ritrovato il mezzo, ed in virtù di questo si decideva di elargire la restante somma di denaro a un ente benefico certificato, nello specifico la Fondazione Cannavaro e Ferrara”. I soldi sarebbero arrivati sul conto di Perrella che avrebbe poi girato, “pubblicando tutte le ricevute”, la metà al rider Lanciato e l’altra metà alla Fondazione. Degli 11.068 euro raccolti (frutto di oltre 800 donazioni), tolte le tasse da pagare alla piattaforma (circa il 7%), restano 10.539 euro di cui 2.439 ancora in fase di elaborazione. Sulla vicenda è intervenuta la Procura di Napoli che vuole approfondire la questione. Al momento al Riformista non è arrivata nessuna richiesta di acquisizione dei video girati da parte degli investigatori. Tuttavia nelle prossime ore potrebbero essere ascoltati i protagonisti della raccolta fondi e lo stesso Lanciato. “Sono quattro giorni da incubo, non pensavo di vivere tutto questo” commenta amareggiato Perrella. “Ho avviato su GoFundme la raccolta in modo istintivo perché colpito dalla brutalità dell’aggressione. Se avessi avuto altre intenzioni non l’avrei certo fermata a 11mila euro. Sono molto deluso, forse era meglio non organizzare nulla visto quello che poi si è generato. Non m’interessa che i soldi vadano tutti a Gianni o una metà alla Fondazione o tutti indietro ai donatori, voglio solo che finisca presto quest’incubo” conclude.

Vita da rider: i nuovi poveri tra mance e aggressioni. Aggredito e derubato del motorino: la parabola del fattorino 52 enne fotografa una categoria mai troppo tutelata. Francesco Specchia Libero Quotidiano il 05 gennaio 2021.

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Mai rifiutare una consegna di domenica. Mai ribellarti ad un cliente cafone a cui faresti volentieri esplodere il campanello di casa. Mai evitare le consegne all’imbrunire nei gironi infernali delle periferie. Volare sui pedali. Cercare sempre di slalomare tra mignotte e papponi, e balordi violenti, e mai farsi ingoiare dal vorace popolo della notte. Tentare, ad ogni sofferto chilometro, di sudarti quei 10 maledetti euro lordi all’ora, piegato sul manubrio come l’airone Fausto Coppi sul Pordoi, ma senza poter mai illuderti di schiudere le ali. La vita del rider, in Italia, oggi, non è più nulla di questo. Soltanto il simulacro di un’esistenza normale. La notizia  che ha riempito tutti i tg dell’aggressione a Napoli di Gianni Lanciano, il rider di 52 anni percosso e derubato dello scooter da sei giovanissimi, rappresenta, certo, “una pagina indegna e criminale in un momento così terribile” come afferma il sindaco delle città De Magistris. E la scena del pestaggio di questo disperato padre di famiglia con moglie e due figli, accartocciato su sè stesso e preso a mazzate, ripresa e gettata in pasto a Facebook, be’, stringe il cuore e lo stomaco, fa deglutire vergogna. Ed è encomiabile la successiva gara di solidarietà che è subito scattata -ma dopo la bufera mediatica sollevatasi sul caso- verso l’uomo, padre di famiglia dagli orizzonti occupazionali, diciamo, rarefatti. Una gara accesasi sia per organizzare una raccolta di fondi che gli consenta di comprare un nuovo scooter il suo unico strumento di lavoro, sia per offrirgli “un impiego più adatto a un cinquantenne”. Sempre che oggi, in pandemia e con la moria di posti di lavoro che minaccia da qui aprile, si capisca davvero quale sia l’“impiego adatto per un cinquantenne”. Ma l’aggressione vigliacca al rider sposta solo il problema. Che sono i rider stessi.  La vita del ciclo-fattorino, spacciata per un mestiere in velocità assai giovane e molto 4.0, in realtà in Italia rappresenta oramai l’ultimo gradino della scala sociale. Servi della gleba in bicicletta. La testimonianza più letteraria del mestiere si legge in Vita da rider – Un blog da rider: “I rider che aspettano una consegna sono seduti su un gradino di pietra. Il cellulare sempre tra le mani fredde… Diventare un rider è stata una conquista di libertà e di identità, perché per fare una consegna servono muscoli, testa e cuore. Poi mi hanno licenziato con un’email e sono sceso in piazza, perché non aveva più senso continuare a lavorare per un’azienda che pensa solo al suo profitto e non anche alle persone che gli permettono di realizzarlo. Le proteste si sono accese ancora di più durante il lockdown. Ma nel mondo post pandemia sono tornato con lo zaino in sella alla mia bici”. E, in effetti la clausura del Covid ha aumentato le tratte dei riders, li ha reso ancor più cavalieri solitari nella steppa delle città. E questo è un po’ romantico. Un po’. Ma la realtà è altra. Nonostante la legge 128/2019 garantisca ora le tutele differenziate e “l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato”, salvo accordi collettivi nazionali coi sindacati, i rider hanno una vita affatto invidiabile.  Più consegnano (e in meno tempo) e più guadagnano. Di fatto il solito “basilare cottimo”. Se riescono a fare un paio di consegne all’ora per tre ore, possono tornare a casa con circa 25 euro in tasca. Le piattaforme di consegna per cui lavorano non garantiscono un numero minimo di consegne: spesso le ore passano con una consegna o due e a volte con nulla di fatto. In più c’è l'assurdo algoritmo che disciplina le chiamate. Secondo il giornalista Antonello Mangano l’algoritmo alla base delle app di food delivery non è neutrale: “È pensato per trasformare il lavoro in un gioco crudele che “premia” i lavoratori vulnerabili e bisognosi”. L’algoritmo decide che deve essere premiato il fattorino disposto a tutto. “Tra i tanti esempi possibili: consegnare a notte fonda, sotto la pioggia e nei quartieri a rischio. Un sistema che oggi colpisce soprattutto gli stranieri in difficoltà col permesso di soggiorno, ma che può essere esteso a chiunque”. Il resto è una vita sulla strada per l’inferno, lastricata di buone intenzioni…

SOLITA BARI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Succede a Bari.

Michele Emiliano a processo per le primarie nazionali del Pd: slitta udienza a Torino. Il Corriere del Giorno l'11 dicembre 2021. L’ipotesi di reato per cui la Procura di Torino ha chiesto il decreto di citazione a giudizio, è di finanziamento illecito per le modalità con cui sarebbe stata retribuita la società piemontese Eggers a cui Michele Emiliano si era rivolto per la comunicazione della propria candidatura alle primarie nazionali del PD nel 2017...È approdata in tribunale a Torino la vicenda giudiziaria che riguarda il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, e il suo capo di gabinetto, Claudio Stefanazzi. Nel procedimento coinvolti anche l’ imprenditore barese Vito Ladisa e l’ imprenditore foggiano Giacomo Mescia. Un problema burocratico ha però comportato lo slittamento dell’udienza di ieri al prossimo 18 marzo 2022. La questione è collegata alla campagna elettorale del 2017 per le primarie nazionali alla segreteria nazionale del Pd. Il capo di gabinetto del presidente Emiliano alla Regione Puglia Claudio Stefanazzi era stato coinvolto nell’inchiesta della Procura di Bari venendo identificato come il tramite tra Emiliano e gli imprenditori Ladisa e Mescia. Le ipotesi accusatorie si erano ridotte a seguito delle dichiarazioni di Pietro Dotti, titolare della società Eggers, il quale aveva chiarito e documentato di avere realmente eseguito delle prestazioni per la Ladisa Ristorazione e di essere stato remunerate a fronte del proprio legittimo lavoro . Il quadro accusatorio della Procura era quindi stato modificato e trasferiti gli atti d’indagini alla Procura di Torino, essendo decaduta con un’archiviazione l’ipotesi corruttiva, rimanendo in piedi soltanto l’ipotesi di reato per violazione della legge sul finanziamento ai partiti e di false fatturazioni. Le indagini svolte in seguito dal pm Giovanni Carpani hanno separato di fatto le posizioni di Emiliano e Stefanazzi rispetto a quelle degli imprenditori Ladisa e Mescia, che sono ritornate a Bari, per valutare proprio il reato di false fatturazioni. La Procura di Bari dopo aver svolto ulteriori indagini ha chiesto l’archiviazione nei confronti di Ladisa, accolta dal Gip, ed inviato a Roma la documentazione d’indagine nei confronti del Mescia. Alla Procura di Torino è stata restituita invece la parte d’inchiesta relativa a Ladisa e al finanziamento illecito, ma dalla procura piemontese è stato sollevato conflitto di attribuzione che la Corte di Cassazione ha chiarito stabilendo che è Torino la sede giudiziaria dove va definito il procedimento. Il fascicolo era stato trasferito dalla procura di Bari a quella di Torino, città ove aveva sede la società di comunicazione Eggers che aveva curato nel 2017 la campagna di comunicazione di Emiliano, quando si era candidato alle Primarie del Pd sfidando Matteo Renzi che vinse le primarie ed Andrea Orlando che arrivò secondo. L’inchiesta inizialmente avviata in Puglia, ipotizzato che l’ imprenditore della ristorazione (ed ora anche dell’editoria) Vito Ladisa e Giacomo Mescia operante nel settore delle energie rinnovabili avessero pagato delle fatture una da 63mila euro e una da 24 per conto di Emiliano alla società Eggers. L’ipotesi di reato per cui la Procura di Torino ha chiesto il decreto di citazione a giudizio, è di finanziamento illecito per le modalità con cui sarebbe stata retribuita la società subalpina a cui Emiliano si era rivolto per la comunicazione della propria candidatura. Per il governatore e il suo capo di gabinetto è stata quindi disposta la citazione a giudizio solo in relazione all’ipotesi accusatoria di finanziamento illecito. “Dopo la necessaria archiviazione delle ipotesi più rilevanti, l’unico auspicio possibile è quello di poter affrontare quanto prima il merito, per poter chiarire anche la marginale ipotesi residuata di violazione di una normativa speciale sui finanziamenti in occasione delle primarie” ha detto l’avvocato Gaetano Sassanelli, difensore del governatore Emiliano. “Il reato contestato – conclude Sassanelli – è a citazione diretta del pm. Tale procedura è prevista solo per fattispecie di lieve entità. L’udienza è stata rinviata a seguito di un vizio formale“.

Magistrato, governatore e aspirante segretario. Il caso di Michele Emiliano: l’ex pm di Bari non si era accontentato di diventare il presidente della Regione Puglia, voleva diventare il capo del Pd. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 10 dicembre 2021. Il testo unico degli Enti locali del 2000 prevede che il magistrato non è eleggibile a sindaco o consigliere comunale nel territorio nel quale esercita le proprie funzioni, salvo che “venga collocato in aspettativa prima del giorno fissato per la presentazione delle candidature”. Non è prevista alcun altra causa di ineleggibilità o di incompatibilità con l’attività giurisdizionale. Basta mettersi, dunque, in aspettativa ed il gioco è fatto. Anche se appare sorprendente, il magistrato può ricoprire contemporaneamente entrambi i ruoli: la mattina pm o giudice, il pomeriggio sindaco o consigliere comunale. O viceversa. Lo stesso giorno può mandare la gente in prigione e decidere le nomine, ad esempio, dei vertici delle municipalizzate che si occupano di trasporto pubblico o di smaltimento dei rifiuti. Il magistrato è anche agevolato nel suo duplice ruolo. Una circolare del Consiglio superiore della magistratura prevede che il magistrato che voglia continuare ad indossare la toga mentre fa il sindaco venga assegnato ad una sede vicina, precisamente in “un posto vacante in un distretto vicino a quello dove esercita il mandato”. I casi sono tanti. Lorenzo Nicastro, pm a Bari ed assessore all’Ambiente nella giunta di Nichi Vendola, Mariano Brianda, giudice a Sassari e candidato sindaco ( sconfitto) nella stessa città nel Pd nel 2019, Nicola Morrone, giudice a Torre Annunziata e sindaco di Portici, Nicola Graziano, prima assessore e poi candidato sindaco ad Aversa e giudice del Tribunale di Napoli. Il caso certamente più celebre, comunque, è quello di Michele Emiliano. L’ex pm di Bari non si era accontentato di essere diventato il presidente della Regione Puglia ma voleva diventare il capo del Pd. Emiliano per raggiungere lo scopo aveva anche preso la tessera dei dem. Requisito base per tentare la scalata al partito alle primarie poi stravinte da Matteo Renzi. Per essersi iscritto al Pd Emiliano venne sottoposto ad un procedimento disciplinare, conclusosi però con un nulla di fatto in quanto nel frattempo aveva strappato la tessera.

Polignano a Mare, dove "volare" tra leggende e letteratura. Angela Leucci il 29 Novembre 2021 su Il Giornale. Polignano a Mare è una città marittima molto suggestiva e ricca di leggende: dal mito dell'eremita a quello dei porcellini d'oro, la località ha dato i natali a Domenico Modugno. Ci sono diverse ragioni che hanno reso famosa Polignano a Mare. La spiaggia incastonata tra le rocce, il buon cibo, l’architettura suggestiva del centro storico. Ma forse la più diffusa è l’aver dato i natali al padre della canzone italiana, secondo l’accezione del critico Gino Castaldo, Domenico Modugno. A Polignano c’è infatti una statua che riproduce le fattezze di Mimmo Modugno con una gestualità ben precisa: il cantante allarga le braccia come quando al Festival di Sanremo 1958 cantò “Nel blu dipinto di blu (Volare)”. 

Lo scoglio dell’eremita

Uno dei motivi per cui Polignano a Mare è affascinante è il cosiddetto scoglio dell’eremita. Si tratta di un minuscolo isolotto, l’isola di San Paolo, sul quale un tempo pare visse un eremita, forse un monaco basiliano. È difficile dire se ci sia del vero in questa leggenda, dato che non esiste una datazione certa e viene tramandata per lo più oralmente. Quel che è certo è che oggi lo scoglio dell’eremita è un’oasi protetta, per la presenza di un particolare tipo di volatile: il gabbiano corso.

I sette porcellini d’oro 

“I sette porcellini” è la filastrocca composta dal sarto Peppino Bonsante, per una sfilata di carri carnascialeschi. La filastrocca fa riferimento a una diceria che risale agli anni ’50 del Novecento, secondo cui, dall’epoca preunitaria, in una grotta di Polignano ci fosse nascosto un tesoro - una scrofa con sette porcellini d’oro - forse legato ai fiorenti e antichi traffici mercantili della zona.

L’abbazia di San Vito 

Nella vicina frazione di San Vito si trova un’abbazia molto speciale, il cui edificio rappresenta un elegante esempio degli esiti dell’architettura monastica in Italia in genere e soprattutto nel Mezzogiorno. Sembra che l’abbazia risalga al secolo X, costruita da e per i monaci basiliani: a loro si avvicendarono i benedettini, soprattutto dopo la soppressione dei riti greci nel sud Italia, e poi successivamente anche i francescani.

Ma il dettaglio più interessante non è rappresentato dalla storia vera, bensì da una leggenda, quella secondo cui un’aristocratica di Salerno venne salvata dall’annegamento nel Sele proprio da san Vito, il santo che dà il nome alla frazione di Polignano. Il santo avrebbe chiesto alla donna di traslare le sue reliquie in questo luogo.

Un’ambientazione letteraria 

Polignano a Mare è anche lo scenario in cui si muovono i personaggi folkloristici e divertenti di una trilogia di romanzi scritti da Luca Bianchini: “Io che amo solo te”, “La cena di Natale” e “Baci da Polignano”. In questi romanzi si intrecciano storie di famiglia, di amicizia e soprattutto d’amore, come quella decennale e quasi platonica tra Ninella e don Mimì, che sembrano non azzeccare mai i tempi giusti per stare insieme.

Ma Polignano è città letteraria anche per un’altra ragione: qui, in estate, si tiene il festival “Il libro possibile”, giunto nel 2021 alla sua ventesima edizione.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Trulli, i misteri di un'architettura leggendaria. Angela Leucci il 24 Novembre 2021 su Il Giornale. Ci sono varie ipotesi sull'origine dei trulli di Alberobello: ecco la storia delle costruzioni in pietra calcarea divenute famose in tutto il mondo e patrimonio Unesco. Quando si parla di trulli, alla mente non può che balzare la città di Alberobello. Il luogo è diventato famoso in tutto il mondo per queste antiche e affascinanti costruzioni, sebbene non manchino esemplari anche in comuni limitrofi. Alberobello è un centro che fa parte dell’area metropolitana di Bari, dove il turismo rappresenta un grosso capitolo dell’economia locale: questo si è riflesso sulla ricettività e sulla ristorazione, sempre di elevatissima qualità. La ristorazione, in particolare, si fonda sul delicato equilibrio dii contrasti e di materie prime diversificate, come ortaggi, cacciagione e prodotti ittici pescati sulle coste pugliesi. Ma, naturalmente, la ragione principale che attira i turisti sono proprio queste peculiari costruzioni dalle radici antiche.

Che cosa sono i trulli 

Come spiega l’Unesco, nell'eleggere i trulli a patrimonio dell’umanità, si tratta di abitazioni in pietra calcarea. Una peculiarità che trova spiegazione proprio nelle caratteristiche tipiche della Puglia, dove i terreni sono per la gran parte calcarei. I trulli rurali si trovano in diversi centri pugliesi: non solo Alberobello - dove sono presenti in oltre 1.500 esemplari - ma in tutta la valle d’Itria. L’architettura dei trulli si avvale di una tecnica a secco: in basso pietra calcarea, sul tetto lastre di pietra, il tutto adagiato sempre su fondamenta in pietra. All’interno sono situati un focolare e un’alcova, ma la caratteristica più interessante è l’isolamento termico che il trullo assicura: queste costruzioni riescono a essere fresche d’estate e calde d’inverno, pur non rinunciando a un riscaldamento tradizionale a legna.

Come nascono i trulli 

Sempre l’Unesco spiega che i trulli iniziarono a comparire ad Alberobello nel secolo XVI, ma una massiccia costruzione si verificò tra il 1620 e il 1797, quando Ferdinando VI di Borbone diede il titolo di città regia al paese.

Inizialmente i trulli furono costruiti da contadini, che ersero queste costruzioni con pietre estratte o trovate poco distante, dipingendo di bianco le mura con la stessa pietra calcarea. Solitamente venivano utilizzati per brevi periodi oppure come deposito degli attrezzi agricoli, come accadeva a edifici simili, i pajari della provincia di Lecce. Anche questi venivano realizzati con pietre a secco, esattamente come i muretti che si trovano dappertutto in Puglia. Sembra tuttavia che gli antenati dei trulli apparvero già nella preistoria: si tratta dei tholos, che però avevano una funzione funeraria. Secondo alcuni, “trullo” viene proprio da “tholos”, mentre per altri viene da “torullos”, cioè “cupola”, oppure da “turris”, ossia “torre”. L’origine dei veri e propri trulli si fonda su due ipotesi. La prima si basa sull'ampia disponibilità della pietra calcarea, materiale quindi facile da recuperare per i contadini. La seconda, meno probabile, è che si trattasse di un metodo primitivo di abusivismo edilizio. In pratica, queste costruzioni erano facili e veloci da assemblare ma anche da smantellare: i ceti più poveri potrebbero essersi quindi così organizzati per eludere alcune tasse del Regno di Napoli.

Storie e leggende sui trulli 

Una leggenda molto nota riguarda il trullo siamese, ossia un’abitazione a pianta quasi ellittica sormontata da due pinnacoli: secondo la leggenda, era abitata da due fratelli. Uno di loro sposò una donna, che però divenne l’amante del secondo. Entrambi i fratelli però, giunti a una lite, non si contesero solo la compagna, ma anche e soprattutto la proprietà del trullo.

Leggendarie sono anche le funzioni dei pinnacoli: secondo alcuni sono semplicemente la firma dei maestri trullari che hanno realizzato gli edifici, secondo altri - dato che presentano una simbologia ben precisa - si riferirebbero a un antico culto del Sole.

L'Aria che Tira, Ignazio La Russa sbotta con Michele Emiliano: "Non hai mai lavorato in vita tua!". Federica Pascale su Il Tempo il  19 novembre 2021. “Non hai mai lavorato in vita tua!” sbotta Ignazio La Russa a Michele Emiliano durante la puntata del 19 novembre de “L’Aria che Tira”, programma di La7 condotto da Myrta Merlino. Si parla di Quirinale ed Emiliano, governatore della Regione Puglia, con tono polemico parla di ‘bolla’ romana, che non presta sufficiente attenzione alla cosiddetta ‘quarta ondata’ per concentrarsi, invece, su strategie politiche. La Russa lo riprende sul tema politico ma il Presidente della regione Puglia, piccato dalle risate del Senatore, accende il dibattito esordendo con un: “Noi c’abbiamo da lavorare nei Comuni e nelle Regioni, è un po’ diverso forse a Roma”. Il Senatore di Fratelli d’Italia replica infuriato: “Mica lavori solo tu, smettila! Lavoriamo tutti, io devo andare a fare l’avvocato tra mezz’ora”, e poi “Non hai mai lavorato in vita tua!” Emiliano insiste sul tema, offeso dalle parole di La Russa, e precisa: “Volevo dire che sin da ragazzo ho lavorato nell’azienda della mia famiglia facendo il frigorista, l’operaio e anche il direttore commerciale. Poi mi sono laureato, ho fatto un po’ l’avvocato, ho fatto il magistrato per quasi vent’anni. Ho fatto il Sindaco di Bari per 10 anni e faccio il Presidente della Regione da 7. Quindi, ho messo insieme un certo numero di ore di lavoro delle quali sono abbastanza orgoglioso”. La Merlino, stufa dello scontro fine a se stesso, chiosa ironicamente “Mi prenderò cura di passare il suo curriculum a La Russa, tranquillo”.

Lopalco, Emiliano e la terapia per la Sma nei bimbi: il farmaco più costoso al mondo all'origine della rottura.  Anna Puricella su La Repubblica il 12 novembre 2021. Una confezione di Zolgensma, il farmaco da 2 milioni e 10mila dollari. L'utilizzo del Zolgensma autorizzato ma con alcune precise indicazioni da parte dell'Aifa. Il medicinale costa 2 milioni e 100mila dollari e il rapporto rischi benefici dipende da determinate condizioni. I benefici sarebbero "pressoché assenti", i rischi "crescenti nei soggetti con malattia avanzata". È su questa bilancia che si è consumato lo strappo fra il presidente Michele Emiliano e l'assessore regionale alla Sanità Pierluigi Lopalco. Sono le parole riportate nella lettera inviata da Aifa (Agenzia del farmaco) a metà settembre al ministero della Salute e ai due. Ed erano riferite al caso di Paolo, un bambino della provincia di Bari che ora ha due anni e ha la Sma1, la forma più grave di atrofia muscolare spinale. L'obiettivo della famiglia è quello di fargli somministrare Zolgensma, il farmaco più costoso al mondo (vale due milioni e centomila dollari). Una terapia genica, innovativa e importantissima per i malati di Sma1, perché può cambiare il decorso della malattia. In Puglia se n'è parlato la prima volta un anno fa per Melissa, la bimba di Monopoli per la quale una corposa raccolta fondi ha permesso di raccogliere il denaro necessario a farla volare all'estero per la somministrazione. Melissa non poteva essere curata in Italia, era fuori con i limiti imposti all'epoca da Aifa (Agenzia italiana del farmaco), anche se poi quelle maglie - 0-6 mesi di età - erano state allentate e lei avrebbe potuto avere la somministrazione nel suo Paese. C'è stato poi Antonio, il più piccolo d'Italia a ricevere la terapia genica: è stato trattato a Bari, aveva solo quattro mesi e adesso sta bene. Si è affacciato quindi Paolo, e attorno al suo caso si sarebbe consumato lo strappo politico. Zolgensma adesso si può somministrare a pazienti fino a 13,5 chilogrammi di peso, senza limiti di età. Lo dice Ema (agenzia europea per i medicinali), e Aifa ha rispettato le direttive. In teoria il bambino potrebbe riceverlo, ma ci sono altri paletti: quella terapia non è permessa a quanti sono tracheostomizzati o hanno la Peg. O meglio, si può fare, ma in tal caso il farmaco non è rimborsato dallo Stato. Ed è qui che è intervenuta la Regione Puglia: di fronte all'impossibilità del bimbo di andare all'estero - stava per recarsi a Boston, ma aveva raggiunto i limiti di età, lì si può fino a due anni - il presidente Emiliano ha messo Zolgensma a disposizione delle due famiglie (oltre a Paolo ci sarebbe un altro bambino del Foggiano, Marco). In pratica la Regione dovrà pagare i due milioni e centomila dollari necessari per l'acquisto del farmaco per il solo Paolo. "Se c'è un medico che lo prescrive e se la famiglia autorizza, la Regione sosterrà le cure del bambino", ha precisato lo stesso Emiliano dopo le dichiarazioni di Lopalco. Il medico c'è - ma non opera in Puglia - la famiglia è favorevole. Bisogna però considerare che Paolo è tracheostomizzato, e che ha compiuto due anni. Il rapporto fra rischi e benefici deve essere calibrato al millimetro, e proprio Aifa l'aveva messo in chiaro in quella lettera di metà settembre: "È documentato che l'efficacia del farmaco è massima quando la somministrazione avviene nei primi mesi di vita, mentre si riduce nei bambini più grandi e in caso di un aggravamento della malattia". Le parole di Aifa sono state esplicite: "Il medico curante deve considerare che il beneficio è seriamente ridotto nei pazienti con profonda debolezza muscolare e insufficienza respiratoria, nei pazienti in ventilazione permanente e nei pazienti non in grado di deglutire", scriveva escludendo quindi la rimborsabilità da parte del Servizio sanitario nazionale. Ancora: "Rimane in carico all'équipe clinica multidisciplinare il compito di stabilire, nel singolo paziente dopo un'attenta valutazione delle condizioni complessive, se sia opportuno prevedere di effettuare tale trattamento". Nel caso di Paolo l'équipe è stata trovata, ma non in Puglia. La data del ricovero c'è (il 20 novembre) e sembra mancare solo il farmaco, anche se Asl Bari ha precisato che fino all'altro giorno non aveva ricevuto alcuna prescrizione.

L’EPIDEMIOLOGO LOPALCO SI SCONTRA CON EMILIANO SULLA POLITICA SANITARIA IN PUGLIA E SI DIMETTE DA ASSESSORE. Il Corriere del Giorno l'11 Novembre 2021. Il motivo delle dimissioni di Lopalco sono le sue contestazioni ad Emiliano di non condividere insieme le scelte in materia di sanità, anche quelle più strategiche, di bypassarlo nel rapporto con le Asl, con le Agenzie e, soprattutto, con i suoi stessi uffici. In poche parole di non lasciargli esercitare liberamente il suo ruolo di assessore alla sanità. L’assessore alla Salute, il professor Pierluigi Lopalco, ha comunicato nei giorni scorsi al presidente della Regione, Michele Emiliano, le sue dimissioni dalla squadra di governo. Un vero “scossone” sulla giunta regionale pugliese. Emiliano gli avrebbe chiesto di ripensarci per una decina di giorni ma Lopalco non ha alcuna intenzione di ritornare sulla sua decisione: “La decisione ormai è stata presa”, ha riferito ai suoi amici e collaboratori, e nelle prossime ore dovrebbe ufficializzare la sua decisione. Ci sarebbero stati un paio di episodi che hanno maturato divergenze insanabili, dopo le quali Lopalco ha assunto la propria decisione di dimettersi. Il motivo delle dimissioni di Lopalco sono le sue contestazioni ad Emiliano di non condividere insieme le scelte in materia di sanità, anche quelle più strategiche, di bypassarlo nel rapporto con le Asl, con le Agenzie e, soprattutto, con i suoi stessi uffici. In poche parole di non lasciargli esercitare liberamente il suo ruolo di assessore alla sanità come gli spetterebbe e vorrebbe svolgere. Il professor Lopalco però non abbandonerebbe la politica, restando in consiglio regionale, dove è stato eletto nella lista “Con” ricevendo 14.500 preferenze. La notizia sulla decisione di Lopalco ha un “pesante” valore politico avendo accompagnato e sostenuto il Governatore pugliese in tutte le sue decisioni ed iniziative. Non a caso Emiliano si era affidato proprio a lui ingaggiandolo nelle due fasi della pandemia, come consulente esterno, grazie al curriculum tecnico e scientifico dell’epidemiologo, che è docente universitario, prima all’ Università Pisa, ora in quella di Lecce, dopo aver trascorso dieci anni nel Centro europeo per la prevenzione ed il controllo delle malattie a Stoccolma in Svezia, dove è stato capo del programma per le malattie prevenibili da vaccino. La decisione assunta dal professor Lopalco di lasciare il suo incarico assume un peso ancora più significativo proprio nel momento in cui le Asl pugliesi si trovano a dover organizzare la campagna di somministrazione della terza dose del caccino anti-Covid . Le dimissioni di Lopalco in realtà non sono improvvise poichè da tempo correva voce di un raffreddamento dei rapporti con Emiliano e della non condivisione con alcune sue scelte. Lopalco non a caso non è voluto mai farsi coinvolgere in alcune delle scelte e decisioni sulla realizzazione dell’Ospedale di emergenza realizzato alla Fiera del Levante interamente gestito dalla Protezione civile, contestato fortemente dal gruppo regione di Fratelli d’ Italia, ed oggetto di un’indagine della procura della Repubblica. dell’assessore.

Questa la lettera di dimissioni pervenuta oggi alla Presidenza della Giunta Regione Puglia:

“Caro Presidente, carissimo Michele, con la presente rimetto nelle tue mani la delega ad Assessore alla Sanità e Benessere Animale a me conferita. Come anticipatoti verbalmente ritengo esaurito il mio mandato dopo il lungo periodo di emergenza che insieme abbiamo brillantemente affrontato. La situazione attuale richiede un cambio di passo che la stanchezza fisica e mentale a cui sono stato sottoposto in questi lunghi mesi non mi consentono di affrontare. Resto a disposizione tua e del governo regionale con il mio pieno supporto tecnico, intellettuale e anche politico discendente dal mio ruolo in Consiglio Regionale”.

Il presidente Emiliano al riguardo con una nota ha dichiarato quanto segue: “L’azione svolta da Pier Luigi Lopalco durante la pandemia è stata indubbiamente incessante e faticosa, comprendo quindi la sua stanchezza e ho profondo rispetto per le sue ragioni. I pugliesi devono però sapere che tutta la squadra della Sanità non si ferma, continua il lavoro per garantire il massimo livello di prestazioni e che l’attenzione ai temi della salute rimane altissima da parte mia e di tutta l’amministrazione regionale, oggi come sempre.  In un’intervista l’assessore Lopalco ha poi anche sollevato un tema che ci vede su posizioni diverse e che riguarda la somministrazione di un farmaco innovativo a un bambino pugliese affetto da una grave malattia genetica.  L’eventuale somministrazione di questo farmaco deve essere sempre e comunque stabilita da una prescrizione medica e previa autorizzazione dei genitori, che nel caso specifico hanno già fatto richiesta“. “Ho quindi preso posizione dicendo che la Regione Puglia metterà a disposizione le somme necessarie per il sostegno alla famiglia. Se c’è un medico che lo prescrive e se la famiglia autorizza, la Regione sosterrà le cure del bambino, ovviamente nel rispetto delle regole e della supremazia della prescrizione medica. Alla luce di queste considerazioni, ho chiesto all’assessore Lopalco, al quale mi legano sinceri sentimenti di stima e affetto,  di provare a recuperare le forze e tornare ad offrire il suo sostegno all’azione della giunta regionale, auspicando che possa rimeditare la sua scelta”. 

Diodato Pirone per "il Messaggero" il 12 novembre 2021. Dimettersi da un incarico di prestigio e di potere per protestare contro l'assegnazione a due genitori di un farmaco da 1,5 milioni di euro per i loro figli non è cosa di tutti i giorni. È quello che sta succedendo in Regione Puglia, dove ieri l'assessore alla Sanità, l'immunologo Pierluigi Lopalco, ha lasciato il suo incarico in polemica con il presidente regionale, il dem Michele Emiliano, che pure gli aveva assegnato l'incarico strategico. Cosa ha scatenato quello che anche gli osservatori della politica pugliese definiscono un fulmine a ciel sereno? I genitori di due bambini piccoli, affetti da una malattia rarissima (40 casi annui su 400.000 in Italia), la Sma1 o Atrofia muscolare spinale, hanno ottenuto dal presidente della Regione l'assegnazione del costosissimo farmaco. Si tratta dello Zolgensma, una medicina a dose unica di origine Usa, distribuita in Italia dalla Novartis dopo il regolare riconoscimento da parte dell'Aifa, l'Agenzia che controlla i farmaci. Il fatto è che la mossa del presidente regionale, comprensibile sul piano umano, è però figlia di una scelta puramente politica perché presa sia contro il parere della competente Commissione medica regionale, sia contro quello dello stesso Lopalco. L'immunologo infatti - pur dichiarandosi addolorato come padre e politicamente sempre vicino al presidente - ha spiegato che come medico considera insensato l'uso dello Zolgensma perché nel caso specifico (una modifica genetica delicatissima) non sarebbe stato in grado di guarire i bambini e neanche di migliorare le loro drammatiche condizioni di salute. In sostanza, Lopalco rimprovera a Emiliano di buttar via una notevole quantità di denaro pubblico e di sminuire il suo profilo professionale che l'immunologo ha speso generosamente durante la lunga pandemia. Del resto, i risultati che Lopalco può vantare sul fronte del Covid-19 sono di tutto rispetto. La Puglia, dopo la Toscana, è la seconda Regione italiana per numero di somministrazioni in rapporto alla popolazione. A ieri solo il 10,4% dei pugliesi over-12 non aveva ancora ricevuto neanche una dose. Non solo. Nella fascia degli studenti fra i 12 e i 19 anni la Puglia ha vaccinato l'80% degli aventi diritto, molto più della media italiana ferma al 73%, dopo una brillante campagna di massa partita il 23 agosto con la quale 7.500 scuole hanno inviato i loro studenti agli hub vaccinali, con un coordinamento fra Regione e autorità scolastiche assai raro in Italia. Risultati che si spiegano anche con il profilo scientifico di Lopalco che per una vita ha fatto una cosa sola: combattere i virus. Una passionaccia che lo ha portato, lui nato a due passi da uno dei mari più belli e caldi del mondo, a lavorare per 10 anni in Svezia presso il Centro europeo per la prevenzione, dove è stato capo del programma per le malattie prevenibili da vaccino. E l'impegno politico? Quello dipende(va) da Emiliano. Non è un segreto per nessuno che i 14.500 voti di preferenza raccolti da Lopalco alle Regionali erano farina del sacco del presidente. E Emiliano ha difeso l'assessore con la sua stazza politica e persino personale (pesa 120 chili per 1,90 di altezza) in molti momenti difficili della campagna pandemica quando di fronte agli intoppi le opposizioni hanno martoriato l'immunologo chiedendone le dimissioni. Che ora sono congelate poiché Emiliano ha chiesto a Lopalco di ripensarci. Difficile dire come finirà. Fra i nemici di Lopalco si sottolinea che l'assessore era stato scavalcato da Emiliano su nomine e alcuni appalti. Gli estimatori del prof. ne evidenziano invece le qualità umane che ne hanno fatto uno dei medici meno saccenti e più stimati fra i virologi lanciati nello star system italiano dal Covid-19.

Dimissioni Lopalco, la mamma del bimbo pugliese affetto da Sma1: «Non strumentalizzate mio figlio».  L’intervista alla mamma di Paolo. «Lopalco non è un neurologo, non parli delle cure per la Sma1». Francesco Petruzzelli su Il Quotidiano del Sud il 13 novembre 2021. «Non si può strumentalizzare il caso di mio figlio. Siamo rimasti scioccati da quello che abbiamo letto e sentito in queste ore». Mamma Francesca mantiene la compostezza. É un tono di voce quasi delicato ma per nulla rassegnato. «Per nostro figlio le proveremo tutte, andremo fino in fondo. Faremo tutto quello che c’è da fare». Paolo ha 2 anni, risiede in provincia di Bari, e assieme alla sua famiglia sta conducendo una battaglia terribile. Su due binari. Lottare contro la Sma1, una grave forma infantile di atrofia muscolare spinale prossimale, e lottare contro la burocrazia. Per ottenere quel farmaco salvavita, il costosissimo Zolgensma, un medicinale di terapia genica dal valore di oltre due milioni di dollari. Che la Regione Puglia vuole acquistare e far somministrare, mentre il suo ormai ex assessore alla Sanità Pieri Luigi Lopalco avanza dei fortissimi dubbi sul buon esito della terapia. Arrivando persino a dimettersi dalla giunta regionale in aperto contrasto con il convincimento “politico” e “scientifico” del governatore Michele Emiliano.

Lopalco ha lasciato il ruolo di assessore perché ha manifestato forti perplessità sulla terapia per il piccolo Paolo. Quanto la convince questa motivazione?

«Noi non ne sapevamo nulla di questo contrasto. Da stamattina (ieri, ndr) sto ricevendo decine e decine di messaggi e di telefonate per commentare gli articoli di stampa. E credo che il vero motivo della rottura tra Lopalco ed Emiliano non sia questa. Anzi, è assurdo strumentalizzare la storia di nostro figlio all’interno di una vicenda politica. Noi genitori siamo rimasti davvero allibiti».

Però secondo Lopalco questa terapia avrebbe più rischi che benefici considerata l’età e la situazione di Paolo. Ha ribadito che il farmaco ha dimostrato di essere efficace solo nelle fasi iniziali della malattia, cioè in bambini molto piccoli.

«Lopalco è un virologo, non è un neurologo. Quindi parli delle cose di sua competenza. Come ci hanno detto i medici e gli specialisti americani, rischi di morte non ce ne sono. Non ce ne hanno mai parlato. Allora a Lopalco dico: quali alternative avremmo per Paolo? Perché non provarle tutte pur di salvare il mio piccolo? Noi ci vogliamo provare, siamo determinati a tutto, anche a rischiare, pur di vedere il nostro bambino migliorare. Se esiste anche una sola possibilità, perché sprecarla?».

Cosa vorrebbe dire a Lopalco?

«Venga a trovare Paolo di persona. Non può parlare di un bimbo che non hai mai visto. Non gli ha mai fatto una visita, un esame. Come può dire che in questa terapia non ci sono benefici? Caro Lopalco vieni a vedere il mio Paolo e poi vedrai cosa mi dirai…».

A Emiliano invece cosa vorrebbe dire?

«Spero che alla fine la Regione acquisti quel farmaco. Per questo lo voglio ringraziare. Noi eravamo pronti a partire con i bagagli per Boston, poi però non ci è piaciuto quel suo post su Facebook, a settembre, quando ci ha detto che non ci faceva partire perché il medico specialista per somministrare la terapia dovevamo trovarlo noi».

Il medico intanto è arrivato.

«Sì, c’è un neurologo dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma che si è offerto. E per questo lo ringraziamo di cuore. Due mesi fa siamo andati a trovarlo di persona perché ci siamo detti: “se qui aspettiamo i tempi di Emiliano e della Regione, rischiamo di fare un buco nell’acqua e di far passare troppo tempo».

Manca però ancora il farmaco. Il consigliere regionale Fabiano Amati ha denunciato i ritardi nell’acquisto.

«Esatto. Dopo quella denuncia siamo stati contattati dalla Asl di Bari e ci hanno detto che loro non ne sapevano nulla di questa storia. Ci hanno chiesto tutta la documentazione necessaria. Ma mi chiedo: come è possibile che la Regione e la sua Asl non comunichino? È davvero sconcertante».

Il 20 novembre è previsto il ricovero.

«Sì, ma al momento Paolo non sta tanto bene. Quindi dobbiamo valutare. Speriamo che si riprenda al più presto per poi ripartire. La mia rabbia è che sanno il tipo di malattia. Sanno che può peggiorare all’improvviso. E mi fa rabbia perdere altro tempo. L’importante è che il medico ora ci sia e che Paolo non appena starà meglio partirà con noi».

Cosa racconterà a Paolo quando sarà grande?

«Gli racconterò tutto. Gli dirò che nel bene e nel male ci abbiamo provato, che abbiamo combattuto tanto per lui».

Se dovesse dare un nome a questa storia?

«Una storia di burocrazia e di politica. Ci hanno fatto penare. Prima ci hanno detto di trovare il medico, poi la Asl ci ha detto di non saperne nulla. Come è possibile che la Regione non parli con la sua Asl?».

Ragazzo ucciso a Bari, arrestato capo dei vigili che aiutò il killer del clan: falsa multa per fornire alibi. Chiara Spagnolo su La Repubblica il 22 ottobre 2021. Domenico D'Arcangelo, comandante della polizia municipale di Sammichele di Bari, nell'elenco delle 9 persone legate ai clan Parisi-Palermiti in carcere per l'omicidio Rafaschieri. Avrebbe costretto una vigilessa a redigere un verbale falso per fornire un alibi a Giovanni Palermiti, figlio del boss di Japigia Eugenio, sospettato di aver fatto parte del commando che il 28 settembre 2018, nei pressi del tondo di Carbonara, uccise il 24enne Michele Walter Rafaschieri, ferendo gravemente il fratello Francesco Alessandro, che rimase paralizzato. Il nome di Domenico D'Arcangelo, comandante della polizia municipale di Sammichele di Bari (ora sospeso d'ufficio dal sindaco), sta nell'elenco delle 9 persone, finite in carcere al termine di un'indagine della Squadra Mobile di Bari, coordinata dal pm della Dda Fabio Buquicchio e del procuratore aggiuto Francesco Giannella.

E’ ROBERTO ROSSI IL NUOVO PROCURATORE CAPO DI BARI. Il Corriere del Giorno l'8 Settembre 2021. Rossi che ha iniziato la sua carriera nel Tribunale di Taranto, è stato nell’ultimo anno procuratore facente funzioni di Bari, dopo l’addio per raggiunti limiti di età di Giuseppe Volpe di cui era stato aggiunto “vicario”. Dopo quasi un anno dal pensionamento del procuratore Giuseppe Volpe, la Procura di Bari ha finalmente un nuovo capo. Si tratta di Roberto Rossi che è stato eletto oggi a seguito della votazione avvenuta in data odierna del plenum del Consiglio Superiore della Magistratura. Incredibilmente oggi il coordinatore della corrente di Area al CSM, il consigliere Giuseppe Cascini ha depositato un emendamento aggiuntivo contrario alla candidatura e valutazioni sul procuratore di Terni, sul quale il relatore, il consigliere laico prof. Filippo Donati si è dichiarato perfettamente d’accordo. Emendamento che secondo il nostro parere è imbarazzante perchè si esercita una critica “deontologica” nonostante un provvedimento di archiviazione del 13 gennaio 2021 emesso dalla Sezione Disciplinare in favore di Liguori. Evidentemente Cascini ha dimenticato che il suo collega e compagni di corrente Roberto Rossi detiene un “record” da consigliere del Csm venne sottoposto dieci anni fa, e cioè nel 2011, ad un processo disciplinare e quindi giudicato dai suoi stessi colleghi. Un fatto che ha un solo precedente in quasi 60 anni di storia di Palazzo dei marescialli. Rossi, venne accusato di aver iscritto con “grave ritardo” “a distanza di quasi sei anni”, un indagato nella prima inchiesta sulla sanità pugliese su Giampaolo Tarantini, quando era pm a Bari. A chiedere il suo processo disciplinare fu il ministro della Giustizia. Ed anche Rossi come Liguori fu archiviato. Quindi sentire parlare di “etica” Cascini più volte intercettato con Palamara, come documentato di seguito, per chiedere favori ed agevolazioni per i suoi parenti ha fatto a dir poco sorridere a più di qualche magistrato. Il consigliere togato Michele Ciambellini nella sua relazione ha ricordato che il candidato Rodolfo Sabelli ha due anni di anzianità superiore a quella del candidato Roberto Rossi, ricoprendo per oltre 8 anni l’incarico di sostituto alla D.D.A. di Bari, illustrando dettagliatamente i ruoli e compiti ricoperti da Sabelli nel corso della sua carriera. Il Plenum del Consiglio superiore della magistratura, dopo la discussione e dichiarazioni di voto sugli emendamenti è passato alla votazione. Roberto Rossi ha ricevuto 16 voti dai consiglieri Ardita, Basile Benedetti, Braggion, Cascini, Cavanna, Cerabona, Chinaglia, D’amato, Dal Moro, Donati, Lanzi Marra, Miccichè, Suriano, e Zaccaro, così diventando il nuovo procuratore capo di Bari. Per la candidatura di Rodolfo Sabelli hanno votato invece i consiglieri Balduini, Celentano, Ciambellini e Grillo. Astenuti i consiglieri Curzio, Di Matteo, Gigliotti, Pepe, Salvi, mentre il vicepresidente Ermini non ha partecipato al voto. Roberto Rossi è stato per un anno procuratore facente funzioni, dopo l’addio per raggiunti limiti di età di Giuseppe Volpe di cui era stato aggiunto “vicario”.

IL SISTEMA BARI DA RICOSTRUIRE. La "Milano del Sud" da restituire al Paese. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 26 agosto 2021. Il problema della baresità di oggi è che tutti possono fare tutto, e così il declino della competenza diventa declino del territorio. Persistono e si difendono le eccellenze di impresa, ma sparisce il sistema Bari fatto di competenza organizzata e porta il conto salato alle imprese. Che, a loro volta, non sono del tutto immuni da cattive abitudini, ma pagano più degli altri le due grandi crisi internazionali e il nuovo ’29 mondiale a causa proprio della mancata trasformazione di sistema imposta dalla trasformazione digitale e dalla globalizzazione acciaccata. Scommettiamo sull’inversione possibile del declino, sulla “Milano del Sud” rinata e sul suo sistema territoriale rinnovato. Ho voluto che il Quotidiano del Sud-l’Altravoce dell’Italia fosse in edicola a Bari dal suo primo giorno di uscita che data dieci aprile 2019. Perché non si può provare a raccontare l’Italia e il mondo con gli occhi del Mezzogiorno e chiamare a raccolta per farlo le grandi competenze del giornalismo economico, politico, istituzionale italiani senza parlare alla “Milano del Sud” e alla sua comunità. Ho sempre avuto questo pallino fisso nella testa. Quando dirigevo Il Sole 24 Ore un po’ di tempo fa lanciai il Viaggio nell’Italia che innova: prima tappa Bologna, seconda Bari. Perché se penso all’innovazione penso a Bologna, ma se penso a un Mezzogiorno che rincorre e aggancia il Nord, penso a Bari e alla sua provincia. Penso alla Murgia (Altamura, Gravina, Santeramo) che fa il suo alla grande. Penso ai Pertosa con la Mermec a Monopoli e la Sitael a Mola di Bari dove il primato globale si chiama tecnologia nei parametri di sicurezza dell’alta velocità ferroviaria e nei satelliti spaziali. Penso ai Cannillo (Despar) e ai Casillo (entrambi a Corato). Penso alle grandi aziende agricole, ai Divella di Rutigliano e ai tanti che sanno attrarre turismo internazionale, ma non fanno rete tra di loro. Penso alla “Puglia Imperiale” della provincia di Barletta-Andria-Trani (BAT) e al suo dinamismo economico. Ricordo l’insistenza con cui Franco Tatò più di venti anni fa volle che presentassi a Milano il suo lavoro “Perché la Puglia non è la California” e, ancora prima, gli anni trascorsi da cronista del Mattino di Napoli alla Fiera del Levante di Bari dal primo all’ultimo giorno di ogni sua edizione. Percepivo un’aria di chi vuole costruire qualcosa per l’oggi e per il domani, lo spirito mercantile di chi ha un metodo in testa e uno schema di lavoro che collegano Bari al mondo, ma si avvertivano fin da allora i segni dello sgretolamento dello Stato unitario meridionalista e la crescita di quella politica clientelare degli amici degli amici del mastodonte regionale e del crocicchio di società e di potere a esso collegato che avrebbe così tanto nuociuto agli spiriti vitali baresi. Da oggi per vedere ciò che non si vuole vedere e ascoltare battiti, pulsioni, fatiche e delusioni affiancheremo l’edizione Bari Bat Murge a quella dell’AltraVoce in un unicum di offerta editoriale che vuole unire il massimo di libertà e di giornalismo di inchiesta sul territorio al rigore, alla documentazione comparativa-competitiva e all’orientamento del dibattito della pubblica opinione che vive nel racconto quotidiano delle due Italie. Contro gli stereotipi dei luoghi comuni del Nord sul Mezzogiorno fuori dalla storia e dalla realtà e alleggeriti dal peso insostenibile di un meridionalismo della cattedra che ha fatto molto male e ancora di più può farne alla Puglia e al Mezzogiorno perché li condanna entrambi a un cliché protestatario rassegnato. Vogliamo ripetere l’esperimento di successo attuato da anni in Basilicata affidando la guida di questa nuova edizione alle stesse mani sicure di Roberto Marino e di una straordinaria redazione che conosce Bari, BAT e la Murgia come pochi. Diremo ogni giorno le cose come stanno senza riguardi per nessuno perché è il timbro di fabbrica di questo giornale. Che ha un Editore coraggioso che ha la sana abitudine di leggere il giornale il giorno dopo e “combatte” da più di un quarto di secolo nella trincea editoriale delle terre più svantaggiate d’Italia. Provo a essere brutale: il problema della baresità di oggi è che tutti possono fare tutto, e così il declino della competenza diventa declino del territorio. Persistono e si difendono le eccellenze di impresa, ma sparisce il sistema Bari fatto di competenza organizzata e porta il conto salato alle imprese. Che, a loro volta, non sono del tutto immuni da cattive abitudini, ma pagano più degli altri le due grandi crisi internazionali e il nuovo ’29 mondiale a causa proprio della mancata trasformazione di sistema imposta dalla trasformazione digitale e dalla globalizzazione acciaccata. L’eccellenza, per capirci, non fa il tessuto economico di un territorio di una regione. Per invertire il declino e tornare a essere la Milano del Sud, il territorio deve uscire dal suo nuovo motto “pochi, maledetti e subito” che serve a contrastare un breve termine difficile e darsi un progetto di medio e lungo termine dicendo oggi che cosa saranno Bari e la Puglia tra dieci anni. Diciamoci le cose come stanno. La Fiera del Levante è alla canna del gas. Non riesce ad avere una produzione propria che non sia la campionaria che attrae sempre meno. Non produce più fiere: le quattro o cinque specializzate sono tutte importate perché non ha un management con un minimo di capacità per legare le fiere ai suoi prodotti e a un tessuto di ricerca alle sue spalle bellissimo ma frammentato che a sua volta anch’esso non riesce a fare sistema. I gangli vitali per favorire un tessuto economico regionale che vuole fare sistema come l’Acquedotto pugliese e molti altri di reti immateriali e materiali, di servizi e di ricerca pubblica sono nelle mani di uomini fedeli alla politica regionale dello scambio e non basta il lavoro serio di un bravo sindaco di Bari e di altri buoni amministratori comunali per rimediare ai guasti di struttura prodotti da un sistema deviato che è il frutto malato del federalismo italiano della irresponsabilità. Che qui, come a Napoli e a Palermo, ha dovuto fare anche i conti con gli indebiti prelievi operati dalle Regioni del Nord. La Banca Popolare di Bari è stata travolta dagli scandali che non hanno risparmiato neppure una famiglia simbolo come quella degli Jacobini. Su quello che è accaduto nella gestione del credito saremo vigili e non avremo attenzioni per nessuno, ma ancora di più lo saremo con chi ne ha raccolto l’eredità perché non ci piacciono i gattopardismi a ogni latitudine e perché hanno ricevuto in consegna le chiavi del futuro di sistema da ricostruire. Se lo ricordino bene ogni giorno che Dio manda in terra perché devono sapere distinguere tra i raccomandati a cui devono dire no e gli spiriti vitali che da questo intreccio distorto sono stati penalizzati e a cui devono sapere dire sì senza nascondersi dietro paraventi formalisti. Il Bari calcio è finito in mano alla famiglia partenopea dei De Laurentiis che è a sua volta proprietaria dello storico Napoli calcio. Sul piano dei simboli se penso alle radicate capacità dell’impresa pugliese di difendere i suoi simboli proprio rispetto a quella napoletana che ha già vissuto la sua stagione di disarmo e prova ora a ripartire, questo mi sembra il dato più evidente della strutturalità della crisi barese. Un grande marchio del caffè Saicaf della famiglia Lorusso è stato acquisito da Segafredo. Potremmo continuare, ma fermiamoci qui. Scommettiamo piuttosto sull’inversione possibile del declino, sulla “Milano del Sud” rinata e su un suo sistema territoriale rinnovato. Che saranno a loro modo acceleratori del cambiamento del Mezzogiorno e contribuiranno a salvare l’Italia. L’unica cosa che non manca, qui come in modo diffuso a Napoli e in Calabria con una università che sforna i talenti mondiali dell’algoritmo dell’intelligenza artificiale, è il capitale umano giovanile. La coerenza meridionalista degasperiana del governo di unità nazionale guidato da Draghi punta proprio su quel capitale. Draghi è la carta estrema del Paese, ma proprio per questo è allo stesso tempo l’ultima opportunità che la storia ci consegna per riunire le due Italie. Dobbiamo crederci e essere parte attiva del cambiamento. Bisogna fare l’esatto contrario di quello che si è fatto negli ultimi venti anni. Quelli della crescita zero e delle diseguaglianze crescenti. Quelli del patto scellerato della spesa storica tra le Regioni ricche di Destra e di Sinistra che hanno privato i cittadini meridionali dei loro diritti di cittadinanza e svuotato il primo mercato interno di consumi del Nord produttivo. Un obbrobrio etico e un “capolavoro” da studiare nei manuali per raccontare come si mette fuori gioco un Paese intero.

LA GRANDE CRISI DELL’IMPRENDITORIA BARESE. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 16 Agosto 2021. IL BARI CALCIO IN SERIE C, IL “CRACK” DELLA BANCA POPOLARE DI BARI, IL FALLIMENTO DELLA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO, LA FIERA DEL LEVANTE CHE NON SIN FARA’, LA CESSIONE DELLA SAICAF ALLA SEGAFREDO. DOV’E’ FINITA LA BARI CHE “CONTA”? C’era una volta la “razza padrona” di Bari, una classe di imprenditori che avevano portato in alto il capoluogo pugliese facendole conquistare l’appellativo di “Milano del Sud”. Sono passati alcuni decenni e Bari non è più la stessa Bari. Una città dove i costruttori avevano trasformato l’assetto urbanistico sviluppandolo nelle periferie allargando i confini della città, ora diventata metropolitana. La Fiera del Levante era diventata la più grande manifestazione espositiva d’ Italia, surclassando persino quella di Milano, la cui inaugurazione contrassegnava la ripresa della vita politica del Paese, inaugurata dal Presidente del Consiglio in carica. Una Bari in cui chi scrive ha iniziato a muovere i primi passi nel giornalismo sotto la guida e gli insegnamenti di due grandi del giornalismo pugliese: Oronzo Valentini e Mario Gismondi. Una città che andava fiera dell’attività culturale del Teatro Petruzzelli sotto la gestione di Ferdinando Pinto, dove l’economia regionale ruotava intorno alla Cassa di Risparmio di Puglia, sostituita nell’ultimo ventennio dalla Banca Popolare di Bari. Dove le famiglie Romanazzi, Calabrese, Matarrese, Andidero, DeGennaro ecc. dettavano legge nel mondo dell’impresa. Quando negli anni ’80 passeggiavo nella centrale via Sparano, troneggiava il Palazzo della famiglia Mincuzzi, che era il vero regno dell’eleganza pugliese, al cui posto adesso c’è uno dei negozi Benetton. La via più centrale e rappresentativa del capoluogo barese, dove di anno in anno chiudono i negozi di “storiche” famiglie del commercio, lasciando il posto a catene commerciali nazionali, talvolta di basso livello tipo “cash & carry”. Basta quindi fare due passi per le vie del centro per constatare che anche il commercio barese è in forte crisi. Ma come dicevano i greci “se Atene (alias i commercianti) piange” anche “Sparta (cioè gli imprenditori) non ride…“ 

La cessione della Saicaf ai bolognesi. Il gruppo Massimo Zanetti Beverage Group Zanetti, leader a livello mondiale nella produzione, lavorazione e distribuzione di caffè tostato con la presenza in 110 Paesi ha acquisito circa il 60% dell’azienda barese Saicaf nata nel 1932, fondata dalla famiglia Lorusso, con qualche problema da risolvere. Cioè il destino di una decina di dipendenti rimasti tagliati fuori dai giochi dopo la chiusura dello stabilimento avvenuta nell’agosto 2019. Una vertenza sindacale durata esattamente due anni, conclusasi con la  la cessione del pacchetto di maggioranza della storica fabbrica di produzione di caffè del capoluogo pugliese alla società bolognese, proprietaria tra gli altri del marchio Segafredo.

La politica barese. I politici espressione del capoluogo barese avevano un “peso” nel Paese. A partire dai democristiani Vito Lattanzio e Tonino Matarrese ai socialisti Rino Formica e Giuseppe Di Vagno, per finire all’indimenticabile Pinuccio Tatarella sicuramente il più amato ed indimenticato dai baresi, che non hanno lasciato “eredi” del loro livello. Una città dove gli esponenti politici cambiano sponda passando dalla destra alla sinistra, con la tranquillità e sfrontatezza come si cambia una cravatta. Non è un caso che un figlio del socialismo “barese” come Antonio Decaro, sia diventato il sindaco più amato d’ Italia, mentre il suo predecessore Michele Emiliano, la cui militanza giovanile nelle file del Movimento Sociale Italiano è nota a tutta la città , magistrato in aspettativa, è diventato il discusso leader regionale del Partito Democratico, da cui è dovuto uscire non rinnovando il proprio tesseramento per evitare di essere espulso dalla magistratura, dal Consiglio Superiore della Magistratura, venendo riconfermato lo scorso settembre alla guida della Regione Puglia grazie ad alleanze trasversali, e trasformisti politici come l’ex-senatore Massimo Cassano che dopo aver militato per anni nel centrodestra facendo il sottosegretario di un Governo Berlusconi adesso si è fatto il suo movimento politico pugliese che appoggia la maggioranza di centrosinistra regionale guidata da Emiliano nella nuova versione “indipendente”…dal Pd, che lo ricompensato con un bell’incarico da oltre 150mila euro l’anno! Michele Emiliano nonostante la sua rielezione alla guida della Regione Puglia si è piazzato solo all’11° posto nella classifica del gradimento dei cittadini sui governatori di regione, recentemente stilata dal Sole24Ore con il sondaggista Noto, un risultato deludente per la sua ambizione di visibilità e peso politico su “scala nazionale”

La triste storia del Bari Calcio. Dopo la storica A.S. Bari Calcio arrivata in serie A sotto la presidenza dell’indimenticabile chirurgo prof. Angelo De Palo, passato alla famiglia Matarrese, società fallita nel marzo 2014 per la quale la Procura di Bari ha chiesto nel 2020 il rinvio a giudizio per il reato di bancarotta fraudolenta nei confronti  dell’ex presidente Figc ed ex onorevole Antonio Matarrese, vicepresidente vicario del CdA del Bari dal 2010 al 2011, l’ex parlamentare Salvatore Matarrese, consigliere della società sportiva dal 2002 al 2011, suo cugino omonimo, ad dal 2002 al 2010 e consigliere fino al 2011. La società di calcio risorse per mano di Gianluca Paparesta nel 2014 con la costituzione del F.C. Bari 1908. sulle ceneri dell’A.S. Bari della famiglia Matarrese, venendo rilevata nel 2016 dal molfettese Cosmo Giancaspro, entrato inizialmente come socio al 5% e poi divenuto amministratore unico del club., senza che l’imprenditoria barese abbia fatto nulla per mantenere il controllo della società della propria città. Le vicende del biennio in cui l’imprenditore molfettese è stato al timone della società, sono ben note, con i tifosi che si sono ritrovati in un battito di ciglia dal cullare il sogno della promozione in Serie A fino alla mancata iscrizione al campionato cadetto di luglio del 2018. Uno scenario che ha portato alla revoca del titolo sportivo, poi riassegnato dal Comune di Bari alla famiglia De Laurentiis, che ha rifondato la squadra partendo dalla Serie D, e che adesso milita per il secondo anno consecutivo in serie C (Lega Pro). A volte il destino è a dir poco cinico. Infatti nel 111° compleanno della società biancorossa, fondata il 15 gennaio 1908, venne comunicato il respingimento del concordato preventivo, tentato da Giancaspro per salvare la società. F.C. Bari 1908 che è stata dichiarata fallita con debiti per circa 12 milioni di euro. Vano fu il tentativo di conservare l’affiliazione alla FIGC per provare a riscuotere i presunti crediti per 8 milioni di euro vantati in Lega. Giancaspro venne arrestato per il crack della Finpower.

La Nuova Fiera del Levante non decolla. Nell’ agosto 2017 è stata costituita la Fiera del Levante srl, la newco che deve gestire, per i prossimi sessant’anni, parte del quartiere fieristico di Bari, ovvero 90mila metri quadrati di padiglioni espositivi sui quasi 300mila complessivi. Dopo il sì dell’assemblea di Fiere Bologna spa – che si era candidata insieme alla locale Camera di Commercio è avvenuta alla privatizzazione dell’ente fieristico barese a due anni esatti dalla manifestazione di interesse del luglio 2015. Il progetto di rilancio si è arenato ed infatti quest’anno la Campionaria 2021 della Fiera del Levante ha ceduto il passo alla crisi e al Covid. Solo il 10% di richieste di prenotazione di spazi espositivi, a un mese e mezzo dall’inaugurazione, è davvero poco. Più o meno 50 su 500 disponibili. In verità si attendeva solo l’ufficialità della decisione, arrivata alla fine dello scorso luglio, anche se Regione Puglia e Comune di Bari, sostenevano di non saperne nulla, nonostante le dichiarazioni poco rassicuranti di Alessandro Ambrosi, presidente della Camera di Commercio di Bari e della Nuova Fiera del Levante, la società cui era stata affidata nel 2017 la riqualificazione e gestione del quartiere fieristico di proprietà dell’Ente autonomo, che aveva annunciato “soluzioni drastiche”.

Il crack della Popolare di Bari. La crisi della città si era intravista ed annunciata con il “ciclone giudiziario” che si è abbattuto sulla Banca Popolare di Bari sotto la gestione della famiglia Jacobini. Gli ex vertici della Popolare di Bari, tra cui Marco e Gianluca Jacobini, padre e figlio, rispettivamente ex presidente ed ex condirettore generale dell’istituto di credito, sono stati arrestati a gennaio dell’anno scorso. I reati contestati sono a vario titolo il falso in bilancio, il falso in prospetto, le false comunicazioni e ostacolo alla vigilanza.  Sono stati circa tremila i risparmiatori ammessi come parte civile dal Tribunale di Bari nell’ambito del processo per il cosiddetto crack della Banca Popolare di Bari. La maratona giudiziaria della Popolare di Bari è arrivata a una svolta importante per Vincenzo De Bustis, l’ex amministratore delegato 70enne dell’istituto pugliese commissariato due anni fa da Bankitalia e poi salvato dal crack con l’intervento e i soldi pubblici del Mediocredito Centrale. De Bustis, un banchiere di lungo corso in passato al vertice anche del Monte dei Paschi, è stato rinviato a giudizio per il reato di falsa testimonianza. Il processo, fissato per il 2 febbraio dell’anno prossimo, vedrà comparire per la prima volta De Bustis come imputato in un procedimento, tra i tanti, che riguardano la passata gestione della Popolare di Bari. Il procuratore facente funzione della procura di Bari Roberto Rossi ed il pubblico ministero Savina Toscani come racconta l’ottimo collega Vittorio Malagutti del settimanale L’ESPRESSO, hanno infatti chiesto e ottenuto il processo per l’ex amministratore delegato della Popolare perché le sue parole appaiono in contrasto con quanto lo stesso De Bustis aveva a suo tempo disposto nel 2013, in qualità di direttore generale della Popolare di Bari, con un provvedimento da lui stesso firmato. In questo atto interno della banca, che recepiva una circolare di Bankitalia, si attribuiva al Chief Risk Officer (cioè Luca Sabetta) un potere di veto sulle “operazioni di maggior rilievo”, categoria, quest’ultima a cui apparteneva di sicuro un’acquisizione come quella di Tercas. Con la sua testimonianza, De Bustis avrebbe quindi cercato (dicendo il falso, secondo i pm) di sminuire il ruolo di Sabetta, contestando la legittimità del suo intervento come responsabile dei rischi. A gennaio del 2019, quando ha testimoniato nella causa di lavoro, l’allora consigliere delegato della Popolare di Bari sapeva bene che il manager licenziato tre anni prima aveva dato un contributo decisivo alle indagini in corso sulla gestione della banca. 

Il fallimento della Gazzetta del Mezzogiorno. Nel giugno 2020 il Tribunale di Bari ha dichiarato il fallimento delle società “Edisud” (che editava la Gazzetta del Mezzogiorno) e della “Mediterranea” proprietaria della testata. Il giudice ha accolto la richiesta della procura che aveva chiesto la dichiarazione di fallimento per i circa 50 milioni di debiti accumulati. I guai per lo storico quotidiano barese cominciarono il 24 settembre 2018 quando la procura antimafia di Catania mise i sigilli ai beni dell’editore Mario Ciancio Sanfilippo per un valore di 150 milioni di euro: tra questi le quote della Gazzetta del Mezzogiorno, del quotidiano La Sicilia, delle emittenti televisive regionali siciliane Antenna Sicilia e Telecolor e la società che stampa quotidiani Etis. Dopo il fallimento le rispettive curatele fallimentari nominale dal Tribunale di Bari hanno pubblicato un bando per l’esercizio provvisorio per 6 mesi del quotidiano barese, a cui ha partecipato soltanto una società, la Ledi Edizioni srl, società del gruppo Ladisa, colosso della ristorazione aziendale con oltre 6mila dipendenti e 16 sedi sparse su tutto il territorio nazionale, che aveva messo in piedi un vero progetto industriale, con una nuova sede tecnologica, una concessionaria pubblicitaria interna e sopratutto un nuovo direttore degno di essere chiamato tale, e cioè Michele Partipilo. Ma anche in questo caso è successo qualcosa di molto strano. A15 giorni dalla scadenza dell’esercizio provvisorio (il 31 luglio 2020) i curatori fallimentari hanno chiesto alla Ledi una proroga, non di sei mesi come previsto nel bando originale, ma di solo ulteriori 30 giorni e cioè per arrivare alla fine di agosto quando dovrebbe essere presa una decisione sulle due proposte di acquisto della Gazzetta del Mezzogiorno presentate dalla Ledi e dalla società Ecologica, della famiglia Miccolis di Castellana Grotte, che secondo voci attendibili sarebbe affiancata in cordata dal Gruppo CISA di Massafra controllata dal condannato e plurindagato imprenditore Antonio Albanese, specializzato in discariche ed acquisizioni fallimentari. La Ledi srl ha comunicato secondo noi giustamente la propria indisponibilità a prorogare di ulteriori 30 giorni i sei mesi previsti il fitto di azienda, contestando al Tribunale fallimentare e alle curatele di aver seguito tempi troppo lunghi per l’assegnazione definitiva della testata, di proprietà della società Mediterranea, anche questa in procedura fallimentare. Risultato? Dallo scorso 1 agosto, la Gazzetta del Mezzogiorno non esce più in edicola, ed il giornale è rientrato nella disponibilità esclusiva della curatela fallimentare di Edisud e con esso tutti i rapporti di lavoro: 144 tra giornalisti e poligrafici sono stati automaticamente retrocessi senza soluzione di continuità, con effetto dal primo agosto, alla società Edisud in fallimento. Si dovrà ora attendere che si concludano le procedure di votazione sui piani di concordato per Mediterranea presentati dalle società Ledi srl ed Ecologica spa. A questo punto rimane solo da augurarsi che anche la Gazzetta non faccia la fine del Bari Calcio gestione Giancaspro. Anche perchè in un malaugurato caso ci sarebbe il rischio di non poter applicare il detto latino “pecunia non olet” (i soldi non puzzano). Lascio a voi capire il perchè.

Lasciatemi in conclusione una domanda rivolta alla Bari che “conta”: ma dove sono finiti gli imprenditori quelli “veri”, che amano realmente la propria città ed i propri simboli ? Si fa fatica a cercarli e riconoscerli. Esiste ancora la “razza padrona” a Bari?

Dagospia il 5 agosto 2021. ORA SARETE ANCORA PIÙ FELICI DI PAGARE IL CANONE! – I SOLDI DELL’ABBONAMENTO NON FINISCONO SOLO NELLE CASSE DEL DISASTRATO CARROZZONE RAI, MA FINANZIANO ANCHE UN MIGLIAIO DI EMITTENTI LOCALI – PER IL 2020 SONO STATI DISTRIBUITI 42 MILIONI (SOLTANTO TELENORBA E VIDEOLINA BECCANO QUASI 3 MILIONI IN DUE) – LA NORMATIVA È CAMBIATA NEL 2017, CON IL PIDDINO GIACOMELLI SOTTOSEGRETARIO ALLE COMUNICAZIONI, CHE PROMETTEVA: "BASTA CONTRIBUTI A PIOGGIA"...

1 - ART. 616 E SEGUENTI – LEGGE DI BILANCIO 2021 

616. Al fine di semplificare le procedure contabili di assegnazione delle risorse, tenendo conto dello stabile incremento delle entrate versate a titolo di canone di abbonamento alle radioaudizioni ai sensi degli articoli 1 e 3 del regio decreto-legge 21 febbraio 1938, n. 246, convertito dalla legge 4 giugno 1938, n. 880, a decorrere dal 1° gennaio 2021 le predette entrate sono destinate:

a) quanto a 110 milioni di euro annui, al Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione istituito nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze, quale quota di cui all'articolo 1, comma 2, lettera c), della legge 26 ottobre 2016, n. 198. Nel predetto Fondo confluiscono, altresi', le risorse iscritte nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico relative ai contributi in favore delle emittenti radiofoniche e televisive in ambito locale; 

b) per la restante quota, alla società RAI-Radiotelevisione italiana Spa, ferme restando le somme delle entrate del canone di abbonamento già destinate dalla legislazione vigente a specifiche finalità, sulla base dei dati del rendiconto del pertinente capitolo dell'entrata del bilancio dello Stato dell'anno precedente a quello di accredito.

617. Le somme di cui al comma 616, lettere a) e b), non impegnate in ciascun esercizio possono essere impegnate nell'esercizio successivo.

618. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio, anche nel conto dei residui. 

619. A decorrere dal 1° gennaio 2021:

a) il comma 292 dell'articolo 1 della legge 23 dicembre 2014, n. 190, è abrogato. Conseguentemente, il comma 4 dell'articolo 21 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, riacquista efficacia nel testo vigente prima della data di entrata in vigore della citata legge n. 190 del 2014;

b) i commi 160, 161 e 162 dell'articolo 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208, sono abrogati;

c) al comma 163 dell'articolo 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208, le parole: «del Fondo di cui alla lettera b) del comma 160» sono sostituite dalle seguenti: «del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione istituito nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze».  

Contributi per l’emittenza locale. Da mise.gov.it il 5 agosto 2021. Se stai cercando le graduatorie relative ai contributi per le radio e le tv locali, consulta la sezione dedicata. Il Regolamento DPR 146/2017 disciplina i criteri di riparto e le procedure di erogazione delle risorse finanziarie del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione assegnate al Ministero per la concessione dei contributi di sostegno alle emittenti televisive e radiofoniche locali. I contributi sono destinati all’emittenza locale (tv titolari di autorizzazioni, radio operanti in tecnica analogica e titolari di autorizzazioni per la fornitura di servizi radiofonici non operanti in tecnica analogica, emittenti a carattere comunitario) e vengono concessi sulla base di criteri che tengono conto del sostegno all’occupazione, dell’innovazione tecnologia e della qualità dei programmi e dell’informazione anche sulla base dei dati di ascolto. 

Requisiti di ammissione. I requisiti di ammissione al contributo tengono conto di un numero minimo di dipendenti e giornalisti in regola con i versamenti dei contributi previdenziali che l’emittente deve avere per il marchio e la regione per i quali presenta la domanda di accesso ai contributi. Ad ogni emittente che accede ai contributi verrà assegnato un punteggio in base al quale viene quantificato il contributo. 

Per le emittenti Tv. numero di dipendenti pari a 14 (di cui 4 giornalisti) dedicati alla fornitura di servizi media audiovisivi se il territorio in cui sono diffuse le trasmissioni nell’ambito di ciascuna regione per cui è stata presentata la domanda ha più di 5 mln abitanti. Numeri che scendono a 11 (di cui 3 giornalisti) se il territorio nell’ambito di ciascuna regione per cui è stata presentata la domanda ha tra 1,5 e 5 mln abitanti; a 8 ( di cui 2 giornalisti) se il territorio nell’ambito di ciascuna regione per cui è stata presentata la domanda ha fino a 1,5 mln abitanti; 

impegno a non trasmettere (per i soli marchi/palinsesti per i quali si è presentata domanda) programmi di televendita nelle fasce tra le 7 e le 24 superiori al 40% relativamente alla domanda per il 2018. Percentuale che scenderà al 30% relativamente alla domanda per il 2019 e 20% a partire dalla data di presentazione della domanda per l’anno 2020;

adesione ai codici di autoregolamentazione su televendite, tutela dei minori e avvenimenti sportivi; 

aver trasmesso nei marchi e palinsesti per cui presentano domanda, nell’anno solare precedente a quello della presentazione della domanda, almeno due edizioni giornaliere di Telegiornali con valenza locale (con decorrenza dalla domanda per l’anno 2019).

Regolarità nel pagamento dei contributi e diritti amministrativi dovuti dagli operatori di rete al Ministero.

È previsto un regime transitorio per le domande relative agli anni di contributo che vanno dal 2016 al 2018.               

Per le emittenti radiofoniche. Numero minimo di 2 dipendenti con almeno un giornalista;

È previsto un regime transitorio per le domande relative agli anni di contributo che vanno dal 2016 al 2018. 

Emittenti a carattere comunitario. Il 50% del finanziamento dedicato alle emittenti comunitarie sarà ripartito in parti uguali tra tutti i soggetti beneficiari ammessi; l’altro 50% sulla base dei criteri di merito riguardanti dipendenti e giornalisti. Usufruiranno dei contributi le emittenti televisive a carattere comunitario che si sono impegnate a trasmettere programmi di televendite per una durata giornaliera non superiore ai 90 minuti. 

Fondi alle Tv locali, si cambia. Giacomelli: “Fine dei contributi a pioggia”. Da corrierecomunicazioni.it - 24 marzo 2017. Contributi alle tv locali, si cambia. Più risorse, ma più vincoli. Per le “Pmi” italiane dell’emittenza 50 milioni aggiuntivi provenienti dal canone oltre ai 67 previsti per il 2017. Ma per accedere ai finanziamenti dovranno dimostrare di investire su occupazione, innovazione tecnologica e pluralismo dell’informazione. È quanto stabilisce lo schema di regolamento per l’erogazione dei contributi alle emittenti locali approvato oggi dal Consiglio dei ministri: manca il passaggio al Consiglio di Stato ed alle Commissioni parlamentari competenti prima dell’approvazione definitiva. “Quello approvato oggi è senza dubbio un regolamento molto innovativo e più selettivo rispetto al passato – il commento del sottosegretario allo Sviluppo economico con delega alle comunicazioni Antonello Giacomelli -. Superata l’erogazione a pioggia dei contributi. L’obiettivo del governo è destinare il sostegno dello Stato a chi davvero svolge la funzione di editore locale”. Soddisfazione delle Tv locali: Marco Rossignoli, coordinatore di Aeranti-Corallo che rappresenta 700 imprese del settore: “L’approvazione dello schema del nuovo Regolamento permetterà la ripresa degli interventi a sostegno del settore in un’ottica di stimolo dell’attività editoriale e di informazione sul territorio basata sulla qualità, realizzata mediante dipendenti e giornalisti e l’utilizzo di tecnologie innovative”. L’associazione chiede un’approvazione in tempi rapidi. Più risorse: la Legge di stabilità 2016 ha destinato parte delle risorse derivanti dal recupero dell’evasione sul canone fino a 100 milioni di euro per il Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione, dei quali fino a 50 milioni per le emittenti radio televisive locali. Le somme si sommeranno a quelle già previste che ammontano a circa 67 milioni per il 2017. Contestualmente la legge di stabilità 2016 ha previsto di modificare le regole di riparto delle risorse con la definizione di un nuovo regolamento che tenesse conto di criteri selettivi di merito per l’erogazione dei contributi. Requisiti di ammissione: terranno conto di un numero minimo di dipendenti e giornalisti che l’emittente deve avere per poter accedere ai contributi, del rispetto di un tetto giornaliero di ore di televendite e di un numero minino telegiornali giornalieri locali.

Ripartizione: lo stanziamento totale annuale è ripartito in base ai seguenti criteri: l’80% in base al numero di dipendenti e tipologia dei dipendenti, assegnando punteggi diversi per esempio a giornalisti, pubblicisti, dipendenti full time o a tempo parziale, con una maggiorazione del 10% del punteggio per chi incrementa le assunzioni rispetto all’anno precedente. Il 10% per le emittenti televisive in base all’Auditel per premiare chi ha maggiori ascolti, per le radio sulla base dei ricavi dell’emittente per vendita di spazi pubblicitari ammissibili nell’anno precedente. Il 10% sulla base dei costi sostenuti per spese in tecnologie innovative. Prevista una maggiorazione del 15% del punteggio per le emittenti che operano nelle regioni del sud (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia. Si modifica anche il processo di erogazione: fine delle graduatorie regionali stilate dai Corecom, si prevede ora una singola graduatoria nazionale ed una procedura totalmente on line. Un meccanismo in grado di superare le attuali distorsioni dato che il meccanismo attuale prevede una procedura complessa che coinvolge i Corecom che hanno il compito di elaborare le graduatorie regionali delle emittenti e solo quando tutti i Corecom hanno approvato le graduatorie regionali il Ministero può approvare il Decreto di riparto dei contributi. Un passaggio che ha generato in passato ritardi derivanti anche da contenziosi ai TAR sulle singole graduatorie regionali, bloccando per mesi il processo di erogazione. “Ora si apre una fase di confronto – dice Giacomelli – che precede la definitiva approvazione del regolamento in cui si valuterà se il livello della proposta dei criteri di ammissione sia sufficiente a raccogliere le obiezioni finora sollevate dalla Corte dei conti e se per questa via si difenda con chiarezza il pluralismo dell’informazione con un sostegno alle realtà locali che realmente informano e innovano. Sul fronte delle risorse, si è passati da uno stanziamento di quasi 43 milioni nel 2015 ai circa 120 milioni del 2017 comprensivi dei 50 milioni di recupero dell’evasione del canone – conclude Giacomelli – Con il regolamento, a cui a breve di aggiungerà l’intervento sulla numerazione Lcn, si completa la riforma e si volta finalmente pagina: si mettono infatti le basi per superare la logica, peraltro discrezionale, dei contributi a tutti e per avviare un percorso che comporti un impegno di stabilizzazione da parte dello Stato nel sostegno alle emittenti locali di qualità’’.

Michele Emiliano, polemica nel Pd: sapete chi c'è con lui in questa foto? Un grosso caso politico. Libero Quotidiano il 06 agosto 2021. Un appoggio che scatena la polemica. Il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, annuncia il suo sostegno Pippi Mellone, candidato sindaco (per un secondo mandato) a Nardò. Immediata la bufera all'interno del Pd, partito di cui fa parte Emiliano. Il motivo? Mellone è considerato molto vicino all’estrema destra per alcune sue iniziative e per la presunta vicinanza a Casapound. “In bocca al lupo al sindaco che ha aperto la mia mente per tutelare i lavoratori delle campagne pugliesi con l’ordinanza di divieto di lavoro nelle ore più calde - scrive Emiliano su Facebook in un post di auguri destinato proprio a Mellone -. Al sindaco che ha fatto cadere i miei pregiudizi ideologici, che mi ha insegnato a unire anziché dividere. Al sindaco e all’amico leale che mi ha sempre aiutato quando ho avuto bisogno di lui. Al sindaco che mi ha provato che politica e amicizia non possono essere disgiunte”. Mellone si è sempre rigettato le accuse di appartenere a Casapound: “La vogliono utilizzare come un’offesa, peccato che io non abbia mai avuto la tessera di quel partito. Con Casapound, così come con tutti gli altri partiti, come Rifondazione comunista, abbiamo organizzato diverse iniziative, come la raccolta alimentare fuori dai supermercati. Come farebbe la Caritas, per intenderci”, è stata sempre la versione del primo cittadino. Eppure la tensione tra i dem per questa vicinanza non è mancata. Primo tra tutti a protestare è il senatore pugliese, Dario Stefàno, che ha inviato una lettera ai vertici regionali e nazionali, annunciando: “Mi autosospendo dal Partito Democratico, in attesa di un chiarimento non più rinviabile e che, mi auguro, possa avvenire il più presto possibile”. E ancora: “Inutile sottolineare che Mellone è notoriamente un militante di movimenti di estrema destra. Inutile ricordare anche che il Pd a Nardò è parte attiva di un'altra coalizione”. Insomma, tra i dem questa amicizia non va proprio a genio.  

Approvato all'unanimità. La denuncia della consigliera Laricchia. La Voce di Manduria - giovedì 05 agosto 2021. Ecco la porcata estiva in Regione Puglia, passata con i voti di tutti, anche quelli di una parte del Movimento 5 Stelle. La politica invece di trovare i soldi per i cittadini li ha trovati ancora una volta per se stessa. Le peggiori porcate in piena estate e sotto Natale: questo insegna la vecchia politica e anche questa estate ne hanno fatta una. Il Consiglio Regionale pugliese ha approvato all’unanimità la reintroduzione della liquidazione per i Consiglieri Regionali che terminano la legislatura (la buonuscita, anche pe rgli assessori, sarà di 35mila euro, Ndr). Ci tengo a precisare che c’è stata unanimità perché io ero assente per malattia (infatti, avevo anche presentato un certificato medico) e all’ordine del giorno non era previsto niente del genere. Se ci fossi stata io, ci sarebbe stato almeno un voto contrario. Si è trattato infatti di un emendamento presentato all’ultimo momento, da tutti i capigruppo di tutte le forze politiche, compreso ahimè il M5S (che di M5S conserva solo il nome, ma non più i principi e i valori), quello anestetizzato dal PD, che si è venduto politicamente a Emiliano, come prima aveva fatto parte del centrodestra. Già nella scorsa legislatura avevano provato a reintrodurre il Trattamento di Fine Mandato, per il quale non avevano versato un solo euro, non riuscendoci grazie all’opposizione del M5S (che nella scorsa legislatura seguiva ancora i principi per i quali è nato). Questa volta invece nel silenzio generale questa norma è passata. Non si tratta di una normale liquidazione, come stanno cercando di far passare, dal momento che vale dal 2013 e quindi per almeno 8 anni i soldi saranno versati solo dalla Regione, mentre normalmente sono i lavoratori ad accantonare una quota mensile del loro stipendio per il TFR. Uno scandalo, specie in un momento di crisi economica come quella che stiamo vivendo, dovuta alla pandemia, in cui tanti cittadini hanno perso il lavoro e non riescono ad arrivare a fine mese. La politica invece di trovare i soldi per loro li ha trovati ancora una volta per se stessa.

Da "iltempo.it" il 6 agosto 2021. Rispunta l'indennità di liquidazione per assessori e consiglieri regionali. Succede in Puglia, la regione governata da Michele Emiliano, dove l'assegno di fine mandato, abolito nel 2012 dal Consiglio regionale, torna dritto nelle tasche di assessori e consiglieri. C'è di più: il pagamento avrà effetto retroattivo e saranno recuperate le cifre non erogate a partire dal 2013. A riferire la vicenda è il Corriere del Mezzogiorno che spiega che nessuno perderà un centesimo, neanche gli eredi in caso di eventuale morte del beneficiario. Alla base c'è quanto deciso nell'ultima seduta del Consiglio regionale della Puglia che con un emendamento bipartisan, a firma dei capigruppo di tutte le forze politiche di maggioranza e opposizione. Quanto incasseranno assessori e consiglieri? "7.100 euro lordi per ogni anno passato sugli scranni dell'assise pugliese e, a conti fatti, 35 mila e 500 euro pro capite una volta terminata la legislatura", spiega il quotidiano. La cifra complessiva dell'"operazione" si aggira su circa 9 milioni di euro complessivi per i 5 anni. La liquidazione era stata cancellata con l'abolizione dei vitalizi regionali.

Emiliano in imbarazzo: La Puglia "restaura" l'assegno di fine carica. Gian Maria De Francesco il 7 Agosto 2021 su Il Giornale. Blitz in consiglio regionale, grillini compresi Indennità retroattiva a partire dal 2013. Alla faccia del «basta casta»! Nell'ultima seduta del consiglio regionale della Puglia, il 27 luglio, è stato approvato un emendamento firmato dai capigruppo di tutti i gruppi consiliari (incluso il Movimento 5 Stelle che appoggia il governatore Emiliano e che esprime un assessore) che ripristina l'assegno di fine mandato per tutti i consiglieri. Con una particolarità: la norma è retroattiva e vale a partire dal primo gennaio 2013, data nella quale era stata abolita in un impeto di populismo da parte di Nichi Vendola. Il costo? Sono 4 milioni di euro. Si tratta di un calcolo molto sommario che include gli attuali 50 consiglieri e 9 assessori in carica dal 2020 (700mila euro), i componenti della passata legislatura (2 milioni di euro) e i 70 dei tempi dell'ex leader di Sel (circa un milione). Più nel dettaglio, l'assegno «è fissato nella misura dell'ultima mensilità dell'indennità di carica lorda (circa 7mila euro; ndr) percepita dal consigliere cessato dal mandato, moltiplicata per ogni anno di effettivo esercizio del mandato». Grosso modo 35.500 per ogni consiliatura. Anche se viene chiamata «indennità di liquidazione», tuttavia, non è equiparabile all'accantonamento del Tfr in quanto nella busta paga dei consiglieri non viene effettuata una trattenuta ad hoc. Al di là della mancanza di sensibilità da parte della classe dirigente di una Regione che versa in pessime condizioni economiche sintetizzate dalla drammatica crisi dell'Ilva e di tutto l'indotto del Tarantino, il blitz estivo del consiglio regionale pugliese segnala che ormai i Cinque stelle possono essere considerati «omogenei» a quella politica e a quelle istituzioni che dicevano di voler aprire «come una scatoletta». Come ha spiegato la capogruppo M5s, Grazia Di Bari, al Corriere del Mezzogiorno, «Per noi sarà ridotto come avviene per le indennità che percepiamo da consigliere», ha dichiarato che «abbiamo il massimo rispetto per i soldi dei pugliesi, come dimostrano anche le restituzioni che abbiamo fatto nella scorsa legislatura per oltre 600mila euro e che ovviamente stiamo facendo anche in questa legislatura per dar vita a nuovi progetti». E forse non è un caso che la denuncia della reintroduzione dell'assegno di fine mandato sia giunta proprio da Antonella Laricchia, candidata pentastellata alla presidenza della Regione che ha da tempo manifestato il proprio dissenso verso l'ingresso nella giunta di Emiliano. «Uno scandalo», ha commentato, aggiungendo che «già nella scorsa legislatura avevano provato a reintrodurre il trattamento di fine mandato, non riuscendoci, mentre questa volta invece nel silenzio generale questa norma è passata». Per il governatore Michele Emiliano un'altra grana politica dopo il caso dell'appoggio alla ricandidatura di Pippi Mellone, sindaco uscente di Nardò, in provincia di Lecce, eletto con una lista civica ma con simpatie di destra. Una sortita che ha portato il senatore piddino Dario Stefano ad autosospendersi dal partito.

Gian Maria De Francesco. Barese, classe 1973, laurea in Filosofia e specializzazione in Giornalismo all’Università Luiss di Roma. Mi occupo dei maggiori avvenimenti economico-finanziari da oltre vent’anni. Ho scritto un libro nel 2019 intitolato «Tassopoly: dall’Irpef alla pornotax, il folle gioco delle tasse». Ho tre grandi passioni: la famiglia, il Bari e il Brit-pop.

Assegno di fine mandato ai consiglieri, Emiliano: «Da abrogare subito». Il Quotidiano del Sud il 20 agosto 2021. «Mi pare che la proposta di immediata abrogazione» dell’assegno di fine mandato per i consiglieri regionali «sia la più giusta»: lo ha detto ieri sera il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, commentando le proteste dopo la reintroduzione in Consiglio regionale dell’assegno di fine mandato. In particolare, Emiliano, partecipando a Manfredonia, nel Foggiano, alla festa del suo movimento politico “Con”, ha risposto così a chi gli chiedeva cosa ne pensasse della reintroduzione, votata all’unanimità il 27 luglio, otto anni dopo l’abolizione dell’assegno. «Hanno fatto questa delibera – ha detto – senza neanche avvisare il presidente, cosa che devo dire, mi ha molto amareggiato. Ma adesso vedo che ci stanno ripensando e la cosa mi fa immenso piacere perché evidentemente sono ancora rimasti collegati con l’opinione pubblica». Il Governatore ha poi spiegato che «quel giorno non ero fisicamente in Aula perché, dopo aver passato più di tre ore sotto il sole per inaugurare nella provincia Bat le sedi di Questura, Carabinieri e Guardia di finanza con il ministro dell’Interno, non mi sono sentito bene. E ricordo che non mi è stato concesso di partecipare ai lavori consiliari da remoto come pure avevo chiesto di fare». Quindi di fatto, sostiene Emiliano, non era in condizioni di opporsi in quel momento all’approvazione: «Organizzandosi all’ultimo secondo – bacchetta Emiliano – in quella seduta hanno infilato, in una legge che non aveva nulla a che fare con l’argomento, questo emendamento. È stato un errore. Ho personalmente constatato che i segretari dei partiti politici del Pd, Lega e Forza Italia e i responsabili politici delle liste civiche non ne sapevano nulla. Come d’altra parte molti consiglieri regionali erano stati coinvolti all’ultimo minuto senza una approfondita discussione politica».

REGIONE PUGLIA. PERRINI (FDI) ELETTO PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE REGIONALE ANTIMAFIA. Il Corriere del Giorno il 21 Luglio 2021. Soddisfazione anche dal gruppo regionale di Fratelli d’Italia “È un riconoscimento importante per noi di che da sempre riconosciamo il valore dello Stato”. Congratulazioni e messaggi di auguri sono arrivati da tutti i gruppi consiliari, sia della maggioranza che fa capo al governatore Emiliano, che della opposizione. Il Consiglio regionale pugliese ha istituito la Commissione speciale antimafia, commissione di studio e di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata in Puglia, un nuovo strumento per rendere ancora più efficace il ruolo e l’impegno della Regione contro i fenomeni criminosi e per l’affermazione della cultura della legalità.

La presidenza è stata assegnata a Renato Perrini (FdI), eletti invece vicepresidente e segretario rispettivamente Debora Ciliento (Pd) e Alessandro Leoci (Con Emiliano). L’obiettivo della neonata commissione è contrastare l’infiltrazione criminosa nell’attività pubblica, attraverso la collaborazione con altri enti territoriali, istituzioni, organi della magistratura, forze dell’ordine e rappresentanti della società civile. “Sono emozionato”, ha dichiarato il neo eletto presidente Perrini, che ha voluto ringraziare i colleghi commissari che hanno il suo nome come presidente di una delle più delicate commissioni regionali. Soddisfazione anche dal gruppo regionale di Fratelli d’Italia “È un riconoscimento importante per noi di che da sempre riconosciamo il valore dello Stato”. Congratulazioni e messaggi di auguri sono arrivati da tutti i gruppi consiliari, sia della maggioranza che fa capo al governatore Emiliano, che della opposizione. Gli auguri di buon lavoro al Presidente Renato Perrini e a tutta la Commissione sono arrivati in aula anche dall’ex presidente della Commissione Rosa Barone, che ha ricordato i risultati ottenuti.  “Grazie al contributo di istituzioni e associazioni – ha detto la Barone – abbiamo dato vita al testo Unico per la Legalità e all’Osservatorio che oggi è nella fondazione Stefano Fumarulo. Ricordo con emozione l’audizione di Don Ciotti e siamo stati la prima sede istituzionale ad aver invitato il Capitano Ultimo per ascoltare la sua testimonianza per parlare di lotta alla criminalità organizzata. Nella penultima seduta del Consiglio è stato approvato lo schema di proposta di legge per sostenere gli imprenditori che denunciano estorsioni e usurai, un risultato importante che parte da quanto fatto a Roma dal Coordinamento delle Commissioni e degli Osservatori sul contrasto della criminalità organizzata e la promozione della legalità. Un provvedimento che prevede, per le imprese che denunciano, una corsia preferenziale negli appalti sotto soglia. Una proposta arrivata grazie al lavoro della presidente della Commissione lombarda Monica Forte, che è stata approvata dalla Puglia come prima regione italiana e sarà trasmessa ora a Camera e Senato. La Commissione ha valorizzato la funzione politica dell’inchiesta come strumento di conoscenza del fenomeno mafioso, analizzandone non solamente la dimensione criminale, ma anche quella politica, culturale e sociale. Faccio i miei migliori auguri di buon lavoro al Presidente Perrini e a tutta la Commissione e sono sicura che otterranno risultati importanti nel contrasto alla criminalità organizzata”. “La fase storica che stiamo vivendo – ha dichiarato Loredana Capone presidente del Consiglio regionale- caratterizzata dal contrasto a una pandemia mondiale, ha richiesto, e richiede, uno sforzo al quale non eravamo oggettivamente pronti. Ma il fronteggiare questa emergenza non può distoglierci dalla necessità di dare la giusta attenzione ai fenomeni, complessi e radicati, di criminalità organizzata di stampo mafioso. L’ultimo report della Direzione Investigativa Antimafia fotografa chiaramente la situazione della nostra regione e contemporaneamente ci pone davanti alle sfide che dobbiamo cogliere per contrastare e sradicare le mafie in Puglia”. 

«Regione danneggiata», Raffaele Fitto condannato a risarcire mezzo milione di euro. La replica: «Sentenza contraddittoria con valutazioni sulla mia persona inopportune ed offensive. Ricorrerò in Cassazione». La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Luglio 2021. «Causò un danno alla Regione», e per questo l'ex governatore Raffaele Fitto è stato condannato a risarcire l'ente con 434.500 euro, oltre agli interessi legali. La sentenza, emessa dalla terza sezione civile della Corte d'Appello di Bari, affonda le sue radici in una delibera del 2004, anno in cui l'europarlamentare magliese, co-presidente del Gruppo dei Conservatori e dei Riformisti Europei era ancora presidente della Regione Puglia. Con quella delibera, per la quale venne indagato per falso ideologico, secondo i giudici d'Appello avrebbe voluto «l'apertura generalizzata al privato nelle Residenze sanitarie assistite». In sede penale la prescrizione è arrivata nel 2013 e oggi il procedimento si è definito in sede civile. «La Corte ritiene - si legge nella sentenza - che il falso ideologico commesso da Fitto abbia provocato un enorme danno alla credibilità e all'immagine della Regione». La Regione Puglia aveva chiesto un risarcimento per danni non patrimoniali pari a 1,5 milioni di euro e patrimoniali pari a oltre 22 milioni. I giudici hanno condannato Fitto per i soli danni morali ma non per quelli patrimoniali. La vicenda è stata definita dalla Corte di Appello civile perché dopo l’annullamento con rinvio della sentenza penale da parte della Cassazione, preso atto che il reato era ormai prescritto, gli atti del procedimento sono stati trasmessi direttamente ai giudici civili. Nella sentenza si evidenza «la sussistenza del dolo di Fitto, il quale volle e preparò l’apertura generalizzata al privato nelle Rsa, sollecitando in ogni modo pezze di appoggio dagli uffici competenti». La delibera ritenuta falsa faceva riferimento alla impossibilità delle Asl di gestire direttamente le 11 Rsa regionali, rendendo così legittimo il ricorso all'affidamento delle gestione a soggetti privati mediante apposita gara del valore di 198 milioni di euro. Si tratta di uno stralcio del processo «Fiorita» sulla presunta tangente da 500 mila euro pagata dall’imprenditore romano Giampaolo Angelucci per aggiudicarsi quella gara. Accuse, queste ultime, dalle quali Fitto è stato assolto in sede penale in via definitiva. Nel procedimento la Regione è stata rappresentata dagli avvocati Giuseppe Spagnolo e Massimo Leccese. «Il suo organo di vertice più importante, un presidente scelto dagli elettori, - spiegano i giudici - prese una decisione essenziale in materia di sanità, la più importante sul piano socio-economico tra quelle attribuite all’ente, creando sulla base di falsi presupposti il “ponte” necessario per un successivo processo di privatizzazione delle Rsa sganciato da ogni discussione democratica e collaborazione amministrativa non solo con gli elettori e i loro rappresentanti in Consiglio regionale, ma di volta in volta pressando e pretermettendo uffici amministrativi e qualificati dirigenti di Asl e Ares, fino a prevaricare e travolgere persino gli assessori da lui scelti in virtù di un vincolo di fiducia politica e personale, in primis quello alla sanità». «Un atteggiamento autocratico - si legge ancora nella sentenza - proprio di chi evidentemente considerava soltanto il risultato da perseguire, al di là di procedure, rispetto di regole legali e amministrative, e persino il rispetto personale e politico verso i suoi assessori». «L'essere stata la Regione rappresentata da un presidente così radicalmente avulso dalla democrazia e dalla legalità - concludono i giudici - , nonché dal rispetto per le articolazioni locali titolari di proposta, le Asl, ha prodotto un danno che può essere quantificato, secondo equità, nella misura di 350.000 euro, rivalutati a 434.500 dal fatto al momento attuale», oltre interessi legali dall’aprile 2004 ad oggi (che ammontano a circa 90 mila euro).

LA REPLICA DI FITTO - «La Corte di Appello civile di Bari, chiamata a pronunziarsi dalla Cassazione penale, a seguito dell'accoglimento di un mio ricorso, ha reso nei miei confronti una sentenza incredibilmente contraddittoria, che mi lascia basito e che mi accingo chiaramente ad impugnare in Cassazione». Queste le parole dell'europarlamentare Raffaele Fitto commentando la sentenza. «Contraddittoria - dice Fitto - perché chiarisce in modo indiscutibile che non esiste alcun danno patrimoniale», ma «vengo condannato a risarcire la Regione per danno d’immagine quantificato in via equitativa e con valutazioni sulla mia persona inopportune ed offensive del tutto estranee a logiche giuridiche, che meriterebbero sicuramente altro tipo di valutazioni e che costituiscono un precedente isolato e pericolosissimo, reso al di fuori di ogni canone di ragionevolezza, atteso che la stessa Corte non ha potuto individuare, nella mia condotta (che pure ribadisco essere stata legittima) una idoneità a causare un danno patrimoniale all’ente». «Nonostante tutto sono sereno» e «ribadisco la mia fiducia nella giustizia» dice ancora Fitto, annunciando che «con i miei avvocati nei prossimi giorni predisporrò il ricorso in Cassazione per dimostrare innanzitutto, come già avvenuto in passato in tanti altri gradi di giudizio, la mia totale correttezza amministrativa, rinviando un mio giudizio politico dettagliato e complessivo su questa storia infinita, che mi accompagna oramai da oltre 15 anni, a quando tutto sarà concluso». «Temo - conclude -, che accadimenti di questo tipo possano spingere molti cittadini a non occuparsi in alcun modo del governo della cosa pubblica, se questi sono i rischi che, per delibere addirittura collegiali, si possono correre».

Bari, la Corte d'Appello respinge richiesta risarcimento per suoli Punta Perotti. La società aveva chiesto una somma pari a 42 milioni di euro. La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Luglio 2021. La Corte di Appello di Bari ha rigettato la richiesta di risarcimento danni pari a 42 milioni di euro avanzata nei confronti del Comune dalla società GIEM, Gruppo imprenditori edili meridionali srl, che nel 1991 aveva acquistato dalla famiglia Levi Montalcini tre aree a Punta Perotti, poi confiscate nel 2001 e restituite (dopo la revoca della confisca) nel 2013. Respinta anche la richiesta che gli eredi della senatrice Rita Levi Montalcini e dei suoi fratelli, venditori dei terreni, restituissero i prezzi incassati. Secondo i giudici, che hanno così confermato la sentenza già emesso in primo grado nel marzo 2017 dal Tribunale civile di Bari respingendo l’appello della società, «la GIEM non poteva certo ignorare che la procedura di lottizzazione», poi ritenuta abusiva dai giudici penali, «era ancora tutt'altro che compiuta», quindi «la scelta di comprare i terreni in quel preciso momento, senza aspettare il termine della procedura amministrativa, fu una scelta consapevole». Per questo quei contratti di compravendita immobiliare dei quali la società chiedeva la risoluzione sono da considerarsi validi. Anzi, la Corte ha condannato la GIEM anche a pagare le spese di giudizio della famiglia Levi Montalcini, quantificandole in 85 mila euro. Nella lunga e motivata sentenza, inoltre, pur rilevando il "comportamento colpevole del Comune di Bari» per aver approvato all’epoca il piano di lottizzazione senza il nulla osta ambientale, i giudici spiegano che «la situazione urbanistica attuale dei suoli; uguale a quella del momento dell’acquisto" e, di conseguenza, «la società attrice non può lamentare di avere subito un danno». Anzi, oggi «i suoli possiedono un valore di gran lunga superiore al prezzo d’acquisto», 12,5 milioni di euro rispetto agli 11 miliardi di lire (pari a 5,5 milioni di euro) costati 30 anni fa. La vicenda riguarda terreni che facevano parte della lottizzazione di Punta Perotti, ma su cui non è mai stato edificato alcun palazzo, al contrario di quanto avvenuto sui terreni adiacenti su cui furono edificati e poi abbattuti i cosiddetti "ecomostri".

Bari piange Gianni Colajemma, stroncato dal Covid. Il sindaco: «Ci mancherai». Il ricordo dei colleghi. «Oggi questo maledetto virus si è portato via un altro pezzo della nostra città», così il sindaco Antonio Decaro su Fb. La Gazzetta del Mezzogiorno.  «Oggi questo maledetto virus si è portato via un altro pezzo della nostra città. Bari perde la risata calda e profonda di Gianni Colajemma, perde uno degli attori che hanno fatto la storia della comicità e del teatro popolare barese. Grazie di tutto quello che hai fatto per questa città, grazie per la tua arte e per la tua trascinante comicità». Così il sindaco Antonio Decaro ha annunciato con un post su Facebook la morte, causata dal Coronavirus, di Gianni Colajemma, famoso attore barese e fondatore del teatro Barium. Tantissimi i messaggi di cordoglio sui social: tutta la città ricorda commossa l'attore barese. Ecco le testimonianze dei colleghi Sinisi, Pignataro e di Uccio De Santis, assieme al messaggio di saluto di Nico Salatino, suo primo talent scout.

È morto l'attore Gianni Colajemma, il comico stroncato dal covid: “Ha fatto la storia, maledetto virus”. Vito Califano su Il Riformista il 17 Aprile 2021. È morto a 62 anni l’attore e comico barese Gianni Colajemma. Non ce l’ha fatta, l’esponente del teatro e della commedia del capoluogo pugliese, a superare il contagio da coronavirus. A darne notizia il sindaco della città e presidente dell’Anci Antonio Decaro. Colajemma ha fondato il teatro Barium. È stato attore di cinema e regista di cortometraggi. Si era contagiato a marzo scorso e le sue condizioni si sono aggravate a causa di comorbilità e da quindici giorni era in coma farmacologico. Il ricordo sui social network del sindaco Decaro: “Oggi questo maledetto virus si è portato via un altro pezzo della nostra città. Bari perde la risata calda e profonda di Gianni Colajemma, perde uno degli attori che hanno fatto la storia della comicità e del teatro popolare barese. Grazie di tutto quello che hai fatto per questa città, grazie per la tua arte e per la tua trascinante comicità. Grazie anche dei rimproveri che mi riservavi durante le nostre telefonate. Ciao Gianni, ci mancherai”. Nel suo ultimo post, il 15 marzo scorso, sui social Colajemma aveva scritto contro la chiusura dei luoghi della cultura: “Spero che qualcun un giorno si ricordi dei piccoli teatri e si chieda “come stonne a fa?” (“come stanno facendo”)?”

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Bari, l’addio a Colajemma: «Mio padre, un amico vero». Il connubio fra vita e teatro. Lucia Coppola: «Così in simbiosi che ci scambiavano per marito e moglie». Francesca Ditommaso, Carlo Stragapede il 19 Aprile 2021 su La Gazzetta del Mezzogiorno. È uscito di scena senza fare in tempo a vedere riaprire il suo Barium. Teatro chiuso, ironia della sorte, per il contenimento dei contagi. Non è bastato a salvare la vita a Gianni Colajemma. «Ho perso l’amico, il confidente, il papà che tutti avrebbero voluto avere, a cui bastava uno sguardo per capirti, che sapeva essere presente e lo faceva in punta di piedi, nascosto dietro una telefonata per dirti un banale “buonanotte, mi raccomando”. Il vuoto che lascia è troppo grande, grande quanto lui. Si chiude un sipario triste nella mia vita». Gianmarco Colajemma butta giù tutte d’un fiato le parole per dipanare il dolore per la scomparsa del padre. Gianni Colajemma era uno dei più amati protagonisti del teatro popolare e vernacolare, “artigiano” di una baresità ruspante e forte, forte ma non abbastanza da non essere travolta dal virus. Colajemma si è spento a soli 62 anni. «Purtroppo è risultato positivo al Covid ai primi di marzo - racconta Gianmarco - per un peggioramento siamo stati costretti a ricoverarlo. Era la domenica delle Palme». L’artista combatteva da qualche tempo contro una malattia del sangue, ma «era sotto controllo con una chemioterapia di mantenimento». Un paziente fragile, dunque, fragilissimo. Ma che non era stato ancora vaccinato perché, tragedia nella tragedia, quando ha contratto il virus le categorie fragili non rientravano ancora tra le priorità. «Ma non ho voglia di strumentalizzare nulla, non biasimo nessuno - commenta il figlio dell’attore -. Ho visto medici e infermieri piangere sconfitti alla fine del turno di lavoro. So delle migliaia di lettere di richiesta d’aiuto che hanno spedito alle alte sfere. A loro non si poteva chiedere di più, so quanto hanno fatto per mio padre, un uomo sempre pronto ad aiutare e consolare il prossimo. Che ha dato la sua vita per il teatro e per i baresi, in difficoltà e non. Un uomo umile, con l’animo di un bambino». Una famiglia unita, la moglie Gigia e tre figli, una ragazza, un fratello musicista e cantautore e poi Giancarlo, 30 anni ad ottobre, che da tempo affiancava il padre Gianni nella gestione del teatro Barium, quel gioiellino creato nel 1986 dall’artista con Carmine De Liddo , in arte Mino Barbarese, suo sodale fino al 1990, anno in cui la storica coppia si divise, lasciando il timone solo a Gianni Colajemma. Con la sua inconfondibile chioma arruffata, la mimica facciale e quei suoni gutturali che anticipavano e scatenavano irresistibili risate. «Un maestro, persona umile, stupenda e spesso triste, come sanno esserlo solo i teatranti di fronte alla scarsa importanza che spesso gli riserva la loro stessa terra», lo ricorda Renato Ciardo, figlio di Gianni Ciardo e anche lui attore cabarettista e musicista (fa parte, tra l’altro, del gruppo Rimbamband). «Il mio primo spettacolo l’ho fatto proprio nel suo teatro, si intitolava “Non fa niente che fa freddo ma la musica è bella”: nacque lì il personaggio Michele delle Battagliere. Recitavo in due ruoli, il futuro Michele si chiamava Gaetano ed era amico di Gianni Colajemma. L’altro personaggio era Noffrino Sansonetti, davvero esistito nella città vecchia. Abbiamo anche fatto assieme un corteo storico di San Nicola, nel 2000. Gianni era una persona buona, davvero». Difficile non volergli bene, non affezionarsi alla voce ruvida da fumatore incallito. «Una persona per bene dai valori sani e che amava più di ogni cosa la sua Bari», commenta l’hair stylist Silvia Palattella. Colajemma è stato suo cliente. «Amava le cose giuste, fatte con criterio, una persona silenziosa ma con tante cose nascoste nel suo silenzio. Non mancava mai di infondere coraggio». La stima anche di chi non aveva mai lavorato con lui testimoniava la sua cifra umana e professionale. «Non abbiamo mai lavorato insieme, non per scelta, ma perché entrambi molto impegnati con le proprie compagnie. Ma mi sarebbe piaciuto», dice l’attore barese Nicola Pignataro. «Ho conosciuto Gianni verso la fine degli anni ‘80. Lui e Mino Barbarese avevano trasformato una vecchia e malandata piccola discoteca in un accogliente teatro di periferia. Cominciava allora l’epopea dei "piccoli teatri" dopo i successi del "Piccolo" di Eugenio D'Attoma e del "Purgatorio" gestito da me. Mi invitarono ed andai a vederli in una commedia comica molto divertente. Avevo già avuto loro notizie. Gianni che, in duo con Rita Binetti iniziava a distinguersi come comico, e Mino, che avevo già sentito come cantante in un altro duo che si faceva chiamare: “I Barbaresi” da cui poi il suo nome d'arte che sostituì il “Carmine Di Liddo” all’anagrafe. Il loro successo, anche se non rapidamente esplosivo, cresceva sempre più. Avevo capito che il loro era un vero talento che doveva trasformarsi in professionismo. Infatti ci riuscirono anche se Mino lasciò il Teatro Barium per la tv e Gianni caparbiamente continuò la difficile avventura del teatro di periferia. Riuscì piano piano a trovare un posto di tutto rispetto nel mondo dello spettacolo. Ora i due, se ne sono andati, per uno strano scherzo del destino, Mino a 62 anni raggiunto dopo qualche anno da Gianni che ha atteso, penso per omaggiare un destino parallelo, anche lui i 62 anni, forse per non fare un torto al suo amico e collega di sempre». Nemmeno Uccio De Santis, altro comico barese partito dal teatro, aveva mai lavorato con Colajemma. «Ma ci stimavamo molto - sottolinea - andavo volentieri a vedere i suoi spettacoli. L’ultima volta l’ho incontrato solo due mesi fa, all’ingresso del teatro Piccinni: registrava la sua commedia. Pochi come lui hanno dato così tanto alla sua città». Nel 1991, Colajemma aveva fondato la compagnia teatrale Manifattura Tabacchi Barium con la quale aveva prodotto, interpretato e diretto un vasto repertorio di commedie di grandi autori del panorama barese, come Vito Maurogiovanni, Rocco Servodio, Bartolomeo Sciacovelli, Mino de Bartolomeo, Rosaria Barracano e Nicola Gemma. Tra i primi a dare notizia della sua scomparsa su Facebook, sabato mattina, è stato proprio il sindaco, Antonio Decaro. «Oggi questo maledetto virus si è portato via un altro pezzo della nostra città». E invece no. Troppo doloroso, pensare che possa spegnersi così la luce di un artista. E se l’attrice barese Lia Cellamare sorride immaginandolo semplicemente in una interminabile tournée, per Renato Ciardo «sarà andato a fumarsi una sigaretta, magari a trovare il suo amatissimo San Nicola». Perché il Covid non lo sa, ma un artista non muore mai. Bari piange Gianni Colajemma, stroncato dal Covid. Il sindaco: «Ci mancherai». Il ricordo dei colleghi.

TRENT'ANNI DI PALCOSCENICO - Trent’anni di palcoscenico insieme, tra la fatica creativa delle prove, l’allestimento delle scene, la cura puntuale dei costumi, gli spostamenti in tour, il debutto, il dopoteatro e una valanga immensa di affetto del pubblico, tutto condiviso per una vita. Lucia Coppola è per Gianni Colajemma quello che era Pupella Maggio per Eduardo De Filippo. Complice sulla scena e attorno alla scena, confidente, compagna ideale di un affiatamento tale che «ci capivamo al volo - racconta ancora incredula l'attrice cinquantanovenne - senza bisogno di parlare, anche quando uno dei due inventava una battuta fuori copione e l'altro, automaticamente, gli reggeva il gioco, gli faceva da sponda». L’attrice, costumista e scenografa del teatro Barium e della compagnia, confessa: «Molti ammiratori, nel tempo, ci hanno scambiati per marito e moglie, e in effetti in tre decenni non ho perso nemmeno una stagione al fianco di Gianni - racconta - nemmeno quando mi sono dovuta sottoporre alla chemioterapia e sono andata in scena con la parrucca, nella commedia Un barese a New York 1. A settembre scorso - e qui la voce è incrinata dal pianto - gli dissi che, per i 30 anni di carriera insieme a lui, avrei voluto organizzare una grande festa». La festa non c’è stata ma il cuore e la mente della artista barese sono traboccanti di fotogrammi, sapori, aneddoti e anche di sogni relizzati. «Nell'estate del 1991 - Lucia riavvolge il nastro - una mia amica, il soprano Rosa Ginaldi, mi disse che Gianni Colajemma cercava un’attrice per la sua compagnia, per il ruolo di Marietta nella commedia di Vito Maurogiovanni Chidde dì du 188 (Quei giorni del 188, affresco di personaggi che gravitano attorno a una casa di piacere in via Dante 188, nella Bari degli anni ‘30, ndr). Avevo 29 anni, i bambini piccoli e non avevo mai recitato, anche se sentivo forte la passione per il teatro. Mi presentai al Barium e lui mi fece leggere un testo ma alla fine decise che non ero pronta per il ruolo della protagonista. Mi affidò la parte secondaria della cantante del Politeama. Qualche giorno dopo, era il 5 settembre, mi telefona, “vieni a teatro, ti devo dire una cosa importante”. Insomma, il ruolo di Marietta era mio». Da allora il sodalizio si consolida sempre più, la seconda commedia Aminue amare (Mandorle amare), sempre di Maurogiovanni, va in scena il 12 ottobre. «Per coincidenza, la trama parla di una famiglia proletaria che durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale si rifugia inconsapevolmente nei sotterranei del Petruzzelli - ricorda la interprete - e un paio di settimane dopo, il 27 ottobre, il Petruzzelli fu distrutto dall'incendio». La scalata verso il successo non è facile per la squadra di artisti guidati dal capocomico poco più che trentenne. «All'inizio a volte le prenotazioni scarseggiavano e appena squillava il telefono i nostri occhi si illuminavano. Ne nacque un tormentone, u telefn, u telefn!, e la prendevamo a ridere». Poi arriva l'onda lunga dei pienoni, dell’affetto consolidato del pubblico barese che apprezza Colajemma anche come regista del corteo storico di San Nicola. Devoto in modo viscerale del Patrono Taumaturgo, a sentire la sua prim’attrice aveva un rapporto specialissimo con la gente di Bari vecchia. Io stessa ho imparato alcuni accenti ed espressioni tipiche del nostro vernacolo durante le prove costume dei figuranti della Sagra di maggio», afferma. Una delle esperienze più avvincenti della compagnia fu la trasferta negli Stati Uniti a ottobre del 2018. In un teatro di Staten Island, nella Grande Mela, Colajemma e la sua squadra rappresentano Un barese a New York 1 e 2 davanti a un pubblico divertito e commosso di baresi e molesi di seconda, terza e quarta generazione. Di quella trasferta facevano parte anche Vittoria Amore, Luca Mastrolitti, Maria Schino e Federica Antonacci. «Era sempre preoccupato che la commedia piacesse, anche dopo tanti anni di esperienza, e anche quella volta, durante il volo per gli Usa, si mostrava ansioso che ogni dettaglio fosse al suo posto, come un giovane studente alla vigilia di un esame importante». L’ultimo impegno professionale, ai primi di febbraio scorso, sulle tavole del teatro comunale Piccinni: la registrazione video di due celebri secondi atti, quelli di Chidde dì du 188 e Aminue amare, proprio le commedie dell’esordio di trent’anni prima. Colajemma, Coppola e Antonella Radicci, gli attori in scena, e i tecnici, ovviamente, si sottopongono al tampone prima e dopo. Andranno in onda stasera su Telenorba, in un omaggio al maestro scomparso. Il regista e autore da circa un anno era in cura per un linfoma. Nelle ultime settimane il contagio da Covid, rivelatosi fatale. «L'ho sentito per l’ultima volta la domenica delle Palme, il 28 marzo. Vorrei concludere questa mia testimonianza citando una frase che lui ripeteva spesso a fine spettacolo o in varie altre circostanze, c'ama fa', aveva scì d'acsì, che dobbiamo fare? doveva andare così». (Carlo Stragapede)

Profanate le tombe di Ciccio e Tore, i fratellini di Gravina: la denuncia del papà e del sindaco. Morti tragicamente nel 2006. È stata forzata la cappella e scardinate le lastre in vetro. La Gazzetta del Mezzogiorno l'08 Marzo 2021. Un paio di giorni fa «mani ignote ma esperte hanno forzato l’ingresso della cappella cimiteriale in cui riposano» i fratellini Ciccio e Tore Pappalardi «ed hanno scardinato le lastre di vetro che ricoprono le tombe». Lo denuncia su Facebook il sindaco di Gravina in Puglia, Alesio Valente, che rileva come la tragica storia dei due fratellini non abbia saziato «la fame di dolore degli sciacalli». Francesco e Salvatore, di 13 e 11 anni, scomparvero a Gravina il 5 giugno del 2006 e vennero trovati morti venti mesi dopo nella cisterna di una masseria abbandonata nella quale forse finirono durante un tragico gioco. La profanazione della tomba dei due ragazzini è stata rivelata al sindaco dal papà dei fratellini. «Me ne ha voluto parlare con la voce rotta dalla sofferenza - spiega il primo cittadino - il padre dei due fanciulli, Filippo, fiducioso che le istituzioni, anche attraverso il sindaco, e naturalmente attraverso le forze dell’ordine e la magistratura, possano aiutare a far luce su quanto accaduto, sui motivi di tanto odio vigliacco. Ho ascoltato con attenzione e con commozione le parole di Filippo ed ho voluto esprimergli tutta la mia vicinanza. Una profanazione grave, che suscita sdegno e apre la via ad un interrogativo inquietante: perché?». «Un gesto del genere, che è come sale su una ferita mai rimarginata, è un’offesa non solo ad una famiglia che piange i suoi bambini, ma ad una città intera, che forse con quella triste vicenda non ha ancora fatto del tutto i conti. Ed è forse ora di fermarsi a riflettere, nel nome della verità».

PUGLIA. FARE CHIAREZZA SULLO SCANDALO VACCINAZIONI DENUNCIATO DA LACARRA (PD). Il Corriere del Giorno l'11 Marzo 2021. “E’ ora di chiarire se sia stata la Regione a permettere priorità differenti rispetto a quelle definite dallo Stato. Il silenzio di Emiliano e di Lopalco può insinuare la percezione che i veri furbetti siano stati loro con proprie Circolari e non chi ha osservate queste Circolari di cui si parla. Aspettiamo che Emiliano e Lopalco con voce istituzionale ammettano o smentiscano l’esistenza di queste loro circolari”. La Puglia ha utilizzato circa il 90% delle dosi ricevute del vaccino anti-Covid, circa 300mila pugliesi hanno ricevuto la prima dose. Secondo l’accusa del coordinatore regionale del PD, l’on. Marco Lacarra, fra questi ci sarebbero gli autori dei crimini vergognosi, ovvero i furbetti che sorpassando tutti hanno ricevuto la vaccinazione prima degli altri. I NAS faranno tutti i controlli, ma secondo Ignazio Zullo, capogruppo di Fratelli d’ Italia al Consiglio regionale pugliese, “la sensazione che si fa strada via via in questi giorni è che i furbetti non sono coloro che hanno avuto la dose, ma coloro hanno pensato e firmato circolari in deroga alle linee guide nazionali. Alle priorità stabilite dal Ministero della Salute secondo le quali dovessero prima essere vaccinati gli operatori sanitari e gli ultraottantenni“. La Regione Puglia ha esteso questa opportunità non solo a dipendenti di strutture sanitarie che non lavorano nei reparti, alcuni sono anche a casa in smart-working, ma anche a quelli di alcune Agenzie regionali ritenute “strategiche” per l’emergenza pandemica. “Insomma, è la Regione Puglia che ha preferito vaccinare i suoi amministrativi, tecnici, consulenti, dipendenti a progetto piuttosto che le categorie fragili? Si parla di deroghe emanate dalla Regione che noi non conosciamo, né la comunicazione istituzionale del presidente – così solerte nel pubblicizzare tutto – né l’assessore Lopalco in qualche sua comparsata in Tv ha spiegato se sono stati loro con proprie circolari a permettere che un dipendente di un’Agenzia regionale di vaccinarsi prima di un malato oncologico, o di un disabile o di un cardiopatico o di una persona affetta da malattia rara” aggiunge Zullo. “Affinché si tolga ogni dubbio, è ora di chiarire se sia stata la Regione a permettere priorità differenti rispetto a quelle definite dallo Stato. Il silenzio di Emiliano e di Lopalco può insinuare la percezione che i veri furbetti siano stati loro con proprie Circolari e non chi ha osservate queste Circolari di cui si parla. Aspettiamo che Emiliano e Lopalco con voce istituzionale ammettano o smentiscano l’esistenza di queste loro circolari. Sarebbe un bel chiarimento sui furbetti, se stanno in alto e alla testa che, con riferimento al pesce, è la prima ad andare in putrefazione.” conclude il capogruppo di Fratelli d’ Italia al Consiglio regionale pugliese.

Puglia, in un mese 7mila vaccinazioni anti Covid «anomale»: è caccia ai «furbetti». Lo sostiene il presidente della I commissione Sanità del Consiglio regionale, Fabiano Amati (Pd) che oggi ha ricevuto gli elenchi dei vaccinati per le verifiche sui chi non ne aveva diritto. La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Aprile 2021. In Puglia, solamente nella fase 1, tra dicembre e gennaio, sarebbero state effettuate oltre 7mila vaccinazioni anti Covid «anomale»: lo sostiene il presidente della I commissione Sanità del Consiglio regionale, Fabiano Amati (Pd) che oggi ha ricevuto gli elenchi dei vaccinati per le verifiche sui presunti «furbetti». «Limitando l’osservazione al periodo dicembre-gennaio - spiega - risultano 7.305 vaccinazioni anomale, prescindendo dagli operatori sanitari su cui c'è bisogno di approfondimento perché cresciuti a dismisura. Dicono questo, a prima vista, gli elenchi dei vaccinati sino al 12 aprile scorso». Secondo Amati, tra il 27.12.2020 - 31.01.2021, «risultano ammessi al beneficio della vaccinazione 6.593 operatori non sanitari in Rsa, 389 persone prive di indicazioni sulla categoria professionale di appartenenza, 243 persone adibite ad altra attività lavorativa a rischio, diversa cioè da quella di operatore sanitario in strutture ospedaliere o Rsa e 14 persone con attività a contatto con animali. Dati decisamente anomali». Sino al 12 aprile ci sono anche 66 minorenni vaccinati, di cui «23 per appartenenza a categoria non specificata, 34 alla categoria degli operatori sanitari, 5 operatori sanitari in RSA, 3 operatori scolastici e 1 forze di polizia». 

Nicola Apollonio per “Libero Quotidiano” il 16 aprile 2021. Prendo in prestito un vecchio adagio che ben ci sta per fotografare la difficile situazione che si è venuta a creare in Puglia nella campagna di vaccinazione contro il Covid-19: Piove sul bagnato! Il guaio è che non si tratta di una pioggerellina, ma di una specie di temporale. È sceso in campo persino l' autorevole giornale inglese Financial Times per dire che «la Puglia è forse il miglior esempio del sistema disfunzionale delle vaccinazioni», con particolare riferimento ai furbetti che mettono in pericolo la vita di molti anziani over 80. Ed è proprio questa la nota dolente che sta mettendo in ansia la fascia più debole della popolazione, costretta a dover fare i conti non solo con i vaccini che arrivano col contagocce ma, soprattutto, con quella massa di strafottenti catalogati nella categoria "altro". Quasi l' 8% delle somministrazioni effettuate in Puglia fino a pochi giorni fa (56mila su 708mila). Tanto che lo stesso commissario Francesco Paolo Figliuolo si è visto costretto a chiedere per la seconda volta al presidente Emiliano e all' assessore Lopalco di spiegare che cosa ci sia dentro quell'"altro", un calderone nel quale si sospetta che possano nascondersi i famigerati "furbetti", cioè tutte quelle persone che avrebbero ottenuto una somministrazione del vaccino senza averne titolo. Se ne stanno occupando anche i Nas su delega del pm barese Baldo Pisani, per verificare se corrisponde al vero ciò che si racconta, e cioè che una dose su 5 sia stata somministrata a persone che non rientravano nelle categorie previste dalle circolari del Dipartimento della salute. Ma si dice pure che qualcuno stia lucrando sul vaccino vendendo dosi in cambio di soldi, mentre ci sono persone quasi centenarie, come la signora Giuseppina Tundo di Aradeo, in provincia di Lecce, 96 anni, che da giorni aspetta di avere inoculato il famoso siero. Ora, tutto si può dire meno che il duo Emiliano-Lopalco abbia marciato spedito. Il fatto stesso che la Puglia si trovi ancora in fascia rossa vuol dire che i programmi e le strategie messe finora in atto non hanno funzionato come ci si auspicava. E per questo, giorni fa, richiesto dai capigruppo e promosso dalla presidente del Consiglio regionale Loredana Capone, si è avuto un incontro con l' assessore alla sanità Pierluigi Lopalco, presente anche il vice presidente di Anci Puglia, Domenico Vitto, durante il quale sono state rappresentate le tante difficoltà che hanno caratterizzato finora l' intera campagna di vaccinazione. Non esclusa la polemica sul personale sanitario che non si è ancora sottoposto alla vaccinazione e che lo stesso Lopalco ha definito «un rifiuto non corretto e non deontologico per medici e infermieri». Sulla vicenda ha fatto sentire la propria voce anche Fdi, secondo cui «la Puglia è impietosamente ultima in Italia per le vaccinazioni»; e ha tirato in ballo uno studio dei ricercatori di YouTrend dal quale risulterebbe che dare la priorità alle persone anziane sia la migliore strategia possibile per combattere e vincere la pandemia. Che è quello che vanno predicando da tempo alcuni politici accorti. Sembra, però, che in Puglia non voglia proprio tornare il sereno.

Coronavirus, in Puglia la "variante studentesca": come nasce l'ossessione di Emiliano di chiudere le scuole "prima di tutto". Giuliano Foschini su La Repubblica l'11 marzo 2021. Da domani i bambini e i ragazzi delle province di Bari e Taranto troveranno le aule chiuse e i bar aperti. La Puglia è la regione d’Italia dove, stando alle statistiche di Save the children, i bambini delle scuole materne ed elementari hanno perso più giorni in presenza: ecco perché. In Puglia esiste una particolare variante, resistente a ogni tipo di vaccino o di forma di distanziamento: la variante studentesca. Non si spiegherebbe altrimenti la passione (o ossessione) del Governatore, Michele Emiliano, che a ogni innalzamento della curva (o, come gli hanno fatto notare anche i giudici, in alcuni casi anche quando il picco non c’era) per prima cosa chiude le “scuole di ogni ordine e grado”. E solo quelle. Per dire: da domani, venerdì 12 marzo, i bambini e i ragazzi delle province di Bari e Taranto troveranno le aule chiuse e i bar aperti. Non potranno andare a scuola ma sarà consentito loro andare a mangiare al ristorante, o magari andare da un parrucchiere o a giocare a tennis o a calcetto, basta avere una tessera agonistica, e le statistiche dicono che c’è stato un picco di agonisti in Puglia come nel resto d’Italia. E non è un'iperbole: la scorsa settimana a Fasano il sindaco ha chiuso in anticipo le scuole mentre decine di migliaia di persone si riversavano nella frazione marina di Savelletri per mangiare i ricci più famosi d’Italia, sfruttando il mese con la “R”, marzo, quando la pesca e la vendita è consentita. Nonostante le apparenze, in tutto questo il folklore non c’entra nulla. Ma è una questione serissima di salute pubblica, diritto all’istruzione. E dunque di politica nel senso più pieno. Come ogni cosa, è bene partire dai numeri: la Puglia è la regione d’Italia dove, stando alle statistiche di Save the children, i bambini delle scuole materne ed elementari hanno perso più giorni in presenza. Se a Roma, non ne hanno mancato nemmeno uno, a Bari più della metà. Nelle medie e superiori si è invece secondi soltanto alla Campania di De Luca. Regioni sanitarie non sembrano esserci: il contagio in Puglia non è andato più veloce che altrove, anzi. Emiliano, e con lui l’assessore alla Salute, l’epidemiologo di fama internazionale Pierluigi Lopalco, hanno però sempre ritenuto le scuole principali vettori del contagio. O meglio, le versioni sono state tante: veicolo di contagio. Moltiplicatore di tracciamento, e dunque troppe le persone da controllare con i Dipartimenti di prevenzione che erano in tilt. Strumento necessario per la tutela dei lavoratori, con i professori che in aula rischiavano di ammalarsi. A seconda della necessità, veniva utilizzata una delle alternative. E così alla fine le ordinanze di chiusura sono state dieci, di cui alcune cassate dal Tar e poi riformulate. Nel frattempo i professori hanno cominciato il ciclo di vaccinazione che procede spedito. E così anche quando le scuole erano aperte, in realtà erano chiuse: i professori si sono ammalati in massa (rivedendo ogni statistica sugli effetti collaterali del vaccino Astrazeneca) e ci sono stati bambini che sono rimasti a casa fino a quattro giorni dopo la vaccinazione dei loro docenti, che non erano al lavoro perchè ammalati.

In ogni caso da domani si chiude di nuovo: la nuova ordinanza, come chiesto dai giudici amministrativi, contiene a supporto i dati epidemiologicie statistici che effettivamente sono assai rilevanti. In Puglia è partita la terza ondata, la situazione è serissima e delicatissima, i numeri sono incontrovertibili, gli ospedali sono al collasso. Ma perchè soltanto le scuole? Emiliano è uomo intelligente e politico esperto, dunque ogni cosa ha un senso.

1)    Non chiude le attività commerciali perché aspetta che lo faccia il Governo nazionale: sul banco c’è la questione ristori e la Regione non è in grado di far fronte alle legittime aspettative dei commercianti. Inoltre, a Roma viene scaricata anche la responsabilità della decisione;

2)    La chiusura delle scuole è solo in parte impopolare. Spacca a metà l’opinione pubblica, quello che Emiliano , come dimostrano le vicende Ilva e Tap, preferisce. Nella peggiore delle ipotesi, il 50 per cento è con lui.

3)    La Puglia oggi è in overbooking di posti letto, nonostante a Bari ci sia un ospedale con più di 150 posti letto, costato 18 milioni, rispetto agli otto previsti inizialmente, che è vuoto. Doveva entrare in funzione da mesi, promesse su promesse, e invece niente. E anche quando entrerà in funzione la capienza non aumenterà: il nuovo ospedale della Fiera sostituisce, non aggiunge. La Procura sta verificando se tutto è stato fatto come si deve. Per la valutazione politica, allo stato, non è necessario però aspettare le indagini della magistratura. La campagna vaccinale procede spedita (la Puglia è tra le prime regioni in Italia come percentuale di somministrazioni) ma non senza difficoltà: c’è stato un pasticcio sulle prenotazioni degli over 80 in domiciliare, non sono partiti gli over 70. E soprattutto molte polemiche si sono sollevate sulle liste dei vaccinati: su tutti, il presidente di un’agenzia regionale, Assett, l’ingegner Elio Sannicandro, indagato in un'inchiesta su alcune presunte tangenti, che si è vaccinato prima del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Dibattere, polemizzare sulla chiusura delle scuole significa anche non parlare di tutto questo.

IL TAR PUGLIA SOSPENDE L’ORDINANZA DI MICHELE EMILIANO SULLA SCUOLA. Il Corriere del Giorno il 24 Febbraio 2021. La decisione della Regione è contraddittoria nelle sue motivazioni e non coerente con la classificazione della Puglia in zona gialla. Secondo il TAR Puglia Regione Puglia nell’ordinanza di Emiliano “non motiva a sufficienza il sensibile scostamento dal livello nazionale di garanzia dell’assolvimento dei servizi scolastici”. Secondo il presidente della Terza sezione del TAR Puglia, Orazio Ciliberti la decisione della Regione è contraddittoria nelle sue motivazioni e non coerente con la classificazione della Puglia in zona gialla. Emiliano è intervenuto sugli standard minimi fissati per la didattica dal Dpcm del 14 gennaio con l’obiettivo di consentire la vaccinazione degli operatori scolastici che, però, non può essere effettuata in soli 15 giorni: “Il limite del 50 per cento una soglia al di sotto della quale deve ritenersi non sufficientemente assolto, né garantito lo standard minimo dei servizi scolastici“ si legge nel provvedimento . La Regione Puglia nell’ordinanza di Emiliano “non motiva a sufficienza il sensibile scostamento dal livello nazionale di garanzia dell’assolvimento dei servizi scolastici”, ed inoltre il riferimento alla necessità di vaccinare tutti gli operatori scolastici non convince. “I tempi prevedibili e previsti di tale attuazione – non indicati dall’ordinanza, ma ricavabili da comunicati delle strutture sanitarie pubbliche e da univoche notizie di stampa – non sono affatto compatibili con la durata di pochi giorni dell’efficacia dell’ordinanza“. Ancora una volta il Tribunale Amministrativo Regionale pugliese, ha annullato un’ordinanza del Governatore Michele Emiliano, che nonostante sia ancora un magistrato “dormiente” (in aspettativa) dimostra di utilizzare i poteri regionali a suo uso e consumo. L’udienza per la sospensiva è stata fissata al 17 marzo, oltre la scadenza dell’ordinanza. Il Governatore però in serata, calpestando ed ignorando la sentenza del TAR che lo ha ridicolizzato, ha annunciato un nuovo provvedimento per superare la decisione giudice amministrativo. Emiliano con la solita nota stampa della Regione Puglia ha giustificato il suo comportamento arrogante “Per evitare contrasti col provvedimento del giudice sto per emettere un’ordinanza che lega la temporanea sospensione della didattica in presenza ad un termine per la esecuzione della campagna vaccinale nelle scuole. Con questo si soddisfa un’esplicita richiesta di motivazione” aggiungendo “Sono costretto ad intervenire per evitare che domani le scuole siano improvvisamente invase, in mancanza di provvedimenti di regolazione sanitaria, da tutti gli studenti in presenza con danno gravissimo per la salute del personale scolastico in piena pandemia da “variante inglese” che ormai sta sostituendo le altre meno pericolose e meno contagiose”. I sindacati della scuola, con nota congiunta Cgil Scuola, Cisl, Uil, Gilda e Snals alle dichiarazioni di Lopalco che paventavano una proroga della Dad per tutta la primavera, hanno dichiarato la loro ferma contrarietà ribadendo la proclamazione dello stato di agitazione in caso di provvedimenti della Regione. Reazioni anche da parte dell’opposizione. “La posizione assunta da Fratelli d’Italia è una battaglia di civiltà, con la consapevolezza che questo centrosinistra continua a prendere in giro i pugliesi. Per questo lo abbiamo detto in aula e lo ribadiamo: la proposta del PD è una modifica di legge farlocca! Perché fa credere che si rende obbligatoria la vaccinazione anti-covid agli operatori sanitari, ma di fatto non è così. Perché quando si parla di obbligo vaccinale si parla di un obbligo che può essere stabilito solo dallo Stato, e per tutta la popolazione. Peraltro si tratta di una modifica di legge inutile, visto che lo stesso assessore Pierluigi Lopalco ha ribadito che nel testo non si fa altro che incentivare la vaccinazione. Perché la Regione, è bene ribadirlo, non pu? disporre obblighi in assenza di una legislazione nazionale. Questa legge non parla, infatti, di obbligo, ma recita una cosa lapalissiana: "la pratica di prevenzione si applica anche per la vaccinazione anti-Coronavirus-19 purché la pratica di prevenzione sia prescritta in forma di obbligo di legge statale"”. Continua la dichiarazione del gruppo regionale di Fratelli d’Italia: “Se poi si vuole rendere obbligatorio il vaccino anti-Covid, si solleciti allora il Governo nazionale. Noi di Fratelli d’Italia abbiamo anche proposto di presentare una mozione, ma l’ex premier Conte aveva sostenuto che non avrebbe mai inserito l’obbligatorietà: ora è subentrato il Governo Draghi, magari la pensa diversamente. Ma evitiamo di dare false informazioni facendo credere che da questo momento gli operatori sanitari hanno l’obbligo di vaccinarsi. Volersi appuntare medaglie per far credere all’esterno che la Puglia è la prima regione che impone la vaccinazione è una fake news: appunto una notizia farlocca“. “E che sia tale lo sa anche bene la stessa maggioranza, visto che fino a tarda sera ha cercato di avere in aula numeri che non c’erano…e che hanno trovato dopo un’ora, dando vita a una votazione molto più pittoresca di film comico. La dignità del Consiglio regionale non è mai caduta così in basso” conclude la nota di Fratelli d’Italia.

Scuole, il Tar «boccia» Emiliano ma lui fa una nuova ordinanza: torna il «fai da te». Il giudice: ordinanza non coerente con la classificazione della Puglia in zona gialla. Il Governatore: correggo il tiro ma non posso consentire un'invasione a scuola. La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Febbraio 2021. Il governatore della Puglia Michele Emiliano ha emanato una nuova ordinanza e lo ha fatto ieri era poco prima della mezzanotte, dopo che i giudici del Tar avevano bocciato, su ricorso del Codacons Lecce, la sua precedente ordinanza emanata lo scorso fine settimana che disponeva la Dad (Didattica a distanza) al 100% in tutte le scuole di ogni ordine e grado, dal 22 febbraio al 5 febbraio. Ieri sera, come detto, Michele Emiliano ha corretto il tiro e, dopo aver anticipato di voler emanare un nuovo provvedimento che legava la temporanea sospensione della didattica in presenza ad un termine per la esecuzione della campagna vaccinale nelle scuole, ha firmato invece firmato una nuova ordinanza valida da oggi al 14 marzo, che ripropone la Ddi (didattica digitale integrata), ma con due novità significative: il prolungamento della durata fino al 14 marzo; la possibilità per le famiglie di richiedere la didattica in presenza presso le scuole dell’infanzia e del ciclo primario, dove è stata rimossa la soglia del 50% della popolazione studentesca per classe. Tale limite rimane invece nelle scuole superiori.

Qui il testo della nuova ordinanza, la n.58

IERI, GIORNATA CONVULSA - E' durata solo poche ore l'ipotesi di un rientro in aula nelle scuole elementari e medie pugliesi, mentre alle superiori restava la didattica a distanza al 50%, dopo il decreto urgente del Tar di Bari che ha sospeso l'ordinanza del presidente Michele Emiliano che per due settimane aveva imposto la scuola "fai da te", lasciando agli istituti la possibilità di organizzarsi per garantire fino al 50% di lezioni in presenza. Il Governatore, in serata, ha annunciato un nuovo provvedimento che dovrebbe superare il giudice amministrativo. Per farla breve, non cambia nulla. Ma questo tira e molla sta gettando nel caos decine di migliaia di famiglie. L'approccio della Regione - secondo il presidente della Terza sezione, Orazio Ciliberti - appare contraddittorio nelle sue motivazioni e non coerente con la classificazione della Puglia in zona gialla: Emiliano è intervenuti sugli standard minimi fissati per la didattica dal Dpcm del 14 gennaio con l'obiettivo di consentire la vaccinazione degli operatori scolastici che, però, non può essere effettuata in soli 15 giorni: "Il limite del 50 per cento - è detto nel provvedimento - è una soglia al di sotto della quale deve ritenersi non sufficientemente assolto, né garantito lo standard minimo dei servizi scolastici". La Puglia "non motiva a sufficienza il sensibile scostamento dal livello nazionale di garanzia dell’assolvimento dei servizi scolastici", e non convince il riferimento alla necessità di vaccinare tutti gli operatori scolastici. "I tempi prevedibili e previsti di tale attuazione - non indicati dall’ordinanza, ma ricavabili da comunicati delle strutture sanitarie pubbliche e da univoche notizie di stampa - non sono affatto compatibili con la durata di pochi giorni dell’efficacia dell’ordinanza". L'approccio "chiudo le scuole in attesa del vaccino", dunque, non va bene. "Se l’esigenza fondamentale fosse davvero quella dichiarata di consentire la “attuazione del piano vaccinale degli operatori scolastici”, il provvedimento regionale impugnato dovrebbe essere prorogato o rinnovato per un periodo più lungo, la qual cosa non potrebbe che vanificare l’apporto didattico e formativo dell’anno scolastico 2020-2021 per alunni e studenti in Puglia, in violazione dei livelli essenziali di prestazione fissati dallo Stato". L'udienza per la sospensiva è fissata al 17 marzo, oltre la scadenza dell'ordinanza che, a questo punto, potrebbe essere superata da un nuovo provvedimento. Intanto i sindacati della scuola, con nota congiunta Cgil Scuola, Cisl, Uil, Gilda e Snals alle dichiarazioni di Lopalco che paventavano una proroga della Dad per tutta la primavera, hanno dichiarato la loro ferma contrarietà ribadendo la proclamazione dello stato di agitazione in caso di provvedimenti della Regione. Il Tar, ora, ha rimesso tutto in discussione. Come già detto, però, Emiliano ha deciso di confermare la sua linea. «Per evitare contrasti col provvedimento del giudice - ha anticipato in una nota inviata dalla Regione -  sto per emettere un’ordinanza che lega la temporanea sospensione della didattica in presenza ad un termine per la esecuzione della campagna vaccinale nelle scuole. Con questo si soddisfa un’esplicita richiesta di motivazione». E aggiunge: «Sono costretto ad intervenire per evitare che domani le scuole siano improvvisamente invase, in mancanza di provvedimenti di regolazione sanitaria, da tutti gli studenti in presenza con danno gravissimo per la salute del personale scolastico in piena pandemia da “variante inglese” che ormai sta sostituendo le altre meno pericolose e meno contagiose».

TROMBATI, FEDELISSIMI, PARENTI & INDAGATI ALLA CORTE DI MICHELE EMILIANO. Il Corriere del Giorno il 23 Febbraio 2021. Il vicepresidente del Sepac non avrebbe i titoli per ricoprire il ruolo e per questo non avrebbe partecipato all’avviso pubblico che dava vita alla short list, dalla quale il presidente Emiliano avrebbe dovuto attingere i componenti del Comitato regionale. E il "nominato" fratello del deputato e coordinatore regionale del Pd, Marco Lacarra, avrebbe avuto una corsia diretta e privilegiata. “Dopo le nomine dei trombati alle regionali e riciclati come consiglieri di Emiliano pensavamo francamente di aver visto tutto. Ma negli ultimi giorni leggiamo articoli di stampa che fanno apparire come ‘verginelli’ i 10 consiglieri del presidente Michele Emiliano” ha commentato in un comunicato congiunto il gruppo consiliare regionale di Fratelli d’ Italia. “Abbiamo letto della portavoce del presidente del Consiglio, Loredana Capone, il cui compenso di 91mila euro pone già qualche problema di curriculum, convinti come siamo che chi ricopre un ruolo istituzionale cos? importante, per la comunicazione del Consiglio regionale, debba possedere titoli ed esperienza idonei, ma soprattutto non dovrebbe mai lanciarsi in offese alle ministre di Forza Italia (visto che la presidente Capone nel suo discorso di insediamento ha fatto del valore della parità di genere la connotazione della sua presidenza) e a politici dell’area minoritaria in Consiglio (il centrodestra). Restiamo convinti che non bastino le scuse per archiviare una bruttissima pagina del Consiglio regionale” continua la nota. “Ma questa mattina apprendiamo che il vicepresidente del Sepac non avrebbe i titoli per ricoprire il ruolo e per questo non avrebbe partecipato all’avviso pubblico che dava vita alla short list, dalla quale il presidente Emiliano avrebbe dovuto attingere i componenti del Comitato regionale. E il ‘nominato’ fratello del deputato e coordinatore regionale del Pd, Marco Lacarra, avrebbe avuto una corsia diretta e privilegiata: è approdato sulla poltrona senza passare dal VIA!“ “Ma oltre ai trombati, ai fedelissimi e ai parenti, esiste un’altra categoria di politici scelti da Emiliano per amministrare la cosa pubblica – vale a dire i soldi dei pugliesi – che messi alla prova come imprenditori hanno fallito. Stiamo parlando sia del direttore generale dell’Arpal, Massimo Cassano – indagato per bancarotta fraudolenta per il fallimento di una società della quale è stato anche lui (insieme ad altri) amministratore unico per sei anni – sia dell’assessore al Personale, Gianni Stea, che in qualità di amministratore di un’azienda di import-export di prodotti ortofrutticoli non ha pagato contributi e tasse allo Stato per oltre 2 milioni e 650mila euro. Un dubbio ci assale: ma due imprenditori che nel privato non sanno gestire le aziende che hanno, sono le persone più idonee ad amministrare la Cosa Pubblica?” si chiedono i consigliere regionali pugliesi di Fratelli d’ Italia. “Insomma, negli anni passati avevamo sempre denunciato lo squallido mercimonio che Emiliano e il centrosinistra avevano fatto delle nomine di loro competenza, ma francamente mai si era scesi a questo livello” conclude Fratelli d’ Italia.

Manuel De Nicolò. Il Giornale di Putignano Mercoledì 18 Novembre 2009.  Alcune settimane fa, Joshua, un bambino di 33 mesi dopo tante cure e di chemio presso l’oncologico pediatrico di San Giovanni Rotondo, ha fatto ritorno a casa sua a  Putignano. I medici gli avevano dato poche speranze di vita forse questione di  mesi, i genitori erano in preda a una disperazione nera. Amici e parenti, per il ritorno a casa  del piccolo bambino, però per sdrammatizzare gli eventi, hanno organizzato una festa di “benvenuto”. Un lungo striscione era sospeso sotto casa nel quartiere di San Filippo Neri  e una piccola festa con i compagni della scuola materna è stata organizzata presso il Conservatorio S. Maria degli Angeli a cura della dott.ssa Paola Troilo e della maestra Marianna, dove il piccolo ha  frequentato la sezione Primavera. Una festa “triste”, sembrava l’ultimo addio a questo sfortunato bambino. I giorni sono passati e la vita quotidiana ha ripreso il suo cammino. La scorsa settimana il telegiornale di RAI 3, ha dato la notizia che un bambino di Putignano aveva ricevuto una Grazia di guarigione dopo un pellegrinaggio a Medjugorje. “Il bambino che a seguito del tumore non poteva camminare,  giunto nel paesino della Bosnia, appena sceso dal pullman ha iniziato a correre con grande meraviglia dei genitori. - racconta il cronista -  In seguito sono state eseguiti degli esami clinici che hanno evidenziato una riduzione della massa tumorale da 7,5 cm e 3 cm e la cicatrizzazione delle metastasi alle ossa.” Un caso unico che ha fatto gridare al miracolo. Il bambino che ha ricevuto la “Grazia” dalla Madonna è Joshua De Nicolò, figlio di Manuel (famoso attore della sit com “Family very strong”)  e della putignanese Elisabetta de Venere. La notizia giornalistica ha creato stupore e meraviglia tra tutti i cittadini che erano a conoscenza della “via crucis” di questo piccolo figlio di Dio, anche perché Manuel e Betta non sono dei cattolici praticanti, ma dei “Cristiani fai da te” che fino a ieri hanno seguito per tradizione la fede cristiana. La famiglia De Nicolò nel suo viaggio a Medjugorje ha conosciuto il famoso giornalista Paolo Brosio ed ha incontrato la veggente Mirjana. Paolo Brosio ha voluto inserire un capitolo sulla storia di Joshua nel suo libro “A un passo dal Baratro” che sarà in vendita nelle edicole il prossimo 17 novembre e che gli introiti saranno devoluti a favore di un orfanotrofio e una casa per anziani del posto. Paolo Brosio, per testimoniare la sua esperienza di vita, è già stato il 25 ottobre a un raduno di fedeli ad Andria (12 mila presenze). Brosio, è disposto anche a venire a Putignano ospite della famiglia de Nicolò per presentare il suo libro e essere testimone di fede. Per realizzare questo evento si chiederà  la collaborazione organizzativa  della clinica Giovanni Paolo II di S. P. Piturno che dispone di una ampia sala congressi, del sindaco de Miccolis e dell’associazione Polis dell’avv.ssa Elisabetta Console.

Ma come mai questa famiglia è andata in pellegrinaggio a Medjugorje, santuario mariano poco conosciuto ai “cristiani sbadati”?

“Dopo tante disavventure mediche e preso dalla disperazione avevo pensato di portare Joshua a Lourdes – racconta Manuel al Giornale di Putignano -. L’unico santuario Mariano che conoscevo. Ma un giorno mentre ero a San Giovanni Rotondo, mi recai nella cripta di Padre Pio e  in un momento di disperazione gli chiesi a muso duro: “Perché proprio a mio figlio? Dammi un segno per tornare a sperare”. Dopo l’incontro con Padre Pio tornai all’ospedale e mentre camminavo per il corridoio del reparto si accese un totem di un computer dove mi apparve il viso della Madonna. E’ stato un flash che mi ha turbato. Quando sono entrato in camera ho trovato mia moglie che mi ha raccontato che Joshua non voleva dormire e che grazie a delle canzoni mariane aveva trovato serenità e calma. Ci informammo sulle musiche che avevano fatto riaddormentare nostro figlio. Erano canzoni dedicate alla Madonna di Medjugurie.  Non sapevamo neanche dell’esistenza di un paese chiamato Medjugorie. Ma la Madonna ci chiamava e ci ha dato un altro segno. Tra le riviste sparse nella sala d’attesa dell’ospedale c’era uno speciale di “Oggi” in cui parlava della Madonna che era apparsa a 6 veggenti bosniaci nel 1981 e dei suoi miracoli di guarigione. Dopo aver letto questo articolo abbiamo deciso di partire immediatamente. I medici ci sconsigliavo questo viaggio perché Joshua aveva le piastrine sanguigne molto basse (5.000), ma noi eravamo fortemente decisi. Il giorno che siamo partiti misteriosamente le piastrine di nostro figlio sono arrivate a 160.000.”

Ad ascoltare il racconto di Manuel, mi rendo conto che la Madonna di Medjugorje aveva già fatto un altro grande miracolo. Aveva ridato la speranza e la gioia di non essere più soli nella disgrazia a questi due genitori .

LA MADONNA PARLA CON MANUEL - Manuel, con fervore cristiano racconta il suo incontro con la Madre di Dio: “Mi viene spesso a trovare e gli parlo. Sono stato pure perseguitato dal demonio. Ma io ho resistito. Pensavo di avere delle allucinazioni ed ho chiesto alla Madonna di farmi vedere un Santo per provare che Lei non era una mia allucinazione. La Madonna mi ha mandato in visione San Michele Arcangelo. Alcuni giorni dopo questa apparizione sono stato chiamato ad uno spettacolo di beneficenza a Foggia. Il sindaco della città nel ringraziarmi della partecipazione gratuita mi ha donato una statua di San Michele. In quel momento ho pensato: Allora è vero!!! La Madonna mi parla e mi consiglia.”

Questi racconti di fede e conversione spesso lasciano increduli anche i fedeli praticanti e a volte si rischia di cadere in eccessi di fanatismo religioso. Manuel non è l’unico che crede di vedere la Madonna o i Santi. Ci sono fedeli che hanno queste stesse visioni, ma per paura di essere presi per pazzi o visionari, tacciono.

Non hai paura che ti prendono per un pazzo con queste storie delle visioni della Madonna?

“No!!! Ne parlo pubblicamente perché la Madonna mi ha chiesto di dare testimonianza delle Grazie che mi ha donato. Anche Paolo Brosio e Mirjana mi hanno consigliato di seguire gli insegnamenti della Madonna e di rendere pubblica testimonianza. Anche Paolo Brosio all’inizio temeva di essere preso per un fanatico o per un pazzo. Ma la fiducia nella Madre di Dio è immensa e perciò ha scritto un libro “A un passo dal baratro” per aiutare chi si trova nel dolore e si sente solo.”

Hai visto il diavolo, cosa è successo?

“E’ accaduto dopo che mi sono arrabbiato con padre Pio a San Giovanni Rotondo. La sera quando sono andato a letto, mentre stavo per addormentarmi ho sentito un peso sul mio letto. Mi sono voltato è ho visto un saio con il cappuccio che saltava.  Terrorizzato ho guardato quel saio e ho notato che all’interno non c’era nessuno. All’improvviso mi è saltato addosso e mi ha fatto “nuovo, nuovo”. Non ho mai avuto paura in vita mia, ma quella sera me la sono fatta addosso. Il giorno dopo sono andato da un  frate francescano della chiesa per raccontare il fatto e lui mi ha detto che era il diavolo che mi perseguitava perché non voleva che mi convertirsi e chi mi avvicinassi a Gesù e alla Madonna. Mi stava perdendo. Per protezione contro il demonio mi ha regalato un rosario con cui recito le Ave Maria.”

Hai una grande devozione per San Padre Pio?

“Si, perché io e Betta abbiamo sempre pensato che Joshua parlasse con Padre Pio da quando aveva 8 mesi. Un giorno è  successo  che con lo sguardo perso nel vuoto parlava come se avesse un interlocutore. Gli chiedemmo con chi parli? E lui sorridente disse “Pa Pio” indicando un quadro che era appeso nella nostra casa. Quando abbiamo scoperto che il bambino aveva un tumore è stato il giorno 23, giorno in cui è morto Padre Pio. E’ stato un segno. Quando siamo andati a Medjugorje, io povero cristiano poco esperto di cose della Chiesa,  avevo paura che San Padre Pio fosse geloso di questo pellegrinaggio. I frati, invece, mi dissero, che Padre Pio voleva che noi ci rivolgessimo alla Madre di Dio e di Gesù. San Padre Pio non fa miracoli, intercede per noi presso Nostro Signore. A Medjugorje abbiamo incontrato  la veggente Mirjana a cui la Madonna ha chiesto di pregare principalmente per i non credenti e per chi frequenta la Chiesa per tradizione e non per fede. Lei ci ha detto che non siamo soli e di testimoniare sempre la nostra esperienza per  aiutare il prossimo che ha perso la speranza.”

Un uomo misterioso e una donna sconosciuta consigliano l’operazione a Firenze.

“Il 17 novembre Joshua, si recherà a Firenze per sottoporsi a un difficile intervento chirurgico per togliere il “neuroblastoma mediastinico tra il cuore e i polmoni, con infiltrazione midollare e  metastasi scheletriche”. Una operazione difficilissima che i medici di San Giovanni Rotondo o di Milano non hanno voluto effettuare. Anche questo evento, racconta Manuel, è nato da un segno ricevuto dalla Madonna, infatti: “Avevo perso la speranza di poter operare mio figlio, ma un giorno mi sono recato a Canosa. Ho avuto problemi ad una gomma dell’auto e sono andato da un gommista. Mentre ero in attesa della riparazione si è avvicinato un uomo che non avevo mai visto prima in vita mia e mi ha detto: “Come sta Joshua?”.

Gli ho spiegato che non trovavo dei medici disposti ad operarlo. L’uomo mi ha detto di seguirlo e mi ha presentato una signora a cui ha raccontato la mia storia. La donna, che aveva vissuto una storia simile con suo fratello di 17 anni, ci ha consigliato di rivolgerci all’ospedale di Firenze. E mi ha ringraziato per avergli dato la possibilità di sciogliere il voto che aveva fatto alla Madonna di aiutare altre persone che si trovano nelle sue stesse difficoltà”. Manuel e Betta sono fiduciosi che tutto andrà bene perché la Madonna li protegge… “Il buon Dio sa di cosa abbiamo bisogno e sa ascoltare”. Speriamo che questa storia abbia un lieto fine. Di certo, per Manuel e Betta la gioia di questi eventi “sopranaturali” ha scacciato il dolore per la malattia del figlio. Manuel, che per professione fa l’attore comico, si è tolta la maschera di Pulcinella e dal suo viso è uscita una lacrima di gioia e di dolore. Una storia che ci ha commosso profondamente e di cui abbiamo solo tracciato qualche spigolatura, ma che ci lascia molto turbati … Ognuno di noi ha La sua “croce” e spesso si sente solo e abbandonato. Poi accade qualcosa che non ti aspetti e torna la gioia nella vita grazie alla Misericordia di Dio. E  anche i non credenti si fermano un momento a meditare su questi fatti misteriosi! Il Giornale di Putignano

Coraggiosi, Storie. Betta: “La nostra forza? La fede". Cinzia Ficco su magazine.tipitosti.it. Sono stati molto tosti.  Hanno sofferto parecchio, ma sempre con grande dignità. E alla fine, hanno avuto un miracolo. Il loro bambino, Joshua, che significa “Dio è la mia salvezza” , nato a Putignano, nel Barese,  il 9 febbraio di cinque anni fa, dato dopo i primi mesi di vita per spacciato, è guarito. Lo desideravano molto questo figlio, Elisabetta, Betta per gli amici, e Manuel De Nicolò. Insieme da tredici anni, lui un attore di sit-com, lei, figlia di sordomuti, di cui si è presa cura fin da quando era una bambina. Ad aiutarla, nella sua crescita, tre zii con lo stesso handicap. Il bimbo quando nasce non è sordomuto, come aveva temuto la mamma. Ma presenta qualche problema. La prima diagnosi parla di «sospetta cromosomopatia e plagiocefalia». Si ipotizza che il neonato sia down e affetto da un torcicollo congenito che lo porta a inclinare la testa verso sinistra. Pochi giorni dopo, nella famiglia torna il sorriso: il bambino sta bene, il problema al collo è forse dovuto a «ipoplasia dello sternocleidomastoideo del  muscolo sinistro del collo», e quell’occhio semiaperto e gonfio, di cui si sono accorti, è solo un raffreddore. Ma tutto falso. Una delle palpebre non si apre, né si chiude del tutto a causa della sindrome di Horner. Dietro quell’occhio c’è già una massa tumorale: cellule maligne hanno invaso il corpicino fin dalla nascita, colpendo anche i linfonodi del collo. Ma come fa notare Betta, da parte sua e di suo marito, c’era tanta ansia di sapere. Da parte dei medici, molta superficialità. «Se in quei primi giorni avessero effettuato una Tac o una radiografia – dice-  e non una semplice ecografia, si sarebbe arrivati subito a una diagnosi corretta, e le terapie necessarie sarebbero iniziate allora”. Dopo cure palliative,  i genitori si rivolgono ad un ospedale di Bari, al reparto di ortopedia e traumatologia. E ad un fisiatra di Noci. I medici dicono che la testa del bambino tende a piegarsi verso sinistra per una postura da parto. Ma il 23 dicembre del 2008, sulla tempia sinistra del piccolo Joshua compare una pallina non più grande di un nocciolo. Sarà questo episodio a salvare la vita del piccolo. Il 29 dicembre, il bambino viene visitato privatamente e sottoposto a ecografia:  Referto: si tratta di una cisti sebacea, un banale accumulo di grasso, che potrà essere asportato al quinto anno di età da un dermatologo. Ma mamma Betta non si sente tranquilla. Per niente. Solo quindici giorni dopo, nel gennaio 2009, la tumefazione dell’occhio sinistro aumenta e Betta e Manuel cominciano a temere per la vita del loro bambino. Si recano all’Ospedale di San Giovanni Rotondo, la struttura sanitaria realizzata da Padre Pio. Ma per una strana coincidenza hanno i genitori la possibilità di far visitare Joshua direttamente dal Professor  Saverio La Dogana, primario del reparto di Oncoematologia, al quale basta sentire i sintomi che il bambino accusa, occhio semiaperto e bozzo alla tempia, per capire. Dopo la Tac, la diagnosi che spezza ogni speranza: quella dei medici di San Giovanni Rotondo. Joshua ha solo cinque giorni di vita. È affetto da neuroblastoma mediastinico al quarto stadio S, con infiltrazione midollare e metastasi allo scheletro. Il tumore ha attaccato le ossa del bacino, il midollo, le ossa del cranio, il retro dell’occhio sinistro, i linfonodi del collo e stava penetrando nella parte sinistra del cervello, ed è questo, purtroppo, che spiega la posizione della testa inclinata fin dalla nascita. Dietro al polmone sinistro c’è una formazione tumorale grande sette centimetri e mezzo. Si comincia subito  con una terapia d’attacco, un vero e proprio bombardamento: chemioterapia, autotrapianto e radioterapia. Una battaglia contro il tumore lunga otto mesi. Inutile  parlare dell’angoscia, della disperazione di Betta e Manuel. Ma dei due Betta non riesce a versare lacrime. E’ come impietrita. E ai medici un giorno dice solo: “Affido a voi e a Dio mio figlio”». Manuel e Betta si trasferiscono a San Giovanni Rotondo, prendono un appartamento in affitto, ma la casa di Joshua e della sua mamma sarà per mesi l’ospedale.  In isolamento per tre mesi. Paura, dolore, una tristezza infinita. Nel frattempo Manuel, che di mestiere fa il comico, deve tornare al lavoro. Betta si chiede il perché di tanto dolore. «Perché a me? Si ripeteva. “Ma con i giorni – fa capire – invece di essere arrabbiata,  imparo a farmi accarezzare, abbracciare da Dio.  E tutto in un ambiente, in cui vedi morire quasi ogni giorno dei bambini. Ho conosciuto Rosa, una mamma straordinaria, che ha trascorso dai 21 ai 35 anni in “via oncologia”, come chiamava lei il nostro reparto.  Assisteva sua figlia Benedetta, una quattordicenne dolcissima, che era diventata grande amica di Joshua. A marzo, Benny è morta. E il mio bambino, non vedendola più, per giorni mi ha chiesto sussurrando: “mamma, Benetta dov’è? Che dolore!” Rosa, nonostante la sua tragedia, è stata molto vicina a Betta. Intanto Joshua comincia a rispondere in modo positivo alle cure. Dopo otto cicli di chemioterapia e l’autotrapianto del midollo, a giugno di tre anni fa il piccolo viene dimesso  dall’ospedale. “Ci torneremo – racconta Betta-  ad agosto.  Allora sarà sottoposto a diciassette radioterapie, tutte in anestesia generale, rischiando la tiroide e il polmone sinistro. Ma quando venti giorni dopo viene dimesso, la malattia ha cominciato la sua lenta ritirata”. Oggi Joshua, è un bambino vivacissimo.  E’ completamente guarito.  Un miracolo? “Sì – fa capire Betta –  E qualche segno che qualcosa di grande ed inspiegabile, ci sarebbe capitato, lo abbiamo avuto un giorno. Joshua aveva appena otto mesi ed era seduto sul nostro letto. Ad un certo punto, lo sento parlottare, come se avesse davanti un  interlocutore. Joshua con chi parli?” –  gli chiedo, e lui, sorridente, si gira verso il quadro di Padre Pio, che avevamo sul letto e me lo indica con la sua manina. Un’altra volta, ancora durante il primo ricovero, il bambino si sveglia improvvisamente e guardando verso la porta della stanza, mi dice: “Mamma hai visto Pa Pio? Lui bacio mano casa”. Aveva visto il Santo, che gli aveva dato un segno: era accanto a lui e lo avrebbe portato fuori dall’ ospedale guarendolo». Oggi Betta ed Emanuel sono devoti della Madonna di Medjugorje, dove sono stati a luglio del 2009, quando Joshua aveva 29 mesi ed era stato dimesso da poco dall’ospedale di San Giovanni  Rotondo. “Prima di partire – racconta Betta-  il bambino non riusciva a camminare bene, i medici mi tranquillizzavano, dicendo che era dovuto alla terapia e al fatto che fosse stato per un mese a letto. Invece, appena arrivato a Medjugorje, mio figlio correva, sgambettava felice senza problemi.» «Prima dell’autotrapianto – aggiunge –  mio figlio aveva metastasi ossee,  linfonodi profondi alla gola, alla tempia e al femore, e una massa mediastinica di 5-6 cmdi diametro dietro al polmone. Quando siamo tornati dal pellegrinaggio, la Tac ci diceva che la massa tumorale si era ridotta a poco più di tre centimetri e che il resto era scomparso. Si era miracolosamente cicatrizzato tutto”. Restava il tumore nascosto dietro al polmone, che viene operato, a Firenze. Tanti  i rischi. È il 27 novembre del 2009. I medici avevano previsto un intervento che sarebbe potuto durare anche sei ore, oltre ai quattro giorni in rianimazione. Va tutto per il meglio. “In rianimazione – dice la mamma-  è rimasto per due ore, a scopo precauzionale. Quando ha riaperto gli occhi era felice, e mi ha sussurrato di aver visto una luce bianca, le nuvole, che era stato in cielo con Gesù, che avevano riso insieme, chela Madonnavegliava in lontananza. Infine, che aveva ricevuto un regalo “grande grande”. Joshua resta sempre sotto controllo. L’ultima terapia di mantenimento, durata sei mesi, è terminata il 20 giugno 2010 e quest’ultimo traguardo  è stata festeggiato con un bagno al mare. A un anno esatto dal primo pellegrinaggio, nel luglio del 2010, la famiglia è tornata a Medjiugorie. Per ringraziare. Oggi vive serena, sapendo che a vigilare sul suo bambino c’è sempre il frate di Pietrelcina. Tra breve costruiranno una statua dedicata al santo, vicino la casa dei De Nicolò. A giocare con Joshua oggi c’è  una splendida bambina. Sana.  Cinzia Ficco

Emanuele De Nicolo. Nicola Pignataro su teatropurgatorio.it. “Quando il gioco si fa duro, i duri scendono in campo”. E’ una massima molto cara agli americani. La usano, quando mettono da parte fronzoli e sentimentalismi e sono costretti, da quel popolo pragmatico che è, a vedere le cose che sono così come sono e non come vorremmo che fossero. Bene, cosa centra questo incipit con l’anima in questione? Bè, centra, carissimi amici del Purgatorio, perché vi dirò che del De Nicolò avrei preferito non occuparmene, e ciò per una serie di ragioni che posso riassumere nel fatto che si tratta di un’anima certo non traboccante di fascino per il sottoscritto. Non voglio però essere frainteso: lo reputo un comico, un cabarettista che non riscuote affatto la mia simpatia, ma ciò non riguarda un giudizio di valore sulla persona, né tanto meno implica la minima offesa nei suoi riguardi. Ma come è giusto che sia, snoccioliamo gli antefatti.  Ho conosciuto il De Nicolò attraverso la mediazione di Franco Scaramuzzi, un impresario che evidentemente credeva molto in lui tanto da essere disponibile a finanziargli una serie di serate. Il Nostro mi si presentò un pomeriggio in compagnia di Alfredo Navarra, sua spalla di allora. Pimpante e ottimista si disse convinto che avrebbe riempito  il Teatro. Ma la prima sera nonché le successive,  le poltrone rimasero desolatamente vuote. Ciò naturalmente spiacque sia a lui che allo Scaramuzzi, che imputarono il fiasco alla sfiga ed ad altre entità metafisiche.  Da parte mia analizzai senza difficoltà l’insuccesso. Il Duo pur avendo nel suo novero qualche apprezzabile spunto comico aveva qualcosa che non andava (c’è sempre qualcosa che non va quando l’omino del botteghino sta lì a  rigirarsi i pollici); qualcosa insomma che non convinceva il pubblico barese (uno dei pubblici più marpioni e scaltri d’Italia) a sborsare il prezzo del biglietto: e questo qualcosa era a mio avviso una professionalità ancora acerba, un bagaglio di conoscenza e di tecnica ancora da affinare, da maturare. Dopo, averci dunque rimesso qualche soldarello, Scaramuzzi se la defilò e il Nostro ricominciò ramingo a cercare la sua grande occasione. Tra un numero e l’altro di Charlot, imitazione che costituiva il suo numero forte, esercitava per sbarcare il lunario  la professione di imbianchino. Un giorno mi si ripresentò in Teatro con sua moglie Chicca, dicendosi nuovamente  sicuro di poter far accorrere le masse. Bè, duole dirlo ma ancora una volta anziché lo scrosciare degli applausi si udirono volare le mosche.. Al ché fu piuttosto imbarazzante per me, quando si avvicinò il momento del rendiconto. Infatti, a rivoltarlo a testa in giù il Nostro non avrebbe fatto tintinnare sul pavimento nemmeno l’ombra di un centesimo. Si ripagò, devo dire, onorevolmente, dandomi una rinfrescata agli intonaci del mio ufficio. Dopo quella doppia quanto infelice parentesi, scomparve per qualche tempo, fino a quando intorno al 1996 non  lo rividi negli studi di Telebari, dove io ero impegnato a condurre il gioco a premi “Fave di Quiz”. Lui stava  allestendo  la prima serie della “Very Strong Family”. Tra gli attori che aveva reclutato figurava Franco De Giglio, che doveva riscuotere poi un enorme consenso di pubblico come “Nonno Ciccio”. Che dire? Il successo della serie, inutile nasconderlo, fu eclatante, e certo non sarò certo io a disconoscerlo. Fatto sta che lui, cominciò come dire a sentirsi una sorta di Buster Keaton spiegato ai baresi. Mi capitò di incontrarlo per strada e di ricevere in cambio del saluto che meritavo, un’alzata di ciglio piuttosto altezzosa. Ah, cara la mia schifiltosa quanto ingenua anima. Non so perché avevi la sicumera che avresti potuto sempre guardarmi dall’alto verso il basso. L’ultima volta, in verità, ho constatato che il saluto ti è ridiventato come dire più umile e sentito. Bravo, l’umiltà è una gran bella cosa! Vedi me, per esempio: sono oltre trentacinque anni  che godo il favore del pubblico ( e non solo di quello barese), ma non ho mai dimenticato la massima biblica sul fatto che tutti un giorno, esimio Emanuele De Nicolò, siamo stati schiavi in Egitto. Per gli anni a venire,  fai quindi tesoro del mio consiglio. Cerca di non dimenticare mai chi eri e da dove vieni.

Manuel e Kicca si sono lasciati.

Il Matrimonio della piccola Vanessa della Very Strong Family. Redazione Teleregionecolor.com il 6 ottobre 2018. Il matrimonio: un giorno speciale in cui coronare il sogno d’amore. Una data che viene impressa indelebile nella memoria. Un evento, soprattutto se a convolare a giuste nozze, è un volto noto di chi nel tempo ha saputo entrare nelle case con un sorriso e tanto divertimento. Nella basilica di San Nicola a Bari il giorno speciale di vanessa de Nicolò della Very Strong Family, ora cantante affermata di una band musicale. Una commedia che nel passato ha allietato per tantissimo tempo le giornate dei pugliesi, che non si lasciavano scappare l’appuntamento della sit com in onda su teleregione. lei, la piccola di casa, aveva solo 11 anni, ora e’ diventata una donna. Ad attenderla sul sagrato il fratello lino, in arte Piolino. Ad accompagnarla sull’altare Kikka, mamma nella vita oltre che sugli schermi. Ad attenderla per il sì Lorenzo Gentile, tutti bellissimi e sorridenti, per chi ha fatto della gioia di vivere il proprio marchio di fabbrica. Abito bianco e lungo velo ad accarezzare la bella vanessa che guarda ora al futuro con un rinnovato ottimismo.

Umberto Sardella. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Umberto Sardella (Binetto, 15 agosto 1956) è un attore e comico italiano. È noto al pubblico per la sitcom Mudù in onda su Telenorba e Teledue. Nel 1995 insieme a Manuel De Nicolò e Donata Frisini, in arte Manuel & Kikka, partecipa alla prima serie della Very Strong Family su Teleregione, che ottiene un ottimo successo, Umberto fa la parte del cugino gay del protagonista Manuel. L'anno successivo partecipa nel sequel Very Strong Family 2 su Teleregione.

E Dario Diana rivela: «Così sono diventato il cattivo Squagghiasole». Carlo Stragapede su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Marzo 2021. Per l’anagrafe è Donata Frisini, ma per l’inesauribile pubblico dei fan della Very Strong Family è semplicemente Kikka. Attrice di teatro oltre che popolarissimo volto delle televisioni locali, ora si gode il meritatissimo momento di notorietà dovuto alla fiction poliziesca in salsa barese Le indagini di Lolita Lobosco. Dove la interprete barese veste i panni della ansiogena e possessiva madre di Esposito (impersonato dal longilineo attore cagliaritano Jacopo Cullin), il coraggioso poliziotto baffuto della squadra di Lolita (Luisa Ranieri) che a causa della prepotente ed eccessivamente accudente genitrice rischia di perdere la fidanzata Caterina (Camilla Diana). Kikka, lei è così possessiva con i suoi figli? «Ma no, assolutamente. Le dico solo una cosa. Mio figlio Lino (Lino De Nicolò, che nella Very Strong diventa “Piolino”), che oggi ha 34 anni, quando ne aveva appena 16 fu chiamato a fare l’animatore in un villaggio turistico in Grecia e io non mi opposi affatto. Anzi. E anche Vanessa, la maggiore, può dire la stessa cosa. Direi che il divertente personaggio ideato da Gabriella Genisi - sottolinea Frisini - è l’esatto opposto di come sono io nella realtà. Una somiglianza sicuramente c’è: sono un’ottima cuoca», ammette. Dopo che è andato in onda il quarto e ultimo episodio della prima serie intitolato Gioco pericoloso, messaggeria rovente di complimenti per l’artista cresciuta al quartiere Carrassi, «anche perché - spiega - questa volta appaio anche nell’introduzione che riassume il contesto nel quale si muove Lolita». Com’è nata la interpretazione nella fiction girata a Bari? «Circa un anno fa mi hanno chiamata dall’Apulia Film Commission. Mi sono letta i quattro romanzi e comunque ho aggiunto del mio al personaggio, ovviamente con l’approvazione del regista Luca Miniero». Infine confessa un sogno: «Che si possa realizzare la seconda serie dedicata alla poliziotta». Del resto il pubblico si domanda come evolve il rapporto madre-figlio. Al quarto episodio infatti lasciamo Esposito in odore di promozione - e quindi di aumento di stipendio - che vagheggia la possibilità di un nido d’amore con la sua Caterina. Sempre restando al quarto episodio, l’immancabile cattivo ha il volto di un altro popolare interprete barese, in verità sempre più presente nelle fiction di caratura nazionale. Parliamo di Dario Diana. Nella puntata dell’altro ieri, indossa i panni di «Squagghiasole», il tassista dalla lunghissima barba grigia (vera) che insieme con il complice Notarnicola (Giuseppe Ciciriello) uccide un compagno di scuola di Lolita scaraventandolo dalla Muraglia. Alla fine i due malavitosi, coinvolti in un giro torbido di calcioscommesse, vengono arrestati in un centro ippico. «È stata un’esperienza bellissima - racconta Dario Diana -. Prima, a ottobre scorso, è stato registrato il finale con la sparatoria e gli arresti, in una struttura equestre a Mungivacca, a due passi dall’Ikea. Poi, a metà novembre, nel centro storico di Monopoli, abbiamo girato la scena dell’omicidio, con una controfigura che precipita dal parapetto per vari metri, su un grande materasso gonfiabile». Nella puntata di domenica, tra gli altri interpreti baresi, abbiamo visto un bravissimo Enzo Strippoli nei panni del maitre del ristorante nel quale Lolita partecipa alla rimpatriata con gli amici di un tempo.

Il "premio" di Emiliano agli eroi: operatori sanitari tutti precari. Sono centinaia gli operatori socio sanitari in Puglia che hanno affrontato la prima e la seconda ondata Covid e che adesso, ad un passo dalla stabilizzazione, si vedono precari o mandati a casa. Roberta Grima - Dom, 21/02/2021 - su Il Giornale. Li hanno chiamati angeli, poi eroi, adesso sono semplici Operatori socio sanitari. Pure precari. Un esercito di centinaia di lavoratori in Puglia, che dopo aver affrontato la prima e la seconda ondata del Covid nei vari reparti ospedalieri, si vedono ancora con contratti a tempo. I più fortunati hanno ottenuto la proroga dei contratti sino a marzo, ma c'è anche chi è stato già mandato a casa. Come gli Oss delle Asl di Brindisi e della Bat, in tutto circa trecento persone. "Così ci ricompensa il governo pugliese - dice a "ilGiornale.it" un Oss di Brindisi - non vogliamo alcuna medaglia, ma ci aspettavamo che venissimo confermati ai fini dell'assunzione definitiva". I lavoratori in servizio a tempo determinato speravamo nella riconferma. Sopratutto ci sperava chi avrebbe raggiunto i trentasei mesi di servizio nel giro di poche settimane, conquistando il requisito necessario per l'assunzione stabile, così come previsto dal mille proroghe. Invece oltre al danno, la beffa. Eppure da anni nelle corsie dei noscomi pugliesi, i sindacalisti e le stesse Asl registrano una grave carenza di organico: mancano circa 3500 unità in tutto il territorio regionale. Con la pandemia poi c'è maggior bisogno. "Solo chi é stato dentro un ospedale e ha vissuto da vicino questa pandemia, può capire ogni nostro sforzo - ci dice Mariella, Oss del pronto soccorso dell'ospedale "Perrino" di Brindisi e a casa dal primo febbraio. - Quando una persona moriva, eravamo noi a chiudere quel sacco nero, senza poter dare niente ai familiari, se non la triste notizia. Quelle povere persone ricoverate che stavano male, avevano come unico riferimento gli infermieri e noi. Non credo che io potrò arrivare tra venti, trent'anni a dimenticare quello che ho vissuto. Non riesci, non puoi dimenticare. Io non voglio una medaglia, ho fatto il mio lavoro, amo il mio lavoro, ho fatto tanti anni nell'emergenza, ma mai mi sarei immaginata di trovarmi in questa guerra silenziosa, sconosciuta. Io mi sono ritrovata a montare il turno di notte in pronto soccorso, rientrare dopo lo smonto e non riconoscere più il mio reparto, perché erano stati fatti percorsi nuovi, zone chiuse, aree isolate, dall'oggi al domani non si riconosceva più". Gli Oss sono coloro che hanno un rapporto più diretto con l'ammalato, che si avvicinano a lui quando ha bisogno, per pulirlo, che hanno dato anche un supporto psicologico ai pazienti, oltre che mantenere il movimento che evita lesioni o piaghe. Erano gli unici che potevano dare conforto. Tante volte si sono trovati a rispondere ai cellulari dei pazienti, per dare notizie ai familiari, perché chi era ricoverato non poteva parlare. "Ricordo ancora - racconta a "ilGiornale.it" Mariella - quando ho assistito alla dipartita di un anziano signore, il cui figlio era un medico. Quando il padre ha contratto il Covid ed é deceduto, era uno strazio dover chiudere quel sacco e vedere il figlio dall'altra parte che non si dava pace. Per mesi aveva rinunciato a far visita a suo padre quando stava bene. Voleva evitare come medico, di esporre l'anziano genitore a possibili rischi di infezione. Invece poi si è contagiato e il figlio non si capacitava a doverlo lasciare senza averlo salutato per l'ultima volta, avendo rinunciato per mesi a stare con lui quando ancora poteva farlo". Anche Mariella ha rinunciato ai suoi figli e ai suoi nipoti durante la pandemia, per mesi e mesi. Tra loro c'è anche un paziente oncologico e non poteva permettersi di contagiare nessuno. La donna ha fatto la sua parte andando al lavoro a dare una mano, ma nello stesso tempo non poteva darla a chi ne aveva bisogno nella sua famiglia. Adesso per Mariella e i suoi tanti colleghi, vedersi mandare a casa è un pugno allo stomaco. "Tante volte mio nipote mi ha detto di non andare in ospedale e di cambiare lavoro. Ho quattro nipoti: il più grande di 17 anni e il più piccolo di cinque. Ho rinunciato a vederli per tutelarli. È una vita che faccio sacrifici per questo lavoro, pensavo di essere arrivata finalmente al punto di svolta. Dopo 11 anni di 118 come volontaria, tanti anni nelle strutture private che non sempre hanno pagato, alla fine arrivi nell'Asl e pensi che prima o poi verranno riconosciuti i tuoi sforzi". Invece ciò che questi lavoratori si sono sentiti dire, è che per maturare il diritto alla stabilizzazione, serve il riferimento normativo, pur definendo queste persone angeli o eroi, ciò che conta é la legge. "Già, la legge - dice un'infermiera - Ma cosa ne può sapere un avvocato, un politico, la burocrazia o la legge di quello che accade nelle corsie. Noi infermieri lavoriamo gomito a gomito con gli Oss. Cosa ne sa chi guarda solo la legge e dice che va tutto bene, mentre toglie 164 persone per sostituirle con altrettante precarie, come fosse un gioco. I rimpiazzi però, non sono pezzi di macchina di un sistema e se questo sistema ha retto, é perchè c'erano persone valide. Siamo stanchi oramai di indossare tute senza sosta. Si può piangere dietro le mascherine, il lavoro è duro fisicamente e umanamente, ma eravamo una squadra vincente con Oss che hanno affrontato l'emergenza con noi e sanno cosa vuol dire. Invece ci hanno buttato in zone rischiose. Noi, medici e gli Oss che poi sono stati lasciati in mezzo alla strada." Tra gli operatori precari che hanno lavorato durante la pandemia, c'è chi si è ammalato e ha ancora i postumi. Stando a quanto registrato da Chiara Cleopazzo, coordinatrice di categoria regionale della funzione pubblica Cgil Brindisi, l'80% di loro si é contagiato. Qualcuno ha trasmesso il virus al proprio figlio o marito e con trentacinque mesi di attività, si aspettava un riconoscimento con la proroga del contratto sino a tre anni di servizio e quindi l'assunzione. Invece c'è persino chi è stato mandato via mentre era ancora in regime di infortunio. Chi è uscito dalla terapia intensiva, per andarsene a casa. "La cosa strana é che il governo pugliese - dice la sindacalista - sta mandando via personale precario, per assumere altri precari, attingendoli dalla graduatoria del concorso di Foggia. Si tratta della selezione risalente alla primavera scorsa, per 2445 posti per Oss, con 13 mila idonei in graduatoria, tra cui anche gli stessi precari mandati via o nelle migliori delle ipotesi prorogati sino a marzo. Ecco perché molti di loro usciranno dal portone per rientrare dalla finestra. Che senso ha?" Il sindacato chiede che ci sia intanto un'omogenità sul territorio. Ci sono Oss mandati a casa che invece hanno avuto la proroga dei contratti sino a marzo, recependo un'indicazione del dipartimento regionale della salute. La Cgil chiede al presidente Emiliano che si faccia sentire in merito a questa storia. Una cosa, dicono dal sindacato che non si é mai vista e che rischia di ripetersi con il concorso degli infermieri che si sta espletando in questi giorni a Bari. "Stiamo cercando di dare una mano a chi ha perso il concorso di Foggia - ha detto Michele Emiliano - cercando di collocarli nel privato. La questione però è affidata al presidente della task force Leo Caroli, il quale ha sottolineato che il destino di questi lavoratori, dipende dal quadro normativo. "Non è - ha detto Caroli - né la volontà politica, né la gestione delle Asl, a determinare il destino di queste persone, ma solo il quadro normativo, i presupposti giuridici che serviranno da orientamento". La vicenda è sul tavolo regionale che ha constatato i diversi provvedimenti adottati dalle varie Asl pugliesi, che hanno creato di fatto discriminazioni tra lavoratori della Puglia. Il fatto però che alcune aziende sanitarie come quella di Lecce, Taranto, abbiano prorogato i contratti precari sino a marzo, non significa che verranno ulteriormente riconfermati, come ha spiegato lo stesso presidente della task force. "Si sta studiando - ha aggiunto Caroli - se le proposte avanzate dai sindacati di prorogare i precari sino al raggiungimento dei tre anni di servizio al fine della stabilizzazione, sia possibile dal punto di vista giuridico o meno. Si tratta di capire a chi riconosce la legge, la priorità occupazionale: a chi é già in servizio o agli idonei di concorso e se questi possono sostituire i colleghi precari, con contratti a loro volta a tempo o se invece abbiano la priorità sui colleghi solo con un'assunzione a tempo indeterminato. "Una cosa la posso dire - ha concluso il presidente della task force - la volontà politica é quella di non lasciare a casa nessuno, se non nell'immediato, almeno nella prospettiva futura. Il tavolo regionale lavorerà anche per questo, per aiutare chi eventualmente resta fuori. La normativa prevede infatti di assumere prima i vincitori di concorso, poi gli idonei che sono 13 mila e poi il resto".

Il paradosso della Giustizia in Puglia: udienze in videoconferenza, ma tribunali senza Internet. Chiara Spagnolo su La Repubblica il 6 febbraio 2021. Il personale amministrativo è carente di 500 unità rispetto alla pianta organica. E poi ci sono i palazzi fatiscenti - da Bari a Foggia, passando per Trani - e le Cittadelle giudiziarie che per ora sono soltanto sulla carta. Ci sono i processi da tenere in videoconferenza in tribunali non dotati di wi-fi, i computer usati e dati in dotazione ai magistrati, il personale amministrativo carente di 500 unità rispetto alla pianta organica. E poi i palazzi fatiscenti - da Bari a Foggia, passando per Trani - e il sogno delle cittadelle giudiziarie che assomiglia a una chimera. Arranca la giustizia ai tempi del Covid. Sotto il peso di problemi vecchi e regole nuove, legate all'uso ormai indifferibile di sistemi da remoto non supportati da una dotazione tecnologica adeguata. Significa che molte delle novità imposte dal ministero della Giustizia per l'applicazione delle norme anti-Covid sono di difficile attuazione e che senza un piano di investimenti per le dotazioni strumentali, l'adeguamento degli immobili e la formazione del personale, la giustizia nel distretto di Bari continuerà ad arrancare. Come dimostrano i dati e le considerazioni messi nero su bianco nella relazione del presidente della Corte d'appello, Franco Cassano, per l'inaugurazione dell'anno giudiziario, nella quale ha annunciato la sfida del settore: "Trasformare i disastri della pandemia in una occasione di crescita e miglioramento della giustizia".

Il sogno di Internet. L'immagine dei magistrati che collegano il pc al telefonino tramite hot spot per tenere le udienze da remoto sintetizza il distacco fra teoria e realtà. In nessun tribunale o ufficio giudiziario del distretto di Bari esiste il wi-fi: tutto fino a pochi mesi fa si svolgeva tramite una rete Intranet, che è divenuta parzialmente inutile quando la pandemia ha reso necessario interfacciarsi con persone all'esterno, siano essi avvocati, imputati o detenuti. Il problema è come quello del cane che si morde la coda, però, perché la norme prevede che il magistrato tenga l'udienza da remoto dal suo ufficio o da un'aula. Le aule in cui esiste il collegamento a Internet sono talmente poche da essere contese e non hanno allacci in numero tale da consentire il contemporaneo collegamento di tutti i componenti di un collegio. Per celebrare le udienze a distanza è stato scelto l'applicativo Teams e sono stati diramati tutorial per insegnare a utilizzarlo, ma la complessità delle procedure di udienza è difficilmente imbrigliabile. E per questo motivo il numero dei procedimenti da trattare online quotidianamente è notevolmente ridotto rispetto a quelli che si potevano fare in presenza. "Sono necessari tempi minimi per il collegamento con ogni partecipante - ha spiegato il presidente Cassano - per gli avvisi del giudice e le dichiarazioni delle parti, per la redazione dei verbali e la chiusura dei collegamenti".

Indagini più complicate. Le Procure del distretto (a partire da quella di Bari, guidata da Roberto Rossi) e la Dda (con a capo Francesco Giannella) a inizio 2020 avevano iniziato a utilizzare il Portale delle notizie di reato, formando la polizia giudiziaria e puntando alla realizzazione automatica del fascicolo elettronico. L'arrivo della pandemia ha rallentato questo percorso, però, perché l'applicativo utilizzato a tale scopo (Tiapdocument) non fa parte di quelli che si possono utilizzare dall'esterno degli uffici, dunque è inibito a tutti coloro che si trovano in smart working. Questo esempio introduce un altro problema con cui il personale degli uffici giudiziari si è dovuto confrontare in questi lunghi mesi in cui centinaia di amministrativi hanno lavorato da casa: l'impossibilità di entrare nel sistema del ministero da computer che non sono collegati alla rete Intranet, dunque di poter assicurare moltissime mansioni dalle abitazioni. Eppure quella del processo telematico viene ritenuta la strada principe da percorrere, "coltivando anche il cambiamento culturale che ciò comporta" ha detto nell'inaugurazione del 30 gennaio la procuratrice generale Anna Maria Tosto.

L'organico insufficiente. Lo smart working viene indicato dal presidente Cassano come "un obiettivo da raggiungere", perché consentirebbe maggiore flessibilità e responsabilizzazione del rapporto di lavoro, facendo riscoprire "giacimenti di entusiasmo ed energia sopiti da decenni di gestione burocratica e svogliata", introducendo "il principio della meritocrazia e della valutazione basata sui risultati e sui livelli di servizio più che sul presenzialismo e sull'adempimento di procedure burocratiche". Alla base di una nuova organizzazione del lavoro serve una dotazione adeguata degli organici, però, che adesso sono insufficienti soprattutto per il personale amministrativo. Nel distretto, numeri alla mano, a una pianta organica che prevede 1.506 unità corrispondono 946 persone in servizio, molte delle quali sono in età avanzata e quindi ormai prossime alla pensione. Meno drammatica ma ugualmente insufficiente è la pianta organica dei magistrati, carente di 51 unità: 40 riguardano gli uffici giudicanti e 11 le Procure. La situazione peggiore è quella del tribunale di Foggia, dove mancano 15 giudici e, a seguire, della Corte d'appello di Bari, in cui ne mancano 14.

L'ira degli avvocati. "Appare paradossale che si parli di intelligenza artificiale nella giurisdizione quando ancora semplici piattaforme informatiche non funzionano a dovere e i processi telematici, civili e penali, scontano disservizi di ogni genere" ha detto il presidente dell'Ordine degli avvocati di Bari, Giovanni Stefanì. Gli avvocati, del resto, subiscono ancor più dei magistrati le limitazioni imposte dalle norme anti-Covid. A partire dalla frequentazione contingentata dei palazzi di giustizia, con le udienze da remoto a farla da padrona e l'ingresso negli uffici solo su appuntamento. "Questa giustizia comprime irreparabilmente il diritto di difesa - ha aggiunto Gaetano Sassanelli, già presidente della Camera penale e componente del Consiglio giudiziario - La parte che rappresenta l'accusa è regolarmente presente nei palazzi di giustizia: il difensore invece deve entrare con il cappello in mano, districandosi nel diluvio di protocolli come in una sorta di gioco dell'oca, seguendo le scansioni temporali imposte da terzi, alla stregua di un piazzista che si presenta dietro la porta di casa all'ora di pranzo".

Bari, è il giorno di Monsignor Satriano: alle 17 la prima messa in Cattedrale. Succede all'arcivescovo Francesco Cacucci, che ha lasciato per raggiunti limiti di età. Fulvio Colucci su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Gennaio 2021. È il giorno di monsignor Giuseppe Satriano a Bari. Il nuovo arcivescovo dell’ arcidiocesi di Bari-Bitonto celebrerà oggi pomeriggio la sua prima messa alle 17 nella cattedrale di San Sabino. Il rito contempla esclusivamente la presenza dei vescovi del territorio e di un numero contingentato di figure religiose preminenti della curia nel rispetto delle regole contro la diffusione del coronavirus. Per gli altri sacerdoti e per i fedeli è prevista la possibilità di seguire il rito religioso grazie ad alcuni maxi-schermi anche se il comunicato pubblicato sul sito dell’arcidiocesi informa che monsignor Satriano, alla fine della messa, saluterà i fedeli durante un breve incontro, sempre nel rispetto delle norme di sicurezza. L’arcivescovo proviene dalla Calabria, è stato alla guida dell’arcidiocesi di Rossano-Cariati, ha 60 anni e succede a monsignor Francesco Cacucci, arcivescovo di Bari dal 1999. Quest’ultimo lascia per raggiunti limiti d’età dopo oltre vent’anni di guida pastorale della comunità.

Il nuovo arcivescovo di Bari ha in programma questa mattina un incontro con i giornalisti alle 10,30 sempre in cattedrale. Sarà l’occasione per un primo contatto all’indomani della festa del patrono degli operatori dell’informazione, San Francesco di Sales. Raccogliere l’«eredità» di monsignor Cacucci è importante. E non è un caso che l’arcivescovo Satriano, dopo aver incontrato papa Francesco, agli inizi dello scorso dicembre, si è rivolto ai fedeli baresi e a quelli calabresi ricordando che per lui ci sarà una sorta di continuità nel culto comune della Madonna Odigitria e di San Nicola, patrono della città ed emblema di accoglienza e dialogo tra tutte le sponde del Mediterraneo. Quel dialogo che rappresenta un crisma per la città di Bari così come ha ricordato il pontefice durante la visita in città dello scorso febbraio, quando proclamò ancora una volta la città capitale della pace e del dialogo nel Mar Mediterraneo.

OSPEDALE ALLA FIERA DEL LEVANTE A BARI: FdI VUOLE FARE LUCE SUI COSTI RADDOPPIATI E SENZA RISPETTARE LE INDICAZIONI DEL MINISTERO DELLA SALUTE. Corriere del Giorno il 30 Gennaio 2021. I consiglieri regionali di Fratelli d’Italia hanno presentato una serie di quesiti, chiedendo di sapere per quanti mesi verrà pagato alla Fiera del Levante l’affitto da 110mila euro ; il motivo per il quale è stata attivata la procedura d’emergenza come si pensa di poter rendere i posti letto strutturali ( ovvero definitivi) così come è stato chiesto con la circolare ministeriale. Lunedì mattina, 1° febbraio alle ore 10.30, gli onorevoli Marcello Gemmato responsabile nazionale Dipartimento Sanità e coordinatore pugliese di Fratelli d’Italia insieme a Raffaele Fitto co-presidente del gruppo ECR-Fratelli d’Italia al Parlamento Europeo , e i sei consiglieri regionali Luigi Caroli, Giannicola De Leonardis, Antonio Gabellone, Renato Perrini, Francesco Ventola e Ignazio Zullo effettueranno un sopralluogo nel padiglione che ospita la struttura sanitaria d’emergenza. I consiglieri regionali di Fratelli d’Italia hanno presentato una serie di quesiti, chiedendo di sapere per quanti mesi verrà pagato alla Fiera del Levante l’affitto da 110mila euro ; il motivo per il quale è stata attivata la procedura d’emergenza ( che ha evitato la gara pubblica) allorquando era chiaro e prevedibile sin dalla scorsa primavera che la Puglia necessitava di realizzare ulteriori posti dedicati alla terapia intensiva; come si pensa di poter rendere i posti letto strutturali ( ovvero definitivi) così come è stato chiesto con la circolare ministeriale. Al termine del sopralluogo è prevista una conferenza stampa alle ore 12 nel piazzale Vittorio Triggiani (lungomare Starita) antistante alla Fiera del Levante. Servizi igienici insufficienti, le stanze per i medici non previste e con ulteriori lavori da fare, oltre ai costi iniziali raddoppiati, il tutto con una pesante incognita sul futuro di una struttura nata sull’onda dell’emergenza sanitaria. L’ospedale da 160 posti costruito a tempo di record nella Fiera del Levante, presenta molti punti poco chiari sulla vicenda. A Bari per il momento si lavora per completare il presidio e consentirne l’utilizzo dal mese di febbraio, mentre in altre regioni più di qualche denuncia è arrivata alle Procure della Repubblica o alla Corte dei conti competenti, come è accaduto in Lombardia, dove la Guardia di Finanza sta indagando sulla costruzione dell’ospedale alla Fiera di Milano. I costi aggiuntivi erano già lievitati di 9 milioni, salendo dagli 8,5 del progetto iniziale ai 17 dell’opera ultimata, con la solita cerimonia inaugurale del 16 gennaio. Il raddoppio dei costi è conseguito a ben cinque ulteriori ordini di servizio firmati dal dirigente della Protezione civile regionale, Mario Lerario, il quale durante la cerimonia inaugurale ne ha illustrato i contenuti: “A far aumentare i costi c’è stato per esempio, l’acquisto dei letti sospesi con un sistema tale da garantirne la multifuzionalità; la realizzazione del reparto operatorio con due sale; l’inserimento di una tac; l’installazione di un sistema che consenta il contatto dei familiari con i pazienti; i lavori di adeguamento e messa in sicurezza di altri padiglioni fieristici“. Tutte voci mancanti nell’idea iniziale dell’ospedale “pensato” dalla Regione. che si aggiungono a quelle necessarie per ottemperare alle prescrizioni del Policlinico, che non prenderà possesso nella struttura prima di tutti gli adeguamenti. Fino a quando questo ospedale resterà operativo nessuno lo sa e tantomeno lo dice, grazie al fatto che essendo la sua realizzazione direttamente collegata all’emergenza sanitaria, grazie alle deroghe alle norme, che ne hanno consentito la realizzazione senza alcuna autorizzazione. Appena l’emergenza sanitaria cesserà, la struttura sarà di fatto totalmente irregolare, in quanto la norma che lo ha fatto realizzare in deroga all’iter ordinario (il decreto legge 18 del 2020) non ne consentirà la sopravvivenza, per la quale bisognerà ottenere tutte le autorizzazioni che grazie all’ emergenza sono state saltate. Tutti motivi questi per i quali sono in molti a ritenere che i circa 20 milioni sinora spesi potrebbero risultare in parte sprecati. A partire dai titoli edilizi e finendo all’agibilità, senza dimenticare la circostanza che la zona è a destinazione fieristica e che dal Piano regolatore comunale non è prevista la presenza dell’ospedale. E qualora fosse possibile ottenere tutti i permessi necessari per non sprecare quanto realizzato , è inevitabile che i tempi burocratici saranno lunghi ed è utopistico ipotizzare che alla fine dell’emergenza il presidio ospedaliero in Fiera possa operare in continuità . Sulla gestione della struttura in Fiera e dell’intero Policlinico, il commissario  Vitangelo Dattoli  fa programmi a lungo termine ragionando più che da commissario, come futuro direttore anche se sulla sua nomina pesa l’incognita delle scelte di Giovanni Migliore, il direttore generale sospeso dalla magistratura, la cui interdizione terminerà il prossimo10 marzo data in cui è presumibile che vorrà rientrare al proprio posto.

Bari, ospedale Covid in Fiera: Procura indaga su lavori e costi. Inchiesta esplorativa per verificare la regolarità delle procedure. La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Febbraio 2021. La Procura di Bari ha aperto un’indagine sull'ospedale Covid realizzato nella Fiera del Levante di Bari. L’inchiesta è al momento esplorativa e non ipotizza reati. È coordinata dal procuratore aggiunto Alessio Coccioli, che ha delegato Gdf e carabinieri del Nas per acquisire tutta la documentazione relativa alla procedura di affidamento dei lavori e ai costi di realizzazione. L’obiettivo degli inquirenti è verificare la regolarità delle procedure per capire se per un’opera tanto imponente, realizzata in così poco tempo per via dell’emergenza sanitaria, con un affidamento effettuato a seguito di procedura ad inviti cui hanno partecipato due aziende, siano state rispettate le norme. I lavori erano stimati in circa 9 milioni di euro, poi lievitati a oltre 18,5 milioni (destinati ad aumentare a oltre 20). Anche su questo si concentreranno gli accertamenti, per stabilire cosa abbia portato all’aumento del costo complessivo e se questo sia legittimo. L’ospedale, la cui gestione è affidata al Policlinico di Bari, è stato realizzato in 45 giorni all’interno di tre padiglioni della Fiera del Levante, requisiti nel novembre scorso dalla Prefettura per accelerare l’iter, e prevede 152 posti di terapia intensiva e sub-intensiva non ancora attivati.

Bari, indagine per bancarotta: insieme a Cassano è coinvolta la famiglia. Il crac Work System: indagati anche moglie e cugino del dg Arpal. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Gennaio 2021. Il buco lasciato dalla Work System ammonta ad otto milioni di euro, due in più rispetto al passivo quantificato nel 2019 in sede fallimentare. La società riconducibile alla famiglia di Massimo Cassano, ex sottosegretario nei governi Renzi e Gentiloni, scelto da Emiliano per guidare l’Agenzia regionale per le politiche attive del lavoro sarebbe però saltata per via di «operazioni dolose»: da una parte lo svuotamento delle casse, dall’altra il mancato pagamento delle imposte di cui sarebbero responsabili tutti gli amministratori che si sono via via succeduti fino al fallimento di novembre 2016. Ecco perché la Procura di Bari, con il pm Giuseppe Dentamaro, contesta il concorso in bancarotta fraudolenta non solo all’ex sottosegretario (la cui attività politica, è bene sottolinearlo, nulla ha a che fare con questa vicenda), ma anche alla moglie, Anna De Gennaro, e al cugino Nicola Danilo Medici: quest’ultimo è stato amministratore unico dopo Cassano, dal 2008 al 2012, mentre la prima è stata presidente della società nel corso del 2012. Il liquidatore Francesco Paolo Noviello, 62 anni, di Bitonto, risponde invece di bancarotta fraudolenta per distrazione: oltre ad aver fatto sparire le scritture contabili, avrebbe occultato circa 130mila euro dai conti della società. L’uomo, un ragioniere, nel 2018 è finito in carcere nell’inchiesta «Butchers» della Finanza sulla maxievasione nel mondo delle carni che portò al sequestro del Bitonto calcio di Eccellenza, e in precedenza è stato coinvolto nell’inchiesta per il buco della Cerin, azienda che si occupava della riscossione di tributi, mentre nel 2015 è stato assolto per la bancarotta fraudolenta dello storico marchio Aida. La Work System ha gestito fino al 2011 un deposito franco doganale all’interno del porto di Bari, ma risultava avere in concessione spazi demaniali anche negli scali di Brindisi, Manfredonia e Taranto per l’attività di forniture navali. Il deposito franco doganale godeva di un particolare regime di sospensione di dazi e imposte sulle merci da esportare, in base a una concessione del ministero dello Sviluppo economico revocata solo di recente. L’azienda è stata in passato al centro di un contenzioso tributario (vinto) che riguarda il regime Iva ma, secondo le indagini della Finanza, avrebbe sottratto a tassazione i propri ricavi arrivando così ad essere «strozzata» anche da sanzioni e interessi. Alcune operazioni, che gli investigatori non sono stati in grado di ricostruire proprio per la mancanza della documentazioni contabile, avrebbero poi consentito di azzerare la cassa. Oltre che con il fisco, il fallimento ha lasciato debiti nei confronti di una decina di dipendenti. Nelle carte allegate all’avviso di conclusione delle indagini, atto che normalmente prelude al una richiesta di rinvio a giudizio, la Procura di Bari ha valorizzato le informazioni raccolte e trasmesse dal curatore fallimentare, che ha segnalato le presunte irregolarità commesse dal liquidatore anche in relazione a forniture effettuate all’estero. La difesa di Cassano (avvocati Gaetano e Luca Castellaneta) ha già spiegato ieri alla «Gazzetta» di ritenere insussistenti le accuse, in quanto l’allora imprenditore (ha amministrato la Work System dal 2002 al 2008) non aveva avuto contezza di alcuna contestazione da parte dell’Agenzia delle Entrate: su questa base, documentata con una perizia tecnica, la difesa chiederà l’archiviazione dell’indagine.

“BUCO” DA 8 MILIONI DI EURO. INDAGATO MASSIMO CASSANO D.G. DELL’ARPAL. FALLIMENTO DA 8 MILIONI DI EURO QUANDO GUIDAVA UN’AZIENDA. Il Corriere del Giorno il 22 Gennaio 2021. I presunti illeciti contestati dalle Fiamme Gialle sono relativi al mancato pagamento dell’Iva per diversi anni da parte della società, di cui Massimo Cassano è stato amministratore dal 2002 al 2008. L’indagine della Procura di Bari tende a far luce su presunti illeciti legati al mancato pagamento IVA da parte della società. I reati contestati dalla Procura di Bari riguardano esclusivamente la sua attività imprenditoriale. Massimo Cassano, nominato recentemente da Michele Emiliano a direttore dell’ Arpal, l’Agenzia regionale pugliese per le politiche del lavoro, di cui era stato nominato commissario nel 2019, è stato inserito nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari notificato dalla Procura di Bari per la bancarotta da 8 milioni di euro della società Work Sistem, che gestiva un deposito franco doganale nel porto di Bari. I reati contestati dalla Procura di Bari riguardano esclusivamente la sua attività imprenditoriale. Le altre quattro persone che nel corso degli anni si sono avvicendate con Cassano come amministratori della società l’accusa è invece di concorso in bancarotta fraudolenta in quanto “omettevano sistematicamente il pagamento dell’Ires, dell’Iva e dell’Irap sino a raggiungere debiti per otto milioni anche per effetto di sanzioni e interessi che erodevano completamente il patrimonio societario“. I presunti illeciti contestati dalle Fiamme Gialle sono relativi al mancato pagamento dell’Iva per diversi anni da parte della società, di cui Massimo Cassano è stato amministratore dal 2002 al 2008. L’indagine della Procura di Bari tende a far luce su presunti illeciti legati al mancato pagamento IVA da parte della società. L’imprenditore-politico ha militato a lungo inizialmente nelle file di Forza Italia successivamente nel Nuovo Centrodestra di Alfano, per finire a fare il sottosegretario nei Governi guidati da Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Cassano spostatosi a sinistra ha fondato nel 2018 il movimento civico Puglia Popolare. Sono cinque le persone finite al centro dell’inchiesta condotta dalla guardia di finanza e coordinata dal pm Giuseppe Dentamaro. tra i quali compare anche il ragionierie Francesco Noviello, 62 anni, di Bitonto, liquidatore della Work Sistem, che viene chiamato a rispondere dell’ accusa di bancarotta per distrazione. Nel capo di imputazione si legge che Noviello oltre ad aver fatto scomparire circa 130mila euro dai conti correnti “per nascondere la gestione opaca e dolosa della società fallita sottraeva e distruggeva (anche mediante omessa istituzione) i libri e le altre scritture contabili obbligatorie (…) e tutto il resto della contabilità da luglio 2016 sino al fallimento“. “L’audizione dell’altro ieri in Commissione del direttore generale dell’ARPAL, Massimo Cassano, – commenta con una nota Fratelli d’ Italia – ci ha ancora più convinti che le nostre critiche non nascono da pregiudizi politici, ma da presupposti concreti. Per questo presenteremo in Consiglio regionale una mozione perché vengano bloccate le 236 assunzioni a tempo e interinali, non essendovi più l’urgenza, visto che il bando risale a giugno scorso, e – in attesa del maxi-concorso per oltre 1.000 persone – il personale necessario per il funzionamento dei Centri per l’Impiego (così come prevede la legge!) essere assunto attraverso lo scorrimento delle graduatorie concorsuali negli enti locali”. Il Gruppo di Fratelli d’ Italia alla Regione Puglia ha commentato “La notizia dell’indagine per bancarotta fraudolenta che vede lo stesso Cassano indagato ci trova garantisti come sempre: noi non useremo mai un’indagine penale per chiedere le dimissioni del direttore generale Arpal. Per la verità, questo è quello che il presidente Emiliano ha fatto nella passata legislatura più volte, chiedendo e ottenendo le dimissioni dei suoi assessori se indagati. E francamente, ci sembra assordante il silenzio dei cinque consiglieri regionali del Movimento 5 Stelle: per molto meno hanno gridato allo scandalo, oggi stanno zitti. Forse è il prezzo che si paga quando si fanno accordi di poltrone: tuttavia ci appare strano che mentre ieri, a Roma, i grillini di governo prendevano sdegnati le distanze dall’indagato Lorenzo Cesa, oggi a Bari non seguano la stessa linea con l’indagato Cassano“.

“Noi di Fratelli d’Italia, coerentemente, abbiamo contestato e continuiamo a contestare la nomina di Cassano prima come commissario straordinario dell’agenzia del lavoro (illegittima perché non prevista dalla legge istitutiva) e ora come direttore generale (convinti che, su basi oggettive, altri curricula presentati per il ruolo hanno più titoli). Da tempo denunciamo il mercimonio politico che sta alla base di ogni attività posta in essere da Cassano con la ‘benedizione’ del presidente Michele Emiliano. Senza mezzi termini abbiamo più volte evidenziato che la sua nomina è di natura politica e non tecnica, e ricompensa l’apporto elettorale di Cassano a Emiliano con la lista Popolari con Emiliano” continuano i consiglieri regionali di Fratelli d’ Italia. “Aver ridotto il lavoro, in momento di crisi come questo, a un affaire politico è stato e continua ad essere davvero una delle pagine più brutte della politica pugliese” conclude Fratelli d’ Italia.

NOMINE ALL’ASP, SCAGIONATI RUGGIERI ED EMILIANO. Il Corriere del Giorno il 6 Febbraio 2021. Lo stesso gip del Tribunale di Foggia nell’ordinanza ha chiarito che non vi era la prova del collegamento tra le due richieste così come non era stata raggiunta la prova che Emiliano fosse a conoscenza della richiesta dei Cera. Archiviata l’inchiesta dei magistrati della Procura della Repubblica di Foggia che vedeva indagato  insieme al presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano anche l’ex assessore regionale al Welfare Totò Ruggeri per la nomina del commissario dell’Asp di Chieuti, nel foggiano. La procura dauna ha chiesto infatti l’archiviazione del procedimento nei confronti sia dell’assessore Ruggeri che del governatore Emiliano, coinvolto nell’inchiesta che risale all’ottobre del 2019. La Procura foggiana di fatto ha così riconosciuto che gli accordi politici non avevano avuto a che fare con la nomina, sulla base della ipotesi iniziali, avevano avviate le indagini per corruzione. Il giudice per le indagini preliminari ha disposto l’archiviazione, riconoscendo la insussistenza delle accuse. Un’ inchiesta della Procura di Foggia e della Guardia di Finanza ipotizzavano presunte pressioni di Angelo Cera ed il figlio Napoleone, politici foggiani esponenti dell’Udc, per favorire a commissario dell’Asp di Chieuti, una persona da loro indicata. Il tutto, secondo la prima ipotesi dell’accusa, sarebbe iniziato dalla richiesta di Emiliano ad Angelo e Napoleone Cera per il tramite dell’assessore regionale al Welfare Salvatore Ruggeri di sostenere Francesco Miglio alla carica di sindaco a San Severo, grosso centro della provincia foggiana. I due esponenti dell’ Udc avrebbero ottenuto in cambio di questo sostegno, la nomina di una persona di loro fiducia come commissario dell’Asp “Castriota e Corroppoli” di Chieuti. Lo stesso gip del Tribunale di Foggia nell’ordinanza ha chiarito che non vi era la prova del collegamento tra le due richieste così come non era stata raggiunta la prova che Emiliano fosse a conoscenza della richiesta dei Cera.

Emiliano è nei guai. Ora finisce indagato per le primarie del Pd. Oltre ad Emiliano sono indagati il suo capo di gabinetto, Claudio Stefanazzi, e gli imprenditori Vito Ladisa e Giacomo Mescia L'indagine riguarda la campagna elettorale per le primarie del Pd del 2017. Le accuse iniziali sono state ridimensionate. Gabriele Laganà, Mercoledì 13/01/2021 su Il Giornale. Dall’esito di ulteriori accertamenti, effettuati nei mesi scorsi dal Nucleo di polizia economico-finanziario della Guardia di finanza dalla Procura di Torino arriva l'avviso di conclusione delle indagini preliminari, firmato dal pm Giovanni Caspani, per il governatore della Puglia, Michele Emiliano, il suo capo di gabinetto, Claudio Stefanazzi, e gli imprenditori Vito Ladisa e Giacomo Mescia. A darne notizia è La Gazzetta del Mezzogiorno. Le accuse iniziali, come era intuibile dalla mutata competenza territoriale, sono state ridimensionate. Sono, infatti, sparite le ipotesi di induzione indebita a dare o promettere utilità né quello di abuso d'ufficio, di cui era stato inizialmente chiamato a rispondere Emiliano. L'accusa ancora in piedi è quella di finanziamento illecito ai partiti, per quelle fatture alla società torinese Eggers che i due imprenditori avrebbero pagato per conto di Emiliano, al termine della campagna elettorale per le primarie del Partito democratico del 2017, poi terminate con la vittoria di Matteo Renzi. Al foggiano Mescia ed al barese Ladisa è contestato anche il reato di false fatturazioni. L’inchiesta era stata aperta a Bari nel 2018 con le perquisizioni alla Regione disposte dalla pm Savina Toscani e dall'allora procuratore aggiunto Giorgio Lino Bruno. La torinese Eggers, società di comunicazione a cui Emiliano si era affidato per la sua campagna elettorale, aveva inviato al governatore un decreto ingiuntivo a causa di fatture non pagate. Fatture che, come aveva sostenuto già la Procura di Bari, erano state poi pagate dai due imprenditori pugliesi con l'obiettivo di avere in cambio un atteggiamento favorevole da parte della Regione in merito a richieste di finanziamento per alcuni progetti o alla partecipazione a gare pubbliche. Ipotesi, queste, sempre smentite sia dai diretti interessati che da Emiliano e Stefanazzi. Questi ultimi due avevano salutato con favore l'invio degli atti a Torino da parte dei pm baresi, nella speranza che da lì sarebbe arrivata una richiesta di archiviazione. Il pm Caspani ha, però, ritenuto necessario effettuare ulteriori accertamenti sul caso. Le verifiche, affidate agli uomini del colonnello Luca Cioffi, avrebbero dato esito parzialmente favorevole. Il pm ha anche interrogato Pietro Dotti, titolare della Eggers e già indagato nell'inchiesta barese, la cui posizione sarebbe stata stralciata dal procedimento attuale. I quattro indagati hanno ora venti giorni per presentare memorie difensive o chiedere di essere interrogati.

Macché appalti e favori, l'inchiesta scagiona Vito Ladisa ed Emiliano. Dopo tre anni è caduta l'accusa di concussione: gli atti non hanno documentato alcun tipo di scambio tra denaro e appalti pubblici. Massimiliani Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Gennaio 2021. Non c’è stata alcuna pressione illecita nei confronti degli imprenditori, né tantomeno ci sono stati appalti o altri favori (peraltro nemmeno richiesti) che i vertici della Regione Puglia hanno fatto alla Ladisa spa o alla Margherita srl in cambio di denaro. La Procura di Torino ha chiuso le indagini sul presidente Michele Emiliano e sul suo capo di gabinetto Claudio Stefanazzi relative alle primarie nazionali Pd del 2017. Sono le indagini nate dal fascicolo trasmesso da Bari in estate, le cui accuse iniziali - come era intuibile già dalla mutata competenza territoriale - sono ora fortemente ridimensionate: sparite le ipotesi iniziali di induzione indebita (la vecchia concussione) e di abuso d’ufficio, restano solo un (presunto) illecito finanziamento al Pd e l’utilizzo di fatture false. L’inchiesta aperta a Bari nel 2018 dall’allora procuratore aggiunto Lino Giorgio Bruno sulla base di una lettera anonima perde dunque gran parte del suo spessore, e vede l’uscita di scena del principale accusatore, l’imprenditore della comunicazione torinese Piero Dotti: l’uomo che nel 2017 si occupò della campagna di Emiliano per le primarie Pd (quelle vinte da Renzi) e che poi chiese e ottenne un decreto ingiuntivo nei confronti del presidente della Regione, salvo poi cadere in una serie di contraddizioni davanti agli inquirenti baresi che gli chiedevano conto delle fatture emesse. Il pm torinese Giovanni Caspani ha notificato l’avviso di conclusione soltanto a Emiliano, Stefanazzi e agli imprenditori Vito Ladisa (cui fa capo la Ledi srl, società editrice di questo giornale) e Giacomo Mescia: a tutti è contestato il concorso nella violazione delle norme sul finanziamento pubblico ai partiti, perché - dice il capo di imputazione - Mescia e Ladisa su interessamento di Stefanazzi si sarebbero fatti carico di pagare i 65mila euro vantati da Dotti nei confronti di Emiliano per la campagna di comunicazione, un contributo «non deliberato dall’organo sociale competente» delle due società e non iscritto in bilancio. Ladisa e Dotti avrebbero poi violato norme in materia fiscale, poiché le corrispondenti fatture emesse dalla Eggers di Dotti (per la Ladisa parliamo di 11mila euro di Iva a fronte di 150milioni di fatturato) sarebbero in realtà relative alla consulenza prestata a favore di Emiliano. Nessuna contestazione invece nei confronti di Dotti, che ha emesso quelle fatture, probabilmente perché l’imprenditore torinese ha chiesto un patteggiamento. Il quadro accusatorio delineato dalla Procura di Torino riconduce dunque la vicenda in un alveo di gravità infinitamente minore rispetto alla prospettazione iniziale, e comunque a fronte di circostanze che le difese si dicono pronte a chiarire già con una memoria, prima che intervenga la richiesta di rinvio a giudizio: ad esempio chiedendo che venga riconosciuto come quella fattura sia relativa a una prestazione effettivamente eseguita. La Ladisa si è infatti rivolta alla Eggers di Dotti per una propria campagna di comunicazione, circostanza raccontata dallo stesso Dotti in sede di interrogatorio: «A fronte dell’emissione della fattura su richiesta del Ladisa - ha messo a verbale l’imprenditore torinese - tuttavia ho svolto una prestazione consistita in attività di consulenza/comunicazione in funzione di una gara d’appalto alla quale la Ladisa doveva partecipare in Piemonte. Il mio interesse e quello della società rappresentata era esclusivamente quello di ottenere il pagamento di quanto dovuto per la prestazione di consulenza effettuata in favore di Emiliano. Mi sono determinato autonomamente ad accettare la proposta del Ladisa, d’altro canto la prestazione nei confronti della società è stata effettivamente eseguita, ed avevo interesse all’acquisizione di un nuovo cliente». Solo che, dice Dotti, lui «pensava» che quella fattura fosse relativa alla comunicazione di Emiliano anche se aveva svolto (e gli era stato pagato) un lavoro per Ladisa. Il 10 aprile 2019, alla scadenza dei primi sei mesi di indagini, l’allora aggiunto Bruno ha mandato la Finanza a effettuare le perquisizioni che hanno causato la discovery dell’inchiesta: emersero particolari (ad esempio sull’esistenza di chat segrete con telefoni nascosti) che non hanno trovato corrispondenza negli atti. Né è mai emersa traccia di richieste o di proposte illecite su appalti della Regione. «Da sei anni - è il commento di Vito Ladisa - ho a che fare con l’autorità giudiziaria. Ho sempre avuto e continuo ad avere massima fiducia nella giustizia, e sono certo che emergerà, come sta emergendo, l’assoluta correttezza del nostro operato».

La verità sull’indagine su Emiliano e Ladisa, diversa da quanto racconta certa stampa barese…Il Corriere del Giorno il 15 Gennaio 2021. L’inchiesta infatti non è stata archiviata, come Emiliano si illudeva da quando gli atti sono stati inviati per competenza a Torino, ma in qualche modo circoscritta, essendo venuta meno l’iniziale ipotesi accusatoria di uno scambio corruttivo tra Emiliano ed i due imprenditori pugliesi, i quali avrebbero pagato alcune fatture per la campagna elettorale delle Primarie Pd del 2017 in cambio di agevolazioni negli appalti. All’interno dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, notificato lo scorso 12 gennaio, compare il reato il finanziamento illecito ai partiti, contestato al presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, al suo capo di gabinetto Claudio Stefanazzi (indagato anche in procedimenti di un’altra procura) a Vito Ladisa azionista e comproprietario dell’omonima azienda barese di ristorazione, ed a Giacomo Mescia della società foggiana Margherita, che opera nel settore delle energie rinnovabili. I due imprenditori Ladisa e Mescia devono rispondere anche di reati fiscali relativi a false fatturazioni. Quindi contrariamente a quanto voleva far capire un servile articolo apparso ieri sulla Gazzetta del Mezzogiorno finanziata ed edita per alcuni mesi dal Gruppo Ladisa, in vista della prossima asta fallimentare. L’inchiesta infatti non è stata archiviata, come Emiliano si illudeva da quando gli atti sono stati inviati per competenza a Torino, ma in qualche modo circoscritta, essendo venuta meno l’iniziale ipotesi accusatoria (mossa dalla Procura di Bari che aveva avviato e svolto le indagini n.d.r) di uno scambio corruttivo tra Emiliano ed i due imprenditori pugliesi, i quali avrebbero pagato alcune fatture per la campagna elettorale delle Primarie Pd del 2017 in cambio di agevolazioni negli appalti. Nelle dichiarazioni verbalizzate di Pietro Dotti, titolare dell’agenzia di comunicazione Eggers con sede a Torino , c’è la motivazione di come, in pochi mesi, l’inchiesta a carico del presidente della Regione Puglia si sia circoscritta: “Su proposta di Ladisa ho annullato la fattura nei confronti di Michele Emiliano e ho emesso un’altra fattura, dello stesso importo, a nome dell’imprenditore, per il quale ho svolto una prestazione di consulenza ”. Secondo il pm Giovanni Caspani della Procura di Torino, il capo di gabinetto di Emiliano avrebbe fatto da tramite tra il governatore e i due imprenditori. Nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari infatti è riportato che ” Per suo tramite Emiliano riceveva un finanziamento non deliberato dall’organo sociale della Margherita e della Ladisa, non regolarmente iscritti in bilancio“.La Guardia di Finanza del Comando Provinciale di Bari nella sua relazione di indagine alla procura barese sostenne che quei fondi, erano usciti irregolarmente dai conti bancari delle società Margherita e della Ladisa e altrettanto irregolarmente destinati alla campagna elettorale nella primavera 2017 che Michele Emiliano stava conducendo per contendere a Matteo Renzi e Andrea Orlando il ruolo di segretario del Pd venendo sonoramente sconfitto ed umiliato. Sono due le fatture emesse dalla Eggers di Torino, che vengono considerate illegittime. Per precisione la fattura n. 131 del 18 ottobre 2017, dell’importo di 63mila euro pagata dalla società di Vito Ladisa, e la numero 77 dell’8 giugno dello stesso anno, per 24mila euro pagata dalla società di Mescia. Oltre a queste venne aggiunto persino il pagamento di 4.900 euro di spese legali affrontate dalla Eggers di Torino e versate dalla società Ladisa. Pietro Dotti titolare della Eggers quando l’inchiesta era ancora gestita dalla procura di Bari. aveva risposto alle domande dei pm fornendo una spiegazione inerente alle posizioni giudiziarie di Ladisa e Mescia, i quali sostengono di avere pagato l’agenzia piemontese per prestazioni effettivamente fornite alle rispettive aziende. “Ho incontrato personalmente Ladisa due volte — ha verbalizzato Dotti — la prima presso la sua sede a Torino e la seconda presso la Eggers. Su sua proposta ho annullato la fattura 89 emessa a giugno nei confronti di Michele Emiliano e ne ho emessa un’altra nei confronti di Ladisa, a fronte di un’attività di consulenza in funzione di una gara d’appalto a cui doveva partecipare in Piemonte“. Alle domande del magistrato Giorgio Lino Bruno in quel periodo procuratore aggiunto di Bari , che chiedeva come mai l’agenzia Eggers avesse svolto due lavori (per Emiliano e per la Ladisa) ma fosse stata pagata solo per uno ( cioè quello per Emiliano), Dotti aveva risposto: “Il mio interesse era quello di ottenere il pagamento della consulenza effettuata per Emiliano. A me interessava lavorare con Ladisa, perché avevo la volontà di acquisire un nuovo cliente “. Il manager torinese avrebbe quindi sfruttato il caso Emiliano per entrare in contatto con l’imprenditore barese, che vanta grossi appalti anche al Nord, senza preoccuparsi del motivo per cui aveva deciso di pagare la fattura del governatore. L’iniziale ipotesi investigativa, era che Ladisa e Mescia sarebbero poi andati a battere cassa da Emiliano ma su questa ipotesi investigativa non sono stati trovati documenti di riscontro scontri. Resta in piedi quindi l’ipotesi di un contributo illecito alla campagna elettorale alle primarie nazionali del Pd di Emiliano attraverso le due fatture senza che il presidente della Regione Puglia e la Ladisa dichiarassero il finanziamento politico. Gli indagati hanno ripetutamente contestato le accuse a loro carico ed adesso secondo quanto previsto dal codice di procedura penale potranno cercare provare a convincere la Procura i di Torino presentando memorie o chiedendo di essere sottoposti ad interrogatorio. La Gazzetta del Mezzogiorno ha cercato di sminuire le accuse contro il loro nuovo “ufficiale pagatore” Ladisa, dimostrando ancora una volta la propensione ad un giornalismo poco libero ed per niente indipendente. Nel frattempo tutto tace dal Consiglio di disciplina dell’ Ordine dei Giornalisti di Puglia, infarcito di giornalisti della Gazzetta. Nell’ aprile 2019 l’Ordine dei giornalisti aveva chiesto al procuratore della Repubblica di Bari, Giuseppe Volpe se la persona che ha rivelato il segreto istruttorio su un’indagine a carico del presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, è un giornalista. e nel rispetto delle leggi e della riservatezza necessaria delle indagini, di conoscerne l’identità e di trasmettere gli atti necessari per avviare un eventuale procedimento disciplinare per accertare la violazione delle regole deontologiche anche in assenza di ipotesi di reato. Ma tutto tace. I panni sporchi si lavano in famiglia, spesso confidando nella prescrizione.

Condanne confermate. Il clan Di Cosola vendette i voti a Mariella (ed Emiliano). Il Corriere del Giorno il 3 Gennaio 2021. Secondo quanto appurato dalle indagini della Direzione distrettuale antimafia di Bari e confermato dai giudici con una sentenza ormai definitiva, gli imputati avevano tentato di condizionare l’esito delle elezioni regionali in Puglia del maggio 2015 procurando voti, in cambio di denaro, a Natale Mariella non eletto, e che non è stato coinvolto nel procedimento penale, all’epoca candidato con la lista “Popolari” a sostegno di Michele Emiliano, il quale venne eletto governatore. Le condanne a carico dei dieci membri del clan di Cosola di Bari, imputati nel processo “Attila 2” dove rispondevano delle accuse di associazione mafiosa, scambio elettorale politico-mafioso, coercizione elettorale e corruzione, sono diventate definitive, con conseguente ordine di carcerazione. Dovranno scontare pene tra i 7 anni e 4 mesi Michele Angelini, 2 anni e 4 mesi di reclusione Michele Di Cosola. Gli imputati furono arrestati nel dicembre 2016. Nei giorni scorsi la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibili i ricorsi contro la sentenza di appello di un anno fa. Condanne definitive per Leonardo Mercoledisanto e per Piero Mesecorto a 7 anni , per Raffaele Anemolo, Armando Battaglia, Pasquale Colasuonno, Francesco De Caro, e Damiano Partipilo a 6 anni e 8 mesi , per Pasquale Maisto a 4 anni e 5 mesi. Quattro imputati, che si trovavano a piede libero, sono stati arrestati dai Carabinieri a Bari, Giovinazzo e Noicattaro, mentre agli altri sei i provvedimenti sono stati notificati in carcere dove erano già detenuti. Secondo quanto appurato dalle indagini della Direzione distrettuale antimafia di Bari e confermato dai giudici con una sentenza ormai definitiva, gli imputati avevano tentato di condizionare l’esito delle elezioni regionali in Puglia del maggio 2015 procurando voti, in cambio di denaro, a Natale Mariella non eletto, e che non è stato coinvolto nel procedimento penale, all’epoca candidato con la lista “Popolari” a sostegno di Michele Emiliano, il quale venne eletto governatore . Mariella nel luglio 2016 era stato “sponsorizzato” da Emiliano del consiglio della Camera di Commercio di Bari ed attualmente è Presidente della Sezione Regionale dell’ Albo  Nazionale Gestori Ambientali. Alcuni membri dell’ associazione mafiosa fra i quali Michele Di Cosola, figlio del defunto boss Antonio Di Cosola, nelle settimane precedenti le elezioni regionali intercettava le persone per strada in alcuni comuni della provincia barese e “mediante l’esercizio della forze di intimidazione del clan e con minacce velate” chiedeva loro di votare per Mariella , di fatto secondo i giudici “impedendo il libero esercizio del diritto di voto”. Il clan riceveva 50 euro da Mariella per ogni preferenza procurata e a sua volta prometteva 20 euro per ogni voto. Voti che conseguentemente finivano anche in favore di Michele Emiliano. La Cassazione si è pronunciata anche sulla posizione di altri sei imputati. Tra questi l’incensurato Armando Giove, ritenuto il “referente” di Mariella, accusato di aver accettato la promessa del clan di procurare voti offrendo in cambio 70mila euro. I giudici della Suprema Corte hanno annullato la condanna per il reato di coercizione elettorale “per non aver commesso il fatto” e hanno confermato la responsabilità per l’accusa di scambio elettorale politico-mafioso riducendo la pena a 1 anno 9 mesi e 10 giorni di reclusione (pena sospesa). Giove in primo grado era già stato già assolto dall’imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa.

·        Hanno fatto cessare La Gazzetta del Mezzogiorno.

LIBERTA’ DI STAMPA. LE STRANEZZE DEL TRIBUNALE DI BARI DOVE ACCADONO TROPPE COSE STRANE. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 20 Novembre 2021. L’uscita di un giornale, che dovrebbe essere garantita dall’art. 21 della nostra Costituzione non può essere soggetto a censure postume di un giudice, avendo un titolo legittimo (autorizzazione del tribunale) e sopratutto non può essere un giudice a decidere se un giornale è simile ad un altro ancor prima che esca. Quanto accaduto a Bari è a dir poco assurdo ed oltraggioso in quanto calpesta il dettato costituzionale. Ancora una volta nel Tribunale di Bari accade di tutto e di più, nonostante la presenza di una Procura molto attenta. Ma davanti ad un attentato alla libertà di stampa da parte di un giudice un pò troppo confuso non si piuò restare silenti. Stiamo parlando della guerra legale-affaristica-sindacale che si è scatenata sulla Gazzetta del Mezzogiorno, il quotidiano barese che da ormai 4 mesi è scomparso dalle edicole di Puglia e Basilicata a seguito del fallimento delle società EDISUD (società editrice con 40 milioni di euro di massa fallimentare) e MEDITERRANEA (società proprietaria della testata ed ex concessionaria per la pubblicità). Molti giornalisti baresi, in particolare quelli che hanno seguito questa vicenda giudiziaria, hanno dimenticato la presenza incombente e “pesante” del procuratore di Bari Roberto Rossi accompagnato dai pm Lanfranco Marazia , e Luisiana Di Vittorio cioè coloro i quali avevano chiesto il fallimento delle due società in questione, in occasione dell’udienza di convalida delle offerte ritenute vantaggiose per l’acquisizione del quotidiano barese. in quella occasione il procuratore di Bari aveva depositato una relazione preliminare dalla quale era emerso qualcosa di molto strano ed illegittimo, cioè la presenza di ben 4 assegni circolari per un importo complessivo di un milione di euro fra i titoli di credito depositati dalla società ECOLOGICA spa (controllata dalla famiglia Miccolis), assegni che sono risultati essere stati tratti ed addebitati sul conto corrente di Banca IntesaSanpaolo intestato alla CISA spa di Massafra controllata dal condannato e plurinquisito Antonio Albanese. Una circostanza anomala ed illegittima, quindi illegale, in quanto la CISA spa non ha partecipato all’ asta fallimentare, nè tantomeno detiene alcuna quota della società ECOLOGICA spa. Ma per il collegio giudicante del Tribunale Fallimentare di Bari, tutto questo sarebbe normale…mentre per la Finanza e la Procura non lo è affatto, altrimenti non indagherebbero e Rossi non sarebbe mai comparso in udienza al Tribunale Fallimentare.

Enon solo. E’ incredibile vedere il Tribunale Fallimentare di Bari che in passato ha visto emergere alla luce non poche vicende di illegalità , denunciate dall’ ex presidente della sezione fallimentare del tribunale di Bari, Franco Lucafò (ora in pensione, restare oggi indifferente alla circostanza che i due curatori fallimentari (che devo giurare di non avere conflitti d’interesse) della fallita EDISUD, erano contemporaneamente negli organismi di vigilanza e nel collegio sindacale di società controllate da Antonio Albanese (leggasi CISA spa), cioè della società che nascosta dietro le quinte ha finanziato senza alcun titolo e legittimità l’offerta vincente della società ECOLOGICA controllata dalla famiglia Miccolis. Ma le anomalie del Tribunale di Bari non sono finite qui. Infatti ieri il Giudice Dr. Michele De Palma, ha scavalcato ogni ruolo e competenza, violando persino l’art. 21 della Costituzione. Ma non solo ha dimenticato qualcosa che tutta la città di Bari ben conosce, che viene sottaciuto dai soliti “pennivendoli” al servizio di qualcuno…. e cioè che il dr. De Palma è stato sposato con Barbara Barattolo (da cui ha divorziato), il cui fratello Fabrizio noto e affermato chirurgo estetico, ha sposato Aurelia Miccolis. Casualità e circostanze imbarazzanti che avrebbero dovuto indurre il giudice ad astenersi. Ma così non è stato. La decisione del giudice De Palma è molto più grave in punto di diritto per i seguenti motivi. Innanzitutto non si è mai visto in Italia una decisione di un giudice che addirittura inibisce la pubblicazione di una testata giornalistica regolarmente registrata e quindi legittimata ed autorizzata dal Tribunale di Bari. Ma non solo, il Giudice a mio parere e lo dico dopo essermi confrontato con sentiti alcuni illustri professori universitari (esperti giuridici del settore) è intervenuto senza alcun titolo sull’utilizzo di un marchio “la Nuova Gazzetta di Puglia e Basilicata” registrato e validato senza alcuna opposizione, sostenendo che costituirebbe un elevato presenti un “elevato grado di somiglianza con il marchio “La Gazzetta del Mezzogiorno – La Gazzetta di Puglia – Corriere delle Puglie” aggiungendo “costituendo la suddetta nuova iniziativa editoriale della Ledi s.r.l., per come proposta al pubblico, una ideale prosecuzione di quella in precedenza svolta con il marchio/testata “La Gazzetta del Mezzogiorno – La Gazzetta di Puglia – Corriere delle Puglie”. E’ bene ricordare ai lettori, ma anche ai giornalisti della Gazzetta del Mezzogiorno che il sottoscritto è colui. che ha salvato a suo tempo durante la fese iniziale del loro fallimento la tutela del loro marchio che era stato registrato da terzi, informando di quanto avevo scoperto Ugo Sbisà collega del CdR del quotidiano barese, salvandoli in tempo utile da un appropriazione indebita. Quindi permettetemi di dirlo, posso affermare senza rischiare alcuna smentita da nessuno, restando al di sopra delle parti in causa, così come il giornale che dirigo è e sarà sempre un concorrente di tutte le altre testate, in quanto a differenza di altri non facciamo il tifo per nessuno, non siamo al servizio di nessuno, e non siamo finanziati dietro le quinte da nessuno! L’uscita di un giornale, che dovrebbe essere garantita dall’art. 21 della nostra Costituzione non può essere soggetto a censure postume di un giudice, avendo un titolo legittimo (autorizzazione del tribunale) e sopratutto non può essere un giudice a decidere se un giornale è simile ad un altro ancor prima che esca. Quanto accaduto a Bari è a dir poco assurdo ed oltraggioso in quanto calpesta il dettato costituzionale. Leggere quanto scrive il giudice nella sua decisione provvisionale d’urgenza e cioè “che il marchio “la Nuova Gazzetta di Puglia e Basilicata” presenti un elevato grado di somiglianza con il marchio “La Gazzetta del Mezzogiorno– La Gazzetta di Puglia – Corriere delle Puglie”, atteso che il primo evoca il secondo, alla stregua di un giudizio sintetico e complessivo, quantomeno concettualmente, determinando così un rischio di confusione per il pubblico di riferimento anche in termini di associazione tra i due segni; ritenuto, in ogni caso, che le predette condotte della Ledi s.r.l. integrino la fattispecie di concorrenza sleale” è a nostro parere un’ assurdità giuridica, e lo diciamo sulla base di pacchi di sentenze su casi analoghi. A questo punto un cosa è facilmente prevedibile e cioè che nell’udienza fissata per il prossimo 2 dicembre se ne vedranno e sentiranno delle belle, a partire da una possibile ricusazione del Giudice da parte della Ledi, e come sempre noi non mancheremo di raccontarvi quanto accaduto. In conclusione, lasciatemelo dire: vedere dei giornalisti gioire contro degli altri giornalisti è uno spettacolo squallido al quale chi come noi fa informazione libera ed indipendente, non può accodarsi.

RICORSI & CONTRORICORSI: LA GUERRA DELLE “GAZZETTE” CONTINUA. Il Corriere del Giorno il 19 Novembre 2021. LE curatele fallimentari di Mediterranea ed Edisud (dove ci sono due curatori in aperto conflitto d’interessi che è oggetto di un’indagine della Procura di Bari ) che hanno depositato un ricorso presso il Tribunale di Bari nel quale le citate curatele delle società fallite chiedono l’inibitoria cautelare all’utilizzo del marchio “La Nuova Gazzetta di Puglia e Basilicata”, marchio che in realtà risulta assolutamente legittimo e depositato senza alcuna opposizione. Continua la guerra “sindacale” della Gazzetta del Mezzogiorno alla Ledi, la società editrice del Gruppo Ladisa di Bari, che per 6 mesi ha garantito l’occupazione a circa 140 dipendenti (fra giornalisti e poligrafici) e l’uscita in edicola dopo il fallimento della precedente società editrice EDISUD spa, che insieme alla società MEDITERRANEA (proprietaria della testa e concessionaria per la pubblicità) che avevano accumulato debiti per oltre 50 milioni di euro. Il quotidiano barese La Gazzetta del Mezzogiorno non è più in edicola dallo scorso 1 agosto. L’iniziativa incredibilmente è delle curatele fallimentari di Mediterranea ed Edisud i cui due curatori hanno operato in aperto conflitto d’interessi che è attualmente oggetto di un’indagine della Procura di Bari delegata alla Guardia di Finanza, che hanno depositato un ricorso presso il Tribunale di Bari nel quale le citate curatele delle società fallite chiedono l’inibitoria cautelare all’utilizzo del marchio “La Nuova Gazzetta di Puglia e Basilicata”, marchio che in realtà risulta assolutamente legittimo e depositato senza alcuna opposizione. Con una comunicato stampa la la Ledi Servizi Editoriali, società del Gruppo Ladisa SpA, ha replicato in proposito comunicando quanto segue: “la pluralità dell’Informazione fa bene al territorio. Privarsene, o costringere una Comunità a farlo, è un atto doloso e pericoloso. Nel pieno rispetto delle leggi, dunque, auguriamoci di avere a disposizione tante “Gazzette”, tanti “Corrieri”, tanti “Quotidiani”. La Puglia ed il Sud ne godranno: più competitività, più libertà di scelta, più Italia”. Avendo il nostro giornale vissuto qualcosa di molto simile venendo perseguitati dal sindacato dei giornalisti pugliesi e da alcuni giornalisti noti per le proprie documentate “markette” giornalistiche, ci associamo al pensiero della Ledi, ricordando a tutti che chi decide l’autorevolezza e la credibilità di una testata giornalistica, è il pubblico, i lettori, e non certo un tribunale fallimentare “chiacchierato” con dei precedenti poco edificanti, o un sindacato preoccupato solo di piazzare i propri “vertici” ai posti di comando. strano che i curatori non spendano una sola parola su quei quattro assegni da 250mila euro cadauno depositati da ECOLOGICA (società della famiglia Miccolis), ma provenienti dai conti correnti della CISA spa di Massafra, società questa che che non ha mai partecipato all’asta, e che non risulta avere alcuna partecipazione azionaria nella società ECOLOGICA spa che si è aggiudicata la turbolenta e “chiacchierata” asta giudiziaria. Credendo da sempre nel principio di una giusta concorrenza, che fa bene al mercato, e contribuisce ad ampliare le voci dell’informazione, auguriamo ad entrambe le Gazzette (“di Puglia e Basilicata“, e “del Mezzogiorno”) di arrivare presto in edicola e sul web, dove troveranno il nostro giornale, che non farà sconti giornalistici a nessuno, e sopratutto continuerà il proprio lavoro senza padroni e padrini, e sopratutto il più lontano possibile da speculatori e monnezzari condannati alla ricerca di un “scudo” protettivo” Ad maiora! 

IL GIUDICE FALLIMENTARE ASSEGNA LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO AD ECOLOGICA (MICCOLIS). POSSIBILE IL RICORSO IN APPELLO DELLA LEDI (LADISA). Il Corriere del Giorno l'8 Ottobre 2021. Il Tribunale fallimentare di Bari si lava le mani ed omologa la proposta di concordato della società Ecologica spa del gruppo Miccolis nella procedura fallimentare delle società Mediterranea, proprietaria della Gazzetta del Mezzogiorno, ed Edisud. Possibile e molto probabile il ricorso in Appello della società Ledi srl del gruppo Ladisa. Il Tribunale fallimentare di Bari ha omologato questa mattina la proposta di concordato della società Ecologica spa del gruppo Miccolis nell’ambito della procedura fallimentare della società Mediterranea, proprietaria della testata La Gazzetta del Mezzogiorno e della società Edisud che ha in carico 134 dipendenti. La Ledi srl (gruppo Ladisa) ha 30 giorni per impugnare il provvedimento e fare reclamo alla Corte d’ Appello, e fonti aziendali ci hanno riferito che sono in corso delle valutazioni legali per depositare l’eventuale reclamo. Proseguono nel frattempo le indagini ed accertamenti della Procura di Bari e della Guardia di Finanza sui quattro assegni per un totale di un milione di euro emessi dalla società Cisa spa di Massafra (che non partecipava all’asta e quindi non aveva alcun titolo), versato insieme al milione di euro sborsato da Ecologica al Tribunale. Sarebbero in corso anche degli accertamenti da parte della Procura di Lecce competente sull’operato degli uffici giudiziari di Bari, sul ruolo ed operato dei curatori fallimentari della Edisud spa, Michele Castellano e Gabriele Zito in presenza dei loro rapporti professionali ed economici intercorrenti con la Cisa spa e la Progetto Gestione Bacino Bari Cinque srl, società che annoverano fra i propri azionisti di maggioranza e controllo il condannato e plurinquisito imprenditore massafrese Antonio Albanese. Nel frattempo sono state depositate di propria iniziativa dal Gruppo Ladisa alla Procura di Bari ed alla Guardia di Finanza delle documentazioni comprovanti che dallo scorso mese di agosto era stato comunicato dalla Ledi srl ai curatori ed al Tribunale Fallimentare di Bari, ed al Ministero dei Beni Culturali (per la Sopraintendenza Archivistica e Bibliografica) l’avvenuta variazione in data 6. e 7 settembre dell’intestatario dei domini internet gazzettadelmezzogiorno.it e lagazzettadelmezzogiorno.it e che dal 31 luglio scorso i computer sono stati spenti e custoditi in attesa che i curatori provvedano al loro ritiro entro la prossima settimana. Una circostanza imbarazzante e misteriosa è apparsa online, e cioè che all’improvviso una “manina” anonima ha ripreso nel pomeriggio odierno a pubblicare, peraltro senza alcuna autorizzazione e registrazione in Tribunale, delle notizie sul sito della Gazzetta del Mezzogiorno.

FALLIMENTO GAZZETTA. LA PROCURA INDAGA SUL FINANZIAMENTO OCCULTO DELLA CISA DI MASSAFRA. Il Corriere del Giorno il 7 Ottobre 2021. Dalla relazione della Guardia di Finanza, si legge: “Nell’ambito del procedimento penale, ci veniva chiesto di acquisire ed analizzare le due proposte di concordato fallimentare avanzate dalla Ecologica e dalla Ledi per accertare la sussistenza di rapporti di controllo e collegamento societario tra la Ecologica e la Cisa e il suo presidente, Antonio Albanese. su 134 persone in cassa integrazione, al sit-in del sindacato dei giornalisti sotto il Tribunale di Bari hanno partecipato soltanto una trentina di persone? Sfiducia nel sindacato? L’indagine della Procura di Bari sulla gestione della curatela fallimentare della Gazzetta del Mezzogiorno ha preso il via dopo il deposito di una relazione preliminare del Nucleo PEF della Guardia di Finanza, effettuato dal procuratore capo di Bari, Roberto Rossi, direttamente in udienza. Un atto “forte” e significativo di legali, ed una presenza, quella del procuratore capo che non era mai avvenuta nella storia del Tribunale fallimentare barese. Gli accertamenti della magistratura hanno origine all’indomani di una serie di esposti pervenuti alla procura di Bari ed a quella di Lecce (competente sull’operato degli uffici giudiziari del capoluogo barese) sull’imbarazzante conflitto d’interessi dei due curatori fallimentari Castellano e Zito della EDISUD spa, la società che editava il quotidiano barese, fallita con oltre 40 milioni di euro di passivo. L’ avv. Castellano infatti è il presidente dell’Organismo di vigilanza della CISA spa di Massafra del “re della monnezza” Antonio Albanese, socio della Progetto Gestione Bari Cinque srl, nel cui collegio sindacale è presente il dr. Zito. Infatti, da una errata valutazione e/o prospettazione del curatore, può scaturire un errato provvedimento del Giudice, al quale è dato conoscere approfonditamente tutte le vicende di ogni procedura, e che, quindi, è difficilmente in grado di valutare autonomamente quanto il Curatore via via gli sottopone. Anche se il Curatore opera sempre sotto la direzione del Giudice Delegato, che agisce nell’ambito del potere di direzione che si estrinseca attraverso i provvedimenti autorizzativi, il suo compito è particolarmente delicato quando configura al Giudice le situazioni per le quali chiede l’autorizzazione ad intraprendere le varie azioni giudiziarie, come previsto dalla normativa sulla revocatoria ordinaria, revocatoria fallimentare, simulazione, presunzione muciana, ecc..I lettori forse non sanno che secondo l’orientamento oggi prevalente, il curatore fallimentare non rappresenta, ne’ sostituisce il fallito o i creditori, ma opera nell’interesse del pubblico , essendo un incaricato giudiziario che opera a fianco del Giudice Delegato nell’interesse della giustizia. La conferma di tale tesi risale al riconoscimento legislativo della qualifica di pubblico ufficiale, nonchè ai poteri che la legge gli riconosce per sostituire il debitore nella titolarità dei rapporti e, contemporaneamente, per tutelare gli interessi dei creditori. L’art. 30 sulla Legge Fallimentare asserisce che: “il curatore, per quanto attiene all’esercizio delle sue funzioni, è pubblico ufficiale”. Non a caso dalla relazione della Guardia di Finanza, come abbiamo già scritto, si leggeva: “Nell’ambito del procedimento penale, ci veniva chiesto di acquisire ed analizzare le due proposte di concordato fallimentare avanzate dalla Ecologica e dalla Ledi per accertare la sussistenza di rapporti di controllo e collegamento societario tra la Ecologica e la Cisa e il suo presidente, Antonio Albanese”. Piccolo particolare è che, dalle cronache baresi del quotidiano La Repubblica, giornale dove lavora… l’attuale segretario nazionale della FNSI Raffaele Lorusso (solo una coincidenza…?) si vuole “spacciare” ai lettori un’altra versione e cioè che le indagini a loro dire “riguardano il sospetto di un depauperamento dei beni aziendali — archivio, insegna, valore del marchio — dopo la cessazione delle pubblicazioni, cioè dal 1 agosto. Il punto di partenza delle verifiche è la nota depositata dalla società Ecologica ai giudici fallimentari relativa alla registrazione da parte della concorrente Ledi degli imprenditori Ladisa — che ha editato il giornale fino al 31 luglio e si è poi opposta alla omologa — del marchio” La Nuova Gazzetta di Puglia e Basilicata”, oltre ad “attività di scouting tra i giornalisti della Gazzetta”. Quello che l’edizione barese di REPUBBLICA non è stata capace di accertare, che in realtà non vi è stato alcun depauperamento dei beni aziendali, che erano stati trasferiti a seguito della riconsegna degli uffici di piazza Moro ove aveva sede precedentemente LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO, al legittimo proprietario e cioè alle Assicurazioni Generali che avanzavano alcune centinaia di migliaia di euro di affitto non pagate dalla EDISUD. E risulta che il trasferimento presso l’immobile messo a disposizione dal Gruppo LADISA sia stato autorizzato dal Tribunale Fallimentare di Bari, così come anche per il trasloco dell’archivio. Spetta quindi adesso alla curatela fallimentare di provvedere al trasloco dei beni (archivio, insegna, mobili e computer vetusti) presso un deposito, come ha spiegato al CORRIERE DEL GIORNO il dr. Franco Sebastio, ex procuratore capo di Taranto, ed attuale presidente della Ladisa spa. E’ semplicemente ridicolo definire “depauperamento” la cessazione delle pubblicazioni de LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO, che è avvenuta a seguito della disdetta del fitto d’azienda effettuata dai curatori fallimentari, che hanno fatto circolare proprio su REPUBBLICA tutti i dati al centesimo delle offerte e delle valutazioni del comitato creditori EDISUD, mentre era ancora in corso la votazione comitato creditori MEDITERRANEA, commettendo di fatto una turbativa d’asta. Sarebbe buona cosa se la Procura di Bari non si limitasse soltanto ad ascoltare i giornalisti in cassa integrazione, a causa del fallimento EDISUD, ma indagasse anche sulle loro situazioni patrimoniali e finanziarie, in quanto risultano numerosi contratti di consulenza ed attività collaterali dei giornalisti, nonostante un contratto di esclusiva con il proprio editore. E ne uscirebbero fuori delle belle, come il CORRIERE DEL GIORNO aveva scoperto appena un anno fa. Qualcosa su cui il CdR non ha mai detto una sola parola. Che strano… ! A proposito: come mai su 134 persone in cassa integrazione, al sit-in del sindacato dei giornalisti sotto il Tribunale di Bari hanno partecipato soltanto una trentina di persone ? Sfiducia nel sindacato? Non ci sarebbe da meravigliarsi…

L’OPINIONE DEL DIRETTORE. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 6 Ottobre 2021. I retroscena sull’ asta fallimentare della GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO che solo il CORRIERE DEL GIORNO vi ha raccontato. Le manovre dietro le quinte della procedura di un noto “prenditore di denaro pubblico”, condannato plurimputato ed indagato, che ha sguinzagliato i propri ventriloqui a “libro paga”. Tutta la verità sui fatti documentata senza filtri o censure. Il processo al processo dalla parte della legalità per tutela dei cittadini ed un’informazione corretta, libera ed indipendente L’ultima diretta del nostro Direttore Antonello de Gennaro trasmessa mercoledì 6 ottobre 2021 nel programma “DENTRO LA NOTIZIA-Fatti per essere ascoltati” in diretta dalla redazione di Roma del CORRIERE DEL GIORNO fondato nel 1947™ e diffusa in streaming anche sulle piattaforme dei socialmedia  Facebook,  Twitter ed Instagram. Tutta la verità sui fatti raccontata a documentata senza filtri o censure. I retroscena della vita giudiziaria. Le inchieste. Gli approfondimenti. Tutto quello che gli altri non vi possono o vogliono raccontare.

Dal “Fatto Quotidiano” il 22 settembre 2021. Non c'è pace per La Gazzetta del Mezzogiorno, il quotidiano di Bari più diffuso in Puglia e Basilicata, dopo il fallimento delle due società che facevano capo all'editore siciliano Mario Ciancio: cioè la "Mediterranea" proprietaria della testata e la "Edisud" che la gestiva e pubblicava. Continua la guerra di carte bollate intorno alla proprietà del giornale, assente ormai dalle edicole dall'inizio di agosto in seguito alla contesa giudiziaria fra il gruppo Ladisa (ristorazione commerciale) e il gruppo Miccolis (autobus, lavori portuali, bonifiche e smaltimento dei rifiuti). Quest'ultimo, attraverso la sua società "Ecologica", s'era aggiudicato la competizione per acquisire la testata, con il parere favorevole dei curatori e del comitato dei creditori. Ma, proprio alla vigilia della scadenza dei termini, la "Ledi" dei fratelli Ladisa - che aveva assunto intanto la gestione temporanea del quotidiano - ha presentato un reclamo al Tribunale fallimentare di Bari, invocando alcuni presunti vizi procedurali, su cui ora il giudice dovrà pronunciarsi. Si allungano così i tempi per il ritorno in edicola del giornale che vanta 134 anni di storia, durante i quali non aveva mai interrotto le pubblicazioni, neppure durante il fascismo. Alla scadenza del 31 luglio, quando è terminato il contratto provvisorio di affitto, la "Ledi" ha improvvisamente ritirato l'impegno a prorogarlo fino all'assegnazione definitiva della testata, lasciando i lettori pugliesi e lucani senza la loro Gazzetta. E ora, mentre la partita sembrava chiusa in attesa dell'omologa del Tribunale, questo ricorso ha provocato un ulteriore slittamento dei termini a danno della testata, dei suoi redattori e dei suoi poligrafici rimasti da due mesi senza lavoro. Nel frattempo, gli stessi Ladisa hanno avviato una trattativa con il gruppo Caltagirone, già editore del Messaggero, del Mattino, del Gazzettino di Venezia e del Corriere Adriatico, per acquistare il Nuovo Quotidiano di Puglia che ha allestito in tutta fretta un'edizione di Bari, aggiungendola a quelle di Lecce e di Taranto. A quanto pare, però, la richiesta di circa 8 milioni di euro avrebbe fermato finora l'operazione. La tattica dilatoria messa in atto da "Ledi" sul piano giudiziario per la vertenza Gazzetta potrebbe favorire così l'espansione di Francesco Gaetano Caltagirone in Puglia, dove si dice che sia interessato soprattutto all'Acquedotto pugliese, tra i più grandi d'Europa, che serve oltre 4 milioni di persone ed è utilizzabile per installare qualsiasi tipo di cablatura.

LE PROTESTE (SOLO ?) INUTILI DEI GIORNALISTI-SINDACALISTI DELLA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 2 Ottobre 2021. Non una sola parola del sindacato dei giornalisti invece sull’incombente presenza dietro le quinte come “finanziatore” del ragionier Antonio Albanese, originario di Massafra in provincia di Taranto, recentemente condannato, plurindagato per il quale è stato richiesto ulteriore processo dal procuratore aggiunto Maurizio Carbone e dal pm Enrico Bruschi della Procura di Taranto (Inchiesta T-REX meglio nota come “Monnezzopoli” ) e dai procuratori aggiunti della Procura di Lecce Elsa Valeria Mignone e Guglielmo Cataldi, che hanno chiuso le indagini sui presunti illeciti commessi nell’impianto «Ecolio 2» di Presicce – Acquarica dove si smaltiscono rifiuti liquidi. Con una nota pubblicata sul sito dell’ Assostampa di Puglia, i giornalisti del quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno, la cui società editrice Edisud è fallita con oltre 40 milioni di euro di debiti, hanno annunciato un nuovo “flash mob”, che questa volta si terrà in in piazza De Nicola dinanzi al Tribunale di Bari, lunedì 4 ottobre, alle 11,30, in concomitanza con l’udienza della sezione fallimentare che dovrebbe assumere decisioni in merito alla definitiva assegnazione del giornale all’azienda vincitrice della procedura concorsuale. Al “flash mob” parteciperanno le Associazioni di Stampa di Puglia e di Basilicata e il segretario generale della Fnsi Raffaele Lorusso. “Quanto sta accadendo ai danni della Gazzetta del Mezzogiorno dovrebbe risvegliare tutti gli organismi vigilanti ad intervenire con urgenza per tutelare il marchio, il giornale e tutti i lavoratori”, denunciano in una nota Fnsi, Assostampa di Puglia e di Basilicata e il Cdr all’indomani della registrazione del marchio “La nuova Gazzetta di Puglia e Basilicata” da parte della società Ledi, ex affittuaria delle attività editoriali della Gazzetta del Mezzogiorno, giornale che dal 1 agosto non è più in edicola. Un “teorema” questo che chi scrive conosce molto bene, essendo stato usato sempre dall’ Assostampa di Puglia guidata all’epoca dei fatti da quel giornalista-sindacalista, tale Raffaele Lorusso ora approdato alla segreteria nazionale della FNSI che rappresenta il 10% dell’intera categoria, allorquando manifestando una palese inconfutabile ignoranza giuridica sosteneva che la nostra iniziativa editoriale danneggiasse il tentativo di salvataggio del fallito quotidiano Corriere del Giorno di Puglia e Lucania edito dalla Cooperativa 19 luglio (fallita con oltre 5 milioni euro di debiti, mediante liquidazione coatta amministrativa) diretto dal semi-sconosciuto giornalista-sindacalista Gianni Svaldi. La realtà dei fatti ha dimostrato esattamente il contrario, e cioè che la nostra iniziativa editoriale era assolutamente legittima, e vive e prospera felicemente con l’apertura di nuove sedi, mentre il quotidiano cartaceo tarantino che ha cessato le pubblicazioni il 30 marzo 2014 non è stato mai rilevato da nessuno, e le sue aste fallimentari sono andate deserte! Secondo il sindacato “Registrare una “nuova Gazzetta” a scapito della “vecchia” Gazzetta, che la stessa società del gruppo Ladisa ha rinunciato ad editare, disdettando la proroga dell’affitto, significa mettere in atto una vera e propria concorrenza sleale a danno della storica testata e dei suoi lavoratori. Il tutto dopo aver compiuto ogni scempio possibile nell’indifferenza di tutti coloro che erano chiamati a vigilare sul bene, dai curatori fallimentari alla Sovrintendenza”. Ancora una volta il sindacato dei giornalisti pugliesi mente sapendo di mentire in quanto dal bando di gara (vedi il documento originale del bando che pubblichiamo di seguito) era prevista oltre ai 6 mesi di affitto della testata, un’eventuale proroga d’affitto per eventuali 6 mesi di gestione della testata, e non 3 mesi come viene raccontato falsamente dai giornalisti della Gazzetta del Mezzogiorno sui social network. Così come è’ altresì falso che la Ledi abbia disdettato la proroga d’affitto. Infatti dai documenti che il CORRIERE DEL GIORNO ha potuto consultare, la richiesta dei curatori fallimentari era in realtà di ulteriori 30 giorni, cioè 1 mese solo (!!) ed era peraltro pervenuta un mese prima della naturale scadenza semestrale. Altro che 6 mesi! La rappresentanza sindacale dei giornalisti si chiede che fine abbia fatto l’insegna che campeggiava sulla sede di piazza Moro (disdettata per morosità precedente) , visibile da diversi punti della città ? Lasciateci fare una domanda: ma tutto ciò non è di competenza del Tribunale Fallimentare? Lo sanno i giornalisti che quella insegna era praticamente furi norma di legge? E continuano “Chi ha autorizzato la Ledi a “deportare” nella propria sede della zona industriale beni museali di proprietà della Edisud e persino gli stessi lavoratori nei 7 mesi di fitto”? Ed anche in questo caso raccontano delle “balle” o se preferite delle “fake news”! Quali sarebbero i beni monumentali? Come si a definire “deportazione” il trasferimento peraltro autorizzato dal Tribunale Fallimentare in una nuova sede ben sapendo che la curatela fallimentare non aveva i soldi per pagare la sede di piazza Aldo Moro, e non a caso fra i creditori chirografari risultano le Assicurazioni Generali proprietarie dell’intero stabile e quindi anche dei vecchi uffici, che avanzano qualche centinaio di migliaia di euro dall’ Edisud!!! E quindi di fatto la redazione era senza una sede, un’ufficio! Per non parlare poi del continuare a “barare” sui numeri, in quanto i mesi sono stati 6 e non 7 come raccontano! E come mai non hanno mai fiatato o protestato quando hanno lavorato in una nuova sede, ricevendo puntualmente il proprio stipendio per 6 mesi? Quello che non raccontano i sindacalisti a questo punto ve lo racconta il CORRIERE DEL GIORNO. E’ stato infatti proprio il sottoscritto un anno fa ad allertare telefonicamente il collega Ugo Sbisà, componente del CdR della Gazzetta del Mezzogiorno che qualcuno furtivamente aveva provato a registrare il marchio “La Gazzetta del Mezzogiorno” all’insaputa di tutti. Senza il mio avviso il marchio sarebbe stato omologato, ed addio diritti sul nome! Ed è stato infatti proprio grazie al sottoscritto che lo hanno messo in salvo a seguito del successivo intervento provvidenziale di tutela della Sovraintendenza che ha adottato un provvedimento che in Italia in precedenza era stato attuato soltanto per il quotidiano LA STAMPA di Torino. Ci risultano altresì delle imbarazzanti richieste di “carriera” agevolata…da parte dei sindacalisti della Gazzetta del Mezzogiorno, uno dei quali ambiva a diventare vicedirettore mentre un altro di una redazione di provincia voleva diventare vice redattore capo. E’ semplicemente ridicolo leggere questo passaggio del comunicato sindacale: “A cosa sono serviti gli innumerevoli vincoli posti dalla Sovrintendenza sul marchio, sulle attività editoriali cartacee, sul sito ancora visibile nonostante siano sospese le attività in capo alla Edisud, proprietaria della Gazzetta del Mezzogiorno e sui beni strumentali, quali pc e scrivanie, ancora depositati nella sede della Ledi?” Purtroppo i giornalisti-sindacalisti estensori di questo imbarazzante comunicato, dimenticano che tutti i passaggi procedurali dell’esercizio provvisorio di affitto della testata avvengono sotto il controllo della curatela fallimentare e che ogni attività deve essere sempre approvata, secondo la Legge, dal Giudice delegato del fallimento. Inoltre i giornalisti della Gazzetta del Mezzogiorno dimenticano che loro rientrano nel fallimento Edisud, mentre la testata del giornale è in carico al fallimento Mediterranea! Il comunicato sindacale così conclude: “E’ evidente l’atto di sciacallaggio che il gruppo Ladisa sta compiendo ai danni della Gazzetta del Mezzogiorno. Dopo aver dismesso le attività di inquilino, non riuscendo a diventarne proprietario, da un lato tiene in ostaggio il giornale in Tribunale, allontanandone l’uscita in edicola con i reclami che obbligano i giudici a ritardare le decisioni; dall’altro lancia sul mercato un prodotto ai limiti della contraffazione per “scippare” lettori e inserzionisti e compromettere, cosi, il futuro della Testata. Uno scempio a danno dei lavoratori – concludono Fnsi, Associazioni di Stampa e Cdr – a cui assistono in silenzio sia gli Enti locali (quando non ne sono stati addirittura sponsor) sia gli Organi dello Stato a cui un bene, con 134 anni di storia, è stato affidato”. Vocaboli offensivi ed autentiche sciocchezze del sindacato dei giornalisti anche su questo punto. Infatti il primo reclamo presentato dinnanzi al Tribunale fallimentare risulta essere stato quello di ECOLOGICA, cioè dell’attuale aggiudicatario della procedura fallimentare. Ed inoltre come abbiamo verificato da visure camerali la LEDI srl, è di proprietà della FINLAD Holding, e non direttamente della LADISA. Qualcuno dovrebbe spiegare ai soliti sindacalisti che nel mercato della libera impresa inoltre chiunque è libero di avviare attività economiche, comprese quelle editoriali. Se un lettore o inserzionista pubblicitario è fedele alla GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO lo resta anche se arriva un concorrente. Ed il richiamo agli enti Locali è semplicemente imbarazzante. La politica deve restare estranea dall’ informazione che altrimenti non sarebbe libera ed indipendente. Non una sola parola del sindacato dei giornalisti invece sull’incombente presenza dietro le quinte come “finanziatore” del ragionier Antonio Albanese, originario di Massafra in provincia di Taranto, recentemente condannato, plurindagato per il quale è stato richiesto ulteriore processo dal procuratore aggiunto Maurizio Carbone e dal pm Enrico Bruschi della Procura di Taranto (Inchiesta T-REX meglio nota come “Monnezzopoli” ) e dai procuratori aggiunti della Procura di Lecce Elsa Valeria Mignone e Guglielmo Cataldi, che hanno chiuso le indagini sui presunti illeciti commessi nell’impianto «Ecolio 2» di Presicce – Acquarica dove si smaltiscono rifiuti liquidi. Una presenza quella di Albanese nella triste vicenda fallimentare della GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO, risulta persino dal fascicolo del Tribunale Fallimentare di Bari, all’interno del quale è presente una comunicazione inviata al giudice Delegato, dal Prof. Avv. Michele Castellano curatore fallimentare della EDISUD spa, che guarda caso è anche il presidente dell’Organismo di Vigilanza della CISA spa di Massafra, cioè la società del “presunto” finanziatore Antonio Albanese. Quello che è sfuggito al Tribunale Fallimentare però è che anche l’altro curatore, il dr. Gabriele Zito a sua volta avrebbe rapporti professionali con società di Albanese collegate alla CISA. Solo “coincidenze”, direbbe il nostro amico Pinuccio di Striscia la Notizia? Evidentemente a Bari nel Tribunale Fallimentare non sono previsti… i conflitti d’interesse contemplati dalla Legge. E’ bene ricordarsi di un vecchio scandalo che accadde anni fa proprio in quel Tribunale Fallimentare per il quale il giudice Michele Monteleone venne destituito dal Consiglio Superiore della Magistratura. Tutto ruotava intorno a una vecchia indagine sulla gestione di alcuni fascicoli fallimentari che il giudice, oggi presidente di sezione del Tribunale di Benevento, curava quando era in servizio nella sezione Fallimentare del Tribunale di Bari. Repetita juvant? Ma a chi … a qualche scribacchino con la tessera sindacale in mano che vuole fare carriera? O a qualche “toga” non troppo limpida? Come non dare ragione al collega Ferruccio De Bortoli, già direttore del CORRIERE DELLA SERA e del SOLE 24 Ore quando scriveva “E’ ora di cambiare, bisogna tornare a fare i giornalisti” aggiungendo “Siamo diventati più servi e concubini del potere, facciamo più parte del gioco. Dovremmo invece tornare a fare esclusivamente i giornalisti, che è già tanto”. Giudizi taglienti. Inequivocabili. Come quello su un modo purtroppo sempre più diffuso di lavorare: “Sempre più un copia e incolla. Acritico, distratto, sciatto”. Come quello di molti giornalisti della GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO che hanno indotto i lettori a non acquistarlo più in edicola da molto tempo. E nel nostro lavoro, il lettore ha sempre ragione.

I SOLITI LAMENTI DEI SINDACALISTI DELLA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO (FALLITA).

Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 29 Settembre 2021. Perchè non raccontano ai propri lettori che fine hanno fatto le due cooperative costituite (giornalisti e poligrafici) e come mai non hanno partecipato al bando di assegnazione dell’esercizio provvisorio della Gazzetta del Mezzogiorno. Più facile passare dalla cassa dell’editore di turno, forse ? Eppure con le cooperative sarebbero potuti diventare padroni del loro giornalismo e quindi “liberi” dagli interessi altrui. Ma forse era un pò troppo complicato…vero ? Ancora una volta assistiamo al solito “pianto” barese dei giornalisti-sindacalisti della Gazzetta del Mezzogiorno, a cui non sta a cuore la sorte e continuità del quotidiano, ma solo il loro stipendio o pensionamento, con la diffusione del rituale comunicato stampa sindacale, dove peraltro vengono raccontate ai lettori delle clamorose inesattezze (per non definirle falsità) documentali! Nel comunicato odierno diffuso dal CdR del giornale chiuso, che quindi legalmente e sindacalmente non ha alcun valore si legge quanto segue: “Sono ormai due mesi che – nel silenzio spesso colpevole delle istituzioni e al cospetto di evidenti manovre sleali – i giornalisti della “Gazzetta del Mezzogiorno” sono costretti alla inattività e alla cassa integrazione a zero ore insieme ai colleghi poligrafici: 134 lavoratori e le loro famiglie che vivono, da tre anni, una tormentata e sofferta gestione aziendale affidata ai Tribunali e i cui esiti appaiono lontani e ignoti. Giornalisti e poligrafici hanno lavorato per tre lunghi anni in condizioni economiche precarie, anche senza prendere lo stipendio, senza una guida editoriale ferma e lungimirante ma hanno comunque fatto il loro lavoro per garantire a tutti i cittadini pugliesi e lucani di continuare ad essere informati su ciò che accade nei loro territori e nel Paese”. Equi si piangono addosso scrivendo qualcosa di assurdo e contrario al vero: 1°) le istituzioni non possono e non devono interferire nella vita e gestione di un quotidiano; 2°) la gestione aziendale dei Tribunali non può essere addebitata a degli imprenditori che nulla c’entrano con le loro vicissitudini imprenditoriali! 3°) in questi due mesi della chiusura della Gazzetta del Mezzogiorno, le edicole sono state sempre aperte, i giornali con le cronache locali regolarmente venduti, addirittura è arrivata l’edizione barese del Nuovo Quotidiano di Puglia (Gruppo Caltagirone Editore), tutte le testate online hanno informato bene e meglio di chi si sente insostituibile, quindi il diritto costituzionale di essere informati non è mai mancato per i cittadini ed lettori di Puglia e Basilicata. I sindacalisti della Gazzetta del Mezzogiorno, dell’Assostampa di Puglia e della FNSI (che rappresenta 1/10 dei giornalisti italiani) dimenticano ed ignorano che in Italia, quando un’azienda fallisce (e nel loro caso sono due le aziende con oltre 50 milioni di euro di debiti) esistono delle norme e procedure che vanno rispettate. Perchè la Legge è e deve essere uguale per tutti. Anche per i giornalisti che non sono degli “unti dal Signore” ! Scrivono: ” La procedura per l’assegnazione definitiva della testata sembrava essere la soluzione a tutti i mali, stante anche l’interesse economico mostrato da vari gruppi imprenditoriali, ma ancora una volta i tempi delle procedure e della giustizia si stanno rivelando incompatibili con quelli delle attività economiche e del diritto di informare e di essere informati, beni pur tutelati dalla Costituzione. L’improvvida scelta – comunicata ai lavoratori con appena 48 ore di preavviso – compiuta dalla società aggiudicataria del relativo bando provvisorio, la Ledi srl del gruppo Ladisa ristorazione, di interrompere le pubblicazioni il 31 luglio scorso, malgrado i 3 mesi di proroga accordati dal Tribunale di Bari, ha interrotto l’attività di un organo di informazione che per oltre 134 anni ha tutelato e garantito i valori costituzionali in due grandi regioni del Sud”. Anche in questo caso affermano il falso. Innanzitutto secondo chi scrive, dovrebbero lamentarsi non con la Ledi (Gruppo Ladisa) che ha dato loro una sede nuova tecnologicamente avanzata, ed uno stipendio per 6 mesi. Ma dovrebbero chiedere ai curatori fallimentari qualcosa: come mai se il bando prevedeva solo 6 mesi di affitto, ed una sola eventuale proroga consentita di 6 mesi, non di 3 mesi come scrivono i sindacalisti, perchè in realtà la proroga offerta dai curatori alla Ledi ad appena 30 giorni dalla scadenza semestrale è stata soltanto di un mese! Ma le “barzellette” sindacali non hanno mai fine alla Gazzetta, aggiungendo quanto segue: “Lo abbiamo scritto nei giorni scorsi al Presidente Mattarella e al Presidente Draghi: la “Gazzetta del Mezzogiorno” è andata in edicola anche quando il Paese era afflitto dalle Guerre mondiali e da due mesi invece è costretta a rinviare il suo quotidiano appuntamento con i lettori a causa delle tattiche spregiudicate di imprenditori il cui unico scopo appare – dopo aver gettato in strada i lavoratori – quello di dilazionarne i tempi di ritorno in edicola, con azioni civili e penali, per favorire progetti editoriali concorrenti. La sospensione delle pubblicazioni ha creato una voragine nella continuità di questa gloriosa storia dell’informazione nel Sud d’Italia. Una voragine a cui le istituzioni regionali e locali, al netto dei comunicati di circostanza, non hanno prestato degna attenzione, riservando in alcuni casi parole di attenzione unicamente nei confronti della compagine imprenditoriale che ha interrotto le pubblicazioni del giornale, e abbandonando invece al loro destino tutti i lavoratori”. Erano molti i giornali italiani che uscivano durante le due guerre mondiali, non solo la Gazzetta del Mezzogiorno. Lamentano di mancare un appuntamento con i lettori, dimenticando di ricordare che in un bacino di 6 milioni di abitanti (Puglia e Basilicata) erano arrivati a vendere nel 2020 appena una media di 9.000 copie al giornale (abbonati compresi!). Dati ufficiali, questi rilasciati dall’ AGCOM cioè dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, che noi ci limitiamo umilmente a riportare per completezza d’informazione e per rispetto di quei lettori e cittadini che scelgono di leggere ed informarsi altrove! I giornalisti “sindacalisti” della Gazzetta continuano: “Sappiamo che nei prossimi giorni il Tribunale di Bari affronterà nuovamente la nostra vicenda e speriamo lo faccia presto e bene, senza comprimere i diritti di difesa di alcuno ma anche senza lasciare spazio ad azioni dilatorie compiute dalla Ledi – ormai è palese a tutti – nel frattempo si sta attrezzando per avviare una nuova impresa editoriale, effettuando casting su casting anche tra gli stessi giornalisti e poligrafici mollati per strada, e prosegue azioni giudiziarie che – basta leggerle – non hanno come fine – che pure sarebbe legittimo – quello di tornare a editare la “Gazzetta del Mezzogiorno” ma unicamente di impedire che il giornale abbia un altro editore“. Forse sarebbe il caso di lasciare lavorare e decidere in santa pace i giudici e magistrati che sono stati coinvolti in una procedura fallimentare piena di equivoci, conflitti d’interesse, da parte delle curatele e dei comitati creditori. Se un imprenditore, chiunque esso sia, predispone un piano alternativo, è e deve essere libero di farlo, chiunque esso sia. E se dovesse nascere una nuova testata, tutti i giornalisti pugliesi dovrebbero essere solo contenti. La pluralità di voci fa bene all’informazione. O forse per i giornalisti della Gazzetta del Mezzogiorno è più importante invece poter contare sulla la liquidità di un imprenditore spregiudicato, condannato e plurinquisito (che non è il Gruppo Micollis, che sono persone per bene e capaci imprenditori, sia chiaro!) il cui denaro puzza della testa ai piedi. Chissà se a Bari sanno che in provincia di Taranto un loro collega con tessera sindacale in tasca va raccontando a tutti, persino nei ristoranti ad un’Autorità dello Stato, “abbiamo il 50% della Gazzetta” senza che il suo santo “protettore” (dicono anche economicamente parlando) abbia partecipato all’asta fallimentare. E la nostra fonte che lo ha sentito con le orecchie, è persona seria ed attendibile e non un signore qualsiasi! Chissà se i giornalisti della Gazzetta sanno che 2 dei 4 curatori lavorano e vengono pagati da questo imprenditore della provincia di Taranto… e che i soldi lasciano sempre traccia! Non è bastata ai giornalisti barese la disavventura giudiziaria del loro ex editore Mario Ciancio e della Direzione Distrettuale Antimafia siciliana? Come si fa a non ridere quando i giornalisti della “Gazzetta del Mezzogiorno” scrivono che “non assisteranno inermi alla battaglia che si sta svolgendo sulle loro teste e contro le loro famiglie e avvieranno ogni azione – nessuna esclusa – per tutelare tutti i loro diritti, sinora così gravemente compressi grazie alla indifferenza e alla complicità delle istituzioni locali”. Perchè non raccontano ai propri sparuti lettori che fine hanno fatto le due cooperative costituite (giornalisti e poligrafici) e come mai non hanno partecipato al bando di assegnazione dell’esercizio provvisorio della Gazzetta del Mezzogiorno? O forse è più facile passare dalla cassa dell’editore di turno? Eppure con le cooperative i 134 dipendenti ex-Edisud sarebbero potuti “padroni” del loro giornalismo e quindi “liberi” dagli interessi altrui. Ma forse era un pò troppo complicato…vero? Bisognava lavorare!

LA PROCURA DI BARI INTERVIENE ALL’ ASTA FALLIMENTARE DELLA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO. Antonello De gennaro su Il Corriere del Giorno il 4 Ottobre 2021. Un colpo di scena. Infatti, oltre agli avvocati delle due società Ecologica e Ledi, era presente la Procura di Bari con il procuratore capo Roberto Rossi con i sostituti Lanfranco Marazia e Luisiana Di Vittorio (che nel maggio 2020 avevano chiesto il fallimento della società editrice e proprietaria della Gazzetta). All’udienza odierna dinnanzi al giudice delegato del Tribunale fallimentare di Bar, chiamato a decidere sull’assegnazione delle società EDISUD spa (fallimento per oltre 40milioni di euro), con in carico 134 dipendenti, e della MEDITERRANEA spa (oltre 10 milioni di euro) proprietaria della testata giornalistica La Gazzetta del Mezzogiorno, c’è stato un colpo di scena. Infatti, oltre agli avvocati delle due società Ecologica e Ledi, era presente la Procura di Bari con il procuratore capo Roberto Rossi con i sostituti Lanfranco Marazia e Luisiana Di Vittorio (che nel maggio 2020 avevano chiesto il fallimento della società editrice e proprietaria della Gazzetta). E’ stato il procuratore capo Rossi a prendere per primo la parola depositando una prima relazione preliminare del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Bari, dalla quale è emerso qualcosa di anomalo dal punto di vista procedurale, e cioè la presenza di due assegni circolari dell’importo di oltre un milione di euro ognuno, uno della società ECOLOGICA spa (Gruppo Miccolis) ed un altro della società CISA spa di Massafra che si sono divisi al 50% il versamento relativo all’offerta al Tribunale Fallimentare che in realtà è stata avanzata soltanto dalla società ECOLOGICA. Un versamento a dir poco anomalo in quanto effettuato da una società (cioè la CISA spa) senza alcun verbale di assemblea che ne autorizzasse l’investimento, in quanto la società massafrese che fa capo al ragionier Antonio Albanese nel proprio vasto oggetto sociale, non include alcuna attività editoriale, e tantomeno alcuna partecipazione neanche in A.T.I. o consorzio con la società ECOLOGICA della famiglia Miccolis. Gli avvocati di ECOLOGICA hanno contestato la registrazione del marchio-testata La Nuova GAZZETTA DI PUGLIA E BASILICATA effettuata da una società del gruppo Ladisa, considerandola un’attività di concorrenza sleale, posizione questa che non è stata condivisa dal giudice delegato, che ha dichiarato l’estraneità ed ininfluenza di tale circostanza alla procedura fallimentare, riservandosi di decidere in merito all’omologa dell’assegnazione. E quindi adesso bisognerà aspettare la decisione del Tribunale Fallimentare.

SLITTA L’ASSEGNAZIONE DELLA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO. LA DECISIONE AL TRIBUNALE, MENTRE UNA PROCURA PUGLIESE INDAGA. Il Corriere del Giorno il 18 Settembre 2021. Il prossimo 27 settembre si discuterà il reclamo depositato dalla società ECOLOGICA, cioè prima che il comitato dei creditori della fallita MEDITERRANEA votasse, e quindi prima che la società del Gruppo Miccolis vincesse. Facile e scontato a questo punto prevedere che i contenziosi legali faranno slittare l’udienza di omologa che era prevista per il 4 ottobre. E quindi bisognerà attendere i tempi della giustizia per arrivare alla conclusione di questa vicenda. Come avevamo previsto sulla procedura fallimentare per l’assegnazione della testata barese pendono due nuove contestazioni: il reclamo presentato dai legali della società ECOLOGICA del gruppo Miccolis di Castellana Grotte (la cui offerta era stata superiore) contro l’ammissione al voto della proposta della concorrente LEDI del gruppo Ladisa di Bari; e l’opposizione della stessa LEDI alla omologa della proposta di ECOLOGICA votata e approvata dai due comitati dei creditori. La Gazzetta del Mezzogiorno ha cessato le pubblicazioni a seguito della conclusione dell’esercizio provvisorio della LEDI (secondo quanto previsto dal bando di assegnazione predisposto dai curatori fallimentari) e dall’1 agosto scorso non è più reperibile nelle edicole di Puglia e Basilicata . Il 1 settembre, il Tribunale fallimentare di Bari, ha i ricevuto dai curatori fallimentari della EDISUD (che ha incarico gli oltre 140 dipendenti) e della MEDITERRANEA (che ha in carico la vecchia sede e le testata giornalistica) l’esito della votazione delle assemblee dei creditori che avevano votato in favore della proposta concordataria di ECOLOGICA, assegnando come previsto per Legge 15 giorni per eventuali opposizioni. L’opposizione preparata dai legali del Gruppo Ladisa (che controlla la LEDI) è stata depositata ieri e si basa su motivi tecnici di regolarità della procedura, fra i quali alcuni conflitti d’interesse da parte dei curatori fallimentari i quali risultano avere cariche sociali remunerative nel gruppo CISA di Massafra, società molto attiva nel rilevare fallimenti aziendali, il cui presidente Antonio Albanese è stato recentemente condannato dal Tribunale di Taranto) vorrebbe affiancare la ECOLOGICA nella gestione del quotidiano. L’affermazione “abbiamo il 50% della nuova Gazzetta” è stata fatta da un giornalista-sindacalista della GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO molto “vicino” (forse troppo…) ad Albanese, che è stato “beccato” ed ascoltato da un nostro informatore, mentre era seduto a cena con un alto rappresentante dell’Autorità dello Stato. Un eventuale potenziale conflitto d’interessi quello dei curatori. collegati alla CISA spa di Massafra, che peraltro è già oggetto di un esposto pervenuto alla Procura della Repubblica di Lecce, che è notoriamente competente sull’eventuale operato anomalo ed illegale degli uffici giudiziari di Bari. E non sarebbe la prima volta che all’interno del Tribunale Fallimentare di Bari esplode uno scandalo. Adesso dopo la notifica dell’opposizione della LEDI ad ECOLOGICA il Tribunale ha 15 giorni per termini di procedura legale, per fissare l’udienza in cui gli avvocati discuteranno le rispettive tesi difensive ed accusatorie. Il prossimo 27 settembre si discuterà nel frattempo il reclamo presentato lo scorso 12 agosto dalla società ECOLOGICA del gruppo Miccolis nei confronti della LEDI, cioè prima che il comitato dei creditori della fallita MEDITERRANEA votassero e quindi prima che vincesse. Il reclamo di ECOLOGICA è stato notificato alla LEDI lo scorso 6 settembre. Questo reclamo non è stato ritirato nonostante l’aggiudicazione ricevuta da parte dei due rispettivi comitati dei creditori, in quanto l’eventuale accoglimento, farebbe decadere la legittimazione di LEDI ad opporsi, come ha fatto all’ aggiudicazione dell’asset fallimentare. E’ facile scontato prevedere a questo punto che i contenziosi legali faranno slittare anche l’udienza di omologa che era prevista per il 4 ottobre. E quindi bisognerà attendere i tempi della giustizia per arrivare alla conclusione di questa vicenda. Quello che il CORRIERE DEL GIORNO ha scoperto è che i sindacalisti della GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO e dell‘ASSOSTAMPA di Puglia, si guardano bene dal raccontare e spiegare ai propri lettori, è che all’indomani del fallimento, sia i giornalisti che i poligrafici avevano costituito due cooperative. Ma nessuna di entrambe ha mai chiesto al Tribunale Fallimentare di Bari di poter prendere in gestione il quotidiano fallito, dei quali erano peraltro creditori privilegiati, per la quale si sarebbero potuti avvalere anche dei contributi di Legge sull’Editoria, riservata ai quotidiani editi dalle cooperative (come ad esempio IL FOGLIO, LIBERO, IL ROMA, AVVENIRE, IL MANIFESTO, ITALIA OGGI, IL QUOTIDIANO DEL SUD, il QUOTIDIANO DI SICILIA ecc.), rinunciando persino al sostegno finanziario offerto loro da un importante gruppo imprenditoriale pugliese. Probabilmente i giornalisti-sindacalisti della GAZZETTA DELLA MEZZOGIORNO preferiscono passare alla “cassa” dell’editore di turno, piuttosto che diventare padroni del proprio lavoro e finalmente giornalisti liberi ed indipendenti. E’ la stampa, bellezza! Che però in questo rischia di finire “controllata” e finanziata dalla spazzatura (che non è chiaramente nè la LEDI e tantomeno la ECOLOGICA) . Spazzatura che mai come in questo caso puzza dalla testa ai piedi, e quindi si potrebbe facilmente dire: “E’ la stampa monnezza”!

PER IL COMITATO CREDITORI DEI FALLIMENTI DELLA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO, LA PROPOSTA VINCENTE E’ QUELLA DEL GRUPPO MICCOLIS (ECOLOGICA): PRONTO IL RICORSO DEL GRUPPO LADISA. Il Corriere del Giorno l'1 Settembre 2021. Una sola cosa è certa al momento: per rivedere in edicola la GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO che al momento non ha neanche una sede propria, bisognerà ancora aspettare un bel pò, per dare ufficialità ed arrivare alla decisione finale che a questo punto verrà presa in sede giudiziaria. Il peggiore destino per lo storico quotidiano barese. Esattamente un mese dopo la cessazione delle pubblicazioni del quotidiano barese, il Tribunale Fallimentare di Bari ha ricevuto dai rispettivi curatori fallimentari della EDISUD (società editrice) e della MEDITERRANEA (società proprietaria della testata) l’ esito della votazione delle rispettive assemblee dei creditori, che hanno indicato come preferenziale, accogliendola, la proposta concordataria presentata dalla società Ecologica spa del gruppo Miccolis di Castellana Grotte. Il Tribunale Fallimentare di Bari, a sua volta, ha notificato l’esito alle due società che hanno presentato proposte di concordato, assegnando loro 15 giorni per eventuali impugnazioni, prima dell’omologa e l’assegnazione definitiva della testata al suo prossimo editore. Da noi contattato telefonicamente il dr. Franco Sebastio, ex procuratore capo di Taranto, attuale presidente della società Ledi, ci ha dichiarato che il Gruppo Ladisa di Bari che ha editato il giornale per sei mesi, dopo la cessazione dell’esercizio provvisorio e fino al 31 luglio, impugnerà l’esito della votazione che sarebbe stata condizionata da alcune valutazioni erronee dei curatori fallimentari della EDISUD, che peraltro hanno lasciato trapelare l’esito delle proposte con indicazione delle cifre, precise al centesimo, allorquando era ancora in itinere il voto e la decisione del comitato creditori della società MEDITERRANEA ex-proprietaria della testata giornalistica. Al CORRIERE DEL GIORNO risultano degli esposti presentati alla Procura di Lecce nei confronti dei professionisti Michele Castellano e Gabriele Zito  curatori fallimentari della EDISUD, che hanno incarichi con alcune società del Gruppo CISA spa , i cui proprietari ed i loro portavoce “occulti” hanno messo in circolazione la voce confidenziale che sarebbero in cordata con il gruppo MICCOLIS, società che da noi contattata non ha confermato tale “voce”, che peraltro non risulta neanche nelle proposte presentate da ECOLOGICA al Tribunale Fallimentare di Bari. Una sola cosa è certa al momento: per rivedere in edicola la GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO che al momento non ha neanche una sede propria, bisognerà ancora aspettare un bel pò, per dare ufficialità ed arrivare alla decisione finale che a questo punto verrà presa in sede giudiziaria. Il peggiore destino per lo storico quotidiano barese.

DIETRO LE QUINTE DELL’ASPIRANTE EDITORE DELLA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO. Il Corriere del Giorno il 20 Agosto 2021. Una cosa è quasi certa: questa disputa sulle ceneri di un giornale che ha 144 dipendenti e vendeva appena 9.000 copie al giorno potrebbe non finire come molti scrivevano ed auspicavano a fine mese, e per rivedere in edicola LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO bisognerà aspettare dei tempi più lunghi. Quando un giornale casca in un equivoco causato da omonimia, ha il dovere di correggere un errore e chiarire la realtà dei fatti. Nella prima versione di questo articolo abbiamo dato notizia della condanna di Vito Miccolis, amministratore unico (all’epoca dei fatti) della ECOLOGICA spa, che era stata pubblicata anni fa dalla GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO. La notizia era corretta, solo che quel Vito Miccolis è deceduto alcuni anni fa, ed è il nonno dell’attuale direttore generale di ECOLOGICA, che non ha subito alcuna condanna penale. Il Vito Miccolis amministratore unico della ECOLOGICA spa di Statte società controllata dalla famiglia Miccolis di Castellana Grotte (provincia di Bari) di cui abbiamo scritto in precedenza era gravato da una condanna penale ad un anno ed otto mesi per omicidio colposo, disposta dal giudice monocratico del Tribunale di Taranto Massimo De Michele nel novembre del 2007 per la morte di Francesco Montervino, operaio di 46 anni dipendente della ditta “ECOLOGICA” deceduto per asfissia il 28 settembre 2001 all’interno della centrale termoelettrica 2 Ise dell’ ILVA di Taranto. Venne condannato anche il responsabile tecnico della stessa ditta, Antonio Capodiferro. L’operaio deceduto Massimo De Michele, dipendente della ECOLOGICA spa, secondo quanto accertato dagli investigatori, rimase soffocato da una nube di gas mentre, insieme a due colleghi, stava eseguendo lavori di bonifica in un cunicolo. Il giudice a suo tempo aveva subordinato la sospensione della pena al pagamento di provvisionali ai famigliari dell’operaio morto. Insieme a Vito Miccolis furono condannati anche altri due imputati Guido Bedini, responsabile tecnico del cantiere della “Nuova Pignone”, Nicola Romano responsabile tecnico delle misurazioni di eventuali sostanze nocive all’interno del cantiere. Come il nostro Direttore ha raccontato in una diretta di qualche giorno fa, Antonello de Gennaro è un vecchio amico di Stefano Miccolis, figlio del Vito Miccolis deceduto, ed è il padre dell’ attuale Vito Miccolis che ha solo 38 anni e ricopre la carica di direttore generale di ECOLOGICA spa, la società che sta partecipando alla turbolenta asta fallimentare per la gestione del quotidiano barese LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO. Per verificare se le voci circolanti sulla presenza in cordata con la società ECOLOGICA dell’imprenditore massafrese Antonio Albanese, proprietario del gruppo CISA che opera nel settore dei rifiuti, recentemente condannato e plurindagato, basterà aspettare la fine di questa turbolenta asta, anche perchè le vigenti norme di legge sull’editoria prevedono la totale trasparenza nelle compagini societarie editoriali. Una cosa è quasi certa: questa disputa sulle ceneri di un giornale che ha 144 dipendenti e vendeva appena 9.000 copie al giorno potrebbe non finire come molti scrivevano ed auspicavano a fine mese, e per rivedere in edicola LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO bisognerà aspettare dei tempi più lunghi.

CONDANNATO ANTONIO ALBANESE. Il Corriere del Giorno il 12 Maggio 2021. A tale processo si è giunti a seguito della segnalazione di cittadini sulla base di foto satellitari e della documentazione presente nei precedenti gradi di giudizio, che era stata evidenziata con un eco anche a livello nazionale nei servizi televisivi di “Striscia la Notizia” che aveva realizzato sulla vicenda numerosi servizi, affiancato dal nostro quotidiano, mentre la stampa locale taceva. Venerdì scorso 7 maggio il Giudice dell’udienza Preliminare del Tribunale di Taranto, Francesco Maccagnano, al termine della Camera di Consiglio, ha pronunciato la prima attesa sentenza sulla nota questione del “Boschetto Fantasma”, correlato alla realizzazione del Secondo Inceneritore di Massafra. Al centro della sentenza l’imprenditore massafrese Antonio Albanese, nella sua veste di legale rappresentante di Appia Energy s.r.l. L’accusa della Procura di Taranto sosteneva che Antonio Albanese aveva fatto eseguire nel 2016 numerosi tagli e estirpazioni in una area boschiva prospiciente la sede di realizzazione dell’impianto di incenerimento rifiuti per rendere il progetto compatibile con le normative paesaggistiche vigenti. Un intervento effettuato in termini temporali prima delle verifiche dei consulenti del Consiglio di Stato, chiamato in ultima analisi ad esprimersi sulla reale compatibilità dell’impianto con il Piano paesaggistico regionale. A tale processo si è giunti a seguito della segnalazione di cittadini sulla base di foto satellitari e della documentazione presente nei precedenti gradi di giudizio, che era stata evidenziata con un eco anche a livello nazionale nei servizi televisivi di “Striscia la Notizia” che aveva realizzato sulla vicenda numerosi servizi, affiancato dal nostro quotidiano, mentre la stampa locale taceva. Il processo riguardava anche l’eventuale sussistenza dei reati di falso ideologico a carico dei consulenti stessi.La sentenza ha portato alla condanna di Antonio Albanese per il reato ambientale: l’imputato è stato considerato colpevole e punito con 3 mesi di reclusione (convertiti in pena pecuniaria di € 22.500) ed € 8.500 di ammenda, al pagamento delle spese processuali. Albanese grazie alla sapiente difesa dell’ avvocato Raffo del foro di Taranto, stato invece assolto per i restanti reati. In attesa delle motivazioni della sentenza che il giudice dovrebbe depositare entro 90 giorni, il Comitato No Raddoppio, la sezione locale ISDE Medici per l’Ambiente e altre associazioni del territorio assicurano il loro impegno in questo cammino rilevano che tale sentenza, contro la quale è possibile fare ricorso in appello, lascia aperta la strada al proseguimento dell’impegno di quanti in questi lunghi anni hanno sostenuto le ragioni di una lotta civile per la tutela del territorio e della salute dei suoi cittadini. Ed ora chissà se il solito “pennivendolo” scriverà un suo articoletto in favore del suo amichetto e sponsor Antonio Albanese, che Striscia la Notizia cercava solo audience….

LA CORTE DI APPELLO SMENTISCE LA PROCURA E TRIBUNALE DI TARANTO SULLA VICENDA CONDEMI-RENNA-MICELLI. Il Corriere del Giorno il 13 Settembre 2021. La Corte d’ Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto ha annullato la sentenza di 1° grado “considerato che il fatto risulta diverso da quello oggetto della originaria contestazione da parte del P.M. e del successivo accertamento in primo grado” e disposto “la trasmissione degli atti alla locale Procura della Repubblica per le determinazioni di competenza in relazione a quanto indicato in narrativa”. Sentenza annullata. Si può mandare in carcere una persona senza aver prima valutato bene i fatti e le circostanze ? A Taranto succede anche questo, a seguito dell’ennesima discutibile decisione del pm Enrico Bruschi, che si fece trarre in inganno dalla furbata di un noto truffatore, che finse di essere stato estorto quando invece era lui che cercava di corrompere qualcuno, come nel suo “stile”…di vita e modus operandi, facendo arrestare due ex-consiglieri comunali di Taranto. Peccato che lo stesso pm Bruschi non abbia usato lo stesso “pugno di ferro…” quando le Fiamme Gialle nell’“operazione T-Rex“ chiesero l’arresto dell’imprenditore di Antonio Albanese, proprietario della CISA spa di Massafra, responsabile (secondo le Fiamme Gialle) di aver consentito a degli indagati di sviare le indagini vanificando le intercettazioni in corso che vennero quindi sospese. In quel caso il pm Bruschi respinse la richiesta. Sarà forse perchè è più facile e comodo, come dice un proverbio, essere “debole con i forti, forte con i deboli”? Secondo la denuncia del pluri-pregiudicato Salvatore Micelli (attualmente ai domiciliari) , all’epoca dei fatti presidente della cooperativa INDACO che si occupava di migranti, sosteneva gli sarebbero stati richiesti 3mila euro per vincere un lodo arbitrale gestito dalla figlia di Condemi, anch’ella avvocato (che è risultato ignara e quindi estranea ai fatti) . Aldo Condemi e Cataldo Renna vennero fermati dai militari delle Fiamme gialle in un bar che si trovava a pochi metri dallo studio legale del’ avv. Condemi proprio mentre Micelli consegnava una busta contenente la somma della presunta estorsione. Condemi venne posto ai domiciliari mentre Renna fu tradotto in carcere. Cataldo Renna è stato consigliere comunale per il centrodestra sino alle elezioni del 2017, quando venne candidato dall’ On. Gianfranco Chiarelli con la lista Direzione Taranto, espressione locale di Direzione Italia, risultando il più votato della lista con 364 preferenze di voto, non sufficienti tuttavia a entrare in consiglio comunale. Aldo Condemi, invece, non ricopriva da tempo incarichi politici. Anni fa è stato assessore ai Lavori pubblici della prima giunta guidata dal sindaco forzista Rossana Di Bello (recentemente scomparsa) e poi anche candidato sindaco nel 2012 per il centrodestra (Pdl) sostenuto da un movimento politico che portava il suo nome. In quell’occasione Condemi si fermò al primo turno con il 7 per cento circa dei voti. Successivamente il gip Vilma Gilli aveva revocato gli arresti per entrambi accogliendo la richiesta degli avvocati Rocco Maggi e Matteo Giaccari (successivamente sostituito dall’ avv. Andrea Silvestre), i quali difendevano rispettivamente Condemi e Renna.

Venerdì scorso la Corte d’ Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto ha annullato la sentenza di 1° grado “considerato che il fatto risulta diverso da quello oggetto della originaria contestazione da parte del P.M. e del successivo accertamento in primo grado” e quindi ai sensi dell’ art. 521 del codice di procedura penale ha disposto “la trasmissione degli atti alla locale Procura della Repubblica per le determinazioni di competenza in relazione a quanto indicato in narrativa“. E quindi sentenza annullata.

Discariche e impianti, la selva di leggi danneggia il Tarantino. Fabio Modesti l'8 Agosto 2021 su vglobale.it. Bloccato un intervento di Antonio Albanese. In un territorio dove gli agrumeti, ormai quasi del tutto soppiantati da tendoni di uva da tavola, convivono con impianti di incenerimento dei rifiuti, con discariche mai recuperate ma anche con importanti lembi di naturalità delle gravine che dall’anfiteatro a monte scendono verso il golfo di Taranto, non è il caso di insistere sulla localizzazione di ulteriori insediamenti industriali. Forse sarebbe il caso di ricucire quel territorio e di sanare le ferite infertegli. Questa volta Antonio (detto Tonino) Albanese, uno degli imprenditori più attivi in Puglia, non ce l’ha fatta a vincere una battaglia legale contro il Comune di Massafra (TA). Albanese, che negli ultimi anni ha diversificato molto i suoi investimenti puntando soprattutto sul ramo immobiliaristico ed ora anche in quello editoriale con una delle due offerte (in tandem con la società Ecologica del gruppo Miccolis di Castellana Grotte) per rilevare «La Gazzetta del Mezzogiorno», aveva intenzione di attivare un impianto per l’essiccamento, mediante combustione, di fanghi derivanti da impianti di trattamento delle acque reflue con recupero energetico. Un tipico impianto che, alla moda d’oggi, si potrebbe definire di «economia circolare». L’impianto, tra l’altro, sarebbe dovuto sorgere in adiacenza alle discariche esaurite del Comune di Massafra e all’impianto di preselezione, biostabilizzazione e produzione di Cdr e relativa discarica, entrambi gestiti dalla Società Cisa Spa di proprietà sempre dello stesso Albanese. Il problema è che il nuovo stabilimento lo voleva realizzare, attraverso un’altra delle sue società, la Stf, in una zona non idonea ad ospitarlo cioè ad una distanza inferiore ai 2 chilometri dai Siti Natura 2000 (in questo caso dalla Zona di protezione speciale, Zps, «Area delle gravine» che è anche parco naturale regionale) stabilita dal Piano di gestione dei rifiuti della Regione Puglia del 2015. Nonostante il parere contrario del Comune di Massafra e dell’Arpa Puglia, la Provincia di Taranto ha concluso favorevolmente il procedimento di autorizzazione unica ambientale e di valutazione di impatto ambientale. Il Comune di Massafra ha così fatto ricorso al Tar Lecce il quale, nel gennaio 2019, ha accolto le tesi del Comune tarantino ed ha annullato il provvedimento provinciale. Le motivazioni dei giudici amministrativi pugliesi sono numerose quanto i motivi di ricorso. Il Consiglio di Stato, cui la società Stf si era appellata, nella sentenza pubblicata il 2 agosto scorso, le ha confermate assorbendole in una, risolutiva. Infatti, la società riteneva che il limite dei 2 chilometri di distanza dai Siti Natura 2000 per realizzare l’impianto, stabilito dal Piano regionale di gestione dei rifiuti, fosse stato superato dal successivo Piano paesaggistico territoriale regionale (Pptr). Quest’ultimo non consente la realizzazione di quel tipo di impianti solo all’interno dei parchi naturali, ed in un’area di rispetto di 100 metri da essi, ed all’interno dei siti di rilevanza naturalistica (come le Zps) ma per questi ultimi non definisce l’area di rispetto. Sostanzialmente, il Consiglio di Stato afferma che le disposizioni contenute nel Piano di gestione dei rifiuti siano più restrittive di quelle contenute nel Pptr e che lo stesso Pptr sancisce, all’art. 4, comma 3., che le proprie disposizioni normative «individuano i livelli minimi di tutela dei paesaggi della regione. Eventuali disposizioni più restrittive contenute in piani, programmi e progetti […] sono da ritenersi attuative del Pptr, previa acquisizione del parere di compatibilità paesaggistica di cui all’art. 96 volto alla verifica di coerenza rispetto alla disciplina del Pptr». Ora, bisognerà vedere se la distanza stabilità dal Piano di gestione rifiuti urbani pugliese del 2015 sarà confermata nel suo aggiornamento all’esame dell’attuale Giunta regionale. Ma in quel contesto ambientale e paesaggistico, dove gli agrumeti, ormai quasi del tutto soppiantati da tendoni di uva da tavola, convivono con impianti di incenerimento dei rifiuti, con discariche mai recuperate ma anche con importanti lembi di naturalità delle gravine che dall’anfiteatro a monte scendono verso il golfo di Taranto, non è il caso di insistere sulla localizzazione di ulteriori insediamenti industriali. Forse sarebbe il caso di ricucire quel territorio e di sanare le ferite infertegli. Ma a quanto pare, al di là delle chiacchiere sul futuro di Taranto e del suo hinterland, questo non interessa a nessuno, neanche in tempi di Pnrr. 

Nasce la Cinecittà di Puglia grazie all'imprenditore massafrese Antonio Albanese. Luigi Serio su viviwebtv.it il 03 marzo 2020. Il patron della CISA Antonio Albanese continua a diversificare i propri investimenti e si lancia in un ambizioso progetto: creare in Puglia una nuova Cinecittà, gli "Apulia Studios". Luogo prescelto è l’ex parco acquatico Felifonte acquistato da Albanese e adiacente al complesso turistico Nova Yardinia di Castellaneta Marina, già rilevato dall’imprenditore assieme a tre banche (Mps, Intesa e Popolare di Bari) poco meno tre anni fa, con un investimento di 120 milioni di euro. Felifonte si estende su un’area di 45 ettari che saranno convertiti in studi cinematografici all’avanguardia, per circa 18mila metri quadrati, di cui 9 studi di posa (il più grande di 5mila mq.) e 2 piscine, ideali per le riprese subacquee, che faranno di Castellaneta Marina la nuova Cinecittà. A capo del progetto “Apulia Studios”, come detto, Antonio Albanese, l’imprenditore massafrese presidente della CISA Spa operante nel settore del trattamento dei rifiuti, che si avvale della consulenza qualificata di due dirigenti ex Apulia Film Commission, nonché fondatori della società di produzione cinematografica e televisiva romana Fidelio: i baresi Silvio Maselli e Daniele Basilio. Il progetto - dal costo di 50 milioni di euro – sarà cantierizzato nei prossimi mesi e si articolerà in due fasi: la prima vedrà luce nella primavera dell'anno prossimo e riguarderà i primi impianti di medie dimensioni, la seconda prevede il completamento degli studi di posa più imponenti entro la fine del 2021.

TURBATA (?) L’ASTA FALLIMENTARE DELLA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO A BARI. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 18 Agosto 2021.  Forse è il caso che la Procura della Repubblica di Lecce controlli un pò quello che sta accadendo. E che il Presidente del Tribunale Fallimentare di Bari faccia rispettare la legge ai curatori fallimentari. Dietro le quinte della turbolenta ( e turbata) asta fallimentare della duplice procedura fallimentare della GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO a Bari. Tutto quello che i soliti “amichetti” del sindacato dei giornalisti non raccontano sui giornali locali e sui vari siti internet. Questo l’articolo dell’ edizione barese del quotidiano LA REPUBBLICA che pubblicando notizie riservate che al momento non possono essere rese pubbliche dai curatori fallimentari stanno turbando l’asta in corso. Forse è il caso che la Procura della Repubblica di Lecce controlli un pò quello che sta accadendo. E che il Presidente del Tribunale Fallimentare di Bari faccia rispettare la legge ai curatori fallimentari. Per l’ ANSA Bari, Castellana Grotte è in provincia di Taranto…mentre in realtà si trova in provincia di Bari. Povero giornalismo!

La Gazzetta del Mezzogiorno verso la società Ecologica del Gruppo Miccolis di Castellana. La Repubblica il 17 agosto 2021. La maggior parte dei creditori delle società Mediterranea ed Edisud (proprietaria ed editrice del giornale) sarebbe orientata verso la proposta di concordato della società. Il prossimo proprietario della Gazzetta del Mezzogiorno potrebbe essere la società Ecologica, del gruppo imprenditoriale Miccolis di Castellana Grotte. A quanto è trapelato, la maggior parte dei creditori delle società Mediterranea ed Edisud, rispettivamente proprietaria e editrice della Gazzetta, entrambe in procedura fallimentare, sono orientanti verso il voto in favore della proposta di concordato della società di Castellana. L'offerta di Ecologica, come già emerso dai pareri dei curatori fallimentari, è risultata più vantaggiosa rispetto a quella dell'altra società, la Ledi del gruppo Ladisa. Ledi ha editato il giornale negli ultimi sei mesi, dopo la cessazione dell'esercizio provvisorio fino al 31 luglio scorso con un contratto di fitto di ramo d'azienda. La decisione di non prorogare il contratto in attesa che si concludesse la procedura fallimentare con assegnazione della testata al definito proprietario editore ha comportato la cessazione delle pubblicazioni del giornale, a partire dall'1 agosto, dopo 134 anni. I creditori hanno tempo per votare fino al prossimo 28 agosto. Dopo il voto il Tribunale dovrà verificare la regolarità della procedura e poi fissare una udienza di omologa. Nel frattempo potrebbe comunque già assegnare la testata alla società risultata vincitrice della procedura, consentendo al giornale nel giro di qualche giorno di tornare in edicola.

Francesco Casula per ilfattoquotidiano.it il 31 luglio 2021. Ricomincia l’incubo per i giornalisti e i lavoratori della Gazzetta del Mezzogiorno, quotidiano pugliese che da lunedì interromperà le pubblicazioni in edicola. La decisione è stata dei vertici di Ledi srl, che fa capo ai fratelli Ladisa e dal 10 dicembre, a causa del fallimento della società Edisud, ha ottenuto dal tribunale di Bari la gestione provvisoria della testata in attesa dell’aggiudicazione definitiva. Ed è proprio la proposta per l’aggiudicazione definitiva avanzata dal gruppo barese a non aver convinto i lavoratori della Gazzetta: l’offerta, infatti, si è rivelata più bassa rispetto a quella depositata da una seconda cordata di imprenditori che fa capo alla “Ecologica” della provincia di Taranto. E così, pur avendo la possibilità di prorogare la gestione per altri 3 mesi, Ledi srl ha ritenuto opportuno non prorogare il contratto di affitto. E così tra qualche giorno, lo storico quotidiano pugliese non sarà in edicola. Nelle scorse ore la redazione ha voluto informare i lettori di quanto sta accadendo: nella nota pubblicata nell’edizione di oggi, però, a differenza del passato si colgono segnali di speranza. “Scelte imprenditoriali e tempi delle procedure fallimentari – scrive il comitato di redazione – stanno producendo un risultato, il blocco delle pubblicazioni in attesa dell’aggiudicazione definitiva della testata, avverso il quale abbiamo lottato con tutte le nostre forze, a costo anche di rilevanti sacrifici personali, economici, con il ricorso massiccio agli ammortizzatori sociali e l’ulteriore taglio degli stipendi, e logistici, con la chiusura di quasi tutte le storiche redazioni decentrate della Gazzetta. Non ci interessa, almeno non ora e non adesso, ricostruire fatti e responsabilità della situazione professionale e lavorativa nella quale siamo venuti a trovarci nostro malgrado ma vogliamo scrivervi – perché poi scrivere è quello che ci piace di più – che la storia della Gazzetta del Mezzogiorno non finisce certo qua e così, che il nostro dialogo con voi riprenderà al più presto. Non sarà una pec a bloccare oltre 130 anni di storia vissuti dalla parte dei lettori, della Puglia e della Basilicata, di territori che hanno ancora tante cose da raccontare e far raccontare, magari con ancora più slancio, con strumenti più moderni e più rispondenti all’epoca che stiamo vivendo, con una rinnovata presenza sul territorio, attraverso il ripristino delle edizioni dedicate alle singole provincie di Puglia e Basilicata e il ritorno ai presidi nei capoluoghi di provincia. No, non è un sogno ma l’unica via percorribile per ridare al nostro giornale quel ruolo di sindacato del territorio che per tanti ha svolto”. “Stremata ma non vinta la redazione della Gazzetta non abdica al suo ruolo, vi dà appuntamento a prestissimo e chiede – concludono i giornalisti – a tutti gli attori in campo di tenere sempre ben presente che il giornale è un bene comune e come tale va trattato è tutelato”. Sulla vicenda è intervenuta anche la Federazione della Stampa di Puglia e Basilicata che, pur ritenendo la scelta della Ledi “legittima perché rientra nell’esercizio della libertà imprenditoriale”, l’ha definita “incomprensibile tanto più perché comunicata ventiquattr’ore prima della scadenza del contratto e dopo che, tre giorni fa, la stessa Ledi aveva comunicato alla direzione e alla redazione la volontà di continuare a gestire provvisoriamente la testata per altri trenta giorni, in attesa dell’esito del voto del comitato dei creditori sulle due proposte concordatarie presentate alla curatela”. Per i sindacalisti di Puglia e Basilicata, questo “è il momento di fare ciascuno il massimo sforzo per far sì che, nel rispetto delle procedure di legge, la Gazzetta del Mezzogiorno possa tornare al più presto in edicola”. E chiudere una volta per tutte la pagina più buia della sua storia ultrasecolare.

DAL 2 AGOSTO LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO INTERROMPE LE PUBBLICAZIONI. I DIPENDENTI IN CASSA INTEGRAZIONE. Il Corriere del Giorno il 31 Luglio 2021. Il contratto di affitto della testata La Gazzetta del Mezzogiorno alla Ledi srl (Gruppo Ladisa) cesserà la propria efficacia domani, sabato 31 luglio e la società ha comunicato l’indisponibilità a prorogare per solo un altro mese il fitto di azienda. Il giornale rientrerà nella disponibilità esclusiva delle curatele fallimentari delle società Edisud e Mediterranea e con esse i 144 dipendenti tra giornalisti e poligrafici. Da lunedì prossimo 2 agosto i pugliesi e lucani non troveranno più in edicola La Gazzetta del Mezzogiorno. La società Ledi srl , controllata dal gruppo Ladisa non ha accettato (secondo noi giustamente) la proroga di un ulteriore mese, fino al 31 agosto, dell’affitto del ramo d’azienda concesso dalla curatela fallimentare di Edisud spa, editrice del giornale in esercizio provvisorio dal dicembre 2020. Un giornale non può andare avanti con una proroga di un mese, sopratutto dopo l’importante lavoro di risanamento dei conti effettuato dai managers della Ledi che ha garantito la permanenza in edicola dello storico quotidiano pugliese. Il contratto di affitto della testata La Gazzetta del Mezzogiorno alla Ledi cesserà la propria efficacia domani, sabato 31 luglio e la società ha comunicato l’indisponibilità a prorogare per solo un altro mese il fitto di azienda. Il giornale rientrerà nella disponibilità esclusiva delle società Edisud e Mediterranea e con esse i 144 dipendenti tra giornalisti e poligrafici, “automaticamente retrocessi”, come viene riportato nella comunicazione inviata ai lavoratori. La Ledi srl del gruppo Ladisa ha comunicato la propria indisponibilità a prorogare di solo un mese, oltre i sei mesi previsti il fitto di azienda, perché – si apprende – contesta al Tribunale fallimentare e alle curatele di aver seguito tempi troppo lunghi per l’assegnazione definitiva della testata, di proprietà della società Mediterranea, anche questa in procedura fallimentare. Il giornale conseguentemente rientrerà, seppure senza una sede, nella disponibilità esclusiva della curatela fallimentare di Edisud insieme a tutti i rapporti di lavoro: 144 tra giornalisti e poligrafici saranno “automaticamente retrocessi – si legge nella comunicazione inviata ai lavoratori – senza soluzione di continuità, con effetto dal primo agosto, alla società Edisud in fallimento”. “Con profondo rammarico la Società ha manifestato la propria indisponibilità a prorogare l’esecuzione del fitto di azienda oltre la sua naturale scadenza del 31 luglio 2021 avendo registrato che le valutazioni formulate dal Comitato dei creditori e dai Curatori del Fallimento Mediterranea s.p.a. sulle proposte di concordato fallimentare pendenti dinanzi al Tribunale di Bari (fra cui quella formulata dalla stessa Ledi), non valorizzano, né sul piano formale né su quello sostanziale, la continuità aziendale e, così, ogni sforzo profuso dalla Ledi s.r.l. dallo scorso dicembre 2020 ad oggi”. “Fino ad oggi la Ledi, come a tutti noto, con una prudente e attenta riorganizzazione dell’attività, non solo ha garantito la regolare continuità editoriale ma ha anche valorizzato tutti gli asset delle due Curatele fallimentari (in primis, testata giornalistica e segni distintivi) acquisiti in godimento nello scorso dicembre, in un momento in cui da un canto l’esercizio provvisorio del Fall. Edisud s.p.a. disposto dal Tribunale in sede fallimentare produceva perdite giornaliere consistenti e dall’altro per giornalisti e poligrafici non vi erano più concrete prospettive di lavoro”, recita il comunicato. “A questo punto, la Ledi s.r.l. pienamente consapevole dei complessi problemi di natura editoriale e occupazionale derivanti dalla situazione che potrebbe crearsi con la cessazione dell’affitto d’azienda, rimane rispettosamente in attesa delle decisioni che i Creditori e il Tribunale di Bari vorranno assumere per dare soluzione a una delle più delicate crisi imprenditoriali del nostro Territorio”, conclude il comunicato. Adesso si dovrà attendere che si concludano le procedure di votazione sui piani di concordato fallimentare per la Mediterranea presentati dalle società Ledi srl ed Ecologica spa società riconducibile alla famiglia Miccolis di Castellana Grotte, e soltanto all’esito delle quali potranno riprendere le pubblicazioni con un nuovo editore, si spera definitivo. Nel frattempo tutti i lavoratori che per oggi hanno annunciato una assemblea verranno messi in cassa integrazione a zero ore. Ai colleghi della Gazzetta del Mezzogiorno (ad eccezione di qualche “sindacalista”…) ed alla famiglia Ladisa, che ha sinora dimostrato grande coraggio e spirito di imprenditorialità nel salvataggio dello storico quotidiano, il nostro augurio di rivederli presto in edicola insieme per continuare una tradizione che non deve interrompersi.

Cari lettori, arrivederci. Nonostante i febbrili contatti delle ultime ore non è stato possibile individuare una soluzione che consentisse alla Gazzetta del Mezzogiorno di continuare le pubblicazioni. Michele Partipilo su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Agosto 2021. Cari Lettori, quanto annunciato ieri è diventato purtroppo realtà. Nonostante i febbrili contatti delle ultime ore non è stato possibile individuare una soluzione che consentisse alla Gazzetta del Mezzogiorno di continuare le pubblicazioni. È per questo che trovate questa prima pagina così anomala. Scusateci, ma oggi riteniamo di essere noi – giornalisti e lavoratori della Gazzetta – la «notizia». Per questo «gridiamo» quel titolo che è insieme il segno di una sconfitta e il manifesto di una speranza. All’interno troverete due pagine in cui tentiamo di raccontare la complessa vicenda. Vogliamo che ciascuno si faccia un’idea sulle responsabilità di questa situazione che non è stata generata dal caso. Il resto della prima pagina è bianco perché volevamo rappresentare la sensazione di vuoto che da domani, cari lettori, vivrete. Uno spaesamento che tutti speriamo duri poco, anzi pochissimo. Se lo vorranno, infatti, le istituzioni interessate potranno rendere brevissima l’assenza della Gazzetta dalle edicole. Sarebbe sufficiente che il Comitato dei creditori esprimesse subito, magari domani stesso, la sua valutazione delle due proposte in campo. Dopodiché al giudice non resterebbe che prenderne atto e procedere all’assegnazione della testata. Anche in attesa della procedura di omologa, l’assegnatario avrebbe tutte le carte in regola per riportare la Gazzetta in edicola. Noi siamo fiduciosi e siamo pronti a riprendere in qualsiasi momento il lavoro a servizio della Puglia e della Basilicata. Per questo vi salutiamo con un «arrivederci», certi che alla ripresa ci sarete tutti, come amanti fedeli che hanno saputo attendere. A presto.

Da domani la Gazzetta si ferma. Michele Partipilo, Direttore responsabile de LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO l'1 Agosto 2021. Cari lettori, domani la Gazzetta del Mezzogiorno sarà in edicola per l’ultima volta. Dopo 134 anni si interrompe una storia che neppure le due guerre mondiali poterono fermare. Se non interverranno auspicabili colpi di scena, il destino del giornale e di tutti i lavoratori è segnato. In quanto direttore di questa testata, collega e amico da 36 anni di giornalisti, poligrafici e amministrativi sento il dovere di fare appello a chiunque possa intervenire di farlo senza indugio, senza calcoli, senza interessi. La Gazzetta, come ogni giornale, non appartiene all’editore che la gestisce o alla redazione che lo realizza. Essa è patrimonio di tutti e identità collettiva di un territorio. Perciò sarebbe un ben misero uomo colui che gioisse per la chiusura non solo della Gazzetta, ma di qualsiasi giornale.

È dal 24 settembre 2018 che i giornalisti e tutti gli altri dipendenti fanno sacrifici enormi per continuare a mantenere in vita il giornale. Abbiamo lavorato gratis per mesi, abbiamo compresso i nostri diritti, abbiamo accettato il taglio degli stipendi pur di mantenere in vita il giornale, voce della Puglia e della Basilicata. Ma oggi il nostro personale sacrificio non basta più. Perché c’è chi ha deciso che tutto questo non ha alcun valore.

Oggi scade il contratto di affitto con cui la curatela fallimentare il 12 dicembre scorso aveva affidato alla Ledi srl la gestione temporanea della Gazzetta. Da quel giorno sono seguiti mesi di lavoro intensi per rilanciare la testata e per tenere i conti in equilibrio. Siamo tornati a lavorare in una redazione fisica, dopo un lungo periodo in smart working per evitare le insidie del covid. Nella nuova redazione sono venuti a salutarci rappresentanti delle istituzioni, politici, colleghi che hanno apprezzato il lavoro svolto e hanno intravisto un futuro sereno per la Gazzetta.

E invece si sbagliavano. L’intreccio perverso di una legge fallimentare che assomiglia al cubo di Rubik, i ritardi e non solo di chi doveva curare il fallimento e lo scaricabarile delle responsabilità hanno trascinato la situazione al momento limite, quando cioè non restano che poche ore per un salvataggio in extremis o per una più che probabile morte annunciata.

La possibilità di una proroga della gestione da parte della Ledi, che l’altro giorno sembrava avesse scongiurato ogni possibilità di cessazione delle pubblicazioni, è venuta meno in queste ore, perché la continuità aziendale che sarebbe stata così assicurata – garantendo il valore della testata – non avrebbe avuto alcuna considerazione nelle successive valutazioni. Come se mettere un giornale in condizione di essere in edicola ogni giorno sia roba da niente. È chiaro che in ballo c’è l’assegnazione finale della Gazzetta a una delle due società in corsa e cioè la Ledi srl, che gestisce in affitto la testata fino a stanotte, e la Ecologica spa che ha presentato un’analoga proposta di concordato nel fallimento.

Ai giornalisti come agli altri lavoratori della Gazzetta non interessa quale sarà il risultato finale della procedura fallimentare. A noi interessa che la Gazzetta resti nelle edicole come è accaduto da 134 anni a questa parte. A noi interessa che vengano salvaguardati i posti di lavoro, perché di questo lavoro viviamo e con questo lavoro manteniamo le nostre famiglie. A noi interessa che i nostri territori continuino ad avere una voce e un punto di riferimento. A noi interessa che le lacrime, il sudore e il sangue che tutti abbiamo versato da quando è iniziata questa amarissima vicenda non siano stati inutili sacrifici.

Come accade spesso nel nostro Paese ora si cercherà forse un colpevole di tutto questo. È un esercizio appagante che talvolta giunge a individuare responsabilità politiche e decisionali, ma che raramente approda a una soluzione. Allo stesso modo non servono inutili dichiarazioni di solidarietà in una passerella delle vanità buona solo a tacitare la coscienza. In queste poche ore che restano servono invece soluzioni e, soprattutto, serve responsabilità da parte di chi fino a oggi forse ha svolto con leggerezza il suo incarico, pensando che un giornale fosse un’impresa come tante altre, che possono interrompere la produzione per poi riprenderla quando la procedura fallimentare si compie. Un giornale è invece come il sangue che affluisce al cervello, quando per una qualsiasi ragione questo flusso si interrompe, il soggetto ne subisce conseguenze che non di rado portano alla morte.

Mi rivolgo a voi, uomini e donne delle istituzioni, voi che avete in mano le sorti del nostro giornale e delle nostre famiglie, a fare ogni sforzo, a spendere ogni residua energia perché la Gazzetta resti in edicola. Non solo lunedì, ma fino a quando lo vorranno le genti di Puglia e Basilicata.

Gazzetta: sacrifici e sofferenze, tre anni tra sequestri e fallimenti. Da domani il giornale non sarà in edicola. La speranza che sia per pochi giorni. La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Agosto 2021. La Gazzetta del Mezzogiorno non sarà in edicola domani. Questo è l’esito tragico di tre anni di vicissitudini vissute dalla comunità dei giornalisti e dai lavoratori del quotidiano. Tutto è iniziato il 24 settembre 2018 con il sequestro dei beni e delle società di Mario Ciancio Sanfilippo, tra cui la società editrice della Gazzetta del Mezzogiorno, Edisud. La gestione del quotidiano viene, così, affidata dal tribunale di Catania a due custodi giudiziari, Angelo Bonomo e Luciano Modica, rivelatisi inadeguati a guidare una azienda così complessa. Da allora, anche le promesse dei soci di minoranza sono svanite nel nulla: nelle more del sequestro giudiziario si fece avanti l’azionista di minoranza, l’immobiliarista Valter Mainetti, ipotizzando un concordato preventivo per mettere al sicuro il giornale. Gli effetti? All’annuncio non è mai seguito un impegno concreto (l’imprenditore è poi svanito a marzo 2020 e della sua iniziativa non è rimasta traccia). Una possibile svolta si palesa il 24 marzo 2020, quando furono dissequestrati i beni di Ciancio, ma l’editore, rientrato in possesso della Gazzetta, scelse di mettere in liquidazione l’azienda. Inevitabile, senza un editore-imprenditore in grado di rilevare i beni, la via del declino finale. Tempestivamente, la Procura di Bari poche settimane dopo chiede il fallimento della Gazzetta, accompagnando la richiesta dall’autorizzazione all’esercizio provvisorio. Il 15 giugno il Tribunale di Bari decreta il fallimento delle due aziende che detengono la testata (Mediterranea) e le attività editoriali con giornalisti e poligrafici (Edisud) e, il 16 giugno 2020, nomina i curatori fallimentari (per Edisud il prof. Michele Castellano e il dott. Gabriele Zito, per la Mediterranea, il dott. Rosario Marra e l’avv. Paola Merico). Esaurite le risorse per l’esercizio provvisorio, in autunno l’unica chance per tenere in edicola il quotidiano è quella di predisporre (da parte dei curatori) un bando di affitto del ramo di azienda Edisud. Per partecipare a questa procedura, il 18 novembre 2020 la Ledi srl dei fratelli Vito e Sebastiano Ladisa chiude un accordo con tutte le rappresentanze sindacali al fine di proseguire le pubblicazioni della Gazzetta, Il 20 novembre Ledi risulta l’unico soggetto partecipante al bando e se lo aggiudica, subentrando il 10 dicembre nelle attività della Edisud come editore affittuario. Questa attività è previsto si chiuda il 31 luglio 2021 in virtù della scadenza del contratto tra Mediterranea (proprietaria) e Edisud per l’uso in esclusiva della testata della Gazzetta del Mezzogiorno. In vista di questa scadenza, il giudice autorizza la curatela fallimentare Edisud ad una ulteriore proroga di tre mesi (al 31 ottobre 2021) dell’affitto del ramo d’azienda e la Ledi, con l’approssimarsi del termine per la conclusione del precedente fitto, si dichiara disponibile ad una prosecuzione solo per un mese, fino al 30 agosto. Il 30 luglio, però, a sole 24 ore dalla fine dell’affitto, la Ledi comunica alla curatela Edisud e alle parti sociali di non voler proseguire nel contratto e di attendere l’esito delle votazioni - avviate il 28 luglio - sui piani di concordato fallimentare sulla Mediterranea presentati dalla stessa Ledi e della Ecologica spa. Ora si è in attesa - con un’autorizzazione del giudice per le votazioni sino al 30 agosto - dell’esito, che inevitabilmente arriverà quando il giornale - a partire da domani - non sarà più in edicola. La prossima pagina? Speriamo sia quella di un ritorno alla normalità, con le procedure fallimentari concluse e una stabilità per tutti i lavoratori. Ma anche la certezza per i cittadini pugliesi e lucani di continuare ad essere informati dalla principale voce delle due regioni. 

Procedure più veloci per tornare in edicola. «Dopo anni di tribolazioni e sacrifici dei lavoratori». La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Agosto 2021. La Gazzetta del Mezzogiorno non chiude, ma interrompe - speriamo sia un periodo il più breve possibile - le pubblicazioni in attesa di tornare dai nostri lettori più forte e rinnovata. Non essere in edicola domani - a causa della mancata accettazione della proroga dall’editore affittuario, ultimo capitolo di una vicenda travagliata iniziata circa tre anni fa tra procure e tribunali - rappresenta un impoverimento culturale del diritto costituzionale all’informazione dei cittadini di Puglia e Basilicata, un vulnus storico che non si era registrato nemmeno durante le due guerre mondiali. Il comitato di redazione auspica che, nelle more dei tempi della procedura fallimentare nella quale è coinvolta la testata e la società editrice, alla quale afferiscono i giornalisti e tutti i lavoratori della Gazzetta, siano perseguite dal Tribunale di Bari e dalle curatele di Mediterranea e Edisud tutte le strade possibili per garantire ai cittadini pugliesi e lucani il più rapido ritorno dell’informazione della Gazzetta nelle edicole. Come? Approntando, grazie a procedure evidentemente straordinarie, la formula necessaria sul piano giuridico per un immediato ripristino della produzione, che garantisca la presenza della testata nelle edicole del territorio. Dopo ormai anni di incertezze e tribolazioni, nonché di stipendi non ricevuti e di una sostanziale precarizzazione dell’esistenza dei giornalisti del Gazzetta, l’unica via per il rilancio della testata passa dal completamento della procedura fallimentare nel minore tempo possibile, affinché l’aggiudicazione della testata consenta ad una compagine imprenditoriale di garantire i livelli occupazionali e salariali dei giornalisti, la continuità del giornale e un serio piano di rilancio. L’invito è quindi ad accelerare, ove possibile, i tempi sia del completamento delle varie tappe della procedura fallimentare sia della predisposizione delle formule adatte al ritorno temporaneo del giornale nelle edicole: ottemperando a questi due passaggi si darebbe una prospettiva alle 140 famiglie di giornalisti e lavoratori del nostro e vostro giornale. I lavoratori hanno subito l’ennesima tegola sulla testa con la beffa di apprendere, a poche ore dalla scadenza del contratto di affitto, la notizia della fine imminente delle attività editoriali. Riteniamo sia arrivato il tempo di dare certezze al giornale e di pretendere verità e correttezza da parte di tutti gli imprenditori interessati a rilevare la testata. Federazione nazionale della Stampa Italiana e Associazioni di Stampa di Puglia e di Basilicata ribadiscono la necessità di moltiplicare gli sforzi da parte di tutti affinché la Gazzetta del Mezzogiorno torni al più presto in edicola. Nel rispetto delle procedure di legge, il sindacato dei giornalisti ritiene indispensabile verificare senza indugi ogni possibilità e prendere in considerazione tutte le proposte utili a consentire la ripresa delle pubblicazioni. In queste ore, infatti, non sono mancate manifestazioni di disponibilità per assicurare la sopravvivenza del giornale fino alla definizione della procedura fallimentare. Come già in passato, i giornalisti sono pronti a fare sacrifici mettendo a disposizione il loro lavoro pur di garantire la continuità dell'informazione in Puglia e Basilicata. Tocca al tribunale e alle curatele fallimentari verificare la fattibilità di soluzioni ponte dopo il diniego della Ledi alla prosecuzione dell'affitto. Riportare la gazzetta in edicola deve essere una priorità assoluta. Ogni giorno senza il giornale rappresenta un danno non soltanto per i giornalisti e le maestranze, ma anche e soprattutto per le comunità alle quali la Gazzetta dà voce da 134 anni. 

Margiotta: «La Gazzetta del Mezzogiorno impantanata nei tempi della giustizia». Il senatore del Pd sollecita la magistratura a fare presto. La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 luglio 2021. «La Gazzetta del Mezzogiorno impantanata nei tempi della giustizia. Da lunedì il giornale non sarà più in edicola in attesa che i giudici fallimentari decidano sui due concordati proposti da altrettanti gruppi imprenditoriali per l’acquisizione del quotidiano. Sì trovi una soluzione ponte, consentendo alla curatela fallimentare di ripristinare l’esercizio provvisorio o all’attuale gestore di continuare nel fitto di ramo d’azienda per garantire la prosecuzione delle pubblicazioni, così da non privare per lungo tempo la Basilicata e la Puglia di un presidio dell’informazione libera e pluralista»: così il senatore del Pd Salvatore Margiotta.

Gazzetta, Rossi: «Le ragioni di questo sostegno anche dinanzi al governo Draghi». Il sindaco di Brindisi al fianco dei lavoratori del giornale. La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 luglio 2021. «La notizia della sospensione della pubblicazione della Gazzetta del Mezzogiorno non riguarda solo le decine di professionisti e operatori, un patrimonio certo da salvaguardare, ma riguarda l'intera comunità pugliese: così il sindaco di Brindisi Riccardo Rossi, secondo il quale «la Gazzetta con il suo racconto quotidiano di fatti ed eventi ha costruito un'identità pugliese, è luogo di importanti dibattiti, di quei pensieri lunghi che non possono essere sostituiti dalle poche righe di un social. Interrompere questa storia sarebbe una grave perdita per tutti. Siamo a disposizione per costruire, nei limiti delle nostre possibilità, le condizioni di un rilancio del giornale, anche sostenendo dinanzi al governo Draghi ragioni di un sostegno che non sarebbe verso un privato ma verso un intero territorio».

Gazzetta Mezzogiorno, Fi Puglia: «scongiurare stop uscite». Così, in una nota, i parlamentari pugliesi di Forza Italia Mauro D’Attis, Dario Damiani, Elvira Savino, Vincenza Labriola, Veronica Giannone e Carmela Minuto. La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 luglio 2021. «La Gazzetta del Mezzogiorno non è 'solò un’azienda che produce il bene “notizia” e non è 'solò un giornale per la terra di Puglia: è un patrimonio culturale collettivo, costruito nei decenni grazie ad un lavoro intellettuale di prestigio che non può essere interrotto. Non possiamo che fare un appello alla responsabilità a coloro che, in queste ore, hanno le redini della vicenda: bisogna esperire ogni strada utile a garantire una solida e certa ripresa dell’attività. Immaginare l’interruzione della pubblicazione rappresenta un colpo durissimo alla storia della Puglia e a decine e decine di professionisti che fino ad oggi hanno continuato ad informare i cittadini nonostante le tantissime difficoltà dovute al momento di grave incertezza». Così, in una nota, i parlamentari pugliesi di Forza Italia Mauro D’Attis, Dario Damiani, Elvira Savino, Vincenza Labriola, Veronica Giannone e Carmela Minuto. 

Gazzetta, Sisto: «Garantire continuità». Appello a «non fermarsi» dal sottosegretario alla Giustizia. La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 luglio 2021. «La Gazzetta del Mezzogiorno non è solo una azienda, ma anche e soprattutto un pezzo della storia del Sud a cui va garantita continuità. Questo non solo a tutela dei posti di lavoro di giornalisti e poligrafici, ma anche nel rispetto di tutti coloro che vedono nel giornale un momento necessario della propria vita quotidiana. È ora di provare a ripartire o, meglio, di provare a non fermarsi»: lo dichiara il deputato barese di Forza Italia e sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto.

Gazzetta del Mezzogiorno, il sindaco di Matera: «Salvaguardare la testata e i lavoratori». Le dichiarazioni del sindaco Domenico Bennardi La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 luglio 2021. «Quando parliamo dei giornali, pensiamo ai loro contenuti, al prestigio e all'autorevolezza; spesso, invece, passa in secondo piano l'idea che le testate giornalistiche siano fonte di lavoro e di occupazione. Il rischio che la Gazzetta del Mezzogiorno non arrivi più nelle edicole coinvolge innanzitutto dei lavoratori, seri e competenti professionisti dell'informazione», così con una nota il sindaco di Matera Domenico Bennardi esprime solidarietà per la vicenda della imminente chiusura della Gazzetta del Mezzogiorno. «In una società affollata da fonti di informazione sempre più incerte e notizie da verificare, appare paradossale che proprio il lavoro dei giornalisti della Gazzetta oggi sia avvolto nella precarietà e nella incertezza del futuro. Non posso che auspicare una soluzione che scongiuri la chiusura del giornale, salvaguardando la storia della testata e, soprattutto, il futuro dei redattori», conclude.  

Gazzetta del Mezzogiorno, Fitto: «Non possiamo restare senza il nostro giornale». La solidarietà di Raffaele Fitto. La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 luglio 2021. «Quello di domani, per La Gazzetta del Mezzogiorno, è solo un arrivederci. Un pit stop per ripartire, ne sono certo. Perché la Puglia e il Mezzogiorno non possono diventare orfani del loro giornale, quello che da oltre 130 anni racconta la storia della nostra regione a 360 gradi. Definire, perciò, il quotidiano un patrimonio socio-culturale di tutti non è un esercizio di belle parole, ma quello che tutti avvertono ogni mattina sfogliandolo. So che questo è un momento non solo difficile, ma delicatissimo, incrocio le dita e sono vicino a tutti i giornalisti e i poligrafici con stima e affetto». Lo afferma in una nota l’europarlamentare di FdI Raffaele Fitto. “Il pluralismo dell’informazione è il sale democrazia. E’ attraverso di esso che il cittadino può non solo conoscere le notizie di attualità, ma formare una coscienza critica e quindi essere parte attiva e consapevole del mondo che lo circonda. “Per noi di Fratelli d’Italia Puglia questo principio è così sacrosanto che non ci rassegniamo all’idea che domani La Gazzetta del Mezzogiorno non sarà in edicola. Lo diciamo con la consapevolezza e la responsabilità di chi ogni mattina acquista e sfoglia il quotidiano anche per partecipare al dibattito politico, per far sentire la ‘voce dell’opposizione’ e farla arrivare al cittadino comune. “Per questo nel ringraziare tutti i giornalisti e i poligrafici per il lavoro fin qui svolto, non possiamo che auspicare una pronta e più risolutiva soluzione della vertenza che possa riportare il giornale in edicola, serenità nella redazione e un lavoro che guardi al futuro con più certezza", ecco la dichiarazione congiunta del coordinatore regionale, on. Marcello Gemmato, e del capogruppo regionale (a nome di tutto il gruppo), Ignazio Zullo, di Fratelli d’Italia per la Gazzetta.

Gazzetta Mezzogiorno: M5s, trovare soluzioni per continuità. La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 luglio 2021. «La Gazzetta del Mezzogiorno rappresenta un patrimonio inestimabile, non solo per la Puglia, ma per l’Italia intera. La sospensione delle pubblicazioni a partire dal prossimo lunedì sarebbe una perdita per l’intera comunità. Siamo vicini a giornalisti, poligrafici e amministrativi, che hanno fatto grandi sacrifici questi anni pur di continuare a mantenere in vita il giornale. Auspichiamo una veloce soluzione della procedura al Tribunale di Bari e l'adozione dei provvedimenti necessari a garantire la continuità delle pubblicazioni». Lo afferma in una nota il gruppo consiliare del M5s Puglia.

Gazzetta, Decaro: «Una soluzione nelle prossime ore». Il sindaco di Bari e presidente Anci sul futuro del giornale. La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 luglio 2021. «Il destino della Gazzetta del Mezzogiorno non interessa solo la sorte di una testata storica e identitaria del sud Italia ma coinvolge il futuro lavorativo di decine di professionisti e operatori del nostro territorio. Per questo non può più essere trascurata nè rinviata»: così Antonio Decaro sindaco di Bari e presidente nazionale dell'Anci. «Nel massimo rispetto delle procedure e delle diverse competenze coinvolte, è necessario fare chiarezza tempestivamente sul futuro di un’azienda che rappresenta un patrimonio storico di questa terra a cui non possiamo rinunciare. Attraverso la Gazzetta del Mezzogiorno intere generazioni si sono informate e formate e ancora oggi rappresenta un presidio importante nel panorama del sistema dell'informazione che garantisce quel diritto costituzionale su cui si fonda la nostra democrazia». «Da sindaco del capoluogo di regione, da sempre legato al nome di questa testata - conclude Decaro - auspico che nelle prossime ore si possa addivenire ad una soluzione che scongiuri la chiusura della redazione e il licenziamento di tanti validi professionisti che per anni hanno raccontato la vita della nostra comunità».

Editoria: Moles, non disperdere Gazzetta Mezzogiorno. Il sottosegretario auspica soluzioni immediate La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 luglio 2021. «Sarebbe imperdonabile disperdere un patrimonio di libertà e identità quale la Gazzetta del Mezzogiorno, autorevole voce delle comunità del Sud Italia». Lo dice il sottosegretario all’Editoria Giuseppe Moles in relazione alla vicenda che vede a rischio da domani la prosecuzione delle pubblicazioni dello storico quotidiano. «Non si è difatti ancora conclusa la procedura fallimentare per l’affidamento della società editrice il cui contratto di gestione temporaneo è ormai scaduto. Celerità nella decisione e garanzia dei livelli occupazionali sono un’urgenza - aggiunge Moles - Mi auguro che in queste ore la situazione possa finalmente trovare giusta ed adeguata soluzione». 

GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO. ECCO TUTTO QUELLO CHE IL SINDACATO ED IL CDR NON RACCONTANO. Il Corriere del Giorno il 3 Agosto 2021. Non una sola parola sul ruolo pressochè ignorato dai sindacati, così come dal Tribunale Fallimentare di Bari, dalle due cooperative di costituite dai giornalisti e poligrafici che si sono ben guardate a suo tempo di proporsi per l’esercizio provvisorio. Meglio passare dalla cassa altrui a reclamare il proprio stipendio? Sembra proprio così. Secondo Il sindacato dei giornalisti pugliesi e lucani riunitosi ieri con il comitato di redazione del giornale barese, nella sede dell’Assostampa Puglia, rivolgendo nel corso di una conferenza stampa un appello al Tribunale Fallimentare di Bari per la ripresa delle pubblicazioni della GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO, “Si può votare prima”. Ma chi parla evidentemente ignora due cose: le norme di legge sulla procedura fallimentare e sopratutto non riesce a leggere quanto è scritto negli atti dei curatori fallimentari. Due le strade proposte dai sindacati: una accelerazione sulla procedura di votazione dei piani di concordato oppure una revoca della sospensione dell’esercizio provvisorio per la Edisud, la società editrice del giornale fallita un anno fa con oltre 40 milioni di euro di debiti, con possibilità di tornare in edicola temporaneamente a costo zero. Chiaramente coloro i quali hanno parlato ieri, hanno manifestato e confermato la propria assoluta “ignoranza” in materia di diritto societario e sulle norme fiscali vigenti.

Il sindacato vorrebbe accelerare con un provvedimento urgente il voto del comitato creditori fissata per il prossimo 28 agosto dal Tribunale fallimentare di Bari, per votare le due proposte di piano di concordato presentata dalla LEDI (società del gruppo barese Ladisa) che ha gestito la testata negli ultimi 6 mesi con ottimi risultati, ed Ecologica (società della famiglia Miccolis di Castellana Grotte, operante nel settore della nettezza urbana ) proposta dietro la quale corre voce di sarebbe un interesse-partecipazione in cordata di un imprenditore condannato e pluri indagato-imputato operante nel settore dello smaltimento dei rifiuti in Puglia, sempre molto presente nelle aste fallimentari che già nei mesi scorsi aveva cercato di rilevare l’emittente televisiva tarantina Studio 100. L’urgenza potrebbe essere motivata secondo i sindacalisti dalla decisione della LEDI di non prorogare per un altro mese, dopo la scadenza del 31 luglio, il contratto di fitto del ramo di azienda di Edisud, che ha comportato l’interruzione delle pubblicazioni. “Per quanto legittima perché rientra nell’esercizio della libertà imprenditoriale — ha dichiarato il segretario nazionale dell’Fnsi, Raffaele Lorusso — , tale scelta risulta incomprensibile, tanto più perché comunicata ventiquattr’ore prima della scadenza del contratto e dopo che, tre giorni fa, la stessa Ledi aveva comunicato alla direzione e alla redazione la volontà di continuare a gestire provvisoriamente la testata per altri trenta giorni, in attesa dell’esito del voto del comitato dei creditori sulle due proposte concordatarie presentate alla curatela. Forse — ha malignato Lorusso — le aspettative di chi ha gestito il giornale in questi mesi erano altre, forse ci sia aspettava che essersi fatto carico di portare avanti il giornale in questi mesi avrebbe dato diritto a una sorta di prelazione o corsia privilegiata, non previste dalla legge”. Lorusso evidentemente o non sa leggere o è incapace di capire il contenuto dei documenti giuridici. Infatti dimentica ( o ignora ?) che la curatela fallimentare della società Mediterranea (proprietaria della testata) e della Edisud, nel bando per affittare il ramo di azienda consentendo la continuità delle pubblicazioni che venne aggiudicato alla società LEDI, unica società a partecipare, era prevista una scadenza per il 31 luglio 2021, e la possibilità di una sola proroga di 6 mesi, e non di solo un mese, come allegramente…la curatela ha chiesto alla LEDI soltanto 15 giorni fa, cioè quindici giorni prima della scadenza del contratto, guarda caso lo stesso giorno in cui è stato convocato il comitato dei creditori! L’ipotesi avanzata di consentire alla GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO di tornare in edicola revocando la sospensione dell’esercizio provvisorio di Edisud è impraticabile, in quanto illegale. La società a seguito della propria dichiarazione di fallimento del giugno 2020, è stata gestita per alcuni mesi in esercizio provvisorio dai curatori del fallimento, fino al novembre 2020, con l’indebitamento che cresceva quotidianamente indussero il Tribunale Fallimentare a dichiararne la cessazione. La disponibilità di alcuni imprenditori a stampare e distribuire il giornale gratis è nei fatti impraticabile senza un soggetto giuridico che funga legittimamente da editore nonostante i 144 giornalisti e poligrafici abbiamo dichiarato di essere disposti a lavorare gratis per far tornare il giornale in edicola. Di qui la richiesta imbarazzante che venga riattivato l’esercizio provvisorio dell’Edisud. Ma chi lo chiede, così come chi ne scrive ignora che una volta cessato l’esercizio provvisorio, non lo si può ripristinare. Lo dice la legge. Non una sola parola sul ruolo pressochè ignorato dai sindacati, così come dal Tribunale Fallimentare di Bari, dalle due cooperative di costituite dai giornalisti e poligrafici che si sono ben guardate a suo tempo di proporsi per l’esercizio provvisorio. Meglio passare dalla cassa altrui a reclamare il proprio stipendio? Sembra proprio così. Nell’ultimo numero in edicola della Gazzetta del Mezzogiorno, del 1 agosto 2021, è comparso a tutta pagina su sfondo quasi interamente bianco il titolo “Arrivederci” . Un augurio che anche noi formuliamo, ma affinchè sia davvero solo un arrivederci, e la Gazzetta torni in edicola, bisognerà aspettare il corso della Legge che è solo nelle mani del Tribunale e della curatela sulla quale andrebbe fatta qualche verifica. Corrono voci infatti di qualche conflitto di interessi non dichiarato da qualcuno che la presidenza del Tribunale fallimentare di Bari dovrebbe accertare e chiarire. Parlare di “immaginare un piano di rilancio” è imbarazzante sopratutto dopo che quel piano era già partito con l’impegno della LEDI.

Ecco come PRIMA COMUNICAZIONE titola oggi sulla vicenda Gazzetta del Mezzogiorno. A risposta delle lamentele sindacali, questa mattina ci è arrivato in redazione un comunicato stampa del Gruppo Ladisa, che riportiamo integralmente di seguito: “Né «grave» né «incomprensibile» la scelta della Ledi srl di restituire la Gazzetta del Mezzogiorno alla Mediterranea spa, alla scadenza dell’affitto della testata, il 31 luglio scorso. Semmai una scelta amara e dolorosa, ma inevitabile visto che gli stessi curatori fallimentari di Mediterranea, il dottor Rosario Marra e l’avvocato Paola Merico, avevano comunicato alla Ledi la disdetta del contratto a partire dall’1 agosto 2021. La nota è datata 21 dicembre 2020, inviata alla società Ledi dieci giorno dopo la presa in consegna della Gazzetta dalla curatela fallimentare. Il riferimento è alla convenzione dell’1 agosto 2006 stipulata tra Mediterranea spa (proprietaria della testata Gazzetta del Mezzogiorno) e Edisud spa (società editrice della stessa testata). Le due società, com’è noto, sono state dichiarate fallite nel giugno 2020. Nel dicembre 2021 la Ledi srl è subentrata, nell’ambito di un bando del Tribunale civile di Bari, nella gestione di Edisud. Nello stesso mese i curatori fallimentari hanno inviato la nota con la quale si comunicava che «il contratto dovrà ritenersi sciolto a far tempo dal 31/7/201 con ogni conseguente obbligo restitutorio».

Tutti i soggetti coinvolti nella vicenda – la società editrice, i lavoratori, la società civile, la stessa magistratura – confidavano evidentemente nella chiusura delle procedure entro il 31 luglio, in modo che dall’1 agosto le attività editoriali della Gazzetta potessero continuare con il definitivo assegnatario. Così non è stato. Di qui la sospensione delle pubblicazioni. È evidente che non esiste una verità diversa da quella contenuta nelle carte della curatela. Esiste viceversa un’iniziativa imprenditoriale targata Ledi srl che dall’autunno 2020, momento nel quale la Gazzetta stava sì e definitivamente lasciando le edicole italiane, ha dimostrato di voler garantire continuità aziendale, sostenibilità economica e rilancio della storica testata. Un impegno, sotto gli occhi dell’intera comunità, passato attraverso mirati interventi imprenditoriali. Senza mai sottrarci al confronto con istituzioni e soggetti terzi, abbiamo dimostrato di avere una solida e credibile struttura aziendale. Non a caso abbiamo presentato una proposta di concordato e posto in essere iniziative credibili ed economicamente sostenibili, basate sui principi di trasparenza, legalità e regole certe. La nostra identità imprenditoriale, d’altra parte, non ha bisogno di conferme: le nostre scelte, la nostra storia e i nostri risultati hanno fatto del Gruppo Ladisa la realtà italiana che tutti conoscono, che continua a generare lavoro per oltre 6000 famiglie. Nonostante il momento di grande tensione sociale e istituzionale determinato dalla sospensione delle pubblicazioni, la Ledi srl segue con attenzione il prosieguo della procedura fallimentare e confida in una decisione innanzitutto celere e soprattutto congrua all’impegno profuso in questi mesi dagli uomini e dalle donne che hanno consentito alla Gazzetta del Mezzogiorno di non abbandonare mai – anche nei momenti più bui – l’appuntamento quotidiano con i lettori.”

La Gazzetta del Mezzogiorno, Partipilo è il nuovo direttore, gli auguri dell'Ordine. Lo comunicano gli editori Sebastiano e Vito Ladisa e il presidente della Ledi srl, Franco Sebastio. La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Maggio 2021. Dal prossimo 15 maggio il nuovo direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno sarà Michele Partipilo, già capo redattore centrale del quotidiano. Lo comunicano gli editori Sebastiano e Vito Ladisa e il presidente della Ledi srl, Franco Sebastio. Partipilo subentrerà a Giuseppe De Tomaso che gli editori ringraziano per il lavoro svolto durante i 13 anni del suo incarico. «Non sono auguri rituali quelli che a nome del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti faccio a Michele Partipilo , nominato direttore della Gazzetta del Mezzogiorno», dice in una nota il presidente del Cnog, Carlo Verna. «Motivi di soddisfazione - sottolinea - ci sono non solo perché viene messo in sicurezza con una guida esperta e di grande professionalità lo storico fondamentale quotidiano, dopo una lunga travagliata fase, tale certo non per responsabilità della redazione anzi da applausi per la capacità di resilienza o del direttore uscente». «Per l’Ordine dei giornalisti - conclude Verna - è rilevante anche che il neo direttore sia stato presidente dell’Ordine in Puglia, poi a lungo protagonista con ruoli importanti in Consiglio Nazionale e soprattutto sia autore di fondamentali testi sulla nostra deontologia. Partipilo fa parte tutt'ora del gruppo di lavoro incaricato di aggiornare la cosiddetta Carta di Treviso, dedicata alla tutela dei minori e oggi parte del testo unico deontologico».

MICHELE PARTIPILO E’ IL NUOVO DIRETTORE DE LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO. Il Corriere del Giorno il 10 Maggio 2021. La vera notizia di cambiamento è quella del cambio di direzione giornalistica. Infatti a far data dal prossimo 15 maggio, l’odierno direttore Giuseppe De Tomaso lascerà la direzione del giornale, dopo 13 anni esatti dalla sua nomina avvenuta il 15 maggio 2008, un periodo che ha visto la Gazzetta del Mezzogiorno perdere prestigio, autorevolezza e sopratutto copie vendute in edicola, che sono le cause principali del fallimento editoriale. Gli editori- azionisti della Ledi srl, controllata dai fratelli Ladisa, società presieduta dal dott. Franco Sebastio, ex procuratore capo di Taranto, che gestiscono in affitto il quotidiano barese, hanno comunicato ieri l’avvio di una fase di rinnovamento (chiaramente provvisorio) per la Gazzetta del Mezzogiorno la cui testata verrà messa all’asta prossimamente dal Tribunale Fallimentare di Bari dopo il fallimento dell’ Edisud e della Mediterranea per un totale di 54 milioni di euro di massa fallimentare. La Gazzetta del Mezzogiorno lascia quindi lo stabile ove in passato era ubicata la “storica” sede di piazza Aldo Moro, antistante la stazione di Bari, con trasferimento della redazione centrale nella nuova sede ubicata nella zona industriale di Bari, in una palazzina messa a disposizione dalla famiglia Ladisa. Un trasferimento voluto essenzialmente per contenere i costi di gestione e risparmiare sull’esoso affitto della sede precedente. Ma la vera notizia di cambiamento è quella del cambio di direzione giornalistica. Infatti a far data dal prossimo 15 maggio, l’odierno direttore Giuseppe De Tomaso lascerà la direzione del giornale, dopo 13 anni esatti dalla sua nomina avvenuta il 15 maggio 2008, un periodo che ha visto la Gazzetta del Mezzogiorno perdere prestigio, autorevolezza e sopratutto copie vendute in edicola, che sono state le cause principali del fallimento editoriale. Al suo posto è stato incaricato il collega Michele Partipilo, ottimo e serio professionista, già capo redattore centrale della Gazzetta del Mezzogiorno. già presidente del Consiglio regionale dell’Ordine dei giornalisti della Puglia. Consigliere nazionale e già presidente della Commissione ricorsi del Consiglio nazionale dell’Ordine. Autore di pubblicazioni sulla deontologia professionale e sul giornalismo in generale. “Non sono auguri rituali quelli che a nome del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti faccio a Michele Partipilo, nominato direttore della Gazzetta del Mezzogiorno”, scrive in una nota Carlo Verna presidente dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti. “Motivi di soddisfazione ci sono non solo perché viene messo in sicurezza con una guida esperta e di grande professionalità lo storico fondamentale quotidiano, dopo una lunga travagliata fase, tale certo non per responsabilità della redazione anzi da applausi per la capacità di resilienza o del direttore uscente”. “Per l’Ordine dei giornalisti è rilevante anche che il neo direttore sia stato presidente dell’Ordine in Puglia, poi a lungo protagonista con ruoli importanti in Consiglio Nazionale e soprattutto sia autore di fondamentali testi sulla nostra deontologia. Partipilo fa parte tutt’ora del gruppo di lavoro incaricato di aggiornare la cosiddetta Carta di Treviso, dedicata alla tutela dei minori e oggi parte del testo unico deontologico”. conclude Verna. Al collega Partipilo va il nostro augurio più sincero di buon lavoro, anche perchè lo aspetta un compito non molto facile. e cioè di risollevare le vendite del quotidiano pugliese, dovendo affrontare le solite rivendicazioni sindacali e pressioni politiche che nell’ultimo decennio hanno condizionato e squalificato lo storico giornale. Ma conoscendo ed apprezzando Michele Partipilo come serio professionista siamo sicuri che saprà fare molto meglio del suo predecessore.

Ha chiuso “La Gazzetta del Mezzogiorno” il più importante quotidiano del Sud. Evento grave per il Meridione d’Italia. Carlo Franza il 7 agosto 2021 su Il Giornale.  E’ triste dare l’annuncio della morte di un quotidiano, ancor di più del più grande e importante quotidiano del Sud. Parliamo della storica “La Gazzetta del Mezzogiorno” fondata nel 1887, quotidiano di Puglia e Basilicata, con sede a Bari. Vi hanno scritto intellettuali di prim’ordine Giovanni Carano Donvito di Gioia del Colle e il salentino Antonio De Viti De Marco, Adolfo Omodeo a Guido Dorso, Manlio Rossi Doria, Antonio Lucarelli e Mario Assennato, Michele Saponaro, Aldo Vallone, Mario Marti, Vittorio Pagano, Vittorio Bodini, Francesco Lala, Rocco Scotellaro; dalla Capitanata Angelo Fraccacreta e Mario Simone e infine dalla Terra di Bari Armando Perotti e il numeroso gruppo del Sottano, tra cui il figlio Vittore. E ancora Cesare Teofilato, Michele Cifarelli, Fabrizio Canfora, Ernesto De Martino, Tommaso Fiore, Aldo Moro. Non tralascio il collega Prof. Luciano Canfora classicista di chiara fama. E ne potrei citare ancora centinaia. La campana a morto stavolta è suonata per il più grande giornale del Sud.  Ma è una campana a morto per tutta l’informazione italiana. Dopo 134 anni, la “Gazzetta del Mezzogiorno” ha cessato le pubblicazioni. Di chi la colpa? Di tanti, ad iniziare dal Sindacato Giornalisti, eppoi dei tanti imprenditori su cui grava   la responsabilità di questo decesso. La collega giornalista Cristiana Cimmino, giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno scrive in “Speciale per Senza Bavaglio”: “a chi giova la morte del più importante giornale del Mezzogiorno? Purtroppo la risposta non è difficile: alle tante mafie che scorrazzano nelle regioni meridionali. E’vero che il grande business criminale si fa al Nord. Ma è al Sud che la malavita organizzata detta legge”.  E ancora: “La Puglia e la Basilicata perdono un’informazione storicamente e orgogliosamente localizzata e divengono colonie di giornali che al Sud non hanno radici. Meglio eliminare una grande memoria scomoda. Meglio lasciare La Gazzetta del Mezzogiorno nelle grinfie di piccoli imprenditori senza troppi scrupoli. Muore un giornale ed è solo l’inizio di un’emorragia che porterà via la stampa così come la conosciamo. L’informazione perde un primo pezzo, preparandosi ad altri lutti. Ha ragione Carlo Verna, presidente dell’Ordine dei giornalisti, a parlare di “un pugno nello stomaco per chi ha a cuore le funzioni della stampa.  E la politica che fa? Cosa fa il sindacato dei giornalisti? La prima brilla per assenza. E dire che i politici del Sud sono tanti. Peccato si voltino dall’altra parte. Silenzio e indifferenza sono la cifra che contraddistingue anche le Istituzioni in terra di Puglia. La Federazione Nazionale della Stampa, invece, sta a guardare e si dice “sorpresa” per le cessate pubblicazioni della Gazzetta. Sorpresa? Da cosa? Da un evento che ha le sue radici nella cessione del giornale alla Edi Sud di Mario Ciancio Sanfilippo, già editore della Sicilia, avvenuto oltre 15 anni fa? Il suddetto editore è protagonista di alcune inchieste giudiziarie come raccontato da parecchi giornali. La Gazzetta poi era rientrata in un sequestro milionario e da allora aveva imboccato un percorso inarrestabile che l’ha portata a cessare le pubblicazioni il 1 agosto del 2021. A me sorprende che il sindacato dei giornalisti sia sorpreso. Chissà dov’era mentre la Gazzetta diventava la pedina di un gioco al massacro che ne determinerà la morte prematura. Eppure Raffaele Lorusso, leader della Federazione è un pugliese di Bari, che ha fatto carriera nella Gazzetta prima di passare a Repubblica. Il gruppo dirigente cui appartiene si chiamava Autonomia e solidarietà. Poi ha cambiato nome, trasformandosi in Controcorrente, ma restando all’insegna delle simpatie pseudo-politiche e del più smaccato interesse personale. Quella che fu la gloriosa Federazione Nazionale della Stampa Italiana, si è trasformata in un gruppo di persone che intende il sindacato dei giornalisti come un trampolino di lancio. E più in alto lanciano i pochi adepti, più si dimenticano che dovrebbero tutelare tutti i colleghi. Invece li lasciano sfruttare, assecondando persino la messa in discussione di diritti inalienabili dei lavoratori, come il trattamento di fine rapporto, il TFR. Vi spiegherò ora, come mi trovai a dover accettare un Tfr rateizzato in ben dieci rate, insieme a tutti gli altri colleghi, una ventina, che vennero prepensionati insieme a me nel giugno del 2018. Varia solo il numero delle rate, alcuni addirittura ne accettarono quindici. Nell’agosto 2018, data della prima rata del Tfr, all’estate del 2019, ricevetti, non esattamente con regolarità (il versamento doveva essere mensile), i bocconcini smozzicati della mia cosiddetta liquidazione, decurtata con un’aliquota pazzesca (oltre il 30 per cento). Eppure non ce n’era traccia in quel verbale che firmai, nel giugno 2018, a sugello della mia dipartita professionale dalla Gazzetta del Mezzogiorno e dalla Edisud.  In effetti su quel documento non c’era un solo numero. A parte il numero delle rate del TFR. Eppure, quel verbale è stato firmato nella sede centrale del giornale, a Bari, alla presenza, del segretario dell’Assostampa Puglia, già membro del comitato di redazione della Gazzetta. Un collega con cui ho lavorato per anni, una di fronte all’altro. Con cui ho scambiato preoccupazioni e risate. Ma non è un fatto personale, uno strano atteggiamento nei miei confronti. Era accaduto lo stesso con gli altri “sfigati” che, insieme a me, andarono ad ingrossare la moltitudine silenziosa dei giornalisti italiani rottamati. Il nostro karma, particolarmente iellato, consisteva nell’essere prepensionati al tempo del processo che condannò il nostro editore per mafia. Il sequestro e il commissariamento del giornale che seguirono fecero sì che l’Edisud , nel settembre del 2019, smise di pagare le nostre liquidazioni. A me sono state pagate sette rate, agli altri qualcuna di più o di meno. Finora l’intera liquidazione è rimasta una chimera. E pensare che il Tfr è un dritto inalienabile del lavoratore. Vi ho raccontato questa storia perché è emblematica di come agisce il sindacato dei giornalisti. Il collega che ha avallato la rateizzazione della liquidazione è l’attuale segretario di Assostampa Puglia e delfino del leader della FNSI. Sono quelli stessi che oggi si sorprendono di fronte alla fine del più importante giornale del Sud. Come se questa fine non venisse da molto lontano. Sono coloro che difendono un INPGI indebitato e sfacciatamente mal amministrato. Semplicemente perché la Federazione è nutrita dall’INPGI. Anomalia tutta italiana, un sindacato dei giornalisti che vive sulle spalle dell’Istituto Previdenziale dei suoi iscritti. Ma ha ancora un senso tutto questo? E’ giusto mettere a repentaglio le nostre pensioni, soprattutto quelle dei colleghi più giovani, per nutrire e difendere una Federazione che non rappresenta più da tempo gli interessi della categoria? Il mio parere di giornalista di lungo corso – dice la Cimmino- , dopo 35 anni di professione, è No. Non può essere giusto mantenere una dirigenza sindacale che ormai non difende, o non è in grado di difendere, più né i diritti di tutti i giornalisti né la libera informazione. Un gruppo che ha cambiato nome forse per la vergogna di definirsi autonomo e solidale, cercando di far dimenticare cosa avrebbe dovuto essere e cosa è diventato”. Ho riportato le parole della collega giornalista Cristiana Cimmino, perché lei dall’interno del giornale oggi defunto ne ha conosciute e viste   di storie e storielle. Sta di fatto che la testata storica del più importante quotidiano del Sud, oggi non esiste più. Il triste e luttuoso  evento è già storia del giornalismo italiano. Carlo Franza   

La Gazzetta del Mezzogiorno, dichiarato il fallimento dell’editrice. Ma ok all’esercizio provvisorio: quotidiano ancora nelle edicole. Francesco Casula su Il Fatto Quotidiano il 15 giugno 2020. Il giudice ha chiarito che "la prosecuzione dell'attività imprenditoriale, finalizzata all'esclusione del danno grave per i dipendenti e la comunità che usufruisce dei servizi editoriali, potrebbe risultare non negativa anche per i creditori". Un modo insomma per provare a salvare lavoratori e creditori garantendo l’uscita nelle edicole della testata in attesa che arrivi un nuovo acquirente. Il tribunale di Bari ha dichiarato il fallimento della società “Edisud” che editava la Gazzetta del Mezzogiorno e di “Mediterranea” proprietaria del marchio. Il giudice ha accolto la richiesta della procura che aveva chiesto la dichiarazione di fallimento per i circa 50 milioni di debiti accumulati, ma il magistrato ha concesso l’esercizio provvisorio che consente la prosecuzione delle pubblicazioni per il quotidiano di Puglia e Basilicata e scongiura il rischio di una chiusura immediata delle attività editoriali. Il giudice Raffaella Simone, infatti, nel suo provvedimento ha chiarito che “la prosecuzione dell’attività imprenditoriale, finalizzata all’esclusione del danno grave per i dipendenti e la comunità che usufruisce dei servizi editoriali potrebbe risultare non negativa anche per i creditori, potendosi fondatamente presumere che l’interruzione dell’attività riduca il valore del complesso aziendale, che, in costanza di esercizio, potrebbe essere più favorevolmente collocata sul mercato”. Un modo insomma per provare a salvare lavoratori e creditori garantendo l’uscita nelle edicole della testata in attesa che arrivi un nuovo acquirente. Nel dettaglio sono due le sentenze emesse dal giudice, una per ciascuna delle società: per Edisud che ha una massa debitoria di circa 40 milioni di euro, il tribunale ha quindi nominato i curatori, Michele Castellano e Gabriele Zito, mentre per la Mediterranea, società come detto proprietaria della testata, della storica sede di via Scipione l’Africano a Bari e soprattutto concessionaria di pubblicità del quotidiano, i debiti accumulati sono di 7 milioni di euro e il giudice ha individuato come curatori Paola Merico e Rosario Marra. La decisione del tribunale è l’ultimo atto di un vero e proprio calvario vissuto dai lavoratori della Gazzetta del Mezzogiorno. I guai cominciarono il 24 settembre 2018 quando la procura antimafia di Catania mise i sigilli ai beni dell’editore Mario Ciancio Sanfilippo per un valore di 150 milioni di euro: tra questi le quote della Gazzetta, ma anche quelle de La Sicilia, le emittenti televisive regionali Antenna Sicilia e Telecolor e la società che stampa quotidiani Etis. Il 24 marzo scorso era stata la Corte d’appello di Catania a dissequestrare i beni con un provvedimento che, entrando nel merito della vicenda, aveva affermato che “in nessuna delle singole condotte esaminate può dirsi raggiunta la prova di alcun consapevole contributo in favore” della mafia sebbene tra l’imprenditore e le famiglie catanesi “si sia progressivamente consolidato nel tempo un rapporto di ‘vicinanza/cordialità’”. In sostanza per i magistrati, la mafia avrebbe imposto un “rapporto di protezione” attraverso il pizzo per evitare ritorsioni e continuare a svolgere la propria attività. Una tesi che invece Ciancio ha sempre negato. Quando però i beni furono restituiti a Ciancio, le speranze di un ritorno alla normalità dei 150 lavoratori, fra poligrafici, amministrativi e giornalisti, sono state vanificate dalla dichiarazione dell’editore di voler mettere in liquidazione l’azienda. A distanza di qualche settimana, infine, è giunta la richiesta della procura e la decisione del tribunale. Per la Fnsi e l’Assostampa Puglia la sentenza “chiude la stagione delle gestioni allegre e scriteriate” della Gazzetta che grazie all’esercizio provvisorio “scongiura l’interruzione delle pubblicazioni e pone le basi per il rilancio della testata, a partire dalla redazione, e per la tutela dell’occupazione”. In una nota, Fnsi e Associazioni regionali di Stampa di Puglia e Basilicata, hanno dichiarato che l’auspicio, ora, è che “il governo assuma con celerità ed efficacia ogni decisione utile a tutelare i posti di lavoro della Gazzetta del Mezzogiorno, accompagnando – tramite il tavolo con la Fnsi già insediato dal Dipartimento Editoria della Presidenza del Consiglio – l’iniziativa avviata dai giornalisti” per “tutelare l’informazione in Puglia e Basilicata” e “affiancando, con strumenti normativi ordinari, il lavoro che i curatori fallimentari sono chiamati a portare avanti, rimediando agli errori sin qui commessi” e per “consentire la tutela del pluralismo e dell’informazione in due fondamentali regioni del Mezzogiorno”. 

Una storia tutta catanese, affari e amici di Mario Ciancio Sanfilippo. A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA il 02 marzo 2021 su editorialedomani.it. Di Ciancio a Catania si è sempre parlato tanto. Si parlava del suo potere, più che della sua figura, perché non appariva spesso in pubblico. Rappresentava la Catania bene nella sua edizione più esclusiva e raffinata. Gestiva sapientemente strumenti di evasione ed esigenze identitarie della sicilianità, mantenendo poco apparenti – se non occulte – le commistioni con la politica. Su Domani arriva il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Dopo la serie sull’omicidio di Mario Francese, si continua con la narrazione del patto tra Cosa Nostra e i colletti bianchi. Un protagonista delle vicende legate agli ipermercati è stato l’editore catanese Mario Ciancio Sanfilippo. Questa storia merita una premessa, per la sua rilevanza e per comprendere cosa può influenzare certe parabole nelle vicende politico-imprenditoriali ai piedi dell’Etna. Di Ciancio a Catania si è sempre parlato tanto. Si parlava del suo potere, più che della sua figura, perché non appariva spesso in pubblico. Se si eccettua un intervento registrato a un convegno sull’archivio storico, è difficile rinvenire una sua immagine sul web. Se ne è stato per anni volontariamente in disparte, curando l’arte antica come un vezzo. E con altri vezzi ha lasciato intendere il modello cui avrebbe voluto ispirarsi: ad esempio facendosi vedere nelle occasioni importanti con l’immancabile camicia bianca e il polsino fasciato dal cinturino dell’orologio. Le poche parole, pronunziate con una esse poco sibilante, toglievano il dubbio sul fatto che preferisse lo stile dell’avvocato di Torino a quello del cavaliere di Arcore. E così, esponendosi sapientemente in apparizioni rare e casuali, aveva creato attorno a sé un’atmosfera di misteriosa forza, che ha sfiorato l’onnipotenza quando ospitò, con un coup de théâtre, niente meno che i reali d’Inghilterra che erano in visita in Sicilia. L’inconsueta visita venne letta da alcuni con il ruolo rivestito dai reali nelle alte gerarchie della massoneria anglosassone; ma anche questa critica non ebbe altro effetto agli occhi dei catanesi, se non quello di elevare la sua considerazione fino quasi alla soglia del mito. Insomma, l’effetto di queste suggestioni era così forte da lasciar sospettare che tutto ciò non accadesse per caso: che la forza venisse lasciata intendere, anziché esibita, cosicché venisse immaginata ancora più consistente di quanto non fosse già di suo. E il gruppo Ciancio di forza ne possedeva. Operava nella carta stampata in un regime di monopolio di fatto con il quotidiano del mattino «La Sicilia» – affiancato per anni dal giornale del pomeriggio «Espresso Sera». Già alla fine degli anni Settanta, all’interno dello stabilimento di viale Oderico da Pordenone andavano in pagina – con quelli che venivano allora considerati i più moderni sistemi di teletrasmissione – tutti i quotidiani più importanti su scala nazionale, da «Repubblica» alla «Gazzetta dello Sport». Inoltre il direttore de «La Sicilia» era anche un importante azionista e vice-presidente dell’Agenzia Ansa, la cui sede catanese veniva ospitata negli stessi locali del giornale. Queste condizioni nel mercato della carta stampata contribuirono a stabilizzare a Catania il monopolio dell’editoria, con l’eccezione della breve stagione del «Giornale del Sud» – il quotidiano che fu diretto da Giuseppe Fava. I principali quotidiani nazionali, da «Repubblica» al «Corriere», evitarono di aprire in città un foglio locale in competizione con chi stampava il loro giornale. E, d’altra parte, la concorrenza di «Gazzetta del Sud» e «Giornale di Sicilia» era pressoché irrilevante, essendo considerati dai lettori come i giornali di altre realtà territoriali. Alle vendite cospicue del prodotto editoriale si affiancavano i proventi della pubblicità, commissionata anche da enti pubblici. E diciamo pure che per un bel po’ di tempo – quando ancora la spesa pubblica non era sotto i riflettori – sindaci e presidenti di provincia compravano pagine, magari con la speranza di ricevere un’attenzione dal giornale locale se non proprio una bella intervista con tanto di foto in posa.

UN IMPERO. […] In queste condizioni di forza, già nel 1985 l’editore catanese aveva messo a segno il suo allungo. Gli era stato agevole surclassare con gli ascolti e i proventi della pubblicità la concorrenza di Teletna, l’emittente televisiva del cav. Recca, che era stata la prima ad accendere i ripetitori e a trasmettere le partite del Catania. Tanto che ne acquisì agevolmente il pacchetto societario e i diritti televisivi. Nella città dove contano gli affari e il successo, Ciancio aveva centrato i suoi obiettivi: disponeva di forza economica, di credito politico e del consenso popolare per aver avuto la capacità di chiamare a raccolta attorno a sé i catanesi che contano. Egli rappresentava la Catania bene nella sua edizione più esclusiva e raffinata, e al tempo stesso soddisfaceva i desideri del popolo. Gestiva sapientemente strumenti di evasione ed esigenze identitarie della sicilianità, mantenendo poco apparenti – se non occulte – le commistioni con la politica. Diciamo che stava all’intuito dei catanesi comprendere che quel monopolio lo stagliava al di sopra della classe dirigente della città e che egli, col potere di cui disponeva, era in grado di poterne orientare le scelte, da perfetto erede di quella classe dominante catanese raccontata nei romanzi del primo Novecento. Il suo successo era coinciso in gran parte con il periodo storico di dominio della Democrazia Cristiana e con l’epopea dei cavalieri del lavoro, le cui iniziative politico-economiche trovavano sempre una importante eco nel giornale. Si trattava di un tutto tondo che non escludeva alcuna prospettiva, neppure quella giudiziaria. Per utilizzare un concetto caro al compianto Giambattista Scidà, potremmo dire che l’informazione unica riusciva a dare una propria lettura di tutti i fatti, anche di quelli giudiziari, accreditando a priori una pseudo-identità vincente. Il Catania in serie A. Imprenditori-Cavalieri di serie A che invadevano Palermo e il nord Italia. Politici rampanti che puntavano ai vertici dello Stato. E in quel delirio di anni Ottanta, stordito dalla musica rock e dal suo sogno identitario, il popolo recepiva le posizioni minimaliste sul ruolo e la consistenza della mafia alle pendici dell’Etna, descritta come una realtà fatta di bande ed estranea a Cosa nostra, mentre invece i catanesi vi militavano nella serie maggiore. Proprio mentre Giuseppe Calderone prima e Nitto Santapaola poi ascendevano nella struttura di comando della cupola, mantenendo uno stretto rapporto con i cavalieri dell’Apocalisse; cioè mentre la mafia catanese e il suo metodo invadevano l’intera nazione. Tutt’intorno vi era poco o nulla di diverso vi sarebbe stato. Se si eccettua Giuseppe Fava e il gruppo dei giornalisti che lo aveva seguito, poche sono state nel tempo le voci fuori dal coro dell’informazione ufficiale de «La Sicilia». Ne sanno qualcosa Giuseppe Giustolisi e Marco Travaglio che sono stati autori – molti anni dopo – del coraggioso pezzo Arrivano i catanesi pubblicato su «Micromega» nel 2006, con cui esprimevano forti critiche a questo monopolio informativo, ma anche alla vita pubblica e giudiziaria della città, nel denunciare il cosiddetto Caso Catania che vedeva coinvolti anche politici e magistrati. Un pezzo che costò loro una querela per diffamazione da parte del presidente dell’associazione nazionale magistrati, e che li vide resistere in giudizio venendo poi assolti da ogni addebito. Intanto in città, proprio negli anni del maggior successo, iniziavano a circolare i primi echi di alcune vicende che avevano destato sconcerto nella opinione pubblica. A Palermo il 27 luglio del 1985 veniva ucciso Beppe Montana, un “catanese” di cui si poteva davvero andare orgogliosi. La famiglia in occasione del Trigesimo preparò un necrologio nel quale esprimeva il suo «rabbioso rimpianto», «rinnovando ogni disprezzo alla mafia e ai suoi anonimi sostenitori». Era un modo per dire che in quella città, con quel sistema di potere e di informazione il sacrificio di Beppe era rimasto insabbiato e dimenticato. Quel necrologio non sarebbe stato mai pubblicato, sul presupposto che contenesse la parola “mafia”. Tempo dopo vi fu la vicenda del capo mafia Ercolano, che protestò contro il giornalista Concetto Mannisi – che in un suo pezzo lo aveva definito “boss” – e ottenne la soddisfazione di vedere il cronista redarguito dal “direttore” in sua presenza. Tutto questo – sussurrato, ma ben conosciuto dai catanesi – non impedì al gruppo editoriale e al suo direttore di continuare ancora per anni a navigare sicuri. Tant’è che anche la crisi istituzionale del 1992, con la piccola rivoluzione giudiziaria provocata da Tangentopoli ai piedi dell’Etna – che abbiamo raccontato in Catania bene – lasciò quasi indifferente il gruppo di viale Oderico da Pordenone; che anzi ne cavalcò l’onda proponendosi strategicamente come l’interlocutore del “nuovo” che si sarebbe affacciato in politica. Pur evitando di esprimere una critica aperta ai metodi della vecchia classe dirigente della città – che il giornale aveva sostenuto quando governava – strategicamente si dava risalto alle vicende giudiziarie che in poco tempo sovvertirono l’assetto politico ed economico. E così il 24 maggio 1993 – all’aprirsi della tangentopoli nella città dell’elefante – il quotidiano avrebbe titolato in prima pagina: Tangenti, l’ora di Drago, scaricando uno dei big della politica, cui aveva dato voce anche in situazioni inopportune, per non dire imbarazzanti. Solo alcuni anni prima – all’indomani dell’omicidio di Giuseppe Fava, avvenuto il 6 gennaio del 1984 – il leader andreottiano sulla stampa aveva tuonato contro le ricostruzioni che accostavano il “buon nome dei cavalieri” al movente di mafia dell’omicidio. E adesso invece quell’arresto, e i molti altri che ne sarebbero seguiti, venivano presentati come una realtà ineluttabile e quasi doverosa. E chiara emergeva la volontà di schierarsi con il nuovo e di mollare il vecchio in attesa che verità giudiziaria e informazione potessero liberare gli spazi che erano stati del pentapartito e della Prima Repubblica, affinché altri potessero occuparli. Caduti i cavalieri e la classe politica dirigente che si riassumeva nel trinomio Drago-Andò-Nicolosi, il gruppo editoriale ed economico rappresentava l’unico vero potere rimasto in piedi. Ed era così pronto a celebrare gli uomini delle primavere siciliane, per accompagnare altre stagioni di governo della città nel nome di un rinnovamento che avrebbe fatto sbiadire anche il pelo fitto del Gattopardo. Frattanto, mentre irrompevano le “primavere”, il monopolio si era esteso alle tv locali, finendo per inglobare anche l’emittente Telecolor, che – secondo quanto ricostruito nelle indagini della Commissione antimafia e nei procedimenti civili avviati per illegittimi licenziamenti – venne dapprima acquisita dal gruppo Rendo ma poi depotenziata finanziariamente (attraverso la creazione di una agenzia di stampa che le sottraeva risorse) e infine falcidiata dei suoi storici redattori. Queste scelte intervennero proprio nel momento in cui gli interessi finanziari dell’imprenditore viravano verso situazioni non limpide, che avrebbero attratto di lì a poco l’attenzione della Procura della Repubblica. Nel silenzio della stampa che conta, per una legge del contrappasso, furono i giornali di internet a rivelare le scomode verità che avrebbero portato al declino del gruppo.

SI STA SEMPRE CON CHI VINCE. Il dissenso, che per anni era stato silenzioso, divampò; e l’immagine di Mario Ciancio – che aveva resistito solida quando il giornale avallava la possibile natura passionale dell’omicidio di Giuseppe Fava o dava eco a quanti dichiaravano “a Catania la mafia non esiste”, – andò in crisi nello spazio di un mattino. Il resto è storia recente fino al processo per concorso esterno in associazione mafiosa, in corso di svolgimento, e alla misura di prevenzione. Quella appena riferita è una parabola tipicamente catanese, nella quale consenso e successo obbediscono a proprie logiche. Il bene e il male sembrano sprigionare da una medesima energia, ma si riconoscono e si distinguono per la direzione che prendono le azioni umane. Ma purtroppo, come avranno bene inteso i lettori, a Catania il consenso è spesso scollegato dal bene. Esso, come si racconta in certi romanzi russi, è conseguenza del successo, mentre la crisi del suo opposto. In altre parole: si sta sempre con chi vince. Così si spiegano i rovesciamenti di fronte e i riposizionamenti di tanti uomini pubblici “ravveduti” dopo anni di accondiscendenza. Per cui, come direbbe il poeta, ricordando il gioco dei dadi nelle piazze medievali di Firenze… “colui che perde si riman dolente…., con l’altro se ne va tutta la gente”. Solo adesso, e non prima, perché l’etica ufficiale – o forse meglio la sua rappresentazione – ha sempre vestito l’agire del più forte. E così chi ha perduto la propria battaglia di verità, quando non anche i propri diritti o il posto di lavoro, in passato ha spesso avuto torto anche nella rappresentazione pubblica. E questo può accadere ancora e in ogni settore: nella politica, nella giustizia e ovunque la faccia da padrone l’accordo tra poteri. Persino nella gioiosa macchina da guerra dell’antimafia, come vedremo. Testi tratti dal libro "Cosa Nostra S.p.a., di Sebastiano Ardita

Nota: nel gennaio 2021 è diventato definitivo il dissequestro dei beni appartenenti a Mario Ciancio Sanfilippo mentre il processo per concorso esterno è ancora in corso. A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA 

Gazzetta del Mezzogiorno, storia di una fine e di un editore che nessuno vede. Alberto Ferrigolo, Maggio 2020 su professionereporter.eu. “Mario Ciancio Sanfilippo? A Bari, alla "Gazzetta del Mezzogiorno" in vent’anni si sarà visto cinque volte in tutto”, fanno i conti i giornalisti del quotidiano pugliese.

Che fine farà ora la “Gazzetta”?

“Vergogna”, hanno scritto sulla prima pagina lo scorso 6 maggio i giornalisti commentando in un comunicato la dichiarazione di disinteresse del loro editore a impegnarsi per il futuro della testata. L’idea di Ciancio è di mettere in liquidazione la società editrice, la Edisud Spa, uno dei beni che ha avuto indietro il 24 marzo, dopo che la Corte d’Appello di Catania ha disposto il dissequestro di tutti i suoi averi (giornali, società, conti correnti e tv).

La sezione Misure di prevenzione del medesimo tribunale li aveva bloccati il 24 settembre 2018, per un valore complessivo di 150 milioni di euro. Il motivo? Contestano a Ciancio il reato di “concorso esterno in associazione mafiosa”, ma ora i giudici di Catania si sono convinti che “non può ritenersi provata l’esistenza di alcuni attivo e consapevole contributo arrecato in favore di Cosa nostra catanese”. Quindi, è venuta meno anche ogni forma di “pericolosità sociale”, oltre al fatto che “non è risultata accertata e provata alcuna sproporzione tra i redditi di provenienza legittima di cui il preposto e il suo nucleo familiare potevano disporre e beni mobili e immobili a loro riferibili”. Tra i valori dissequestrati, oltre a conti correnti e immobili, c’è il quotidiano di famiglia “La Sicilia”, la maggioranza delle quote della “Gazzetta del Mezzogiorno” di Bari, due emittenti televisive regionali, “Antenna Sicilia” e “Telecolor” e la società’ che stampa quotidiani Etis.

ASSOCIAZIONE MAFIOSA

Il processo, comunque, va avanti. 

Classe 1932, catanese, discendente dalla nobile famiglia dei baroni Ciancio di Adrano, Mario Ciancio Sanfilippo, imprenditore nel campo dell’edilizia, dell’agricoltura e della grande distribuzione, è l’editore del quotidiano “La Sicilia” e anche il suo storico direttore dal 1967 al 2018. Proprietario anche di una serie di emittenti locali siciliane, acquisisce la quota di maggioranza della “Gazzetta del Mezzogiorno” più di vent’anni fa, tra il 1997 e il 1998, suo unico bene al di fuori della Trinacria. Nel quale, si diceva, lui provvedesse in maniera generosa a ripianare il bilancio annuale. Al momento in cui, il 24 settembre di due anni fa, interviene il tribunale con il sequestro dei beni di Ciancio Sanfilippo, la società editrice, la Edisud, “è già piuttosto indebitata”, racconta Gianfranco Summo che con Ugo Sbisà, Carmela Formicola, Massimo Levantaci e Antonella Inciso, costituisce il Comitato di redazione in rappresentanza di giornalisti, corrispondenti e collaboratori: “Su Edisud scopriamo la verità delle cose via via, nel corso degli anni”. 

A fine settembre 2018 – nell’ambito del procedimento giudiziario per il reato di “associazione esterna” – vengono nominati i commissari, due professionisti catanesi, per occuparsi del giornale. “E lì i fatti – racconta ancora Summo, che con i colleghi del Cdr ha svolto una lunga indagine di ricostruzione dei fatti societari – hanno cominciato a prendere una piega poco chiara. Nel senso che subito si comincia a parlare dei nostri stipendi, con la proposta di una decurtazione del 50%”. 

Siamo alla fine del 2018 e tra redazione e amministratori inviati dal tribunale di Catania si innesca un violento braccio di ferro. La cosa curiosa è che gli stessi non sostituiscono i manager nominati da Ciancio, come avrebbero dovuto fare per essere più liberi di agire. Devono trascorrere ben 7 mesi prima che Franco Capparelli venga estromesso dalla Edisud Spa di cui è stato consigliere di amministrazione e anche direttore generale, plenipotenziario degli affari di Ciancio. Ma Capparelli cade in piedi, perché uscito dalla Edisud resta comunque presidente di Mediterranea Spa, partecipata al 100% di Edisud e cassaforte per conto della famiglia catanese. Mediterranea è proprietaria della testata “La Gazzetta” e anche titolare della raccolta pubblicitaria: “Lì c’è il succo”.

Quello di Capparelli è di fatto un semplice trasferimento di competenze? “Parrebbe di sì”, è l’opinione prevalente dei giornalisti, anche se formalmente “Ciancio in quei giorni è fuori da tutto”. In quei giorni la redazione presenta un esposto alla Procura della Repubblica per esporre tutte le perplessità dei giornalisti in merito alla gestione del giornale, anche per il periodo precedente il sequestro. “Non ci tornavano i conti”, raccontano. Al momento del sequestro dei beni dell’editore, Ciancio è proprietario del 69% delle azioni della Edisud Spa, l’editrice, “e poi c’è un 31% che è frutto di un valzer di azioni che dura da anni”, dice il Cdr. Ciancio in pochi anni supera il 50% delle azioni rilevando le quote del distributore dei giornali, Lobuono, mentre il pacchetto dell’editore Morgante passa all’editore Angelucci, quello delle case di cura e di “Libero Quotidiano”, il quale a propria volta lo cede perché in verità non ha alcuna voce in capitolo, non siede nemmeno in Cda: si limita a partecipare alle assemblee dei soci, integrare i bilanci, se necessario, per poi tornarsene a casa. Così Angelucci cede il 31% al gruppo barese guidato da Vito Fusillo, interessi nell’edilizia. 

Il pacchetto di minoranza vale 30 milioni di euro “e a finanziarlo – assicura Summo – è proprio la Banca Popolare di Bari, che di fatto offre a Fusillo il credito e la liquidità necessaria all’operazione”. Ma non è tutto, perché ad un certo punto anche Fusillo getta la spugna e si libera del pacchetto, cedendolo a Valter Mainetti, azionista di riferimento del gruppo Sorgente, al cui gruppo fa capo la “Foglio Edizioni srl”, acquisita nel 2016 e che ha firmato un contratto d’affitto con la cooperativa di giornalisti del quotidiano fondato da Giuliano Ferrara e diretto da Claudio Cerasa. “Fusillo deve uscire perché si è molto indebitato con la Banca Popolare di Bari – racconta il componente del Cdr – come poi la stessa vicenda giudiziaria della stessa banca rivelerà”. E in effetti di lì a poco la Popolare di Bari viene commissariata. Siamo arrivati a dicembre 2019.  

45 MILIONI DI DEBITI

Da un’analisi finanziaria di quello stesso periodo risulta che la Edisud Spa si porta appresso un fardello pari a 45 milioni di euro di debiti, ma tra i creditori figura la stessa Popolare di Bari, a sua volta creditrice anche della stessa Denver, la società-veicolo con la quale Mainetti ha comprato le azioni della Edisud, poi date in pegno proprio alla PopBari. E la Denver, nel frattempo, si è proposta come soggetto assuntore di un concordato in bianco, per provare a salvare la Edisud dal fallimento. Un’architettura economico-finanziaria approntata proprio con la stessa Popolare”. “Un intreccio meraviglioso”, chiosa il Cdr della “Gazzetta”. Tanto più che il concordato proposto da Mainetti alla banca “è di fatto costruito per permettere alla Edisud di svincolarsi dalla situazione debitoria e salvare così la Denver stessa”, puntualizza Summo. Ma a dicembre salta anche il tappo sulla situazione della banca guidata da Marco Jacobini e così crolla anche tutto il castello finanziario messo in piedi intorno alla Edisud. La Popolare viene commissariata e su di essa tutt’ora indaga la Procura di Bari.  

Un groviglio che i giornalisti della “Gazzetta” raccontano sulle colonne del giornale. Con un pacchetto di minoranza che passa di mano in mano e con la Popolare di Bari che fa da garante e finanzia di volta in volta ogni trasferimento.

Come finirà?

Il 29 aprile Ciancio si è rifiutato di nominare il nuovo Cda, “sollevando un cavillo tecnico”, raccontano alla “Gazzetta”, ritenendo che l’assemblea dei soci fosse stata convocata in maniera irrituale. Prossima convocazione il 14 maggio, per la nomina di un nuovo Cda al posto di quello scelto dal Tribunale di Catania, ormai uscito di scena. Ma la famiglia Ciancio sembra voglia, invece, nominare un liquidatore. E alla decisione sono appese le sorti di cinquantatré articoli 1, venticinque articoli 36, una dozzina di articoli 2 e 12, ovvero i giornalisti contrattualizzati, ai quali sono da aggiungere 65 poligrafici e amministrativi (165 in tutto), oltre ad uno stuolo di collaboratori e corrispondenti dai più piccoli e sperduti centri della regione pugliese.  

La Gazzetta del Mezzogiorno ha 135 anni di storia. (PER SEMPRE IMPUTATI) La giustizia delle gabbie bianche. Giuseppe Sottile il 3 luglio 2021 su Il Foglio. Mori, Subranni, Cortese, Ciancio. Storie di vite bruciate dai processi senza fine. Le ragioni? Chiedetele a Brusca. La giustizia degli stregoni. La madre di tutte le macchine del fango. Chiedetelo a Brusca. Sì a Giovanni Brusca, il picciotto di mafia che tra il 1975 e il 1992, ha commesso allegramente oltre centocinquanta omicidi. Ha scannato boss e scassapagghiari, complici e traditori, infami e piscialetto. Ha ordinato lui di incaprettare e poi sciogliere nell’acido un ragazzino di tredici anni la cui colpa era solo quella di essere figlio di un pentito. Ed è stato lui a scatenare col telecomando l’inferno di Capaci, l’attentato nel quale morirono, stritolati dal tritolo, il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. Chiedetegli, se avrà la bontà di ascoltarvi, che cosa è la giustizia in Italia. Lui conosce ogni aula, ogni caverna, ogni labirinto. Sa che ci sono sbirri che non danno pace ai latitanti e che mettono la propria vita in gioco pur di catturarli; ma sa anche che ci sono pubblici ministeri che giocano con i pentiti, che li avvolgono con lusinghe e promesse pur di ottenere una dichiarazione che confermi i loro teoremi. Sa di che violenza è fatto il carcere duro, ma sa anche come farla franca. Sa di quali odori e e di quali rumori è fatta la galera, quella delle celle imbiancate dal neon e incrostate di piscio; e sa anche di quali comfort sono dotati gli alberghi o le case sul lago dove i magistrati compiacenti hanno consentito a lui e alla sua famiglia di trascorrere le ottantatré vacanze – tutte conformi alla legge, per carità – concesse come premio per le sue confessioni, per i colloqui investigativi, per il suo dire e non dire. Una cosa sola non ha conosciuto Brusca nella sua carriera di killer all’italiana, di killer cioè che ammazza e poi si pente. Quella gabbia invisibile nella quale vengono rinchiusi per anni gli uomini che, per una illeggibile maledizione del destino – Mysterium iniquitatis, l’avrebbe chiamata San Paolo – vengono segnati a dito da un procuratore ardimentoso e sono poi costretti, per tutta la vita, a vagare per tribunali e corti d’appello, a inseguire avvocati e testimoni, a macerarsi tra ordinanze e perizie giurate, a ricorrere in tutti i gradi di giudizio pur di dimostrare la propria innocenza. È la tortura del processo infinito, quello che non si chiude mai, quello che non prevede né clemenza né prescrizione: perché il pubblico ministero, zelante oltre ogni ragionevole dubbio, trova sempre un appiglio – o l’accomodante dichiarazione di un pentito – per chiedere al giudice di merito un supplemento di inchiesta o una riapertura dell’istruttoria. Sono gabbie di raffinata e lucida crudeltà quelle che la malagiustizia riesce a costruire attorno a uomini lontani anni luce da Brusca. Dentro quelle gabbie bianche, eteree e inafferrabili non ci sono pareti maleodoranti né rumori di ferraglie e di cancelli che si chiudono; ci sono vite che lentamente si consumano, aggredite dalla gogna e ammorbate dall’impotenza. Pensate. In una di quelle gabbie c’è rinchiuso, da oltre vent’anni, il generale dei carabinieri Mario Mori, l’uomo che nel gennaio del 1993 arrestò a Palermo Totò Riina, il sanguinario capo dei corleonesi, la cosca delle stragi di mafia, quella alla quale apparteneva Giovanni Brusca. Un gruppo di pm – tutti magistrati coraggiosi, ci mancherebbe altro – lo inseguono senza tregua e lo indicano come il regista di una sporca e inconfessabile trattativa tra lo Stato e la cupola di Cosa nostra. La Corte di Assise di Palermo lo ha condannato in primo grado a undici anni di carcere ma, nel frattempo, la Cassazione ha stabilito – con l’assoluzione piena e irreversibile dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino, giudicato con rito abbreviato – che la Trattativa non è altro che una fandonia, nient’altro che una invenzione di un gruppo di inquirenti e di inquisitori che volevano riscrivere la storia d’Italia. Ma il generale Mori, così come gli altri imputati del rito ordinario, dovrà aspettare il verdetto d’appello per uscirne fuori, se mai ne uscirà fuori. Quando finirà il calvario? Nella gabbia della Trattativa non c’è rinchiuso solo Mori, 82 anni. C’è anche Antonio Subranni, 89 anni, che al tempo delle stragi fu pure lui comandante del Ros, reparto operativo speciale dei carabinieri. Vivranno abbastanza per vedere ripristinato il loro onore di alti ufficiali fedeli alla Repubblica? Chiedete anche questo a Brusca. Lui, il boia di Capaci, ha conosciuto invece l’altra giustizia, quella che sa essere veloce, rapida ed efficiente; quella che lo ha scarcerato addirittura con 47 giorni di anticipo rispetto alla scadenza prevista da un complicato calcolo tra le condanne e la remissione dei peccati. Certo, a lui di Mori o di Subranni non frega assolutamente nulla. Anzi. Dal luogo misterioso in cui si gode la libertà che la legge sui pentiti gli ha comunque garantito, assiste al cinismo con cui la giustizia tiene sotto scacco sbirri e poliziotti, carabinieri e generali pluridecorati: i suoi nemici di sempre. Assiste – magari con un pizzico di compiacimento – al loro sfinimento, alla loro mortificazione, all’accanimento con il quale i magistrati li tengono tenacemente inchiodati al palo del sospetto mentre le anime belle dei giornali e dei talk-show non smettono di perseguitarli, di mascariarli, di indicarli al pubblico disprezzo. Questi, diciamolo, sono giorni di non trascurabile felicità per Giovanni Brusca. E non solo per la libertà riconquistata giusto un mese fa. Pensate a quanta gioia avrà provato il giorno in cui ha saputo, per esempio, della sentenza del tribunale di Perugia che ha condannato a cinque anni Renato Cortese, un altro eroe della Repubblica, rinchiuso dal 2016 nella gabbia invisibile di un processo surreale, fumoso, etereo; scandaloso, si stava per dire. Lo hanno accusato di sequestro di persona. Gli hanno addossato la responsabilità di avere rimpatriato nel 2013 in Kazakistan, dopo una perquisizione nella sua abitazione di Casal Palocco, Alma Shalabayeva, moglie di un controverso dissidente del regime di Astana, Mukhtar Ablyazov. Più delinquente che dissidente. La signora diceva di avere un passaporto diplomatico, per sé e per la figlia di sei anni, ma il documento era falso. Il rimpatrio – che la sentenza del tribunale ha drammaticamente marchiato come un “rapimento di Stato” – fu regolarmente autorizzato dalla procura di Roma. Ma il collegio giudicante, presieduto da Giuseppe Narducci, non ha voluto mai ascoltare la testimonianza di Giuseppe Pignatone, il procuratore a cui si intestava la titolarità dell’intera operazione. E ha preferito scaricare su Cortese, che nel 2013 era a capo della Squadra Mobile della Capitale, le conseguenze di un “crimine di eccezionale gravità, lesivo dei valori fondamentali che ispirano la Costituzione repubblicana e lo stato di diritto”. Cortese, promosso nel frattempo a questore di Palermo, ha incassato. Le sentenze si rispettano, ci hanno detto e insegnato fin dalle scuole elementari. E siccome è un uomo delle istituzioni, aspetta con pazienza che venga fissato il processo d’appello: un processo sereno, va da sé, che faccia luce su alcuni passaggi che il primo grado ha, non sempre involontariamente, trascurato. Intanto però lo Stato, e la pubblica sicurezza in particolare, hanno costretto un investigatore di inarrivabile esperienza ad abbandonare i suoi incarichi operativi, a salutare Palermo e a restarsene fermo in una stanza del Viminale a passar carte. Le gabbie invisibili procurano anche questi effetti. Ma, in attesa che Perugia ritrovi la strada della verità, chiedete a Brusca chi era Cortese. Il boia di Capaci, si ricorderà, come il colonnello Buendia inventato da Garcìa Marquez, di quel lontano pomeriggio in cui la Squadra Catturandi gli mise le manette ai polsi e segnò la fine della sua latitanza. Era il 20 maggio del 1996. Il killer delle stragi aveva trovato rifugio in una villetta anonima nella campagna di Agrigento. L’uomo che lo ha scovato e arrestato era, manco a dirlo, Renato Cortese, giovane investigatore della Squadra Mobile di Palermo. Il quale, per individuare il nascondiglio, si inventò uno stratagemma di inusitata raffinatezza. Attraverso le intercettazioni telefoniche, la polizia aveva scoperto che il boss incontrava il fratello e anche il figlio. Bisognava solo individuare con esattezza la tana. Cortese chiese ai suoi uomini di fare transitare per le stradine di quella zona una moto smarmittata, capace di provocare un rumore assordante proprio mentre Brusca era al telefono. Il trucco riuscì. Gli agenti individuarono con precisione la villa, la accerchiarono, fecero irruzione e il malacarne finì dietro le sbarre. Al momento della cattura stava vedendo, ironia della sorte, un film su Giovanni Falcone. Quella brillante operazione segnò, per Cortese, l’inizio di una gran bella carriera. Anche perché l’11 aprile del 2006 nella sua rete finì un altro boss di alto rango: quel Bernardo Provenzano, corleonese purosangue come Totò Riina, che si era dato alla macchia nel 1963, un anno prima che Cortese nascesse. Chi avrebbe potuto mai immaginare che un superpoliziotto di così collaudata professionalità sarebbe finito un giorno nelle spire appiccicose di un processo senza fine e nel nerofondo di una condanna che limita i suoi movimenti, i suoi slanci, la sua agibilità? Brusca, se vuole, ha di che festeggiare. Se la Corte di Appello di Perugia non si affretta a fissare la data del secondo grado, la paralisi sarà irreparabilmente lunga e devastante. Per fortuna – se di fortuna si può parlare in casi come questi – le imputazioni di Cortese non emanano odore di mafia, come quelle di Mori o di Subranni. Quando c’è la mafia di mezzo, si sa, un imputato è per sempre: le leggi varate in clima d’emergenza hanno di fatto cancellato la prescrizione e i processi possono anche perseguitare il malcapitato per una vita intera. Prendete la storia di Mario Ciancio, potente editore del quotidiano catanese “La Sicilia” che il 29 maggio scorso ha toccato la venerabile età di 89 anni. Per otto anni, a partire dal 2002, le avanguardie della cultura del sospetto gli girano attorno con informative, allusioni, insinuazioni. Gli chiedono conto e ragione delle sue entrate, delle sue uscite, di ogni voce di bilancio. Poi, nel novembre del 2010, la Distrettuale antimafia lo indaga formalmente per concorso esterno e lo chiude nella gabbia bianca di un processo senza fine. Le dicerie sui suoi rapporti con i boss dei clan catanesi approdano in un fascicolo giudiziario unitamente alle dichiarazioni, ovviamente de relato, rese dal pentito Angelo Siino, e da Massimo Ciancimino, il pataccaro figlio di don Vito, che in quegli anni veniva molto coccolato dai magistrati coraggiosi di Palermo e baciato in pubblico persino da Salvatore Borsellino, fratello del giudice assassinato nella strage del 19 luglio 1992 in via D’Amelio. Nel 2010 tuttavia siamo ancora nella vaghezza. Al punto che il procuratore e il pubblico ministero del tribunale catanese chiedono l’archiviazione. Ma il Gip si oppone e Ciancio diventa la pietra di scandalo nella quale inciampano due giudici delle udienze preliminari: una, Gaetana Bernabò Di Stefano lo proscioglie mentre due anni dopo, in seguito al ricorso della procura, Loredana Pizzino non ci pensa su due volte e lo rinvia a giudizio. Le sbarre della gabbia bianca si infittiscono il 24 settembre del 2018 quando, a sorpresa, la Sezione Misure di prevenzione dispone il sequestro di tutte le proprietà del gruppo: giornali, televisioni, stazioni radio, terreni e conti correnti. Il vecchio editore, con quote nella Gazzetta del Sud e nella Gazzetta del Mezzogiorno, sembra destinato a soccombere, affogato come Giobbe tra cenere e fango. Ma si sa che c’è sempre un giudice a Berlino. Con una sentenza che è già un’inversione di rotta, la Corte di appello nel marzo del 2020 annulla la confisca: scrive che non è stata provata “alcuna sproporzione tra i beni legittimi” accumulati dall’editore e stabilisce “la mancanza di pericolosità sociale”. La procura presenta puntualmente il suo ricorso ma la partita viene chiusa in via definitiva dalla quinta sezione della Cassazione, presieduta da Maria Vessichelli, che in trentacinque pagine smonta, una dopo l’altra, le accuse rovesciate su Ciancio da pentiti, pubblici ministeri e professionisti dell’antimafia; lo ripulisce da capo a fondo e gli restituisce tutti i beni che il tribunale aveva messo sotto sequestro. Le gabbie bianche gli hanno però rubato e bruciato venti anni di vita. Riuscirà – lui che marcia spedito verso i novant’anni – a sopravvivere alla prigionia dei processi? Quello intentato dalle Misure di Prevenzione si è chiuso, le gabbie sono state smontate. Resta in piedi quello per concorso esterno. Che va avanti lentamente, stancamente, con udienze rinviate anche di cinque mesi, tanto che fretta c’è. Ma se una sentenza della Suprema Corte ha già messo per iscritto che l’editore de La Sicilia non ha avuto rapporti né con i boss né con i picciotti, a che serve accanirsi?  È vero: alle scuole elementari ci hanno insegnato che le sentenze si rispettano. Ma anche i bambini dell’asilo sanno che l’eccesso di giustizia è già malagiustizia. Chiedetelo a Brusca: vi confermerà pure questo.

Giuseppe Sottile. Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia. 

Perché la Gazzetta del Mezzogiorno "chiude": stop in edicola dopo 134 anni e 144 posti a rischio. Carmine Di Niro su Il Riformista il 1 Agosto 2021. Una storia secolare, iniziata ben 134 anni fa, nel 1887, che si fermerà domani. La Gazzetta del Mezzogiorno, storico quotidiano del meridione e testata più antica di Puglia e Basilicata, esce oggi in edicola con l’ultimo numero per mancanza di un editore. Il quotidiano oggi apre con una prima pagina che riassume lo stato d’animo della redazione: “Arrivederci” è il titolo a tutta pagina, rimasta bianca e senza altre notizie, con le parole di speranza affidate all’editoriale del direttore Michele Partipilo. Ultimo giorno per i fedeli lettori del quotidiano, che da domani non sarà più in edicola dopo il fallimento della società editrice e la rinuncia della Ledi srl, che ha editato il giornale negli ultimi sei mesi, a prorogare il fitto del ramo di azienda di un mese, in attesa della conclusione della gara per l’assegnazione definitiva. “Cari lettori – scrive il direttore nell’editoriale – quanto annunciato ieri è diventato purtroppo realtà. Nonostante i febbrili contatti delle ultime ore non è stato possibile individuare una soluzione che consentisse alla Gazzetta del Mezzogiorno di continuare le pubblicazioni “. “Per questo gridiamo questo titolo che è insieme il segno di una sconfitta e il manifesto di una speranza. Se lo vorranno – continua il direttore Partipilo – le istituzioni interessate potranno rendere brevissima l’assenza della Gazzetta dalle edicole. Sarebbe sufficiente che il Comitato dei creditori esprimesse subito, magari domani stesso, la sua valutazione delle due proposte in campo. Dopodiché al giudice non resterebbe che prenderne atto e procedere all’assegnazione della testata. Anche in attesa della procedura di omologazione, l’assegnatario avrebbe tutte le carte in regola per riportare la Gazzetta in edicola”. “Noi – conclude Partipilo – siamo fiduciosi”. I primi a pagare saranno ovviamente i dipendenti. Col disimpegno della Ledi srl i contratti verranno infatti retrocessi alla società fallita Edisud e i dipendenti, 144 tra giornalisti e poligrafici, finiranno in cassa integrazione a zero ore. La crisi della storica testata era iniziata nel settembre 2018 con il sequestro da parte del tribunale di Catania delle quote della Gazzatte del Mezzogiorno di proprietà dell’editore siciliano Mario Ciancio Sanfilippo. Fino al dissequestro, per 18 mesi il giornale resta aperto e la pubblicazione viene garantita dai commissari giudiziari. Quindi nel maggio 2020 la decisione di Ciancio di liquidare la società e la richiesta di fallimento da parte della Procura di Bari di chiedere il fallimento di Edisud, società editrice della Gazzetta. I curatori fallimentari e il giornale vanno avanti grazie all’esercizio provvisorio fino a quando la Ledi srl si aggiudica il fitto del ramo di azienda fino al 31 luglio. La rinuncia alla proroga da parte di Ledi, del gruppo Ladisa di Bari, non permetterà più la pubblicazione del quotidiano. La speranza citata dal direttore Michele Partipilo nel suo editoriale sta nell’interessamento da parte della Ecologica spa, della famiglia Miccolis, di rilevare il giornale. Il 28 agosto prossimo, scrive Repubblica, i creditori dovranno votare il piano della stessa Ledi e quello della Ecologica spa. “Un pugno nello stomaco per chi ha a cuore la funzione della stampa la struggente prima pagina de La Gazzetta del Mezzogiorno con l”Arrivederci` firmato dal direttore Michele Partipilo”. E’ il messaggio che arriva il presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti Carlo Verna, che commenta così la chiusura dello storico quotidiano. “Vogliamo con ottimismo avere la certezza che non possa essere un addio – afferma ancora Verna – non sarebbe una sconfitta solo del giornalismo, ma di una comunità locale e dello Stato, che mostrerebbe di non saper sostenere il diritto dei cittadini ad essere correttamente informati di cui all’articolo 21 della Costituzione”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia 

I beni restano a Mario Ciancio Le motivazioni della Cassazione. La Suprema Corte aveva respinto, a gennaio, il ricorso della Procura contro la sentenza della Corte d'Appello, che aveva deciso il dissequestro. Paolo Cesareo il 24 giugno 2021 su buttanissima.it. “La motivazione del decreto impugnato rende conto in modo ampio e articolato delle emergenze processuali esaminate”. E’ uno dei passaggi contenuti nelle motivazioni con cui la quinta sezione penale della Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura generale di Catania contro il dissequestro dei beni dell’imprenditore ed editore Mario Ciancio Sanfilippo. Nelle 35 pagine, firmate dalla presidente Maria Vessichelli e dalla consigliera Barbara Calaselice, la Suprema Corte rigetta tutti i cinque punti dell’impugnazione e “dichiara inammissibile il ricorso”. “Siamo ovviamente molto soddisfatti – commenta l’avvocato Carmelo Peluso – delle motivazioni con cui la Corte di Cassazione, accogliendo le richieste dei difensori di Mario Ciancio Sanfilippo, ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso il provvedimento con cui la Corte di appello di Catania aveva annullato la confisca e ordinato la restituzione di tutti i beni all’imprenditore ed ai suoi familiari. La Cassazione ha affrontato con particolare attenzione tutti i motivi di gravame dedotti dal Procura generale alla luce delle memorie dei difensori, che ne avevano chiesto la inammissibilità e dopo una puntuale disamina di ogni argomento ha dichiarato il ricorso totalmente inammissibile, chiudendo definitivamente il procedimento di prevenzione”. “Confidiamo – sottolinea l’avvocato Peluso – che in tempi brevi possa concludersi positivamente anche il processo di merito che pende dinanzi al Tribunale di Catania in cui si agitano gli stessi temi processuali”. Con una sentenza dello scorso gennaio, la quinta sezione della Cassazione aveva dichiarato inammissibile il ricorso presentato dalla Procura generale di Catania contro il provvedimento della Corte d’appello che, il 24 marzo 2020, aveva disposto la restituzione di tutti i beni a Mario Ciancio Sanfilippo e ai suoi familiari, ribaltando la decisione della sezione Misure di prevenzione del Tribunale. Tra i beni dissequestrati, per un valore stimato in 150 milioni di euro, anche le società che controllano il quotidiano La Sicilia e le emittenti televisive Antenna Sicilia e Telecolor. Il sequestro finalizzato alla confisca era stato eseguito il 24 settembre del 2018. 

Lo storico quotidiano di Puglia e Basilicata affossato da gestioni superficiali e fallimentari. La vera storia della Gazzetta del Mezzogiorno.  Giuseppe Mazzarino il 4 Novembre 2020 su giornalistitalia.it. Il palazzo della Gazzetta del Mezzogiorno nell’odierna piazza Aldo Moro (in precedenza piazza Roma), uno dei più bei palazzi di Bari andato perduto irrimediabilmente e Giuseppe Mazzarino, già cronista parlamentare della Gazzetta del Mezzogiorno e componente del Comitato di redazione dal 1989 al 2012. Drammatico conto alla rovescia per la Gazzetta del Mezzogiorno, uno dei più importanti e longevi quotidiani dell’Italia meridionale, giornale di riferimento per Puglia e Basilicata. Già di proprietà del Banco di Napoli, la Gazzetta subì una prima “privatizzazione”, quella della gestione, nel 1978. Quella devastante fu, però, la privatizzazione della proprietà della testata, che vide – nella latitanza dell’imprenditoria pugliese e lucana – associarsi ai baresi Gorjux e Lobuono (30% e 10%) due gruppi editoriali siciliani (30% a testa): quello del catanese Mario Ciancio Sanfilippo (proprietario del quotidiano La Sicilia e monopolista delle tv nell’isola) e quello di Messina-Reggio Calabria, editore della Gazzetta del Sud. In breve tempo Ciancio rilevò la maggioranza delle quote, ed iniziò a portare il giornale alla rovina: partì con la soppressione della redazione romana (che aveva costi irrisori: praticamente solo lo stipendio dei giornalisti, trasferiti in Puglia; sede, telefoni, servizi vari erano a carico del ministero della Comunicazioni), nell’estate del 2002, facendo perdere al giornale la dimensione nazionale e facendolo scomparire in pochi mesi dalle scrivanie e dalle rassegne stampa di parlamento, ministeri, sindacati, associazioni datoriali, partiti. Proseguì col ricorso sempre più massiccio a prepensionamenti, tagliando brutalmente l’organico, mai utilizzando le cospicue somme risparmiate per investire in professionalità giornalistiche. In particolare, venivano colpite le redazioni provinciali, che gestivano una amplissima e capillare rete di corrispondenti, vera forza della Gazzetta per dare voce anche alle più piccole comunità di Puglia e Basilicata, avviando anche un progetto di chiusura delle redazioni stesse. Nel 2018 la prima, drammatica mazzata: dopo un contestato rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa, il 24 settembre a Ciancio vengono sequestrate dal Tribunale di Catania, sezione Misure di prevenzione, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia, 31 società, incluse le quote di maggioranza della società editrice della Gazzetta del Mezzogiorno. Il Tribunale di Catania nomina due commissari (tutti e due di origini catanesi), Bonomo e Modica, totalmente digiuni di editoria; la gestione commissariale aggrava i problemi della Gazzetta, la cui società editrice avrebbe dovuto oltretutto procedere ad un ora impossibile aumento di capitale. Per mesi gli stipendi non vengono pagati, ed i giornalisti (così come i poligrafici) continuano a far uscire il giornale per senso di responsabilità. Al massimo ottengono piccoli anticipi delle somme loro dovute. Nel frattempo i due commissari lasciano al suo posto il direttore generale Capparelli, principale responsabile delle scelte che avevano minato la Gazzetta negli ultimi anni della gestione Ciancio. Né la nomina – tardiva – di un nuovo amministratore delegato, il commercialista barese Colella, risolleva le sorti amministrative del giornale. Dove, per risparmiare, vengono anche chiuse le redazioni di Matera, Brindisi e Barletta, ricorrendo al telelavoro (alcuni giornalisti di queste e di altre redazioni decentrate vengono concentrati a Bari). Il 24 marzo di quest’anno la Corte d’appello di Catania dispone il dissequestro di tutti i beni di Mario Ciancio Sanfilippo e dei suoi familiari. Sembra la fine di un incubo. Ma appena rientra in possesso delle quote della Gazzetta, Ciancio annuncia che intende chiedere il fallimento. Che puntuale arriva: il 14 giugno 2020 il Tribunale di Bari, IV sezione civile, accogliendo la richiesta della Procura della Repubblica, dichiara il fallimento di Edisud Spa e Mediterranea, rispettivamente società editrice e proprietaria della testata La Gazzetta del Mezzogiorno, disponendo al tempo stesso l’esercizio provvisorio, dunque assicurando la continuità dell’attività di impresa per consentire la regolare uscita del giornale. Curatori fallimentari vengono nominati Michele Castellano e Gabriele Zito per Edisud; Paola Merico e Rosario Marra per Mediterranea (la società è anche proprietaria dell’immobile di via Scipione l’Africano, vecchia sede del giornale, dove è ancora ubicata la tipografia, e in quel momento concessionaria per la raccolta pubblicitaria). Arrivano, intanto, manifestazioni di interesse per rilevare La Gazzetta del Mezzogiorno: decisamente peggiori di quelle che erano state avanzate durante i mesi del sequestro delle quote di Ciancio. In particolare, si punta al massacro della redazione. Cautelativamente, i giornalisti costituiscono una cooperativa, come fanno anche i poligrafici (la coop dei poligrafici, col sostengo di Lega Coop, otterrà l’affidamento della stampa del giornale). Ma l’incubo continua, sempre più cupo: i commissari prendono atto che la situazione economica, nonostante miglioramenti, non è stata risanata, ed anzi appare “destinata a peggiorare in modo considerevole” (relazione depositata il 15 ottobre), sicché il Tribunale decreta che, salvo adesioni di qualche soggetto imprenditoriale disposto a prendere in fitto la testata (ma senza alcun diritto di prelazione in caso di successiva vendita) fino al 31 luglio 2021, garantendo – salvo diverso accordo tra le parti – l’integrità della forza lavoro, La Gazzetta del Mezzogiorno cesserà le pubblicazioni con il numero di sabato 21 novembre (ultimo giorno di lavoro, il 20 novembre). Nel frattempo, i curatori fallimentari hanno sospeso il godimento di ferie e riposi arretrati; da oggi al 20 novembre i giornalisti potranno soltanto effettuare il giorno di riposo settimanale loro spettante. E adesso? Tanto l’ipotesi Angelucci (case di cura e residenza sanitarie assistite, ma con interessi tutt’altro che marginali nell’editoria, già socio di minoranza della Gazzetta alcuni anni fa) quanto quella Ladisa (mense e ristorazione collettiva) puntano ad una drammatica riduzione della forza lavoro, col massacro della redazione. Si sospetta anche un interessamento dell’editore di Gazzetta del Sud e Giornale di Sicilia, Lino Morgante (che proprio nel quotidiano palermitano sta facendo intanto strage di giornalisti). E potrebbe subentrare anche – ma per il solo fitto, e senza diritto di prelazione in caso di vendita, la cosa presenta anche notevoli difficoltà – la cooperativa dei giornalisti, o una cooperativa mista fra giornalisti e poligrafici. Quello che impressiona è la latitanza dei soggetti politici ed economici che dovrebbero avere a cuore le sorti dell’informazione nel Mezzogiorno (La Gazzetta del Mezzogiorno è l’unico quotidiano che copra capillarmente tutti i territori e dia voce a tutte le comunità di Puglia e Basilicata): dal governo nazionale, presieduto dal pugliese Giuseppe Conte, alle giunte regionali di Puglia e Basilicata, alle imprese grandi e piccole, pubbliche (o semi-pubbliche) e private con impianti e consistenti interessi nelle due Regioni. Non è più tempo di parole, di impotenti ed ipocrite solidarietà, di lamentose inazioni. Due intere Regioni non possono essere private del loro più importante giornale; una storia iniziata nel 1887 e mai interrotta (nemmeno dalle guerre mondiali, e nemmeno dalla guerra civile 43/45), con una redazione di qualità, e che ha ancora un suo pubblico ed un numero di lettori dell’edizione Internet in continua crescita, non si può chiudere così. (giornalistitalia.it)

Mario Ciancio e la mafia. Le indagini, la richiesta di archiviazione, il rigetto del giudice per le indagini preliminari e il proscioglimento. Tutte le tappe dell'avventura giudiziaria del direttore-editore del quotidiano etneo La Sicilia, imprenditore edilizio di opere pubbliche e private.

Mario Ciancio Sanfilippo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Mario Emanuele Ciancio Sanfilippo (Catania, 29 maggio 1932) è un giornalista e imprenditore italiano del settore radio-televisivo e della stampa, editore del quotidiano La Sicilia, di cui è stato anche direttore dal 1967 al 2018. Biografia. Discendente per via paterna dei baroni Ciancio di Adrano, figlio dell'avvocato Natale Ciancio, è nipote di Domenico Sanfilippo, fratello della madre, fondatore del quotidiano La Sicilia. Sposato con Valeria Guarnaccia, ha cinque figli: Angela, Carla, Rosa Emanuela, Natalia e Domenico, due dei quali, Angela e Domenico, fanno parte del consiglio di amministrazione del suo gruppo.

Laureato in giurisprudenza nel 1955, con una tesi di diritto civile sul diritto ereditario, è proprietario terriero con circa 200 ettari di agrumi in provincia di Catania, ed è un collezionista di arte antica.

L'attività giornalistica. Ciancio sceglie di non intraprendere l'attività forense, e lo zio Sanfilippo lo avvia al giornalismo nel suo quotidiano: divenuto giornalista professionista nel 1957, ed iscritto al relativo albo, dieci anni più tardi succede ad Antonio Prestinenza - morto nel 1967 - nel ruolo di direttore. Morto anche Domenico Sanfilippo, nel 1976 diviene direttore responsabile della testata, ed eredita dallo stesso il totale controllo dell'azienda editoriale divenendo contemporaneamente direttore ed editore de La Sicilia.

La televisione: nasce Antenna Sicilia. In collaborazione con il suo amico, il famoso presentatore televisivo Pippo Baudo, il suo gruppo editoriale espande le proprie attività alla televisione con il lancio delle trasmissioni in diretta dell'emittente catanese Antenna Sicilia avvenuto il 16 giugno 1979.

L'espansione del gruppo e il monopolio dell'informazione. Nel corso degli anni Ciancio costruisce un gruppo editoriale di dimensioni notevoli, che comprende i più importanti mass media della Sicilia e una parte di quelli presenti in altre regioni dell'Italia meridionale. Sotto la sua gestione, il quotidiano La Sicilia non è più una testata prettamente locale, visto che diviene il secondo maggior quotidiano isolano per copie vendute, ma di rilevanza nazionale, con l'acquisizione di quote azionarie di altri quotidiani regionali e nazionali. Anche nel settore televisivo, il gruppo editoriale Ciancio Sanfilippo, assume un ruolo egemonico nell'ambito dell'informazione locale, che inizia con l'acquisto dell'emittente televisiva concorrente Teletna nel 1983, e molti anni più tardi, nel 2000, rilevando l'azienda Telecolor International S.p.A., proprietaria delle emittenti Telecolor e Video 3, principali concorrenti nel settore televisivo, assumendo di fatto il totale controllo dell'informazione a Catania.

Il Gruppo Ciancio Sanfilippo e altre partecipazioni. Il Gruppo è il maggior gruppo editoriale del Mezzogiorno, ed è attivo principalmente nel settore dell'informazione, ovvero nella stampa, nella televisione, nella radio, e nella pubblicità. Oltre che proprietario della Domenico Sanfilippo Editore, della Società Industriale Grafica Editoriale S.p.A. - che comprende le emittenti televisive Antenna Sicilia e Teletna - e di Telecolor S.p.A., vanta piccole partecipazioni in altre tv locali, le catanesi Telejonica e Telesiciliacolor e la messinese Rtp Radio Televisione Peloritana; nel settore radiofonico controlla le emittenti Radio Sis, Radio Telecolor e Radio Video 3. Possiede inoltre, quote azionarie nei quotidiani Giornale di Sicilia, Gazzetta del Sud e La Gazzetta del Mezzogiorno. Ha inoltre partecipazioni in LA7, MTV, Telecom, Tiscali e L'Espresso/Repubblica. In passato è stato anche l'editore dell'Espresso sera. Nel 2005 fonda la ETIS 2000 S.p.A., società che si occupa della stampa e della distribuzione in Sicilia e in parte anche della Calabria, non solo delle copie de La Sicilia, ma anche delle edizioni di quotidiani come Repubblica, La Stampa, Il Sole 24 Ore, L'Unità, Tuttosport, Corriere dello Sport - Stadio e Avvenire. È il più grande stabilimento tipografico dell'Italia meridionale, ed ha una capacità produttiva giornaliera di 200.000 copie all'ora.

Sequestro di tutte le proprietà. Il 24 settembre 2018 il Tribunale di Catania, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia, dispone il sequestro giudiziario di tutte le proprietà del gruppo Ciancio Sanfilippo, inclusi il quotidiano La Sicilia e le quote possedute della Gazzetta del Sud, Giornale di Sicilia e La Gazzetta del Mezzogiorno, oltre che alle stazioni radio, televisioni, terreni, aziende agricole, imprese edili e aziende turistiche, per un valore totale di oltre 150 milioni di euro. In seguito al sequestro Ciancio si dimette dalla carica di direttore de La Sicilia, venendo sostituito da Antonello Piraneo, e il giornale posto in amministrazione giudiziaria. Il provvedimento di confisca viene annullato dalla corte d'appello di Catania nel marzo 2020.

Altri incarichi. Dal 1996 al 2001 è stato presidente della FIEG, e per breve tempo vicepresidente dell'ANSA, della quale è a tutt'oggi socio, e membro del consiglio di amministrazione assieme alla figlia Angela Ciancio.

Il suo gruppo è attivo anche nel settore dell'edilizia, dell'agricoltura e della grande distribuzione.

Controversie. Della sua conduzione della testata e dei suoi rapporti (mai acclarati da atti ufficiali e documenti giudiziari) con la criminalità organizzata, l'eurodeputato Claudio Fava scrisse più volte, proponendo gravi accuse: «(...) La Sicilia, al di là di ogni pudore, riuscì per molti anni a sopprimere dai propri scritti la parola mafia: usata raramente, e solo per riferirla a cronache di altre città, mai a Catania. Nell'ottobre del 1982, quando tutti i quotidiani italiani dedicheranno i loro titoli di testa all'emissione dei primi mandati di cattura per la strage di via Carini, l'unico giornale a non pubblicare il nome degli incriminati sarà La Sicilia. Un noto boss, scriverà il quotidiano di Ciancio: Nitto Santapaola, spiegheranno tutti gli altri giornali della nazione. Il nome del capomafia catanese resterà assente dalle cronache della sua città per molti anni ancora: e se vi comparirà, sarà solo per dare con dovuto risalto la notizia di una sua assoluzione. O per ricordarne, con compunto trafiletto, la morte del padre» (Claudio Fava, La mafia comanda a Catania 1960/1991, Laterza) Nel marzo 2012 la sezione lavoro della Corte d'Appello di Catania, aveva condannato l'editore al reintegro in azienda di sei giornalisti della redazione di Telecolor, licenziati nel 2006, ufficialmente per ragioni economiche, ma in realtà pare che la decisione era stata presa per contrasti sorti tra l'editore e i giornalisti, i quali lamentavano l'assenza di imparzialità e indipendenza della linea editoriale. Ciancio inoltre, veniva condannato al risarcimento di 5 mensilità dei dipendenti licenziati ed al versamento dei loro contributi previdenziali e assistenziali, nonché alla condanna per essersi rifiutato a pagare le spese legali.

Procedimenti giudiziari. Il 30 novembre 2010, il giornale Il Fatto Quotidiano pubblica la notizia secondo la quale Ciancio è indagato per concorso esterno in associazione di tipo mafioso dalla Procura distrettuale antimafia di Catania: la procura infatti ha iscritto nel registro degli indagati l'imprenditore catanese per presunti rapporti tra costui e Cosa Nostra etnea, in particolare con il Clan Santapaola in persona del boss Giuseppe Ercolano, citati anche dal collaboratore di giustizia Angelo Siino; per le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, secondo cui Ciancio sarebbe entrato nell'azionariato del quotidiano Il Giornale di Sicilia con il placet del padre Vito e del boss Bernardo Provenzano; la procura etnea inoltre, fa riferimento all'interessamento di Ciancio al centro commerciale costruito su uno dei suoi terreni, oggetto delle indagini, già proposte nella puntata del 15 marzo 2009 della trasmissione Report. Ciancio, all'indomani della mandata in onda della trasmissione, avrebbe poi sporto denuncia per diffamazione contro la trasmissione, chiedendo un risarcimento di 10 milioni di euro, ma la notizia è stata poi smentita dall'interessato. Il 27 novembre 2012 la prima sezione civile del Tribunale di Roma ha ritenuto infondata e ha quindi rigettato la richiesta di risarcimento. Ciancio ha presentato ricorso avverso questa che ha definito una "decisione ingiusta", confermando de facto la richiesta di risarcimento. Il 2 aprile 2012 il procuratore aggiunto e il pubblico ministero del tribunale catanese, avevano depositato la richiesta di archiviazione per Ciancio, ma tale richiesta viene successivamente respinta dal GIP a settembre. Il 1º aprile 2015 la procura di Catania ha depositato la richiesta di rinvio a giudizio di Mario Ciancio Sanfilippo, ipotizzando il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Nell'avviso di conclusione delle indagini la procura sottolineava che "la contestazione si fonda sulla ricostruzione di una serie di vicende che iniziano negli anni '70 e si protraggono nel tempo fino ad anni recenti" e "riguardano partecipazione ad iniziative imprenditoriali nelle quali risultano coinvolti forti interessi riconducibili all'organizzazione Cosa Nostra" e in particolare a un centro commerciale. Il 21 dicembre 2015, il GUP Gaetana Bernabó Distefano, chiamata a decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio, lo proscioglie perché "il fatto non costituisce reato". Secondo il Gup gli elementi raccolti dall'accusa non sarebbero stati idonei a sostenere l'accusa in giudizio. A giugno del 2017, in seguito al ricorso in appello presentato dalla Procura, il giudice Loredana Pezzino ribalta il pronunciamento del Gup rinviando a giudizio Mario Ciancio Sanfilippo per concorso esterno in associazione mafiosa. La prima udienza del dibattimento è stata fissata per marzo del 2018. Il 24 settembre 2018 la Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Catania, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia, dispone il sequestro giudiziario di tutte le proprietà del gruppo Ciancio Sanfilippo, inclusi il quotidiano La Sicilia e le quote possedute della Gazzetta del Sud e La Gazzetta del Mezzogiorno, oltre che alle stazioni radio, televisioni, terreni, aziende agricole, imprese edili e aziende turistiche, per un valore totale di oltre 150 milioni di euro. In seguito al sequestro Ciancio si dimette dalla carica di direttore de La Sicilia, venendo sostituito da Antonello Piraneo. Il 24 marzo 2020 la seconda sezione penale della Corte d'Appello di Catania annulla la confisca con le motivazioni che "non sia provata alcuna sproporzione tra redditi legittimi e beni mobili o immobili" e per la "mancanza di pericolosità sociale" dell'editore.

SOLITA FOGGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Succede a Foggia.

Giustizia. È incandidabile, anzi no: il caso assurdo di Franco Metta ex sindaco di Cerignola. Marco Magri su Il Riformista il 6 Agosto 2021. Il caso dell’avvocato Franco Metta, ex sindaco di Cerignola, comune sciolto per infiltrazioni mafiose, può essere d’esempio per riflettere su una disposizione di legge molto contraddittoria, alla quale forse politica e magistratura dovrebbero iniziare a guardare con atteggiamento più dubitativo. Stando alle notizie circolate, Metta è stato dichiarato incandidabile dalla Corte d’appello di Bari ai sensi dell’articolo 143 comma 11 del Testo Unico sugli Enti Locali. Disposizione nella quale si prevede che, se il consiglio comunale è stato sciolto per infiltrazioni mafiose, gli amministratori locali «responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento» non possono ricandidarsi, per i due turni successivi, alle elezioni per il Parlamento nazionale, a quelle per il Parlamento europeo e alle elezioni amministrative in tutto il territorio nazionale (non solo per i singoli enti interessati dallo scioglimento). Per farli dichiarare incandidabili, il Ministro dell’interno ha l’onere di provocare un apposito processo, trasmettendo al tribunale civile del luogo la stessa proposta di scioglimento inoltrata al Consiglio dei Ministri. L’avvocato Metta, comunque, alle prossime elezioni ci sarà: si vota in autunno e l’ex sindaco ha tutto il tempo di impugnare in Cassazione la pronuncia della Corte d’appello. L’incandidabilità, per l’articolo 143, ha effetto soltanto dopo che è stata dichiarata dal giudice «con provvedimento definitivo». Ciò significa che, visti i tempi processuali, la decisione della Cassazione non arriverà prima delle nuove elezioni e, se confermerà la decisione della Corte d’appello, con Metta di nuovo Sindaco, si porrà un problema di decadenza anticipata dal mandato (questione delicata, perché la legge non è chiara neppure su questo). Nel merito, la tesi accusatoria del Ministro, condivisa dalla Corte d’appello, è che Metta, quando era in carica, abbia generato, nella pubblica opinione locale, l’impressione di mantenere uno stile di vita inopportuno, perché apparentemente contiguo o non sufficientemente impermeabile alla criminalità organizzata. Ora non interessa se il fatto sia vero e correttamente riportato. Non importa neppure interrogarsi su Metta, sul suo livello di etica e di capacità politica e amministrativa. Il problema, qui, è la legge. Dal 2012, l’art. 143 comma 11 TUEL “convive” con la legge Severino, che nega il diritto di candidarsi alle elezioni soltanto all’amministratore locale condannato con sentenza, per reati specifici (tra cui l’associazione mafiosa), o che abbia subito l’applicazione di una misura di sicurezza. Dunque Metta, per la legge Severino, è perfettamente candidabile. Non è mai stato rinviato a giudizio per uno dei reati ostativi alla carica di sindaco. Eppure rischia di essere dichiarato incandidabile, in forza dell’art. 143 comma 11 TUEL, per aver “provocato” il sospetto del Ministro. Finora la Cassazione ha rifiutato di mettere sotto i riflettori questa macroscopica contraddizione, convinta che l’incandidabilità prevista dall’art. 143 comma 11 TUEL sia una misura di “prevenzione”. Ma molte sono le domande che la situazione normativa attuale solleva. Non è forse preventiva anche l’incandidabilità “per mafia” contemplata dalla legge Severino, che pure dispone esattamente il contrario? E che grado di coerenza c’è in un ordinamento che qualifica un amministratore locale, al tempo stesso, “candidabile”, per non aver mai riportato sentenze di condanna, e “incandidabile” perché il Ministro dell’Interno sospetta che la sua carica agevoli le infiltrazioni mafiose? Non si avverte, questa grave contraddizione, nel vedere la Cassazione decidere che un sindaco, ai sensi dell’art. 143 comma 11 TUEL, resta incandidabile persino se il giudice penale lo ha prosciolto dall’imputazione di concorso in associazione mafiosa? Il caso dell’avvocato Metta non è il primo, e non sarà l’ultimo. C’è solo da augurarsi che lui o altri nella sua stessa situazione facciano valere, magari riportandole in Cassazione, le ragioni dell’incostituzionalità dell’art. 143 comma 11 del TUEL, forse anche del suo contrasto con la CEDU. Meglio ancora sarebbe, se il Parlamento abrogasse l’art. 143 comma 11 del TUEL. Non sarebbe, certo, la grande riforma che molti auspicano, ma, a volte, la cosa migliore è tornare a un buon punto di partenza. Marco Magri

 Foggia, comune sciolto per infiltrazioni mafiose. La nostra inchiesta. Le Iene News l'11 agosto 2021. Con Gaetano Pecoraro vi abbiamo raccontato quanto sia potente e pericolosa la Società foggiana, la quarta mafia d’Italia. Il comune è stato appena sciolto e commissariato per almeno un anno per le sue infiltrazioni: è la seconda volta nella storia per un capoluogo di provincia dopo Reggio Calabria nel 2012. Il comune di Foggia è stato sciolto per infiltrazioni mafiose e affidato a una commissione straordinaria per i prossimi 12-18 mesi. La decisione è stata presa dal governo su proposta della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. La decisione è purtroppo clamorosa. Finora nella storia d’Italia è il secondo comune capoluogo di provincia che è stato sciolto per questo motivo, il primo era stato Reggio Calabria nel 2012. Noi de Le Iene vi abbiamo raccontato più volte con Gaetano Pecoraro quanto sia diventata pericolosa la Società foggiana, la “quarta mafia”. Qui sopra potete vedere l’ultimo servizio andato in onda in cui vi mostravamo quanto il lockdown non avesse indebolito la mafia foggiana, anzi. La decisione del Consiglio dei ministri arriva dopo che negli ultimi mesi sono emersi collegamenti tra gli amministratori locali e la criminalità organizzata. Dato il commissariamento non si svolgeranno in città le elezioni amministrative previste per il prossimo ottobre. Il comune era già stato sciolto in via ordinaria dal prefetto lo scorso 4 maggio dopo le dimissioni dell’ex sindaco Franco Landella della Lega in seguito l’arresto di alcuni consiglieri comunali della maggioranza per corruzione. Lo stesso Landella il 21 maggio era stato messo agli arresti domiciliari con l’accusa di tentata concussione e corruzione e rimesso in libertà dopo dieci giorni. Dopo che in marzo alcuni dipendenti del comune e un consigliere comunale erano stati coinvolti in diverse inchieste, il prefetto uscente di Foggia Raffaele Grassi aveva nominato una commissione per verificare se ci fossero pericoli di infiltrazione o condizionamenti da parte della criminalità organizzata nell’amministrazione comunale. La relazione della commissione è stata consegnata il 29 luglio al nuovo prefetto di Foggia Carmine Esposito che ha redatto il documento finale, consegnato poi alla ministra Lamorgese. Secondo la relazione alcuni membri della Società foggiana negli ultimi anni avrebbero condizionato il lavoro dell’amministrazione comunale. Il documento, come riporta l’Ansa, parla di “concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti tra gli amministratori locali e la criminalità organizzata”. Nella relazione si parla di “un quadro inquietante" dell’amministrazione del comune, con infiltrazioni mafiose anche in appalti legati al sistema di videosorveglianza, nell’assegnazione di case popolari a persone affiliate e con l’assenza di certificati antimafia per alcune imprese che hanno gestito servizi pubblici.

Comune di Foggia sciolto per mafia, la relazione del Viminale: dagli appalti alle case popolari, tutto in mano ai clan. Tatiana Bellizzi su La Repubblica il 6 agosto 2021. Nel dossier presentato dalla ministra Lamorgese spicca il ruolo della moglie dell'ex sindaco Landella: si sarebbe occupata di distribuire ad alcuni ex amministratori la somma di 4mila euro ciascuno frutto di una tangente versata da un imprenditore edile. Il caso dell'installazione in città telecamere della videosorveglianza ostacolate dal pregiudicato Fabio Delli Carri, ex compagno dell'ex consigliera comunale di Fratelli d'Italia, Liliana Iadarola; ma anche il caso di un'altra ex consigliera comunale, le meloniana Erminia Roberto che ha consegnato ad un esponente della criminalità locale, Leonardo Francavilla (appartenente all'omonimo clan mafioso) un contributo economico di natura sociale erogato dal Comune di Foggia.

Foggia, Comune sciolto per Mafia: “Quadro inquietante, rapporti con criminalità”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 6 Agosto 2021. È stato sciolto per mafia il Comune di Foggia. Il Consiglio dei ministri, nella riunione di giovedì pomeriggio, ha ratificato la proposta di scioglimento del Consiglio avanzata dalla commissione di accesso agli atti e portata all’attenzione del Governo dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. A questo punto si attende esclusivamente la firma del decreto da parte del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Con questo salta l’ipotesi che Foggia possa andare al voto il 3 e il 4 ottobre prossimi. Ancora da chiarire quanto durerà il commissariamento. L’ente era già stato sciolto in via ordinaria dal prefetto dopo le dimissioni dell’ex sindaco Franco Landella lo scorso 4 maggio e non revocate entro i 20 giorni dalla loro presentazione. Il 21 maggio l’ex sindaco leghista era infatti stato arrestato e messo ai domiciliari con l’accusa di tentata concussione, corruzione e rimesso in libertà dopo dieci giorni. L’inchiesta, come scrive l’Ansa.it, ritiene di aver svelato un giro di tangenti al Comune di Foggia in cui sarebbe coinvolta anche la moglie di Landella, Daniela Di Donna, dipendente comunale, interdetta dai pubblici uffici per dieci mesi. Il Comune dal 25 maggio è amministrato dal commissario prefettizio Marilisa Magno, ma nell’ente era già al lavoro la commissione di accesso del Viminale per accertare presunte infiltrazioni mafiose nell’attività amministrativa di Palazzo di Città. La commissione il 29 luglio ha consegnato una relazione al prefetto, Carmine Esposito, che il prefetto a sua volta ha girato al Viminale. Sei pagine di rapporto nel quale si evidenziano, a partire dal 2014, presunti atti intimidatori sui consiglieri comunali e una preoccupante pressione criminale sul Comune. “Dalle indagini conseguenti ai fatti corruttivi – si legge – traspare un quadro inquietante della realtà amministrativa dell’Ente, che attesta uno sviamento del munus pubblico in favore degli interessi della criminalità organizzata”. Tra gli episodi contestati anche presunte frequentazioni, parentele e legami affettivi da parte dei consiglieri comunali con esponenti locali della criminalità organizzata. Le pressioni sarebbero state esercitate in particolare sugli appalti del sistema di videosorveglianza, sull’assegnazione di case popolari agli affiliati ai clan e sull’assenza di certificati antimafia per alcune imprese che gestivano i servizi pubblici. Le indagini svolte hanno messo l’accento sulla presenza “di concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti tra gli amministratori locali e la criminalità organizzata”. Queste le valutazioni della Commissione di accesso inviata dal Viminale nel capoluogo pugliese lo scorso marzo sulla base delle quali il Cdm ha sciolto il consiglio e affidato la gestione dell’ente a una commissione straordinaria. La commissione sarà composta dal prefetto a riposo Marilisa Magno, dal viceprefetto Rachele Grandolfo e dal dirigente Sebastiano Giangrande.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

IL GOVERNO SCIOGLIE IL COMUNE DI FOGGIA PER INFILTRAZIONI MAFIOSE. Il Corriere del Giorno il 6 Agosto 2021. La decisione è stata presa ieri sera, sulla base delle valutazioni della commissione di accesso inviata dal Viminale a Foggia il 9 marzo: le indagini svolte hanno evidenziato la presenza “di concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti tra gli amministratori locali e la criminalità organizzata”. Il Consiglio dei Ministri ha affidato a una commissione straordinaria la gestione del Comune di Foggia, per infiltrazioni mafiose. La commissione, su proposta del ministro Lamorgese al Cdm, sarà composta dal prefetto a riposo Marilisa Magno, dal viceprefetto Rachele Grandolfo e dal dirigente Sebastiano Giangrande. La nomina della commissione straordinaria, nella relazione, è ritenuta necessaria “anche per scongiurare il pericolo che la capacità pervasiva delle organizzazioni criminali possa di nuovo esprimersi in occasione delle prossime consultazioni amministrative”. La decisione è stata presa ieri sera, sulla base delle valutazioni della commissione di accesso inviata dal Viminale a Foggia il 9 marzo: le indagini svolte hanno evidenziato la presenza “di concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti tra gli amministratori locali e la criminalità organizzata”. Le conclusioni della Commissione di accesso sono racchiuse in un fascicolo di 235 pagine. Dalla nota sintetica del capo di Gabinetto del ministero dell’Interno, Bruno Frattasi, allegata alla proposta di affidamento della gestione del Comune di Foggia ad una commissione straordinaria inoltrata a Roberto Garofoli, sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei Ministri il 29 luglio per chiedere che il provvedimento venisse sottoposto alla deliberazione del primo Consiglio dei ministri utile, si evince che il Viminale ha effettivamente impresso una forte accelerazione sulla decisione. Il Comune di Foggia era già stato sciolto in via ordinaria dal Prefetto, dopo le dimissioni dell’ex sindaco Franco Landella il 4 maggio, non revocate entro i 20 giorni dalla loro presentazione, anche perché il 21 maggio l’ex primo cittadino, esponente pugliese della Lega, era stato arrestato e posto ai domiciliari con l’accusa di tentata concussione e corruzione, rimesso in libertà dopo dieci giorni. Il Prefetto di Foggia aveva disposto con decreto dell’8 marzo 2021 l’accesso presso il Comune per gli accertamenti di rito, “all’esito di indagini svolte dalle forze di polizia avviate a seguito di interdittive prefettizie emesse nei confronti di alcune imprese aventi rapporti contrattuali con il comune di Foggia e di esposti che segnalavano contiguità tra amministratori comunale ed esponenti delle locali consorterie”. Attualmente Landella è in stato di libertà, ma è attinto da interdizione dai pubblici uffici per un anno. Lo scorso 16 luglio si era riunito il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica allargato, per l’occasione, con la partecipazione del dr. Roberto Rossi, Procuratore capo della direzione Distrettuale Antimafia di Bari e del dr. Ludovico Vaccaro procuratore capo della Repubblica di Foggia. Dopo quella seduta, il prefetto aveva trasmesso la relazione al Viminale allegata alla proposta di scioglimento per mafia in cui si dava atto della “sussistenza di concreti univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti e indiretti degli amministratori locali con la criminalità organizzata di tipo mafioso e su forme di condizionamento degli stessi”. In tre pagine, si evidenziano gli elementi più significativi della relazione del Prefetto di Foggia stilata sulla base delle risultanze dell’accesso ispettivo. Il “quadro inquietante” emerso dalle indagini sulle presunte mazzette al Comune di Foggia, si basava sulle “frequentazioni o parentele con ambienti criminali” di amministratori e dipendenti, sulle “anomalie e irregolarità” nell’affidamento dei servizi pubblici e sugli alloggi popolari occupati da soggetti appartenenti alla criminalità organizzata la relazione del ministro dell’Interno al presidente della Repubblica, datata 29 luglio, che accompagnava la proposta di affidamento della gestione dell’ente ad una commissione straordinaria, in quanto dagli accertamenti erano risultati condizionamenti delle locali organizzazioni criminali. Le altre due pagine della relazione del Viminale si concentrano sugli affidamenti opachi. “La relazione prefettizia rileva come gli esiti dell’indagine ispettiva abbiano chiaramente evidenziato la pervasività della criminalità organizzata in aree amministrative dell’ente con particolare riguardo al settore competente dell’affidamento dei servizi pubblici – si legge – ingerenza favorita da una colpevole inosservanza delle disposizioni normative da parte degli apparati amministrativi nelle procedure seguite per gli affidamenti e soprattutto nelle verifiche antimafia”. In primis viene fatto riferimento all’ installazione e manutenzione degli impianti semaforici e della segnaletica stradale, servizio affidato sin dal 2009 per anni ad una stessa società, priva di certificazione antimafia. “Viene segnalato come la giunta comunale abbia non solo prescritto la procedura di scelta del contraente ma addirittura anche il criterio di aggiudicazione dell’appalto, realizzando in tal modo una inammissibile commistione tra poteri di indirizzo politico amministrativo e poteri gestori”. Nella sua relazione, il prefetto di Foggia premettendo che “a decorrere dal 2014 sono stati denunciati atti intimidatori ai danni di alcuni consiglieri comunali di Foggia, a testimonianza di una preoccupante ‘pressione criminale’ sull’ente”, ha riferito in merito agli sviluppi delle indagini giudiziarie che “dal febbraio 2021 hanno interessato per gravi fatti di corruzione alcuni ex amministratori tra i quali l’ex sindaco e l’ex presidente del Consiglio comunale nonché dipendenti comunali”. La conclusione a cui si collega anche il ministro Lamorgese è che “la relazione prefettizia evidenzia che dal numero degli amministratori coinvolti nelle indagini conseguenti a fatti corruttivi traspare un quadro inquietante della realtà amministrativa dell’ente che attesta uno sviamento del munus pubblico in favore degli interessi della criminalità organizzata”. Non poteva passare inosservato al ministro un passaggio della relazione in cui vengano “segnalati rapporti di frequentazione e parentela di alcuni amministratori con soggetti controindicati, tra i quali un ex consigliere comunale avente legami affettivi con un esponente della locale organizzazione criminale, pregiudicato, il quale è stato costantemente tenuto informato di questioni politiche o amministrative che interessano l’ente locale potendole in tal modo influenzare negativamente nel corso del loro iter decisionale, come avvenuto nel periodo in cui era all’esame dell’amministrazione il progetto del sistema di videosorveglianza cittadino”. La ricostruzione della commissione d’indagine, evidenzia che “un esponente delle locali cosche mafiose, già destinatario della misura della sorveglianza speciale, anche a seguito delle minacce pronunciate, come attestato da fonti tecniche di prova, ha ricevuto direttamente dalle mani” di un ex consigliere comunale, già presente nella precedente consiliatura, “un contributo economico di natura sociale erogato dal Comune di Foggia, atto che – indipendentemente da ogni valutazione in merito alla sua legittimità – è di natura prettamente gestionale di esclusiva competenza dell’apparato dirigenziale e non di quello politico”. Così come il caso di un altro consigliere comunale che “risulta anagraficamente residente in una casa presso la quale ha trascorso il periodo degli arresti domiciliari ma di fatto abitata da un intraneo ad un locale consorteria criminale”. “Essendo stati riscontrati i presupposti per procedere allo scioglimento attesa la presenza di concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti tra gli amministratori comunali e la criminalità organizzata, si evidenzia l’opportunità che il provvedimento di rigore contro l’ente locale in parola venga adottato quanto prima della prossima convocazione dei comizi elettorali, al fine di non ingenerare false aspettative da parte dei candidati ed elettori circa la possibilità di rinnovare gli organi del Comune di Foggia in occasione della imminente tornata elettorale di settembre-ottobre”.

Da ilfattoquotidiano.it il 21 maggio 2021. “L’amministrazione comunale è estranea ai fatti, semmai è parte offesa. In questa vicenda ci costituiremo parte civile”. Sono le parole di Franco Landella, sindaco leghista di Foggia, da stamattina agli arresti domiciliari per corruzione e tentata concussione, pronunciate lo scorso 30 aprile. Quel giorno due consiglieri di maggioranza dell’Udc, Antonio Capotosto e Leonardo Iaccarino, erano stati arrestati con l’accusa di corruzione, tentata induzione indebita e peculato. Lo scorso 1 maggio la casa del primo cittadino della Lega (al secondo mandato) era stata perquisita dalle forze dell’ordine. Tre giorni dopo Landella aveva rassegnato le dimissioni.

L'amicizia con Salvini e l'eredità di voti del suocero: chi è Franco Landella, il sindaco arrestato a Foggia.  Giuliano Foschini su La Repubblica il 21 maggio 2021. La città capitale della disattenzione d'Italia, in cui da mesi si è insediata una commissione ministeriale che sta valutando lo scioglimento dell'amministrazione per infiltrazioni mafiose, era guidata dal leghista con tutti i partiti del centrodestra nel curriculum. Che secondo gli inquirenti chiedeva una tangente dicendo: "Trecentomila euro o mando tutto a puttane". "Trecentomila euro o mando tutto a puttane". Benvenuti a Foggia, la capitale della disattenzione di Italia. In questi anni tutti - la politica, parte della magistratura, dei media, delle forze di polizia - hanno fatto finta di non vedere quello che stava accadendo in questo pezzo d'Italia, come se fosse qualcosa che non li riguardasse. A Foggia saltavano più saracinesche che nel resto d'Italia? Pazienza.

ARRESTATO PER CORRUZIONE IL SINDACO DI FOGGIA FRANCO LANDELLA ESPONENTE DELLA LEGA. Il Corriere del Giorno il 21 Maggio 2021. Daniela Di Donno moglie di Landella , è stata interdetta dai pubblici uffici. Lo scorso primo maggio Landella e sua moglie subirono una perquisizione domiciliare nel corso della quale vennero sequestrati i loro telefoni cellulari e 7mila euro in contanti che proprio l’ex sindaco aveva giustificato definendolo il “salvadanaio dei figli”. Le indagini sono anche per tentata concussione. Il sindaco dimissionario di Foggia Franco Landella (Lega) è stato arrestato e posto ai domiciliari con l’accusa di corruzione e tentata concussione nell’ambito di un’inchiesta eseguita dalla polizia di Stato e dagli agenti dello Sco – il Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato. Nella stessa indagine dei pm Roberta Bray ed Enrico Infante sono coinvolti anche la moglie del sindaco  Iolanda Daniela Di Donna dipendente comunale, la quale fino a due settimane fa lavorava nell’ufficio di gabinetto del sindaco, che è stata colpita da una misura di interdizione dai pubblici uffici, ed i consiglieri comunali Antonio Capotosto e Dario Iacovangelo, ed un imprenditore edile Paolo Tonti, che devono rispondere del reato di corruzione, nei cui confronti sono stati disposti gli arresti domiciliari. Landella viene accusato anche del reato di tentata concussione nei confronti di un altro imprenditore operante nel settore della pubblica illuminazione. Lo scorso primo maggio Landella e sua moglie subirono una perquisizione domiciliare nel corso della quale vennero sequestrati i loro  telefoni cellulari e 7mila euro in contanti che proprio l’ex sindaco aveva giustificato definendolo il “salvadanaio dei figli”. A quella data non risultava ancora indagato ma il suo nome compariva in questi mesi nelle inchieste per infiltrazioni mafiose nel Comune di Foggia, a seguito delle quali che è stata istituita una commissione parlamentare chiamata a studiare gli atti amministrativi per decidere se sciogliere il comune per infiltrazioni mafiose. Sono migliaia le pagine nelle quali compare anche il nome dell’ex-sindaco. Scrive il gip nel provvedimento cautelare: “Diffuso mal costume dei massimi vertici del consiglio comunale di Foggia e sistema che appare assai collaudato assoggettato ai propri interessi piuttosto che a quelli comuni”. Nella relazione che la Polizia di Stato , i Carabinieri, la Guardia di Finanza e la Dia hanno consegnato ai membri della commissione, c’è infatti un intero paragrafo dedicato all’ex-sindaco Franco Landella in cui si parla dei suoi rapporti con esponenti della “Società foggiana”,  gli investigatori scrivono, ad esempio, che nel corso delle elezioni regionali 2010, pur non venendo eletto, Landella avrebbe “annoverato tra i suoi più fattivi sostenitori, alcuni componenti della famiglia "Piserchia", noti pregiudicati in materia di traffico di stupefacenti”. Gli investigatori, inoltre, evidenziano che la moglie di Landella, è la cugina di Claudio Di Donna, coinvolto nel 2009 in un’inchiesta per associazione mafiosa, e che suo figlio è stato denunciato per truffa aggravata in concorso con Francesca Bruno, compagna di Antonio Tizzano, il figlio di Francesco Tizzano noto ed indicato come “esponente di rilievo della batteria Moretti-Pellegrino”. Landella è accusato di aver richiesto ed incassato una tangente di circa 32mila euro dall’imprenditore edile Paolo Tonti per il rinnovo di una proroga di concessione urbanistica. Secondo l’accusa, il sindaco avrebbe distribuito poi la tangente, con la collaborazioni di sua moglie Di Donna (ex dipendente comunale) ai consiglieri di maggioranza Capotosto e Iacovangelo oggi arrestati ai domiciliari, e ad altri quattro consiglieri comunali per quali al momento non è stata richiesta alcuna misura cautelare che sono Leonardo Iaccarino (già arrestato lo scorso 30 aprile), Consalvo di Pasqua, Pasquale Rignanese e Lucio Ventura , affinché votassero a favore della delibera in consiglio comunale. Nell’inchiesta della Polizia è coinvolto anche Leonardo Iaccarino ex presidente del Consiglio comunale, il quale già si trovava ai domiciliari a seguito del suo arresto dello scorso 30 aprile per i reati di corruzione, tentata indizione indebita e peculato, che finito agli onori delle cronache per i colpi di pistola esplosi dal balcone di casa a Capodanno riprese dal figlio in un video che era subito diventato virale. Gli arresti domiciliari per Landella con un lungo trascorso in Forza Italia prima del passaggio alla Lega, “fasteggiato” dal leader Matteo Salvini intervenuto per l’occasione ad un incontro pubblico nella sala consiliare del Comune di Foggia, arrivano a 3 giorni dalla scadenza dei 20 giorni utili per ritirare le dimissioni, presentate il 4 maggio, e di cui si vociferava un ripensamento. Ipotesi questa che domenica sera aveva provocato anche un “No Landella Day” di protesta in piazza. Landella, attuale esponente della Lega di Matteo Salvini, è stato eletto nel 2014 e poi riconfermato nel 2019: ha dato le dimissioni dalla carica di sindaco di Foggia lo scorso 4 maggio scorso. “Matteo, questa amministrazione è nelle tue mani” diceva ad agosto dello scorso anno l’allora sindaco in una manifestazione a Palazzo di Città nella quale incontrò l’ex ministro degli Interni. Imbarazzante anche il commento “garantista” del Sen. Roberto Marti, commissario regionale della Lega Puglia, che tanto aveva esultato quando il sindaco Landella aveva lasciato Forza Italia per aderire al partito guidato da Matteo Salvini. Sarà forse perchè anche lo stesso Sen. Marti rischia un processo per altre vicende giudiziarie nel Salento, per cui dallo scorso settembre 2020 pende al Senato la richiesta di autorizzazione a procedere del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Lecce? “L’ipotesi di tentata concussione di cui è accusato il sindaco dimissionario di Foggia, Franco Landella, ha per oggetto una richiesta di 500mila euro, poi scesa a 300mila euro, all’agente di una società, la Gi.One, che si occupa di riqualificazione e adeguamento impianti di pubblica illuminazione per il Comune di Foggia”. ha dichiarato in conferenza stampa il procuratore capo di Foggia Ludovico Vaccaro. “Le fonti di prova sono state tante – ha aggiunto il procuratore – dalle dichiarazioni della parte offesa all’intercettazione ambientali”.

La società Gi.One era interessata a subentrare nel project financing per un appalto del valore di 53 milioni di euro relativo ai lavori di riqualificazione e adeguamento degli impianti di pubblica illuminazione a Foggia. La tentata concussione si inserirebbe proprio al progetto di subentro, per le quali la società avrebbe dovuto pagare la tangente al sindaco Landella.” La collettività ha il diritto di ricevere informazioni precise – ha ribadito il procuratore capo di Foggia – nel principio della presunzione di innocenza fino alla eventuale condanna delle persone coinvolte”. 

Il prefetto di Foggia, dr. Raffaele Grassi, ha sospeso dalla carica di sindaco il leghista Franco Landella e i consiglieri comunali Antonio Capotosto e Dario Iacovangelo finiti agli arresti domiciliari questa mattina con le accuse, a vario titolo, di corruzione e tentata concussione. Capotosto era già peraltro stato sospeso lo scorso 30 aprile perché arrestato nell’ambito di un’altra indagine.

Foggia, arrestato il sindaco Franco Landella: «Mio accusatore è mio nemico». Sospesi anche 2 consiglieri. E' indagato per corruzione e tentata concussione. Due gli episodi: la richiesta di una tangente da 500mila euro, poi scesa a 300mila e una mazzetta da 32mila euro. La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Maggio 2021. Foggia - Franco Landella è stato arrestato. Il sindaco è accusato di corruzione e di tentata concussione nei riguardi di un imprenditore operante nel settore della pubblica illuminazione. Nell’ambito delle indagini sono state arrestate e poste ai domiciliari, con le accuse di corruzione, anche i consiglieri comunali di maggioranza Antonio Capotosto (già arrestato il 30 aprile per altri reati) e Dario Iacovangelo; nonché un imprenditore edile. La moglie di Landella, Iolanda Di Donna, ex dipendente del Comune di Foggia (è stata in servizio fino a due settimane fa presso l’ufficio di gabinetto del sindaco), è stata sospesa dall'esercizio del pubblico ufficio. Nell'inchiesta è coinvolto anche l'ex presidente del Consiglio comunale, Leonardo Iaccarino, già agli arresti domiciliari, dal 30 aprile scorso, per i reati di corruzione, tentata induzione indebita e peculato. I particolari degli arresti li ha spiegati lo stesso procuratore capo di Foggia, Ludovico Vaccaro. «L'ipotesi di tentata concussione di cui è accusato il sindaco dimissionario di Foggia, Franco Landella - ha detto - ha per oggetto una richiesta di 500mila euro, poi scesa a 300mila euro, a Luca Azzariti, agente di una società, la Gi.One, che si occupa di riqualificazione e adeguamento impianti di pubblica illuminazione per il Comune di Foggia». La società era interessata a subentrare nel project financing per lavori di riqualificazione e adeguamento degli impianti di pubblica illuminazione. Un appalto del valore di 53 milioni di euro. La tentata concussione si inserirebbe proprio al progetto di subentro, per le quali la società avrebbe dovuto pagare la mazzetta al sindaco Landella. «Le fonti di prova sono tante - ha spiegato il procuratore di Foggia - tra queste la registrazione di un colloquio che Azzariti fa col sindaco e in cui il sindaco dice che può mandare tutto all'aria. E poi le dichiarazioni della precedente società titolare del project financing conferma la tangente». Le indagini sono attualmente in corso. La Procura ha «misurato le parole» per ammissione dello stesso Vaccaro. «Ma la collettività ha il diritto di ricevere informazioni precise - ha ribadito - nel principio della presunzione di innocenza fino alla eventuale condanna delle persone coinvolte» L'altro episodio riguarda una tangente di 32mila euro. La Procura accusa il sindaco di averla intascata dall'imprenditore edile Paolo Tonti per il rinnovo di una proroga di concessione urbanistica. Secondo l'accusa, il sindaco avrebbe distribuito poi la tangente, con la collaborazione di sua moglie Di Donna (ex dipendente comunale) ai consiglieri di maggioranza Capotosto e Iacovangelo (finiti oggi ai domiciliari), e ad altri quattro consiglieri comunali (per quali non è stata richiesta alcuna misura cautelare), affinché votassero a favore della delibera in consiglio comunale. Per questi motivi Landella e sua moglie, i consiglieri Iacovangelo e Capotosto, e l’imprenditore Tonti sono indagati per corruzione. Anche Tonti è stato arrestato e posto ai domiciliari. Mentre Di Donna è stata sospesa dall’esercizio del pubblico ufficio. Nell'ordinanza di custodia cautelare si legge che sono Leonardo Iaccarino (già arrestato lo scorso 30 aprile), Consalvo di Pasqua, Pasquale Rignanese e Lucio Ventura i consiglieri di maggioranza indagati per il reato di concorso in corruzione relativo alla tangente da «non meno di 32 mila euro» pagata dall’imprenditore Paolo Tonti al sindaco Landella. Nel provvedimento si evidenzia che i  consiglieri, per i quali non sono state richieste misure cautelari, «ricevevano indebitamente dal duo Landella-Di Donna, moglie del sindaco, in due tranche di duemila euro ciascuna, quattromila euro provenienti dalla provvista fornita da Paolo Tonti per il voto favorevole» al programma Tonti Raffaele Coer srl.

LA SOSPENSIONE DAGLI INCARICHI - Il prefetto di Foggia, Raffaele Grassi, ha sospeso dalla carica di sindaco il leghista Franco Landella e i consiglieri comunali Antonio Capotosto e Dario Iacovangelo finiti agli arresti domiciliari questa mattina con le accuse, a vario titolo, di corruzione e tentata concussione. Antonio Capotosto era già stato sospeso lo scorso 30 aprile perché arrestato nell’ambito di un’altra indagine.

LE PAROLE DI LANDELLA - «Il mio nemico numero uno è diventato il mio accusatore, sto parlando di Leonardo Iaccarino». E’ una delle frasi pronunciate dal sindaco di Foggia Franco Landella (Lega) ai pm nel corso delle dichiarazioni spontanee del 17 maggio scorso. Il particolare viene riferito da Michele Curtotti, difensore di Landella, agli arresti domiciliari da questa mattina per corruzione e tentata concussione. «Nel corso dell’audizione - aggiunge il legale - Landella ha più volte ribadito la sua disponibilità ad essere sentito su qualsiasi addebito per fare qualunque chiarimento. Volontà inattesa. Alla luce di quello che abbiamo letto nell’ordinanza il sindaco dichiara la sua assoluta estraneità a queste accuse infamanti che sono il frutto di un risentimento da parte di Iaccarino». 

Michelangelo Borrillo per corriere.it il 5 gennaio 2021. «Una disponibilità a presentare le dimissioni e non l’atto delle dimissioni». Leonardo Iaccarino, il presidente del Consiglio comunale di Foggia diventato suo malgrado famoso per il video della notte di Capodanno in cui spara a salve dal balcone di casa, fa un passo indietro. In una lettera inviata al sindaco di Foggia Franco Landella ha precisato come la sua decisione (presa il 2 gennaio scorso dopo le polemiche montate con la diffusione del video) fosse solo «una disponibilità a presentare le dimissioni e non l’atto delle dimissioni» e che «lo spirito del mio atto era ed è di discutere politicamente con il sindaco e con i miei colleghi affinché le dimissioni risultino frutto di condivisione da parte di tutti, poiché tutti avrebbero dovuto assumersi la responsabilità politica delle conseguenze derivanti, appunto, dalle mie eventuali dimissioni». Insomma, Iaccarino rispedisce la palla nel campo del sindaco che attacca in maniera diretta in un video pubblicato sul suo profilo Facebook. Nello stesso video pubblicato Iaccarino torna sulla vicenda della notte di Capodanno: «Maledettamente, quella sera del 31 dicembre ho deciso di salvaguardare i miei figli che volevano scendere nel cortile. E anche perché vigile del fuoco ho pensato di farli divertire con una pistola giocattolo a casa, rendendomi partecipe di quel gioco. L’immagine di Leonardo Iaccarino si è sporcata solo perché è stato ripreso tra le mura di casa dal proprio figlio? Io non ho commesso alcun reato, né ho offeso o recato danni ad alcuno con quell’arma, se così vogliamo chiamarla, del tutto legale e in libera vendita». «Oggi ci aspettavamo che Leonardo Iaccarrino ratificasse le sue dimissioni invece c’è stata una sua virata», ha dal suo canto sottolineato il sindaco di Foggia, Landella, commentando la lettera ricevuta da Iaccarino in cui il presidente del Consiglio comunale chiede di «attivare un confronto politico con le Istituzioni (sindaco e Consiglio comunale) sulla opportunità o meno di abbandonare il cammino intrapreso al solo scopo di tutelare quella parte di opinione pubblica che si ritiene lesa dal noto evento». Una parte — precisa Iaccarino — «sempre più sparuta se si considerano le evidenti espressioni e manifestazioni di vicinanza e affetto ricevute dallo scrivente ad oggi e sotto gli occhi di tutti», con evidente riferimento ai post di solidarietà ricevuti sul profilo Facebook. Dove campeggia anche il simbolo di Forza Italia, partito con cui Iaccarino è stato eletto consigliere comunale con 1.312 voti. Ma il partito ne ha preso le distanze, con una nota di precisazione del commissario pugliese degli azzurri, Mauro D’Attis: «Leo Iaccarino non fa parte di Forza Italia: è una precisazione doverosa nei confronti di un amministratore del Comune di Foggia che avevamo già deferito al collegio dei probiviri del partito lo scorso marzo per altri comportamenti deprecabili. Iaccarino non si è tesserato a Forza Italia sia nel 2019 che nel 2020 e ha persino sostenuto altre forze politiche alle scorse elezioni regionali, decretando la sua uscita non solo da Fi, ma da tutto il centrodestra».

SOLITA TARANTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Succede a Taranto.

Il “bluff” della Lega di Salvini a Taranto. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 12 Dicembre 2021. Il leader della Lega nei sondaggi degli italiani ha perso ogni leadership di gradimento degli italiani, ed all’interno del suo partito è fortemente contrastato dall’ alleanza Giorgetti-Zaia. Il primo è considerato il vero uomo “forte” della Lega al Governo, mentre il secondo è leader incontrastato nel Veneto dove la sua lista civica personale ha preso più voti della Lega. Matteo Salvini ha la memoria corta o forse non è abbastanza informato sulla Puglia…Ancora una volta va in scena il trasformismo dei “mercenari” della politica pugliese passati sotto l’ala protettiva di Matteo Salvini. Con due anni di ritardo Giovanni Gugliotti è riuscito ad approdare sulla carretta della Lega, dopo averci inutilmente provato in passato in occasione delle Europee quando cercava disperatamente di entrare in contatto con Massimo Casanova, candidato di punta del Carroccio in Puglia. Giovanni Gugliotti festeggia la sua elezione a Presidente con la sua “sodale” Stefania Baldassari che nei giorni scorsi è stata indagata e perquisita dalle Fiamme Gialle che le hanno sequestrato telefoni e computer su disposizione dell’Autorità Giudiziaria. L’occasione è stata quella di una finta assemblea regionale gestita dai vertici pugliesi “nominati” (e miracolati) da Salvini, un triumvirato composto dal coordinatore regionale sen. Roberto Marti sul cui capo pende una richiesta di autorizzazione a procedere dinnanzi alla Giunta per le autorizzazioni del Senato richiesta dalla Procura di Lecce, dal deputato mancato (cioè più volte “trombato” dagli elettori) Nuccio Altieri, e dal sottosegretario Rossano Sasso. Non si hanno tracce di “vita politica” del vice coordinatore regionale pugliese Gianfranco Chiarelli che a dire il vero sin occasione delle regionali pugliesi insieme al “padre” fondatore della Lega in Puglia l’avvocato Giovanni Vitiello si era speso molto per strutturare sul territorio la Lega pressochè priva di organizzazione, che sono stati accantonati e relegati in un angolo dalla fame di potere del “triumvirato”. Matteo Salvini è tornato ieri nel capoluogo pugliese, indicando la linea dal palco dell’assemblea degli amministratori del Carroccio: “Ho bisogno che la Lega qui apra le porte delle sezioni ovunque, coinvolgiamo e contaminiamoci. Siamo destinati a vincere le prossime elezioni Politiche e a governare a lungo questo Paese. Possono fare quello che vogliono, usare la magistratura, i sindacati, i giornali, le televisioni, ma noi le prossime elezioni le vinciamo“. Parola d’ordine di Salvini è stare pronti e scegliere i migliori da schierare. “In qualche caso, per il bene del centrodestra abbiamo fatto un sacrificio“, cita, senza tornare alle Regionali di un anno fa ma invitando ad imparare dagli errori: “Certo, se parli di futuro proponendo il passato…” Ma il leader della Lega che nei sondaggi degli italiani ha perso ogni leadership di gradimento degli italiani, ed all’interno del suo partito dove è fortemente contrastato dall’ alleanza Giorgetti-Zaia. Il primo, Giorgetti è considerato il vero uomo “forte” della Lega al Governo, mentre il secondo, Zaia è leader incontrastato nel Veneto dove la sua lista civica personale ha preso più voti della Lega. Matteo Salvini sulla Puglia ha la memoria corta o forse non è abbastanza informato. Infatti se Michele Emiliano è stato riconfermato a settembre dell’anno scorso alla guida della Regione Puglia per altri cinque anni, è proprio della Lega che a distanza di un anno (e cioè dalle precedenti Elezioni Europee) ha perso in Puglia una valanga dei propri voti, a causa dell’inconsistenza politica in termini di consenso del candidato leghista Nuccio Altieri (che incredibilmente non si era neanche candidato al Consiglio Regionale !) il quale per qualche ora aveva sognato di poter fare il governatore in Puglia, preferendo danneggiare la candidatura di Raffaele Fitto di Fratelli d’ Italia alla guida della Regione Puglia, che aveva prevalso nelle decisioni del tavolo nazionale del centrodestra. Se la Lega non avesse avuto quella “emorragia”, anche voluta al suo interno in Puglia, Raffaele Fitto avrebbe vinto le elezioni ed oggi il centrodestra avrebbe un governatore regionale in più. Ma sia Marti che Altieri erano due ex “fittiani” che avevano tradito in passato Raffaele Fitto per conquistare spazi di autonomia infilandosi nella Lega cercando di fare carriera in proprio, non accettavano la leadership regionale nel centrodestra di Fitto. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Ma forse Salvini o non ci vede bene o ha pessima memoria politica. Viene da ridere onestamente ascoltare il leader della Lega quando dice:” “Ho bisogno che la Lega qui apra le porte delle sezioni ovunque“. Probabilmente nessuno gli ha detto che a Taranto la Lega non ha neanche una sede, cosi come risulta svanita nel nulla anche la sede della Lega a Martina Franca aperta un anno fa dal consigliere regionale Giacomo Conserva, candidato di autorità da Gianfranco Chiarelli, venendo “trombato” nelle urna elettorali dagli elettori, e successivamente cooptato in consiglio regionale soltanto grazie alla rinuncia di Raffaele Fitto di Fratelli d’ Italia, a causa di una folle legge elettorale regionale che ha assegnato il suo seggio alla Lega! La parola d’ordine di Matteo Salvini è stare pronti e scegliere i migliori da candidare. “In qualche caso, per il bene del centrodestra abbiamo fatto un sacrificio“, dimenticando Regionali di un anno fa, invitando ad imparare dagli errori. Un invito che sembra caduto nel dimenticatoio per quanto riguarda le prossime elezioni amministrative di Taranto e di alcuni comuni della provincia jonica. Anche in questo caso Salvini è disinformato, o ignora che a Taranto città la candidata alle regionali che ha preso più voti è stata l’ avv. Patrizia Boccuni , che ha abbandonato da tempo la compagine leghista, della quale peraltro non aveva neanche la tessera, e che potrebbe essere fra i candidati di punta di una lista civica completamente indipendente dai partiti alle prossime amministrative a Taranto. Se poi gli uomini di Salvini vogliono ricandidare al Comune persone come l’ ex-consigliere comunale Giovanni Ungaro condannato per truffa all’ amministrazione comunale di Taranto, o Giovanni Gugliotti attualmente sotto processo in ben due procedimenti, sindaco del Comune di Castellaneta che a giorni dovrebbe dichiarare il proprio dissesto finanziario dopo le pesanti contestazioni della Corte dei Conti di Puglia, allora è facile presagire un altro “flop” della Lega di Salvini sul territorio pugliese. Imbarazzante dicevamo è stata la presenza come “ospite” alla manifestazione leghista del sindaco di Castellaneta Giovanni Gugliotti, eletto presidente della provincia jonica soltanto grazie ai voti di Michele Emiliano e dei suoi uomini del centrosinistra. Gugliotti infatti ha recentemente partecipato a molteplici riunioni presso gli uffici del governatore con i suoi amici “Federati” che non sono espressione della società civile, ma bensì in realtà tutti fuoriusciti o cacciati dal Partito Democratico ! In quella occasione Gugliotti aveva dichiarato pubblicamente di voler “far parte della squadra” che avrebbe dovuto sostenere la rielezione di Rinaldo Melucci, salvo poi tradirlo insieme all’ex segretario provinciale del PD di Taranto Walter Musillo, andando insieme a raccogliere di notte sotto la pioggia in auto con il notaio, le firme per mandare a casa l’attuale maggioranza del Consiglio Comunale di Taranto. Chissà se Salvini è a conoscenza che Gugliotti pur di ottenere il consenso e l’indicazione ad essere il candidato del centrodestra a Taranto, ha raggiunto un accordo con l’ “aspirante” consigliere regionale (non ancora eletto !) Vito De Palma coordinatore provinciale a Taranto di Forza Italia, cedendogli in cambio i suoi adepti ed amanti a Castellaneta, operazioni sotto traccia che sono confluite in un’indagine della procura di Taranto a seguito di una denuncia “boomerang” dello stesso Gugliotti, il quale sosteneva di essere stato ricattato per essere stato scoperto in un b&b di Gioia del Colle (Bari) con la sua amante Simonetta Tucci, presidente del consiglio comunale di Castellaneta, la quale grazie all’accordo occulto De Palma-Gugliotti diventerebbe la candidata sindaco di Forza Italia a Castellaneta venendo preferita a tale Walter Rochira fedele ombra di Gugliotti! A nulla servono quindi gli attacchi di Salvini ad Emiliano: “È pagato per fare il Governatore, mi piacerebbe che più che pensare a contenitori per la sua sopravvivenza politica, si occupasse delle famiglie pugliesi”. Se questa è la sfida lanciata dalla Lega è facile prevedere che Michele Emiliano, Antonio Decaro ed il Pd in Puglia continueranno a dettare legge a lungo.

L’ex giudice di pace Nicola Russo continua a cercare protagonismo e visibilità. Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno l'8 2021. Russo era finito sotto la lente di ingrandimento del Consiglio superiore della magistratura, sia alcune decisioni emesse da Russo come giudice di pace, sia per alcune discutibili esternazioni pubblicate sul proprio profilo personale Facebook, contro le massime istituzioni dello Stato, in particolare sul Parlamento, e sul presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ricopre d’ufficio anche la carica di presidente del Csm. Russo è stato espulso dalla magistratura onoraria, ma non si dà pace. L’ultimo plenum del Consiglio superiore della magistratura tenutosi martedì scorso 7 dicembre, dopo aver esaminato la questione dell’ex giudice di pace di Taranto Nicola Russo rimosso poco più di un anno fa, ha deliberato di costituirsi in giudizio contro l’ex giudice invitando l’Avvocatura generale dello Stato a chiedere la conferma della sua espulsione. Il Ministero di Giustizia a seguito alla decisione del Csm, ha emesso un decreto ad agosto del 2020, con il quale venivano revocate tutte le funzioni di giudice di pace esercitate dall’ avv. Russo a Taranto dal 2003 sino a quel momento. Le motivazioni all’origine della decisione sono finite agli onori delle cronache nazionali, esclusivamente perché connesse alla violazione delle norme emanate nel periodo iniziale della pandemia per contrastare il contagio, cioè quando ancora non c’erano disponibili i vaccini ed a malapena si reperivano le mascherine. Russo era finito sotto la lente di ingrandimento del Consiglio superiore della magistratura, sia alcune decisioni emesse da Russo come giudice di pace, sia per alcune discutibili esternazioni pubblicate sul proprio profilo personale Facebook, contro le massime istituzioni dello Stato, in particolare sul Parlamento, e sul presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ricopre d’ufficio anche la carica di presidente del Csm. Nonostante i Dpcm del Governo Conte, a partire da quello del 31 gennaio 2020 in cui veniva proclamato lo stato di emergenza, Russo si rifiutava di applicare lo stato di emergenza ritenendolo insussistente il pericolo di contagio in provincia di Taranto. Sulla base di queste folli convinzioni personali, definite burocraticamente “singolari” (per non definirle folli !) dal Consiglio superiore della magistratura, con le quali Russo violava le disposizioni della dr.ssa Anna De Simone facente funzione di presidente del Tribunale di Taranto (ora passata alla guida dell’ Ufficio Gip del Tribunale di Bari) fissando la trattazione di 15 procedimenti con udienze a porte chiuse senza rispettare il lockdown governativo ed il fermo all’attività giudiziaria imposto in tutte le aule di giustizia del Paese. Nonostante la diffida ricevuta dal presidente del Tribunale di Taranto, Russo aveva emesso un decreto in cui contestava la decisione dello stesso presidente, accusandolo di interferire nell’attività dell’ufficio del giudice pace. A quel punto il presidente del Tribunale ha segnalato l’accaduto al Consiglio giudiziario di Lecce ed è scattato il procedimento concluso col decreto del Ministero della Giustizia che lo ha rimosso da giudice di pace. Il provvedimento di espulsione è scaturito anche da alcuni post sul profilo Facebook di Russo. La follia giuridica del Russo raggiungeva il suo “picco” in data 18.5.2020 quando il discusso (ormai ex) giudice onorario adottava un articolato provvedimento con il quale nuovamente “disapplicava” i decreti legge 9/2020, 11/2020, 18/2020, 23/2020 e 30/2020, in quanto, testualmente, “promulgati e resi operativi dal Presidente della Repubblica Prof. Dott. Sergio Mattarella, Organo incompetente e privo di poteri, eletto da Parlamentari nominati illegittimamente e privi di capacità giuridica nell’esercizio di tali funzioni, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 1/2014, in violazione del diritto di voto garantito ai cittadini della Costituzione italiana, come evidenziato in motivazione”, nonché “in violazione dell’art. 3 del Protocollo addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, per gli stessi motivi, nel rispetto degli artt. 97 – 101 – 102 – 111 della Costituzione e artt. 41 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”. Con il medesimo provvedimento il Russo “disapplicava” il decreto del Presidente del Tribunale di Taranto n. 36/2020 per “illegittimità derivata” e invitava il Presidente a “disporre il ripristino immediato dell’attività giurisdizionale del Giudice di Pace”, mandando il provvedimento al Presidente del Senato e alla Procura di Roma per gli ipotizzati reati di cui agli artt. 287 e 323 c.p.! A nulla è servito il ricorso di Russo al TAR Lazio che con il proprio decreto n. 7745/2020, pubblicato in data 18 dicembre 2020, del TAR Lazio ( sezione prima) che ha rigettato l’istanza cautelare ribadendo le ragioni poste a base del primo diniego reso con decreto n. 5453, in data 25 agosto 2020, a cui ha fatto seguito l’ ordinanza n. 253/2021, pubblicata il 15 gennaio 2021, del TAR Lazio, (sezione prima) che, all’esito della trattazione collegiale, ha respinto la domanda cautelare “non ritenendo sussistenti i presupposti per la concessione della misura richiesta”. Si è arrivati ad una sentenza non definitiva la n. 9485/2021, pubblicata il 1° settembre 2021, del TAR per il Lazio, (Sezione Prima) che ha dichiarato il difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo e rimette le parti davanti al competente tribunale civile. Ma anche contro questa sentenza l’ avvocato Nicola Russo, che deve avere molto tempo libero, ha presentato appello al Consiglio di Stato avverso la sentenza non definitiva n. 9485/2021, pubblicata il 1° settembre 2021, del TAR per il Lazio, (Sezione Prima) a seguito della quale è arrivata la successiva sentenza n. 7427/2021, pubblicata l’8 novembre 2021, del Consiglio di Stato con la quale viene rimessa la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 105 cod.proc.amm. Si è arrivati quindi al ricorso in riassunzione al T.A.R. Lazio, con richiesta di misure cautelari monocratiche e collegiali, a seguito della sentenza del Consiglio di Stato n. 7427/2021, pronunciata nell’ambito del giudizio instaurato dal Russo per l’accertamento del diritto, quale giudice di pace, previa disapplicazione delle norme interne incompatibili con il diritto europeo e, se necessario, previa richiesta pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 267 TFUE, alla costituzione del rapporto di lavoro subordinato di pubblico impiego a tempo pieno ovvero a tempo determinato o indeterminato, a partire dal 31 marzo 2003, ovvero dalla presa in possesso delle funzioni di giudice di pace a tutt’oggi, con tutte le prerogative spettanti al pubblico impiegato del settore. Dopo aver decretato l’ espulsione di Nicola Russo dai giudici di pace, il Consiglio superiore della magistratura ha chiesto nuovamente il rigetto di entrambi i ricorsi di Russo, sia di quello originario sia di quello aggiuntivo e la conferma dei provvedimenti che hanno portato alla sua rimozione.

Sgominato dai Carabinieri un traffico di oltre 2000 reperti archeologici. Da Taranto erano andati in Germania, Belgio, Olanda e Svizzera. Francesca Lauri su Il Corriere del Giorno l'11 Dicembre 2021. L’indagine, mirata a contrastare il traffico illecito di beni archeologici di provenienza italiana in ambito internazionale, è stata sviluppata a più riprese dalla Sezione Archeologia del Reparto Operativo TPC di Roma. Lo spunto si è avuto quando i militari hanno scoperto che un noto indiziato di reati contro il patrimonio culturale alloggiava periodicamente presso un hotel di Monaco di Baviera, ove portava con sé diversi plichi, contenenti degli oggetti verosimilmente di natura archeologica. A partire dal mese di febbraio del 2019, una complessa attività investigativa, condotta in Italia e all’estero dai Carabinieri della Sezione Archeologia del Reparto Operativo del Comando per la Tutela del Patrimonio Culturale (TPC), in collaborazione con la Sezione di Polizia Giudiziaria – Aliquota Carabinieri della Procura della Repubblica di Taranto e coordinata dalla medesima Procura della Repubblica, ha portato al recupero di oltre 2.000 reperti archeologici magnogreci, risalenti al periodo compreso tra il VI e il II secolo a.C. 

L’indagine, mirata a contrastare il traffico illecito di beni archeologici di provenienza italiana in ambito internazionale, è stata sviluppata a più riprese dalla Sezione Archeologia del Reparto Operativo TPC di Roma. Lo spunto si è avuto quando i militari hanno scoperto che un noto indiziato di reati contro il patrimonio culturale alloggiava periodicamente presso un hotel di Monaco di Baviera, ove portava con sé diversi plichi, contenenti degli oggetti verosimilmente di natura archeologica. Visto il modus operandi del soggetto, già emerso in attività precedenti e risultato pressoché coincidente con le informazioni ricevute, è stata interessata la Polizia bavarese affinché fosse effettuato un immediato riscontro presso l’hotel individuato. 

La Polizia tedesca ha così accertato che la persona in questione vi era stata già diverse volte. I servizi successivi organizzati dalla Sezione Archeologia, insieme ai colleghi bavaresi, hanno appurato che il soggetto partiva in treno da Taranto e, attraversata l’Austria, arrivava a Monaco di Baviera, città ove pernottava per poi proseguire il viaggio, sempre in treno, verso Bruxelles (Belgio). La scelta di viaggiare con quel mezzo per raggiungere destinazioni così lontane, piuttosto che utilizzare il più comodo e rapido aereo, ha fatto intuire che si trattasse di un espediente per eludere eventuali controlli di polizia. 

Le attività tecniche di investigazione dell’ Arma dei Carabinieri hanno permesso di definire chiaramente i suoi spostamenti da Taranto verso l’estero. Nel mese di giugno 2019, per non far capire all’indagato che era stato individuato da un’Unità specializzata a lui ben nota, i Carabinieri del TPC lo hanno fatto controllare dalla Polizia Ferroviaria al Brennero: questa circostanza ha confermato le ipotesi investigative, dal momento che l’individuo è stato trovato in possesso di un’anfora archeologica. Gli esiti dell’indagine e i riscontri, già comunicati alla Procura della Repubblica di Roma, sono stati poi trasmessi alla Procura di Taranto per competenza.

Il seguito investigativo, sviluppato con l’utilizzo di accurate attività tecniche – intercettazioni telefoniche e ambientali, registrazioni video, servizi di Osservazione, Controllo e Pedinamento (OCP) in Italia e all’estero – nonché con numerose rogatorie e Ordini d’Indagine Europei (OIE) verso la Germania, il Belgio, l’Olanda e la Svizzera, ha fatto emergere un vasto traffico illecito di reperti archeologici, condotto da un sodalizio criminale ben strutturato e con importanti collegamenti all’estero. Nel mese di gennaio 2020 a Monaco di Baviera, su input degli operanti che ne avevano monitorato gli spostamenti, il principale indagato, arrestato dalla polizia tedesca, è stato trovato in possesso di diversi reperti archeologici di notevole interesse storico-scientifico, fra i quali spicca un elmo corinzio in bronzo. 

Nei mesi di giugno e luglio 2020, in collaborazione con la Polizia belga e quella olandese, sono state effettuate perquisizioni presso obiettivi localizzati in Belgio e in Olanda con servizi di osservazione e pedinamento. Un’abitazione di Bruxelles (Belgio) si è rivelata essere la base d’appoggio e il deposito del soggetto arrestato in Germania: lì infatti sono stati sequestrati circa 1.000 reperti archeologici provenienti dall’Italia, per lo più dall’area di Taranto e Provincia, risalenti al periodo compreso dal VI al II secolo a.C., tra cui: ceramiche a figure rosse, ceramiche miniaturistiche, ceramiche votive, corredi funerari, utensili in bronzo e un altro elmo corinzio in bronzo. Contestualmente sono stati individuati altri importanti reperti italiani provento di scavo clandestino, commercializzati a Bruxelles presso esercenti di settore inconsapevoli della loro provenienza illecita, nonché un laboratorio specializzato in restauri di oggetti d’arte antichi a Delft (Olanda), dove erano stati portati nel tempo diversi beni archeologici per i restauri propedeutici alla loro offerta sul mercato. 

Gli accertamenti sono proseguiti nonostante le limitazioni e le difficoltà dovute alla pandemia da COVID-19, . Si è configurata un’associazione criminale, ricalcante la filiera criminale tipica di questo settore, a partire dai cosiddetti “tombaroli” che riforniscono di reperti i ricettatori di primo e secondo livello, i quali a loro volta alimentano i trafficanti internazionali. L’individuazione di queste figure ha portato nell’ottobre scorso a eseguire nella provincia di Taranto perquisizioni presso le abitazioni dei soggetti coinvolti a vario titolo nel traffico illecito, giungendo al sequestro di ulteriori circa 1.000 reperti, risalenti al periodo compreso tra il VI e il II secolo a.C., riferibili prevalentemente alle aree archeologiche tarantine, e in particolare: ceramiche a figure rosse, ceramiche miniaturistiche, ceramiche votive, corredi funerari, utensili in bronzo, lastre di coperture sepolcrali in terracotta, pregevoli monili in oro, nonché due sofisticati metal-detector e diversi strumenti per il sondaggio del terreno (spilloni). Sono state deferite 13 persone per associazione per delinquere, ricettazione, scavo clandestino e impossessamento illecito di reperti archeologici.

Durante le varie fasi delle attività investigative, sono stati individuati numerosi scavi clandestini in aree archeologiche di Taranto e Provincia, giungendo così a inquadrare i probabili siti di provenienza dei reperti sequestrati, grazie anche allo stretto rapporto di collaborazione con la Soprintendenza Nazionale per il Patrimonio Culturale Subacqueo di Taranto, che ha fornito un supporto anche per l’expertise dei beni. 

L’epilogo delle indagini vede di nuovo l’arresto a Delft, in Olanda, pochi giorni fa, da parte della Polizia olandese in coordinamento con i Carabinieri TPC, del promotore dell’associazione criminale, già arrestato a suo tempo in Germania, nonché il sequestro di un ulteriore elmo corinzio in bronzo, che era stato affidato al citato laboratorio per il restauro. L’episodio è emblematico: nonostante la consapevolezza delle indagini in corso, il soggetto ha agito nella totale indifferenza per le eventuali conseguenze, a dimostrazione dell’entità del volume d’affari generato dal traffico illecito di reperti, evidentemente così remunerativo da giustificare i rischi e l’alta probabilità di essere scoperto. Sono tuttora in corso, sia sul canale della cooperazione internazionale di Polizia che su quello giudiziario, grazie all’intensa e immediata collaborazione con Eurojust, Europol e Interpol, le attività per il rimpatrio di diversi beni localizzati in Olanda, Germania e Stati Uniti, provento del traffico illecito riconducibile a questa associazione a delinquere.

Csm. Eugenia Pontassuglia è il nuovo procuratore capo di Taranto. Il Corriere del Giorno il 7 Dicembre 2021. Il Plenum ha espresso 13 voti in favore della dr.ssa Eugenia Pontassuglia, che è il nuovo procuratore capo di Taranto, la 1a donna nella storia alla guida della procura jonica . 7 voti sono andati per il dr. Angellilis, e 3 astenuti. il Procuratore Generale della Cassazione Giovanni Salvi prima del voto ha evidenziato le capacità del magistrato Ciro Angelillis sostenendo che il suo profilo “non può essere liquidato in due righe”. All’interno le relazioni integrali del CSM sulle candidature. Dopo 8 mesi di attesa dopo il voto della 5a commissione (incarichi direttivi) del Consiglio Superiore della Magistratura, dopo il concerto cn il Ministro di Giustizia, finalmente questo pomeriggio il plenum ha votato indicando quale nuovo procuratore capo. Dopo gli interventi dei consiglieri relatori, è intervenuto il Procuratore Generale della Cassazione Giovanni Salvi che ha evidenziato le capacità del magistrato Ciro Angelillis sostenendo che il suo profilo “non può essere liquidato in due righe”. Alla guida della procura di Taranto si erano candidati i seguenti magistrati: Carlo NOCERINO, Elisabetta PUGLIESE (nominata Avvocato Generale dello Stato a Tarano) , Gilberto GANASSI, Lino Giorgio BRUNO, Ciro ANGELILLIS, Alberto LIGUORI, Eugenia PONTASSUGLIA, Alberto SANTACATTERINA, Rosalba LOPALCO, Remo EPIFANI, Francesco SOVIERO, Giovannella Maria SCAMINACI, Enrico BRUSCHI. Il Conferimento dell’ufficio direttivo di Procuratore della Repubblica di TARANTO (vacante dal 29/05/2020 ) è avvenuto a seguito delle dimissioni del dott. Carlo Maria Corrado CAPRISTO depositate in data 16/07/2020. La Quinta Commissione del Csm , di concerto con il Ministro della Giustizia, aveva proposto al Plenum di deliberare la nomina della dott.ssa Eugenia Pontassuglia con cinque voti in favore e del dott. Ciro Angelillis con un solo voto in favore.

Proposta A: la nomina a Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di TARANTO, a sua domanda, della dott.ssa Eugenia PONTASSUGLIA, magistrato di VII valutazione di professionalità, attualmente sostituto procuratore presso la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, previo conferimento delle funzioni direttive requirenti di primo grado.

Proposta B: la nomina a Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, a sua domanda, del dottore Ciro ANGELILLIS, magistrato di VII valutazione di professionalità, attualmente sostituto procuratore generale presso la Suprema Corte di Cassazione, previo conferimento delle funzioni direttive requirenti di primo grado. 

La dottoressa Eugenia Pontassuglia, previa relazione del consigliere Ciambellini (corrente Unicost) è stata preferita dal Plenum del Csm al dr. Ciro Angelillis , che ha confermato il voto espressa dalla commissione, nonostante il magistrato vantasse un’esperienza ambientale ben superiore, e componente di importanti commissioni, l’ufficio affari interni della Procura Generale presso la Suprema Corte di Cassazione come evidenziato dal relatore, la consigliera Miccichè di Magistratura Indipendente. 

Il Plenum ha espresso 13 voti in favore della dr.ssa Eugenia Pontassuglia. 7 voti sono andati per il dr. Angellilis, e 3 astenuti. Per la dottoressa Pontassuglia si tratta di un ritorno a Taranto, dove ha iniziato la propria carriera come pretore, ed è il nuovo procuratore capo di Taranto, diventando la 1a donna nella storia alla guida della procura jonica, e va ad affiancarsi al Presidente del tribunale di Taranto dr.ssa De Palo, anche lei barese.

Le relazioni del CSM sulle candidature alla guida della Procura di Taranto

Al nuovo procuratore capo di Taranto vanno i nostri auguri di buon lavoro, auspicando che riporti il dovuto equilibrio e rispetto delle leggi nella loro applicazione, sinora calpestata da una serie di conflitti d’interesse ricorrenti che si troverà a dover affrontare e risolvere.

La procura di Taranto nel “mirino” della Camera: due le interrogazioni. Giachetti e Colucci segnalano alla ministra Cartabia situazioni anomale nella gestione delle indagini e nella mancata nomina del nuovo procuratore dopo l’arresto di Capristo. Valentina Stella su Il Dubbio il 2 dicembre 2021. Che cosa succede alla Procura di Taranto? La domanda sorge dal fatto che nel giro di pochi mesi sono state presentate due interrogazioni parlamentari indirizzate alla ministra della Giustizia Marta Cartabia per far luce su alcune circostanze. La prima è a firma dell’onorevole Roberto Giachetti di Italia Viva ed è stata presentata lo scorso 24 settembre. Con essa si chiede di «avviare un’azione ispettiva presso la procura della Repubblica di Taranto». La vicenda riguarda i presunti appalti pilotati per i grandi lavori sulle navi della Marina Militare nell’Arsenale di Taranto. Le indagini preliminari si sono concluse lo scorso ottobre: la Guardia di Finanza ha notificato l’avviso di conclusione delle indagini a 18 persone tra militari, imprenditori e dipendenti civili dello stabilimento militare. In sintesi, secondo il procuratore aggiunto Maurizio Carbone, alcune imprese avrebbero dato vita ad un cartello per pilotare l’assegnazione a loro favore degli appalti gestiti dall’Arsenale e dalla Stazione Navale di Taranto. Nell’inchiesta era finito anche l’ammiraglio Matteo Bisceglia a causa di una telefonata in cui avrebbe fatto pressioni per favorire una ditta in un subappalto delle Forze Armate. Secondo una informativa della GdF Bisceglia disponeva del cosiddetto «potere coercitivo» sulle imprese, che non potevano dirgli di no. La sua posizione è stata poi però archiviata. Ma veniamo all’oggetto dell’atto di sindacato ispettivo promosso da Giachetti: nel 2015 la procura di Roma indaga su alcune aziende di Taranto e La Spezia per presunte irregolarità nelle gare di appalto svoltesi presso gli arsenali militari marittimi di Taranto, La Spezia ed Augusta.  Alla procura di Taranto, a febbraio 2016 viene formalizzata denuncia contro le medesime aziende avente identico oggetto di quella pendente a Roma. Viene aperto analogo fascicolo, delegando accertamenti alla GdF a giugno 2016. Ma qui inizierebbero le criticità: «Tale delega resterà inevasa per un anno e tre mesi», infatti, si legge nell’interrogazione, «solo con informativa del 20 settembre 2017 la Gdf comunicava alla procura di avere provveduto ad identificare i responsabili dei fatti oggetto di denuncia, ma di voler proseguire le indagini nell’ambito di un nuovo fascicolo iscritto a carico di ignoti; la procura di Taranto avrebbe avallato tale irrituale procedura; conseguentemente la Gdf sarebbe passata dal fascicolo correttamente aperto a carico di persone ed aziende note ad un altro fascicolo a carico di ignoti; tale situazione, ad avviso dell’interrogante irregolare, si protraeva sino al gennaio 2018, allorché il nuovo fascicolo a carico di ignoti subiva ulteriore trasformazione in fascicolo a carico di noti». Mentre «solo il 25 gennaio 2021 la procura di Taranto emetteva richiesta di rinvio a giudizio a carico dei titolari delle aziende» inizialmente individuate. Quindi, in sintesi, la richiesta di Giachetti deriva da quanto segue: «La procura di Taranto era in possesso dell’intero materiale già nel febbraio 2016, ma attraverso l’apertura di nuovi fascicoli di indagine a carico di ignoti, ad avviso dell’interrogante si sarebbe per un verso violato l’obbligo di iscrizione immediata del nominativo degli indagati nel registro ex articolo n. 335 del codice di procedura penale e, per altro verso, non sarebbero stati sostanzialmente rispettati i termini di durata massima delle indagini previsti dal codice, sottoponendo, di fatto, i medesimi soggetti ad indagini che si sono protratte dal 2016 al 2021, per ben 5 anni». Abbiamo raccolto anche il parere del Procuratore Carbone: «L’interrogazione fa riferimento ad alcune questioni processuali circa la presunta inutilizzabilità degli atti di indagine del procedimento penale inerente la gestione degli appalti nell’Arsenale Marina militare di Taranto. Le relative eccezioni sollevate in tal senso dai difensori di alcuni degli imputati sono state tutte rigettate dal Gup del Tribunale di Taranto, con ordinanza emessa in data 27 maggio 2021».

Il secondo atto di sindacato ispettivo, depositato ieri, è stato presentato dall’onorevole Alessandro Colucci, di Noi con l’Italia: «La procura della Repubblica di Taranto – leggiamo – è priva del procuratore capo da oltre un anno e mezzo, ovvero dall’arresto dell’ex procuratore Capristo per tentata concussione. Gli uffici giudiziari di Taranto hanno urgente necessità di una nuova dirigenza, ma l’iter amministrativo di nomina si è inspiegabilmente bloccato; questo ritardo appare ingiustificato e soprattutto in contrasto con quanto più volte rappresentato dal ministero della Giustizia in relazione alla necessità ed urgenza della nomina di un nuovo procuratore a Taranto, in netta discontinuità con il recente passato (v. Bollettino ufficiale, ministero della Giustizia, n. 20/2020)».

Ad aprile di quest’anno infatti la V° Commissione incarichi direttivi del Csm, con cinque voti su sei, aveva proposto per questa posizione la nomina di Eugenia Pontassuglia. L’ufficializzazione sarebbe dovuta arrivare nel plenum di Palazzo dei Marescialli il 15 settembre, ma non è stato così: «Situazione anomala», commenta una nostra fonte del Csm in riferimento al tempo trascorso tra la decisione della Commissione e la mancata ratifica.

Taranto, bimbi costretti a cantare inni comunisti: vergogna cinese nella scuola italiana, il lavaggio del cervello. Andrea Morigi su Libero Quotidiano il 23 novembre 2021. Più che una rete, la lobby cinese in Italia negli anni ha costruito una ragnatela. Vi sono rimaste impigliate anche scuole di ogni ordine e grado. Alla sezione D del liceo linguistico Ferraris di Taranto la lezione del 19 novembre termina con il canto dell'inno nazionale. Se fosse quello di Mameli, insorgerebbero pacifisti e antisovranisti refrattari al richiamo della Patria. Ma, visto che si tratta delle trionfanti strofe che hanno accompagnato la rivoluzione più sanguinaria della storia mondiale, nessuno si permette di protestare quando gli alunni intonano le note comuniste. Anzi, l'iniziativa si svolge nell'ambito di un protocollo d'intesa fra gli uffici centrali dell'Istituto Confucio dell'Università di Macerata e il Ferraris della città ionica. Come riporta metodicamente la giornalista del Foglio Giulia Pompili nella sua newsletter Katane. Notizie da Asia e Pacifico, le occasioni per assoggettarsi all'espansionismo del governo di Pechino sono ormai sempre più frequenti. Presso la scuola secondaria di I grado San Nicola, a Bari, «su richiesta di un gruppo di genitori» è stato attivato il primo corso di cultura e lingua cinese, diretto dalla professoressa Chen Qian. L'insegnante, per sgombrare il campo da equivoci, inizia la prima lezione mostrando agli alunni una cartina geografica che ingloba l'isola di Taiwan all'interno del territorio cinese, come pure le Isole Paracelse, nel Mar cinese meridionale. Così, il giorno in cui avverrà l'invasione militare, saranno già formati gli agenti esperti che potranno spiegare ai propri connazionali che era giusto schiacciare la resistenza anticomunista e imprigionare gli esponenti contro-rivoluzionari. È l'attuazione pratica di quanto denunciato dal Rapporto di Sinopsis e del Comitato Globale per lo Stato di Diritto Marco Pannella, anticipato da Libero: «La propaganda esterna ("exoprop"), è una componente fondamentale del lavoro di propaganda, con agenzie specializzate tra cui organi di informazione in lingua straniera, enti controllati da agenzie di propaganda - come i Ministeri dell'educazione, della cultura e del turismo - e avamposti stranieri come gli Istituti Confucio». In Francia hanno capito che si tratta di un'opera di penetrazione nella mentalità da parte del totalitarismo rosso e, per primi al mondo, a Noisy-le-Grand, alla periferia esterna di Parigi hanno avviato una collaborazione con l'Association Linguistique et Culturelle Chinoise, che fa capo al governo di Taiwan, per promuovere i corsi di lingua mandarina. In questo caso si tratta di valori compatibili con i diritti umani, calpestati invece quotidianamente nella Cina comunista. È ancora poco per sfidare il sistema che conta più di 500 Istituti Confucio in oltre 134 Paesi. Ma, dopo la Francia, anche in Svezia, nei Paesi Bassi, in Belgio, negli Stati Uniti e in Canada ne hanno chiuso le filiali perché considerate una sovrapposizione e un'emanazione degli apparati di sicurezza statale di Pechino, il cui personale svolgerebbe opera di spionaggio o cercherebbe di soffocare la ricerca accademica indipendente sulla Cina. Non è l'unica minaccia. Le preoccupazioni sulla sicurezza sono anche più serie. Negli Stati Uniti, la CIA protegge l'incolumità - fornisce loro una nuova identità e talvolta li fa passare addirittura per deceduti - dei dissidenti fuggiti da Paesi totalitari come la Repubblica Popolare Cinese proprio perché gli Istituti Confucio fungono da sistema informativo per le "squadre di cacciatori" comunisti che cercano attivamente i "traditori della Patria". Uiguri, tibetani e Falun Gong rifugiati all'estero sono i primi obiettivi, ma in base a un articolo di legge cinese che in teoria rende possibile colpire chiunque critichi il regime all'estero, anche gli attivisti per i diritti umani potrebbero essere rapiti e rinchiusi in Cina. Altri strumenti vanno aggiungendosi all'arsenale cinese. Da oggi al 25 novembre, a Istanbul, l'Interpol eleggerà i propri vertici, fra i quali potrebbe esserci anche un rappresentante di Pechino, individuato dalle agenzie umanitarie in Hu Binchen, alto funzionario del ministero della Pubblica sicurezza, l'apparato repressivo che il regime utilizza come scure sui dissidenti. Il pericolo che anche il network delle polizie mondiali possa essere strumentalizzato è altissimo.

Taranto, cade il sindaco Melucci (Pd): 17 consiglieri presentano dimissioni irrevocabili. Salvini: "Ora tocca a noi". Raffaella Capriglia su La Repubblica il 16 novembre 2021. Le divisioni del centrosinistra dietro la sfiducia. Il sindaco rilancia e si ricandida: "Abbiamo regalato un sogno alla città, l'odio e gli interessi di parte non vinceranno". Ma Salvini e Tajani: "Centrodestra deve approfittarne". Emiliano: "Giorno triste per la città". Diciassette consiglieri comunali di Taranto di maggioranza ed opposizione hanno presentato, insieme, le dimissioni “irrevocabili” dal loro incarico. Il Consiglio comunale di Taranto va verso lo scioglimento anticipato, a qualche mese dal voto amministrativo, previsto per la primavera del 2022. I firmatari hanno protocollato oggi il documento, che era stato sottoscritto dinanzi al notaio, delle proprie dimissioni, consegnate “contemporaneamente e contestualmente” e finalizzate, appunto – è scritto nell’atto -, allo “scioglimento anticipato del Consiglio comunale”. Tra di loro ci sono rappresentanti della minoranza, ma anche dell’attuale maggioranza di centrosinistra guidata dal sindaco Rinaldo Melucci (Pd), che, recentemente, ha provveduto ad un rimpasto dell’esecutivo comunale, cambiando alcuni assessori.

I consiglieri che hanno tradito Melucci

I consiglieri firmatari sono Mario Pulpo, Cataldo Fuggetti, Federica Simili, Antonino Cannone, Cosimo Festinante, Gianpaolo Vietri, Stefania Baldassarri, Marco Nilo, Carmela Casula, Antonella Cito, Rita Corvace, Massimo Battista, Floriana de Gennaro, Vincenzo Fornaro, Salvatore Brisci, Salvatore Ranieri e Massimiliano Stellato, quest’ultimo anche consigliere regionale pugliese alla guida di un movimento centrista. Il primo cittadino Rinaldo Melucci è stato eletto nel giugno 2017 e dovrebbe ripresentarsi per un secondo mandato (sul suo nome si sono già espressi il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano ed il segretario regionale del Pd Puglia, Marco Lacarra).

Alla base della decisione delle dimissioni, ci sono ragioni politiche che rimarcano la sfiducia all’attuale governo cittadino, ma che potrebbero essere interpretate anche in chiave preelettorale, proprio in vista della scadenza delle comunali 2022. La scelta dei consiglieri evidenzia, infatti, una spaccatura all’interno delle stesse forze di centrosinistra, che sono intanto a lavoro per comporre il quadro preeettorale.

Il sindaco si ricandida: "L'odio non vincerà"

"Abbiamo regalato un sogno alla città, l'odio e gli interessi di parte non vinceranno" le prime parole di Melucci che si ricandida alla guida della città. "Qui - scrive Melucci - non c'entra la politica, qui non si tratta di trovare un equilibrio nella compagine amministrativa; queste persone avevano tutto, assessori, presenze nelle società partecipate, incarichi di sottogoverno, tutta la disponibilità del sindaco, persino quella del governatore e della coalizione di centrosinistra. Queste persone, semplicemente, non condividono il metodo trasparente e orientato ai bisogni della comunità che abbiamo introdotto, evidentemente non condividono nemmeno il nostro approccio nei confronti di chi avvelena questo territorio".

Infine, "torneremo - dice in riferimento al prossimo voto - a sottoporci al giudizio dei cittadini. Oggi la strada è solo più in salita, forse, ma riteniamo che la città sia con noi, tutto sommato ci siamo liberati di inqualificabili zavorre. Abbiamo promesso agli elettori la trasformazione di Taranto e intendiamo proseguire con questo programma ambizioso. Da questo momento, lavoriamo per garantire ai cittadini altri cinque anni di buona amministrazione".

Emiliano: "Giornata triste per Taranto"

"Questa è una giornata triste per Taranto e per tutta la Puglia. Si interrompe senza alcuna motivazione confessabile il lavoro dell’amministrazione comunale per la decarbonizzazione dell’Ilva e per la chiusura dei reparti a caldo a salvaguardia della salute dei suoi cittadini, per costruire la città universitaria, per realizzare una rete di mobilità urbana moderna e non inquinante, per costruire il nuovo grandissimo ospedale che sarà realizzato in un tempo straordinariamente breve, per diventare città della cultura e della bellezza, che vede il suo porto in fase di crescita e rilancio, candidata a polo nazionale dell’idrogeno e ad essere sede dei prossimi Giochi del Mediterraneo, per investire presto e bene miliardi di euro in bonifiche che sono essenziali per il futuro di tutti. Sono quindi vicino al sindaco Melucci e a tutta la cittadinanza per avere dovuto subire questa amarezza. Ma la lotta dei tarantini deve continuare.  Taranto deve andare avanti e deve continuare il suo percorso di città sana, prestigiosa, fondata sulla competenza e sulla creatività. Faccio appello a tutti i tarantini perché non subiscano passivamente questo ennesimo oltraggio. Ribadisco che la città deve sempre contare su se stessa e sulle sue straordinarie risorse umane e materiali, ma anche su tutta la Regione Puglia come istituzione e come comunità”.

Salvini e Tajani: "Occasione per il centrodestra"

 "Sfiduciato il sindaco di Taranto, dopo anni di pessima amministrazione. Per il centrodestra è una grande occasione per offrire una seria proposta di buongoverno, allargata a chiunque voglia mettersi al servizio della città" commenta il leader della Lega Matteo Salvini.

Per il centrodestra, "lo scioglimento anticipato del Consiglio comunale di Taranto - dichiara il coordinatore nazionale di Forza Italia Tajani - può rappresentare un'occasione per la comunità. Il capoluogo ionico ha un'importanza strategica per tutto il Paese, con elevatissime potenzialità: l'infrastruttura portuale, l'industria e tutto l'indotto che ruota intorno all'acciaio. Il porto di Taranto ha una rilevanza commerciale ed economica tale da essere appetibile per i cinesi e noi dobbiamo difenderlo e immaginare un grande piano di potenziamento e rilancio. Sono temi su cui Forza Italia ha una visione precisa per lo sviluppo del territorio, facendosi interprete di un cambiamento necessario alla guida della città. Lavoreremo con gli alleati di centrodestra e con tutte le forze alternative alla sinistra - conclude il coordinatore nazionale azzurro - per costruire una proposta seria e credibile per Taranto". Si discute, intanto, in casa Pd.

Boccia: "Atto di vigliaccheria contro Taranto"

"Un atto di vigliaccheria contro l'intera città di Taranto", commenta Francesco Boccia, deputato e responsabile Regioni e Enti locali della Segreteria nazionale Dem. "Il Partito Democratico - dichiara - è unito al fianco di Rinaldo Melucci, un sindaco che in questi anni ha sempre lottato per cambiare Taranto e per costruire un futuro migliore per i tarantini. Ho Taranto nel cuore per averla vissuta a fondo da Commissario liquidatore e conosco l'orgoglio e la forza di una grande comunità. I tarantini non si faranno schiacciare dall'arroganza di una pessima politica già oggi rivendicata da Salvini e dalla Lega. Taranto, come la Puglia, non si farà occupare da questa destra tracotante". 

"Pessima amministrazione". E il Pd perde Taranto. Federico Garau il 16 Novembre 2021 su Il Giornale. A dimettersi sia membri della maggioranza che dell'opposione, si va verso le elezioni anticipate. Festeggia la Lega, mentre i vertici del Pd si stringono intorno al primo cittadino. Da Taranto arrivano brutte notizie per il Partito democratico: ben 17 consiglieri comunali hanno infatti deciso di rassegnare le loro dimissioni, affossando, di fatto, il sindaco di Rinaldo Melucci. Ad abbandonare la nave sia rappresentanti della maggioranza che dell'opposizione. Un episodio epocale, che porterà quasi sicuramente allo scioglimento anticipato, dato che le regolari elezioni sono previste per la primavera del prossimo 2022. Si tratterebbe, fra l'altro, del preciso scopo dei dimissionari, che con il loro ritiro sperano proprio di arrivare allo scioglimento anticipato del consiglio comunale. Completamente inutile, dunque, il rimpasto effettuato dal sindaco Melucci poco tempo fa. Ma chi sono i consiglieri firmatari del documento di dimissioni? A firmare sono stati il consigliere Mario Pulpo, Cataldo Fuggetti, Federica Simili, Antonino Cannone, Cosimo Festinante, Gianpaolo Vietri, Stefania Baldassarri, Marco Nilo, Carmela Casula, Antonella Cito, Rita Corvace, Massimo Battista, Floriana de Gennaro, Vincenzo Fornaro, Salvatore Brisci, Salvatore Ranieri e Massimiliano Stellato. Un duro colpo per Rinaldo Melucci, divenuto primo cittadino di Taranto nell'ormai lontano 2017, e per tutto il Partito democratico. Le dimissioni dei consiglieri, presentate per ragioni politiche, sarebbero anche il segno di una profonda spaccatura nel centrosinistra. Una caduta rovinosa a dir poco. Una vera e propria "congiura di palazzo", come dichiarato da Cosimo Borraccino (consigliere del presidente Emiliano) e Massimo Serio (segretario provinciale di Articolo Uno). "Siamo convinti che questa sarà solo una brutta parentesi, ci sarà soltanto un congelamento di alcuni mesi dell'esperienza amministrativa, perché a maggio 2022, Melucci sarà riconfermato sindaco", hanno aggiunto i due politici, come riportato da Repubblica. Dal canto suo, il sindaco Melucci ha garantito di essere già pronto alla campagna elettorale. Le dimissioni dei consiglieri, insomma, non sembrano averlo abbattuto troppo. "La trasformazione di Taranto va avanti, non saranno biechi interessi personali di pochi che ci fermeranno, da oggi inizia ufficialmente la nostra campagna elettorale e siamo certi di poter donare alla città altri cinque anni di buon governo", ha infatti affermato. Francesco Boccia, rappresentate del Partito democratico e responsabile Regioni ed enti locali della segreteria nazionale, ha parlato di atto vile. "Non hanno avuto il coraggio di mettere la faccia in Aula, ma si sono nascosti come codardi in uno studio notarile, è un atto di vigliaccheria contro l'intera città di Taranto", ha attaccato, come riferito da LaPresse. "I tarantini non si faranno schiacciare dall'arroganza di una pessima politica già oggi rivendicata da Salvini e dalla Lega. Taranto, come la Puglia, non si farà occupare da questa destra tracotante", ha aggiunto. Il segretario del Pd in Puglia Marco Lacarra ha invece confermato il proprio appoggio al sindaco Melucci: "L'amministrazione guidata da Rinaldo Melucci ha in questi anni svolto un lavoro instancabile per cambiare le sorti della città. Taranto è un Comune che vive una serie di problematiche estremamente complesse, ma ha anche delle potenzialità straordinarie che Melucci ha valorizzato in ogni modo. Siamo al suo fianco in questo passaggio drammatico, che viene consumato sulla pelle dei cittadini. Non arretriamo di un passo: sarà lui il nostro candidato alle prossime elezioni amministrative". La notizia non è naturalmente sfuggita al leader della Lega Matteo Salvini, convinto che si presenterà presto una preziosa occasione per il centrodestra. Un'occasione che consentirà di "offrire una seria proposta di buongoverno, allargata a chiunque voglia mettersi al servizio della città".

Federico Garau.  Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronaca.

TARANTO, CADUTO IL CONSIGLIO COMUNALE. ADESSO MELUCCI TORNERA’ A LAVORARE…SUI PONTILI DEL PORTO. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 16 Novembre 2021. Dove nasconderà adesso la faccia la “prezzolata” stampa locale, comprata e venduta per qualche spicciolo, ora che non potrà più incassare soldi dalla “generosa”… amministrazione Melucci che ha fatto sopravvivere testate giornalistiche, televisive e vari “sitarelli” internet che definire giornali online è un’offesa all’informazione giornalistica? Lunedì 15 novembre è un giorno che tutta la città di Taranto ma sopratutto Rinaldo Melucci e la sua “banda” di cortigiani, ricorderanno a lungo. E’ la data in cui 17 consiglieri comunali di Taranto hanno capito che l’unica soluzione per salvare la città di Taranto era far decadere il consiglio comunale e riportare la legalità a Palazzo Città mettendo fine alle varie clientele pre-elettorali in vista delle amministrative della prossima primavera che si svolgeranno a Taranto ed in alcuni comuni della provincia. Una scelta obbligatoria per sperare di poter rientrare in consiglio comunale senza dover fare i conti con Michele Emiliano, e sottostare ai voleri-ricatti del sindaco più odiato e chiacchierato dai tarantini di sempre, cioè di quelle persone che amano la loro città. Sono stati 17 componenti del Consiglio comunale sui 32 totali, composti dall’opposizione la minoranza ed alcuni consiglieri della stessa maggioranza, a sottoscrivere il documento di dimissioni irrevocabili che, decreta lo scioglimento dell’assemblea cittadina e, a meno di clamorosi passi indietro. Adesso il segretario generale dovrà far pervenire la documentazione autenticata da un notaio al Prefetto il quale a sua volta dovrà nominare un commissario che assumerà su di sé i poteri del Consiglio e della giunta e dovrà traghettare la città a nuove elezioni. Questi i firmatari delle dimissioni che hanno fatto decadere il consiglio : Mario Pulpo, Cataldo Fuggetti, Federica Simili (eletti nel Pd) , Cosimo Festinante (eletti nel Pd) che facevano parte della maggioranza in un gruppo ondivago denominato Indipendenti per Taranto:, Antonino Cannone (eletto in lista civica di centrodestra) , Giampaolo Vietri (eletto in Forza Italia e poi passato a Fratelli d’Italia), Stefania Baldassari, Marco Nilo (lista Baldassari); Carmen Casula (subentrata a Franco Sebastio)e Massimiliano Stellato (eletto nel Pd) e passato al movimento regionale “Puglia Popolare“, Antonella Cito (At6), Rita Corvace, Massimo Battista (eletti nel M5S) ora passati nella lista civica “Una città per cambiare Taranto“, Floriana De Gennaro (lista “La scelta“), Vincenzo Fornaro (lista “Taranto Respira”), Salvatore Brisci (Centristi: era nella maggioranza) e Salvatore Ranieri (eletto in At6 e poi passato al Gruppo Misto). Insieme a Melucci dovranno fare i cartoni del trasloco, sloggiando da Palazzo di Città, tornando mestamente al proprio lavoro precedente in molti, a partire dalla “staffista” del cuore Doriana Imbimbo che tornerà a fare la disoccupata, seguita dal saltimbanco Fabiano Marti che per campare dovrà tornare sui palchetti delle feste e sagre paesane , insieme ad Ubaldo Occhinegro ritenuto incapace di fare il “professore” dal Ministero competente e che dovrà rimettersi al banco di lavoro compasso in mano (quello degli architetti !) a fare i suoi disegnini, Marzulli non potrà più contare sull’assegnino dello staff del Sindaco e dovrà tornarsene a lavorare nel leccese. Svaniscono i sogni di gloria della “trimurti” Marti, Marzulli ed Occhinegro che si erano inventati un associazione-movimento copiando il nome Taranto Crea di una vera associazione di tarantini (“Taranto Crea Consenso” ) che da anni opera a Roma, utilizzando il nome di un progetto finanziato dal Governo tramite Invitalia che si chiama proprio Taranto Crea ! Così come Doriana Imbimbo dovrà parcheggiarsi da sola l’autovettura in città stando attenta a non farsi multare, invece di farsela parcheggiare da qualche servizievole vigile urbano compiacente al servizio dell ex-Sindaco Sergente Garcia (pardon…Melucci !). Chi le pagherà adesso le laute parcelle dell’ Avv. Michele Laforgia? Dove nasconderà adesso la faccia la “prezzolata” stampa locale, comprata e venduta per qualche spicciolo, ora che non potrà più incassare soldi dalla “generosa”… amministrazione Melucci che ha fatto sopravvivere testate giornalistiche, televisive e vari “sitarelli” internet che definire giornali online è un’offesa all’informazione giornalistica? Semplicemente patetico il commento del leader della Lega Matteo Salvini, ispirato dal suo “sodale” salentino Roberto Marti coordinatore regionale pugliese del Carroccio: “Sfiduciato il sindaco di Taranto, dopo anni di pessima amministrazione. Per il centrodestra è una grande occasione per offrire una seria proposta di buongoverno, allargata a chiunque voglia mettersi al servizio della città” . Cosa ha mai fatto la Lega a Taranto ? Non ha neanche una sede…Il gruppo consiliare “Una città per cambiare”, dei consiglieri di opposizione Mimmo Battista e Rita Corvace (la cui firma è stata determinante per far decadere l’amministrazione Melucci) scrivono sulla loro pagina social: “Oggi 16 novembre 2021, abbandonato dalla sua stessa maggioranza, viene sfiduciato il sindaco Rinaldo Melucci (centrosinistra). Cade l’impero di malgoverno e mala gestione della cosa pubblica, costruito da un sindaco che, sin da subito, ha dimostrato una scarsissima attitudine alla guida di una città splendida e complessa come Taranto”. Ed adesso Rinaldo Melucci con la sua bella partita Iva dovrà tornare al suo vecchio lavoro, e tornarsene a vendere servizi portuali sulle banchine portuali, sperando per lui che i suoi affari da imprenditore “perdente” vadano meglio di quando dovette dimezzarsi lo stipendio, prima di essere eletto sindaco.

EMILIANO IN DIFESA DI MELUCCI. MA NON DICE NULLA SULL’ALLEATO “PUGLIA POPOLARE” CHE REMA CONTRO…. Il Corriere del Giorno il 16 Novembre 2021. Quello che Emiliano non ha detto e non ha chiarito è la presenza ed il ruolo, nella sfiducia a Melucci, dei rappresentanti di “Puglia Popolare” che compongono a livello regionale, la maggioranza in seno al consiglio regionale di Puglia, ed il ruolo dietro le quinte di giocolieri della politica tarantina come Walter Musillo e Giovanni Gugliotti , facendosi “sponsorizzare” dalla Lega e dal solito imprenditore della provincia di Taranto, che non si accontenta più di smaltire spazzatura, ma persino di crearla, politicamente parlando. Il Presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, ha commentato le dimissioni irrevocabili dei 17 consiglieri consiglieri del Comune di Taranto che hanno determinato lo scioglimento anticipato del Consiglio comunale.: “Questa è una giornata triste per Taranto e per tutta la Puglia. Si interrompe senza alcuna motivazione confessabile il lavoro dell’amministrazione comunale per la decarbonizzazione dell’Ilva e per la chiusura dei reparti a caldo a salvaguardia della salute dei suoi cittadini, per costruire la città universitaria, per realizzare una rete di mobilità urbana moderna e non inquinante, per costruire il nuovo grandissimo ospedale che sarà realizzato in un tempo straordinariamente breve, per diventare città della cultura e della bellezza, che vede il suo porto in fase di crescita e rilancio, candidata a polo nazionale dell’idrogeno e ad essere sede dei prossimi Giochi del Mediterraneo, per investire presto e bene miliardi di euro in bonifiche che sono essenziali per il futuro di tutti. Sono quindi vicino al sindaco Melucci e a tutta la cittadinanza per avere dovuto subire questa amarezza“. “Ma la lotta dei tarantini deve continuare. Taranto deve andare avanti e deve continuare il suo percorso di città sana, prestigiosa, fondata sulla competenza e sulla creatività. Faccio appello a tutti i tarantini perché non subiscano passivamente questo ennesimo oltraggio. Ribadisco che la città deve sempre contare su se stessa e sulle sue straordinarie risorse umane e materiali, ma anche su tutta la Regione Puglia come istituzione e come comunità”. Quello che Emiliano non ha detto e non ha chiarito è la presenza ed il ruolo, nella sfiducia a Melucci, dei rappresentanti di “Puglia Popolare” che compongono a livello regionale, la maggioranza in seno al consiglio regionale di Puglia, ed il ruolo dietro le quinte di “giocolieri” della politica tarantina come Walter Musillo e Giovanni Gugliotti che prima partecipano alle riunioni del centrosinistra proprio presso la presidenza della Regione alla sua presenza e quella di Melucci, e poi giocano sporco facendosi “sponsorizzare” dalla Lega e dal solito imprenditore della provincia di Taranto, che non si accontenta più di smaltire spazzatura, ma persino di crearla, politicamente parlando.

CONDANNATO LA TORRE PRESIDENTE ORDINE DEI COMMERCIALISTI DI TARANTO. Il Corriere del Giorno il 6 Novembre 2021. Il colpo di scena è stata la condanna in solido delle parti civili Gelso e suo marito Giuseppe Mauro Quaranta al pagamento delle spese processuali in favore del commercialista Scialpi , disponendo la trasmissione degli atti alla Procura per determinare l’eventuale reato per le loro dichiarazioni rese in alcune udienze. Il Giudice delle udienze preliminari del Tribunale di Taranto, dr. Francesco Maccagnano, ha condannato ieri il presidente dell’ Ordine dei Commercialisti di Taranto, Cosimo Damiamo La Torre , per maltrattamenti nei confronti dell’ ex dipendente Grazia Gelso, alla pena di 1 anno, 1 mese e 10 giorni ed al pagamento delle spese processuali, disponendo il beneficio della sospensione condizionale della pena, con il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale. La Torre è stato condannato a risarcire la parte civile Grazia Gelso. Ma la sentenza del giudice Maccagnano ha riservato non poche sorprese. Infatti ha dichiarato assolte le dipendenti dell’ Ordine Teresa Giusto, Lucia Arina, la tirocinante Lucia Brigante, ed i tesorieri dell’ Ordine che si sono succeduti nel tempo Maria Rosaria Chiechi, Angela Cafaro, il commercialista Gregorio Pecoraro attuale sindaco di Manduria, ed il commercialista Riccardo Scialpi in relazione al reato di maltrattamenti in famiglia per “non aver commesso il fatto“, assolvendo lo Scialpi anche in relazione all’accusa più grave di violenza sessuale “perchè il fatto non sussiste“. Il colpo di scena è stata la condanna in solido delle parti civili Gelso e suo marito Giuseppe Mauro Quaranta al pagamento delle spese processuali sostenute e quantificate in 5.022,00 euro in favore del commercialista Scialpi , disponendo inoltre la trasmissione degli atti alla Procura per determinare l’eventuale reato per le loro dichiarazioni rese in alcune udienze. Ora bisognerà aspettare le decisioni del Consiglio Nazionale di Disciplina dell’ Ordine dei Commercialisti nei confronti del Latorre, visto che a Taranto qualcuno si era dimenticato…di aprire il dovuto procedimento d’ufficio nei suoi confronti. E la festa delle “curatele” e dei concordati che il Tribunale e la Procura di Taranto gli affidavano per il suo ruolo “istituzionale”….

ASSOLTO L’EX PRESIDENTE DI CONFINDUSTRIA TARANTO ANTONIO MARINARO. Il Corriere del Giorno l'1 Novembre 2021. Nel corso del processo è stata ricostruita in tutti i suoi aspetti la vicenda relativa all’appalto ed il difensore dell’imprenditore è riuscito a dimostrare l’insussistenza del reato contestato a Marinaro e di conseguenza l’operato corretto ed assolutamente legittimo e quindi legale della sua impresa. Il Tribunale Penale di Taranto ha assolto l’imprenditore Antonio Marinaro, già presidente di Confindustria Taranto, dall’accusa di violazione delle norme del cosiddetto Codice degli Appalti formulando una sentenza molto chiara : ” il fatto non sussiste”. Marinaro era finito sotto processo a seguito di un’ispezione effettuata a febbraio del 2016 dagli ispettori della Direzione del Lavoro, in un cantiere edile, in via Orazio Flacco, oggetto di un contratto di appalto tra la società rappresentata da Antonio Marinaro ed il Comune di Taranto. Secondo l’ipotesi accusatoria della magistratura rivelatasi insussistente, circostanza questa che dovrebbe far riflettere sulla leggerezza con la quale la Procura di Taranto manda a processo le persone, i lavori sarebbero stati eseguiti da altra ditta anziché dalla società appaltatrice, e quindi totalmente sub-appaltati senza autorizzazione dall’autorità competente, ovvero l’Amministrazione Comunale di Taranto, contestazione che aveva portato a giudizio l’ex presidente di Confindustria Taranto. Nel corso del processo è stata ricostruita in tutti i suoi aspetti la vicenda relativa all’appalto ed il difensore dell’imprenditore è riuscito a dimostrare l’insussistenza del reato contestato a Marinaro e di conseguenza l’operato corretto ed assolutamente legittimo e quindi legale della sua impresa. Il processo è stato definito dal Tribunale con la sentenza che ha scagionato con formula piena Antonio Marinaro.

Sindaco del Tarantino spiato e filmato in un b&b con una donna: lui denuncia tutto. Tre indagati.  Chiara Spagnolo su La Repubblica il 3 novembre 2021. Giovanni Gugliotti è presidente della Provincia di Taranto e sindaco di Castellaneta. La Procura sta verificando se Giovanni Gugliotti, sindaco di Castellaneta e presidente della Provincia, sia stato anche ricattato. I tre - accusati di revenge porn, introduzione illecita nella vita privata e diffamazione - sono un consigliere comunale di maggioranza, un imprenditore, un maresciallo dei carabinieri forestali. Microcamere installate in un bed and breakfast di Gioia del Colle hanno ripreso il presidente della Provincia di Taranto, e sindaco di Castellaneta, Giovanni Gugliotti mentre trascorreva momenti di intimità con una donna. Con quei video, poi, qualcuno ha cercato di ricattare Gugliotti (che è sposato), che ha denunciato e fatto scattare l'inchiesta. Revenge porn, introduzione illecita nella vita privata e diffamazione sono i reati contestati dalla Procura di Taranto al consigliere comunale di maggioranza (ed ex assessore) Vito Perrone, all'imprenditore Vito Fortunato Pontassuglia, al maresciallo dei carabinieri forestali Giovanni Prisciantelli.

LE RELAZIONI “BOLLENTI” DEL SINDACO DI CASTELLANETA FINISCONO IN PROCURA. Il Corriere del Giorno il 3 Novembre 2021. Una squallida vicenda sessuale che di fatto mette inesorabilmente la parola “fine” sui sogni di candidatura di Giovanni Gugliotti alla poltrona di sindaco del Comune di Taranto, che di fatto era già svanita nella giornata di ieri. Le relazioni extra-coniugali dell’attuale sindaco di Castellaneta Giovanni Gugliotti, attuale Presidente pro-tempore della Provincia di Taranto, finiscono in Procura, a seguito proprio delle svariate denunce che lui stesso aveva presentato, ma che alla alla fine si sono rivelate degli “autogoal” svelando una doppia vita, considerando che il sindaco è sposato. A raccontarlo è il quotidiano locale tarantino BuonaSera Taranto, con i retroscena piccanti di questa “spy-story” di campagna. Tre persone avrebbero piazzato delle microcamere nelle stanze di un bed&breakfast di Gioia del Colle in provincia di Bari, cittadina che ha dato i natali non solo alla nota pornostar Malena, ma anche a Gugliotti, acquisendo immagini filmate che riprenderebbero delle relazioni extra-coniugali del sindaco, persino con delle esponenti politiche a lui molto “vicine”, come rivelano al CORRIERE DEL, GIORNO fonti confidenziali dell’inchiesta. I tre indagati sono Vito Perrone, consigliere comunale facente parte della maggioranza guidata dal sindaco Gugliotti, Vito Fortunato Pontassuglia ed il carabiniere forestale Giovanni Prisciantelli, maresciallo dei carabinieri forestali e marito di Simonetta Tucci, (non indagata) presidente del consiglio comunale di Castellaneta, una volta entrati in possesso delle immagini a luci rosse avrebbero diffuso le immagini ad altre persone, aprendo dei falsi profili, cioè delle false identità, sui socialnetwork. A seguito delle indagini della polizia giudiziaria, disposte dai pm Antonio Natale e Marco Colascilla Narducci della Procura di Taranto, sono state disposte delle perquisizioni domiciliari con il sequestro dei rispettivi smartphone computer e supporti di memoria informatica, contenenti le immagini proibite di Gugliotti e delle sue partners. Una squallida vicenda sessuale che di fatto mette inesorabilmente la parola “fine” sui sogni di candidatura di Giovanni Gugliotti alla poltrona di sindaco del Comune di Taranto, che di fatto era già svanita nella giornata di ieri quando il gruppo dei “federati” che appoggiava la sua ipotetica candidatura non è stata accolta nella riunione tenutasi a Bari del tavolo regionale del centrodestra al quale hanno partecipato i referenti regionali di Fratelli d’ Italia, UdC, Forza Italia e Lega, che hanno condizionato un eventuale “tavolo” di dialogo e confronto a condizioni che tutti gli esponenti dei “Federati” tarantini, titolari di nomine amministrative, politiche, e societarie ricevute da amministrazioni a guida del centrosinistra, si dimettano dalle proprie cariche sfiduciando l’ amministrazione Melucci. Tutto il materiale audiovisivo rinvenuto nel corso delle perquisizioni effettuate nelle abitazioni e negli immobili nella disponibilità dei tre indagati è stato sottoposto a sequestro giudiziario, e gli spioni adesso dovranno rispondere delle ipotesi di reato in concorso che variano dall’acquisizione indebita di immagini, e della loro conseguente circolazione e cessione a terzi, e di presunte diffamazioni via web.

SCATTATA ALL’ALBA L’OPERAZIONE “ORO DI TARANTO” PER CONTRASTARE GLI ABUSI DELLA MITICOLTURA. Il Corriere del Giorno il 19 Ottobre 2021. L’imponente attività di polizia ha visto operare al fianco della Guardia costiera, anche ASL di Taranto, Questura, Guardia di Finanza, Arma dei Carabinieri, con la predisposizione – sia a terra, sia in mare – di un dispositivo operativo che ha permesso di bonificare un vastissimo specchio acqueo del primo Seno del Mar Piccolo di Taranto da impianti abusivi di mitili che ivi erano stati posizionati illegalmente. Continua, senza sosta, l’attività della Guardia Costiera di Taranto, guidata dal CV Diego Tomat, delle Autorità locali e delle Forze dell’ordine nel contrasto degli illeciti in ambito marittimo e portuale, con particolare attenzione al settore della miticoltura abusiva: un fenomeno che rientra a pieno titolo nel novero delle cd. attività illegali, con la violazione di molteplici disposizioni, nazionali e comunitarie, soprattutto a carattere sanitario. Alle prime luci dell’alba di ieri è scattata l’operazione denominata “Oro di Taranto”: nome che prende spunto simbolicamente dal valore del pregiato mitile allevato nell’area tarantina e divenutone autentico patrimonio, ma che intende anche richiamare l’aspetto prettamente economico degli importi che l’illecita immissione sul mercato di prodotto vietato e irregolare avrebbe comportato, a danno dell’intero sistema della filiera-tracciata. L’imponente attività di polizia ha visto operare al fianco della Guardia costiera, anche ASL di Taranto, Questura, Guardia di Finanza, Arma dei Carabinieri e Polizia locale, con la predisposizione – sia a terra, sia in mare – di un dispositivo operativo che ha permesso di bonificare un vastissimo specchio acqueo del primo Seno del Mar Piccolo di Taranto da impianti abusivi di mitili che ivi erano stati posizionati illegalmente. In particolare, si tratta di allevamenti di cozze predisposti in corrispondenza di aree marittime che non possono essere assentite in concessione, per aspetti di sicurezza della navigazione e di natura sanitaria – regolamentati da specifici provvedimenti regionali – direttamente correlati alla salubrità del prodotto e, di riflesso, potenzialmente dannosi per la rinomata qualità del “marchio” cozza di Taranto, apprezzato sul mercato nazionale. L’area bonificata, nello specifico, delle dimensioni di oltre 50.000 metri quadrati, risultava “invasa” da innumerevoli filari irregolari, impiegati per la coltivazione illegale delle cozze. Per le ingenti attività di individuazione e rimozione del prodotto irregolare, il Centro Nazionale di Controllo Pesca del Comando generale della Guardia Costiera di Roma – cui è affidato il coordinamento dell’attività di verifica sulla filiera ittica sul territorio nazionale – ha inviato in area operazioni la Nave Dattilo, l’unità maggiore della Guardia Costiera capace di assicurare il necessario contributo operativo per il buon esito di un’attività estremamente complessa. Il personale dell’unità, sui quattro battelli veloci operanti in mare, con a bordo anche personale della locale Azienda sanitaria locale, è intervenuto congiuntamente ai sommozzatori del Nucleo della Guardia Costiera di San Benedetto del Tronto, anch’essi inviati in area per le attività di bonifica e di sequestro degli impianti abusivi. A garantire la necessaria cornice di sicurezza alle operazioni, anche ulteriori unità della stessa Guardia costiera e della Guardia di Finanza. Le operazioni si sono concluse con il sequestro di 45 tonnellate complessive stimate di materiale – tra semi di mitile, cordame e galleggianti – utilizzato per la realizzazione per l’attività illecita, 22 delle quali di prodotto ittico, che si stima avrebbe consentito – una volta raggiunta la taglia di commercializzazione – di immettere sul mercato almeno 100 tonnellate di cozze, con un illecito guadagno – per la sola vendita all’ingrosso – di almeno 100.000 euro. Si tratta, come evidente, di un’attività che è sia finalizzata alla tutela della salute dei consumatori, prevenendo l’illecita immissione sul mercato di un prodotto non certificato per il consumo umano, sia volta a tutelare la “filiera-corretta” del settore, composta da operatori della storica miticoltura tarantina rispettosi delle norme e che si trovano a subire una concorrenza oltremodo sleale. Non secondari, gli espetti di tutela della sicurezza della navigazione minati dal posizionamento degli impianti abusivi oggi rimossi, privi peraltro di qualsiasi forma di segnalamento e concretamente pericolosi per le unità navali in transito, specie se di ridotte dimensioni.

Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.

Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.

Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.

Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.

Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.

Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio". Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).

Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.

Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.

Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.

E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.

La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.

Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.

Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.

L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.

Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.

E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”

Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.

Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.

Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.

Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.

Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.

In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…

(ANSA il 28 settembre 2021) - L'Anac e il Nucleo Speciale Anticorruzione della Guardia di Finanza di Roma stanno effettuando un'ispezione presso l'Arsenale Militare di Taranto. Al centro - apprende l'ANSA - il bando, e i relativi contratti, per l'ammodernamento della nave San Marco della Marina Militare. Secondo quanto emerso dall'istruttoria ancora in corso il consorzio di aziende che si è aggiudicato i lavori si configurerebbe come una struttura stabile a supporto dell'Arsenale, e l'Anac ipotizza la violazione dei principi di concorrenza, par condicio e non discriminazione. I lavori su Nave San Marco, inizialmente inseriti in una gara unica del valore di oltre tre milioni, sono stati spacchettati in undici gare, con undici lotti, e infine ricongiunti, con il consorzio di aziende come un unico operatore vincitore. Sono diverse le contestazioni dell'Anac, dall'insussistenza del requisito di urgenza alla genericità delle specifiche tecniche indicate nel bando, tenuto conto oltretutto che l'Italia appartiene alla Nato e che sarebbe necessario indicare in modo chiaro e preciso le caratteristiche tecniche. Inoltre nel bando di gara della San Marco sono state specificate le caratteristiche del personale indicato per i lavori di ammodernamento, favorendo con tali indicazioni operatori economici prestabiliti a scapito di altri. Il Nucleo Speciale Anticorruzione della Guardia di Finanza di Roma è impegnato nella verifica delle misure anticorruzione coadiuvando Anac nell'esame dei verbali di gara, nella composizione delle commissioni di gara, dei contratti di appalto e degli stati di esecuzione dei vari affidamenti. L'ipotesi è che il consorzio d'imprese si configurasse come una struttura stabile a supporto dell'Arsenale della Marina Militare di Taranto. Questi aspetti sono al vaglio delle autorità competenti. L'indagine ispettiva di Anac e della Guardia di Finanza potranno portare utili elementi di chiarificazione. A quella all'Arsenale segue anche un'altra ispezione alla Stazione navale di Taranto volta a conoscere gli affidamenti assegnati dal Comando della stazione navale dal 2018 in avanti, avvenuti in modo diretto o in raggruppamento ad alcuni operatori, coinvolti pure in indagini della magistratura.

I FENOMENI MAFIOSI OPERANTI A TARANTO E LA SUA PROVINCIA. Il Corriere del Giorno il 24 Settembre 2021. La sofferenza economica e segnate dalle criticità occupazionali e ambientali connesse con le vicende dello stabilimento siderurgico dell’ex ILVA ma anche dalla crisi del settore ittico e della mitilicultura sulle quali si è andata ad aggiungere l’attuale emergenza sanitaria da COVID-19. In tale contesto di crisi, soprattutto le fasce giovanili tarantine più disagiate sono attratte dalle opportunità di guadagno offerte dalla criminalità organizzata che persiste nella conduzione delle tradizionali attività illecite dalla II° Relazione Semestrale della Direzione Investigativa Antimafia. Il quadro socio-economico del capoluogo di Taranto e la sua provincia, restituisce l’immagine di una città e di una provincia sempre più in sofferenza economica e segnate dalle criticità occupazionali e ambientali connesse con le vicende dello stabilimento siderurgico dell’ex ILVA ma anche dalla crisi del settore ittico e della mitilicultura sulle quali si è andata ad aggiungere l’attuale emergenza sanitaria da COVID-19. Appare possibile, in tale contesto di crisi, che soprattutto le fasce giovanili tarantine più disagiate siano attratte dalle opportunità di guadagno offerte dalla criminalità organizzata che persiste nella conduzione delle tradizionali attività illecite. Numerosi ad esempio sono i sequestri di droga soprattutto nei quartieri popolari del capoluogo (Tamburi, Salinella e Paolo VI). Questo contesto economico critico espone gli imprenditoriali e altri soggetti in difficoltà al rischio di cadere nelle mani di usurai. Ne è riprova l’operazione “Easy credit” eseguita dalla Polizia di Stato il 4 dicembre 2020 nei confronti di 11 soggetti che avevano realizzato un giro di usura con l’applicazione di tassi di interesse elevatissimi.In generale gli assetti della criminalità tarantina continuano a mantenersi mutevoli ed eterogenei anche in ragione di una sempre maggiore parcellizzazione criminale del territorio su cui influisce sicuramente la lunga detenzione dei boss storici. Tuttavia, nel lungo periodo questa assenza di figure criminali di riferimento starebbe determinando conflittualità tra pregiudicati che si declinano anche con gravi fatti di sangue. Benché costantemente interessati da operazioni di polizia giudiziaria i sodalizi più strutturati risulterebbero ancora capaci di controllare i rispettivi territori che generalmente coincidono con i rioni o i quartieri del capoluogo in una contesa territoriale dove le conflittualità appaiono tendenzialmente latenti. Nella mappatura criminale del capoluogo è confermata l’operatività dei PIZZOLLA e dei TAURINO nella Città Vecchia, mentre nei quartieri di Talsano, Tramontone e San Vito sono attivi i CATAPANO, i LEONE e i CICALA. I sodalizi riferiti ai CESARIO, ai CIACCIA, ai MODEO e ai PASCALI sono presenti nel quartiere Paolo VI, mentre nel Borgo è presente il clan DIODATO, nel rione Tamburi i SAMBITO e nel quartiere Salinella gli SCARCI. Seppure indeboliti dalle inchieste giudiziarie continuano a essere presenti anche i DE VITIS-D’ORONZO. Nel semestre alcuni dei sodalizi citati sono stati interessati da provvedimenti ablativi. Il 10 novembre 2020 la Polizia di Stato ha eseguito un decreto di sequestro2 nei confronti di un tarantino già coinvolto nell’operazione “Sangue blu” dei Carabinieri (giugno 2017 e gennaio 2019) e condannato per associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. Il 12 novembre successivo la Guardia di finanza ha eseguito il sequestro di compendi aziendali, immobili, rapporti finanziari e autovetture, del valore di circa 2 milioni di euro, nella disponibilità di un esponente del clan SCARCI già condannato nel 2003 per associazione di tipo mafioso. Recenti indagini continuano a dar conto dell’esistenza di un collegamento tra detenuti della criminalità tarantina e il mondo extracarcerario. Ciò è stato da ultimo confermato dall’operazione “Inside” all’esito della quale il 18 dicembre 2020 i Carabinieri hanno eseguito un provvedimento restrittivo nei confronti di 8 soggetti alcuni dei quali già ristretti. Le indagini avviate tra la fine del 2019 e i primi mesi del 2020 hanno rivelato un sistematico utilizzo da parte di alcuni detenuti di microtelefoni all’interno del carcere di Taranto utilizzati per gestire le piazze di spaccio del territorio e organizzare l’approvvigionamento di droga all’interno del carcere. In provincia il gruppo LOCOROTONDO esprime l’operatività nei comuni di Crispiano, Palagiano, Palagianello, Mottola, Massafra e Statte. In posizione contrapposta nei territori di Massafra e Palagiano continua ad agire anche il gruppo CAPOROSSO-PUTIGNANO. Nella zona orientale si conferma l’operatività di un sodalizio organizzato, già facente capo ai citati LOCOROTONDO e in posizione lievemente subordinata ai fratelli CAGNAZZO di Lizzano uno dei quali sebbene detenuto ha continuato a curare le attività delittuose dell’associazione e a vigilare anche sugli equilibri interni ed esterni del gruppo mediante l’invio dall’interno del carcere di “pizzini” fatti recapitare ai sodali in libertà. L’operazione “Cupola” conclusa il 14 ottobre 2020 dalla Polizia di Stato ha acclarato l’attuale operatività a Manduria di un sodalizio mafioso considerato quale punto di congiunzione dei due gruppi criminali storici del luogo (dai quali mutua la fama mafiosa e la conseguente forza di intimidazione). Si tratta del clan STRANIERI e del gruppo facente capo al boss CINIERI attualmente collaboratore di giustizia entrambi della Sacra Corona Unita e un tempo in conflitto tra loro. È significativo rilevare come il nuovo sodalizio in questione si avvalesse “…di una forma di intimidazione non più solo predatoria e violenta ma anche silente e simbiotica rispetto al contesto sociale di riferimento…”, evidenziando come il metodo mafioso classico sia stato abbandonato a beneficio di quello “…silente che ricorre alla minaccia velata…” una forma di racket evocativo, con il quale “…l’estorsore non si serve della minaccia esplicita, ma di quella derivante dall’appartenenza o dal legame con noti mafiosi”. Le indagini hanno coinvolto complessivamente 50 soggetti disarticolando un clan mafioso che aveva avuto la capacità di riorganizzarsi all’indomani dell’operazione “Impresa”(luglio 2017). A 16 indagati è stato contestato il reato di associazione di tipo mafioso in quanto avrebbero “anche in rappresentanza di storici boss della provincia di Taranto costituito una “cupola” nella quale ciascuno era titolare di medesima potestà decisionale in ordine alle scelte e alle linee di indirizzo delle strategie criminali, con la quale proseguivano l’azione del predetto clan, conservandone scopi e finalità ma portandone ad ulteriore evoluzione il metodo mafioso” L’organizzazione criminale, negli ultimi anni, sarebbe stata quindi in grado di rigenerarsi mediante la costituzione di una “cupola” composta anche dal nipote del boss STRANIERI. La consorteria si inserisce nel contesto territoriale Manduria-Sava in collegamento con altri comuni delle province di Brindisi (Mesagne ed Oria) e Lecce specie per ciò che attiene al controllo del mercato illecito degli stupefacenti. A fattor comune con le altre province della Regione, anche il territorio provinciale tarantino continua a esprimere una criminalità particolarmente vocata ai traffici di stupefacenti. L’operazione “Mercante in fiera”eseguita il 15 dicembre 2020 dai Carabinieri ne è ulteriore conferma. Le indagini hanno riguardato 34 componenti di un’associazione criminale finalizzata al traffico di droga e costituita sul territorio di Martina Franca che si riforniva attraverso canali calabresi e baresi principalmente di cocaina da destinare a varie piazze di spaccio ubicate anche fuori regione. Sono risultate nella loro disponibilità anche armi e munizioni come testimoniato dai numerosi arresti in flagranza eseguiti durante l’indagine. Ad alcuni indagati è stato contestato anche il trasferimento fraudolento di valori per alcune intestazioni fittizie di beni (principalmente veicoli ma anche immobili e quote societarie) posti sotto sequestro ai fini della successiva confisca.

LA DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA DI LECCE MANDA A PROCESSO MICHELE CICALA & COMPANY. Il Corriere del Giorno il 23 Settembre 2021. L’accusa ha depositato in Camera di Consiglio dinnanzi al Gip nuove documentazioni che comprovano la “vicinanza” dell’ex-direttore del carcere di Taranto Stafania Baldassari ad esponenti della criminalità tarantina a fini elettorali. Il pubblico ministero Milto Stefano De Nozza della D.D.A. presso la Procura di Lecce dopo aver chiuso le indagini ha chiesto come noto il processo per Michele Cicala ed il suo gruppo, ma lo scorso 7 settembre ha depositato in camera di consiglio dinnanzi al Gip dr. Michele Toriello del Tribunale di Lecce un ulteriore documentazione che il CORRIERE DEL GIORNO ha potuto visionare, correggendo un capo di imputazione, contestando ad alcuni imputati un nuovo capo d’imputazione. L’udienza preliminare si svolgerà il prossimo 24 novembre. Fra gli atti dell’indagine, che questa sera il nostro direttore Antonello de Gennaro commenterà ed illustrerà ai nostri lettori e video-spettatori, compaiono anche degli avvocati. Il primo è l’ avv. Antonio Mancaniello del foro di Taranto, una vecchia “conoscenza” della Procura distrettuale antimafia di Lecce che è stato già giudicato e condannato a 2 anni di reclusione dal Tribunale di Lecce ( ed il relativo ricorso in Cassazione dichiarato “inammissibile“) per il quale è stato richiesto il giudizio per aver rivelato agli indagati Marco Aria e Michele Cicala notizie coperte dal segreto d’ufficio grazie alle confidenze illegittime del finanziere Gianluca Lupoli “così determinando un pregiudizio irreparabile alle indagini in corso e di fatto aiutando i predetti ad eludere le investigazioni a loro carico“. Mancaniello è assistito l’avv. Rosa Romina Di Pierro con cui si è recentemente sposato, e dall’ avv. Guglielmo Starace del foro di Bari. Non essendo stato trovate tracce bancarie del passaggio di denaro che traspariva dalle intercettazioni fra Michele Cicala e l’Avv. Vincenzo Sapia, legale tarantino di origini calabresi, per la festa di compleanno offertagli e pagata dal clan Cicala, la sua posizione processuale è stata stralciata con provvedimento di archiviazione, fermo restando il pressochè certo procedimento disciplinare a suo carico per le violazioni deontologiche che emergono inconfutabilmente dagli atti. Finalmente è stata fatta chiarezza dalla D.D.A. della Procura di Lecce nei confronti dell’ avv. Patrizia Boccuni del foro di Taranto (che compare quale parte lesa) nei confronti della quale il pm De Nozza ha chiarito la sua totale estraneità all’ indagine contrariamente a quanto sostenuto dal “clan Cicala”, che voleva addirittura pensato di ucciderla con l’appoggio folle di Kristel D’ Ursi moglie di Michele Cicala , ritenendola colpevole “contrariamente al vero” (come scrive il Pm) “di avere fornito informazioni agli organi di P.G. ovvero alla D.D.A. di Lecce in ordine alle attività illecite poste in essere dal clan Cicala così dimostrando al territorio di riferimento le conseguenze derivanti a chi osi contrapporsi agli interessi del gruppo“. Negli atti del processo compare anche l’ex direttore del carcere di Taranto, la dr.ssa Stefania Baldassari, colpita da ben due provvedimenti di sospensione senza scadenza dai vertici del DAP il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, decisione questa che prefigura un molto probabile trasferimento o licenziamento, a causa della sua vicinanza a fine politici ed elettorali alle sacche elettorali della malavita tarantina, è stata ampiamente documentata e rilevata dalla D.D.A. di Lecce. Così come è facilmente comprovata la circostanza che nelle liste che appoggiarono la sua candidatura a sindaco di Taranto c’erano non poche persone con problemi di giustizia in famiglia. Addirittura uno di questi, il pluripregiudicato e noto truffatore tarantino Salvatore Micelli di origini brindisine l’ha citata come testimone a difesa della sua posizione processuale lo vede sotto processo per ben tre procedimenti riuniti in un unico processo per diffamazione aggravata e stalking dinnanzi al Tribunale di Taranto. E le sorprese non sono finite….

SE IL PD NON HA VERGOGNA, FORZA ITALIA CANDIDA UN “TRUFFATORE” CONDANNATO. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 16 Settembre 2021. “Se Atene piange, Sparta non ride”. Solo che in questo caso Sparta, nella provincia di Taranto è il Comune di Massafra, dove Forza Italia ancora una volta esprime il peggio di se stessa candidando nelle proprie liste Nicola Zanframundo, ex esponente dell’ UDC ed assessore della Giunta Quarto, con precedenti penali alle spalle. Nei giorni scorsi si è scatenata una polemica interna al PD pugliese a San Giorgio Ionico, paese di 23mila abitanti alle porte di Taranto dove il Partito Democratico ha deciso di candidare come capolista Salvatore De Felice, xx capo dell’area Altiforni dell’Ilva, condannato lo scorso 31 maggio in primo grado dalla Corte d’Assise di Taranto nel processo “Ambiente Svenduto” a 17 anni di carcere, rispondendo di pesanti reati ambientali come capo area Altiforni dal 9 dicembre 2003 al 26 luglio 2012 e direttore dello stabilimento dal 3 luglio 2012 al 26 luglio 2012, durante la gestione Riva. De Felice, ingegnere e dirigente Ilva all’epoca dei fatti, è già stato consigliere del Pd nel piccolo comune della provincia di Taranto, partito nel quale ha ricoperto anche la carica di segretario locale e nel 2016 era stato il più votato della lista che aveva portato il centrosinistra a vincere le elezioni amministrative. Questa volta però, non essendo soltanto un semplice imputato, ma bensì un condannato, si è accesa una forte polemica. Il commissario provinciale del Pd di Taranto Nicola Oddati, componente della Direzione Nazionale del PD ha scaricato le proprie responsabilità attribuendo la decisione della candidatura al circolo cittadino di San Giorgio: “La candidatura di Salvatore De Felice nella lista del Pd è stata decisa dal circolo locale. Non contravviene al codice etico del Pd e non ci sono impedimenti normativi. Tuttavia è evidente che essa risulti inopportuna e incompatibile con la linea politica che il Partito Democratico si è dato sia sul processo “Ambiente Svenduto”, che più in generale sulla vicenda legata all’ex Ilva” peccato però che in realtà lo statuto conferisca i poteri alle federazioni provinciali e non ai circoli locali. “Per questo motivo gli ho chiesto di autosospendersi dal Pd – ha aggiunto Oddati – e di evitare iniziative e ogni altra attività di campagna elettorale. Sono certo che De Felice comprenderà le ragioni di questa posizione e vi aderirà senza frapporre alcun ostacolo”. De Felice ha subito raccolto l’invito, così spiegando la propria decisione: “Mi autosospendo per tutelare l’immagine del Partito Democratico, degli iscritti al partito, dei candidati e della mia persona”. Piccolo particolare… le liste sono già state depositate in Comune, lo scorso 4 settembre quando scadeva il termine; e quindi il nome De Felice resta in lista fra i candidati del Pd.  Quindi un’autosospensione da Pulcinella! Sulla questa vicenda erano intervenuti, ponendo una questione di opportunità, con delle dichiarazioni l’on. Mauro D’Attis commissario regionale di Forza Italia, ed il coordinatore provinciale di Taranto Vito De Palma. “Per quanto il garantismo sia a fondamento della nostra democrazia ed il nostro sistema giuridico preveda la non colpevolezza fino a sentenza definitiva, non possiamo che ritenere quantomeno inopportuna la candidatura al Consiglio comunale di San Giorgio Ionico di una persona condannata in primo grado a 17 anni nel processo “Ambiente Svenduto”. Ma come dicevano gli antichi greci: “Se Atene piange, Sparta non ride”. Solo che in questo caso Sparta, nella provincia di Taranto è il Comune di Massafra, una cittadina alle porte di Taranto con 33mila abitanti, dove Forza Italia ancora una volta esprime il peggio di se stessa candidando nelle proprie liste Nicola Zanframundo, ex esponente dell’ UDC ed assessore della Giunta Quarto. Zanframundo questa volta però si ricandida nelle liste di Forza Italia, appoggiando anch’egli la candidatura a sindaco di Domenico Santoro, dopo essere stato un acceso sostenitore dell’attuale sindaco uscente di Massafra Fabrizio Quarto. Nicola Zanframundo è un ex-maresciallo della Marina Militare, che è stato condannato il 14 febbraio 2018 dal Gup Gabriele Casalena del Tribunale Militare di Napoli con sentenza di “truffa aggravata e continuata” passata in giudicato, e quindi definitiva, con la pena comminata a 10 mesi di reclusione militare con il beneficio della sospensione condizionale della pena. Una sentenza questa che il “furbetto” Zanframundo ha cercato di tenere nascosta a tutti, negandone l’esistenza persino in un processo dove è stato ascoltato come teste-parte civile da un pubblico ministero ed a un giudice penale. Ed ora dovrà rispondere in Tribunale a Roma anche del reato di falsa testimonianza (reato perseguibile d’ufficio in quanto commesso contro lo Stato e la Giustizia) , che prevede una pena che va dai 2 ai 6 anni. Da noi contattati telefonicamente in serata il coordinatore regionale di Forza Italia on. Mauro D’ Attis, il coordinatore provinciale Vito De Palma ed il coordinatore cittadino di Massafra Raffaele Gentile, sono letteralmente cascati dalle nuvole, affermando che Zanframundo sosteneva di “non avere alcuna pendenza con la giustizia”. Mentre invece come siamo in grado di documentarvi, ha subito una condanna per truffa aggravata alla Marina Militare, cioè allo Stato. Ma Massafra è una piccola cittadina, come lo è San Giorgio Jonico. Possibile che nessuno sapesse nulla…?

LA POLIZIA DI STATO ARRESTA COSIMO CESARIO NOTO COME “GIAPPONE E PONE FINE ALLA SUA LATITANZA. Il Corriere del Giorno il 3 Settembre 2021. Dopo circa 100 giorni di incessanti indagini, i poliziotti, all’alba di questa mattina, hanno bussato alla porta di un appartamento sito in un condominio del Quartiere Tamburi dove Il ricercato Cosimo Cesario si nascondeva. Arrestato è stato tradotto ed associato presso la casa Circondariale di Lecce. L’attività degli investigatori prosegue per far luce su eventuali fiancheggiatori che hanno favorito il 61enne pregiudicato in questi tre mesi di latitanza. La Squadra Mobile di Taranto ha rintracciato ed arrestato alle prime ore di questa mattina, il pregiudicato Cosimo Cesario un 61anni, considerato a capo del clan (ereditato dal suo fratello defunto Giuseppe “Peppe” Cesario meglio noto come Pelè) , il quale si dal 25 maggio scorso si era reso latitante allorquando la Squadra Mobile di Taranto nell’ “operazione Japan” aveva disarticolato un articolato sodalizio criminale, che operava al Quartiere Paolo VI ed aveva ramificazioni nei vicini Quartieri Tamburi e Città Vecchia. Sulla testa di Cesario pendeva un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa dal G.I.P. su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce, nei confronti di 17 persone ritenute responsabili a vario titolo di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, aggravata dall’avere la disponibilità di armi, detenzione illecita di sostanze stupefacenti, detenzione e porto illegale di armi da fuoco, anche da guerra, con relativo munizionamento, estorsione aggravata dal metodo mafioso, ricettazione furto e minaccia. Risultavano indagate per gli stessi reati, anche altre otto persone, tra cui una donna. A capo del sodalizio criminale, il latitante pregiudicato Cosimo Cesario, detto “Giappone”, proprio per il suo curriculum criminale, aveva assunto – coadiuvato da altro componente di elevato spessore criminale – il comando di tutto l’illecito traffico di droga, con compiti di decisione e di pianificazione del programma criminoso, di gestione dei contatti con i fornitori delle sostanze stupefacenti e di supervisione delle operazioni criminose volte a reperire il denaro necessario per l’approvvigionamento di ingenti quantitativi di cocaina, eroina ed hashish. Sin dall’avvio dell’indagine, è apparso evidente il profilo di capo indiscusso di “Giappone” il quale, consapevole di essere oggetto di attenzioni da parte delle Forze di Polizia, assumeva tutte le precauzioni necessarie per rendersi invisibile alle stesse, dalla maniacale attenzione nelle conversazioni attraverso i telefoni cellulari fino alla sostituzione, con inusuale frequenza, delle vetture in uso. L’attività degli investigatori della Squadra Mobile di Taranto guidata dal dirigente, vice questore dr. Fulvio Manco ha consentito di accertare continui e pressoché giornalieri incontri con i suoi sodali da parte del capo clan che si vantava di essere ormai uno dei pochi rimasti ai vertici della malavita tarantina. Giappone continuando a declinare  il “noi”  parlando di se stesso, si vantava di una ormai consolidata egemonia criminale sul territorio, tanto che era sufficiente la sua presenza per ottenere quanto voluto anche senza ricorrere all’uso della violenza. Cesario infatti spiegava il suo modus operandi sostenendo che gli bastava presentarsi: “Basta che andiamo da qualche parte.. I cristiani si mettono sugli attenti… Ci presentiamo ah…Ma senza bum bum…Basta una parola e si mettono a disposizione”. Mentre altri componenti del gruppo malavitoso lo definivano “un capo indiscusso” o addirittura “il numero 1”. Una sorta di superstite dei clan storici, considerando che in tanti sono morti o ammazzati o di morte naturale oppure sono dietro le sbarre. Anche Cesario è rimasto in carcere, a Trani, fino a qualche anno fa. Dopo essere tornato in libertà ad agosto 2018, era stato destinatario di un ordine di carcerazione richiesto dalla DDA di Lecce, ma era riuscito a rendersi irreperibile. Le meticolose indagini della Mobile tarantina, scandite anche da numerosi sequestri di droga e di armi,  hanno messo in evidenza un’importante disponibilità di sostanze stupefacenti per svariati kilogrammi e con un giro di affari di centinaia di migliaia di euro, nonché una notevole disponibilità di armi, spesso clandestine, e del relativo munizionamento, finanche al possesso da parte di uno degli indagati di una mitraglietta SKORPION. Ed oggi dopo circa 100 giorni di incessanti indagini, i poliziotti, all’alba di questa mattina, hanno bussato alla porta di un appartamento sito in un condominio del Quartiere Tamburi dove Il ricercato Cosimo Cesario si nascondeva. Arrestato è stato tradotto ed associato presso la casa Circondariale di Lecce. L’attività degli investigatori prosegue per far luce su eventuali fiancheggiatori che hanno favorito il 61enne pregiudicato in questi tre mesi di latitanza.

I CONTRIBUTI “FACILI” DEL COMUNE DI TARANTO AGLI AMICI DEGLI AMICI…Il Corriere del Giorno il 5 Settembre 2021. Più che Taranto Capitale dei Festival, sarebbe il caso di definire Taranto “capitale dei soldi facili agli amici (e parenti) degli amici”, mentre la locale Procura della Repubblica continua a dormire e convivere nelle varie situazioni di conflitti d’interesse al proprio interno, nonostante la valanga di esposti e denunce arrivate sull’ “allegra” gestione dei soldi pubblici della Giunta Melucci e delle municipalizzate! Non è la prima volta che questo giornale scoperchia l’utilizzo “allegro” dei soldi pubblici del Comune di Taranto, guidata dal sindaco Melucci che insieme ai suoi assessori pensa di poterci far paura con querele e richieste di risarcimenti intimidatori. Inutilmente. Ed ancora una volta troviamo in vicende poco etiche e borderline dal punto di vista legale, un parente di un assessore della Giunta Melucci. Una Giunta che vede il suo sindaco essere in affari, quale socio ed amministratore della società Bottega Aurea, dell’assessore Ubaldo Occhinegro. Della serie: “tutto in famiglia”…..Ma andiamo a raccontarvene un’altra Lo scorso 14 maggio 2021 viene costituita una s.r.l. MUSIC MATCH con appena 1.000 euro di capitale sociale, avente come socio unico ed anche rappresentante legale, il 30enne Luca D’ Andria che dalla visura camerale risulta essere residente a Ferrara. Sede della società, viale Unicef 40 al 1° piano. Dalle verifiche effettuate sulla banca dati delle Camere di Commercio, abbiamo accertato e verificato che D’ Andria è alla sua prima esperienza imprenditoriale (se vogliamo chiamarla tale…) , Dai documenti ufficiali societari non risultano dipendenti, anche se dietro le quinte si muove ed agisce Marco (detto “Marcolino“) Marzulli, fratello di Fabrizio Marzulli attuale assessore al marketing della Giunta Melucci. Abbiamo scoperto ancora una volta che al COMUNE DI TARANTO ne succedono di tutti i colori. In data 8 luglio, cioè 13 giorni prima che la società MUSIC MATCH fosse legalmente attiva ed operante, negli uffici del Comune di Taranto, arriva “la proposta artistica de “Alhambra Festival edizione 2021” integrata dal relativo rendiconto economico finanziario da parte di MUSIC MATCH srls“ che il CORRIERE DEL GIORNO è in grado di produrre qui sotto. Nessuna analisi sulla capacità organizzativa, esperienza, disponibilità finanziaria, di questa neo-costituita società dal capitale sociale esiguo di appena 1.000 euro, che ci riporta alla memoria una serie di “mancette” pubblicitarie di Melucci ad una società neo-costituita dal giornalista Mimmo Mazza, che aveva sede legale (come verificammo insieme alle Forze dell’ ordine) presso l’abitazione del rappresentante legale ed appena 500 euro di capitale sociale, che ha incassato dal COMUNE DI TARANTO decine di migliaia di euro ! Quando si dice che a Taranto la stampa è “indipendente”….Il progetto “ALHAMBRA FESTIVAL” prevedeva un cartellone di eventi teatrali e musicali sulla rotonda del Lungomare di Taranto, proprio sotto i balconi. le terrazze della Prefettura di Taranto e presso un locale “alternativo” il “Jackstore Social Club” (ex discoteca Club 73) sulla strada per San Vito dove si sarebbero svolti 3 dei cinque eventi In cartellone. La Direzione Gabinetto Sindaco-Comunicazione-Urp-Struttura Complessa: Cultura, Sport e Spettacolo, Grandi Eventi, Archivio Storico e Biblioteca del COMUNE DI TARANTO , in data 21 luglio 2021 e cioè lo stesso giorno allorquando la società MUSIC MATCH srls di fatto inizia a svolgere attività economica, (peraltro senza alcuna storia e passato imprenditoriale e/o artistico qualificante) dispone un impegno di spesa di euro 40.000,00 in favore della MUSIC MATCH srls, a seguito della “valutazione qualitativa effettuata dall’Assessorato alla Cultura, come da nota indirizzata al Responsabile del procedimento agli atti di questo Ufficio, in termini di peculiarità artistiche e spettacolari ed in relazione all’incidenza che ambiscono a produrre sul territorio, come valorizzazione delle risorse ambientali ed umane e come potenziale turistico-attrattivo per la città di Taranto” come si legge nella determina che di seguito pubblichiamo. Fra gli artisti più importanti ed attrattivi del progetto presentatom i noti attori Christian De Sica ed Enrico Brignano. per i quali erano stati preventivati due cachet da 35.000 euro cadauno. Ma qui accade qualcosa di strano. Nei giorni scorsi “Marcolino” (all’anagrafe Marco Marzulli, fratello dell’ assessore Fabrizio Marzulli del COMUNE DI TARANTO – Giunta Melucci) entrambi residenti a Muro Leccese in provincia di Lecce, ha iniziato a tempestare di telefonate l’agenzia romana ITALIA CONCERTI GROUP srl che rappresenta il noto attore e showman Christian De Sica, e “Marcolino” Marzulli peraltro senza alcun potere legale li invitava a non presentarsi a Taranto per il loro spettacolo previsto per l’ 8 di settembre, minacciando che contrariamente gli avrebbero fatto trovare la piazza vuota ! Come mai ? Ed a che titolo faceva queste telefonate “Marcolino” ? Eppure incredibilmente lo scorso 19 luglio il COMUNE DI TARANTO si autoproclamava “Capitale dei Festival” nel consueto stile…”Melucci & Company” scrivendo sul proprio sito: “Arrivano Christian De Sica, Gigi D’Alessio, Max Pezzali, Umberto Tozzi e il cabaret di Enrico Brignano. E al Jackstore Social Club, per i più giovani, il nuovo cantautorato italiano con Dente e Davide Shorty. Alcuni di questi nomi già giravano sui social nei giorni scorsi scatenando la gioia dei fans, ma adesso sono ufficiali.  Arriva a Taranto l’Alhambra Festival con la direzione artistica di Luca D’Andria e il Festival di Altramusicalive, entrambi organizzati in collaborazione con il Comune di Taranto“. L'”assessore-saltimbanco” Fabiano Marti come tutti lo chiamano a Taranto dati i suoi trascorsi di animatore di feste e sagre paesane, prima del suo ingresso nella Giunta Melucci, così scriveva sul sito del COMUNE DI TARANTO (leggi QUI): “«L’offerta musicale e teatrale della nostra città cresce ancora – ha dichiarato l’assessore alla Cultura dell’amministrazione Melucci Fabiano Marti – con concerti e spettacoli di altissimo livello che accontentano, come è giusto che sia, tutti i gusti. La nostra Rotonda del Lungomare diventa il luogo simbolo dei grandi eventi e Taranto si conferma capitale dei festival». Peccato che adesso Marti da giorni non risponde a mail, telefonate e messaggi SMS e Whatsapp dai rappresentanti di Christian De Sica! Come mai? Nei giorni scorsi la ITALIA CONCERTI GROUP srl stanca di subire vessazioni, minacce telefoniche da parte dell’ accoppiata “Marcolino”-D’ Andria, ha inviato una Pec di protesta al sindaco Melucci, ma (per sfortuna del sindaco di Taranto !) anche al nostro giornale, oltre che a Taranto Buonasera ed il Nuovo Quotidiano di Puglia, testate locali solitamente considerate “amiche” dell’ Amministrazione Comunale guidata da Rinaldo Melucci, che da oltre 4 anni le foraggia pubblicitariamente continuamente pur di poter godere di “buona” stampa….Siamo veramente curiosi di vedere se anche queste testate si occuperanno di questa vicenda che definire “scandalosa” nonchè “vergognosa” è ben poco, visto che si tratta di soldi pubblici dei cittadini di Taranto che pagano tasse locali e tributi fra i più alti d’ Italia, mentre il COMUNE DI TARANTO sperpera soldi dalla mattina alla sera! Alla luce di questi fatti che vi abbiamo raccontato e documentato avendo acquisito tutte le relative documentazioni contrattuali, che ci riserviamo di produrre esclusivamente all’ Autorità Giudiziaria, resta da chiedersi se è mai possibile che per dei dirigenti comunali, per i loro assessori, per il Sindaco di Taranto, tutto questo sia giustificabile. L’ assessore Fabrizio Marzulli a questo punto dovrebbe fare un passo indietro e comunicare al suo “amato” Sindaco la propria indisponibilità a continuare la sua esperienza politica al COMUNE DI TARANTO ed a tornare ad occuparsi delle attività nel leccese. Con l’occasione potrebbe portare con se suo fratello “Marcolino” che potrebbe tornarsi ad occupare dell’azienda agricola di cui da qualche mese risulta vice presidente. In campagna hanno sempre bisogno di qualcuno che zappi la terra, o porti le capre a pascolare! Cosa accadrà adesso? Si svolgerà il prossimo 8 settembre lo spettacolo con Christian De Sica ? Se non si dovesse svolgere lo spettacolo, a prescindere dalla pessima figuraccia nel mondo artistico dove le voci corrono alla velocità della luce, cosa farà il COMUNE DI TARANTO che aveva previsto ed assegnato su un progetto di circa 100 mila euro, concedendo il proprio patrocinio, ed un contributo del 40% e cioè di 40 mila euro, ad una società (la MUSIC MATCH srls con appena un mese di vita e ribadiamo dal capitale sociale pressochè imbarazzante di appena 1.000 euro!)? Più che Taranto Capitale dei Festival, sarebbe il caso di definire Taranto “Capitale dei soldi facili agli Amici (e parenti) degli Amici…”, mentre la locale Procura della Repubblica continua a dormire e convivere nelle varie situazioni di conflitti d’interesse al proprio interno, nonostante la valanga di esposti e denunce arrivate sull’ “allegra” gestione dei soldi pubblici della Giunta Melucci e delle municipalizzate! Forse è il caso di vedere ed accertate anche quali interessi si celano dietro l’Associazione “ALTRA MUSICA LIVE” destinataria di un contributo di 40 mila euro come riporta la determina di seguito pubblicata per la proposta artistica del “Festival Altramusicalive” edizione 2021, integrata dal relativo rendiconto economico-finanziario, da parte dell’Associazione Altramusicalive. Incredibilmente sull’ Albo Pretorio del Comune di Taranto questo rendiconto non è mai stato pubblicato e reso noto come la Legge prevede. Alla faccia della “trasparenza” sugli atti della pubblica amministrazione. Come non meravigliarsi se poi Taranto ha un segretario generale comunale sotto processo ed un Sindaco pluri-indagato? Abbiamo anche effettuato un sopralluogo in viale Unicef 40 a Taranto per fare delle dovute ricerche presso l’indirizzo dichiarato come sede legale della MUSIC MATCH srls ma sul posto non abbiamo trovato alcuna targa, citofono, buca postale fotografando tutti i nomi sui citofoni (che per legge sulla Privacy non pubblichiamo). Legittimo a questo punto chiedersi come controlla il COMUNE DI TARANTO a chi eroga i soldi dei cittadini? O forse basta avere qualche collegamento, parentela con qualche assessore, o essere nelle grazie di qualche “staffista” per riempirsi il portafoglio? Alla magistratura e la Guardia di Finanza, la facile “sentenza”. Quella morale ed elettorale nel frattempo l’hanno già data i cittadini di Taranto, che nell’ultimo sondaggio realizzato dal sondaggista Noto per il SOLE24Ore, tributando un circa 30% in meno di fiducia e sostegno al Sindaco Melucci finito al quart’ultimo posto fra tutti i sindaci d’ Italia. Come non dargli ragione?

TARANTO. LITE A PALAZZO DI CITTA’: ATTO SECONDO. Anonymus su Il Corriere del Giorno l'1 Settembre 2021. Con le valigie in mano sarebbe l’architetto Ubaldo Occhinegro, assessore all’urbanistica e “socio” in affari con il sindaco Melucci, che verrebbe sacrificato in nome del quieto vivere e delle pressioni ed “appetiti” pervenuti da altri gruppi della sua maggioranza. Dopo la lite con spintoni, schiaffi e tirate di capelli fra Doriana Imbimbo la “staffista” del Sindaco Melucci, con l’assessore Francesca Viggiano dimessasi ieri sera, c’è stato un seguito. Questa mattina infatti il sindaco le ha chiesto scusa da parte della Imbimbo, temendo una querela alla sua collaboratrice del cuore, già a processo per truffa all’ Amministrazione Comunale di Taranto. Ma come mai le scuse non sono arrivate direttamente dalla Imbimbo? Un altro mistero ed atto illegale è che ad oggi le dimissioni non risultano essere state protocollate. Nel frattempo oggi il gruppo consiliare del PD si è riunito raggiungendo un accordo nel sostenere le due assessore sempre che la Viggiano si rimangi le sue dimissioni, voglia continuare facendo ricomparire la sua bella “paginetta” Facebook. Venerdì mattina è previsto un incontro a Taranto fra Nicola Oddati, membro della Direzione Nazionale ed attuale commissario provinciale di Taranto del Partito Democratico, con il sindaco Rinaldo Melucci. Ancora una volta il povero Tommy Lucarella è rimasto appiedato dal suo stesso partito, perdendo il posto nel CdA di Infrataras (con una procedura a dir poco illegale) non entrando in consiglio comunale, quale primo dei non eletti, a seguito del rifiuto della consigliera Galluzzo Motolese (Pd) ad accettare l’incarico di assessore. Con le valigie in mano sarebbe l’architetto Ubaldo Occhinegro, assessore all’urbanistica e “socio” in affari con il sindaco Melucci, che lo avrebbe sacrificato in nome del quieto vivere e delle pressioni ed “appetiti” pervenuti da altri gruppi della sua maggioranza che ogni giorno di più sembra un mix fra un comitato d’affari ed un “Armata Brancaleone”.

TARANTO, GUERRA FRA DONNE NELL’AMMINISTRAZIONE MELUCCI. STAFFISTA ED ASSESSORA FINISCONO ALLE MANI! Anonymus su Il Corriere del Giorno il 31 Agosto 2021. Sarà una lunga notte di telefoni “bollenti” per l’amministrazione guidata dal sindaco Melucci ed i suoi alleati del centrosinistra che devono aver dimenticato le batoste elettorali subite, ed il calo dei consensi dell’attuale sindaco di Taranto, certificati dai sondaggi del Sole 24Ore affidati al sondaggista Noto. Fonti di Palazzo di Città a Taranto raccontano che nel tardo pomeriggio vi sia stata un’accesa discussione fra l’(ex) assessore Francesca Viggiano e Doriana Imbimbo la “staffista” del cuore del sindaco Rinaldo Melucci, mandata a processo per aver truffato il Comune di Taranto. La lite sarebbe finita a spintoni, offese, e le due si sarebbero prese per i capelli. Sedata la lite, la Viggiano ha rassegnato le proprie dimissioni da assessore facendo scomparire la sua pagina pubblica di assessore da Facebook e rimuovendo dal proprio profilo l’indicazione di “assessore”. resta un mistero se le sue dimissioni siano state protocollate e quindi effettive. Non sarebbe questa la prima lite della “staffista” Imbimbo. Infatti fonti confidenziali dell’Amministrazione Melucci raccontano che in passato la Imbimbo abbia avuto un analogo alterco finito a spintoni e capelli tirati persino la moglie del sindaco Melucci, la quale non gradiva la sua estrema vicinanza al marito. Secondo voci di corridoio Melucci vorrebbe nominare per questi ultimi 6 mesi prima delle prossime elezioni amministrative assessore il consigliere comunale Cosimo Ciraci (passato dalle file del centrodestra in quelle del centrosinistra) e la consigliera Carmen Galluzzo (PD) i quali automaticamente dovrebbero dimettersi da consiglieri comunali, ed al loro posto entrerebbero Adriano Tribbia (Forza Italia). Sarà divertente vedere la moglie di Ciraci che fa l’agente di Polizia Locale intrattenersi con il marito come proprio assessore alla Polizia Locale. Della serie: mi porto il lavoro a casa! Altra situazione imbarazzante sarà l’ingresso in consiglio comunale, di Tommy Lucarella (PD) quale primo dei non eletti che proprio questa mattina era stato nominato consigliere nel CdA di Infrataras, e quindi per statuto il nuovo Consiglio di Amministrazione appena nominato di fatto decadrebbe, passando alla storia delle aziende municipalizzate di tutt’ Italia per la più breve durata di esercizio! E quindi il passaggio di “sponda” dal centrodestra al centrosinistra dell’ avv. Francesco D’Errico nominato presidente di Infrataras dal sindaco Melucci sarebbe l’ennesima operazione da saltimbanco e figuraccia per chi fa di tutto per conquistare un incarico (e stipendio )! Un altro rovesciamento interno sarebbe l’uscita dalla giunta di Ubaldo Occhinegro assessore all’urbanistica e socio di minoranza della società Bottega Aurea, che ha come amministratore ed azionista di maggioranza il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci (!!!). Al suo posto passerebbe Gianni Cataldino (gruppo Bitetti) sinora assessore alla Polizia Locale di Taranto. Sarà quindi una lunga notte di telefoni “bollenti” per l’amministrazione Melucci ed i suoi alleati del centrosinistra che devono aver dimenticato le batoste elettorali subite, ed il calo dei consensi dell’attuale sindaco di Taranto, certificati dai sondaggi del Sole 24Ore affidati al sondaggista Noto.

(ANSA il 27 luglio 2021) - Il Capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, ha sospeso dalle funzioni di Direttrice della Casa Circondariale di Taranto, Stefania Baldassari. Il provvedimento è stato adottato - a quanto si apprende da fonti dell'amministrazione - sulla scorta di un'informativa della DDA di Lecce, secondo la quale la Direttrice sarebbe coinvolta in condotte irregolari nell'interesse di un detenuto, presente nello stesso istituto penitenziario, indagato per il reato di 416 bis, l'associazione a delinquere di tipo mafioso. 

Taranto, sospesa la direttrice del carcere. Indagini della Dda di Lecce: emesso un provvedimento. La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Luglio 2021. Il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, ha sospeso dalle funzioni di Direttrice della Casa Circondariale di Taranto, Stefania Baldassarri. Il provvedimento è stato adottato - a quanto si apprende da fonti dell’amministrazione - sulla scorta di un’informativa della DDA di Lecce, secondo la quale la Direttrice sarebbe coinvolta in condotte irregolari nell’interesse di un detenuto, presente nello stesso istituto penitenziario, indagato per il reato di 416 bis, l’associazione a delinquere di tipo mafioso.

SOSPESA DAL MINISTERO DI GIUSTIZIA IL DIRETTORE DEL CARCERE DI TARANTO. Il Corriere del Giorno il 27 Luglio 2021. La Direttrice sospesa Stefania Baldassarri sarebbe coinvolta in condotte irregolari nell’interesse di un detenuto, Michele Cicala, allorquando era presente nello stesso istituto penitenziario, indagato per il reato di 416 bis, l’associazione a delinquere di tipo mafioso.  Bernardo Petralia Capo del DAP il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero di Giustizia, ha sospeso dalle funzioni di Direttrice della Casa Circondariale di Taranto, Stefania Baldassarri. Il provvedimento è stato adottato sulla scorta di un’informativa della DDA di Lecce, secondo la quale la Direttrice sarebbe coinvolta in condotte irregolari nell’interesse di un detenuto, Michele Cicala, allorquando era presente nello stesso istituto penitenziario, indagato per il reato di 416 bis, l’associazione a delinquere di tipo mafioso. Il capo del Dipartimento del Dap così motiva il suo provvedimento: “nell’assolvimento del proprio ruolo istituzionale, la dottoressa Baldassari, in qualità di direttore avrebbe dovuto astenersi da indebite frequentazioni, con evidente offesa alla dignità delle pubbliche funzioni” aggiungendo che “l’eventuale permanenza in servizio determinerebbe l’esistenza di una effettiva incompatibilità della dottoressa Baldassari con lo svolgimento della normale attività di servizio ed effetti lesivi sul prestigio e l’immagine esterna dell’Amministrazione, incidente negativamente sulla credibilità delle Istituzione che ella rappresenta“. Nel frattempo la D.D.A. della Procura di Lecce ha fatto ricorso in Cassazione avverso la decisione del Tribunale del Riesame che aveva annullato per Michele Cicala e degli altri esponenti del suo clan, l’aggravante di associazione mafiosa ipotizzata dal sostituto procuratore Milto Stefano De Nozza. Il Riesame di Lecce aveva confermato arresti e sequestri (bar, ristoranti, attività commerciali riconducibili sempre a Cicala) mentre con un altro provvedimento Cicala aveva ottenuto ai domiciliari. Incredibilmente mentre il Riesame di Lecce aveva annullato l’aggravante mafiosa, il Tribunale del Riesame di Potenza competente sugli “affari” illeciti compiuti dal clan Cicala con il cugino di Michele Zagaria “storico” capo del clan dei Casalesi, aveva confermato l’aggravante. Sarà ora la Corte di Cassazione a dire l’ultima parola.

Nazareno Dinoi per "Il Messaggero" il 28 luglio 2021. La notizia, che circolava già il giorno prima, è arrivata ieri come un fulmine in casa Baldassari e nel mondo giudiziario e penitenziario tarantino. La direttrice della casa circondariale di Taranto, Stefania Baldassari, è stata sospesa dall'incarico dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria. Il provvedimento firmato dal capo del Dap, Bernardo Petralia, è stato l'effetto di una informativa della Direzione distrettuale antimafia di Lecce secondo la quale la direttrice del carcere avrebbe avuto condotte irregolari nell'interesse di un detenuto sotto la sua custodia, indagato per reati di mafia. La misura, con effetto immediato, aprirà le porte ad un provvedimento disciplinare interno, atto dovuto che scatta automaticamente nei casi di tale gravità. La sospensione non ha un termine, per cui è da supporre che sarà nominato un reggente per assicurare temporaneamente la dirigenza dell'istituto Carlo Magli. A dare il via al provvedimento cautelare è stata un'informativa della Guardia di Finanza di Taranto finita agli atti del procedimento giudiziario, ancora nelle fasi dell'udienza preliminare, nato dall'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Lecce su un presunto traffico di carburante da autotrazione gestito da alcuni gruppi malavitosi legali al clan dei casalesi. A capo della frangia tarantina, secondo il pubblico ministero Milto Stefano De Nozza titolare dell'inchiesta denominata «Petrolmafia», ci sarebbe Michele Cicala, 41 anni, pluripregiudicato del quartiere Tramontone il cui nome compariva già nella relazione dell'anno giudiziario del 2010 della Corte d'Appello di Lecce quale capo emergente di una nuova compagine mafiosa. Sarebbe proprio lui, secondo le carte che da Lecce sono arrivate negli uffici romani del Dap, il detenuto nei confronti del quale la direttrice Baldassari si sarebbe in qualche modo impegnata. Tutto nasce da una conversazione intercettata il 16 maggio scorso tra la moglie di Cicala e una dipendente del bar «Primus Borgo» di Taranto, di proprietà di una cooperativa che secondo gli investigatori sarebbe controllata dal presunto boss. Nel corso della telefonata, la ragazza racconta che la direttrice del carcere si era recata nel locale e, riferendosi a Cicala, avrebbe detto che stava bene consigliando di scrivergli delle lettere per fargli sentire la vicinanza della famiglia. Queste le parole dell'intercettazione: «Dice che l'aveva visto, sia a lui ha visto Michele, l'ha visto molto positivo, però ha detto vicino a noi: ragà scrivetegli perché dovete essere di conforto, gli dovete dare forza». Qualche giorno dopo la telefonata con la dipendente del bar, la moglie del detenuto, durante una video telefonata programmata, racconta l'episodio al marito: «Ha detto che sei molto fiducioso, che stai bene», riferisce la donna di Cicala rassicurandolo. Il bar in questione si trova sulla strada che la direttrice Baldassari deve percorrere per tornare a casa, ma gli investigatori delle fiamme gialle che riferiscono al pm De Nozza non «comprendono le ragioni per le quali dovesse necessariamente fermarsi nel locale fornendo rassicurazioni sull'umore del Cicala». La trascrizione delle intercettazioni è stata allegata al fascicolo integrativo che il sostituto procuratore della procura antimafia di Lecce, De Nozza, ha depositato in sede di udienza preliminare davanti al giudice del Tribunale di Lecce, Michele Toriello, che deve giudicare 71 indagati di varie province, tra cui il tarantino Cicala, coinvolti nell'inchiesta Petrolmafia. «Arrabbiata, delusa e anche spaventata, ma chiariamo una cosa: non sono indagata, non sono sottoposta a nessun procedimento penale e non devo rispondere di nessun reato penale». La reazione di Stefania Baldassarri è netta. E aggiunge: «Se mi sta succedendo questo per una cosa raccontata da altri, allora mi rendo conto che in Italia può accadere di tutto a chiunque. Ad ogni modo mi sento serena, affronterò con onore anche questa battaglia e sono sicura che ne uscirò a testa alta».

SOSPENSIONE A TEMPO INDETERMINATO PER IL DIRETTORE DEL CARCERE DI TARANTO. LA DDA DI LECCE INDAGA. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 4 Settembre 2021. La Baldassari era già stata sospesa una prima volta lo scorso 27 luglio dal Dap in conseguenza del suo coinvolgimento (senza responsabilità penali) nell’ ordinanza di custodia cautelare nei confronti del “clan” Cicala, a seguito della quale aveva rilasciato una serie di interviste in cui professava la sua assoluta estraneità ai fatti contestati, così contrapponendosi ai vertici del Dipartimento dell’ Amministrazione Penitenziaria, preannunciando ricorsi amministrativi che non risultano essere mai stati intrapresi. Ed ecco le foto che provano la vicinanza della politica tarantina alla malavita locale. Notificata ieri dal Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero di Giustizia una nuova sospensione ma questa volta a tempo indeterminato per la dirigente della casa circondariale di Taranto Stefania Baldassari, a seguito degli approfondimenti effettuati dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Procura di Lecce che ha raccolto prove inconfutabili della sua conoscenza e frequentazione del clan Cicala sin dal 2017. Il nuovo provvedimento potrebbe sfociare persino in causa di licenziamento. La Baldassari stata sospesa lo scorso 27 luglio dal Dap in conseguenza del suo coinvolgimento (senza responsabilità penali) nell’ ordinanza di custodia cautelare nei confronti del “clan Cicala”, a seguito della quale aveva rilasciato una serie di interviste in cui professava la sua assoluta estraneità ai fatti contestati, così contrapponendosi ai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, preannunciando ricorsi amministrativi che non risultano essere mai stati intrapresi. Al Dap oltre alla relazione del pm dr. Milto Stefano De Nozza della DDA di Lecce, sono arrivate da parte di alcuni avvocati delle segnalazioni ed esposti nei confronti della (ex?) dirigente del carcere di Taranto, che hanno consentito di comprovare, con l’ausilio anche delle documentazioni acquisite dalla Guardia di Finanza, la consuetudine di rapporti e frequentazione della Baldassari con il “boss” Michele Cicala attraverso un legale Vincenzo Sapia, comune amico, presente nella recente ordinanza di custodia cautelare, a partire da un incontro elettorale svoltosi nel 2017 nella pizzeria “Da Mammina” a Talsano , in cui la Baldassari assieme al candidato Antonino detto Toni Cannone (estraneo all’inchiesta), incontrò persone amiche e familiari dei componenti del “clan Cicala”, quasi tutti residenti nelle case popolari di via Mediterraneo, strada che dette il nome ad un precedente blitz per il quale Michele Cicala riportò una condanna definitiva di 18 anni e 6 mesi di reclusione. E guarda caso… la Guardia Finanza ha accertato che proprio nel seggio elettorale di quella zona la Baldassari nelle Comunali del 2017 ricevette oltre 400 voti! Una semplice coincidenza…? Le immagini che pubblichiamo sopra, sono tratte da Facebook, confermano che Stefania Baldassari ed il consigliere comunale Tony Cannone abbiano svolto campagna elettorale nel 2017 nei locali della pizzeria “MAMMINA” a Talsano, di proprietà del “clan Cicala”. E Cannone li ringraziava anche! Alle loro spalle l’avvocato Vincenzo Sapia notoriamente molto “vicino” al Clan Cicala, come risulta dalle intercettazioni della Guardia di Finanza agli atti del fascicolo d’indagine del pm Milto Stefano De Nozza. 

Il CORRIERE DEL GIORNO inoltre ha scoperto su Facebook un documento fotografico, peraltro postato pubblicamente, che dimostra la falsità delle precedenti dichiarazioni della Baldassari alla stampa locale, quando sosteneva di essere stata al Primus Bar Borgo soltanto una volta per prendere un caffè. I documenti e le intercettazioni in realtà dicono ben altro. Chissà se adesso ci saranno nuove interviste della Baldassari a giornali e televisioni … Lei nel frattempo ci blocca sui social sperando di impedirci di leggere le sue farneticazioni nei nostri confronti. Inutilmente. Quindi a questo punto non ci resta che aspettare la conclusione delle indagini della DDA di Lecce. Il tempo è galantuomo ed è anche il miglior giudice in circolazione. Sopratutto a Taranto, la città della “solidarietà” ad un tanto al chilo! E’ noto a tutti inoltre che nella coalizione che sosteneva la Baldassari, compariva anche un altro pregiudicato, su cui grava una condanna definitiva ad 1 anno e 4 mesi, Salvatore Micelli “portavoce” della lista “Progetto in Comune” guidata da sua sorella. Quando si hanno certe frequentazioni…persino facendo politica nonostante il delicato ruolo ricoperto nell’ amministrazione penitenziaria, diventa poi arduo dirigere un carcere. E questa volta con la nuova dirigenza del DAP non si scherza.

La solidarietà di Rita Bernardini. “Troppo umana con i detenuti” Petralia sospende Stefania Baldassarri, la direttrice del carcere di Taranto. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 28 Luglio 2021. Succede tutto all’improvviso, o forse no. Ieri il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, ha sospeso dalle funzioni di direttrice del carcere di Taranto, Stefania Baldassarri. Il provvedimento è stato adottato – a quanto si apprende da fonti dell’amministrazione – sulla scorta di un’informativa della Dda di Lecce, secondo la quale la direttrice sarebbe coinvolta in condotte irregolari nell’interesse di un detenuto, presente nello stesso istituto penitenziario, indagato per il reato di 416 bis, l’associazione a delinquere di tipo mafioso. La direttrice Stefania Baldassarri cade dalle nuvole, come pure chi la conosce più da vicino. Baldassarri dirige da anni una delle strutture detentive più affollate e difficili, con un modello di gestione che coinvolge i detenuti in programmi di rieducazione civica. Ma ieri come un fulmine a ciel sereno da via Arenula le comunicano la sospensione per “Condotte irregolari”. Cosa sarebbe successo? È stata intercettata una conversazione in un bar cittadino. Lei entra per un caffè. I ragazzi che lavorano lì le chiedono se fosse il direttore del carcere. È lei stessa a raccontarlo: «Ho risposto di sì, mi è stato chiesto come stavano i detenuti Romano, Buscicchio e Cicala; ho detto che stavano come possono stare i detenuti in custodia cautelare. Mi è stato chiesto cosa facessero tutto il giorno, ho detto quello che solitamente fanno in genere tutti i detenuti». «Mi è stato chiesto – ha aggiunto Baldassarri – se potevo portare loro i saluti, ho detto che purtroppo in direttore si occupa di altro che portare i saluti. Mi è stato chiesto cosa potessero fare e ho detto che il modo per manifestare la loro vicinanza era quello di scrivere. Il bar – ha concluso – è stato riaperto, perché dissequestrato, non comprendo i motivi per cui mortificare l’aspettativa di gente che stava lavorando e che nulla aveva a che fare col procedimento penale del detenuto». Una normale conversazione che arriva però alle orecchie della Dda di Lecce e diventa il volano di un infamante sospetto: avrebbe in qualche ipotetico modo agevolato il boss della mala tarantina Michele Cicala, stando a quanto si legge sull’atto che ne determina la sospensione. Bernardo Petralia firma il provvedimento su cui verga: «Il dirigente pubblico deve informare ogni condotta a criteri di correttezza» ed aggiunge: «la citata condotta è disciplinarmente rilevante». Di cosa parliamo? Avrebbe suggerito, rispondendo a uno sconosciuto, di poter indirizzare una lettera di saluti al detenuto. L’episodio non è recentissimo, tanto che Michele Cicala è stato nel frattempo assegnato ai domiciliari, per decreto del magistrato di sorveglianza. Ci risulta tutto previsto dalle norme e dai regolamenti, la corrispondenza privata nelle carceri esiste – al netto dei controlli – ed è difficile leggere in tale circostanza la malafede che il Dap sembra imputare alla direttrice Baldassarri. Che non si dà pace: «Non mi aspettavo un provvedimento del genere, sono ancora incredula, smarrita, sgomenta». Ed aggiunge: «Leggendo le motivazioni non riesco proprio a comprendere quale sarebbe il disvalore in questo caso disciplinare. Tengo a precisare che non sono indagata e non ho ricevuto alcun avviso di garanzia». Baldassarri è molto nota in città e durante il Covid ha chiesto ai detenuti di rendersi parte attiva, cucendo migliaia di mascherine. Con l’Associazione Antigone ha promosso una serie di incontri sul tema della salute nelle carceri ed era stata tra le più ferme a condannare, in una recente intervista a un giornale locale, le gravissime violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. «È una delle più brave direttrici che abbia mai conosciuto, la conosco da anni e ha sempre agito in modo esemplare. Tra l’altro le hanno dato la direzione della casa circondariale tra le più difficili d’Italia, quella di Taranto che è notoriamente sovraffollata», dice Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino. Stessa opinione da parte del sindacato presente nella casa circondariale che ha emesso una nota. «Conosciamo la direttrice del carcere di Taranto e il suo operato e per questo diciamo che non ha mai dato adito ad alcun sospetto», scrive il segretario generale Uilpa penitenziaria, Gennarino De Fazio. «Abbiamo massima fiducia negli organi inquirenti e nel capo del Dap», aggiunge. «Ci sarà un contraddittorio che darà la possibilità alla direttrice di chiarire la propria posizione». A Taranto intanto c’è chi pensa ai malumori di qualcuno cui la direttrice andava stretta. Stefania Baldassarri era stata individuata, proprio per la particolare dedizione al sociale, come candidata sindaca nel 2017 a capo della lista civica Nuovo Coraggio, su cui converse il centrodestra. La popolarità era accresciuta di recente quando, lo scorso 2 giugno, su proposta del presidente del Consiglio Mario Draghi le era stato conferito il titolo di Cavaliere al merito della Repubblica. Adesso arriverà il ricorso, preannunciato ieri, «da presentare quanto prima», come conferma l’interessata. Nel ricorso si potrebbe ricordare che l’ordinamento, allo stato attuale, non ha ancora messo al bando il reato di umanità.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Da leggo.it il 25 luglio 2021. Abusavano di una disabile, indagati 8 autisti di bus di linea. E' successo a Taranto dove parcheggiavano gli autobus in luoghi isolati, bloccavano le porte e poi abusavano di una ragazza disabile. Per questo 8 autisti dell'Amat, l'azienda di trasporto pubblico di Taranto, di età compresa tra i 40 e i 62 anni, sono indagati per violenza sessuale aggravata ai danni di una ventenne affetta da un evidente disagio psichico. Il gip del capoluogo ionico ha imposto nei loro confronti il divieto di avvicinamento alla ragazza e al suo fidanzato, che nel giugno 2020 l'ha convinta a denunciare le violenze ai carabinieri. Respinti gli arresti domiciliari richiesti dalla Procura. La procura contesta agli otto indagati i reati di violenza sessuale con le aggravanti di aver agito su una persona sottoposta a limitazioni della libertà personale e per aver commesso il fatto in qualità di incaricati di pubblico servizio. I fatti si riferiscono al periodo compreso tra ottobre 2018 ed aprile 2020. La ragazza era un'assidua frequentatrice dei bus di linea dell'Amat e le violenze sarebbero avvenute sugli autobus che venivano parcheggiati in luoghi isolati, sotto a un cavalcavia nei pressi del capolinea al porto mercantile o vicino ad una delle portinerie dell'Ilva. Qui, ricostruisce il giudice, gli autisti chiudevano le porte del mezzo e approfittavano della «estrema vulnerabilità» della giovane vittima.

TARANTO, DISABILE ABUSATA SUI BUS COMUNALI. INDAGATI 8 AUTISTI AMAT. Il Corriere del Giorno il 25 Luglio 2021. I responsabili hanno un’età compresa tra i 40 e 62 anni. Nell’ordinanza il Gip Maccagnano scrive che gli indagati approfittavano della “estrema vulnerabilità” della giovane vittima, ed ha imposto il divieto di avvicinamento alla ragazza e al suo fidanzato, che nel giugno 2020 l’ha convinta a denunciare le violenze ai Carabinieri. 8 autisti di età compresa tra i 40 e i 62 anni dipendenti dell’AMAT, l’azienda di trasporto pubblico del Comune di Taranto, sono indagati per violenza sessuale aggravata ai danni di una giovane ragazza ventenne affetta da un evidente disagio psichico. I fatti sono accaduti nel periodo intercorrente tra ottobre 2018 ed aprile 2020. Nelle oltre 100 pagine dell’ordinanza firmata dal giudice per le indagini preliminari Francesco Maccagnano del Tribunale di Taranto è spiegato come gli autisti avrebbero approfittato della “fragilità ben nota agli indagati, che non hanno esitato a piegare a strumento di soddisfazione e godimento per le loro voglie sessuali”. Gli autisti parcheggiavano gli autobus in luoghi isolati, bloccavano le porte e poi abusavano di una ragazza disabile. La ragazza era una frequentatrice assidua dei bus di linea dell’AMAT utilizzati per recarsi da casa dei nonni, nella periferia di Taranto, a casa della madre che abitava in città , e le violenze subite si sono svolte proprio sugli autobus su cui viaggiava, che venivano fermati dai conducenti in luoghi isolati ed indisturbati, sotto a un cavalcavia nei pressi del capolinea al porto mercantile o vicino ad una delle portinerie dell’ILVA. Secondo la ricostruzione dei fatti degli inquirenti gli autisti arrivati sul posto, bloccavano le porte del mezzo e quindi approfittavano della “estrema vulnerabilità” della giovane vittima, e giravano messaggi e video piccanti della 20enne, alcuni dei quali sarebbero poi stati cancellati.  Gli abusi sono avvenuti anche all’interno dell’auto privata di uno degli autisti indagati. La Procura di Taranto ha contestato agli otto autisti dell’AMAT i reati di violenza sessuale con le aggravanti di aver agito su una persona sottoposta a limitazioni della libertà personale e per aver commesso il fatto in qualità di incaricati di pubblico servizio. Il gip Maccagnano ha respinto gli arresti domiciliari richiesti dalla Procura, ed imposto nei confronti degli 8 autisti dell’AMAT il divieto di avvicinamento alla ragazza e al suo fidanzato, che nel giugno 2020 l’ha convinta a denunciare le violenze ai Carabinieri.

Taranto, violenze su una disabile: indagati 8 autisti dell'Amat. Avrebbero abusato più volte della 21enne chiudendo le porte dei bus. Il gip: non serve l’arresto. Vittorio Ricapito su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Luglio 2021. Taranto - Otto autisti dell’Amat, l’azienda di trasporto pubblico di Taranto, sono indagati per violenza sessuale aggravata ai danni di una ragazza disabile di vent’anni. Il più giovane ha 40 anni, il più anziano 62. Lei appena 21 e quando aveva 14 anni fu vittima di violenza sessuale da parte di un vicino di casa (condannato in via definitiva). Sono accusati di violenza sessuale con le aggravanti di aver agito su persona sottoposta a limitazioni della libertà personale (perché quasi sempre luogo delle violenze erano autobus di linea ai quali i guidatori chiudevano le porte per impedire alla vittima di scendere) e per aver commesso il fatto nella veste di incaricato di pubblico servizio. Alcuni si sarebbero limitati a palpeggiamenti, altri avrebbero avuto rapporti sessuali completi. Per quasi due anni, cioè da ottobre 2018, quando era appena maggiorenne fino ad aprile 2020, la ragazzina gravata da disagio psichico, lieve ma piuttosto evidente, sarebbe diventata una specie di giocattolo sessuale su cui sfogare i peggiori istinti per pochi minuti, tra i sedili del bus. La turpe vicenda è appena passata dal vaglio del gip Francesco Maccagnano al quale la Procura aveva chiesto gli arresti domiciliari per gli otto autisti. Il giudice ha ritenuto sufficiente il divieto di avvicinamento alla ragazza e al suo fidanzato, che a giugno dello scorso anno l’ha convinta a raccontare tutto ai carabinieri. Nelle oltre 100 pagine dell’ordinanza firmata dal giudice sono descritte le «condotte violente e minacciose» degli autisti, riferite dalla ragazza agli investigatori e a due psicologhe. Restavano da soli sui mezzi con lei e approfittavano della «fragilità ben nota agli indagati, che non hanno esitato a piegare a strumento di soddisfazione e godimento per le loro voglie sessuali». Si appartavano in luoghi isolati, sotto a un cavalcavia nei pressi del capolinea al porto mercantile o vicino a una delle portinerie dell’Ilva, chiudevano le porte del mezzo e approfittavano della «estrema vulnerabilità rispetto alle pretese altrui» costringendo la ragazzina a subire atti sessuali bloccata tra i sedili centrali dei bus. Uno degli autisti è anche accusato di aver violentato la ragazza sul sedile posteriore della propria auto, dopo averle dato un passaggio verso casa, per poi raccomandarsi di non dire niente a nessuno di quanto accaduto. Un altro si sarebbe fermato al solo tentativo. Dopo aver chiuso le porte avrebbe chiesto alla ragazza una prestazione sessuale ma vedendo che lei si opponeva l’avrebbe liberata desistendo. Ai carabinieri la ragazza ha raccontato che ogni giorno si spostava in bus da casa dei nonni, in provincia, per andare a trovare la mamma che abita in città. Ma dalle carte dell’inchiesta è emerso di più. La ragazza aveva una vera e propria passione per la mobilità sui mezzi pubblici. Trascorreva ore semplicemente a «farsi un giro» sui bus, percorrendo intere tratte, e aveva instaurato un rapporto di confidenza con alcuni autisti. Per fare chiarezza, gli investigatori hanno intercettato tutti i telefoni. È emerso che molti di loro si scambiavano telefonate e messaggi, anche foto piccanti con la ragazza. Alcuni erano suoi amici su Facebook. Nelle telefonate intercettate uno piange, un altro si dice sereno perché eventuali video vecchi sono stati cancellati. Un altro ancora ammette di aver scambiato sms piccanti e uno invece dice chiaramente di sapere che tre colleghi hanno abusato della ragazza. E proprio dalle intercettazioni telefoniche degli indagati, oltre che dalle relazioni delle psicologhe che l’hanno ascoltata, secondo il giudice, si evince che i racconti sono genuini, che la ragazza non è una mitomane e che la sua denuncia non è frutto di macchinazione calunniosa finalizzata a ottenere denaro. Emergono insomma «solidi riscontri» alle sue dichiarazioni. Che la disabile fosse destinataria dell’interesse sessuale di alcuni autisti Amat, secondo il giudice, è fatto notorio. La voce correva tra i dipendenti. Uno, non indagato, è intercettato mentre racconta: «Questa poi ti fa le carte, si mette avanti, ti guarda, ti da confidenza e poi dopo mezz’ora, venti minuti non di più, il tempo che ti fermi sotto il ponte e questa qua ti fa...».

IL COMMENTO DELL'AZIENDA  - «I fatti rappresentati lasciano sgomenti, aggravati dal fatto che sarebbero stati posti in essere durante il servizio pubblico, che, invece, è esercitato quotidianamente dai tanti dipendenti che assicurano il massimo impegno con serietà e senso del dovere»: così in una nota Kyma mobilità-Amat di Taranto, l’azienda partecipata per il trasporto urbano, in relazione all’indagine della magistratura a carico degli 8 autisti accusati di violenza sessuale. «L'azienda ha appreso dalla stampa le gravissime condotte che vedrebbero coinvolti alcuni autisti. Amat Spa prenderà tutti i provvedimenti necessari alla propria tutela, continuando ad assicurare il regolare prosieguo delle proprie attività».

ECCO GLI AUTISTI DELL’ AMAT TARANTO INDAGATI DALLA PROCURA PER GLI ABUSI SESSUALI SULLA RAGAZZA DISABILE. Antonello De Gennaro Il Corriere del Giorno il 30 Luglio 2021. E’ incredibile che questi dipendenti pubblici siano ancora al loro posto di lavoro e non siano stati sospesi disciplinarmente, nonostante le evidenze a loro carico, per i quali la Procura aveva richiesto l’arresto. Ma nelle società del Comune di Taranto dove lavorano anche pregiudicati mafiosi accade di tutto e di più…. Come vi avevano promesso, eccovi i nomi degli indagati, autisti dell’azienda municipale di trasporto pubblico, controllata al 100% dal Comune di Taranto accusati di violenze ed abusi sessuali nei confronti di una ragazza disabile psichicamente, coinvolti nell’inchiesta condotta dal pubblico ministero dr. Marzia Castiglia della procura di Taranto. Una vicenda squallida, come squallido è stato il commento del sindaco di Taranto Rinaldo Melucci “Non faremo sconti di nessun genere, di fronte all’acclarata responsabilità degli indagati: chiederemo le sanzioni più aspre, fino al licenziamento, ci costituiremo parte civile insieme con Kyma Mobilità, che è parte offesa, rivendicheremo il ristoro del danno d’immagine subito dalla società, da tutti i suoi lavoratori, da una città intera. Siamo di fronte a una vicenda dolorosa che merita tutta la nostra attenzione, ma che non può infangare la dignità di una comunità composta da persone per bene, laboriose e rispettose dei diritti. Per questo condanniamo con altrettanta forza chiunque ne stia approfittando per insopportabili speculazioni.“. Ci chiediamo come mai il presidente dell’AMAT Taranto spa, avv. Giorgia Gira (decaduta proprio in questi giorni) i cui autobus comunali girano in città con la livrea Kyma Mobilità), l’assessore alle partecipate Paolo Castronovi , non abbia fatto alcuna dichiarazione e manifestato concretamente, cioè umanamente, alcuna scusa alla povera ragazza vittima degli abusi sessuali. E’ incredibile, vergognoso che questi dipendenti pubblici dopo quello che hanno fatto siano ancora al loro posto di lavoro e non siano stati sospesi disciplinarmente, nonostante le evidenze a loro carico, per i quali la Procura di Taranto aveva richiesto l’arresto. O forse bisogna aspettare una sentenza di Cassazione? Ma onestamente il comportamento di Melucci e della Gira non ci sorprendono. Loro pensano solo alle clientele elettorali, al voto di scambio, agli affarucci dei loro amici ed amiche del cuore, sodali, parenti. Probabilmente non hanno mai letto sul dizionario della lingua italiano il significato delle parole “etica” e “legalità”. Sarebbe interessante sapere dal primo cittadino a chi si rivolge quanto afferma: “Per questo condanniamo con altrettanta forza chiunque ne stia approfittando per insopportabili speculazioni.” E chi sarebbero gli speculatori? La ventunenne ragazza denunciante? Il pm dr.ssa Castiglia? I giornalisti del CORRIERE DEL GIORNO che fanno il loro lavoro senza incassare un solo centesimo di euro dalle casse del Comune di Taranto che foraggia, mantiene e  controlla il 99% della stampa locale? Il sindaco pro-tempore Melucci faccia i nomi, abbia il coraggio delle proprie azioni invece di nascondersi dietro allusioni squallide esattamente quanto chi ne fa un abbondante uso! Prendere lezioni di moralismo da un sindaco pluri-indagato come Melucci, ci sembra un pò troppo. Ma in effetti è già troppo che sia riuscito a fare il sindaco sinora. Non a caso proprio oggi la maggioranza dei consiglieri di maggioranza della sua “Amministrazione” è svanita nel nulla facendo venire meno il numero legale in aula! Giusto per rinfrescare la memoria dello smemorato di Crispiano (alias Rinaldo Melucci) ecco “IL COMMENTO DELL’AZIENDA” (cioè AMAT spa- Kyma Mobilità): “I fatti rappresentati lasciano sgomenti, aggravati dal fatto che sarebbero stati posti in essere durante il servizio pubblico, che, invece, è esercitato quotidianamente dai tanti dipendenti che assicurano il massimo impegno con serietà e senso del dovere“: così in una nota Kyma mobilità-Amat di Taranto, l’azienda partecipata per il trasporto urbano, in relazione all’indagine della magistratura a carico degli 8 autisti accusati di violenza sessuale. “L’azienda ha appreso dalla stampa le gravissime condotte che vedrebbero coinvolti alcuni autisti. Amat Spa prenderà tutti i provvedimenti necessari alla propria tutela, continuando ad assicurare il regolare prosieguo delle proprie attività”.

fonte: La Gazzetta del Mezzogiorno 

Non una sola parola di solidarietà del COMUNE DI TARANTO e dell’AMAT spa alla povera ragazza disabile vittima degli abusi sessuali subiti. Ribadiamo il nostro commento al sindaco Melucci e l’avv. Gira: “VERGOGNATEVI”!

Da ansa.it il 21 luglio 2021. Con l'accusa, tra l'altro, di duplice tentato omicidio, un 37enne tarantino con piccoli precedenti è stato sottoposto a fermo dalla Polizia per la sparatoria avvenuta la scorsa notte durante una festa universitaria nel discopub Yachting club di San Vito, a Taranto, in cui sono rimaste ferite dieci persone tra i 19 e i 28 anni. Nel locale c'erano circa 300 persone. Quanto al motivo che ha scatenato la rissa culminata nella sparatoria, gli inquirenti stanno vagliando diverse ipotesi: dai futili motivi a contrasti legati allo spaccio di droga. Il 37enne fermato, del rione Tamburi di Taranto, avrebbe avuto una discussione con un pregiudicato 28enne di Grottaglie e poi avrebbe esploso i colpi di pistola calibro 9 ferendolo agli arti inferiori. Il 28enne al momento è ricoverato in prognosi riservata nel reparto di Chirurgia vascolare a Taranto. Durante la sparatoria, avvenuta nell'area all'aperto del discopub tra i più gettonati della movida, si è scatenato il panico e altri giovani sarebbero rimasti schiacciati nella ressa. Altri sono stati feriti dai proiettili. Al momento, otto dei dieci feriti sono stati dimessi. Restano in ospedale il 28enne di Grottaglie e un altro ragazzo ricoverato nel reparto di Ortopedia. 

Carlo Vulpio per il “Corriere della Sera” il 22 luglio 2021. I colpi di pistola veri non sono come quelli che si sentono nei film. Sembrano piuttosto scoppi di petardi. «Poi ho visto quel ragazzo con la gamba insanguinata e ho capito che gli avevano sparato», dice Francesca V., 22 anni, studentessa in Giurisprudenza alla Cattolica di Milano. E la sua amica, Francesca A., 23 anni, stessa facoltà, sempre a Milano, ma alla Bocconi, aggiunge: «Anche io ho pensato a dei petardi, ma la scansione dei colpi, così ritmica, mi ha fatto subito capire che si trattava di colpi di pistola». Le due ragazze si son sentite male, ma l'istinto le ha aiutate a non svenire e a scappare, come ha fatto Andrea B., da poco laureatosi a Bari, anch' egli tarantino come le due ragazze. Tutti e tre, dopo la sparatoria avvenuta intorno all'1,30 dell'altra notte nel tranquillissimo e accoglientissimo Yachting Club della frazione di San Vito, non sono riusciti a dormire. Tutti e tre hanno chiesto la stessa cosa: niente cognomi, non vogliamo esporci a ritorsioni. Hanno ragione, perché la sparatoria non è scaturita da un diverbio o dallo stato di ubriachezza di alcuni, ma era stata in qualche modo messa in conto dal «pistolero», Umberto Sardiello, 37 anni, pregiudicato, due figli, che è entrato allo Yachting con il preciso scopo di regolare dei conti con delle persone che sapeva di poter trovare lì, in quella festa di universitari a cui stavano partecipando 300 persone. Sardiello, figlio perduto dello sventurato quartiere Tamburi - chiamato il quartiere dei «morti che camminano» perché da sempre respira ogni emissione venefica dell'ex Ilva - non c'entrava nulla con la festa dello Yachting, ma ci è andato armato, dopo la mezzanotte, perché sapeva che lì avrebbe incontrato quelli che stava cercando. I suoi «rivali» erano alcuni ragazzi di Grottaglie - paesone a mezz'ora di auto da Taranto -, che ha subito affrontato a muso a duro. Sardiello è grande grosso, lo descrivono alto più di 1 metro e 90, e secondo le testimonianze e le immagini delle 30 telecamere che sorvegliano l'area quasi tutta all'aperto dello Yachting, ha cominciato a menare le mani e ne ha stesi un paio. Poi, qualcuno gli ha spaccato una bottiglia in fronte e allora lui ha tirato fuori la pistola. Prima ha sparato a uno dei grottagliesi, un ragazzo di 28 anni che ora rischia l'amputazione della gamba, e poi, barcollando, ha continuato a sparare alla cieca, quasi ad altezza d'uomo, ferendo altri 9 giovani. È scappato, è tornato a casa e ha nascosto i jeans e la maglietta che indossava in lavatrice. I poliziotti della Squadra mobile non ci hanno messo molto a ritrovare gli indumenti e la pistola e, con l'ausilio dei rilievi dei colleghi della Scientifica, ad arrestare Sardiello, accusato di duplice tentato omicidio, spari in luogo pubblico, detenzione illegale di arma da fuoco, lesioni gravi. «Sono 50 anni che esiste lo Yachting Club e una cosa simile non è mai accaduta», dicono Gianluca Piotti e sua moglie Daniela Musolino. Ex ingegnere della Ibm lui e architetto lei, in questo angolo di costa meraviglioso sul Mar Grande - una Taranto senza i problemi di Taranto - hanno inaugurato una nuova vita. Qui ci vengono tutti, famiglie con bambini, ragazzi, anziani, e tanti studenti, per lo più fuori sede, che hanno nello Yachting il punto di riferimento di ogni estate. Qui, tra una festa e un ballo sulla spiaggia si presentano persino libri, nell'«Angolo della conversazione» che Matteo Dusconi organizza da trent' anni. Permessi, autorizzazioni, adempimenti burocratici, tutto in regola. E nemmeno un mezzo abuso edilizio. Nulla dello stereotipo del Sud violento e malavitoso. «Per questo mi viene da piangere a ripensare a ciò che è successo l'altra notte», dice Francesca A., mentre Francesca V. forse già piange, ma nasconde gli occhi dietro le lenti da sole.

Sparatoria pub Taranto: violate norme anti-Covid, chiuso bar. Fermo attività 5 giorni. Sanzionato anche titolare discoteca. La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Luglio 2021. Nelle indagini sulla sparatoria con dieci giovani feriti la notte tra mercoledì e giovedì nello Yacthing club di San Vito a Taranto, dove era in corso anche una festa universitaria, la Polizia amministrativa della Questura ha disposto sanzioni per violazione delle norme anti-Covid, nei confronti dei titolari sia del discopub che del bar annesso allo stabilimento balneare. La struttura, tra le più frequentate della movida tarantina, ospitava circa 300 persone. Dalle immagini della videosorveglianza è emersa la presenza, nell’area bar del lido, di circa 200 avventori privi di mascherina e ad una distanza interpersonale inferiore a quanto stabilito dalle norme anti-Covid. Oltre alla sanzione di 400 euro, è stata disposta la chiusura per 5 giorni dell’attività del bar. Al titolare della discoteca è stato contestato l’illecito amministrativo per non aver sospeso l’attività da ballo con numerosi avventori senza mascherina sulla «pista da discoteca - spiega una nota della Questura - La circostanza che si trattasse di una serata danzante con la presenza di consolle e disc jockey è stata confermata da alcuni avventori». In seguito al fermo appena qualche ora dopo la sparatoria del 37enne tarantino Umberto Sardiello, con piccoli precedenti, le indagini proseguono per accertare il movente. Il 37enne ha sparato contro due pregiudicati di Grottaglie con i quali aveva avuto un diverbio e contro alcuni avventori mentre fuggiva, per farsi spazio e guadagnare l’uscita. Un 28enne di Grottaglie, tra i principali obiettivi, è stato colpito alle gambe ed è in prognosi riservata nel reparto di Chirurgia vascolare, altri due feriti sono ricoverati nel reparto di Ortopedia. Sette i giovani dimessi dall’ospedale con prognosi tra i 15 ai 30 giorni. 

SPARATORIA IN UN CLUB A TARANTO. FERITE 10 PERSONE. ARRESTATO IL RESPONSABILE DALLA POLIZIA. Il Corriere del Giorno il 21 Luglio 2021. Gli investigatori della Squadra Mobile guidati dal Vice Questore dr. Fulvio Manco intervenuti sul posto dopo aver visionato del circuito delle telecamere di sorveglianza installate nel club, sono riusciti ad identificare l’autore della folle sparatoria che poteva concludersi in una vera e propria strage, e lo hanno arrestato in mattinata. Ieri sera in un noto club sulla litoranea tarantina alle porte di Taranto, dove erano presenti circa 300 persone nella serata organizzata da alcuni studenti universitari un pregiudicato 37enne Umberto Sabiello di Taranto, con precedenti penali per droga e reati contro il patrimonio, il quale sparando all’impazzata ha scaricato un intero caricatore di una pistola calibro 9, a causa di un diverbio con altri due pregiudicati, Claudio Cavallo e Pietro Vestita entrambi di Grottaglie. Durante il litigio, Sabiello colpito da un pugno è finito a terra ed è stato allora che ha estratto una pistola detenuta illegalmente, esplodendo tutti i colpi del caricatore, uno dei due pregiudicati grottagliesi, ed altre nove persone estranee ai fatti. Nel club poteva accadere una strage, poichè l’uomo finito a terra ha sparato all’impazzata. Le altre incolpevoli persone ferite dai colpi di pistola vaganti, quattro ragazze e sei ragazzi tra i 18 e i 28 anni sono state soccorse dalle ambulanze accorse sul posto insieme alle pattuglie della Squadra Mobile e della Squadra Volante della Questura di Taranto. Due ragazze ferite sono state trasportate nell’ospedale Moscati di Taranto Nord, ricoverate nei reparti di ortopedia e chirurgia vascolare, mentre una ragazza di Grottaglie, di 28 anni, è rimasta ferita ad una gamba (soccorsa sul posto da un medico presente che ha bloccato l’emorragia di sangue) si trova attualmente è in prognosi riservata. Sette delle persone ferite sono stati dimesse con delle prognosi fra i 15 ed i 30 giorni. Gli investigatori della Squadra Mobile guidati dal Vice Questore dr. Fulvio Manco intervenuti sul posto dopo aver visionato del circuito delle telecamere di sorveglianza installate nel club, sono riusciti ad identificare l’autore della folle sparatoria che poteva concludersi in una vera e propria strage, e lo hanno arrestato in mattinata. “Abbiamo oltre 30 telecamere di sorveglianza installate – ha spiegato il comproprietario della struttura turistica Gianluca Piotti – noi con la sicurezza non scherziamo ma ieri sera l’ingresso al nostro lounge bar estivo era libero e può capitare purtroppo, che insieme a tante persone per bene, possa entrare passando inosservata anche gente poco raccomandabile”. Gli investigatori della Polizia hanno scandagliato tutte le immagini esterne ed interne al club filmate dalle telecamere di sorveglianza, ed è stato proprio grazie ad una telecamera hanno potuto scovare e immagini, tutta la sparatoria e consentito di arrivare al nome dell’autore, già noto a causa dei suoi precedenti penali (reati contro la persona). Questa mattinata sono andati a cercarlo presso la sua abitazione, nel quartiere Tamburi, dove in un primo momento non lo hanno trovato, ma successivamente è stato rintracciato e sottoposto a fermo. Sono state effettuate anche delle perquisizioni presso le abitazioni dei genitori e della compagna del Sabiello. Ed è stato proprio a causa della donna, che i poliziotti hanno trovato la maglietta di colore verde, i jeans e le scarpe da uomo perfettamente corrispondenti a quelli indossati dal Sabiello al momento della sparatoria.

Adesso Sabiello è accusato di duplice tentato omicidio, lesioni gravi, detenzione e porto illegale di arma da sparo, spari in luogo pubblico, reati contestati dal procuratore aggiunto f.f. Maurizio Carbone e dal pm di turno Enrico Bruschi della Procura di Taranto.

La “strana” asta per la masseria di Pulsano svenduta al senatore 5Stelle. Al di là di tutto, che non è poco, nessuno tanto più un senatore, del M5S, per aggiunta, non avrebbe dovuto mai partecipare all'asta contro una famiglia di Taranto dove è stato eletto. La Voce di Manduria sabato 04 maggio 2019. Al di là di tutto, che non è poco, nessuno tanto più un senatore, del M5S, per aggiunta, non avrebbe dovuto mai partecipare all'asta contro una famiglia di Taranto dove è stato eletto (che l'ha anche votato) a cui la banca ha pignorato la masseria e che ha trovato la forza per ricomperarla. O no?

(Sandra Amurri, autrice dell'articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano)

“Non ho più niente, mi hanno portato via la mia masseria, la mia vita. Mi incatenerò davanti al ministero della Giustizia, non ho più nulla da perdere”. Piange come un bambino, Enzo Papa, 52 anni, nel vedere i sigilli alla Masseria Galeota, che era anche la casa dove abitava con la compagna e la figlia di 16 anni, costruita con il sudore della fronte. Siamo a Leporano, sulla litoranea salentina, a 8 chilometri da Taranto, ai piedi del Parco archeologico di Saturo, tra costoni rocciosi, insediamenti in grotta, sorgenti d’acqua e natura rigogliosa. Enzo Papa, nel 2002, acquista per 300 mila euro, grazie anche alla buonuscita del padre, quello che era un rudere. Chiede un mutuo di 200 mila euro, erogato da Banca della Nuova Terra, per trasformarlo in una masseria B&B, oleificio, ristorante: costo della ristrutturazione 850 mila euro. L’attività va molto bene, fino a che, per la crisi economica, sommata alla tragedia dell’Ilva con le foto dei camini che spruzzano veleno e fanno il giro del mondo, i turisti iniziano a scarseggiare ed Enzo non ce la fa più a pagare le rate del mutuo. La banca, nel 2012, pignora la masseria: viene messa all’asta. La masseria viene valutata circa un milione di euro. Le prime tre aste vanno deserte, altre annullate per ricorsi vari, fino a quando il prezzo del bene arriva a scendere a 375 mila euro. Nel frattempo, Enzo, per poter continuare a lavorare, chiede – e ottiene dal giudice dell’esecuzione – l’affitto della masseria, per sette mesi versa 12.500 euro. Il 17 gennaio scorso decide di partecipare, con la società Kanapa srl, all’asta telematica per tentare di “ricomprare” la masseria: versa una “caparra” di 75mila euro (pari al 20% del prezzo minimo d’acquisto), come da procedura, depositando l’offerta al ministero della Giustizia che la invia, per prassi, al sito che gestisce le aste telematiche. Dal ministero, via Pec, arriva la ricevuta della registrazione dell’offerta. Ma quando Tonia Macripò, delegata alla vendita dal Giudice di Taranto, Andrea Paiano, apre l’asta, sul portale risulta una sola offerta: quella di Mario Turco, senatore del M5S, anche se i bonifici sono due (uno di Turco e uno di Kanapa). Dell’offerta di Kanapa non si ha traccia. Il sito “Aste telematiche” invia al delegato una comunicazione via email: l’offerta di Kanapa srl non era stata inviata dal ministero al portale delle aste, perché era stato rinominato il file generato all’atto della registrazione. Il delegato dal Giudice aggiudica quindi la masseria al prezzo d’asta di 375 mila euro a Mario Turco, senza mettere a verbale l’esistenza di un secondo bonifico, quello di Kanapa srl. Il legale di Kanapa srl, Stefania Maselli, deposita istanza di revoca al Tribunale di Taranto, chiedendo di invalidare l’aggiudicazione della masseria e di indire l’asta, in quanto non vi era stata alcuna competizione con i conseguenti rialzi, perché i partecipanti, visti i bonifici, dovevano essere necessariamente due, e dimostrando di non aver violato la legge nell’aver rinominato il file. Ma il senatore Turco si oppone all’istanza di revoca presentata da Kanapa. Il giudice Paiano rigetta l’istanza, motivandola con la presunzione che il bene non è detto sarebbe stato aggiudicato a un prezzo più alto, anche se si fosse svolta l’asta. Kanapa srl deposita, attraverso il suo legale, un reclamo formale al Tribunale di Taranto: l’udienza è fissata per il 26 giugno prossimo. Nonostante le diverse opposizioni pendenti con istanza di sospensiva, il 3 aprile scorso, il giudice Paiano, firma il decreto di trasferimento in favore del senatore Turco, e il 29 aprile, senza alcuna notifica al signor Papa, immette il bene nel possesso di Mario Turco. Lo stesso giorno, alla masseria Galeota arrivano due carabinieri, il funzionario senza delega dell’Istituto vendite giudiziarie Paolo Annunziato, e Grazia Peluso, mamma del senatore Turco, con il legale del figlio. L’inventario dei beni presenti dura otto ore, con tanto di beneauguranti paste e cappuccino offerti dalla mamma del senatore. “Lavoro da molti anni anche per il Sunia, il sindacato degli inquilini, faccio tanti sfratti, ma non ho mai visto tanta disumanità. Anche il suo legale avrebbe chiesto all’onorevole Turco di concedere po’ di tempo in più, ma inutilmente”, racconta Alexia Serio, l’avvocato della famiglia Papa presente in loco. Cambiata la serratura, consegnate le chiavi a un incaricato del senatore Turco, al cancello della masseria Galeota sono stati affissi i sigilli: dentro, chiusi, sono rimasti tutti gli animali allevati dalla famiglia Papa. “Prego che il senatore si muova a pietà”, aggiunge Enzo Papa. “Non so dove andare a vivere. Fra un mese, entro il 28 maggio, verrà tutto distrutto… E nel vedere svanire i sacrifici di una vita, ho creduto di morire… La vigilanza privata che ha istituito il senatore mi ha anche vietato di entrare in casa per prendere un cambio di vestiti, e i libri di scuola di mia figlia. Ho scritto un mese fa ai membri della Commissione Giustizia del Senato, spiegando la mia storia, ma non ho ricevuto risposta”. Nemmeno dal senatore Arnaldo Lomuti (M5S), che il 17 novembre 2018 aveva presentato un’interrogazione in Parlamento proprio sulle aste definite “vili”, con riferimento al meccanismo “consolidato e finalizzato all’espropriare a soggetti falliti ed esecutati”: un meccanismo più volte denunciato, inutilmente. Sandra Amurri

SAIL GP A TARANTO. INDAGATO IL SINDACO DI TARANTO. Il Corriere del Giorno il 4 Luglio 2021. La notizia era stata diffusa ieri pomeriggio in una videodiretta dal nostro direttore Antonello de Gennaro, che di fatto ha costretto gli altri organi di informazione ad occuparsene, e come sempre nel proprio squallore deontologico-giornalistico i soliti pennivendoli e fotocopiatori non hanno citato la vera fonte. A Taranto i giornali, le televisioni locali falliscono proprio per questo tipo di non-giornalismo. La Procura di Taranto ha avviato una indagine sulla regata “Sail Gp” competizione velica tra 8 catamarani F50 (fra i quali nessun equipaggio italiano) , manifestazione costata oltre 3 milioni e mezzo di euro di denaro pubblico, a seguito di una serie di esposti e denunce presentate ancor prima che l’evento si svolgesse lo scorso 5 e 6 giugno nel rada del Mar Grande del capoluogo ionico. L’indagine contrariamente a quanto sostenuto dai soliti giornalisti poco competenti e disinformati in materia di procedura penale, che scrivono “non è stato notificato alcun atto a garanzia di persone già iscritte nel registro degli indagati” quando in realtà la procura ha già iscritto delle persone nel registro degli indagati a modello 21/n. (cioè noti). Le indagini nascono dalla denuncia presentata dal nostro direttore lo scorso 27 giugno 2020 (e quindi prima dello svolgimento della regata!) e dagli esposti di alcuni consiglieri comunali dell’opposizione, ed in realtà vede iscritti nel registro degli indagati (atto dovuto della Procura di Taranto) il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci, il segretario generale Eugenio De Carlo ed il dirigente Alessandro De Roma. La notizia era stata diffusa ieri pomeriggio in una videodiretta dal nostro direttore Antonello de Gennaro, che di fatto ha costretto gli altri organi di informazione ad occuparsene, e come sempre nel proprio squallore deontologico-giornalistico i soliti pennivendoli e fotocopiatori non hanno citato la vera fonte. A Taranto i giornali, le televisioni locali falliscono proprio per questo tipo di non-giornalismo. Il solito Melucci abituato a raccontare “balle” ai giornalisti, questa volta l’ha raccontata al collega Fabio Pozzo del quotidiano LA STAMPA: “Abbiamo una opzione per ospitare una seconda edizione del SailGp e la eserciteremo”.che la tappa di Taranto prevede una fee di 2,5 milioni di euro. “Ne abbiamo recuperato una parte con gli sponsor”. Peccato che in realtà il bando per la ricerca degli sponsor del Comune di Taranto, sia andato deserto! Incredibile ed a dir poco ridicolo quanto scritto dal corrispondente tarantino dell’Agenzia ANSA “le fonti inquirenti – interpellate dall’ANSA – mantengono il massimo riserbo e precisano che, al momento, non è stato notificato alcun atto a garanzia di persone già iscritte nel registro degli indagati”. Complimenti ….al decantato “riserbo della Procura” (che da quanto si legge avrebbe in realtà parlato con il giornalista e persino di domenica !) e sopratutto complimenti… a chi scrive senza sapere di cosa scrive. Anche se non è la prima volta per il giornalista. Così come non è la prima volta che il solito magistrato parla con i giornalisti amici di domenica. Resta da chiedersi se a Taranto in procura siano mai state lette le linee guida del CSM sui rapporti con l’informazione, ma probabilmente per qualcuno è più importante godere personalmente di buona stampa!

NUOVO RECORD… PER IL CARCERE DI TARANTO: DALL’ AFFOLLAMENTO AI CASI COVID. Il Corriere del Giorno il 17 Giugno 2021. In attuazione delle disposizioni del DAP, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero di Giustizia, e del Ministero della Salute, è stato disposto il divieto a nuovi ingressi in tutta la casa circondariale di Taranto, e quindi da due giorni, tutte le persone colpite da misure di detenzione in carcere disposte dalla Procura di Taranto vengono tradotte nei penitenziari carceri di Brindisi Lecce, e sino a nuove disposizioni. Il più vasto focolaio di contagi da coronavirus, registrato a Taranto in ambienti non ospedalieri da quando è iniziata la pandemia in Puglia, è esploso nella casa circondariale di Largo Magli. I detenuti risultati positivi al Covid19 sino a ieri erano 32 mentre altri 16 diretti che hanno condiviso le celle con i contagiati sono in attesa di effettuare il test con il tampone. La sezione carceraria più coinvolta è quella della massima sicurezza, che di conseguenza è stata completamente isolata. Sono numerosi i detenuti che presentano sintomi lievi, come disturbi alla gola e febbre e soltanto uno di loro avrebbe sviluppato già una polmonite bilaterale da infezione di Sars-Cov2 e necessiterebbe quindi di essere ricoverato. Per fortuna, è il caso di dire, attualmente non vi sono ulteriori contagi tra gli agenti di polizia penitenziaria ed il personale amministrativo. Dalla direzione del carcere non viene comunicato nulla ma si è riusciti a sapere che tutti i positivi sono stati sottoposti alla vaccinazione con una sola dose, molti altri invece non hanno avuto neanche una dose. Una situazione imbarazzante che coinvolge anche l’ASL Taranto dalla quale dipende l’assistenza medica carceraria, affidata sinora alla dottoressa Fernanda Gentile che ieri ha rassegnato le dimissioni dalla direzione medica della struttura. Il personale del Dipartimento di prevenzione dell’ASL Taranto diretto dal dr. Michele Conversano ha preso in carico la complicata ed altrettanto imbarazzante criticità. In attuazione delle disposizioni del DAP, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero di Giustizia, e del Ministero della Salute, è stato disposto il divieto a nuovi ingressi in tutta la casa circondariale di Taranto, e quindi da due giorni, tutte le persone colpite da misure di detenzione in carcere disposte dalla Procura di Taranto vengono tradotte nei penitenziari carceri di Brindisi Lecce, e sino a nuove disposizioni. Nel carcere di Taranto sono stati sospesi anche i colloqui visivi con i detenuti che potranno collegarsi con i familiari esclusivamente per via telematica. Come ben noto e più volte contestato dai sindacati della polizia penitenziaria nella casa circondariale “Carmelo Magli” di Taranto, attualmente i detenuti sono 689 a fronte di una capienza prevista di 304, ai quali vanno aggiunti 310 agenti di polizia penitenziaria e 33 unità di personale tra amministrativi ed educatori, oltre naturalmente alla direttrice Stefania Baldassari che invece di pensare a proteggere al massino la struttura carceraria dalla propagazione del virus, era più impegnata a firmare accordi con il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci. Non capita infatti tutti i giorni di vedere una ex-candidata sindaca, eletta tra i consiglieri di opposizione (???) sottoscrivere accordi con il sindaco, nella sua duplice funzione di direttore del carcere. Nel frattempo il Tribunale di Taranto deve fissare udienza dinnanzi al Gip per un procedimento penale a carico della Baldassari per un caso di mobbying nei confronti di una funzionaria del Ministero di Giustizia in servizio presso il carcere di Taranto, per il quale era stata formulata richiesta di archiviazione, che è stata opposta e quindi passerà ora al vaglio di Gip.

Puglia, promise assunzioni in cambio di voti: condannato a 9 mesi il consigliere Mazzarano (Pd). La sentenza del giudice monocratico del Tribunale di Taranto Paola D’Amico. La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Maggio 2021. Il giudice monocratico del Tribunale di Taranto Paola D’Amico ha condannato a 9 mesi di reclusione il consigliere regionale pugliese del Pd ed ex assessore allo Sviluppo economico Michele Mazzarano, accusato di corruzione elettorale per una vicenda portata alla luce qualche anno fa da Striscia la notizia. La stessa condanna è stata inflitta ad Emilio Pastore, l’uomo che denunciò alla trasmissione televisiva il presunto scambio di favori durante la campagna elettorale del 2015. Proprio le dichiarazioni rilasciate da Pastore al Tg satirico provocarono le dimissioni di Mazzarano dalla carica di assessore. Secondo la tesi del procuratore facente funzioni Maurizio Carbone, l’esponente del Pd, candidato alle elezioni regionali del 2015, avrebbe promesso a Emilio Pastore l’assunzione di due figli in una ditta privata in cambio di voti. L’uomo avrebbe concesso a Mazzarano anche un locale di sua proprietà, a titolo gratuito, allestito come comitato elettorale. Stando all’ipotesi investigativa, Mazzarano avrebbe poi effettivamente favorito l'assunzione di uno dei due figli di Pastore presso la ditta Ecologica spa. Il consigliere del Partito Democratico, difeso dagli avvocati Fausto Soggia e Marco Pomes, ha sempre respinto gli addebiti. 

CONDANNATO MICHELE MAZZARANO CONSIGLIERE REGIONALE DEL PD PER “VOTO DI SCAMBIO”. Il Corriere del Giorno il 27 Maggio 2021. Una vicenda venuta a galla grazie ai servizi di Striscia la Notizia e del CORRIERE DEL GIORNO, che hanno rivelato tutti i retroscena e le menzogne di Mazzarano. Nel marzo 2018 Pastore aveva consegnato all’inviato Pinuccio del noto programma “Striscia la Notizia”, il telegionale satirico di Antonio Ricci, tutti gli audio delle registrazioni che aveva registrato durante gli incontri con Mazzarano. Con una pesante condanna a 9 mesi ma sopratutto a 5 anni di sospensione dal diritto elettorale e da tutti i pubblici uffici, con la sospensione della pena, il giudice monocratico Paola D’amico ha emesso ieri la sentenza nei confronti di Michele Mazzarano, attuale consigliere regionale del Pd ed ex assessore regionale, imputato di aver promesso lavoro in cambio di voti e sostegno durante la campagna elettorale per le regionali 2015. L’accusa rappresentata dal procuratore aggiunto facente funzione Maurizio Carbone, aveva chiesto 1 anno di reclusione. L’avvocato Fausto Soggia, difensore di Mazzarano insieme all’avvocato Marco Pomes, avevano optato per il rito abbreviato così dimezzando ad un terzo la pena per il proprio assistito, celebrando il processo a porte chiuse, come previsto dal codice penale, ha annunciato il proprio ricorso in appello. Analoga pena è stata inoltre applicata all’imprenditore tarantino Emilio Pastore, la persona che aveva offerto il suo sostegno anche economico a Mazzarano per la sua campagna elettorale in cambio della promessa di un posto lavoro per i suoi due figli presso la ditta Ecologica spa. Una vicenda venuta a galla grazie ai servizi di Striscia la Notizia e del CORRIERE DEL GIORNO, che hanno rivelato tutti i retroscena e le menzogne di Mazzarano. Nel marzo 2018 Pastore aveva consegnato all’inviato Pinuccio del noto programma “Striscia la Notizia“, il telegiornale satirico di Antonio Ricci, tutti gli audio delle registrazioni mandate in onda, nelle quali Mazzarano millantando un proprio potere decisionale cercava di calmare l’uomo che rinfacciandogli i 16mila spesi per l’affitto del locale in cui Mazzarano insediò il proprio comitato elettorale, pretendendo un posto di lavoro a tempo indeterminato per i figli. Dagli atti della Procura risulta infatti che Mazzarano “quale candidato alle elezioni amministrative regionali svoltesi nel 2015, prometteva a Pastore Emilio l’assunzione dei due figli” ed otteneva in cambio l’impegno di Pastore “a dargli il proprio voto e quello dei suoi familiari nonché di procuragli il voto di altri elettori anche attraverso l’utilizzo a titolo gratuito di un locale che lo stesso Pastore allestiva come comitato elettorale del Mazzarano”. Leggasi voto di scambio. Mazzarano, provò a difendersi davanti ai microfoni di “Striscia la Notizia”, sostenendo addirittura che nella porta accanto c’erano i Carabinieri, circostanza falsa e contraria al vero che venne immediatamente smentita dal generale Gianni Cataldo, all’epoca dei fatti comandante regionale in Puglia dell’Arma dei Carabinieri. L’esponente politico del PD giorno a seguito dei vari servizi televisivi e giornalistici rassegnò le proprie dimissioni dall’incarico di assessore regionale allo sviluppo economico della Regione Puglia. Le promesse di Mazzarano a Pastore, sulla base di quanto quest’ultimo ha rivelato a Striscia la Notizia, vennero mantenute solo per uno dei due figli che venne assunto da una società che effettua lavori di pulizia industriale all’interno dello stabilimento siderurgico ex-Ilva. Per la procura di Taranto quell’assunzione del figlio di Pastore era stata ottenuta grazie all’interessamento di Mazzarano. La mancata assunzione dell’altro dei due figli, le promesse non mantenute dal consigliere regionale, che sta rischiando anche di perdere l’attuale seggio in consiglio regionale (il TAR Puglia, sezione di Bari, si pronuncerà nel prossimo mese di luglio n.d.r.) indusse Pastore a rendere pubblica tutta la squallida vicenda fornendo anche l’audio delle conversazioni che aveva registrato durante gli incontri con Mazzarano a Striscia la Notizia.

Ingiusta detenzione, risarcimento per l’ex senatore Rocco Loreto. Per i giudici della Corte d’Appello di Potenza l’ex sindaco di Castellaneta, in provincia di Taranto, fu anche vittima della gogna mediatica: rimase imbrigliato nelle maglie della giustizia per 16 anni. Simona Musco su Il Dubbio il 27 maggio 2021. Quella di Rocco Loreto, tre volte senatore con Pci-Pds-Ds, tre volte sindaco del suo paese, Castellaneta, in provincia di Taranto, fu un’ingiusta detenzione. A stabilirlo è la Corte d’Appello di Potenza, che lo scorso 20 maggio ha condannato lo Stato a versare a titolo di equa riparazione per la custodia cautelare subita la somma di 17.250 euro. Loreto il 4 giugno del 2001 venne arrestato con l’accusa di calunnia e di violenza privata, passando quattro giorni in carcere e 11 ai domiciliari, nonché 16 anni tra le maglie della giustizia, fino al 26 maggio 2017, quando è stato assolto con formula piena. A denunciarlo un magistrato, Matteo Di Giorgio, espulso dalla magistratura nel 2018 dopo la condanna a 8 anni per corruzione, con l’accusa di aver abusato della toga per interferire nella vita politica di Castellaneta, proprio per i fatti relativi alla caduta della giunta Loreto. Nella sentenza, i giudici valorizzano non solo l’ingiusta custodia cautelare subita dall’ex politico, ma anche il clamore mediatico da essa suscitata, riferendo l’indennizzo «globalmente alle pregiudizievoli conseguenze personali e familiari e, in particolare, al pregiudizio psicologico e relazionale derivante dallo stato di detenzione». «Durante la campagna elettorale del 2000 fui sottoposto ad un assalto da parte degli uffici della Procura di Taranto – racconta al Dubbio subito dopo l’assoluzione -. Di Giorgio spediva la macchina della Digos a sequestrare tonnellate di documenti comunali, in una sorta di pesca a strascico, fino a tre volte al giorno. Nonostante queste condizioni presi una valanga di voti», spiega. Loreto non si limita a vincere: da senatore, responsabile delle politiche di sicurezza e difesa del Paese in seno alla Commissione difesa, avvia un’azione di sindacato ispettivo parlamentare, per comprendere l’operato del magistrato, «che continuava a bersagliare l’amministrazione in modo assurdo». Le indagini di Di Giorgio sulla sua amministrazione portano infatti ad una valanga di contestazioni: 84 capi d’accusa in un solo procedimento, «quasi tutti sciolti come neve al sole in udienza preliminare», spiega l’ex senatore. «Nel 2001 fui candidato in deroga per la quarta volta. Una campagna elettorale in salita, che portavo avanti preceduto dalla triste fama che sarei stato presto arrestato, da chi e quando». E il 4 giugno 2001, poco dopo aver perso il diritto all’immunità, viene svegliato all’alba dai carabinieri di Potenza, che lo arrestano su richiesta del pm Henry John Woodcock, mentre i fotografi sono appostati sul palazzo di fronte. Loreto passa quattro giorni in carcere a Potenza, giorni di sciopero della fame e della sete. Poi, dopo, l’interrogatorio di garanzia, finisce ai domiciliari. Undici giorni dopo il Riesame riconosce l’assoluta carenza di indizi di colpevolezza. Il processo inizia nel 2008 e registra il cambio di diversi giudici, ma Loreto rinuncia alla rinnovazione del processo e ai suoi testi pur di far presto. Nel frattempo, Di Giorgio viene arrestato: è l’11 novembre 2010, il pm viene accusato di concussione nei confronti di un consigliere comunale di maggioranza eletto a sostegno di Loreto nel 2000, costretto a dimettersi portando così il sindaco alla caduta definitiva. Perché? «Aveva aspirazioni politiche – spiega l’ex senatore – Nel 2008 si mise in aspettativa per candidarsi al Parlamento e nel 2009 per candidarsi alla provincia di Taranto. Io, con quei numeri, ero l’ostacolo sul suo cammino». Di Giorgio viene condannato prima a 15 anni, poi a 12 e mezzo in appello. L’8 agosto del 2017 la Cassazione lo ha condannato a 8 anni. Loreto, invece, viene assolto 16 anni dopo. Anni che, forse, si potevano evitare.

LE ASSEGNAZIONI “ALLEGRE” DEL COMUNE DI TARANTO, DOVE TUTTO E’ POSSIBILE…Il Corriere del Giorno. Come si fa ad affidare un chiosco di proprietà pubblica a Taranto ad una società che stranamente ha sede a Roma? Come si fa a rilasciare autorizzazione a svolgere attività commerciale ad una società che non ha alcun titolo (anche fiscale) a svolgerla, e soprattutto senza alcuna esperienza specifica nel settore? E che non ha mai presentato alcun bilancio? Continuano le assegnazioni “allegre del Comune di Taranto che non si possono non definire illegittime ed “allegre”. E ancora una volta protagonista è l’assessore Francesca Viggiano (PD) cioè la stessa che riempiva le pagine dei giornali annunciando a mari e monti l’assegnazione del Circolo Sportivo “Magna Grecia” alla solita combriccola di “prenditori” locali. Un’assegnazione che è stata ritirata successivamente in autotutela anche grazie ai nostri articoli di denuncia in cui rendevano pubblico il malaffare imperante negli uffici ed assessorati del Comune di Taranto. L’ultima in ordine di tempo è quella dell’affidamento del chiosco di piazza Pio XII, all’interno del giardino pubblico denominato “Pio Garden”. Si tratta di una procedura sulla quale la struttura complessa Patrimonio era al lavoro da tempo, per rispondere alle” indicazioni “del sindaco Rinaldo Melucci che aveva chiesto per quella zona il ripristino di decoro e funzionalità, a totale vantaggio delle numerose famiglie con bambini e animali domestici che vi abitano. In questo caso il vantaggio in realtà è solo per questo “furbetto”, sotto mentite spoglie di confratello della Parrocchia del Carmine? Il concessionario “A. D. Srls” si è impegnato, su indicazione dell’amministrazione, alla realizzazione di un’area di sgambettamento per cani, mentre è già in corso l’acquisto da parte dell’amministrazione di nuovi giochi totalmente inclusivi, che possano consentire a ogni bambino di divertirsi in totale sicurezza. “È un grande traguardo per il quartiere – il commento imbarazzante dell’assessore al patrimonio Francesca Viggiano –, quel giardino tornerà a essere un luogo di divertimento in sicurezza per bambini, famiglie e amici a quattro zampe. È un impegno che avevamo assunto con i cittadini e con il comitato spontaneo che si è formato per la realizzazione dell’area cani. Il nostro obiettivo è far diventare quel giardino un simbolo di sicurezza e decoro urbano, un luogo di divertimento per quanti vi abitano”. Perchè lo riteniamo imbarazzante? Molto semplice. Basta andare a fare una bella visura camerale della società aggiudicataria, la A.D. srls per rendersene conto. La società in questione è stata costituita presso il notaio Paola Troise del distretto di Taranto, nel lontano 4 dicembre 2017 con appena 1.000 euro di capitale sociale interamente detenuto dall’ amministratore unico, tale Vittorio Montervino residente a Taranto, il quale ha iniziato la propria attività d’impresa due anni dopo e cioè il 21 ottobre 2019. Ma le sorprese arrivano quando si va a leggere l’ “attività prevalente esercitata dall’ impresa” che l’assessore ed i suoi incapaci e “leggeri” dirigenti e funzionari non hanno letto (o hanno fatto finta di non leggere ?): “Formazione presso terzi in materia di pulizie in generale”, con classificazione ATECORI 2007 (presso Agenzia delle Entrate con Codice 85.59.2) che riporta testualmente “corsi di formazione e corsi di aggiornamento professionale. Importanza: prevalente svolta dall’impresa) “. Persino le attività supplementari indicano bel altra attività, e cioè Codice 81.21 “pulizia generale (non specializzata) di edifici” e dulcis in fundo…il Codice 93.29.3 “sale giochi e biliardi”. La società sempre per atto pubblico il 7 dicembre 2020 ha cancellato la propria iscrizione dal registro delle Imprese della Camera di Commercio di Taranto, iscrivendola e trasferendola a Roma. Una “moda” questa adottata a suo tempo anche dal sindaco Melucci e dal suo socio-assessore Occhinegro, quando costituirono la società Bottega Aurea sel con sede legale a Milano, salvo trasferirla dopo i nostri articoli a Taranto. Chiaramente dopo aver letto queste anomalie ed illegalità, abbiamo approfondito la vicenda, e scoperto attraverso la visura camerale che l’ultimo aggiornamento è del 02.04.2021. cioè di circa due mesi fa, e che dalla sua costituzione (2017) ed inizio attività (2019) alla data odierna non ha mai presentato alcun bilancio! Peraltro anche nell’avviso pubblico è riportato il divieto per le sale giochi. Cioè l'”attività secondaria” dichiarata nella visura camerale dell’aggiudicatario di questa gara “fasulla”. Inoltre nella determina di assegnazione provvisoria si parla di due offerte pervenute ma la seconda non viene stranamente nominata. Sarà falso anche questo dettaglio, considerato che per Legge vanno nominate tutte le offerte che pervengono? Legittimo farsi a questo punto più di qualche domanda: Come si fa ad affidare un chiosco di proprietà pubblica a Taranto ad una società che stranamente ha sede a Roma? Come si fa a rilasciare autorizzazione a svolgere attività commerciale ad una società che non ha alcun titolo (anche fiscale) a svolgerla, e soprattutto senza alcuna esperienza specifica nel settore? E che non ha mai presentato alcun bilancio? O forse alle porte della prossima campagna elettorale per il rinnovo del consiglio comunale di Taranto hanno aperto anche il via alle attività molto frequenti del “voto di scambio” che impera nella città nella più totale indifferenza della Prefettura e della Procura di Taranto?

BUON COMPLEANNO “PONTE GIREVOLE”. Il Corriere del Giorno il 22 Maggio 2021. Il progetto fu realizzato dalla Società Nazionale Officine di Savigliano, per tutto quello che riguardava gli organi meccanici ed i comandi elettrici. Il nuovo ponte costruito da un cantiere navale locale, i Cantieri Tosi specializzati nella costruzione di sommergibili venne inaugurato dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi il 10 marzo 1958, e venne intitolato a San Francesco di Paola, protettore delle genti di mare. Ne è passata di acqua sotto i ponti, ma nel suo caso in 134 anni sono passate anche tante navi della Marina Militare da sempre di casa nelle acque dei due mari di Taranto, la quale oggi mentre la città dimentica…con un post su Instagram ha voluto fare gli auguri di buon compleanno al Ponte San Francesco di Paola, meglio conosciuto come “Ponte Girevole” per la possibilità di aprirsi al passaggio delle navi, è la struttura che collega l’isola del Borgo Antico con la penisola del Borgo Nuovo del capoluogo jonico. Grazie al ponte girevole e all’Arsenale Militare della Marina, che venne finanziato grazie ai fondi previsti dalla “legge sugli Arsenali” del 1882 la città Taranto cambiò volto passò all’ economia industriale, con una notevole crescita demografica. Inaugurato il 22 maggio 1887 dall’ammiraglio Ferdinando Acton, il ponte sovrasta il canale navigabile che unisce il Mar Grande al Mar Piccolo. A causa della presenza del ponte, la larghezza nel tratto più stretto del canale è limitata a 58 metri. Realizzato dall’Impresa industriale italiana di costruzioni metalliche di Alfredo Cottrau a Castellammare di Stabia, su progetto dell’ingegner Giuseppe Messina che ne diresse i lavori di costruzione, era originariamente costituito da un grande arco a sesto ribassato in legno e metallo, diviso in due braccia che giravano indipendentemente l’una dall’altra attorno ad un perno verticale posto su uno spallone. Il funzionamento avveniva grazie a turbine idrauliche alimentate da un grande serbatoio posto sul Castello Aragonese adiacente, capace di 600 metri cubici di acqua che in caduta azionavano le due braccia del ponte. La struttura venne successivamente rimodernata negli anni 1957-1958, introducendo un funzionamento di tipo elettrico, ma mantenendo di fatto inalterati i principi ingegneristici della allora costituenda Direzione del genio militare per la Marina. Il progetto fu realizzato dalla Società Nazionale Officine di Savigliano, per tutto quello che riguardava gli organi meccanici ed i comandi elettrici. Il nuovo ponte costruito da un cantiere navale locale, i Cantieri Tosi specializzati nella costruzione di sommergibili venne inaugurato dal presidente della Repubblica Giovanni Gronchi il 10 marzo 1958, e venne intitolato a San Francesco di Paola, protettore delle genti di mare. Il ponte appare in alcuni film, il più antico dei quali è senz’altro “La nave bianca“, girato a Taranto nel 1941. Anche Gabriele d’Annunzio in un suo poema “Laudi del Cielo del Mare della Terra e degli Eroi” cita la struttura. Il ponte girevole è stata anche la destinazione di uno dei frequenti viaggi automobilistici del conte Oddino degli Oddi-Semproni e delle sue due zie, in “Sipario ducale” di Paolo Volponi, romanzo del 1975, ambientato nella Urbino del 1969. Nel 2018 sotto il Ponte Girevole sono state girate numerose scene della serie tv “Six Underground“ diretta da Michael Bay prodotta da Netflix . Nonostante il capoluogo jonico sia stato teatro di numerosi ciak, nella finzione risulteranno ambientati a Beirut. Quella che all’epoca fu considerata un’opera avveniristica, oggi è un pezzo di storia della città dei “due mari” e della Marina, che merita di essere preservato e celebrato. Anche se la politica locale è cieca ed indifferente, quel ponte fa parte della vera storia di Taranto. E lo sarà per sempre.

Taranto e le sue sirene, una leggenda romantica che si perde nel tempo. Il lungomare di Taranto si affaccia su quello conosciuto come il golfo delle sirene: ecco cosa si cela dietro la sua bellezza. Da siviaggia.it il 25 Aprile 2020 (Massimiliano Pedrini su it.worldorgs.com. Taranto è una città splendida e molto romantica: affacciata su due mari, offre un panorama fantastico ed è una delle località più ricche di storia e di tradizione dell’intera penisola salentina. Le sue origini risalgono molto indietro nel tempo, a quando venne considerata il polo strategico ed economico della Magna Grecia. E da luogo leggendario qual è, Taranto nasconde anche una storia dolceamara in una delle sue attrazioni più affascinanti, le sirene del suo lungomare. Sono molti i turisti che giungono per la prima volta a Taranto e, camminando sulla passeggiata che si affaccia sul suo golfo, rimangono ammaliati dalle splendide statue di sirene che spuntano qua e là, appoggiate agli scogli. Le sculture, ad opera dell’artista contemporaneo Francesco Trani, sono state realizzate in cemento marino affinché possano resistere all’azione erosiva del mare. Ce ne sono diverse, che spuntano dalle acque del mar Ionio e arricchiscono il già splendido panorama del lungomare di Taranto. Una volta che avrete sentito la loro storia, ne rimarrete completamente conquistati. Si narra che, ai tempi in cui Taranto era la capitale della Magna Grecia, le sirene furono affascinate dalla città e decisero di costruire il loro castello fatato tra le acque che la lambivano. In paese viveva una splendida coppia: lei una ragazza dalla bellezza incredibile, lui un pescatore spesso lontano da casa. A causa della sua assenza, la sua giovane sposa si trovò a cedere all’estenuante corte di un ricco signore locale. In preda al rimorso, confessò tutto al marito, il quale la portò con sé in barca e la spinse in acqua. Le sirene la salvarono e, rimaste incantate dal suo splendore, la incoronarono regina e le diedero il nome di Skuma (Schiuma). Tempo dopo il pescatore, pentito del suo gesto, tornò in barca nel punto in cui credeva che sua moglie fosse annegata e si mise a piangere. Le sirene lo rapirono e lo condussero davanti alla loro regina, che naturalmente lo riconobbe immediatamente. Perdonandolo per il suo comportamento, convinse le sirene a lasciarlo in vita, e queste lo ricondussero a riva. Il pescatore capì l’enorme errore commesso e decise di riconquistare sua moglie. Grazie all’aiuto di una fata, riuscì a sottrarla dal castello delle sirene e a condurla vicino alle acque del golfo di Taranto. Qui la leggenda si fa confusa, ed esistono due diverse versioni della storia. C’è chi dice che i due giovani innamorati riuscirono a tornare a riva e vissero felici e contenti per il resto dei loro giorni. C’è chi invece narra di una terribile onda che li travolse, trascinando il pescatore al largo assieme alle sirene, e di lui non si ebbero più notizie. Skuma, in preda al dolore, decise di farsi suora e chiudersi in una delle torri del Castello Aragonese, che prese il nome di Torre della Monacella. E le sirene? Di loro non si seppe più nulla, ma rimangono immortali guardiane del golfo di Taranto, dagli scogli su cui riposano eternamente.

E' morta Rossana Di Bello, aveva contratto il Covid. L'ex sindaca di Taranto era ricoverata nella rianimazione del Moscati. La Voce di Manduria sabato 10 aprile 2021. E’ morta nella notte Rossana Di Bello, ex sindaca di Taranto. Aveva 64 anni. Da tempo combatteva contro un tumore ma ad ucciderla è stato il Covid che aveva contratto e per il quale era stata ricoverata nella rianimazione dell’ospedale Moscati di Taranto. Sindaca di Taranto dal 2000 al 2006, nel 1993 aveva fondato il primo club pugliese di Forza Italia di cui nello stesso anno ne divenne presidente. Nel 1995 fu eletta consigliera regionale ed in seguito nominata assessora regionale al Turismo e ai Beni Culturali, carica che ha mantenuto fino al 1998 quando le fu assegnato l'assessorato regionale all'Industria, al Commercio e all'Artigianato. E’ stata prima e sinora unica sindaca donna della città di Taranto e seconda in Puglia dopo Poli Bortone a Lecce tra le città capoluogo. Lascia il marito e la figlia Claudia.

Taranto. E’ morta l’ex sindaca Rossana Di Bello. La redazione di Antenna Sud il 10 aprile 2021. L’ennesimo triste lutto per Covid. Taranto perde Rossana Di Bello sindaco di Taranto dal 2000 al 2006, purtroppo sconfitta dal virus pandemico all’età di 64 anni, dopo il ricovero all’ospedale Moscati ed una battaglia durata solo pochi giorni. Era stata infatti ricoverata il 24 marzo ed è spirata alle 7.15 del mattino. Figlia di un ufficiale dell’esercito di origini salentine, laureata in Scienze Biologiche presso l’Università degli Studi di Lecce entra in politica da protagonista Nel 1993, dopo alcune esperienze nell’area socialista, quando fonda a Taranto il primo club pugliese di Forza Italia di cui nello stesso anno diventa presidente. Nel 1995 viene eletta Consigliere regionale, ed in seguito nominata Assessore Regionale al Turismo e ai Beni Culturali, carica che mantiene fino al 1998, quando le viene assegnato l’Assessorato Regionale all’Industria, al Commercio e all’Artigianato. Il 30 aprile 2000 viene eletta sindaco di Taranto con il 57,5% dei voti al turno di ballottaggio. Viene riconfermata il 3 aprile 2005, ottenendo il 57,8% dei suffragi al primo turno. Il 18 febbraio 2006, in seguito alla condanna in primo grado ad un anno e quattro mesi per abuso di ufficio e falso ideologico nell’ambito dell’inchiesta sull’affidamento della gestione dell’inceneritore cittadino si dimette dalla carica di sindaco. Verrà poi assolta in grado di appello da tutte le accuse l’1 marzo 2011 perché il fatto non sussiste. Rossana Di Bello lascia il marito e la figlia Claudia. Alla famiglia giungano le condoglianze dell’editore Domenico Distante, dei direttori editoriale e responsabile, Pierangelo Putzolu e Gianni Sebastio, e dell’intera redazione di Antenna Sud.

UN BACIO AL VOLO, ROSSA’…Roberta Morleo su Il Corriere del Giorno l'11 Aprile 2021. Un meraviglioso ricordo di Rossana Di Bello, scritto dalla collega Roberta Morleo: “Quando sparì dalla scena politica mi dispiacque ma ritenni avesse fatto la scelta più giusta, mostrando quella dignità che molti altri non avevano avuto e ancora non hanno”. C’è un ricordo che ho custodito per anni. Era il 2001, lavoravo per il Corriere del Mezzogiorno, era una delle tante conferenze a Palazzo di Città. Rossana Di Bello era brillante, muscolare, decisionista e all’occorrenza anche ruvida. Niente sconti a nessuno, stampa inclusa. Anche a me era capitato di litigarci, per un articolo che non aveva gradito perché, sia pure indirettamente, avrebbe potuto offuscare il suo operato da primo cittadino. Ci chiarimmo anche abbastanza animatamente, ma rimase fra noi quel “non detto” che assomiglia tanto ai malintesi di coppia, che poi generano lunghi e inutili silenzi. Anche perché intuiva, da donna intelligente qual era, quanto fossi abbastanza distante dal suo credo politico. Erano passati mesi da quell’episodio.Al termine della conferenza stampa, venne verso di me e mi fece cenno di seguirla. Ci sedemmo nella sala antistante quella degli Specchi.Poi, la sua domanda. “Come stai, in questo periodo…c’è qualcosa che non va?… A casa…?”La guardai un po’ interdetta, quello era un periodo professionalmente faticoso ma stimolante, ero free lance ed il mio ufficio era un club privato generosamente messomi a disposizione dal proprietario mio amico, dove di giorno lavoravo e di sera incontravo gli amici. I lutti della mia famiglia sarebbero arrivati di lì a qualche anno. In quanto a me, fra le birre e i concerti e il PC sempre acceso e il fumo ancora free nei luoghi chiusi, la mia esistenza si poteva dire felicemente frenetica. “Rossana…tutto bene direi. Perché…?”.Mi rispose guardandomi negli occhi, come era solita fare, ma con una luce diversa. “Ho fatto un sogno. Ho sognato mio padre, era davanti a me, mi guardava senza parlare e accarezzava la testa di una donna seduta. E quella donna eri tu. Ho pensato che dovevo chiedertelo”. Non ricordo cosa le dissi, oltre che ringraziarla. So però che vidi per la prima volta quella donna forte e risoluta nella sua essenza più umanamente fragile, quasi materna, sensibile e vulnerabile. Da allora capii meglio tutto quello che faceva, e perché lo faceva. Colsi purtroppo anche i suoi e altrui errori, quelli per i quali pagò lei il prezzo più alto, quello della città che avrebbe voluto ancora al suo fianco e che invece le si rivoltò contro. Certo non tutti, i tarantini, ma sicuramente quella parte da sempre animosa, quella benpensante senza macchia e senza paura col dito perennemente puntato contro qualcosa o qualcuno. Quando sparì dalla scena politica mi dispiacque ma ritenni avesse fatto la scelta più giusta, mostrando quella dignità che molti altri non avevano avuto e ancora non hanno. Molti anni più tardi, dopo che era sparita, feci letteralmente irruzione nel suo negozio. Era sola. Sempre bella e dall’eleganza estrosa, tradiva nello sguardo una sottile malinconia. Fu sorpresa. E capì subito che non era la visita di una cliente, ma di chi voleva dirle qualcosa che va detto alle persone quando sono ancora in vita, perché possano gioirne. Quelle cose da non rimandare mai, in nome del tempo che non si ha. Perché il tempo c’è sempre, quando c’è. L’ho rivista l’ultima volta credo a febbraio, io fuori che passavo davanti al suo negozio, lei dentro. Sono rimasta pochi secondi lí affinché mi vedesse. Mi ha fatto cenno di fermarmi, è corsa verso l’ingresso, ha aperto e mi ha detto, portando la mano verso la mascherina: “Bellaaa…! Un bacio al volo!“. Poi un brivido, un presentimento. Fino a ieri. Un bacio al volo, Rossa’…

Forza Italia, Rossana Di Bello morta per coronavirus: il lutto travolge Berlusconi e partito, perché era un pezzo di storia azzurra. Libero Quotidiano il 10 aprile 2021. L'ex sindaca di Taranto, Rossana Di Bello, 64 anni, è morta di covid. Era ricoverata in ospedale da alcuni giorni. ''Un'altra persona a noi cara, un'altra amica di Forza Italia Taranto", spiegano il commissario regionale Mauro D'Attis e il vice commissario Dario Damiani a nome del partito. Infatti nel 1993 la Di Bello fondò a Taranto il primo club pugliese di Forza Italia di cui nello stesso anno diventò presidente. E' stata una delle fedelissime fin dalla prima ora di Silvio Berlusconi, dopo Adriana Poli Bortone, sindaco di Lecce nel 1998, Rossana Di Bello è stata il secondo sindaco donna in Puglia, primo sindaco donna nella storia di Taranto. Di Bello fu eletta sindaco nel 2000 e poi riconfermata nel 2005. Il secondo mandato fu interrotto prematuramente dalle dimissioni in seguito ad alcune vicende giudiziarie. Di Bello fu anche consigliere e assessora regionale.  "Con profondo e sincero dolore ho appreso della scomparsa di Rossana Di Bello. Da quando abbiamo saputo che stava combattendo con il Covid, abbiamo sperato fino all'ultimo che questo maledetto virus avesse la peggio. E invece no. Continua a vincere", la ricorda così l'attuale  primo cittadino di Taranto Rinaldo Melucci  "gli occhi e i racconti di Rossana - aggiunge Melucci - tradivano un amore immenso per la sua città e da tanto, tanto, tanto amore era ricambiata". Dopo essere stata riconfermata per il secondo mandato il 3 aprile 2005, ottenendo il 57,8% dei suffragi al primo turno. Il 18 febbraio 2006, in seguito alla condanna in primo grado a un anno e quattro mesi per abuso di ufficio e falso ideologico nell’ambito dell’inchiesta sull’affidamento della gestione dell’inceneritore alla società Termomeccanica, si dimise dalla carica di sindaco. Fu poi assolta in appello. "Appassionata della vita e della politica allo stesso modo. Entrambe non le hanno risparmiato soddisfazioni ma anche tante sofferenze che ha sempre affrontato a testa alta e con fierezza", la omaggia così invce l'ex governatore della Puglia, Raffaele Fitto.

Taranto, a 64 anni il Covid si porta via Rossana Di Bello, ex sindaco della città. Era ricoverata dallo scorso 24 marzo. Lascia marito e una figlia. La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Aprile 2021. È morta questa mattina presto all'ospedale Moscati Rossana Di Bello, ex sindaco di Taranto dal 2000 al 2006. Aveva 64 anni ed era ricoverata per aver contratto il Coronavirus, lo scorso 24 marzo. Lascia il marito e una figlia. E sui social comincia già il tam-tam della notizia: in tantissimi stanno esprimendo in questi minuti il loro cordoglio, tra cui il commissario regionale di Forza Italia, l’on Mauro D’Attis, ed il vice commissario, il sen. Dario Damiani. «Un’altra persona a noi cara, un’altra amica di Forza Italia Taranto che ci lascia prima del tempo per colpa di questo maledetto virus: la scomparsa di Rossana Di Bello ci lascia senza parole e in un mare di dolore. Siamo sentitamente vicini alla sua famiglia, a tutti i suoi cari e alla comunità ionica. Ciao Rossana», così si legge in una nota. Nel 1993 Di Bello fondò a Taranto il primo club pugliese di Forza Italia di cui nello stesso anno diventò presidente. Dopo Adriana Poli Bortone, sindaco di Lecce nel 1998, Rossana Di Bello è stata il secondo sindaco donna in Puglia, primo sindaco donna nella storia di Taranto. Il 30 aprile del 2000 venne eletta la prima volta con il 57,5% dei voti al turno di ballottaggio e fu poi riconfermata il 3 aprile 2005, ottenendo il 57,8% dei suffragi al primo turno. Il 18 febbraio 2006, in seguito alla condanna in primo grado a un anno e quattro mesi per abuso di ufficio e falso ideologico nell’ambito dell’inchiesta sull'affidamento della gestione dell’inceneritore alla società Termomeccanica, si dimise dalla carica di sindaco. Fu poi assolta in appello. I MESSAGGI DI CORDOGLIO - «La scomparsa di Rossana Di Bello mi addolora tantissimo. Appassionata della vita e della politica allo stesso modo. Entrambe non le hanno risparmiato soddisfazioni ma anche tante sofferenze che ha sempre affrontato a testa alta e con fierezza. A Rossana mi legano tantissimi ricordi, ma anche un costante rapporto di amicizia e stima che non è mai venuto meno. Sono affettuosamente vicino alla sua famiglia». Così Raffaele Fitto, copresidente del gruppo europeo Ecr-Fratelli d’Italia, dopo la morte dell’ex sindaco di Taranto. «Con profondo e sincero dolore ho appreso della scomparsa di Rossana Di Bello. Da quando abbiamo saputo che stava combattendo con il Covid, abbiamo sperato fino all’ultimo che questo maledetto virus avesse la peggio. E invece no. Continua a vincere. Gli occhi e i racconti di Rossana tradivano un amore immenso per la sua città e da tanto, tanto, tanto amore era ricambiata. Alla figlia Claudia, al marito, alla sua famiglia, ai suoi amici, giunga il cordoglio dell’amministrazione comunale», così l'attuale sindaco del capoluogo jonico, Rinaldo Melucci. «La scomparsa dell’ex sindaco di Taranto Rossana Di Bello è una notizia triste e dolorosa. Rossana era un politico attento al territorio, una donna forte del Sud che ha segnato e caratterizzato un periodo storico della città di Taranto. A nome mio e di tutta Confagricoltura Taranto porgo ai familiari le più sentite condoglianze». LO afferma il presidente di Confagricoltura Taranto Luca Lazzàro.

ROSSANA DI BELLO SI E’ SPENTA. TARANTO PERDE UNA GRANDE BELLA PERSONA. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 10 Aprile 2021. Lutto nel mondo della politica tarantina e pugliese. E’ morta, a causa delle complicanze del Covid, Rossana Di Bello, di 64 anni, sindaco di Taranto dal 2000 al 2006, ed assessore regionale di Forza Italia a metà degli anni Novanta. Rossana Di Bello è stata il primo sindaco donna nella storia di Taranto. Il 30 aprile del 2000 venne eletta la prima volta con il 57,5% dei voti al turno di ballottaggio e fu poi riconfermata il 3 aprile 2005, ottenendo il 57,8% dei suffragi al primo turno. Si è spenta questa mattina all’ alba Rossana Di Bello ex sindaco di Taranto, presso l ‘ospedale Moscati, dove era ricoverata nel reparto di rianimazione dallo scorso 24 marzo in terapia intensiva. Combatteva da tempo contro un tumore ma a portarla via è stato il Covid che aveva contratto e per il quale era stata ricoverata. Aveva 64 anni e lascia il marito Antonio Ripa e sua figlia Claudia. Con la sua scomparsa perdo un’ amica, una persona per bene, a cui sono legato da ricordi indelebili del periodo più bello ed indimenticabile della mia gioventù tarantina. Nel 1993 fondò a Taranto il primo club pugliese di Forza Italia di cui nello stesso anno era diventata presidente. Nel 1995 viene eletta Consigliere regionale, ed in seguito nominata Assessore Regionale al Turismo e ai Beni Culturali, carica che mantiene fino al 1998, quando le viene assegnato l’Assessorato Regionale all’Industria, al Commercio e all’Artigianato. Il 30 aprile 2000 venne eletta sindaco di Taranto con il 57,5% dei voti al turno di ballottaggio. Dopo Adriana Poli Bortone (sindaco di Lecce nel 1998). Venne rieletta nel 2005 ottenendo il 57,8% dei suffragi al primo turno per un secondo mandato ma si dimise un anno dopo travolta da una vicenda giudiziaria dalla quale è stata poi assolta in appello. Il 7 marzo 2007 ricevette un avviso di garanzia da parte del sostituto procuratore della repubblica Maurizio Carbone (notoriamente di sinistra) per abuso d’ufficio e truffa nell’ambito di un’inchiesta sulle proroghe di appalti comunali, ma il 1º marzo 2011 ebbe giustizia venendo assolta dal tribunale di Taranto per il reato di abuso d’ufficio e truffa sull’inchiesta di appalti che le era stato contestato “perché il fatto non sussiste”. Perdo un’ amica, una persona per bene, a cui sono legato da ricordi indelebili del periodo più bello ed indimenticabile della nostra vita tarantina. Ciao Rossana fai buon viaggio, che la terra ti sia lieve. Un giorno ci ritroveremo lassù e continueremo a raccontarci i nostri ricordi che abbiamo condiviso in una Taranto irripetibile ed indimenticabile. Scrivo queste parole con le lacrime mentre piango, con grande dolore e fatica, mi mancheranno il tuo sorriso buono ed entusiasta, la tua signorilità e bontà’, il piacere di vederci e confrontarci, un ricordo che rimarrà in eterno nel mio cuore. Alla sua famiglia le più sincere condoglianze mie personali, della mia famiglia, e di tutti noi del CORRIERE DEL GIORNO che oggi hanno perso una grande vera amica. Una persona buona e per bene. In tantissimi stanno esprimendo il loro cordoglio, tra cui il commissario regionale di Forza Italia, l’on. Mauro D’Attis, ed il vice commissario, il sen. Dario Damiani. “Un’altra persona a noi cara, un’altra amica di Forza Italia Taranto che ci lascia prima del tempo per colpa di questo maledetto virus: la scomparsa di Rossana Di Bello ci lascia senza parole e in un mare di dolore. Siamo sentitamente vicini alla sua famiglia, a tutti i suoi cari e alla comunità ionica. Ciao Rossana” si legge in una nota congiunta.  “La scomparsa di Rossana Di Bello mi addolora tantissimo. Appassionata della vita e della politica allo stesso modo. Entrambe non le hanno risparmiato soddisfazioni ma anche tante sofferenze che ha sempre affrontato a testa alta e con fierezza. A Rossana mi legano tantissimi ricordi, ma anche un costante rapporto di amicizia e stima che non è mai venuto meno. Sono affettuosamente vicino alla sua famiglia”. così in una nota Raffaele Fitto copresidente del gruppo europeo Ecr-Fratelli d’Italia. Anche il consigliere regionale di Fratelli d’Italia, Renato Perrini con una nota esprime il suo dolore: “La morte di Rossana Di Bello mi angoscia particolarmente, perdo un’amica e un punto di riferimento politico: quanti consigli mi ha dato! L’ho sentita anche in questi ultimi giorni e dal letto dell’ospedale finiva per dare lei coraggio a me. Maledetto Covid! A me mancherà tantissimo la sua fierezza e il suo grande rispetto delle Istituzioni, mi ha insegnato tanto ma quello che conserverò nel mio cuore sarà il suo sorriso, che non ha mai perso neppure quando la vita l’ha messa a dura prova. Taranto perde tantissimo oggi, sono vicino alla sua famiglia con grande affetto“. Mario Guadagnolo, ex sindaco di Taranto : “Una notizia sconvolgente. Abbiamo sperato, tutti quelli che le hanno voluto veramente bene, che se la sarebbe cavata anche stavolta. Speravamo nella sua tempra forte, nella sua volontà, nella sua voglia di vivere, nell’impegno che metteva in tutte le cose, quando faceva le battaglie per gli altri e le vinceva. Stavolta si è impegnata nella battaglia finale e decisiva quella per se stessa e l’ha persa. Non ti dimenticheremo facilmente Rossana come non ti dimenticheranno i cittadini di Taranto che ti hanno voluto bene perché hanno hanno capito chi eri, cosa facevi e perché lo facevi e non si lasciavano infinocchiare dai ciarlatani maldicenti interessati che anch’essi non ti dimenticheranno ma perché tu li costringerai a guardarsi dentro e a vergognarsi. Per me come per una moltitudine di tarantini tu hai rappresentato il desiderio e la speranza che questa città potesse sollevarsi dalla maledetta mediocrità in cui si era cacciata, ci hai fatto sperare come si spera nella vittoria del campionato. Averti conosciuto ed aver lavorato con te è stato un privilegio. Lavorare con te, al di là delle posizioni politiche, in un grande e ambizioso progetto per la città e a fianco di una donna intelligente, preparata, competente, per bene, pulita, onesta, entusiasta, piena di vigore, di energia e di vita ci ha fatto sentire tutti più importanti e utili al bene comune. Con te molti di noi perdono una sorella, un’amica, una compagna di viaggio, una persona alla quale confidare idee, progetti, ambizioni voglia di guardare avanti. Sei stata un uragano, Rossana, una trascinatrice, un capo. Tu avevi solo un punto debole, e nessuno come me che ero e sono affetto dallo stesso male, poteva capirti, l’amore sconfinato per questa città. Ora Rossana te ne sei andata e ci hai lasciato tutti un pò orfani della tua voglia di vivere e del tuo entusiasmo ma tu rimani nel nostro cuore come una speranza, un sogno sognato, un’avventura spezzata. Rimarrai sempre con noi perchè per noi tu non te ne sei mai andata e sono convinto che da lassù continuerai a lavorare e a pensare progetti per rendere più grande e importante questa città. Ciao Rossana, ti vorremo sempre bene”. A nome di tutto il partito ionico Vito De Palma, Coordinatore Provinciale di Forza Italia Taranto, che ha perso nei giorni scorsi due fratelli per COVID : “Rossana Di Bello è stata una donna di elevato spessore politico e di grande dignità. Forza Italia di terra ionica vuole ricordarla con riconoscenza, per aver avuto l’intuizione di fondare a Taranto il primo circolo del partito e per aver amministrato la città capoluogo con coraggio, entusiasmo e idee innovative. Quelle stesse idee con cui aveva brillantemente ricoperto anche il ruolo di assessore regionale. Rossana decise però di rinunciare ai suoi successi politici e a un larghissimo gradimento popolare, dimettendosi dalla carica di primo cittadino allorquando venne adombrato solo un sospetto riguardante presunte irregolarità (poi rivelatesi infondate) nella gestione amministrativa del Comune di Taranto. Si ritirò a vita privata, ma i suoi tanti amici e tantissimi cittadini non l’hanno dimenticata. Non lo faranno neanche ora che la sua vita terrena è stata tragicamente spezzata da un maledetto virus. Riposa in pace, cara Rossana. Con il cuore ancora in frantumi e gli occhi grondanti, per tutte le vite spezzate, voglio testimoniare alla tua famiglia il profondo e sincero cordoglio mio personale, del Coordinamento Provinciale e di tutta Forza Italia ionica“. “Apprendo con profondo dolore della scomparsa di Rossana Di Bello, ex sindaco di Taranto, appassionata della sua città, della sua terra e forzista della prima ora. Il Covid l’ha portata via strappandola prematuramente all’affetto dei suoi cari ai quali rivolgo le mie più sentite condoglianze in questo momento di grande sofferenza“. il ricordo di Giuseppe Moles, sottosegretario all’Editoria e vice capogruppo di Forza Italia al Senato della Repubblica. Anche l’ ex-senatore Giovanni Battafarano (Pd) ha voluto ricordare Rosanna Di Bello. “Ho appreso con vivo dolore della scomparsa di Rossana Di Bello. Consigliere e assessore regionale, prima donna Sindaco di Taranto, eletta nel 2000 e rieletta nel 2005, Rossana era una personalità forte e capace, dotata di un vivo intuito politico. La sua ascesa coincise con il periodo di maggior fortuna del suo partito, Forza Italia, e del centro destra a Taranto“. “Pur da posizioni diverse – aggiunge Battafarano – non mancarono occasioni di collaborazione nell’interesse esclusivo della nostra comunità, come in occasione del Programma Urban, quando le pressioni congiunte del Sindaco e di noi parlamentari dell’Ulivo, Angelici ed il sottoscritto, riuscirono ad ottenere le risorse finanziarie necessarie per il recupero del Convento di San Francesco nella Città Vecchia, oggi sede prestigiosa dell’Università di Taranto“. “Centrato l’obiettivo Rossana ci invitò a Palazzo di Città dove insieme valorizzammo una buona pratica di collaborazione istituzionale. Purtroppo il Covid continua a colpire senza freno. Rivolgo le mie sentite condoglianze ai familiari, ai suoi amici, al suo partito” conclude Battafarano. Le famiglie Ripa e Di Bello hanno “voluto ringraziare pubblicamente per le amorevoli cure prestate a Rossana“, il primario dott. Giancarlo D’Alagni e tutta l’equipe del Reparto di Pneumologia e il primario dott. Michele Cacciapaglia e tutta l’equipe del Reparto di Rianimazione e Terapia Intensiva dall’Ospedale Moscati .

È corsa ai vaccini in Puglia: in tilt sistemi online di prenotazione a Bari e Taranto. Fimmg denuncia: «Fragili in attesa per disorganizzazione».  Avviso di problemi tecnici sul portale della Regione Puglia. La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Maggio 2021. Centinaia di utenti delle province di Bari e Taranto stanno riscontrando problemi e difficoltà al momento della prenotazione del vaccino anti Covid attraverso il portale istituzionale della Regione Puglia, lapugliativaccina.it. Stando a quanto viene spiegato sullo stesso sito internet, si tratterebbe di un problema tecnico. «Asl Taranto e Asl Bari - si legge nell’avviso - informano che i sistemi di prenotazione online sono in manutenzione e potrebbero non funzionare correttamente: rivolgiti a una farmacia accreditata al servizio FarmaCUP». Ma anche nelle farmacie il sistema online non starebbe funzionando e molti cittadini hanno dovuto rinunciare per ora alla prenotazione. «Continuiamo a ricevere poche dosi e, soprattutto, dalle Asl non ci comunicano i tempi delle consegne. Questo ci impedisce di programmare le somministrazioni perché non sappiamo né quanti vaccini avremo né quando li avremo. Intanto, in Puglia, stiamo vaccinando contro il Covid persone sempre più giovani, mentre i nostri pazienti fragili e vulnerabili ancora attendono». Lo dice il segretario regionale della Fimmg Puglia, Donato Monopoli, il quale oggi ha inviato all’assessore regionale alla Sanità, Pier Luigi Lopalco, una richiesta «urgente» di convocazione «per discutere sulle notevoli criticità organizzative e gestionali palesate dalla Regione e dalle Asl nella ideazione, realizzazione e conduzione della campagna vaccinale anti Covid-19», si legge nel documento. "Siamo molto amareggiati nei confronti delle direzioni sanitarie e generali delle Asl - prosegue Monopoli - , abbiamo già proclamato lo stato di agitazione e annunciato di essere pronti a fermarci. Non possiamo perdere la credibilità nei confronti dei nostri pazienti, persone con patologie che attendono ancora di essere vaccinate e non per nostre colpe. Tutte le vaccinazioni a domicilio le abbiamo fatte noi medici di medicina generale, ma avremmo già terminato se avessimo avuto dosi a sufficienza e se da parte delle Asl ci fosse stata organizzazione. Non chiediamo molto - conclude - , ma di sapere almeno tre giorni prima quanti vaccini ci saranno consegnati, in modo da poter contattare i nostri pazienti e prendere appuntamento».

Taranto, la pm scrive a Emiliano: «Io, positiva e abbandonata». Ida Perrone da sabato è risultata contagiata dal covid. «Nel mio ufficio ce ne sono altri sei, non si chiude e non si va in smartworking Le istituzioni sanitarie latitano. Cesare Bechis su corrieredelmezzogiorno.corriere.it il 12 aprile 2021.

Il post di Ida Perrone. E’ positiva al Covid-19 da tre giorni e nel suo ufficio ci sono altre sei persone infettate. Eppure si sente abbandonata dalla Asl. La segnalazione è stata postata sulla pagina Facebook del presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, da un pubblico ministero in servizio alla Procura di Taranto. E’ Ida Perrone, balzata agli onori della cronaca anni fa quando esplose il caso dei così detti «stipendi d’oro» al Comune di Taranto. Chiese 35 condanne. Ora la sua condanna è il virus. Ecco quanto ha comunicato ieri alle 11.25 al presidente Emiliano. «Michele, buonasera. Sono Ida Perrone, pm a Taranto. Ci conosciamo . Da sabato sono risultata positiva al coronavirus. Sei contagi in ufficio. Un focolaio. Non si chiude e non si va in smartworking. Domenica di Pasqua sono stata contattata da una eccellente dottoressa medici del Lavoro per il triage ma non dalla Asl, nonostante il sollecito di oggi. Latita il medico di base, irraggiungibile, latita la Asl. Se non fosse per un professionista specialista, sarei abbandonata a me stessa. Non mi curerebbe nessuno. Nessun interesse per la rilevazione dei contatti esterni e il virus galoppa, la variante inglese galoppa fino a 3000 contagi in più in una settimana a Taranto e provincia. Mi domando cosa accade, ti domando cosa accade».

Taranto, Pm scrive su Facebook ad Emiliano: ''Abbandonata dalla Asl''. Ida Perrone scrive e denuncia la sua esperienza sulla bacheca del Governatore. Annamaria Rosato il 12 aprile 2021 su norbaonline.com. Una Pm di Taranto, Ida Perrone, positiva al Covid, scrive al presidente Emiliano e denuncia di essere stata abbandonata dalla Asl e dal medico di base. Nel post pubblicato sulla bacheca del governatore racconta la sua esperienza. “Da sabato sono risultata positiva al Covid. 6 i contagi in ufficio. Un focolaio. Non si chiude e non si va in smart-working. Latita il medico di base, latita la Asl. Se non fosse per un professionista specialista sarei abbandonata a me stessa. Non mi curerebbe nessuno. Mi domando che accade. Ti domando che accade . Il presidente emiliano ha subito risposto alla Pm e ha risolto il problema. Il medico della asl ha contattato ida perrone e le persone che avevano avuto contatti con lei e ha prenotato il tampone per tutti.

Facebook 13 aprile 2021 10.27 MultiRadio Massafra. TARANTO - LA PM IDA PERRONE POSITIVA AL COVID SCRIVE A EMILIANO E DENUNCIA DI ESSERE STATA ABBANDONATA DALL' ASL. EMILIANO LA FA SUBITO CHIAMARE DALL' ASL. La pm di Taranto,Ida Perrone, positiva al Covid,scrive a Emiliano, denunciando di essere stata abbandonata dall' ASL. A questo è seguita subito la risposta di Emiliano ,risolvendo il problema. Commenti:

Maurizio Mangione. La situazione è analoga per tutti. Io sono stato fortunato ad avere un medico di base come il dr Tilli che ha seguito con estrema attenzione me e mia moglie oltre che aiutarmi con mio padre visto che il suo medico era pressoché inutile. Di certo non si… 

Altro...

Antonio Tamburrano. Signora cara è da un anno che siamo in queste condizioni, se ne è accorta e fa sentire la sua voce solo ora che sta toccando in prima persona il problema! È da un anno che sentiamo episodi di ogni tipo.. almeno lei è stata fortunata a differenza d… 

Altro...

Mariangela Pioltini. Cara dottoressa purtroppo questa situazione c'è dappertutto io sono Lombarda e non dico altro...

Giorgia La Gioia. Accade che per seguire i protocolli covid 19 la gente che resta a casa e cerca di curarsi da sola nel frattempo se è fortunata sopravvive altrimenti muore glielo dico io che sono sopravvissuta da sola con tre minori in casa...... Ecco cosa succede sign… 

Altro...

Marco Addabbo. Mi chiedo solo se fosse una operaia Emiliano avrebbe avuto la stessa velocità di risolvere la cosa...

Lucia DE Carlo. Pensa noi gente comune ,se lei che è una PM non viene assistita ,ascoltata ,pensa noi che già il medico di base a mala pena risponde al telefono per dire ai propri assistiti di chiamare il 118 ,p.s ,ecco poi come gli ospedali sono super affollati !!Ne… 

Tonia Palmisano. Ha ragione la PM. C'è tanta gente nelle case con il Covid, e per fare il tampone ci vuole un sacco di tempo, prima la gente si aggrava, si infettano tra di loro in tanti, e tanti muoiono, tutto va a rilento. Poi non parliamo di tanti medici di base, c'… 

Lory Altamura. Per non parlare che vieni contattato dalla voce guida e sbaglia persona...chiamo asl non sanno spiegarselo anzi ti rispondono mettetelo in macchina con voi e al momento del tampone spiegate accaduto...ma grazie ai servizi... 

Francesca Bernalda. Assurdo se era un cittadino qualunque che avrebbe fatto sai quante persone sole è abbandonate sono morte ma lei e privilegiata alla faccia dei comuni cittadini ma andate a...

Donato Monaco. Vergogna solo xche la signora in questione è un Magistrato si è mosso il cavaliere Emiliano... E noi essere normali non siamo nulla... SVEGLIAMO TUTTI CHE CI STANNO TOGLIENDO TUTTO...

Vincenzo Polignano. Ognuno si fa gli affari suoi hanno paura bisogna avere pazienza e darsi coraggio da soli...

Giovanna Gio Rotelli. Solo perché ha denunciato qualcuno che conta e non un semplice operaio, pensionato. Che schifo!!!

Tommaso Semeraro. Beneeee!! Ancora una volta.. Questo è tutto a voi la risposta... Vergognoso.

Davide De Summa. Per seconda cosa si favorisce sempre l'amico perché ci sono tanti poveracci che Emiliano non farà chiamare dalla Asl!!!

Tiberio Moramarco. Questa persona se ricordate bene ad inizio mandato uso questa frase (vi devo strabiliare) io pur avendolo votato del suo mandato ricordo solo le cozze e le plafoniere d'oro.

Franco Rossi. Dottoressa le auguro buona guarigione di vero cuore.

Giuseppina Lippo. La novità dove sta... Ci siamo passati pure noi povera gente, almeno il virus nn fa distinzione di ceto.

Carmela Di Giorgio. Quindi a lei si risponde e i poveri e i poveri cristi crepano.....

Antonietta Greco. Medici di base? Un miraggio!!! Semplicemente VERGOGNOSO...

Davide De Summa. Per prima cosa la signora dovrebbe cambiare medico.

Luigi D'Aprile. Bella cosa, rispondo ad un p.m. Lasci nella merda il resto della popolazione….vergognosa...

Altri post. Facebook Piazzanews.it 13 aprile 2021 ore 18.23 CASTELLANETA. DEBELLIAMO LA PANDEMIA CON UNA COMUNICAZIONE PUNTUALE ED EFFICACE. Siamo grati alla Dr.ssa Ida Perrone, Pm. al Tribunale di Taranto, per la Sua testimonianza (riportata su alcune testate giornalistiche locali), sottoposta al Governatore Emiliano, per essere stata abbandonata dal proprio Medico di base nonché dalla stessa ASL/TA, concludendo la sua nota “… Mi domando che accade… Ti domando che accade…” Da premettere che la Dr. Isa Perrone, sabato scorso, era risultata positiva al coronavirus. Nel mentre ci auguriamo che la Dr.ssa Perrone possa risolvere al meglio, e nel più breve tempo possibile, la Sua positività, registriamo con interesse la risposta di Emiliano, che ha risolto il problema della Pm, attivando la stessa ASL ed il suo personale. Quindi, se vuole e può, il Governatore sa attivarsi e rispondere. Peccato non lo faccia anche con chi ha pianto e sta piangendo da tempo la perdita dei loro cari. Ci siamo resi, da tempo, portavoce indegni delle disavventure, delle difficoltà e delle necessità degli utenti del territorio e, in speciale modo, prima perorando la causa per la vaccinazione delle persone oncologiche ed ora delle persone fragili con gravi patologie, battendoci anche per la loro vaccinazione in loco, preferibilmente presso il nosocomio in caso di malori non contemplati tra gli effetti collaterali del vaccino a farsi. Certo, non siamo amici del Governatore Emiliano e non crediamo né pretendiamo che ci risponda, ma una piccola attenzione verso il territorio sarebbe opportuno che lo stesso la metta in atto. In questo tempo di pandemia non abbiamo bisogno in alcun caso di fare o di ricevere azioni di guerra, bensì si dovrebbe rivolgere tutta l’attenzione e gli sforzi comuni ad un unico obiettivo: debellare quanto prima e per quanto sia possibile, al più presto, questo dannato virus. Pensiamo anche che il Direttore Generale non abbia fatto un grande gesto, conferendo mandato “… ad un legale di fiducia al fine di procedere penalmente contro tutti coloro che diffamano il personale sanitario, diffondendo notizie false, fuorvianti e idonee a creare allarmismo nella collettività…” Siamo certi che alcuno abbia avuto ed ha intenzione di diffamare il personale sanitario e parasanitario, che sta profondendo tutti gli sforzi, ed oltre, per combattere il Covid19 con notevole sacrificio ed abnegazione. Esimio Direttore, avv. Stefano Rossi, ognuno di noi ha delle responsabilità e dei ruoli istituzionali, che necessitano innanzi tutto di equilibrio e tanta ma tanta pazienza. E siamo certi che Lei abbia contezza e piena coscienza del ruolo che ricopre. Crediamo che la Sua sia stata una reazione istintiva, che andrebbe, secondo il nostro modesto parere, riesaminata. Dopo tutto i soldi per il legale sono quelli della collettività ed andrebbero spesi per una più sollecita azione anti-virus. Ci meravigliamo se Emiliano non gliel’abbia suggerito. Ci permettiamo di farlo noi. Ci creda, non per spirito di contraddizione, ma nella piena collaborazione civile dei ruoli che ricopriamo d’ambo le parti. Piuttosto sarebbe necessario non far vagare al buio gli utenti, ma dare risposte certe dove, come, quando e con quale vaccino le persone fragili debbano vaccinarsi. Se riesce in questo intento, non crede che l’utenza si sentirà protetta ed avrà più fiducia nell’Istituzione, che Lei rappresenta? Sinora le varie circolari regionali hanno creato, e stanno creando, numerosi problemi di interpretazione tra gli stessi addetti ai lavori, che si palleggiano le varie competenze in materia ed, intanto, gli utenti fluttuano senza salvagente tra il Medico di base e/o il Medico ospedaliero. C’è assoluto bisogno di chiarezza e di trasparenza. Facciamo in modo di debellare la pandemia senza aggiungervi un pandemonio. MICHELE ESPOSITO

Malato di Covid lasciato in ambulanza per 28 ore, se ne discuterà in Regione. Iniziativa del consigliere della Lega, Michele Conserva. La Voce di Manduria martedì 30 marzo 2021. Il consigliere regionale della Lega, Giacomo Conserva, chiederà l'audizione in commissione sanità del direttore generale della Asl di Taranto, Stefano Rossi, per riferire su quanto sarebbe accaduto all'interno di un ospedale delal provincia di Taranto dove il paziente di 78 anni con sintomi da infezione Covid sarebbe rimasto per 28 ore in ambulanza. Di seguito i particolari dell'episodio. “Ventotto lunghe ore di attesa prima di essere sbarellato e portato in reparto. Assurdo, indegno, ignobile. E’ quanto accaduto ad un 78enne in un ospedale dell’Asl di Taranto. Positivo al Covid, ha trascorso la notte di sabato e tutta la Domenica delle Palme a bordo di un’ambulanza in coda, in mancanza di posti letto. Non era il solo, anche altri pazienti erano in ‘attesa’ come lui a bordo di ambulanze in coda. Una notizia che è stata riportata da numerosi organi di stampa dopo aver letto lo sfogo via social di un’operatrice sanitaria che ha assistito il 78enne. Ha mangiato, bevuto e fatto i suoi bisogni negli appositi presidi e sempre nell’ambulanza ha dovuto fare la terapia con l’ossigeno”. Questo è quanto dichiara il consigliere regionale della Lega, Giacomo Conserva.

“Ho richiesto ufficialmente – continua - un’audizione urgente in III Commissione Sanità della Regione Puglia convocando il Direttore Generale dell’Asl di Taranto, Stefano Rossi. Questa vicenda merita chiarezza. Dove sono finiti i posti letto previsti nel nuovo Piano Ospedaliero per la gestione dell’emergenza Covid-19? Qual è la situazione attuale dei posti disponibili di terapia intensiva e il tasso di occupazione degli stessi? Vogliamo delle risposte. Tutto questo è disumano”. “L’episodio, purtroppo non isolato, rappresenta la fotografia del nostro sistema sanitario al collasso a causa di scelte politiche inadeguate. Un sistema che regge grazie al grande lavoro senza sosta di medici, infermieri e operatori sanitari che ogni giorno sono in prima linea per fronteggiare la pandemia da Covid-19 e curare le persone” ha concluso Conserva.

11 ore in attesa di ricovero Covid: la precisazione del Marianna Giannuzzi. ​Non ha tardato ad arrivare la replica da parte della direzione medica del presidio ospedaliero “Marianna Giannuzzi” sul caso dell’uomo di Avetrana rimasto ad aspettare in ambulanza per circa 11 ore prima di essere ricoverato. Francesca Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 27 novembre 2020. Non ha tardato ad arrivare la replica da parte della direzione medica del presidio ospedaliero “Marianna Giannuzzi” sul caso dell’uomo di Avetrana rimasto ad aspettare in ambulanza per circa 11 ore prima di essere ricoverato. A narrare l’esperienza, era stato il figlio del paziente, l’avvocato Mirko Giangrande in un’intervista rilasciata al Nuovo Quotidiano di Taranto, in cui lamentava, appunto, la lunga attesa a cui erano stati sottoposti a causa di un affollamento di ambulanze nel piazzale dell’ospedale. La direzione medica, in base alle notizie pervenute dal responsabile del Pronto Soccorso, racconta che all’arrivo del signor Giangrande in ospedale, l’assistito era stato visitato, eseguito il tampone naso-faringeo per verificare l’eventuale positività al Covid-19 e somministrata la terapia adeguata. In seguito, all’esito della positività del tampone, veniva fatto accomodare nell’area attrezzata all’osservazione breve fino a 48/72 ore e alle ore14:00 del giorno successivo, ricoverato nel reparto Medicina Covid, occupando il primo posto letto disponibile. «Al signor Giangrande non sono mai mancate le cure di cui ha avuto necessità in una giornata tuttavia congestionata per l’arrivo contestuale di numerose ambulanze del 118.», chiarisce la responsabile, riconoscendo l’imprevisto. Della stessa opinione anche la direzione Asl di Taranto che rivolge le proprie scuse al signor Giangrande ed al figlio, ribadendo che al paziente era sempre stata assicurata la massima sicurezza grazie all’esemplare competenza di tutti gli operatori sanitari presenti. Francesca Dinoi

Parla il figlio dell'uomo rimasto 11 ore in ambulanza prima del ricovero al Giannuzzi. L’avvocato Mirko Giangrande racconta in un’intervista al Nuovo Quotidiano di Taranto il calvario del padre ricoverato al Giannuzzi dopo un’attesa di 11 ore in ambulanza. La Redazione de La Voce di Manduria martedì 24 novembre 2020. Un calvario di 11 ore. Tanto è durata l’attesa in ambulanza di un uomo di Avetrana domenica scorsa. A raccontare l’incredibile vicenda al Nuovo Quotidiano di Taranto è il figlio del povero malcapitato, Mirko Giangrande. I particolari che l’avvocato riferisce hanno dell’incredibile. Il paziente, positivo già da diversi giorni, è stato prelevato dalla sua abitazione dopo aver effettuato una cura anti-Covid domiciliare. Giunto nel piazzale dell’ospedale Giannuzzi, dopo le prime ore, l’uomo - provato dall’attesa ed in evidente stato di agitazione - ha allertato il 112 ed il 113 addirittura dall’interno dell’ambulanza. Le comunicazioni con la famiglia avvenivano tramite whatsapp, visto l’affaticamento respiratorio e la difficoltà nell’effettuare chiamate vocali. Intorno alle 16.30, gli è stato effettuato un prelievo di sangue, ma il povero malcapitato – già da più di 4 ore all’interno dell’ambulanza – non dava segni di miglioramento e la febbre continuava ad aumentare. Il racconto del figlio del pover’uomo si fa sempre più inquietante: «Io vivo fuori, mi sono sentito impotente oltre che angosciato. In più – aggiunge l’avvocato – la cura intrapresa a casa si era interrotta durante le ore in ambulanza. Aveva solo l’ossigeno a sua disposizione e la febbre continuava a salire. Non sapevo cosa fare così, ormai stravolto, ho contattato il consigliere regionale Renato Perrini che si è adoperato a denunciare all’Asl di Taranto quanto stava accadendo» riferisce Giangrande. Stando a ciò che ha raccontato lo stesso avvocato durante l’intervista, sarebbero state ben cinque le ambulanze in coda per ore, così come riferitogli dal padre. L’avvocato non ci sta e promette di andare a fondo sulla vicenda: «Mi preme evidenziare che questo è accaduto ad un uomo di 57 anni in grado di comunicare con l’esterno e di mantenere lucidità. Ma se fosse capitato ad un uomo anziano? Non si può correre il rischio di morire in attesa di essere ricoverati. Questi inconvenienti potevano essere comprensibili a marzo, ma non a novembre perché, come cittadini, ci saremmo aspettati una maggiore organizzazione» aggiunge Giangrande, che poi conclude: «Tenere bloccate le ambulanze per così tante ore è inconcepibile. E se dovessero servire per un’emergenza? Non ho parole».

Verso mezzanotte, dopo la previsione di spostarmi all’Ospedale di Castellaneta, a 100 km di distanza, e la mia forte opposizione (ho preso la valigetta e stavo per scendere dall’ambulanza per recarmi al pronto soccorso), mi introducono in Pronto Soccorso. Qui mi rifanno il tampone e la radiografia. Fino alle 4 nel corridoio, poi in una stanzetta. Il ricovero effettivo in reparto avviene il giorno, 23 novembre 2020, dopo alle 14.00».

Taranto, pazienti Covid morti al Moscati: parenti chiedono giustizia. Le famiglie dei pazienti morti di covid al Moscati di Taranto chiedono giustizia e verità e si riuniscono in un comitato per non dimenticare e per dare voce a chi non c’è più. Servizio di Annamaria Rosato. Taranto, vittime del Covid? No, dell’imperizia. Di redazione su ilsudonline.it il 24-05-2021. Pazienti di cui si perdono le tracce, abbandonati nel letto per giorni senza poter vedere nemmeno un infermiere, spesso lasciati negli escrementi nell‘impossibilità di andare in bagno mentre i parenti sono in un limbo con informazioni scarse, talvolta imprecise. E poi scomparsa di oggetti personali. Sono le denunce di alcuni familiari delle vittime del Covid ricoverati all’ospedale Moscati di Taranto, entrati in terapia intensiva, alcuni all’inizio della malattia, e mai usciti. Queste testimonianze agghiaccianti sono state raccolte da un gruppo di circa 20 famiglie che hanno messo in rete la loro esperienza. «Morti non per Covid ma per imperizia», dice con la voce che trema Eleonora Coletta. che ha perso il marito e il padre ed è rimasta sola con tre figli. Il suo racconto è straziante. «Sono stata io a infettare la famiglia. Come paziente oncologica avrei dovuto avere la priorità nella vaccinazione ma non è stato possibile. Quando sono riuscita a fare la prima dose di vaccino avevo già il virus. Ho contagiato mio marito e mio padre. Mio marito è stato ricoverato al Moscati ai primi sintomi. Ho chiesto che gli somministrassero il plasma iperimmune ma i medici mi hanno detto che non credevano alla sua efficacia. Gli hanno applicato la maschera per l‘ossigeno. Dopo un paio di giorni lui ha accusato un forte dolore al torace e il cardiologo ha prescritto un’angiotac: l‘eccesso di ossigeno probabilmente gli aveva creato un pneumotorace, una sorta di bolla nei polmoni. Invece di fargli la tac l’hanno spostato in rianimazione sotto un casco con ventilazione altissima. Li gli è scoppiato il pneumotorace: a quel punto, con un polmone che non funzionava più. l’hanno intubato. Gli hanno fatto i raggi oltre due giorni dopo che il cardiologo aveva prescritto la tac”.

“Ecco come sono morti i nostri genitori negli ospedali di Taranto”. Le denunce dei parenti delle vittime e l'inchiesta di PugliaPress TV approdate nella trasmissione Fuori dal Coro di Mario Giordano su Rete 4. Cosimo Lenti su  Pugliapress il 24 Marzo 2021. Il 18 Marzo è stata approvata in Parlamento la legge che riconosce la giornata dedicata alle vittime del Covid-19. La Puglia, come tutto il territorio nazionale, è stata martoriata dai decessi e continua ad esserlo. Anche noi abbiamo voluto onorare le persone cadute in questa “battaglia”. Lo abbiamo fatto ascoltando alcuni dei loro famigliari. Fanno parte di un comitato che raccoglie 18 famiglie che hanno denunciato le morti dei loro congiunti, durante la permanenza nella tendopoli gestita dal 118 tra ottobre e novembre del 2020, in un’area dell’ospedale Moscati di Taranto. I parenti delle vittime ci hanno raccontato le loro sensazioni, il dolore, versando anche qualche lacrima durante i loro racconti, come accaduto ad Angela, figlia dell’ispettore Cortese, deceduto il 3 novembre dello scorso anno: “Il mio papà lo conoscevano tutti. Era una persona di una bontà d’animo incredibile, rispettosa verso gli altri e umile. So che la vita è così, ma andarsene in questo modo è davvero pesante. La cosa che mi spiace più di tutti è che molte persone sono morte in assoluta solitudine. Il mio papà non se lo meritava. Lui era amico di tutti, aveva sempre una buona parola per chiunque e la soluzione per qualsiasi problema. E’ deceduto il 3 Novembre, dopo 30 ore di ricovero. La domenica sera non riusciva a respirare, prima d’allora non stava male. Lui stesso ci chiese di andare in ospedale. Coloro che vengono colpiti dal Covid, sanno di poter perdere la vita. Si sentono come annegare, rimanendo però lucidi fino all’ultimo momento. Mio padre non ha potuto avere nemmeno un abbraccio o un saluto da nessuno della sua famiglia. E’ morto come un cane abbandonato. Avrei voluto sentire le sue ultime parole e stringergli la mano in quell’ultimo attimo di vita.  Non abbiamo potuto fare il funerale. Solo la messa per il trigesimo. Non possiamo che metabolizzare il dolore, cercando di andare avanti. Rimane la rabbia, ma spero si attutisca. In quei reparti (Moscati) possono entrare solo coloro che vengono autorizzati, perciò la verità è quella che è. Spero solo che, al posto mio, qualcuno gli abbia fatto una carezza. Il grido di dolore non tutti lo capiscono”. La stessa tragedia è capitata ad un’altra famiglia, quella dell’Ispettore Del Sole. A ricordarlo sono i suoi figli: “Era stato ricoverato nel reparto di ematologia per un problema al sangue. Successivamente risultato positivo molto probabilmente contagiato all’interno dello stesso ospedale. Stessa sorte è capitata ad un’altra persona proprio negli stessi giorni. Papà aveva 71 anni. Soffriva di una diversa patologia, ma era guarito. La situazione è peggiorata nell’arco di pochi giorni, durante i quali non hanno capito da dove potessero derivare questi problemi, come ad esempio la lingua gonfia, la debolezza e le difficoltà a deglutire. Aveva fatto il tampone, pochi giorni prima di entrare nell’ospedale. Sia lui che mamma erano risultati negativi. La sera prima del ricovero, si evidenziarono, dagli esami, dei valori sballati. Venne ricoverato d’urgenza per una trasfusione. E’ entrato nell’ospedale con le sue gambe, accompagnato da nostra mamma. E’ stata l’ultima volta che lo abbiamo visto”.  Sembra che la fatalità abbia colpito altri agenti delle Forze dell’Ordine, come l’ispettore Ricci. Sono i figli a raccontarci la sua storia: “Nei primi giorni abbiamo assistito nostro padre personalmente.  Aveva disagi di salute, come febbre e tosse. La settimana precedente anche lui aveva fatto il vaccino risultando negativo. Quello che ci aveva allarmato di più era stato la saturazione. Papà era cardiopatico e quando la saturazione era scesa a 76, abbiamo chiamato subito l’autoambulanza. Pensavamo di aver messo nostro padre nelle mani di persone che potevano aiutarlo. Il resto lo sapete. Dalla comparsa dei sintomi a quando è stato portato in ospedale, sono decorsi cinque giorni. Il nostro comitato è composto da 18 famiglie che piangono 18 vittime. Non vogliamo accusare nessuno, però vogliamo chiarezza, soprattutto su strutture che potrebbero essere non idonee ad ospitare i pazienti.” Anche Piera Giaquinto denuncia di voler andare fino in fondo, alla ricerca della verità – “Il 18 Marzo è stata una giornata particolare. Ci siamo svegliati con una legge stata approvata in parlamento che riconosce la giornata nazionale per le vittime Covid. L’impatto è stato molto forte. Mi sono immedesimata, mentre facevo il mio minuto di silenzio per mio padre, con tutte quelle famiglie che ricordano le vittime dell’olocausto. Sembra un po’ di rivivere in tempi moderni quanto accaduto in quegli anni. Le lacrime sono rivolte a mio padre, ma anche a chiunque abbia sofferto in questi mesi. Io le ho ribattezzate: vittime di un sistema che non ha funzionato. Poteva essere salvato. Molte vite potevano essere salvate, come è stato testimoniato da molti operatori del 118 alla Procura. La nostra lotta continua. Ci rivolgeremo alla Corte dei Diritti dell’uomo a Lussemburgo. Sbagliare è umano, ma deve venire fuori la verità e chi ha sbagliato deve assumersi le proprie responsabilità. Quest’anno dopo trent’anni abbiamo festeggiato la Festa del Papà da soli. Lo ricorderò con un sorriso, lui che amava questa ricorrenza”. Una storia simile quella di Roberta Gatto che insieme alla sorella vive a Modena. Le due ragazze non hanno potuto salutare il loro papà a Taranto che le ha lasciate a soli 56 anni: “Abito a Modena, i miei genitori sono di Taranto. Non abbiamo assistere nostro padre, se non tramite telefono e le informazioni che mamma ci dava. È stata una delle vittime più giovani. Aveva 56 anni senza patologie pregresse. È uscito da casa con le sue gambe, quasi ridendo. Aveva detto a mia madre che sarebbe tornato dopo due giorni, ma non è stato così. Non è facile parlarne. Ogni notte mettevamo la testa sul cuscino, senza metabolizzare quanto accaduto.  Oggi è arrivato il momento di parlare e vi ringraziamo perché ci ascoltate. Nella nostra storia ci sono dei buchi neri e parecchie cose non ci tornano. Vogliamo la verità. Non riusciamo ad accettare che nostro padre, all’improvviso, sia peggiorato. Dopo sette giorni passati nell’auditorium, papà è stato indotto in coma e dopo una ulteriore settimana è deceduto. L’ultima volta che l’ho visto è stato davanti ad una telecamera, mentre seguivo il prelievo del 118.  Odiava gli ospedali e si chiedeva se fosse giusto farsi ricoverare. Non ci sarà rassegnazione, fino a quando non scopriremo la verità. Non sappiamo cosa abbia passato. Lui diceva che lì non stava bene.  Non mangiava, non poteva andare in bagno ed è stato costretto a farsi addosso. Conosco un genitore che ha vissuto la stessa esperienza di mio padre, ma a Modena. Questo signore ha origini calabresi e si è domandato: ‘Sarei ancora vivo se fossi rimasto nella mia terra?”. Tanti racconti e diverse emozioni contrastanti che abbiamo condiviso. La rabbia è il denominatore comune. Queste famiglie che piangono i loro famigliari hanno bisogno della verità. Solo allora, forse, potranno iniziare ad alleviare il proprio dolore. Intanto, nella trasmissione Fuori dal Coro di Mario Giordano è approdata l’inchiesta fatta da PugliaPress.

Le denunce servono, ma purtroppo non bastano. Solo ieri il figlio della vittima ha denunciato il caso al TgNorba. Annamaria Rosato su Tgnorba il 27 gennaio 2021. Le denunce servono, ma purtroppo non bastano. È deceduto oggi pomeriggio al Moscati di Taranto il paziente, negativo al tampone, che il 5 gennaio scorso, fu ricoverato al ss. Annunziata per una polmonite. Il giorno delle sue dimissioni, l 11 gennaio, fu sottoposto nuovamente al tampone e risultò positivo. Venne trasferito al Moscati dove fu intubato. Le sue condizioni peggiorarono. Ieri il figlio ha denunciato al Tg norba la vicenda. Oggi la triste notizia. Intanto Vincenzo di Gregorio, vice presidente della commissione sanità alla regione Puglia, chiederà al direttore generale della Asl, Rossi, tutta la documentazione relativa al paziente per capire cosa non ha funzionato.

FRATELLI D’ITALIA CHIEDE UNA COMMISSIONE D’INCHIESTA SULLE MORTI COVID AL ” MOSCATI” DI TARANTO. Il Corriere del Giorno il 10 Febbraio 2021. Fratelli d’Italia ha denunciato da tempo e senza sosta quello che stava avvenendo all’ospedale Moscati, soprattutto i tantissimi morti nelle tende allestite fuori dall’ospedale, presenterà una proposta di legge, primo firmatario Renato Perrini, per l’istituzione di una Commissione d’Inchiesta sulle morti per Covid a Taranto. Da ieri sera tutta Italia sa cosa è successo a Taranto durante la prima fase della seconda ondata Covid. Il servizio andato in onda in un programma di approfondimento giornalistico nel programma “Fuori dal Coro” su Rete 4 dal titolo inequivocabile "Virus, sotto accusa le morti sospette all’ospedale di Taranto", ma tutto ciò purtroppo non è una sorpresa per chi ha denunciato da tempo e senza sosta quello che stava avvenendo al Moscati, soprattutto i tantissimi morti nelle tende allestite fuori dall’ospedale. Nel servizio un operatore sanitario ha spiegato di aver riferito anche al magistrato inquirente che “quelle morti potevano essere evitate. Se è così, in attesa che le autorità preposte assumano le iniziative che riterranno opportuno e doveroso avviare per rendere giustizia alle famiglie, spesso inascoltate, a noi consiglieri regionali – dicono in una nota congiunta i consiglieri regionali di Fratelli d’ Italia Luigi Caroli, Giannicola De Leonardis, Antonio Gabellone, Renato Perrini, Francesco Ventola e il capogruppo Ignazio Zullo – spetta il compito  di fare chiarezza sulle responsabilità politiche, perché spesso si addebitano ai professionisti in prima linea responsabilità che invece sono collegate all’inadeguatezza dell’indirizzo politico-amministrativo e all’inefficacia delle misure gestionali e organizzative che vengono messe in campo“. Per questo Fratelli d’Italia presenterà una proposta di legge, primo firmatario Renato Perrini, per l’istituzione di una Commissione d’Inchiesta sulle morti per Covid al Moscati di Taranto. “Non siamo, non possiamo e non vogliamo trasformarci in un tribunale, non è il nostro ruolo e obiettivo, ma in quanto opposizione abbiamo il dovere di capire come viene tutelata la vita e la salute dei pugliesi. E i risultati del lavoro di una Commissione d’inchiesta potrebbero anche mettere in luce, salvaguardare e valorizzare il lavoro di tanti professionisti (medici e operatori sanitari) che lavorano al meglio della loro professionalità e umanità in quello che è nel frattempo diventato l’Oncologico di Taranto, una struttura ospedaliera dotata oggi di strumentazioni all’avanguardia nella cura del cancro“.

TARANTO, LA SECONDA PROVINCIA IN ITALIA PER DIFFUSIONE DEL COVID. Il Corriere del Giorno il 5 Aprile 2021. Le giornate di Pasqua e Pasquetta sono state dedicate alla vaccinazione contro il Covid-19 dei “caregiver”, genitori, tutori, affidatari, familiari conviventi (maggiorenni e non in condizione di fragilità) di minori di 16 anni. Nel Tarantino, negli ultimi sette giorni si è passati da 28.819 positivi a 31.186, quasi 3mila in più. Record contagi a Taranto: il consigliere regionale Perrini (FdI) attacca ASL Taranto: “Rossi che smentiva quanto io denunciato, oggi non ha nulla da dire ?” La provincia di Taranto in questo momento è la seconda area più colpita d’Italia, preceduta solo da Prato, negli ultimi sette giorni come rivelano gli ultimi dati del Ministero della Salute. Al sesto posto c’è anche la provincia di Bari con 372 contagi ogni 100mila abitanti nell’ultima settimana. Nel Tarantino, negli ultimi sette giorni si è passati da 28.819 positivi a 31.186, quasi 3mila in più. Su 3978 test per l’infezione da Covid-19 nel giorno di Pasquetta sono stati registrati in Puglia 677 casi positivi con un tasso di positività del 17% e 20 decessi. I nuovi infetti sono così distribuiti: 265 in provincia di Foggia,, 211 in provincia di Bari, 125 in provincia di Lecce, 44 in provincia di Taranto, 23 nella provincia BAT, 5 in provincia di Brindisi, 3 casi di residenti fuori regione, 1 caso di provincia di residenza non nota. I20 decessi sono stati registrati 9 in provincia di Bari, 6 in provincia di Taranto, 2 in provincia di Brindisi, 2 in provincia di Foggia, 1 residente fuori regione. Dall’inizio dell’emergenza sono stati effettuati 1.926.979 test. Solo 145.721 i pazienti guariti. I casi attualmente positivi sono 51.220. Le giornate di Pasqua e Pasquetta sono state dedicate alla vaccinazione contro il Covid-19 dei “caregiver”, genitori, tutori, affidatari, familiari conviventi (maggiorenni e non in condizione di fragilità) di minori di 16 anni, nati dal 1 gennaio 2005 in poi, con disabilità grave ai sensi della legge 104/92 art. 3 comma 3. “Rileggo tutte le precisazioni che la Asl di Taranto ha fatto alle mie denunce e mi chiedo: se io avevo torto quando segnalavo i disservizi e la disorganizzazione della gestione Covid, la nostra provincia non dovrebbe avere problemi sanitari. Invece, ieri abbiamo avuto la sorpresa di vedere la provincia di Taranto sul podio di quelle messe peggio dopo quella di Prato siamo infatti quella che registra in percentuale più contagi, ben 420 casi ogni 100mila abitanti“ commenta il consigliere regionale di Fratelli d’Italia, Renato Perrini. “Quindi non andava tutto bene, così come raccontavano i vertici dell’Asl replicando alle mie denunce. Se oggi siamo cos? penalizzati è proprio per tutto quello che io vedevo – visitando ospedali ed hub vaccinali – e segnalavo, non con spirito di polemica ma perché se anche il direttore generale, Stefano Rossi, si fosse fatto un giro fra le strutture sanitarie, se avesse ascoltato i suoi medici che denunciavano di lottare contro il virus a mani nude, se avesse dato retta alle lamentele dei medici di base e alle proteste dei pazienti, non avrebbe perso tempo a scrivere e far scrivere a me. Ma avrebbe avuto più tempo per fare in modo che oggi la situazione a Taranto non fosse cosi grave! Che dire, complimenti ! ” conclude Perrini.

LA PUGLIA “MAGLIA NERA” NELLA LOTTA AL COVID. VACCINI TROPPO A RILENTO. Il Corriere del Giorno il 4 Aprile 2021. Il risultato delle proiezione elaborate da Lab24 del Sole24Ore è tragicamente impietoso. La media giornaliera di 10.570 vaccini somministrati nell’ultima settimana pone la Puglia all’ultimo posto tra le regioni italiane per velocità di immunizzazione della popolazione, soprattutto se confrontata alle regioni del Nord, ma non solo, infatti anche se raffrontata rispetto alle altre regioni del Sud , con Sicilia, Campania e Calabria in testa, il cui termine di somministrazione è fissato tra marzo e maggio 2022. Secondo i sindacati dei medici pugliesi la campagna vaccinale è gestita “nell’anarchia assoluta“, i ritardi si accumulano ed “il caos regna sovrano” e “così finiremo nel 2022“. Commenti in linea alle proiezioni elaborate dal Sole24Ore sulla base dei dati ufficiali del Ministero della Salute, secondo i quali la Puglia è maglia nera per capacità di somministrazione giornaliera dei vaccini: al ritmo attuale di 10.500 inoculazioni al giorno si evidenzia nella ricerca statistica ci vorranno 1 anno, 3 mesi e 8 giorni per vaccinare il 70% della popolazione. Quindi, ben 11 mesi di ritardo rispetto all’obiettivo fissato dal Governo che intende completare la campagna vaccinale ad agosto di quest’anno. La bocciatura senza giustificazioni nei confronti del governatore Michele Emiliano e dell’assessore alla Sanità Pier Luigi Lopalco ieri è stata manifestata nel documento sottoscritto pressochè all’unanimità dai sindacati Fp medici, Cgil, Simet, Snami, Smi, e Ugs ed inviato alla Regione Puglia. In questa fase secondo i sindacati “i comitati di distretto e i nuclei operativi aziendali hanno formulato provvedimenti operativi sul progetto campagna vaccinazione anti-Covid difformi, nella maniera più assoluta, rispetto al protocollo di intesa firmato” lo scorso 5 marzo con la Regione Puglia . “L’ultima novità – dicono i sindacti – è l’iniziativa regionale comunicata il due aprile di organizzare, in tutta la regione, dopo solo due giorni cioè il quattro aprile il vaccine day per caregiver e familiari conviventi di soggetti fragili. E organizzare una seduta vaccinale in due giorni denota l’improvvisazione con cui si gestisce la campagna vaccinale“. I medici pugliesi evidenziano come “non si abbia ancora certezza di come verranno organizzate le vaccinazioni al di fuori degli ambulatori d e se ci saranno i vaccini“.  Una contestazione che trova conferma sul fronte dei ritardi nella somministrazione vaccinale, anche nei dati statistici. Il risultato delle proiezione elaborate da Lab24 del Sole24Ore è tragicamente impietoso. La media giornaliera di 10.570 vaccini somministrati nell’ultima settimana pone la Puglia all’ultimo posto tra le regioni italiane per velocità di immunizzazione della popolazione, soprattutto se confrontata alle regioni del Nord, ma non solo, infatti anche se raffrontata rispetto alle altre regioni del Sud , con Sicilia, Campania e Calabria in testa, il cui termine di somministrazione è fissato tra marzo e maggio 2022. Le dosi consegnate alle singole regioni, quelle somministrate e la percentuale sul totale. Il dato è fornito anche in rapporto al numero di abitanti. Per essere vaccinati servono due dosi a distanza di 21 giorni per Pfizer, 28 per Moderna, da 78 a 84 giorni per Astrazeneca. Per chi è stato positivo al covid è possibile effettuare una sola dose, salvo in casi di immunodeficienza  . Con i vaccini Pfizer, Moderna e Astrazeneca, gli unici attualmente disponibili, la vaccinazione è completa con due dosi. Per i guariti può bastarne una, salvo in caso di immunodeficienza, ma “eseguita ad almeno 3 mesi di distanza dalla documentata infezione e preferibilmente entro i 6 mesi dalla stessa“. (ricerca Lab24-Sole24Ore). Va ricordato che quella elaborata dal Sole24Ore è una proiezione statistica sui dati del Ministero della Salute, il cui risultato è legato al numero di dosi a disposizione dei centri vaccinali di ogni regione. AstraZeneca e Pfizer dovrebbe consegnare già nelle prossime circa 175.500 nuove dosi e quindi è auspicabile che la capacità di somministrazione vaccinale possa aumentare e quindi dovrebbero ridursi i tempi di immunizzazione della popolazione . Le vaccinazioni effettuate in Puglia sino alla data odierna sono 638.976. Gli hub vaccinali saranno al lavoro anche oggi e domani per la vaccinazione dei caregiver, affidatari, tutori, genitori, familiari conviventi di minori di 16 anni. L’elenco degli hub vaccinali, gli orari di apertura e i raggruppamenti per lettere alfabetiche, è disponibile sul sito della Regione Puglia.  Per organizzare al meglio i flussi, si procederà in base al cognome del minore con disabilità, secondo quanto predisposto dal calendario di ciascuna Asl. La diffusione del virus in tutta la Puglia elabora dei numeri che spaventano la provincia di Taranto dove sono stati riscontrati 574 nuovi casi in più nelle ultime 24 ore. in un territorio che era stato “graziato” nella prima pandemia del Covid di marzo/giugno 2020, adesso sta pagando un conto pesante in questa ultima fase con un incremento medio dei nuovi casi “positivi” che è stato del 53% negli ultimi tre giorni. La settimana “nera” ha sradicato ogni barriera di contenimento del virus con 2.437 nuovi casi riscontrati da domenica 28 marzo ad oggi. Un quinto dei contagiati pugliesi nello stesso periodo sono tarantini. La provincia di Taranto, sempre nella stessa settimana , è prima in Puglia nel rapporto tra nuovi positivi e popolazione con 422 contagiati ogni 100.000 residenti nella provincia jonica, contro la media regionale che è stata del 315 per centomila (dati riferibili all’ultima settimana). Anche la media giornaliera dei decessi attribuiti alle complicanze dell’infezione virale è preoccupante con 6,8 morti al giorno, 48 nell’ultima settimana tra Taranto e provincia. Anche per la catena dei decessi per Covid in Puglia, Taranto ha una quota importante con 23 decessi sui cento decessi in tutta la Puglia. Tutto ciò nonostante fra dicembre e febbraio in Puglia c’è stata una corsa alle vaccinazioni. La volata però non ha riguardato over 80, fragili o ammalati allettati, ma minorenni e gente che si è iscritta alle associazioni di volontariato per poi sventolare la tessera e pretendere il vaccino, beneficio questo che è stato concesso. Sono alcuni dei dati che emergerebbero dalle inchieste del Nucleo ispettivo regionale sanitario pugliese (Nirs) su quanti si sarebbero vaccinati non avendone diritto. Secondo le indagini, dallo scorso dicembre a metà febbraio in Puglia alcune decine di minorenni, tra i 14 e i 17 anni, sono riusciti a vaccinarsi pur non avendone diritto. Con loro anche alcune decine di persone che hanno approfittato della dicitura ‘volontari‘ ai quali era concesso il vaccino prima di una circolare regionale che ne ha specificato la tipologia, ovvero i volontari del servizio 118, quelli che portano le bombole a casa dei pazienti con il Covid, e quelli che lavorano nel servizio di emergenza-urgenza. Su come i minorenni abbiano potuto ottenere la vaccinazione, il coordinatore del Nirs, avvocato Antonio La Scala, non sa dare una spiegazione: “Non so come abbiano fatto, quel che è certo è che non ne avevano assolutamente diritto”. Ed adesso la vicenda è nelle mani delle varie Procure della Repubblica in Puglia. Lo scandalo degli scandali è stata la vaccinazione dei sacerdoti a Taranto. Un centinaio di sacerdoti delle Diocesi di Taranto e Castellaneta sono stati sottoposti alla vaccinazione anti-Covid, circostanza confermata dallo stesso arcivescovo di Taranto, monsignor Filippo Santoro, e che fa discutere, in ragione della “fame” di vaccini sul territorio. La vaccinazione di massa per i preti che per età o perché qualificati come personale scolastico non erano già stati immunizzati è stata portata avanti nella giornata di lunedì scorso in un hub appositamente attrezzato al Seminario Arcivescovile sulla strada di Martina Franca come confermato da mons. Santoro martedì in una intervista alla Tgr Rai Puglia: “Io sono totalmente sereno” sono le parole del vescovo alla Tgr “ho parlato con il Prefetto, che mi ha informato che (quella dei sacerdoti) rientra nelle categorie di persone che ne hanno diritto” a cui ha fatto seguito una nota dell’Arcidiocesia di Taranto firma del portavoce don Emanuele Ferro : “In relazione alle polemiche sulle vaccinazioni anti Covid effettuate in questi giorni ai sacerdoti dell’Arcidiocesi di Taranto, questa stessa Arcidiocesi intende precisare e chiarire di non aver mai auspicato, chiesto e preteso trattamenti di favore, o corsie preferenziali e privilegiate, verso gli esponenti del clero”. Una versione subito smentita dal Prefetto di Taranto : “L’arcivescovo mi ha legittimamente rappresentato un quesito sulla esigenza di sottoporre i sacerdoti alla vaccinazione. Io, in virtù del mio ruolo di coordinamento territoriale, dopo aver valutato quanto previsto nel piano vaccinale nazionale e in quello regionale e ritenendo che vi fosse la possibilità di vaccinare i sacerdoti, mi sono limitato a interfacciare la Curia con la Asl. Ho quindi semplicemente svolto il mio ruolo di coordinamento fra istituzioni. Non ho rilasciato alcuna autorizzazione e comunque non avrei potuto farlo perché non ne ho la competenza“. Amen. Questa è la Puglia di Emiliano. Questo accade a Taranto, città dove la legge è un opinione e la Procura della Repubblica invece di indagare, dorme “sonni” silenti conseguenti ai suoi noti conflitti d’interesse.

Seimila manduriani non hanno fatto nemmeno una dose di vaccino contro il Covid. La Voce di Manduria sabato 25 settembre 2021. Sono quasi seimila i manduriani nella fascia d’età da 12 anni in poi che non hanno ancora fatto nemmeno una dose di vaccino contro il coronavirus. E’ il dato che emerge dall’indice di immunizzazione degli abitanti della provincia di Taranto pubblicato ieri dalla Asl ionica. I manduriani vaccinati con almeno una dose sono circa 26.000 pari al 79% dei vaccinabili. Una percentuale bassa rispetto agli altri comuni della provincia, due terzi dei quali hanno superato l’80% dei vaccinati. Manduria occupa così il 24simo posto nella classifica dei comuni. Nel confronto tra distretti, quello orientale è il peggiore. I comuni che fanno riferimento all’hub vaccinale Messapico, infatti, occupano tutti gli ultimi posti ad eccezione di Avetrana che si piazza al quarto posto con l’83,4%: dopo Fragagnano con il 79,2% e Manduria con il 79%, viene Sava (78,2%), Lizzano (77,8%), Maruggio (77,7%), Torricella (76,8%). Tra i comuni di questo versante i più virtuosi sono quelli di San Marzano di San Giuseppe che risultano vaccinati per l’81,7%.  Di seguito l’elenco dei comuni con la relativa percentuale dei vaccinati con almeno la prima dose. Continua la campagna vaccinale in provincia di Taranto: la percentuale dei residenti (maggiori di 12 anni) vaccinati con almeno una dose ha superato l’81%. Di seguito l’elenco dei comuni con la relativa percentuale dei vaccinati con almeno la prima dose.

1.         Laterza 85,7%

2.         Crispiano l’84,8%

3.         Roccaforzata 84,8%

4.         Avetrana l’83,4%

5.         Statte 83,1%

6.         Monteiasi 83,1% 

7.         Massafra l’82,8%

8.         Grottaglie l’82,7%

9.         Martina Franca l’82,6%

10.   Palagianello 82,3%

11.   Monteparano 81,9%

12.   San Marzano di San Giuseppe 81,7%

13.   Taranto 81,7

14.   Montemesola 81,3%

15.   Faggiano l’81,2%

16.   Mottola 81,1%

17.   Carosino l’80,7%

18.   Palagiano 80,4%

19.   San Giorgio Ionico 80,1%

20.   Leporano 80%

21.   Castellaneta il 79,6%

22.   Pulsano 79,2%

23.   Fragagnano il 79,2%

24.   Manduria il 79%

25.   Sava il 78,2%  

26.   Lizzano il 77,8%

27.   Maruggio il 77,7%

28.   Ginosa 77,6%

29.   Torricella il 76,8%

Covid, 139 i nuovi casi positivi in Puglia. Solo 5 i decessi. I numeri suggeriscono ancora ottimismo. La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Luglio 2021. Sono 7.301 i test registrati oggi in Puglia per l'infezione da Covid-19: 139 i casi positivi: 35 in provincia di Bari, 14 in provincia di Brindisi, 14 nella provincia BAT, 8 in provincia di Foggia, 36 in provincia di Lecce, 31 in provincia di Taranto, 2 fuori regione. Un caso precedentemente attribuito a provincia non nota, è stato classificato oggi, per cui il totale odierno resta di 139 casi positivi.

Sono stati registrati 5 decessi, 1 a Bari e 4 a Taranto. Dall'inizio dell'emergenza sono stati effettuati 2.796.793 test, sono 245.974 i pazienti guariti  e 1.824 i casi attualmente positivi.

 Il totale dei casi positivi Covid in Puglia è di 254.462, così suddivisi:

95.448 nella Provincia di Bari

25.653 nella Provincia di Bat

19.930 nella Provincia di Brindisi

45.288 nella Provincia di Foggia

27.289 nella Provincia di Lecce

39.647 nella Provincia di Taranto

835 attribuiti a residenti fuori regione

372 provincia di residenza non nota.

I Dipartimenti di prevenzione delle Asl hanno attivato tutte le procedure per l'acquisizione delle notizie anamnestiche ed epidemiologiche, finalizzate a rintracciare i contatti stretti.

Cosmopolismedia il 23 aprile 2021. Il numero totale dei decessi per Covid, suddivisi per Comune di residenza della provincia di Taranto.

Dati aggiornati al 22 aprile 2021 – Fonte Asl Taranto.

Nessuna descrizione della foto disponibile.

 

RAPPORTO COVID-19 AL 31.01.2021 ORE 13:00

A cura di: Sante Minerba, Antonia Mincuzzi, Simona Leogrande Collaborazione col Dipartimento di Prevenzione Asl Taranto Fonte: Istituto Superiore di Sanità.

Numero di casi positivi (da Febbraio 2020 ad oggi)

Comune

Maschi

Femmine

N° casi positivi

Avetrana

42

47

89

Carosino

100

108

208

Castellaneta

206

208

414

Crispiano

121

137

258

Faggiano

39

38

77

Fragagnano

53

64

117

Ginosa

174

216

390

Grottaglie

420

464

884

Laterza

258

347

605

Leporano

131

120

251

Lizzano

165

177

342

Manduria

306

346

652

Martina Franca

502

507

1009

Maruggio

37

36

73

Massafra

503

551

1054

Monteiasi

104

110

214

Montemesola

37

49

86

Monteparano

26

33

59

Mottola

252

271

523

Palagianello

148

167

315

Palagiano

281

270

551

Pulsano

149

129

278

Roccaforzata

32

31

63

San Giorgio Ionico

200

216

416

San Marzano di San Giuseppe

133

176

309

Sava

134

149

283

Taranto

3097

3552

6649

Torricella

38

37

75

Statte

216

259

475

TOTALE

7904

8815

16719

 

Covid, s'allevia la tensione in Puglia. Sono 8.420 i casi attualmente positivi, 19 quelli nuovi. La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Giugno 2021. Decessi su 252.843 casi:

0-9 1

10-19 0

20-29 9

30-39 27

40-49 82

50-59 333

60-60 935

70-79 1983

80-89 2370

≥ 90 869

Totale 6609

Sono 4.356 i test effettuati per l'infezione da Covid e 19 i casi positivi: 1 in provincia di Bari, 11 in provincia di Brindisi, 1 in provincia di Foggia, 2 in provincia di Lecce, 5 in provincia di Taranto. 1 caso già registrato nella provincia BAT è stato riclassificato e riattribuito. Sono stati registrati 4 decessi: 3 in provincia di Lecce, 1 in provincia di Taranto.

I NUMERI - Dall'inizio dell'emergenza sono stati effettuati 2.619.454 test, 237.853 sono i pazienti guariti, 8.420 sono i casi attualmente positivi. Il totale dei casi positivi Covid in Puglia è di 251.882 così suddivisi:

95.077 nella Provincia di Bari

25.563 nella Provincia di Bat

19.723 nella Provincia di Brindisi

45.119 nella Provincia di Foggia

26.875 nella Provincia di Lecce

39.349 nella Provincia di Taranto

806 attribuiti a residenti fuori regione

370 provincia di residenza non nota.

I Dipartimenti di prevenzione delle Asl hanno attivato tutte le procedure per l'acquisizione delle notizie anamnestiche ed epidemiologiche, finalizzate a rintracciare i contatti stretti.

Puglia, 4344 sono le persone scomparse e mai trovate: oltre 80% sono minori. Dati aggiornati al 31 dicembre 2020 . La provincia di bari è quella con il maggior numero di scomparsi, la BAT con il minor numero. La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Febbraio 2021. In Puglia al 31 dicembre 2020 le persone scomparse e non ritrovate erano 4.344, cento in più dell’anno precedente, delle quali 3.574 minorenni (l'82,2%). Degli scomparsi totali 503 sono cittadini italiani (127 minorenni) e 3.841 stranieri (3.447 minorenni). Sono alcuni dei dati contenuti nella XXIV Relazione annuale del Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse. Dal report emerge che in 46 anni, dal 1974 al 2020, in Puglia è stata denunciata la scomparsa di 16.131 persone (9.643 italiani e 6.488 stranieri), più della metà minorenni (8.383), uno su quattro non più ritrovato. Sulla base dei dati forniti dalle forze di Polizia, ci sono inoltre 59 cadaveri mai identificati. Questi dati pongono la regione al sesto in Italia con il 6,24% del totale delle denunce fatte relative a persone scomparse. La relazione analizza anche il fenomeno per provincia. Nei 46 anni analizzati è Bari quella con i numeri più rilevanti (6.533 scomparsi, 2.801 dei quali minorenni, il 75% tra i 15 e i 17 anni), mentre quella con il dato più basso è la Bat con 2 persone scomparse nell’intero periodo. Il focus sul periodo 2007-2020 che riguarda le città metropolitane, rivela che a Bari è stata denunciata negli ultimi 13 anni la scomparsa di 4.172 persone (2.921 di nazionalità italiana e 1.251 stranieri), 746 delle quali non ritrovate (83 italiani e 663 stranieri).

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 19 febbraio 2021. Per gentile concessione dell'editore Mondadori pubblichiamo la prefazione scritta dal direttore Feltri per il libro «Emilio Riva, l' ultimo uomo d' acciaio» di Giovanna du Lac Capet. Emilio Riva. Imparerete alla fine di questo libro a ripetere questo nome e a pensare alla persona che lo portava con infinito rispetto. Anche i più duri e convinti denigratori delle opere di questo signore, proprietario e gestore delle acciaierie di Taranto, dovranno - se hanno un minimo di onestà intellettuale - picconare le loro convinzioni di granito, e lasciarsi invadere almeno da un dubbio. Io non ne ho più. Era una brava persona, imperfetta come tutti, ma aveva il genio dell' imprenditore lombardo, partito dal niente, ha corso il rischio d' impresa, dove si può perdere tutto, sbagliando un prodotto o una strategia. Ad ucciderlo però non è stata la concorrenza, o un abbaglio ingegneristico. Ma ciò che non aveva considerato: il combinato disposto - come dicono quelli che sanno le cose - di ignoranza e di invidia. La moda ecologista un tanto al chilo e l' odio per i ricchi tipica di un cattocomunismo tutto italiano, hanno fatto scattare la sindrome del capro espiatorio. Lui con il suo orgoglioso silenzio ci ha messo del suo: ha lasciato che preparassero la pira su cui bruciarlo senza protestare, lasciando che lo accusassero e lo dipingessero come Erode vestendosi di silenzio scambiato per menefreghismo.

RIAPRIRE LA PRATICA. Ma dopo queste pagine, bisognerà riaprire la pratica. Forse non è come la raccontano. Forse non era un assassino e nemmeno un distruttore cinico della natura. Forse siamo davanti a qualcosa di più e di peggio di un errore giudiziario. In fondo l' errore non si è ancora consumato. Non c' è stato alcun giudizio né di primo né di secondo né di terzo grado, su Emilio Riva. Né ci sarà più. «Triste, solitario y final», come il titolo del romanzo di Osvaldo Soriano, è morto nel carcere della sua casa prima che ci fosse alcun giudizio di merito. Eppure la sentenza è tutta scritta. La sua colpevolezza è stata decisa, nell' istante stesso in cui pm e gip hanno spiccato i mandati d' arresto di Emilio, di un suo figlio e di altri dirigenti, da quel clima di "dagli all' untore" che vede gli imprenditori come propagatori consapevoli della peste. Governo, partiti, sindacati, Chiesa cattolica; tutti invocano investimenti, chiamano capitali americani e il rientro di quelli italiani, per rimettere in piedi l' industria. Ma appena uno riesce a far funzionare una fabbrica, dà lavoro e ricava utili, diventa un assassino potenziale e nel caso di Riva un criminale seriale. Con che prove? Nessuna. Tutti si improvvisano esperti in epidemiologia, e bevono come oro colato relazioni senza forza scientifica. Non serve che le tesi accusatorie siano sbugiardate da periti di Tribunale. La furia da linciaggio è innescata dalla semplice ipotesi di reato. Ci si convince della volontà di far del male. Non si prende atto che il presunto assassino, ahimè o forse per fortuna morto, ha vissuto insieme a quegli operai e impiegati, dividendo con loro polveri e fumi, oltre che il lavoro. Emilio Riva... Ditelo tutti con rispetto questo nome. Altro che mostro. Ho imparato tutto questo non dai giornali. Ho dovuto accorgermi di questo scempio - anche se qualche cronista coraggioso aveva provato ad alzare timide barriere di buon senso contro la bufera oscurantista - leggendo le bozze di questo volume che ora avete in mano. Fidatevi, è prezioso. Ci sono dei libri che hanno un valore privato, sono destinati a piccola circolazione, sono lettere ad amici o ai figli, perché ricordino qualcosa di noi. Oppure esistono le denunce pubbliche di un torto subito, e si danno alle stampe confidando che scuotano il potere dalle fondamenta. Questo libro è un' altra cosa. È una lettera intima, che più intima non si può, perché è un lungo biglietto d' amore al proprio uomo. Ed insieme è un testimonianza pubblica di potenza civica dirompente. Questo rende l' opera di Giovanna du Lac una rarità, una perla e insieme una bomba. Vedrete: cercheranno di nascondere la perla e di togliere la miccia alla dinamite. Eventualmente diranno alcune parole comprensive per il dolore della vedova, le perdoneranno per questo le accuse puntuali e chiare come il sole, dicendo: poveretta, bisogna capirla, è la moglie di Emilio Riva, morto a 88 anni, mentre era privato della libertà, malato, chiuso in casa, senza poter vedere nessuno, salvo gli avvocati, non vuole capire la signora che quell' uomo ha distribuito tumori come caramelle. Proprio a questa immagine terribile, e da cui Emilio non può più difendersi, si oppone e si opporrà questa nobile donna italiana e africana, bizantina e francese, discendente dei re capetingi, di Costantino il Grande e degli imperatori dell' Impero romano d' Oriente. Ma soprattutto una donna innamorata, capace di versare ogni stilla di se stessa per la causa di un uomo con cui ha diviso il letto e il risotto (il lavoro no, lui glielo impedì sempre) per più di quarant' anni. «Damnatio memoriae» Peggio delle denunce in Tribunale sarebbe l' oblio o la compassione condiscendente. Se ho imparato a conoscere da queste pagine la signora Giovanna - come presto farete voi, e arriverete in un amen in fondo al libro - la cosa che teme di più è la "damnatio memoriae" del compagno della sua vita. In che cosa consiste questa operazione? Si tratta di inquinare per sempre il ricordo di una persona, fino a impedire qualsiasi revisione storica dei fatti e dei giudizi conseguenti. È una tecnica fatta apposta per togliere la voglia di curiosare nelle vicende su cui è stata scritta la verità ufficiale, al punto che chi si azzarda a formulare un' ipotesi meno conformista, è messo sulla graticola come amico prezzolato dei malfattori. Io, che sono nessuno, e non ho autorevolezza in alcun ramo della scienza e della morale, ho però un difetto: sono curioso, non mi sono mai accontentato delle verità stabilite una volta per tutte e pure con la pretesa di essere inoppugnabili. Non perché sia virtuoso, figuriamoci, ma perché mi annoio a stare in gruppo. Se non avessi in uggia la noia, avrei passato le serate a giocare a carte con gli altri inviati a Napoli per il processo Tortora, invece di spulciare tra le carte accusatorie giudicate infallibili da (quasi) tutti i miei colleghi. Sia chiaro: qui non istituisco nessun paragone tra Riva e Tortora. È diventato stucchevole questa liturgia e giustamente fa arrabbiare la figlia. Ogni ingiustizia è un' ingiustizia unica. Quella che ha colpito i Riva emerge dal racconto con la forza dell' ingenuità. E volentieri ho accettato di scrivere queste pagine come modesto deterrente ai tentativi di disinnescare questo racconto. Sia chiaro. Non ho alcuna vocazione a fare lo scudo umano delle cause perse. Ma mi dispiacerebbe perdere questa causa. Mi sono convinto sia autentica e che tutto sia onesto, fin nelle virgole, in questo diario di una vita perché Emilio Riva esce da queste pagine non come un Cavaliere immacolato, ma persino come uno "stronzo" (lo dice la sua signora) ossessionato dal lavoro, al punto da metterlo davanti a qualsiasi cosa, anche agli affetti. È la mania milanese, il vizio lombardo. Che razza di uomo però. È tanto più efficace la testimonianza dell' Autrice proprio perché è così personale, piena di elementi di una vita famigliare che la riservatezza dei Riva aveva impedito finora di riferire. Ne esce qualcosa di estremamente sobrio, e insieme tenero. È convinta di denudarsi e di mostrare il marito nella sua verità inerme. Eppure resta in queste pagine il segno di un pudore e di una discrezione oggi incomprensibili nella pseudo-civiltà del gossip. Giovanna Dussac (non so che titolo darle, forse Principessa, mi perdonerà l' ignoranza se per me è solo una signora, una vera signora) dice molte cose della storia d' amore con Emilio, ma non c' è nessuna civetteria né esibizionismo: è come chi deve esibire le fotografie di una tortura ricevuta perché non si ripeta più per nessuno.

AL CUORE DELLO STATO. Questo diario è dunque un esplosivo a carica multipla, una bomba cluster, che vuole arrivare al cuore dello Stato, nelle viscere della Giustizia e nella mente degli italiani. Allo Stato e al governo dice: Emilio Riva è stato il più grande industriale italiano. Ha illustrato il nome dell' Italia nel mondo. Ha dato lavoro a centinaia di migliaia di persone. Ha resuscitato la siderurgia, trasformandola in fonte di ricchezza e orgoglio nazionale, dopo che le partecipazioni statali l' avevano ridotta a idrovora di denaro pubblico. Perché non avete impedito con la forza dei decreti e del buon senso di difendere un bene italiano dalle visione corte della magistratura? Alla giustizia dice: che senso ha sbattere agli arresti un signore ampiamente sopra gli ottantacinque anni, malato, e il tutto come custodia cautelare? Che roba è? Non vale qui tirare fuori i bambini morti di cancro. Non c' entra nulla. È presunto innocente. Agli italiani dice questo, Giovanna du Lac. Avete in mente la figura stilizzata della Giustizia, incarnata nella dea greca Dike? L' autrice vuole bucare il marmo della sua statua che occupa gli androni delle varie procure e dei relativi tribunali, ma vuole provare a suscitare un senso di vergogna collettiva per il linciaggio cui è stato sottoposto il suo uomo. Il modo per convincerli è una lettera d' amore al proprio uomo di una donna che non sopporta le sia stato ucciso dall' ingiustizia. Secondo me si illude. Ma tifo per lei, cara Giovanna.

Taranto, morto in carcere il boss Riccardo Modeo: da 30 anni in cella. Aveva 63 anni ed era affetto da un male incurabile. La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Marzo 2021. È morto oggi all’alba il boss tarantino Riccardo Modeo, di 63 anni, storico boss della mala tarantina, condannato a 4 ergastoli. Era affetto da un male incurabile e dopo aver trascorso 30 anni in carcere una decina di giorni fa era stato prima ricoverato nel reparto oncologico dell’ospedale Moscati e poi aveva ottenuto la possibilità di trascorrere la detenzione ai domiciliari, in casa di una sorella. Riccardo Modeo, insieme ai fratelli Claudio e Gianfranco, fece parte di uno dei clan protagonista della guerra di mala che insanguinò Taranto a cavallo tra gli anni '80 e '90. Il suo legale, l’avvocato Maria Letizia Serra, si era battuto affinché il suo assistito ottenesse gli arresti domiciliari in una struttura sanitaria. Modeo fu arrestato agli inizia degli anni Novanta nel blitz Ellesponto sfociato nel grande processo alla criminalità tarantina, che ha ricostruito la saga dei fratelli Modeo, il traffico di droga, il racket delle estorsioni, gli omicidi a catena soprattutto all’interno di formazioni prima alleate e poi nemiche dell’organizzazione madre. L’inchiesta «Ellesponto» ha ricostruito il filo rosso-sangue della memoria. Almeno un centinaia di morti ammazzati, l’era criminale più cruenta che Taranto possa ricordare. Il processo è andato in archivio con 13 ergastoli ed altre 71 condanne per circa mille anni di carcere.

Ai domiciliari da dieci giorni. Condannato a quattro ergastoli ma malato da tempo, il boss Riccardo Modeo scarcerato poco prima di morire. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 17 Marzo 2021. “Il Tribunale aveva disposto la verifica delle condizioni di salute a distanza di un anno, ma il decorso della malattia è stato molto rapido”. È morto per un male incurabile che lo affliggeva da tempo Riccardo Modeo, 63 anni, storico boss del tarantino condannato a quatto ergastoli. Aveva già trascorso 30 anni in carcere, di cui gli ultimi a Campobasso, quando – una decina di giorni fa – era stato ricoverato nel reparto oncologico dell’ospedale Moscati lo scorso 2 marzo. Le sue condizioni di salute sono precipitate rapidamente, e il suo avvocato, Maria Letizia Serra, aveva chiesto e ottenuto la detenzione domiciliare a casa della sorella dell’uomo, che è morto lunedì scorso. Riccardo Modeo, insieme ai fratelli Claudio e Gianfranco, fece parte di uno dei clan che insanguinò Taranto a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Fu arrestato nel blitz “Ellesponto” sfociato nel grande processo alla criminalità tarantina, che ha ricostruito tutti gli affari dei fratelli Modeo, il traffico di droga, il racket delle estorsioni, gli omicidi a catena soprattutto vendette dirette e trasversali all’interno di formazioni prima alleate e poi nemiche dell’organizzazione madre. Almeno un centinaio di morti ammazzati, in quella che tutt’ora a Taranto è ricordata come l’era criminale più cruenta. Suo fratello Claudio è deceduto sei anni fa, nel carcere di Secondigliano. Gianfranco, invece, ha scelto di collaborare con la giustizia e oggi è un libero cittadino. Il clan dei tre fratelli era potente, con amicizie influenti in Calabria e in Sicilia. In quegli anni segnati da sangue e violenza contese il primato del controllo sul territorio all’altro dei fratelli Modeo, Antonio, detto il Messicano. La Questura ha anche disposto con un’ordinanza il divieto di celebrare i funerali: la salma andrà direttamente al cimitero.

CONTINUANO LE ILLEGALITA’ AL COMUNE DI TARANTO. E LA PROCURA DORME…Il Corriere del Giorno il 21 Febbraio 2021. A distanza di 10 giorni dalla pubblicazione della ordinanza del TAR del 10 febbraio 2021 che ha portato alla luce l’ennesima illegalità dell’Amministrazione Melucci , il Comune del capoluogo jonico non ha ancora sospeso di fatto il servizio mediante il ritiro di tutti i monopattini insistenti sul territorio comunale, calpestando la decisione del TAR di Puglia. La compagnia assicuratrice potrebbe non coprire gli indennizzi con conseguente aggravio di ogni costo e responsabilità che ricadrebbero sull’amministrazione Melucci e quindi sui cittadini contribuenti della città di Taranto. Ennesima vergogna sull’ amministrazione comunale di Taranto, che a distanza di 10 giorni dalla pubblicazione della ordinanza cautelare n. 83/2021 del TAR di Lecce, l’amministrazione Melucci non abbia ancora sospeso di fatto il servizio mediante il ritiro di tutti i monopattini insistenti sul territorio comunale. Il TAR di Lecce si è pronunciato sulla richiesta di sospensiva del 10 febbraio 2021 avanzata dalla società Reby Italia srl contro il Comune di Taranto e la Bit Mobility srl per l’annullamento di tutti gli atti relativi all’affidamento del servizio di noleggio monopattini elettrici. Una decisione che ridicolizza i soliti comunicati roboanti, infarciti da imbarazzante documentazione fotografica, del sindaco e e dei suoi assessori in occasione della presentazione alla città avvenuta lo scorso a 5 ottobre 2020 del servizio di monopattini in sharing assegnato alla Bit Mobility srl. Il Tribunale amministrativo pugliese ha accolto il ricorso avanzato dalla Reby Italia Srl , che evidenziava le irregolarità di gara ed assegnazione (e quindi illegalità) del Comune di Taranto, sospendendo l’efficacia di tutti gli atti amministrativi relativi a questo affidamento fissando per la trattazione del merito l’udienza pubblica del 25 maggio 2021. A parere del Tar “sussistono plurime evidenti violazioni della disciplina di gara da parte dell’amministrazione comunale resistente” in quanto la stessa “ha autorizzato la Bit Mobility allo svolgimento del servizio PRIMA dello spirare del termine di presentazione delle domande fissato dall’avviso pubblico per il 31 ottobre 2020 e quindi prima di formare la relativa graduatoria”. A questo punto la “dormiente” Procura della Repubblica di Taranto dovrebbe agire e procedere d’ufficio per omissione ed abusi in atto d’ufficio nei confronti degli amministratori e dirigenti del Comune di Taranto, che non solo hanno omesso ed abusato in atti d’ufficio, ma continuano a calpestare persino le decisioni di un Tribunale come quello di Lecce, dove per fortuna non ci sono magistrati “collusi” con l’amministrazione comunale tarantina. Con una nota stampa il gruppo di Fratelli d’ Italia al Comune di Taranto (de Gennaro, Vietri) si chiede “il motivo per cui a distanza di 10 giorni dalla pubblicazione della ordinanza del TAR ( 10 febbraio 2021) l’amministrazione Melucci non abbia ancora sospeso di fatto il servizio mediante il ritiro di tutti i monopattini insistenti sul territorio comunale” evidenziando che “Oltretutto stante il detto pronunciamento si tratterebbe di un atto obbligato, tenendo conto che nella sfortunata ipotesi di eventuali incidenti la compagnia assicuratrice potrebbe non coprire gli indennizzi con conseguente aggravio di ogni costo e responsabilità che ricadrebbero sull’amministrazione a guida Melucci” e quindi sui cittadini contribuenti della città di Taranto. Le domanda da porsi a questo punto molteplici : che interessi ha qualcuno del Comune di Taranto con la Bit Mobility? E come mai la Procura di Taranto non procede per “omissioni ed abusi in atti d’ufficio” in presenza di notizie di reato di fatto pubbliche ? Domande queste che potrebbero arrivare anche molto presto dal Csm e dall’Ispettorato del Ministero di Giustizia.

Scritti originali di Salvatore Quasimodo ritrovati nella biblioteca di Taranto: "Un tesoro svelato". La Repubblica il 16 gennaio 2021. Un dono che il premio Nobel lasciò quando nel 1967 fu impegnato nel capoluogo ionico nella traduzione degli epigrammi del poeta greco Leonida da Taranto.  Durante le operazioni di cura del patrimonio della biblioteca Acclavio di Taranto sono stati ritrovati gli scritti originali che il premio Nobel Salvatore Quasimodo lasciò alla biblioteca quando nel 1967 fu impegnato nel capoluogo ionico nella traduzione degli epigrammi del poeta greco Leonida da Taranto. Lo rende noto il sindaco Rinaldo Melucci spiegando che "l'emozione di vedere quei testi vergati a mano, l'emozione di vedere l'impronta di quella stessa mano, impressa sulla carta a garanzia dell'autenticità di quel lavoro intellettuale, è stata forte quanto il legame che ci unisce alla nostra storia". Taranto, aggiunge il primo cittadino, "è luogo di cultura da 28 secoli, respiriamo la bellezza che altrove non possono nemmeno immaginare. Nei giorni d'attesa per il titolo di Capitale Italiana della Cultura, questo tesoro ritrovato conferma che la nostra ambizione è legittima". L'amministrazione comunale, insieme con i funzionari della biblioteca Acclavio e con gli operatori di Museion, cui è affidata la cura del patrimonio bibliotecario comunale, "è già al lavoro - conclude Melucci - per rendere queste meravigliose trascrizioni un patrimonio condiviso dell'intera comunità".

SEQUESTRATI DISPONIBILITA’ E BENI PER CIRCA 85.000 EURO ALL’EX PRESIDENTE ORDINE AVVOCATI DI TARANTO. Il Corriere del Giorno il 27 Gennaio 2021. Le Fiamme Gialle del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto hanno eseguito un decreto di sequestro preventivo, emesso dal G.I.P. di Taranto su richiesta della Procura della Repubblica tarantina, nei confronti dell’ avvocato Angelo Esposito, in passato presidente dell’Ordine degli avvocati di Taranto. Il provvedimento è stato emesso dal G.I.P. del Tribunale di Taranto, Dr. Benedetto Ruberto, su richiesta del Procuratore della Repubblica Aggiunto, Dr. Maurizio Carbone, al termine del primo grado di giudizio, celebrato con rito abbreviato, al termine del quale l’ avvocato Angelo Esposito è stato condannato per il reato di peculato alla pena di due anni di reclusione e contestualmente è stata disposta la confisca della somma per 84.503,35 euro. Le articolate indagini, eseguite nei confronti dell’avvocato Esposito, avviate a seguito di un esposto dei revisori dell’ ordine professionale erano state condotte da militari del Nucleo di Polizia Economico Finanziaria di Taranto, anche attraverso l’esecuzione di mirati accertamenti bancari e l’esame della documentazione amministrativo-contabile acquisita presso l’Ordine degli Avvocati di Taranto. Nei confronti dell’avvocato Esposito la Guardia di Finanza aveva ipotizzato il reato di peculato in quanto lo stesso si era appropriato di risorse finanziarie dell’Ordine, distraendole dagli scopi istituzionali, per complessivi 184.503,35 euro. In particolare, nel corso dell’attività investigativa era emerso che avendone la disponibilità, l’ avvocato Esposito aveva impiegato somme di denaro attingendo dai conti dell’Ordine degli avvocati jonici utilizzando carte di credito ed assegni bancari per effettuare dei pagamenti personali. A seguito di quanto emerso dalle indagini eseguite dalla Guardia di Finanza, la Procura della Repubblica ha chiesto ed ottenuto un decreto di sequestro preventivo fino alla concorrenza di euro 84.503,35 equivalenti alla differenza tra la somma complessivamente distratta e quella già restituita (ben 100mila euro) dall’ avvocato Esposito all’Ordine degli avvocati di Taranto. Un’ iniziativa quella della Procura di Taranto, che seppure pienamente legittima di fatto complicherà non poco all’ avvocato Esposito la possibilità e buona volontà, ampiamente dimostrata, di poter continuare a restituire quanto dovuto al proprio Ordine.

LA PROCURA DI TARANTO CHIEDE IL GIUDIZIO PER CALUNNIA PER LATORRE PRESIDENTE DEI COMMERCIALISTI. Il Corriere del Giorno il 7 Gennaio 2021. Il Tribunale ha fissato udienza camerale dinnanzi al Gip dr.ssa Rita Romano per il prossimo 30 marzo, in cui la giudice dovrà decidere se mandare a processo Latorre questa volta per calunnia. Una nuova tegola per l’Ordine dei Commercialisti di Taranto che sembra restare indifferente alle richieste di giudizio della Procura di Taranto nei confronti dei propri vertici. Il pubblico ministero dr.ssa Marzia Castiglia ha depositato richiesta di rinvio a giudizio a carico dell’attuale Presidente dell’Ordine dei Commercialisti di Taranto Cosimo Damiano Latorre , questa volta per il reato di “calunnia” in danno dell’ex- dipendente che lo aveva denunciato. Latorre si trova già a giudizio dinnanzi al Gip Maccagnano del Tribunale di Taranto insieme ai commercialisti Riccardo Scialpi  e Maria Rosaria Chiechi (entrambi ex tesorieri dell’ ordine), e Gregorio Pecoraro consigliere segretario dell’ Ordine, e di Angela Cafaro attuale consigliere tesoriere per vari reati che vanno dai maltrattamenti, alla violenza sessuale, alle lesioni personali aggravate, alla molestia in danno della dipendente e del coniuge anch’egli commercialista. Nell’ultima udienza dello scorso 3 dicembre dinnanzi al Gip dr. Francesco Maccagnano, è stata rigettata la richiesta avanzata dalle difese di Latorre e Scialpi, di sequestro del cellulare della parte lesa dr.ssa Gelso, che secondo il Gip “costituirebbe soltanto un mero aggravio procedimentale e non una vera garanzia . L’ex dipendente dell’ Ordine, parte lesa, verrà ascoltata in aula il prossimo 26 febbraio. Il presidente dell’ Ordine dei Commercialisti di Taranto a sua volta aveva denunciato l’ex-dipendente Gelso , accusandola strumentalmente di aver commesso degli accessi illegittimi alla posta elettronica d’ufficio. Accuse queste che sono state archiviate dalla Procura di Lecce (competente per i reati informatici). Ma Latorre non contento dell’ennesima brutta figura giudiziaria, ha depositato opposizione all’archiviazione, accusando falsamente la Gelso “pur sapendola innocente” (secondo la pm Castiglia) in quanto “non avendo mai l’ente in questione adottato un simile regolamento interno che vietasse ai dipendenti in possesso delle credenziali, di accedere all’account”. Il Tribunale ha fissato udienza camerale dinnanzi al Gip dr.ssa Rita Romano per il prossimo 30 marzo, in cui la giudice dovrà decidere se mandare a processo Latorre, mentre nel frattempo corre voce che la Direzione Generale Affari Civili del Ministero di Giustizia (competente sugli ordini professionali territoriali ) potrebbe addirittura commissariare l’ ordine di Taranto, ente per il quale nessuno si è sinora costituito parte civile nei vari procedimenti a carico degli attuali vertici ed alcuni ex-consiglieri, per una vicenda che sicuramente ha portato non poco discredito sull’ Ordine professionale.

·        La guerra all’ex Ilva.

Il prezzo dell'Acciaio. Report Rai PUNTATA DEL 27/11/2021 di Luca Bertazzoni, collaborazione di Edoardo Garibaldi, immagini di Davide Fonda e Ahmed Bahaddou. Il 31 maggio scorso la Corte di Assise di Taranto ha condannato in primo grado i 47 imputati del processo Ambiente Svenduto a 300 anni di carcere. Per i magistrati dal 1995 al 2012 fu disastro ambientale. Cosa è cambiato oggi con la nuova proprietà e l'ingresso dello Stato rispetto ai tempi in cui le acciaierie erano gestite dalla famiglia Riva? Attraverso un viaggio nella città di Taranto, Report racconta la contaminazione di un territorio inquinato, con il divieto di pascolo nel raggio di 20 chilometri dallo stabilimento ex Ilva e la coltivazione abusiva di cozze nel primo seno del Mar Piccolo. Una serie di video inediti raccolti da operai all’interno dello stabilimento mostra le attuali condizioni di lavoro dell'acciaieria più grande d’Europa. Le telecamere di Report si spostano poi nella Ruhr, un tempo una delle regioni più inquinate della Germania, che da anni ha avviato un percorso di riconversione e riqualificazione delle vecchie acciaierie. 

“IL PREZZO DELL’ACCIAIO” di Luca Bertazzoni Collaborazione di Edoardo Garibaldi Immagini Davide Fonda-Ahmed Bahaddou Immagini Carlos Dias-Tommaso Javidi Ricerca immagini Paola Gottardi Montaggio Igor Ceselli-Sebastiano Mancinelli

COLTIVATORE DI COZZE La prossima volta se si permettono di venire con la nave per una questione sanitaria sbagliata, blocchiamo Taranto. Io ho dietro di me 100 famiglie, non sono solo, non sono solo: se dobbiamo fare la guerra la facciamo!

CAPO SERVIZIO OPERATIVO - GUARDIA COSTIERA DI TARANTO Si è proceduto a rimuovere i filari di cozze sostanzialmente prive di qualsiasi titolo per poter essere coltivate e allevate.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il 18 ottobre scorso, nel corso dell’operazione “Oro di Taranto”, la Guardia costiera ha sequestrato per motivi di rischio sanitario 22 tonnellate di cozze nel primo seno del mar Piccolo, lo specchio di mare più vicino allo stabilimento dell’ex Ilva.

COLTIVATORE DI COZZE A lui le hanno sequestrate.

COLTIVATORE DI COZZE 5 mila euro di prodotto.

LUCA BERTAZZONI Quante tonnellate?

COLTIVATORE DI COZZE All’incirca 100/150 quintali.

LUCA BERTAZZONI Perché gliel’hanno sequestrate?

COLTIVATORE DI COZZE Perché secondo loro eravamo abusivi, perché l’impianto si era spostato.

LUCA BERTAZZONI Da solo?

COLTIVATORE DI COZZE Per le correnti marine.

LUCA BERTAZZONI Ah, le correnti hanno spostato l’impianto lei dice che e per questo le hanno detto che aveva un tot di prodotto abusivo?

COLTIVATORE DI COZZE Sì.

LUCA BERTAZZONI Il dato di fatto è che la diossina qui nel primo seno c’è.

COLTIVATORE DI COZZE Il minimo! Ma noi nell’aria ne abbiamo di più che dentro al mare, forse non l’abbiamo capito. Perché è l’Ilva che ci dà la diossina a noi.

COLTIVATORE DI COZZE Ma l’abbiamo inquinato noi il mare? Che andassero a rompere i coglioni a chi ha inquinato.

LUCA BERTAZZONI Però il vostro prodotto va nei ristoranti, va nelle tavole. Lo mangiamo tutti.

COLTIVATORE DI COZZE Si parla tanto di posti di lavoro persi nell’Ilva, ma qui si sono persi dal 2011 ad oggi, si sono persi mille posti di lavoro.

COLTIVATORE DI COZZE Guarda quel fumo nero, guarda, guarda, guarda. Non sappiamo quanti bambini sta ammazzando, non sappiamo quante donne sta ammazzando. A me viene da piangere, scusate, ho mia moglie malata, scusate.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Lo Stato investirà più di un miliardo di euro per controllare l’ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia. Lo scopo, dice il ministro Giorgetti, è rendere la produzione di acciaio sostenibile dal punto di vista ambientale.

ASSEMBLEA ANNUALE DI FEDERACCIAI- 6 OTTOBRE 2021 GIANCARLO GIORGETTI - MINISTRO DELLO SVILUPPO ECONOMICO Sono tornato da azionista qui, perché a questo punto lo Stato è di nuovo diciamo parte del sistema. Se lo Stato decide di fare degli investimenti pubblici con soldi pubblici, importanti per assecondare la trasformazione ambientale, esige che questo progetto, che questo tipo di investimento debba essere in qualche modo condiviso, in modo serio e documentato, da chi in qualche modo vuole fare questo passaggio assieme. Mi sembra che a Taranto questo si cominci a vedere in modo concreto.

LUCA BERTAZZONI Questi sono tutti video che ti arrivano da operai dentro la fabbrica? Dagli operai?

LUCIANO MANNA - ASSOCIAZIONE VERALEAKS Sì. Maggio del 2021: eccoli qua gli operai come li condanniamo. A prendere materiale a 40 metri d’altezza sotto i nastri trasportatori. È materiale cotto che naturalmente è nocivo, contiene già idrocarburi e metalli.

LUCA BERTAZZONI Adesso gli operai stanno lavorando in queste condizioni? È recente questo video?

LUCIANO MANNA - ASSOCIAZIONE VERALEAKS Questo è di giugno, guardate in che condizioni hanno lavorato per fare il rifacimento dell’altoforno 2 con delle pale meccaniche che operano vicino agli operai. Qui siamo nella pancia dell’altoforno, dai metalli agli idrocarburi è tutta roba assolutamente tossica. Guardate che cosa succede con un operaio ad un metro dal trattamento che si fa in siviera, dove si buttano gli additivi. Questi sono fumi altamente cancerogeni, qui si muore, qui si muore. E questo è l’impianto, non si vede a un palmo di naso. LUCA BERTAZZONI È materiale tossico?

LUCIANO MANNA - ASSOCIAZIONE VERALEAKS Sicuramente tossico, su questo non c’è dubbio perché nell’agglomerato si crea la diossina. Ecco la copertura completamente aperta del capannone. Non c’è nessuna captazione, da nessuna parte. Tutti questi fumi dovrebbero assolutamente essere tutti convogliati, tutti. E questo è il vapore della loppa, i fumi della loppa sono altamente nocivi perché contengono ossido di zolfo e idrogeno solforato. Di idrogeno solforato si muore. Questo è tutto benzo-apirene: inalare questi fumi significa prendere il cancro. E qui guardiamo questo camion che è sotto questa cokeria, dove ora arriva una pala meccanica che prende il materiale da terra e lo butta nel camion. L’anno scorso ci sono stati casi di camion incendiati perché naturalmente il coke cotto arriva in alcune parti sensibili del camion e prende fuoco. Questo è tutto a cielo aperto, tutti i fumi sono totalmente a cielo aperto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Uno pensa che siano immagini tratte dall’archivio dell’ex Ilva e in realtà sono state girate pochi mesi fa all’interno degli stabilimenti. 47 imputati, condannati in primo grado a 300 anni di carcere dalla Corte d’Assise. L’accusa è disastro ambientale ma è la condanna soprattutto di un intero sistema, dei manager che gestivano le acciaierie, del sistema clientelare politico che ruotava intorno a loro, del sistema di controlli sanitari e ambientali. Ecco, ma a distanza di dieci anni dalla gestione Riva, abbiamo imparato qualcosa da quella esperienza dove il ricatto sottointeso era: “miseria o malattia”? Negli ultimi dieci anni si sono susseguiti per cinque anni i commissari: prima Enrico Bondi, Enrico Laghi, Piero Gnudi, Carruba. E poi nel 2017 è entrata Arcelor Mittal, base in Lussemburgo, testa invece ad un ricchissimo imprenditore indiano, Lakshmi Mittal, il quale si aggiudica una gara, vince contro i competitor di allora che erano altri indiani, quelli di Jindal, in cordata con Arvedi, Del Vecchio e Cassa Depositi e Prestiti. Ora Arcelor Mittal si aggiudica la gara, perché oltre al prezzo scommette, investe sul risanamento ambientale, sulla sostenibilità ambientale. Poi dopo qualche anno comincia a stentare, minaccia di rinunciare e così che ad aprile del 2021 entra lo Stato investendo circa 300, 400 milioni di euro, acquisisce il 38% delle azioni, ma in assemblea ha il 50% dei voti. Ora vuole aumentare, vuole arrivare al 60% e vuole investire altri 680 milioni di euro. Ecco, praticamente vuole nazionalizzare l’Ilva, è una grande scommessa, quella della settima potenza industriale al mondo, quella dell’acciaieria, la seconda in Europa per produzione. Però bisognerà superare il ricatto, quello della miseria o della malattia. La scommessa è aperta, tutto sta a riuscirci. Il nostro Luca Bertazzoni.

LUCIANO MANNA - ASSOCIAZIONE VERALEAKS Prima che ci vedano, scatta, scatta.

LUCA BERTAZZONI È incredibile.

LUCIANO MANNA - ASSOCIAZIONE VERALEAKS Guardate che cosa cacchio combinano questi qui con il minerale. Questo è carbone.

LUCA BERTAZZONI E quello esce.

LUCIANO MANNA - ASSOCIAZIONE VERALEAKS E quello purtroppo esce. Questa è la famosa benna ecologica, l’unica disponibile qui nel porto di Taranto per lo scarico, ma la stanno usando malissimo.

LUCA BERTAZZONI Non dovrebbero perdere tutto quel minerale.

LUCIANO MANNA - ASSOCIAZIONE VERALEAKS Assolutamente, quel minerale ora con il vento va a mare e va sulla banchina, quindi è un rischio sanitario anche per chi ci sta lavorando. Lì vedete il nastro trasportatore che poi porta il minerale dentro la fabbrica.

LUCA BERTAZZONI Quel nastro lì in fondo va direttamente dentro Acciaierie d’Italia? Ok.

LUCIANO MANNA - ASSOCIAZIONE VERALEAKS Sì, guarda guarda…Guarda tutto il minerale dove se ne va.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A Taranto il ciclo di lavorazione dell’acciaio inizia dal porto. Qui, solo per Acciaierie d’Italia, ci sono 4 banchine di attracco. Ogni anno navi come questa arrivano con milioni di tonnellate di carbon fossile e minerale di ferro. Dal porto vengono poi trasportate nello stabilimento ex Ilva, ora Acciaierie d’Italia.

LUCA BERTAZZONI Questi minerali sono tossici?

LUCIANO MANNA - ASSOCIAZIONE VERALEAKS Di sicuro non possono assolutamente andare a mare. Questi fondali sono pieni di minerali di carbone e di ferro. Il sistema a benna non può essere utilizzato, è fuori legge. Ah, cazzo come si vede di qua.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A separare l’acciaieria più grande d’Europa dalla città di Taranto ci sono le cosiddette “collinette ecologiche”, costruite lungo il perimetro della fabbrica per contenere la diffusione delle polveri minerali. Ma di ecologico hanno solo il nome, nel 2019 la procura di Taranto sequestra questi nove ettari, definendoli “un’enorme discarica abusiva di rifiuti industriali”.

LUCIANO MANNA - ASSOCIAZIONE VERALEAKS Hanno trovato diossine, furani, policlorobifenili e vari idrocarburi.

LUCA BERTAZZONI Però non hanno mai bonificato?

LUCIANO MANNA - ASSOCIAZIONE VERALEAKS Mai bonificato. Secondo loro contengono la diossina con la fibra di cocco.

LUCA BERTAZZONI Con questo in pratica?

LUCIANO MANNA - ASSOCIAZIONE VERALEAKS Con questo, con una tela. Questa è la scuola.

LUCA BERTAZZONI Non ci credo. Lì c’è la scuola.

LUCIANO MANNA - ASSOCIAZIONE VERALEAKS Qui sotto c’è il veleno a pochissimi metri dalle scuole, dai bambini e dalle abitazioni civili.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il 10 maggio scorso Scientific Reports della rivista Nature ha pubblicato uno studio del professor Roberto Lucchini, che mette in relazione l’esposizione a mix di metalli come piombo e arsenico e lo sviluppo cognitivo dei bambini.

ROBERTO LUCCHINI - PROFESSORE MEDICINA DEL LAVORO FLORIDA INTERNATIONAL UNIVERSITY Stiamo parlando di sviluppo delle funzioni nervose, quindi di cose molto importanti in realtà, possono andare nell’autismo, possono andare nel deficit intellettivo.

LUCA BERTAZZONI Voi avete diviso i bambini in tre fasce: quelli più vicini all’Ilva, quelli ad una distanza media e infine quelli più lontani. Quali sono le differenze?

ROBERTO LUCCHINI - PROFESSORE MEDICINA DEL LAVORO FLORIDA INTERNATIONAL UNIVERSITY La cosa che ci ha colpiti è stata vedere una differenza di dieci punti di quoziente intellettivo, insomma, fra le aree più lontane e quelle più vicine. Questa è una grossa differenza.

LUCA BERTAZZONI Voi avete iniziato nel 2012, dopodiché siete ritornati nel 2019. In questi anni cosa è cambiato?

ROBERTO LUCCHINI - PROFESSORE MEDICINA DEL LAVORO FLORIDA INTERNATIONAL UNIVERSITY Abbiamo notato che quella differenza di dieci punti di quoziente intellettivo fra uno e l’altra, in realtà poi era un po’ aumentata.

LUCA BERTAZZONI Di quanto professore?

ROBERTO LUCCHINI - PROFESSORE MEDICINA DEL LAVORO FLORIDA INTERNATIONAL UNIVERSITY Di un paio di punti in più, quindi ci ha preoccupato questa cosa.

LUCA BERTAZZONI Detta molto brutalmente un bambino che nasce e cresce a Tamburi ha sostanzialmente un quoziente intellettivo di dodici punti più basso rispetto ad un suo coetaneo che vive in quartiere accanto?

ROBERTO LUCCHINI - PROFESSORE MEDICINA DEL LAVORO FLORIDA INTERNATIONAL UNIVERSITY Sì.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO I 300 milioni di euro spesi per la copertura dei parchi minerali dell’ex Ilva non hanno cambiato la vita ai 18.000 abitanti del quartiere Tamburi, il più vicino allo stabilimento.

LUCA BERTAZZONI È una bella casa.

MARIA CARRIGLIO - ABITANTE QUARTIERE TAMBURI Noi ce l’abbiamo in vendita questa casa perché me ne voglio scappare. Da tre anni 60.000 euro non viene nessuno.

LUCA BERTAZZONI 60.000 euro, quanti metri sono?

VINCENZO CARRIGLIO - ABITANTE QUARTIERE TAMBURI 152 metri quadri commerciali con i balconi.

LUCA BERTAZZONI E a 60.000 euro non la compra nessuno?

VINCENZO CARRIGLIO - ABITANTE QUARTIERE TAMBURI No.

VINCENZO CARRIGLIO - ABITANTE QUARTIERE TAMBURI Noi ci siamo costituiti parte civile nel processo “Ambiente svenduto”.

LUCA BERTAZZONI Cosa vi ha riconosciuto il tribunale? Che questa casa è stata deprezzata.

VINCENZO CARRIGLIO - ABITANTE QUARTIERE TAMBURI Certo, un danno di 42.000 euro rispetto alla media degli altri immobili. Dall’altra parte abbiamo la vista panoramica sull’Ilva.

 LUCA BERTAZZONI Guarda un po’.

MARIA CARRIGLIO - ABITANTE QUARTIERE TAMBURI Che mostri! Ci hanno tolto anche l’aria.

VINCENZO CARRIGLIO - ABITANTE QUARTIERE TAMBURI Tenga presente che nella sua famiglia di tumore ne sono morti quindici.

LUCA BERTAZZONI Tutti qua nel quartiere Tamburi stavano?

MARIA CARRIGLIO - ABITANTE QUARTIERE TAMBURI Sì, tutti i miei zii, i miei genitori, i miei fratelli, i miei cugini. Tumori di tutti i tipi: cervello, polmone, fegato, pancreas, colon, quanti ne vuole. Ormai è una vita che sto qua, conosco tutti gli odori.

LUCA BERTAZZONI Riesce a riconoscere se è roba che arriva…

MARIA CARRIGLIO - ABITANTE QUARTIERE TAMBURI Quando arriva da lì o da là.

MARIA CARRIGLIO - ABITANTE QUARTIERE TAMBURI Ecco, guardi qua.

LUCA BERTAZZONI Ma lei pulisce ogni giorno, immagino.

MARIA CARRIGLIO - ABITANTE QUARTIERE TAMBURI Eh, stamattina ho pulito.

VINCENZO CARRIGLIO - ABITANTE QUARTIERE TAMBURI Abbiamo fatto da poco la ristrutturazione delle facciate, guardi qui cosa succede. Il minerale si mangia tutto.

LUCA BERTAZZONI Lei vince questo processo che arriva fino al 2012, siamo nel 2021 e lei ha sempre questa roba.

VINCENZO CARRIGLIO - ABITANTE QUARTIERE TAMBURI Non è cambiato assolutamente nulla.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Anche in Germania lo Stato è intervenuto economicamente nell’industria dell’acciaio. Oggi questa ex acciaieria di Duisburg si presenta così. Per i suoi giacimenti di ferro e di carbone, la Ruhr è stata per secoli il più grande polo siderurgico d’Europa. Ma con la crisi dell’acciaio degli anni ‘80, la Germania ha avviato un percorso di riconversione e questa regione, da una delle più inquinate del mondo, è ora il polmone verde del paese. I 200 ettari di superficie sono diventati il Landschaftspark, il “parco del paesaggio”.

LUCA BERTAZZONI Ti fa effetto ballare in quella che era una grandissima acciaieria?

RAGAZZA CONCERTO È fantastico che la Ruhr sia diventato un posto dove le persone si incontrano. Era una vecchia zona industriale e ora fa parte della nostra cultura.

RAGAZZA CONCERTO 2 È il miglior festival di sempre!

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO 3 giorni, 3 palchi e 30 band musicali: questo è lo slogan del festival Traumzeit, letteralmente “Il tempo del sogno”, che si è svolto ad inizio ottobre al Landschaftspark.

RALF WINKELS - DIRETTORE LANDSCHAFTSPARK In questo parco alle mie spalle qualche anno fa c’è stato un grandissimo concerto dei Red Hot Chili Peppers, c’erano 25 mila persone.

LUCA BERTAZZONI Quante persone lavoravano qui?

RALF WINKELS - DIRETTORE LANDSCHAFTSPARK Qui erano impiegati 1200 operai, ma se consideriamo i lavoratori dell’indotto arriviamo a più di 4000 persone.

LUCA BERTAZZONI Che investimento è stato fatto per riqualificare tutta questa struttura?

RALF WINKELS - DIRETTORE LANDSCHAFTSPARK Questa riqualificazione è partita grazie a 80 milioni di euro versati dalla Germania e dall’Unione Europea, ma ogni anno la regione spende 6 milioni in lavori di manutenzione che sono obbligatori per legge. In questo filmato potete vedere come si lavorava qui dentro negli anni 50. Qui sopra passavano i carrelli che trasportavano il materiale dal deposito all’altoforno. Stiamo camminando in quello che era uno dei posti più inquinati della Germania. Ora la natura e gli animali ne hanno ripreso il possesso. Il giornale inglese Guardian l’ha definito uno dei più bei parchi del mondo.

LUCA BERTAZZONI Quanti visitatori vengono ogni anno qui?

RALF WINKELS - DIRETTORE LANDSCHAFTSPARK Più di un milione di persone. Vengono anche dall’Asia e dal Sud America per vedere le meraviglie di questo parco. Abbiamo deciso di trasformare questo deposito in uno spazio per l’alpinismo, d’estate vengono gli studenti a fare lezione di climbing. E questo è il gazometro, il più grande del nord Europa. Ora viene utilizzato come scuola di immersione. La vasca è profonda 12 metri e mezzo e in fondo abbiamo messo i relitti di una nave e di un aereo per le esercitazioni.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Non è solo il polo siderurgico del Landschaftpark ad essere stato riconvertito, ma tante strutture della Ruhr si sono trasformate nel tempo. Qui siamo ad Essen, dove una volta c’era la più grande miniera di carbone d’Europa.

GUIDA COMPLESSO ZOLLVEREIN In questo modello si mostra tutto il complesso industriale delle miniere dello Zollverein, ora ci troviamo qui. Questa cokeria era all’epoca la più grande cokeria del mondo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Nell’opera di riqualificazione di Zollverein si è deciso di preservare le strutture esistenti per mantenere vivo il ricordo del periodo industriale della Ruhr. Tutti i locali dell’ex miniera di Essen sono stati allestiti per mostrare ai visitatori come funzionava la miniera. Ci sono esposizioni, musei, bar e spazi per gli studenti. Dal 2001 questo sito è patrimonio dell’Unesco e ospita ogni anno milioni di turisti.

LUCA BERTAZZONI Quanto è costato questo processo di trasformazione e chi ci ha messo i soldi?

HANS PETER NOLL - AMMINISTRATORE DELEGATO FONDAZIONE ZOLLVEREIN Il progetto è stato finanziato con 500 milioni di euro di soldi pubblici, e poi si sono aggiunti investitori privati che hanno costruito negozi, alberghi, atelier di moda. Questo ha portato a un incremento dell’occupazione. Nel momento in cui si chiude una miniera si perdono tanti posti di lavoro, ma è importante far capire alle persone che una chiusura non è mai una sconfitta, ma deve essere un punto di rinascita per creare lavoro, cultura ed economia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Hanno trasformato la regione più inquinata di Europa in una risorsa. Nella Ruhr si produceva acciaio, si estraeva carbone, ci hanno messo venti anni, ma hanno fatto un progetto serio con i soldi anche della Unione europea, hanno trasformato quello che era un luogo oltre che di lavoro anche di morte, in un parco divertimenti. La gente ora va la, balla, si diverte, la natura si è riappropriata dei posti. Certo, gli è venuto facile perché nella Ruhr ci sono 18 milioni di abitanti che producono un Pil di circa 39 mila euro a testa, quindi hanno un reddito più alto, mentre in Puglia gli abitanti sono 4 milioni e hanno un reddito, ovviamente, producono meno Pil, quasi la metà e hanno meno reddito. Li avrebbero i soldi per andare a investire nel parco divertimenti? Intanto bisogna considerare che la Germania è rimasta la produttrice in Europa numero uno per quello che riguarda l’acciaio. Ma è oltre: Thyssenkrup l’anno scorso ha inaugurato la prima acciaieria ad Idrogeno, a basso impatto ambientale. È impietoso il paragone con Taranto dove ancora dobbiamo bonificare le collinette ecologiche che di ecologico hanno solamente l’aggettivo perché sotto i teli di noci di cocco sono stati ancora conservati i veleni, la diossina, nonostante siano vicini ad una scuola. Ora però lo scenario potrebbe cambiare perché nel Cda dell’ex Ilva c’è l’ingegner Mapelli, un esperto che insegna tecnologie in tutto il mondo, soprattutto tecnologie che riguardano le acciaierie a basso impatto. Anche Giorgetti, il ministro dello Sviluppo Economico, ha annunciato che utilizzerà i fondi del Pnrr, circa un miliardo 1,5 miliardi di euro, per la riconversione a idrogeno. Ma ci vorranno dieci anni? Venti anni? Fino ad allora cosa sarà della città di Taranto?

LUCA BERTAZZONI Questa è la masseria dei fratelli Fornaro, che è una delle poche rimasta su.

VINCENZO FORNARO - MASSERIA CARMINE Abbiamo aperto un maneggio, facciamo la semina della canapa, facciamo scuola equitazione, masseria didattica.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO La Masseria Carmine, costruita a fine ‘800 dalla famiglia Fornaro, nel 2008 diventa il luogo simbolo dell’inquinamento. Per la contaminazione dei terreni, e di conseguenza degli animali che vi pascolavano, vengono abbattuti 600 capi di bestiame. Nella loro carne e nel loro latte i valori di diossina sono 50 volte oltre i limiti di legge.

VINCENZO FORNARO - MASSERIA CARMINE 2008 Così stiamo risolvendo il problema di Taranto, ammazzando le pecore. Oggi vanno al macello le pecore, ma anche i cittadini di Taranto stanno andando al macello. Se fanno le analisi ai cittadini di Taranto troveranno la diossina nel loro sangue. Abbattiamo anche i cittadini?

VINCENZO FORNARO - MASSERIA CARMINE Se pensavano di risolvere il problema togliendo gli elementi contaminati, in questo caso le pecore e le capre, allora togliete pure i cittadini di Taranto perché pure noi siamo contaminati, voglio dire, no?

LUCA BERTAZZONI Pure lei ha avuto problemi nella sua famiglia?

VINCENZO FORNARO - MASSERIA CARMINE A trent’anni mi hanno tolto un rene per un tumore, un mese dopo di me si è ammalata mia madre. Lei ha avuto la sfortuna di non essere qui a raccontarlo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Nel 2018 ArcelorMittal subentra all’amministrazione straordinaria di Ilva e il manager Matthieu Jehl annuncia il rilancio delle acciaierie e investimenti per migliorare le condizioni dell’ambiente e della salute.

MATTHIEU JEHL – AD ARCELORMITTAL ITALIA – 06 DICEMBRE 2018 Il nostro progetto su Ilva prevede investimenti per 1,15 miliardi di euro per l’ambiente e per raggiungere i più alti standard ambientali in Europa. Miglioreremo tutti gli aspetti in tema ambientale: l’aria, l’acqua e il suolo.

LUCA BERTAZZONI Nel 2019 hanno trovato qui un valore di diossina di 7 picogrammi. Nel 2008, cioè quando vi hanno ucciso gli animali, era di 8.

VINCENZO FORNARO - MASSERIA CARMINE Eh sì. “Abbiamo risolto finalmente il problema Ilva, non si inquina più, è tutto a posto, un futuro diverso per la città di Taranto”, poi fanno le analisi e trovano quei dati, quindi dove sta la differenza? Lo Stato italiano non ha capito e non vuole capire: se non rimuovi la fonte inquinante il problema non lo risolvi. Le vittime che smettono di lavorare e i carnefici che continuano impunemente perché è uno stabilimento sotto sequestro che continua a lavorare. Se la pizzeria di sotto casa mi inquina con il forno a legna, quella pizzeria l’avrebbero già chiusa.

DONATO DI SERIO - OPERAIO ACCIAIERIE D’ITALIA 23 anni fa io ero soddisfatto, ero contento di entrare a far parte della più grossa fabbrica d’Europa. Adesso ci si ripresenta il conto ed è un conto salatissimo da pagare.

LUCA BERTAZZONI Cosa è successo a Jacopo?

DONATO DI SERIO - OPERAIO ACCIAIERIE D’ITALIA Il 3 settembre 2019 abbiamo scoperto che Jacopo si è ammalato di leucemia linfoblastica acuta di tipo B, un tumore del sangue. Vedere un figlio, un bambino così piccolo con questo catetere impiantato in petto, le chemioterapie e quant’altro è stata dura. Uno Stato civile non può permettersi di contrapporre il diritto alla salute e il diritto al lavoro ed è un conflitto che divora l’anima soprattutto degli operai della ex Ilva, gli operai come me che devono andare a lavorare per andare avanti.

LUCA BERTAZZONI E come ci vai a lavorare tu?

DONATO DI SERIO - OPERAIO ACCIAIERIE D’ITALIA La paura... ti svegli la mattina e ce l’hai addosso, ti vai a coricare e continua a stare addosso la paura, quella non se ne andrà mai più.

ANASTASIA SPAGNOLO – MAMMA DI JACOPO Mai più! Anche Jacopo stesso che adesso ha 4 anni che futuro può avere qui? Se dovessi pensare anche a un altro figlio, io direi “no” perché comunque sarei egoista a farlo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il Santissima Annunziata è l’ospedale dove i bambini di Taranto vanno a curarsi. In prima linea c’è il dottor Valerio Cecinati, primario del reparto di oncologia pediatrica.

VALERIO CECINATI - PRIMARIO ONCOLOGIA PEDIATRICA OSP. SS. ANNUNZIATA TARANTO È diventato grande veramente. Respira forte tesoro, vai, bravo. Lui ha terminato la terapia a maggio di quest’anno, quindi sono passati praticamente 3 mesi e adesso la situazione insomma, lo vedete insomma sta andando tutto bene.

LUCA BERTAZZONI Quindi questo è un controllo che dovrà fare per i prossimi anni?

VALERIO CECINATI - PRIMARIO ONCOLOGIA PEDIATRICA OSP. SS. ANNUNZIATA TARANTO Loro fanno dei controlli anche per 10 anni. Buongiorno. Lui è un nostro paziente.

LUCA BERTAZZONI Quanto ha? VALERIO CECINATI - PRIMARIO ONCOLOGIA PEDIATRICA OSP. SS. ANNUNZIATA TARANTO Quanti anni hai? BAMBINO 14.

VALERIO CECINATI - PRIMARIO ONCOLOGIA PEDIATRICA OSP. SS. ANNUNZIATA TARANTO I numeri dicono che c’è un aumento rispetto alla media regionale di tumori infantili di circa il 30%. LUCA BERTAZZONI Se lasciamo i bambini e passiamo agli adulti?

VALERIO CECINATI - PRIMARIO ONCOLOGIA PEDIATRICA OSP. SS. ANNUNZIATA TARANTO Negli adulti arriviamo in alcuni tipi di neoplasie anche oltre il 50%. LUCA BERTAZZONI Quindi questo vuol dire che chi nasce a Taranto ha più probabilità, un più 30%, un più 60% negli adulti, di ammalarsi di tumore? VALERIO CECINATI - PRIMARIO ONCOLOGIA PEDIATRICA OSP. SS. ANNUNZIATA TARANTO Sì, lo studio Sentieri l’ha comunque dimostrato che l’aumento dell’incidenza di alcune patologie sono connesse sicuramente all’inquinamento.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A controllare le emissioni di sostanze inquinanti dallo stabilimento ex Ilva ci sono Ispra, Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale, e ad Arpa Puglia, l’agenzia regionale per la protezione dell’ambiente. Dai dati raccolti negli ultimi anni sono pochi gli sforamenti registrati. Barbara Valenzano è stata direttrice del Dipartimento Ambiente della regione Puglia ed è tutt’ora custode giudiziario dello stabilimento Ilva.

LUCA BERTAZZONI Si fanno questi controlli o no?

BARBARA VALENZANO - CUSTODE GIUDIZIARIO AREE ILVA DI TARANTO Bisogna chiederglielo, per quello che ti posso dire…

LUCA BERTAZZONI Per quello che sai tu.

BARBARA VALENZANO - CUSTODE GIUDIZIARIO AREE ILVA DI TARANTO No, non li ho visti.

LUCA BERTAZZONI E quanto sei stata lì?

BARBARA VALENZANO - CUSTODE GIUDIZIARIO AREE ILVA DI TARANTO 6 anni.

LUCA BERTAZZONI Io sto parlando con una persona che è stata Direttore del Dipartimento Ambiente della Regione Puglia che mi dice che in 6 anni bene o male non ha visto niente a livello di controlli?

BARBARA VALENZANO - CUSTODE GIUDIZIARIO AREE ILVA DI TARANTO Non è che non ho visto niente.

LUCA BERTAZZONI Hai visto poco?

BARBARA VALENZANO - CUSTODE GIUDIZIARIO AREE ILVA DI TARANTO C’è poco rispetto a quello che avrebbe dovuto esserci. Il modo migliore per dire che non hai sforamenti è non fare il controllo.

LUCA BERTAZZONI Però è grave questa cosa.

BARBARA VALENZANO - CUSTODE GIUDIZIARIO AREE ILVA DI TARANTO È gravissimo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO E che i controlli continuano a essere inadeguati lo conferma chi è stato all’interno del laboratorio ambientale dell’acciaieria.

LUCA BERTAZZONI Lei ha lavorato prima per Ilva e poi per ArcelorMittal?

EX RESPONSABILE LABORATORIO AMBIENTALE ILVA Sì, sono stato lì dentro 7 anni. Negli ultimi due ero responsabile del laboratorio che si occupava delle analisi di monitoraggio ambientale.

LUCA BERTAZZONI A livello di controlli ambientali è cambiato qualcosa con la nuova proprietà rispetto alla gestione precedente dei Riva?

EX RESPONSABILE LABORATORIO AMBIENTALE ILVA Non è cambiato assolutamente nulla, basta pensare che le persone addette ai controlli sono sempre le stesse e sono quelle che falsificavano i dati anni fa.

LUCA BERTAZZONI Come funziona il sistema dei controlli?

EX RESPONSABILE LABORATORIO AMBIENTALE ILVA Quelli dell’Arpa sono affidati a centraline che monitorano la qualità dell’aria, ma servono assolutamente a nulla. Si tratta di centraline che misurano l’inquinamento da traffico.

BARBARA VALENZANO - CUSTODE GIUDIZIARIO AREE ILVA DI TARANTO Io non posso andare a cercare un inquinante industriale se ho un sensore da traffico.

LUCA BERTAZZONI E loro in base a quel dato dicono che va tutto bene? Con una centralina da traffico?

BARBARA VALENZANO - CUSTODE GIUDIZIARIO AREE ILVA DI TARANTO Stai sintetizzando molto, però praticamente è così.

LUCA BERTAZZONI La critica che vi fanno è che misurare l’inquinamento dell’Ilva con le centraline da traffico farebbe un po’ ridere, no?

VITO BRUNO - DIRETTORE GENERALE ARPA PUGLIA Eh, ma infatti non è così.

LUCA BERTAZZONI Però ne avete 3 da traffico, su sei.

VITO BRUNO - DIRETTORE GENERALE ARPA PUGLIA Abbiamo anche da traffico. LUCA BERTAZZONI Su 6 tre e tre.

VITO BRUNO - DIRETTORE GENERALE ARPA PUGLIA Certo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il 4 luglio del 2020 una tromba d’aria si abbatte su Taranto spingendo in città i fumi dell’Ilva. Questo è uno dei pochi casi in cui anche le centraline dell’Arpa segnalano uno sforamento dei limiti di inquinamento.

LUCA BERTAZZONI Deve succedere un evento così catastrofico per sforare?

VITO BRUNO - DIRETTORE GENERALE ARPA PUGLIA Ma noi non lo abbiamo registrato solo in quel caso, ci sono anche altri casi. Per esempio abbiamo registrato adesso nell’ultimo anno un aumento del benzene. Purtroppo, tra virgolette, le norme prevedono che i limiti del benzene abbiano una media annuale e quindi bisogna verificare che certi superamenti superino la media annuale.

LUCA BERTAZZONI Però è una fregatura questo regolamento, detto molto brutalmente, no?

VITO BRUNO - DIRETTORE GENERALE ARPA PUGLIA Tutte queste regole in deroga non valgono per gli altri imprenditori che lavorano. Per Ilva vale una sorta di deroga speciale con la quale tutti evidentemente dobbiamo fare i conti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Acciaierie d’Italia pubblicizza su Twitter che per quello che riguarda il 2020 i dati certificati dalle agenzie ambientali, Arpa, Ispra, eccetera, sono nella norma. Benissimo, una bella notizia in mancanza di prove contrarie. Ma chi dovrebbe fornirle le prove contrarie, intanto premettiamo che Ilva, ex Ilva, può inquinare oltre i limiti consentiti per 35 giorni l’anno, va in deroga. Ma chi è che dovrebbe misurare queste emissioni: sei centraline, la cui metà sono con sensori adatti a rilevare l’inquinamento urbano, non sono adatti per valutare l’inquinamento chimico di un’acciaieria. ”È una cosa gravissima” dice la custode giudiziaria che rincara anche la dose “io di controlli ne ho visti pochissimi”. Siamo alle solite, ora quello che significano questi dati a valle, negli studi e negli ospedali rappresentano la realtà preoccupante. Se tu sei un bambino e nasci nel quartiere Tamburi, hai la possibilità, visto che inali un mix di metalli pesanti, di sviluppare un quoziente intellettivo di 12 punti più basso rispetto a un bambino che vive nei quartieri adiacenti. Se invece vivi e nasci a Taranto, vivi a Taranto da bambino rischi di sviluppare il 30% di tumori in più rispetto a bambini che vivono da altre parti, il 50% per alcuni tipi di tumore invece per gli adulti, sempre a Taranto. Mentre acciaierie d’Italia dice che rispetto dei limiti non deriva dalla bassa produzione, come si sospettava perché avrebbe dovuto produrre da contratto circa 6 milioni di tonnellate, ne produce poco, circa la metà, dice: ma dipende "dalla modifica impiantistica a seguito degli interventi realizzati secondo provvedimento del governo del 2017". Però a questo punto ci chiediamo, come fa una fabbrica che produce circa 3 milioni di tonnellate di acciaio a inquinare come quella che ne produce quasi il doppio, chissà che poi alla fine non siano i 3500 operai in cassa integrazione a contribuire un pelino a rendere più ecologiche le ciminiere dell’ex Ilva. Ai tarantini non rimane che il solito ricatto, o malattia o povertà. E a volte una non esclude l’latra. Mentre invece chi ha dato il là a questa vicenda lo abbiamo trovato tra le vie di Milano passeggiare con il suo cagnolino.

LUCA BERTAZZONI Signor Riva? Buonasera, sono Luca Bertazzoni, sono un giornalista di Report.

FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA Ah, di Report?

LUCA BERTAZZONI Sì, come sta?

FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA Insomma, potevo star meglio, ma potevo stare anche peggio.

 LUCA BERTAZZONI Ci stiamo occupando della sentenza “Ambiente svenduto”, lei ha preso 22 anni che non sono pochi.

FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA Come hai fatto a beccarmi poi?

LUCA BERTAZZONI Eh vabbè, noi siamo bravi.

FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA Eh, bravi sì. Questa non è mica casa mia, ci ho fatto solo i domiciliari.

LUCA BERTAZZONI Ci ha fatto i domiciliari, sappiamo tutto. Come sta dopo questa botta?

FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA Beh, botte ne abbiamo prese talmente tante. Avviamoci dai.

LUCA BERTAZZONI Ci avviamo. Possiamo accompagnarla nella camminata?

FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA Un pezzettino.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO L’uomo che passeggia con il barboncino per il centro di Milano è Fabio Riva, proprietario con la sua famiglia dello stabilimento Ilva dal 1995 al 2012. In quell’anno parte l’inchiesta Ambiente Svenduto e viene deciso il sequestro dell’area a caldo dello stabilimento. Il 31 maggio scorso è arrivata la sentenza di primo grado.

SENTENZA ILVA 31/05/2021 La Corte di Assise di Taranto condanna Riva Fabio Arturo alla pena di anni 22 di reclusione, Archinà Girolamo alla pena di anni 21 e mesi 6 di reclusione.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Una sentenza storica che ha portato 300 anni di carcere ai 47 imputati per reati che vanno dal disastro ambientale all’avvelenamento di sostanze alimentari. Dalle carte emerge un sistema che aiutava i Riva a tenere sotto controllo stampa e associazioni ambientaliste. Lo stratega della comunicazione a cui i Riva chiedevano consigli è il responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva Girolamo Archinà.

INTERCETTAZIONE GIROLAMO ARCHINÀ- RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE RIVA /EMILIO RIVA JR – GRUPPO RIVA GIROLAMO ARCHINÀ- RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE RIVA Pronto?

EMILIO RIVA JR – GRUPPO RIVA Archinà?

GIROLAMO ARCHINÀ- RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE RIVA Sì!

EMILIO RIVA JR – GRUPPO RIVA Cosa gli rispondiamo nel comunicato? Non ho capito.

GIROLAMO ARCHINÀ- RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE RIVA Cosa?

EMILIO RIVA JR – GRUPPO RIVA Lei non è il maestro degli insabbiamenti?

GIROLAMO ARCHINÀ- RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE RIVA Dagli due stoccate.

FRANCESCO CASULA – GIORNALISTA IL FATTO QUOTIDIANO Girolamo Archinà è una sorta di self made man. Negli anni ‘70 entra in fabbrica come un operaio e scala le gerarchie industriali dell’azienda. Crea una ragnatela di relazioni che permette di neutralizzare o di ridimensionare iniziative che avrebbero potuto danneggiare la produzione e quindi il fatturato dell’Ilva.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Come il comunicatore Archinà intenda il concetto di libertà di stampa si capisce molto bene in questa telefonata intercettata dalla Procura.

INTERCETTAZIONE GIROLAMO ARCHINÀ

GIROLAMO ARCHINÀ- RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE RIVA Io ho sempre sostenuto che bisogna pagare la stampa per tagliargli la lingua.

LUCA BERTAZZONI Archinà buonasera, sono Luca Bertazzoni, sono un giornalista di Report. Come sta? Volevo sapere dopo questa condanna? 21 anni e mezzo nel processo…

GIROLAMO ARCHINÀ- EX RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE RIVA Ne parli con l’avvocato.

LUCA BERTAZZONI Volevo farmi una chiacchierata con quella che è considerata l’eminenza grigia della famiglia Riva.

GIROLAMO ARCHINÀ- EX RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE RIVA No, scusi no.

LUCA BERTAZZONI Siccome abbiamo letto e ascoltato le sue intercettazioni non si sente di dire niente? Siccome la condanna è molto importante, 21 anni e mezzo sono tanti. Niente, arrivederci. LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Le domande non sono mai piaciute Archinà, né ora né quando venivano rivolte alla famiglia Riva.

VIDEO ARCHINÀ /GIORNALISTA LUIGI ABBATE - GIORNALISTA Allora sono false le voci di tumore?

EMILIO RIVA – PRESIDENTE ILVA Sì.

LUIGI ABBATE - GIORNALISTA Ah, ecco. Ce le siamo inventate.

EMILIO RIVA – PRESIDENTE ILVA Ve le siete inventate.

LUIGI ABBATE - GIORNALISTA Filma, filma. Ingegnere mi dia il microfono, mi dia il microfono. Democraticamente e civilmente ho detto che a Taranto ci sono morti per tumore. Si mette davanti? Dottor Archinà mi faccia parlare.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO L’immagine di Archinà che strappa il microfono al giornalista arriva fino a Roma, dove in quei giorni si trova l’allora governatore della Regione Puglia Nichi Vendola.

INTERCETTAZIONE NICHI VENDOLA/GIROLAMO ARCHINÀ

NICHI VENDOLA-PRESIDENTE REGIONE PUGLIA 2005-2015 Sono molto colpito da una scena che ho appena visto ora... uno splendido scatto felino, non potevo riprendermi, ho visto una scena fantastica.

NICHI VENDOLA - PRESIDENTE REGIONE PUGLIA 2005-2015 La cosa che ha prodotto la mia risata è ovviamente nulla a che fare con il contesto del cancro, ma molto a che fare con il contesto neo-servile di Archinà nei confronti del suo padrone.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Nel processo "Ambiente svenduto" Vendola viene condannato a tre anni e mezzo per concussione: avrebbe esercitato pressioni sul direttore dell'Arpa Giorgio Assennato per ammorbidire le sue posizioni nei confronti dell'Ilva.

INTERCETTAZIONE NICHI VENDOLA/GIROLAMO ARCHINÀ

NICHI VENDOLA-PRESIDENTE REGIONE PUGLIA 2005-2015 Mettiamo subito in agenda un incontro con l’Ingegnere. Archinà, state tranquilli non è che mi sono scordato. A prescindere da tutti i procedimenti, le cose, le iniziative, l’Ilva è una realtà produttiva a cui non possiamo rinunciare, dobbiamo vederci, dobbiamo ridare garanzie. Volevo dirglielo perché poteva chiamare Riva e dirgli che il Presidente non si è defilato.

NICHI VENDOLA - PRESIDENTE REGIONE PUGLIA 2005-2015 Il tema della telefonata per me sono 705 posti di lavoro a rischio licenziamento. Non avevo la forza né il diritto di chiudere una grande fabbrica. Se io mi mettevo, diciamo così, a fare l’urlatore prendevo gli applausi e non mi trovavo in nessun problema. Ma un atteggiamento demagogico avrebbe potuto avere come risultato il cumulo di due sciagure: il cancro e la povertà.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO In quei giorni la famiglia Riva aveva un problema: a seguito dei ripetuti sforamenti dei limiti di inquinamento, il direttore dell'Arpa Assennato propone di diminuire la produzione di Ilva nei giorni particolarmente ventosi, i cosiddetti “wind days”.

 GIORGIO ASSENNATO - DIRETTORE GENERALE ARPA PUGLIA 2006-2016 Questo avrebbe comportato, se fosse stato effettuato, una gestione abbastanza risolutiva del problema dell’inquinamento da benzoapirene.

LUCA BERTAZZONI Il giorno fondamentale è il 15 luglio del 2010. Cosa succede?

FRANCESCO CASULA – GIORNALISTA IL FATTO QUOTIDIANO La giornata inizia alla Regione con un incontro tra i vertici della Regione, quindi Nichi Vendola, e la famiglia Riva. A questo incontro però non partecipa Giorgio Assennato, che era l’uomo che aveva in qualche modo messo l’Ilva con le spalle al muro. In quell’incontro decidono di optare per quello che si chiama “monitoraggio diagnostico”. E viene poi subito dopo raccontato urbi et orbi con una conferenza stampa convocata d’urgenza a cui però non partecipa Giorgio Assennato. Secondo l’accusa quella era la prova della concussione, delle pressioni fatte da Vendola su spinta dei Riva per ammorbidire la linea di Arpa.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Anche l’ex direttore dell’Arpa Giorgio Assennato è stato condannato a due anni perché avrebbe taciuto delle pressioni esercitate dal Presidente Vendola.

LUCA BERTAZZONI Da una parte lei nega le pressioni di Vendola, poi va dal giudice e dice: “la Regione Puglia ha scelto di non seguire le nostre misure contro l’inquinamento. È come se l’autorità politica, avendo un vaccino in mano, rinunciasse ad usarlo per contenere un’epidemia”.

GIORGIO ASSENNATO - DIRETTORE GENERALE ARPA PUGLIA 2006-2016 Non è un’accusa, è un dato di fatto.

LUCA BERTAZZONI Però mi sta dicendo che la Regione Puglia ha sbagliato.

GIORGIO ASSENNATO - DIRETTORE GENERALE ARPA PUGLIA 2006-2016 Ha sbagliato, ha fatto un errore politico. Ora se questo errore politico possa poi essere considerato penalmente rilevante non lo chieda a me.

NICHI VENDOLA - PRESIDENTE REGIONE PUGLIA 2005-2015 Su che cosa non ho seguito le sue indicazioni?

 LUCA BERTAZZONI Sul discorso della riduzione della produzione dell’Ilva.

NICHI VENDOLA - PRESIDENTE REGIONE PUGLIA 2005-2015 Ma no.

LUCA BERTAZZONI Questo lui mi ha detto.

NICHI VENDOLA - PRESIDENTE REGIONE PUGLIA 2005-2015 Ma quando? In che occasione e discutendo di che cosa? Queste sono…

LUCA BERTAZZONI È proprio dopo l’incontro con i Riva.

NICHI VENDOLA - PRESIDENTE REGIONE PUGLIA 2005-2015 Ma io con lui ho mai discusso di questo? Negli anni in cui io mi occupo di queste cose il Ministro dell’Ambiente è il capo dei Verdi, ma non hanno aperto loro la strada all’ambientalizzazione dell’Ilva. Questa strada è stata imperfetta? Beh, noi ci abbiamo provato.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Anche a Roma si gioca una partita fondamentale per la famiglia Riva: in quel periodo al ministero dell'Ambiente si discute dell'Autorizzazione Integrata Ambientale, che fissa i limiti di inquinamento di Ilva. L'avvocato Perli, rappresentante del gruppo, comunica a Riva che le cose stanno andando bene.

INTERCETTAZIONE FABIO RIVA - EX VICEPRESIDENTE RIVA FIRE/FRANCESCO PERLI

FRANCESCO PERLI – AVVOCATO GRUPPO RIVA La Commissione ha accettato l’85/90% delle nostre osservazioni e la visita si impone per questo 10%, però mi hanno detto che è tutto sotto controllo.

FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA Rispetto alla pagina 25 e 26 di quel matto dell’Assennato, cioè due casi di tumore in più all’anno…una minchiata! LUCA BERTAZZONI Disastro ambientale per quello che secondo appunto questa sentenza avete combinato dal 1995 al 2012 a Taranto.

FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA Taranto.

LUCA BERTAZZONI Se la ricorda Taranto?

FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA Eh, un po’. Non è che ci andavo molto. Non sono l’unico a ricordarselo, se lo ricordano anche i concorrenti delle altre acciaierie europee.

LUCA BERTAZZONI Avete fatto un po’ di soldi diciamo a Taranto.

FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA No.

LUCA BERTAZZONI Però se lo ricordano anche i tarantini, diciamo.

FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA Ne abbiamo messi dentro tanti.

LUCA BERTAZZONI Ne avete messi dentro tanti, ma ne avete fatti anche tanti, giusto?

FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA Sono rimasti tutti là, andiamo.

LUCA BERTAZZONI Sono rimasti lì? Poi ve li hanno sequestrati.

FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA No, li abbiamo dati.

LUCA BERTAZZONI 8 miliardi non sono pochi.

FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA Sì, ma gli 8 miliardi poi la Cassazione li ha tolti, no?

LUCA BERTAZZONI Alla luce di questa sentenza voglio chiederle se ha qualcosa da rimproverarsi visto che si parla di disastro ambientale, di avvelenamento di sostanze alimentari.

 FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA Ci sono i gradi di giudizio.

LUCA BERTAZZONI Certo, siamo garantisti. FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA Poi lo decide il giudice, no?

LUCA BERTAZZONI È andato giù pesante il giudice perché sono 22 anni.

FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA Eh sì.

LUCA BERTAZZONI Per questo le chiedevo se ha qualcosa da rimproverarsi visto che si parla di disastro ambientale.

FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA Ma cosa vuole rimproverarsi nella vita?

LUCA BERTAZZONI Un disastro ambientale.

FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA Cosa vuole rimproverarsi?

LUCA BERTAZZONI Per lei la gestione di quegli anni all’Ilva è stata tutta regolare? Sono pazzi i giudici che le hanno dato 22 anni?

FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA Bah, veda lei. Non lo so.

LUCA BERTAZZONI Volevo capire la sua, visto che ha preso questa condanna.

FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA Veda lei, la saluto.

LUCA BERTAZZONI Arrivederci, grazie.

FABIO RIVA - VICEPRESIDENTE GRUPPO RIVA FIRE – EX PROPRIETARIO ILVA Buonasera, buon lavoro.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Negli stessi giorni in cui ho incontrato Fabio Riva nel centro di Milano, in Puglia si votava per le amministrative. L’ingegner Salvatore De Felice, per dieci anni capo dell'area altiforni Ilva, è capolista del Pd alle elezioni comunali di San Giorgio Jonico, un piccolo paese vicino Taranto.

LUCA BERTAZZONI L’hanno candidata come capolista del Partito Democratico nonostante la sua condanna a 17 anni nel processo “Ambiente Svenduto”.

SALVATORE DE FELICE - CONSIGLIERE COMUNALE SAN GIORGIO IONICO Ho capito, io mi sono autosospeso dal partito per togliere tutte le castagne dal fuoco, per non mettere in mezzo il partito, per salvaguardare la mia persona e l’immagine del partito. Comunque bisogna essere sempre garantisti al di là di tutto.

LUCA BERTAZZONI Certo, però qui si parla di un’opportunità politica e morale dopo una condanna così pesante.

SALVATORE DE FELICE - CONSIGLIERE COMUNALE SAN GIORGIO IONICO Mi spiace, saluti. Buona giornata.

LUCA BERTAZZONI Va bene, buona fortuna per le elezioni.

SALVATORE DE FELICE - CONSIGLIERE COMUNALE SAN GIORGIO IONICO Buona giornata.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Gli auguri di Luca gli hanno portato bene perché l’ingegner De Felice, condannato a 17 anni e che aveva gestito per oltre un decennio gli altiforni dell’ex Ilva, insomma, è stato eletto con il massimo delle preferenze grazie anche alla lista in cui si è presentato al partito che lo ha supportato, che è il Pd. Solo che il Pd poi ha cercato di metterci una pezza, solo che è stata peggio del buco. Ha detto, guardate che questa della candidatura di De Felice è una decisione che l’ha presa esclusivamente il circolo locale, quello di San Giorgio Ionico, solo che poi De Felice cosa ha fatto, De Felice una volta che è andato in Consiglio comunale, seduto lì, si è autosospeso dal partito. Poi c’è invece chi risponde a Nichi Vendola, che aveva accusato i Verdi di essere al ministero dell’ambiente quando è successa la catastrofe ambientale dell’Ilva. Risponde il portavoce, Angelo Bonelli, il quale dice: "Ricordiamo che i Verdi al processo Ambiente Svenduto sono stati parte civile che quel processo si è aperto anche grazie anche alle nostre denunce. A Taranto la legge regionale sulla diossina – continua Bonelli- è stata disapplicata, e non si è finanziata alcuna indagine epidemiologica. La Regione Puglia nel 2011 diede parere favorevole all’autorizzazione integrata ambientale, che alzava i valori dei macroinquinanti, portava la produzione dell’acciaio a 15 milioni di tonnellate l’anno continuando a bruciare pet coke nonostante il Noe dei carabinieri avesse informato la Regione delle gravi irregolarità che avvenivano all’interno dell'acciaieria”. Questo, ovviamente tutto questo, riguardava il passato, ma per il futuro?

OPERAIO IRIS Sono due anni che non mi arriva un accredito in banca della Iris, due anni! E mi chiami, rientro. “Dobbiamo avere spirito di azienda”, lo abbiamo avuto. “Dovete fare lo straordinario”, lo abbiamo fatto. “Dovete venire a lavorare con i vostri soldi, io sicuramente non vi pago perché non ho i soldi, però se non venite è colpa vostra che l’azienda ha chiuso”.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, allora stiamo parlando dell’acciaieria più grande d’Europa, l’ex Ilva. Quale sarà il suo futuro? Intanto c’è un dovere: quello di fare uscire Taranto ei suoi cittadini da un ricatto costante, povertà o malattia o se volete diritto al lavoro o diritto alla Salute. Ecco Acciaierie d’Italia sono strategiche per il Paese, sono strategiche per i 3500 cassa integrati, per tutto l’indotto dei fornitori che fino a oggi ha tirato la cinghia. Bene, siccome ci è entrato ad aprile un po’ di Stato e l’intenzione è quella che lo Stato entri sempre di più a maggio del 2022, quindi noi tutti entreremo dentro la produzione dell’acciaio, insomma, la domanda è, ma in che stato è questa società? Abbiamo provato a fare una due diligence.

FRANCESCA FRANZOSO - RESPONSABILE COMMERCIALE IRIS SRL Questi sono i segmenti della colata continua, arrivano così. I rulli vengono completamente smontati, scaricati e ricaricati, lavorati su quella macchina lì, sabbiati, verniciati e consegnati. LUCA BERTAZZONI E quindi come nuovi li riportate ad Acciaierie d’Italia?

FRANCESCA FRANZOSO - RESPONSABILE COMMERCIALE IRIS SRL Come nuovi li riportiamo dentro. Questa azienda ai tempi in cui Ilva lavorava fatturava anche 13 milioni di euro. Questa volta ha dimezzato.

LUCA BERTAZZONI Voi lavorate prevalentemente con Acciaierie d’Italia?

FRANCESCA FRANZOSO - RESPONSABILE COMMERCIALE IRIS SRL Acciaierie d’Italia, sì.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Iris è una fabbrica che si occupa della manutenzione dei macchinari di Acciaierie d’Italia. Quando lo stabilimento dell’ex Ilva riduce la produzione di acciaio a soffrire sono tutte le aziende dell’indotto.

LUCA BERTAZZONI Quanto acciaio produce Acciaierie d’Italia?

GIANCLAUDIO TORLIZZI – FONDATORE T-COMMODITY 3,5 milioni di tonnellate annue.

LUCA BERTAZZONI E quanto acciaio potrebbe produrre di acciaio?

GIANCLAUDIO TORLIZZI – FONDATORE T-COMMODITY Ai fasti dell’epoca Riva era arrivata a picchi anche di circa 10 milioni di tonnellate.

PAOLO BRICCO – GIORNALISTA IL SOLE 24 ORE C’è una domanda tale di acciaio che consentirebbe davvero di rendere Acciaierie d’Italia una macchina per fare soldi. Allo stesso tempo si continua ad assistere a questa condizione di migliaia di persone in cassa integrazione e intanto tutti fanno un sacco di soldi nella siderurgia italiana ed europea.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Tutti tranne Acciaierie d'Italia che tiene 3500 operai in cassa integrazione da fine settembre fino al prossimo gennaio e produce la metà di quel che potrebbe.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO In due anni ha perso 1 miliardo di euro, in due anni eh!

LUCA BERTAZZONI Perché in un momento in cui c’è un aumento esponenziale dei prezzi dell’acciaio l’ex Ilva sta perdendo?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Perché guardando i bilanci è molto semplice: i costi sono più alti dei ricavi.

LUCA BERTAZZONI Se allarghiamo il campo e guardiamo in generale il gruppo Mittal come è la situazione?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO È controllato per poco più del 35% dalla famiglia Mittal come sempre tramite i trust nelle isole del Canale, insomma tutto il cinema che sappiamo per non pagare imposte sostanzialmente. Tutte le loro holding sono in Lussemburgo. Il gruppo ammonta a oltre 500 società, la nostra italiana sta nel filone delle società che perdono, poi c’è un filone di società che guadagnano, ma mica poco.

LUCA BERTAZZONI Quanto guadagnano queste società?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO 3 miliardi di euro hanno guadagnato l’anno scorso.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Le industrie europee hanno bisogno di più acciaio di quel che si produce e per questo il suo prezzo cresce. Se Arcelor Mittal aumentasse la produzione dell’ex Ilva rischierebbe quindi di far diminuire il prezzo della materia che vende.

MICHELE EMILIANO - PRESIDENTE REGIONE PUGLIA Dare in affitto al più grande produttore di acciaio europeo la più grande acciaieria era tutto sbagliato. Se tu vuoi salvare la fabbrica la dai ad un concorrente che per esempio non è presente sul territorio europeo e apri diciamo una possibilità di mercato che rafforzi la fabbrica stessa.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il 10 dicembre scorso il governo Conte firma un accordo con Arcelor Mittal: lo Stato diventa socio della multinazionale investendo una prima tranche di 400 milioni di euro.

LUCA BERTAZZONI Prima di metterci i soldi Invitalia commissiona sui conti un’indagine dell’acciaieria gestita da Mittal ad una grossa società, che cosa dicono questi revisori?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO La società di revisione dice: “non ho potuto fare l’analisi perché non mi hanno dato le carte”. E allora perché gli dai i soldi se non c’è l’analisi? In ogni caso i revisori hanno segnalato con evidenza una particolarità, e cioè che i costi arrivano tutti da società del gruppo e anche una buona parte dei ricavi vanno verso società del gruppo. Ma specificano i revisori che non sanno dire se i prezzi di acquisto delle materie prime sono di mercato oppure no.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Una cosa però i revisori l’hanno individuata. 450 milioni di euro sarebbero il saldo positivo per le società del gruppo ArcelorMittal. E pagate dall’Ilva di Taranto nel solo 2019, anno in cui l’acciaieria perde 865 milioni di euro. Anno in uci i fornitori hanno dovuto tirare la cinghia al massimo.

OPERAIO IRIS Sono due anni a tipi come me che non arriva un accredito in banca della Iris, due anni! E mi chiami, rientro. “Dobbiamo avere spirito di azienda”, lo abbiamo avuto. “Dovete fare lo straordinario”, lo abbiamo fatto. “Dovete venire a lavorare con i vostri soldi, io sicuramente non vi pago perché i soldi non ne ho, però se non venite è colpa vostra che l’azienda ha chiuso”.

OPERAIO IRIS II Noi non sappiamo più cosa fare, non riusciamo neanche più a vivere perché non abbiamo i soldi, è quello il problema.

SINDACALISTA Ci sono là dentro altre 10, 15, 20, 100 aziende che stanno nelle stesse condizioni o ancora peggio della Iris. Ma a monte c’è il problema, cioè il problema non è la Iris, il problema è Mittal che non paga.

LUCA BERTAZZONI Quanti crediti avete rispetto ad Acciaierie d’Italia?

FRANCESCA FRANZOSO - RESPONSABILE COMMERCIALE IRIS SRL In questo momento intorno agli 800/900 mila euro. Ho chiesto insomma una puntualità nei pagamenti.

LUCA BERTAZZONI La risposta quale è stata?

FRANCESCA FRANZOSO - RESPONSABILE COMMERCIALE IRIS SRL Non c’è stata. Di fatto la risposta è il mancato invito alle gare che non mi vedono più nell’elenco dei fornitori.

LUCA BERTAZZONI Perché a me hanno parlato di una specie di black list.

FRANCESCA FRANZOSO - RESPONSABILE COMMERCIALE IRIS SRL Ogni tanto sento parlare di un “k”, una sorta di codice che viene assegnato a delle aziende quando ci sono dei problemi.

LUCA BERTAZZONI Un’azienda come la sua, che è medio-grande, possiamo dirlo? riesce a sopravvivere anche senza i pagamenti di Acciaierie d’Italia?

FRANCESCA FRANZOSO - RESPONSABILE COMMERCIALE IRIS SRL No.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Tre giorni dopo l’incontro, la proprietaria di Iris ci diffida dal mandare in onda l’intervista. Sostiene di essere stata pagata da Acciaierie d’Italia. Ma a confermarci l’esistenza di una black list di aziende sgradite alla proprietà è l’amministratore delegato di una delle più grandi fabbriche dell’indotto.

AMMINISTRATORE DELEGATO AZIENDA INDOTTO ACCIAIERIE D’ITALIA Le aziende piccole hanno paura di perdere il lavoro e quindi stanno lì a soffrire e non vengono pagate. Le aziende grandi si ribellano, fanno azioni giudiziarie, vengono messe in black list, vanno in causa. “Tu vuoi che io ti paghi? Bene, dopo due anni io comincio a pagare, però poi non ti ordino più niente”. Io ho lavoro fino a fine novembre, poi 2 stabilimenti su 4 a dicembre non hanno più lavoro, 2 stabilimenti su 4 ridurranno il lavoro di tre quarti.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Nonostante le perdite miliardarie e i gravi ritardi nei pagamenti dei fornitori evidenziati dal report Kpmg, lo Stato considera l’ex Ilva strategica e ne prenderà il controllo a maggio del 2022, investendo altri 680 milioni di euro.

GIANCARLO GIORGETTI - MINISTRO DELLO SVILUPPO ECONOMICO Buongiorno.

LUCA BERTAZZONI Buongiorno Ministro, sono Luca Bertazzoni di Report. Una domanda sola: lei ha parlato dell’importanza di un’industria nazionale dell’acciaio, volevo capire il ruolo dello Stato dentro Acciaierie d’Italia, oltre a metterci un sacco di soldi, qual è? Perché questa società ha perso oltre 1 miliardo e 100 milioni di euro in 2 anni e ha 3500 lavoratori in cassa integrazione.

GIANCARLO GIORGETTI - MINISTRO DELLO SVILUPPO ECONOMICO Lo Stato è entrato esattamente 3 mesi fa e quindi speriamo che cambino le cose.

LUCA BERTAZZONI Però il mercato dell’acciaio è buono e l’azienda perde, Ministro.

GIANCARLO GIORGETTI - MINISTRO DELLO SVILUPPO ECONOMICO Eh, bisogna guardare avanti e non indietro. Speriamo che non perda più.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO L’Italia di fatto ha perso un altro miliardo di euro perché i 400 che ha dato sono già stati bruciati dalle perdite e se continua a perdere bruceranno anche gli altri 600. Ha senso avere un’acciaieria di Stato? Se ha senso la gestisca lo Stato.

MICHELE EMILIANO - PRESIDENTE REGIONE PUGLIA Il governo ha individuato quella fabbrica per legge come una fabbrica strategica.

LUCA BERTAZZONI Per lei lo è o no?

MICHELE EMILIANO - PRESIDENTE REGIONE PUGLIA La fabbrica in sé e per sé assicura solo una piccola parte del consumo di acciaio che serve all’Italia, quindi il resto ce lo dobbiamo comunque procurare.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO “Una bambina si ammala improvvisamente e la mamma ha un dubbio atroce: la causa potrebbero essere le emissioni di una fabbrica a pochi passi da casa”. Questo lo spot della fiction “Svegliati amore mio”. Riccardo Cristello, operaio di Acciaierie d’Italia, è stato licenziato per aver condiviso un post che invitava alla visione della fiction.

RICCARDO CRISTELLO - OPERAIO ACCIAIERIE D’ITALIA Non è mai stata mia intenzione andare a colpire o dire “siete voi, siamo noi”. Era solo per pubblicizzare questa fiction perché quando ho letto i bambini e quant’altro a me personalmente ha toccato.

LUCA BERTAZZONI Ti licenziano, fai ricorso e lo vinci.

RICCARDO CRISTELLO - OPERAIO ACCIAIERIE D’ITALIA Sì. Stavo impazzendo in quel periodo.

LUCA BERTAZZONI Perché stavi impazzendo? Te lo posso chiedere?

RICCARDO CRISTELLO - OPERAIO ACCIAIERIE D’ITALIA Eh, come posso dirti? Scusami, ma non l’abbiamo ancora somatizzata questa cosa. Perché? C’ho due figlie, c’ho una moglie, pensi al loro futuro, pensi anche a te, cosa potrà succedere.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Riccardo Cristello ha vinto la sua causa è stato reintegrato, evviva. Solo che Acciaierie d’Italia ha fatto ricorso la palla è al tribunale. Ora bisognerà però capire qual è il futuro delle acciaierie, di una azienda così strategica per l’Italia. Il ministro dello sviluppo economico Giorgetti ci ha scritto: “dipende dal piano industriale” che è affidato al Cda di Acciaierie d’Italia, se ne sta occupando in prima persona Franco Bernabè. Però per quello che ci risulta il piano industriale dovrebbe essere approvato entro dicembre se poi passerà anche la valutazione di impatto ambientale e supererà il consenso, l’accordo con i sindacati lo Stato potrà controllare le Acciaierie investendo insieme al privato Arcelor. L’unica questione vera grande che rimane è far convivere la produzione dell’acciaio con il diritto alla salute. Ecco di questo ne avevano già parlato in tanti a partire dal 2012, l’aveva detto già il presidente del Consiglio Mario Monti: ''In Italia non ci può essere la drammatica alternativa tra lavorare e vivere", era il 1° dicembre 2012. Poi Corrado Passera nel gennaio 2013: "Se l'Ilva chiude non ci sarà né risanamento né lavoro", poi il 7 settembre del 2018 il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio: "Sono stati ottenuti miglioramenti sia sul piano occupazionale che su quello ambientale", e segue il giorno dopo il premier Giuseppe Conte che dice: "Abbiamo migliorato incredibilmente il livello occupazionale e abbiamo migliorato anche il piano ambientale". Insomma, come siamo ridotti a Taranto l’abbiamo visto, per il futuro non rimane che…

Matteo Renzi accusa Pier Luigi Bersani a Non è l'arena: "Prendeva i soldi dai Riva a Taranto. Centinaia di assunti nel suo Pd". Il Tempo il 18 novembre 2021. “Dice che ho fatto del partito la mia cassa? Ora vi dico tutto”. Matteo Renzi è imbufalito per le parole di Pier Luigi Bersani e scatta la rissa a distanza tra ex segretari del Partito Democratico. "A Bersani - dice Renzi ospite di Massimo Giletti nella puntata del 17 novembre di Non è l’Arena su La7 - vorrei dire che prima di parlare di me e finanziamenti della politica dovrebbe dire come mai lui prendeva soldi, legittimi, da Riva a Taranto. Se anziché finanziare lui e la sua campagna elettorale quei soldi fossero stati utilizzati per fare delle operazioni per Taranto, per l’ambiente e per il clima… Io i soldi non li ho presi da Riva come ha fatto Bersani, io li ho portato con il mio governo, mettendo le risorse per andare sistemare Taranto. Quando Bersani parla di finanziamento alla politica, in questo caso lecito, dovrebbe ricordarsi che prima di parlare - conclude il suo attacco il leader di Italia Viva dopo aver sottolineato la vicenda del gruppo una volta proprietario degli stabilimenti dell'Ilva - dovrebbe prima spiegare cosa ha fatto lui, sia a Taranto che nella gestione del partito, quando era segretario e costava un sacco di soldi, con centinaia di persone assunte, e c'era il finanziamento pubblico”.

La polemica. Bersani, i 98mila euro dai Riva e la doppia morale della sinistra avvelenata con Renzi. Annarita Digiorgio  su Il Riformista il 21 Novembre 2021. Pierluigi Bersani si è accodato all’attacco mediatico che da giorni colpisce Matteo Renzi dopo la pubblicazione di entrate e uscite regolarmente registrate su un conto corrente estrapolato insieme a chat e telefonate non utilizzate nelle indagini ma inserite nel fascicolo depositato dell’inchiesta della procura di Firenze. A quel punto, dopo le accuse in tv ricevute da Bersani, che in quell’inchiesta è chiamato come teste dell’accusa, Renzi si è difeso. «Vorrei dire che prima di parlare di me e finanziamenti della politica – ha detto il leader di Italia Viva da Giletti- Bersani dovrebbe dire come mai lui prendeva soldi, legittimi, da Riva a Taranto. Se anziché finanziare lui e la sua campagna elettorale quei soldi fossero stati utilizzati per fare delle operazioni per Taranto, per l’ambiente e per il clima… Io i soldi non li ho presi da Riva come ha fatto Bersani, lecitamente preciso, io li ho portati con il mio governo, mettendo le risorse per andare a sistemare Taranto». Renzi si riferisce ai 98mila euro, anche quelli legittimamente dichiarati, che Bersani prese come finanziamento alla sua campagna elettorale nel 2006 dai Riva insieme ai 50mila da Federacciai, 40mila da Toto, 15mila dal comitato nazionale Caccia, e diverse altre cooperative. Renzi non accusa Bersani di aver fatto una cosa illegittima, o inopportuna, o ancor peggio di aver ricambiato con un favore, un occhio di riguardo. Dice però “io i soldi non li ho presi da Taranto, ma li ho messi”. Anche questa è cosa vera. Tant’è che negli anni del suo governo, e della sua segreteria, grazie a Renzi attraverso i vari decreti sono arrivati a Taranto più di due miliardi di euro: un miliardo per il Cis, uno sequestrato ai Riva e vincolato alle bonifiche, 70 milioni per le attrezzature sanitarie, 70 per 52 assunzioni all’Arpa Puglia, 300 per attività sociali, 500 per il porto, 50 per i Tamburi, e altri ancora. Sono cose di cui anche Bersani potrebbe andar fiero e prendersi merito, facendo ancora parte del Pd in quegli anni. E invece l’ha presa male: «Vedo che in rete e in tv la macchina spargiveleni disperatamente in cerca di correità, si occupa anche di me – ha risposto con un post su Facebook- Alle elezioni del 2006 (quando il mio ruolo di segretario del Pd era ancora nella mente di Giove) ebbi un sostegno davvero largo di molti industriali oltre che di associazioni, di cittadini, di lavoratori. Nessuno che allora risultasse imputato di qualsivoglia reato. Tutto svolto, ovviamente, secondo legge e tutto verificato dalla giurisdizione. Per capire meglio andrà ricordato che dal ‘96 al 2001 avevo fatto il ministro delle Attività produttive e dei trasporti. Una rapida scorsa ai giornali dell’epoca può bastare per farsi un’opinione sulle riforme di quegli anni e sul giudizio che ne derivò nel mondo della produzione e del lavoro. Era ben noto in quel mondo, inoltre, che nessuno aveva mai dovuto o potuto pagarmi un caffè né corrispondere a qualche mia richiesta impropria. Se qualcuno della banda dei veleni vuole oggi mettere in dubbio la mia correttezza o la mia totale autonomia da qualsiasi condizionamento parli chiaro e non per allusioni e apponga cortesemente la firma. Imparerà a conoscermi meglio». Lo spirito industrialista e sviluppista di Bersani all’epoca era noto. Per certi versi lo rimpiangiamo ancora, oggi che invece pare essere stato soppiantato dal decrescismo come pegno per l’alleanza per il più a la page populismo ambientale. Lo stesso spirito industrialista e sviluppista con cui, per esempio, lo stesso Renzi, ormai causa di tutti i mali del mondo, è stato spesso criticato da quel populismo ambientale proprio per quei decreti con cui lui a Taranto i soldi li ha solo portati, senza averli mai presi. Anzi, cercando di risolvere problemi causati anche dalla politica in periodi precedenti al suo arrivo, quando la fabbrica produceva il triplo di oggi. Ed è servita un’inchiesta della magistratura per fermarla. Ma perché Bersani se la prende? I finanziamenti da lui ricevuti erano legittimi, Renzi lo ha detto subito. Non lo ha accusato né in tribunale né in televisione. Nessuno gli ha detto che si faceva pagare il caffè, né corrispondeva a richieste improprie. Questa insinuazione nasce solo se riguarda Renzi. Perché lui non può farsi pagare 18 mila euro per uno speech da Alessandro Benetton? Perché se lo fa Renzi si fanno prime pagine, programmi tv, inchieste, spifferate, insinuazioni e cattiverie, e se invece lo fa chiunque altro diventa oggetto di minaccia di querela anche solo un caffè che nessuno ha insinuato? Purtroppo aver condotto a questo livello il dibattito pubblico fa levare gli scudi del garantismo se non del vittimismo contro lo sciacallo, proprio a chi di questi metodi ne fa pane quotidiano di attività politica e giornalistica per poi lamentarsene quando viene toccato personalmente. Nel 2006 esisteva ancora il finanziamento pubblico, e pure Bersani, come molti altri, già ricorreva a quello privato. Lecito e dichiarato. Senza nulla in cambio. Perché con Renzi diventa oggetto di discussione e attacchi? È la doppia morale della sinistra, anzi, di una parte della sinistra, quella che si ripulì con le cenere delle monetine di Craxi. Sperando non finisca nello stesso modo.

Annarita Digiorgio

DISSEQUESTRATO DAL TRIBUNALE, L’AFO2 DELLO STABILIMENTO EX-ILVA DI TARANTO. VIA I SIGILLI DOPO 6 ANNI. Il Corriere del Giorno il 21 ottobre 2021. La facoltà d’uso dell’altoforno era stata concessa, finalizzata a una serie di prescrizioni a cui l’azienda ha finito di adempiere. Dopo il dissequestro torna in funzione l’altoforno 1 e per domani è prevista la ripartenza di AFO4, anche i sindacati hanno qualche dubbio. ALL’INTERO IL PROVVEDIMENTO DI DISSEQUESTRO. La società Acciaierie d’Italia presieduta da Franco Bernabè ha reso noto che il Tribunale di Taranto ha disposto la revoca del sequestro dell’Altoforno 2, che era disposto nell’ambito dell’inchiesta giudiziaria a seguito sulla morte del 35enne operaio Alessandro Morricella, avvenuta il 12 giugno 2015, quattro giorni dopo essere stato investito da una fiammata mista a ghisa incandescente. Era stata concessa la facoltà d’uso dell’altoforno, finalizzata a una serie di prescrizioni a cui l’azienda ha finito di adempiere. Dopo il dissequestro torna in funzione l’altoforno AFO1 e per venerdì (cioè domani) è prevista la ripartenza di AFO4, anche i sindacati hanno qualche dubbio.

Da "repubblica.it" il 24 settembre 2021. Con una ordinanza di 15 pagine, il giudice della sezione Lavoro del Tribunale di Taranto, Cosimo Magazzino, ha rigettato il ricorso presentato dal Maurizio Gigante contro il licenziamento per giusta causa effettuato dalla società Acciaierie d'Italia a ottobre scorso. Il dipendente era addetto alla torneria cilindri del Treno Nastri 2 dell'area di laminazione del siderurgico. A detta del Tribunale, appaiono decisivi gli addebiti aziendali relativi alle condotte tenute dal dipendente e consistite nell'avere interferito con l'attività di alcuni dipendenti di un'azienda appaltatrice, la Lacaita, in un'area del Treno nastri 2, e utilizzato un cellulare personale durante l'orario e sui luoghi di lavoro. In questo modo Gigante ha contravvenuto allo specifico divieto vigente in azienda. La rilevanza dell'ordinanza di rigetto è data dall'antigiuridicità dell'interferenza effettuata dal dipendente ex Ilva con le attività delle aziende dell'appalto e dall'utilizzo di un telefonino durante l'attività lavorativa. Per il giudice, "non emergono elementi tali da far ritenere che si sia verificata alcuna concreta lesione del diritto di difesa del lavoratore, essendo stato egli posto nelle condizioni di conoscere sufficientemente, nella loro materialità, i fatti nei quali il datore di lavoro aveva ravvisato infrazioni disciplinari". "Le circostanze oggettive contestate", scrive il giudice, sono "state sostanzialmente ammesse" e "oggetto di una sostanziale 'confessione' " da parte dello stesso lavoratore. Il giudice del Lavoro afferma nell'ordinanza, in riferimento al comportamento tenuto da Gigante, che "anche ove effettivamente avesse ritenuto che alcuni dipendenti della società appaltatrice "Lacaita" stessero espletando la propria attività lavorativa utilizzando attrezzatura non idonea, tale da poter produrre emissioni nocive e non controllate nell'ambiente di lavoro, avrebbe dovuto segnalare la circostanza, nei modi dovuti, al proprio preposto ovvero ai responsabili per la sicurezza". "Non certo - osserva il giudice - manifestando direttamente rimostranze e rivolgendo addirittura rimproveri nei confronti, peraltro, dei dipendenti di una società appaltatrice, altresì agitando il cellulare (non risultando che il lavoratore in questione rivestisse alcuna particolare qualifica nè possedesse alcuna specifica competenza in materia in ambito aziendale". 

Ilva, farsa infinita con eterni rinvii: Draghi non può permettersi errori. Ercole Incalza su Il Quotidiano del Sud il 27 agosto 2021. BISOGNA dare atto al governo Draghi di aver redatto un Recovery Plan davvero difendibile a livello comunitario. Bisogna dare atto al governo Draghi di aver finalmente attivato il difficile processo di riforma della giustizia. Bisogna dare atto al governo Draghi di aver velocizzato in modo sostanziale e apprezzabile la difficile e complessa vaccinazione dell’intero Paese. Bisogna dare atto al governo Draghi di aver avviato concretamente e in modo organico la riforma della Pubblica amministrazione. Ebbene, questa serie di risultati positivi e questi oggettivi apprezzamenti nei confronti del presidente Draghi trova un difficile momento critico; trova un rischioso momento in cui potrebbe crollare questo misurabile e inattaccabile elenco di attività positive. Il rischio di questa possibile inversione di tendenza ha un nome: mi riferisco all’emergenza Taranto.

FARSA ULTIMO ATTO. Da cinque anni (ripeto: da cinque anni) quattro governi (Renzi, Gentiloni, Conte I e Conte II) hanno dato vita a una delle farse più pericolose vissute dal Paese dal dopoguerra a oggi. Una farsa ricca di attori, come i ministri Calenda, Di Maio, Patuanelli o come il presidente Emiliano e lo schieramento politico formato dal Partito democratico e dal Movimento 5 Stelle a livello regionale, come la società Arcelor Mittal e il presidente Bernabè nel ruolo di gestori dell’impianto. Questa farsa, in questi giorni, si è arricchita di un ultimo tassello davvero kafkiano che riporto di seguito cercando in tutti i modi di raccontare quanto deciso con la massima linearità, convinto che sia davvero difficile comprendere quello che è successo in questi lunghi cinque anni e quello che sta succedendo in queste ore. In particolare abbiamo appreso il 20 agosto che: «La messa fuori produzione della batteria n° 12 delle Cokerie dello stabilimento ex Ilva di Taranto ora Acciaierie di Italia dovrà avvenire nei tempi tecnici strettamente necessari e comunque non superiori a 60 giorni a partire dal primo luglio 2021»: questo è quanto prevede il decreto del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, pubblicato giovedì 19 agosto sulla Gazzetta ufficiale. In proposito è utile ricordare che Acciaierie d’Italia avrebbe dovuto adeguare alle prescrizioni ambientali dell’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) la batteria 12 entro il 30 giugno scorso. L’Azienda aveva chiesto al ministero una proroga anche a causa del blocco lavori dovuto al Covid, ma il ministero aveva confermato la data di termine lavori e disposto il fermo della batteria in difetto di adempimento entro i successivi dieci giorni. Il Tar del Lazio, esprimendosi sul ricorso di Acciaierie d’Italia, aveva successivamente invitato il ministero a riesaminare le sue decisioni, fissando l’udienza di merito a novembre prossimo.

SINDACATO ASSENTE. Nel nuovo decreto, il ministero prende atto che secondo l’Ispra «non è possibile percorrere soluzioni tecniche alternative a quella proposta dal gestore con tempistiche inferiori a quelle già rappresentate nei mesi scorsi. Tuttavia il gestore resta l’unico responsabile degli eventuali danni all’ambiente o alla salute in conseguenza della tempistica necessaria alla messa fuori produzione della batteria numero 12 oltre il termine del 30 giugno 2020». Questo comporterà un’ulteriore riduzione dei livelli di produzione e un ancor più preoccupante ricorso alla Cassa integrazione. In realtà il più grande centro siderurgico d’Europa si avvia, nel migliore dei casi, verso una soglia di produzione di 3 milioni di tonnellate di acciaio e un livello di occupati di poco superiore alle 3.000 unità. In questo modo Taranto si avvia a essere nel breve periodo una Piombino del Sud. Più volte nei vari miei blog, nelle “Stanze di Ercole”, ho ribadito il mio sconcerto per l’assenza completa del sindacato. Mai in passato, nella storia delle rimostranze sindacali, abbiamo trovato una simile azione mirata a temporeggiare, a rinviare, a illudersi che il fattore “tempo” potesse risolvere una vera tragedia sociale.

CONGIURA DEL SILENZIO. In questo elenco di attori di questa triste farsa del Sud ho appena fatto accenno al presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano: ho evitato di parlarne perché più che di farsa sarei stato costretto a parlare di tragedia. Non chiedo, infatti, cosa abbia fatto e cosa stia facendo il presidente per evitare una crisi sociale gravissima e cosa proponga per evitare e ridimensionare un simile evento. Una bomba sociale che, come ho avuto modo di ribadire più volte, si riverserà sull’intera Regione. Sono sicuro che il presidente Emiliano rivendicherà il suo grande interessamento alla decarbonizzazione, il suo convinto impegno ad abbandonare il carbone; finora, però, disponiamo solo di annunci e dichiarazioni nei convegni in cui ha ribadito più volte: «Io sono il presidente della Regione Puglia e devo rispettare il programma della Regione Puglia. Ma mi sono reso conto che Renzi, Calenda, Di Maio sono tutti sulla stessa linea, un muro contro cui i tarantini si stanno scontrando. La Puglia, e io che sono il presidente, ha avuto dall’Unione europea e da tutte le regioni l’incarico di scrivere il parere sul clima. Ovvero sulla legge europea sul clima. Invece in Italia la Puglia non viene neppure convocata. Ed è una cosa incredibile, sto tentando di rompere questa congiura del silenzio». A questa congiura del silenzio, però, finora la Regione non ha reagito prospettando una linea strategica da adottare di fronte all’obbligato ridimensionamento del centro siderurgico. Ma Emiliano ha anche detto, in questa serie di convegni locali: «Il carbone va eliminato, la copertura dei parchi minerari non sarà sufficiente. È possibile perfino un’evoluzione, i forni elettrici, che consentono la decarbonizzazione e che sono brevetti italiani, potrebbero essere sostituiti da forni a idrogeno riducendo ulteriormente le emissioni e senza dover più bruciare combustibili fossili, avendo così un bilancio di CO2 più favorevole». E anche in questa dichiarazione un chiaro rinvio al futuro, un chiaro ricorso a soluzioni possibili, ma che richiedono tempo, e una sostanziale reinvenzione dell’intero impianto. Intanto non riscontriamo mai, dico mai, un’immediata azione di riassetto funzionale della componente occupazionale, mai un riferimento a possibili processi di riconversione produttiva, mai a proposte che dovrebbero partire proprio dalla intuizione programmatica della Regione.

COSA FARÀ IL PREMIER. Il presidente Draghi non credo accetti questo irresponsabile comportamento di tutti gli attori direttamente e indirettamente coinvolti. Non credo possa accettare che non ci siano immediate risposte ma, soprattutto, non ci sia un cambiamento sostanziale delle folli e ridicole strategie con cui si è finora affrontato e non risolto questo vero dramma politico, istituzionale e sociale; un dramma che, anno dopo anno, sta distruggendo una delle tessere chiave dell’economia pugliese e dell’intero Mezzogiorno. Il presidente Draghi, sono sicuro, porrà la parola fine a questa assurda, ripeto fino alla noia, farsa e se necessario farà ricorso a provvedimenti capaci di reinventare integralmente tutto ciò che finora non si è fatto o si è fatto male. Draghi non può fallire proprio su un’azione che porterebbe l’intera Regione Puglia, e in particolare la vasta area salentina, in una condizione di grave ingestibilità; non può fallire su un’azione che oggi è nelle mani dello Stato (Arcelor Mittal a mio avviso è ormai fuori dalla gestione), su un’azione che è nelle mani di un presidente, Franco Bernabè, stimato e apprezzato dallo stesso presidente Draghi.

Il disastro Ilva costa al Paese 3,5 miliardi l’anno, per i lavoratori un bagno di sangue: sciopero il 31. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 27 agosto 2021. L’ECONOMIA pugliese ha certamente subìto un forte contraccolpo inferto dall’emergenza sanitaria Covid, ma il comparto industriale, in realtà, ha risentito soprattutto dell’andamento «negativo registrato nel siderurgico» che «è riconducibile in larga misura allo stabilimento di Taranto, la cui produzione è calata di circa il 20 per cento nel 2020 (a 3,4 milioni di tonnellate circa), toccando livelli più bassi di quelli registrati durante le due precedenti recessioni».

IL REPORT. A mettere nero su bianco la crisi dell’ex Ilva, le ripercussioni economiche e, di conseguenza, sociali è la sede barese di Banca d’Italia nel suo ultimo report sull’economia regionale. Una crisi che non riguarda solo Taranto e la Puglia ma l’intero sistema Paese. Basti pensare che, secondo Svimez, l’impatto sul Pil nazionale è stato pari, per ogni anno fra il 2013 e il 2018, a una perdita compresa fra i 3 e i 4 miliardi di euro, circa due decimi di punto di ricchezza nazionale. Nel 2019, il Pil “bruciato” è stato di circa 3,6 miliardi.  Negli anni fra il 2013 e il 2019 si sono persi, quindi, 23 miliardi di euro, l’equivalente cumulato di 1,35 punti percentuali di ricchezza. Sempre secondo i calcoli di Svimez, di questi 23 miliardi quasi sette e mezzo riguardano il Nord: Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, Liguria e Lombardia. Sempre fra il 2013 e il 2019, a causa della crisi dell’Ilva, sono stati eliminati export delle imprese per 10,4 miliardi di euro e consumi delle famiglie per 3,5 miliardi. L’impatto annuo sul Pil nazionale, infatti, è stimato, considerando gli effetti diretti, indiretti e indotti, in 3,5 miliardi di euro, di cui 2,6 miliardi concentrata al Sud e i restanti 0,9  miliardi nel Centro-Nord, pari allo 0,2% del Pil italiano. Se consideriamo l’impatto sul Pil del Mezzogiorno si sale allo 0,7%.  

IL NODO OCCUPAZIONE. L’occupazione impegnata dall’ex Ilva, ora Acciaierie d’Italia, è di quasi 10mila addetti, di cui oltre l’80%  a Taranto,  di circa 3mila dipendenti nell’indotto e di altri 3mila addetti legati all’economia attivata dall’azienda: un bacino complessivo di oltre 15mila persone. Ma lo scorso giugno Acciaierie d’Italia ha comunicato alle organizzazioni sindacali l’avvio della cassa integrazione ordinaria con causale Covid per 13 settimane e per un numero massimo di 3.500 dipendenti dello stabilimento siderurgico di Taranto. L’Usb ha proclamato per il 31 agosto uno sciopero dei lavoratori dello stabilimento siderurgico pugliese in cassa integrazione straordinaria alle dipendenze dell’Ilva in As, con “presidio a oltranza” a partire dalle 9.30 sotto la sede della Regione a Bari. Si protesta così contro il mancato avvio di lavori di pubblica utilità per fornire un’integrazione salariale agli operai. Sono circa 1.600 quelli rimasti ancora in capo all’Ilva in amministrazione straordinaria.  Il coordinatore provinciale dell’Usb, Francesco Rizzo, in una nota parla di «silenzio assoluto dopo la riunione della Task force regionale nella quale era stata presa in carico la proposta di Usb di destinare i lavoratori ex Ilva in As ai Lavori di Pubblica Utilità, come accade a Genova da ormai 16 anni. Sono passati ormai tre mesi da quell’incontro e nessuna risposta è stata data, nonostante le rassicurazioni circa una nuova convocazione entro un mese da quel 19 maggio». Le rivendicazioni riguardano anche il «sistema di calcolo integrazione salariale 2022 e anni successivi, prospettive future per i lavoratori collocati in As, insinuazione al passivo (tutto è fermo al gennaio 2015) e sblocco Tfr».  

L’ULTIMA BATOSTA. Sabato scorso anche una nuova batosta: il ministero della Transizione ecologica ha emesso un decreto, pubblicato in Gazzetta ufficiale, che conferma la «messa fuori produzione» della batteria numero 12 delle cokerie dello stabilimento ex Ilva di Taranto. Acciaierie d’Italia avrebbe dovuto adeguare alle prescrizioni ambientali dell’Aia la batteria 12 entro il 30 giugno scorso. L’azienda aveva chiesto al ministero una proroga anche a causa del blocco lavori causato dal Covid, ma il ministero aveva confermato la data di termine lavori e disposto il fermo della batteria, in difetto di adempimento, entro i successivi dieci giorni. Il Tar del Lazio, esprimendosi sul ricorso di Acciaierie d’Italia, successivamente aveva invitato il ministero a riesaminare le sue decisioni fissando l’udienza di merito a novembre prossimo.  

GIORGETTI RASSICURA. «L’Ilva non è in stallo, il governo e il nuovo amministratore stanno lavorando a un piano – ha assicurato due giorni fa il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti – Resto prudentemente ottimista sul fatto che nell’arco di poco tempo i nuovi amministratori dell’Ilva presentino un piano credibile per il rilancio dell’acciaieria in modo ambientalmente sostenibile». Il piano, ha ricordato Giorgetti, «prevede il consenso tra i due soci: uno è quello pubblico, lo Stato, l’altro è quello privato, Mittal, e poi prevede la necessità di trovare un consenso sociale e di contesto sia da parte dei sindacati che degli enti locali».

La Cassazione: "Polveri Ilva su case, giusto risarcimento del 20%". E i giudici citano la sentenza sul sangue infetto trasfuso. Aldo Fontanarosa su La Repubblica il 17 luglio 2021. Alcune famiglie del quartiere Tamburi avevano denunciato l'azienda: non possiamo neanche aprire i balconi, leso il godimento della proprietà. I legali della società siderurgica: "Nessun pregiudizio al valore commerciale delle abitazioni". Nel dispositivo, un lungo ragionamento sull'evento dannoso (l'inquinamento) e le sue conseguenze. I magistrati della Corte di Cassazione civile, nel terzo e definitivo grado di giudizio sul caso, danno il via libera al risarcimento economico in favore di alcune famiglie del quartiere Tamburi a Taranto. L'esposizione delle case alle polveri minerarie della Ilva Spa - oggi in amministrazione straordinaria - ha effettivamente compresso il loro diritto di proprietà e il godimento "pieno ed esclusivo" dell'abitazione.

Il diritto di arieggiare. In concreto, le polveri minerarie si accumulavano sui balconi e i davanzali, e non era neanche possibile arieggiare le stanze perché altrimenti i materiali inquinanti penetravano nei bagni, nelle cucine, nei saloni. Circostanze che i due primi gradi di giudizio hanno correttamente dimostrato. Per questo i magistrati della Corte di Cassazione civile - con la sentenza 18810 del 2 luglio 2021, di cui ha scritto Cassazione.net - considerano legittimo e proporzionato il risarcimento che la Corte d'appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, ha assegnato a queste famiglie. Un risarcimento pari al 20 percento del valore degli immobili.

Ex Ilva, risarcimenti fino a 30mila euro per i palazzi più esposti "all'aggressione delle polveri". 05 Luglio 2021. I legali della Ilva Spa, nel loro ricorso in Cassazione, hanno presentato molti argomenti in difesa del proprio cliente. Ai giudici della Cassazione hanno spiegato, ad esempio, che "altri importanti stabilimenti industriali (Cementir e raffineria Agip)" erano più vicini a condomìni dell'Ilva. Inoltre le polveri minerarie non hanno prodotto alcun danno agli edifici.

E poi il valore commerciale delle case del quartiere Tamburi non sarebbe diminuito a causa dell'inquinamento, al contrario. I prezzi delle case sarebbero addirittura aumentati (rispetto a "quelli delle altre zone in comparazione"). Né sarebbero accertati danni morali o esistenziali a carico delle famiglie. I giudici della Corte di Cassazione - quando valutano un caso nuovo come quello dell'inquinamento a Taranto - studiano anche precedenti sentenze della Cassazione. Le precedenti sentenze contengono dei ragionamenti che funzionano da bussola per i giudici chiamati a valutare casi nuovi. Ed ecco allora i giudici della Corte di Cassazione - impegnati sul caso di Taranto - chiamare in causa una sentenza certo importante e dolorosa. E' la sentenza 576 del 2008 che valuta la trasfusione di sangue infetto ad alcuni pazienti e le malattie che queste persone hanno affrontato per quell'errore.

Evento lesivo e conseguenze. Quella lontana sentenza accerta che il danno è rilevante sotto due profili: come "evento lesivo" (la trasfusione) e come "conseguenze risarcibili" (le malattie che il sangue ha procurato). Questo stesso schema logico - il danno, poi le sue conseguenze - si può applicare anche al caso dell'inquinamento di Taranto, scrivono ora i giudici della Cassazione.

Lavoro, crisi, inquinamento e processi: cinquant’anni di storia dell’Ilva. Vittorio Malagutti su L'Espresso l'11 giugno 2021. Dall’inaugurazione dell’impianto alle condanne:

1965, aprile.

Viene inaugurato l’impianto siderurgico di Taranto, controllato dalla holding pubblica Finsider, destinato a diventare la più grande acciaieria d’Europa su una superficie di oltre 15 milioni di metri quadrati

1995, maggio

Privatizzazione Italsider: l’acciaieria di Taranto, parte del gruppo Ilva laminati piani, viene acquisita per 2.500 miliardi di lire (circa 1,3 miliardi di euro) dalla famiglia Riva, a capo di una delle più grandi aziende private nel settore dell’acciaio 

2012, luglio

Il GIP di Taranto dispone il sequestro senza facoltà d'uso dell'intera area a caldo dello stabilimento siderurgico. Vengono arrestati Emilio Riva, presidente di Ilva fino a maggio 2010, e il figlio Nicola, che lo ha sostituito nell’incarico. Sono accusati di aver “continuato un’attività inquinante, calpestando le più elementari norme di sicurezza” 

2012, dicembre

Un decreto legge del governo Monti dispone la riapertura dell’area a caldo mentre vengono applicate le misure per la tutela della salute pubblica previste nella nuova Autorizzazione integrata ambientale (Aia)

2013, maggio-giugno 

La procura di Taranto ottiene un sequestro da 8 miliardi di euro su beni e conti della famiglia Riva. Ilva viene commissariata dal governo Letta. Il primo commissario è Enrico Bondi sostituito un anno dopo da Piero Gnudi e Corrado Carrubba a cui si aggiunge Enrico Laghi nel gennaio 2015

2017, giugno 

Il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda firma il decreto che aggiudica Ilva alla cordata ArcelorMittal, Marcegaglia (che si ritira subito dopo) e Banca Intesa al termine della gara indetta a gennaio 2016. Battuta la cordata rivale guidata dal gruppo indiano Jindal e dalla Delfin di Leonardo Del Vecchio. Arcelor Mittal, prende in gestione lo stabilimento di Taranto e promette investimenti per 2,4 miliardi di cui 1,15 miliardi di carattere ambientale

2018, novembre

 Ilva passa sotto la gestione di Arcelor Mittal con il via libera del nuovo ministro dello Sviluppo Economico Luigi di Maio, che parla di «gara viziata ma non annullabile»

2019, novembre

Arcelor annuncia di voler restituire Ilva allo Stato dopo il ritiro da parte del governo (il Conte 2) del cosiddetto scudo penale che assicurava ai gestori dell’azienda la protezione da azioni legali nell’attuazione del piano di risanamento ambientale

2020, marzo 

Arcelor e i commissari di Ilva trovano un accordo per la modifica del contratto di affitto del ramo d’azienda Ilva che prevede l’ingresso di investitori italiani nel capitale della società che gestisce l’acciaieria di Taranto 

2020 dicembre 

Arcelor Mittal e la società pubblica Invitalia firmano il contratto che prevede l’ingresso di quest’ultima nel capitale delle Acciaierie d’Italia, a cui fa capo l’impianto di Taranto. In una prima fase lo Stato investirà 400 milioni per una quota del 38 per cento con il 50 per cento dei diritti di voto. Un altro 20 per cento potrà essere acquisito entro maggio 2022 per 380 milioni

2021, aprile

Invitalia versa 400 milioni, ma la società comune con Arcelor Mittal non diventa operativa perché i rappresentanti dell’azionista pubblico non intendono firmare il bilancio di Ilva del 2020

2021, maggio 

La sentenza del processo “Ambiente svenduto” per i reati di disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro commessi fino al 2013 si conclude con la condanna, tra gli altri, di Fabio Riva a 22 anni e Nicola Riva a 20 anni di reclusione. Disposta anche la confisca degli impianti dell’acciaieria che diventerà effettiva solo se sarà confermata nel terzo grado di giudizio.

La vera storia dell’Ilva di Taranto e le malefatte immobiliari di monsignor Motolese. Rocco Tancredi su Italia Libera e su Notizie.Tiscali.it; informazione.it il 9 giugno 2021. Le case “a ridosso dell’acciaieria” esistevano prima della costruzione dell’ex Italsider (1960) e poi del raddoppio (1971) dello stabilimento più grande d’Europa, realizzato senza licenza edilizia. Dopo i dieci milioni di lire dati alla squadra di calcio, Antonio Cederna scrisse un memorabile articolo sul Corriere della Sera: «Taranto in balia dell’Italsider», «una città disastrata, una Manhattan del sottosviluppo e dell’abuso edilizio». A capo degli speculatori fondiari il vescovo della città. Ministri ignoranti e giornalisti superficiali parlano di una storia che non conoscono. Peggio: non vogliono conoscere.

All'indomani della prima sentenza di condanna degli indagati per l’inchiesta “Ambiente svenduto” (26 luglio 2012/31 maggio 2021), c’è ancora chi sostiene che il quartiere Tamburi è stato costruito intorno alla fabbrica siderurgica. Anche se in tono più sfumato rispetto a nove anni fa, si è tornati alla solita tiritera della città che ha edificato le case a ridosso dell’Ilva, del tipo “il quartiere Tamburi, quello costruito a quindici passi dal siderurgico” (La Repubblica 1° giugno, p.3); “Il quartiere Tamburi si era negli anni 70 espanso intorno alla fabbrica (Il Foglio, 1° giugno, p. 2). Facciamo grazia di altri ritagli stampa senza dimenticare l’ex ministro dell’ambiente Corrado Clini, che nel 2012 ebbe a dire – senza ridere – che “il problema ambientale nasceva dall’imbecillità urbanistica di chi aveva concepito il quartiere Tamburi a ridosso dell’acciaieria”. E alla domanda (“Farebbe vivere un suo nipotino ai Tamburi”) rispose secco “No, ai Tamburi io non avrei preso mai casa”. L’ineffabile Clini (quello che aprì la strada ai decreti degli scudi penali − per evitare lo stop della produzione − firmati dai governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni e Di Maio/Conte), ignorando la storia, non sa(peva) che il quartiere esisteva già al tempo dei romani. Ancora oggi, ai confini dell’Ilva, separati da una strada provinciale, ci sono i resti dell’antico Acquedotto del Tiglio, che ha portato acqua ai Tamburi e a Taranto fino all’Ottocento.  Chi scrive ha vissuto dalla nascita, e per i primi 30 anni, in questo “famoso” rione. Ha abitato in due zone (foto, asterisco rosso Palazzo dei ferrovieri, in via della Croce a 1500 metri in linea d’aria; asterisco giallo in via Leopardi, a 1300 m). Ha visto le fasi di costruzione e raddoppio della fabbrica. Si giocava a pallone nei cosiddetti “campi” ricavati nelle campagne destinate alla costruzione degli alloggi dell’Ina Casa del piano Fanfani (1949-1963) oggi confinanti con l’Ilva. Il cimitero, in linea d’aria, è a 345 m. dal parco minerali, le due strade principali del rione, via Orsini e via Galeso, sono a 1300 e 1500 metri. Il quartiere si è esteso, soprattutto nel 2° dopoguerra, con l’arrivo a Taranto di famiglie di ferrovieri e dipendenti dei gloriosi Cantieri Navali ex Tosi. I tarantini portavano i propri bambini nel rione per respirare aria salubre. La maggior parte delle case, che oggi segnano il confine tra il quartiere e l’Ilva (via Trojlo, via Lisippo, via Deledda) sono sorte, negli anni 60, con il famoso Piano Ina Casa. Cioè: prima del 9 luglio 1960 (posa della prima pietra dello stabilimento), prima del 1961 (avvio del Tubificio), prima del 24 ottobre 1964 (attivazione del 1° altoforno), e anche prima del 10 aprile1965 (vigilia della domenica delle Palme), data dell’inaugurazione ufficiale dello stabilimento alla presenza del presidente della Repubblica Saragat. Le case “a ridosso dell’acciaieria” esistevano quindi anche prima dell’avvio (1971) del raddoppio (da molti criticato) dello stabilimento più grande d’Europa, realizzato senza licenza edilizia e, successivamente, rilasciata come “licenza in precario” (una trovata tutta tarantina). All’epoca cominciavo i primi passi da giornalista al “Corriere del Giorno”. Ricordo bene due pagine di quel giornale. In cronaca la notizia della firma del sindaco sotto la “licenza in precario” e, nello sport, l’annuncio che l’Italsider donava alla squadra di calcio dieci milioni di lire. (Nota a margine. La storia si ripete: Acciaierie d’Italia (che dovrebbe sostituire Arcelor Mittal) è disposta oggi a sponsorizzare con 400 mila euro la squadra di calcio). Alcuni mesi dopo il dono alla squadra, Antonio Cederna, sul Corriere della Sera, scrisse un memorabile articolo. Titolo «Taranto in balia dell’Italsider», definendola «una città disastrata, una Manhattan del sottosviluppo e dell’abuso edilizio». C’è da aggiungere che ai tarantini è andata anche bene (si fa per dire) la scelta dell’area dove insiste l’acciaieria. Poteva andare peggio. L’opzione dell’area dove realizzare il siderurgico ha una sua storia sottaciuta ma tutta da raccontare. Eccola. Quando Finsider decise di realizzare il IV Centro siderurgico, fu inviato a Taranto l’ing. Alessandro Fantoli con l’incarico di individuare i terreni da comprare o espropriare. Questi nel suo libro (“Ricordi di un imprenditore pubblico”, Rosenberg&Selier, Torino, 1995), racconta le varie fasi della scelta dell’area dove far sorgere la fabbrica. «A Taranto i notabili locali erano guidati da un capacissimo vescovo, monsignor Motolese… abituato al comando e al dominio: era un vero boss degli affari immobiliari, grande speculatore di terreni, purtroppo con conseguenze nefaste per lo sviluppo della città». E poi, «Monsignor Motolese e gli imprenditori locali da lui “guidati” nella stragrande maggioranza imprenditori speculatori edili – scrive Fantoli − avevano ipotizzato che il nuovo stabilimento sarebbe stato ubicato ad Est (foto della pianta segnata in giallo, oggi sede della Squadra Navale della Marina Militare, in verde il sito attuale, ndr): acquistarono, a prezzi agricoli, migliaia di ettari in quella direzione, sicuri di rivenderli poi a caro prezzo». Uno studio commissionato dall’Italsider aveva rivelato, però, che i venti prevalenti provenivano da Sud-Est. Per evitare che la città fosse investita dai fumi degli altoforni, si scelse di localizzare lo stabilimento dove è ora, a Ovest-Sud-Ovest, a ridosso dei Tamburi. In verità la Tekne, incaricata della progettazione dello stabilimento, aveva proposto altro sito (che non piaceva agli speculatori fondiari) a circa 24 km, in linea d’aria, dalla città, tra Laterza e Castellaneta presso il fiume Lato, con una propria vena d’acqua autonoma. «La battaglia più dura fu l’acquisizione dei terreni», aggiunge Fantoli. L’ingegnere trovò appoggi in un palermitano, Giulio Parlapiano, che, come mafioso, era stato confinato dal Prefetto Mori a Taranto dove aveva acquistato un centinaio di ettari. Come imprenditore agrario e presidente della locale Camera di Commercio, Parlapiano informò Fantoli del reale valore dei terreni. Vendette un centinaio di ettari all’Italsider a prezzo “giusto” cioè 30% in meno della valutazione (che andava bene agli speculatori) fatta dall’Inea, Istituto Nazionale Economia Agricola. «Il gruppo Motolese – ricorda Fantoli – era furibondo e commisero un altro errore» al momento dell’acquisto di altri ettari dove costruire case per i “metalmezzadri” (copyright Walter Tobagi). Persa la battaglia dove localizzare lo stabilimento, gli speculatori puntarono ad acquisire terreni per realizzare un migliaio di alloggi per i dipendenti. Per non far esplodere il prezzo dell’area per le case, Fantoli acquisì 5 ettari a Nord tra Taranto e Statte. Il gruppo Motolese si lanciò su quella pista, a Nord, comperando terreni. Invece l’Italsider acquistò un centinaio di ettari in altra zona, a Nord-Est, dove si realizzò il primo nucleo delle case per gli italsiderini. Questa la storia della localizzazione del più grande centro siderurgico europeo che smonta l’accusa rivolta ai tarantini di aver costruito le case a ridosso dello stabilimento. La condanna per “Ambiente svenduto” ha provocato molti commenti con domande focalizzate anche sul futuro dello stabilimento. E un’altra storia da raccontare è quella del mainstream della strategicità dell’Ilva sull’economia nazionale. Cioè sull’1,4% del Pil prodotto dall’Ilva per l’economia nazionale. Con il corollario: il siderurgico di Taranto serve al Paese. Quanto di questo Pil, costato morte e distruzione dell’ambiente, è tornato ai tarantini in investimenti duraturi sul territorio ionico? una periferia nazionale che deve lesinare interventi per le infrastrutture, la sanità, i trasporti pubblici? Bella domanda che merita qualche risposta, al di là degli stipendi assicurati a chi ha lavorato in ambienti malsani e nocivi. Andate a raccontarla, questa storia, a chi (come chi scrive) ha perduto la moglie, o a tutti coloro che hanno sepolto figli, parenti, amici, e a tutti coloro che oggi lottano per la sopravvivenza dei loro bambini e dei loro cari.

La storia dell’acciaieria più grande d’Europa. Ecco l’Ilva dal 2012 a oggi. L’inizio del procedimento penale, i dubbi sul bando per la messa in vendita dell’azienda e la parte di Arcerol Mittal. La ricostruzione fino alla situazione attuale. Giulia Ciancaglini il 4 Novembre 2019 su La Stampa.  

Cos’è l’Ilva. L’Ilva è l’acciaieria più grande d’Europa. Il suo stabilimento maggiore, quello di Taranto, nato nel 1961, ha creato diversi problemi. Le emissioni inquinanti del sito produttivo hanno causato negli ultimi decenni la morte di un numero molto elevato di operai e di abitanti della città pugliese.

Tutto inizia nel 2012. La storia inizia il 3 febbraio 2012, quando il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio scrive all’allora ministro dell’Ambiente, al governatore della Puglia, al sindaco di Taranto e al presidente della provincia per chiedere quali iniziative intendano assumere a seguito dei risultati molto allarmanti della perizia epidemiologica disposta dalla giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, che prova l’altissimo livello di inquinamento dell’area circostante l’Ilva - in particolare del quartiere Tamburi - e la correlazione tra questa situazione e le emissioni dello stabilimento. Quattordici giorni dopo inizia il processo per incidente probatorio che ha al centro la maxiperizia. Sono indagati i presidenti Emilio e Nicola Riva, il direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso e Angelo Cavallo, responsabile dell’area agglomerato. I reati ipotizzati sono disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose e inquinamento atmosferico. Il 26 luglio 2012 la gip Todisco firma il provvedimento di sequestro, senza facoltà d’uso, degli impianti dell’area a caldo, e dispone gli arresti domiciliari per otto persone, accusate di disastro ambientale. Tra loro, gli ex presidenti dell’Ilva e l’ex direttore. È l’inizio di una partita a scacchi che si gioca sulla possibilità o meno di continuare a produrre, durante la quale l’azienda ripetutamente minaccia la chiusura di tutti gli stabilimenti qualora a Taranto venga fermata la produzione. Lo stesso giorno a Roma il ministro dell’Ambiente Clini, il sottosegretario allo Sviluppo De Vincenti, il governatore della Puglia Vendola, il presidente della Provincia e il sindaco di Taranto firmano un protocollo d’intesa per bonificare l’area: l’investimento sarà di 336 milioni di euro. Soltanto cinque giorni dopo, il capo dello stato Giorgio Napolitano afferma la necessità di trovare soluzioni che garantiscano la tutela di lavoro e salute e il 3 agosto 2012 il governo vara un decreto legge per svincolare quei 336 milioni di euro, di cui 7 a carico dell’Ilva, per far partire subito gli interventi di risanamento del protocollo di bonifica. Quel decreto legge il 4 ottobre 2012 viene convertito in una legge (171/2012) con le disposizioni sul disinquinamento dell’area esterna alla fabbrica. Il 26 ottobre 2012 si concludono le procedure per il rilascio dell’Aia (l’autorizzazione integrata ambientale): il costo stimato dal Ministero per l’intervento è di 3 miliardi e mezzo di euro nel triennio. Esattamente un mese dopo arriva il primo scontro diretto: i militari del comando provinciale della Guardia di finanza di Taranto eseguono sette ordinanze di arresto nei confronti di vertici e amministratori dello stabilimento di Taranto e di dipendenti nelle pubbliche amministrazioni. Nell’ordinanza del gip Todisco viene disposto il sequestro della produzione degli ultimi quattro mesi stoccata al porto di Taranto (1 milione e 700 mila tonnellate di prodotti finiti, per un valore di circa un miliardo di euro) e pronta per essere commercializzata. L’azienda risponde con un comunicato che annuncia il fermo delle attività e gli operai occupano lo stabilimento.

Così la questione arriva in Parlamento. Dopo il voto del Senato (217 si, 10 no e 18 astenuti) del 20 dicembre 2012 il decreto Ilva entrerà in vigore il 4 gennaio 2013. E intanto l’azienda viene autorizzata a commercializzare i prodotti finiti e semilavorati che erano stati posti sotto sequestro.

Il seguito. Dal 2012 inizia un lungo e complicatissimo percorso nel quale lo stato ha cercato di salvare l’azienda dalla chiusura, sia per evitare la perdita del lavoro di migliaia di persone, sia per l’importanza fondamentale che essa ricopre per l’economia italiana. Con il decreto ministeriale del 21 gennaio 2015 viene aperta una procedura di amministrazione straordinaria e nominato il collegio commissariale di Ilva S.p.A. I nuovi commissari straordinari hanno il compito di risanare - sia a livello ambientale che economico - l’azienda, per poi rivenderla. L’onere va a Gnudi, Carrubba e Laghi. Nel gennaio 2016 viene pubblicato il bando per la messa in vendita di Ilva. A giugno 2017 la multinazionale indiana Arcelor Mittal vince la gara pubblica per assumere il controllo parziale dell’acciaieria. E nel luglio 2018 il governo Conte chiede all’Anac di indagare sulle regolarità della procedura di gara.

L’entrata in scena di Arcerol Mittal. Si tratta di una multinazionale indiana che ha sottoscritto un accordo con l’allora ministro Calenda per assumere il controllo parziale dell’acciaieria. Con quell’intesa, Arcelor Mittal ha ‘affittato’ l’acciaieria, obbligandosi a procedere in seguito alla sua acquisizione, e ha avviato una fase negoziale con i commissari straordinari che dal 2015 guidano l’azienda. Il 24 luglio 2018 la multinazionale Arcelor Mittal rende noto di accettare tutte le richieste fatte dai commissari straordinari dell’Ilva per dare il via libera all’acquisizione dell’acciaieria. I nodi principali riguardavano ovviamente la tenuta occupazionale e l’impatto ambientale dello stabilimento di Taranto. Ma Luigi Di Maio, al tempo ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, ha detto che questa proposta sarebbe stata esaminata, tenendo però conto del fatto che l’Autorità Anticorruzione (Anac) avesse rilevato delle criticità sulla procedura che ha portato la multinazionale s firmare il contratto di acquisto con il precedente governo. E, il 30 luglio 2018, lo stesso Di Maio ha bocciato il piano migliorativo sull’Ilva presentato da Arcelor Mittal. «Le proposte migliorative del piano ambientale non sono ancora soddisfacenti», ha dichiarato il ministro al termine dell’incontro tenuto al Ministero dello Sviluppo economico (Mise). Infine il 7 agosto 2019 il consiglio dei Ministri del governo Conte con un proprio decreto reintroduce l’immunità penale (che identifica particolari situazioni in cui si rende lecito un fatto che sarebbe reato). Qualche mese prima il cosiddetto ‘scudo penale’ era stato abrogato dallo stesso governo, che aveva rinviato la conclusione dell’esimente penale nuovamente al 2023 seppur con novità rispetto alla legge da poco abrogata. Ma questo decreto non viene convertito dal Parlamento e così viene in maniera definitiva annullato l’esimente penale che dal 3 novembre 2019 non esiste più. 

E ora. Il gruppo Arcelor Mittal oggi, 4 novembre 2019, ha notificato ai commissari straordinari dell’azienda la volontà di rescindere, proprio per la mancanza di uno scudo penale, l’accordo per l’affitto con acquisizione delle attività di Ilva S.p.a. Secondo i contenuti dell’accordo, Arcelor Mittal ha chiesto ai Commissari straordinari di assumersi la responsabilità delle attività di Ilva e dei dipendenti entro 30 giorni dal ricevimento della comunicazione. Alle 15.30 i ministri Stefano Patuanelli (Sviluppo Economico), Giuseppe Luciano Provenzano (Sud), Sergio Costa (Ambiente) terranno un incontro al Mise sul futuro del gruppo Ilva. Al vertice potrebbe aggiungersi il ministro dell'economia Roberto Gualtieri. Oltre al mancato scudo legale e ai provvedimenti del tribunale di Taranto, argomenta ArcelorMittal, anche «altri gravi eventi, indipendenti dalla volontà di ArcelorMittal, hanno contribuito a causare una situazione di incertezza giuridica e operativa che ne ha ulteriormente e significativamente compromesso la capacità di effettuare necessari interventi presso Ilva e di gestire lo stabilimento di Taranto». I sindacati sono allarmati. «Significa che partono da oggi i 25 giorni per cui lavoratori e impianti ex Ilva torneranno all'Amministrazione Straordinaria. Tra le motivazioni principali, il pasticcio del Salva-imprese sullo scudo penale. Un capolavoro di incompetenza e pavidità politica: non disinnescare bomba ambientale e unire bomba sociale», afferma il segretario nazionale della Fim Cisl Marco Bentivogli.​​​​​​​

L’immunità penale. L’immunità penale concessa a Ilva in amministrazione straordinaria prima e ad ArcelorMittal poi, nasce da una norma del 2015: il decreto legge n. 1. Con questa norma si era voluto di fatto assicurare una protezione legale sia ai gestori dell’azienda (i commissari), che ai futuri acquirenti (l’offerta di gara di Arcelor Mittal doveva ancora palesarsi), relativamente all’attuazione del piano ambientale della fabbrica. Evitare, cioè, che attuando il piano ambientale, normato da un Dpcm di settembre 2017, i commissari o i futuri acquirenti del siderurgico restassero coinvolti in vicissitudini giudiziarie derivanti dal passato essendo l’inquinamento Ilva un problema di lunga data. Ma nella primavera del 2019 i Cinque Stelle avevano dichiarato che l’immunità era illegittima e che andava abrogata perchè era di fatto un privilegio concesso ad ArcelorMittal. Così approda ad ottobre 2019 alla Corte Costituzionale l’impugnazione di costituzionalità fatta proprio sul decreto del 2015 dal gip di Taranto, Benedetto Ruberto. Per il gip, quella norma del 2015 è anticostituzionale.

Cosa c’entrano il dl Crescita e il dl Imprese. Esaminando il caso, i giudici della Consulta gli rinviano gli atti chiedendogli di rivalutare, alla luce del modificato quadro legislativo, dl Crescita e dl Imprese, se il nodo di incostituzionalità sussiste ancora. Il gip si era infatti appellato alla Consulta nello scorso febbraio, prima cioè dei due dl. Il cammino del decreto legge Imprese trova però uno scoglio in Senato, dove approda per il primo esame. Una pattuglia di senatori M5S, tra cui l’ex ministro Barbara Lezzi, sbarra il passo alla reintroduzione dell'immunità, seppure modificata, e ottiene con un emendamento l’abrogazione dell’articolo specifico. Il testo del dl passa così senza immunità penale sia in commissione al Senato, che in aula al Senato e infine alla Camera. E Arcelor Mittal fa subito filtrare al Governo che senza immunità, la situazione si fa grave. Il Governo, allora, prima richiama l’articolo 51 del Codice penale, che stabilisce la non perseguibilità per chiunque adempia un dovere o un obbligo stabilito dalla legge, dicendo che già questa è una garanzia sufficiente. In seguito, il Governo, incontrando il nuovo l’ad di ArcelorMittal, Lucia Morselli, non esclude una nuova norma di carattere generale e non specifica per l’ex Ilva, che chiarisca e rafforzi i contenuti dell’articolo 51 del Codice penale a ulteriori garanzia e rassicurazione per l'investitore. Ma questa promessa non basta e oggi ArcelorMittal ha annunciato comunque la rescissione del contratto.

La questione ambientale. Si tratta di uno dei più gravi disastri sanitari e ambientali della storia italiana ed europea. Nel 2010, secondo le perizie del tribunale e le stesse dichiarazioni dell’Ilva, sono state immesse nell’ambiente circostante 4.159 tonnellate di polveri, 11 mila di diossido d’azoto e anidride solforosa. E secondo i dati del registro Ines, nella città, negli ultimi anni, è stata immessa in atmosfera il 93 per cento di tutta la diossina prodotta in Italia insieme al 67 per cento del piombo. I periti nominati della Procura di Taranto hanno calcolato che in sette anni sono morte 11.550 persone a causa delle emissioni, in particolare per cause cardiovascolari e respiratorie.

E quella occupazionale. I dipendenti dell’Ilva sono circa 14mila. E perderebbe il lavoro se l’azienda venisse chiusa. Ma a loro, vanno aggiunte le altre migliaia di persone che lavorano nell’indotto dell’Ilva, che conta decine di aziende. Il fatto che l’azienda rimanga aperta sembra essere fondamentale anche per le altre aziende italiane, poiché l’acciaio prodotto da Ilva fa sì che non ci si debba rivolgere alle acciaierie straniere, che vengono acciaio a prezzi più salati.

Ilva di Taranto, la storia infinita di un pasticcio all'italiana. Dal 1965 a oggi politica e cattiva gestione sono riuscite a far crollare l'ex gigante della siderurgia europea. Barbara Massaro il 6 novembre 2019 su Panorama. La più grande azienda siderurgica d'Europa. Quindici milioni di metri quadrati di superficie nella zona Tamburi di Taranto progettati per ospitare il futuro dell'industria del ferro: nasce sotto questi auspici quella che sarebbe diventata l'ILVA di Taranto. In principio era Italsider. E' il 1961 e le Acciaierie di Cornigliano si fondono con l'ILVA - Alti Forni e Acciaierie d'Italia dando vita a Italsider - Alti Forni e Acciaierie Riunite ILVA e Cornigliano che diventerà Italsider nel 1964. E' una proprietà pubblica che vuole costruire il più grande polo industriale del sud Italia. Viene inaugurato così nel 1965 lo stabilimento Italisider di Taranto. In breve tempo la fabbrica pugliese diventa il più grande e importante stabilimento di ferro e acciaio d'Europa, il serbatoio che rifornisce non solo il ricco nord Italia, ma mezzo vecchio continente. Dà lavoro, crea ricchezza e occupazione ed è uno dei fiori all'occhiello dell'Italia del boom economico. La privatizzazione: arrivano i Riva. Poi arriva la grande crisi degli anni '80. Italsider viene acquisita nel maggio del 1995 dal gruppo Riva, fondato nel 1954 da Emilio con il fratello Adriano e assume il nome attuale di Ilva. Si tratta di una privatizzazione (iniziata sotto il governo Dini) da 2.500 miliardi di lire per una società la cui valutazione era stata fatta nei termini dei 4.000 miliardi. Si parla di "svendita dell'Ilva" e si grida allo scandalo e all'inciucio. Ai Riva sarebbe spettato il difficile compito di rilanciare l'Ilva, ma proprio in quegli anni iniziano a emergere i primi legami tra l'impatto ambientale del polo siderurgico e l'impressionante numero di casi di tumore (spesso infantile) di abitanti nella zona. Il sequestro. Nel 2012 la magistratura tarantina dispone il sequestro dell’acciaieria per "gravi violazioni ambientali". Indagati tutti i vertici dell'azienda e i presidenti Emilio Riva (in carica fino al 2010) e il figlio Nicola. L'azienda viene definita dai giudici "fabbrica di malattia e morte" e l'eco dello scandalo dell'Ilva di Taranto inizia a essere conosciuto a livello mondiale. I periti nominati della Procura di Taranto hanno calcolato che in sette anni sarebbero morte 11.550 persone a causa delle emissioni, in particolare per cause cardiovascolari e respiratorie. All'Ilva, allora, lavoravano 12.859 persone, più tutti coloro che erano coinvolti dall'indotto della fabbrica. Per tutelare lavoro e produzione industriale il Governo (a palazzo Chigi sedeva Mario Monti) decide di non chiudere lo stabilimento ma di emettere un decreto che autorizzi la prosecuzione della produzione. Il commissariamento. A maggio 2013 il gip Patrizia Todisco dispone un maxi-sequestro da 8 miliardi di euro sui beni e sui conti del gruppo Riva, denaro che sarebbe frutto dei mancati investimenti della famiglia Riva in tema di tutela ambientale. Alla fine dell'anno, però, il maxi sequestro viene annullato dalla Corte di Cassazione e i Riva lasciano il CdA. Il Governo decide di commissariare l'azienda. Il primo commissario nominato è Enrico Bondi, poi affiancato da Edo Ronchi. Un anno dopo i due vengono sostituiti da Piero Gnudi e Corrado Carrubba. A gennaio 2015 l'azienda, con un'altra legge firmata ad hoc dall'allora governo Renzi, passa in amministrazione straordinaria e i commissari diventano tre: a Gnudi e Carrubba si affianca Enrico Laghi. L'arrivo di Ancelor Mittal. Del gennaio 2016, invece, è il bando che invita a candidarsi se interessati ad acquisire l'Ilva. A vincere la gara pubblica è la multinazionale franco indiana Arcelor Mittal che assume onori e oneri di rilanciare l'Ilva. E così dopo 5 governi e 4 commissari nel 2018 sul finire della legislatura e del governo Gentiloni, Arcelor Mittal prende in mano il timone dell'ex Ilva con l'obiettivo di rilanciare il polo tarantino. Impresa non facile visto le centinaia di morti sulla coscienza della fabbrica e gli anni difficili del commissariamento. Conditio si equa non per la firma dell'accordo con l'Italia è che Arcelor Mittal possa usufruire di un'immunità penale circa i danni del passato. Si tratta del cosiddetto scudo penale, provvedimento creato ad hoc per garantire protezione legale sia ai gestori dell’azienda (i commissari), che ai futuri acquirenti relativamente all’attuazione del piano ambientale della fabbrica. Evitare, cioè, che attuando il piano ambientale, normato da un Dpcm di settembre 2017, i commissari o i futuri acquirenti del siderurgico restassero coinvolti in vicissitudini giudiziarie derivanti dal passato. Del resto quale imprenditore sano di mente si sarebbe accollato un'industria con quella storia senza avere un minimo di tutele? I pasticci di Di Maio. E qui si arriva (quasi ai giorni nostri). E' il luglio 2018 quando l'allora ministro per lo sviluppo economico Luigi Di Maio chiede di avviare un'indagine circa la legittimità della gara d'assegnazione dell'Ilva a Ancelor Mittal. Si parla di gara viziata, ma l'Avvocatura dello Stato sottolinea che non esistono gli estremi per annullarla. Maio rilancia e in conferenza stampa, 23 agosto 2018, dichiara: "Se oggi, dopo 2 anni e 8 mesi, esistessero aziende che volessero partecipare alla gara, noi potremmo revocare questa procedura per motivi di opportunità. Oggi non abbiamo aziende che vogliono partecipare, ma se esistesse anche solo una azienda ci sarebbe motivo per revocare la gara”. All'interno del dl crescita, maggio 2019, si avanza l'ipotesi di eliminare lo scudo penale e di mettere i vertici Ilva, presenti e passati, di fronte alle loro presunte negligenze e responsabilità in termini di vita umana. Ancelor Mittal molla il colpo: "Non si possono cambiare le carte a partita in corso" dice nel novembre 2019 rimettendo la patata bollente nelle mani del Conte bis.

Gianluca Paolucci per "la Stampa" il 14 giugno 2021. «Le performance attuali non permettono al Gruppo di restituire il debito verso Ilva (1,5 miliardi di euro) e finanziare gli impegni per investimenti (2,1 miliardi di euro)». È solo uno dei passaggi del rapporto di Kpmg sullo stato del gruppo di Taranto alla fine del 2020, una due diligence commissionata da Invitalia nel settembre precedente sulla base della quale è stato deciso l'investimento della stessa Invitalia - e quindi dello Stato - nel tribolato gruppo dell'acciaio. Gli allarmi, le raccomandazioni e le avvertenze che il team di revisori e analisti lanciano nelle 76 pagine del rapporto sono impressionanti. Alcuni dati non sono stati messi a disposizione da ArcelorMittal a Kpmg, non è stato possibile nessun confronto con il management, i dubbi su alcune poste di bilancio sono sostanziali e tali da modificare il valore dell'investimento. La versione finale («riservata e confidenziale») viene indirizzata direttamente a Domenico Arcuri il 9 dicembre. Il giorno dopo, Invitalia firma l'accordo per entrare nel capitale di Acciaierie d' Italia, versando 400 milioni per il 38% del capitale (e il 50% dei diritti di voto) e impegnandosi a salire fino al 100% versando altri 680 milioni il prossimo anno. Le risultanze del rapporto erano già ben note alla controllata statale: Kpmg ha condiviso una bozza del rapporto fin dal 3 dicembre precedente e la versione finale tiene conto dei commenti ricevuti da Invitalia. Ambienti dell'attuale maggioranza sottolineano, al di là del dato formale, la responsabilità politica del passato governo nella decisione. 

Le voci ignorate. La parte forse più significativa riguarda la posizione finanziaria netta del gruppo. Nel bilancio al 31 dicembre 2019 - l'ultimo approvato - è positiva per 658,9 milioni di euro. Ma, scrive Kpmg, non tiene conto di una serie di voci che, se calcolate, la renderebbero negativa per 939,8 milioni, con una differenza al ribasso di 1,6 miliardi. In particolare, si spiega, non viene tenuto conto del debito verso Ilva, 1,4 miliardi «che riteniamo essere di natura finanziaria». Ma neppure di circa 380 milioni di fondo rischi e oneri. E, nota dolente, della grande quantità di fatture scadute nei confronti dei fornitori: Kpmg considera 50 milioni di questi debiti come finanziari, perché scaduti da oltre 90 giorni. Ma considera solo quelli verso le terze parti, perché non ha ricevuto il dettaglio del debito infragruppo: «Non siamo in grado di valorizzare la rettifica riguardante le parti correlate (...) i dati a nostra disposizione includono sia posizioni intercompany che verso il gruppo ArcelorMittal al di fuori del perimetro pro-forma, tale scaduto al 31 dicembre 2019 ammontava a 263,7 milioni di euro». A pagina 42 si sottolinea come alla fine 2019 il debito scaduto verso i fornitori è di 769 milioni, di cui 162 milioni oltre 120 giorni. Al 31 agosto 2020 a fronte di un aumento limitato dello scaduto proprio quelli oltre 120 giorni segnano un aumento di 88 milioni. «Considerando l'ammontare significativo dei debiti commerciali scaduti sia verso parti correlate sia verso terzi raccomandiamo di ottenere una situazione completa aggiornata (...). Raccomandiamo inoltre di tenere in considerazione i relativi flussi di cassa futuri (...) in quanto tale scaduto può essere considerato una forma di finanziamento». L' analisi di Kpmg sottolinea, per la parte di bilancio, 15 «findings» (risultati) sui quali raccomanda di svolgere ulteriori approfondimenti. Nell' elenco oltre alle voci già menzionate anche la gestione dei certificati di Co2 necessari alla produzione di acciaio, i rapporti con il gruppo ArcelorMittal, la gestione del magazzino. L' esame si ferma al 31 agosto 2020 e, per alcune poste, alla trimestrale al 30 settembre.

La posizione dell'azienda. Il bilancio 2020 non è ancora stato approvato e il nuovo cda - con tre rappresentanti del socio pubblico - non si è ancora insediato. Fonti di stampa hanno messo in relazione la mancata approvazione dei conti da parte del nuovo cda proprio ai dubbi sui conti. Ieri, Acciaierie d' Italia - il nuovo nome del gruppo, guidato da Lucia Morselli - ha precisato che «nessuna manleva da parte del socio pubblico è necessaria per procedere all' approvazione del bilancio 2020 né tantomeno tale manleva è stata mai stata richiesta». Lo snodo centrale è però il pronunciamento del Consiglio di Stato sullo spegnimento degli impianti dell'area a caldo. Dopo l'udienza del 13 maggio, la sentenza è attesa a giorni. Da fonti del ministero dello Sviluppo economico si apprende che in caso di esito positivo il governo è pronto a fare la sua parte per il rilancio degli impianti, mentre in caso di esito negativo non resterà che dover gestire la chiusura.

Gianluca Paolucci e Giuseppe Salvaggiulo per "la Stampa" il 15 giugno 2021. Sono trascorsi esattamente due mesi dall' annuncio della finalizzazione dell'accordo tra Arcelor Mittal e Invitalia per la rinazionalizzazione dell'ex Ilva e dal misterioso rinvio dell'assemblea dei soci che avrebbe dovuto sancire l'insediamento del nuovo consiglio di amministrazione. Una spiegazione ufficiale di quel rinvio non è mai stata fornita, né pubblicamente né ai tavoli sindacali. L' unica traccia è dunque il report di Kpmg per Invitalia datato dicembre 2020 che evidenziava dubbi sulla possibilità che «il Gruppo con le attuali performance» possa «restituire il debito e finanziare gli impegni per gli investimenti». In realtà il rinvio del battesimo della nuova Ilva non fu casuale. Si trattò infatti della conseguenza del rifiuto, da parte dei tre membri del nuovo consiglio d' amministrazione designati dalla parte pubblica, di approvare il bilancio 2020 dell'ex Ilva. Della decisione era stata messa a conoscenza Invitalia, veicolo pubblico dell'operazione. A metà aprile, dopo l'esclusione di Ernesto Somma (economista pugliese, braccio destro di Domenico Arcuri in Invitalia e interfaccia di Arcelor Mittal nella trattativa), Franco Bernabè (futuro presidente), Stefano Cao e Carlo Mapelli erano pronti a costituire il nuovo CdA con i tre membri nominati dal socio privato. Proprio il nodo dell'approvazione del bilancio ha congelato il passaggio di consegne. A fine aprile, Bernabè aveva detto in televisione che sarebbe «diventato presidente entro metà maggio». Previsione disattesa. Scaduto il termine canonico del 30 aprile, il bilancio dovrebbe essere approvato entro il 30 giugno. Ma a dispetto delle periodiche rassicurazioni (aziendali, politiche, sindacali), da quel momento nessun passo avanti è stato compiuto. Del resto, sebbene il lavoro di Kpmg sia stato limitato anche dalle scarse informazioni fornite da ArcelorMittal, i dubbi e le problematiche emerse sono di notevole entità. «Il set di informazioni fornito - scrive Kpmg nel rapporto - non corrisponde agli standard che mediamente troviamo in lavori di due diligence con simili complessità. Non abbiamo avuto accesso al management e personale del reparto amministrazione, finanza e controllo di Am Investco Italy. Le informazioni forniteci dal management sono state limitate a quelle rese a noi disponibili presso la data room virtuale allestita dal venditore con informazioni selezionate». Uno degli aspetti maggiormente problematici riguarda ad esempio l'impossibilità di riconciliare i dati di bilancio (statutory account) con i bilanci di gestione (management account). Nei due schemi emergono delle incongruenze che però Pwc - consulente di Am Italy - non chiarisce ai colleghi di Kpmg. Un altro tema che emerge è quello del patrimonio netto del gruppo. Che, scrive Kpmg, non tiene conto delle pesanti perdite registrate negli anni dalle controllate, le cui partecipazioni non vengono svalutate nel bilancio della capogruppo. Tra i «suggerimenti» invece è da segnalare l' alert per il trading delle quote di Co2, indispensabili per i produttori di acciaio. Secondo Kpmg, il compratore (Invitalia, cioè il governo) dovrà verificare attentamente il trading sulle quote di Co2, raccomandando «che le emissioni degli anni precedenti corrispondano a quanto dichiarato e che i criteri di valutazione siano corretti». Fonti sindacali segnalano il rischio che il riacquisto dei certificati sia avvenuto quando i prezzi sono cresciuti. Sul tema dei mancati pagamenti ai fornitori, uno dei punti sollevati dal rapporto Kpmg, è tornato ieri Giacinto Fallone, presidente della sezione Autotrasporto di Casartigiani Taranto, rivendicando che «dell'autofinanziamento abbiamo sempre detto: Mittal si mantiene con i soldi dei fornitori. Dopo le minacce, a noi trasportatori finalmente hanno pagato le fatture saldo di gennaio e febbraio, ma altri dell'indotto avanzano ancora il 2020. In questo momento, lo stabilimento è pieno di aziende del Nord che hanno preso appalti e ben presto, appena si faranno i conti, scapperanno». Fonti sindacali affermano di poter «documentare» che diverse aziende dell'indotto non pagano i dipendenti da mesi.

Eni, Ilva, Tempa rossa: i disastri della giustizia costano miliardi. Giuliano Cazzola su Il Quotidiano del Sud il 19 giugno 2021. In questi giorni si è parlato di una Caporetto per la madre di tutte le procure che negli ultimi decenni si sono qualificate – con grande sostegno massmediatico – come le benemerite guardiane dell’etica pubblica. Infatti, la procura di Brescia, competente per territorio, sta indagando due pubblici ministeri di Milano, Fabio De Pascale e Sergio Spadaro, coinvolti nel processo per corruzione internazionale Eni-Nigeria.  

LA PREMEDITAZIONE. Secondo l’ipotesi investigativa, i due magistrati inquirenti avrebbero nascosto informazioni e prove favorevoli alla difesa dell’Eni. Un’operazione che non sarebbe neppure riuscita nell’intento, visto che tutti gli imputati sono stati assolti in giudizio «perché il fatto non sussiste».  La manipolazione delle prove, ove venisse accertata, (siamo garantisti anche con i pm), sarebbe di una gravità eccezionale in sé. Ma lo sarebbe ancora di più per il danno provocato all’economia nazionale e alle relazioni internazionali dell’Italia. Lungi da noi l’idea che il management delle multinazionali (la responsabilità penale è personale) non possa essere indagato.  Esiste, però,  una premeditazione nel costruire un procedimento senza prove solide (nel caso Eni-Nigeria si è arrivati al punto di attribuire alle parole un significato diverso da quello che risultava dalle verbalizzazioni); poi, quando ci si accorge che i principali testimoni d’accusa, Vincenzo Armanna e Piero Amara, sono persone non affidabili, si mettono a bagnomaria le indagini di un altro pm, Paolo Storari, il quale,  ritenendo che i vertici della Procura di Milano, suo ufficio, stessero insabbiando le indagini sulle rivelazioni di Amara relative alla loggia massonica coperta, denominata Ungheria, per autotutelarsi si è rivolto a Piercamillo Davigo, consegnandogli gli atti, che il Sommo Inquisitore ha  tenuto per sé (salvo, come ha confermato il presidente Nicola Morra, mostrarglieli nel ballatoio delle scale di Palazzo dei Marescialli) fino a quando non arrivarono ai quotidiani (trasmissione per la quale è indagata l’ex segretaria di Davigo al Csm). Peraltro non è la prima volta che l’Eni viene coinvolto in un intrigo di corruzione internazionale, sulla base del presupposto che le somme erogate ai mediatori in realtà sono tangenti.  Ovviamente anche in quel caso il fatto si rivelò insussistente. Forse sarebbe l’ora di chiedersi come si possono combinare affari in certi Paesi e magari ricordare come Enrico Mattei, partendo da un piccolo appezzamento di terreno dove il regime fascista cercava in via sperimentale il gas in una logica di autarchia, costruì una multinazionale dell’energia tra le prime al mondo. Si diceva a quel tempo che Mattei non esitasse a fornire armi al Fln algerino in lotta per l’indipendenza. Ed è a questo punto che ci permettiamo un volo pindarico sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, su cui la procura di Palermo continua a essere molto attenta. Mi sono sempre chiesto a cosa servirebbe un servizio segreto se non per gestire operazioni che per definizione e necessità non possono essere conclamate e trasparenti e spesso sono costrette a viaggiare borderline rispetto alle stesse norme di legge. Quando Joe Biden ha assegnato 90 giorni alle agenzie di intelligence Usa per trovare elementi probanti delle origini “cinesi’’ del virus maledetto, pensiamo che la giustizia a stelle e a strisce troverebbe da ridire se la Cia distribuisse qualche mazzetta nell’Impero già celeste e ora rosso?

IL CASO TEMPA ROSSA. E come la mettiamo da noi con il caso “Tempa rossa’’? Se si considerano i dati tecnici, la Basilicata naviga su di un mare di idrocarburi. A regime, l’impianto – tra i più evoluti nel settore petrolifero – avrà una capacità produttiva giornaliera di circa 50mila barili di petrolio, 230mila metri cubi di gas naturale, 240 tonnellate di Gpl e 80 tonnellate di zolfo. Eppure – in questo caso il “saracino della giostra’’ era la Total – la procura di Potenza si è data molto da fare, peraltro con una lentezza che ha fatto scattare per quasi tutti gli imputati la prescrizione, per cui di questa vicenda rimane soltanto la campagna negativa del pregiudizio: sviluppo=corruzione.  

Qualche cineamatore potrebbe andarsi a rivedere il film “I Basilischi’’ che Lina Wertmuller girò nel 1963 dedicandolo ai giovani di allora, residenti in Lucania. Ma la vicenda più eclatante fu quella degli elicotteri venduti all’India. Dopo la solita trafila giudiziaria furono assolti per insufficienza di prove, l’ex-direttore di Agusta Westland, Bruno Spagnolini, e l’ex-amministratore delegato Giuseppe Orsi per le presunte tangenti al maresciallo dell’aeronautica indiano Sashi Tyagi in cambio di una modifica alla gara d’appalto per la fornitura di 12 elicotteri Vip per il trasporto dei membri del governo del valore di 556 milioni di euro. Ovviamente lo scandalo ebbe un risalto internazionale e il governo indiano annullò la commessa.  

LA VICENDA ILVA. Poi troneggia il caso ex Ilva. Qualcuno si è preso la briga di definire “storica’’ la sentenza di primo grado della Corte di Assise di Taranto che ha comminato condanne “esemplari’’ a tutti gli imputati. Quando nel 1995 la famiglia Riva venne invitata ad acquistare l’ex Ilva, lo stabilimento allora pubblico perdeva 4 miliardi l’anno. La nuova proprietà dal 1995 al 2012 ha effettuato investimenti per 4,5 miliardi di euro, di cui 1,2 per misure di carattere ambientale. Queste operazioni sono ribadite in una sentenza del 2019 del Tribunale di Milano, confermata in appello, nel procedimento per il reato di bancarotta fraudolenta. Nessuno è mai stato in grado di provare che l’ex Ilva abbia violato le leggi all’epoca vigenti.  Il pm ha detto esplicitamente che la questione era irrilevante: «Ma come facciamo a rispondere alla mamma che ha perso il bambino che i limiti erano in regola?». Sono proprio le condanne inflitte all’ex governatore della Puglia e al professor Giorgio Assennato, ex direttore dell’Agenzia regionale dell’ambiente, a rendere palese l’arbitrio che ha sorretto le indagini e la sentenza della Corte. Nichi Vendola, condannato a 3 anni e 6 mesi di reclusione, avrebbe concusso in modo implicito Assennato perché moderasse la valutazione d’impatto ambientale dello stabilimento; ma anche il direttore è stato condannato a 2 anni per favoreggiamento perché ha negato di aver ricevuto minacce da Vendola. Come ha scritto Anna Digiorgio in un’accurata ricostruzione del caso ex Ilva, su Il Foglio, è la logica del profitto che per l’accusa è divenuta «allo stesso tempo, reo, movente, arma del delitto e reato». Ma la verità di questi nove anni di calvario, di “caccia allo stabilimento”, la magistratura tarantina (che peraltro ha qualche problema con la giustizia per le incaute frequentazioni con l’avvocato Amara, colui che fu arruolato a Milano per sostenere le accuse all’Eni) non si è limitata a esigere misure di risanamento più importanti e in tempi più rapidi. No. Ha impedito che si procedesse in questa direzione e si trovassero soluzioni; è intervenuta senza scrupoli per far saltare ogni programma di risanamento. C’è stato persino un momento in cui ad Arcelor Mittal venne ordinato da due tribunali diversi di spegnere e contemporaneamente di lasciare in funzione l’altoforno più importante dello stabilimento. In sostanza, di rispondere penalmente sia della continuità del funzionamento che della chiusura degli impianti. Ora, dopo il commissariamento/esproprio del 2012, siamo arrivati alla confisca degli impianti in attesa del giudizio del Consiglio di Stato. Pare però che il governo non intenda consentire lo smantellamento dell’Acciaieria d’Italia, come si chiama adesso, proprio nel momento in cui il sistema produttivo ha bisogno   di acciaio per risollevare la testa dopo la crisi.

La sentenza di Primo Grado di "Ambiente Svenduto". Processo Ilva, verso la carneficina giudiziaria ma senza evidenze scientifiche. Annarita Digiorgio su Il Riformista il 30 Maggio 2021. Lunedì 31 maggio alle ore 10:00 presso la corte di assise di Taranto verrà letta la sentenza del processo Ilva “Ambiente svenduto”. Il primo grado di un processo iniziato nel 2012 con i maxi sequestri e che terminerà con la decisione di una giuria di due togati e sei giudici popolari dopo 389 udienze da dieci ore l’una cominciate a maggio 2016. La giuria dovrà pronunciarci sulla richiesta dei pm: 400 anni di carcere complessivi per 47 imputati e la confisca totale dello stabilimento (quindi la sua definitiva chiusura). Le richieste dei pm sono pesanti: 28 anni di reclusione per Fabio Riva e Luigi Capogrosso, ex direttore del siderurgico di Taranto, e Girolamo Archinà responsabile relazioni istituzionali. Chiesti inoltre 20 anni di reclusione per Adolfo Buffo, ex direttore del siderurgico di Taranto e da poco richiamato in fabbrica dalla nuova governance come direttore generale di Acciaierie d’Italia. Cinque anni sono stati chiesti per l’ex governatore della Regione Puglia, Nichi Vendola. Tra gli imputati anche Fratoianni (all’epoca assessore regionale), altri responsabili istituzionali, e persino l’ex prefetto di Milano Bruno Ferrante che fu nominato custode dalla Procura per soli due mesi proprio in virtù del suo ruolo di garanzia istituzionale, e per cui ora la procura ha chiesto 17 anni di carcere. Il reato contestato è di associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Mille le parti civili, con oltre trenta miliardi di richieste di risarcimento. Un maxi processo difficilissimo, in cui si sono avvicendati durante il dibattimento centinaia di teste tra periti e scienziati, per chili infiniti di faldoni e controperizie, che hanno totalmente smontato la perizia madre del gip Todisco secondo cui Ilva avvelenava Taranto e ammazzava i bambini, insieme a intercettazioni trascritte male. A nulla è servito il dibattimento ai fini delle richieste dei pm che, a detta di tutti i collegi difensivi di tutti gli imputati, sono rimasti fermi alle indagini preliminari, come se a nulla fossero serviti questi 5 anni di udienze infinite senza sosta tre volte la settimana con uffici legali esclusivamente e totalmente dediti alla causa, con una complessità scientifica delle materie trattate difficile per i legali, figuriamoci per i giurati popolari. Dibattimento, anzi processo, che non è riuscito neppure a dimostrare, nonostante decine di ricerche epidemiologiche, studi di corte, registri tumori, e cartelle cliniche, che vi sia un nesso di causalità tra l’inquinamento ambientale di Ilva e le morti o malattie di Taranto. Tranne l’amianto, che è dimostrato causa mesotelioma, malattia che a detta della asl di Taranto produrrà eccesso di morti in provincia per i prossimi trent’anni, e che perlopiù è causato dall’arsenale e dalle navi in Mar Piccolo per cui continua ad essere ripetutamente condannata la Marina Militare. Ma mai in 60 anni è stato dimostrato un legame di causalità tra inquinamento Ilva e un decesso, e tutti abbiamo imparato in questa pandemia grazie ai vaccini quanto sia importante la differenza tra causalità e correlazione nel rapporto tra una sostanza e un effetto. Eppure i giudici sono riuniti da 10 giorni e leggeranno la sentenza proprio in un’ala del complesso delle scuole sottufficiali della Marina Militare, ironia della sorte proprio l’unica condannata per decine di morti e malati a Taranto. Chissà che avrebbe detto l’opinione pubblica se la decisione fosse stata presa all’interno di Ilva. Ma la narrazione mediatica funziona così, e anche se la responsabile è un’altra, come per l’inquinamento del Mar Piccolo (interrogatorio Severini) la colpa di tutto quello che succede a Taranto è sempre e solo di Ilva. In quell’aula della Marina si sono svolte anche le requisitorie dei pm, mentre le arringhe degli avvocati come tutte le altre 300 udienze nell’aula bunker di Paolo Sesto. Si è preferito la Marina per i pm perché ha un’aula più grande, e quindi ci entrava più gente. Anche questo svela la diversa attenzione mediatica per il processo: la folla per i pm, nessuno per teste e avvocati della difesa. In sostanza i Riva vengono accusati di aver avvelenato Taranto, e i politici di averli favoriti evitando i controlli. Il Gruppo RIVA è a capo della cordata che acquista l’ILVA nel 1995, azienda che in mano allo Stato perdeva all’epoca 4 mila miliardi all’anno. Quando acquista l’ILVA il Gruppo Riva è il più importante gruppo siderurgico Italiano e uno dei primi in Europa; ha già 45 anni di storia ed ha fatto importanti acquisizioni e trasformazioni di stabilimenti e società in Germania, Spagna, Francia, Belgio, Canada; grande esperienza e grande competenza, rilevanti risultati anche economici. Dagli anni 80 sono i re assoluti e indiscussi del processo siderurgico industriale a forno elettrico, quello che il governo vorrebbe istallare oggi a Taranto, nel 2021, spacciandolo come Green e moderno. Riva già da allora, e ancora oggi, ne è il primo big player europeo. A Taranto produceva con altoforno perché quella era la tecnologia che aveva trovato, e per legge non poteva cambiarla. Il contratto di acquisto con lo Stato all’art. 6 imponeva di mantenere i livelli produttivi e occupazionali, con penale miliardaria in caso di mancato rispetto della clausola contrattuale. Dal 1995 al 2012 i Riva effettuano investimenti (certificati) per oltre 4,5 miliardi di euro, di cui circa 1,2 miliardi solo ambientali; e installa quelle che allora erano le Migliori Tecniche Disponibili come certificato dalla sentenza irrevocabile del Tar Lecce del 2011. Il PM10 è passato da 85 mg/m3 del 1998 ai 33 mg/m3 degli anni 2010-2012. Nelle Cokerie il livello di BaP per i lavoratori, che operano con adeguati dispositivi di protezione personale, è stato sempre bassissimo (misurato da ARPA con i campionatori personali ) e molto al di sotto delle linee guida internazionali (visto che manca una indicazione specifica nella normativa nazionale ed europea); quanto alle diossine, le polveri al camino E312 sono passate dal valore di 175 mg/Nm3 del 1991 al valore di 19,45 mg/Nm3 del 2011, con pieno e abbondante rispetto di tutti i limiti di legge nelle annualità precedenti, ponendo le emissioni anche sotto la metà del limite emissivo previsto dalla legge. Eppure secondo il pm “gli imputati erano animati da dolo intenzionale diretto all’evento del reato, che è il disastro; poi ci può essere anche un altro fine, quello di produrre acciaio, quello di produrre reddito, ma non influisce affatto sulla esistenza del dolo intenzionale, che era proprio quello del disastro”. Insomma secondo il pm i Riva volevano prima avvelenare, poi produrre. Eppure nel dibattimento è stato dimostrato che le impronte ritrovate nei TOP soil campionati e analizzati dai periti non sono quelle delle polveri degli elettrofiltri. Le polveri degli elettrofiltri non sarebbero mai potute arrivare nelle campagne in cui sono andati al pascolo i capi di bestiame poi precauzionalmente abbattuti; il PM aveva ipotizzato che le polveri si sarebbero potute sollevare con il vento e incunearsi in una fessura presente nei lamierati; ora, al di là della ricostruzione rocambolesca peraltro solo ipotizzata e mai provata dal PM non si comprende la ragione per la quale gli imputati avrebbero dolosamente trascurato di chiudere questa feritoia nei lamierati, trattandosi di una spesa assolutamente risibile, specie se confrontata con gli investimenti miliardari effettuati durante la gestione privata; gli imputati avrebbero con coscienza e volontà (e non eventualmente con colpa e negligenza) omesso di chiudere questa feritoia, ben sapendo che il vento avrebbe potuto far risollevare le polveri, che avrebbero contaminato il terreno, che insieme all’erba la capra brucò! E questo senza che mai fino ad allora la ASL avesse segnalato valori anomali nel latte, nei derivati del latte e nelle carni degli animali portati al pascolo in quella zona. La deposizione principale che è stata smontata dai super periti della difesa è proprio quella della custode Valenzano sulla circolazione delle acque marine dal mar grande al mar piccolo, prive di fondamento giuridico e disattese da numerose e autorevoli pubblicazioni scientifiche e che il PCB che aveva contaminato il Mar Piccolo e poi i mitili, ivi allevati, non era proveniente dagli scarichi Ilva in Mar Grande, ma, sicuramente da ascrivere agli sversamenti di olii dielettrici da parte della Marina, come puntualmente riferito dall’Ispettore Severini in udienza e come riscontrato anche dai recenti studi della Regione Puglia. Sempre sull’avvelenamento delle pecore è stato dimostrato che non sussisteva alcun concreto pericolo per la salute pubblica, in quanto nessun super consumatore avrebbe mai mangiato le quantità di fegato contaminato necessarie a determinare danni alla salute; conclusioni confermate anche dallo studio sugli allevatori prodotto nelle udienze di discussione da parte dello stesso Pubblico Ministero. Infine è stata dimostrata la assoluta inattendibilità della perizia epidemiologica, quella iniziale del gip che ha dato inizio a tutto, dimostrando, fra le tante altre cose che, anche solo utilizzando il 95% di intervallo di confidenza, invece che il 90% o l’80% come usato, le evidenze epidemiologiche spariscono. E il 95% di intervallo di confidenza è quello usato, tornando alla pandemia, persino dal Comitato Scientifico che ha coadiuvato il Governo nella nota al covid. L’ultimo contributo scientifico, utilizzando i dati Istat, quindi i morti veri e non quelli “attesi” ha attestato come a Taranto la mortalità infantile sia in linea con le altre città italiane e che non muoiono più bambini del resto d’Italia, anzi, rispetto ad altre città meridionali, Taranto ha una mortalità decisamente inferiore. Cosa che se era vera nel 2012, lo è ancor di più oggi, come attesta la Asl e lo stesso pm che ha detto nella requisitoria “dal 2012 le emissioni si sono dimezzate”, questo dovuto sostanzialmente al dimezzamento della produzione. Verità che però nessuno ha il coraggio di dire, e scrivere, fuori da un’aula di tribunale, perché contro il mainstream populista e mediatico cui spesso anche i politici sono andati dietro. Quanto a Vendola, lui ha rivendicato di seguire all’epoca sostanzialmente la linea della Cgil, industrializza e lavorista, ma di essere stato il primo ad avviare la stagione dei controlli ambientali. Ma erano tempi diversi. Quelli in cui nel 2012, appena la Procura firmò il sequestro della fabbrica, Francesco Boccia, allora deputato Ds dopo essere stato commissario liquidatore del comune di Taranto, disse: “Ci sono dei momenti difficili per tutti, anche per un magistrato, nei quali diventa necessario avere il coraggio di fermarsi un attimo prima. Ilva rappresenta la siderurgia italiana. Quando il magistrato decide di bloccare l’impianto deve sapere, anche se non è scritto nel codice penale, che quanto sta per fare è una condanna a morte dell’azienda. Negli ultimi 15 anni a Taranto sono stati fatti un numero imprecisato di interventi per conciliare diritto e lavoro. Gli stessi magistrati non hanno la certezza inconfutabile dell’impatto delle emissioni. Solo un pazzo non chiuderebbe un’azienda che inquina, ma qui non è così”. Anche la politica allora riconosceva la grandezza dei Riva, prima che venissero travolti dal tritacarne giudiziario e mediatico. O forse perché erano i tempi in cui finanziavano le campagne elettorali di Berlusconi al pari di Bersani. Mentre mai Renzi, pur accusato di aver salvato Ilva quando veniva a Taranto a prendersi fischi e sputi, ha mai preso un solo centesimo dalla fabbrica. L’episodio spartiacque che segna per sempre la fine della fabbrica è il sequestro preventivo degli 8 miliardi, la cifra che sempre l’ingegner Valenzano, ancora oggi custode dell’area a caldo sotto sequestro, e allo stesso tempo dipendente della regione Puglia, l’unica con le chiavi della fabbrica, aveva stabilito come cifra necessaria per ambientalizzarla. Il più grande sequestro della storia d’Italia venne firmato dal gip su richiesta del pm, e indicazione del custode Valenzano, a maggio 2013. Da quel momento i Riva non potendolo sostenere furono definitivamente estromessi dalla loro fabbrica che verrà commissariata dal Governo e successivamente messa in amministrazione straordinaria con un decreto firmato dall’allora ministro dell’ambiente Orlando e presidente del Consiglio Enrico Letta. Un esproprio di fatto cui solo la Cedu, un giorno, prima o poi, potrà ridare giustizia per violazione della proprietà privata. A dicembre dello stesso anno la Cassazione annullerà quel sequestro incongruo e illegittimo, ma i Riva erano ormai stati allontanati dalla loro fabbrica, per un sequestro preventivo prima giudiziario e poi politico. E il procuratore capo che aveva avviato l’inchiesta, dottore Franco Sebastio, costretto alla pensione, passerà alla politica candidandosi a Sindaco di Taranto. Oggi è presidente della società che edita La Gazzetta del Mezzogiorno, big palare pugliese delle mense pubbliche, e il giorno delle requisitorie dei pm da quelle pagine ha scritto un editoriale invitandoli a proseguire il suo lavoro. L’unica volta che la Procura ha fermato l’accanimento giudiziario nei confronti di Ilva è stato quando l’allora procuratore capo Capristo patteggiò con i commissari di governo Ilva in amministrazione straordinaria, tramite il consulente Piero Amara. E’ una storia meno conosciuta, ma vera: Amara fu nominato dal commissario Laghi consulente di Ilva, e fu lui a intrattenere le riunioni con Capristo e il Pm Argentino per il patteggiamento di Ilva in amministrazione straordinaria (non Riva). Oggi leggiamo nei chiacchierati verbali della fantomatica loggia Ungheria che secondo Amara il procuratore Capristo era stato nominato grazie a lui alla procura di Taranto. Di fatto Amara aveva spostato la residenza legale in provincia di Taranto e aveva assunto nel suo studio il figlio del procuratore Argentino. Quel patteggiamento però verrà rigettato dalla corte di appello perché ritenuto incongruo. Tolto quell’episodio l’accanimento giudiziario che quella fabbrica ha subito negli ultimi dieci anni ha trasformato i Riva in assassini, la fabbrica in morte, i giudici in eroi popolari, le loro frasi (“nessun bambino deve più morire per colpa di Ilva”) in striscioni nelle manifestazioni, e dopo le fiction con Sabrina Ferilli, le telecamere puntate sui fumi e la città di Taranto che attende di essere liberata attribuendo alla magistratura questa funzione salvifica, difficilmente una giuria, ancorché popolare, potrà deludere le attese che cittadini e media, e in buona parte anche politica, hanno loro affidato. Le condanne ci saranno, e saranno pesanti. Ma saranno solo di primo grado. Avvisare i vecchi, e nuovi, garantisti. Annarita Digiorgio

Ex Ilva: 22 e 20 anni per Fabio e Nicola Riva. Condannato a 3 anni e mezzo Vendola. Si tratta del processo chiamato Ambiente Svenduto sull'inquinamento ambientale prodotto dallo stabilimento siderurgico. Ansa il 31 maggio 2021. La Corte d'Assise di Taranto ha condannato a 22 e 20 anni di reclusione Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell'Ilva, tra i 47 imputati (44 persone e tre società) nel processo chiamato Ambiente Svenduto sull'inquinamento ambientale prodotto dallo stabilimento siderurgico. Rispondono di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all'avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. La pubblica accusa aveva chiesto 28 anni per Fabio Riva e 25 anni per Nicola Riva. Tre anni e mezzo di reclusione sono stati inflitti dalla Corte d'Assise di Taranto all'ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola sempre nell'ambito del processo per il presunto disastro ambientale negli anni di gestione della famiglia Riva. I pm avevano chiesto la condanna a 5 anni. Vendola è accusato di concussione aggravata in concorso, in quanto, secondo la tesi degli inquirenti, avrebbe esercitato pressioni sull'allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, per far "ammorbidire" la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall'Ilva. La Corte d'Assise di Taranto ha condannato a 21 anni e 6 mesi di carcere l'ex responsabile delle relazione istituzionali Girolamo Archinà e a 21 anni l'ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso. E' stata inoltre disposta la confisca degli impianti dell'area a caldo che furono sottoposti a sequestro il 26 luglio 2012 e delle tre società Ilva spa, Riva fire e Riva Forni Elettrici. Condannato a 17 anni e sei mesi l'ex consulente della procura Lorenzo Liberti. Condannato a 2 anni l'ex direttore generale dell'Agenzia per l'ambiente (Arpa) della Puglia, Giorgio Assennato, accusato di favoreggiamento nei confronti di Vendola. Secondo l'accusa, Assennato avrebbe taciuto delle pressioni subite dall'ex governatore affinché attenuasse le relazioni dell'Arpa a seguito dei controlli ispettivi ambientali nello stabilimento siderurgico. Il pm aveva chiesto la condanna a un anno. Assennato, che ha sempre negato di aver ricevuto pressioni da Vendola, aveva rinunciato alla prescrizione. Ira dell'ex governatore della Puglia:  "Mi ribello ad una giustizia che calpesta la verità - ha detto Nichi Vendola dopo la sentenza -. E' come vivere in un mondo capovolto, dove chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l'ombra di una prova. Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi, quelli che dai Riva non hanno preso mai un soldo, che hanno scoperchiato la fabbrica, che hanno imposto leggi all'avanguardia contro i veleni industriali. Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l'ennesima prova di una giustizia profondamente malata"

Disastro ambientale all'Ilva di Taranto, condanne pesanti per i Riva. Tre anni e mezzo a Vendola che accusa: "Mi ribello a giustizia che calpesta la verità". Paolo Russo, Gino Martina, Francesca Savino su La Repubblica il 31 maggio 2021. La sentenza di Ambiente svenduto: venti e ventidue anni agli ex proprietari. L'ex governatore pugliese è accusato di concussione aggravata in concorso. Alla lettura della sentenza hanno esultato gli ambientalisti e i genitori tarantini in presidio. Confisca per gli impianti. La Corte d'Assise di Taranto ha condannato a 22 e 20 anni di reclusione Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell'Ilva, tra i 47 imputati (44 persone e tre società) nel processo chiamato Ambiente Svenduto sull'inquinamento ambientale prodotto dallo stabilimento siderurgico. Rispondono di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all'avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Disposta anche la confisca degli impianti, nel frattempo passati prima attraverso una gestione commisariale e poi acquisiti da Arcelor Mittal.

Sentenza Ilva, la Corte d'Assise legge le condanne: 22 e 20 anni a Fabio e Nicola Riva, 3 anni a Vendola. La pubblica accusa aveva chiesto 28 anni per Fabio Riva e 25 anni per Nicola Riva. Tre anni e mezzo di reclusione sono stati inflitti  all'ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola. I pm avevano chiesto la condanna a 5 anni. Vendola è accusato di concussione aggravata in concorso, in quanto, secondo la tesi degli inquirenti, avrebbe esercitato pressioni sull'allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, per far "ammorbidire" la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall'Ilva. Assennato è stato condannato a 2 anni per favoreggiamento.

Vendola: "Mi ribello a giustizia che calpesta la verità". "Mi ribello a una giustizia che calpesta la verità. Una sentenza che colpisce chi non ha mai preso  un soldo dai Riva, che ha scoperchiato la fabbrica,  che ha imposto leggi contro i veleni. Ho taciuto per 10 anni, difendendomi nelle aule di giustizia. Ora non starò più zitto", scrive Vendola in una nota dopo la sentenza Ambiente Svenduto e la condanna a tre anni e mezzo. "La condanna per me e Assennato una vergogna, non fummo complici dei Riva, ma coloro che ruppero lunghi silenzi e una diffusa complicità. Combatterò contro questa carneficina del diritto e della verità - scrive ancora l'ex governatore pugliese - Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l'ennesima prova di una giustizia profondamente malata."

Il presidio di mamme e operai. Alla lettura della sentenza hanno esultato gli ambientalisti e i genitori tarantini in presidio dalla mattina. Tra gli altri, ci sono anche rappresentanti del movimento Tamburi Combattenti e delle associazioni che aderiscono al Comitato per la Salute e per l'Ambiente (Peacelink, Comitato Quartiere Tamburi, Donne e Futuro per Taranto Libera, Genitori Tarantini, LiberiAmo Taranto e Lovely Taranto). Sono circa mille le parti civili. Tra queste c'è il consigliere comunale Vincenzo Fornaro, ex allevatore che subì l'abbattimento di circa 600 ovini contaminati dalla diossina. "E' il giorno - osserva - in cui si stabilirà dopo 13 anni chi ha ragione tra un manipolo di pazzi sognatori che continuano a immaginare un futuro diverso".

La confisca non incide sulla produzione. La confisca degli impianti dell'area a caldo dell'ex Ilva di Taranto, disposta oggi dalla Corte d'Assise nel processo relativo al disastro ambientale contestato alla gestione Riva, non ha alcun effetto immediato sulla produzione e sull'attività del siderurgico di Taranto. La confisca degli impianti è stata chiesta dai pm, ma essa sarà operativa ed efficace solo a valle del giudizio definitivo della Corte di Cassazione, mentre adesso si è solo al primo grado di giudizio. Gli impianti di Taranto, quindi, restano sequestrati ma con facoltà d'uso agli attuali gestori della fabbrica. Gli impianti pugliesi sono infatti ritenuti strategici per l'economia nazionale da una legge del 2012 confermata anche dalla Corte Costituzionale. Per area a caldo si intendono parchi minerali, agglomerato, cokerie, altiforni e acciaierie. Da rilevare che nel passaggio degli impianti dall'attuale proprietà di Ilva  in amministrazione straordinaria all'acquirente, cioè la società Acciaierie d'Italia tra ArcelorMittal Italia e Invitalia, è previsto il dissequestro degli impianti come condizione sospensiva. Passaggio per ora collocato entro maggio 2022.

Ilva di Taranto, 22 e 20 anni per i fratelli Riva, condannato anche Vendola. Impianti confiscati per disastro ambientale. Le Iene News il 31 maggio 2021. Condanne fino a 22 anni di carcere del processo Ambiente Svenduto. in primo grado 22 e 20 anni per gli ex proprietari, i fratelli Riva, 3 anni e mezzo per l’ex governatore della Regione Puglia, Nichi Vendola. Da sempre Le Iene raccontano il dramma di chi vive attorno al sito siderurgico e di chi ha perso familiari a causa dell’inquinamento. “Finalmente posso respirare”. È il commento della piccola Melissa dopo le condanne in primo grado della Corte d’Assise di Taranto. È arrivata infatti una prima vittoria per le famiglie che vivono attorno alla ex Ilva. Sono 47 gli imputati (44 persone e 3 società) nel processo Ambiente Svenduto sull'inquinamento ambientale prodotto dallo stabilimento siderurgico. Tra i condannati in primo grado a 22 e 20 anni di reclusione ci sono anche Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell'Ilva. Dovevano rispondere di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all'avvelenamento di sostanze alimentari, all’omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Tra i condannati di oggi c’è anche a 3 anni e mezzo, Nichi Vendola. L'ex presidente della Regione Puglia risponde di concussione aggravata in concorso perché avrebbe esercitato pressioni sull'allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, per far ammorbidire la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall'Ilva. Fra le misure disposte, c’è anche la confisca degli impianti per disastro ambientale.

I familiari delle vittime, i comitati cittadini e i residenti hanno atteso in presidio la lettura della sentenza. C’è anche l’associazione Tamburi Combattenti che aderisce al Comitato per la Salute e per l'Ambiente. “Nessuno ci ridarà indietro i nostri figli. Quella fabbrica andrà chiusa, smantellata e bonificata. Vogliamo una Taranto in cui crescere i nostri figli”, ha commentato una mamma. Noi de Le Iene, con Nadia Toffa, abbiamo seguito in prima linea e da vicino nel corso degli anni le sorti degli abitanti di Taranto, costretti a convivere con le polveri e l’inquinamento prodotto dall’acciaieria. Proprio la nostra Nadia è stata nel quartiere i Tamburi, tra i più colpiti, dove a fare le spese dell’inquinamento sono anche i bambini. “Vorremmo scappare di qua e non possiamo permettercelo. Io voglio veder crescere le mie figlie, voglio vederle sposate”, ha raccontato a Nadia la mamma di una bambina colpita da un sarcoma. Lì, la nostra Iena ha incontrato anche la piccola Gabriella, che le ha raccontato come dalle finestre di casa sua, dove era costretta a rimanere perché malata di leucemia, vedeva l’Ilva. Le abbiamo chiesto: cos’è l’Ilva? “Il fumo”.

La piccola ci ha raccontato della chemioterapia, di come ha perso i capelli e degli altri bambini incontrati in ospedale. “Siamo dieci più così”: con le mani ha fatto capire che i bambini erano 18. Tra questi c’era anche Rebecca, un’amica di Gabriela, che le mancava perché “in ospedale non c'è più”. “Ha finito, ora è a casa”, ci aveva detto la piccola. Ma Rebecca a casa non ci è mai tornata. 

DURANTE GESTIONE RIVA. Disastro ex Ilva, tutti condannati: 3 anni e mezzo a Vendola, 22 e 20 ai Riva. Due anni per Giorgio Assennato, l'allora direttore generale di Arpa Puglia. La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 Maggio 2021. Tre anni e sei mesi di reclusione all'ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, due anni all'allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, 22 e 20 anni a Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva. Questa la sentenza della Corte d’Assise di Taranto, tra i 47 imputati (44 persone e tre società) nell'ambito del processo 'Ambiente Svenduto'. Sit-in a Taranto dei portavoce del movimento 'Giustizia per Taranto' che, insieme a cittadini e rappresentanti di altre associazioni, si sono riuniti nei pressi della Scuola sottufficiali della Marina Militare. Il processo riguarda il disastro ambientale causato dall’ex Ilva negli anni di gestione della famiglia Riva. Rispondono di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. La pubblica accusa aveva chiesto 28 anni per Fabio Riva e 25 anni per Nicola Riva. Dichiarata la prescrizione per il consigliere regionale Donato Pentassuglia, attuale assessore all’Agricoltura. Vendola è accusato di concussione aggravata in concorso, in quanto, secondo la tesi degli inquirenti, avrebbe esercitato pressioni sull'allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, per far "ammorbidire» la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall’Ilva. Assennato avrebbe taciuto delle pressioni subite dall’ex governatore affinché attenuasse le relazioni dell’Arpa a seguito dei controlli ispettivi ambientali nello stabilimento siderurgico. Il pm aveva chiesto la condanna a un anno. Assennato, che ha sempre negato di aver ricevuto pressioni da Vendola, aveva rinunciato alla prescrizione. Nell’ambito del processo Ambiente Svenduto per il presunto disastro ambientale causato dall’Ilva negli anni di gestione della famiglia Riva, la Corte d’Assise di Taranto ha condannato a 3 anni di reclusione l’ex presidente della Provincia Gianni Florido, che risponde di una tentata concussione e di una concussione consumata, reati che avrebbe commesso in concorso con l’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva (condannato a 3 anni) e l’ex responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva Girolamo Archinà (condannato a 21 anni e mezzo). I pm avevano chiesto 4 anni per Florido e Conserva, 28 anni per Archinà. Ai principali 'fiduciari aziendali', cioè un gruppo di persone non alle dipendenze dirette dell’Ilva che però in fabbrica, secondo l’accusa, avrebbe costituito un 'governo-ombra' che prendeva ordini dalla famiglia Riva, la Corte d’Assise di Taranto ha inflitto 18 anni di reclusione ciascuno. E’ di 4 anni, rispetto ai 20 anni richiesti dai pubblici ministeri, la condanna rimediata dall’ex direttore e attuale dirigente di Acciaierie d’Italia Adolfo Buffo, mentre è stato assolto l’ex presidente di Ilva ed ex prefetto di Milano Bruno Ferrante, per il quale era stata chiesta la condanna a 17 anni di carcere. Condanna a 11 anni e mezzo per l’ex capo area parchi Marco Andelmi, a 5 anni e mezzo l’avvocato Francesco Perli, legale dell’azienda. A vario titolo erano contestati i reati di associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale doloso, all’avvelenamento di acque e sostanze alimentari, getto pericoloso di cose, omissione di cautele sui luoghi di lavoro, due omicidi colposi in relazione alla morte sul lavoro di due operai, concussione, abuso d’ufficio, falso ideologico e favoreggiamento.

DISPOSTA CONFISCA IMPIANTI - La Corte d’Assise di Taranto ha condannato a 21 anni e 6 mesi di carcere nel processo per il presunto disastro ambientale causato dall’Ilva l’ex responsabile delle relazione istituzionali Girolamo Archinà e a 21 anni l’ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso. E' stata inoltre disposta la confisca degli impianti dell’area a caldo che furono sottoposti a sequestro il 26 luglio 2012 e delle tre società Ilva spa, Riva fire e Riva Forni Elettrici. Condannato a 17 anni e sei mesi l’ex consulente della procura Lorenzo Liberti. «La confisca dell’area a caldo disposta oggi in sede di processo non ha alcun effetto immediato sulla produzione. Sarà efficace solo dopo il giudizio definitivo della Cassazione». Lo riferiscono fonti dello stabilimento siderurgico di Taranto dopo la sentenza di primo grado del processo per il presunto disastro ambientale causato dall’ex Ilva negli anni di gestione dei Riva. La Corte d’Assise (presidente Stefania D’Errico, a latere Fulvia Misserini e sei giudici popolari) ha disposto la confisca degli impianti dell’area a caldo sequestrati il 26 luglio 2012, ma al momento resta la facoltà d’uso da parte di Acciaierie Italia, la nuova compagine societaria formata da ArcelorMittal e Invitalia. I giudici hanno stabilito la confisca per equivalente dell’illecito profitto nei confronti delle tre società Ilva spa, Riva fire spa (oggi Partecipazioni industriali spa in liquidazione) e Riva forni elettrici per gli illeciti amministrativi per una somma di 2 miliardi e 100 milioni di euro in solido tra loro. Inoltre sono state comminate sanzioni pecuniarie: 4,6 milioni a Ilva spa, 1, 2 milioni a Riva Fire e Riva Forni elettrici.

VENDOLA: MI RIBELLO A GIUSTIZIA CHE CALPESTA LA VERITA' -  «Mi ribello ad una giustizia che calpesta la verità. E’ come vivere in un mondo capovolto, dove chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l'ombra di una prova. Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi, quelli che dai Riva non hanno preso mai un soldo, che hanno scoperchiato la fabbrica, che hanno imposto leggi all’avanguardia contro i veleni industriali. Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l'ennesima prova di una giustizia profondamente malata.» Lo afferma l’ex governatore pugliese Nichi Vendola dopo la sentenza sull'Ilva di Taranto. «Sappiano i giudici che hanno commesso un grave delitto contro la verità e contro la storia. - prosegue Vendola - Hanno umiliato persone che hanno dedicato l'intera vita a battersi per la giustizia e la legalità. Hanno offerto a Taranto non dei colpevoli ma degli agnelli sacrificali: noi non fummo i complici dell’Ilva, fummo coloro che ruppero un lungo silenzio e una diffusa complicità con quella azienda." "Ho taciuto per quasi 10 anni - conclude Vendola - difendendomi solo nelle aule di giustizia, ora non starò più zitto. Questa condanna per me e per uno scienziato come Assennato è una vergogna. Io combatterò contro questa carneficina del diritto e della verità».

LEGALI DEI RIVA: RISPETTATE NORMATIVE - «Come ammesso dagli stessi periti, sotto la gestione dei Riva Ilva ha sempre operato e prodotto rispettando tutte le normative vigenti. I Riva hanno costantemente investito ingenti capitali in Ilva al fine di migliorare gli impianti e produrre nel rispetto delle norme». Lo sottolinea l’avvocato Luca Perrone, difensore di Fabio Riva, ex amministratore dell’Ilva condannato a 22 anni di reclusione nel processo 'Ambiente svendutò per il presunto disastro ambientale causato dallo stabilimento siderurgico di Taranto. «Il totale degli investimenti erogati sotto la loro gestione - aggiunge il legale - ammonta a 4,5 miliardi di euro, di cui 1,2 miliardi di natura specificatamente ambientale. Cifre e numeri che sono stati certificati dal Tar e dalle due sentenze del Tribunale e della Corte di Appello di Milano di assoluzione piena perché i fatti non sussistono, perché non c'è stato dolo e perché gli investimenti realizzati sono stati veri e cospicui». Secondo l’avvocato Perrone, «come anche certificato dall’Arpa, nel corso della gestione Riva sono state adottate le migliori tecniche/tecnologie allora disponibili (Best Available Technology del 2005) e come sempre i Riva si sarebbero prontamente adeguati anche a quelle del 2012 nei quattro anni successivi previsti dalle normative». L’avvocato Pasquale Annicchiarico, difensore di Nicola Riva, altro ex amministratore dell’Ilva condannato a 20 anni, fa presente che il suo assistito «è stato presidente solamente due anni, dal 2010 al 2012, e sotto la sua presidenza si sono raggiunti i migliori risultati ambientali della gestione Riva con valori di diossina e benzoapirene bassissimi che si collocano a meno della metà dei limiti consentiti dalla legge». "Risultati straordinari - osserva Annicchiarico - dovuti agli investimenti quantificabili in oltre 4 miliardi di euro e alla gestione degli impianti sempre tesa al massimo rispetto delle normative ambientali». 

LA DICHIARAZIONE DI MELUCCI - «Siamo commossi, per quelli che abbiamo perduto e per quelli che qui ancora si ammalano. È stata una strage, lunga decenni, per il profitto. Oggi lo Stato italiano riconosce le sofferenze dei tarantini, riconosce gli abusi che si compiono per l'acciaio, da questo momento nessun esponente di Governo potrà più affermare con leggerezza che a Taranto ci si ammala e si muore di più perché consumiamo troppe merendine o troppe sigarette, oppure perché le nostre statistiche e gli studi prodotti negli anni non sono fondati. Questa sentenza è un macigno  sulle azioni del Governo, non saremo un Paese credibile e giusto se all'interno del PNRR, a partire dall'ex Ilva, non avvieremo una vera transizione ecologica. Torno ad invitare il Presidente Mario Draghi a convocare con somma urgenza il tavolo istituzionale per l'accordo di programma sullo stabilimento siderurgico di Taranto. La richiesta di confisca dell'area a caldo è uno spartiacque per la storia e la struttura stessa del sistema industriale italiano, per i diritti dei cittadini. Mi auguro che il Consiglio di Stato, chiamato presto a discutere la recente sentenza del TAR Puglia, che conferma l'opportunità della mia ordinanza sulla chiusura dell'area a caldo dell'ex Ilva, possa tenere debito conto delle risultanze di questa giornata storica.

LE PAROLE DI EMILIANO - Il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano dichiara: “La giustizia ha finalmente fatto il suo corso accertando che i cittadini di Taranto hanno dovuto subire danni gravissimi da parte della gestione Ilva facente capo alla famiglia Riva. I delitti commessi sono gravissimi e sono assimilabili a reati di omicidio e strage non a caso di competenza della Corte d’Assise al pari di quelli per i quali è intervenuta la pesantissima condanna. La sentenza è un punto di non ritorno che deve essere la guida per le decisioni che il Governo deve prendere con urgenza sul destino degli impianti. Gli impianti a ciclo integrato, che hanno determinato la morte di innumerevoli persone tra le quali tanti bambini, devono essere chiusi per sempre e con grande urgenza per evitare che i reati commessi siano portati ad ulteriori conseguenze e ripetuti dagli attuali esercenti la fabbrica. L'attività industriale attuale a ciclo integrato a caldo va immediatamente sospesa e si deve decidere il destino dell'impianto e dei lavoratori. La Regione Puglia, parte civile, ha richiesto ed ottenuto la condanna degli imputati e della società al risarcimento dei danni che saranno quantificati in separata sede ottenendo una provvisionale di 100mila euro. E pertanto ha titolo per iniziare una causa civile contro tutti coloro che hanno provocato il danno e contro coloro che eventualmente stanno continuando a cagionare danni ambientali e alla salute. Non ci arrenderemo mai alla sottovalutazione colpevole della tragica e delittuosa vicenda ex Ilva e agiremo su tutti i fronti che le normative italiane ed europee ci concedono. Sarà guerra senza quartiere a tutti coloro che in ogni sede hanno colpevolmente sottovalutato o agevolato i reati commessi. Per quanto riguarda il risarcimento che la Regione Puglia deve assicurare per fatti accaduti prima della attuale amministrazione, siamo pronti a far fronte alla richiesta risarcitoria ove essa sia confermata dalla sentenza definitiva. Siamo consapevoli però che la Regione Puglia dal 2005 in poi è stata l’unica istituzione ad aver concretamente agito per fermare quella scellerata gestione della fabbrica, almeno fino a quando non è stata estromessa per legge da ogni possibilità di intervento sui controlli ambientali, con leggi nazionali che hanno fatto eccezione alle regole in vigore per il resto d’Italia”.

REAZIONI - «Le condanne sono state all’altezza del lavoro fatto dai magistrati. A loro va il nostro grazie anche a nome dei bambini di questa martoriata città». Lo afferma Massimo Castellana, rappresentante legale del Comitato cittadino per la Salute e l’Ambiente e portavoce dell’associazione Genitori Tarantini, commentando la sentenza del processo «Ambiente Svenduto». «E' una bella giornata - aggiunge - per Taranto dopo tante giornate tristi e insopportabili per il dolore che hanno procurato. Finalmente i giudici definiscono quella che ha subito la città di Taranto per troppi anni: l’assoluto disconoscimento dei valori fondamentali della Costituzione». Le condanne «sono - osserva Castellana - inequivocabili. La Corte d’Assise ha inflitto 22 anni a Fabio Riva, che, voglio ricordare, fu la persona che nel corso di una conversazione intercettata disse: 'due tumori in più al mese? Cosa vuoi che siano? Una m***. Ora possiamo dirgli: 22 anni di reclusione cosa vuoi che siano? Una m****». «La sentenza della Corte d’Assise di Taranto rappresenta un momento di straordinaria importanza perché condanna un metodo tutt'altro che virtuoso utilizzato da chi ha gestito in passato la più grande acciaieria d’Europa e dalla politica che non ha saputo imporsi». Lo afferma Francesco Rizzo, coordinatore provinciale Usb Taranto, riferendosi alla sentenza di primo grado del processo per il presunto disastro ambientale causato dall’ex Ilva. «I giudici - puntualizza - intervengono per colmare lacune della politica e riparare i danni fatti dalla stessa, che mai come in questa circostanza, ha mostrato tutta la sua inadeguatezza. Da qui deve ripartire il Governo, interpretando e leggendo la sentenza odierna soprattutto attraverso il grande bisogno di cambiamento della città di Taranto». E’ necessario, conclude Rizzo, «prendere esempio dal passato per evitare di fare gli stessi errori che puntualmente ricadrebbero sulla pelle dei cittadini, dei lavoratori e delle relative famiglie. Il lavoro e l’impresa vanno intesi mettendo al primo posto la persona e la vita stessa. Per questo motivo il Governo è chiamato a invertire immediatamente la rotta, andare nella direzione della riconversione economica del territorio attraverso un accordo di programma. Taranto vuole voltare pagina». «E' una giornata importante dove vediamo finalmente qualcuno pagare per quello che ha fatto, per quello che è stato fatto a una intera città E’ un processo che parla di anni di disastro ambientale, anni di inquinamento, e il pensiero che più ci viene alla mente è che se si fossero fermati in tempo, tanta gente sarebbe ancora qui con noi a festeggiare e a vivere». Lo ha detto Carla Luccarelli, presidente dell’associazione Giorgioforever, mamma di Giorgio Di Ponzio, il 15enne morto il 25 gennaio scorso a causa di un sarcoma dei tessuti molli, malattia che mette in relazione all’inquinamento prodotto dallo stabilimento siderurgico. «Nulla - ha spiegato - può compensare quello che ci è successo. Io non sono viva e questo va ricordato a tutti perchè nessuno potrà restituirci i nostri figli. Quella fabbrica deve essere immediatamente chiusa, smantellata e bonificata. Sapere che qualcuno inizia a pagare per queste morti ci fa sentire un po' meno traditi dallo Stato, ma rivogliamo il nostro territorio pulito, rivogliamo la nostra città». «Rivogliamo - è lo sfogo di Carla Luccarelli - una Taranto dove poter vivere e far crescere i nostri figli perchè non è normale che un bambino debba dire: mamma, voglio vivere. non esiste, è una cosa che non accetto. Non esiste alcun compromesso».

IL PRESIDIO NELL'ATTESA DELLA SENTENZA - In presidio, tra gli altri, ci sono anche rappresentanti del movimento Tamburi Combattenti e delle associazioni che aderiscono al Comitato per la Salute e per l’Ambiente (Peacelink, Comitato Quartiere Tamburi, Donne e Futuro per Taranto Libera, Genitori Tarantini, LiberiAmo Taranto e Lovely Taranto). Sono circa mille le parti civili. Tra queste c'è il consigliere comunale Vincenzo Fornaro, ex allevatore che subì l'abbattimento di circa 600 ovini contaminati dalla diossina. "E' il giorno - osserva - in cui si stabilirà dopo 13 anni chi ha ragione tra un manipolo di pazzi sognatori che continuano a immaginare un futuro diverso per questa città e chi resta industrialista convinto. Grazie a tutti quelli che in questi anni si sono battuti per arrivare a questo punto. Abbiamo fatto il massimo e continueremo a farlo».

Ilva, sentenza choc: 20 anni ai Riva e 3 a Vendola. Francesca Galiciil 31 Maggio 2021 su Il Giornale. 22 e 20 anni di reclusione Fabio e Nicola Riva con l'accusa di disastro ambientale. Per l'ex governatore condanna per concussione. Affossato l'asset principale dell'acciaio italiano con una sentenza. La Corte d'assise del tribunale di Taranto, nell'ambito del processo "Ambiente svenduto", ha condannato a 22 e 20 anni di reclusione Fabio e Nicola Riva, ex proprietari dell'Ilva. Condannato anche Nicola Vendola, ex presidente della Regione Puglia. Erano tra i 47 imputati a processo per i danni causati dall'inquinamento ambientale dell'industria siderurgica. Le accuse per i fratelli Riva sono di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all'avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro.

Il sindaco in aula. La sentenza è stata letta nell'auditorium della Scuola allievi sottoufficiali della Marina Militare di Taranto. In aula, con la fascia tricolore, si è presentato anche il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci, in rappresentanza del Comune, che fa parte delle oltre 900 parti civili costituite. All'esterno dell'auditorium è stato creato un presidio di cittadini, tra i quali i rappresentanti del movimento Tamburi Combattenti e delle associazioni che aderiscono al Comitato per la Salute e per l'Ambiente. Tantissimi gli striscioni delle varie associazioni e movimenti ambientalisti. "Aspettiamo giustizia: abbiamo fiducia in chi ha lavorato in difesa dei tarantini e dell'ambiente. Grazie ai pm e a tutti quelli che non hanno ceduto di un centimetro in tutti questi anni", hanno detto i cittadini in presidio fuori dall'auditorium in attesa della sentenza.

Le condanne. L'accusa aveva chiesto 28 anni per Fabio Riva e 25 anni per Nicola Riva, che hanno ottenuto condanne solo leggermente meno gravose. Per Nicola Vendola, invece, i pm avevano chiesto una condanna a 5 anni. L'ex presidente della Regione Puglia è imputato per concussione aggravata verso i vertici di Arpa Puglia, affinchè ammorbidissero la loro posizione nei confronti della dirigenza dell'Ilva. Nel dispositivo della sentenza della corte d'Assiste è stata prevista anche la confisca degli impianti dell'area a caldo dell'ex Ilva per il reato di disastro ambientale imputato alla gestione Riva. La misura era stata richiesta dai pm. Tra gli altri condannati anche Adolfo Buffo, ex direttore dello stabilimento siderurgico di Taranto, ed attuale direttore generale di Acciaierie d'Italia (società tra ArcelorMittal Italia e Invitalia). è stato condannato a 4 anni nel processo relativo al disastro ambientale contestato all'Ilva gestita dai Riva. L'accusa aveva chiesto 20 anni di reclusione per lui, anche perché gli era stata inizialmente contestata la responsabilità di due morti sul lavoro. 21 anni di reclusione sono stati invece inflitti all'ex direttore del siderurgico Luigi Capogrosso, a fronte dei 28 chiesti dai pm. Stessa pena anche per Girolamo Archinà, ex consulente dei Riva per le relazioni istituzionali.

La confisca. La decisione del giudice di confiscare gli impianti siderurgici di Taranto non avrà al momento nessun impatto sulla produzione e sull'attività della fabbrica. Verrà resa operativa solo a seguito della pronuncia definitiva del tribunale in corte di Cassazione, all'ultimo grado di giudizio. Gli impianti, quindi, sono formalmente sequestrati ma agli attuali gestori resta la facoltà d'uso. Gli impianti dell'Ilva di Taranto sono considerati strategici per l'economia nazionale in basa alla legge del 2012, confermata di recente dalla Corte Costituzionale. Per area a caldo si intendono parchi minerali, agglomerato, cokerie, altiforni e acciaierie. Va, inoltre, sottolineato che nel passaggio degli impianti dall'attuale proprietà di Ilva in amministrazione straordinaria all'acquirente, cioè la società Acciaierie d'Italia tra ArcelorMittal Italia e Invitalia, è previsto il dissequestro degli impianti come condizione sospensiva. Passaggio per ora collocato entro maggio 2022.

Le reazioni. Nicola Vendola ha commentato così la sua condanna: "Mi ribello ad una giustizia che calpesta la verità. È come vivere in un mondo capovolto, dove chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l'ombra di una prova. Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi, quelli che dai Riva non hanno preso mai un soldo, che hanno scoperchiato la fabbrica, che hanno imposto leggi all'avanguardia contro i veleni industriali". L'ex governatore non si arrende: "Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l'ennesima prova di una giustizia profondamente malata". La capogruppo di LeU al Senato, Loredana De Petris, ha difeso Nicola Vendola: "Quella di Taranto è una sentenza di importanza storica. Vengono infatti chiarite e sanzionate le responsabilità dei Riva e dei dirigenti dell'Ilva, cioè di chi in nome del profitto non ha esitato ad avvelenare un'intera città e a provocare un disastro ambientale che è costato la vita o la salute ai lavoratori e ai cittadini. [...] Ci dispiace molto, invece, per l'ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, della cui innocenza restiamo certi. Siamo convinti che l'assenza di responsabilità e la piena innocenza di Vendola verranno riconosciute nel processo d'appello". Dopo la sentenza ha parlato anche l'avvocato di Giacomo Archinà, Giandomenico Caiazza: "Del merito di questa sentenza, tanto incredibile quanto ampiamente preannunciata, parleremo con le nostre impugnazioni. Mi interessa solo richiamare l'attenzione sulla dimensione scenografica della lettura del dispositivo. In prima fila, al centro dell'aula, solo un lungo e comodo banco per l'accusa. Per la difesa nemmeno un simbolico strapuntino. Una foto perfetta, nitida e veritiera di questo processo, una vicenda interamente appaltata alla pubblica accusa, nella quale la difesa ha rappresentato solo un inevitabile intralcio. Mai visto uno spettacolo del genere - solo il banco per l'accusa - in tutta la mia carriera di avvocato".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Nichi Vendola contro la deriva del «mainstream giustizialista» Dopo la sentenza IlvaNichi Vendola contro la deriva del «mainstream giustizialista». Linkiesta l'1/6/2021. L’ex governatore della Puglia, condannato in primo grado per concussione aggravata, ricorda di essere stato tra i primi a sollevare il tema dell’inquinamento a Taranto: «C’è un ambientalismo che andrebbe bonificato dalla demagogia e dalla incompetenza», dice. «Deriva giustizialista». «Ecomostro giudiziario». «Barbarie». L’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola commenta così in diverse interviste sui quotidiani la sentenza che lo condanna a tre anni e mezzo in primo grado per concussione aggravata nel processo “Ambiente Svenduto” sull’ex Ilva di Taranto. A nove anni dal sequestro, sono arrivate le pene, con 22 e 20 di carcere per Fabio e Nicola Riva. Per i giudici di primo grado, Vendola avrebbe esercitato pressioni sull’Arpa, l’agenzia pugliese per la protezione ambientale, affinché attenuasse la portata delle relazioni sulle emissioni dello stabilimento siderurgico. Ma Vendola, dopo aver combattuto l’inquinamento a Taranto e fondato Sinistra ecologia e libertà (Sel), non accetta di finire insieme a quelli che hanno avvelenato la città. Da subito ha criticato la sentenza. E a Repubblica dice: «Quelli che hanno venduto l’ambiente di Taranto e non solo stanno godendo… sono finito in una tagliola giudiziaria. Aspettavo con ansia la fine di un incubo che dura da troppi anni. Invece subisco una condanna assurda, che avalla un’accusa grottesca. E io che ai Riva non ho mai fatto sconti e dai Riva (a differenza di tanti) non ho preso neppure un euro, a questa sentenza mi ribello». Per Vendola, la sentenza «non è solo ingiusta, è una barbarie», che «calpesta la verità per me e per chi ha lavorato con me». «Un grave delitto contro la verità», commenta sul Corriere. Ora, dice al Foglio, «smetterò di stare zitto e di essere ossequioso verso una giustizia senza verità». E spiega: «Io sono accusato di una concussione “implicita”, ed è implicita proprio perché non c’è prova, e chi l’avrebbe subita, uno scienziato come Assennato, è accusato di avermi favoreggiato poiché nega di essere mai stato minacciato da me. Ma poi l’Arpa ha ammorbidito la sua condotta con l’Ilva? Le prove dicono l’esatto contrario». Vendola ricorda che nel 2010 a ferragosto il governo nazionale «con un decreto spostò di anni l’entrata in vigore della direttiva sulla qualità dell’aria. Noi varammo una norma perché fosse subito in vigore: e lo facemmo pur non avendo quella competenza che in materia ambientale è esclusivamente dello Stato… ecco, mentre faccio questo, nello stesso momento misteriosamente minaccio Assennato: direi che siamo al manicomio». L’ex governatore confessa: «Ho lasciato la scena pubblica per questa accusa, il mio partito è stato sciolto di conseguenza, perché non sopportavo l’idea di qualche moralista da marciapiede che mi urlava: impresentabile! E perché ho sempre pensato che ci si difende in tribunale: e questo oggi capisco che è un errore. Io avevo messo nel conto tutto, tranne questo: che potesse colpirmi alle gambe un mafioso, non che potesse colpirmi al cuore una procura». Vendola dice che nel caso Ilva «c’è stata una malevola torsione dell’inchiesta verso una deriva che è quella del mainstream giustizialista. Io penso che sia importante che finisca la stagione della irresponsabilità ambientale di pezzi del capitalismo nostrano, ma non so come abbiano potuto mettermi insieme agli inquinatori sul banco degli accusati. La gogna è il tifo colpevolista, è la lapidazione costruita in un continuo gioco di carambola tra alcuni pubblici ministeri e parti del giornalismo». E poi, continua, «c’è un ambientalismo che andrebbe bonificato dalla demagogia e dalla incompetenza», perché «anche le superstizioni o i pregiudizi o l’ignoranza inquinano l’ambiente». E ricorda: «Io sono Nichi Vendola, uno che ha combattuto faccia a faccia contro i clan mafiosi e che ha denunciato le collusioni dello Stato e della magistratura, uno che le vacanze da uomo di potere le ha fatte a proprie spese in Chiapas difendendo gli indigeni o in Colombia al processo di pace o a Sarajevo sotto le bombe. Sono uno che pregava mano nella mano con Rita Borsellino e Antonino Caponnetto sulla tomba di don Tonino Bello. Sono quello che scoperchiò il verminaio di Messina, che ha indagato sull’omicidio di Graziella Campagna o di Peppino Impastato, e quello che in Puglia faceva montare i palchi nei quartieri dei boss e li sfidava in piazza». E ancora: «Sempre quello che lo Stato ha messo sotto tutela per un quarto di secolo. E ancora quello che a Taranto non ha esitato, dopo decenni di omertà, a parlare dei veleni e del cancro e a operare per una svolta».

Ilva, condanne e polemiche. Vendola: giustizia malata. La Corte d’assise di Taranto: «Disastro ambientale». L’ex governatore furioso: «È una mostruosità, dai magistrati un delitto contro la storia». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio l'1 giugno 2021. Ventidue e venti anni di reclusione: sono pesantissime le condanne inflitte a Fabio e Nicola Riva, ex proprietari dell’Ilva e figli dello scomparso patron Emilio, dalla Corte d’assise di Taranto, al termine del primo grado del processo per quello che, secondo i giudici, è un disastro ambientale procurato. Condanna a 21 anni per l’ex responsabile relazioni esterne del colosso siderurgico Fabio Archinà, e fa rumore anche quella a 3 anni e mezzo, per concussione, pronunciata nei confronti dell’ex governatore pugliese Nichi Vendola. Che dopo la lettura del dispositivo ha avuto parole durissime per i magistrati pugliesi: «Mi ribello a una giustizia che calpesta la verità». A quasi nove anni dal sequestro degli impianti e dai primi arresti e a cinque dall’avvio del processo, la Corte presieduta da Stefania D’Errico, dopo quasi due settimane di camera di consiglio ha dunque confermato ieri l’impianto accusatorio della Procura che, nell’indagine “Ambiente svenduto”, aveva contestato ai 47 imputati (44 persone fisiche e 3 società) reati che andavano dal disastro ambientale all’avvelenamento di sostanze alimentari, all’omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. La sola lettura del dispositivo è durata qualcosa come un’ora e 40 minuti, anche per il gran numero di parti civili. Le motivazioni della sentenza fra sei mesi. Oltre a diverse provvisionali, disposta la confisca degli impianti siderurgici, che però non avrà al momento conseguenze sulla funzionalità dell’acciaieria. «Del merito di questa sentenza, tanto incredibile quanto ampiamente preannunciata, parleremo con le nostre impugnazioni. Mi interessa solo richiamare l’attenzione sulla dimensione scenografica della lettura del dispositivo», è la reazione di Gian Domenico Caiazza, presidente dei penalisti italiani, che al processo Ilva difende Archinà. «In prima fila, al centro dell’aula, solo un lungo e comodo banco per l’accusa. Per la difesa neanche un simbolico strapuntino. Una foto perfetta di questo processo», denuncia Caiazza, «una vicenda interamente appaltata alla pubblica accusa, nella quale la difesa ha rappresentato un inevitabile intralcio. Mai visto uno spettacolo del genere in tutta la mia carriera di avvocato». Ma se l’avvocato che presiede l’Ucpi si sofferma su una sorta di lapsus prossemico, l’ex governatore della Puglia attacca a testa bassa il merito stesso della sentenza: «Mi ribello a una giustizia che calpesta la verità: è come vivere in un mondo capovolto, in cui chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l’ombra di una prova. Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi che dai Riva non abbiamo preso mai un soldo, che abbiamo imposto leggi all’avanguardia contro i veleni industriali. Questa sentenza», scandisce Vendola, «rappresenta l’ennesima prova di una giustizia profondamente malata. Sappiano i giudici che hanno commesso un grave delitto contro la verità e contro la storia». E ancora: «Ho taciuto per quasi 10 anni, ora non starò più zitto». Meno incendiario il commento dell’avvocato Luca Perrone, difensore di Fabio Riva: «Non c’è mai stata alcuna forma di dolo, solo lo sforzo continuo di adeguare gli impianti». Il processo ha riguardato la gestione Riva sino al 2013. Vendola rispondeva di concussione aggravata per aver esercitato pressioni su Arpa Puglia affinché ammorbidisse i suoi report sulla fabbrica. Assolto l’ex presidente del cda Ilva Bruno Ferrante, già prefetto di Milano ( per lui i pm avevano chiesto 17 anni). Mentre Giorgio Assennato, ex dg Arpa Puglia, che aveva rinunciato alla prescrizione, a fronte della richiesta dei pm di un anno, se n’è visti infliggere 2. Prescrizione per l’allora assessore regionale Nicola Fratoianni. Secondo il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci, «lo Stato ha riconosciuto le sofferenze della città», mentre per il governatore della Puglia Michele Emiliano «la giustizia ha finalmente fatto il suo corso». Soddisfazione per la sentenza da ambientalisti e M5S. «Evito ogni commento: come a tutti noto sono un garantista e credo nella magistratura così come vi ha sempre creduto Vendola», le parole di Antonio Leone, pugliese, ex laico Csm.

Ilva, Nichi Vendola condannato a tre anni e mezzo: "Mi ribello a questa mostruosità, carneficina del diritto". Libero Quotidiano il 31 maggio 2021. Attacca la giustizia Nichi Vendola dopo la condanna a tre anni e sei mesi di reclusione nell'ambito del processo Ilva: "Mi ribello ad una giustizia che calpesta la verità. E' come vivere in un mondo capovolto, dove chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l'ombra di una prova. Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi, quelli che dai Riva non hanno preso mai un soldo, che hanno scoperchiato la fabbrica, che hanno imposto leggi all'avanguardia contro i veleni industriali. Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l'ennesima prova di una giustizia profondamente malata". L'ex governatore della Regione Puglia è furibondo: "Sappiano i giudici che hanno commesso un grave delitto contro la verità e contro la storia", prosegue Vendola. "Hanno umiliato persone che hanno dedicato l'intera vita a battersi per la giustizia e la legalità. Hanno offerto a Taranto non dei colpevoli ma degli agnelli sacrificali: noi non fummo i complici dell'Ilva, fummo coloro che ruppero un lungo silenzio e una diffusa complicità con quella azienda. Ho taciuto per quasi 10 anni difendendomi solo nelle aule di giustizia, ora non starò più zitto. Questa condanna per me e per uno scienziato come Assennato è una vergogna. Io combatterò contro questa carneficina del diritto e della verità", conclude l'ex governatore pugliese. Solidarietà a Vendola è stata espressa di Nicola Fratoianni, segretario nazionale di Sinistra Italiana: "Io credo che la condanna di Nichi sia ingiusta”, "parliamo di chi in quella storia di quell’azienda, per primo e spesso in solitudine, si è battuto contro l’inquinamento e sono certo che i prossimi gradi di giudizio lo attesteranno”. "Ho sempre creduto e continuò a credere all’innocenza di Nichi Vendola", ha scritto in un post su Twitter Gennaro Migliore di Italia Viva: "Ne ho conosciuto la passione e la lotta per la difesa dell’ambiente e della vita. Ora ci sarà il processo d’appello e confido nel ribaltamento di una sentenza, per me, davvero incomprensibile".  

Giampiero Mughini per Dagospia l'1 giugno 2021. Caro Dago, alla mia età si fa purtroppo sproporzionato il rapporto tra le cose che so (due o tre) e il numero infinito di cose che non so e che non ho più il tempo per impararle. Per parlare con cognizione di causa del rapporto tra l’esistenza del più grande impianto siderurgico d’Europa (Ilva) e la città che lo ha ospitato (Taranto), dovrei forse studiare un anno e non so se basterebbe. Detto questo, da cittadino della repubblica, ci tengo a dirti il mio giudizio, la mia impressione e la mia emozione nei riguardi di questa sentenza, su cui ho letto in particolare un magnifico articolo di Annarita Digiorgio sul Foglio. La giudico mostruosa, e nei confronti dei fratelli Riva e nei confronti del mio vecchio amico Nichi Vendola, che qui saluto affettuosamente. E’ tutto.

Riccardo Barenghi per "la Stampa" l'1 giugno 2021. Presidente della regione Puglia per dieci anni nonché fondatore e leader di Sel, Sinistra Ecologia e Libertà. Un partito che come dice il suo nome aveva fatto dell'ambiente una delle sue bandiere. E ora si ritrova condannato a tre anni e mezzo per concussione nel disastro ambientale dell'Ilva di Taranto quando era proprietà dei Riva. Da diversi anni Vendola ha lasciato tutti i suoi incarichi politici e si è difeso in tribunale rinunciando anche alla prescrizione per quanto fosse sicuro della sua innocenza.

Invece, Vendola, i giudici lo hanno considerato colpevole: la sua reazione?

«Sono indignato perché siamo dinanzi ad uno scempio, un vero eco-mostro della giustizia penale. La mia concussione, siccome non è in alcun modo provata, viene definita "implicita". Il mio concusso nega di essere mai stato minacciato ed è allora un favoreggiatore. La prova che poi lui, il direttore dell'Arpa, abbia ammorbidito la sua condotta con il siderurgico? Non c' è, c'è invece la prova del contrario. Ed è un dolore grandissimo perché per me era un fatto importante che la giustizia chiedesse conto ad un colosso del capitalismo italiano dei costi umani e ambientali pagati da un'intera città a quel "padrone del vapore"».

Una reazione comprensibile che tuttavia ricorda quelle degli altri esponenti politici finiti nel mirino dei giudici: a cominciare da Berlusconi...

«Non direi proprio. Io non mi sono difeso dal processo, mi sono difeso nel processo. Non ho insultato i giudici o urlato contro di loro in un video. Ho rinunciato a difendermi nei talk o sui giornali per rispetto del processo. Ma ora basta. Ora non è più il tempo del silenzio; dico a tutti coloro che si occupano di giustizia: leggete le carte processuali, ascoltate su Radio Radicale (benemerita) la registrazione del dibattimento e ditemi voi in quale baratro sia finita la giustizia in Italia!».

Però ci sono intercettazioni che secondo i giudici non hanno giocato a suo favore, in particolare quella in cui si complimenta ridendo con Archinnà, responsabile delle relazioni esterne dell'Ilva, per lo «scatto felino» con cui aveva strappato il microfono a un giornalista che faceva domande scomode a uno dei fratelli Riva.

«In verità di quella intercettazione non mi è stato mai chiesto nulla. Solo per pignoleria vorrei ricordare che il contesto di quella telefonata era da parte mia la richiesta duplice di ritirare 704 licenziamenti e di pagare loro le centraline per i monitoraggi, e da parte dei Riva era rappresentare che i limiti alle emissioni non erano immediatamente in vigore (tema su cui il Tar ha dato ragione ai Riva)».

La questione dell'Ilva ci racconta di una tragedia umana: centinaia, forse migliaia di persone morte a cause delle emissioni letali di quella fabbrica. In queste ultime settimane i morti sul lavoro sono tornati sulle prime pagine dei giornali, a cominciare dalla tragedia di Luana D'Orazio stritolata da un orditoio: come mai non si riesce ancora a fermare questa strage che da anni conta 3 morti al giorno?

«Taranto è un polo industriale ciclopico, non solo ospita l'acciaieria più grande d' Europa ma anche impianti di raffinazione del petrolio, cementerie, l'arsenale militare. Ne ha pagato prezzi altissimi, continua a pagarli, tanto più in un'epoca in cui il lavoro e la vita sono variabili dipendenti del primato del profitto».

Cosa pensa del codice degli appalti: semplificare le procedure è giusto o comporta rischi troppo grandi per la vita dei lavoratori?

«A volte ho l'impressione che la parole semplificazione sia uno specchietto per le allodole, un modo per liberarsi da quei vincoli necessari che tutelano la vita, i diritti, l'ambiente».

E, allargando il discorso, pensa che il governo Draghi sia la giusta risposta alla pandemia e alla crisi economica e sociale che ha messo l'Italia in ginocchio. O era meglio Conte?

«Guardi, oggi ho il cuore troppo appesantito per risponderle. Spero solo che dalla pandemia si possa uscire con un piano radicale di giustizia sociale, di giustizia ambientale e di rilancio del Welfare. Ma non mi pare di vedere molti segnali in questa direzione».

Assassini e concussori": la sentenza. Sentenza Ilva, il folle verdetto che "sbatte in carcere" Nichi Vendola. Annarita Digiorgio su Il Riformista l'1 Giugno 2021. La sentenza che il popolo aspettava da nove anni per Ilva è arrivata: 22 e 20 anni di reclusione per Fabio e Nicola Riva, tre e mezzo per Nichi Vendola, e la confisca dell’area a caldo. Sentenza certamente non esecutiva, perché siamo ancora al primo grado. Ma che come ha cantato il tarantino Diodato vincendo Sanremo “fa rumore”. Il reato contestato è di associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Mille le parti civili, con oltre trenta miliardi di richieste di risarcimento. Un maxi processo difficilissimo, in cui si sono avvicendati durante il dibattimento centinaia di testi tra periti e scienziati, per chili infiniti di faldoni e controperizie, che hanno totalmente smontato la perizia madre del gip Todisco secondo cui Ilva avvelenava Taranto e ammazzava i bambini, insieme a intercettazioni trascritte male. A nulla è servito il dibattimento ai fini delle richieste dei pm che, a detta di tutti collegi difensivi di tutti gli imputati, sono rimasti fermi alle indagini preliminari, come se a nulla fossero serviti questi 5 anni di udienze infinite senza sosta tre volte la settimana con uffici legali esclusivamente e totalmente dediti alla causa, con una complessità scientifica delle materie trattate difficile per i legali, figuriamoci per i giurati popolari. Dibattimento, anzi processo, che non è riuscito neppure a dimostrare, nonostante decine di ricerche epidemiologiche, studi di corte, registri tumori, e cartelle cliniche, che vi sia un nesso di causalità tra l’inquinamento ambientale di Ilva e le morti o malattie di Taranto. Tranne l’amianto, che è dimostrato causa mesotelioma, malattia che a detta della Asl di Taranto produrrà eccesso di morti in provincia per i prossimi trent’anni, e che perlopiù è causato dall’arsenale e dalle navi in Mar Piccolo per cui continua ad essere ripetutamente condannata la Marina Militare. Ma mai in 60 anni è stato dimostrato un legame di causalità tra inquinamento Ilva e un decesso, e tutti abbiamo imparato in questa pandemia grazie ai vaccini quanto sia importante la differenza tra causalità e correlazione nel rapporto tra una sostanza e un effetto. Gian Domenico Caiazza, presidente delle Camere Penali che in questo processo difendeva il responsabile relazioni esterne commenta: “In prima fila, al centro dell’aula, solo un lungo e comodo banco per l’Accusa. Per la difesa nemmeno un simbolico strapuntino. Una foto perfetta, nitida e veritiera di questo processo, una vicenda interamente appaltata alla pubblica accusa, nella quale la difesa ha rappresentato solo un inevitabile intralcio”. Secondo il pm invece “gli imputati erano animati da dolo intenzionale diretto all’evento del reato, che è il disastro; poi ci può essere anche un altro fine, quello di produrre acciaio, quello di produrre reddito, ma non influisce affatto sulla esistenza del dolo intenzionale, che era proprio quello del disastro”. Insomma secondo il pm i Riva volevano prima avvelenare, poi produrre. A nulla è servito che il dibattimento abbia dimostrato che i Riva hanno dimezzato le emissioni durante la loro gestione. Come pure che avessero da sempre investito molto sulle figure professionali dei tecnici e capi area coinvolti, che venivano mandati negli stabilimenti di tutto il mondo per acquisire le conoscenze di nuovi impianti e soprattutto addestrarli al loro all’ammodernamento. Gli avvocati dei dirigenti hanno evidenziato la tracciabilità di tutti gli stipendi, non vi sono stati arricchimenti per loro. “Non sono per nulla abbattuto – ha detto Francesco Perli, il legale dei Riva difeso nel processo dal famoso avvocato Raffaele della Valle – “anzi – ha detto Perli- sono più determinato di prima a combattere per il prevalere della verità. Non ho concorso alla concussione di Assennato perché non ho partecipato ad alcuna riunione con Vendola in quanto nelle stesse ore ero in udienza avanti un giudice del Tribunale di Milano. Il procedimento Aia non è un procedimento segretato come ha sostenuto il pm Argentino ma un procedimento aperto cui partecipano tutti gli enti e le associazioni ambientaliste e nel quale le migliori tecniche da adottare sono proposte dall’operatore tra le Bat vigenti e la loro appropriatezza valutata dalla Commissione AIA. Per il resto io ho fatto soltanto l’Avvocato ed i giudici di Taranto i faccendieri devono andare a scovarli da altre parti, magari più vicino. Nel dispositivo mi hanno anche inibito di svolgere la professione di legale. Una cosa vergognosa. Pensavo che le due giudici togate fossero di ben altro livello e non appartenessero alla scuola di Vysinskij, Stucka e Pasukanis”. Non ci va più leggero neppure Vendola: «Io mi ribello ad una giustizia che calpesta la verità. È come vivere in un mondo capovolto, dove chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l’ombra di una prova. Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi, quelli che dai Riva non hanno preso mai un soldo, che hanno scoperchiato la fabbrica, che hanno imposto leggi all’avanguardia contro i veleni industriali. Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l’ennesima prova di una giustizia profondamente malata. Sappiano i giudici – continua l’ex presidente della Regione Puglia – che hanno commesso un grave delitto contro la verità e contro la storia. Hanno umiliato persone che hanno dedicato l’intera vita a battersi per la giustizia e la legalità. Hanno offerto a Taranto non dei colpevoli ma degli agnelli sacrificali: noi non fummo i complici dell’Ilva, fummo coloro che ruppero un lungo silenzio e una diffusa complicità con quella azienda. Ho taciuto per quasi 10 anni difendendomi solo nelle aule di giustizia, ora non starò più zitto. Io combatterò contro questa carneficina del diritto e della verità». P.S. L’unica volta che la procura ha fermato l’accanimento giudiziario nei confonti di Ilva è stato quando l’allora procuratore capo Capristo patteggiò con i commissari di governo Ilva in amministrazione straordinaria, tramite il consulente Piero Amara. È una storia meno conosciuta, ma vera: Amara fu nominato dal commissario Laghi consulente di Ilva, e fu lui a intrattenere le riunioni con Capristo e il Pm Argentino per il patteggiamento di Ilva in amministrazione straordinaria (non Riva). Oggi leggiamo nei chiacchierati verbali della fantomatica loggia Ungheria che secondo Amara il procuratore Capristo era stato nominato grazie a lui alla procura di Taranto. Di fatto Amara aveva spostato la residenza legale in provincia di Taranto e aveva assunto nel suo studio il figlio del procuratore Argentino. Quel patteggiamento però verrà rigettato dalla corte di appello perché ritenuto incongruo. Tolto quell’episodio l’accanimento giudiziario che quella fabbrica ha subito negli ultimi dieci anni ha trasformato i Riva in assassini, la fabbrica in morte, i giudici in eroi popolari, le loro frasi (“nessun bambino deve più morire per colpa di Ilva”) in striscioni nelle manifestazioni, e dopo le fiction con Sabrina Ferilli, le telecamere puntate sui fumi e la città di Taranto che attende di essere liberata attribuendo alla magistratura questa funzione salvifica, la sentenza ha dato al popolo la sentenza che aspettava. Ma per ora è solo un primo grado… Annarita Digiorgio

Chiara Spagnolo per repubblica.it l'8 giugno 2021. Parte da Potenza il terremoto giudiziario che ha travolto l'avvocato siciliano Pietro Amara, la gola profonda che di recente ha fatto tremare la politica e il Csm. L'avvocato è destinatario di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere nell'ambito di un'inchiesta che riguarda presunti favori relativi a procedimenti che riguardavano l'ex Ilva di Taranto. Al centro dell'inchiesta l'ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, arrestato un anno fa per concussione e oggi destinatario di un provvedimento di obbligo di dimora. Amara è stato consulente legale di Ilva quando l'azienda era in amministrazione straordinaria e, in tale veste, avrebbe avuto rapporti - che la Procura lucana considera illeciti - con Capristo. Agli arresti domiciliari è finito l'avvocato tranese Gaicomo Ragno (già condannato nell'ambito del processo sul "Sistema Trani", che svelò atti di corruzione degli ex magistrati Michele Nardi e Antonio Savasta). In carcere anche il poliziotto Filippo Paradiso, che avrebbe fatto da tramite tra Capristo e Amara.

Ex Ilva, arrestato l’avvocato Pietro Amara e obbligo di dimora per l’ex procuratore di Taranto. Giampiero Casoni l'08/06/2021 su Notizie.it. Ex Ilva, arrestato l’avvocato Pietro Amara e obbligo di dimora per l’ex procuratore di Taranto. Ex Ilva, arrestato l’avvocato Pietro Amara e obbligo di dimora per l’ex procuratore di Taranto, misure anche per l'avvocato Trani e il poliziotto Paradiso. Ex Ilva di Taranto, la Guardia di Finanza ha arrestato l’avvocato Pietro Amara e notificato l’obbligo di dimora per l’ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo. Misure di cautela anche per l’avvocato di Trani Giacomo Ragno e per il poliziotto Filippo Paradiso. A chiederle ed ottenerle la Procura della Repubblica di Potenza. L’inchiesta è quella, delicatissima, per presunti favori ad un imprenditore nei rapporti di lavoro con l’azienda siderurgica. Ad operare era stata la magistratura potentina, che tutt’ora ha facoltà di esercizio di azione penale, competente per i reati attribuiti a magistrati in servizio quale Capristo era all’epoca dei fatti contestati. L’ex requirente era stato già messo ai domiciliari il 19 maggio del 2020 perché indicato come autore di di presunte pressioni a due magistrati insieme a tre imprenditori e ad un poliziotto. Per questa vicenda è in atto il relativo dibattimento presso il Tribunale di Potenza. Dal canto suo l’avvocato Amara è un po’ il “golden boy” di alcune scottantissime inchieste in corso: da quella della Procura di Milano sul cosiddetto “falso complotto Eni” a quella scaturita che in veste di gola profonda lo vede uomo innesco dello scandalo al Csm sulla cosiddetta “Loggia Ungheria”, in intreccio complicatissimo che dà la cifra quanto meno del caos che regna in alcuni settori della magistratura. La posizione dell’avvocato nel fascicolo sull’ex Ilva oggetto di un recente accordo di salvataggio fra le parti, è comunque molto più delicata, almeno a contare la gravità della misura di custodia, che è in carcere. Vuol dire che il Gip teme che il professionista inquini le prove, a contare che non è concettualmente plausibile che fugga o reiteri il reato. L’inchiesta è coordinata da Francesco Curcio, procuratore capo di Potenza. L’Ilva torna dunque a fare ingresso prepotente nelle cronache giudiziarie, dopo aver fatto capolino in quella convenzionale con l’incendio di un mese fa. Ma cosa si contesta nello specifico e per ora sono in presunzione di reato ai quattro indagati? L’inchiesta ruota tutta intorno alla “trattativa” fra magistratura e consulenti del governo dell’Ilva in amministrazione straordinaria: Amara venne scelto come consulente di Ilva in un patteggiamento che tempo prima il procuratore in carica Sebastio aveva respinto. Il commissario Laghi nominò Amara consulente e da quella nomina sarebbero emerse presunte prebende, anche a carico di Capristo, su cui la procura potentina ha indagato e chiesto le misure.

Estratto di una Dagonota l'8 giugno 2021. […] Marco Mancini è supportato anche dal suo ottimo rapporto con il pentastellato Angelo Tofalo, sottosegretario alla Difesa del M5s, attivo frequentatore della Link Campus di Scotti dove conseguì un Master nel 2016 (sbucò pure fuori all'inaugurazione del centro di cyber security dei cinesi di ZTE), legato a sua volta a esperti come Umberto Saccone (ex Eni) e con Carlo Sibilia, il sottosegretario al Viminale che ha voluto con sé l'ispettore di polizia Filippo Paradiso, che stima e apprezza lo 007.

Estratto dell'articolo di Giovanni Bianconi e Virginia Piccolillo per il ''Corriere della Sera'' del 20 maggio 2020. […] Oltre a questo colloquio registrato, agli atti dell'indagine di Potenza - ma anche di quelle collegate di Messina e Perugia sulla presunta corruzione di altri magistrati: inchieste diverse in cui ricorrono gli stessi nomi - gli indizi sul «centro di potere» collegato a Capristo passano dal suo amico Filippo Paradiso, di cui parla l'avvocato messinese Giuseppe Calafiore. Arrestato per corruzione assieme al collega Piero Amara e all' imprenditore Fabrizio Centofanti nel febbraio 2018, con pena successivamente patteggiata, il legale dice in un interrogatorio del 6 giugno 2019: «Attualmente è nell' entourage del ministro Salvini. Paradiso veniva quasi quotidianamente nel nostro studio, vive di pubbliche relazioni tant' è che l'appuntamento tra il pm Longo legatissimo ad Amara e a me (e arrestato con loro due anni fa, ndr ) e la Casellati, all' epoca al Csm, è avvenuto tramite Paradiso. Amara mi spiegava che Capristo era legatissimo a Paradiso, e questo legame si estrinsecò anche in occasione della nomina di Capristo a procuratore di Taranto. Immagino, o meglio deduco, che Paradiso si sia relazionato, anche, con la Casellati a tale scopo, atteso che certamente Paradiso conosceva la Casellati». Il funzionario di polizia è attualmente indagato dalla Procura di Roma per traffico di influenze illecite, e di lui ha parlato la ex pm di Trani Silvia Curione, titolare dell'inchiesta che Capristo voleva pilotare, secondo l'accusa, a suo piacimento. Ricorda un incontro di inizio 2016: «Nel presentarci Paradiso, a casa sua, Capristo disse che era suo amico. Quest' ultimo ci disse, parlando della Procura di Taranto, che l'allora facente funzione Pietro Argentino aveva ottime probabilità di diventare procuratore capo a Matera». Il marito della Curione, Lanfranco Marazia, anche lui magistrato, aggiunge: «Paradiso, spinto da Capristo che aveva evidenziato come Argentino era rimasto amareggiato perché non aveva avuto alcun voto in Commissione (del Csm, ndr ) per diventare procuratore di Taranto, disse che avrebbero profuso il massimo impegno per fare diventare Argentino procuratore a Matera. Parlava al plurale». A luglio 2017, Argentino fu nominato dal Csm procuratore di Matera, con 11 voti. Tra cui quelli di Maria Elisabetta Alberti Casellati e di Luca Palamara. Gli atti su Capristo (compresi i verbali di Amara, che nega quanto riferito da Calafiore, e dello stesso procuratore di Taranto, che nega anche parte di ciò che ha detto Amara) sono finiti agli atti dell’indagine perugina sull' ex componente del Consiglio superiore della magistratura indagato per corruzione. Secondo l'accusa veniva pagato con viaggi e altre regalie da Centofanti, l'amico di Amara e Calafiore, in cambio del «mercimonio della funzione» di componente del Csm. Nell' interrogatorio a Palamara, i pm umbri hanno chiesto notizie di Filippo Paradiso, e l'indagato ha risposto: «L'ho visto più volte sia con Centofanti che con altri consiglieri del Csm con cui si accompagnava, anche di rilievo». 

Estratto dell'articolo di Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" del 10 giugno 2020. […] Di quella decisione si parla pure nell'indagine potentina che ha portato all'arresto di Capristo, amico del funzionario di polizia Filippo Paradiso (inquisito a Roma per traffico di influenze illecite e con buone entrature nel Csm di Palamara) il quale riferì a un altro magistrato pugliese: «È stata durissima ma ce l'abbiamo fatta a fare diventare Argentino procuratore di Matera». Prevalse con 11 voti (Unicost, Mi e i tre laici di centrodestra), e il giorno dopo Palamara scrisse a Forciniti: «Mi giungono notizie pessime di Argentino. Abbiamo sbagliato?». Risposta: «No... lascia stare... non è uno scienziato, ma un lavoratore... non amato dai politici...». «Mi dicono cose turche». «Lascia stare...». 

Estratto dell'articolo di Emiliano Fittipaldi per lespresso.it del 28 giugno 2019. […] Ma come ha fatto Longo a entrare in contatto con la Casellati? Il pm ha raccontato che all’appuntamento non ando da solo. Ma che fu accompagnato da un uomo assai vicino all’attuale presidente del Senato. Si tratta di Filippo Paradiso, un dirigente della polizia di Stato che ha rapporti di alto livello con il mondo della magistratura italiana. E qualche guaio con la giustizia: Calafiore – in altri verbali consultati da L'Espresso - ha dichiarato che aveva in uso la carta di credito di Amara. Oggi il poliziotto risulta indagato a Roma per traffico di influenze. Fu Paradiso, dice dunque Longo, a organizzare il meeting tra i tavolini del bar tra lui e la Casellati. E fu sempre Paradiso, e questa e una certezza, che riuscii a entrare nell’ottobre 2018 nello staff del gabinetto della presidente del Senato. Le dimissioni, spiegano dal Senato, sono arrivate a gennaio 2019. In concomitanza con le prime notizie su un'inchiesta di di lui. Per ottenere l’appoggio della Casellati «sono andato insieme a Paradiso, che mi era stato presentato un paio di settimane prima da Giuseppe Calafiore. Con la Casellati, (Paradiso) era in ottimi rapporti... lei comunque non mi ha garantito nulla», chiosa Longo. E al cronista che gli chiede se davvero non fu preso alcun impegno dalla Casellati e da Legnini per la sua sponsorizzazione per la promozione, Longo chiarisce: «Guardi, e evidente che promesse esplicite non ne sono state fatte. Ma se organizzo un incontro con dei consiglieri (del Csm, ndr) attraverso persone considerate a loro vicine, diciamo che qualche aspettativa poteva essere implicita». Legnini - secondo quanto ha raccontato l’ex pm - avrebbe incontrato l’uomo di Amara «nel suo ufficio al Csm». Anche in questo caso Longo non si e mosso da solo: a preparare il rendez-vous con l’allora vertice del Consiglio superiore della magistratura e stato un altro intermediario. «Ha organizzato l’incontro il professor Dell’Aversana», ribadisce. Siamo sempre nella primavera del 2016. Legnini, Longo e Pasquale Dell'Aversana, stavolta, si incontrano non in un bar, ma in una sede ufficiale. «Neppure Legnini mi ha garantito alcunche. A lui e alla Casellati ho parlato di Ragusa perchè Gela era stata assegnata». Un’associazione presieduta da Dell'Aversana ha avuto stretti rapporti con i sodali di Longo Amara e Calafiore. «Il coacervo di manovre nascoste» di cui parla Mattarella parte da lontano.

Estratto dell'articolo di Antonio Massari e Valeria Pacelli per ilfattoquotidiano.it del 21 maggio 2020. Filippo Paradiso è un poliziotto, pugliese che in passato ha prestato servizio negli uffici di diretta collaborazione dei vari sottosegretari alla Presidenza del Consiglio, con Prodi, come con Berlusconi. Ha lavorato anche al Ministero dell’Interno, come collaboratore della segreteria di Matteo Piantedosi, allora capo di gabinetto di Matteo Salvini e con la formazione dell’ultimo governo è passato nella segreteria di Sibilia. […] Paradiso è ancora indagato a Roma per traffico di influenze e poi il suo nome spunta – ma non è indagato – nelle carte della procura di Potenza che ha portato all’arresto ai domiciliari di Carlo Maria Capristo, procuratore di Taranto accusato di tentata induzione a dare o promettere utilità, truffa e falso. A parlare di Paradiso, dinanzi al procuratore di Potenza Francesco Curcio, sono i due pm di Bari Silvia Curione e Lanfranco Marazia, che lo incontrano proprio a casa di Capristo: “Disse che Paradiso era un suo amico – racconta Curione – e quest’ultimo ci disse, parlando in generale della Procura di Taranto, che l’allora facente funzioni Pietro Argentino aveva ottime probabilità di diventare procuratore capo a Matera. Sul momento – conclude Curione – rimasi sorpresa della conoscenza di dinamiche della magistratura da parte di un dipendente di altro ministero”. Nulla rispetto alla sorpresa del pm Marazia: “Paradiso spinto da Capristo, che aveva evidenziato come (…) Argentino era rimasto amareggiato, perché non aveva avuto alcun voto in commissione per diventare procuratore di Taranto, disse che avrebbero profuso il massimo impegno per far diventare Argentino procuratore a Matera. Parlava al plurale, come se lui e altri si sarebbero potuti impegnare in favore di Argentino. Nell’estate 2017” a un funerale “era presente Paradiso. Mi disse con aria soddisfatta che era stato durissimo ma che ce l’avevano fatta a fare diventare Argentino procuratore di Matera tanto che di lì a poco si sarebbe insediato”. Sentito dal Fatto, Paradiso ha smentito questa ricostruzione.

Caso Amara, per braccio destro un poliziotto. Il "relation man" Paradiso negli staff di Salvini e Casellati.  Giuliano Foschini e  Fabio Tonacci su La Repubblica il 9 giugno 2021. Arrestato con Amara, ha lavorato anche con i 5S Sibilia. Contatti con il dem Boccia e Palamara. È difficile capire chi realmente sia e che lavoro faccia l'avvocato Piero Amara senza partire da quello che la procura di Potenza, con una fortunata definizione, definisce "il suo relation man": il poliziotto Filippo Paradiso. "Appartengo - racconta Paradiso agli inquirenti - alla Polizia. E a seguito di una terribile esperienza giudiziaria, una condanna in omicidio in primo grado e assoluzione in appello, sono sempre stato comandato presso varie segreterie particolari".

Filippo Paradiso, da consulente di Maria Elisabetta Casellati a corruttore dei magistrati con Pietro Amara. Già collaboratore della presidente del Senato, il funzionario del ministero dell’Interno è stato arrestato per traffico di influenze nell’ambito dell’inchiesta Ilva. Redazione su La Repubblica il 9 giugno 2021. Un uomo cerniera tra chi poteva influire sulle scelte del Csm e la lobby di Pietro Amara interessata a governare gli interessi di Eni e Ilva, oltre gli impicci giudiziari.  Nell’ultima inchiesta che ha portato di nuovo in carcere l’avvocato siciliano, spunta tra gli arrestati il nome di Filippo Paradiso, funzionario del ministero dell’Interno, già stretto collaboratore della presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati. Paradiso, già vicino a Matteo Salvini al Viminale, vicepresidente del Salone della Giustizia, un passato all’Agricoltura con il ministro Saverio Romano, era indagato per traffico di influenze a gennaio del 2019. Più o meno quando il funzionario scompare dai radar di Palazzo Madama. Era stato lui, come ha documentato l’Espresso, a propiziare nel 2016 la nomina del pm di Siracusa Giuseppe Longo, poi arrestato, per la guida della procura di Ragusa agli albori dell’intreccio che ha per protagonista l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. E lo aveva fatto procurandogli un incontro proprio con Casellati, allora componente forzista del Consiglio superiore. Più o meno lo stesso ruolo rivestito per l’agognato passaggio del procuratore di Trani Carlo Maria Capistro alla guida della procura di Taranto, direttamente coinvolta nella gestione del dossier Ilva. In entrambi i casi Paradiso si sarebbe speso per conto di Amara che lo avrebbe utilizzato come ambasciatore nel sottobosco giudiziario per la presa di contatto con i magistrati amici, da corrompere e blandire pur di portare a casa i risultati agognati.  

Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per "Domani" (26 novembre 2020). I magistrati della procura di Roma non hanno dubbi. Il presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati quando era membro del Csm sarebbe stata “trafficata”, dunque usata, da Filippo Paradiso. Un poliziotto suo amico chiamato come collaboratore a Palazzo Madama che avrebbe, scrivono i pm nell'avviso di conclusioni delle indagini, «sfruttato e vantato» le relazioni con lei e altri pubblici ufficiali in modo da «farsi indebitamente promettere e consegnare denaro o altre utilità indebite da Piero Amara come prezzo della propria mediazione». Amara non è un imprenditore qualsiasi: ex legale dell'Eni, insieme al suo amico e socio Giuseppe Calafiore, è al centro di delicate inchieste giudiziarie in mezza Italia, e da tempo ha deciso di collaborare con gli inquirenti. Indagato insieme a Paradiso, Amara avrebbe fatto favori al funzionario del Viminale con l'obiettivo di procurarsi gli agganci giusti nelle sedi istituzionali, e in quella che è la vera stanza dei bottoni del potere giudiziario: il Consiglio superiore della magistratura, di cui Casellati è stata membro dal 2014 al gennaio 2018. Domani ha scoperto che la seconda carica dello Stato, che non è indagata, è stata sentita come persona informata sui fatti lo scorso luglio dai magistrati di Piazzale Clodio, proprio in merito ai suoi rapporti con Paradiso e con alcuni magistrati poi arrestati per corruzione: uno di questi, Giancarlo Longo, gli fu presentato proprio dall'ex consigliere. Andiamo con ordine. Paradiso oggi è distaccato al ministero dell'Interno, negli uffici del sottosegretario grillino Carlo Sibilia. Entrature importanti in Vaticano e saggista per diletto (ha pubblicato un libro su corruzione, concussione e, paradosso, sul traffico di influenze illecite) il poliziotto in passato ha lavorato con i ministri forzisti Claudio Scajola e Saverio Romano, e successivamente con l'ex capo di gabinetto di Matteo Salvini, Matteo Piantedosi. La Casellati ha per lui solo buone parole. «Paradiso? Lo conosco dal 2016. Il sottosegretario Gianni Letta me ne parlava assai bene per averlo conosciuto nel periodo del governo Berlusconi. Per tali ragioni propose la sua candidatura per il partito chiedendomi di caldeggiarla, ma non venne accettata» dice a verbale il 10 luglio. «A seguito di tale fatto, Letta mi chiese se potevo accoglierlo nel mio staff. Lo accolsi a titolo gratuito a ottobre 2018, nella qualità di consigliere di convegni. In realtà avevo avevo in animo di sostituirlo con il dottor Claudio Maria Galloppi». Cosa avvenuta a gennaio 2019, quando i giornali accennano la prima volta all'inchiesta della procura sul consigliere. Ora la Guardia di Finanza, i pm Paolo Ielo, Rodolfo Maria Sabelli e Fabrizio Tucci hanno chiuso le indagini e dovranno decidere se chiedere il rinvio a giudizio o l'archiviazione. Il documento è severo: «Paradiso sfruttando e vantando relazioni con pubblici ufficiali in servizio presso ambienti istituzionali (Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Consiglio Superiore della Magistratura, e in particolare con la consigliera Elisabetta Casellati) si faceva indebitamente promettere e consegnare denaro e altre utilità indebite da Piero Amara come prezzo della propria mediazione», scrivono gli inquirenti. I magistrati elencano «somme di denaro per un valore non inferiore ai 2000 euro», la messa a disposizione di una carta di credito usata da Paradiso per comprare anche biglietti aerei, fino «alla messa a disposizione per più di un anno di un appartamento a Trastevere».

Potenza, processo a ex procuratore Capristo: ascoltati primi testimoni. Sono stati ascoltati i pm baresi Silvia Curione e Lanfranco Marazia. La prossima udienza, durante la quale saranno ascoltati altri sette testimoni, si svolgerà il 16 giugno. La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Aprile 2021. E’ entrato nel vivo oggi, a Potenza, il processo nei confronti dell’ex procuratore di Trani e poi di Taranto, Carlo Maria Capristo, imputato per tentata concussione, falso in atto pubblico e truffa aggravata: nel corso dell’udienza, durata circa sei ore, sono stati ascoltati i pm baresi Silvia Curione e Lanfranco Marazia, primi testimoni dell’accusa. La prossima udienza, durante la quale saranno ascoltati altri sette testimoni, si svolgerà il 16 giugno. I due testimoni ascoltati oggi hanno ripercorso - rispondendo alle domande della pm Anna Gloria Piccininni e dei legali presenti in aula - le attività svolte nelle Procura di Trani e di Taranto, il «clima" negli uffici e dei rapporti con Capristo e con altre persone coinvolte nelle indagini. Entrambi hanno spiegato di essere stati stimati da Capristo per un lungo periodo, ma i rapporti sarebbero poi cambiati nel tempo. L’ex procuratore è accusato di presunte pressioni sulla pm Curione, che era in servizio a Trani quando Capristo era capo di quell'ufficio. Marazia, marito di Curione e ora pm a Bari (stessa sede della moglie), era invece in servizio a Taranto quando Capristo era stato chiamato a guidare quella Procura, dopo Trani. Capristo è imputato con i tre imprenditori di Bitonto, Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Secondo l’accusa, in concorso con l'ispettore di Polizia Michele Scivittaro (la cui posizione è stata stralciata perché ha patteggiato la pena a un anno e dieci mesi di reclusione), avrebbero tentato di indurre Curione a procedere in sede penale, senza che ne ricorressero i presupposti, contro una persona che gli imprenditori avevano "infondatamente denunciato per usura in loro danno». L’ex procuratore fu arrestato il 19 maggio 2020, ed è tornato in libertà ad agosto, dopo circa tre mesi agli arresti domiciliari. 

PROCESSO CAPRISTO: DENTRO LE CARTE IL NULLA. Antonello De Gennaro il 19 Aprile 2021 su Il Corriere del Giorno. L’ex procuratore Capristo risponde delle accuse di presunte pressioni sulla pm Silvia Curione, che era in servizio a Trani quando Capristo era capo di quell’ufficio. Oltre a Capristo imputati nel processo anche tre imprenditori di Bitonto, Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Si è tenuta oggi dinnanzi al Tribunale Penale di Potenza la prima udienza del processo nei confronti dell’ex procuratore di Trani e poi di Taranto, Carlo Maria Capristo, durata circa sei ore, in cui sono stati ascoltati i due accusatori: i pm baresi Silvia Curione e Lanfranco Marazia, rispettivamente marito e moglie, chiamate a testimoniare dal pubblico ministero dr.ssa Anna Gloria Piccinini. L’ex procuratore Capristo risponde delle accuse di presunte pressioni sulla pm Silvia Curione, che era in servizio a Trani quando Capristo era capo di quell’ufficio. Oltre all’ex procuratore, sono imputati nel processo anche tre imprenditori di Bitonto, Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo. Il collegio giudicante è composto dal presidente dr. Rosario Baglioni a latere dr.ssa Marianna Zampoli e dr. Francesco Valente.

Gli imputati secondo l’accusa mossa dalla Procura di Potenza, in concorso con l’ispettore di Polizia Michele Scivittaro che è uscito dal processo dopo aver patteggiato una pena ad 1 anno e 10 mesi di reclusione, avrebbero cercato di indurre la pm Curione a procedere in sede penale, senza che ne ricorressero i presupposti, contro una persona che gli imprenditori avevano “infondatamente denunciato per usura in loro danno“. I due testimoni ascoltati oggi hanno ripercorso le rispettive attività svolte nelle Procura di Trani ( pm Silvia Curione) e di Taranto (pm Lanfranco Marazia) , ed i reciproci rapporti intercorsi con Capristo. I due magistrati incalzati dalle produzioni documentali esibite e depositate dal collegio difensivo comporto dall’avvocatessa Angela Pignatari del Foro di Potenza e dall’avv. Riccardo Olivo del Foro diRoma, hanno dovuto ammettere di essere stati stimati da Capristo per un lungo periodo, salvo cambiare idea senza alcun ragionevole serio motivo, ed alla luce delle loro testimonianze non sembrano aver portato alcun contributo all’impianto accusatorio che si è rivelato allo stato attuale fragile e lacunoso. Verso la fine dell’udienza vi sono state delle schermaglie fra il collegio della difesa di Capristo ed il pm Piccinini, la quale si è vista contestare dal presidente del collegio giudicante dr. Rosario Baglioni , di aver depositato una lista di testimoni senza indicare su cosa dovranno rispondere. “Questo non è e non sarà mai un processo alla gestione ed organizzazione degli uffici delle procure di Taranto e Trani, sia chiaro” ha chiarito con fermezza il presidente Baglioni. L’ex procuratore venne arrestato il 19 maggio 2020, nonostante i suoi noti e gravi problemi di salute, dalla Procura di Potenza e rimesso in libertà ad agosto, dopo circa tre mesi agli arresti domiciliari. La prossima udienza, durante la quale saranno ascoltati altri sette testimoni dell’ accusa, si svolgerà il prossimo 16 giugno. Chissà se appariranno nel corso del processo gli interrogatori dei dirigenti dell’ ex-ILVA svolti dal procuratore Capo di Potenza dr. Francesco Curcio tenutisi nelle ore serali presso la caserma della Guardia di Finanza di Taranto, alla ricerca di prove contro Capristo. Sarà interessante capire in questo processo sulla base di quali reali elementi probatori sia stato possibile arrestare un procuratore capo. Anche perchè al momento dagli atti dell’inchiesta sembra l’ennesima follia giudiziaria di una magistratura “manettara” smaniosa dalla voglia di protagonismo mediatico più che della ricerca della giustizia.

Potenza, processo a ex Procuratore Capristo: i 2 Pm accusatori saranno i primi testi. Oggi la prima udienza dibattimentale dopo i rinvii. Carlo Maria Capristo è imputato per tentata concussione, falso in atto pubblico e truffa aggravata. La Gazzetta del Mezzogiorno l'08 Febbraio 2021. Saranno i pm baresi Silvia Curione e Lanfranco Marazia i primi testimoni dell’accusa nel processo davanti al Tribunale di Potenza nei confronti dell’ex procuratore di Trani e poi di Taranto Carlo Maria Capristo, imputato per tentata concussione, falso in atto pubblico e truffa aggravata. Dopo due rinvii, a ottobre e a dicembre 2020 per motivi di salute dell’imputato e la costituzione del Ministero dell’Interno come parte civile, oggi in aula si è formalmente aperto il dibattimento con l’ammissione delle prove e la fissazione del calendario delle prossime udienze per la trascrizione delle intercettazioni e per l’audizione dei primi testi. L’ex procuratore è accusato di presunte pressioni sulla pm barese Silvia Curione, che era in servizio a Trani quando Capristo era capo di quell'ufficio. Secondo l’accusa, in concorso con l’ispettore di Polizia Michele Scivittaro (la cui posizione è stata stralciata perché ha patteggiato la pena a un anno e dieci mesi di reclusione) e con i tre imprenditori di Bitonto (Bari) Giuseppe, Cosimo e Gaetano Mancazzo, co-imputati, Capristo avrebbe tentato di indurre la pm Curione a procedere in sede penale contro una persona che gli imprenditori avevano «infondatamente denunciato per usura in loro danno». I primi due testimoni chiamati dall’accusa, il prossimo 19 aprile, saranno proprio la pm Curione e il marito Lanfranco Marazia, anche lui adesso pm a Bari ma in servizio a Taranto quando Capristo era diventato - dopo Trani - capo della Procura jonica. (ANSA l'8 giugno 2021) L'ex Procuratore della Repubblica di Trani e Taranto, Carlo Maria Capristo, "in cambio delle “utilità” ricevute dal duo Amara-Paradiso svendeva la sua funzione in modo stabile, continuativo e incisivo". Lo ha scritto il gip di Potenza, Antonello Amodeo, nell'ordinanza con la quale ha disposto l'arresto dell'avvocato Piero Amara e del poliziotto Filippo Paradiso. Entrambi sono in carcere, mentre per Capristo è stato disposto l'obbligo di dimora a Bari. "Di particolare pregio", ha messo in evidenza il magistrato potentino, "per comprendere il livello osmotico che avevano assunto i rapporti tra Amara, Paradiso e Capristo, la circostanza che Amara avesse spostato, dopo la nomina di Capristo a Taranto nel 2016, la sede sociale delle sue società operanti nel settore ambientale da Roma alla provincia di Taranto, quasi a sottolineare plasticamente che si poneva sotto l'ombrello protettivo di Capristo". Il gip ha inoltre scritto che è emerso "un estesissimo network di rapporti e relazioni" creato da Capristo, Amara e Paradiso "anche di alto livello istituzionale e politico, finalizzato a strumentalizzare in loro favore le funzioni pubbliche".

(ANSA l'8 giugno 2021) Ci sono anche gli ex magistrati pugliesi Michele Nardi e Antonio Savasta, rispettivamente ex gip ed ex pm di Trani, tra gli 11 indagati nell'inchiesta della Procura d Potenza che ha portato oggi a quattro arresti e ad una nuova misura cautelare dell'obbligo di dimora per l'ex procuratore di Trani e Taranto Carlo Maria Capristo. Nardi e Savasta, già condannati in primo grado dal Tribunale di Lecce rispettivamente a 16 anni e 9 mesi di reclusione e a 10 anni nell'ambito del cosiddetto processo "giustizia svenduta", rispondono nell'inchiesta lucana di corruzione in atti giudiziari e concussione. Per entrambi la Procura di Potenza aveva chiesto l'arresto (per Nardi in carcere e per Savasta ai domiciliari) ma il gip Antonello Amodeo ha rigettato la richiesta "per mancanza di attualità delle esigenze cautelari". In particolare Nardi, all'epoca in servizio all'ispettorato generale del Ministero, è accusato di aver "messo a disposizione di Capristo l'utilità consistente nel suo impegno a sostenerlo nella nomina procuratore di Trani", poi effettivamente avvenuta nel 2008, con un'attività di "raccomandazione, persuasione, sollecitazione nei confronti di chi era in grado di determinare la nomina di Capristo", ottenendo in cambio "stabile e permanente protezione dei variegati ed illeciti interessi di Nardi in vicende processuali proprie e di suo interesse, nonché la protezione e copertura in favore dei sostituti Antonio Savasta e Luigi Scimè, con i quali Nardi aggiustava i processi".

(ANSA l'8 giugno 2021) Carlo Maria Capristo "ha sempre agito correttamente e in piena conformità al suo ruolo di Procuratore di Trani e di Taranto". Lo hanno scritto - in una nota inviata all'ANSA - gli avvocati difensori, Angela Pignatari e Riccardo Olivo. Riferendosi alle accuse al centro dell'inchiesta della Procura della Repubblica di Potenza, i legali di Capristo hanno evidenziato che si tratta di "fatti per lo più già passati al vaglio di altre Autorità giudiziarie, che non ne avevano ravvisato elementi di illiceità, ed assai risalenti nel tempo". "Il più recente" dei fatti "sarebbe cessato - hanno aggiunto gli avvocati Pignatari ed Olivo - nel luglio di due anni orsono, gli altri si collocano dal 2008 al 2016". "Riservando ad una attenta disamina dell'ordinanza ogni valutazione sul merito delle accuse", i legali di Capristo hanno comunque sottolineato che "queste considerazioni, unite alle dimissioni dall'ordine giudiziario a far data dal 25 maggio 2020, rendono palese la mancanza di esigenze cautelari necessarie per giustificare nei suoi confronti l'obbligo di dimora nel comune di residenza (e non già 'presso la propria abitazione', come erroneamente riferito nel comunicato stampa diffuso dal Procuratore di Potenza. In ogni caso, nel merito - hanno concluso i due avvocati - sarà dimostrato che il dottor Capristo ha sempre agito correttamente e in piena conformità al suo ruolo di Procuratore di Trani e di Taranto".

Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per editorialedomani.it l'8 giugno 2021. La presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati «si è sempre battuta per me...non dimentico». Parola del magistrato Carlo Maria Capristo, travolto dell’inchiesta della procura di Potenza insieme all’avvocato Piero Amara e a un misterioso poliziotto, Filippo Paradiso, che ha lavorato a palazzo Madama proprio come collaboratore della presidente del Senato (oggi Paradiso collabora al Viminale con il sottosegretario grillino Carlo Sibilia). La vicenda che ha portato Amara e il funzionario della polizia in carcere è basata su accuse di corruzione in atti giudiziari, nomine in procura e favori incrociati. La Casellati non è indagata, ma è più volte citata dai protagonisti dell’inchiesta (coordinata dal procuratore capo Francesco Curcio) come figura istituzionale di riferimento quando l’avvocata berlusconiana era componente laico del Consiglio superiore della magistratura.

La cricca di Taranto. La Guardia di finanza e la Squadra mobile della polizia, coordinati dal procuratore Curcio, hanno eseguito stamattina cinque misure cautelari nei confronti di avvocati e magistrati. Al centro delle trecento pagine dell’ordinanza c’è proprio Amara, che nelle scorse settimane è già finito sulle prime pagine dei giornali per le sue dichiarazioni in merito alla presunta “loggia Ungheria”, una sorta di associazione segreta costituita da toghe, professionisti, industriali e vertici delle istituzioni dedita – a suo dire – a scambi di favori, affari e nomine nella magistratura. I pm di Potenza però contestano all’ex legale dell’Eni fatti che con i verbali su “Ungheria” c’entrano marginalmente. L’accusa di Curcio è infatti quella di corruzione in atti giudiziari: Amara avrebbe “comprato” la funzione dell’allora procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo (anche lui sotto inchiesta e destinatario di un provvedimento di obbligo di dimora) attraverso scambi di favori e piaceri. Paradiso, anche lui in carcere, è accusato di essere stato intermediario tra i due, mentre gli altri indagati eccellenti sono Nicola Nicoletti, consulente dei commissari Ilva e socio della società di revisione Pwc, e l’avvocato Giacomo Ragno, fedelissimo di Capristo e principe del foro di Trani. La vicenda nasce e si sviluppa in Puglia, attorno al disastro dell’industria siderurgica Ilva. Capristo, procuratore di Taranto fino al 2020, avrebbe garantito una serie di incarichi e prebende ad Amara e Paradiso. Capristo avrebbe agevolato i due, scrive il gip, «per ottenere vantaggi nella sua carriera professionale». Nelle carte si legge che «tale interessamento sia di Amara che di Paradiso si manifestava in una incessante attività di raccomandazione, persuasione, sollecitazione svolta in favore di Capristo dai corruttori su membri del Csm (da loro conosciuti direttamente o indirettamente) e su soggetti ritenuti in grado di influire sui questi ultimi in occasione della pubblicazione di posti direttivi (negli uffici giudiziari ndr) vacanti d’interesse di Capristo ( tra cui la procura della repubblica di Taranto)».

Contatto Casellati. Le indagini sulle «sollecitazioni dei corruttori» Amara e Paradiso hanno portato i detective della finanza e della polizia fino alle più alte cariche dello stato. In primis Maria Elisabetta Alberti Casellati, che all’epoca in cui Capristo cercava di sistemarsi a capo della procura di Taranto sedeva come laica in quota Forza Italia nel Consiglio superiore della magistratura. «Se fossimo stati ancora a Trani avremmo provveduto ad inviare un bel messaggio di congratulazioni alla Presidente del Senato», è il messaggio inviato a Capristo da un amico. Il magistrato replicava: «Hai proprio ragione Mimmo caro ... spero di invitarla quando potrà. E' una grande donna come sai bene e si è sempre battuta per me .... E io non dimentico». Casellati, che secondo la procura di Roma è stata “trafficata”, cioè usata dall’amico Paradiso a sua insaputa, ha già smentito di aver favorito la nomina di Capristo all’epoca in cui ricopriva l’importante ruolo al Csm, e sentita da Paolo Ielo aveva escluso pressioni. Domani aveva dato conto dell’interrogatorio di Casellati, in cui spiegava che «Capristo venne nominato a Taranto all’unanimità. Ma Paradiso non ha mai interloquito con me». Negli atti dell’indagine di Potenza il nome della presidente del Senato ricorre però più volte. A ricordare ai magistrati di un incontro tra Paradiso e Casellati per la nomina di Capristo è prima Giuseppe Calafiore, avvocato coinvolto in altri scandali giudiziari con il socio Amara. La squadra mobile ha depositato un’informativa in cui sembra confermare addirittura un incontro diretto tra Amara e l’allora componente del Csm: «Casellati, presidente del Senato dal 24 marzo 2018 e componente laico del Csm che deliberava la nomina di Capristo nel 2016, dunque, aveva incontrato Amara che sponsorizzava Capristo, e aveva poi effettivamente votato a favore di Capristo per il posto di Procuratore di Taranto», si legge nell’informativa di polizia citata dal giudice delle indagini preliminari. Casellati, contattata, tuttavia smentisce: «Mai visto o conosciuto». Le tracce della genesi della nomina a procuratore di Taranto e delle possibili pressioni per spingere Capristo emergono anche dalle chat sequestrate a Luca Palamara, il magistrato accusato di corruzione a Perugia nell’inchiesta che svelato il sistema della spartizione degli uffici direttivi di procure e tribunali. Palamara e un suo collega commentavano la figura di Capristo, di cui si direbbero «cose pessime». Tuttavia Palamara si giustificava scrivendo «purtroppo troppe cose mi hanno schiacciato», evidentemente alludendo, precisano gli investigatori, al «peso delle pressioni ricevute per la nomina di Capristo, nonostante questi godesse di pessima reputazione». Possibile Palamara parlasse proprio della Casellati o di altri membri interni del Csm? Fatto sta che, al netto dei pregiudizi «pessimi», Capristo fu davvero votato all’unanimità per guidare la procura che doveva gestire i processi ambientali più delicati del paese.

Paradiso e l’amica presidente. Paradiso e Casellati si conoscono da tempo, come ha confermato la presidente ai pm di Roma. Il verbale è ora agli atti dell’inchiesta di Potenza. «Di lui mi parlò benissimo Gianni Letta», ha spiegato Casellati ai magistrati capitolini. «Letta mi chiese se potevo accoglierlo nel mio staff...io lo accolsi a ottobre 2018 al Senato a titolo gratuito nella qualità di consigliere per organizzazione di convegni». Dal gennaio 2019, poi, Paradiso termina l’esperienza, sostituito da Claudio Galoppi che dal Csm affianca l’amica Casellati come consigliere giuridico a palazzo Madama. Paradiso si traferisce al ministero dell’Interno come collaboratore di Carlo Sibilia fino all’arresto. «Nel periodo in cui ero al Csm», ha detto Casellati ai pm, Paradiso «mi parlava di questioni di geografia giudiziaria molto generali. Non ho memoria di interlocuzioni su specifiche nomine». Casellati insomma non ha «memoria» precisa. Capristo, al contrario, «non dimentica» che l’avvocatessa che sogna il Quirinale «si è battuta per me».

Arriva Boccia. I magistrati, ordinando l’arresto di Paradiso e Amara e l’obbligo di dimora per Capristo, dunque, credono che le informazioni ottenute da Calafiore siano veritiere. L’avvocato siciliano parla con i pm non solo degli incontri con la Casellati per sostenere Capristo, ma anche di altri interventi effettuati, innanzitutto quelli su Luca Palamara, anche lui al tempo membro del Csm. «Il Calafiore rivelava l'interesse economico concreto di Amara su Taranto, sia per l'aspetto professionale sia in relazione alle società a lui riconducibili, e riferiva del comportamento fattivo tramite il Paradiso, consistito nell'intercessione presso la Casellati, nell'indicazione della persona di Fabrizio Centofanti per fare pressione su Palamara, nel consenso alla nomina prestato dalla consigliera Paola Balducci su interessamento dell'onorevole Francesco Boccia e su input di Paradiso e Capristo; rivelava inoltre che Amara aveva interessato della vicenda anche l'onorevole Luca Lotti», si legge nelle carte dell’accusa. La coppia Amara-Paradiso opera dunque per i pm a tutto campo, anche perché l’ex ministro del Pd Boccia, sentito dai pm lucani, «confermava che Capristo (o Paradiso, il politico non ricorda bene ndr) gli avevano chiesto informazioni sulla procedura di nomina da parte del Csm del Procuratore di Taranto, confermava di averne parlato con la Balducci, la quale gli riferiva che il Capristo era uno dei "papabili"». Boccia (non indagato) escludeva di aver fatto pressioni di sorta.

«Nessun illecito». Ma l’attività di “relazioni istituzionali” degli arrestati nei confronti delle alte cariche dell’organo di autogoverno della magistratura, secondo i magistrati di Potenza, non sono penalmente sindacabili. Tanto che l’ordinanza precisa chiaramente che «sia in fatto che in diritto, l'attivazione Amara-Paradiso con attività di lobbing per la nomina del Capristo a Taranto non implica alcuna indagine sulla validità della nomina o la liceità della condotta dei membri del Csm». Una questione estranea alla richiesta del pm nel procedimento «e in relazione alla quale non viene delineato alcun profilo di rilevanza penale, che del resto esulerebbe dalla competenza di quest'ufficio». Se c’è scandalo, insomma, non è giudiziario. Ma “solo” politico: chat e interrogatori che disegnano un sistema in cui faccendieri e poliziotti sono in grado di avvicinare membri del Csm, politici e potenti per chiedere favori e raccomandazioni all’amico da far promuovere per il proprio tornaconto non sarà illegale. Ma non fa certo bene all’immagine delle istituzioni repubblicane e della magistratura.

Nicola Nicoletti, guai e affari del superconsulente che comandava all'Ilva. Collaboratore di Eni, Enel e dell'associazione degli industriali, è stato per anni il manager di fiducia dei commissari del gruppo siderurgico. E intanto, secondo i pm che indagano sul sistema Amara, ha partecipato a un'associazione per delinquere che ha insabbiato le inchieste sull'acciaieria. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 23 giugno 2021. Negli atti dell’inchiesta giudiziaria su Piero Amara e la sua rete di favori e corruzione, Nicola Nicoletti viene fotografato dagli inquirenti con due parole, «lanciato e rampante», che ne riassumono le ambizioni e il potere. Il manager di origini pugliesi, agli arresti da martedì 8 giugno, era diventato in pochi anni una sorta di direttore ombra dell’Ilva di Taranto, nonché referente diretto di Enrico Laghi, uno dei tre commissari dell’acciaieria in amministrazione straordinaria. È proprio lui, Nicoletti, a presentare Piero Amara al magistrato Carlo Maria Capristo, chiudendo così il cerchio di un’associazione per delinquere che secondo la tesi dell’accusa ha asservito la giustizia alle trame di una cricca di affaristi. Tanto potere non si spiega solo con l’abilità di un professionista, classe 1967, che in trent’anni di carriera si era fatto conoscere e apprezzare nelle maggiori aziende del Paese, dall’Eni all’Enel, e anche ai vertici di Confindustria, dove era diventato consulente per la legge 231, quella sulla responsabilità penale d’impresa. La chiave della scalata porta il marchio di Pricewaterhouse Coopers, in sigla Pwc, la multinazionale della consulenza aziendale e della revisione contabile di cui Nicoletti è partner e azionista sin dal 2007. Pwc che in Italia vanta un giro d’affari di oltre mezzo miliardo di euro, è da tempo una presenza fissa all’Ilva. Risale a pochi mesi fa, per esempio, l’incarico ricevuto da Arcelor Mittal in vista dell’ingresso dello Stato nel capitale del gruppo siderurgico. Nicoletti invece è sbarcato a Taranto nel 2013, chiamato dall’allora commissario Enrico Bondi. In quell’anno Pwc ottenne il primo mandato per «l’integrale revisione della organizzazione aziendale e del modello di gestione», come si legge in un documento dell’epoca. Negli anni successivi, almeno fino al 2018, l’incarico è stato sempre rinnovato. I commissari vanno e vengono, il consulente resta. A gennaio del 2015, Laghi e Corrado Carrubba affiancarono Gnudi, che nel frattempo aveva sostituito Bondi. Nicoletti diventa la «cinghia di trasmissione» tra i dirigenti di Ilva e la struttura dell’amministrazione straordinaria, per usare le parole, raccolte dai pm, del testimone Angelo Loreto, a lungo legale di fiducia dell’acciaieria. Nel 2016, dopo l’uscita a inizio anno del direttore generale Massimo Rosini, il potere del manager targato Pwc aumentò ancora, grazie soprattutto al rapporto diretto con Laghi. La svolta decisiva della storia, quella che secondo l’accusa porta Nicoletti a inserirsi da protagonista in una rete di favori illeciti e corruzione, arriva con la nomina di Capristo a procuratore capo di Taranto. Siamo a marzo del 2016, il magistrato che da Trani aspirava a un posto di vertice a Bari, ripiega sulla città dell’acciaieria grazie, sostengono i magistrati, al lavoro di Amara dietro le quinte del Csm. Poltrone, potere e soldi: ce n’è per tutti. Bisogna festeggiare. E infatti, con il procuratore in procinto di insediarsi a Taranto, i tre sodali si incontrano nella casa romana di Amara in piazza San Bernardo per quella che sarà definita la «cena della vittoria». Grazie al legame con Capristo, ricostruiscono i magistrati, Nicoletti riuscì ad accreditarsi con i commissari, a loro volta interessati a garantirsi buoni rapporti con la procura che indagava sul fronte ambientale e anche per la morte di due operai. Amara, da parte sua, passò all’incasso già nel 2016 quando ottenne due incarichi da Ilva. A raccomandarlo fu l’amico Nicoletti, che aveva già incrociato all’Eni di cui entrambi erano consulenti. Dalle carte dell’inchiesta emerge però che quei mandati non passarono al vaglio del comitato di sorveglianza, chiamato per legge, tra l’altro, a vagliare le nomine decise dei commissari. I magistrati sospettano, e lo mettono nero su bianco nell’ordinanza di custodia, che Laghi avesse «cinicamente intuito che la nomina di Amara significava garantirsi buoni rapporti con il procuratore Capristo». Tempo un anno e nel 2018 la stella di Nicoletti si oscura. La sua caduta coincide con quella di Amara, arrestato in un’altra indagine per corruzione giudiziaria, quella sul pm di Siracusa, Giancarlo Longo. A giugno dello stesso anno l’incarico a Pwc per la riorganizzazione aziendale non venne rinnovato dai commissari di Ilva.

Presunti favori ex Ilva: Potenza, arrestato Amara, obbligo dimora Capristo. In carcere anche un poliziotto. L'indagine riguarda presunti favori chiesti e ottenuti da Capristo in collegamento con l'ex Ilva di Taranto. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno l'08 Giugno 2021. L’ex magistrato Carlo Maria Capristo si sarebbe «venduto» all’avvocato siciliano Pietro Amara, l’uomo al centro delle presunte trame massoniche della loggia Ungheria, ottenendo un supporto nella nomina alla guida della Procura di Taranto e anche favori dall’amministrazione straordinaria dell’ex Ilva. E’ questo il tema dell’indagine che oggi ha portato la Procura di Potenza a eseguire l’arresto in carcere del legale siciliano e di un poliziotto barese, Filippo Paradiso, ritenuto stretto collaboratore di Capristo per cui invece è stato disposto soltanto l’obbligo di dimora a Bari avendo ormai lasciato la magistratura dopo l’arresto di maggio 2020. Ai domiciliari un avvocato di Trani, Giacomo Ragno, anche lui ritenuto amico di Capristo, e il commercialista Nicola Nicoletti, delegato dei commissari straordinari Ilva. I cinque sono accusati a vario titolo di abuso d’ufficio, favoreggiamento e corruzione in atti giudiziari. Nell’inchiesta è coinvolto a piede libero anche l’ex gip di Trani, Michele Nardi, che secondo le indagini – basate anche sui racconti dell’imprenditore Flavio D’Introno– avrebbe utilizzato la sua funzione di ispettore ministeriale sostenendo Capristo come candidato alla nomina a procuratore di Trani in cambio di una «tutela» rispetto alle indagini di interesse di Nardi aperte all’epoca a Trani. Capristo, Nardi, D’Introno, Ragno, l’ex pm tranese Antonio Savasta, il commercialista Massimiliano Soave e il ragioniere Franco Maria Balducci e il carabiniere Martino Marancia sono infine indagati a piede libero per concussione con l’accusa di aver truccato due fascicoli di indagine della Procura di Trani, imponendo alle «vittime» di nominare Ragno come avvocato o Soave e Balducci come consulenti. Le misure cautelari sono firmate dal gip di Potenza, Antonello Amodeo. L’indagine parte dall’esposto anonimo che nel 2015 Amara aveva fatto recapitare alla Procura di Trani con l’obiettivo di far emergere l’esistenza di un complotto ai danni dell’amministratore delegato dell’Eni, De Scalzi: Capristo all’epoca procuratore avrebbe disposto «lo svolgimento di indagini anche approfondite ed inconsuete, se non illegittime in considerazione della natura anonima dell’esposto, anche sollecitando in tale senso i colleghi co-delegati che invitava in più occasioni ad effettuare ulteriori approfondimenti investigativi che risultavano funzionali agli interessi di Amara». L’avvocato aveva infatti l’obiettivo «di rafforzare e “vestire” la tesi del complotto», così da accreditarsi come difensore dei vertici Eni. L’esposto verrà poi trasmesso, sempre « per compiacere le richieste di Amara», alla Procura di Siracusa dove finirà nelle mani del pm Giancarlo Longo (anche lui nel frattempo arrestato). Capristo avrebbe anche favorito Amara e Nicoletti, una volta diventato procuratore di Taranto, mostrandosi «più aperto, dialogante e favorevole alle esigenze dell’Ilva» su cui era in corso l’indagine recentemente arrivata a sentenza sul disastro ambientale. In questo modo – secondo l’accusa – Capristo avrebbe rafforzato nei confronti dell’amministrazione straordinaria «il convincimento che Amara e Nicoletti, nelle loro vesti di legale il primo e consulente factotum della amministrazione straordinaria il secondo, potessero più agevolmente di altri professionisti interloquire con la Procura di Taranto». Questo avrebbe portato a uno scambio di favori: incarichi legali ad Amara da parte di Nicoletti per la difesa dell’amministrazione straordinaria Ilva, e come consulente per la «trattativa» con Capristo che avrebbe dovuto condurre l’amministrazione straordinaria ad un patteggiamento della pena per l’indagine Ambiente Svenduto, richiesta poi rigettata dal gip. Capristo, secondo l’accusa «manifestava apertamente (…) la sua posizione “dialogante” con il Nicoletti e la sua benevola predisposizione ad assecondare e considerare le esigenze della struttura commissariale di Ilva determinando un complessivo riposizionamento» della Procura di Taranto «rispetto alle pregresse, più rigorose, strategie processuali ed investigative» impostate dal suo predecessore, Franco Sebastio: questo sarebbe avvenuto, ad esempio, sollecitando un sostituto a «concedere la facoltà d’uso» dell’Altoforno 2 «nonostante l’accertata parziale inadempienza da parte dell’Ilva alle prescrizioni». A fronte di questi «favori», Nicoletti avrebbe imposto ad alcuni dirigenti dell’Ilva di farsi difendere dall’avvocato Giacomo Ragno. Capristo, Casellati grande donna, si è sempre battuta per me -  La presidente del Senato Elisabetta Casellati «è una grande donna...e si è sempre battuta per me». E' quanto scriveva all’amico Mimmo Cotugno il 28 marzo del 2018 l'ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo in relazione alla vicenda della sua nomina. La chat è stata estratta da uno dei telefoni sequestrati agli indagati ed è riportata nell’ordinanza del Gip di Potenza secondo la quale l’avvocato Amara, per sostenere la nomina di Capristo, avrebbe avvicinato tramite il poliziotto Filippo Paradiso la presidente del Senato. «Se fossimo stati ancora a Trani - scrive Capristo all’amico - avremmo provveduto ad inviare un bel messaggio di congratulazioni alla presidente del Senato». E aggiungeva: «ha proprio ragione Mimmo caro...spero di invitarla quando potrà. E’ una grande donna come sai bene e si è sempre battuta per me...e io non dimentico». La Casellati, presidente del Senato dal 24 marzo del 2018 e componente laico del Csm che deliberava la nomima di Capristo nel 2016, scrive il Gip, «dunque, aveva incontrato Amara, che sponsorizzava Capristo, e aveva poi effettivamente votato a favore del Capristo per il posto di procuratore di Taranto». Nell’ordinanza è riportata anche un’altra chat del luglio del 2017, estratta dal telefono di Luca Palamara, in cui quest’ultimo e il consigliere del Csm Francesco Cananzi parlano di Capristo «di cui si direbbero 'cose pessime'.» Palamara, scrive il Gip, «proseguendo scriveva 'purtroppo troppe cose mi hanno schiacciato', evidentemente alludendo al "peso" delle pressioni ricevute per la nomina di Capristo, nonostante questi godesse di "pessima reputazione"». Legali di Capristo: «Ha sempre agito correttamente» - Carlo Maria Capristo «ha sempre agito correttamente e in piena conformità al suo ruolo di Procuratore di Trani e di Taranto». Lo hanno scritto - in una nota - gli avvocati difensori, Angela Pignatari e Riccardo Olivo. Riferendosi alle accuse al centro dell’inchiesta della Procura della Repubblica di Potenza, i legali di Capristo hanno evidenziato che si tratta di «fatti per lo più già passati al vaglio di altre Autorità giudiziarie, che non ne avevano ravvisato elementi di illiceità, ed assai risalenti nel tempo».  «Il più recente» dei fatti "sarebbe cessato - hanno aggiunto gli avvocati Pignatari ed Olivo - nel luglio di due anni orsono, gli altri si collocano dal 2008 al 2016». «Riservando ad una attenta disamina dell’ordinanza ogni valutazione sul merito delle accuse», i legali di Capristo hanno comunque sottolineato che «queste considerazioni, unite alle dimissioni dall’ordine giudiziario a far data dal 25 maggio 2020, rendono palese la mancanza di esigenze cautelari necessarie per giustificare nei suoi confronti l’obbligo di dimora nel comune di residenza (e non già “presso la propria abitazione”, come erroneamente riferito nel comunicato stampa diffuso dal Procuratore di Potenza. In ogni caso, nel merito - hanno concluso i due avvocati - sarà dimostrato che il dottor Capristo ha sempre agito correttamente e in piena conformità al suo ruolo di Procuratore di Trani e di Taranto». 

Arresti Potenza, Presidente Senato: «Paradiso era amico di Gianni Letta». Procura: «Anche Boccia si interessò alla nomina». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno l'08 Giugno 2021. Filippo Paradiso, il poliziotto barese stretto amico di Carlo Maria Capristo arrestato nell’ambito dell’inchiesta di Potenza, ha lavorato per i vertici dello Stato, da ultimo nello staff del presidente del Senato, Elisabetta Casellati (già componente del Csm), che sul punto è stata sentita a Roma il 10 luglio 2020. Casellati ne racconta i rapporti stretti con l’entourage di Berlusconi, in particolare con Gianni Letta. Ecco il verbale.

Domanda: conosce Filippo Paradiso. Se si quando e come lo ha conosciuto?

CASELLATI: «Conosco Filippo Paradiso. Non ho ricordi precisi, ma posso dire che il primo incontro con lui risale, credo di ricordare, all'autunno del 2015, ad una cena dell'associazione Giovanni XXIII. lo collaboravo con l'associazione e, all’epoca, anche con Don Benzi. E nell'ambito di questa collaborazione venne organizzato un convegno, credo di ricordare, nella prima parte del 2016. Filippo PARADISO è un funzionario di polizia, del quale il sottosegretario Gianni Letta mi parlava assai bene, per averlo conosciuto nel periodo del governo Berlusconi, quando aveva lavorato alla presidenza del Consiglio. Sì manifestava come uomo dì idee riferibili al centrodestra e per tali ragioni propose la sua candidatura per il partito, chiedendomi di caldeggiarla in quanto esponente della prima ora del partito, candidatura che poi non venne accettata. A seguito di tale fatto. Letta mi chiese se potevo accoglierlo nel mio staff, nel frattempo, nel marzo dei 2018, sono stata eletta Presidente del Senato. Io lo accolsi nel mio staff a ottobre del 2018 a titolo gratuito, nella qualità di consigliere, per l'organizzazione di convegni, in realtà avevo in animo di sostituirlo con il dr. Galoppi alla fine della sua esperienza al CSM come consigliere, cosa che nei fatti è avvenuta, dal gennaio 2019. Durante il periodo di nostra conoscenza, per quanto io possa ricordare, avrò incontrato il Paradiso 7-8 volte, sia nei periodo in cui ero membro del CSM (ricordo che sì è trattato di un periodo di lavoro molto intenso, con un mio impegno presso le commissioni Terza, Quarta e Quinta (quella che si occupa di nomine, ndr) anche in funzioni di Presidente della Terza, sia nel periodo successivo, più raramente. Nel periodo in cui ero al CSM mi parlava di questioni di geografia giudiziaria, molto generali. Non ho memoria di interlocuzioni su specifiche questioni o specifiche nomine. Nel periodo successivo, mi interfacciai con luì per delle partecipazioni al salone della Giustizia, del quale egli era uno degli organizzatori, e le pochissime volte in citi lo incontrai al Senato, dove non veniva quasi mai». (…)

Domanda: «Paradiso le ha mai parlato delle nomine cui era interessato il dottor Capristo?».

CASELLATI: «Premesso che sono stata relatrice delia pratica relativa alla nomina del Procuratore generale di Bari, in quell’occasione la mia proposta, che era la nomina di Capristo, risultò perdente. Poi Capristo venne nominato all'unanimità a Taranto anche se in questo caso io non ero il relatore. Paradiso anche in questo caso, per quanto io ricordi, non ha mai interloquito con me in ordine alle domande presentate dal dottor Capristo».

«In sostanza, - annota il gip Amodeo - la Presidente Casellati, nei confermare la sua conoscenza ed i suoi rapporti con il PARADISO, riferiva che, a sua memoria, Paradiso non aveva mai interloquito con lei in ordine alle nomine di Longo e Capristo e di non ricordare (né escludere) l’incontro con Longo per intermediazione del Paradiso». Tuttavia l’avvocato Giuseppe Calafiore, stretto collaboratore di Amara, ha invece riferito ai pm di Potenza che esisteva una lunga lista di persone che si era mossa per agevolare la nomina di Capristo: tra queste non solo Casellati ma anche l’ex ministro pugliese Francesco Boccia.

Anche Boccia è stato ascoltato il 21 luglio 2020 e – riassume in ordinanza il gip Amodeo - «ricordava di essersi interessato per la nomina di Capristo quale procuratore di Taranto, ma non rammentava se la sollecitazione provenisse da Capristo o da Paradiso o da entrambi. Ammetteva di avere, pertanto, chiesto alla Balducci, componente del CSM, aggiornamenti sul punto, ricevendo comunicazione che Capristo era uno dei “papabili”. [Boccia] escludeva, tuttavia, di avere fatto pressioni in tal senso su membri del Csm e di essere intervenuto su Lotti, compagno di partito, per favorire la nomina di Capristo». Il gip ha valorizzato anche i messaggi trovati nel telefonino di Capristo dalla Squadra mobile di Potenza, per concludere che «la Casellati, presidente del Senato dal 24 marzo 2018 e componente laico del Csm che deliberava la nomina di Capristo nel 2016, dunque, aveva incontrato Amara, che sponsorizzava Capristo, e aveva poi effettivamente votato a favore del Capristo per il posto di procuratore di Taranto».

«Dissequestrate Altoforno 4», così Capristo ai suoi pm. Sono alcuni degli elementi emersi dall’indagine coordinata dalla Procura della Repubblica di Potenza che oggi ha portato a quattro arresti e all’obbligo di dimora per l'ex procuratore. La Gazzetta del Mezzogiorno l'08 Giugno 2021. Presunti favori ex Ilva: Potenza, arrestato Amara, obbligo dimora Capristo. In carcere anche un poliziotto I pm: «Anche Boccia si interessò alla nomina». Nel 2016, in seguito all’incidente nell’ex Ilva di Taranto, che causò la morte dell’operaio Giacomo Campo, il Procuratore della Repubblica, Carlo Mario Capristo, "riceveva indicazioni» dall’avvocato Piero Amara per la nomina di Massimo Sorli quale consulente tecnico. Inoltre lo stesso Procuratore «sollecitava i suoi sostituti a provvedere con massima sollecitudine al dissequestro dell’Afo (Altoforno) 4, poi avvenuto in 48 ore». Sono alcuni degli elementi emersi dall’indagine coordinata dalla Procura della Repubblica di Potenza che oggi ha portato a quattro arresti e all’obbligo di dimora per Capristo. E, da Procuratore della Repubblica di Taranto, Capristo, "manifestava apertamente, all’esterno e all’interno del suo ufficio la sua posizione dialogante» con Nicola Nicoletti, consulente dei commissari Ilva in amministrazione straordinaria, accreditando così lo stesso Nicoletti e Amara «come elementi indispensabili» per la gestione dei rapporti con l’autorità giudiziaria. Secondo gli investigatori coordinati dalla Procura della Repubblica di Potenza, da parte di Capristo c'era inoltre una "benevola predisposizione ad assecondare e considerare le esigenze della struttura commissariale», determinando «un complessivo riposizionamento del suo ufficio rispetto alle pregresse, più rigorose strategie processuali e investigative manifestate dalla Procura della Repubblica diretta dal suo predecessore». Presunti favori ex Ilva: Potenza, arrestato Amara, obbligo dimora Capristo. In carcere anche un poliziotto I pm: «Anche Boccia si interessò alla nomina».

Ex Ilva, arrestato l’avvocato Amara. su Il Dubbio l'8 giugno 2021. L'uomo al centro dello scandalo verbali che ha travolto il Csm è stato consulente legale di Ilva quando l’azienda era in amministrazione straordinaria. In uno sviluppo dell’inchiesta condotta dalla Procura di Potenza sull’ex procuratore capo di Taranto, Carlo Maria Capristo, sono state disposte nuove misure cautelari in un filone riguardante l’ex Ilva di Taranto per presunti favori ad un imprenditore nei rapporti di lavoro con l’azienda siderurgica. Le misure riguardano l’avvocato siciliano Pietro Amara, l’ex procuratore Capristo, l’avvocato di Trani Giacomo Ragno e il poliziotto Filippo Paradiso. Nei confronti di Capristo è stato disposto l’obbligo di dimora. Amara, l’uomo al centro dello scandalo verbali che ha travolto il Csm, è stato consulente legale di Ilva quando l’azienda era in amministrazione straordinaria e, in tale veste, avrebbe avuto rapporti con Capristo. L’indagine nasce dal fascicolo, di cui la Procura di Potenza è competente per il coinvolgimento di magistrati, che portò all’arresto di Capristo il 19 maggio dello scorso anno quando l’ex procuratore capo della Procura jonica finì ai domiciliari con l’accusa di presunte pressioni a due magistrati insieme a tre imprenditori e ad un poliziotto. Per questa vicenda è iniziato il processo al Tribunale di Potenza.

Csm, il sistema Amara anche sull'Ilva. "Un pm amico per fermare le indagini”. Giuliano Foschini e Fabio Tonacci su La Repubblica il 9 giugno 2021. Arrestato l'avvocato già al centro dell'inchiesta sulla loggia Ungheria: è accusato di aver corrotto l'ex procuratore di Taranto, Capristo, dopo pressioni sul Csm per nominarlo. Obiettivo: manovrare il processo sull'inquinamento. La storia è quella a cui, da qualche tempo, ci si è quasi abituati: "Giustizia svenduta", per citare le parole del gip di Potenza, Antonello Amodei, da magistrati infedeli. E acquistata da affaristi, interessati a fare soldi. Nel ruolo dell'acquirente, insegna la cronaca degli ultimi anni, si trova spesso l'avvocato Piero Amara, legale siciliano condannato per corruzione in atti giudiziari, cuore dell'inchiesta di Perugia (e prima di Milano e in parte di Roma) sulla fantomatica loggia Ungheria, e da ieri in carcere su ordine del tribunale di Potenza: per il procuratore Francesco Curcio ha corrotto pm e pubblici ufficiali per far ottenere favori processuali ai suoi clienti.

Capristo, dal Petruzzelli alle agenzie di rating. Le inchieste della toga amante del karaoke. Bepi Castellaneta l'8/6/2021 su Il Corriere della Sera. Dall’inchiesta sull’incendio del teatro Petruzzelli di Bari a quella di Trani sulle agenzie di rating con il coinvolgimento di colossi della finanza internazionale; il tutto passando tra l’altro per il settore bancario con le verifiche sulle carte di credito revolving di American Express, ma anche per lo sconfinamento in campo televisivo con gli accertamenti sulle presunte pressioni berlusconiane per chiudere la trasmissione Annozero di Michele Santoro. Non si può certo dire che gli anni in toga di Carlo Maria Capristo, 68 anni, gallipolino di nascita ma barese di adozione, in magistratura dai primi anni Ottanta, appassionato di musica e karaoke nonché amante degli animali, siano passati inosservati. Tutt’altro. E questo già prima dell’approdo al vertice della Procura di Taranto dove il 6 maggio del 2016, durante la cerimonia di insediamento, assicurò: «Sono contrario alla spettacolarizzazione del processo Ilva come di altri processi». Fatto sta che proprio a Trani, dove Capristo è stato a lungo procuratore, si sono accavallate inchieste clamorose e altrettanto fragorose, puntualmente accompagnate da aspre polemiche e scandite da giornate complicate con ripetute sfilate di testimoni eccellenti ritenuti evidentemente indispensabili. Al punto che il Palazzo di giustizia della città, gioiello incastonato in uno scenario da cartolina tra la Cattedrale e l’Adriatico a una quarantina di chilometri da Bari, in quegli anni tumultuosi schizzò ben presto sotto i riflettori nazionali e internazionali trasformandosi nell’epicentro di un terremoto giudiziario che allungava le sue scosse persino all’estero. Come nel caso dell’inchiesta sulle agenzie mondiali di rating accusate di aver manipolato il mercato danneggiando l’Italia, un’indagine finita nel 2017 con una raffica di assoluzioni; ancora prima era invece evaporata in un’archiviazione quella sulle presunte pressioni di Silvio Berlusconi per la chiusura di Annozero. In realtà Capristo si è occupato di grandi inchieste anche in precedenza, soprattutto durante gli anni da sostituto procuratore nella sua Bari dove è molto noto per aver condotto le indagini sull’incendio doloso del teatro Petruzzelli, distrutto dalle fiamme il 27 ottobre del 1991. E pure allora furono polemiche, in particolare quando decise di ascoltare in ospedale un indagato malato terminale di Aids. Al centro delle indagini c’era l’ex gestore Ferdinando Pinto: alla fine fu assolto in via definitiva.

Le mani di Piero Amara sull’Ilva di Taranto: spunta un “patto” con il procuratore sulla pelle di due operai morti sul lavoro. Nelle pieghe dell’ordinanza che ha portato all’arresto dell’avvocato corruttore di magistrati emergono le anomalie delle indagini dopo due gravissimi incidenti mortali negli impianti dell’acciaieria. Antonio Fraschilla su La Repubblica il 9 giugno 2021. Un patto corruttivo che getta un’ombra sull’azione della giustizia nei confronti delle famiglie di due operai morti sul lavoro all’Ilva di Taranto. Con dissequestri lampo dopo gli incidenti, e quindi con indagini che sarebbero iniziate già con il piede sbagliato. Nelle pieghe dell’ordinanza del Gip di Potenza che ha portato agli arresti l’avvocato corruttore di giudici e aggiusta sentenze Piero Amara e all’emissione dell’obbligo di dimora per l’ex procuratore di Trani, prima, e poi di Taranto Carlo Capristo, emergono le posizioni a dir poco morbide di un pezzo della procura che su quelle morti ha indagato subito dopo gli incidenti. Con una magistrata che ha poi detto ai colleghi di Potenza di essersi sentita «delegittimata» da Capristo in alcune occasioni proprio in riferimento ai due incidenti sul lavoro che sono costati la vita ad Alessandro Morricella, che il 12 giugno del 2015 è stato investito da una fiammata mista a ghisa incandescente mentre misurava la temperatura di colata dell'altoforno 2, e a Giacomo Campo, che il 17 settembre del 2016 è rimasto schiacciato nel nastro trasportatore dell’altoforno 4. Secondo i magistrati di Potenza, coordinati dal procuratore Francesco Curcio, c’era un patto corruttivo tra Amara e Capristo, tramite il poliziotto e già componente dello staff della presidente del Senato Casellati, e poi del sottosegretario agli Interni Sibilia, Filippo Paradiso. Amara e Paradiso si sarebbero spesi, tramite le loro influenze e contatti con componenti di peso del Csm, per far nominare Capristo a Taranto, in cambio quest’ultimo avrebbe agevolato le posizioni degli enti difesi da Amara: l’Ilva, in amministrazione speciale, e l’Eni. Nelle trecento pagine dell’ordinanza si punta sul giro di influenze di questa banda di avvocati e faccendieri, con contatti che andavano da Casellati a Boccia, da Ferri ad Ermini e Verdini. E per i magistrati di Potenza, che hanno chiesto è ottenuto dal Gip Antonello Amodeo le misure cautelari non solo per Amara e Capristo, ma anche per consulenti come Nicola Nicoletti della Pwc e legali come Giacomo Ragno, in cambio Capristo si sarebbe messo a loro disposizione. Tanto che, si legge nell’ordinanza, i magistrati parlano di «stabile asservimento di Capristo e delle sue funzioni agli interessi degli indagati». Asservimenti che si sarebbero concretizzati anche in occasione delle indagini e delle azioni della procura all’indomani delle due morti sul lavoro. Come nel caso dell’operaio Campo, dipendente di una ditta esterna, che rimaneva stritolato nel nastro trasportatore che alimentava l’altoforno 4. Scrive il Gip: «In tale procedimento - nel contesto del descritto patto corruttivo con Capristo - Nicoletti aveva fatto sì che Ilva nominasse Amara quale difensore della persona giuridica (nomina del 19.9.16) e che l'interessato-indagato dirigente Ilva, Ruggiero Cola, nominasse Ragno quale difensore di fiducia». Fin qui non ci sarebbe nulla di anomalo. Ma sono le azioni di Capristo che, a dire dei magistrati di Potenza, paleserebbero il patto corruttivo. Capristo, dopo la morte di Campo, si sarebbe adoperato «in prima persona affinché́ si procedesse con massima sollecitudine al dissequestro dell’altoforno, poi avvenuto in 48 ore, peraltro sulla basa di un assunto conforme alla tesi dell'Ilva ma risultato infondato». La procura di Taranto infatti, aveva dissequestrato ritenendo che il mancato funzionamento dell'Altoforno e, quindi, il suo raffreddamento, avrebbe determinato la rottura dei refrattari che avvolgono la struttura dell'impianto con conseguente immissione di gas nell’aria. La procura ha nominato come perito un ingegnere suggerito da Amara: Massimo Sorli che «partiva da Torino la domenica stessa, 18 settembre 2016, giungendo a Taranto con volo aereo pagato da Amara tramite suo prestanome, Miano Sebastiano». Ma c’è di più. Non solo Capristo faceva questa nomina lampo, ma in conferenza stampa, poche ore dopo l’incidente, adombrava l’ipotesi che i dirigenti dell’Ilva potessero essere stati vittime di attività di sabotaggio in loro danno. «In particolare – si legge nell’ordinanza - insinuava esplicitamente in alcuni giornalisti il dubbio del sabotaggio e nella conferenza stampa tenuta poche ore dopo il dissequestro lasciava intendere agli organi di stampa che non si trascurava l'ipotesi investigativa secondo cui il sezionamento del nastro trasportatore potesse essere riconducibile a forze interne ed esterne all' llva che remavano contro il risanamento ambientale».  A riscontro di questa tesi i magistrati riportano il verbale di un legale dell’Ilva, Loreto, che ha detto: «I contatti con Nicoletti quel sabato furono reiterati e ricordo che ad un certo punto mi disse che aveva visto il Capristo che gli aveva assicurato che la cosa si sarebbe risolta e che l'llva e i suoi dirigenti non sarebbero stati coinvolti perché era evidente che la responsabilità  era della ditta appaltatrice, di cui Campo era dipendente e che provvedeva alla manutenzione del nastro». Solo lo scorso anno la procura di Taranto ha chiesto il giudizio di nove tra dirigenti e  responsabili dell’Ilva per la morte di Campo. L’ex procuratore Capristo, secondo la procura di Potenza,  ha un atteggiamento anomalo anche nelle indagini sulla morte dell’operaio Morricella. Il 16 giugno del 2020 viene ascoltata la magistrata Antonella De Luca: «Con riferimento ai procedimenti relativi all’Ilva di Taranto, mi sono occupata di un caso di un incidente sul lavoro - il caso Morricella. Inizialmente, con l’allora procuratore Sebastio, disponemmo d'urgenza il sequestro dell'altoforno - poi convalidalo e confermato. Successivamente venne emanato un decreto che rendeva inefficaci i sequestri di impianti di interesse nazionale. Venne sollevala questione di legittimità costituzionale della norma. Nel febbraio 2018 la Corte Costituzionale si pronunciò a nostro favore. Questo rafforzava la nostra posizione e consentiva certamente di revocare l'uso dell'altoforno. Dopo tale pronunciamento della Corte Costituzionale, ricordo vari incontri l’avvocato dell’Ilva, Loreto che erano, a mio avviso, troppo frequenti e  inopportunamente avallati dal Procuratore Capristo. Capristo spesso mi convocava in occasione di istanze difensive o di provvedimenti giurisdizionali, alla presenza del Loreto, quasi per prendere decisioni in contradditorio con lui ovvero per esternare allo stesso le nostre convinzioni in merito alle scelte processuali nostre e alle decisioni giurisdizionali prese. Con il procuratore Capristo ogni qual volta venisse presa una decisione dalla Procura seguiva un incontro con gli amministratori e soprattutto con Loreto». E si arriva al cuore della vicenda Morricella. Continua De Luca a verbale: «Nel momento cruciale del procedimento Morricella, venuta meno grazie alla Corte Costituzionale la norma che impediva il sequestro degli impianti, si doveva a mio avviso dare ordine di esecuzione dell'originario sequestro dell'Altoforno. Su questo argomento Capristo era in disaccordo. Tuttavia io ne ero convinta e lo stesso procuratore aggiunto Carbone in mia presenza disse a Capristo che era inevitabile l'ordine di esecuzione. Ripeto, Capristo mi disse che non voleva sentire parlare di spegnimento del forno e nei giorni successivi cominciò una serie di incontri con gli amministratori e Loreto. La cosa mi diede fastidio. Mi sentivo quasi delegittimata». Capristo, continua il Gip, dapprima sollecitava il pm titolare delle indagini a concedere la facoltà d'uso dell’altoforno, «nonostante l'accertata parziale inadempienza da parte dell'Ilva alle prescrizioni; poi concordava con Nicoletti, che conseguentemente esercitava pressioni sull'avvocato Francesco Brescia (dell'ufficio legale ILVA) affinché l'operatore sul "campo di colata" fosse indotto a confessare la sua esclusiva responsabilità onde escludere qualsivoglia coinvolgimento dell'azienda e della dirigenza; quindi richiedeva al pm titolare di valutare favorevolmente la posizione dell’ingegnere Ruggero Cola, difeso dall'amico avvocato Ragno, suggerendone lo stralcio e la definizione con richiesta archiviazione (senza raggiungere l'intento grazie alla opposizione del pm che non aderiva alla impostazione difensiva sebbene condivisa dal Procuratore); infine, approfittando del periodo di ferie del pm titolare - induceva il sostituto in servizio ad esprimere parere favorevole a tale facoltà d'uso”. 

Taranto: un’altra pagina Amara fatta di tresche, intrighi e toghe corrotte. La Procura di Potenza arresta l’avvocato e altri magistrati per le vicende oscure legate all’ex Ilva. Francesco Viviano su Il Quotidiano del Sud il 9 giugno 2021. Il tappo è saltato. A quanto pare l’enigmatico avvocato siracusano Pietro Amara, implicato in diverse vicende giudiziarie dall’Eni all’Ilva ed altro ancora e che avrebbe corrotto numerosi magistrati e funzionari pubblici e che con le sue rivelazioni, da “pentito”, ha fatto tremare e continua a far tremare il Consiglio Superiore della Magistratura, alti funzionari dello Stato e delle forze dell’ordine, non avrebbe più “protezioni”. Indagato da diverse procure ma non da quella di Milano dove era considerato un testimone chiave nell’inchiesta sull’ Eni, ieri l’avvocato Pietro Amara, è finito in carcere perché destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nell’ambito di un’inchiesta che riguarda presunti favori relativi a procedimenti che riguardavano l’ex Ilva di Taranto. E con lui sono finiti nell’inchiesta altri eccellenti indagati, come l’ex procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo, arrestato un anno fa per concussione e ieri destinatario di un provvedimento di obbligo di dimora. Amara è stato consulente legale di Ilva quando l’azienda era in amministrazione straordinaria e, in tale veste, avrebbe avuto rapporti – che la Procura di Potenza considera illeciti – con Capristo. Ed ancora, agli arresti domiciliari è finito l’avvocato tranese Giacomo Ragno (già condannato nell’ambito del processo sul “Sistema Trani”, che svelò atti di corruzione degli ex magistrati Michele Nardi e Antonio Savasta) nonché Nicola Nicoletti, socio di Pwc (PricewaterhouseCoopers) e già consulente Ilva. In carcere anche il poliziotto Filippo Paradiso, che avrebbe fatto da tramite tra Capristo e Amara. Sono indagati anche l’ex pm di Trani Antonio Savasta, l’ex gip Michele Nardi (già condannati per corruzione in atti giudiziari a 10 anni e 16 anni e 4 mesi); il consulente Massimiliano Soave, l’imprenditore Flavio D’Introno; il carabiniere Martino Marancia e Franco Balducci. Le ipotesi di reato contestate a vario titolo sono abuso d’ufficio, favoreggiamento, corruzione in atti giudiziari, corruzione nell’esercizio delle funzioni, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, concussione. Gli arresti di ieri non sono un fulmine a ciel sereno, ma incredibilmente, l’avvocato Amara, con la sua presunta o vera collaborazione con la procura di Milano dove ha scatenato un vero e proprio terremoto all’interno del palazzo di giustizia del capoluogo lombardo, se l’era cavata senza troppi danni. Dei rapporti non proprio legali tra l’avvocato Amara e l’ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo che a quanto pare deve la sua nomina proprio all’avvocato Amara e ad alcuni componenti del Csm che avevano approvato la sua nomina, erano stati denunciati un anno fa dal coordinatore dei Verdi Angelo Bonelli. Che adesso, dopo gli arresti di ieri, ricorda: “Se l’accusa fosse confermata sarebbe di una gravità inaudita, perché sono anni che come Verdi avevamo chiesto al CSM di intervenire sulla gestione Capristo a Taranto”. Ribadisce il coordinatore nazionale dei Verdi Angelo Bonelli che aggiunge. “Era il 3 luglio 2019 e pubblicamente chiedevo al CSM di valutare la sospensione dalle sue funzioni il procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo perché alle riunioni in procura sulla richiesta di patteggiamento nel processo “Ambiente Svenduto” partecipava anche l’avvocato Piero Amara coinvolto nel processo Eni o sistema Siracusa, inchiesta che coinvolse il 2 luglio anche il procuratore Capristo”. E, continua ancora Bonelli: “Nonostante le vicende giudiziarie di Amara fossero pubbliche, perché coinvolto nello scandalo delle sentenze pilotate del Consiglio di Stato – continua l’esponente dei Verdi – l’avvocato partecipò a delle riunioni in procura insieme all’ufficio commissariale per analizzare la vicenda del patteggiamento su Ilva. Il Csm non intervenne mai – ricorda Bonelli – e il procuratore Capristo rispose dopo poche ore alla mia richiesta al Csm affermando che l’avvocato Amara non era stato invitato dalla procura ma dall’ufficio commissariale: perché una persona indagata per corruzione e poi arrestata poteva partecipare a riunioni negli uffici della procura che riguardavano l’andamento del processo Ambiente Svenduto? Perché dopo l’arrivo dell’avviso di garanzia a Capristo, 2 luglio 2019, per abuso d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta Eni la stessa inchiesta dover era coinvolto l’avvocato Amara, il Csm non adottò nessun provvedimento e Capristo continuò a guidare la procura fino al 2020?”. “Una domanda a questo punto si rende necessaria: perché il CSM nominò il dottor Capristo alla guida della procura di Taranto, una città martoriata che ha pagato e paga un prezzo drammatico di vite umane?”. Insomma l’arresto di Pietro Amara da parte della Procura di Potenza potrebbe essere un segnale che ormai l’avvocato siracusano, non godrebbe più di quelle protezioni di cui fino ad ora ha goduto. L’avvocato Amara è custode di tanti segreti e tanti intrighi, non ultime le rivelazioni che ha fatto nei mesi scorsi alla Procura di Milano al Pm Paolo Storari al quale svelò l’esistenza di una loggia supersegreta “Ungheria” della quale, secondo Amara, farebbero parte esponenti politici, di varie istituzioni e soprattutto molti magistrati. Una lista di nomi di cui Amara conferma l’esistenza ma che non ha mai svelato ai magistrati. Dichiarazioni che hanno provocato uno scontro accesissimo all’interno della Procura di Milano che ha coinvolto anche l’ex componente del Csm e del pool di Mani Pulite Pier Camillo Davigo al quale Storari, avrebbe consegnato i verbali delle dichiarazioni di Amara che poi furono inviati dall’ex segretaria al Csm di Pier Camillo Davigo, ai giornali “Il Fatto Quotidiano” e “Repubblica” che però non pubblicarono quei verbali ma che comunque sono poi venuti fuori e sui quali non è stato fatto ancora chiarezza. Il ciclone Amara ormai ha intasato varie procure, dopo quella di Milano indaga anche quella di Perugia perché sono coinvolti alcuni magistrati romani e quella di Roma. Ma qualcuno potrebbe fare chiarezza? La Procura di Potenza sembra avere rotto gli argini e le “protezioni” di cui Amara, con le sue rivelazioni che alcuni considerano devastanti e preoccupanti, sembrano essere saltate. Insomma Potenza potrebbe essere un “apripista” per fare chiarezza su queste torbidissime vicende che ancora una volta testimoniano la grande influenza e relazioni ad alto livello che Amara aveva intessuto con mezzo mondo, pilotando sentenze e nomine al Consiglio Superiore della Magistratura ed in altre istituzioni statali.

I contatti lucani del sistema Amara, per i pm al centro di tutto c'era un poliziotto materano. Nella sua rete anche la presidente del Senato, Casellati, oltre a Capristo e al procuratore della città dei Sassi, Argentino. Leo Amato su Il Quotidiano del Sud il 9 giugno 2021. Sarebbe stato un poliziotto originario di Matera, Filippo Paradiso, a presentare l’avvocato Piero Amara all’ex procuratore di Taranto, Carlo Capristo. Ma anche chi teneva i rapporti con diversi esponenti del Consiglio superiore della magistratura, come l’attuale presidente del Senato Elisabetta Casellati. E chi avrebbe propiziato l’assunzione nello studio di Amara, all’epoca consulente dell’amministrazione straordinaria dell’Ilva, di uno dei magistrati che più a lungo si è occupato delle indagini sull’acciaieria. Vale a dire l’attuale procuratore di Matera, Claudio Argentino. È quanto emerge dagli atti dell’inchiesta della procura di Potenza per cui ieri sono finiti in carcere sia Paradiso che l’avvocato siciliano, alla ribalta da settimane per le sue dichiarazioni ai pm di Milano sull’esistenza di una presunta superloggia massonica segreta “Ungheria” composta da magistrati ma anche forze dell’ordine, alti dirigenti dello stato e alcuni imprenditori». Dichiarazioni che hanno acceso uno scontro senza precedenti anche all’interno del Csm. A svelare agli inquirenti il ruolo di «relation man» di Paradiso, secondo la dizione utilizzata dai magistrati, sarebbe stato un ex socio di Amara, Giuseppe Calafiore, coinvolto nell’inchiesta sulla compravendita di sentenze in Consiglio di Stato e il cosiddetto «sistema Siracusa, per cui vennero entrambi arrestati nel 2018. Ai pm di Perugia, che poi hanno trasmesso i verbali a Potenza, Calafiore aveva raccontato dei soldi che Amara passava al poliziotto curargli buone relazioni romane, e andare «a cena con diversi membri del Csm». Come pure di un incontro propiziato da Paradiso tra un magistrato, che aspirava a una nomina da parte del Csm, ed Elisabetta Casellati, all’epoca ancora soltanto membro laico dell’organo di autogoverno della magistratura. A luglio dell’anno scorso, quindi, l’attuale presidente del Senato è stata sentita come persona informata dei fatti ed ha confermato di averlo conosciuto, nel 2015. Come pure di averlo anche assunto per un periodo nel suo staff, «a titolo gratuito». Ma ha detto di non ricordare di aver parlato con lui di Capristo e delle sue aspirazioni di carriera come procuratore, prima a Bari e poi a Taranto. «È un funzionario di polizia – ha spiegato Casellati – del quale il sottosegretario Gianni Letta mi parlava assai bene per averlo conosciuto nel periodo del governo Berlusconi, quando aveva lavorato alla Presidenza del Consiglio (…) per quanto io ricordi, non ha mai interloquito con me in ordine alle domande presentate dal dottor Capristo». Sempre da Perugia sono stati trasmessi a Potenza anche alcuni dati estratti dallo smartphone dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, da due anni al centro dello scandalo sulle nomine pilotate al Csm. Ma «al fine di comprendere la effettiva entità della capacità relazionale» di Paradiso, il gip Antonello Amodeo, che ha firmato l’ordinanza eseguita ieri mattina dagli agenti delle Fiamme gialle di Potenza, cita anche un altro episodio «egualmente rilevante» riguardante il rapporto con Pietro Argentino, attuale procuratore di Matera ma «all’epoca procuratore aggiunto a Taranto». A raccontarlo agli inquirenti è stato uno dei legali dell’Ilva di Taranto, Angelo Loreto, che l’anno scorso, parlando con un giornalista senza sapere di essere intercettato, gli avrebbe confidato il retroscena dell’assunzione del figlio di Argentino nello studio di Amara. «Inizialmente Argentino ne aveva parlato proprio con Loreto», è riportato nel brogliaccio con la sintesi della conversazione effettuata dagli investigatori. «Successivamente proprio Loreto aveva appreso da Amara che la segnalazione (…) era andata a buon fine». «Secondo Loreto – prosegue il brogliaccio – detta comunicazione era stata fatta da Amara al telefono in modo tale da evitare qualsiasi riferimento al coinvolgimento di Paradiso. Tuttavia, così come riferitogli direttamente dal figlio del dottor Argentino, il buon esito della vicenda era da imputare proprio a Filippo Paradiso, che conosceva anche il dottor Argentino». Né il procuratore di Matera, né il figlio, né Loreto risultano iscritti sul registro degli indagati della procura di Potenza.

Il blitz della Procura di Potenza. Amara arrestato, tremano i magistrati: vuoterà il sacco? Paolo Comi su Il Riformista il 9 Giugno 2021. E adesso cosa succede? Molti magistrati, sicuramente, da ieri notte hanno bisogno di qualche dose massiccia di ansiolitico per poter prendere sonno. Piero Amara, dopo aver mandato per mesi messaggi trasversali e confidando di essere diventato il super pentito – intoccabile – di tutte le malefatte togate, è stato arrestato dalla Procura di Potenza. I pm lucani, a dire il vero, hanno fatto quello che avrebbero dovuto fare da tempo i colleghi di almeno tre o quattro Procure. Amara, invece, per circostanze a questo punto tutte da verificare, era sempre stato graziato e lasciato in libertà. La doccia fredda per l’ideatore del “Sistema Siracusa”, il sodalizio finalizzato a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e ad aggiustare i processi in giro per l’Italia, è arrivata ieri mattina. Le indagini sono state condotte direttamente dal procuratore Francesco Curcio, toga progressista, il cui arrivo a Potenza, come si ricorderà, era stato alquanto travagliato. Curcio, dopo un lungo passato a Napoli, nel 2018 era stato votato all’unanimità in Plenum. A gennaio dell’anno scorso, dopo un lungo contenzioso amministrativo, il Consiglio di Stato aveva annullato la sua nomina accogliendo il ricorso di Laura Triassi. Il Consiglio superiore della magistratura, allora, rimotivava la delibera di nomina, destinando nel frattempo la dottoressa Triassi alla Procura di Nola. Già magistrato della Dna, da pm a Napoli aveva indagato sulla P4, sulla compravendita dei senatori e su Finmeccanica, condividendo la titolarità di queste inchieste con il collega Henry John Woodcock. In caso di trasferimento del procuratore di Napoli Giovanni Melillo a Milano, è uno dei candidati di punta per prenderne il posto. Amara, secondo Curcio, grazie all’appoggio dell’ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, voleva farsi accreditare come legale esterno presso l’Eni e l’Ilva. Per raggiungere lo scopo aveva predisposto alcuni esposti anonimi, dalla “palese strumentalità”, prospettando “la fantasiosa esistenza di un preteso (e in realtà inesistente) progetto criminoso, che mirava, in modo ovviamente artificioso a destabilizzare i vertici dell’Eni e in particolare a determinare la sostituzione dell’amministratore delegato Descalzi che in quel momento era invece indagato dall’autorità giudiziaria di Milano”. L’avvocato siciliano si spendeva per “una incessante attività di raccomandazione, persuasione, sollecitazione svolta, in favore di Capristo, su membri del Csm” insieme al poliziotto Filippo Paradiso, distaccato presso la Presidenza del Consiglio. Capristo, fino al 2016, era stato procuratore di Trani. Tale attività veniva svolta su membri del Csm, conosciuti “direttamente o indirettamente” e veniva svolta pure su “soggetti ritenuti in grado di influire su questi ultimi, in occasione della pubblicazione di posti direttivi vacanti d’interesse del Capristo”. Insieme ad Amara e Paradiso sono stati arrestati l’avvocato Giacomo Ragno e Nicola Nicoletti, già consulente esterno della struttura commissariale dell’Ilva. Solo obbligo di dimora per Capristo. Sequestrata la somma di 278.000 euro nei confronti di Ragno, pari all’importo delle parcelle professionali pagate da Ilva in suo favore. Altre cinque persone sono indagate, senza misure cautelari a loro carico. Fra questi gli ex magistrati Antonio Savasta e Michele Nardi. Una storia, dunque, che ricorda in fotocopia quando accaduto a Siracusa. In Sicilia il magistrato prescelto era Giancarlo Longo che, secondo le intenzioni di Amara, doveva essere poi nominato procuratore di Gela, cittadina siciliana dove l’Eni ha una delle più grandi raffinerie del Paese. Ad Amara, circostanza molto curiosa, in questi anni nessun magistrato ha mai sequestrato un euro, essendo però evidente che le sue grandi ricchezze erano frutto di attività corruttive per aggiustare i processi. Quando il pm romano Stefano Fava aveva chiesto di arrestarlo, come raccontato nelle scorse settimane dal Riformista, il fascicolo gli era stato tolto al termine di uno scontro violentissimo con l’aggiunto Paolo Ielo e il procuratore Giuseppe Pignatone. Nel frattempo Amara, sempre a piede libero e con il conto in banca benfornito, aveva continuato a mandare messaggi trasversali. L’ultimo in ordine di tempo era quello relativo all’esistenza della loggia super segreta “Ungheria”. Sulle sue dichiarazioni a tal proposito ai pm di Milano per mesi non sono mai state fatte indagini. Circostanza che aveva determinato la consegna dei suoi verbali da parte del pm Paolo Storari all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Amara, per non farsi mancare nulla, è al centro pure dell’inchiesta della Procura del capoluogo lombardo sul cosiddetto “falso complotto Eni”: ai magistrati milanesi aveva dichiarato che il presidente del collegio che ha giudicato i vertici del colosso petrolifero accusati di corruzione internazionale era stato avvicinato dai legali di questi ultimi. Da oggi si apre un altro scenario. Nessuna sorpresa intanto dall’altro fronte caldo, quello del caso Palamara. La Procura generale della Cassazione, guidata da Giovanni Salvi, ha chiesto alle Sezioni Unite civili della Suprema Corte, di confermare la rimozione dell’ex leader dell’Anm dalla magistratura, così come deciso dal Csm lo scorso 9 ottobre. Per Salvi non ci sono motivi per rinviare la decisione definitiva sulla vicenda disciplinare di Palamara e nemmeno per mettere in discussione l’utilizzo delle intercettazioni del suo cellulare, infettato dal trojan come richiesto dalla difesa di Palamara, captazioni che hanno messo nei guai molti altri colleghi dell’ex presidente dell’Anm, che ambiva a fare l’Aggiunto nella capitale. Paolo Comi

Caso Capristo: la rete di Paradiso per l’amico giudice. Da domani interrogatori ad Amara, l'11 giugno all'ex procuratore. Ecco chi è il funzionario di polizia finito nel mirino della Procura di Potenza. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Giugno 2021. Presunti favori ex Ilva: Potenza, arrestato Amara, obbligo dimora Capristo. In carcere anche un poliziotto I pm: «Anche Boccia si interessò alla nomina». Filippo Paradiso è un uomo con un passato molto discusso, che lui stesso definisce «una terribile esperienza giudiziaria», ma che non gli ha impedito di frequentare le segreterie politiche dell’intero arco costituzionale. È stato lui a presentare l’avvocato Amara al procuratore Capristo. E con i suoi rapporti privilegiati - documenta l’indagine di Potenza - Paradiso è stato in grado di mettere insieme una squadra di altissimo livello per portare Capristo alla guida della Procura di Taranto. Chi è Paradiso? E perché ha «relazioni istituzionali» che gli permettono di trattare con ministri e magistrati? Chi indaga lo ha chiesto al suo ultimo datore di lavoro politico, la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, che per un breve periodo lo ha tenuto nel suo staff. «È un funzionario di polizia, del quale il sottosegretario Gianni Letta mi parlava assai bene», ha detto a verbale Casellati, che lo ha ingaggiato «a ottobre del 2018 a titolo gratuito, nella qualità di consigliere, per l’organizzazione di convegni». Casellati (che dal 2014 al 2018 è stata membro laico del Csm) nega di aver fatto parte della «squadra» che ha sponsorizzato Capristo. Ma la Procura di Potenza valorizza un messaggino trovato nel cellulare di Capristo («È una grande donna come sai bene e si è sempre battuta per me») e un appuntamento con Amara organizzato da Paradiso, e annota che tra chi votò per Capristo, nel 2016, c’era anche la Casellati che però ieri ha smentito «di aver mai incontrato l’avvocato Amara». Secondo la Procura di Potenza non era l’unica amica. È l’avvocato Giuseppe Calafiore a fare l’elenco delle persone coinvolte nel piano dal suo ex socio Pietro Amara e da Paradiso: non solo componenti del Csm, ma anche politici e imprenditori di altissimo livello. «Emergevano, invero - oltre al più volte menzionato Palamara - i nomi dei componenti del Csm, Forciniti (Marco, togato di Unicost, ndr) e Balducci (Paola, laico ex vendoliano, ndr); gli onorevoli Boccia e Lotti; l’imprenditore Bacci, vicino alla famiglia Renzi, Sia Boccia che Bacci, sentiti sul punto, confermavano che Paradiso si era interfacciato con l’onorevole Boccia e che l’imprenditore Bacci aveva conosciuto Capristo tramite Paradiso». Anche l’ex ministro Boccia (nessuna delle persone citate in questo paragrafo è indagata) è stato sentito a Potenza come testimone, e ha confermato il suo interessamento escludendo qualunque tipo di pressione indebita: «Mi venne richiesto dal dottor Capristo o forse da Paradiso dì avere informazioni sulla procedura di nomina da parte del Csm per il procuratore di Taranto. In tale contesto ebbi a richiedere tali informazioni a Paola e appresi dalla Balducci stessa che Capristo era uno dei papabili per la nomina. Ben mi sono guardato, rispettando l’autonomia dell’organo, di fare pressioni o altro e semplicemente raccolsi questa informazione generica e ben nota». Nella «squadra», secondo Potenza, c’era anche l’ex gip tranese Michele Nardi. È un avvocato di Trani, Giuseppe Maralfa, a raccontare ai carabinieri un curioso episodio: a fine 2015, incontrato per caso Nardi in stazione a Barletta, il magistrato gli chiede un passaggio fino a casa e gli dice «che a breve Capristo sarebbe stato trasferito alla procura di Taranto e che al suo posto sarebbe arrivato Antonino Di Maio, sponsorizzato dallo stesso Nardi in quanto Di Maio conosceva Capristo e avrebbe garantito continuità. Maralfa replicava che non si parlava affatto di trasferimenti e di quei nomi, ma Nardi lo scherniva dicendo “ma tu che ne sai”». Una ricostruzione confermata dall’ex pm Antonio Savasta, condannato come Nardi per l’indagine di Lecce sulla giustizia svenduta. «Nardi mi riferì che sicuramente Capristo sarebbe andato a fare il procuratore a Taranto. Di seguito, con altrettanta sicurezza, Nardi mi precisò anche che a Trani sarebbe arrivato il dottor Di Maio come procuratore». E il grande accusatore dei giudici tranesi, Flavio D’Introno, racconta ancora un altro episodio: «Io aspettavo davanti la stanza dei procuratore e Nardi entrava nell'ufficio di Capristo per dare le indicazioni allo stesso Capristo».

GLI INTERROGATORI A POTENZA - Cominceranno domani dinanzi al gip di Potenza Antonello Amodeo gli interrogatori di garanzia degli arrestati nell’ambito dell’indagine su presunti episodi corruttivi per pilotare indagini penali, tra le quali quella sull'ex Ilva di Taranto, che coinvolge l’avvocato siciliano Piero Amara (finito in carcere) e l’ex procuratore di Trani e Taranto Carlo Maria Capristo (per lui è stato disposto l’obbligo di dimora). Il primo interrogatorio fissato è quello di Filippo Paradiso, il poliziotto materano considerato il collegamento tra Amara e Capristo. Paradiso, assistito dagli avvocati Michele Laforgia e Gianluca Tognozzi, potrà rispondere domani alle domande del gip a partire dalle 10.30, collegato da remoto dal carcere. Poi toccherà ad Amara (non è noto quando), mentre non sono stati ancora fissati gli interrogatori degli altri due indagati che sono agli arresti domiciliari, l’avvocato tranese Giacomo Ragno e l’ex consulente di Ilva in AS Nicola Nicoletti, e dell’ex procuratore Capristo che è sottoposto alla misura dell’obbligo di dimora a Bari. «L'ipotesi di reato appare travisata in fatto ed erronea in diritto». Lo ha detto  l'avvocato Salvino Mondello, difensore dell’avvocato Piero Amara, arrestato ieri per corruzione in atti giudiziari nell’ambito di un’inchiesta coordinata dalla Procura della Repubblica di Potenza su vicende giudiziarie di Trani e dell’ex Ilva di Taranto. «La misura cautelare - ha aggiunto Mondello - non sembra giustificabile giuridicamente a fronte di fatti privi di qualsiasi attualità». Intanto si terrà domani mattina, alle ore 12, nel carcere di Potenza davanti al gip Antonello Amodeo, l'interrogatorio di garanzia dell’avvocato Piero Amara, arrestato ieri nell’ambito di un’inchiesta coordinata dalla Procura della Repubblica di Potenza su vicende giudiziarie di Trani e dell’ex Ilva di Taranto. La Guardia di Finanza e la Polizia ieri hanno eseguito anche una misura di custodia cautelare in carcere per il poliziotto Filippo Paradiso, e ai domiciliari per l’avvocato di Trani Giacomo Ragno e per Nicola Nicoletti, che è stato consulente dei commissari dell’ex Ilva dal 2015 al 2018. La misura dell’obbligo di dimora a Bari è stata invece disposta per l’ex Procuratore di Trani e Taranto, Carlo Maria Capristo. 

Alessandro Da Rold per "la Verità" il 9 giugno 2021. Inizia a dipanarsi la matassa che in questi anni ha avvolto la magistratura e soprattutto le inchieste collegate all' Eni. Filippo Paradiso (classe 1966), infatti - il poliziotto di Matera arrestato che lavora al Viminale insieme con il sottosegretario grillino Carlo Sibilia - era un fedelissimo di Piero Amara ma conosceva bene anche Vincenzo Armanna, il grande accusatore nel processo Opl 245 di Claudio Descalzi, l' amministratore delegato di Eni. I tre parlavano tra loro su Wickr, l' applicazione che consente messaggi criptati e non intercettabili. Lo si scopre leggendo le 306 pagine di custodia cautelare dove emerge una rete interna alle Procure di mezza Italia, che passa da Trani per arrivare fino a Milano. Era un sistema che non solo aveva l' obiettivo di controllare le nomine nei tribunali ma anche di coordinare le inchieste. Del resto l' ordinanza rivela come sarebbe stato proprio Paradiso a fornire ad Armanna i verbali secretati resi da Amara a Milano sulla loggia Ungheria, poi sventolati di fronte a Paolo Storari e Laura Pedio, prima che li ricevesse Piercamillo Davigo. «Avevo interesse a conoscere delle dichiarazioni» spiegò Armanna ai pm milanesi. «Mi sono rivolto a Filippo Paradiso attraverso Wickr». Non solo. Paradiso è anche il punto di congiunzione tra Amara e l' ex capo della Procura di Trani Carlo Capristo, nato quando uno dei falsi dossier contro Descalzi (creato da Amara) venne inviato nella Procura pugliese e che poi finì a Siracusa, all' ex pm Giancarlo Longo, altro sodale dell' avvocato siciliano. A Trani quell' esposto su Descalzi fu consegnato a mano, senza neppure il timbro postale da un anonimo, come rivela Maddalena Longo, funzionario di cancelleria della Procura. Una mossa che avrebbe garantito a Capristo l' aiuto di Amara e del suo entourage per ottenere i voti del Csm per diventare nel 2016 il nuovo procuratore di Taranto. In questi anni Paradiso - dopo la breve parentesi con il presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati (fu subito sostituito nel 2019 da Claudio Galoppi) - è sempre stato considerato l' eminenza grigia del Movimento 5 Stelle. Aveva un ruolo di primo piano nel partito di Beppe Grillo, anche perché quando fu indagato il 21 maggio dopo l' arresto del procuratore di Taranto, non era stato allontanato dai grillini. Data la vasta rete di conoscenze, è stato infatti una delle anime nel dietro le quinte di Parole guerriere, una sorta di think tank a 5 Stelle dove erano di casa i vertici pentastellati, come Roberto Fico, Paola Taverna, Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista e Nicola Morra. Gli stessi grillini che spesso, anche tramite Il Fatto Quotidiano, avevano attaccato l' Eni e Descalzi. Ma oltre alla politica, Paradiso era una pedina fondamentale di Amara. A spiegarlo è Giuseppe Calafiore, ex socio dell' avvocato siciliano, in uno degli interrogatori di fronte ai magistrati romani. «Amara utilizzava Paradiso per fare il relation man. Paradiso andava a cena con diversi membri del Csm. Lo utilizzava e lo pagava. [] gli dava anche la carta di credito a questo Paradiso». Secondo Calafiore, infatti, il poliziotto del Viminale veniva di fatto mantenuto dall' avvocato siciliano. «Lavorava cioè come applicato politico al ministero degli Interni e quindi lei si immagini uno che guadagna... sono forse 1500 euro, 2.000 euro al mese... che vive a Roma, tutte le sere a cena con chiunque cioè come fa, è tecnicamente impossibile». Una volta «l' ha foraggiato davanti a me in studio e gli ha dato 2.100 euro». La stessa moglie di Paradiso, Lucia Giuliano, era retribuita da un consorzio, proiezione della società Tecnomec che fatturava ad Eni ed Ilva e i cui affari erano seguiti da una società dell' avvocato di Augusta. Amara e Paradiso parlavano tramite l'applicazione Wickr. A rivelarlo è proprio il poliziotto in un verbale del 2 febbraio del 2020, dove di fronte a Paolo Storari e Laura Pedio nell' inchiesta sul falso complotto Eni. «Ho conosciuto Piero Amara nel periodo in cui sono stato assegnato al ministro Saverio Romano di cui Amara era molto amico». Paradiso a Milano racconta anche la sua storia, una lunga carriera nella polizia di Stato, dal 1985 al 2004, dove ricopre il grado di assistente. Ma poi, «a seguito di una terribile esperienza giudiziaria ho scelto di non tornare nel servizio attivo e sono sempre stato comandato presso varie segreterie particolari di alcuni ministeri». Da Rocco Buttiglione a Maurizio Martina fino a Nunzia De Girolamo e Matteo Salvini.

François De Tonquédec per “La Verità” il 9 giugno 2021. Dietro la nomina a procuratore di Taranto di Carlo Maria Capristo, emerge dall' ordinanza di arresto emessa dal gip di Potenza, ci sarebbe una «incessante attività di raccomandazione, persuasione e sollecitazione svolta da Amara e Paradiso su alcuni membri del Csm (da loro conosciuti direttamente o indirettamente) e/o su soggetti ritenuti in grado d' influire su questi ultimi [...] tenendo conto che, proprio nel circondario della Procura di Taranto, Amara aveva particolare interesse a insinuarsi, in ragione del contesto giudiziario gravitante intorno ad Ilva Spa». Un' operazione che «gli avrebbe garantito come poi avvenuto nuovi incarichi, lauti guadagni professionali, sviluppi imprenditoriali connessi alle società di bonifica ambientale a lui riconducibili». Secondo il gip, ad agevolare, inconsapevolmente, il disegno di Piero Amara sarebbe stato l' ex ministro per gli Affari regionali del secondo governo Conte, Francesco Boccia. All' epoca della nomina di Capristo il deputato del Pd su sollecitazione dello stesso magistrato o del poliziotto distaccato al ministero dell' Interno Filippo Paradiso si sarebbe rivolto all' allora consigliere laico del Csm Paola Balducci, eletta nel 2014 in quota Sel, partito di cui è stata responsabile giustizia. Pugliese come Boccia, Balducci tra il 2005 e il 2006 è stata assessore regionale alla Pubblica istruzione durante la presidenza di Nichi Vendola, che aveva come suo avversario alle primarie di coalizione del 2005 e del 2010 proprio Boccia. A raccontare per primo ai magistrati di Potenza l' operazione di lobbying giudiziario portata avanti dall' entourage di Amara è stato l' avvocato Giuseppe Calafiore, che ha dichiarato a verbale: «Ho conosciuto Paradiso nel 2013-2014, me lo presentò Amara []. Paradiso aveva un grande interesse affinché Capristo andasse a Taranto». Per poi entrare nel dettaglio e raccontare un incontro tra Paradiso e Fabrizio Centofanti, lobbista romano vicino ad Amara: «Si confrontarono comunque sullo stato della pratica "Capristo a Taranto" e Paradiso spiegò che la situazione era ancora incerta proprio perché bisognava capire la posizione che Palamara (Luca Palamara, ndr) avrebbe assunto unitamente alla sua corrente ma che era stato fatto un passo avanti poiché l' avvocato Balducci, componente del Csm, a detta del Paradiso, aveva dato l' ok per la nomina di Capristo a Taranto su interessamento dell' onorevole Boccia del Pd, che non so dire se abbia agito su input di Paradiso o di Capristo o più verosimilmente di entrambi». Ma non è l'unico dettaglio svelato da Calafiore: «Nell' occasione preciso anche», ricorda l' avvocato, «che per la nomina di Capristo a Taranto venne anche interessato da Amara, su richiesta di Paradiso, l' onorevole Lotti (Luca Lotti, ndr) notoriamente molto vicino alla famiglia Renzi. Questa circostanza mi è stata raccontata da Amara. Il quale mi disse che fu fatto un incontro presso la sua abitazione [] fra lui, Capristo, Paradiso e Bacci (imprenditore fiorentino vicino alla famiglia Renzi, che aveva intensi rapporti con il nostro studio). Doveva sopraggiungere Lotti che tuttavia tardò di molte ore, fino a che non si vide con i predetti, poco prima di mezzanotte, in una trattoria romana al centro». Ma stando al racconto di Calafiore, Lotti non era entusiasta delle richieste che gli pervenivano: «Amara, particolarmente indispettito per il ritardo del Lotti, disse che quest' ultimo, quando gli venne rappresento che era necessario che lui stesso intervenisse su alcuni componenti del Csm (Amara non mi disse quali) che si opponevano e facevano ostruzionismo alla nomina di Capristo rispose risentito che anche l' onorevole Boccia si era rivolto a lui con analoga richiesta ma che lui era stanco del fatto che Boccia, la mattina, lo contrastava politicamente essendo contrario a Renzi e la sera gli chiedeva i favori». Sentito anche lui dai pm del capoluogo lucano, Boccia ha confermato il suo interessamento alla posizione di Capristo: «Se non ricordo male ma mi sfugge il contesto in cui ciò è avvenuto, mi venne richiesto dal dottor Capristo o forse da Paradiso di avere informazioni sulla procedura di nomina da parte del Csm per il procuratore di Taranto. In tale contesto, così come la signoria vostra mi chiede, ebbi a richiedere tali informazioni a Paola e appresi dalla Balducci stessa che Capristo era uno dei papabili per la nomina». L'ex ministro, nelle sue dichiarazioni, ha smentito di essersi rivolto a Lotti (anche lui, a quanto risulta alla Verità, smentisce in toto la ricostruzione di Amara, con il quale l'incontro sarebbe stato del tutto casuale) per la questione, e tiene a precisare i confini del suo interessamento: «Ben mi sono guardato, rispettando l'autonomia dell' organo, di fare pressioni o altro e semplicemente raccolsi questa informazione generica e ben nota». Per il gip «le richieste "informative" rivolte da Capristo-Paradiso a un politico influente come l' onorevole Boccia, sebbene formalmente estraneo alla composizione del Csm, appaiono giustificabili solo attraverso il fatto che, a sua volta, la richiesta dell' onorevole Boccia alla consigliera Balducci, pur non consistita in pressioni, era essa stessa manifestazione della circostanza che il Boccia potesse essere persona vicina al Capristo e quindi ne appoggiasse la nomina, poiché diversamente non avrebbe chiesto informazioni per suo conto, esponendosi quale nuncius (messo, ndr) di un magistrato la cui nomina non sosteneva». Niente di illecito quindi, ma un' ulteriore conferma dell' intreccio tra magistratura e politica sulle nomine ai vertici degli uffici giudiziari.

Le trame della lobby Amara con il "sistema" Capristo. Massimo Malpica il 10 Giugno 2021 su Il Giornale. L'ex procuratore cercava sponsor per far carriera. Le manovre (riuscite) per la nomina a Taranto. L'oro di Taranto. Piero Amara voleva Capristo a capo della procura della città Pugliese perché dopo l'Eni puntava ad accreditarsi come legale specializzato in problem solving giudiziario anche per l'amministrazione straordinaria dell'Ilva. E se Amara seguiva i soldi, scavando nella rete dei rapporti del magistrato pugliese, la procura di Potenza ha ricostruito la storia occulta di Capristo, il patto corruttivo con i suoi «sponsor», ai quali avrebbe offerto la propria funzione in cambio di una solida spinta alla propria carriera. Ecco, secondo il gip di Potenza, la storia segreta del cursus honorum della toga.

DO UT DES/1. Fortune incrociate. La carriera di un magistrato e quelle di chi lo aiuta possono accelerare con uno scellerato patto sinallagmatico. Per la procura di Potenza è quello che succede a margine del curriculum di Carlo Maria Capristo. Che inizialmente, si legge nell'ordinanza di Potenza, è «animato da buone intenzioni», ma poi vende la propria funzione per uno sprint di carriera. Lo fa prima con l'ex gip tranese Michele Nardi, «fondamentale uomo di relazioni, con conoscenze in ambienti di potere romano», che «aveva lavorato per farlo diventare procuratore a Trani e poteva lavorare ancora per consentirgli nuove ascese e nuove relazioni importanti».

LA GITA DA CESA. Secondo il gip tranese Maria Grazia Caserta, che con Nardi aveva avuto una relazione, per spingere la nomina di Capristo a Trani, nel 2008, proprio Nardi l'aveva portato a Roma, da Lorenzo Cesa. E quando Capristo parla al suo sponsor dei suoi dubbi su due magistrati Scimé e Savasta, condannati, come Nardi, nel 2020 a Lecce per corruzione in atti giudiziari con i quali Nardi «commetteva reati», quest'ultimo lo convince a tutelarli, in cambio dei favori fatti e di quelli promessi, in modo da poter continuare ad «aggiustare, deviare, lucrare sui processi». Per gli inquirenti è il primo passo del «patto corruttivo» tra i due, che stando al capo d'imputazione dura dal 2008 al 2016.

DO UT DES/2. Nel 2015 entra in scena Piero Amara e sparisce Nardi. Capristo ha appena visto sfumare la possibilità di andare a fare il Pg a Bari, l'incarico a Trani sta per scadere e si preoccupa per il suo futuro professionale. Nasce su queste premesse, scrive il gip potentino, «l'accordo corruttivo» con cui «accettava indebitamente il fattivo contributo di Amara nello sponsorizzare e raccomandare la sua nomina» ai posti che gli fanno gola: Pg a Firenze o a Perugia, procuratore capo a Taranto. E Amara è molto ben disposto, per gli inquirenti, a favorire «la sua nomina a capo della Procura di Taranto. in cambio dello stabile asservimento agli interessi personali di Amara, che a vario titolo coinvolgevano Eni e Ilva», con i quali Amara voleva «incrementare» i rapporti professionali, accumulando ricchi incarichi. Per le «relazioni esterne» spunta Filippo Paradiso, poliziotto con una lunga serie di collaborazioni presso segreterie di ministri e sottosegretari, da Buttiglione a Maurizio Martina, da Salvini a Sibilia. Paradiso, «finanziato» da Amara, e lo stesso Amara dunque si attivano, e per i pm lucani non c'è dubbio che «si siano spesi concretamente per agevolare il Capristo nelle sue aspirazioni di carriera».

LA VIA PER TARANTO. Gli abboccamenti per portare Capristo a Taranto vengono ricostruiti dagli inquirenti lucani. L'ex socio di Amara, Calafiore, mette a verbale che l'avvocato siciliano cercava sponde nel Csm parlando con Palamara tramite Fabrizio Centofanti, e incontrando Cosimo Ferri nell'ufficio di Denis Verdini, oltre a ricordare che Paradiso aveva legami con l'allora consigliere del Csm Elisabetta Casellati (che ha smentito di aver ricevuto pressioni o segnalazioni, spiegando di aver fatto lavorare Paradiso nel proprio staff a titolo gratuito su richiesta di Gianni Letta) e con l'ex ministro Francesco Boccia (che ha ammesso di essersi informato con la consigliera Paola Balducci, ma senza interferire con la nomina). Ancora Calafiore, tra le persone «contattate o da contattare» fa i nomi dell'ex consigliere togato Massimo Forciniti, spiegando che Centofanti, in un incontro con Paradiso che gli chiedeva di caldeggiare il nome di Capristo con Luca Palamara, avrebbe risposto picche, invitandolo a rivolgersi a Forciniti, «la persona giusta per contattare Palamara». E racconta pure di un abboccamento con l'ex sottosegretario Luca Lotti per il tramite di Andrea Bacci, imprenditore amico dei Renzi e socio di Tiziano, finalizzato al posto di Pg a Firenze, risolto in un incontro serale di pochi minuti a Roma tra Capristo e l'esponente Pd. Il finale è noto. Il plenum del Csm, su proposta della relatrice Paola Balducci, vota unanime per Capristo. Ma, spiega il gip, nessuna censura «sulla validità della nomina o la liceità della condotta dei membri del Csm», quello che conta è il provato lavoro di lobbing del duo Amara-Paradiso, a prescindere dagli esiti. Esiti comunque in linea con gli sforzi, siano o meno serviti.

PETER PAN E L'AMARA SEGRETEZZA. Se l'affaire Palamara ha consacrato le chat di Whatsapp, l'inchiesta di Potenza rilancia un'altra app di messaggistica, la preferita di Amara, Wickr Me, che dopo un tempo determinato fa svanire i messaggi, e quindi è «utilizzata osserva il gip - anche da chi deve nascondere i messaggi da possibili indagini» e da chi «svolge attività illecite o borderline». Niente numeri di telefono, solo nickname: Amara è Peter Pan, il suo socio Calafiore, Escobar.

Piero Amara, chat criptate e nomi in codice nella rete politica: chi è "Escobar"? Spunta il nome di Elisabetta Casellati. Libero Quotidiano il 09 giugno 2021. Il "metodo Amara" era caratterizzato da "serialità e modalità spregiudicate". E' quanto emerge dalla inchiesta di Potenza che è rilevante per diversi motivi, dall'incrocio con altre indagini (a Milano e a Roma) al metodo investigativo, che depotenzia le "mezze verità" di Amara e punta su riscontri esterni: intercettazioni, 80 testimonianze, conti correnti. E chat non criptate. Perché comunicavano sulla piattaforma Wickr con cancellazione automatica e nomi in codice: Escobar, Peter Pan, Zorro e Minc***. L'avvocato siciliano che ha parlato di una presunta Loggia Ungheria procedeva così: prima adescava un pm di provincia ambizioso poi otteneva da esso "lucrosi incarichi" per terzi e "benevoli trattamenti giudiziari" per i clienti, nonché impunità per i suoi guai. In cambio, rivela La Stampa, "con abile capacità organizzativa e manipolativa" metteva a disposizione la sua "rete romana" per "soddisfarne le esigenze di carriera" al Csm. Insomma, Amara garantiva l'accesso a "soggetti dotati di alte cariche istituzionali". Spuntano quindi i nomi di Luca Palamara, Paola Balducci ed Elisabetta Casellati, che peraltro "Capristo, a Trani, mentre la sua Procura indagava su Berlusconi, riceveva 'con un comportamento troppo ospitale', al punto da 'invitarlo a pranzo a mangiare frutti di mare"', si legge nell'articolo, "invito per cui Ghedini 'si schernì'". In Parlamento Amara arriva a Luca Lotti quando Matteo Renzi è premier, a Francesco Boccia e Denis Verdini. Fuori dal Parlamento c'è l'imprenditore Andrea Bacci, "vicino alla famiglia Renzi", Cosimo Ferri leader di Magistratura Indipendente, già membro del Csm, all'epoca sottosegretario alla Giustizia nella terra di mezzo tra Berlusconi e Renzi. E poi il poliziotto Filippo Paradiso "a libro paga" e in "simbiosi affaristica" con Amara, vicino al centrodestra, aspirante deputato, nel 2018 entrato prima nella segreteria di Salvini e del grillino Sibilia al Viminale e poi, sponsorizzato da Gianni Letta, nello staff della Casellati a Palazzo Madama con la quale era "amico" anche ai tempi del Csm "visto che nel 2016 procura al pm siciliano Giancarlo Longo (su richiesta di Amara) un «incontro informale» con lei in un bar di piazza Indipendenza. Davanti a un caffè, Longo le consegna il suo curriculum; «lei fu molto cordiale e lo inserì in una cartellina» (Casellati non ricorda)", si legge ancora. Ma non finisce qui. "La parabola di Capristo, che Paradiso presenta ad Amara e Amara a Lotti, è emblematica del «livello osmotico» di un «estesissimo rete relazionale»", scrive La Stampa. "Nel 2015, in scadenza a Trani, si muove per un nuovo incarico. Al Csm diffidano. Di Capristo si dicono «cose pessime», scrive Palamara in chat. Nonostante la relazione in suo favore della Casellati, l'appoggio del centrodestra, di Unicost e Magistratura Indipendente, Capristo perde dopo un drammatico voto la corsa alla procura generale di Bari". Quindi, poco dopo, è in lizza per la Procura di Taranto. "«Amara vive per portare Capristo a Taranto e contatta o fa contattare» mezzo Csm, dice ai pm Giuseppe Calafiore, suo socio e compagno di merende giudiziarie. Balla un voto nella commission nomine, si spacca il fronte progressista. La Balducci relazionale per Capristo. La Casellati lo difende. La «insistente operazione di raccomandazione, sollecitazione e persuasione» ha successo. In chat, Palamara commenta: «Purtroppo troppe cose mi hanno schiacciato». Dopo il voto del Csm, «cena della vittoria» a casa di Amara". E questo è il metodo Amara.

Ex Ilva, "Capristo raccomandato per favorire l'avvocato Amara e lo stabilimento tarantino". All'interno il comunicato integrale della Procura di Potenza. La Voce di Manduria martedì 08 giugno 2021. L'avvocato Piero Amara è stato arrestato dalla Guardia di Finanza nell'ambito di un'inchiesta sull'ex Ilva coordinata dalla Procura della Repubblica di Potenza e nella quale è coinvolto anche l'ex procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo. In seguito il testo integrale del comunicato stampa della Procura della Repubblica di Potenza con tutti i capi d'accusa a carico degli indagati. La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Potenza - dopo avere coordinato e diretto complesse investigazioni svolte dalla Polizia Giudiziaria di seguito indicata — nella mattinata odierna ha delegato : — il Nucleo di Polizia Economico — Finanziario di Potenza, la Sezione di PG. — l’Aliquota Guardia di Finanza di Potenza di questa Procura, il GlCO di Roma, la Tenenza della GdF di Molfetta ; — la Squadra Mobile della Questura di Potenza; a dare esecuzione ad una ordinanza di applicazione di misura cautelare personale nei confronti di CAPRISTO Carlo Maria, gia Procuratore della Repubblica di Trani e Taranto, RAGNO Giacomo, avvocato del foro di Trani, AMARA Piero, gia avvocato e consulente dell’Eni e dell’ex Ilva in AS, NICOLETTI Nicola, socio PW’C e già consulente esterno della struttura commissariale dell’lLVA, PARADISO Filippo, appartenente ai ruoli della Polizia di Stato in servizio presso il Ministero degli Interni nonché a notificare ulteriori cinque informazioni di garanzia ad altri indagati. Gli arrestati sono stati ritenuti dal Giudice delle Indagini Preliminari di Potenza, gravemente indiziati dei seguenti delitti: 

CAPRISTO Carlo Maria

a) delitto p e p. dagli artt 81 cpv 323 - 378 Cp, perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, quale Procuratore della Repubblica di Trani, al fine di consentire al funzionario di cancelleria Cotugno Domenico, responsabile della sua Segreteria e persona a lui particolarmente legata, di eludere le indagini — e, quindi di ottenere un indebito vantaggio anche patrimoniale consistente nel non essere sottoposto a procedimento penale evitando le relative spese ed il pagamento di eventuali risarcimenti: prima si auto—assegnava il procedimento penale nr 6591 /15—44 a carico di ignoti per il delitto di rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio — ex art. 326 c.p., relativo ad una fuga di notizie a . beneficio dei difensori degli indagati — assisti dallo studio legale Desiderio/Papagno — riguardante le indagini e le intercettazioni di cui al p.p. penale nr 8379/13, relativo a gravi reati contro la PA (delegato al PM dott Ruggiero), poi — in violazione della normativa che impone al PM di ricercare le prove necessarie ad accertare i fatti, corollario del principio di obbligatorietà dellO’azione penale — ometteva di svolgere qualsiasi indagine ( nessuna delega , nessun accertamento svolto direttamente dal PM) al fine verificare chi, all’interno degli apparati giudiziari e di polizia, avesse propalato la notizia relativa alle indagini in corso (ed ancora segrete) nei confronti, fra gli altri, di De Feudis Sergio e Modugno Antonio, nonostante esistessero elementi indiziari che consentissero di approfondire le investigazioni in direzione del suddetto Cotugno che — sulla base dell’annotazione della Digos di Bari n.2 Sez. del 31/03/2016 — risultava frequentare lo Studio Desiderio/Papagna (vale a dire quello che aveva recepito le notizie segrete sulle indagini ed intercettazioni in-corso nel p.p. nr 8379/13 RGNR Mod. 21) ben conosciute dal Cotugno in ragione della sua funzione di Segretario del Procuratore che — come da progetto organizzativo — apponeva il visto su tutte le richieste d’intercettazione (fra cui quelle relative alle investigazioni in corso nel p.p. nr 8379/13/21). Infine, l’ultimo giorno di sua presenza in servizio presso la Procura di Trani, omessa ancora ogni investigazione, richiedeva al Gip l’archiviazione del procedimento nr 6591/15—44. 

Capristo Carlo Maria — Nardi Michele (nei cui confronti, si procede senza applicazione di misure cautelare, non essendo state ritenute sussistenti le relative esigenze) b) delitto p. e p dagli artt. 81 cpv, 319 ter, in rel. agli artt 318 e 319, 321 61 nr 2 cp, perché, in permanenza, in concorso necessario fra loro, Capristo Carlo, soggetto passivo della corruzione quale Procuratore della Repubblica di Trani e Nardi Michele, soggetto attivo della corruzione quale Magistrato in servizio all’epoca dei fatti presso l’Ispettorato Generale del Ministero nonché quale componente di una associazione a delinquere dedita alla commissione seriale di corruzioni in atti giudiziari ed all’illecito “aggiustamento” di processi (attraverso false testimonianze, calunnie, falsi ideologici, corruzioni ecc, delitto associativo in relazione alla quale, in uno con svariati reati—fine, veniva condannato dal GUP presso il Tribunale di Lecce con sentenza 349/ 2020 del 9.7.2020) composta anche dal Sostituto Procuratore di Trani Antonio Savasta, dall’Ispettore di PS Di Chiaro Vincenzo, da Flavio D’Introno usuraio operante nel Circondario di Trani, Cuomo Simona, professionista legale, nonchè, comunque, quale correo dei predetti e dell’Avv.to Giacomo Ragno e del Sostituto Procuratore di Trani Luigi Scimè in delitti di corruzione, falso, calunnia, ecc — commettendo, Nardi, il fatto al fine sia di eseguire che di occultare i delitti sopra indicati — facevano mercimonio della funzione di Procuratore della Repubblica di Trani del Capristo che, stabilmente, la vendeva al Nardi.

Segnatamente, avendo, il Nardi, messo a disposizione del Capristo l’utilità consistente nel suo impegno a sostenerlo nella nomina a Procuratore della Repubblica di Trani (nomina avvenuta nel 2008) — impegno consistente in una obbligazione di mezzi e non di risultato che si manifestava in una attività di raccomandazione, persuasione, sollecitazione nei confronti di chi era in grado di determinare’la nomina del Capristo — otteneva da quest’ultimo, una volta nominato Procuratore nella sede suddetta, in violazione dei suoi doveri d’imparzialità nell’esercizio dell’azione penale e dei suoi poteri d’indagine, nonché di quelli di vigilanza e sorveglianza sui Magistrati del proprio Ufficio, una totale, stabile e permanente profezia/ze dei variegati ed illeciti interessi del Nardi in vicende processuali proprie e di persone di suo interesse, nonchè la protezione favore dei Sostituti Procuratori della Repubblica Antonio Savasta e Luigi Scimè, non solo particolarmente legati al Nardi, ma con i quali, e grazie ai quali, il predetto Nardi, per un verso, ai procedimenti di suo interesse presso la AG di Trani e con i quali, per altro verso, svolgeva e avrebbe svolto lucrose attività delittuose (cosi come anche indicate nella sentenza di condanna nr 349 / 2020 del 9.7.2020 del GUP di Lecce) che ruotavano intorno ai procedimenti penali loro assegnati.  In particolare, il Capristo, in conseguenza dell’accordo corruttivo, da una parte, curava anche in prima persona e con particolare sollecitudine gli interessi del Nardi presunta parte offesa ed indagato in numerosi procedimenti penali pendenti innanzi alla AG di Trani ( ad esempio accettando che Nardi presentasse denunce di reato attraverso sms che lui poi attivava immediatamente con deleghe alla pg, ovvero rallentando la trattazione di procedimenti in cui il Nardi era indagato) e, dall’altra, pur considerando i due predetti Magistrati (Savasta e Scimè) poco affidabili in quanto dediti a perseguire interessi non istituzionali nell’esercizio delle loro funzioni, pur sapendoli coinvolti, a seguito di numerosi esposti e denunce, in vicende di rilevanza penale e disciplinare e pure in presenza ( anche perché rappresentatogli da altri colleghi dell’Ufficio) di pareri, richieste, provvedimenti, anomali di Scimè e Savasta, che prendevano in contrasto con le prassi ed i criteri generali applicati dall’Ufficio in casi simili, in contrasto con le determinazioni assunte dai titolari del procedimento — talora sostituiti per loro momentanea assenza — anziché vigilare sulla attività giudiziaria dei citati Scimè e Savasta, sulle evidenti situazioni di incompatibilità processuale ed ambientale in cui si trovavano (e che avrebbero richiesto l’astensione del PNI se non addirittura la promozione, attivazione e segnalazione per l’avvio di procedure tese ad un loro trasferimento per motivi d’incompatibilità ambientale) e, quindi, anziché vigilare sulla concreta imparzialità del loro operato, sottoponendolo ad attento vaglio, richiedendo, ove necessario, sia opportuni chiarimenti che una previa esposizione delle determinazioni che intendevano assumere, li valorizzava da un punto visto professionale, sia attribuendo loro incarichi, designazioni e deleghe di particolare rilevanza nell’Ufficio, sia con giudizi di professionalità assolutamente lusinghieri, sia, infine, tutelandoli — con azioni ed omissioni — nelle sedi competenti a valutare le condotte illegittime degli stessi. 

AMARA Piero, CAPRISTO Carlo Maria, NICOLETTI Nicola, PARADISO Filippo, RAGNO Giacomo 

e) delitto p. e p. dagli artt 110, 81 cpv, 319 ter, in rel. agli artt 318 e 319, 321 cp, perché, CAPRISTO, AMARA, PARADISO e NICOLETTI in permanenza, RAGNO con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in concorso fra loro come specificato appena di seguito: CAPRISTO Carlo Maria in qualità di Procuratore della Repubblica di Trani dal 2008 fino al 6 Maggio del 2016 e di Procuratore della Repubblica di Taranto dal 7 Maggio 2016 al 16/ 07/ 2020, soggetto passivo della corruzione in atti giudiziari contestata in permanenza nel presente capo; Giacomo RAGNO, amico personale del CAPRISTO e avvocato penalista del Foro di Trani, concorrente del CAPRISTO in alcuni specifici episodi corruttivi di seguito specificati, nonché beneficiario di alcune delle utilità ricevute dal CAPRISTO stesso; AMARA Piero, avvocato penalista operante su tutto il territorio nazionale, soggetto attivo della corruzione in atti giudiziari commessa in permanenza sia a Trani che a Taranto come di seguito specificato; PARADISO Filippo funzionario della Polizia di Stato dedito a curare, previa retribuzione, le relazioni pubbliche dell’AMAKA, concorrente di AMARA, soggetto attivo della corruzione in atti giudiziari commessa in permanenza e di seguito specificata; NICOLETTI Nicola — consulente dei Commissari di ILVA in AS, delegato dai Commissari Straordinari a seguire e coordinare (sulla base di direttive dei Commissari ma di fatto conampia e notevole autonomia) le vicende gestionali, produttive, legali che riguardavano gli Stabilimenti ex Ilva di Taranto fra il 2015 ed 11 2018, soggetto attivo della corruzione in atti giudiziari compiuta in permanenza, come di seguito specificato; commettevano le seguenti attività di corruzione in atti giudiziari connesse e collegate fra lOro. Segnatamente, il CAPRISTO stabilmente vendeva ad Amara e Nicoletti, la propria funzione. giudiziaria, sia presso la Procura di Trani ( a favore del solo Amara) che presso la Procura di Taranto (a favore di Amara e Nicoletti ) svolgendo, in tale contesto, il PARADISO, funzione d’intermediario presso il CAPRISTO per conto e nell’interesse di AMARA Piero, facendo ciò, il CAPRISTO, in cambio dell’utilità costituita dal costante interessamento di AMRA e PARADISO (il secondo stabilmente remunerato dal primo) per gli sviluppi della sua carriera (il CAPRISTO, sul punto, risultava particolarmente sensibile, in quanto, cessando definitivamente dal suo incarico di Procuratore della Repubblica di Trani nel 2016, sarebbe rimasto privo di incarichi direttivi, al cui immediato conferimento, invece, anelava). Tale interessamento sia di AMARA che di PARADISO (che agivano in sinergia e coordinandosi fra loro) - che consisteva in una obbligazione ' di mezzi e non di risultato verso il CAPRISTO — in particolare si manifestava in una incessante attività di raccomandazione, persuasione, sollecitazione svolta, in favore del CAPRISTO, dai corruttori su membri del CSM (da loro conosciuti direttamente o indirettamente) e/ o su soggetti ritenuti in grado d’influire su questi ultimi, in occasione della pubblicazione di posti direttivi vacanti d’interesse del CAPRISTO (fra cui la Procura Generale di Firenze,-la Procura della Repubblica di Taranto ed almi ancora).  

Nel dettaglio, il CAPRISTO: 

- nella sua qualità di Procuratore della Repubblica di ILni, essendo stato posto in relazione con l’AMARA dal PARADISO, al fine di accreditare presso l’ENI l’AMARA "stesso quale legale intraneo agli ambienti giudiziari tranesi in grado d’interloquire" direttamente con i vertici della Procura, ed al fine, quindi, di agevolarlo nel suo percorso professionale:

1. si autoassegnava, in co—delega con i Sostituti SAVASTA Antonio e Pesce Alessandro, 1 procedimenti penali nr 25/15/46, nr 136/15/46 scaturenti da esposti anonimi redatti dallo stesso AMARA e consegnati a mani proprie ovvero per il tramite di fiduciario, al Capristo stesso;

2. nonostante: a) la palese strumentalità degli esposti anonimi che li avevano generati (redatti dall’Avv. AMARA per accreditarsi presso i vertici ENI quale soggetto in grado di interloquire su tali procedimenti), nei quali veniva prospettata la fantasiosa esistenza di un preteso (ed in realtà inesistente) progetto criminoso — che risultava, in modo ovviamente artificioso, concepito in Barletta, (proprio affinchè il fatto fosse di competenza della Procura di Trani) — che mirava a destabilizzare i vertici dell’ENl ed in particolare a determinare la sostituzione dell’Amministratore Delegato De Scalzi, che in quel momento era invece indagato dalla AG di Mlilano per gravi fatti di corruzione, sicché con le delazioni in esame si intendeva fare apparire il De Scalzi come vittima di un complotto ordito da soggetti che avevano rilasciato presso la procura di Milano dichiarazioni indizianti a suo carico; b) la circostanza che il primo di tali esposti fosse giunto presso la Procura di Trani in modo decisamente sospetto ed apparentemente inspiegabile (recapitato a mano — pur essendo anonimo - direttamente presso l’Ufficio ricezione atti senza che risultasse chi lo avesse consegnato e chi lo avesse ricevuto e poi regolarmente protocollato, assegnato ed iscritto); 3. disponeva lo svolgimento d’indagini anche approfondite ed inconsuete, se non illegittime (fra cui escussioni ed acquisizioni tabulati) in considerazione della natura anonima dell’ esposto, anche sollecitando in tale senso i colleghi co-delegati che invitava in più occasioni ad effettuare ulteriori approfondimenti investigativi che risultavano funzionali agli interessi di AMARA Piero (che aveva inviato gli esposti e che aveva necessita di rafforzare e “vestire” la tesi del complotto contro l’AD di ENI De Scalzi);

4. accettava una interlocuzione assolutamente impropria ed anomala con Piero ANLARA sulle vicende investigative in  oggetto degli esposti anonimi, in quanto: a) in primo luogo, alcun indagato o parte offesa aveva nominato AMARA quale proprio legale; b) in secondo luogo, i procedimenti, al momento di tali interlocuzioni, erano segretati e anche le stesse notizie stampa pubblicate 111 quei giorni sulla esistenza delle indagini a Trani sul cd “complotto Eni” erano del tutto inconferenti (se non sospette) e, comunque, non idonee a legittimare, su queste Vicende, una interlocuzione fra un avvocato (AMAKA) neppure nominato formalmente da un soggetto - processuale legittimato ed il Procuratore della Repubblica di Trani; c) con la predetta condotta compiacente, consentiva ad A‘MARA di proporsi e mettersi in luce presso Eni, per un verso, come punto di riferimento e tramite verso la AG in quella specifica vicenda e, per altro verso, come legale meritevole di nuovi ed ulteriori (e ben remunerati) incarichi;

5. disponeva, per compiacere le richieste di AMARA (che aveva preso accordi con il PM di Siracusa Longo Giancarlo, da lui stesso corrotto affinché si prestasse a seguire le indicazioni dell’AMARA nella conduzione di una analoga strumentale indagine preliminare avente a oggetto il descritto complotto ai danni del De Scalzi) previe irrituali intese con il predetto Sostituto Procuratore della Repubblica di Siracusa Longo (e non con il Capo di quell’Ufficio) la trasmissione, per motivi di competenza territoriale, dei procedimenti suddetti nonostante la PG delegata avesse rappresentato, non solo l’infondatezza degli esposti anonimi ma la loro connessione con le indagini preliminari condotte nei confronti del De Scalzi dalla Procura della Repubblica di Milano; - nella qualità di Procuratore della Repubblica di Taranto, al fine di accreditare l’AMARA e NICOLETTI presso l’Ilva in AS ed al fine di agevolare la loro ascesa professionale: 

1. ricevuta la descritta sponsorizzazione nella nomina a Procuratore di Taranto mostrava, apertamente, di essere sia amico che estimatore dell’Axv AMARA e del NICOLETTI e si rendeva promotore di un approccio dell’ufficio certamente più aperto, dialogante e favorevole alle esigenze dell’ILVA A.S., cosi da rafforzare nell’Amministrazione Straordinaria di Ilva — e, in particolare, nel Laghi Enrico — il convincimento che AMAR e NICOLETTI, nelle loro vesti di legale il primo e consulente “factotutm” della Amm. Straordinaria il secondo, potessero più agevolmente di altri professionisti interloquire con la Procura di Taranto, consentendo al NICOLETTI di consolidare il suo rapporto fiduciario con i Commissari di Ilva in AS ed ampliare in futuro il loro ruolo all’interno di tale azienda, a cui CAPRISTO, in virtù di tali rapporti corruttivi con Amara e Nicoletti, garantiva — come meglio di seguito specificato — una gestione dei numerosi procedimenti ed indagini in cui era coinvolta ILVA in AS (sia come persona giuridica che in persona dei suoi dirigenti) complessivamente favorevole, ottenendo, altresì, in cambio da NICOLETTI — che comunque aveva sostenuto l’attività di “sponsorizzazione” del CAPRISTO quale Procuratore di Taranto svolta da Paradiso e AMARA; i favori materiali ( incarichi ad amici del Capristo — segnatamente all’avvio Giacomo ragno — che poi saranno elencati)

2. garantiva, così, con la descritta condotta compiacente verso Amara, e grazie alla fattiva collaborazione di NICOLETTI, il conferimento in favore dell’avv. AMARA di 2 incarichi, entrambi dalla persona giuridica ILVA a.s. (uno di consulenza del 29.6.16 nel processo Ambiente svenduto e l’altro del 19.9.16 nel procedimento per la morte dell’operaio Giacomo CAMPO), così fornendo anche NICOLETTI un contributo diretto alla realizzazione dell’accordo corruttivo AMARA CAPRISTO;

3. nel procedimento penale Ambiente Svenduto, per disastro ambientale ed altro, assecondava e portava a conclusione, coordinando un composito gruppo di PPMM delegati, le “trattative” svolte in diversi incontri per una applicazione della pena ex' art 444 cpp seguite alla proposta di Ilva in AS persona giuridica (che attribuiva a tale “patteggiamento” valore strategico., non solo a livello processuale, ma anche ai fini dello sviluppo economico e produttivo dell’azienda), della quale Piero AMARA era divenuto consulente esterno, e di cui NICOLETTI era pure grande fautore, richiesta che veniva poi rigettata dall’Organo Giudicante competente;

4. nel procedimento nr 7492/2016 R.G.N.R. Mod. 21 per l’incidente mortale occorso nel 2016 all’operaio Giacomo Campo il 17.9.16, nel quale AMARA veniva nominato in data 19 settembre 2016 difensore di fiducia dell’ILVA Spa in A.S., riceveva indicazioni da AMARA per la nomina di Sorli Massimo quale Consulente tecnico Che avrebbe dovuto svolgere un sopralluogo e connessi accertamenti presso il predetto impianto [Id [70sz (come poi ZIVVCIlthO, tanto che il consulente Ing. Sorli Massimo partiva da Torino domenica 18.9.16, giungeva a Taranto la domenica stessa con volo areo pagato da AMARA tramite suo prestanome, Miano Sebastiano, in serata riceveva l’incarico ex 360 cpp irripetibile, e il lunedi mattina 19.9.16 svolgeva e concludeva il sopralluogo); sollecitava i suoi Sostituti a provvedere con massima sollecitudine al dissequestro dell’AFO 4 (che poi avveniva in 48 ore, peraltro sulla base dell’impostazione difensiva dell’ILVA, rivelatasi infondata, relativa alla insuperabile necessita di alimentare, per mezzo dei macchinari coinvolti nel sinistro, l’altoforno e, quindi, impedire sbalzi di temperatura che lo avrebbero danneggiato, mentre in poca successiva emergeva come tale temperatura costante all’interni dell’altoforno potesse essere mantenuta anche attraverso altri, ma più costosi sistemi). Gestiva, subito dopo l’incidente, i rapporti con la stampa (rientranti nei suoi compiti istituzionali secondo l’ordinamento giudiziario) in modo da fare intendere, sia pure implicitamente .ma univocamente, che Ilva in As, ovvero i suoi dirigenti, potessero essere stati vittime di attività di sabotaggio in loro danno e comunque proponendosi quale garante delle politiche di risanamento ambientale poste in essere da ILVA in AS e quindi dai Commissari straordinari (manifestando pubblicamente, in più occasioni, che la sua Procura avrebbe a questo fine lavorato in sinergia con l’Amministrazione Straordinaria).

5. manifestava apertamente, all’esterno ed all’interno dell’Ufficio, la sua posizione “dialogante” con il NICOLETTI (che così accreditava, al pari di AMARA, presso la struttura commissariale come elemento indispensabile per la gestione dei rapporti e la AG tarantina) e la sua benevola predisposizione ad assecondare e considerare le esigenze della struttura commissariale di Ilva in AS, determinando un complessivo riposizionamento del suo Ufficio rispetto alle pregresse, più rigorose, strategie processuali ed investigative, manifestate dalla Procura della Repubblica diretta dal suo predecessore (che ad esempio aveva rigettato una precedente richiesta di applicazione pena presentata da Ilva in AS persona giuridica);

6. nel p.p. nr 4606/15 R.G.N.R. Mod. 21 (cd. Arianna/Al), dapprima sollecitava il PM titolare delle indagini a concedere la facoltà d’uso dell’AFO 2, nonostante l’accertata parziale inadempienza da parte dell’Ilva alle prescrizioni; poi concordava con NICOLETTI, che conseguentemente esercitava pressioni sull’avv. BRESCIA Francesco (dell’ufficio legale ILVA), affinché l’operatore sul “campo di colata” fosse indotto a confessare la sua esclusiva responsabilità onde escludere qualsivoglia coinvolgimento dell’azienda e della dirigenza; quindi richiedeva al PM titolare di valutare favorevolmente la posizione dell’Ingegnere Ruggero Cola, difeso dall’arnico Avv. RAGNO, suggerendone lo stralcio e la definizione con richiesta archiviazione (senza raggiungere l’intento grazie alla opposizione del PM che non aderiva alla impostazione difensiva sebbene condivisa dal Procuratore); infine, approfittando del periodo di ferie del PM titolare — induceva il sostituto in servizio ad esprimere parere favorevole a tale facoltà d’uso. A fronte di tali favori resi dal CAPRISTO, NICOLETTI, abusando della sua qualità di gestore di fatto degli Stabilimenti Ilva in AS di Taranto, condizionava i dirigenti Ilva sottoposti a procedimenti penali presso la AG di Taranto (procedimenti nei quali rispondevano per reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni) affinché conferissero una serie di incarichi difensivi — poi remunerati dall’Ilva in AS, salva eventuale (e mai avvenuta) rivalsa della stessa società, come previsto dal contratto nazionale di lavoro dei dirigenti d’azienda — all’AVV.to RAGNO Giacomo, alter ego del CAPRISTO, in ragione dello stretto legame tra i due risalente fin dai tempi in cui CAPRISTO era Procuratore della Repubblica di Trani, e da questi sponsorizzato quale professionista da favorire anche con riferimento ad incarichi professionali da ricevere dall’Ilva, come avvenuto per ben 4 mandati difensivi (conferiti al RAGNO da De Felice Salvatore e Cola Ruggero, dirigenti Ilva in AS, che fruttavano parcelle per complessivi euro 273.000 circa):

1. mandato difensivo conferito al RAGNO, da De Felice Salvatore, dirigente llva in AS già direttore di stabilimento, nel p.p. nr 938/2010 R.G.N.R. Mod. 21 — RG ASS 1/2016 (ambien/‘d went/1170), in data 2.2.2017;

2. mandato difensivo conferito al RAGNO da Cola Ruggero, dirigente Ilva in AS e Direttore dello  

Stabilimento di Taranto dall’Agosto 2014 fino ad Ottobre 2016 e di nuovo da Maggio 2018 a Ottobre 2018, nel pp. cd “incide/Ile Campo” recante nr 7492/2016 R.G.N.R. Mod. 21 (nomina depositata in data 10.10.2017);

3. mandato difensivo conferito al KXGNO da Cola Ruggero nel pp. cd “incide/ife (Hamra/M ’ recante nr 4606/2015 R.G.N.R. Mod. 21 (nomina depositata in data 01.03.2017);

4. mandato difensivo conferito al RAGNO da Cola Ruggero nel p.p. cd “Loppcf’ recante nr 8836/2015 R.G.N.R. Mod. 21 (nomina effettuata il 30.9.2017).

CAPRISTO Carlo Maria, RAGNO Giacomo, nonché SOAVE Massimiliano, SAVASTA Antonio, D’INTRONO Flavio, NARDI Michele e BALDUCCI Franco Maria (nei confronti degli ultimi cinque si procede senza applicazione di misure cautelari per l’assenza delle relative esigenze).

d) delitto p. e p dagli artt 81 cpv, 110, 317 Cp, perché, in concorso e previo accordo fra loro, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, Capristo quale Procuratore della Repubblica di Trani e mandante, Savasta quale PM del predetto Ufficio delegato alle indagini ed ai procedimenti ... e quale mandante, Nardi Michele quale Magistrato in servizio presso l’ispettorato generale e mandante, Nardi e D’Introno, quali intermediari fra i predetti mandanti e Balducci che aveva il compito di avvinare le parti offese e indurle, come poi meglio descritto, a piegarsi alla volontà dei suddetti PPUU, Ragno Giacomo avvocato operante nel Foro di Trani e Soave Massimiliano dottore commercialista e consulente tecnico in materia contabile, quali materiali esecutori (ubitamente a Balducci) e beneficiari del delitto, abusando delle qualità. dei suddetti Pubblici Ufficiali Capristo e Savasta e del notorio strettissimo rapporto preferenziale che il Ragno aveva con i predetti Magistrati (notorietà alimentata dai comportamenti concludenti ed ostentati del Capristo, del Savasta e del Ragno) sicchè le vittime si figuravano che unica possibilità per ottenere giustizia presso gli Uffici Giudiziari di Trani fosse quella di affidarsi a difensori e professionisti di gradimento del Capristo e dello stesso Savasta, costringevano Zucaro Sergio e Zucaro Massimo, indagati per il delitto di riciclaggio nel procedimento penale 2599/ 2072 RGNR mod 27, a dare mandato al Ragno quale difensore di fiducia e al Soave quale consulente di parte e ad erogare agli stessi, solo quale anticipo e senza che alcuna concreta attività difensiva fosse svolta, la complessiva somma di euro 15.000 (di cui euro 10.000 a Soave ed euro 5.000 al Ragno).

Le accuse mosse da questo Ufficio agli indagati — che, allo stato ed in questa fase procedimentale hanno trovato conferma a livello di gravità indiziaria nell’ordinanza cautelare del Gip — si fondano su complesse indagini che hanno comportato l’audizione di circa 80 testimoni (tutti ascoltati da questo Ufficio coadiuvato dalla citata polizia giudiziaria),sull’acquisizione di copiosa documentazione cartacea ed informatica (ottenuta anche attraverso lo scambio di atti ed informazioni con le Procure di Milano, Roma, Messina, Lecce e Perugia) su indagini finanziarie e bancarie, sulla acquisizione di atti processuali presso gli Uffici Giudiziari di Trani e Taranto, ottenuti grazie alla indispensabile cooperazione delle AAGG dei predetti capoluoghi.

 Le investigazioni hanno amro inizio nel Giugno del 2020, dopo le prime indagini nei confronti di Carlo Maria Capristo (sfociate in una prima misura cautelare nel Maggio 2020 e nel successivo rinvio a giudizio degli imputati) . Dunque si tratta di un filone d’indagine che rappresenta un ulteriore sviluppo; ancorchè con nuove contestazioni, della primigenia investigazione.

All’esito delle richieste cautelari di questo Ufficio, il Gip presso il Tribunale di Potenza, in particolare, ha disposto:

nei confronti dell’axwrocato Giacomo RAGNO e del dr. Nicola NICOLETTI la misura cautelare degli arresti domiciliari presso le rispettive abitazioni;

nei confronti dell’aW'ocato Piero AMARA e dell’appartenete alla Polizia di Stato Filippo PARADISO ha disposto la custodia cautelare in carcere;

nei confronti dell’ex Procuratore Carlo CAPRISTO la misura dell’obbligo di dimora presso la propria abitazione.

Questo Ufficio inoltre, ha disposto il sequestro preventivo di euro 278.000 nei confronti del’Avv.to Giacomo Ragno -— pari all’importo delle parcelle professionali pagate da i Ilva in A5 in suo favore a seguito degli incarichi professionali che il Ragno otteneva (nei procedimenti a carico di dirigenti di tale società pendenti innanzi alla AG di Taranto) nel contesto del patto "corruttivo" sopra riportato.

Tali somme sono state, infatti, ritenute — sulla base degli indizi raccolti — provento del delitto di corruzione in atti giudiziari (per 273.000 euro) e del delitto di concussione (per un importo di 5000 euro) sopra indicati.

Sono state eseguite perquisizioni presso le abitazioni e luoghi di lavoro dei suddetti cinque indagati attinti da misura cautelare personale.

Potenza, 08/06/2021 - II Procuratore della Repubblica Francesco Curcio

Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per “Domani” il 10 giugno 2021. L'inchiesta della procura di Potenza che ha portato Amara e Paradiso in carcere disegna un sistema corruttivo che seguiva questo schema: il magistrato Carlo Maria Capristo (prima a Trani poi capo della procura di Taranto) «in cambio del costante interessamento di Amara e Paradiso per gli sviluppi della sua carriera» garantiva all'avvocato della fantomatica loggia Ungheria «utilita, vantaggi e agevolazioni professionali». Il procuratore di Potenza Francesco Curcio sostiene che, mentre Amara e Paradiso mettevano in piedi una «incessante attivita di raccomandazione, persuasione e sollecitazione» a favore di Capristo «sui membri del Csm da loro conosciuti direttamente o indirettamente», il magistrato corrotto garantiva all'ex legale di Eni «utilità, vantaggi ed agevolazioni professionali». Secondo l'accusa Capristo, quando era capo procuratore a Trani, per aiutare Amara nei suoi rapporti con l'Eni prima ha dato credito ad alcuni esposti anonimi redatti pero dallo stesso Amara, che cerco attraverso un depistaggio di danneggiare il processo dei magistrati milanesi sulla presunta tangente in Nigeria (dibattimento in primo grado si e recentemente concluso con un'assoluzione).Una volta, poi, arrivato a capo della procura di Taranto grazie alla sponsorizzazione di Amara e Paradiso, Capristo «si rendeva promotore di un approccio dell'ufficio certamente più aperto e dialogante alle esigenze di Ilva».

Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per “Domani” il 10 giugno 2021. Chi è davvero Filippo Paradiso? Un semplice assistente di polizia, come segnalano dal Viminale, che ha lavorato nelle segreterie di politici di ogni partito? O un lobbista pagato sottobanco dall’avvocato dei misteri Piero Amara per fare pressioni su membri del Csm, compresa l’attuale presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati? Un referente dei servizi segreti? Oppure un trait d’union tra ecclesiastici e pezzi delle istituzioni? Paradiso, arrestato per una presunta corruzione dell’ex capo della procura di Taranto Carlo Maria Capristo e ad Amara, è tutte queste cose insieme. Un “facilitatore”, in grado – ipotizzano i pm – di congiungere il mondo di sopra del potere romano e quello di sotto, dove vivono faccendieri, imprenditori e professionisti che talvolta provano ad agganciare chi è più in alto attraverso mediatori. Paradiso, ha scoperto Domani, non è solo un novello poliziotto-lobbista, ma pure un pubblico ufficiale con uno stipendio da poco più di duemila euro al mese che, in appena dieci anni, è riuscito a creare un tesoretto personale di oltre due milioni di euro. Denaro dall’origine misteriosa custodito in una polizza assicurativa finita nel mirino dell’antiriciclaggio. Poliziotto «relation man» L’amico della presidente del Senato non ama essere definito assistente di polizia. Anche perché lui su una volante ci è salito solo da giovanissimo. Paradiso è innanzitutto un «relation man», come lo definisce un testimone nei verbali agli atti dell’indagine della procura di Potenza guidata da Francesco Curcio. Non a caso Paradiso è stato preso nella squadra di Casellati (per tre mesi: alle prime avvisaglie di tsunami giudiziari gli uscieri di palazzo Madama gli hanno indicato l’uscita) per organizzare eventi. La carriera dell’agente segue due binari. Uno ufficiale e uno ufficioso. Direttrici che spesso si incrociano. Poliziotto arrestato negli anni Novanta con l’accusa di omicidio volontario durante una rapina (accusato da un pentito, fu del tutto scagionato tanto da ricevere 270mila euro dallo stato per ingiusta detenzione), nel tempo si è creato ottime entrature anche Oltretevere. Ostentando pure, si legge nelle carte dell’inchiesta di Potenza, «solide entrature nei servizi di sicurezza». Amico di Marco Mancini, caporeparto del Dis “pensionato” da Mario Draghi e Franco Gabrielli, e di politici di destra e sinistra (Francesco Boccia ha ammesso di conoscerlo da anni) e magistrati di rilievo di varie correnti (da Luca Palamara a Cosimo Ferri), Paradiso appena uscito dal carcere comincia a collaboratore nelle segreterie di ministeri e palazzi del potere. Parte nel 2004 dagli uffici dell’ex ministro Rocco Buttiglione, passando poi a quelli dell’ex portavoce di Berlusconi Paolo Bonaiuti, fino a quelli dell’ex ministro Saverio Romano e – nel 2018 – alla segreteria di Matteo Salvini: più volte Paradiso ha raccontato ai suoi interlocutori delle sue buone entrature (millantava?) con l’ex capo di gabinetto del leghista, l’attuale prefetto di Roma Matteo Piantedosi. Dopo la breve esperienza a palazzo Madama su chiamata di Casellati (in un’altra inchiesta, il poliziotto è accusato con Amara di traffico di influenze proprio per aver “usato” a sua insaputa la presidente del Senato per fini privati) Paradiso è planato nella segreteria del grillino Carlo Sibilia, il sottosegretario dall’Interno che l’ha voluto con sé nonostante il suo nome fosse già accostato a pregiudicati e affaristi. Il prezzo dei contatti Camaleontico e trasversale, per gli inquirenti Paradiso nasconde più di un segreto. Uno dei più rilevanti è quello della sua enorme capacità di risparmio. Come fa il poliziotto ad avere nel portafoglio una polizza da oltre due milioni di euro? Secondo le procure di Potenza e di Roma, infatti, Amara lo foraggiava. Ma con piccole somme e altre micro-utilità: c’è chi ha messo a verbale di aver visto l’ex legale dell’Eni consegnare 2.100 euro in contanti, si parla di un appartamento usato senza pagare il canone, agli atti c’è pure qualche viaggio gratis sulla tratta Roma-Bari. Robetta. Anche il risarcimento da 270 mila euro incassato dallo Stato nel 2007 non spiega come mai un agente che prende 2.200 euro al mese abbia potuto accumulare una fortuna simile. «La polizza assicurativa tuttora in essere, è stata accesa in data 26 giugno 2007. Il totale dei premi versati ammonta a € 2.160.650,00, tutti corrisposti con addebito sul conto corrente n. 1149 intrattenuto da Paradiso presso la Banca Popolare di Puglia e Basilicata», si legge in una relazione dell’Uif, l’unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia. In pratica, il poliziotto-lobbista che ha lavorato per Amara, negli anni in cui collaborava nei gabinetti e negli uffici di ministeri e in Senato, versava di continuo somme a cinque zeri, che andavano a costituire il capitale di una polizza diventata milionaria in meno di dieci anni. Gli investigatori finanziari riportano un elenco dei versamenti divisi per anno: nel 2007, l’anno in cui Paradiso sostiene di aver percepito il primo risarcimento da 160mila euro, ne versa 250 sulla polizza; l’anno dopo ben mezzo milione; tra il 2016 e il 2017, periodo delle trame con Amara, altri 130mila accrescono il capitale. Ogni anno l’investimento garantisce così a Paradiso anche un rendimento, una sorta di stipendio extra sulla base di quanto ha reso la polizza: si passa dai quasi 4mila del 2007 agli oltre 24mila del 2019. I sospetti Anche i pm di Potenza hanno più di un sospetto e scrivono che la polizza «di gestione patrimoniale» è «incompatibile con il suo regime reddituale». La domanda è semplice: come ha fatto un semplice agente di polizia a mettere da parte una cifra del genere? Come e da chi ha ottenuto somme così rilevanti? Un anno fa, davanti ai magistrati di Roma che gli chiedevano conto dell’origine del tesoro milionario, Paradiso si è avvalso della facoltà di non rispondere. Quello della polizza è solo l’ultimo dei segreti di un assistente di polizia dai mille volti. Un poliziotto che secondo qualcuno vendeva quello che a Roma vale più della Fontana di Trevi: l’agenda telefonica e le capacità relazionali.

Aveva capito tutto ma gli fu tolto il fascicolo. Voleva arrestare Amara tre anni fa, ma è finito indagato: la beffa per il Pm Fava. Paolo Comi su Il Riformista il 10 Giugno 2021. Oltre il danno la beffa per l’ex pm romano Stefano Rocco Fava. La Procura di Potenza questa settimana ha arrestato l’avvocato Piero Amara e lui, che avrebbe voluto farlo già agli inizi del 2019, finisce sul banco degli imputati proprio a causa di questo mancato arresto. La storia di Fava, attualmente giudice civile al Tribunale di Latina, ricorda molto da vicino la trama di un film di Luis Bunuel. Fava, prima di essere trasferito, ha prestato servizio per anni presso il dipartimento reati contro la pubblica amministrazione della Procura di Roma, a oggi coordinato dal procuratore aggiunto Paolo Ielo. Sul finire del 2018 il pm in una sua indagine si imbatte in Amara, allora un avvocato di provincia divenuto famoso per aver creato il “Sistema Siracusa”, l’associazione di professionisti, imprenditori e magistrati, nata per pilotare i processi e aggiustare le sentenze, soprattutto al Consiglio di Stato. Amara, classe 1969 da Augusta, dal 2002 era legale esterno per l’Eni con incarichi tutti molto ben retribuiti. A settembre del 2016 8 pm su 11 della Procura di Siracusa avevano scritto al Ministero della giustizia evidenziando “gravi anomalie nelle gestione dei fascicoli” e mettendo fine a questo periodo professionalmente felice per Amara. Con l’aiuto dal pm Giancarlo Longo, che crea fascicoli “specchio” con cui controllava quello che facevano i colleghi, fascicoli “sponda” che servivano a tenere in piedi attività in vista di eventuali sviluppi, e fascicoli “minaccia” aperti nei confronti di chi intralciava i piani criminosi, Amara non aveva concorrenti. A febbraio del 2018 Amara e Longo vengono dunque arrestati in una operazione congiunta delle Procure di Messina e Roma. In carcere Amara rimane poco e, tornato in libertà, inizia una “collaborazione” con i magistrati rendendo “ampie confessioni”. Anche se il pg di Messina Felice Lima descriverà l’accaduto come una delle più estese e spudorate corruzioni sistemiche mai realizzate nella storia italiana. Il patteggiamento lo mette al riparo da sequestri e confische. Fava non crede che Amara stia dicendo tutto ciò di cui è a conoscenza. E, pertanto, chiede un nuovo arresto per altre corruzioni. È “reticente verso i soggetti con cui si interfaccia”, scrive il pm, che evidenzia anche rapporti poco chiari con il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, quelli che saranno alla base dell’arresto di questa settimana da parte della Procura di Potenza. “Sulla vicenda Capristo non mi sembrano spendibili”, scriverà Ielo in risposta a Fava. Amara, in particolare, aveva ricevuto ingenti somme, circa 25 milioni di euro, di cui non era in grado di giustificare la ragione e che nessuno gli sequestrerà mai. «Ritengo utile risottoporre a intercettazioni Amara perché è iniziato l’accertamento tributario su Napag (una sua società, ndr) da parte dell’Agenzia delle Entrate e per le attività di indagine che dovremo compiere presso Eni. Analogamente si potrebbe procedere con Fabrizio Centofanti (altro faccendiere, ndr) per capire se mantiene la sua rete relazionale», fa presente Fava. Ielo, e l’allora procuratore Giuseppe Pignatone, la pensano in modo diverso e non danno il loro assenso. Seguono momenti di grande tensione in Procura. Fava evidenzierà anche i legami di Amara con i fratelli di Pignatone e di Ielo, entrambi avvocati. Sembrerebbe che il fratello di Pignatone, Roberto, abbia ricevuto importati pagamenti per attività professionali da Amara. Amara viene assistito dall’avvocato Salvino Mondello in rapporti di amicizia con Ielo, che aveva avanzato a tal riguardo istanza di astensione, rigettata da Pignatone. Il 5 marzo il fascicolo a carico di Amara viene definitivamente tolto a Fava. Il magistrato, allora, decide di segnalare al Csm quanto sta accadendo. L’esposto a Palazzo dei Marescialli, di cui si sono perse le tracce – l’unica cosa certa è che dovrebbe essere presso la Settima commissione – diventa il segno di una campagna di delegittimazione di Pignatone e Ielo. Fava che voleva solo segnalare anomalie nel modo in cui gli era stato tolto il fascicolo avrebbe quindi agito per conto di Luca Palamara che era intenzionato a vendicarsi nei confronti dei due magistrati per altre vicende. Ed ecco che Fava, espropriato dell’indagine, si trova ora indagato a Perugia con l’accusa di aver posto in essere un dossieraggio. Domani è in programma l’udienza preliminare. Nel procedimento Ielo e Pignatone sono parti offese. Fava viene chiamato in causa per degli articoli usciti a maggio del 2019 in cui si faceva riferimento ad asseriti conflitti di interesse di Ielo e Pignatone. Gli autori degli articoli, sentiti dai pm, negheranno di aver avuto notizie da Fava. Oltre al procedimento penale Fava è poi anche sotto disciplinare al Csm. La vicenda sorprendente è che Amara ha commesso reati “ininterrottamente dal gennaio del 2015 al 23 luglio 2019”, come come scrivono i pm di Potenza. E in quel periodo Amara, il principale teste d’accusa nei confronti di Palamara, era sotto intercettazione del Gico della guardia di finanza di Roma. Amara parlava tantissimo, centinaia le conversazioni intercettate, ma per il Gico nulla di interessante sotto il punto di vista investigativo. Sul fronte Csm si segnala ieri la decisione di archiviare il fascicolo relativo all’altro procuratore aggiunto di Roma, Antonello Racanelli, che era stato aperto nell’ambito della valutazione sulle posizioni dei magistrati coinvolti nelle conversazioni e nelle chat di Palamara. La decisione, che quindi fa venire meno un provvedimento di trasferimento d’ufficio, è stata approvata a maggioranza con 15 voti a favore, 2 contrari, i laici Stefano Cavanna (Lega) e Fulvio Gigliotti (M5s) e 6 astensioni, quasi tutti i togati di Area. Il consigliere Giuseppe Cascini, ex aggiunto a Roma, non ha partecipato al voto. Nella delibera approvata si legge: “Non risulta che attualmente vi sia una perdita di imparzialità ed indipendenza di Racanelli tale da compromettere l’esercizio della giurisdizione nella sede”. Paolo Comi

Fava capì che Amara bluffava e disse di fermarlo, ma Ielo e Pignatone lo ignorarono. Paolo Comi su Il Riformista l'11 Giugno 2021. Il pm Stefano Rocco Fava aveva ragione nel definire la collaborazione di Piero Amara con i magistrati un tarocco. Non era, dunque, un mitomane come qualcuno ha voluto far credere in questi anni. Nella settimana dell’arresto dell’avvocato siciliano da parte della Procura di Potenza, emergono nuovi inquietanti particolari, come la mail che pubblichiamo nella foto, sulla gestione del procedimento penale che gli era stato aperto a Roma. Amara era stato arrestato la prima volta nel febbraio del 2018 a seguito di una operazione congiunta della Procura della Capitale e di quella di Messina che indagavano sul famoso “Sistema Siracusa”, l’associazione di magistrati e professionisti nata per aggiustare i processi. Dopo qualche settimana in carcere, Amara decide che è giunto il momento di “collaborare” con i pm. La collaborazione gli varrà, qualche mese più tardi, un patteggiamento a tre anni di reclusione e qualche decina di migliaia di euro di multa. Un “obolo” se si pensa che era accusato di associazione a delinquere finalizzata alla frode fiscale, alle false fatturazioni e alla corruzione in atti giudiziari in quanto in grado di pilotare le sentenze fino al Consiglio di Stato. A giugno del 2019, per la cronaca, il patteggiamento romano diventerà definitivo. A Messina gli va anche meglio, patteggiando in continuazione la pena di un anno e due mesi di reclusione. Patteggiamenti regalati, dirà il sostituto pg di Messina Felice Lima rivolgendosi alla Cassazione per uno dei coindagati di Amara, l’avvocato Giuseppe Calafiore. «Come emerge dalla lettura dei capi di imputazione – aveva scritto Lima nel ricorso – si tratta di una delle più spudorate corruzioni sistemiche mai realizzate. Stupisce che la Procura di Messina abbia ritenuto legittimo tale patteggiamento». Lima aveva ricordato, a proposito di pene, che sempre a Messina «ad un ladro di uova di Pasqua erano stati dati quattro anni di carcere». Torniamo però a Roma. Fava partecipa con il suo capo, il procuratore aggiunto Paolo Ielo, agli interrogatori di Amara e si accorge subito che l’avvocato siciliano non dice molto ed è anche reticente chiamando in causa quasi solo magistrati in pensione. Nessun accenno, poi, al prezzo del suo silenzio per coprire i vertici Eni. Fava, indagando su una delle società di Amara, la Napag, che, fondata a Gioia Tauro nel 2012 per l’import/export di succhi di frutta si era data ai prodotti petroliferi, scopre che il fatturato è cresciuto a dismisura in pochissimi anni: dall’iniziale capitale di 10mila euro, ai 107 milioni del 2018. Solo Eni avrebbe versato alla Napag Italia srl e alla Napag Trading Limited 80 milioni di euro. Perché? Mistero. Amara, oltre a incassare da Eni, in quei giorni decide di spostare la sede legale delle sue aziende a Martina Franca, in provincia di Taranto. Perché? I rapporti con il procuratore Carlo Maria Capristo. Fava aveva ipotizzato subito che era tutta una manovra per evitare l’accusa di bancarotta. Con il trasferimento di sede si bloccherebbe tutto. Il problema è che lo spostamento è finto. La guardia di finanza, mandata da Fava in Puglia, non aveva trovato nulla. Neppure il nome delle società sul citofono. Fava decide quindi di scrivere una mail a Ielo e a Rodolfo Sabelli, l’altro aggiunto. In copia il colonnello Gerardo Mastrodomenico e Fabio Di Bella, gli ufficiali del Gico che l’anno dopo svolgeranno le indagini contro Luca Palamara. Risposta? Nessuna. Anzi, no: alla sua richiesta di arresto di Amara per queste imputazioni, dopo qualche mese, il fascicolo gli verrà tolto. Fava chiederà chiarimenti al Csm per questa “sottrazione”, evidenziando che il procuratore Giuseppe Pignatone e Ielo avrebbero dovuto astenersi perché i loro rispettivi fratelli, Roberto e Domenico, avrebbero avuto rapporti economici proprio con Amara e con l’Eni. Roberto Pignatone, in particolare, professore associato di diritto tributario all’Università di Palermo, era stato nominato da Amara come consulente fiscale in un procedimento a Siracusa contro Sebastiana Bona, moglie dello stesso Amara, e venne anche inserito nella sua lista testimoniale «affinché riferisca nella qualità di consulente tecnico di parte, sulla relazione tecnica fiscale dallo stesso redatta». «Quindi nel periodo in cui stanno per iniziare – scriverà Fava – le indagini che coinvolgeranno Amara, questi ha come consulente difensivo il fratello del capo della Procura che chiedeva il suo arresto» e che poi avallerà il patteggiamento. Nel procedimento romano Amara, come scritto nelle scorse settimane dal Riformista, era stato assistito dall’avvocato Salvino Mondello, in stretti rapporti di amicizia proprio con Ielo, la cui astensione sul punto era stata respinta da Pignatone. Risposta del Csm alle osservazioni di Fava? Nessuna. Paolo Comi

LO SHOW GIUDIZIARIO-MEDIATICO DEL PROCURATORE DI POTENZA CONTINUA. NUOVI ARRESTI, MA NESSUNO E’ DI POTENZA …Il Corriere del Giorno l'8 Giugno 2021.  Effettuate delle perquisizioni domiciliari nei confronti delle persone colpite dall’ordinanza del procuratore di Potenza Curcio, che per quanto riguarda la vicenda Capristo, potrebbe condizionare in qualche modo il corso del processo in corso, la cui prossima udienza si terrà il 18 giugno dinnanzi al Tribunale di Potenza. Nuove misure cautelari sono state richieste dalla Procura di Potenza, convalidate dal gip del Tribunale di Potenza, Antonello Amodeo nell’ambito di un’inchiesta che riguarda presunte irregolarità che sarebbero state commesse dall’ex procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo, nel corso di indagini sull’ex ILVA. Le nuove misure riguardano l’avvocato siciliano Pietro Amara arrestato a Roma verrà trasferito a Potenza, l’ex procuratore di Taranto Capristo, arresti domiciliari per Giacomo Ragno avvocato del Foro di Trani a cui è stata sequestrata la somma di 278.000 euro pari all’importo delle parcelle professionali pagate in suo favore da ILVA in amministrazione straordinaria, il poliziotto Filippo Paradiso dipendente del Ministero dell’Interno e nei ruoli della Polizia di Stato, attualmente distaccato presso lo staff del sottosegretario all’ interno Carlo Sibilia (M5S) nonché Nicola Nicoletti, socio della società Pwc – PricewaterhouseCoopers. Nei confronti di Capristo che è attualmente sotto processo per la prima vicenda giudiziaria che l’ha colpito, è stato disposto l’obbligo di dimora. Amara secondo le ipotesi accusatorie del procuratore Francesco Curcio avrebbe avuto rapporti frequenti con Capristo. Rapporti che Capristo ha sempre smentito e chiarito in tutte le sedi. In realtà l’avvocato Amara è stato soltanto consulente del prof. Laghi, che era uno dei tre commissari di ILVA in amministrazione straordinaria, ed insieme a lui ha partecipato solo a poche riunioni presso la Procura di Taranto, in quanto il legale dell’ILVA che interloquiva con la procura è sempre stato l’avv. Angelo Loreto come tutti i magistrati di Taranto che indagavano sull’ ILVA ben sanno. Effettuate delle perquisizioni domiciliari nei confronti delle persone colpite dall’ordinanza del procuratore di Potenza Curcio, che per quanto riguarda la vicenda Capristo, potrebbe condizionare in qualche modo il corso del processo in corso, la cui prossima udienza è fissata per il 18 giugno dinnanzi al Tribunale di Potenza. Durante la prima inchiesta sul caso Capristo, il procuratore di Potenza Curcio si è recato più volte a Taranto per interrogare dei dirigenti ILVA all’ interno del Comando Provinciale della Guardia di Finanza, alla ricerca di ipotetici reati accusatori nei confronti di Capristo. Le voci circolanti (che non possiamo confermare in quanto non eravamo presenti) parlavano di presunte pesanti pressioni del procuratore Curcio esercitate sui dirigenti dell’ILVA. I cinque sono accusati a vario titolo di abuso d’ufficio, favoreggiamento e corruzione in atti giudiziari. Nell’inchiesta è coinvolto anche l’ex gip di Trani, Michele Nardi, incredibilmente a piede libero, che secondo le ipotesi degli inquirenti basate sulle dichiarazioni dell’imprenditore Flavio D’Introno l’imprenditore coratino delle ceramiche arrestato nel 2007 per usura ai danni di commercianti del Nord Barese, condannato dalla Corte di Cassazione a 5 anni e 6 mesi di reclusione (per reati per i quale è previsto l’arresto) e 16.500 euro di multa. Secondo le dichiarazioni di D’ Introno, Michele Nardi avrebbe utilizzato il suo ruolo di ispettore ministeriale sostenendo Capristo come candidato alla nomina a procuratore di Trani, pretendendo in cambio una “tutela” rispetto alle indagini nei confronti di Nardi aperte all’epoca a Trani. Capristo, Nardi, D’Introno, Ragno, l’ex pm tranese Antonio Savasta, il commercialista Massimiliano Soave e il ragioniere Franco Maria Balducci e il carabiniere Martino Marancia sono stati indagati a piede libero per “concussione” con l’accusa di aver truccato due fascicoli di indagine della Procura di Trani, inducendo le “vittime” di nominare come avvocato difensore Ragno e Balducci o Soave come consulenti. Secondo la Procura di Potenza Capristo diventato procuratore di Taranto avrebbe anche favorito Amara e Nicoletti, , mostrandosi “più aperto, dialogante e favorevole alle esigenze dell’ILVA“. In questo modo secondo l’ ipotesi accusatoria Capristo avrebbe rafforzato nei confronti dell’amministrazione straordinaria “il convincimento che Amara e Nicoletti, nelle loro vesti di legale il primo e consulente factotum della amministrazione straordinaria il secondo, potessero più agevolmente di altri professionisti interloquire con la Procura di Taranto“. L’ex procuratore di Taranto Capristo, secondo l’accusa “manifestava apertamente (…) la sua posizione “dialogante” con il Nicoletti e la sua benevola predisposizione ad assecondare e considerare le esigenze della struttura commissariale di Ilva determinando un complessivo riposizionamento della Procura di Taranto rispetto alle pregresse, più rigorose, strategie processuali ed investigative impostate dal suo predecessore, Franco Sebastio: questo sarebbe avvenuto, ad esempio, sollecitando un sostituto a «concedere la facoltà d’uso dell’Altoforno 2 nonostante l’accertata parziale inadempienza da parte dell’ILVA alle prescrizioni». A Capristo i pm di Potenza contestano anche “la benevola predisposizione ad assecondare e considerare le esigenze della struttura commissariale di ILVA, determinando un riposizionamento del suo ufficio rispetto alle pregresse, più rigorose, strategie processuali e investigative manifestate dal suo predecessore”. Inoltre Capristo avrebbe fatto pressioni su alcuni pm di Taranto (ma incredibilmente non c’è traccia di alcuna denuncia da parte di questi pm) per valutare positivamente le posizioni di alcuni indagati o addirittura chiederne l’archiviazione. Ed avrebbe contemporaneamente “condizionato i dirigenti di ILVA, sottoposti a procedimenti penali, affinché concedessero incarichi difensivi all’avvocato Ragno”. Ipotesi questa che però al momento non trova riscontro in alcuna denuncia di questi dirigenti alla magistratura. E’bene informare i nostri lettori che il procuratore di Potenza Francesco Curcio dopo il primo arresto di Capristo, aveva presentato una querela nei confronti del nostro direttore Antonello de Gennaro per un suo articolo (leggi QUI) , ma il pm dr. Pierluigi Cipolla della Procura di Roma dopo aver acquisito dalla procura lucana tutti gli atti necessari per capire la situazione ed accertare la verità, non ha ritenuto diffamatori i nostri commenti sull’operato del dr. Curcio sulla vicenda giudiziaria che coinvolge l’ex-procuratore di Taranto. Conseguentemente il procuratore di Potenza è stato denunciato dal nostro direttore dinanzi alla Procura di Catanzaro, guidata da un signor procuratore capo, Nicola Gratteri, il quale non si piega o lascia condizionare dalle logiche “correntizie” di Area, il movimento dei magistrati di sinistra a cui appartiene Curcio ed il procuratore aggiunto facente funzione di Taranto Maurizio Carbone. La domanda che gli avvocati di Napoli che ben conoscono Curcio, che ha a lungo operato nella procura napoletana, è la seguente: “ Ma se tutto questo alla fine si rivelasse un altro “flop” come lo è stata l’inchiesta sulla P4, cosa diranno al CSM ? Promuoveranno ancora una volta il magistrato Curcio senza averne i titoli ?”. Un pubblico ministero che conosce molto bene Capristo in maniera confidenziale ci ha affidato una sua domanda “aperta”: “Ma se Capristo dovesse provare la sua innocenza, chi gli chiederà scusa e restituirà l’onore della sua lunga carriera macchiata da una discutibile inchiesta giudiziaria di una Procura di provincia che ama stare sempre al centro dell’attenzione mediatica ?” Ai posteri l’ardua sentenza.

Le relazioni pericolose tra Amara e l'ex procuratore. Mistero Capristo: cosa sapevano di lui al Csm? Paolo Comi su Il Riformista il 13 Agosto 2021. È il mistero giudiziario degli ultimi anni: chi ha voluto che Carlo Maria Capristo diventasse procuratore di Taranto? Sono almeno tre le Procure che, a vario titolo, stanno indagando sulla nomina di Capristo, avvenuta nella primavera del 2016, a capo dei pm tarantini: Perugia, Roma, Potenza. I primi ad accendere i riflettori su questa nomina furono i magistrati di Perugia. Nel fascicolo per corruzione aperto nel 2018 nel capoluogo umbro nei confronti dell’ex zar delle nomine Luca Palamara, il nome di Capristo compare a seguito delle dichiarazioni dell’avvocato Giuseppe Calafiore, collega di studio di Piero Amara, l’avvocato siciliano ideatore del “Sistema Siracusa” ed esponente di punta della “Loggia Ungheria”. Capristo, allora procuratore di Trani, sarebbe stato convinto da Amara a fare domanda per la Procura di Taranto, vacante dopo il pensionamento di Franco Sebastio. La presenza di Capristo a Taranto serviva, secondo gli inquirenti, per gestire le vicende relative all’Ilva, dove Amara aveva degli interessi importanti. Amara, pur non avendo alcuna nomina, partecipava agli incontri fra la Procura di Taranto e i legali di Ilva in amministrazione straordinaria. A seguito di questi incontri, nel 2017 venne avanzata la proposta di patteggiamento che avrebbe dovuto consentire alla società, gestita dai commissari straordinari Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi, di uscire dal maxi processo “ambiente svenduto”. Il patteggiamento sarà, però, bocciato dai giudici. Calafiore, durante il suo interrogatorio, affermò di non aver mai saputo con chi si relazionasse Amara per raggiungere l’obiettivo al Consiglio superiore della magistratura, limitandosi a dire che aveva rapporti “con mezzo Csm”. I riferimenti di Amara, comunque, sarebbero stati Palamara e il giudice Cosimo Ferri, deputato di Italia viva, ex Pd, già leader di Magistratura indipendente. Con il primo Amara avrebbe parlato tramite il faccendiere laziale Fabrizio Centofanti, con il secondo direttamente. Ferri, che era sottosegretario alla Giustizia quando venne nominato Capristo, aveva poi smentito questa ricostruzione, dichiarando di non aver mai avuto il cellulare di Amara. A Palamara, invece, non venne fatta alcuna contestazione formale sul punto. Dopo Perugia venne, nel 2019, il turno di Roma con l’entrata in scena questa volta, insieme al solito Amara, di Filippo Paradiso, un agente di polizia distaccato presso i Ministeri. Quest’ultimo, secondo i pm della Capitale, sfruttando la propria rete di relazioni istituzionali, avrebbe condizionato le nomine al Csm. Venne aperto un procedimento nei confronti di Amara e Paradiso e fu tirata in ballo anche l’attuale presidente del Senato ed ex componente del Csm Elisabetta Casellati. Quest’ultima, però, come Ferri, smentì seccamente. E arriviamo, infine, alla Procura di Potenza dove a far compagnia ad Amara ci sono sia Capristo che Paradiso. Per il procuratore di Potenza Francesco Curcio, che lo scorso giugno ha arrestato Amara e Paradiso, il poliziotto sarebbe stato una sorta di “alter ego” di Capristo. Una vicinanza “non solo dal punto di vista amicale”, dal momento che “era anche un punto di riferimento di Capristo nello sviluppo del suo circuito relazione in ambienti anche istituzionali e della sua carriera”. Paradiso, secondo l’accusa, avrebbe poi fatto conoscere Capristo ad Amara. «Paradiso e Capristo hanno fatto carte false per raggiungere la posizione di Procura (…) Paradiso ha certamente un sistema di relazioni importanti. Io contatti diretti con Capristo non ne avevo, passavo sempre da Paradiso», aveva dichiarato a verbale Amara, che si sarebbe successivamente avvantaggiato delle intermediazioni del poliziotto pagandogli qualche biglietto aereo ed alcuni pranzi. Il ruolo di Paradiso come king maker delle nomine sarebbe stato limitato. Per gli incarichi importanti, puntualizzò Amara, avrebbe avuto altri interlocutori. Dopo questa deposizione Amara era stato scarcerato. Diverso destino per Paradiso che si trova ancora ai domiciliari: evidentemente non ha fornito i nomi dei suoi referenti al Csm. In attesa di nuovi sviluppi, giunti a questo punto una domanda è d’obbligo: i consiglieri del Csm che nel 2016 votarono Capristo procuratore di Taranto saranno stati a conoscenza delle manovre di questi faccendieri? Paolo Comi

DIETRO LE QUINTE DELL’INCHIESTA DELLA PROCURA DI POTENZA SUI MAGISTRATI PUGLIESI. Il Corriere del Giorno il 10 Giugno 2021. La procura di Potenza si è un pò “distratta” sui rapporti dell’attuale procuratore capo di Matera Pietro Argentino (ex procuratore aggiunto facente funzione della procura di Taranto), il cui figlio-avvocato Giuseppe (detto Peppe) è stato “beccato” dal GICO della Guardia Finanza di Roma nello studio romano di Amara in via della Frezza 70 a pochi passi dalla centralissima piazza del Popolo. Continua la nostra opera di approfondimento e trasparenza sulla vicenda che ha portato in carcere degli habituè delle carceri italiane come l’avvocato Pietro Amara ed il poliziotto Filippo Paradiso, per fare chiarezza sull’operato della magistratura di Potenza. Aveva certamente ragione il collega Paolo Mieli ex direttore dei quotidiani LA STAMPA, il CORRIERE DELLA SERA ecc. quando la settimana scorsa su La7 a Piazzapulita  rivolgendosi ad Amara gli disse: “Lei è un assoluto genio, lei dissemina esche ed è più intelligente di noi e noi, magistrati e giornalisti tontoloni, stiamo tutti abboccando“. In quell’intervista esclusiva al conduttore Claudio Formigli, l’avvocato siciliano di Augusta, 52 anni trascorsi in una intensa attività di affari, politica e corruzioni, che si può definire inquietante e nello stesso momento ipnotica. Tra racconti enunciati, ed interrotti sul più bello, contraddetti con sottili avvisi a chi ascoltava davanti al televisore, Amara nella foga dell’interrogatorio, aveva rivelato di avere in mano registrazioni con persone che oggi negano di averlo mai conosciuto e che dunque provano quanto afferma; e che i verbali secretati usciti dalla Procura di Milano non erano ancora finiti. Come noto ormai a tutti, successivamente, l’avvocato Amara è stato arrestato accusato di scambio di favori legato al suo ruolo di consulente legale all’ILVA di Taranto (da cui ha percepito in 2 anni appena 90mila euro), svolgendo secondo un quadro indiziario del procuratore capo di Potenza Francesco Curcio, un’ attività “incessante di raccomandazione, persuasione, sollecitazione svolta, in favore del ex Procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo, su membri del Csm” (senza però che in ordinanza risulti alcun nome di membri del Consiglio Superiore della magistratura, e sopratutto alcuna prova granitica ed inconfutabile) con esposti anonimi per accreditarsi presso i vertici Eni “quale soggetto in grado di interloquire su tali procedimenti” . Nulla di nuovo nel percorso professionale di Amara. Ma la procura di Potenza si è un pò “distratta” sui rapporti dell’attuale procuratore capo di Matera Pietro Argentino (ex procuratore aggiunto facente funzione della procura di Taranto), il cui figlio-avvocato Giuseppe (detto Peppe) è stato “beccato” dal GICO della Guardia Finanza di Roma nello studio romano di Amara in via della Frezza 70 (vedi pag. 34 dell’ ordinanza del Gip del Tribunale di Potenza ) ed adesso lavora alla PWC- Price Waterhouse Coopers, come egli stesso indica sul suo profilo Linkedin. Stranamente il giovane rampollo di casa Argentino nel suo curriculum personale pubblicato sul social business network Linkedin non cita mai la sua esperienza lavorativo nello studio Amara. Una semplice dimenticanza o un consiglio strategico di papà Pietro? Ma l’inchiesta del procuratore Curcio contiene molte suggestioni, a volte frutto anche di illazioni e stupidi gossip, come su quello della “escort” che qualcuno, come riportato nell’ordinanza del Gip Amodeo del Tribunale di Potenza, avrebbe voluto mandare ad un pm di Bari Michele Ruggiero , in passato in servizio alla Procura di Trani, molto chiacchierato negli ambienti giudiziari per la sua passione per le donne, pur essendo coniugato e con figli. Noi come sempre ci limitiamo a verificare il contenuto degli atti giudiziari ed a proporvene la lettura integrale.

LA PROCURA DI POTENZA ED IL GIP A CACCIA DI CONFESSIONI DEGLI ARRESTATI. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno l'11 Giugno 2021. Il “teorema” della Procura di Potenza per quanto riguarda Amara e Paradiso, è stato condiviso dal gip Antonello Amodeo sarebbe quello di aver fatto attività di lobbyng per agevolare la carriera di Capristo , ma di fatto non vengono identificate ed indicate nell’ordinanza le persone che concretamente lo avrebbero favorito, nè tantomeno provato come lo avrebbero fatto. La linea difensiva dell’avvocato Piero Amara con il Gip ed i pubblici ministeri che lo hanno fatto arrestare, nell’interrogatorio di ieri mattina durato due ore si è confrontato con il magistrato,  è stato quello di ricondurre la propria attività a “lobbying” professionale ed imprenditoriale negando ogni presunto favore ricevuto da Capristo, che peraltro allo stato degli atti d’indagine non risulta comprovato, in quanto prove e riscontri oggettivi allo stato attuale sono assolutamente assenti . L’avvocato siciliano, diventato famoso per le sue rivelazioni sulla fantomatica “loggia Ungheria”, ha escluso di aver avuto un “interesse personale alla nomina a Taranto di Capristo” ed un’attenta lettura dell’ordinanza, per chi conosce la storia dell’ILVA, del processo Ambiente Svenduto, sembrerebbe dargli ragione. Il poliziotto Filippo Paradiso attualmente detenuto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, si è avvalso della facoltà di non rispondere “non essendo nelle condizioni fisiche per farlo e non conoscendo ancora gli atti”, ed attraverso il suo difensore l’ avv. Michele Laforgia del Foro di Bari, ha negato di avere fatto quanto gli viene contestato “Che ci fosse una relazione con Amara risulta agli atti, che fosse illecita è un altro problema” ed ha assicurato che anche lui “spiegherà le proprie ragioni ” riservandosi di chiedere di essere ascoltato nei prossimi giorni. Il “teorema” della Procura di Potenza per quanto riguarda Amara e Paradiso, è stato condiviso dal gip Antonello Amodeo sarebbe quello di aver fatto attività di lobbyng per agevolare la carriera di Capristo, ma di fatto non vengono identificate ed indicate nell’ordinanza le persone che concretamente lo avrebbero favorito, nè tantomeno provato come lo avrebbero fatto. Questa mattina viene ascoltato l’ex procuratore di Trani e Taranto, Carlo Maria Capristo, destinatario di un obbligo di dimora nella sua abitazione di Bari. Secondo la difesa dell’ex-procuratore le contestazioni della Procura di Potenza altro non sarebbero che “frutto di congetture, supposizioni e millanterie di faccendieri”. Seguirà l’interrogatorio dell’avvocato Giacomo Ragno e dell’ex consulente Ilva Nicola Nicoletti, entrambi agli arresti domiciliari dallo scorso 8 giugno. Costoro insieme agli ex magistrati tranesi Michele Nardi ed Antonio Savasta, vengono ritenuti dalla procura lucana “il cerchio magico di Capristo”. Nell’ipotesi investigativa delle pm Valeria Farina e Annagloria Piccinni coordinate dal procuratore Francesco Curcio, vengono contestati reati di abuso d’ufficio, concussione, corruzione in atti giudiziari, favoreggiamento. Ma qualcuno dimentica, giornalisti locali compresi, che nelle lunghe approfondite indagini sul “sistema Trani” della Procura di Lecce (che coinvolgeva i magistrati Nardi, Scimè, Savasta) competente per territorio sugli uffici giudiziari di Trani, e sugli approfondimenti della sezione disciplinare e del plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, nei confronti di Capristo non è mai emersa alcuna responsabilità. Amara assistito dagli avvocati Salvino Mondello e Francesco Montali, non ha minimamente condiviso l’impianto accusatorio della procura di Potenza, pressochè quasi integralmente riportato nell’ordinanza di custodia cautelare del Gip, precisando alcuni fatti e fornendo una diversa ricostruzione di altre contestazioni a suo carico. Una posizione molto chiara e ben diversa dall’atteggiamento collaborativo che sta tenendo con altre Procure. Secondo la Procura di Potenza si tratterebbe di “una strategia delle mezze verità, che depistano più di quelle vere “dall’esame delle dichiarazioni rese dall’avvocato Amara alle procure di Messina, Roma e Milano, nelle quali avrebbe ammesso ciò che non poteva negare ma nascosto parte rilevante dei fatti e circostanze importanti”. A noi al momento l’attuale impianto accusatorio riportato nell’ordinanza del Gip, ricorda invece un analogo “teorema giudiziario” del procuratore Curcio (all’epoca dei fatti soltanto sostituto procuratore) sull’ inchiesta sulla presunta P4 condotta insieme al pm Heny John Woodcock , che nel corso del giudizio in Tribunale si è dissolta come neve sotto al sole. “Una associazione segreta a delinquere fatta da una sola persona. La terribile P4” – scriveva Luca Fazzo su IL GIORNALE – “l’associazione che infettava il paese, “organizzata e mantenuta in vita allo scopo di commettere un numero indeterminato di reati contro la pubblica amministrazione e la amministrazione della giustizia”, “interferendo su organi costituzionali”, trafficando notizie segrete e manovrando nomine, non esisteva. L’unico condannato, l’uomo d’affari Luigi Bisignani (che ha patteggiato la pena a un anno e sette mesi) era evidentemente associato solo con se stesso. Una auto-associazione a delinquere”. In quell’occasione vennero incriminati come “sodali” di Papa e Bisignani persino il capo di Stato maggiore Michele Adinolfi e il generale Vito Bardi comandante in seconda della Guardia di Finanza (ora presidente della Regione Basilicata n.d.a. ) . Tutti e due poi archiviati, quando ormai le carriere erano finite in discarica. Nel frattempo, Papa sopravviveva a Poggioreale, pressato dai pm perché scegliesse di collaborare. Alla fine perse la pazienza, e scrisse una lettera a un amico senatore: «Il pm Woodcock mi ha fatto sapere che sarebbe disponibile a farmi scarcerare se ammettessi almeno uno degli addebiti e rendessi dichiarazioni su Berlusconi e Lavitola e almeno su Finmeccanica». Papa non accontentò i pm, e quando venne scarcerato dal giudice preliminare la Procura fece (invano) ricorso per rispedirlo in carcere. “Dopo nove anni, tutto finisce in niente. – scriveva IL GIORNALE – Certo, rimane la condanna patteggiata “per gravi motivi familiari» da Luigi Bisignani, unico colpevole di una associazione inesistente. «Mi dispiace – diceva Bisignani – che mia madre non ci sia più. A quasi novant’anni aveva subito una perquisizione corporale alla ricerca di floppy disk. Ovviamente come mi consente la legge, chiederò la revisione: che arriverà, mi dicono, fra molti anni». Sulle presunte pressioni e contatti con la presidente del Senato Elisabetta Casellati, all’epoca componente del Csm, per arrivare alla nomina di Capristo riportate negli atti del Gip e della procura, lo stesso procuratore di Potenza Francesco Curcio con una nota diffusa ieri (ma non pervenuta al nostro giornale) ha precisato che non è “confermata la circostanza che l’allora componente del Csm, Elisabetta Casellati, (attuale Presidente del Senato) abbia avuto un incontro diretto e personale con l’avvocato Piero Amara“ evidenziando che la precisazione è stata fatta “per garantire una informazione aderente alle attuali emergenza investigative, ferme restando la perdurante sussistenza delle circostanze di fatto e diritto poste a sostegno della ordinanza cautelare adottata contro gli indagati”.

Ma il procuratore Curcio evidentemente non deve essersi informato molto bene con i suoi colleghi e compagni di corrente di Area al Csm. Se lo avesse fatto avrebbe scoperto, che la Casellati non è stata relatore della proposta di nomina di Capristo a procuratore di Taranto. Ed avrebbe scoperto tante altre cose che di fatto scagionano l’ex procuratore capo di Trani e Taranto dalle ipotesi accusatorie lucane.

DIETRO LE QUINTE DELLA NOMINA DEL PROCURATORE FRANCESCO CURCIO A CAPO DELLA PROCURA DI POTENZA. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 19 Giugno 2021. L’allora procuratore aggiunto della procura di Potenza Basentini – è l’11 gennaio 2018 – scriveva a Palamara su whatsapp: “Luca, ho saputo che oggi la Comm. proporrà Curcio. ahimè… Non si riesce a fare proprio nulla per D’Alessio?”. Palamara rispondeva: “Si purtroppo è così”. Era il 14 marzo del 2019 quando la nomina di Francesco Curcio 65 anni originario di Polla ma nato a Bari, come procuratore capo della Procura di Potenza venne annullata dal TAR Lazio accogliendo il ricorso presentata dal pm potentino Laura Triassi contro le valutazioni compiute tra la fine del 2017 e gli inizi del 2018 dal Consiglio superiore della magistratura nell’assegnazione dell’ incarico direttivo a capo della Procura del capoluogo lucano, nomina particolarmente ambita e da sempre oggetto di attenzioni “correntizie”. La Triassi che a sua volta aveva presentato domanda, si rivolse ai giudici amministrativi evidenziando, in particolare, la mancata valutazione da parte della 5a Commissione del CSM, della propria esperienza maturata come procuratore facente funzioni a Potenza, che è anche sede distrettuale antimafia, tra il 2012 e il 2014 che all’epoca aveva dovuto anche gestire l’accorpamento dell’ufficio potentino con quello della soppressa procura della Repubblica di Melfi, gestendone la riorganizzazione. Quindi la magistrata aveva titoli più che a sufficienza per ottenere l’incarico desiderato, considerato dal momento che terminata l’esperienza come “facente funzioni” è tornata al lavoro come semplice sostituto antimafia. Incarichi di peso, sopratutto se comparati con quello del concorrente Curcio che all’atto della sua nomina non aveva mai avuto esperienze direttive o semi-direttive, mentre la Triassi sì. Solo che l’organo di autogoverno (o “lottizzazione” correntizia) della magistratura aveva scelto diversamente. Nacque da qui il ricorso e le pronunce dei giudici amministrativi che hanno dato pienamente ragione alla Triassi, smascherando le solite manovre di lottizzazione vigenti nella 5a commissione del CSM. Un malcostume recentemente ammesso e confermato dall’ex pm Luca Palamara già presidente dell’ANM, l’Associazione nazionale magistrati, in un’intervista rilasciata al quotidiano ‘La Repubblica‘. “Perché Palamara non si è svegliato una mattina e ha inventato il sistema delle correnti. Ma ha agito e ha operato facendo accordi per trovare un equilibrio e gestire il potere interno alla magistratura – ha affermato Palamara -. La Costituzione ha voluto che la magistratura fosse autonoma e indipendente. Per esercitare questo potere i magistrati hanno scelto di organizzarsi in correnti che nascono con gli ideali più nobili, ma che storicamente hanno poi subito un processo degenerativo…“. Il Tar Lazio nella sua sentenza parla di omissioni che “appaiono incomprensibili, per la rilevanza delle esperienze, e certamente integrano un importante difetto di istruttoria che inficia, ex se, il giudizio finale” ricordando la presenza di una circolare del Csm che nell’assegnazione degli incarichi direttivi e semidirettivi, impone “una attività di natura valutativa che non può risolversi nella semplice enunciazione delle esperienze dei candidati, dovendo estrinsecarsi in un apprezzamento di esse, alla luce della rilevanza che possono avere con riferimento al posto da ricoprire“. Il collegio del tribunale amministrativo del Lazio presieduto da Carmine Volpe (estensore Roberta Ravasio e Lucia Brancatelli referendario) proseguiva spiegando che “nel caso di specie si deve rilevare che effettivamente gli atti impugnati sono assolutamente carenti nella disamina dei requisiti attitudinali specifici vantati dalla dottoressa” (Triassi n.d.a.). Un anno dopo, il 10 gennaio 2020 il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso presentato dal dr. Curcio contro la decisione del TAR Lazio evidenziando, nella sua pronuncia sulla nomina come procuratore di Potenza, che il suo sindacato non si spinge a sostenere l’irrilevanza delle funzioni svolte da Curcio “quale sostituto procuratore presso la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo” criticando e stigmatizzando “l’assenza di una comparazione esplicita, ed in quanto tale misurabile secondo gli usuali canoni della ragionevolezza e proporzionalità“, tra questa e quella da procuratore facente funzioni di Triassi, che invece risulta del tutto obliterata nelle valutazioni del suo profilo da parte del Csm. Il collegio di Palazzo Spada composto dal presidente Giuseppe Severini, estensore Stefano Fantini, e consiglieri Giovanni Grasso, Anna Bottiglieri e Elena Quadri) bocciarono anche la difesa d’ ufficio ( o di “corrente” ?) del Consiglio superiore della Magistratura che si era costituito in udienza per contestare “la necessità di un’analitica valutazione dei profili dei candidati con riferimento alle attitudini ed al merito“, a favore di una “tecnica di redazione di maggiore concisione sia nella presentazione (od elencazione) dei candidati, che nel giudizio comparativo, in assenza di una prescrizione normativa specifica che lo precluda“. Nel caso in questione, più che di “concisione” bisognerebbe parlare di una grave “omissione” di una circostanza rilevante che ne aveva inficiato la completezza. “La valutazione analitica non può, per definizione, essere implicita, basandosi sulla mera affermazione dell’avvenuta disamina dei fascicoli personali degli aspiranti –evidenziava il Consiglio di Stato – trovando il proprio epilogo in un giudizio complessivo ed unitario, frutto della valutazione integrata e non meramente cumulativa degli indicatori”. Il Csm colpito da continui scandalo conseguenti alle vergognose manovre correntizie di alcune proprie nomine, avrebbe dovuto tornare sul suo operato, “rivalutando – come scriveva il Tar del Lazio – la posizione della ricorrente e poi comparandola”. Il Fatto Quotidiano nell’edizione di sabato 23 maggio 2020 riportava una conversazione in chat del gennaio del 2018 fra l’ex-capo del DAP Basentini con il presidente dell’Anm alla vigilia della nomina del procuratore capo di Potenza. Secondo la ricostruzione del Fatto, Basentini avrebbe chiesto a Palamara di fare qualcosa in favore di Luigi D’Alessio (procuratore capo di Locri dal 2013), protagonista dell’indagine contro l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano, preferito a Francesco Curcio (poi nominato dal Csm). L’allora procuratore aggiunto della procura di Potenza Basentini – è l’11 gennaio 2018 – scriveva a Palamara su whatsapp: “Luca, ho saputo che oggi la Comm. proporrà Curcio. ahimè… Non si riesce a fare proprio nulla per D’Alessio?”. Palamara rispondeva: “Si purtroppo è così”. Palamara aggiungeva “Ti devo parlare però” e Basentini prudente: “Quando vuoi, chiamami su whatsapp”. Soltanto 5 mesi dopo il 4 giugno 2020, con relatore il consigliere Giuseppe Cascini, coordinatore della corrente di “Area”, guarda caso… il Csm ha nominato Laura Triassi procuratore capo a Nola, sollevando dall’incarico il magistrato Anna Maria Lucchetta che si era insediata nel 2017, e che quindi non aveva neanche completato il proprio primo quadriennio di incarico direttivo. Una decisione presa a seguito di un altro ricorso al TAR presentato dalla dottoressa Triassi contro le nomine “allegre” e lottizzate del CSM, dove antichi usi ed abitudini di lottizzazione non sono mai cambiati neanche dopo lo scandalo esploso dal caso Palamara! Resta normale chiedersi: come mai il Csm non ha rimosso immediatamente Curcio dalla guida della Procura di Potenza visto che per il TAR Lazio ed il Consiglio di Stato avevano accertato e stabilito che il magistrato (appartenente alla “sinistrorsa” corrente di “Area”, la stessa di Cascini membro del del CSM) non era in possesso dei requisiti, comparati a quelli della dottoressa Laura Triassi ? Semplice. Con la nomina della Triassi a capo dalla procura di Nola, del piccolo centro ai confini dell’area metropolitana di Napoli, è venuta automaticamente meno l’interesse per la “contestata” procura lucana, e la conferma di Curcio sulla sua poltrona a Potenza diventava una pura formalità e così è stato. E’ forse un caso la precisazione di Curcio sul CSM nella recente vicenda che ha colpito l’ex-procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo (senza alcuna prova concreta) ? leggere “Deve essere tuttavia precisato, sia in fatto che in diritto, che l’attivazione Amara-Paradiso con attività di lobbing per la nomina di Capristo a Taranto non implica alcuna indagine sulla validità della nomina o la liceità della condotta dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura, questione estranea alla richiesta del pm nel presente procedimento e in relazione alla quale non viene delineato alcun profilo di rilevanza penale, che del resto esulerebbe dalla competenza di questo ufficio“. Come dire in altre parole: non mi metto contro chi mi fatto diventare procuratore senza averne titolo e merito (rispetto ai concorrenti all’epoca della nomina!) O vogliamo parlare della precisazione di Curcio sul presidente del Senato Elisabetta Casellati: “Non è confermata la circostanza che l’allora componente del CSM, Elisabetta Casellati, abbia avuto un incontro diretto e personale con l’avvocato Piero Amara”. Ma allora se non è confermata, come mai la Sen. Casellati, attuale Presidente del Senato e quindi la 2a carica dello Stato, viene citata in lungo e largo nelle carte dell’inchiesta? Tutto questo Curcio però non lo spiega nei suoi vari comunicati…. Infatti in una nota (inviata solo alla stampa “amica”) il Procuratore della Repubblica di Potenza, Francesco Curcio, ha evidenziato che la precisazione è stata fatta solo “per garantire una informazione aderente alle attuali emergenza investigative, ferme restando la perdurante sussistenza delle circostanze di fatto e diritto poste a sostegno della ordinanza cautelare adottata contro gli indagati” nell’inchiesta sulle vicende giudiziarie di Trani e dell’ex Ilva di Taranto. Quello che Curcio ed i suoi sostituti procuratori della procura di Potenza dovranno provare in tribunale a Potenza, e dalla lettura degli atti ci sembra un compito arduo, ben più difficile della fallimentare inchiesta sulla P4 a Napoli. Come avrebbero fatto i vari Amara, Paradiso, Nardi ecc. a far eleggere Capristo a procuratore a Taranto, visto che lo hanno votato ben 15 magistrati, membri del CSM all’epoca della sua nomina? Se esiste un corruttore, conseguentemente per logica ci deve sempre essere un “corrotto”. In questo i corrotti sarebbero 15 e tutti con la toga, la stessa che indossa Curcio in aula. Ma negli atti di Potenza di questi magistrati corrotti non si vede ombra alcuna. Chissà come mai…

Ex Ilva, a Potenza è il giorno dell'interrogatorio di Capristo. La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Giugno 2021. E’ in programma nella tarda mattinata, nel Palazzo di giustizia di Potenza, l’interrogatorio di garanzia dell’ex Procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, coinvolto nell’inchiesta della Procura del capoluogo lucano sulla corruzione in alcune vicende giudiziarie di Trani e dell’ex Ilva. Tre giorni fa Guardia di Finanza e Polizia hanno notificato all’ex magistrato (in pensione da alcuni mesi) l'obbligo di dimora a Bari. Stamani, inoltre, si terranno gli interrogatori di garanzia dell’avvocato Giacomo Ragno e di Nicola Nicoletti, consulente dell’Ilva in amministrazione straordinaria dal 2015 al 2018: entrambi si trovano ai domiciliari. Ieri nel carcere di Potenza il principale indagato dell’inchiesta, l’avvocato Piero Amara, ha risposto per due ore alle domande del gip Antonello Amodeo. Si è invece avvalso della facoltà di non rispondere il poliziotto Filippo Paradiso, detenuto da martedì scorso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

La carneficina giudiziaria. Sistema magistratura prosegue il killeraggio: è la volta di Nichi Vendola, folle sentenza su Ilva. Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Giugno 2021. La magistratura italiana, in questo momento, è sicuramente la più sputtanata di tutto l’Occidente, e forse di tutto il mondo. Scusate l’uso di una parola un po’ greve, non ne trovo altre. La sua credibilità sta a zero. È emerso in tutta evidenza che da molti anni non è governata dalle istituzioni democratiche previste dalla Costituzione ma da un “Sistema” fatto di logge segrete grandi e piccole, di camarille, di correnti, di “Supermagistrati” al di sopra della logica e delle leggi. Questo sistema decide le gerarchie, governa le inchieste, pilota le sentenze. Ed ha annientato lo stato di diritto. restiamo a guardare, indignati e rassegnati? Oggi possiamo scrivere cinque parole che sono altre cinque frecce al cuore della Giustizia: Del Turco, Vendola, Uggetti, Mannino, Stresa. Del Turco. La Cassazione ha condannato in via definitiva il suo accusatore, l’imprenditore Angelini, perché si è accertato che Angelini gonfiava i conti delle sue cliniche per spillare soldi alla regione. Del Turco se ne accorse e lo bloccò. La reazione di Angelini fu feroce: riuscì a spingere la magistratura ad arrestare l’amministratore onesto e a rovinare la vita a Del Turco. In Calabria, qualche anno prima, un altro amministratore fu fermato perché ostacolava i briganti della sanità. Si chiamava Francesco Fortugno, lo uccisero. A del Turco, in fondo, è andata bene. Vendola. È stato condannato a tre anni e mezzo di prigione. Perché i magistrati e la giuria popolare non hanno condiviso le sue scelte politiche su lavoro e ambiente quando governava la regione, scelto per due volte consecutive dai cittadini. Non è stato condannato solo lui, sono stati condannati scienziati, amministratori e tecnici, e poi sono stati condannati quasi all’ergastolo i fratelli Riva. L’Ilva però non è stata chiusa. Dunque i magistrati, a rigor di logica, dovrebbero ora essere a loro volta imputati e condannati per disastro ambientale. La condanna di Vendola ha una sola spiegazione: la necessità dei magistrati di farsi belli coi forcaioli e col movimento populista che – nonostante Draghi – in gran parte governa il paese (nel senso del governo reale). Tenete conto del fatto che tre anni e mezzo di prigione per concussione, in virtù delle leggi fasciste approvate nel 2019 da Lega e 5 Stelle, significano esattamente tre anni e mezzo, senza sconti e senza benefici carcerari. Uggetti. È il sindaco di Lodi. È stato assolto da tutto dopo la gogna mediatica, dopo la prigione, dopo la rovina della sua carriera politica, dopo essere stato linciato da 5 Stelle e Lega. Non solo è innocente, assolto da tutto, ma si è accertato che aveva operato per difendere il bene pubblico dall’interesse di privati. Da tre giorni è sottoposto alle ingiurie e ai falsi del Fatto Quotidiano, che gli dedica intere prime pagine per sostenere una falsità assoluta: che ha confessato di essere colpevole. Non è vero. Ma pare che Goebbels dicesse che una bugia ripetuta dieci volte diventa verità. Il Fatto ripete, ripete, ripete. Una mascalzonata senza pari, che è la prova provata di come talvolta il partito dei Pm si vendichi degli smacchi utilizzando la stampa che ha alle proprie dipendenze. Mannino. Stiamo parlando di Calogero Mannino, un dirigente democristiano che ha dato molto al nostro paese dagli anni Sessanta ai Novanta. Faceva parte della sinistra di Donat Cattin e di Bodrato. Poi fu messo nel mirino dai Pm che lo trascinarono in galera, e poi nel fango e lo tennero lì per 25 anni accusandolo di essere mafioso. Assolto da tutto, con una sentenza definitiva della Cassazione che faceva a pezzetti la professionalità dei Pm. I quali ieri sono tornati alla carica accusando la Cassazione di illogicità e Mannino di essere colpevole. Violando così etica, leggi, buonsenso, onore. Stresa. Conoscete la vicenda. Un Pm che chiede la condanna a pene severissime senza aver svolto neanche il 2 per cento dell’indagine. Non sa perché è caduta la funivia ma invita al linciaggio di tre colpevoli che il Gip, se Dio vuole, applicando la legge, scarcera per mancanza di indizi. Cosa facciamo di fronte a questo disastro giuridico che riguarda politici, lavoratori, imprenditori, scienziati, amministratori, gente comune e che vi abbiamo illustrato riferendoci solo ai casi esplosi ieri? Ieri: in una sola giornata. Provate a moltiplicare per 365, e ad aggiungere i casi di malagiustizia contro disgraziati sconosciuti che non arriveranno mai all’onore delle cronache. Non è sufficiente tutto questo, e non è sufficiente il racconto di Palamara, e poi quello ancor più sconvolgente di Amara, per convincere il Parlamento e il presidente della Repubblica a intervenire? Hanno paura dei satrapi? Possibile che non sentano la responsabilità di difendere la democrazia, la libertà, il diritto, dall’assalto di un pezzo della magistratura che disonora l’Italia e la stessa magistratura? Stanno assumendosi una responsabilità gravissima di fronte alla storia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il criterio ricorda quello della condanna di Moretti. Intervista a Luciano Canfora: “Su Ilva sentenza show, killeraggio contro Vendola ribalta realtà”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 2 Giugno 2021. «L’assunto secondo il quale le sentenze non si discutono mi puzza di censura. La giustizia è dentro la Storia. E come tale può e deve essere ‘giudicata’. E nel caso specifico, mi trovo d’accordo col titolo dal forte impatto del suo giornale sulla condanna in primo grado di Nichi Vendola». A sostenerlo è Luciano Canfora, filologo, storico, saggista, una “coscienza critica” della sinistra Professore emerito dell’Università di Bari, membro del Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana e direttore della rivista Quaderni di Storia (Dedalo Edizioni). Tra i suoi libri, ricordiamo: Fermare l’odio (Laterza); Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano (Laterza); Il presente come storia; Europa gigante incatenato (Dedalo), La natura del potere (Laterza): La scopa di Don Abbondio. Il moto violento della storia (Laterza) e il recentissimo La metamorfosi (Editori Laterza), sulla storia del Pci nel centenario della sua fondazione. Molti dei suoi libri sono stati tradotti in USA, Francia, Inghilterra, Germania, Grecia, Olanda, Brasile, Spagna, Repubblica Ceca. «Mi ribello ad una giustizia che calpesta la verità. È come vivere in un mondo capovolto, dove chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l’ombra di una prova. Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi, quelli che dai Riva non hanno preso mai un soldo, che hanno scoperchiato la fabbrica, che hanno imposto leggi all’avanguardia contro i veleni industriali. Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l’ennesima prova di una giustizia profondamente malata.» Così l’ex presidente della Puglia Nichi Vendola dopo la sentenza sull’Ilva di Taranto in cui è stato condannato.

Professor Canfora il politically correct vuole che le sentenze non si commentino…

E perché non si dovrebbe? Un’affermazione del genere sa tanto di censura, che non è una cosa logica ma cosa autoritaria. Ma almeno loro censori permettano di comparare, confrontare le sentenze tra di loro. Ad esempio, la decisione del giudice che ha liberato prontamente i padroni, gestori della funivia dove sono morte 13 persone, mi fa tragicamente ridere metterla accanto alla sentenza in cui viene coinvolto il presidente della Regione Puglia. È un criterio che rassomiglia a quello per cui Moretti, amministratore delle Ferrovie, è stato condannato per il disastro di Viareggio. Va detto che quello della funivia non è ancora una sentenza, è un provvedimento, quello contro Moretti fu una sentenza, questa contro Vendola è appena di primo grado, e poi nel secondo e nel terzo sarà certamente vanificata. I giudici hanno voluto fare una operazione mediatica. Mi viene in mente un paragone un po’ ardito. Posso?

Certo che sì.

Chi sostiene che Vendola abbia contribuito consapevolmente al disastro ambientale, è come Alberto Sordi nel film Tutti a casa che vedendo i tedeschi che sparano sugli italiani, deduce «i tedeschi si sono alleati con gli americani». È una battuta geniale di un film memorabile. Con il “killeraggio” di Vendola torniamo al ribaltamento della realtà del grande Albertone nazionale. A questa sentenza reagisco con stupore leopardiano: «non so se il riso o la pietà prevale», celebre verso di Leopardi. Aggiungo alcune altre considerazioni. La prima, è che queste pene comminate, 22 anni, 20 anni, meno male che a Vendola “solo” 3 anni e 6 mesi, rassomigliano a quelle del Tribunale speciale che condannò Gramsci, Terracini e Scoccimarro che si beccarono, ciascuno dei tre, dai 20 ai 22 anni di galera. L’accusa era di insurrezione contro i poteri dello Stato e sovversione. Era il Tribunale speciale per la difesa dello Stato del regime fascista, appena divenuto tale, dopo le leggi eccezionali del novembre del 1926, e quella sentenza fu del giugno del ’28. Il paragone, il senso della misura, sono tutti fattori mentali che andrebbero chiamati in causa…

Altre considerazioni, professor Canfora?

Ce n’è una storica. Lei m’interroga in quanto abitante in Puglia e nato in Puglia. Siccome ho quasi ottant’anni, mi permetto di ricordare che uno dei grandi problemi agitati per decenni e decenni attorno alla questione meridionale, era perché il Meridione è arretrato, perché non ha le grandi fabbriche del Nord, perché non ha una classe operaia. Allora dobbiamo industrializzare il Sud. E quindi nacquero il porto di Gioia Tauro, l’Ilva di Taranto, la zona industriale di Bari… E così nacque una classe operaia, una modernità. Nessuno sta dicendo che l’inquinamento non esiste, per carità. Però il fatto che la Fiom abbia sempre difeso lo stabilimento Ilva perché altrimenti si tratta di buttare a mare migliaia e migliaia di lavoratori e le rispettive famiglie, non è un fatto trascurabile. Nella storia del Mezzogiorno l’industrializzazione, che allora non poteva che essere l’industria pesante, era un obiettivo alto e nobile, che improvvisamente questi signori si sono dimenticati. E quando dico questi signori non mi riferisco a coloro che hanno emesso questa sentenza. Mi riferisco alla corrente d’opinione, ai finti ambientalisti scatenati, alla volontà di colpire Vendola perché dà fastidio il fatto che sia sempre stato un uomo di sinistra così coerente. Tutte queste cose messe insieme. E poi uno si chiede: ma quella zona della Campania, la “Terra dei fuochi”, non la tocca nessuno? Si sono fatte intere campagne elettorali per risanare quella zona tremenda; tutti sanno che lì si sotterrano rifiuti tossici di ogni tipo. Quello non è un disastro ambientale, è un optional della Storia? Dinanzi a tutto questo viene il disgusto. Meno male che Vendola ha nervi saldi. Secondo me è serenamente persuaso che questa vicenda non finisce qui.

Una vicenda di questo genere, assieme a tante altre, non rappresenta un segnale d’allarme di una giustizia malata?

Questa è un’espressione troppo patetica. Siccome studio la Storia da tanti anni, e spero di poter continuare a farlo per altri ancora, so bene che un sereno giudizio sulla macchina della giustizia non può che portare a concludere che anch’essa è calata dentro la Storia. Non è un ente sovrastorico o extra umano o sovrannaturale, come talvolta viene presentata in maniera fanciullesca. La Giustizia è dentro la Storia. È un pezzo del farsi continuo della Storia. E come tale è evidentemente influenzata da impulsi, correnti di pensiero, pressioni esterne, convincimenti interiori di chi la pratica… Non è fuori del mondo. Il grandissimo Dante si elevò a giudice di tutti i suoi contemporanei da poco scomparsi, piazzandoli chi nell’inferno, chi nel purgatorio, qualcuno pure nel paradiso, per sua fortuna. E questo farsi giudice dette fastidio pure a Paolo VI quando lo commemorò nel 1965, nel settecentesimo della nascita. E disse grande, grandissimo – Dante fu messo all’indice per il libro sulla monarchia – però, aggiunse il Papa, ha un po’ usurpato il mestiere del Padreterno. Effettivamente c’è questo elemento in questo libro meraviglioso che è La Commedia. Ma nessun giudice in carne ed ossa può pensare di essere il Padre Dante o il Padreterno.

Per tornare alla vicenda dell’ex Ilva. La giustizia farà il suo corso, come si suol dire, resta però, e questo è un tema che investe la politica, il conflitto tra industrialismo e ambientalismo.

In precedenza ho ricordato una cosa che tutti dimenticano, e cioè che potenziare l’industrializzazione del Sud è stata per decenni e decenni la bandiera del meridionalismo progressista. Gli ambientalisti sono come dei bambini, privi di memoria storica. Loro vivono nel presente e tutto accade nel presente. I grandi passi in avanti di Paesi arretrati sono avvenuti attraverso l’industrializzazione o no? Direi di sì. Purtroppo si sono pagati dei prezzi. La Cina arretrata che era in mano alle potenze coloniali occidentali ha creato una struttura industriale che fa ormai intimidire anche gli americani, a prezzi pesanti, perché l’inquinamento in Cina è un problema. Chi ha la soluzione in tasca si faccia avanti. Ma la soluzione non è un bel praticello con sopra tanti fiorellini e noi che danziamo contenti e con la vispa Teresa stiamo ad inseguire farfalle. Questo mondo esiste per poeti bucolici che però non hanno mai fatto nulla di buono.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Ex Ilva, Fitto: «Garantismo sempre e verso tutti». Il commento dell'eurodeputato dopo la condanna di Nichi Vendola La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Giugno 2021. Bruxelles - «Garantismo sempre e verso tutti, senza distinzione alcuna, quale principio di civiltà irrinunciabile. Vale anche nel caso molto delicato e complesso, per molteplici e ben note ragioni, della sentenza di primo grado nel procedimento Ambiente svenduto. Una sequela di condanne durissime che colpiscono i vertici di un’azienda tra le più rilevanti del Paese». Così in un post su Facebook l’on. Raffaele Fitto. «Vicenda ancor più grave, quando il giudizio condanna, come nel caso di Nichi Vendola, un vertice istituzionale che ha rappresentato i cittadini di una regione, nessuno escluso, che ne restano moralmente segnati - prosegue Fitto - . Auguro a Vendola di poter dimostrare, nei successivi gradi di giudizio, la sua totale estraneità a quanto gli viene contestato. Non solo per la sua personale onorabilità ma soprattutto per quella dell’istituzione che ha rappresentato». Fitto poi aggiunge che «da parte mia, nessun attacco, nessun insulto, nessuna esultanza: sentimenti che, invece, ho spesso ritrovato sul volto e nelle parole dei miei avversari in analoghe circostanze. Abbiamo vissuto tempi nei quali persino "l'auspicio" per così dire, di un avviso di garanzia o la "profezia" di un tintinnar di manette serviva a innescare la barbarie del linciaggio mediatico, della calunnia e dell’utilizzo politico delle vicende giudiziarie». L'eurodeputato li definisce «tempi torbidi e oscuri dei quali ho fatto anche io aspra e dolorosa esperienza per lunghi anni e che non auguro a nessuno, compreso Vendola che, di quei tempi, fu protagonista». Secondo Fitto «la giustizia, ovviamente, resta tale quando condanna e quando assolve. La fiducia in essa non è un rituale a secondo degli interessi e della posizione personale ma un dovere istituzionale. Mi auguro, infine, - conclude - che questa circostanza non venga sprecata sull'onda dell’emotività che induce, in taluni casi, a dissolvere anni di mal riposto "giustizialismo" in un impulso di rabbia, ma sia invece un’utile occasione per riflettere sui propri comportamenti del passato e soprattutto per evitare che si ripetano nel futuro». 

Il kompagno che scopre la giustizia indigesta. Domenico Ferrara il 31 Maggio 2021 su Il Giornale. Con la condanna a tre anni e mezzo per concussione aggravata sul caso Ilva, va in scena un cortocircuito rosso che pone Vendola in una situazione kafkiana. "Non sono mai stato a libro paga dei Riva". Lo diceva nel 2013 e lo ripete anche oggi, giorno della sua condanna a tre anni e mezzo per concussione aggravata. Nichi Vendola è rabbioso. E rilascia una dichiarazione di fuoco che mette in dubbio l'operato della magistratura: "Mi ribello ad una giustizia che calpesta la verità. È come vivere in un mondo capovolto, dove chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l'ombra di una prova. Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi, quelli che dai Riva non hanno preso mai un soldo, che hanno scoperchiato la fabbrica, che hanno imposto leggi all'avanguardia contro i veleni industriali. Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l'ennesima prova di una giustizia profondamente malata". L'ira è comprensibile: lui, paladino di una sinistra che ha sempre messo al primo posto la difesa dei lavoratori e dell'ambiente, che si ritrova dallo stesso lato della barricata in cui stanno i "padroni" da combattere. Non solo. Il vero contrappasso per l'ex leader di Sel è ritrovarsi accusato di averli financo aiutati. Quando nel 2015 venne rinviato a giudizio Vendola non aveva ancora maturato la rabbia nei confronti della magistratura. "Vado a processo con la coscienza pulita. Un rinvio a giudizio non è una condanna, è soltanto la porta di ingresso nel processo. Ovviamente, mi brucia molto la ferita che subisco: rappresento la politica che non è stata a libro paga dei Riva. E molti non possono dire la stessa cosa". C'era ancora un barlume di speranza nei confronti del sistema giudiziario. E c'era ancora la forza di passar sopra alle accuse politiche dei forcaioli, una su tutte quella del giustizialista Grillo che già due anni prima, in un comizio pubblico nel 2013 a Potenza, lo aveva definito "servo di Riva". Adesso, la fiducia ha lasciato il posto alla furia. Alla ribellione. Va in scena un cortocircuito rosso che pone Vendola in una situazione kafkiana. Anche perché nel 2012 era lo stesso presidente Vendola che esortava la classe dirigente a "evitare l'irruzione a gamba tesa nel recinto in cui la magistratura esercita le proprie funzioni''. Ne è passata di acqua nei ponti da quel lontano 31 agosto 2006 giorno in cui l'allora presidente della Regione Puglia avviava il suo "rapporto" con l'Ilva da lui considerata sempre un ''oscuro oggetto del desiderio'', perché da un lato "sentivo il fascino della grande fabbrica", dall'altro ''percepivo l'asprezza delle condizioni di lavoro di quella immensa scatola di fuoco e di acciaio". In una missiva indirizzata al patron Emilio Riva, Nichi poi scriveva: "Caro ingegnere, la sua azienda è dinanzi a un bivio: o sceglie la strada del più acuto dei conflitti di classe o si lancia a cuore aperto in una nuova stagione. La nuova stagione è quella in cui la fabbrica può crescere e diventare, ancor più di oggi, un protagonista mondiale dell'industria siderurgica: ma a condizione che l'organizzazione interna del lavoro sia capace di sconfiggere la finta fatalità di una morte che varca quei cancelli con troppa facilità. Possiamo dimostrare che la vita, la salute, la dignità non sono incompatibili con la parola Ilva? Io penso di sì. E spero che lei voglia condividere con me questa speranza''. Oggi però l'unica cosa che Vendola condivide con i Riva è una condanna penale. Il tempo e la giustizia si incaricheranno di stabilire eventuali altre verità che al momento, al contrario di quello che sostiene Vendola, non ci sono.

Domenico Ferrara. Palermitano fiero, romano per cinque anni, milanese per scelta. Sono nato nel capoluogo siciliano il 9 gennaio del 1984. Amo la Spagna, in particolare Madrid. Sono stato un mancato tennista, un mancato giocatore di biliardo, un mancato calciatore, o forse preferisco pensarlo...

Per i tre manduriani in tutto 40 anni e mezzo di carcere. La Voce di Manduria martedì 01 giugno 2021. La Corte d’assise del Tribunale di Taranto ha condannato 47 imputati (44 persone e tre società) nell'ambito del processo “Ambiente Svenduto” su presunto disastro ambientale delle acciaierie Ilva. Tra i condannati anche tre manduriani che ricoprivano ruoli apicali nello stabilimento di proprietà dei fratelli Riva (anche loro condannati). Per i tre manduriani in tutto 40 anni e mezzo di carcere. Tutti ingegneri, sono Luigi Capogrosso, condannato a 21 anni di carcere, Ivan Dimaggio, per lui 17 anni e Giuseppe Dinoi che se l’è cavata con 2 anni e sei mesi di reclusione. L’accusa aveva chiesto pene rispettivamente 28 anni per Capogrosso difeso dall’avvocato Enzo Vozza, e 3 anni e nove mesi per Dinoi difeso dagli avvocati Franz Pesare e Armando Pasanisi. Invariata la pena per Dimaggio difeso dagli avvocati Francesco Centonze e Pasquale Annicchiarico. Capogrosso, ex direttore dell’acciaieria, era accusato, tra le altre cose, di «aver commesso più delitti contro la pubblica incolumità nonché delitti contro la pubblica amministrazione e la fede pubblica, quali fatti di corruzione e di concussione, falsi e abuso d’ufficio». Dimaggio ha risposto di reati di natura ambientale. In particolare, secondo la procura, per non avere impedito «con continuità e piena consapevolezza, una massiva attività di sversamento nell’ambiente di sostanze nocive per la salute umana, animale e vegetale, diffondendo tali sostanze nelle aree interne allo stabilimento, nonché rurali ed urbane circostanti». L’ingegnere Dinoi è finito sotto processo con l’accusa di avere omesso i controlli sulla buona tenuta dei macchinari sotto la sua responsabilità, in particolare della gru crollata durante il tornado del 28 novembre del 2012 che causò la morte di un operaio di 44 anni. I legali degli imputati sono già pronti per iniziare la causa di appello.

Ilva di Taranto, da cos’è nata la sentenza: l’inquinamento, le morti sul lavoro, i ruoli dei politici. Francesco Casula l'1/6/2021 su Il Fatto Quotidiano. Da quali fatti e da quali circostanze è nato il processo "Ambiente svenduto" del quale si è concluso ieri il primo grado? Su cosa si è basata la sentenza, quali i ruoli dei politici, quali accuse sono cadute e quali prescritte perché è passato troppo tempo? Ecco di quali fatti dovevano rispondere i principali imputati. Sono 26 le condanne inflitte dalla Corte d’assise di Taranto al termine del processo di primo grado sull’ex Ilva. Le pene superano di poco i 280 anni di carcere. Un consuntivo nettamente più basso rispetto alle richieste della procura, che aveva chiesto 35 condanne per quasi 4 secoli di galera. La Corte, presieduta dal giudice Stefania D’Errico e a latere Fulvia Misserini, ha infatti ritenuto che alcune accuse fossero infondate, altre coperte da prescrizione, ma in altri casi ha emesso pene leggermente più alte di quelle richieste. Da quali fatti e da quali circostanze è nato il processo “Ambiente svenduto” del quale si è concluso ieri il primo grado? Su cosa si è basata la sentenza, quali i ruoli dei politici, quali accuse sono cadute e quali prescritte perché è passato troppo tempo?

ASSOCIAZIONE A DELINQUERE – Al termine del processo la Corte ha dato ragione alla procura ionica confermando l’esistenza di un’associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari e all’omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Per l’accusa dell’associazione hanno fatto parte Nicola e Fabio Riva, condannati rispettivamente a 20 e 22 anni di carcere, Luigi Capogrosso ex direttore della fabbrica condannato a 21 anni, l’ex dirigente delle relazioni istituzionali Girolamo Archinà che dovrà scontare 21 anni e 6 mesi di carcere, l’avvocato del Gruppo Riva Francesco Perli condannato a 5 anni, e poi alcuni fiduciari che componevano il cosiddetto Governo Ombra: 18 anni e 6 mesi per Lanfranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli, Agostino Pastorino, 17 anni e 6 mesi per Enrico Bessone. L’obiettivo dell’associazione era quello di “individuare le problematiche che non avrebbero consentito l’emissione di provvedimenti autorizzativi nei confronti dello stabilimento Ilva” e concordando le possibili soluzioni con esponenti del mondo politico, istituzionale, della stampa, delle organizzazioni sindacali, del settore scientifico. Tenendo l’Ilva al riparo da provvedimenti sgraditi, i Riva si sarebbero garantiti alti livelli di produzione con minimi interventi economici per l’ammodernamento della fabbrica. E così facendo avrebbero prodotto acciaio con la piena consapevolezza della massiva attività di sversamento nell’aria di sostanze nocive per la salute umana, animale e vegetale. Per l’accusa infatti diffondendo sostanze come idrocarburi policiclici aromatici, benzo(a)pirene, diossine, metalli e altre polveri nocive, hanno determinato “eventi di malattia e morte nella popolazione residente nei quartieri vicino il siderurgico” oltre che l’avvelenamento da diossina di 2.271 capi di bestiame e di tonnellate di cozze prodotte nel Mar Piccolo di Taranto.

MORTI SUL LAVORO – Sono sette le condanne inflitte per gli incidenti mortali nei quali persero la vita due operai dell’Ilva, Claudio Marsella e Francesco Zaccaria. Il primo è quello di Claudio Marsella, schiacciato da una locomotrice nel reparto “movimento ferroviario” dell’Ilva il 30 ottobre 2012: in primo grado sono stati dichiarati colpevoli l’ex direttore dello stabilimento Adolfo Buffo, il dirigente Antonio Colucci (4 anni di reclusione per entrambi) e il capo reparto Mof Cosimo Giovinazzi (2 anni con pena sospesa). Claudio Marsella quel giorno era impegnato nell’operazione di aggancio dei due rotabili – entrambi dotati di ganci per l’accoppiamento automatico dei mezzi – e aveva posizionato Il comando del locomotore in folle per farlo procedere lentamente sino all’aggancio, ma né il locomotore né il convoglio erano in realtà immobilizzati perché privi dei dispositivi di bloccaggio delle ruote (cosiddette staffe ferma-carro): una negligenza che costò la vita al giovane operaio. Francesco Zaccaria morì meno di un mese dopo Marsella: si trovava all’interno di una gru colpita dal tornado che si scatenò su Taranto e Statte il 28 novembre 2012: quella struttura, però, per l’accusa era “in pessimo stato di conservazione” ed era priva del “fermo anti uragano” e così precipitò da 60 metri trascinando in mare il giovane. Per omicidio colposo sono stati condannati gli stessi Buffo e Colucci, a cui si sono aggiunti il capo reparto Giuseppe Dinoi (2 anni e 6 mesi) e l’ispettore tecnico dell’Arpa Puglia, Giovanni Raffaelli, accusato in particolare di non aver effettuato un’idonea “verifica sull’integrità” della gru e condannato a 2 anni con pena sospesa.

LA POLITICA – Oltre alla pena di 3 anni e 6 mesi per l’ex presidente della Regione Nichi Vendola, la Corte ha condannato anche l’ex presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido e il suo assessore all’Ambiente Michele Conserva: 3 anni di reclusione per entrambi per aver fatto pressioni sui dirigenti affinché concedessero l’autorizzazione integrata ambientale alla discarica interna dell’Ilva. Dichiarata la prescrizione invece nei confronti di alcuni esponenti politici accusati di favoreggiamento. Il deputato Nicola Fratoianni, all’epoca dei fatti assessore regionale, era accusato di favoreggiamento nei confronti di Vendola e la procura aveva chiesto la condanna a 1 anno di reclusione. L’attuale assessore all’agricoltura Donato Pentassuglia era invece accusato di favoreggiamento nei confronti di Girolamo Archinà e la procura aveva chiesto la condanna a 8 mesi di reclusione: la corte però ha dichiarato l’intervenuta prescrizione. È stato invece assolto dall’accusa di omissione in atti d’ufficio l’ex sindaco di Taranto Ippazio Stefano: l’accusa era di non aver adottato alcun provvedimento, nella sua qualità di massima autorità sanitaria del territorio, contro Ilva nonostante fosse pienamente a conoscenza delle “criticità ambientali”. La Procura aveva ritenuto il reato già prescritto, ma la corte lo ha assolto nel merito perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.

LA CORRUZIONE PRESCRITTA – È trascorso troppo tempo dal 26 marzo 2010 anche per stabilire se quel giorno Lorenzo Liberti, ex consulente della Procura di Taranto, sia stato corrotto con una mazzetta da 10mila euro consegnata dal dirigente Ilva Girolamo Archinà per ammorbidire una perizia sulle emissioni industriali richiesta dalla procura ionica. La Corte d’assise ha infatti stabilito il non luogo a procedere nei confronti degli imputati accusati di corruzione in atti giudiziari, ma ha comunque condannato a 15 anni Liberti per il reato di disastro ambientale e avvelenamento di sostanze alimentari: per la corte “confezionando” la consulenza nella quale avrebbe scagionato l’Ilva, ha di fatto impedito alla Procura di Taranto di intervenire tempestivamente e favorito così i danni all’ambiente e agli animali.

Valeria D' Autilia per "la Stampa" l'1 giugno 2021. Un «abbraccio mortale che ha stritolato la città». Anche con la complicità della politica. A Taranto, dal 1995 al 2013, fu disastro ambientale. A 9 anni dal sequestro degli impianti più inquinanti e 5 dall' inizio del maxi processo, c' è la sentenza di primo grado di «Ambiente Svenduto». Condanne per la famiglia Riva, i vertici dello stabilimento e le istituzioni dell'epoca. E poi la confisca - con facoltà d' uso in attesa della Cassazione - dell'area a caldo. Quell' insieme di parchi minerali, cokerie, altiforni su cui dovrà esprimersi anche il Consiglio di Stato per una possibile chiusura. La sentenza scrive una nuova pagina nella storia della fabbrica, «gestita in maniera criminale» quando era nelle mani degli industriali lombardi. I fratelli Fabio e Nicola Riva hanno appreso a Milano la notizia dei 22 e 20 anni di carcere. All' esterno dell'aula, una manifestazione di cittadini e associazioni. Applausi e striscioni: «Giustizia è fatta». In 300 udienze, ricostruiti anche i rapporti tra siderurgico e politica. Figura chiave Girolamo Archinà- responsabile relazioni esterne del gruppo- condannato a 21 anni e 6 mesi. E poi «la pesantissima intercessione in favore dell'Ilva da parte di Nichi Vendola per vantaggio politico»: 3 anni e mezzo per l'ex presidente della Puglia accusato di pressioni su Assennato, ex direttore dell'Agenzia per l' ambiente (per lui 2 anni), affinché attenuasse le sue posizioni verso l' azienda. E poi 3 anni per l' ex presidente della Provincia Florido e il suo assessore Conserva per aver avallato la richiesta di autorizzazione di una discarica di rifiuti pericolosi con notevole risparmio per il gruppo. Nelle carte anche una falsa perizia sull' inquinamento del consulente della procura Liberti (condanna a 15 anni). «Questa sentenza è un macigno sulle azioni del Governo che ora deve avviare una vera transizione ecologica» commenta l'attuale sindaco Melucci. Il comune di Taranto è tra le circa mille parti civili. «Qui una strage per il profitto». Una serie di decreti hanno consentito a quella fabbrica di continuare a produrre. Mentre le perizie epidemiologiche parlavano di 90 morti l' anno, elevata presenza di tumori pediatrici con una «forte associazione tra inquinamento dell' aria ed eventi sanitari». Infine, una «compromissione della salute degli operai». In quell' estate del 2012 scesero in strada cittadini e metalmeccanici contro il ricatto occupazionale. Per la difesa, «i Riva hanno costantemente investito ingenti capitali per migliorare gli impianti e produrre nel rispetto delle norme». In totale 4 miliardi e mezzo di euro. «Sono state adottate le migliori tecnologie. Non c' è mai stato dolo, limiti sempre rispettati». Nata negli anni '60 a ridosso del quartiere Tamburi, l' acciaieria fu prima pubblica, poi privata nelle mani dei Riva. Durante le indagini, venne commissariata e affidata, nel 2018, ad ArcelorMittal. Oggi dalla partnership tra Invitalia e il colosso franco-indiano, è nata Acciaierie d' Italia. Due anni fa, la Corte europea per i diritti umani ha condannato l' Italia per «non aver protetto i cittadini» che vivono nelle aree delle emissioni tossiche. Intanto, nella vicenda irrisolta della più grande acciaieria d' Europa, sono partiti altri esposti contro il Governo e l' attuale gestore. Nelle carte della magistratura tarantina, associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro e la morte di due operai: Claudio Marsella, schiacciato da una motrice e Francesco Zaccaria, precipitato da una gru. Ai fiduciari dell' acciaieria inflitti oltre 18 anni, altri 21 per l' ex direttore dello stabilimento Capogrosso. A 4 è stato condannato Buffo, ora direttore di Acciaierie d' Italia. L' allevatore Vincenzo Fornaro, all' inizio di questa battaglia, ha perso tutto. Centinaia di capi di bestiame abbattuti nei terreni vicino al siderurgico. Pieni di diossina, entrata nella catena alimentare. Era il 2008. Dalla sua denuncia e dalle analisi di laboratorio su un campione di formaggio contaminato, prese il via l' inchiesta «Ambiente Svenduto». «Oggi si dice chiaramente che quello stabilimento inquina e uccide. Finalmente possiamo immaginare una città libera dai veleni».

«Ilva, non c'entro con il disastro», parla ex presidente provincia Florido. Il nodo della discarica: «Non fu autorizzata da me, ma da un decreto del Governo arrivato mentre mi trovavo ai domiciliari». Fabio Venere La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Giugno 2021. «Mi sembra impossibile di essere stato condannato. Sono addolorato, sgomento. Pensavo che tutto potesse finalmente finire ma, invece, da otto anni subisco quella che considero una profonda ingiustizia». Gianni Florido, ex presidente della Provincia di Taranto a capo di una coalizione di centrosinistra, lunedì è stato condannato a 3 anni per induzione indebita nei confronti di un ex dirigente nell’ambito del processo «Ambiente svenduto».

Florido, si aspettava una sentenza simile?

«No. Mi ero convinto che, nel corso del dibattimento, fosse stato dimostrato che non esistessero gli addebiti sul piano penale che mi erano stati mossi. Pensavo che la Corte avesse compreso che quell’azione della Provincia sulla discarica dell’ex Ilva, peraltro mai da noi autorizzata, era nata nel pieno di un conflitto di competenze».

 Ambiente, avviata la prima causa contro lo Stato Italiano: “Inerte sull’emergenza climatica”. Giampiero Casoni il 06/06/2021 su Notizie.it. Ambiente, avviata la prima causa contro lo Stato Italiano: “Inerte sull’emergenza climatica e fermo solo a sterili e ambiziose dichiarazioni”. Con essa ci sono più di 200 attori-ricorrenti, soggetti fisici e giuridici, associazioni, comitati e cittadini. Terreno di scontro è il Diritto Civile e convenuto è lo Stato Italiano, che non avrebbe messo in campo alcuna iniziativa concreta e fattuale per contrastare il cambiamento climatico. 

Ambiente, avviata la prima causa contro lo Stato: obiettivi e finalità. Marica Di Pierri ha spiegato finalità e polpa giudiziaria dell’azione, presentata ufficialmente nella Giornata mondiale dell’ambiente, a Fanpage.it: “La causa ha l’obiettivo di spingere lo Stato a fare di più per contrastare l’emergenza climatica, chiediamo al giudice civile di dichiarare che l’Italia è inadempiente dal punto di vista climatico, ha responsabilità per la sua inerzia nel raggiungere l’obiettivo sottoscritto a Parigi”. Ma quali sono le direttrici in punto di diritto, a tener conto che una rivendicazione etica (spingere lo Stato è concetto molto didascalico, la legge ingiunge) è una cosa ma una istanza giudiziaria è un’altra? Il ricorso chiede “di condannare l’Italia ad abbattere le emissioni di tre volte rispetto ai target attuale. L’obiettivo attuale, al 2030, è più o meno del 36%: la richiesta che noi facciamo è una riduzione del 92%”. 

Ambiente, avviata la prima causa contro lo Stato Italiano: il calcolo effettuato. Su quali basi sia stata definita quantitativamente la richiesta è sempre la Di Pierri a spiegarlo: “Questo obiettivo discende da un calcolo, basato sulle evidenze scientifiche e poi da un report commissionato a un centro di ricerca climatico, Climate Analytics, a cui abbiamo chiesto di verificare i trend emissivi e di fare dei calcoli basandosi sulle metodologie consolidate rispetto al criterio di equità, considerando sia le responsabilità storiche dell’Italia che le capacità tecnologiche e finanziarie attuali”. Portare a casa il risultato è difficile, ma i ricorrenti hanno voluto che a fare massa critica andassero “per tabulas” anche “le emissioni che l’Italia produce all’estero, pensiamo ai fronti estrattivi di Eni per esempio”. 

Ambiente, avviata la prima causa contro lo Stato: ragioni giuridiche e stimolo sociale. Un risultato complesso e a lungo termine dunque, ma anche un target più a breve tempo, quale? Quello pubblicistico che mentre un concetto si definisce in diritto, si afferma e radica nel tessuto e nelle condotte sociali. “Spesso un’azione giudiziaria ha anche un impatto extra-giudiziale, nelle more delle decisioni della giustizia si assiste a una maggior ambizione da parte degli Stati. Oltre alla risposta del giudice speriamo che lo Stato agisca spinto dalla pressione dell’azione legale, speriamo che lo Stato voglia decidere di agire prima, aumentando i suoi obiettivi”. 

Ambiente, prima causa contro lo Stato Italiano: i precedenti all’estero. E i precedenti non mancano: “Nel nostro continente ci sono stati diversi casi vittoriosi, come il caso Urgenda in Olanda: ha vinto tutti i gradi di giudizio con la condanna nel 2019 dello Stato olandese ad aumentare le ambizioni di riduzione, ha dovuto rivedere i suoi obiettivi”. E ancora: “Ad aprile la Corte costituzionale tedesca ha emesso una sentenza storica: le politiche del governo tedesco, molto più ambiziose di quelle italiane, sono state ritenute non sufficienti. Il governo dovrà in effetti aumentare gli obiettivi”.

Ambiente, prima causa contro lo Stato che “fa solo dichiarazioni ambiziose”. Il sunto della faccenda è che i ricorrenti vedono solo molto fumo negli occhi da parte dell’Italia, anche con l’esecutivo in carica, il governo Draghi: “Siamo fermi a dichiarazioni ambiziose, alle quali non conseguono azioni altrettanto ambiziose. C’è stato un gran parlare della centralità della transizione, ma al momento non si hanno notizie né dell’annunciato aumento delle ambizioni di emissioni né dell’eliminazione dei sussidi ambientalmente dannosi annunciata”.

Le cause del mancato risanamento. Disastro Ilva, ecco perché magistratura e governo Letta sono i colpevoli. Corrado Clini su Il Riformista il 3 Giugno 2021. Le condanne di Nichi Vendola e Giorgio Assennato sono l’indicatore dell’ispirazione della sentenza di Taranto sull’Ilva. Una sentenza in piena continuità con la decisione della Procura e del GIP di Taranto che nel novembre 2012 bloccarono l’attuazione del piano di risanamento ambientale che doveva essere completato entro il 31 dicembre 2015 e che sarebbe stato completamente pagato da Riva. Il piano, elaborato in piena collaborazione con la Regione, era stato confermato dalla legge approvata dal Parlamento quasi all’unanimità alla vigilia del Natale 2012. Questa legge venne contestata da GIP e Procura e disapplicata fino al commissariamento dell’ILVA da parte del governo Letta, commissariamento di cui abbiamo apprezzato in questi 8 anni i risultati disastrosi sul piano ambientale – con il risanamento rinviato al 2023 – sul piano economico e su quello dell’occupazione. Come dice Nichi Vendola siamo in un “mondo capovolto” dove la linea giusta e legale della protezione dell’ambiente e del lavoro è stata ribaltata come se fosse la linea dell’inquinamento e della disoccupazione. Sarebbe ora di fare chiarezza sulle ragioni vere che hanno impedito tra la fine del 2012 e aprile 2013 di dare attuazione al piano di risanamento ambientale che era legge dello Stato. L’Ilva sembra avvitata verso una crisi senza uscita, con l’accelerazione delle contraddizioni e delle difficoltà che hanno accompagnato l’azienda a partire dal commissariamento nel giugno 2013. Quando all’inizio del 2012 il presidente della Regione Puglia e i parlamentari locali avevano chiesto a Mario Monti un intervento del governo, avevamo individuato un percorso sia per la riqualificazione degli impianti in continuità produttiva, sia per il risanamento ambientale e del territorio. La chiusura dello stabilimento e la desertificazione trentennale del territorio, come nel caso di Bagnoli, furono escluse. Ricordo i fatti. Il 26 luglio 2012, insieme al Ministro Fabrizio Barca e al vice Ministro Claudio de Vincenti, ho sottoscritto con il presidente della Regione Nichi Vendola, con gli Enti Locali e il Porto un protocollo per il risanamento ambientale e la riqualificazione del territorio di Taranto. Poi con il decreto legge 129/2012 erano stati individuati gli interventi “urgenti”, da attuare entro la fine del 2017, finanziati con 336 milioni di euro. Il 26 ottobre 2012, sulla base delle perizie trasmesse dalla Procura della Repubblica di Taranto e dopo un serrato confronto con Bruno Ferrante, nominato presidente dell’Ilva, ho rilasciato la nuova Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA). L’AIA prevedeva l’impiego da subito delle migliori tecnologie disponibili per la produzione di acciaio, che sarebbero poi diventate vincolanti in Europa nel 2016. Gli interventi di risanamento ambientale dovevano essere conclusi entro il dicembre 2015 e richiedevano investimenti da parte di Ilva per almeno 3 miliardi. Il 15 novembre del 2012 Ilva aveva accettato di realizzare tutti gli interventi previsti dal programma di risanamento degli impianti, in pieno accordo con l’AIA e le direttive europee. Il 26 novembre del 2012 il Gip di Taranto aveva sequestrato come “corpo del reato” i prodotti finiti già pronti per la vendita, per un valore di 1 miliardo di euro, che l’azienda aveva destinato ai primi investimenti per il programma di risanamento, come comunicato da Bruno Ferrante allo stesso Gip. In questo modo le disposizioni dell’AIA e il piano di risanamento erano stati bloccati sul nascere. Per sbloccare il sequestro e consentire continuità produttiva e risanamento ambientale il governo era intervenuto il 3 dicembre 2012 con un decreto legge, approvato quasi all’unanimità dal Parlamento il 24 dicembre, con la legge 231. Ma la Procura della Repubblica di Taranto e il Gip avevano sollevato eccezioni di incostituzionalità e bloccato l’applicazione della legge. Il 9 aprile 2013 la Corte Costituzionale aveva respinto le eccezioni, tuttavia il Gip ha continuato a disapplicare la legge fino all’insediamento del nuovo Governo. La sequenza dei fatti tra novembre 2012 e la fine di aprile 2013 ha determinato ritardi nell’avvio del piano di risanamento, a fronte dei quali Ilva – come prevede la legge – aveva richiesto modifiche del cronoprogramma ferma restando la fine del 2015 per la conclusione degli interventi previsti dall’AIA. Ma, appena insediato il nuovo Governo ha comunicato all’Ilva che la motivazione “formale” per il commissariamento dell’impresa nel giugno 2013, erano stati i ritardi. Il 16 luglio 2013, nel corso di una audizione al Senato, avevo rappresentato le motivazioni tecniche e giuridiche contrarie al commissariamento. Senza esito. Nelle motivazioni del Governo, il commissariamento aveva l’obiettivo di accelerare i tempi del risanamento ambientale e rafforzare la competitività dell’Ilva. I risultati di questa operazione si sono rivelati disastrosi sia dal punto di vista ambientale che economico. Gli interventi di risanamento ambientale e riqualificazione degli impianti, sono stati rinviati più volte fino alla fine del 2023. I ritardi, pretesto del commissariamento, sono stati moltiplicati per anni. Il silenzio su tutto questo è semplicemente scandaloso. Va poi detto che se fosse stata attuata l’AIA nei tempi previsti non avremmo avuto, negli ultimi cinque anni, le ripetute nubi di pulviscolo che inquinano Taranto e che la concentrazione di inquinanti nelle emissioni sarebbe stata drasticamente ridotta ben oltre i limiti di legge. Se si guarda ai risultati economici, Svimez ha stimato che – solo per la ridotta esportazione di prodotti – tra il 2013 e il 2019 Ilva ha perso oltre 10 miliardi, perdendo mercati nel momento in cui era necessario rafforzare la sua competitività, nel quadro di una crescente crisi dell’acciaio europea e mondiale. Serve un progetto industriale adesso, perché i mercati non aspettano i tempi e le modalità tortuose della politica italiana, e Ilva continua a perdere. È stravagante immaginare il futuro dell’Ilva senza gestire il presente, mentre continuano l’inquinamento ambientale e l’erosione dei posti di lavoro. Se si vuole assicurare un margine di possibilità alla ripresa dell’Ilva, il piano industriale deve completare il piano di risanamento ambientale, in continuità con le attività produttive dell’area a caldo. Queste sono le disposizioni dell’AIA ancora in vigore e questa deve essere la prima priorità dell’eventuale partecipazione di Cdp. È necessario poi individuare il percorso e i tempi per la decarbonizzazione della produzione dell’acciaio, opzione obbligata per il futuro dell’azienda, partendo da quello che si può fare subito fino alla soluzione “finale” dell’utilizzazione dell’idrogeno. Questo percorso non è alternativo all’AIA, ma ne è la continuazione. Il primo passo per la decarbonizzazione, sulla base dell’esperienza già consolidata nello stabilimento VoestAlpine di Linz considerato un “campione della green economy”, può essere l’impiego delle plastiche per la sostituzione parziale del coke. Il fornitore di VoestAlpine è il consorzio italiano per la raccolta delle plastiche Corepla. Questa soluzione richiede meno di un anno. Il secondo passo è l’impiego del gas naturale per la sostituzione parziale e progressiva del carbone e del coke metallurgico. Il vincolo è costituito dal costo del gas naturale. Ma il problema potrebbe essere risolto attraverso la destinazione all’Ilva di una quota (3,5 miliardi di metri cubi) del gas trasferito dal Tap in Puglia sulla base di un contratto di lungo termine a prezzo predeterminato. In ogni caso è necessario un piano dettagliato, accompagnato da un programma di investimenti e da misure fiscali definite e stabili. In questo quadro è auspicabile, oltrechè giustificato, l’intervento di Cdp. Se ci fosse già questo piano, sarebbero necessari almeno tre-cinque anni di lavoro. Ma il piano non c’è. Il terzo passo riguarda l’impiego dell’idrogeno verde per la completa decarbonizzazione della produzione di acciaio. Ha ragione il Ministro Patuanelli quando ricorda che l’introduzione dell’idrogeno è coerente con il Green Deal europeo e può ricevere finanziamenti europei anche nell’ambito del Recovery Fund. Ma qual è la dimensione degli investimenti necessari? Quale sarebbe l’eventuale cofinanziamento europeo? Quali sono i tempi per l’acciaieria a idrogeno? Secondo una stima preliminare sarebbe necessario assicurare all’Ilva una fornitura continua di elettricità prodotta da fonti rinnovabili (circa 3.000 MW) con un numero adeguato di impianti di elettrolisi dell’acqua (alcune migliaia) per la produzione di idrogeno verde. Un progetto complesso e impegnativo, certamente non attuabile nei tempi brevi necessari per assicurare la continuità produttiva dello stabilimento tarantino. Forse, richiamando ancora una volta l’esperienza di VoestAlpine, si potrebbe realisticamente partire con un progetto dimostrativo: a Linz è stata avviata la realizzazione di un impianto pilota da 6 MW con un cofinanziamento europeo di 18 milioni di euro. Ovviamente un progetto dimostrativo di questa taglia è un investimento sul futuro, non certamente la soluzione nel breve periodo. Insomma, per la ripartenza si possono realisticamente individuare quattro linee di azione in continuazione e progressione tra di loro: attuazione rapida del piano di risanamento stabilito da AIA nel 2012, impiego della plastica come agente riducente in sostituzione del coke nel giro di un anno, utilizzo del gas naturale per la progressiva trasformazione dell’area a caldo e sperimentazione della produzione e dell’impiego di idrogeno “verde”. Questo percorso è ben incardinato nel Green Deal europeo e coniuga crescita, innovazione e protezione dell’ambiente. Tuttavia senza le azioni urgenti per assicurare la continuità produttiva e il risanamento ambientale dell’area a caldo, la china della decrescita infelice è inevitabile”. Corrado Clini

Ai piedi del Vulcano. Così l’Ilva di Taranto ha divorato una città, il suo ecosistema, e ha compromesso il futuro dell’acciaio italiano. Carlo Bonini (coordinamento multimediale e testo) Giuliano Foschini e Marco Patucchi su La Repubblica il 2 giugno 2021. Nel cuore del golfo di Taranto, l'acciaieria più grande d'Europa, già "Italsider", già "Ilva", oggi "Acciaierie d'Italia", a lungo orgoglio dell'industria italiana, è il Vulcano dai lapilli e i fumi velenosi che tutto ha inghiottito. Le vite di donne, uomini, bambini, uccisi da diossine e polveri sottili. Il lavoro di un'aristocrazia operaia, gli "altofornisti". Un intero ecosistema marino e agricolo.

Ai piedi del Vulcano. Così l’Ilva di Taranto ha divorato una città, il suo ecosistema, e ha compromesso il futuro dell’acciaio italiano. Nel cuore del golfo di Taranto, l'acciaieria più grande d'Europa, già "Italsider", già "Ilva", oggi "Acciaierie d'Italia", a lungo orgoglio dell'industria italiana, è il Vulcano dai lapilli e i fumi velenosi che tutto ha inghiottito. Le vite di donne, uomini, bambini, uccisi da diossine e polveri sottili. Il lavoro di un'aristocrazia operaia, gli "altofornisti". Un intero ecosistema marino e agricolo. Ventritrè miliardi di Pil. Politici incapaci di tutto e per questo pronti a tutto nel loro evanescente, confuso e continuo balbettio. La sentenza della Corte di Assise che, in primo grado, ha inflitto il 31 maggio scorso, tre secoli di carcere agli imputati ritenuti responsabili di disastro ambientale, a cominciare dai fratelli Riva, la famiglia degli ex proprietari, ci consegna una storia che è la metafora esatta del Paese e della sua crisi strutturale permanente. Delle sue pavidità, convenienze, piccole e grandi ingordigie, della sua incapacità di immaginare il proprio futuro "out of the box". In 60 anni - tanti ne sono passati da quando venne posta la prima pietra dello stabilimento - tutto è cambiato perché nulla cambiasse. Vi raccontiamo come sia stato possibile. E perché questa è davvero l'ultima chiamata per rompere una maledizione, mettere fine a una strage silenziosa e dimostrare che un'altra fabbrica è possibile. Che i diritti alla salute e al lavoro possono e devono sommarsi, non elidersi. Che il Vulcano non avrà la meglio su chi lo ha acceso e avrebbe dovuto esserne il guardiano.

Il formaggio di Carmelo. Taranto, 27 febbraio 2008. A Taranto è una giornata di sole. Il vento ha spazzato via nuvole nere. Non fa nemmeno troppo freddo. Al bar d'angolo del tribunale, il "Forum", si accalca al bancone la solita folla di avvocati con i loro clienti. Tra loro, insieme a un amico, Piero, operaio dell'Ilva, c'è anche un tale che di nome fa Alessandro Marescotti. Marescotti è un professore di filosofia. Ed è un rompicoglioni. Ha fondato da qualche anno un'associazione pacifista, Peacelink, la cui attività principale è raccogliere, e condividere in rete (sia nel senso digitale del Web sia in quello antico e fisico della circolazione delle notizie tra gruppi di persone) i segreti dell'industria bellica e, in generale, degli armamenti, in Italia e nel mondo. Per educare le persone "alla pace, alla non violenza, ai diritti umani". Marescotti è un tipo che si sfinisce nella lettura e nello studio. Legge. Legge. E poi scrive. Il che lo aiuta anche ad ascoltare. Compresi quei tipi che, durante gli incontri della sua associazione, lo avevano apostrofato così: "Vabbù, i militari: ma perché non vi cominciate a occupare di Ilva?". Finché, una mattina, il suo amico Piero non gli aveva lasciato scivolare sulla scrivania le fotografie di un gregge al pascolo sotto le ciminiere dell'Ilva. "A te, ti pare normale? Da quel latte si fa il formaggio che noi ci mangiamo. Questo", gli aveva detto, mettendogli per le mani un pezzo di pecorino. Il formaggio era quello prodotto da Carmelo Ligorio, il pastore dell'Ilva. Marescotti aveva ascoltato Piero e si era portato a casa quello spicchio di formaggio. Per consegnarlo a sue spese agli esami di un laboratorio di analisi di Lecce. "Ditemi quello che c'è dentro", aveva chiesto ai chimici. Lo aveva richiamato qualche giorno dopo una voce allarmata. "Ma lei dov'è l'ha presa quella roba?".

"Perché?".

"È veleno. Ci sono 4,28 picogrammi [un picogrammo equivale a un millesimo di un miliardesimo di grammo, ndr] per grammo di grasso, quando il limite di legge è di 3. Il dato delle diossine e dei policlorobifenili (Pcb) sommati è di 19,5 picogrammi a fronte di un limite di 6. Alessà, questo pecorino contiene tanta di quella diossina che, se lo grattugiate in un campo, il terreno andrebbe bonificato".

Quella mattina di febbraio, al bar "Forum", nella borsa di Marescotti erano quelle analisi. Prese il caffè e salì verso la stanza del Procuratore della Repubblica, Franco Sebastio, il solo magistrato che aveva avuto il coraggio di portare avanti inchieste su quella che un tempo si chiamava Italsider e ora Ilva, nome assunto dal polo siderurgico dopo la privatizzazione. A qualcosa Sebastio era anche arrivato: condanne minori per "gettito pericoloso di cose", arrivate grazie alle segnalazioni delle signore di Tamburi, il quartiere più vicino al siderurgico, stanche, nelle giornate di vento, di raccogliere la polvere dei minerali dell'Ilva sul loro balcone. I minerali - gli stessi che coloravano di rosa tutto il quartiere, compreso il cimitero di San Brunone - erano le "cose pericolose". I padroni delle acciaierie quelli che le "gettavano". Marescotti arrivò davanti alla stanza di Sebastio, al terzo piano del palazzo.  Alle analisi di laboratorio che documentavano l'alterazione e la pericolosità di quel formaggio, aveva soltanto una cosa da aggiungere. A Carmelo Ligorio, il pastore che quel pecorino produceva e che governava le pecore dell'Ilva, avevano appena diagnosticato un devastante tumore al cervello. E sarebbe morto di lì a poco.

Agnello di dio(ssina)

Taranto, 9 dicembre 2008

"Fornaro?"

"Sì sono io".

"Le bestie sono le sue?".

"Sì".

"Dobbiamo abbatterle".

"E che è successo?".

"Tengono la diossina. Sono pericolosissime".

La storia del pecorino dell'Ilva aveva conosciuto una sua prima accelerazione. Le analisi consegnate da Alessandro Marescotti avevano convinto la Procura di Taranto ad aprire un fascicolo d'inchiesta. Il Procuratore Franco Sebastio aveva chiesto, tra gli altri, alla Asl di capire cosa stesse accadendo. E di controllare anche gli allevamenti che si trovavano nella "prima fascia di rispetto" del polo siderurgico. Uno di questi era quello dei Fornaro. Il capo famiglia si chiama Angelo. Insieme ai figli, Vincenzo e Vittorio, e a due pastori albanesi, gestisce l'azienda agricola di proprietà. La masseria che abitano e in cui lavorano è identica a se stessa da cento anni. Un tempo guardava il mare. Poi, gli avevano costruito davanti l'azienda siderurgica più grande d'Europa. Si chiamava Italsider ed era di proprietà dello Stato. Poi erano cambiati i proprietari, la famiglia di industriali lombardi Riva, ed era diventata Ilva. L'area agricola si era trasformata in zona industriale, erano stati accesi gli altiforni e il cielo era diventato nero. Loro però, i Fornaro, nonostante tutto, erano rimasti lì. Con le loro pecore. Lì erano cresciuti i suoi figli, lì erano nati i nipoti. Lì si era ammalato (e guarito) di tumore al rene suo figlio Enzo. Lì era morta di cancro sua moglie.

Fino a quando, era arrivato un giorno di inizio primavera ed era cambiato tutto. Sasha, il pastore albanese che non apre bocca nemmeno se glielo chiedi per favore, quel giorno si era spinto un po' oltre i normali confini del pascolo. Aveva preso una strada diversa ed era finito sotto il Vulcano. Sicuramente, non era la prima volta. Ma quel giorno era successo qualcosa. Un passante con uno smartphone aveva fotografato la scena. E inviato le immagini a un giornale locale, "Taranto Sera", che le aveva pubblicate con una domanda: "C'è da stare tranquilli?". Se lo era chiesto anche la Procura che, forte anche delle analisi sul pecorino di Carmelo, aveva ordinato il controllo di circa 200 allevamenti. Era il 7 aprile quando l'ufficiale della Asl bussò alla porta di Fornaro e della sua masseria e a quella di altre quattro nella zona per notificare una carta giudiziaria. Non era una multa e nemmeno un avviso di garanzia. Era un divieto. Un divieto di pascolo. Da quel momento in poi Sasha non avrebbe più potuto portare a spasso il bestiame. Niente più pecore, niente più passeggiate sotto i camini delle fabbriche. Nella carta c'era scritto infatti che non si poteva più pascolare a otto chilometri da Statte, un piccolo centro alle porte di Taranto, l'agglomerato più vicino agli allevamenti. Complessivamente, erano inibiti centosessanta ettari di campagna, compresi tra la strada provinciale 48 e l'area industriale.

Non era tutto. Dietro quel foglio ce n'era un altro e poi un altro ancora. La firma era della Asl di Taranto. In un incomprensibile burocratese si decretava la fine di quella masseria centenaria. Tutte le pecore e gli agnelli della tenuta Fornaro erano in fermo sanitario. Non avrebbero potuto e dovuto né produrre latte né essere macellati. Per Enzo Fornaro, una condanna a morte. E così fu. Le analisi effettuate sugli animali diedero i risultati che tutti si aspettavano: la loro carne era impregnata di diossina (Pcb, Pm10, Nox Cox) dai nomi impronunciabili ma dal significato univoco. Un veleno che significava tumori e morte. Le bestie dei Fornaro erano delle untrici. Dovevano essere abbattute. Tutte. Andarono a prendersele in una mattina freddissima di dicembre. Fuori dalla masseria c'erano le associazioni ambientaliste che protestavano: "Leoni per agnelli" era scritto sugli striscioni. I veterinari caricarono sul camion 505 tra capre e agnelli destinate a un macello di Conversano, a cento chilometri di distanza. "Io voglio giustizia. Giustizia per le mie bestie. Giustizia per la nostra storia. Per la nostra vita", disse Enzo Fornaro, davanti a un paio di telecamere che, da quel giorno, si sarebbero fatte più numerose, per non spegnersi più.

Una breve storia dell'Ilva

Non ha l'età della masseria dei Fornaro, ma è comunque antica la storia dell'Ilva. E qualche data aiuta a orientarsi.

1957

Lo Stato necessita di nuovi investimenti in siderurgia nel Mezzogiorno. Attività di lobbing parlamentare convoglia nell'area di Taranto investimenti pubblici. Per la prima volta si parla di un investimento siderurgico da localizzare nello stabilimento di Taranto.

1959

In giugno, il comitato dei ministri per le partecipazioni statali delibera la costruzione a Taranto del IV centro siderurgico.

Alla notizia la città esultò. Fu scomodato persino un complesso bandistico che portò in ogni rione l'annuncio tanto atteso. La città cominciava finalmente a guardare al suo futuro con maggiore serenità. Chi alzò un dito allora per dire che il IV centro siderurgico stava per nascere proprio alle porte della città? (...). Nessuno poteva farlo. Perché, allora, c'era fame di buste paga, di posti di lavoro, di tranquillità economica, di serenità. Se ce lo avessero chiesto, avremmo costruito lo stabilimento anche in pieno centro cittadino, in piazza della Vittoria, nella Villa Peripato, al lungomare... (Angelo Monfreda, sindaco di Taranto)

1971

Prima manifestazione ambientalista. Per la prima volta, il 31 gennaio, i cittadini scendono in strada per denunciare la pericolosità delle condizioni ambientali nel quartiere Tamburi, il più vicino agli impianti: "Taranto per un'industrializzazione umana". In piazza della Vittoria vengono esposti lenzuoli anneriti dal fumo.

1982

Primo processo per "getto di polveri". Il direttore dello stabilimento viene condannato a 15 giorni di arresti. Il Comune ritira la costituzione di parte civile per "motivi di opportunità politica".

1995

Si conclude la trattativa tra Iri e Gruppo Riva per l'acquisizione dello stabilimento Italsider. È una delle prime, importantissime, privatizzazioni dell'industria italiana. Il prezzo di cessione concordato è di 1460 miliardi. Nel giudizio degli analisti, "un grande affare" per la famiglia che lo ha rilevato: i Riva. Lo stabilimento cambia nome. Ora si chiama Ilva.

I protagonisti

La perizia

Taranto, Marzo 2012, la perizia

Il formaggio di Carmelo e le pecore di Fornaro hanno fatto camminare la storia. Nella primavera del 2011, un giudice di Taranto, la gip Patrizia Todisco - capelli rossi e determinazione che ricordano quelle di un'altra magistrata, Ilda Boccasini - ha disposto due perizie. Una, chimica, deve valutare il grado di inquinamento degli allevamenti e dei mitili, nelle acque davanti l'Ilva. La seconda, epidemiologico-sanitaria, parte da uno studio effettuato dai soliti rompiscatole di Peacelink, secondo cui ogni tarantino nasce con in dote 210 chili di veleni, e deve dunque misurare gli effetti di questi veleni sulla popolazione. I risultati che arrivano sono inquietanti. Per tutti. Si legge nella perizia chimica:

"Si evidenzia relativamente ai profili PCB-dl determinati sui tessuti animali la presenza di un profilo di PCDD/PCDF con una distribuzione molto sbilanciata verso i PCDF in cui risultano presenti in maniera evidente i congeneri HxCDF e 1,2,4,6,7,8-HpCDF. Tale distribuzione richiama i profili caratteristici di ILVA spa e dei profili di sinterizzazione per la produzione dell'acciaio in genere". Cosa significa? "Significa che le pecore hanno fottuto l'Ilva, dottore", spiega una mattina, un tecnico a Mariano Buccoliero, pubblico ministero dai metodi spicci e l'intelligenza tagliente, che dopo aver arrestato (e poi fatto condannare fino alla Cassazione) gli assassini di Sarah Scazzi, in quella catastrofe che è stata la vicenda di Avetrana, si è messo alla caccia degli avvelenatori dell'Ilva.

Gli inquinanti che abbiamo trovato nelle pecore sono gli stessi e hanno lo stesso profilo di quelli che emette l'Ilva. Hanno un certificato infallibile: il Dna

Buccoliero, come il suo capo Sebastio, capiscono subito che è la svolta della storia. Fino a quel momento, infatti, Ilva aveva sempre negato di essere la causa principale dell'inquinamento di Taranto. Le responsabilità, che comunque esistevano, erano state scaricate per intero sull'Arsenale militare. Sui depositi dell'Eni. Sulle sigarette. E sullo smog prodotto dal traffico di auto. Già, "Il problema di Taranto è il traffico". Ma questa non è la storia di Johnny Stecchino. E ora alcuni dei chimici più importanti d'Italia mettono nero su bianco (firmano la perizia Sanna, Felici, Santilli e Monguzzi) davanti a un tribunale che no, il problema di Taranto non è il traffico. E, per la prima volta, l'agente inquinante responsabile è individuato nell'Ilva. Pochi giorni, sul tavolo della gip Todisco, arriva la seconda perizia. La firmano tre docenti universitari di chiara fama scientifica: la professoressa Maria Triassi, ordinario a Napoli, il dottor Francesco Forastiere, del dipartimento della Asl di Roma, entrambi epidemiologi, e il professor Annibale Biggeri, docente di Statistica Medica a Firenze. "Sono scosso" ammette Biggeri, prima di consegnala.

386 morti in dieci anni

Scrivono i periti: "Nei 13 anni di osservazione sono attribuibili alle emissioni industriali 386 decessi totali (30 per anno)". In dettaglio: negli ultimi sette anni, 178 sono stati i morti uccisi dal pm10. Novantuno abitavano i quartieri Borgo e Tamburi, quelli più vicini allo stabilimento siderurgico Ilva insieme con il Paolo VI. Proprio in questa zona è stato riscontrato un più 27 per cento di mortalità rispetto alle stime effettuate sui dati messi a disposizione dall'Organizzazione mondiale della Sanità. Con un incremento nella popolazione maschile del 42 per cento per i tumori maligni e del 64, addirittura, per le malattie dell'apparato respiratorio.

Al Tamburi, invece, si ammalano particolarmente le donne (+ 46 per cento). Di malattie ischemiche del cuore e (+24 per cento) di malattie cardiache. I più colpiti sono stati i dipendenti dell'Ilva. Novantotto le morti da inquinamento in 10 anni. Gli operai che hanno lavorato negli anni ' 70-' 90 hanno mostrato, si legge nella relazione, "un eccesso di mortalità per patologia tumorale (+11%) in particolare per tumore dello stomaco (+107%), della pleura (+71%), della prostata (+50%) e della vescica (+69%). Tra le malattie non tumorali sono risultate in eccesso le malattie neurologiche (+64%) e quelle cardiache (+14%)". Non si ammalano soltanto gli operai. "I lavoratori con la qualifica di impiegato hanno presentato eccessi di mortalità per tumore della pleura (+153%) e dell'encefalo (+111%)". "Ci troviamo di fronte - scrivono i periti nelle conclusioni della loro relazione - a un effetto statisticamente significativo per i ricoveri ospedalieri per cause respiratorie e un effetto al limite della significatività statistica per i tumori in età pediatrica". La geografia era diventata un reato. Essere nati a Taranto una colpa.

La tempesta. Estate 2012

Le perizie producono l'unico esito possibile: le manette. È luglio quando il gip Patrizia Todisco firma otto ordinanze di custodia cautelare con cui vengono arrestati il patron Emilio Riva e suo figlio Fabio con l'accusa di disastro ambientale. Con loro, finiscono ai domiciliari anche alcuni dirigenti. Primo fra tutti, quel Girolamo Archinà - responsabile delle relazioni esterne - che è in realtà voce dell'azienda con la politica, le istituzioni. È lui che tiene i cordoni della borsa. È lui che conserva le ricevute dei pagamenti che valgono come assicurazione sul futuro dell'azienda. Soldi ai politici, ai giornalisti, cui detta gli articoli e che pubblicano con pseudonimi. Soldi persino ai preti.

È lui che porta la voce del padrone, Emilio Riva, nella fabbrica. Diceva ad uno dei capiturno agli operai incaricati di truccare le analisi "Quello che succede qua dentro tu non lo devi dire a nessuno, lo devi tenere per te. Non sei pagato per pensare se è giusto o no, ma per eseguire i campionamenti. Impara una cosa, se vuoi continuare a lavorare qui: anche i muri hanno orecchie (...) Se i valori che molto spesso noi riscontriamo dovessero finire all'Arpa (...), sicuramente potrebbero disporre la chiusura dello stabilimento e ce ne andremmo tutti a casa". Il 20 per cento in meno fisso degli inquinanti rivelati. E quando il campione era troppo compromesso - perché sporco di oli, fanghi, schifo insomma - andava direttamente buttato.

Qui nessuno è obbligato a stare, se uno non se la sente può in qualunque momento dare le dimissioni, senza danneggiare i propri colleghi

"Danneggiare i propri colleghi". Già, chi sono i danneggiati di Taranto? Tutti i tarantini, secondo il tribunale di Taranto. Quella mattina di estate, quando tutto cambia, con le manette scattano i sigilli. Per la prima volta l'Ilva viene sequestrata. Tutta l'area a caldo, quella delle cokerie, viene chiusa, sebbene ne venga poi concessa la facoltà d'uso. Sigilli ai "parchi minerali", le montagne di carbone che sormontano il quartiere Tamburi, quelli che nei giorni di vento volano sui balconi delle signore, si attaccano alle facciate dei palazzi e alle lapidi delle tombe, ammazzano bambini e vecchi. Sigilli all'agglomerazione, agli altiforni. "L'impianto ha causato malattia e morte", scrive la gip Todisco. "E chi gestiva e gestisce l'Ilva ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza". E ancora: "La gestione del siderurgico di Taranto è sempre stata caratterizzata da una totale noncuranza dei gravissimi danni che il suo ciclo di lavorazione e produzione provoca all'ambiente e alla salute delle persone (...) Ancora oggi gli impianti dell'Ilva producono emissioni nocive che, come hanno consentito di verificare gli accertamenti dell'Arpa, sono oltre i limiti e hanno impatti devastanti sull'ambiente e sulla popolazione (...) La situazione impone l'immediata adozione, a doverosa tutela di beni di rango costituzionale che non ammettono contemperamenti, compromessi o compressioni di sorta quali la salute e la vita umana, del sequestro preventivo".

Gli arresti e il sequestro sono come una bomba fatta scoppiare nel cuore di Taranto. Perché i giudici hanno esorcizzato, prima di ogni cosa, un tabù che si è trasformato in coscienza collettiva: l'intangibilità dei Riva. Con i sequestri, però, si rischia di cancellare tutto quanto il resto. E che resto: il lavoro. Decine di migliaia di famiglie rischiano di finire per strada. E quell'odiosa dicotomia - è più importante il diritto alla salute o quello al lavoro? Si deve morire di fame o di veleno? - rischia di esplodere nelle piazze. Lavoratori contro ambientalisti. Che significa fratelli contro fratelli, padri contro figli. Un cortocircuito che scomoda anche le note dei Servizi segreti interni: "A Taranto è forte il rischio di tensioni sociali", scrivono. "Non siamo dei pazzi sconsiderati. Cerchiamo di lavorare con la schiena dritta, ragionando" dice il Procuratore, Franco Sebastio.

Il Gattopardo. Gennaio 2013-2021

Bene. Ma cosa è accaduto dopo la bomba? Chi ha vissuto Taranto, in questi anni, racconta che alla fine ha vinto il Gattopardo. Tutto è cambiato perché nulla cambiasse. Perché se ogni cosa è vera, è vero anche il suo contrario. Con ordine: La fabbrica è sotto sequestro. E i governi hanno avuto come bussola nei loro interventi normativi il lavoro. Il governo Monti, il governo Letta (che affidò gli impianti al commissario, Enrico Bondi), il governo Renzi (a loro si deve lo "scudo penale", una norma che salva i nuovi gestori dalle responsabilità), il governo Gentiloni, i governi Conte I e II. Sono stati contati 12 decreti in sette anni. Dopo l'inchiesta giudiziaria, lo Stato si è preso la fabbrica, tornando quindi in un certo senso alla vecchia Italsider di Stato. Ma, poiché i tempi sono cambiati e non è più possibile avere fabbriche pubbliche che sono sul mercato, è stato deciso di mettere il polo in vendita. Con due caveat: lo Stato si sarebbe occupato delle bonifiche ambientali mentre all'imprenditore provato acquirente sarebbe toccato, invece, il rilancio e la modernizzazione della produzione del più grande siderurgico europeo.

Per questo, l'allora ministro delle Attività produttive, Carlo Calenda, aveva pensato a una gara. All'asta si presentano due cordate. Am Investco Italy è controllata dalla multinazionale europea ArcelorMittal in partnership con il gruppo Marcegaglia (15 per cento). La cordata concorrente, AcciaItalia, è pubblico-privata composta dalla compagnia indiana Jindal (35 per cento), la banca di stato Cassa depositi e prestiti (27,5), Delfin, finanziaria del fondatore di Luxottica Leonardo Del Vecchio (27,5), e il gruppo siderurgico di Cremona Arvedi. Al momento dell'asta, in carica è il governo Renzi. E tutti danno per favorita la cordata Jindal: il magnate dell'acciaio indiano è leader fuori continente e ha interesse a entrare nel mercato europeo, dove invece non è presente. È alla guida di un'alleanza para statale, vista la presenza di Cassa depositi e prestiti, che tranquillizza molto i sindacati. Piace alla Chiesa e agli enti locali che apprezzano, dicono, il piano ambientale che punta su una dismissione, seppur lentissima, dell'area a caldo del siderurgico. Quella più inquinante. Alla guida della cordata c'è una manager assai in gamba, Lucia Morselli.

Nel dicembre 2016, il referendum costituzionale, tuttavia, colpisce e fa cadere Renzi. Arriva Gentiloni e qualcosa, nella percezione generale, cambia. Una percezione confermata dall'apertura delle buste: Cdp perde e Ilva va a ArcelorMittal, grazie a un'offerta di circa 600milioni superiore rispetto agli avversari. Mittal paga dunque di più e promette di ristrutturare l'impianto salvaguardando i 10 mila occupati. I due impegni sono però subito disattesi: ritardi nel pagamento dell'affitto e tagli agli occupati. Perché? Cosa è successo? In un primo tempo, Arcelor va allo scontro con il Conte I, governo che aveva qualche perplessità sull'andamento della gara. Perplessità che però viene in qualche modo accantonata: il ministro delle Attività produttive, Luigi di Maio, affida l'azienda nelle mani di Arcelor Mittal (nel frattempo Marcegaglia era uscita, dopo aver incassato un buon dividendo) lasciando aperta l'area a caldo. Prima delle elezioni del 2018 i 5 Stelle avevano promesso di fronte ai cancelli dell'Ilva: "Se vinciamo, chiuderemo il mostro" (Di Battista). Diranno dopo il voto: "Abbiamo vinto, ma non possiamo farlo. Ilva è troppo importante" (Di Maio).

L'ingegnere che non "riformula"

Nonostante, quindi, la fabbrica finisca nelle mani di Arcelor, le cose non vanno come devono. Uno dei motivi è documentato in una relazione, del maggio del 2017, che "Repubblica" ha potuto leggere, dal titolo "Sintesi dei piani industriali e criteri di valutazione". È firmata dall'ingegner Carlo Mapelli, docente del Politecnico di Milano, tra i massimi esperi europei di siderurgia e acciaio. Mapelli era stato chiamato per comparare tecnicamente le due offerte allora concorrenti: quella di Arcelor Mittal e quella di Jindal-Cdp. Una disamina attenta nella quale vengono analizzati in controluce tutti i rischi a cui si va incontro accettando la proposta economica ed industriale di Arcelor. Una disamina, raccolta in 13 pagine di perizia, che i tre commissari governativi dell'impianto - Corrado Carrubba, Piero Gnudi, Enrico Laghi - comprendono bene. Al punto che, come è in grado di ricostruire "Repubblica", chiedono a Mapelli di riformularla. Con un po' di "rewording", la foglia di fico che deve coprire incongruenze e stiracchiature del piano industriale del gruppo franco-indiano. Mapelli, uomo dritto e ingegnere non incline ai maquillage, specie se smascherabili dai numeri, non "riformula". E per coerenza lascia l'incarico.

Cosa sosteneva dunque Mapelli? "L'offerta di Am Investco non evidenzia gli investimenti per estendere la vita dell'altoforno 2, la cui assenza genera lacune produttive di circa 2 milioni di tonnellate l'anno". Oppure: "Il documento non indica risorse per installare forni per produrre acciai di elevata qualità (come quelli per l'industria automobilistica)", pertanto il piano "fa dipendere Ilva fino al 30% da semilavorati di terzi, schiacciando la redditività". A tutte queste forniture da spedire a Taranto, tra l'altro, "il piano non dedica alcuna attenzione all'interazione tra aspetti ambientali e gestione logistica". Le carenze di produzione autoctona erano stimate, dalla perizia, "comportare un esubero di circa 2.000 persone in Ilva Taranto rispetto a quanto indicato" dal piano di Am Investco. E un'ulteriore riduzione della forza lavoro tra 1.800 e 2.000 persone era prevista (da Mapelli) a fronte dell'investimento da 45 milioni in tre anni per ricostruire l'altoforno 1, insufficiente e giudicato "non in linea con il suo rifacimento nell'arco di quattro o cinque mesi". Anche sul fronte della sostenibilità ambientale l'offerta vincitrice era giudicata al ribasso: "Si basa sull'uso del carbone, escludendo il gas e proponendo tecnologie a uno stadio di sperimentazione assai precoce o con spesa energetica elevata", si legge nel documento. Oltre al fatto che "non ci sono interventi migliorativi rispetto alle soglie massime previste" di emissione. Infine, gli attuali gestori puntavano tutto e solo, anche per l'incasso dei certificati bianchi, sull'abbattimento della Co2: "Un aspetto importante, ma che non ha effetto sulla diminuzione di gran parte dei fattori inquinanti pericolosi e di allarme sanitario/sociale derivanti dall'uso del carbone".

Le parole di Mapelli sono molto chiare. Epperò restano lettera morta. Il Governo affida Ilva ad Arcelor. E tutti se ne fanno una ragione. Jindal, il perdente, vira su un piano B: il Governo gli affida l'acciaieria di Piombino. E nel consiglio di amministrazione entra Marco Carrai, il fedelissimo di Matteo Renzi. Nel 2019, Lucia Morselli, che rappresenta la cordata Jindal diventa nel frattempo capo della cordata Arcelor. Non passa nemmeno un anno, e Arcelor annuncia di voler andare via. Ma l'Ilva non si può lasciare morire. Interviene di nuovo il Governo. È la primavera del 2021 quando, per il tramite di Invitalia, viene staccato un assegno di 600milioni di euro per portare lo Stato nel capitale di Ilva, che cambia nuovamente il suo nome in Acciaierie d'Italia spa. Pubblico, privato, pubblico, privato. Pubblico-privato. Si chiamava Italsider. Si è chiamata Ilva. Si chiama Acciaierie d'Italia. Sono cambiati i nomi. Il resto, cioé tutto, è rimasto uguale. Il Gattopardo, appunto.

Il rapporto Svimez. Gennaio 2021

Ma davvero, non è cambiato nulla? Secondo un rapporto di Svimez, per il Sole 24 Ore, in realtà qualcosa è accaduto in tutti questi anni. La crisi dell'Ilva - quella giudiziaria, politica, industriale - dal 2013 al 2019 è costata 23 miliardi di euro di Pil, l'equivalente cumulato di 1,35 punti percentuali di ricchezza del nostro Paese. E, sia chiaro, non è un problema tarantino. Perché di questi 23 miliardi di euro di Pil, 7,3 sono andati perduti nel Nord della cintura manufatturiera: Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, Liguria e Lombardia. Senza l'acciaio dell'Ilva va in crisi l'intero Paese. Già, davvero non è cambiato nulla? "Un tempo, passeggiando per Taranto, era un continuo: Igna', lo vuoi un curriculum? Igna' come deve fare mio figlio per entrare in fabbrica? Poi, un giorno un amico mi disse: Igna', che coraggio, ancora lì lavori?". Le parole di Ignazio De Giorgio, 51 anni, operaio livello 4, sono la memoria degli ultimi 25 anni di Taranto. "La prima cosa che mi hanno detto quando sono entrato qui dentro, da apprendista, è che niente dentro la fabbrica è piccolo. Tutto, invece, è grande. Anche un bullone: lo immagini grande come un dito e invece il più piccolo è quanto il mio braccio. Ecco, Ilva è così: ogni cosa è enorme. Anche i casini.... Quando sono entrato qui dentro si respirava ancora l'aria dell'Italsider. Rilassata. Quando arrivarono i Riva cambiò tutto". Cosa? "Non potevamo allontanarci nemmeno per pisciare. Ci portavano a timbrare in pullman con le tute addosso, per non perdere tempo. Straordinari su straordinari. Non si poteva dire di no. La fabbrica era un vulcano che non smetteva mai di funzionare. E noi non avevamo il coraggio di ribellarci come avremmo dovuto: Ilva era un privilegio. Prima di entrare qui, guadagnavo 500 mila lire al mese. Dopo, un milione e 800. Ma i soldi non sono tutto. Per questo cominciai a studiare. A parlare". Ignazio vedeva amici e parenti ammalarsi. E morire. Più di altrove. E non ebbe paura. Ci volle coraggio: i Riva avevano individuato una zona della fabbrica, la palazzina Laf, dove confinavano i dipendenti scomodi. Chi protestava, chi parlava finiva lì, a fare nulla. A impazzire. "Non ci si fermava mai. Si rompeva un pistone, si sostituiva in un baleno. I capiturno erano come generali, forti anche delle coperture legali che la fabbrica gli assicurava". Significa che pagavano gli avvocati per le decine e decine di processi che ci sono stati per i morti di Ilva.

Lo sa Francesca Caliolo. Suo marito Antonino Mingolla lavorava per una ditta dell'indotto. Il 18 aprile del 2006 fu investito da una nube tossica mentre sostituiva una valvola. Non ebbe scampo. Dieci anni dopo sono stati tutti condannati, ma a Francesca resta un'altra immagine nella testa: "Un giorno fui affrontata da un dirigente dell'Ilva. Mi disse: va bene, fai tanto casino, ma alla fine tuo marito non c'è più. Ma noi siamo sempre qui. Voleva dirmi che nulla può cambiare, a Taranto. In questi anni più volte ho pensato avesse ragione".

"Nessuno può pensare di vivere con una fabbrica che uccide. Che ce ne facciamo del lavoro da morti?". Pino Romano è operaio pensante. Sindacalista dela Fiom. "Ma tutti pensiamo che abbiamo diritto al futuro. E il futuro passa, inevitabilmente, per il lavoro. Sono dieci anni che sembra dover cambiare tutto. E invece siamo sempre qui: a combattere con la cassa integrazione, con i nostri parenti e amici che si ammalano, con il padrone di turno dell'azienda che ci offre soluzioni a brevissimo termine. Ora come dieci anni fa".

"È meglio vivere, in qualunque modo possibile, che cibarsi della propria morte", ha scritto Marco, 19 anni. Suo padre è un operaio Ilva. "Siamo al cannibalismo culturale "perché la politica ha abdicato al suo ruolo: affrontare la complessità", dice Fabio Boccuni, operaio.

"Sai cosa mi fa incazzare? - osserva ancora Ignazio - Quando ci fu l'annuncio dell'arrivo di Arcelor è tornata la fila fuori dai cancelli. I ragazzi con i curriculum in mano. Era tornata la speranza".

Masseria Fornaro. Marzo 2021

A Enzo Fornaro una cosa è rimasta: non ha smesso di amare i cavalli. Lui e suo fratello sono ancora degli eccellenti fantini. Mentre non hanno voluto più vedere pecore e agnelli. Le urla di quella mattina di 13 anni fa, mentre caricavano le bestie sui camion, non potranno dimenticarle mai. Continuano a produrre olio, sotto l'Ilva, perché è impermeabile alle diossine. E hanno cominciato a coltivare canapa: "Aiuta a bonificare i territori. Proviamo a sconfiggere i veleni dell'uomo con la forza della natura". Ma sono tornati. Era mattina come 13 anni fa. E questa volta i funzionari della Asl non cercavano le pecore. "Avevano un certificato in mano. Mi hanno detto che non potevo raccogliere l'erba, che poteva servire come mangime per gli animali: avevano fatto le analisi ed era tutto inquinato". Pausa. "Io le bestie non ce le ho più. Il resto, invece, mi pare non sia cambiato".

Il sogno. Trieste aprile 2020

Un sogno, una chimera distante mille chilometri, verso Nord. Sempre davanti a un mare di tavola. A Trieste, il 9 aprile dell'anno scorso, nella Ferriera di Servola è andata in scena l'ultima colata di acciaio. Un fiume incandescente rovesciato dal gigantesco "crogiolo" e scivolato via con un flusso ipnotizzante. Poi, alle dieci e qualche minuto l'altoforno si è spento per sempre, chiudendo i 124 anni di storia dell'impianto siderurgico costruito nel 1896 per rifornire di ghisa e ferrolega l'impero austroungarico. Il gruppo Arvedi, proprietario attuale, continuerà a produrre nell'acciaieria, ma senza l'area a caldo e così il vento di Bora non spargerà più il 'polverino' sulle terrazze e sui panni stesi di Servola e degli altri quartieri triestini nei dintorni della fabbrica. Non farà più volare nel cielo e nell'animo dei triestini l'angoscia di una minaccia sottile e imperscrutabile. La città, sperano in molti, finalmente tornerà a respirare meglio.

Altofornisti. Un sogno, appunto, per Taranto dove la ex Ilva oggi è rimasta l'unica fabbrica siderurgica italiana con altiforni ancora in attività (Piombino, l'altra capitale storica dell'acciaio nazionale, ha spento il suo nel 2014). "Se mi pesano i problemi dell'ambiente? Le dico solo che quando ero ancora a Taranto, nella recita di scuola mio figlio si è mascherato da ciminiera. Siamo lavoratori, ma anche cittadini...", ci ha raccontato un 'altofornista' passato dallo stabilimento pugliese a quello triestino. Gli altofornisti, officianti di un rito industriale che non ammette miscredenti. Ingegneri, capistruttura, operai: squadre in tuta ignifuga nelle quali uno vale uno, le gerarchie non contano. "Essere un altofornista difficilmente si può spiegare all'esterno, non è un lavoro da catena di montaggio - ha scritto qualche anno fa un operaio dell'Ilva dopo la morte sul lavoro di un collega -. Impari a convivere con i 1500 gradi della ghisa, con portate di gas, vento abnorme. Impari a convivere con la paura, quasi a sfidarla. Questo è un lavoro che non si ferma mai. Il Natale lo festeggi con i tuoi compagni di reparto, a Capodanno la mezzanotte la aspetti con loro".

Trieste, Taranto e l'altofornista: i simboli del conflitto di due sacrosanti interessi, anzi più che di interessi di due sacrosanti valori, salute e lavoro, che il nostro Paese fatica a comporre. Come, al contrario, succede da anni in altri Paesi europei. O addirittura in Russia dove, per dire, all'interno della Novolipetsk Steel, una delle maggiori acciaierie della Federazione, almeno cinquanta specie di uccelli volano tra gli alberi della riserva ornitologica gestita dall'azienda. Con tanto di 'ciacovskiano' lago dei cigni.  Mentre qui da noi politica e società civile hanno continuato a litigare e a promettere senza costrutto alcuno, altrove si è proceduto alla copertura o all'interramento dei parchi minerali e delle 'cockerie'; allo smontaggio e trasferimento lontano dai centri abitati di intere acciaierie; a impianti di filtraggio e di captazione delle emissioni; a purificazione delle acque; e ora, appunto, lo sbilanciamento della produzione verso fonti di alimentazione meno inquinanti, dai forni elettrici al gas, al "preridotto", fino alla sfida dell'idrogeno.

Acciaio sostenibile. Produrre acciaio sostenibile, come si proverà a fare a Trieste e, magari, tra qualche anno anche a Taranto. Se nel frattempo il cuore d'acciaio dell'Italia avrà continuato a pulsare. Con una premessa, che tutti gli esperti ricordano sempre: la siderurgia più preziosa (e più inquinante) resta al momento quella del ciclo integrale degli altiforni. Dal minerale ferroso e dal carbon coke, giù per la bocca di carico, fino alla ghisa più pura che serve a costruire gli oggetti, piccoli e grandi, della vita di tutti noi: dalle posate ai barattoli, dalle auto elettriche agli aeroplani, agli impianti industriali, ai satelliti. Una qualità dell'acciaio che si sta cercando di raggiungere anche con i forni elettrici alimentati da rottami ferrosi che, però, nella sequenza del riciclo tendono a deteriorarsi. Non è un caso se quasi il 70% della produzione nel mondo arriva dagli altiforni. Non proprio un dettaglio visto che la siderurgia contribuisce per il 3,8% al Pil globale che, a sua volta, è generato per l'80% da industrie che dipendono dall'acciaio. Ma anche al 10% delle emissioni di CO2 del pianeta. A Trieste si respira, a Taranto si sogna. E si combatte. Lottano contro il cielo avvelenato gli abitanti del quartiere Tamburi, affacciato sulla fabbrica; lottano per il lavoro gli oltre 8000 caschi gialli che vedono il proprio futuro solo nella ex Ilva. Migliaia di uomini che, canterebbe Francesco De Gregori, "vivono all'incrocio dei venti" perché ogni giorno quando si tolgono di dosso la tuta di operai, tornano a casa come padri di famiglia. Magari proprio in quelle case lambite dai veleni. Nel frattempo, ciascuno dei governi di qualsivoglia colore succedutisi nell'ultimo decennio, ha escogitato soluzioni, riconversioni. Spesso improbabili, come il parco giochi immaginato dai Cinque Stelle. E non che in passato fosse andata meglio con i visionari programmi delle partecipazioni statali, le suggestioni giapponesi (la poltrona di amministratore delegato assegnata dall'Iri a Hayao Nakamura), le privatizzazioni azzardate.

Il futuro della siderurgia. Ma ad allontanare Servola da Tamburi non sono soltanto quei mille chilometri di mare: in fondo il cavalier Giovanni Arvedi, che a ottantaquattro anni mangia ancora pane e acciaio, a Trieste teneva acceso un solo altoforno e l'attività del suo gruppo ha radici e baricentro nei laminatoi elettrici di Cremona. Le Acciaierie d'Italia (è stata ribattezzata così l'Ilva dopo l'ingresso dello Stato al fianco dell'azionista franco-indiano ArcelorMittal) di altiforni invece ne hanno in funzione tre ed un altro, il gigantesco Afo5, potrebbe riaccendersi nei prossimi anni. Insomma, a Taranto c'è il presidio siderurgico del Paese, che se dovesse chiudere metterebbe in ginocchio buona parte dell'industria manifatturiera italiana costretta a quel punto a rifornirsi altrove e a costi maggiori. Un Paese industrializzato privo di siderurgia non è concepibile, è il mantra di Mario Draghi e del suo governo, che ha portato prima all'intervento di Invitalia (società del Tesoro) con la ricapitalizzazione da 400 milioni e una quota paritetica di diritti di voto; in prospettiva, alla presa di possesso di Acciaierie d'Italia da parte dello Stato. Con sullo sfondo, ma non troppo, i 2 miliardi del Recovery Plan destinati dall'Italia alla transizione ecologica delle filiere industriali. L'appuntamento è per maggio prossimo, quando in base all'accordo Invitalia-Arcelor Mittal il socio pubblico salirà al 60%, anche se c'è la tentazione del governo di anticipare quella scadenza se non addirittura di forzare la mano e prendersi l'intera torta siderurgica. Il rapporto con ArcelorMittal e con l'amministratore delegato Lucia Morselli - la donna di ferro che ha risanato anni fa, senza rinunciare a forti tensioni sociali, l'Acciai speciali Terni e che guidava la cordata uscita sconfitta dai Mittal proprio nella gara per l'Ilva - non è idilliaco. Lo dimostra la surreale riunione di metà aprile che avrebbe dovuto sancire l'ingresso dei rappresentanti dello Stato nel consiglio d'amministrazione di Acciaierie d'Italia (il manager di lungo corso Franco Bernabè designato presidente, il docente del Politecnico di Milano Carlo Mapelli e l'ex numero uno Saipem Stefano Cao): la teleconferenza è durata lo spazio di pochi minuti, anzi si può dire che non è neanche iniziata, perché quando Bernabè si è reso conto che i nuovi consiglieri rischiavano di dover firmare i conti 2020 dell'Ilva, dunque un esercizio sul quale non avevano alcuna competenza, da Roma si è scollegata la teleconferenza. Se ne riparlerà a bilancio approvato, dunque entro giugno. Intanto, però, l'impianto tarantino tra cronoprogramma degli interventi ambientali, difficoltà di manutenzione, tensioni sociali e effetti della pandemia, continua ad andare a giri bassi, agganciando così solo in parte la congiuntura favorevole della domanda globale di acciaio, spinta anche dalla frenata dell'export cinese, che sta consentendo alla concorrenza margini enormi. E non solo a quella, visto che gli altri stabilimenti di ArcelorMittal sparsi nel mondo hanno portato a casa nel primo trimestre 2021 un utile netto di oltre 3,2 miliardi di dollari. Quasi ad avvalorare la tesi sostenuta da molti osservatori che, in fondo, i Mittal sono entrati nella partita Ilva solo per non lasciare ai competitor l'acciaieria più grande d'Europa. Fonti del dossier Acciaierie d'Italia stimano addirittura intorno ai 3 milioni di tonnellate annue il livello produttivo attuale dell'impianto, ben lontani dunque dai 5,3 milioni fissati per il 2021 nel piano industriale Invitalia-ArcelorMittal e tali da rendere quasi una chimera gli 8 milioni di tonnellate previsti a regime nel 2025 (essenziali, oltretutto, per garantire l'assorbimento dopo anni di ammortizzatori sociali di tutti gli 8.200 operai, 10.700 considerando gli impianti Ilva in Liguria).  Da qui il pressing del governo. Il piano di Acciaierie d'Italia concordato a dicembre da Stato e Mittal, prevede un assetto ibrido di altiforni (compresa la riaccensione di Afo5) e di forni elettrici alimentati da rottami e da 'preridotto di ferro'. Degli 8 milioni di tonnellate annue a regime, 2,5 dovranno arrivare dal ciclo elettrico, con una riduzione di carbone/coke per oltre un milione di tonnellate e un taglio delle emissioni tra il 25 e il 30%. Nelle intenzioni del governo solo un passaggio intermedio, perché a tendere l'obiettivo è quello di convertire Acciaierie d'Italia (e magari l'intera siderurgia nazionale) all'idrogeno. Uno scenario, quello dell'idrogeno "verde", cioè interamente legato alle fonti rinnovabili, con tempi molto lunghi visto che oggi produrne un chilogrammo costa 40 volte di più di un litro di petrolio. Più alla portata l'idrogeno "grigio" che deriva dal gas naturale, o "blu" che proviene sempre dal metano ma cattura le emissioni di carbonio. Scenari scritti solo sulla carta e, soprattutto, appesi ad un altro passaggio giudiziario esiziale. Nei prossimi giorni il Consiglio di Stato dovrà decidere se dare ragione o meno al sindaco di Taranto che con un ricorso al Tar ha chiesto lo spegnimento definitivo degli altiforni. A distanza di poco tempo dal maxiprocesso di Taranto, l'ennesima congiuntura astrale per una città legata nel bene e nel male all'acciaio. I giudici potrebbero scrivere la parola fine alla grande siderurgia italiana. Un esito incontrollabile nei suoi risvolti sociali. Oppure, come l'araba fenice, l'Ilva risorgerà per l'ennesima volta dalle sue ceneri. A quel punto, garantita la continuità aziendale, il bilancio potrà essere approvato e lo Stato tornerà nella stanza dei bottoni della gigantesca fabbrica tarantina. Si spera non per una nuova promessa da marinaio: le madri dei bambini Taranto e gli operai dell'acciaieria non possono più perdonare. Non possono più aspettare. Non possono più vivere all'"incrocio dei venti". Pubblicato su La Repubblica

Stefàno: «Nel processo mi sentivo estraneo». Fabio Venere su La Gazzetta del Mezzogiorno il 2 Giugno 2021. «In questo processo, sin dalle fasi preliminari, mi sono sentito un estraneo. Ora sono contento, ma non dimentico tutti questi lunghi anni di sofferenza». Lo dice Ezio Stefàno, sindaco di Taranto nel decennio più difficile della sua storia repubblicana. Prima il dissesto finanziario del Comune, poi l’esplosione della vicenda giudiziaria (ma anche sindacale, sociale e ambientale) legata allo stabilimento siderurgico. L’ex primo cittadino era tra i 47 imputati del processo «Ambiente svenduto». Gli erano stati contestati i reati di omissione in atti d’ufficio e abuso d’ufficio. Stefàno sarebbe stato assolto comunque per intervenuta prescrizione, ma il verdetto gli è stato favorevole nel merito dei fatti addebitati. Da quattro anni, non interviene più pubblicamente. È tornato a fare, in realtà non aveva mai smesso, il pediatra.

Dottor Stefàno, è stato assolto nel merito. Qual è stata la sua prima reazione?

«Sarei stato assolto per la prescrizione dei reati, ma questo giudizio completamente a mio favore ha, ovviamente, un peso specifico maggiore».

Perché si è considerato un estraneo al procedimento?

«Ricorderei che per ridurre prima ed eliminare poi l’inquinamento industriale, ho firmato diverse ordinanze sindacali. Tutte bocciate...

«Non serviva una sentenza per sapere che l'Ilva inquina»: parla l'ex procuratore Sebastio. «Lo Stato ha già ammesso i danni fatti dallo stabilimento». Vittorio Ricapito La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Giugno 2021. Franco Sebastio, ex procuratore della Repubblica, guidava il gruppo di pm dell’inchiesta sul presunto disastro ambientale causato a Taranto dall’Ilva. Possiamo parlare di vittoria?

«Negli eventi sportivi c’è chi vince e chi perde. I processi sono una cosa seria e umana, non si può parlare di vittoria ma dopo la sentenza di ieri posso dire che mi sento un po’ più sereno, perché probabilmente non abbiamo commesso errori madornali. Ora lo posso raccontare. Sulle nostre coscienze c’era una grande paura di sbagliare, di esagerare. C’erano in gioco la vita delle persone e anche questioni nazionali di carattere industriale ed economico».

Come si è arrivati a un processo di queste dimensioni?

«Dei problemi di inquinamento a Taranto la magistratura si occupa da circa 40 anni. Da pretore, nel 1982, scrissi la prima sentenza di condanna per spargimento di polveri pericolose a carico dei vertici del siderurgico, all’epoca Italsider di Stato. Me la sono conservata e ho mostrato ai giudici quel pezzo di archeologia giudiziaria 30 anni dopo, durante la requisitoria al processo dell’amianto killer. La triste considerazione fu che non era cambiato molto e quella sentenza sembrava ancora attuale. Non fu l’unica. Ricordo il primo processo sui parchi minerali dell’Italsider negli anni Ottanta. Nel corso degli anni ci sono stati diversi procedimenti penali per fatti di inquinamento che hanno riguardato anche la successiva proprietà dell’Ilva privata, quella dei Riva per intenderci. Negli anni le leggi sono cambiate, i mezzi di indagine si sono perfezionati e i reati contestati sono diventati sempre più gravi e pesanti. Poi quello per le cokerie (prima condanna pesante a 3 anni di reclusione per Emilio Riva, poi prescritta, ndr). Poi ancora il processo della palazzina Laf (il reparto-fantasma dove finivano i lavoratori «scomodi», ndr), primo caso europeo di codice penale applicato al fenomeno del mobbing, fino alle due sentenze passate in giudicato per i vertici Ilva per inquinamento e il processo più recente per l’amianto killer. Insomma non è che ci siamo svegliati un bel giorno e ci siamo inventati «Ambiente svenduto», si tratta di un lungo percorso che ha avuto un’evoluzione»

Tante sentenze, ma poi cosa succedeva?

«È questo il vero problema. Nel corso degli anni tutte quelle sentenze sono state lette in aule deserte. Ogni volta che nasceva un procedimento per inquinamento, fin da quando ero pretore e poi da procuratore, ho sempre avvisato gli organi competenti dello Stato. Gli scrivevo: “Guardate che noi stiamo facendo questa indagine ma siccome emerge una situazione di pericolo, prescindendo dai reati, vi sollecitiamo un vostro intervento”. Le conservo tutte le lettere. Non ho mai avuto una risposta. Sono stato convocato nel corso degli anni dalle commissioni parlamentari che si occupavano di questi problemi e puntualmente ripetevo le stesse cose. La mia conclusione è che chi aveva poteri e doveri ha delegato passivamente la soluzione all’autorità giudiziaria. Il magistrato persegue i reati, non fa trattative, non apre concertazioni, applica solo il codice e non può graduare il suo intervento. Così si è dovuti arrivare all’estremo. Davanti a situazioni molto gravi si sono presi provvedimenti altrettanto severi. Ecco forse un merito alla magistratura va dato in questo: a un certo punto, visto che nessuno interveniva nonostante tutti conoscessero la gravità della situazione, la magistratura ha dato una scossa».

Ora c’è una sentenza che dice che l’Ilva ha inquinato...

«Non c’era bisogno di una sentenza. Lo Stato italiano con almeno una dozzina di interventi, le così dette leggi “salva-Ilva”, ha ripetutamente ammesso che lo stabilimento produce gravi rischi per la salute. Altrimenti non ci sarebbe stato bisogno, in alcune fasi, di dare un salvacondotto penale a chi dirigeva la fabbrica».

Adesso cosa succederà?

«Bisognerà leggere le motivazioni e aspettare gli altri gradi di giudizio. Certo se venisse confermata la confisca del cuore della fabbrica vorrebbe dire che lo Stato italiano non potrà far altro che smantellarlo. Per ora gli impianti restano sotto sequestro».

SI CHIUDE IL PROCESSO AMBIENTE SVENDUTO. MA E’ SOLO IL 1° GRADO…Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 31 Maggio 2021. Ventidue anni di reclusione sono stati inflitti a Fabio Riva, 20 per Nicola Riva (nei cui confronti i pm derlla procura di Taranto avevano chiesto rispettivamente 28 e 25 anni), 21 anni e 6 mesi a Girolamo Archina’ ex responsabile delle relazioni esterne. Si è concluso questa mattina alle 10.45 dopo 329 udienze durate cinque anni (la prima il 17 maggio del 2016 il primo grado del processo Ambiente Svenduto con 47 imputati dinnanzi alla Corte d’Assise di Taranto (presidente Stefania D’Errico, a latere Fulvia Misserini e sei giudici popolari) relativo ai reati di disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro contestati alla gestione dello stabilimento siderurgico Ilva di Taranto da parte del Gruppo Riva. Il processo ha origine a seguito del sequestro degli impianti dell’area a caldo del siderurgico dell’Ilva di Taranto e degli arresti avvenuti a partire dal 26 luglio 2012 su ordine del gip Patrizia Todisco. La pubblica accusa ha sempre parlato di inquinamento “devastante per l’ambiente e per la salute”. Sono centinaia le pagine rivelate (ed altrettante quelle non uscite) dedicate ai contatti con i giornalisti locali. “Ho sempre sostenuto che bisogna pagare la stampa. Pagare la stampa per tagliare la lingua”, diceva al telefono Archinà ignaro di essere intercettato dalle Fiamme Gialle. Per non parlare dei contributi pubblicitari a testate semiclandestine, che una volta cessate hanno fatto scatenare qualche giornalista diventato “giustizialista” last minute. Le indagini della Guardia di Finanza grazie a 11mila telefonate intercettate aveva portato alla luce la rete di contatti intessuti dai vertici dell’impresa con la politica, e quella del grande corruttore Girolamo Archinà con la stampa tarantina “comprata & svenduta” per tenere la situazione sotto controllo. Ventidue anni di reclusione sono stati inflitti a Fabio Riva, 20 per Nicola Riva (nei cui confronti i pm della procura di Taranto avevano chiesto rispettivamente 28 e 25 anni), 21 anni e 6 mesi a Girolamo Archina’ ex responsabile delle relazioni esterne ed i rapporti istituzionali ritenuto dai pm la “longa manus” dei Riva. Condannato a 17 anni e 6 mesi Lorenzo Liberti ex consulente della procura di Taranto. Condanne a 11 anni e mezzo per Marco Andelmi ex capo area parchi, ed a 5 anni e 6 mesi all’avvocato Francesco Perli, legale dell’azienda. 21 anni e 6 mesi la condanna per Luigi Capogrosso, ex direttore a Taranto (28 anni la richiesta dei pm), 4 anni a fronte della richiesta dei Pm di 20 anni, sono stati comminati ad Adolfo Buffo, all’epoca dei fatti direttore del complesso di Taranto ed attualmente direttore generale di Acciaierie d’Italia, la società tra Invitalia (che rappresenta lo Stato) ed il Gruppo ArcelorMittal, al quale è stata contestata anche la responsabilità di due incidenti mortali sul lavoro. “Del merito di questa sentenza, tanto incredibile quanto ampiamente preannunciata, parleremo con le nostre impugnazioni. Mi interessa solo richiamare l’attenzione sulla dimensione scenografica della lettura del dispositivo. In prima fila, al centro dell’aula, solo un lungo e comodo banco per l’Accusa. Per la Difesa nemmeno un simbolico strapuntino”. Così ha commentato l’avvocato Giandomenico Caiazza, legale di Girolamo Archinà. “Una foto perfetta nitida e veritiera di questo processo, una vicenda interamente appaltata alla Pubblica Accusa, nella quale la Difesa ha rappresentato solo un inevitabile intralcio. Mai visto uno spettacolo del genere – solo il banco per l’Accusa – in tutta la mia carriera di avvocato” ha aggiunto Caiazza. Assolto invece l’ex presidente del cda Ilva, Bruno Ferrante, che è stato anche prefetto di Milano (per i quali i pm avevano chiesto 17 anni). Confiscati gli impianti dell’area a caldo dello stabilimento siderurgico di Taranto che furono sottoposti a sequestro il 26 luglio 2012 e sanzionate pesanti condanne pecuniarie: 4,6 milioni a ILVA spa, 1, 2 milioni a Riva Fire e Riva Forni elettrici. Condannato a 3 anni e mezzo per Nichi Vendola, che ha così commentato: “Mi ribello ad una giustizia che calpesta la verità È come vivere in un mondo capovolto, dove chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l’ombra di una prova. Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi, quelli che dai Riva non hanno preso mai un soldo, che hanno scoperchiato la fabbrica, che hanno imposto leggi all’avanguardia contro i veleni industriali. Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l’ennesima prova di una giustizia profondamente malata”. “Sappiano i giudici che hanno commesso un grave delitto contro la verità e contro la storia. – ha aggiunto Vendola – Hanno umiliato persone che hanno dedicato l’intera vita a battersi per la giustizia e la legalità. Hanno offerto a Taranto non dei colpevoli ma degli agnelli sacrificali: noi non fummo i complici dell’Ilva, fummo coloro che ruppero un lungo silenzio e una diffusa complicità con quella azienda” concludendo “Ho taciuto per quasi 10 anni difendendomi solo nelle aule di giustizia, ora non starò più zitto. Questa condanna per me e per uno scienziato come Assennato è una vergogna. Io combatterò contro questa carneficina del diritto e della verità”. 3 anni sono stati inflitti all’ ex presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido e per l’ex- assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva. Dichiarata l’intervenuta prescrizione per il consigliere regionale Donato Pentassuglia, attuale assessore regionale all’Agricoltura che esce dal processo indenne. Nei confronti di Giorgio Assennato, ex direttore generale di Arpa Puglia, che ha invece rinunciato di fruire della intervenuta prescrizione, a cui è stato contestato il favoreggiamento verso Vendola. Secondo l’accusa Assennato avrebbe negato delle presunte pressioni dall’ex governatore pugliese sull’ Arpa Puglia. L’ accusa aveva chiesto nei suoi confronti la condanna ad un anno mentre i giudici lo hanno invece condannato a 2 anni. Fonti dell’attuale gestione dello stabilimento siderurgico di Taranto dopo la sentenza di primo grado del processo per il presunto disastro ambientale causato dall’ex Ilva negli anni di gestione dei Riva hanno spiegato che “La confisca dell’area a caldo disposta oggi in sede di processo non ha di fatto alcun effetto immediato sulla produzione, che sarà efficace ed esecutivo solo dopo il giudizio definitivo della Cassazione”. Gli impianti di Taranto, restano di fatto sequestrati ma con facoltà d’uso agli attuali gestori della fabbrica in quanto sono ritenuti strategici per l’economia nazionale da una legge del 2012 confermata anche dalla Corte Costituzionale. Per area a caldo vanno intesi acciaierie, parchi minerali (attualmente coperti) , agglomerato, altiforni e cokerie. Da segnalare che nel passaggio degli impianti dall’attuale proprietà di ILVA in amministrazione straordinaria all’acquirente, cioè la società Acciaierie d’Italia (tra ArcelorMittal ed Invitalia), il dissequestro degli impianti è previsto come condizione sospensiva. Il passaggio del controllo allo Stato italiano è stabilito contrattualmente entro maggio 2022.

I COMMENTI DELLA DIFESA. “Come ammesso dagli stessi periti, sotto la gestione dei Riva Ilva ha sempre operato e prodotto rispettando tutte le normative vigenti. I Riva hanno costantemente investito ingenti capitali in Ilva al fine di migliorare gli impianti e produrre nel rispetto delle norme” ha dichiarato l’avvocato Luca Perrone “Il totale degli investimenti erogati sotto la loro gestione ammonta a 4,5 miliardi di euro, di cui 1,2 miliardi di natura specificatamente ambientale. Cifre e numeri che sono stati certificati dal Tar e dalle due sentenze del Tribunale e della Corte di Appello di Milano di assoluzione piena perché i fatti non sussistono, perché non c’è stato dolo e perché gli investimenti realizzati sono stati veri e cospicui”. L’avvocato Perrone ha evidenziato che “come anche certificato dall’Arpa, nel corso della gestione Riva sono state adottate le migliori tecniche/tecnologie allora disponibili (Best Available Technology del 2005) e come sempre i Riva si sarebbero prontamente adeguati anche a quelle del 2012 nei quattro anni successivi previsti dalle normative”. L’avvocato Pasquale Annicchiarico, difensore di Nicola Riva, anch’egli ex amministratore dell’ILVA ha fatto presente che il suo assistito “è stato presidente solamente due anni, dal 2010 al 2012, e sotto la sua presidenza si sono raggiunti i migliori risultati ambientali della gestione Riva con valori di diossina e benzoapirene bassissimi che si collocano a meno della metà dei limiti consentiti dalla legge. Risultati straordinari dovuti agli investimenti quantificabili in oltre 4 miliardi di euro e alla gestione degli impianti sempre tesa al massimo rispetto delle normative ambientali”. 

Ilva buco nero: L’Espresso in edicola e online da domenica 13 giugno. L’inchiesta definitiva sull’acciaieria di Taranto. I bilanci disastrosi di Rai, Mediaset e Sky. Lo stanco duello tra Calenda e Gualtieri per conquistare i dem romani. Ecco cosa trovate sul numero in arrivo. E gli articoli in anteprima per gli abbonati digitali. Angiola Codacci-Pisanelli su L'Espresso l'11 giugno 2021. Ciminiere rosse e bianche, fumo denso. E un titolo di tre brevi parole: “Ilva buco nero”. La copertina del nuovo numero dell’Espresso punta il dito sugli aspetti economici della storia infinita delle acciaierie di Taranto. Perché il disastro ambientale è nato da corruzione, depistaggi e manovre di affaristi. Lo Stato sta per sborsare un miliardo di euro per salvare un’industria strategica. Che però è un concentrato dei mali d’Italia. "Ricatto d’acciaio” lo definisce l’inchiesta firmata da Vittorio Malagutti e Gloria Riva, corredata da una cronologia dei cinquant’anni di vita dell’impianto che doveva essere una panacea per il Meridione.

Ilva, dati nascosti e conti segreti: così il governo ha comprato al buio. Un report della società di revisione KPMG redatto alla vigilia dell’ingresso dello Stato nel capitale solleva pesanti dubbi sui bilanci del gruppo siderurgico gestito da Arcelor Mittal. La multinazionale ha fornito “dati incompleti e di difficile lettura”. Ma nonostante queste incertezze, a dicembre Conte decise comunque di investire un miliardo nel salvataggio. Vittorio Malagutti e Gloria Riva su L'Espresso il 14 giugno 2021. Il governo Conte, a dicembre dell’anno scorso, ha comprato l’Ilva a scatola chiusa, impegnandosi a pagare un miliardo di euro senza disporre di un’analisi approfondita e completa dei conti della società gestita dalla multinazionale Arcelor Mittal. L’analisi affidata alla società di consulenza Kpmg in vista dell’acquisizione dell’acciaieria di Taranto si è infatti conclusa con un report che segnala “forti limitazioni” nell’accesso ai dati di bilancio. Il documento, redatto a fine 2020 su incarico della holding pubblica Invitalia guidata da Domenico Arcuri, avverte fin dalle prime pagine che Kpmg non ha potuto aver accesso a un gran numero di dati ritenuti significativi e che altre informazioni risultano disomogenee e di difficile lettura. Il nuovo polo dell’acciaio di Stato nasce quindi sulla base di una valutazione solo parziale del reale valore delle attività destinate a passare di mano. Non solo, alla luce dei dati contenuti nel report di Kpmg, l’impianto di Taranto continua a produrre perdite notevoli e la ripartenza dopo il crollo del mercato dovuto all’emergenza Covid si sta rivelando più difficile del previsto. Per la prima volta, infatti, il documento riporta alcuni dati, per quanto parziali, sull’andamento del gruppo, dati che erano fin qui rimasti un segreto ben custodito da Arcelor Mittal. Si scopre così che il 2020 dovrebbe essersi concluso in perdita di 314 milioni al lordo di interessi, ammortamenti e tasse. Una cifra che va confrontata con il risultato del 2019, che era andato in rosso di 941 milioni, prima delle partite fiscali e finanziarie. Arcelor Mittal, segnala il report di Kpmg, è in grave ritardo nel programma di investimenti a cui si era impegnato con il governo quando a novembre del 2018 prese in gestione il gruppo siderurgico. Era stata prevista una spesa per migliorie negli impianti, soprattutto di carattere ambientale, per almeno 2,5 miliardi. A giugno 2020 l’investimento effettivo non supera i 520 milioni. A fine 2020, la multinazionale controllata dalla famiglia Mittal aveva anche 1,5 miliardi di arretrato con l’amministrazione straordinaria di Ilva per l’affitto degli impianti. Strettissimi, spiega il rapporto sono anche i rapporti con la controllante Arcelor Mittal. A partire dal 2018 la società italiana è stata fortemente integrata nella struttura della multinazionale, da cui nel 2019 l’ex Ilva ha comprato materie prima per 1,4 miliardi rivendendo merci per 968 milioni. Gli analisti però non sono in grado di valutare, sulla base dei dati che hanno ricevuto, “se e come” queste transazioni intercompany “hanno impattato i risultati operativi”. In pratica non si capisce se i prezzi praticati dalla capogruppo alla sua controllata italiana sono stati in linea con quelli di mercato. Anche i debiti commerciali sono al livello di guardia e “includono rilevanti importi scaduti sia verso terzi che verso parti correlate”. Quest’ultima è una voce particolarmente sensibile nei conti aziendali, dopo che nelle ultime settimane si sono moltiplicate le proteste di decine di aziende che da mesi reclamano pagamenti delle loro forniture. Tutti questi numeri, avverte Kpmg, sono comunque da prendere con le molle, perché fondate su informazioni solo parziali fornite da Arcelor Mittal. In particolare - si legge nel report che L’Espresso ha potuto consultare - “le informazioni rese a disposizione (degli analisti, ndr) sono state selezionate dal venditore” e molti dati richiesti “non sono stati forniti o sono stati forniti in maniera incompleta”. Tutto questo perché Arcelor Mittal ha comunicato dati “disomogenei e di difficile o impossibile lettura”. Anche i tempi a disposizione per il lavoro di consulenza si sono rivelati assai brevi. Kpmg ha infatti informato Invitalia, e quindi il governo, che l’analisi si è svolta “in un periodo di tempo estremamente limitato (complessivamente meno di 3 settimane)”, in modo tale che non è si potuto “approfondire gli argomenti come in un normale processo di due diligence ed in funzione della complessità del business”. Secondo quanto si legge nel documento, l’analisi di Kpmg si è svolta nell’arco di una decina di giorni, da 14 al 24 settembre, per poi essere integrata tra l’11 e 20 novembre con alcuni nuovi dati forniti da Arcelor Mittal. Nonostante i dubbi e le incertezze segnalate da Kpmg, a dicembre del 2020 il governo Conte, destinato a uscire di scena poche settimane dopo, diede luce verde all’investimento di un miliardo per rilevare il 60 per cento dell’acciaieria. Il report di Kpmg porta la data del 9 dicembre. Il giorno dopo, il governo annunciò l’accordo con Arcelor Mittal. Ad aprile sono stati versati i primi 400 milioni, che hanno consentito all’azionista pubblico di salire al 50 per cento dei diritti di voto. Subito dopo, però, come raccontato da L’Espresso, tra i due soci è cominciato un duro scontro, le cui motivazioni appaiono oggi più chiare alla luce di quanto contenuto nel report di Kpmg. Il consiglio di amministrazione della neonata Acciaierie d’Italia non si è ancora insediato perché i tre consiglieri di parte pubblica, guidati da Franco Bernabè, non hanno voluto sottoscrivere i conti del 2020 così come richiesto da Arcelor Mittal. Di fatto l’azionista privato chiedeva alla controparte un irrituale via libera ai risultati di una gestione, quella del 2020, condotta per intero dal venditore. Si è arrivati quindi al muro contro muro. Uno stallo che, a due mesi di distanza dal primo investimento di 400 milioni da parte dello Stato, mette a rischio l’intesa che avrebbe dovuto salvare Taranto con i soldi pubblici.

Ilva, ecco perché rischia di saltare il salvataggio miliardario a spese dello Stato. Tra veleni, liti e conti in rosso. Vittorio Malagutti e Gloria Riva su L'Espresso l'11 giugno 2021. Marco Damilano nel suo editoriale torna sulle manovre per la costruzione di un “partito sistema”, il fondamentale cambiamento di rotta della democrazia italiana che sta avvenendo intorno a Draghi e alle forze di governo, ma al di fuori di ogni partecipazione dei cittadini. E Giovanni Orsina conferma: il governo nato per l’emergenza ormai guarda al futuro. Mentre il Palazzo cambia senza consultarli, ai politici non resta che dibattersi tra beghe quotidiane: come a Roma, dove Susanna Turco racconta lo stanco duello tra Calenda e Gualtieri per il voto dei dem. Intanto l’Italia piange due giovani vittime dell’integrazione mancata: Saman Abbas (ne scrive Sofia Ventura) e Seid Visin (di Djarah Kan). Carlo Tecce firma un bilancio della stagione televisiva e il futuro di Rai, Mediaset e Sky, mentre Gianfrancesco Turano si concentra sui retroscena dell’attivismo calabrese di Giovanni Minoli. Dal Vaticano arriva un improvviso stop alle vendite degli ospedali che facevano gola ad Angelino Alfano e al suo sodale, il libico Ghribi (ne scrive Massimiliano Coccia). Dalla commissione Ecomafie invece parte un allarme sull’inquinamento dei mari del sud e dei laghi del nord (di Antonio Fraschilla), riecheggiato nella striscia che Mauro Biani dedica ai nuovi ecosistemi marini. Nel mondo intanto si discute di brevetti e della necessità di vaccinare l’Africa per fermare il Covid-19 (di Eugenio Occorsio). In Cina il controllo a distanza apre una nuova frontiera andando a caccia di emozioni (di Simone Pieranni) mentre Alibaba, colosso dell’e-commerce cinese, per conquistare l’Europa sbarca a Liegi, tra le proteste degli ambientalisti belgi (di Federica Bianchi). Altan ironizza sull’utilizzo dei fondi europei, Makkox trova un salvatore imprevisto per la Raggi assediata dall’acqua alta romana, Marco Follini invoca un Ulisse che ritrovi la rotta del partito di centro mentre Michele Serra compone una Spoon River delle mille correnti del Pd. E Antonio Spadaro invita a meditare sulla parola della settimana: piedi. E l’Espresso chiude con un dialogo su fratellanza e antropologia tra Marco Aime e Wlodek Goldkorn, con una rassegna degli architetti italiani che stanno ridisegnando le città d’Oriente (di Roberto Di Caro) e con una passeggiata per Aielli, borgo abruzzese rinato grazie ad astronomia e street art (di Maurizio Di Fazio). Marco Consoli intervista Sergei Polunin, genio ribelle della danza e ora del cinema, mentre Bernardo Valli firma un omaggio a Edgar Morin, e al suo libro di ricordi che fa venire voglia di arrivare a compiere cent’anni.

«È giusto puntare sulla siderurgia altrimenti finiremo succubi di Usa e Cina». Gloria Riva su L'Espresso l'11 giugno 2021. Giuseppe Pasini, presidente Gruppo Feralpi: «Avere una forte produzione nazionale di acciaio evita di essere in balia di fenomeni esterni». «Puntare sulla siderurgia significa investire in modo strategico sul futuro di un paese perché l’acciaio ha una filiera talmente lunga da garantire ricchezza, occupazione e sviluppo economico. Draghi l’ha capito e ha messo a punto progetti ambiziosi, fra cui il risanamento dell’ex Ilva». Secondo Giuseppe Pasini, presidente del bresciano Gruppo Feralpi - 1,3 miliardi di fatturato, oltre 1.600 dipendenti, sedi in Italia e Germania -, la direzione intrapresa è quella giusta. 

Dunque lei è ottimista?

«Come imprenditore sono soddisfatto delle scelte strategiche, nei fatti molto dipenderà dalla capacità del governo di concretizzare quei piani. Sono stati messi sul piatto 2,5 miliardi di euro per la siderurgia italiana, una cifra adeguata per il rilancio dell’ex Ilva, che è un impianto importantissimo per l’Italia e per l’Europa, perché non dimentichiamo che si tratta del secondo impianto siderurgico più grande del Vecchio Continente, che negli anni ha assicurato competitività, indipendenza e ricchezza al nostro paese e all’Europa».

Può entrare nel dettaglio del piano di risanamento dell’acciaieria tarantina?

«Parte dell’acciaio continuerà ad essere prodotto da altiforni, rendendoli meno inquinanti grazie all’utilizzo di nuove tecnologie e alla cattura delle emissioni nocive, il resto dipenderà dall’utilizzo di forni elettrici alimentati grazie alla tecnologia Dri, ovvero da minerale preridotto. Il piano è sensato, ambizioso e sostenibile dal punto di vista economico, occupazione e ambientale. Resta da capire quanto la città di Taranto, che ha pagato e sofferto moltissimo in questi anni, sarà in grado di raccogliere questa sfida. È indubbio che i tarantini vedono questo impianto con occhi diversi da quelli con cui lo osserviamo noi, acciaieri del Nord. Ma lo ripeto, stavolta ci sono le condizioni e i capitali per fare dell’ex Ilva uno stabilimento moderno e sostenibile. Manca solo una condivisione di obiettivi: per tutti deve essere chiaro che la siderurgia è un motore fondamentale per l’economia del paese e che oggi fare acciaio in modo sostenibile è possibile». 

E questa condivisione c’è?

«Il premier Draghi si è espresso in tal senso, il ministro dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, la pensa allo stesso modo. Persino il segretario della Cgil, Maurizio Landini, ha più volte ribadito che una siderurgia sostenibile e moderna deve essere al centro delle politiche industriali del Paese. Quindi sì, ci sono tutti gli ingredienti per un rilancio».

Quanto terreno è stato perso in questi anni di crisi del settore?

«In realtà, nel contesto europeo, la siderurgia italiana è seconda solo alla Germania e non ha perso quote di mercato. Questo perché i privati, espressione dell’80 per cento della produzione di acciaio italiano, hanno investito e lavorato per conservare la leadership nel settore. Ora serve che lo Stato si impegni per rimettere sui giusti binari anche il restante 20 per cento della produzione, che deriva proprio dal polo siderurgico tarantino. Inoltre, dati alla mano, l’Italia sta dimostrando di essere a buon punto rispetto agli obiettivi prefissati dall’Europa al 2030 (che prevedono la riduzione del 40 per cento delle emissioni di gas rispetto ai valori degli anni Novanta e la produzione del 32 per cento di energia da fonti rinnovabili). La Germania, per esempio, da questo punto di vista è molto più indietro: deve ancora convertire dieci centrali a carbone, che oggi coprono il 35 per cento del fabbisogno energetico del paese. Al contrario l’Italia ha da decenni abbandonato il carbone e il nucleare, puntano su un’avanzata tecnologia per lo sfruttamento del gas metano. All’epoca, quella decisione era stata pagata con salate tariffe di approvvigionamento energetico (avevamo tariffe elettriche maggiorate del 40 per cento rispetto ai concorrenti stranieri), ma oggi offre un enorme vantaggio competitivo. E ancora, la Germania punterà 26 miliardi del Recovery Plan sulla trasformazione ecologica, noi ne investiremo 60, di cui 25 per favorire le rinnovabili e gli impianti a idrogeno, che potranno contribuire a ridurre l’impatto ambientale della siderurgia, notoriamente un’industria energivora». 

I prezzi dell’acciaio sono alle stelle, le materie prime sembrano introvabili e costosissime e molta manifattura ne risente. Teme che i rincari possano compromettere l’industria metallurgica?

«Sia i bassissimi prezzi del 2020, sia i rincari incredibili del 2021 sono casi eccezionali che, molto probabilmente, si risolveranno con una normalizzazione dei listini nel primo semestre del prossimo anno. È però utile capire la motivazione di questo rimbalzo». 

E quale sarebbe?

«La Cina produce il 60 per cento dell’acciaio del mondo e, per uscire dalla crisi generata dal Covid, ha tenuto per sé la maggior parte del materiale prodotto, puntando sull’espansione interna. Anche gli Stati Uniti hanno agganciato la ripresa spingendo produzione e autoconsumo. È quindi venuta a mancare gran parte della materia prima disponibile sul mercato internazionale e l’Europa ne ha risentito. È un meccanismo che deve essere chiaro a tutti: avere una forte produzione nazionale di acciaio evita di essere in balia di fenomeni esterni» 

Ilva, ecco perché rischia di saltare il salvataggio miliardario a spese dello Stato. Tra veleni, liti e conti in rosso. Il governo è pronto a investire un miliardo per rilevare l'acciaieria fin qui gestita da Arcelor Mittal. Ma è scontro aperto sui conti 2020. Mentre si moltiplicano le denunce di fornitori non pagati e la fabbrica accumula perdite. Vittorio Malagutti e Gloria Riva su L'Espresso l'11 giugno 2021. Nel poker dell’Ilva di Taranto, una partita miliardaria sulla pelle di un’intera città e di migliaia di lavoratori, siamo arrivati all’ultima mano, quella che deciderà il destino della più grande fabbrica d’Italia. Tra i due giocatori al tavolo, però, ce n’è uno, lo Stato, che è costretto a giocare a carte scoperte, mentre l’altro, la multinazionale Arcelor Mittal, può permettersi di bluffare. Ironia della sorte, i due avversari si sono appena messi in società per gestire il rilancio dell’acciaieria che ormai da anni naviga senza una rotta precisa e rischia di arenarsi tra perdite e debiti. Presentato come una svolta risolutiva, l’intervento pubblico ha invece moltiplicato le incognite sul futuro dello stabilimento e dei suoi 10 mila dipendenti. Senza contare che ogni possibile soluzione resta appesa alla sentenza del Consiglio di Stato sul destino dell’area a caldo, il cuore dell’impianto pugliese di cui l’anno scorso il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, ha disposto la chiusura a tutela della salute pubblica minacciata dalle emissioni inquinanti. Ancora una volta, la trama infinita dell’acciaieria tarantina mette in scena un concentrato dei mali d’Italia, dall’affarismo rapace alla giustizia deviata, come dimostra il recente verdetto del processo “Ambiente svenduto” con il lungo elenco di condannati per la “mala gestio” dello stabilimento. E allora non sorprende che in questa storia abbia giocato un ruolo anche l’avvocato Piero Amara, sulfureo protagonista di complotti veri e presunti tra toghe e faccendieri vari, dal caso Palamara ai falsi dossier dell’Eni fino alla fantomatica Loggia Ungheria. Amara, che quattro anni fa venne reclutato tra i consulenti dell’amministrazione straordinaria di Ilva, è stato arrestato martedì 8 giugno perché coinvolto in un’inchiesta della procura di Potenza che riguarda, tra l’altro, presunte irregolarità nelle indagini sull’inquinamento dell’acciaieria di Taranto condotte dal procuratore capo di Taranto Carlo Maria Capristo. È in questo contesto che Mario Draghi ha dato il via al salvataggio di quello che dovrebbe tornare a essere il polo pubblico dell’acciaio. Vista da fuori la situazione sembra paradossale. Invitalia, una holding controllata dal governo, ad aprile ha sborsato 400 milioni di euro per comprare il 38 per cento del capitale (con il 50 per cento dei diritti di voto) delle Acciaierie d’Italia, che poi sarebbe il nome nuovo della vecchia Ilva. L’operazione, però, è già finita in stallo, perché i due soci hanno cominciato da subito a litigare. L’azionista pubblico vuol tenersi le mani libere e come di prassi in questi casi non ha dato una manleva sui conti della gestione precedente, quella targata Arcelor Mittal. Senza un accordo sul bilancio 2020, la nuova società non decolla. Il consiglio di amministrazione, sei membri in tutto, tre per parte, non si è ancora insediato e quindi resta alla porta anche il presidente designato Franco Bernabé, scelto da Mario Draghi per sciogliere uno dei nodi più intricati della politica industriale del Paese. Le due parti sono al muro contro muro. Il mercato dell’acciaio è ripartito. La domanda è in crescita costante, ma l’andamento reale dell’Ilva, che già nel 2019, prima della crisi Covid-19, era finita in rosso di 865 milioni, resta un segreto ben custodito dai vertici del gruppo controllato dalla famiglia indiana Mittal. Una multinazionale che dall’alto dei suoi 50 miliardi di ricavi annui può permettersi di trattare Taranto come una delle tante province dell’impero. «La speranza è che nella seconda metà dell’anno si acceleri sulla ripresa per riuscire a produrre almeno 5 milioni di tonnellate di acciaio contro i 3,3 milioni del 2020», è l’augurio del sindacalista Roberto Benaglia, segretario della Fim-Cisl. Intanto, però, alle Acciaierie d’Italia, il mese di giugno è iniziato con una nuova richiesta di cassa integrazione per 4 mila dipendenti. Attorno all’Ilva la tensione è fortissima. Da tempo ormai i lavoratori denunciano tagli pesanti negli investimenti sugli impianti, a cominciare da quelli per la sicurezza e l’ambiente. E, nel frattempo, la preoccupazione e le proteste hanno superato il livello di guardia anche tra i fornitori. L’Espresso ha potuto verificare che sono decine le aziende dell’indotto della fabbrica pugliese che lamentano un netto peggioramento nelle condizioni di pagamento. Si moltiplicano le vertenze, anche legali, per fatture non pagate. Nei giorni scorsi le Acciaierie d’Italia sono state costrette a smentire con un comunicato ufficiale una fuga di notizie molto circostanziata che denunciava un’impennata dei debiti verso fornitori. Tutto questo avviene mentre entra in scena l’azionista pubblico, pronto a investire più di un miliardo, 400 milioni subito e altri 680 entro dodici mesi, per prendere il controllo di un’azienda che intanto, sotto la gestione di Arcelor Mittal, ha visto crollare la produzione e ha perso quote di mercato. Poco male per la multinazionale che nel frattempo ha puntato sugli stabilimenti del gruppo in giro per l’Europa, mentre l’Italia si trova a corto di un materiale strategico come l’acciaio, fondamentale per la ripresa del sistema Paese. L’Ilva è il «classico caso in cui il mercato fallisce e solo lo Stato, in ragione dell’interesse strategico, può assumersi questo rischio», ha detto di recente il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti. A questo punto però, con il bilancio che è diventato materia del contendere, non è facile neppure capire a quanto ammonti davvero il rischio che lo Stato dovrebbe assumersi, per usare le parole di Giorgetti. Tanto che nelle fila dell’esecutivo aumentano dubbi e sospetti su un’operazione ereditata dal governo precedente, benedetta da Giuseppe Conte e gestita dal fidato Domenico Arcuri, ancora oggi al comando di Invitalia dopo aver perso la poltrona di commissario per l’emergenza Covid-19. Nuovi investimenti in tecnologie verdi per ridurre l’impatto ambientale, graduale aumento della produzione per arrivare a otto milioni di tonnellate annue, salvaguardia del posto di lavoro per i 10.800 dipendenti. Questi i punti principali dell’accordo annunciati il 10 dicembre scorso dall’allora ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, insieme al collega Stefano Patuanelli, titolare dello Sviluppo economico. Quel contratto doveva diventare il trampolino di lancio per una nuova collaborazione tra pubblico e privato con l’obiettivo dichiarato di rilanciare una volta per tutte la grande fabbrica privatizzata nel 1995. Nel giro di pochi mesi, però, l’alleanza è già in frantumi tra sospetti, misteri e reciproche accuse. Come si è arrivati a questo punto? L’ultimo capitolo della storia si apre nel marzo dell’anno scorso con la firma di un nuovo contratto tra i commissari dell’Ilva in amministrazione straordinaria e Arcelor Mittal. Quell’accordo aprì le porte all’ingresso dello Stato nel capitale dell’acciaieria e, d’altra parte, chiuse la vertenza con la multinazionale, che da novembre 2018 aveva preso in gestione l’impianto di Taranto salvo annunciare il recesso un anno dopo in seguito al ritiro del promesso scudo penale per i propri manager. Spettatore interessato della vicenda era Banca Intesa che aveva a suo tempo investito 100 milioni per una quota del 5,56 per cento nel capitale della società a cui faceva capo la gestione l’acciaieria. L’istituto di credito era quindi l’unico socio di Arcelor Mittal. Un investimento a rischio? Tutt’altro. I documenti esaminati da L’Espresso rivelano che a dicembre 2020 la grande banca milanese ha incassato 111 milioni grazie alla vendita delle sue azioni, 11 milioni in più rispetto a quanto investito nel 2018. Intesa, che resta il principale creditore dell’ex Ilva, si è quindi sfilata appena prima dell’ingresso dello Stato nell’acciaieria, che, come detto, è stato annunciato a dicembre dello scorso anno, nove mesi dopo la prima intesa di marzo. Nove mesi vissuti pericolosamente, con la pandemia che gelava l’economia mondiale e la domanda d’acciaio ai minimi storici. La situazione appariva così grave che in ambienti industriali e tra i banchieri d’affari avevano preso consistenza le indiscrezioni che raccontavano di Arcelor Mittal disposta a pagare una sorta di penale al governo di Roma pur di abbandonare Ilva al suo destino. «Un miliardo di euro», questo il prezzo che la multinazionale avrebbe messo sul piatto per chiudere la sua avventura italiana. Non è chiaro se il messaggio sia stato davvero recapitato a Palazzo Chigi. Di certo, alla fine, è stato il governo a offrire poco più di un miliardo per diventare il socio di comando delle Acciaierie d’Italia. La somma è stata fissata anche sulla base di una perizia tecnica commissionata da Invitalia al commercialista Enrico Laghi, diventato in questi anni l’uomo dappertutto delle varie partite tra Stato e mercato, con incarichi sul fronte Alitalia come su quello di Autostrade, che ha visto impegnato il professionista romano per conto dei Benetton. Laghi non era un nome nuovo neppure nella vicenda Ilva. Da commissario straordinario, nominato a gennaio 2015 dal governo Renzi, aveva gestito la tormentata procedura che consegnò ad Arcelor Mittal la gestione di Taranto, lasciando l’incarico solo ad aprile del 2019. Nell’arco di quattro anni, come risulta dagli atti giudiziari, Laghi ha partecipato più volte a riunioni in procura a Taranto per esaminare un possibile patteggiamento di Ilva in amministrazione straordinaria nelle inchieste in corso su reati ambientali. Ad accompagnare Laghi c’era Piero Amara. Proprio lui, l’avvocato appena arrestato insieme al suo sodale Carlo Maria Capristo, il procuratore capo che aveva promosso quegli incontri, già allora molto criticati. Amara, Capristo, Laghi, l’ombra del malaffare e i veleni dell’acciaieria. Altro che transizione ecologica, la nuova Ilva è ancora ostaggio di un passato che non passa mai.

Caso Ilva: il rischio di fare la politica economica nei tribunali. Andrea Muratore su Inside Over l'1 giugno 2021. Nel caso del processo Ilva che ha portato alla condanna in primo grado dei fratelli Riva, ex titolari dell’acciaieria pugliese, e all’avvio di un iter che può potenzialmente condurre al sequestro degli impianti del polo siderurgico di Taranto si è riproposta l’annosa questione della sovrapposizione tra dinamiche giudiziarie e questioni economiche che più volte in passato è stata oggetto di dibattito in Italia. Nessuno, chiaramente, può negare il fatto che se ci sono delle responsabilità penali nella questione Ilva esse vadano accertate e ci si debba sincerare delle connessioni tra le emissioni dell’impianto e eventuali problematiche alla salute dei cittadini e alla salubrità dell’area del centro urbano pugliese. Ma, al contempo, vanno analizzati due rischi potenziali in un approccio che ritenga l’impianto in sé e non la sua gestione come prova di reato. Il primo è quella della reductio ad Ilvam. Ovvero l’attribuire ogni problematica di matrice ambientale, sociale, economica della città di Taranto all’acciaieria. Tanto che nel processo ai Riva e all’ex presidente della Regione Vendola appare addirittura come tesi proposta dai pm quella che, sottolinea Il Riformista, “i Riva volessero prima avvelenare, poi produrre”, costituendo una vera associazione a delinquere per il dolo intenzionale. Tanto da portare l’accusa a presentare tesi, criticate dalla difesa, che riconducevano agli scarichi Ilva nel Mar Grande di Taranto la presenza di quantità anomale di Pcb, una sostanza altamente tossica, nei mitili allevati nel vicino Mar Piccolo, in realtà “da ascrivere agli sversamenti di olii dielettrici da parte della Marina, come puntualmente riferito dall’Ispettore Severini in udienza e come riscontrato anche dai recenti studi della Regione Puglia”. Il secondo, ad esso fortemente connesso, è quello di far decidere nelle aule di tribunale il destino di preziosi asset strategici fondamentali per il sistema-Paese. Il fatto che il tribunale di Taranto abbia promosso una fuga in avanti prospettando il possibile futuro sequestro di un impianto già a operatività condizionata dal commissariamento del 2012 e oggi in mezzo alla trattativa tra Invitalia e ArcelorMittal per la costituzione di Acciaierie d’Italia può condizionare il futuro dell’ex Ilva e dell’intera città. Da un lato risulta infatti disdicevole il fatto che si sia permesso che i lavoratori dell’Ilva di Taranto, per troppo tempo, fossero costretti a scegliere tra due alternative: la trappola della povertà, ovvero l’abbandono di un posto di lavoro che tra standard ambientali insani e problemi dilaganti rappresentava comunque una delle poche opportunità occupazionali dell’area, o l’accettazione di una precarietà di condizioni disarmante e degradante. Dall’altro, la tagliola giudiziaria difficilmente potrà migliorare lo status quo oggi presente. E rischia di alimentare la controversa prassi che vede un’attenzione continua e assidua da parte dei tribunali per i nostri campioni nazionali. Citofonare Eni e Leonardo per avere una conferma. Paolo Scaroni e Claudio Descalzi, penultimo e attuale ad del Cane a sei zampe, sono stati recentemente assolti nel processo sulla presunta maxitangente nigeriana da parte del Tribunale di Milano che aveva avviato una controversa inchiesta. “Il fatto non sussiste”: la formula piena dell’assoluzione rappresenta, per dirla con Giulio Sapelli, una “vittoria dello Stato di diritto” al termine di una vicenda complessa, spesso torbida, in cui la cronaca giudiziaria si è unita a una crescente campagna mediatica di attacco e demonizzazione di Eni da parte di settori della stampa nazionale che ha contribuito a dare una visibilità  eccessiva, e spesso inopportuna, al processo. Non è la prima volta che ciò accade in relazione alla galassia delle società partecipate e del suo top management: l’attuale presidente del Milan Scaroni è già stato riconosciuto come innocente al termine del processo sul caso Saipem-Algeri mentre la procura di Milano aveva dovuto già subire un verdetto sfavorevole vedendo il proprio “teorema” smontato al termine del caso di Riccardo Orsi, ad di Finmeccanica (predecessore di Leonardo) dal 2011 al 2013, anno in cui fu arrestato per l’accusa di aver intascato delle  tangenti pagate dal governo indiano come intermediazione per l’acquisto di elicotteri prodotti da AgustaWestland. Nel 2019 la Cassazione ha definitivamente prosciolto l’ex ad Orsi da ogni accusa in tal senso. E recentemente la stessa Leonardo è finita direttamente nel mirino dopo che il tribunale milanese ha inflitto una condanna a 6 anni di prigione e a una multa di 2,5 milioni di euro ciascuno Alessandro Profumo e Fabrizio Viola per i reati di aggiotaggio e di false comunicazioni sociali nel processo Monte dei Paschi. La condanna di Profumo, ex ad di Mps e attualmente alla guida del gruppo di Piazza Montegrappa, è stata addirittura usata come motivazione per chiederne le dimissioni da Leonardo, con la giustificazione il caso Mps possa in qualche modo ripercuotersi sull’operatività della società e sui suoi risultati economici e produttivi. Ipotesi smentita dai fatti, come attestano i risultati garantiti dalla postura internazionale assunta da Leonardo negli ultimi mesi ed anni, la sua crescita in termini proiezione industriale, fatturato, valore aggiunto portato all’economia nazionale e all’occupazione. Recentemente Profumo ha fatto ricorso contro la sentenza in primo grado chiedendo la piena assoluzione e sottolineando che i reati di cui è stato imputato riguardano, sostanzialmente, errori e negligenze del vecchio management da lui portati allo scoperto assieme a Viola tra il 2012 e il 2015. Il processo Eni-Nigeria, quello Saipem-Algeria, il caso Finmeccanica-India e quello Mps sono stati uniti dal fil rouge di un grande clamore mediatico a cui è stato associato un sostanziale processo di messa in discussione del valore per il sistema-Paese dell’azienda o dell’apparato i cui vertici sono stati chiamati a rispondere. Tale canovaccio si ripete anche nel caso Ilva, in cui l’ipotesi dell’associazione a delinquere, il persistente dibattito sul ruolo dell’acciaieria come inquinatore di ultima istanza e la grande pressione delle associazioni ambientaliste e della società civile hanno funto da volano per un’ulteriore mediatizzazione della questione, per un surplus di attenzione al versante economico, in ultima istanza per una condanna dura che può allontanare, piuttosto che risolvere, la riconquista di un futuro da parte di Taranto. Fare la politica economica nei tribunali è sempre rischioso: la presunzione di innocenza deve ispirare cautela e gradualismo, e i precedenti processi ai “campioni nazionali” insegnano che mettere nel centro del mirino un’azienda strategica rischia di essere giudiziariamente inconcludente e economicamente rischioso per l’Italia nel suo complesso.

Vittorio Feltri, Ilva e la sentenza-vendetta: il vero disastro non è ambientale, ma economico. Libero Quotidiano l'01 giugno 2021. La vicenda delle acciaierie di Taranto prende una piega amara, se non tragica. L'ex proprietario dell'Ilva, Fabio Riva, figlio di Emilio, morto a 88 anni agli arresti domiciliari, è stato condannato dal tribunale della città pugliese a 22 anni di carcere, e suo fratello Nicola a 20. Pene assolutamente esagerate per un reato non dimostrato. L'accusa rivolta agli industriali è infinita, inquinamento mortale, anzitutto, più una serie di aggravanti che non vale la pena di riassumere. Quando si vogliono castigare degli imprenditori nel nostro Paese, che odia il capitalismo in quanto suscita invidia sociale, la giustizia non si risparmia: va giù con la mazza. Secondo la Procura e i giudici, la famiglia Riva, il cui opificio era tra i più importanti d'Europa, avrebbe commesso una strage mediante le schifezze emesse dallo stabilimento. Si è parlato di decine di morti, tra cui bambini che abitavano nei dintorni della fabbrica. Da notare che il tribunale di Milano, che ha processato Riva per bancarotta, si è espresso con una assoluzione, precisando che gli imputati avevano speso una barca di soldi per limitare i danni prodotti dagli scarichi industriali. Una sentenza che contraddice quella emessa ieri nei confronti degli stessi personaggi. Risultato, non si capisce come stiano effettivamente le cose. Fabio era fuori legge oppure un samaritano che si preoccupava del benessere dei suoi operai? Noi non siamo in grado, per ovvi motivi, di accertare quale sia la verità. Tuttavia, essendoci a suo tempo interessati della causa, abbiamo verificato che i decessi per cancro a Taranto furono inferiori a quelli avvenuti, all'epoca, a Lecce dove non esiste una sola acciaieria. Questo dato verificato dovrebbe far intuire a chiunque che lo stabilimento della famiglia Riva non può essere considerato una sorta di assassino seriale. Tanto è vero che ancora oggi produce acciaio, sia pure in quantità inferiore al passato. Come si spiega tutto ciò? Non sappiamo. Ma siamo consapevoli di un fatto: se una volta l'impianto in questione uccideva con i suoi fumi alcuni lavoratori, oggi c'è il rischio che tutti tirino le cuoia per mancanza di un impiego sicuro. Decederanno d'inedia da disoccupati. Giusto combattere l'inquinamento atmosferico, però bisognerebbe tenere a mente che quasi tutte le attività non sono asettiche, pure gli impianti di riscaldamento obsoleti emettono veleni. Sostengono in proposito che Milano sia la città d'Italia più densa di sostanze perniciose, però è anche il luogo dove l'aspettativa di vita è più lunga. Forse che l'aria putrida faccia bene alla salute? Le toghe tarantine oltretutto hanno inflitto tre anni e mezzo di detenzione anche all'ex governatore pugliese, Nichi Vendola. Ma che c'entra costui con l'Ilva? Mistero. Speriamo che in appello cambi il metro di giudizio.

Maurizio Belpietro per "la Verità" l'1 giugno 2021. L' Italia non è un Paese per persone normali. E non lo dico in quanto affetto da cronico pessimismo, ma - ahimè - da un sano realismo. Per convincervi che il mio sia semplice disincanto, provo a mettere in fila alcuni fatti registrati nella sola giornata di ieri. Comincio dalla sentenza Ilva, quella con cui sono stati condannati gli ex azionisti dell'acciaieria di Taranto. Sul capo della famiglia Riva sono fioccate condanne per 42 anni, mentre un'altra trentina da trascorrere nelle patrie galere è stata comminata a ex manager del gruppo. A sommare le pene inferte a imprenditori e politici, con accuse che vanno dall' associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale all' omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro, si sfiora il secolo. Fin qui però siamo ancora nell' alveo della normalità, sebbene qualcuno avrebbe motivo di interrogarsi se sia giusto condannare i nuovi padroni, che hanno comprato gli altiforni anni fa, e non i vecchi, che quegli impianti li hanno costruiti e che, come è noto, non sono privati, ma pubblici. Già, perché l'Ilva un tempo si chiamava Italsider e dietro questa sigla c' era l'Iri, ovvero l'Istituto per la ricostruzione industriale, vale a dire il braccio statale nel mondo dell'impresa. È normale mandare in galera chi è accusato di aver inquinato per vent' anni e non chi lo ha fatto per quasi cento? Se le ciminiere emettevano fumi avvelenati e le polveri d' acciaio intossicavano i polmoni, si può credere che sia accaduto solo quando la fabbrica è stata privatizzata e che prima le emissioni fossero al profumo di violetta? Ma anche lasciando perdere questa piccola contraddizione, a cui la sentenza della Corte d' assise di Taranto non ha posto rimedio, i giudici, oltre a infliggere condanne esemplari, hanno disposto la confisca degli impianti. Cioè la magistratura, che è un ordine dello Stato, sequestra una fabbrica dello Stato (perché nel frattempo, grazie all' inchiesta, i legittimi proprietari sono stati espropriati delle loro azioni e dopo vari tentativi per trovare un compratore la proprietà dell'azienda è tornata nelle mani pubbliche). Tutto normale? A me pare di no, ma è niente rispetto a quello che sto per raccontarvi. Sempre ieri, Cassa depositi e prestiti, che è il braccio finanziario dello Stato, ha ottenuto il via libera per comprare la quota di maggioranza di Autostrade. In totale, sborserà 7,9 miliardi di soldi pubblici. L' operazione arriva a tre anni dal crollo del ponte Morandi, in cui morirono 43 persone. Ricordate? A cadaveri ancora caldi, Giuseppe Conte annunciò l'inizio della procedura per la «caducazione della concessione», aggiungendo che il governo non avrebbe potuto attendere i tempi della giustizia penale. Che il presidente del Consiglio, per di più avvocato di professione, dica che l'esecutivo non può aspettare i comodi dei giudici è già di per sé paradossale, anche perché sottintende che un comune cittadino invece può pazientare. Ma l'anormalità non si limita a questo: c' è di più. Perché, non potendo indugiare, Conte e compagni hanno atteso circa tre anni e, dopo aver minacciato revoche e azioni giudiziarie, alla fine la faccenda si conclude con un esborso da parte dello Stato. Ancora un anno fa, l'avvocato del popolo minacciava azioni sorprendenti: «O arriva una proposta della controparte che è vantaggiosa per lo Stato oppure procediamo alla revoca». Al posto dell'offerta è però arrivato lo sfratto per lo stesso Conte e così, a distanza di dieci mesi, eccoci qui, a una buonuscita che al Paese costerà svariati miliardi. Dei quasi 8 per l'acquisto della quota di maggioranza ho già detto, ma a questa si aggiungeranno i soldi necessari per mettere in sicurezza la rete, un investimento stimato in circa 12 miliardi. Insomma, per ricomprarsi Autostrade lo Stato spende un occhio e i Benetton, che hanno sfruttato per anni la gallina dalle uova d' oro, incassando miliardi in dividendi, riceveranno 2,4 miliardi cash. Un affare sì, ma per la famiglia di Ponzano Veneto, che si ritroverà in mano un pacco di denaro con cui potrà fare shopping in Europa, rifacendosi dei dispiaceri italiani. Tuttavia, non c' è di che preoccuparsi del salasso per le casse pubbliche, perché a rimediare provvederanno gli italiani con l'aumento dei pedaggi, che grazie all' uscita dei Benetton ora si può fare. Dell' elenco delle cose poco normali che accadono in questo Paese fa parte anche l'intervista di Pier Carlo Padoan, indimenticato ministro dell'Economia ai tempi di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, ora presidente di Unicredit. Dall' alto del grattacielo che ospita la banca lombarda, l'uomo che a nome del governo con una telefonata licenziò i vertici del Monte dei Paschi di Siena, ora si rallegra per l'indipendenza mostrata da Mario Draghi a proposito delle nomine pubbliche. Cioè, uno che gli incarichi li ha distribuiti sulla base delle comande di partito, oggi dice che quegli stessi incarichi non devono essere soggetti alla spartizione fra i partiti. No, il nostro non è proprio un Paese normale. Soprattutto non è un Paese dove esistano ancora un po' di decenza e di vergogna.

Michelangelo Borrillo per il "Corriere della Sera" l'1 giugno 2021. Da un tribunale all' altro. È il destino di quella che si chiamava Ilva, e prima ancora Italsider, e che oggi è Acciaierie d' Italia. Nelle stanze romane del governo, tornate nella cabina di comando della più grande acciaieria del Paese dopo l'ingresso nel capitale di Invitalia, la sentenza più attesa non era quella di ieri ma la prossima. Quella del Consiglio di Stato (potrebbe arrivare nei prossimi giorni, forse già in questa settimana) che dovrà o meno ribadire la sentenza del Tar di Lecce del 13 febbraio scorso che - confermando una ordinanza del sindaco di Taranto del 27 febbraio 2020 - aveva disposto la fermata degli impianti dell'area a caldo, ritenuti inquinanti, entro 60 giorni. Se il Consiglio di Stato confermerà la sentenza del Tar che ha ordinato lo spegnimento, «il progetto di investimento nel siderurgico che vede partecipe lo Stato, rischia di saltare», stando non solo a quanto prospettato dagli avvocati di Invitalia - l'Agenzia nazionale per lo sviluppo che fa capo al ministero dell'Economia - nell' udienza al Consiglio di Stato ma anche a quanto detto dal ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti nel question time alla Camera del 3 marzo scorso. Una bomba a orologeria, con countdown molto più ravvicinato rispetto alla Cassazione del processo «Ambiente svenduto», l'ultimo grado di giudizio dopo il quale la confisca degli impianti dell'area a caldo decisa ieri avrebbe, eventualmente, effetto sulla produzione e sull' attività del siderurgico. E ieri lo ha detto, tra le righe, lo stesso Giorgetti: «Rispettiamo la sentenza - ha sottolineato il ministro riferendosi alla decisione della Corte d' Assise di Taranto - ma manca la pronuncia del Consiglio di Stato per avere il polso della situazione. A quel punto sarà possibile capire in che quadro giuridico lo Stato, in qualità di azionista, potrà operare. Servono certezze». Senza la sentenza del Consiglio di Stato, infatti, tutto resta congelato: non si può approvare il bilancio, perché non si potrebbe garantire la continuità aziendale. E senza l'ok al bilancio dell'attuale cda, l'assemblea non potrà provvedere alla sua approvazione e alla successiva nomina del nuovo consiglio di amministrazione che avrà come presidente, per ora soltanto designato, Franco Bernabè. Lo spegnimento dell'area a caldo e la fermata degli altiforni (vista la loro particolare tipologia) equivarrebbe, in sostanza, alla chiusura dell'Ilva attuale. E quindi la continuità aziendale non potrebbe essere garantita. Si dovrebbe attuare una vera riconversione. La «decarbonizzazione» che auspica da tempo il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, secondo cui «gli impianti a ciclo integrato che hanno determinato la morte di innumerevoli persone tra cui tanti bambini, vanno chiusi per sempre». I sindacati, rispetto a Emiliano, mantengono un approccio che guarda di più all' occupazione. Per la segretaria della Fiom Cgil Francesca Re David «sarebbe davvero una beffa insopportabile se, dopo il danno, non diventasse possibile l'approdo a una produzione ambientalmente sostenibile dell'acciaio nell' impianto di Taranto». E la beffa, per il segretario generale della Fim Cisl, Roberto Benaglia, sarebbe «la confisca degli impianti disposta dalla magistratura che, come sindacato, vediamo con forte preoccupazione». La soluzione? Per Rocco Palombella, segretario generale della Uilm, è «l'intervento diretto dello Stato nel controllo della maggioranza di Acciaierie d' Italia, non più rimandabile», e che attualmente è previsto al 2022. Ma senza continuità aziendale lo Stato potrebbe trovarsi costretto a fare un passo indietro rispetto all' investimento. E così, anche dopo la sentenza di ieri e a 9 anni dal primo sequestro, Taranto rimane con i dubbi del 2012: come conciliare salute e lavoro? E la risposta è demandata, ancora una volta, ai giudici. Ora toccherà al Consiglio di Stato.

Domenico Palmiotti per ilsole24ore.com il 23 giugno 2021. Il Consiglio di Stato ferma il Tar Lecce e l’ordinanza del sindaco di Taranto sullo spegnimento degli impianti dell’area a caldo del siderurgico ex Ilva di Taranto, ora Acciaierie d'Italia. I giudici di appello (quarta sezione) dopo l'udienza del 13 maggio scorso hanno disposto l'annullamento della sentenza del Tar di Lecce n.249/2021. Per Acciaierie d’Italia, la nuova società tra ArcelorMittal Italia e Invitalia, “vengono dunque a decadere, a quanto si apprende, le ipotesi di spegnimento dell'area a caldo dello stabilimento di Taranto di Acciaierie d'Italia e di fermata degli impianti connessi, la cui attività produttiva proseguirà con regolarità”. “Il potere di ordinanza non risulta suffragato da un'adeguata istruttoria e risulta, al contempo, viziato da intrinseca contraddittorietà e difetto di motivazione”. Lo dice il Consiglio di Stato, sezione quarta, nelle 60 pagine di motivazione della sentenza con cui ha annullato la sentenza del Tar Lecce dello scorso febbraio che, confermando una precedente ordinanza del sindaco di Taranto di febbraio 2020, aveva ordinato lo spegnimento degli impianti dell'area a caldo dell'ex Ilva perché inquinanti. Secondo i giudici dell'appello - la sentenza del Tar era stata infatti impugnata al Consiglio di Stato - “va dichiarata l'illegittimità dell'ordinanza impugnata e ne va conseguentemente pronunciato l'annullamento”. “La sezione non ha condiviso la tesi principale delle società appellanti, secondo cui deve escludersi ogni spazio di intervento del sindaco in quanto i rimedi predisposti dall'ordinamento, nell'ambito dell'autorizzazione integrata ambientale (Aia) che assiste l'attività svolta nello stabilimento, sarebbero idonei a far fronte a qualunque possibile inconveniente. Tuttavia, ha ritenuto che quel complesso di rimedi (compresi i poteri d'urgenza già attribuiti al Comune dal T.U. sanitario del 1934, i rimedi connessi all'Aia che prevedono l'intervento del Ministero della transizione ecologica e le norme speciali adottate per l'Ilva dal 2012 in poi) sia tale da limitare il potere di ordinanza del sindaco, già per sua natura “residuale”, alle sole situazioni eccezionali in cui sia comprovata l'inadeguatezza di quei rimedi a fronteggiare particolari e imminenti situazioni di pericolo per la salute pubblica”. Così il Consiglio di Stato, in una nota, spiega la sentenza che ha portato all'annullamento della sentenza del Tar Lecce.

Ex Ilva, no allo stop degli impianti dell'area a caldo: il Consiglio di Stato tiene aperto il siderurgico.  Giuliano Foschini su La Repubblica il 24 giugno 2021. Il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci aveva ordinato lo spegnimento degli impianti per inquinamento: una decisione poi confermata dal Tar che aveva respinto il ricorso delle aziende ma ora ribaltata da Palazzo Spada. Con la sentenza n. 4802 del 23 giugno 2021, la Sezione IV del Consiglio di Stato, accogliendo gli appelli di Arcelor Mittal Spa e di Ilva Spa in amministrazione straordinaria, ha annullato l'ordinanza n. 15 del 27 febbraio 2020, con cui il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci aveva ordinato loro, nelle rispettive qualità di gestore e proprietario dello stabilimento siderurgico 'ex Ilva', di individuare entro 60 giorni gli impianti interessati da emissioni inquinanti e rimuoverne le eventuali criticità, e qualora ciò non fosse avvenuto di procedere nei 60 giorni successivi alla sospensione/fermata delle attività dello stabilimento. Il potere di ordinanza d'urgenza del sindaco di Taranto è stato esercitato secondo palazzo Spada in assenza dei presupposti di legge. È per questo che il Consiglio di Stato ha annullato l'ordinanza sull'ex Ilva: non sono emersi "fatti, tali da evidenziare e provare adeguatamente che il pericolo di reiterazione degli eventi emissivi fosse talmente imminente da giustificare l'ordinanza contingibile e urgente, oppure che il pericolo paventato comportasse un aggravamento della situazione sanitaria nella città di Taranto, tale da indurre ad anticipare la tempistica prefissata per la realizzazione delle migliorie" dell'impianto. L'ordinanza era stata emessa, nell'esercizio dei poteri di necessità e urgenza del sindaco a tutela della salute della cittadinanza, a seguito di episodi di emissioni di fumi e gas verificatisi nell'agosto 2019 e nel febbraio 2020 e delle successive verifiche ambientali e sanitarie. Il Tar della Puglia, sezione staccata di Lecce, pronunciandosi in primo grado sul ricorso delle due società, lo aveva respinto a seguito di un'approfondita istruttoria. Palazzo Spada non ha però condiviso la tesi principale di Arcelor Mittal Spa e di Ilva Spa in amministrazione straordinaria, secondo cui deve escludersi ogni spazio di intervento del sindaco in quanto i rimedi predisposti dall'ordinamento, nell'ambito dell'autorizzazione integrata ambientale (AIA) che assiste l'attività svolta nello stabilimento, sarebbero idonei a far fronte a qualunque possibile inconveniente. Tuttavia, ha ritenuto che quel complesso di rimedi sia tale da limitare il potere di ordinanza del Sindaco, già per sua natura "residuale", alle sole situazioni eccezionali in cui sia comprovata l'inadeguatezza di quei rimedi a fronteggiare particolari e imminenti situazioni di pericolo per la salute pubblica. E ancora: pur non condividendo l'impostazione delle due società, che imputavano al Tar leccese di aver debordato dal proprio ambito di giudizio, finendo per occuparsi dell'idoneità e adeguatezza delle misure connesse all'AIA anziché della legittimità dell'ordinanza del Sindaco, la Sezione IV ha ritenuto che il rigetto del ricorso in primo grado non trovasse conforto neanche nelle risultanze dell'istruttoria svolta dallo stesso Tar, "laddove da un lato è emerso - come sottolinea un comunicato del Consiglio di Stato - che i più recenti episodi emissivi non sono dovuti a difetti strutturali dell'impianto, dall'altro è stata acquisita una congerie di dati a volte non pertinenti e comunque non tali da provare in modo certo l'esistenza di particolari anomalie tali da costituire serio e imminente pericolo per la popolazione". Anche sotto questo profilo, l'ordinanza risulta quindi emessa "senza che vi sia stata un'univoca individuazione delle cause del potenziale pericolo e senza che sia risultata acclarata sufficientemente la probabilità della loro ripetizione". L'effetto pratico di questa sentenza è che non ci sarà alcuno stop degli impianti dell'area a caldo del siderurgico di Taranto. "Alla luce del pronunciamento del Consiglio di Stato sull'ex Ilva, che chiarisce il quadro operativo e giuridico, il governo procederà in modo spedito su un piano industriale ambientalmente compatibile e nel rispetto della salute delle persone". Così il ministro dello sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, in una nota. "L'obiettivo - aggiunge il ministro - è rispondere alle esigenze dello sviluppo della filiera nazionale dell'acciaio accogliendo la filosofia del PNRR recentemente approvato".

Gli ambientalisti: "Giustizia negata". "Ancora una volta viene quindi negata giustizia a Taranto, nonostante la sentenza del Tribunale amministrativo di Lecce avesse emesso una sentenza con opportuni richiami a precedenti espressioni dello stesso Consiglio di Stato. Un giudizio che, alla luce delle nuove evidenze scientifiche e sanitarie che sottolineano ancora eccessi di mortalità e di malattie correlate agli inquinanti immessi dall'impianto siderurgico sul nostro territorio, non esitiamo a giudicare, come sempre, sbilanciato verso la produzione e il profitto piuttosto che la vita".  Così una sessantina di associazioni e movimenti ambientalisti di Taranto, Abruzzo, Campania, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Toscana e Veneto, a commento della decisione del Consiglio di Stato. "Investire sui prodotti invece che sul capitale umano - osservano le associazioni - è una strategia economicamente perdente, politicamente miope e retrograda, foriera di ulteriori fallimenti economici e sociali cui la nostra comunità non intende arrendersi. Tuttavia, nonostante questa battuta d'arresto, la battaglia che conduciamo da anni non si ferma ed ha ancora svariati e fondati motivi per essere combattuta e vinta". Secondo gli ambientalisti, tra cui Giustizia per Taranto, Legamjonici, Peacelink e Ail, "i fantomatici piani del Governo per l'ex-Ilva restano assai precari e non supportati né a livello economico, né tecnico e né da evidenze che escludano ulteriori ricadute sanitarie sul territorio. A ciò si aggiungono la condanna comminata nel 2019 allo Stato italiano da parte della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e la pesantissima confisca degli impianti dell'area a caldo decisa qualche giorno fa nel processo Ambiente Svenduto, cui si è aggiunta anche quella pecuniaria di oltre due miliardi di euro ai danni di Ilva in Amministrazione Straordinaria. La confisca degli impianti - concludono - darà, di fatto, la possibilità ad ArcelorMittal di recedere dal contratto di acquisto, lasciando Invitalia a gestire da sola una situazione che ormai fa acqua da tutte le parti. Occorre un programma di risanamento e riconversione che coinvolga tutta la città e attorno al quale scrivere una nuova e sana pagina di storia per Taranto".

L'azienda. Acciaierie d'Italia è pronta a presentare la propria proposta di piano per la transizione ecologica dello stabilimento di Taranto, con un obiettivo: "L'acciaio verde italiano". Lo rende noto la società che è "pronta a presentare già dalla prossima settimana, insieme con i suoi partner industriali Fincantieri e Paul Wurth, la propria proposta di piano per la transizione ecologica dell'intera area a caldo dello Stabilimento di Taranto, tramite l'applicazione di tecnologie innovative ambientalmente compatibili e con l'obiettivo di una progressiva e costante riduzione delle quote emissive, che vada anche oltre le attuali prescrizioni". "La battaglia continuerà finché non ci sarà un tavolo per l'accordo di programma che sancisca la chiusura dell'area a caldo dello stabilimento" ex Ilva. Lo annuncia il sindaco di Taranto Melucci, mostrando "poca sorpresa" per la sentenza del Consiglio di Stato che ha annullato la sua ordinanza e che fa "riflettere" in alcuni passaggi  perché "oggi nessuno può sentirsi banalmente assolto. Con la mia ordinanza abbiamo chiamato lo Stato alle sue responsabilità sul futuro dell'ex Ilva e sulla salute dei tarantini. Ora la palla passa alla politica e al Governo": "Dal canto mio - conclude - ho, perciò, la coscienza a posto".

IL CONSIGLIO DI STATO ACCOGLIE IL RICORSO: GLI IMPIANTI DELL’EX ILVA POSSONO RESTARE FUNZIONANTI. Il Corriere del Giorno il 23 Giugno 2021. Secondo i giudici di Palazzo Spada “non sono emersi fatti, tali da evidenziare e provare adeguatamente che il pericolo di reiterazione degli eventi emissivi fosse talmente imminente da giustificare l’ordinanza contingibile e urgente, oppure che il pericolo paventato comportasse un aggravamento della situazione sanitaria nella città di Taranto, tale da indurre ad anticipare la tempistica prefissata per la realizzazione delle migliorie”. La IVa Sezione del Consiglio di Stato presieduta dal giudice dr. Raffaele Greco, estensore il giudice dr. Michele Conforti, e dai giudici dr. Oberdan Forlenza, dr. Luca Lamberti e dr. Giuseppe Rotondo con la propria sentenza n. 4802 del 23 giugno 2021, hanno accolto gli appelli di Arcelor Mittal Spa e di Ilva Spa in amministrazione straordinaria, annullando l’inutile ordinanza n. 15 del 27 febbraio 2020, emessa dal sindaco di Taranto Rinaldo Melucci, che ordinava loro, nelle rispettive vesti di gestore e proprietario dello stabilimento siderurgico ‘ex Ilva’, di individuare entro 60 giorni gli impianti interessati da emissioni inquinanti e rimuoverne le eventuali criticità, e qualora ciò non fosse avvenuto di procedere nei 60 giorni successivi alla sospensione (quindi fermata) fermata delle attività produttive dello stabilimento. L’ ordinanza d’urgenza del sindaco di Taranto è stato esercitata secondo in Consiglio di Stato in assenza dei presupposti di legge. È questa la motivazione principale per la quale Consiglio di Stato ha annullato l’ordinanza sull’ex Ilva. Secondo i giudici di Palazzo Spada “non sono emersi fatti, tali da evidenziare e provare adeguatamente che il pericolo di reiterazione degli eventi emissivi fosse talmente imminente da giustificare l’ordinanza contingibile e urgente, oppure che il pericolo paventato comportasse un aggravamento della situazione sanitaria nella città di Taranto, tale da indurre ad anticipare la tempistica prefissata per la realizzazione delle migliorie” . Pur riconoscendo al sindaco il potere in astratto e la legittimazione istituzionale a intervenire a tutela dell’ambiente e della salute, il Consiglio di Stato ha rilevato che nel caso in questione, in rapporto agli episodi emissivi alla base del provvedimento del sindaco, l’istruttoria non aveva evidenziato elementi di gravità e pericolosità tali da giustificare la chiusura dell’area a caldo dello stabilimento. L’ordinanza di Melucci travolta dall’odierna sentenza del Consiglio di Stato era stata emessa, attraverso l’esercizio dei poteri di necessità e urgenza del Sindaco, a tutela della salute della cittadinanza, a seguito di episodi di emissioni di fumi e gas verificatisi nell’agosto 2019 e nel febbraio 2020 e delle successive verifiche ambientali e sanitarie. Il Tar della Puglia, sezione staccata di Lecce, pronunciandosi in primo grado sul ricorso delle due società, lo aveva respinto a seguito di un’approfondita istruttoria. In particolare, la IVa Sezione del Consiglio di Stato i rimedi predisposti dall’ordinamento, nell’ambito dell’autorizzazione integrata ambientale (AIA) che assiste l’attività svolta nello stabilimento, ha ritenuto che quel complesso di rimedi (compresi i poteri d’urgenza già attribuiti al Comune dal T.U. sanitario del 1934, i rimedi connessi all’AIA che prevedono l’intervento del Ministero della transizione ecologica e le norme speciali adottate per l’Ilva dal 2012 in poi) sia tale da limitare il potere di ordinanza del Sindaco, già per sua natura “residuale”, alle sole situazioni eccezionali in cui sia comprovata l’inadeguatezza di quei rimedi a fronteggiare particolari e imminenti situazioni di pericolo per la salute pubblica, valutando che i rimedi sarebbero idonei a far fronte a qualunque possibile inconveniente. Con un proprio comunicato stampa, il Consiglio di Stato ha precisato ed evidenziato che che l’accertamento giudiziale doveva concentrarsi unicamente sulla legittimità dell’ordinanza del Sindaco senza poter estendersi alle annose e travagliate vicende che hanno interessato lo stabilimento “ex Ilva” (oggetto di un piano di adeguamento adottato in base alla legislazione speciale post-2012, le cui tempistiche sono già state considerate legittime dal Consiglio di Stato con due pareri del 2019), e quindi la Sezione ha ritenuto che in concreto il potere di ordinanza d’urgenza fosse stato esercitato in assenza dei presupposti di legge, non emergendo la sussistenza di “fatti, elementi o circostanze tali da evidenziare e provare adeguatamente che il pericolo di reiterazione degli eventi emissivi fosse talmente imminente da giustificare l’ordinanza contingibile e urgente, oppure che il pericolo paventato comportasse un aggravamento della situazione sanitaria in essere nella città di Taranto, tale da indurre ad anticipare la tempistica prefissata per la realizzazione delle migliorie” dell’impianto. Pertanto, pur senza negare la grave situazione ambientale e sanitaria da tempo esistente nella città di Taranto, già al centro di vicende giudiziarie penali e di una sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti Umani (relativa però alla precedente gestione dello stabilimento, rispetto alla quale le misure intraprese negli ultimi anni hanno segnato “una linea di discontinuità”), si è concluso che “nella specie il potere di ordinanza abbia finito per sovrapporsi alle modalità con le quali, ordinariamente, si gestiscono e si fronteggiano le situazioni di inquinamento ambientale e di rischio sanitario, per quegli stabilimenti produttivi abilitati dall’A.I.A.”, non essendosi evidenziato un pericolo “ulteriore” rispetto a quello ordinariamente collegato allo svolgimento dell’attività industriale. Il collegio giudicante della IVa Sezione ha ritenuto che il rigetto del ricorso in primo grado al TAR Puglia non trovasse conforto neanche nelle risultanze dell’istruttoria svolta dallo stesso TAR, laddove da un lato è emerso che i più recenti episodi emissivi non sono dovuti a difetti strutturali dell’impianto, dall’altro è stata acquisita una congerie di dati a volte non pertinenti e comunque non tali da provare in modo certo l’esistenza di particolari anomalie tali da costituire serio e imminente pericolo per la popolazione. Quindi anche sotto tale profilo, l’ordinanza risulta quindi emessa “senza che vi sia stata un’univoca individuazione delle cause del potenziale pericolo e senza che sia risultata acclarata sufficientemente la probabilità della loro ripetizione”. La conclusione di questa vicenda è che non ci sarà alcuno “stop” degli impianti dell’area a caldo del siderurgico di Taranto, e che ancora una volta qualcuno non ha esitato ad esercitare del vergognoso terrorismo “psicologico” per fini politici strumentali ed elettorali. Quella politica “monnezza” di certi “masanielli” travestiti da politici, sotto mentite spoglie, un genere che purtroppo a Taranto e provincia abbonda. Il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti ha così commentato la decisione di Palazzo Spada: “Alla luce del pronunciamento del Consiglio di Stato sull’ex Ilva, che chiarisce il quadro operativo e giuridico, il Governo procederà in modo spedito su un piano industriale ambientalmente compatibile e nel rispetto della salute delle persone. Obiettivo è rispondere alle esigenze dello sviluppo della filiera nazionale dell’acciaio accogliendo la filosofia del Pnrr recentemente approvato”.

Ex Ilva, il Consiglio di Stato cancella lo stop: protesta di cittadini e attivisti. Le Iene News il 24 giugno 2021. Il Consiglio di Stato ha annullato la sentenza del Tar di Lecce e l’ordinanza del sindaco di Taranto che avevano imposto lo spegnimento degli impianti dell’area a caldo perché inquinanti. Cittadini e attivisti sono scesi in piazza a protestare, tra loro c’era chi indossava la maglietta con scritto: “I bambini di Taranto vogliono vivere”. Un tema che noi de Le Iene abbiamo a lungo seguito con Nadia Toffa. L’area a caldo dell’ex Ilva di Taranto può continuare l’attività produttiva: il Consiglio di Stato ha infatti annullato ieri la sentenza del Tar di Lecce che, confermando una precedente ordinanza del sindaco di Taranto, aveva ordinato lo spegnimento degli impianti dell’area a caldo perché inquinanti. “Alla luce del pronunciamento del Consiglio di Stato, il governo procederà in modo spedito su un piano industriale ambientalmente compatibile e nel rispetto della salute delle persone”, ha dichiarato il ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti. Parole a cui hanno ribattuto i sindacati: “È l’ultima chance. Sarebbe inaccettabile se la politica continuasse a non decidere sul futuro di oltre 15 mila lavoratori”, ha dichiarato Rocco Palombella, segretario generale della Uilm. “L’unica soluzione per garantire contemporaneamente il risanamento ambientale, la salute dei cittadini e dei lavoratori, l’occupazione e un futuro industriale ecosostenibile è l’accelerazione della transizione ecologica”. Ma mentre si discute del futuro dell’acciaieria, montano le proteste. I sindacati, già scesi in piazza a Genova, annunciano simili iniziative a Taranto contro la cassa integrazione per circa 4mila addetti. E sempre ieri - secondo quanto riporta la Gazzetta del Mezzogiorno - dopo la sentenza del Consiglio di Stato è stato organizzato un flash mob davanti alla Prefettura da parte di cittadini e associazioni. “I bambini di Taranto vogliono vivere”, è la scritta apparsa sulla maglia di un piccolo manifestante. E a noi non poteva che tornare alla mente la battaglia condotta dalla nostra Nadia proprio in favore dei bambini di Taranto. Con lei abbiamo seguito in prima linea e da vicino nel corso degli anni le sorti degli abitanti di Taranto, costretti a convivere con le polveri e l’inquinamento prodotto dall’acciaieria. Proprio la nostra Nadia è stata nel quartiere i Tamburi, tra i più colpiti, dove a fare le spese dell’inquinamento sono anche i bambini. “Vorremmo scappare di qua e non possiamo permettercelo. Io voglio veder crescere le mie figlie, voglio vederle sposate”, ha raccontato a Nadia la mamma di una bambina colpita da un sarcoma. Lì aveva incontrato anche la piccola Gabriella, che le ha raccontato come dalle finestre di casa sua, dove era costretta a rimanere perché malata di leucemia, vedeva l’Ilva. Le abbiamo chiesto: cos’è l’Ilva? “Il fumo”. La piccola ci ha raccontato della chemioterapia, di come ha perso i capelli e degli altri bambini incontrati in ospedale. “Siamo dieci più così”: con le mani ha fatto capire che i bambini erano 18. Tra questi c’era anche Rebecca, un’amica di Gabriela, che le mancava perché “in ospedale non c'è più”. “Ha finito, ora è a casa”, ci aveva detto la piccola. Ma Rebecca a casa non ci è mai tornata. 

Sconfitta una particolare giustizia che segue più le mode che l’applicazione delle leggi. Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 24 giugno 2021. IL CONSIGLIO di Stato c’è andato giù pesantissimo: il potere di ordinanza dei giudici sull’Ilva di Taranto “non risulta suffragato da un’adeguata istruttoria e risulta al contempo o viziato da intrinseca contraddittorietà e difetto di motivazione”. In altre parole, la sentenza del Tar che aveva deciso di spegnere l’acciaieria dichiarare la catastrofe naturale e distruggere ogni prospettiva di modernità, è stata azzerata da una sentenza del Consiglio di Stato che denuncia la totale infondatezza di tutti gli elementi usati dai magistrati per arrivare a decisioni che se sono prive di un’adeguata istruttoria non possono che considerarsi sovrabbondanti in ideologia. C’era stata una sentenza del Tar di Lecce nello scorso febbraio che confermando ordinanza del sindaco di Taranto del febbraio 2020 avevo ordinato lo spegnimento degli impianti dell’area caldo dell’ex Ilva perché inquinanti. Secondo i giudici d’appello va dichiarata l’illegittimità dell’ordinanza impugnata e ne va conseguentemente pronunciato l’annullamento.

NUOVA MAZZATA. Si tratta di una nuova mazzata all’immagine e all’autorevolezza della magistratura italiana perché mai come nel caso dell’Ilva di Taranto si è avuta e si seguita ad avere ogni giorno la prova di quanto la giustizia italiana sia nemica della industria italiana e costituisca un ostacolo quasi insuperabile perché aziende straniere possano venire ad investire specialmente nel Mezzogiorno ed aziende italiane possano ritrovare la motivazione per farlo. I giudici d’appello della quarta sezione dopo l’udienza del 13 maggio scorso hanno disposto dunque l’annullamento della sentenza del Tar di Lecce numero 249 del 2021 e per Acciaierie d’Italia e la nuova società tra Arcelormittal Italia e Invitalia “vengono dunque a decadere, si legge, le ipotesi di spegnimento dell’area a caldo e di fermata degli impianti connessi la cui attività produttiva proseguirà con regolarità”.

QUASI VENDICATIVA. Evidente che questo sentenza non si riferisce banalmente ha delle tecnicalità giuridiche che potrebbero avere inficiato il valore delle decisioni precise prese precedentemente dal Tar, ma boccia in maniera clamorosa e quasi vendicativa un tipo di amministrazione giudiziaria incline a seguire più le mode che le leggi dal momento che per ora ha soltanto assecondato tesi puramente politiche basate sul nulla ovvero basate sulle interpretazioni e le follie del movimento populista che inquina l’Italia da troppi anni. La nuova sentenza anche stabilito che il piano ambientale non è affatto in ritardo che non esiste alcuna emergenza che possa giustificare la chiusura degli altoforni. Viene detto in maniera esplicita che il potere inquinante di questa industria è esattamente lo stesso di qualsiasi altra industria con un impatto sul territorio in cui si trova e che richiede ovviamente tutti i correttivi e le attenzioni del caso ma che non giustifica in alcuna maniera la distruzione di un potenziale industriale virgola di una capacità di assorbire lavoro e di dare stipendi e assicurare la vita economica di una comunità.

IL TAR NON HA CAPITO. Per i giudici di palazzo Spada “l’avvenuta individuazione delle misure di mitigazione fra le quali si colloca anche l’installazione dei filtri a maniche, l’inizio della loro realizzazione e la mancata rappresentazione del provvedimento del mancato rispetto delle scadenze prestabilite, inducono a ritenere non sufficientemente provata quella situazione di assoluta e stringente necessità presupposta dall’ordinanza sindacale”. In parole povere nulla di ciò che è stato finora stabilito dal Tar è giustificato in alcun titolo e quindi è privo di qualsiasi valore non soltanto legale ma anche di utile suggerimento politico sul da farsi.

RISPETTO DELLA SALUTE. Giancarlo Giorgietti, ministro dello Sviluppo economico, si è affrettato ad avvertire che il governo procederà in modo spedito su un piano industriale ambientalmente “compatibile nel rispetto della salute delle persone”. Come dire: terremo conto degli elementi ideologici totalmente insussistenti per non scontentare nessuno, ma dobbiamo ripartire da zero. In che significa che acciaierie d’Italia possono rivestire un nuovo piano dopo la sentenza del Consiglio di Stato ma nessuno potrà dare nessuno potrà restituire la vita e l’onore agli ex proprietari dell’Ilva maltrattati da sentenze che li hanno esposti davanti all’opinione pubblica come dei criminali di ambientali, degli sfruttatori di vite a perdere, un macigno di materiale puramente ideologico che non ha nessuna ragion d’essere né giuridica né morale né politica e tantomeno industriale punto I sindacati anche in questo caso hanno soltanto belato auspicando chiedendo rimettendosi ma senza saper prendere una posizione decisa.

SEGNALI RAPIDI. La Confindustria di Taranto chiede che il governo dia dei segnali rapidi su cui fondare il futuro ma quel che resta di questa vicenda amarissima e l’immagine di una sconfitta della verità e della giustizia di fronte alle esigenze delle imposizioni ideologiche travestite da impellenti necessità giudiziarie che poi si rivelano totalmente campate in aria ma ugualmente capaci di distruggere l’onore di alcune persone, distruggere la prospettiva di lavoro di molte altre, distruggere le potenzialità di una Regione e scoraggiare ogni azienda che ne avesse intenzione dal venire a impiantarsi in Italia e portare ricchezze e fabbriche di ricchezza. Questo significa anche che il governo davvero un’occasione d’oro per seppellire questo cassonetto di idiozie prevaricatrici prive di qualsiasi consistenza giuridica per riabilitare il funzionamento della burocrazia e anche della stessa giustizia così maltrattato da alcuni suoi esponenti e ristabilire le regole per un progresso civile industriale che finora sono mancate o se ci sono state non hanno avuto nessun effetto.

Dario Di Vico per il “Corriere della Sera” il 24 giugno 2021. La grande sagoma della Gemma, la nave cargo per il trasporto delle materie prime ormeggiata da sei mesi al largo del porto di Taranto, si presta a sintetizzare le contraddizioni dell'acciaieria ex Ilva. In un momento di forti tensioni sul mercato dell'acciaio, per la vivacissima domanda legata alla ripresa mondiale e per la lievitazione dei prezzi, Gemma dovrebbe solcare i mari e invece è lì, ferma, a ricordarci l'impasse in cui versa lo stabilimento pugliese. La sentenza di ieri del Consiglio di Stato fa chiarezza su poteri e competenze delle autorità locali e introduce un elemento di certezza. Ma è solo un passo, Taranto ha bisogno di altre sicurezze sia per quanto riguarda la bonifica ambientale dell'impianto sia per ciò che concerne il suo futuro. Come detto e ripetuto cento volte l'ex Ilva è un asset decisivo per le ambizioni dell'Italia manifatturiera, senza l'acciaio che viene dal secondo impianto siderurgico d' Europa la nostra industria meccanica di trasformazione non avrebbe gli approvvigionamenti necessari, in quantità e qualità, per lavorare con la necessaria programmazione. Già oggi mancano i coils a Cornigliano e la stagione della raccolta del pomodoro rischia di andare sprecata perché manca alle aziende alimentari la banda stagnata destinata alle lattine. Incredibile. E' risaputo però che cittadini non la pensano allo stesso modo degli acciaieri del Nord o dello stesso governo nazionale ma questa distanza va recuperata e chiusa. Sono stati messi sul piatto 2,5 miliardi di euro per il rilancio dell'ex Ilva e ci sono quindi le condizioni per ridurre le emissioni inquinanti, per tenere aperta l'area a caldo e per far partire i nuovi forni elettrici. Ci sono le condizioni per voltar pagina. E' questa la base per ricucire il rapporto con il territorio, una base francamente più solida della ventilata ipotesi di sponsorizzare con centinaia di migliaia di euro il Taranto Calcio appena promosso in serie C. Ipotesi che per altro ha generato l'ira dei tifosi e non l'attesa benevolenza. Archiviato il contenzioso in sede di Consiglio di Stato ora si tratta, come chiedono anche i sindacati e come reclamano gli imprenditori dell'indotto, di accelerare i tempi per riportare l'impianto a produrre acciaio e richiamare così i lavoratori dalla cassa integrazione (uno spreco incredibile in una stagione in cui la domanda di acciaio è ai massimi). Il vecchio consiglio di amministrazione può approvare il bilancio 2020 e dare così il via all' insediamento del nuovo che registra le discontinuità legate all' ingresso di Invitalia come azionista di minoranza grazie alla prima tranche di 400 milioni (pari al 38% del capitale). Ma assieme al completamento delle procedure, una volta deciso che Taranto è strategica, lo Stato deve muoversi con determinazione per rimettere ordine nelle tante contraddizioni che l'ex Ilva continua a portarsi dietro. Non escluso il rapporto con l'azionista privato, la multinazionale Arcelor Mittal, che fino al momento in cui Invitalia diventerà azionista di maggioranza (maggio 2022) avrà comunque pieni poteri in azienda seppur con il 50% dei diritti di voto. La prova che ci si aspetta dai fatti è che non esiste nessun conflitto di interesse tra la presenza di Arcelor Mittal a Taranto e gli altri stabilimenti europei e quindi la produzione può ripartire a pieno ritmo. Del resto con i prezzi dell'acciaio di oggi nessun capo-azienda che si rispetti manterrebbe l'impianto a scartamento ridotto. E l'obiettivo di produrre almeno 5 milioni di tonnellate nel 2021, come indicato dai sindacati, è plausibile. Se il tempo che intercorre tra oggi e il giorno in cui Invitalia prenderà il controllo della società dovesse ancora riproporre quest' equivoco di interesse avremmo commesso l'ennesimo errore.

Giusy Franzese per "il Messaggero" l'1 giugno 2021. Prezzi dell'acciaio e delle materie prime in genere alle stelle, per carenze di scorte. É questa la situazione che si sta trovando di fronte l'industria manifatturiera e che potrebbe rallentare la ripresa. Se l'andamento del mercato non ritrova un suo equilibrio in tempi relativamente brevi potrebbero essere a rischio anche una parte delle opere legate al Recovery plan. Ed è per questo che è opportuno fare una riflessione, al di là delle decisioni autonome dei giudici: può la politica delegare ai tribunali il destino di impianti strategici per l'intero sistema produttivo italiano, come l'ex Ilva? Può il secondo Paese manifatturiero d' Europa, qual è l'Italia, ridurre drasticamente il suo peso nella produzione di acciaio, anche solo per gli anni necessari alla riconversione degli impianti? Due, tre o quattro che siano, restano sempre troppi. Non dimentichiamo che il siderurgico di Taranto è lo stabilimento più grande d' Europa per capacità produttiva, anche se negli ultimi anni l'ha già ha portata al minimo storico. In queste settimane stiamo assistendo ai problemi causati a tutti i settori derivanti da una scarsità di materie prime con i prezzi dell'acciaio lievitati alle stelle. Le fonderie italiane stanno marciando a ritmi superiori a quelli pre-Covid, e la stima è di poter recuperare il fatturato perduto nel 2020 già a fine 2021. Ad aprile 2021, la produzione siderurgica italiana è quasi raddoppiata, toccando un aumento percentuale del 78,9%. I volumi sono passati dai 1,149 milioni di tonnellate di aprile 2020 ai 2,056 milioni di tonnellate dello stesso mese 2021. Ma il problema è mondiale: nel 2020 si è dato fondo alle scorte, i magazzini sono vuoti e ora non si riesce a stare dietro alle richieste. Solo per fare qualche esempio: le lamiere a caldo e lamiere zincate hanno addirittura varcato la soglia dei 1.000 euro la tonnellata. La ghisa è passata da una media di 319 euro per tonnellata a settembre 2020 ai 521 di maggio di quest' anno. Il tondo, indispensabile all' edilizia, viaggia veloce verso i 500 euro alla tonnellata, con enorme preoccupazione degli operatori del settore edile che dovranno rivedere tutti i prezzari, proprio ora che il comparto sta rialzando la testa, anche sull' onda del superbonus al 110%. Costruzioni, meccanica strumentale, automotive, elettrodomestici, trasporti, sono i principali utilizzatori dei prodotti di acciaio. Che il comparto sia strategico, questo governo (ma anche quelli precedenti) lo ha ribadito più volte. Al Mise c' è un tavolo aperto sul settore, che riguarda l'Ilva ovviamente, ma non solo. Nella costruzione di un grande polo dell'acciaio il ministro Giancarlo Giorgetti lo ha detto chiaramente: Taranto, Piombino e Terni sono tasselli indispensabili del progetto. Così come potrebbero essere d' aiuto le altre acciaierie più piccole, ma anche più avanti nei metodi di produzione ecosostenibile. Tuttavia, proprio Taranto, Piombino e Terni, per motivi molto diversi sono in difficoltà. «Sulla partita dell'acciaio noi vorremmo una vera e propria vertenza toscana, partendo da Piombino» ha rivendicato ieri il presidente della regione Toscana, Eugenio Giani. I sindacati chiedono un incontro urgente al Mise, anche alla luce delle difficoltà nelle forniture di semiprodotto da parte di Acelor Mittal. A Terni la multinazionale ThyssenKrupp ha messo in vendita l'acciaieria, ci sono dei pretendenti (tra questI il gruppo Marcegaglia) ma la partita è tutt'altro che risolta. Insomma, se il polo dell'acciaio di Giorgetti si basa soprattutto su tre gambe (Taranto, Piombino e Terni) in questo momento sono tutte e tre traballanti. Bisognerebbe al più presto trovare il collante giusto, che ripari queste gambe facendole camminare verso una produzione ecosostenibile. E mai come adesso, con i fondi del Recovery plan e del Just Transition Fund in arrivo, c' è la grande opportunità di coniugare la produzione green con le giuste e sacrosante rivendicazioni sul diritto alla salute della popolazione coinvolta. Vale per Taranto soprattutto, ma anche per gli altri siti. Per accelerare i tempi di una transizione verso l'acciaio pulito secondo gli esperti la via più breve è passare dal ciclo integrale a caldo a quello elettrico. Ma questo fa aumentare la richiesta di rottame. Con un problema serio, sollevato anche con una lettera appello di 69 europarlamentari a Bruxelles che vede come primo firmatario l'eurodeputato di Forza Italia-Ppe Massimiliano Salini: l'Europa esporta rottame e nel 2020 è arrivata a cederne 17 milioni di tonnellate. «Questo export allarmante deprime la produzione europea di acciaio verde con forno elettrico: il rottame ferroso è infatti una risorsa preziosa per la nostra industria siderurgica che, a seconda del processo utilizzato, ha un potenziale enorme di riduzione delle emissioni, fino a 5 tonnellate di CO2» spiega Salini che chiede «una revisione urgente del Regolamento europeo sull' esportazione dei rifiuti e delle materie prime secondarie».

«Con la condanna ai Riva e a Vendola i pm condizionano le scelte industriali». Secondo l’economista Giuliano Cazzola, sul caso Ilva «la barbarie non si limita alla condanna di Vendola, ma a tutta la vicenda dell’azienda dal 2012 a oggi». Giacomo Puletti su Il Dubbio il 3 giugno 2021.

Secondo l’economista Giuliano Cazzola, sul caso Ilva «la barbarie non si limita alla condanna di Vendola, ma a tutta la vicenda dell’azienda dal 2012 a oggi», e le casematte del giustizialismo non stanno nel Movimento 5 Stelle ma nelle Procure e nel circuito mediatico giudiziario».

Professor Cazzola, il processo di primo grado che riguarda l’ex Ilva si è concluso con la condanna dei vertici di allora e di Nichi Vendola. Che parere ha dell’intera vicenda?

Il penalista Filippo Sgubbi in un saggio edito da “Il Mulino”, Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa, spiega che «il sequestro di un impianto industriale e simili incide direttamente sui diritti dei terzi» e che «con tali provvedimenti cautelari reali la magistratura entra con frequenza nel merito delle scelte e delle attività imprenditoriali, censurandone la correttezza sulla base di parametri ampiamente discrezionali della pubblica amministrazione e talvolta del tutto arbitrari». Per me in queste considerazioni si riassume tutta la tragedia dell’ex Ilva. Quanto a Vendola, la sua condanna è la pietra d’angolo del teorema. L’Agenzia dell’ambiente della Puglia aveva certificato che i parametri dello stabilimento di Taranto erano nella norma e di conseguenza il management era adempiente. Occorreva inventarsi la forzatura dei vertici istituzionali per rovesciare la verità.

Scendendo nell’analisi dei condannati in primo grado, pensa che i Riva avrebbero dovuto cedere l’azienda a chi poteva “bonificare” o andando dritti per la loro strada nel corso degli anni si sono “schiantati contro un muro”?

L’articolo 41 della Costituzione si applica anche ai Riva (peraltro assolti a Milano da altre imputazioni non del tutto estranee al caso Taranto) ai quali è stato riconosciuto in un altro giudizio di aver investito in bonifiche ambientali. E avrebbero fatto di più se non fosse stato loro impedito con un sequestro che in realtà è stato un esproprio illegittimo. Poi, adesso ci sono dei nuovi proprietari, tra cui lo Stato; sono stati presi degli impegni per risanare lo stabilimento e il territorio. Che senso ha allora la confisca, se non quello di ostacolare ciò che lo stabilimento è chiamato a eseguire?

Nichi Vendola ha parlato di barbarie, di condanna assurda e di accuse grottesche. Come commenta le dichiarazioni dell’ex presidente della Puglia?

Ha ragione. Gli esprimo tutta la mia solidarietà. Ma la barbarie non si limita alla sua condanna, ma a tutta la vicenda dell’Ilva dal 2012 a oggi. Anche se non gli avessero rivolte «accuse grottesche», la storia recente di quello stabilimento e del gruppo è una pagina nera per l’economia e la stessa giustizia. Essere vittima delle barbarie non è una prerogativa dell’ex presidente.

Uno dei grandi dilemmi su Ilva è l’eterno dibattito tra salute e profitto, tra ambiente e lavoro. Come si possono conciliare i diversi aspetti di cui una sana politica industriale deve tener conto?

Secondo me il broccardo pereat mundus iustitia fit è un’infamia. È ormai da 30 anni che le tecnologie di produzione industriale nell’Unione europea sono stabilite sulla base degli obiettivi di protezione della salute identificati a livello europeo d’accordo con l’Organizzazione mondiale della sanità. Ma, nello stabilire questi parametri, gli obiettivi di risanamento ambientale non possono non essere compatibili con altre esigenze riguardanti i diversi settori produttivi, come i problemi di ammortamento degli impianti, di risorse da investire, di coordinamento tra i diversi Paesi. Soprattutto, i sistemi produttivi hanno necessità di avere dei riferimenti precisi ai quali attenersi per essere considerati in regola. Per comprendere questo fondamentale concetto, messo in discussione a Taranto, basta ricordare che l’industria automobilistica europea è stata obbligata, in circa 30 anni, a cambiare drasticamente le tecnologie motoristiche, al pari dell’industria di raffinazione per quanto riguarda i combustibili con l’obiettivo di tutelare l’ambiente e la salute. Ma il cambiamento è proceduto per gradi sulla base di regole uniformi che divenivano di volta in volta non l’indicatore di una sicurezza assoluta, ma uno standard sostenibile e progressivo a cui attenersi in un quadro di certezza del diritto.

Negli ultimi anni Ilva ne ha attraversate di tutti i colori, passando per commissari, per Arcelor Mittal fino a Invitalia. È ancora possibile recuperare un’azienda strategica per il nostro paese o la situazione è troppo compromessa?

Non lo so. I nemici dell’Ilva sono parecchio determinati. Per salvare quello stabilimento si sono tentate tutte le strade, anche sul piano legislativo. Poi quando si era risolto il problema con Arcelor Mittal si è fatto di tutto per fare saltare quell’accordo. Direi che quello stabilimento ha dimostrato più vite di un gatto. Ma non sono ottimista. Peraltro trovo scandaloso l’atteggiamento dei sindacati che non hanno e non muovono un dito contro i veri responsabili dell’assassinio del più grande impianto siderurgico di Europa.

La sentenza Ilva si inserisce in un contesto di dibattuto tra giustizialismo e garantismo che negli ultimi giorni ha investito la questione del pentito Brusca e il caso dell’ex sindaco di Lodi Uggetti, fino alla tragedia del Mottarone. C’è ancora spazio per una discussione civile, visti anche i passi indietro di Di Maio?

La lettera di Di Maio è importante. Ma le casematte del giustizialismo stanno altrove: nelle procure e nel circuito mediatico giudiziario. I grillini sono solo degli esecutori. Uggetti lo ha dichiarato nell’intervista al Foglio. Alla domanda di Luciano Capone su ciò che lo ha ferito di più della compagna di odio scatenata contro di lui, Simone Uggetti ha risposto: «Prima ancora degli attacchi del M5s, il gip che scrisse che avevo una personalità negativa e abietta».

Ilva, Alitalia, Autostrade. Negli anni piano piano lo Stato si è reimpossessato di alcune aziende definite “vitali” per il paese, talvolta, come per Alitalia, spendendo diversi miliardi. C’è uno statalismo di ritorno?

In questi anni ci sono stati degli inquietanti “ritorni”. Per fortuna uno degli obiettivi del governo Draghi è quello di assumere la concorrenza come volano della crescita e obiettivo del PNRR. E la concorrenza non ha bisogno dello statalismo.

Giusy Franzese per “il Messaggero” il 2 giugno 2021. Dopo la sentenza del processo Ambiente Svenduto con le maxi condanne per l'inquinamento dell'Ilva ai tempi della gestione dei Riva, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani non ha dubbi sul futuro della nuova acciaieria a Taranto: «C' è solo una strada: elettrificare tutto, cancellare completamente il carbone, e spingere transizioni ulteriori, come l'idrogeno verde. Se non c' è la salute, il lavoro non ti serve». Il ministro però avverte che il percorso non sarà semplice: «Ricordiamoci che tutto questo ha un effetto sul prezzo dell'acciaio, quello verde costa di più di quello prodotto dagli iraniani e dai cinesi che non badano certamente alle questioni ambientali. Lì c' è un discorso internazionale di protezione, altrimenti facciamo l'acciaio verde che poi non compra nessuno. La complessità di questa cosa è infinita». Detto ciò Cingolani ricorda: «Io ho fatto un piano per togliere il carbone all' altoforno, elettrificarlo e passare subito al gas per abbattere la CO2 del 30%, sperando di essere velocissimi sull' ulteriore passaggio all' idrogeno». L' accelerazione o meno di questo percorso però dipende dall' altra sentenza in arrivo, quella del Consiglio di Stato che dovrà confermare o annullare l'ordinanza del sindaco di Taranto di chiudere l'area a caldo dello stabilimento. Prima di questa pronuncia - ha ricordato l'altro giorno il ministro dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti - non si può avere «il polso della situazione». Lo conferma anche Cingolani: «Taranto va tutelata a tutti i costi, però le sentenze ci diranno che cosa succederà». Intanto le maxi-condanne comminate con la sentenza Ambiente svenduto hanno avuto l'effetto di una frustrata, anche sulla politica. Tutti a invocare ed evocare il passaggio quanto più veloce possibile all' acciaio green. Ne ha parlato anche il segretario del Pd, Enrico Letta: «Per troppi anni in Italia non si è data la giusta importanza alla prospettiva della sostenibilità, non bisognava fare quell’acciaio lì e in quel modo. Andrò a Taranto fra dieci giorni, per dare il segno del futuro. È una vicenda complicata, bisogna trovare insieme uno sguardo sul futuro per fare sì che sia tutto sostenibile. C’è bisogno di un acciaio green». Non sono mancate da parte di Letta parole di solidarietà nei confronti dell'ex governatore della Puglia condannato a tre anni: «Credo nella buonafede di Vendola». La riconversione verso l'acciaio green non è comunque di velocissima attuazione. E così, anche tra i sindacati, resta il timore che il siderurgico possa chiudere completamente prima che il processo sia compiuto. L' azienda per ora non commenta ma intanto fa partire una nuova procedura di cassa integrazione ordinaria: saranno coinvolti 4.000 dipendenti dal 28 giugno per un periodo di 12 settimane. Nella comunicazione inviata ai sindacati Acciaierie d' Italia (già Ilva e poi ArcelorMittal Italia) ricorda che da marzo 2020, ha dovuto fermare alcuni impianti, come l'Afo2 con una riduzione della produzione di ghisa di 5.000 tonnellate al giorno. Un blocco produttivo durato circa un anno con conseguenze sulla produzione a valle sia a Taranto che negli altri stabilimenti. L' azienda riconosce che la richiesta di acciaio nel mondo sta crescendo: «Sono oggi percepibili segnali ottimistici nella crescente e maggiormente stabile domanda di acciaio», salvo poi comunicare di non essere «in condizioni di assicurare l'immediata e totale ripresa in esercizio di tutti gli impianti di produzione e del completo assorbimento della forza lavoro». Una situazione surreale, secondo i sindacati. Spiega Rocco Palombella, leader Uilm: «Lo scorso anno abbiamo importato 5 milioni di tonnellate di acciaio e quest' anno ne importeremo altrettante. Il mercato richiede acciaio a tutta volontà. Il tema è che lo stabilimento di Taranto non è in grado di poterlo produrre, perché su quattro altoforni in esercizio ne abbiamo solo due. Invece di produrre i 6 milioni di tonnellate previsti dalle prescrizioni ambientali, lo stabilimento ne produce 3 milioni. Mancano gli investimenti necessari per poter produrre».

Le conseguenze industriali della sentenza Ilva. Andrea Muratore su Inside Over il 31 maggio 2021. La sentenza di primo grado del processo sul disastro ambientale dell’Ilva di Taranto che ha portato alla condanna a 22 e 20 anni di reclusione per Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva dopo la privatizzazione dell’acciaieria pugliese, giunge in un complesso intreccio tra giustizia, dibattito sulla tutela dell’ambiente, economia e politica. Questioni che si sommano in una partita dal grande valore emotivo, come testimoniato dalla presenza assidua di un forte clamore mediatico attorno alla partita dell’acciaieria. Non è questa la sede per commentare l’ampio e complesso dibattito che negli ultimi anni ha avvolto la questione sotto il profilo giudiziario. Numerosi gruppi di pressione e associazioni ambientaliste hanno prodotto report che accusano l’impianto ex Finsider privatizzato nel 1995 di essere responsabile di un’impennata nel tasso di incidenza di tumori e leucemie tra gli ex dipendenti e gli abitanti della città pugliese. “Vediamo qualcuno pagare per quello che è stato fatto a Taranto. Il pensiero è che si fossero fermati in tempo forse tanta gente sarebbe qui con noi” dicono i rappresentanti delle associazioni di Taranto a Repubblica. Su Il Riformista, invece, a essere messa nel mirino è stata l’intera struttura del processo: i pm tarantini, cavalcando l’eccessiva mediaticità del processo, avrebbero prestato poca attenzione alla chiamata in causa nei cinque anni di dibattimento di “centinaia di teste tra periti e scienziati, per chili infiniti di faldoni e controperizie, che hanno totalmente smontato la perizia madre del gip Todisco secondo cui Ilva avvelenava Taranto e ammazzava i bambini, insieme a intercettazioni trascritte male”. Inoltre, l’accusa stessa alla famiglia Riva di essersi comportata come associazione a delinquere mischiando in un unica maionese il danno ambientale, la riduzione delle tutele ai lavoratori e le omissioni di sicurezza come se fossero un fine, e non un mezzo, ha aperto molti dubbi. L’appello e, eventualmente, la Cassazione dovranno dunque lavorare alacremente per capire fino in fondo come si strutturerà la tenuta delle accuse dei pm tarantini. Ma quel che emerge inequivocabilmente è che il processo ha già prodotto un danno potenzialmente irreversibile al futuro dell’impianto e in prospettiva al possibile rilancio dell’ex Ilva: la confisca del polo siderurgico tarantino, infatti, rischia di diventare effettiva se confermata fino al terzo grado di giudizio e non sarà, fino ad allora, operativa. Ma pone un’ipoteca su possibili investimenti strategici da realizzare per migliorare le condizioni produttive e la qualità ambientale dell’acciaieria, sulla tutela di un indotto che preserva oltre 10mila posti di lavoro. Nell’accordo che prevede il passaggio dell’acciaieria dall’amministrazione straordinaria all’acquirente, cioè la società Acciaierie d’Italia fondata sul partenariato pubblico-privato tra ArcelorMittal Italia e Invitalia, è previsto il dissequestro degli impianti come condizione sospensiva. Ma come immaginare a un futuro per Taranto se la spada di Damocle della confisca degli impianti pende su qualsiasi operatore pubblico o privato destinato a interessarsi alla città pugliese? Prima ancora della privatizzazione (e, a ben guardare, l’intervento di ArcelorMittal in autonomia è stato sotto diversi punti di vista più rischioso e operativamente più dannoso di qualsiasi accusa si possa muovere ai Riva sotto il profilo produttivo) a segnare il destino dell’impianto pensato da Oscar Sinigaglia, motore dell’industrializzazione italiana, è stato l’abbandono di un disegno di politica industriale da parte del Paese negli Anni Novanta. E il conseguente addio a qualsiasi speranza di competere nel settore tradizionale dell’acciaio sui fattori di costo con i nuovi voraci produttori, Cina e India in testa. Ora l’industria globale dell’acciaio si trova di fronte alla possibilità di sfruttare la transizione green verso nuove fonti di alimentazione; pensa all’idrogeno come motore del ciclo integrato; in Europa si sta mirando a valorizzare gli acciai speciali per i macchinari industriali e le applicazioni ad alta intensità tecnologica per preservare il valore aggiunto; il nuovo vento keynesiano mobiliterà investimenti pubblici in infrastrutture che daranno da fare agli altoforni più importanti del Vecchio Continente; l’economia circolare sembra sposarsi alla perfezione con il rilancio degli impianti siderurgici. L’Italia potrebbe pensare a dare un nuovo volto a Taranto proprio valorizzando strategicamente queste contingenze favorevoli. Ma sapere che un investitore pubblico o privato rischierebbe di vedersi addossare responsabilità scientificamente non dimostrabili e penalmente terze in qualsiasi momento disincentiverebbe qualsiasi intervento. Porrebbe un freno a ogni serio discorso di politica industriale. La magistratura dovrebbe accertare responsabilità e eventuali colpe, non costruire ovunque teoremi incerti che rischiano di mettere a repentaglio carriere, posti di lavoro, opportunità per il Paese. Lungi dal riscattarne il passato, la minacciata ordinanza di sequestro dell’acciaieria, se diventerà operativa, rischia di togliere un futuro a Taranto. E questo sarebbe un atto ingiusto e non ripianabile con nessuna sentenza.

Taranto inquinata?

Taranto oltre l'Ilva: l'uomo che sussurra ai delfini. Nel mare davanti all’industria vive una colonia di cetacei. Un ricercatore li segue da anni. Li chiama per nome. E insegna ai visitatori come riconoscere la loro voce..Michele Piscitelli e Gennaro Totorizzo su La Repubblica il 27 maggio 2021.

Taranto e il riscatto della natura, 14 capodogli in un giorno. I ricercatori: "Qui vogliamo una Oasi blu".  Giacomo Talignani su La Repubblica il 27 novembre 2020. Al largo della città dell'Ilva c'è un mondo ricco di biodiversità e cetacei che offre una speranza di rilancio per il territorio. Il racconto dei biologi del Jonian Dolphin Conservation. Il suo stemma è un delfino, eppure Taranto oggi assomiglia sempre più a un capodoglio. Può sembrare strano, ma la Città dei due mari e i giganti degli oceani hanno qualcosa in comune: un enorme bisogno di riscatto e di rinascita, una ripartenza che potrebbe arrivare proprio grazie ai magnifici cetacei che popolano il Golfo. Da anni nell'immaginario collettivo associamo Taranto all'Ilva e i suoi veleni, ai malati e ai wind day - i giorni di vento maledetti - in cui a causa degli inquinanti i bambini non possono nemmeno giocare all'aria aperta. Eppure Taranto, e specialmente il suo mare, è uno scrigno di biodiversità che nel Sud Italia offre uno spettacolo unico, come quello regalato a pochi fortunati la mattina di domenica primo novembre. Poco dopo le 11, i ricercatori dello Jonian Dolphin Conservation - gruppo di ricerca e di whale watching che da anni si batte per la conservazione nelle acque tarantine - dopo qualche salto di stenella all'improvviso hanno cominciato a vedere delle pinne caudali. Prima quattro, poi sei, nove, cinque cuccioli: in totale erano 14 capodogli, maschi, femmine e piccoli, tutti insieme. "E' stato emozionante, un momento unico - racconta Stefano Bellomo, biologo del Jdc -. Avvistiamo spesso i capodogli, ma mai così tanti insieme. Ancora una volta, la presenza nelle nostre acque di questi animali, dei tantissimi e poco conosciuti grampi e di diversi altri cetacei, ci fa capire l'importanza di lavorare per proteggere questa porzione di mare, una conservazione che andrebbe a beneficio di tutto il territorio di Taranto". Se il delfino è lo stemma della città, il capodoglio potrebbe diventare dunque simbolo della rinascita. Per oltre 200 giorni l'anno - tranne in questa stagione difficile a causa del Covid - i ricercatori e operatori dello Jonian Dolphin Conservation accompagnano studenti, cittadini e turisti ad almeno otto miglia al largo, verso quel canyon sottomarino "così ricco di vita. Così come al Nord ci sono canyon nel santuario di Pelagos, qui da noi in una scarpata con oltre mille metri di profondità c'è un paradiso pieno di biodiversità. Vediamo passare sempre più capodogli che qui si nutrono dei calamari. Ne abbiamo identificati più di 23, con esemplari che tornano anche dopo anni, uno di questi lo avevamo visto nel 2016 ed è stato per esempio avvistato di recente. Altri crediamo che ormai siano stanziali. Abbiamo contato e identificato almeno 117 grampi, cetacei di cui si conosce poco e che intendiamo continuare a studiare e poi tantissimi delfini, tartarughe marine e pesci di ogni tipo. Al largo della città c'è un mondo, vivissimo, che ha bisogno di aiuto" spiega Bellomo. Un'area che offre così tante possibilità, dalla ricerca sino al turismo sostenibile, ha però bisogno di protezione. "Per questo stiamo portando avanti il progetto dell'Oasi Blu". Da tempo infatti il Jdc insieme all'Università di Bari e diversi altri attori, anche con il sostegno dell'amministrazione comunale, stanno cercando di potenziare la protezione del Golfo di Taranto e realizzare una Oasi blu, un'area più protetta dove sia possibile fare sempre più ricerca, da progetti Life a collaborazioni con il Cnr e rilanciare anche in chiave ambientale e turistica la Città dei due mari. "Siamo vicini a un intervento molto importante e di prossima attuazione, realizzato in concerto con più stakeholders, tra cui il Comune di Taranto, per l’istituzione dell’Oasi Blu, ovvero, un’area di tutela off-shore (al largo) per questi animali" dice Carmelo Fanizza, presidente e fondatore della Jonian Dolphin Conservation. "Per noi sarebbe un sogno - aggiunge Bellomo - ma sarebbe soprattutto una vittoria per gli animali". I capodogli infatti sono una specie che nel Mediterraneo tra sovrapesca, collisioni con le navi, azioni antropiche di vario tipo, inquinamento da plastica e malattie è oggi in declino e classificata come a rischio estinzione. In attesa dell'istituzione dell'Oasi Blu e passato questo momento difficile legato alla pandemia, gli esperti dello Jonian Dolphin Conservation torneranno presto in mare per nuovi progetti, come quello "Ricercatore per un giorno" in cui offrono a chiunque la possibilità di scoprire e osservare da vicino gli splendidi cetacei del Golfo di Taranto. E tra decine di delfini, che si avvistano quasi sempre, la speranza oggi è sempre quella di vedere spuntare la pinna caudale de capodoglio, nuovo simbolo del riscatto tarantino.

Taranto, i delfini del golfo diventano un caso internazionale: "Serve l'area protetta". Anna Puricella su La Repubblica il 27 marzo 2021. L'allarme in uno studio del dipartimento di Biologia marina dell’Università di Bari, del polo scientifico tecnologico Magna Grecia di Taranto, Cnr e Jonian Dolphin Conservation. I delfini di Taranto diventano un caso internazionale. Dopo più di dieci anni di ricerche uno studio pubblicato sulla rivista 'Journal of environmental management' conferma un’urgenza: è necessario istituire un’area marina protetta nel Golfo di Taranto, per tutelare i cetacei che lo popolano. Lo studio è stato realizzato dal dipartimento di Biologia marina dell’Università di Bari, insieme con il polo scientifico tecnologico Magna Grecia di Taranto, il Cnr e Jonian Dolphin Conservation, il gruppo di esperti che da sempre monitora i delfini che sono ormai stanziali nelle acque di Taranto. E il risultato del lavoro presenta la road map – cioè i passi necessari – per far diventare realtà l’area marina protetta. Per i bene dei delfini, e anche degli esseri umani. A favorire la presenza dei delfini – è l’assunto di partenza dello studio – sono proprio le caratteristiche del Golfo di Taranto: “Sia sul versante pugliese sia su quello lucano e calabrese è presente un sistema di canyon sottomarini – fanno sapere da Jonian Dolphin Conservation – che già a meno di dieci miglia dalla costa raggiunge rapidamente le quote batimetriche, oltre i mille metri, del mare aperto”. Ai delfini e ai capodogli piace, quell’area, e però adesso bisogna proteggerli. Lo studio infatti evidenzia i rischi cui sono esposti, partendo prima di tutto dalle “minacce antropiche di elevato livello, in grado di impattare sulle specie di delfini e balene presenti nell’area di studio”. È una zona critica, quella del Golfo di Taranto, è stata già individuata come tale eppure finora non è diventata un’area protetta. Sarebbe “lo strumento indispensabile per la tutela dei cetacei presenti nel Golfo di Taranto – è la conclusione dello studio – soprattutto nell’ottica delle direttive comunitarie e dei protocolli internazionali per la conservazione delle specie vulnerabili e minacciate in Mediterraneo”. Su questo insistono gli esperti che hanno collaborato allo studio pubblicato ora sulla rivista internazionale. Fra loro Roberto Carlucci, professore di Ecologia del dipartimento di Biologia dell’Università di Bari, che ricorda come “l’ecosistema marino del Golfo di Taranto e la sua diversità biologica emergono come elementi qualificanti su cui impostare elementi di pianificazione territoriale indispensabile”. Concorde il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci: “La tutela e la valorizzazione del nostro mare rappresentano un punto imprescindibile di 'Ecosistema Taranto', il nostro progetto di transizione economica, ecologica ed energetica che si basa su un nuovo modello di governance sostenibile dello sviluppo della città e delle sue risorse ambientali”.

Città più inquinate d'Europa: tra le prime 10, 4 sono italiane. Ecco come inquinare meno. Le Iene News il 22 giugno 2021. Secondo la classifica pubblicata dall’Agenzia Europea dell’ambiente, tra le 10 città più inquinate d’Europa nel periodo 2019-2020 ben quattro sono italiane: Cremona, Pavia, Brescia e Vicenza. Con la nostra Nadia Toffa vi avevamo dato tanti piccoli consigli per inquinare meno: ognuno può fare la propria parte. Pagella davvero non lodevole per l’Italia quella che arriva dall’Agenzia Europea dell’ambiente. Nella graduatoria delle 10 città più inquinate d’Europa, ben quattro sono italiane: Cremona, Pavia, Brescia e Vicenza, tutte nella Pianura Padana. Il rapporto prende in considerazione la concentrazione di polveri sottili misurate tra il 2019 e il 2020 e classifica le città sulla base dei livelli medi di particolato fine (PM2,5). Dai dati, raccolti in 323 città, emerge che in 127 città i livelli di particolato fine nel periodo di riferimento erano inferiori ai limiti fissati dall’Oms, che ha indicato 10 microgrammi di PM2,5 ogni metro cubo d’aria come soglia consentita. La qualità dell’aria è considerata molto scarsa quando a lungo termine i livelli di PM2,5 sono pari o superiori a 25 microgrammi per metro cubo. Ma veniamo alla classifica. Cremona occupa il secondo posto, dietro solo alla città di Nowy Sacz, in Polonia. La seconda città italiana che compare nella classifica è Vicenza. Per quanto riguarda le città europee più pulite, le prime tre sono state Umeå (Svezia), Tampere (Finlandia) e Funchal (Portogallo). Del problema dell’inquinamento in Italia vi avevamo parlato già nel 2018 con la nostra Nadia. Abbiamo intervistato Simone Molteni, ingegnere che da anni si occupa di sostenibilità. “Noi abbiamo un impatto ambientale enorme senza accorgercene”, ci ha detto. Tanti piccoli gesti quotidiani, infatti, possono avere un impatto sull’ambiente di cui magari non siamo neppure consapevoli. Un esempio? Mangiando una ciliegia fuori stagione, si spiega nel servizio che potete vedere qui sopra, si inquina 100 volte di più che a mangiare una mela di stagione. Per fare un paragone, 1 Kg di ciliege che arriva dall’altra parte del mondo per soddisfare un nostro sfizio, inquina in termini di Co2 come prendere la propria auto e fare la tratta Milano-Bologna. Nadia Toffa, con l’aiuto di due ingegneri specializzati, ci ha raccontato tanti piccoli consigli per inquinare meno senza nessuno sforzo: dalla frutta che scegliamo durante l’anno al riscaldamento e raffreddamento eccessivo degli ambienti fino allo spreco alimentare e i trasporti. Ognuno può fare la propria parte.  

DA tgcom24.mediaset.it il 22 giugno 2021. Tra le dieci città più inquinate d'Europa, quattro sono nel Nord Italia. La qualità dell'aria a Cremona, Pavia, Brescia e Vicenza - tutte situate nella Pianura Padana - è classificata come "molto scarsa". Peggio solo altri quattro comuni della Polonia, penalizzati però dalla vicinanza a bacini minerari carboniferi. Lo dice la graduatoria dell’Agenzia Europea dell’ambiente (Aea). La mappa dell'inquinamento coinvolge 323 città europee, classificando la loro qualità dell'aria.  E prende in considerazione la concentrazione di polveri sottili misurate tra il 2019 e il 2020. La soglia limite consentita, prevista dall' Organizzazione mondiale della sanità (Oms), è di 10 microgrammi di pm 2,5 per ogni metro cubo d’aria. A superarla sarebbero cinque comuni, tra cui i quattro italiani. "Sebbene negli ultimi dieci anni si sia registrato un netto miglioramento della qualità dell’aria in Europa - si legge nel report dell'Agenzia dell'ambiente - dall’ultima valutazione annuale effettuata in tale ambito si evince che nel 2018 l’esposizione al particolato fine ha causato circa 417 000 morti premature in 41 paesi europei". I numeri sembrano quindi preoccupanti. Ma, secondo l'Unione Europea, per considerare la qualità dell’aria insalubre occorrono dati a lungo termine: la concentrazione di polveri sottili deve essere stabilmente superiore ai 25 microgrammi per metro cubo. Promosse invece alcune città scandinave, tra cui Uppsala e Stoccolma (in Svezia), Trondheim e Bergen (in Norvegia) e Tampere in Finlandia. Ma anche Tallin, Narva e Tatu (tutte in Estonia), la portoghese Funchal e inaspettatamente la spagnola Salamanca. La classifica indica però i siti da tenere d'occhio per il livello medio di particolato. Tra cui, le polacche Novy Sacsz  (27,31) e Zgierz (25,15), Cremona (25,86), Vicenza (25,58) e la croata Slavonski Brod (25,75). Compaiono però nell'elenco delle dieci peggiori anche Cracovia, Piotrkow e Zory (sempre in Polonia), Veliko (in Bulgaria) e infine Brescia e Pavia. Preoccupano anche Milano (20,13) e Roma (12,94). Pesa sulla pagella dell'Italia l'inquinamento nel Nord e la scarsità delle misure messe in campo per combatterlo. Solo il 10 novembre 2020, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha condannato il governo la violazione, tra il 2008 e il 2017 violato i limiti di qualità dell’aria "in maniera sistematica e continuata".

«L'aria di Taranto 20 volte più pulita di quella di Milano». La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Maggio 2021. Dichiarazioni destinate a far discutere quelle di Lucia Morselli, ad di Acciaierie Italia: «Chi inquina di più sono gli animali, cioè è l’uomo». «L'aria di Taranto è 20 volte migliore di quella di Milano». Lo ha detto Lucia Morselli - amministratore delegato di Acciaierie Italia Spa, che gestisce gli stabilimenti dell’Ex Ilva di Taranto - durante un evento ospitato dall’Università di Pisa su «Le prospettive industriali italiane e la transizione green». Morselli ha anche ricordato che l’acciaio è uno dei pochi materiali riciclabili al 100% invitando a «non fare un feticcio» della lotta alle emissioni da C02 «Chi inquina di più sono gli animali, cioè è l’uomo. Produciamo tanto C02 perché» sul Pianeta «siamo troppi, Bisogna sviluppare questa sensibilità verso il Pianeta». Quanto all’acciaio «certamente bisogna produrlo in modo più pulito e migliorare i modelli di produzione». Senza citare mai l’Ilva di Taranto Morselli ha aggiunto che «è indispensabile proteggere i modelli produttivi, migliorarli senza fermarli e mantenere così le posizioni sul mercato. Per fare tutto questo ci vuole grande competenza e non sarà facile».

LUCIA MORSELLI : DALLO STADIO IACOVONE DI TARANTO ALL’UNIVERSITA’ DI PISA…Il Corriere del Giorno il 17 Maggio 2021. Nel corso del suo intervento la Morselli ha sostenuto che l’aria di Taranto “è 20 volte migliore di quella di Milano”, scatenando polemiche dai soliti giornalisti (e presunti tali) che per avvalorare delle presunte tesi ambientaliste citano persino una testata locale online diretta da una pubblicista ex segretaria di un’ impresa di costruzioni. L’Università di Pisa ha organizzato un ciclo di Eventi “Meeting Generations” nell’Aula Magna Storica della Sapienza a cui ha partecipato Lucia Morselli, dirigente d’azienda italiana ex AD Arcelor-Mittal Italia S.p.A. società che nei giorni è entrata nell’orbita delle aziende pubbliche con l’ingresso dello Stato attraverso INVITALIA che ha rilevato il 50% della società si è trasformata in ACCIAIERE D’ITALIA spa. All’evento hanno partecipato il presidente dell’Associazione Laureati Ateneo Pisano, Paolo Ghezzi ed il presidente di Starting Finance Club Unipi, Nicola Grazzini, oltre ai saluti di Francesco Tagliente, delegato nazionale per i rapporti istituzionali dell’ANCRI, Associazione Nazionale Insigniti dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana ed un intervento del Magnifico Rettore Paolo Mancarella. Nel corso del suo intervento la Morselli ha sostenuto che l’aria di Taranto “è 20 volte migliore di quella di Milano”, scatenando polemiche dai soliti giornalisti (e presunti tali) che per avvalorare delle presunte tesi ambientaliste citano persino una testata locale online diretta da una pubblicista ex segretaria di un’impresa di costruzioni. Al fine di eliminare qualsiasi dubbio, estrapolazione di frasi prese da ragionamenti più complessi, abbiamo ritenuto di pubblicare integralmente il video dell’intervento della Morselli, per consentire ai nostri lettori di farsi le proprie idee. Non era passata inosservata la presenza di Lucia Morselli lo scorso mese sulle tribune dello stadio “Iacovone” di Taranto per poter assistere alla gara Taranto-Nardò, accompagnata da Vittorio Galigani personaggio del sottobosco calcistico della serie D, con un turbolento passato giudiziario, attuale consulente della società Taranto Calcio le cui azioni del suo presidente Massimo Giove sono attualmente sotto sequestro (leggi QUI) della Procura di Taranto per un procedimento penale per delle false fatturazioni di sue società per circa 4 milioni di euro. Due domeniche fa sempre allo stadio di Taranto era apparso uno striscione pubblicitario di Acciaierie d’ Italia che domenica scorsa è stato rimosso all’improvviso dopo le pressanti contestazioni della tifoseria. La domanda da porsi è la seguente: può un’azienda partecipata dallo Stato sponsorizzare una società come il Taranto Calcio le cui azioni sono state sequestrate dallo Stato per evasione fiscale? Un problema in più per la Morselli del quale dovrà discutere sicuramente con il nuovo presidente Franco Bernabè, gia Presidente ed AD del Gruppo ENI e successivamente del Gruppo Telecom (ora TIM s.p.a.) noto per il suo rigore legale.

Taranto, l'ex Ilva? «Una gestione criminosa». La replica in aula del pm che chiede condanne a 28 anni di carcere per Fabio Riva e l’ex direttore Luigi Capogrosso. Mimmo Mazza su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Maggio 2021. Taranto - Proseguirà domani, dinanzi alla Corte d’Assise che tornerà a fare udienza a San Vito, nella scuola sottufficiali della Marina Militare, la replica del pubblico ministero Mariano Buccoliero, uno dei quattro rappresentanti della pubblica accusa nel processo per presunto disastro ambientale provocato dall'attività dell’ex Ilva nel periodo della gestione Riva (1995-2003), processo che imputate 47 persone, 44 persone fisiche e 3 società. Il dibattimento volge ormai alle ultime battute. Il calendario di massima prevede per domani la conclusione delle repliche da parte della pubblica accusa e gli eventuali interventi delle parti civili, poi martedì la difesa e dunque a seguire la corte (presidente Stefania D’Errico, giudice a latere Fulvia Misserini e sei giudici popolari) entrerà in camera di consiglio – in un'ala appositamente attrezzata della struttura militare, come già avvenne nell'aprile 2013 per il caso Scazzi - per poi emettere il dispositivo della sentenza. L’accusa ha chiesto condanne pesanti per molti imputati: per esempio, 28 anni di reclusione per l’ex proprietario e amministratore Fabio Riva e altrettanti per l’ex direttore del sito di Taranto, Luigi Capogrosso. In sede di replica, il pm Buccoliero ha detto che «venivano effettuati solo a fine campagna degli impianti e molti erano a fini produttivi». Inoltre, secondo il magistrato, «l’importo complessivo è di 935 milioni e non un miliardo e 170 milioni, come sostengono i consulenti della difesa». «Sono sorpreso dalla difesa – ha dichiarato il pm – perché ha sostenuto l’insostenibile rappresentando l’Ilva come un’impresa che non ha mai emesso polveri e altre sostanze nocive, che non ha mai inquinato e come se Taranto fosse un paradiso come le isole Mauritius. Lo hanno fatto – ha detto il pm – con i consulenti che hanno presentato l’acciaieria tarantina come l’unica del mondo ad emissioni zero e Taranto come una città priva di inquinamento. Le arringhe altro non sono state che che il riassunto delle consulenze di parte ma questo ha voluto significare buttare a mare le relazioni dell'Arpa, far finire sotto processo i funzionari dell'Asl e tutte le sentenze passate in giudicato». Per Buccoliero, «non è un caso che le tesi difensive sentite nel processo, non sono state mai portate all’esterno. Da questo processo, per la difesa, scompare l’Arpa e tutti gli accertamenti fatti nel corso degli anni». Ma per il rappresentante dell’accusa, «il dato obiettivo è che a Taranto, dopo il sequestro dell’area a caldo, sono calate le emissioni ed è migliorata la qualità dell’aria come la situazione epidemiologica. Per aderire alla tesi della difesa, la Corte – ha rilevato il pm – dovrebbe gettare a mare tutte le relazioni di Arpa e le analisi di scienziati, dovrebbe mettere da parte tutta la vicenda dell’abbattimento dei capi avvelenati dalla diossina, della distruzione di mitili pieni di diossina e Pcb. E quindi – ha chiosato Buccoliero – o hanno sbagliato tutto i periti dell’accusa o i consulenti della difesa. Poi, l'Eni, l'Appia Energy e tutte le altre aziende citate dai consulenti della difesa come possibili inquinatrici hanno continuato a lavorare regolarmente, senza che sia mai emerso alcun problema di sorta». ​Il pm ha poi ricordato, a sostegno delle proprie tesi, i pretesi dati oggettivi rappresentati dalle sentenze della Magistratura a proposito dei parchi minerali in quanto fonti emissive, quella della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il riesame dell’Autorizzazione integrata ambientale da parte del ministero dell’Ambiente, le ordinanze dei sindaci di Taranto, Statte e della Regione Puglia che hanno vietato le attività di pascolo nelle zone circostanti lo stabilimento. A proposito dei capiarea, imputati nel processo, per il pm «potevano non accettare la gestione di un’area dello stabilimento altamente inquinante. C’era un accordo criminoso – ha sostenuto Buccoliero -, nessuno dei capi area può essere esentato da una responsabilità penale. Hanno fatto marciare un impianto inquinante nella piena consapevolezza e sono stati artefici, con la loro condotta attiva, dell’inquinamento. Nessuno – ha detto ancora il pm – è stato costretto a gestire gli impianti, è stata una loro libera scelta. Avrebbero dovuto calibrare la produzione su un livello non inquinante, invece hanno contribuito alla gestione criminosa dello stabilimento». Parole dure anche per i «fiduciari» dei Riva, consulenti dell’azienda presenti in fabbrica e per l’accusa provvisti di ampi poteri. Per il pm Buccoliero, i «fiduciari» di Riva, che sono tra gli imputati, «garantivano l’efficienza produttiva inquinando. La loro grande competenza, messa in risalto dalla difesa, doveva indurli a ridurre la produzione, invece hanno fatto marciare gli impianti al massimo», ha rilevato il pm.

Processo Ilva, il pm: «Condannate Nichi Vendola a 5 anni». L’ex-governatore: «Sono sereno». Redazione mercoledì 17 Febbraio 2021 su Il Secolo D'Italia. «Condannate l’imputato Nichi Vendola a cinque anni di reclusione». È la richiesta del pm al termine della requisitoria nel processo Ambiente svenduto sul presunto disastro ecologico causato dall’Ilva di Taranto. Quella a carica dell’ex-governatore della Puglia è solo una delle condanne richiesta dalla Procura. Quelle più dure riguardano Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dello stabilimento. Per loro il pm ha chiesto rispettivamente 28 anni e 25 anni di carcere. Identica condanna (28 anni) il procuratore ha chiesto per gli ex-dirigenti del colosso siderurgico Girolamo Archinà e Luigi Capogrosso. Venti anni per Adolfo Buffo e 17 per l’ex presidente di Ilva Bruno Ferrante, già prefetto di Milano. Infine, a seguire, 7 anni per l’avvocato Francesco Perli, legale dell’azienda. Per Nichi Vendola l’accusa è di concussione aggravata. Secondo l’accusa, avrebbe fatto pressioni sull’allora direttore dell’Arpa Puglia, Giorgio Assennato, per “ammorbidire” l’agenzia nei confronti delle emissioni prodotte dallo stabilimento. Con riferimento alle tre società imputate, il magistrato ha chiesto una sanzione pecuniaria e l’interdizione di un anno per Ilva spa, il commissariamento giudiziale di un anno per Riva Fire e l’interdizione dell’attività di un anno per Riva Forni Elettrici. Le accuse sono disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di misure di sicurezza sui luoghi di lavoro. Il calendario processuale proseguirà con le discussioni delle parti civili e dei difensori degli imputati. La sentenza di primo grado potrebbe arrivare prima dell’estate prossima. Nel frattempo si registrano le prime reazioni. «Sono sereno, nonostante la delusione che provo per la richiesta dell’accusa», ha commentato a caldo Vendola. «Sono sereno – ha proseguito l’ex presidente della regione Puglia – perché ho sempre operato nel rispetto della legge. Sono sereno e con serenità attendo la sentenza. Credo fermamente – conclude Nichi Vendola – che la giustizia non possa essere nemica della verità».

AMBIENTE SVENDUTO. Taranto, al processo sui fumi Ilva tutte le richieste di condanna dei Pm: 28 e 25 anni per i Riva, 5 per Vendola.  Gli ex proprietari e amministratori del siderurgico sono tra i 47 imputati (44 persone e tre società) nel procedimento. La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Febbraio 2021. I pm del pool per i reati ambientali della Procura di Taranto hanno chiesto 28 e 25 anni di reclusione per Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva, tra i 47 imputati (44 persone e tre società) nel processo chiamato Ambiente Svenduto sull'inquinamento ambientale prodotto dallo stabilimento siderurgico. Sono accusati di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. 

5 ANNI PER NICHI VENDOLA - Cinque anni di reclusione sono stati chiesti dalla pubblica accusa per l’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola nell’ambito del processo chiamato Ambiente Svenduto per il presunto disastro ambientale negli anni di gestione della famiglia Riva. Vendola è accusato di concussione aggravata in concorso, in quanto, secondo la tesi degli inquirenti, avrebbe esercitato pressioni sull'allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, per far «ammorbidire» la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall’Ilva. «Sono sereno, nonostante la delusione che provo per la richiesta dell’accusa.» Lo afferma Nichi Vendola dopo la richiesta dei Pm al processo di Taranto. «Sono sereno - prosegue l’ex presidente della Regione Puglia - perché ho sempre operato nel rispetto della legge. Sono sereno e con serenità attendo la sentenza. Credo fermamente - conclude Vendola - che la giustizia non possa essere nemica della verità».

4 ANNI PER EX PRESIDENTE PROVINCIA - La pubblica accusa del processo Ambiente Svenduto per il presunto disastro ambientale causato dall’Ilva negli anni di gestione della famiglia Riva ha chiesto 4 anni di reclusione per l’ex presidente della Provincia Gianni Florido, che risponde di una tentata concussione e di una concussione consumata, reati che avrebbe commesso in concorso con l’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva e con l’ex responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva Girolamo Archinà. Nel capo di imputazione si sostiene che gli imputati avrebbero indotto un dirigente ad assumere un atteggiamento di generale favore nei confronti dell’Ilva e in particolare a sottoscrivere la determina di autorizzazione all’esercizio della discarica per rifiuti speciali in area «Mater Gratiae» pur non ricorrendone le condizioni di legge. Il pm Mariano Buccoliero ha poi chiesto il non doversi procedere per avvenuta prescrizione del reato per l’ex sindaco di Taranto Ippazio Stefàno, a cui era contestato l’abuso d’ufficio in quanto, secondo l’accusa, pur essendo a conoscenza delle criticità ambientali e sanitarie causate dall’Ilva, non avrebbe adottato provvedimenti per tutelare la popolazione.

LE ALTRE RICHIESTE - Il pm Mariano Buccoliero ha chiesto 28 anni di carcere nel processo per il presunto disastro ambientale causato dall’Ilva nei confronti dell’ex responsabile delle relazione istituzionali Girolamo Archinà e dell’ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso. Sollecitata inoltre la confisca degli impianti dell’area a caldo che furono sottoposti a sequestro il 26 luglio 2012. Chiesti 20 anni per il dirigente Adolfo Buffo e per cinque imputati (Lafranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli, Agostino Pastorino e Enrico Bessone) che avevano il ruolo di 'fiduciarì aziendali, cioè un gruppo di persone non alle dipendenze dirette dell’Ilva che però in fabbrica, secondo l’accusa, avrebbe costituito un "governo-ombra" che prendeva ordini dalla famiglia Riva. La condanna a 17 anni è stata sollecitata per l’ex presidente di Ilva ed ex prefetto di Milano Bruno Ferrante, l’ex capo area parchi Marco Andelmi, l’ex capo area agglomerato Angelo Cavallo, l'ex capo area Cokerie Ivan Dimaggio, l’ex capo area altoforno Salvatore De Felice e l’ex capo area acciaieria 1 e 2 e capo area Grf Salvatore D’Alò e l’ex consulente della procura Lorenzo Liberti. E’ di 7 anni la richiesta di condanna per l’avvocato Francesco Perli, legale dell’azienda. Quanto alle 3 società imputate, il pm hanno chiesto sanzione pecuniaria e interdizione di un anno per Ilva spa, commissariamento giudiziale di un anno per Riva Fire e e interdizione dell’attività di un anno per Riva Forni Elettrici. 

CHIESTA TRASMISSIONE ATTI PER EX VESCOVO - La trasmissione degli atti alla procura per l’ipotesi di reato di falsa testimonianza è stata chiesta dal pm Mariano Buccoliero per cinque persone che hanno deposto nel processo Ambiente Svenduto per il presunto disastro causato dall’Ilva. Tra queste c'è l’ex arcivescovo di Taranto Benigno Luigi Papa. E’ stata chiesta la trasmissione degli atti per calunnia, invece, nei confronti dell’imputato Ivan Di Maggio. Al termine della requisitoria dei magistrati del pool per i reati ambientali, il pm Buccoliero ha chiesto in tutto 35 condanne e il non doversi procedere per prescrizione per altri 9 imputati e sanzioni pecuniarie e misure interdittive per le tre società. E’ di 5 anni la richiesta di condanna per Antonio Colucci, ex capo area logistica operativa dell’Ilva (che rispondeva di omicidio colposo in relazione alla morte dell’operaio Claudio Marsella del 30 ottobre 2012), di 4 anni per l’ex assessore all’Ambiente della Provincia di Taranto Michele Conserva (accusa di concussione), e per il reato di favoreggiamento richiesta di un anno per l’ex direttore generale di Arpa Puglia, di 8 mesi per il direttore scientifico di Arpa Massimo Blonda, l’ex Dirigente del Settore Ecologia della Regione Puglia Antonello Antonicelli, l’allora capo di gabinetto di Vendola Francesco Manna, il direttore dell’area sviluppo economico Davide Pellegrino, l’ex assessore regionale e attuale segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni, per l'assessore regionale Donato Pentassuglia. Tra le richieste di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione ci sono i tecnici ministeriali Dario Ticali, presidente della commissione Aia rilasciata nel 2011, e Luigi Pelaggi ex capo della segreteria tecnica dell’ex ministro Stefania Prestigiacomo.

Ilva, la bastonata della procura: chiesti 28 e 25 anni per i Riva e 5 anni per Vendola. Il Dubbio il 17 Febbraio 2021. I pm del pool per i reati ambientali della procura di Taranto hanno chiesto 28 e 25 anni di reclusione per Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva, e 5 per l’ex governatore Vendola. I pm del pool per i reati ambientali della procura di Taranto hanno chiesto 28 e 25 anni di reclusione per Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva, tra i 47 imputati (44 persone e tre società) nel processo chiamato Ambiente Svenduto sull’inquinamento ambientale prodotto dallo stabilimento siderurgico. Sono accusati di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Cinque anni di reclusione sono stati chiesti per l’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola che è accusato di concussione aggravata in concorso, in quanto, secondo la tesi degli inquirenti, avrebbe esercitato pressioni sull’allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, per far “ammorbidire” la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall’Ilva.

L'inchiesta sul presunto disastro ambientale. Processo Ilva, chiesti 5 anni per l’ex governatore Vendola: 25 anni per i fratelli Riva. Fabio Calcagni su Il Riformista il 17 Febbraio 2021. Sono arrivate oggi pomeriggio le prime richieste di condanna nell’ambito del processo “Ambiente svenduto “sulla gestione dello stabilimento siderurgico ex Ilva di Taranto, in corso di svolgimento presso la Corte d’Assise di Taranto, per il presunto disastro ambientale causato dall’impianto negli anni di gestione della famiglia Riva: i pm hanno chiesto cinque anni per l’ex governatore della regione Puglia, Nichi Vendola. L’ex presidente della regione Puglia è imputato con l’accusa di concussione aggravata in concorso: nella ricostruzione del pool dei pm tarantini, avrebbe esercitato pressioni sull’allora direttore generale dell’Arpa (Agenzia regionale per la protezione ambientale), Giorgio Assennato, allo scopo di rivedere la posizione dell’agenzia rispetto alle emissioni prodotte dallo stabilimento. “Sono sereno, nonostante la delusione che provo per la richiesta dell’accusa”, ha commentato l’ex leader di Sel. “Sono sereno – prosegue l’ex presidente della Regione Puglia – perché ho sempre operato nel rispetto della legge. Sono sereno e con serenità attendo la sentenza. Credo fermamente che la giustizia non possa essere nemica della verità”. Ma la pubblica accusa ha chiesto 35 condanne per quasi quattro secoli di carcere, e il non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato nei confronti di altri nove imputati. La richiesta più dura è arrivata nei confronti dei fratelli Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva, per i quali la Procura ha invocato 28 e 25 anni di reclusione. L’inchiesta si basa su una doppia perizia, chimica ed epidemiologica, che metterebbe in evidenza la correlazione tra le emissioni inquinanti, malattie e morti. Vendola non è l’unico politico coinvolto nell’inchiesta, che contesta a vario titolo i reati di associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele suoi luoghi di lavoro, corruzione, concussione, falso, abuso d’ufficio, omicidio colposo, favoreggiamento: la procura ha chiesto 4 anni per l’ex presidente della Provincia Gianni Florido e l’ex assessore provinciale all’Ambiente Michele Conserva, 8 mesi invece per il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni, ex assessore regionale pugliese, mentre è stata chiesta la prescrizione per l’ex sindaco di Taranto Ippazio Stefano.

Per i danni ambientali del siderurgico gestito dai Riva. “Ambiente svenduto”, richiesti 48 anni per i tre manduriani imputati. La Voce di Manduria giovedì 18 febbraio 2021. La pubblica accusa del processo “Ambiente svenduto” che si svolge a Taranto, sui presunti disastri ambientali dell’ex Ilva gestione Riva, ha chiesto un totale di 48 anni e 9 mesi di reclusione per i tre manduriani imputati, Luigi Capogrosso, Ivan Dimaggio e Giuseppe Dinoi. La pena più alta richiesta, 28 anni, è quella a carico di Capogrosso, ex direttore stabilimento; 17  anni per l’ingegnere Dimaggio e 3 anni e 9 mesi per Dinoi, anche lui ingegnere alle dipendenze del siderurgico. Quest’ultimo è accusato di avere omesso i controlli sulla buona tenuta dei macchinari sotto la sua responsabilità, in particolare della gru crollata durante il tornado del 28 novembre del 2012 che causò la morte di un operaio di 44 anni. La sua difesa affidata agli avvocati Franz Pesare e Armando Pasanisi, aveva depositato due perizie di parte che dimostrerebbero la non responsabilità dell’imputato nel tragico evento. Nella loro relazione, gli esperti della difesa, il meteorologo Mario Marcello Miglietta e l’ingegnere dei materiali, Parodi, hanno illustrato i dati scientifici meteorologi per sostenere che non era possibile prevedere la potenza del tornado con una forza di 230 chilometri orari e che nella gru non era previsto nessun sistema di blocco anti tornado. Dimaggio, invece, difeso dagli avvocati Francesco Centonze e Pasquale Annicchiarico, deve rispondere di reati di natura ambientale. In particolare, secondo la procura, per non avere impedito «con continuità e piena consapevolezza, una massiva attività di sversamento nell’ambiente di sostanze nocive per la salute umana, animale e vegetale, diffondendo tali sostanze nelle aree interne allo stabilimento, nonché rurali ed urbane circostanti».  Di tutti i precedenti reati ed altri è invece accusato Capogrosso, difeso dall’avvocato Enzo Vozza, ritenuto responsabile, tra le altre cose, di «aver commesso più delitti contro la pubblica incolumità nonché delitti contro la pubblica amministrazione e la fede pubblica, quali fatti di corruzione e di concussione, falsi e abuso d’ufficio». Al nono giorno di requisitoria ieri, dinanzi alla Corte d’assise, i sostituti procuratori Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile, Remo Epifani e Raffaele Graziano con il procuratore facente funzione Maurizio Carbone hanno depositato le richieste di condanna e di assoluzione nei confronti dei 47 imputati (44 fisiche e 3 società) finite alla sbarra con accuse gravissime come associazione a delinquere finalizzate al disastro ambientale, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro, avvelenamento di sostanze alimentari, corruzioni in atti giudiziari, omicidio colposo e altre imputazioni.

Ex Ilva, l'Usb: “Reintegrato il lavoratore licenziato per un post su Facebook”. Le Iene News il 27 luglio 2021. A dare la notizia della decisione del tribunale è la sigla sindacale Usb: "Il giudice del lavoro ordina all'ex Ilva di Taranto di riassumere il lavoratore”. Noi de Le Iene vi abbiamo raccontato questa vicenda con il nostro Alessandro Di Sarno. "Il giudice del lavoro ordina all'ex Ilva di Taranto di riassumere il lavoratore licenziato per un post sulla fiction con Sabrina Ferilli”: a dare la notizia è la sigla sindacale Usb, l’Unione sindacale di base. Noi de Le Iene vi abbiamo raccontato questa vicenda con il nostro Alessandro Di Sarno, nel servizio che potete rivedere in testa a questo articolo. Il lavoratore, prosegue il sindacato citato dall’Ansa, era stato "licenziato da ArcelorMittal per aver pubblicato un post su Facebook sulla fiction Svegliati amore mio, di cui è protagonista Sabrina Ferilli", uno spettacolo che parla della coesistenza tra un’acciaieria e l’alto tasso di malati di tumore in una città immaginaria. Una versione che, come vi avevamo già riportato, non coincide con quella di Arcelor Mittal: la società aveva infatti mandato una nota in cui ha sostenuto di non essere mai intervenuta per evitare che la fiction parlasse dell’ex Ilva di Taranto e che il dipendente è stato licenziato non per aver condiviso il contenuto della fiction televisiva, ma per aver pubblicato uno scritto gravemente offensivo per l’azienda arrivando ad usare anche il termine assassini. Con la sentenza del tribunale di Taranto, "giustizia è stata fatta", ha commentato l'avvocato Mario Soggia, del sindacato Usb, come riporta Tgcom24. "Il giudice ha ordinato il reintegro del lavoratore così come avevamo chiesto nel ricorso", ha sottolineato il legale. 

Operaio ArcelorMittal licenziato a Taranto dopo post Facebook sulla fiction con Sabrina Ferilli. La Repubblica l'8 aprile 2021. Dopo la sanzione disciplinare è arrivato il provvedimento a carico di uno dei due dipendenti ex Ilva sospesi: avevano condiviso uno screenshot in cui invitavano a guardare la mini serie perché raccontava un dramma simile a quello di Taranto, con una bambina in coma per l'inquinamento causato da una fabbrica. "Così come aveva preannunciato, ArcelorMittal ha licenziato per quella che ritiene essere una "giusta causa", uno dei due dipendenti che pochi giorni fa ha condiviso sul social lo screenshot con invito a vedere la fiction "Svegliati Amore Mio". Non è altro che un gravissimo attacco alla democrazia ed in particolare alla libertà di espressione e opinione". Lo afferma il coordinatore provinciale dell'Usb, Francesco Rizzo, riferendosi al provvedimento notificato oggi dall'azienda a un lavoratore dopo una contestazione disciplinare e una sospensione per cinque giorni. ArcelorMittal ha precisato nei giorni scorsi di aver ritenuto denigratorio e altamente lesivo della propria immagine il contenuto del post e non il semplice invito alla visione della fiction (che evidenzia, attraverso la storia di una donna che lotta per la figlia che si è ammalata di leucemia, i rischi derivanti dalle emissioni di un'acciaieria chiamata Ghisal). ArcelorMittal ha precisato nei giorni scorsi di aver ritenuto denigratorio e altamente lesivo della propria immagine il contenuto del post e non il semplice invito alla visione della fiction (che evidenzia, attraverso la storia di una donna che lotta per la figlia che si è ammalata di leucemia, i rischi derivanti dalle emissioni di un'acciaieria chiamata Ghisal). "Questo - osserva Rizzo - è l'ennesimo schiaffo, come se non bastasse quanto fatto in precedenza. Stigmatizziamo tutto questo e preannunciamo una durissima mobilitazione. Forme e tempi verranno comunicati nelle prossime ore".

Michelangelo Borrillo per corriere.it il 10 aprile 2021. Riccardo Cristello, 45 anni, di Taranto, è il dipendente di ArcelorMittal licenziato dopo aver condiviso un post con commenti sulla fiction «Svegliati amore mio», con protagonista principale Sabrina Ferilli. Un post che invitava a vedere la fiction, secondo Riccardo, ma con «affermazioni di carattere lesivo e minaccioso» secondo ArcelorMittal. «Non dico di essere un impiegato modello — spiega Riccardo — ma ho sempre dato di tutto e di più. Anzi ero considerato un aziendalista non essendo iscritto al sindacato. Oggi mi trovo fuori dall’azienda con una famiglia, una moglie, due figli e un mutuo da pagare, così, solo perché qualcuno ha immaginato che io abbia potuto solo pensare che quella fiction fosse riferita ai miei datori di lavoro. Nel mio post non ci vedevo nulla di male, ogni giorno condividiamo un sacco di post magari manco leggendoli, come una catena di Sant’Antonio. Ora mi sento un macigno addosso, è una situazione che non auguro a nessuno di vivere per non aver fatto nulla».

"Io, licenziato da ArcelorMittal per un post sulla fiction con Ferilli condiviso mentre ero sul divano". Gino Martina su La Repubblica il 9 aprile 2021. Riccardo Cristello è il tecnico di controllo costi licenziato dall'acciaieria ex Ilva: è stato prima sospeso e poi licenziato per aver invitato a guardare la serie richiamando l'attenzione sul dramma di Taranto: "Sono stato trattato come un numero, colpirne uno per educarne cento. E pensare che si tratta di una cosa scritta sul mio profilo privato e condiviso con mia moglie, che possono leggere solo i nostri 400 amici". Riccardo Cristello lo ripete più volte. "Non ho scritto nulla di offensivo nei confronti di ArcelorMittal, non ho fatto alcun commento, non ho mai citato l'azienda, eppure dopo 20 anni vengo trattato come un semplice numero: non me lo merito". Impiegato, con due figli a carico, dopo il post condiviso sulla propria bacheca Facebook col quale il 24 marzo invitava a vedere la fiction Mediaset 'Svegliati amore mio', il lavoratore dell'ex acciaieria Ilva di Taranto, ora ArcelorMittal, è stato licenziato per giusta causa. A differenza dell'altro lavoratore che aveva ricevuto il provvedimento disciplinare di sospensione per aver condiviso un altro post sulla mini serie, non tornerà a varcare i cancelli della fabbrica. Per l'azienda quei messaggi avevano contenuti denigratori e offensivi, nonché minacciosi nei confronti della dirigenza. Anche per difenderlo il sindacato Usb ha proclamato uno sciopero e un sit-in permanente davanti ai cancelli della fabbrica il 14 aprile. 

Qual è l'amarezza maggiore in questo momento? 

"Quella di essere stato trattato così, senza neanche una telefonata, dopo aver dato tanto a quello stabilimento, oltre venti anni della mia vita. Sono stato sempre a disposizione dell'azienda, ho fatto sempre ciò che mi è stato chiesto. Anzi, di più. Da quando ero operaio del magazzino agli ultimi mesi come tecnico di controllo costi dell'acciaieria, dopo esser stato chiamato anche ad aiutare l'amministrazione con le fatture, ho sempre dato tanto. Con la gestione della famiglia Riva sarei stato sicuramente convocato in direzione e mi avrebbero rinfacciato tutto ciò che reputavano avessi sbagliato, ma dubito che mi avrebbero licenziato". 

Ci racconti di quel post condiviso. Non era scritto da lei. 

"Eravamo in casa io e mia moglie e ci è arrivato questo messaggio, come a centinaia di tarantini e lavoratori di Mittal. Quel profilo è chiuso, non è pubblico, ed è condiviso con mia moglie. Anzi, i dati sono i suoi, io lo uso raramente ed è in contatto con meno di 400 persone. Solo i miei amici possono vedere quello che pubblico. Abbiamo fatto un copia e incolla di questa lettera che chiedeva di vedere la fiction perché parlava del siderurgico, dei danni che ha provocato e delle soluzioni a questi danni. Il messaggio dava addosso a chi prima gestiva lo stabilimento in quel modo, non a Mittal. Lo abbiamo fatto così, di sera, seduti sul divano, senza pensare che potesse offendere l'immagine dell'azienda e provocare ciò che è successo. Non ci sono nomi, non c'è niente, è contro la siderurgia in generale, mi avrebbero dovuto denunciare tutti a questo punto". 

Ci sono parole come 'assassini' e il riferimento della fiction alla vertenza di Taranto: come si è giustificato con la dirigenza? 

"Ho cercato di spiegare che non era mia intenzione ledere l'immagine dell'azienda, non immaginavo affatto potesse generare questi problemi. Il post era generico e voleva solo sensibilizzare le persone, per il dramma della nostra città, per far vedere cosa accadeva anni fa prima che si iniziassero ad adottare i primi interventi Aia per abbattere le emissioni inquinanti. Ognuno di noi piange un parente per questa situazione, non a caso c'è un processo in corso, Ambiente Svenduto. Noi a Taranto lo sappiamo cosa è accaduto. L'inquinamento c'è comunque, un impianto siderurgico può inquinare meno, però è come una macchina, se l'accendi inquina. Ma non ho accusato di questo Mittal e non era mia intenzione farlo, non c'era nessun nome del resto". 

Cosa l'ha delusa di più? 

"Come sono stato trattato, dopo anni di rapporti umani vissuti nella fabbrica, mi hanno chiamato la domenica delle Palme dicendomi che c'era un problema di numero e che dovevo rimanere in cassa integrazione per una settimana. In verità mi stavano sospendendo per poi licenziarmi, senza nessun avvertimento, nessuna telefonata, se non la raccomandata col provvedimento". 

Qual è la sua speranza adesso? 

"La speranza è che si risolva al meglio per tutti, non solo per me, perché a condividere quel post sono stati in tanti nella città di Taranto e quindi molti colleghi dello stabilimento. Anche se ho l'impressione di essere il capro espiatorio. Lo spirito sembra sia quello di punirne uno per educarne cento. Non possiamo più parlare, non possiamo più commentare, dobbiamo stare zitti e basta. Anche se, lo ripeto, non ho commentato, il post non l'ho scritto io, non ho fatto nulla e sono stato trattato in questo modo. Figuriamoci se davvero avessi fatto qualcosa, sarei stato messo alla gogna".

ArcelorMittal, il caso del dipendente licenziato per un post su Facebook? Le Iene News il 13 aprile 2021. Un operaio dell’acciaieria di Taranto è stato prima sospeso e poi licenziato per aver condiviso un post su Facebook, che parlava della serie tv  “Svegliati amore mio”. Il nostro Alessandro Di Sarno è andato a parlare con lui, ha cercato un confronto con l’azienda e proiettato un video messaggio di Ricky Tognazzi e Simona Izzo, registi della serie. È possibile perdere il lavoro per aver condiviso un post su Facebook? A quanto pare sì. ArcelorMittal, l’ex Ilva di Taranto, ha sospeso due dipendenti per aver condiviso un post su Facebook su “Svegliati amore mio”, serie di Canale 5. Lo spettacolo parla della convivenza tra un’acciaieria e l’alto tasso di malati di tumore in una città immaginaria. I due dipendenti ricevono prima la sospensione dal lavoro e poi, nel caso di Riccardo, il licenziamento: “Ho due figlie, di 11 e 7 anni, non ho ancora detto nulla a loro”, dice lui in lacrime al nostro Alessandro Di Sarno. L’altro operaio invece non è stato licenziato. “Ritengo di aver sbagliato e ho chiesto scusa”, spiega alla Iena. “Ho una famiglia a cui pensare”. Il nostro Alessandro Di Sarno ha cercato un confronto con il direttore delle risorse umane Arturo Ferrucci. Un confronto che però non è stato possibile, né telefonicamente né di persona. Arcelor Mittal ha però mandato una nota in cui ha sostenuto di non essere mai intervenuta per evitare che la fiction parlasse dell’ex Ilva di Taranto e che il dipendente è stato licenziato non per aver condiviso il contenuto della fiction televisiva, ma per aver pubblicato uno scritto gravemente offensivo per l’azienda arrivando ad usare anche il termine assassini. La missione della Iena comunque non è ancora finita. Con un videoproiettore viene trasmesso un messaggio di Ricky Tognazzi e Simona Izzo, i registi della serie “Svegliati amore mio”. “È doloroso che tutto questo sia diventato un pretesto per togliere il lavoro a un ragazzo”, dice Simona Izzo. “È meglio mettere al rogo un film che mandare per stracci le persone”, aggiunge Ricky Tognazzi. Potete vedere il loro messaggio e l’intero servizio di Alessandro Di Sarno in alto.

Mittal, operaio licenziato dopo post su Facebook: Sabrina Ferilli gli offre un aiuto, ma lui rifiuta. Si apre il confronto. L'attrice gli aveva offerto sostegno economico e legale. La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Aprile 2021. Sabrina Ferilli ha telefonato a Riccardo Cristello, l’impiegato licenziato da ArcelorMittal dopo aver condiviso su Facebook un post che invitava alla visione della fiction «Svegliati amore mio» di cui l’attrice è stata protagonista, dichiarandosi disponibile ad aiutarlo economicamente e legalmente ma il lavoratore ha rifiutato l'offerta. Lo rende noto l’Usb, al quale lo stesso lavoratore si é rivolto, che coprirà le spese legali. Oggi, intanto, l’azienda ha confermato il licenziamento di Cristello anche dopo l'incontro con i coordinatori di fabbrica di Fim, Fiom e Uilm nell’ambito della procedura di raffreddamento. L’impiegato la sera del 24 marzo scorso aveva condiviso sul social network un post che invitava alla visione della fiction Mediaset sulle conseguenze sanitarie e ambientali delle emissioni di un’acciaieria, ritenuto denigratorio dall’azienda. Domattina alle 7 scatta lo sciopero proclamato dall’Usb nello stabilimento ArcelorMittal di Taranto, con presidio davanti alla direzione. Sarà presente anche Cristello, che giovedì mattina con una delegazione dell’Unione sindacale di base sarà invece a Roma, impegnato in un presidio a oltranza davanti al Ministero del Lavoro. 

MITTAL APRE CONFRONTO - ArcelorMittal non chiude ad un possibile reintegro di Riccardo Cristello, licenziato dopo aver condiviso su Fb un post che invitava alla visione della fiction Svegliati amore mio. L’azienda spiega «di non aver ricevuto alcuna richiesta di confronto dal dipendente, anzi ribadisce che le giustificazioni formulate dallo stesso non fanno che confermare le motivazioni della sanzione disciplinare». Tuttavia, AM «ribadisce la propria disponibilità ad un confronto analogo a quello avuto recentemente con altro dipendente, all’esito del quale, a fronte della presentazione di adeguate scuse, l’azienda ha deciso di revocare il licenziamento».

Da "huffingtonpost.it" il 14 aprile 2021. ArcelorMittal è pronta a confrontarsi e reintegrare Riccardo Cristello, il dipendente di Taranto licenziato dopo un post sul suo profilo Facebook in cui consigliava la visione della fiction ‘Svegliati amore mio’ con Sabrina Ferilli, legandola al tema dell’inquinamento ambientale. Con una nota nelle scorse ore l’azienda ha spiegato “di non aver ricevuto alcuna richiesta di confronto dal dipendente, anzi ribadisce che le giustificazioni formulate dallo stesso non fanno che confermare le motivazioni della sanzione disciplinare”. ArcelorMittal ha dunque ribadito “la propria disponibilità ad un confronto analogo a quello avuto recentemente con altro dipendente, all’esito del quale, a fronte della presentazione di adeguate scuse, l’azienda ha deciso di revocare il licenziamento”. Repubblica riporta la replica dell’operaio, arrivata attraverso il suo avvocato: Il lavoratore attraverso il suo legale, messo a disposizione dal sindacato Usb, ha risposto che non può chiedere scusa per una cosa che non ha mai commesso ma che è pronto a sedersi a un tavolo e confrontarsi con l’azienda. “Non era mia intenzione offendere Mittal – aveva dichiarato i giorni scorsi - non ho commentato e mai citato l’azienda”. All’operaio ha manifestato sostegno l’attrice Sabrina Ferilli, protagonista principale della fiction, che ha chiamato Cristello dichiarandosi disponibile a pagargli un mese di stipendio e le spese legali relative all’impugnazione del licenziamento. Sostegno al lavoratore anche dall’attore tarantino Michele Riondino, nonché da Simona Izzo e Ricky Tognazzi, registi della fiction. Oggi sulle pagine del quotidiano La Stampa - che dedica un articolo alla vicenda dal titolo “Io licenziato dall’ex Ilva per un like ringrazio la Ferilli ma vinco da solo” - vengono riportate le parole di Cristello dopo la manifestazione di solidarietà della Ferilli: “Ero a casa, ho ricevuto una chiamata da un numero privato. Era lei e io ero incredulo [....] Passata l’emozione, l’ho ringraziata spiegando che per il momento non ho bisogno di nulla”. Intanto dalle 7 di questa mattina, riporta l’Agi, è scattato in ArcelorMittal, siderurgico di Taranto, lo sciopero indetto dal sindacato Usb per protestare contro il licenziamento di Cristello. È in corso anche un presidio davanti alla direzione di stabilimento, presente lo stesso Cristello. Questi, dopo una sospensione dal lavoro di 5 giorni con divieto di accesso in stabilimento, è stato licenziato da ArcelorMittal. L’operaio aveva subito prima un provvedimento di sospensione da parte della dirigenza della multinazionale che gestisce il siderurgico di Taranto, poi il licenziamento. Tutto è nato da un post Facebook pubblicato dal lavoratore nelle scorse settimane: uno screenshot che invitava alla visione della fiction di Mediaset "Svegliati amore mio", sulle conseguenze sanitarie e ambientali delle emissioni di un’acciaieria chiamata Ghisal. ArcelorMittal aveva precisato di aver ritenuto denigratorio e altamente lesivo della propria immagine il contenuto del post e non il semplice invito alla visione della fiction. Incontrando i giornalisti nella sede della Usb, Cristello - che è sposato ed è padre di due figli - ha precisato che è stato contestato “un post pubblicato sul mio profilo privato che condivido con mia moglie, che possono leggere solo i nostri 400 amici. Non so come abbiano fatto a vederlo. Lo screenshot conteneva frasi che facevano riferimento a situazioni di inquinamento ambientale, ma non c’è mai scritto il nome ArcelorMittal. Ora impugnerò il licenziamento”. Un secondo operaio, che aveva condiviso il post con lo stesso invito a vedere la fiction, ha avuto un incontro chiarificatore con l’azienda e si è scusato pubblicamente sul social. Per lui è avvenuto il reintegro. Come sottolineato, l’azienda invita al confronto anche Cristello, aprendo alla possibilità del suo reintegro.

ArcelorMittal apre all'operaio licenziato: "Chieda scusa". La replica: "Non posso, non ho fatto niente di male". Gino Martina su La Repubblica il 14 aprile 2021. L'azienda ha incontrato Riccardo Cristello e vorrebbe una pubblica ritrattazione com'è accaduto con l'altro lavoratore poi reintegrato. Il ministero avrebbe sollecitato una soluzione in tal senso. Il dipendente mandato via: "Sono aperto a un confronto ma non posso scusarmi per un errore che non ho commesso". ArcelorMittal è pronta a reintegrare Riccardo Cristello, il dipendente di Taranto di 45 anni licenziato per un post sul suo profilo Facebook in cui consigliava la visione della fiction 'Svegliati amore mio' con Sabrina Ferilli. Lo fa sapere attraverso una nota stampa. “L’azienda – è scritto - ribadisce la propria disponibilità ad un confronto analogo a quello avuto recentemente con altro dipendente, all’esito del quale, a fronte della presentazione di adeguate scuse, l’azienda ha deciso di revocare il licenziamento”. Dopo giorni di chiusura anche nei confronti delle richieste di chiarimenti del ministro del Lavoro, Andrea Orlando, la multinazionale che gestisce l’acciaieria ex Ilva di Taranto apre alla possibilità di far rientrare in fabbrica l’impiegato 45enne licenziato. Nella giornata di ieri gli uffici del ministero del Lavoro, a quanto si apprende da fonti del ministero, hanno avuto colloqui informali con i vertici di Arcelor Mittal sollecitandoli a riconsiderare la posizione adottata nei confronti dell'operario dello stabilimento di Taranto licenziato. Per l’azienda il messaggio condiviso da Cristello aveva contenuti denigratori, offensivi se non addirittura minacciosi nei propri confronti. Per questo aveva deciso di licenziare dopo 21 anni di lavoro Cristello, in un primo momento sospeso come un altro lavoratore, invece perdonato dopo aver chiesto scusa e pubblicato un post su Facebook col quale ha preso le distanze dal messaggio precedente condiviso (i due post erano distinti). “L’azienda chiarisce – scrive Mittal - di non aver ricevuto alcuna richiesta di confronto da parte del dipendente, anzi ribadisce che le giustificazioni formulate per iscritto dallo stesso non fanno che confermare le motivazioni della sanzione disciplinare”. Di lì però l’apertura per una vicenda altrimenti destinata a finire nelle aule della sezione lavoro del tribunale di Taranto. Il lavoratore attraverso il suo legale, messo a disposizione dal sindacato Usb, ha risposto che non può chiedere scusa per una cosa che non ha mai commesso ma che è pronto a sedersi a un tavolo e confrontarsi con l’azienda. “Non era mia intenzione offendere Mittal – aveva dichiarato i giorni scorsi -  non ho commentato e mai citato l’azienda”. 

Sabrina Ferilli, protagonista della fiction che parla del dramma di una madre che ha la figlia ammalata di leucemia a causa dell’inquinamento prodotto dalla fantomatica acciaieria Ghisal, si è offerta di pagare le spese legali e uno stipendio al lavoratore. Nella miniserie non si fa riferimento alle vertenze di Taranto e nel post condiviso da Cristello, non scritto di suo pugno, non si cita mai Mittal (a differenza di quello condiviso dall’altro lavoratore poi perdonato), ma sono utilizzati termini “vergognoso” e “assassini” nei confronti di ipotetici poteri forti che non avrebbero avuto interesse affinché si prendesse visione della fiction (il messaggio era una sorta di catena social condivisa da centinaia di utenti social). Il lavoratore ha  ringraziato Ferilli per il supporto ma ha spiegato che non ha bisogno di aiuti economici per il momento, nonostante sia padre di due figli, anche perché delle spese legali si è fatto carico il sindacato. L’Usb nel frattempo ha confermato lo sciopero per mercoledì 14 aprile con presidio davanti alla direzione della fabbrica, facendo sapere di essere pronto a revocarlo se Mittal dimostrerà di voler tornare sui suoi passi. “C’è il tentativo di umiliazione dell’intera classe operaia da parte di Arcelor MIttal– spiega Francesco Rizzo, coordinatore provinciale Usb -, il governo ha l’obbligo di intervenire”. I giorni scorsi il ministro  Orlando aveva definito la vicenda "non chiusa" dopo aver chiesto nuovamente chiarimenti alla dirigenza che gestisce il siderurgico

Ilva, mancano soldi e strategie. Ecco perché l'acciaieria green resta un sogno. Lo Stato sborsa 400 milioni per il 50 per cento dell'impianto di Taranto. È quanto basta per evitare il crack, ma non c'è ancora un piano per la riconversione ecologica. E con Mittal scoppia la lite sul bilancio 2020. Vittorio Malagutti e Gloria Riva su L'Espresso il 22 aprile 2021. Di sicuro c’è soltanto che Roma ha pagato. A poco più di 25 anni di distanza dalla privatizzazione del 1995, lo Stato torna azionista di Ilva. Il futuro, però, è più che mai immerso nella nebbia dell’incertezza. Non è chiaro quale sarà la rotta per rilanciare l’acciaieria di Taranto, un asset strategico che negli ultimi due anni ha perso per strada quote di mercato e ormai viaggia col motore al minimo e oltre metà degli ottomila dipendenti in cassa integrazione. Intanto però, la holding pubblica Invitalia ha già sborsato 400 milioni per mettersi in società con Arcelor Mittal, la multinazionale che dal 2018 ha preso in gestione, con pessimi risultati, l’impianto pugliese finito in amministrazione straordinaria. «È il momento di smettere di dire cose che in realtà non possono essere fatte altrimenti non si troverà mai una soluzione», ha ammonito a fine marzo il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, forse con l’intenzione di mettere in guardia i futuri soci. L’avvertimento sembra caduto nel vuoto. Acciaierie d’Italia holding, partecipata al 50 per cento ciascuno dalla holding pubblica Invitalia e da Arcelor Mittal, venerdì 16 aprile non è neppure riuscita a nominare il nuovo consiglio di amministrazione. I privati chiedevano che l’azionista di Stato firmasse il bilancio del 2020. Una richiesta giudicata irricevibile, visto che l’anno scorso l’impianto è stato gestito dalla multinazionale controllata dalla famiglia Mittal. Il governo, come sempre accade in casi come questi, vuole tenersi le mani libere per valutare l’attività finora svolta e, se necessario, avviare azioni di responsabilità nei confronti della passata gestione. Niente da fare, quindi: il varo della nuova società è rinviato a data da destinarsi. È un rinvio, l’ennesimo, in una storia infinita che si trascina dal 2013, quando a Taranto esplose la crisi ambientale, si arrivò al sequestro dell’impianto e l’azionista privato, cioè la famiglia Riva, fu infine estromessa dallo Stato. Nell’autunno del 2018, con Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, la gara imposta due anni prima dal governo Renzi consegnò l’Ilva alla gestione di Arcelor Mittal, che però già a novembre del 2019 era pronta a farsi da parte per la revoca dell’immunità penale in un primo momento concessa agli acquirenti. Da allora l’acciaieria più grande d’Europa vive sospesa in attesa di conoscere il suo destino. E l’accordo siglato a dicembre del 2020, un’intesa che in teoria avrebbe dovuto spianare la strada alla coabitazione tra l’azionista pubblico e quello privato, ormai appare come il paravento che nasconde strategie e interessi divergenti, se non conflittuali, tra le due parti in causa. Destino vuole che un quarto di secolo fa il premier Mario Draghi, all’epoca direttore generale del Tesoro, tirasse le fila della vendita ai Riva della grande azienda di Stato. Per gestire una partita che si annuncia quanto mai complessa, Draghi ha scelto un altro protagonista della stagione delle privatizzazioni come Franco Bernabè, vecchio amico del presidente del Consiglio, nonché manager di lungo corso con una carriera dalle tante poltrone eccellenti, dall’Eni fino a Telecom Italia. Bernabè, presidente designato di Acciaierie d’Italia holding, verrà affiancato in consiglio da Stefano Cao (già a capo di Saipem) e da Carlo Mapelli, esperto di siderurgia e docente al Politecnico di Milano. Il terzetto di amministratori sarà chiamato a confrontarsi con un socio che fa di tutto per non scoprire le proprie carte. Anzi, ora che ha costretto lo Stato a metter mano al portafoglio tornando a gestire direttamente l’acciaieria, Arcelor Mittal sembra guardare altrove con l’intenzione di sfilarsi in tempi brevi da un affare che produce più guai che profitti. Giorni fa la multinazionale ha annunciato la separazione delle proprie attività commerciali italiane da quelle internazionali. In altre parole, i prodotti di Taranto sarebbero costretti a battere la concorrenza di quelli del suo azionista. Da mesi, poi, gli osservatori più attenti segnalano che la multinazionale ha spostato dalla Penisola parte delle lavorazioni per lasciare spazio ad altri impianti europei del gruppo, come quelli di Gent e Dunkerque in Belgio. La conferma arriva dai numeri. La produzione di Ilva nel 2020 è precipitata a 3,3 milioni di tonnellate circa contro i 6 milioni del 2013. In parte è colpa della crisi di primavera-estate innescata dalla pandemia, ma anche quando la domanda di acciaio è ripartita, nell’ultimo trimestre dell’anno, Taranto ha continuato a lavorare a ritmo ridotto, tra fermate degli impianti e nuova cassa integrazione. «Arcelor Mittal ogni due settimane rivede al rialzo il proprio listino e sta guadagnando moltissimo grazie a un aumento dei prezzi dell’acciaio. Com’è possibile che, al contrario, Ilva sia cronicamente in difficoltà?», si chiede il sindacalista Marco Rota, responsabile nazionale di Fiom Cgil per la siderurgia. Il piano illustrato dal governo nel dicembre scorso prevede il ritorno a una produzione di 8 milioni di tonnellate l’anno entro il 2025, quando, stando agli annunci, non ci sarà più bisogno di cassa integrazione e gli 8.200 dipendenti torneranno tutti al lavoro. Ma più il tempo passa, con gli altoforni che lavorano a basso regime, più diventa difficile riportare lo stabilimento in piena efficienza. Senza contare, come da tempo denunciano i sindacati, che le carenze nella manutenzione degli impianti causano stop frequenti e anche incidenti. Appesantita da ritardi e inadempienze, Taranto rischia quindi di restare impantanata in una crisi senza fine proprio mentre il mercato riparte. Il mondo ha fame di acciaio, perché la ripresa post-Covid19 traina le imprese manifatturiere. Ilva però non è in grado di far fronte alla domanda crescente e mentre i prezzi salgono è costretta a subire la concorrenza dei grandi produttori internazionali, compresa, come abbiamo visto, Arcelor Mittal. Sul futuro prossimo incombe poi la decisione della Commissione Ue, attesa per fine maggio, sui dazi per le materie prime, acciaio compreso. Finora la politica europea è stata quella di sostenere i produttori europei sbarrando la strada ai colossi cinesi con un sistema doganale che li penalizza. Con i prezzi in crescita verticale le imprese trasformatrici premono però per una riforma che smantelli almeno in parte queste barriere. Se quest’ultima posizione dovesse alla fine prevalere, i piani del governo dovrebbero fare i conti con un problema in più. Il primo della lista, al momento, riguarda le risorse da destinare alla ristrutturazione e al rilancio dell’acciaieria. I 400 milioni messi sul piatto dalla Stato per aggiudicarsi il 50 per cento della holding, sono appena sufficienti a coprire i costi d’esercizio, cioè stipendi e fornitori, a cui vanno aggiunti la manutenzione degli impianti e gli interventi necessari per garantire la sicurezza dei lavoratori e abbattere le emissioni inquinanti così come prescritto dalle sentenze della magistratura. Questo però è il minimo indispensabile per evitare la chiusura. Se l’obiettivo del governo è davvero quello di arrivare alla produzione di acciaio secondo standard ambientali ben più elevati di quelli attuali, salvaguardando, oltre all’occupazione, anche la salute dei cittadini, allora la risorse da mettere in campo si calcolano nell’ordine dei miliardi di euro. «L’accordo prevede un significativo impegno finanziario da parte dello Stato italiano e rappresenta un passo importante verso la decarbonizzazione dell’impianto di Taranto», scriveva su Facebook a dicembre l’allora ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri a commento dell’intesa siglata con Arcelor Mittal. In base all’accordo, nel 2022 Roma verserà altri 600 milioni per arrivare al 60 per cento del capitale della holding. In totale, quindi, l’impegno dello Stato ammonta a un miliardo in due anni, una somma che però sembra ancora insufficiente per una vera svolta ambientale. Un aiuto potrebbe arrivare dall’Europa. Il Just transition fund varato da Bruxelles per finanziare la conversione ambientale di specifiche aree (in Italia, oltre a Taranto, anche il Sulcis sardo) dovrebbe garantire un minimo di 400 milioni di euro. Altre risorse verranno ricavate nelle pieghe del Recovery fund. Nel frattempo, appena insediato al ministero dello Sviluppo, Giorgetti ha subito fatto capire di voler metter mano al programma dal precedente esecutivo. L’obiettivo dichiarato è ancora quello della decarbonizzazione, che in pratica vuol dire azzerare le emissioni inquinanti legate all’uso del carbone come principale fonte di energia. Il sogno di un impianto verde è però destinato a restare tale almeno per un decennio, visto che le tecnologie che permetterebbero l’uso dell’idrogeno per alimentare gli impianti sono ancora in una fase sperimentale. Sarebbe invece più abbordabile, in una prospettiva di tre-cinque anni, un intervento che puntasse sul minerale di ferro “preridotto” per sostituire il carbon coke che oggi viene caricato negli altoforni per produrre l’acciaio. Ed è proprio in questa direzione che il governo Draghi sembra intenzionato a insistere con maggior decisione rispetto ai piani formulati dai ministri di Conte. Il cosiddetto preridotto potrebbe essere utilizzato anche per alimentare uno o due nuovi forni elettrici, opportunamente modificati. Per mandare a regime l’impianto così rinnovato sarebbe necessaria una gran quantità di gas, almeno il doppio rispetto ai 600 milioni di tonnellate annue oggi assorbite da Taranto. Per alcuni anni non sarà possibile rinunciare al carbone, ma il nuovo assetto consentirebbe di abbattere notevolmente le emissioni di anidride carbonica e di altre sostanze inquinanti (ossido di zolfo, diossina, polveri sottili) garantendo una produzione supplementare di 2,5 milioni di tonnellate. Quanto basta, secondo alcune ipotesi, per chiudere uno dei tre altoforni (Afo 1-2-4) ora in funzione oppure per rinunciare all’Afo 5, il più grande, che è spento dal 2015 e richiede ancora lunghi e costosi lavori di ammodernamento. Mapelli, il professore del Politecnico appena designato tra consiglieri della holding Acciaierie d’Italia, aveva proposto un piano fondato sul preridotto già nel 2013, quando il governo Letta, una volta usciti di scena i Riva, affidò il rilancio dell’Ilva a Enrico Bondi. A otto anni di distanza, con il ritorno dell’azionista pubblico, quel vecchio progetto torna d’attualità anche grazie alle nuove soluzioni tecnologiche fornite dal gruppo Danieli, in collaborazione con due aziende pubbliche come Leonardo e Saipem. Per completare la transizione ambientale non sarà però sufficiente sostituire il coke con il gas naturale ed eliminare gli scarti e l’inquinamento portato dal carbone. Serve un passaggio ulteriore, ovvero il sequestro dell’anidride carbonica prodotta dalle lavorazioni, che, per esempio, potrebbe essere stoccata in un deposito sottomarino sfruttando un giacimento dell’Eni al largo di Ravenna. L’ipotesi più innovativa allo studio riguarda però l’integrazione con l’agroalimentare. Una volta disciolta in acqua, l’anidride carbonica sequestrata può infatti servire da nutrimento per quei microrganismi che, attraverso un processo di fotosintesi, consentono la crescita dell’alga spirulina, utile per fertilizzare i campi e nella zootecnica. Oppure la Co2 può essere utilizzata per la produzione di biocarbone e biometano, da riciclare successivamente come fonte energetica per l’impianto siderurgico. Dall’acciaio al cibo e viceversa. Sembra un sogno, ma è il futuro dell’economia circolare. Una speranza in più per Taranto.

ILVA, ECCO COME ARCELOR MITTAL HA “FREGATO” IL GOVERNO ITALIANO. Il Corriere del Giorno il 16 Aprile 2021. Il Governo Draghi si trova di fatto costretto ad avvallare, attraverso la società pubblica Invitalia, l’accordo contrattuale voluto dall’ ex premier Giuseppe Conte, contenente la richiesta di reintrodurre lo scudo penale ad Arcelor Mittal–Invitalia che gestiranno in società lo stabilimento di Taranto. Il bonifico da 400 milioni di euro versato da Invitalia sul conto corrente di AM InvestCo Italy (leggasi Arcelor Mittal)e che ha dato vita ad Acciaierie d’Italia Holding altro non è che è un accordo economico-industriale, ancora una volta, a carico dei cittadini italiani, mentre chi fa un affare d’oro, come ha più volte spiegato l’ex-ministro Carlo Calenda, è la multinazionale indiana di Arcelor Mittal che investe appena 70 milioni di euro mentre allo Stato italiano tocca versare oltre 1 miliardo di euro. Soldi questi che si vanno a sommare ai 1,3 miliardi di euro “pubblici” provenienti dalla confisca per evasione fiscale alla famiglia Riva . Ma non è finita. Infatti il Recovery Plan del governo prevede uno stanziamento di 2 miliardi di euro per lo stabilimento siderurgico di Taranto . Fare due conti è abbastanza semplice. Nell’ accordo stipulato fra Invitalia ed Arcelor Mittal è previsto che:  “In futuro, Acciaierie d’Italia Holding opererà in modo autonomo, e come tale avrà propri piani di finanziamento indipendenti da Arcelor Mittal. Di conseguenza, Arcelor Mittal de-consoliderà le attività e le passività (compresa la residua passività relativa all’affitto e all’acquisto dei rami d’azienda Ilva) di Acciaierie d’Italia Holding (in precedenza, Am InvestCo Italy) dal proprio bilancio consolidato e consoliderà la propria partecipazione nella società secondo il metodo del patrimonio netto”. In poche parole significa per quanto riguarda la parte economica che le passività ed i debiti della filiale italiana della multinazionale franco-indiana di fatto verranno trasferiti nella nuova società e quindi scaricati sulle spalle dei contribuenti italiani. Ma vi sono alcuni aspetti contrattuali che coinvolgono la salute. Nell’accordo raggiunto sono contemplate delle condizioni sospensive : la revoca dei sequestri penali sull’acciaieria e l’assenza di misure restrittive nei confronti di Acciaierie d’Italia o sue consociate. Il contratto sottoscritto fra Arcelor Mittal e Invitalia prevede infatti che “nel caso in cui le condizioni sospensive non si verificassero, Acciaierie d’Italia Holding non sarebbe obbligata a perfezionare l’acquisto dei rami d’azienda di Ilva e il capitale in essi investito verrebbe restituito”. Tutto questo è accaduto sotto l’egida del Governo giallorosso guidato dal premier Giuseppe Conte nel silenzio generale ed ancora peggio nell’indifferenza generale di fronte a un accordo societario che di fatto chiede al Parlamento italiano l’introduzione dell’immunità penale o in caso contrario l’accordo non verrebbe perfezionato. Incredibile ma vero: un vero e proprio ricatto industriale ed occupazionale ! Ma quello che lascia senza parole è che il parlamento italiano è sottoposto a un gravissimo condizionamento imposto da un accordo societario raggiunto con il semaforo verde di Palazzo Chigi a guida “grillina” ! cioè di quel M5S che aveva revocato l’ìmmunità e millantava la volontà di chiudere lo stabilimento siderurgico ex-Ilva di Taranto. Il Governo Draghi si trova di fatto costretto ad avvallare, attraverso la società pubblica Invitalia, l’accordo contrattuale voluto dall’ ex premier Giuseppe Conte, contenente la richiesta di reintrodurre lo scudo penale ad Arcelor Mittal–Invitalia che gestiranno in società lo stabilimento di Taranto. Il Governo Conte bis (M5S-Pd, LeU). Pochi ricordano che Il gruppo Arcelor Mittal aveva programmato a partire da maggio 2019 la riduzione delle produzioni nei propri impianti come le acciaierie di Dunkirk in Francia e di Eisenhuttenstadt in Germania, prevedendo una fermata per l’impianto di Brema, a Cracovia in Polonia ed Asturie in Spagna. Legittimo chiedersi perchè il governo Conte sia rimasto silente, indifferente ed inerte! Un’ altra domanda legittima da porsi è come mai Arcelor Mittal ha ritenuto di partecipare ad una gara internazionale e poi dover firmare un contratto di aggiudicazione che la impegnava a versare un affitto di 180 milioni di euro l’anno ad Ilva In Amministrazione Straordinaria, e successivamente entro due anni all’acquisto dello stabilimento per 1,8 miliardi di euro detratti i canoni di affitto. Ma per capirlo basta fare qualche ricerca su Internet e documentarsi per scoprire cosa è successo in Francia quando gli indiani di Mittal rilevarono il gruppo siderurgico francese Arcelor. Il presidente francese Hollande venne di fatto costretto a far approvare la legge Florange, nome della città francese che ospitava un impianto siderurgico, per evitare la chiusura di alcune acciaierie acquisite da Mittal e la conseguente delocalizzazione delle produzioni di acciaio. Ma ciò nonostante l’impianto di Florange ha poi cessato la propria attività. L ‘accordo fra Invitalia ed Arcelor Mittal altro non è che il fallimento della politica industriale del Governo Conte. Per buona pace…dei grillini pugliesi, abituati a fare tanti proclami al vento, a cui non hanno mai fatto seguito i fatti. Come la storia sta dimostrando.

ILVA: DIETRO LE QUINTE DEL RICATTO DI ARCELOR MITTAL ALLO STATO ITALIANO. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 21 Marzo 2021. Resta da chiedersi a questo punto come possa uno Stato, un Governo serio con un premier del livello di Mario Draghi e con un ministro autorevole e competente come Giancarlo Giorgetti, farsi piegare da certi ricatti da un’azienda indiana che vuole fare business con i soldi degli italiani, invece che con i propri. Per poter capire meglio il braccio di ferro-ricatto fra Arcelor Mittal e lo Stato italiano bisogna ricostruire bene la vicenda, che più di qualche giornale e giornalista smemorati fanno fatica a ricordare. L’ILVA di Taranto è l’acciaieria più grande d’Europa ed Il suo stabilimento principale, cioè quello di Taranto, è stato inaugurato nel 1961, la cui storia ed i fatti sono sotto gli occhi di tutti. Sotto la guida del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda venne indetta cinque anni fa, cioè nel gennaio 2016, una gara europea voluta dal MISE per cedere lo stabilimento siderurgico di Taranto dell’ ILVA in amministrazione straordinaria. Gara al cui termine parteciparono due “cordate” guidate da due società indiane: da un fronte AMCO INVEST ITALY guidata dal gruppo franco-indiano Arcelor Mittal insieme al Gruppo Marcegaglia, dall’ altro la cordata Acciaitalia guidata da Lucia Morselli che aveva come capofila JINDAL insieme ad Arvedi, Cassa Depositi e Prestiti, la Dolfin Holding di Leonardo Del Vecchio. Da non dimenticare che durante la gara gli indiani della JINDAL avvalendosi di una giornalista tarantina, tale Monica Caradonna (che secondo fonti autorevoli sarebbe aderente alla Massoneria, come anche Lucia Morselli) organizzarono un bel viaggio-vacanza in India per far vedere ai giornalisti tarantini quanto fossero bravi e ligi al dovere…e viaggiarono tutti gratis, felici e contenti, pubblicando tanti articoli pro-Jindal. La gara però venne vinta ai primi del 2017 dalla cordata ARCELOR MITTAL attraverso la neo costituita Amco Invest Italy offrendo 1miliardo e 800milioni di euro, contro 1miliardo e 200milioni di euro offerti dai rivali della cordata contrapposta guidata da JINDAL , i quali provarono ad ipotizzare un rilancio che però non era prevista nella gara internazionale indetta dal MISE, e dopo aver passato il vaglio del Ministero dell’ Ambiente e dell’ Antitrust italiana, si attese il parere dell’ Autorità Antitrust europea, che mise qualche paletto, costringendo di fatto il Gruppo Marcegaglia (sostituito da Banca Intesa) a cedere le proprie esigue quote di Amco Invest Italy ed uscire dalla partita, ed Arcelor Mittal Europe a cedere tre impianti di proprietà in Europa per evitare una posizione dominante nell’ acciaio in Europa. Jindal, Cassa Depositi e Prestiti, Arvedi e Del Vecchio a loro volta si ritirarono dalla battaglia e ciascuno tornò a pensare ai propri interessi principali. E’ bene ricordare che fu proprio il nostro giornale a rendere noto il contratto sottoscritto fra lo Stato italiano ed Arcelor Mittal, che nessuno voleva far leggere, nonostante le infruttifere istanze di accesso agli atti amministratitivi e gli inutili e costosi ricorsi al Tar Lazio presentati dalla Regione Puglia e del Comune di Taranto. Qualche tempo dopo con l’arrivo del Governo Conte (nella sua prima versione “gialloverde” cioè M5S e Lega) arrivò al MISE il neo ministro Luigi Di Majo, un “ragazzotto” grillino della provincia di Napoli che in vita sua aveva fatto soltanto il venditore di bibite allo Stadio San Paolo (ora Maradona) di Napoli ed il webmaster e cameriere in una pizzeria alle porte di Napoli, sul quale il noto programma televisivo di inchiesta e denuncia “LE IENE” ( Italia Uno) svelarono una triste vicenda di lavoratori in nero alle dipendenze di una piccola società di lavori edili guidata dal padre di Di Maio, di proprietà del figlio e della sorella. Guarda caso secondo quanto diffuso da un tweet del sindacalista Marco Bentivogli, all’epoca dei fatti segretario generale della FIM-CISL, da noi ripreso e pubblicato e mai smentito dai diretti interessati (Di Maio e Morselli n.d.a.) al Ministero dello Sviluppo Economico sarebbe stata ingaggiata come consulente sul “Dossier ILVA” proprio Lucia Morselli, cioè colei che guidava e rappresentava in Italia la cordata JINDAL e successivamente è diventata amministratore delegato di Arcelor Mittal Italia! Il 24 luglio 2018 la multinazionale Arcelor Mittal rese noto di voler accettare tutte le richieste fatte dai commissari straordinari dell’Ilva per dare il via libera all’acquisizione dell’acciaieria. I nodi principali riguardavano ovviamente la tenuta occupazionale e l’impatto ambientale dello stabilimento di Taranto. Il 23 agosto 2018 il Ministro dello Sviluppo Economico del Lavoro Luigi Di Maio tenne una conferenza stampa per commentare il parere (il secondo !) dell’ Avvocatura Generale dello Stato sulla gara che ha assegnato il Gruppo ILVA alla cordata AmCo Invest Italy, guidata dal principale azionista  Arcelor Mittal.  Un parere positivo che era stato anticipato proprio da questo giornale. E chi vi scrive ricevette all’epoca dei fatti una telefonata quasi notturna da Di Maio che voleva conoscere le nostre fonti, venendo gentilmente rimbalzato e rimandato al suo posto. Il ministro Di Maio dall’alto della sua nota incompetenza ed arroganza “grillina” dichiarò: “Sulla gara per la cessione dell’ Ilva è stato commesso il delitto perfetto. La gara è illegittima, ma non si può annullare. Per questo è un delitto perfetto” precisando che “Mittal è sempre stata in buona fede. Il delitto perfetto lo ha fatto lo Stato creando una procedura piena di vizi e illegittimità”. “Abbiamo chiesto se è stato giusto non concedere i rilanci – disse Di Maio –  La gara si poteva fare in due round, ci poteva essere la possibilità di rilanciare. Questo non è stato concesso, nonostante il concorrente lo avesse chiesto“, disse il ministro che aggiuse “Secondo noi c’è stato un eccesso di potere. I rilanci non sono solo una cosa tecnica, significa avere una migliore offerta, non si è fatto l’interesse dello stato e dei cittadini. I cittadini sono stati penalizzati da un eccesso di potere“.

L’immunità penale. L’immunità penale concessa a Ilva in amministrazione straordinaria e successivamente ad ArcelorMittal, traeva origine dal Decreto Legge n. 1 del 2015. Con questa norma il Governo guidato da Matteo Renzi (all’epoca dei sfatti segretario nazionale del PD) era voluto di fatto assicurare una protezione legale sia ai gestori dell’azienda (i commissari), che ai futuri acquirenti (l’offerta di gara di Arcelor Mittal doveva ancora arrivare), relativamente all’attuazione del piano ambientale della fabbrica. Evitare, cioè, che attuando il piano ambientale, normato da un Dpcm di settembre 2017, i commissari o i futuri acquirenti del siderurgico restassero coinvolti in vicissitudini giudiziarie derivanti dal passato essendo l’inquinamento Ilva un problema di lunga data. In realtà il delitto perfetto (premeditato ?) lo ha commesso proprio Di Maio quando all’improvviso con una decisione autonoma revocò lo scudo penale concesso dai precedenti governi Renzi e Gentiloni ai managers ed amministratori dell’ ILVA in Amministrazione Straordinaria, ereditata per contratto dai subentranti gestori di Arcelor Mittal. Una revoca dello scudo penale più che “sospetta” quella decisa in totale autonomia da Di Maio, sostenuto dai “talebani” del M5S, che conquistò quella pletora di pseudo-ambientalisti tarantini, che sognavano la chiusura dello stabilimento siderurgico dell’ ILVA, e magari l’apertura di un grande parco giochi come aveva ipotizzato in una delle sue tante farneticazioni il comico-omicida Beppe Grillo. Ma perchè “sospetta” ? Semplice ! Perchè è stato proprio grazie a quella revoca che Arcelor Mittal ha iniziato il suo “braccio di ferro-ricatto” con lo Stato italiano, sottraendosi ai suoi impegni contrattuali, chiedendo al Tribunale di Milano lo scioglimento del contratto stipulato da AMCO INVEST ITALIA (cioè Arcelor Mittal) e l’ ILVA in Amministrazione Straordinaria. Salvo poi raggiungere un accordo successivo . Nella primavera del 2019 i Cinque Stelle avevano dichiarato che l’immunità era illegittima e che andava abrogata perchè era di fatto un privilegio concesso ad ArcelorMittal. Per il gip di Taranto, Benedetto Ruberto, quella norma del 2015 era anticostituzionale, approdando ad ottobre 2019 con l’impugnazione di costituzionalità dinnanzi alla Corte Costituzionale. I giudici della Consulta esaminando il caso, gli rinviarono indietro gli atti chiedendogli di rivalutare, alla luce del modificato quadro legislativo, dl Crescita e dl Imprese, se il nodo di incostituzionalità sussisteva ancora, in quanto il gip Ruberto si era appellato alla Consulta nel febbraio 2019, prima cioè dei due decreti Legge. Ma seguiamo le date per non perderci in questa “telenovela” giocata sulle spalle dei lavoratori e dell’economia pugliese.  Il 7 agosto 2019 il consiglio dei Ministri del governo “gialloverde” Conte con un proprio decreto reintrodusse l’immunità penale (che identificava particolari situazioni in cui si rende lecito un fatto che sarebbe reato). Qualche mese prima, come dicevamo, il cosiddetto “scudo penale” era stato abrogato dallo stesso governo, che aveva rinviato la conclusione dell’esimente penale nuovamente al 2023 seppur con novità rispetto alla legge da poco abrogata. Ma questo decreto non venne convertito dal Parlamento e così viene in maniera definitiva annullato l’esimente penale che dal 3 novembre 2019 non esiste più.  Un esimente penale successivamente concessa ai “superconsulenti” di Conte (governo “giallorosso, cioè M5S, PD, LeU) durante la prima fase della pandemia causata dal Covid-19, che venne preteso anche dalle banche per erogare prestiti alle imprese italiane garantiti dallo Stato! Il 4 novembre 2019, Arcelor Mittal ha notificato ai commissari straordinari dell’azienda la volontà di rescindere, proprio per la mancanza di uno scudo penale, l’accordo per l’affitto con acquisizione delle attività di Ilva S.p.a.. Secondo i contenuti dell’accordo, Arcelor Mittal ha chiesto ai Commissari straordinari di assumersi la responsabilità delle attività di Ilva e dei dipendenti entro 30 giorni dal ricevimento della comunicazione.

La questione ambientale. Nel 2010, secondo le perizie disposte dal Tribunale di Taranto e le stesse dichiarazioni dell’ILVA, erano state immesse nell’ambiente circostante 4.159 tonnellate di polveri, 11 mila di diossido d’azoto e anidride solforosa. Secondo i dati del registro Ines, nella città di Taranto, negli ultimi anni, sarebbe stata immessa in atmosfera il 93% di tutta la diossina prodotta in Italia insieme al 67 per cento del piombo. Ma dimenticando di suddividere le emissioni con quelle dello stabilimento di raffinazione dell’ ENI e quelle delle due discariche ( ITALCAVE a Statte e CISA a Massafra) presenti nelle zone confinanti con lo stabilimento siderurgico di Taranto .

I dipendenti diretti dell’Ilva sono circa 14mila più circa 6mila delle ditte in appalto che sono centinaia. Che perderebbero il lavoro se l’azienda venisse chiusa. La necessità che l’azienda rimanga aperta è di fatto fondamentale anche per le altre aziende italiane, poiché l’acciaio prodotto a Taranto nello stabilimento ILVA evita di doversi rivolgere alle acciaierie straniere, che vengono acciaio a prezzi molto più elevati.

Le “pagliacciate” di Emiliano e Melucci. Per ricostruire le vicende sull’ ILVA non si possono dimenticare le gesta e dichiarazioni dei due “masanielli” della politica pugliese: il governatore Michele Emiliano ed il sindaco di Taranto (eletto a suo tempo per appena circa 900 voti !) Rinaldo Melucci, uniti nell’utilizzare lo strumento dei ricorsi al TAR sin dai tempi del Governo Gentiloni (ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda) come una clava sul destino dello stabilimento siderurgico. Era il 29 dicembre 2017 quando Emiliano annunciava “Anche la Regione Puglia dopo il Comune di Taranto ha depositato la rinuncia alla richiesta di sospensiva al TAR sul decreto del presidente del Consiglio dei Ministri che contiene il Piano Ambientale per Ilva“. La rinuncia del ricorso al TAR presentato a suo tempo dal Comune di Taranto avvenne guarda caso dopo la visita inaspettata ed improvvisa del ministro Calenda al sindaco Melucci a Palazzo di Città a Taranto avvenuta il 5 dicembre 2017 . Il Sindaco Melucci non ha mai rivelato i termini dell’incontro con Calenda e tantomeno spiegato in consiglio comunale la sua decisione improvvisa di ritirare il ricorso. Vi è però una coincidenza, un retroscena. Come per incanto, dopo quella visita, la Melucci Shipping società controllata dalla famiglia del sindaco Melucci , che ha sempre svolto unicamente attività di agenzia di servizi marittimi, all’improvviso inizia a lavorare in subappalto per la Cimolai di Pordenone (la società che ha realizzato l’imponente opera di copertura dei parchi minerari) effettuando servizi di trasposto su gomma, cioè via terra, pur essendo sprovvista delle necessarie autorizzazioni previste dal ministero dei Trasporti. Circostanza questa che ci venne confermata da un dirigente della società friulana, addetto ai rapporti con la stampa. E CHE NESSUNO HA SINORA MAI SMENTITO! Successivamente alla vigilia di un’incontro convocato il 29 luglio 2018 da Luigi Di Maio al Ministero dello Sviluppo Economico, Il sindaco di Taranto Melucci, rese noto di non volervi partecipare definendo “dilettantismo spaccone quello che il Ministro Di Maio ci spaccerà  per trasparenza e democrazia, ma è solo una sceneggiatura ben congegnata per coprire il vuoto di proposte e di coraggio“. Immediata arrivò la replica del ministro Di Maio  il quale spiegò che quel  tavolo sull’ILVA “è stato convocato perché ArcelorMittal ha chiesto di poter illustrare a tutti gli stakeholder le proprie proposte. Per me hanno diritto a partecipare tutte le rappresentanze dei cittadini coinvolti, incluse le associazioni e i comitati che in questi anni hanno svolto un ruolo essenziale. Ed è per questo che li ho invitati”, aggiungendo che il tavolo “non è stato convocato per trasformarsi in un club privato dove si discute nell’oscurità”. e quindi “chi preferisce può liberamente scegliere di non partecipare. Da ministro lo accetto, ma ne trarrò le dovute conseguenze”. Dall’altro versante (quello barese) anche Emiliano ha utilizzato e sfruttato la vicenda ILVA per conquistare visibilità nazionale e cercare consensi a fini elettorali pretendendo nel gennaio 2018 una trattativa sul Piano ambientale dell’ILVA (cioè quello che venne impugnato da Regione e Comune di Taranto), addirittura con il presidente del Consiglio in carica all’epoca dei fatti, il “dem” Paolo Gentiloni,  per ottenere dal Governo una apertura al processo di decarbonizzazione e della applicazione della legge regionale sulla previsione del danno sanitario. “Stiamo chiedendo al governo – disse Emiliano – di rispettare le leggi, la Costituzione, la salute dei cittadini. Se non le avremo il ricorso non sarà mai ritirato“ aggiungendo “un impegno a lavorare in modo positivo sull’Ilva non può che essere preso da Gentiloni in persona“, ed “è il momento che il ministro Calenda  si faccia da parte e ci consenta di dialogare con il presidente del Consiglio che peraltro è l’autore dell’atto (Dpcm sul piano ambientale) impugnato” da Regione Puglia e Comune di Taranto.

Il ricatto economico e le varie “bufale” della Morselli”. Nel corso di questi anni dall’avvento di Lucia Morselli alla guida di Arcelor Mittal Italia, a Taranto nello stabilimento siderurgico è successo di tutto e di più: dalla rimozione e sostituzione dei managers arrivati al seguito del precedente amministratore delegato, alle “black-list” punitive, passando dalle più grosse barzellette del secolo per giustificare i ripetuti mancati pagamenti di Arcelor Mittal alle aziende dell’indotto che lavorano in appalto con la scusa di “problemi informatici”. Il 27 novembre 2019 iniziava la “pagliacciata” (spacciata come conferenza stampa) avente come protagonisti la Morselli con Melucci ed Emiliano. Ascoltare  Emiliano parlare di “Primo risultato importante. Mi auguro cambio di paradigma su salute e tecnologia fabbrica… Io non potrò dimenticare questa giornata, perché è la prima volta in quattro anni che accedo in questi uffici della fabbrica… ringrazio sia l’ad Morselli e i suoi uffici per l’accoglienza…”. per la prima volta mi sono sentito a casa” e Melucci aggiungere “Ricuciti rapporti… Oggi in qualche modo abbiamo scoperto che le distanze sugli obiettivi finali e sulle soluzioni che stiamo tutti quanti ricercando sono meno ampie di quello che immaginavamo prima”” e la la numero uno di Am Italia  Morselli affermare che “L’acciaieria non finisce con un perimetro, esce da questa cerchia in cui sembra definita ed entra nelle case di tutti i dipendenti abbiamo costruito una comunione d’intenti e sappiamo che stiamo insieme“ sconfina nella follia (o meglio, falsità !) di massa. La Morselli in quella occasione aveva dichiarato sulla questione pagamenti ritardati da mesi (per decine di milioni di euro) che c’è stata “qualche difficoltà nei giorni scorsi, non voglio minimizzare perché sono cose molto serie. Con l’aiuto del presidente e del sindaco siamo riusciti a trovare rapidamente una soluzione. Una soluzione anche immaginando un percorso di coordinamento tra realtà produttiva locale e acciaieria di Taranto“. In quella “farsa di conferenza stampa” venne annunciata la costituzione addirittura di una “task force” tra i fornitori dell’indotto ed appalto e l’amministrazione di Arcelor Mittal per evitare malintesi e difficoltà, che si sarebbe dovuta incontrare con cadenza mensile “ma faccio un invito a loro per qualsiasi chiarimento, dubbio: siamo aperti e disponibili tutti i giorni”. Ma probabilmente per avere notizie di questa task force bisogna rivolgersi alla collega Federica Sciarelli a “Chi l’ ha visto ?”! Ma incredibilmente proprio domani le aziende dell’indotto ex Ilva dello stabilimento di Taranto “preoccupate dalla perdurante situazione di incertezza e dal ritardo dei pagamenti, hanno deciso, dopo le ultime dichiarazioni di Arcelor Mittal Italia inerenti la produzione e gli impianti, di chiedere un incontro urgente per domani al Prefetto di Taranto Demetrio Martino di una delegazione di imprenditori della sezione metalmeccanica di Confindustria Taranto” mentre i rappresentanti delle imprese hanno organizzato un sit-in pacifico a partire dalle ore 9 nel rispetto delle norme anti assembramento, sotto la sede della Prefettura tarantina. Al momento le aziende dell’appalto ILVA aderenti a CONFINDUSTRIA Taranto attendono da mesi i pagamenti dello scaduto per oltre 30 milioni di euro , mentre la signora Morselli viaggia insieme al suo “fidato” manager Ponzio direttore degli acquisti, solo e soltanto con voli aerei privati da e per l’ aeroporto di Grottaglie. Mentre gli operai restano a bocca asciutta senza soldi in tasca per far mangiare le proprie famiglie. I fatti dimostrano che le parole della Morselli in conferenza stampa con Michele Emiliano e Rinaldo Melucci e le sue successive assicurazioni ai rappresentanti del governo (Conte bis) altro non erano che menzogne sotto mentite spoglie di affermazioni assolutamente non credibili e degne di un “teatrino” con Arlecchino e Pulcinella!

L’ACCORDO ARCELOR MITTAL- INVITALIA

L’accordo firmato il 15 dicembre 2020 fra Arcelor Mittal e Invitalia aveva di fatto neutralizzato l’esercizio del diritto di recesso da parte del gruppo indiano, corrispondendo circa mezzo miliardo di euro, con un ritorno alla “statalizzazione” della principale acciaieria europea evitando una lite giudiziaria pericolosa qualora il gruppo indiano avesse deciso di andare in Tribunale. La cessione del controllo da Arcelor Mittal a Invitalia era prevista contrattualmente per il 2022, quando era previsto che Invitalia sarebbe salita al 60% delle azioni. Resta da chiedersi come sia possibile acquisire il controllo di un’azienda, il cui principale altoforno produttivo (AFO2) è sottoposto a sequestro giudiziario, e soltanto dopo uno sblocco definitivo del sequestro operato della Procura di Taranto, sarà possibile un passaggio effettivo di proprietà. La fine del piano ambientale, infatti, è prevista nel 2023 anche se negli ultimi giorni ci risultano essere stati sospesi i lavori previsti dall’ AIA.

IL RICATTO FINALE. Nella mattinata di venerdì Arcelor Mittal non avendo ricevuto da Invitalia i 400 milioni iniziali previsti per ‘ingresso dello Stato nel proprio esiguo capitale sociale, aveva disposto “una riduzione dei suoi livelli di produzione ed un rallentamento temporaneo dei suoi piani di investimento. Queste misure saranno in vigore fintanto che Invitalia non adempierà agli impegni presi con l’accordo di investimento”. Nel frattempo la Morselli ha dato ordine alle navi di non scaricare nel porto di Taranto i minerari necessari per il funzionamento dell’ acciaieria, che conseguentemente in pochi giorni si sarebbe spenta. Uno stop giustificato dalla Morselli per “Questo persistente mancato adempimento che sta seriamente compromettendo la sostenibilità e le prospettive dell’azienda e dei suoi dipendenti”. Delle folli decisioni che avrebbe comportato lo slittamento per il riavvio di acciaieria 1, treno nastri 2 e tubificio Erw dello stabilimento di Taranto, mandando in cassa integrazione ulteriori 250 dipendenti, in aggiunta agli attuali 3mila che gravano sul portafoglio dei contribuenti. Decisioni queste adottate secondo Arcelor Mittal, poichè l’accordo di investimento firmato con Invitalia lo scorso 10 dicembre “prevede l’impegno di Invitalia a sottoscrivere e versare un aumento di capitale di euro 400 milioni entro il 5 febbraio 2021 ed una serie di altre misure per sostenere gli investimenti della società”. ArcelorMittal contesta nel suo comunicato che “nonostante la natura vincolante dell’accordo, ad oggi Invitalia non ha ancora sottoscritto e versato la sua quota di capitale e quindi non ha adempiuto agli obblighi previsti dall’accordo“. Per fortuna secondo noi. 24 ore dopo ArcelorMittal ha fatto marcia indietro, probabilmente sotto pressione del Governo, dove questa volta la Morselli deve fare i conti con un ministro come Giancarlo Giorgetti ed un premier come Mario Draghi, e non con gente come Patuanelli, Di Maio e Conte. Quindi comunica ai sindacati che il treno nastri ripartiva nella giornata di sabato 20 marzo, così come pure l’acciaieria 1, ripristinando il numero di addetti preesistente nelle manutenzioni centrali., valutando il riavvio di produzione lamiere 2 e del tubificio Erw ed anche la ripresa di alcune attività date in appalto. E meno male che Arcelor Mittal aveva promesso ai quattro venti di voler investire su Taranto…mentre adesso oltre a non pagare le aziende dell’indotto da mesi, a febbraio non ha neanche versato all’Ilva in amministrazione straordinaria, proprietaria degli impianti, la rata trimestrale del canone di fitto di circa 25 milioni di euro (febbraio, marzo, aprile) sia la parte più o meno dello stesso importo, dei “beni esclusi” cioè (magazzino e pezzi di ricambio). Resta da chiedersi in conclusione come possa uno Stato, un Governo serio con un premier del livello di Mario Draghi e con un ministro autorevole e competente come Giancarlo Giorgetti, farsi piegare da certi ricatti da un’azienda indiana che vuole fare business con i soldi degli italiani, invece che con i propri. E tutto ciò in un momento in cui il prezzo dell’acciaio ha raggiunto i prezzi elevati di mercato del 2005. Gli indiani sanno molto bene che in presenza di un’eventuale chiusura di Taranto, il prezzo dell’ acciaio schizzerebbe alle stelle in tutto il mondo aumentando del 20-25 % in più. Ed i “furbetti” di Arcelor Mittal con le loro aziende presenti in tutto il mondo guadagnerebbero molto di più. Non è un caso infatti che quando Arcelor Mittal annuncio la sua decisione di rivolgersi al Tribunale a Milano per rompere il contratto e lasciare l’ Italia, il titolo in Borsa delle multinazionale franco-indiana arrivò a dei picchi elevati di quotazione e valore che non si era mai visto in precedenza. A questo punto forse sarebbe il caso di mandare a casa Arcelor Mittal e far ritornare lo stabilimento siderurgico ai livelli di produttività e redditività raggiunti dai Riva con un management competente tutto italiano, e senza “zarine” con il grembiulino e compasso a decidere le sorti dell’ acciaio e dell’ economia jonica-pugliese… 

ILVA. CONTINUA LA GUERRA DEL COMUNE DI TARANTO AD ARCELOR MITTAL. Antonello De Gennaro il Corriere del Giorno il 14 Febbraio 2021. Il Tar di Lecce (presidente estensore Antonio Pasca) si è pronunciato ieri sull’ordinanza del sindaco di Taranto Rinaldo Melucci emessa un anno fa, per accattivarsi i consensi dei presunti ambientalisti tarantini, in merito alle emissioni inquinanti dello stabilimento siderurgico, intimando 60 giorni di tempo per chiudere l’altoforno a caldo. Il rilancio dello stabilimento ex ILVA di Taranto dopo la conclusione dell’accordo societario raggiunto fra lo Stato attraverso Invitalia ed il gruppo ArcelorMittal, potrebbe essere ritardato e bloccarsi a causa un’altra dell’ennesimo contenzioso legale avviato questa volta dal Comune di Taranto il cui sindaco Melucci è sempre più “assetato” di protagonismo pre-elettorale pseudo-ambientalista, considerando sopratutto che gli impianti peraltro sono attualmente sotto sequestro giudiziario, ma con facoltà d’uso. Il Tar di Lecce (presidente estensore Antonio Pasca) si è pronunciato ieri sull’ordinanza del sindaco di Taranto Rinaldo Melucci emessa un anno fa, per accattivarsi i consensi dei presunti ambientalisti tarantini, in merito alle emissioni inquinanti dello stabilimento siderurgico, intimando 60 giorni di tempo per chiudere l’altoforno a caldo. Secondo il Tar Puglia, sezione di Lecce è “provato che i fenomeni emissivi sono stati determinati da malfunzionamento tecnico, difettosa attività di monitoraggio e di pronto intervento, nonché criticità nella gestione del rischio e nel sistema delle procedure di approvvigionamento di forniture e di negligente predisposizione di scorte di magazzino” aggiungendo che “dalle risultanze acquisite con la disposta istruttoria si evince altresì che tali criticità e anomalie possono ritenersi risolte solo in minima parte e che, viceversa, permangono astrattamente le condizioni di rischio del ripetersi di siffatti gravi accadimenti emissivi, i quali del resto non possono certo dirsi episodici, casuali e isolati. Permangono – ad esempio le criticità connesse alla mancata sostituzione dei filtri Meep, alla mancata copertura dei nastri trasportatori e dei parchi, nonché il difettoso e/o intermittente funzionamento della rete di rilevamento delle emissioni“. Il nuovo governo Draghi si trova ad affrontare adesso questo problema da risolvere, che è stato sinora gestito in maniera dilettantistica e populistica dai precedenti governi guidati da “Giuseppi” Conte. Una chiusura dell’area a caldo diventa una delle priorità più urgenti da risolvere per evitare le conseguenti ripercussioni sui 10 mila dipendenti dello stabilimento siderurgico tarantino. Il TAR ha condannato con la stessa decisione ArcelorMittal, attuale gestore dell’impianto, che l’ ILVA in amministrazione straordinaria al rimborso delle spese in favore del Comune di Taranto, Codacons ed Arpa Puglia . Dal procedimento sono stati stati estromessi il ministero dell’Interno e la Prefettura di Taranto per difetto di legittimazione passiva. La sentenza del TAR non è però definitiva e verrà impugnata davanti al Consiglio di Stato dal collegio difensivo di Arcelor Mittal composto dagli avvocati Francesco Gianni, Elisabetta Gardini, Antonio Lirosi, e Valeria Pellegrino. Imbarazzante la ridicola capriola di quanti ieri si sono affrettati a esultare per la sentenza, esprimendo soddisfazione . Tutti smemorati, alla ricerca di facile protagonismo del nulla. Qualcuno questa mattina sulla solita prezzolata stampa locale ha scritto che “Melucci non è stato immune da pecche dalla sua elezione ad oggi”, dimenticando di raccontarlo sulle proprie pagine più disponibili ad interviste in ginocchio, ed articoli pubbliredazionali (cioè a pagamento!) . Eppure sarebbe bastato un briciolo di sano giornalismo indipendente per raccontarlo, magari occupandosi dei palesi conflitti d’interesse sotto gli occhi di una città intera, ed una procura collusa cieca ed immobile alla ricerca solo di un palcoscenico mediatico nazionale. Senza un’iniezione di onestà e moralità a 360 gradi, la città di Taranto è condannata a restare una piccola disperata città dell’estremo sud che vive di assistenzialismo pubblico e corruzione dilagante fra i colletti bianchi.

Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 15 febbraio 2021. Il governo Draghi ha un primo, delicatissimo, problema: l'ex Ilva. Il Tar di Lecce, sabato, ha ordinato lo spegnimento entro 60 giorni dell'area a caldo del siderurgico con una sentenza che l'azienda ha già annunciato di voler impugnare. Ma già nei prossimi giorni, se non ore, potrebbe accadere altro: l'impianto è sotto sequestro, con una facoltà d'uso dettata proprio dal cronoprogramma di interventi di ambientalizzazione che erano stati programmati. Quel programma, hanno scritto i giudici del Tar, è nei fatti saltato. E di questo non ha potuto che prenderne atto anche la Procura di Taranto. Nelle prossime ore il pool di pm coordinati dal procuratore aggiunto Maurizio Carbone prenderanno contatti con il custode, Barbara Valenzano, per capire il da farsi: la facoltà d'uso decisa dal tribunale potrebbe essere messa in discussione e così i tempi sullo spegnimento potrebbero accorciarsi, creando ulteriore confusione in una situazione già molto complessa. Il governo Conte aveva stabilito l'ingresso di Invitalia nel capitale dell'ex Ilva accanto ad Arcelor Mittal. Il decreto del Mef, con il quale si stanziavano i 400 milioni necessari per l'operazione, era alla firma del ministro Gualtieri dopo aver ricevuto il via libera della Ragioneria ma in attesa di un parere dell'Avvocatura sulla natura dell'operazione: si trattava di un affare corrente? Il punto è capire che vorrà fare ora il nuovo ministro dell'Economia, Daniele Franco, e il suo collega dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti. Che ieri ha avviato la prima interlocuzione con il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci. Che spiega: «La strada è strettissima: non ci sono alternative allo spegnimento dell'area a caldo. Su questo il Tar è stato chiarissimo, ma sono ancora più chiari i dati che abbiamo e che documentano come l'acciaieria, così, sia insostenibile». Dicono però i sindacati che, in questo momento, lo spegnimento dell'area a caldo, «significa chiudere Ilva» spiega Giuseppe Romano, della Fiom. Che usa i numeri per spiegare la portata della cosa: «Ottomila e 200 dipendenti diretti di Arcelor Mittal, di cui tremila in cassa integrazione. Mille e 600 in cassa da due anni che fanno capo all'amministrazione straordinaria. Più i 3-4mila operai dell'indotto». Tradotto: sono 13 mila persone, soltanto a Taranto, appese a un filo. I numeri a cui fa riferimento il sindaco sono invece quelli contenuti nelle 59 pagine di sentenza del Tar. «Sono stati registrati - si legge - 173 casi di tumori maligni nel complesso delle età considerate (0-23 anni), dei quali 39 in età pediatrica e 5 nel primo anno di vita. In età pediatrica si osserva un numero di casi di tumori del sistema linfoemopoietico totale in eccesso rispetto all'atteso, al quale contribuisce sostanzialmente un eccesso del 90 per cento nel rischio di linfomi, e in particolare linfomi NonHodgkin. Dei 22 casi di tumori del linfoemopoietico totale in età pediatrica 11 sono stati diagnosticati in età 5-9 anni». Tra i 20 e i 29 anni c'è poi un «un eccesso del 70% di incidenza dei tumori della tiroide» ed ancora «i nati da madri residenti nel periodo 2002-2015 sono stati 25.853; nello stesso periodo sono stati osservati 600 casi di Malformazione Congenita, con una prevalenza superiore all'atteso calcolato su base regionale». I giudici amministrativi ne hanno poi anche per la politica, compreso per l'ultimo governo Conte e il ministro dell'Ambiente, Sergio Costa: «È necessario - scrivono - dover stigmatizzare il fatto che a distanza di oltre un anno e mezzo dalle richieste di prevedere il monitoraggio di sostanze come naftalene e particolato PM10 e PM2,5 il relativo procedimento non sia stato ancora concluso e che il Ministero ne abbia ulteriormente differito la conclusione, consentendo nel frattempo la prosecuzione dell'attività». Che fare, ora? Il sindaco Melucci è deciso: «O si cambia rotta subito o l'Ilva non può continuare a lavorare». Il cambio di rotta, per loro, ha un nome e cognome: «Transizione dell'area a caldo a forno elettrico», si legge in un appunto di un tecnico, che da qualche giorno è sulla scrivania degli enti locali. L'ipotesi è quella di «fermare l'area a caldo, mediante un accordo di programma, passando ai forni elettrici che possono essere alimentati dal rottame, derivante in parte dalla demolizione degli stessi impianti dismessi». Qualsiasi strada si decida di prendere, il tempo non c'è più.

Ilva, dieci anni dopo Taranto è senza speranze. Giuliano Foschini su La Repubblica il 15 febbraio 2021. Poche reazioni e sconforto dopo che il Tar ha deciso la chiusura dell’area a caldo. "Riva boia”. “Tumori e disoccupazione made in Ilva”. “Salute vince lavoro”. “Diossina ti odio”.  Parlano i muri di Taranto. Ma anche loro hanno la voce rauca del tempo e della malattia: sono rosa come la polvere dei minerali che volano (volavano) dalle montagne del siderurgico. Scrostati da dieci anni di battaglie, indeboliti dal tempo, anche i murales sembrano aver preso la forma di quello che sta succedendo a una città che sembra non aver più voglia di tifare, e forse nemmeno di lottare: c’erano gli operai che campavano grazie all’acciaio e quelli che morivano per colpa dell’acciaio, sembrava che la dicotomia tra due diritti, la salute e il lavoro, fosse destinata a rompere tutto, e non a caso qui era nato il primo re dei populisti, Mario Cito. C’era la frase che sentivi ovunque, a Roma e a Bari, “Taranto sta per scoppiare”. C’era rabbia e paura. E invece ora tutto questo non c’è più. Che c’è ora? «Rassegnazione, disincanto» dice Giuseppe Romano, operaio e delegato della Fiom, una delle menti pensanti della fabbrica. «Sono dieci anni che sembra dover cambiare tutto. E invece siamo sempre qui: a combattere con la cassa integrazione, con i nostri parenti e amici che si ammalano, con il padrone di turno dell’azienda che ci offre soluzioni a brevissimo termine. Ora come dieci anni fa». «Oggi – spiega un uomo della polizia giudiziaria che sta contribuendo a scrivere la storia di questa città - mi ha chiamato un mio amico, che è un operaio dell’Ilva: “Che altro è successo?” Mi ha chiesto. Gli ho detto, “eh, Enzo, forse succede qualcosa questa volta”. Mi ha risposto: “Ancora, qui non succede mai un ca..o”. Silenzio. “Oggi per la prima volta ho pensato che, forse, tiene ragione». Era l’estate del 2012 quando sembrava che tutto dovesse cambiare. I Riva furono arrestati, gli impianti messi sotto sequestro. Per la prima volta un giudice aveva messo nero su bianco che Taranto era nera - nel senso del cielo, inquinato - e lo era per colpa delle emissioni del siderurgico. Nero era anche il presente e il futuro dei suoi cittadini: si ammalavano più del resto dei pugliesi, e sarebbe accaduto ancora per chissà quanto. “Danno sanitario” si chiama. Sembrava dovesse cambiare tutto. E in effetti tutto è cambiato: via i Riva e dentro lo Stato. Via lo Stato e dentro Arcelor Mittal, anzi no, ora di nuovo dentro lo Stato. Si sono alternati alcuni dei più importanti “capitani coraggiosi” italiani, il prefetto Bruno Ferrante, manager come Enrico Bondi, Enrico Laghi, Piero Gnudi, ora Lucia Morselli. Sono passati governi come automobili su un’autostrada – Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I e Conte II, ora Draghi. I Presidenti del consiglio (Conte) hanno partecipato ai consigli di fabbrica o sono scappati (Renzi) davanti ai contestatori. È stato detto: «Se vinciamo, chiuderemo il mostro» (Di Battista) e «Abbiamo vinto, ma non possiamo farlo» (Di Maio) . Hanno arrestato un procuratore della Repubblica, Carlo Maria Capristo, ora in pensione e sotto processo; mentre quello precedente, Franco Sebastio, dopo la pensione si è invece candidato alle elezioni, senza fortuna. Un processo, anzi IL PROCESSO, quello sul disastro ambientale, è cominciato ma non si è arrivati ancora alle richieste di condanna. In primo grado. Nove anni dopo. Per concludere, è bene annotare che tutto questo è costato 23 miliardi di Pil secondo un calcolo del “Sole 24 ore”, l’1,35 per cento della ricchezza nazionale; si è speso quasi un miliardo di euro, tra opere di ambientalizzazione (come la mastodontica copertura dei parchi minerari), ammortizzatori sociali, compensi agli amministratori. E altri 400 di soldi pubblici sono pronti a essere investiti perché Invitalia sta per entrare nel capitale e affiancare Arcelor Mittal: il provvedimento è alla firma del Mef, ma ora chissà cosa accadrà. Sì, perché in questi nove anni è successo tutto questo. Ma quando si è partiti c’era una fabbrica che inquinava e ventimila operai che rischiavano il posto di lavoro. E oggi c’è sempre una fabbrica che inquina e quindicimila operai (gli altri nel frattempo sono in pensione, hanno un altro lavoro, molti se ne sono andati, e basta) che rischiano il posto di lavoro. «Il futuro vorremmo scriverlo in maniera diversa» dice però il sindaco, Rinaldo Melucci, con una buona dose di ottimismo. Melucci ha firmato il 27 febbraio, dopo la segnalazione di puzza immonda da centinaia di cittadini – anche in questo caso nello scetticismo e il silenzio generale – un’ordinanza che chiudeva l’area a caldo dell’Ilva. Tempo fa sarebbe venuto giù tutto. E invece quasi non se n’è accorto nessuno. Arcelor l’ha impugnata al Tar sostenendo, con l’appoggio di Ministero e Ispra, che odori ed emissioni non erano loro riconducibili. E tutti erano convinti che sarebbe finita nell’ennesima palude. E invece no: il tribunale amministrativo ha dato ragione al Comune ma soprattutto piazzato schiaffi a tutti. Ad Arcelor, al vecchio governo, agli organi di controllo (Ispra), dando 60 giorni di tempo per spegnere tutto. L’azienda ha annunciato ricorso al Consiglio di Stato. Spiegando che «la fermata dell’area a caldo comporterebbe in ogni caso un totale blocco della produzione dello stabilimento, la cui produzione, a norma di legge, è invece assolutamente necessaria a mantenere e salvaguardare l’unico impianto sul territorio nazionale a “ciclo integrato” per la produzione di acciaio». Tradotto, se spegniamo, chiudiamo. E mandiamo a mare mezza industria italiana. Anche in questo caso, silenzio. Non un ministro, non una manifestazione, qualche voce preoccupata di Confindustria e sindacato, qualche ambientalista incavolato. «Se succede? Succede», dice Marco De Giorgio, fuori dai cancelli, ci sono quattro gradi e molto vento. «Ci daranno la cassa integrazione, magari è meglio di questo limbo». Il Comune ha pronto un piano di transizione verso i forni elettrici, la Procura si è mossa ufficialmente e potrebbe chiedere la revoca della facoltà d’uso (la cokeria è sotto sequestro), Massimo Bray, l’ex ministro della Cultura, che è venuto in Puglia a fare l’assessore di Michele Emiliano con Taranto nella testa e l’Europa all’orizzonte, ragiona: «Non si può pensare al futuro senza essere convinti di non essere soli. Taranto è una città che ha bisogno di innovazione e di prevenzione, che sono parole che possono sembrare diverse ma in realtà si assomigliano». Ecco, la maledizione di Taranto è diventata quella di non credere più alle parole. «Ci avete rotto le cozze» è scritto verso il porto. La verità è sempre sui muri.

Ex Ilva, appello Confindustria: «Evitare spegnimento area a caldo». Procura: «I consulenti hanno venduto Taranto ai Riva». «Interrompere la produzione e la fornitura dell’acciaio prodotto a Taranto mette in seria difficoltà le intere filiere della manifattura italiana che ne hanno necessità». La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Febbraio 2021. Non fermare la produzione perché in gioco non è solo lo stabilimento di Taranto ma il futuro della siderurgia in Italia. E’ il grido d’allarme lanciato sia da Confindustria che da Federacciai dopo la sentenza del Tar di Lecce che intima ad ArcelorMittal lo spegnimento dell’area a caldo dello stabilimento di Taranto nel rispetto dell’ordinanza sulle emissioni del sindaco Rinaldo Melucci. La fermata forzata degli impianti, sottolineano fonti legali vicine al dossier ArcelorMittal, «senza la disponibilità di una stazione di miscelazione azoto e metano, non permetterebbe la tenuta in riscaldo dei forni e ne conseguirebbe il loro crollo e quindi la distruzione dell’asset aziendale di proprietà di Ilva in Amministrazione Straordinaria». Le stesse fonti evidenziano "rischi per la sicurezza» e il fatto che ci sarebbe un «totale blocco della produzione dello stabilimento, qualificato di 'interesse strategico , l’unico sul territorio nazionale a 'ciclo integratò per la produzione di acciaio». Confindustria chiede di «evitare lo spegnimento del ciclo integrale a caldo dell’ex Ilva. Interrompere la produzione e la fornitura dell’acciaio prodotto a Taranto mette in seria difficoltà le intere filiere della manifattura italiana che ne hanno necessità». Inoltre, prosegue la confederazione, si avrebbe «un sicuro e rilevante aggravio della bilancia commerciale nazionale, poiché occorrerebbe importare l’acciaio dall’estero». Ed ancora: «la chiusura nell’immediato vanificherebbe tutti gli sforzi compiuti per limitare il numero di esuberi, mettendo a serio rischio migliaia di lavoratori e famiglie» e sarebbe anche «vanificato in maniera traumatica e definitiva il processo di investimenti intrapreso per la sostenibilità ambientale della produzione». Il presidente di Federacciai Alessandro Banzato esprime «forte preoccupazione» e auspica «che venga adottata una sospensiva di questa sentenza e che il Governo appena incaricato si adoperi per evitare lo spegnimento del più grande stabilimento siderurgico italiano». Il termine di 60 giorni concesso dal giudice amministrativo per ottemperare all’ordinanza sindacale scade il 14 aprile, ma l'azienda - che pure ha annunciato un ricorso al Consiglio di Stato - è chiamata comunque a predisporre entro quella data le procedure tecniche per una eventuale conferma allo stop degli impianti. Il segretario nazionale Fim Cisl Roberto Benaglia ha dichiarato in una intervista radiofonica che «l'azienda ha già comunicato informalmente nel week end l’avvio della messa in sicurezza di alcune attività produttive». Anche la Procura di Taranto, a quanto si apprende, sta seguendo l’evolversi della vicenda dopo aver acquisito la sentenza del Tar che ha definito il pericolo per la popolazione legato alle emissioni del Siderurgico «permanente ed immanente». Nel provvedimento del giudice amministrativo si afferma che lo stabilimento, che ora vede lo Stato, tramite Invitalia, affiancare nella gestione ArcelorMittal, inquina ancora. E si puntualizza che nemmeno il rispetto dell’Aia comporta «di per sé garanzia della esclusione del rischio o del danno sanitario». Secondo i sindacati metalmeccanici, che hanno già annunciato una richiesta di incontro al ministro per la Transizione Ecologica Roberto Cingolani, chiudere l’area a caldo a Taranto significherebbe chiudere anche i siti di Genova e Novi Ligure, con il rischio di «perdere 20mila posti di lavoro».

A.MITTAL: RISCHIO CROLLO FORNI E DISTRUZIONE ASSET DI TARANTO. Il Corriere del Giorno il 15 Febbraio 2021. ArcelorMittal Italia in relazione alla sentenza emessa dal TAR della Puglia, ha comunicato che “promuoverà immediatamente appello presso il Consiglio di Stato contro la chiusura dell’area a caldo dello stabilimento di Taranto”. La fermata forzata degli impianti, disposta dal Tar di Lecce “senza la disponibilità di una stazione di miscelazione azoto e metano, non permetterebbe la tenuta in riscaldo dei forni e ne conseguirebbe il loro crollo e quindi la distruzione dell’asset aziendale di proprietà di Ilva in Amministrazione Straordinaria“. Lo si apprende da fonti legali vicine al dossier Arcelor Mittal, che evidenziano “rischi per la sicurezza“. Con l’ordinanza del 27 febbraio 2020 il sindaco Melucci imponeva alla società che gestisce lo stabilimento siderurgico ex Ilva, oltre che all’Ilva spa in amministrazione straordinaria, di “individuare gli impianti interessati dai fenomeni emissivi, eliminando gli eventuali elementi di criticità e le relative anomalie entro 30 giorni“. In caso di mancata ottemperanza, il provvedimento ordina, qualora siano state individuate le sezioni di impianto oggetto di anomalie, “di avviare e portare a completamento le procedure di sospensione/fermata delle attività nei tempi tecnici strettamente necessari a garantirne la sicurezza e comunque non oltre 60 giorni” a partire da oggi “degli impianti come sopra individuati”. Il 24 aprile 2020 il Tribunale Amministrativo Regionale, aveva accolto l’istanza cautelare presentata da Arcelor Mittal e, quindi, aveva sospeso l’efficacia dell’ordinanza del sindaco. I 60 giorni per completare lo spegnimento degli impianti inquinanti dell’area a caldo decorrono dal 13 febbraio, giorno delle pubblicazione della sentenza del Tar. ArcelorMittal Italia in relazione alla sentenza emessa dal TAR della Puglia, ha comunicato che “promuoverà immediatamente appello presso il Consiglio di Stato contro la chiusura dell’area a caldo dello stabilimento di Taranto“. Sulla spinosa vicenda è intervenuta anche Confindustria: “Bisogna evitare lo spegnimento del ciclo integrale a caldo dell’ex Ilva“. per il fatto che ci sarebbe un “totale blocco della produzione dello stabilimento, qualificato di ‘interesse strategico , l’unico sul territorio nazionale a ‘ciclo integrato’ per la produzione di acciaio”. Inoltre, prosegue la confederazione, si avrebbe “un sicuro e rilevante aggravio della bilancia commerciale nazionale, poiché occorrerebbe importare l’acciaio dall’estero”. ricordando che “la chiusura nell’immediato vanificherebbe tutti gli sforzi compiuti per limitare il numero di esuberi, mettendo a serio rischio migliaia di lavoratori e famiglie” e quindi sarebbe anche “vanificato in maniera traumatica e definitiva il processo di investimenti intrapreso per la sostenibilità ambientale della produzione”. Il presidente di Federacciai Alessandro Banzato esprime “forte preoccupazione e auspica che venga adottata una sospensiva di questa sentenza e che il Governo appena incaricato si adoperi per evitare lo spegnimento del più grande stabilimento siderurgico italiano”. Il segretario nazionale Fim Cisl Roberto Benaglia ha dichiarato in una intervista radiofonica che “l’azienda ha già comunicato informalmente nel week end l’avvio della messa in sicurezza di alcune attività produttive”. Da quanto si apprende (non in via ufficiale) anche la Procura di Taranto priva di procuratore capo in attesa che il CSM si decida dopo 5 mesi di “vacatio” a nominarlo, starebbe seguendo l’evolversi della vicenda dopo aver acquisito la sentenza del Tar. Resta da capire quale sarebbe la competenza della Procura su un atto amministrativo. Anche se notoriamente fra i magistrati jonici c’è sempre la voglia di protagonismo mediatico sopratutto sulle vicende legale all’ ILVA. Nel provvedimento del giudice amministrativo si afferma che lo stabilimento, che ora vede lo Stato, tramite Invitalia, affiancare nella gestione ArcelorMittal, inquina ancora. E si precisa che nemmeno il rispetto dell’Aia comporta “di per sé garanzia della esclusione del rischio o del danno sanitario”. Un parere che contrasta con il precedente “semaforo verde” all’utilizzo rilasciato dalla Procura. Secondo i sindacati metalmeccanici che hanno già annunciato una richiesta di incontro al ministro per la Transizione Ecologica Roberto Cingolani, chiudere l’area a caldo a Taranto significherebbe chiudere anche i siti di Genova e Novi Ligure, con il rischio di “perdere 20mila posti di lavoro”. Un rischio che difficilmente il Governo Draghi vorrà correre.

IL CASO ILVA: I SOLITI LAMENTI DEGLI INCOMPETENTI PARLANTI. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 14 Marzo 2021. Melucci ci querela senza mai accettare di farsi intervistare da noi in diretta video (senza suggeritori e “staffisti” intorno…). Non ha ancora capito cosa significa fare il sindaco e che la libertà di stampa si rispetta. Non si compra come fa lui con i pennivendoli e giornaletti locali. Mai e poi mai mi sarei immaginato di dover prendere le difese, giornalisticamente parlando di Arcelor Mittal Italia, Ilva in A.S. ed Invitalia, società queste con le quali il nostro giornale, a differenza di molta stampa nazionale cosiddetta stampa locale, non ha mai avuto alcun rapporto economico o pubblicitario. Ma qualcuno deve pur parlare di certe cose. Il caso Ilva è da molto tempo una questione spinosa per molti dei Governi che si sono succeduti, che hanno dovuto fare i conti con pseudo associazioni ambientalisti tarantini guidate da capipopolo con ambizioni elettorali o economiche, e con una certa magistratura sinistrorsa e poco equilibrata desiderosa di avere una visibilità sul palcoscenico giornalistico nazionale. Occorre una doverosa premessa. E’ stato grazie a qualche solerte e silenzioso magistrato poco avvezzo ai titoli e fotografie sui giornali, e ad alcuni solerti investigatori della polizia giudiziaria, se sono venute alla luce tutta una serie di nefandezze e collusioni fra la politica pugliese, la stampa locale ed i vari gestori succedutisi alla guida dello stabilimento siderurgico. Ma adesso forse è arrivato il momento di dire: “zitti tutti, parla lo Stato !”. Solo un ignorante o un incapace non può rendersi conto che sulle vicende dello stabilimento ILVA di Taranto, ballano le sorti di circa 20.000 (fra dipendenti diretti ed indiretti dell’ appalto) lavoratori e delle loro famiglie nella provincia di Taranto e di Genova, ed il futuro di circa 300 aziende dell’indotto, molte dei quali “monoILVA” cioè che lavorano solo per il siderurgico più grosso d’Europa. La Gazzetta del Mezzogiorno, quotidiano regionale “fallito” con oltre 50 milioni di euro di debiti e meno di 10mila copie vendute al giorno in un territorio che annovera oltre 6 milioni di cittadini residenti, da sempre allineato ed al servizio degli pseudo-ambientalisti ed a alcuni magistrati assetati di protagonismo, tempo fa titolò “Se chiude l’ ILVA chiude Taranto”. Un titolo che deve aver dimenticato, guardando i suoi articoli… successivi. Abbiamo visto in passato non pochi giornalisti corrotti e collusi, che erano sul libro paga della famiglia Riva, e che oggi hanno solo cambiato datore di lavoro, passando alle dipendenze economiche-pubblicitarie dell’ Amministrazione comunale più corrotta di Puglia. Solo Dio sa quanto mi costa dare ragione a Marco Travaglio e ricordare cosa disse dal palco del Concertone del 1 maggio a Taranto, quando accusò l’indipendenza dell’informazione in terra jonica “La stampa non è libera perchè condizionata dalla pubblicità“. Aveva ragione lui ! Qualcuno però dovrebbe aggiornare il collega Travaglio e fornirgli qualche visura camerale…di alcune società tarantine e consultare non poche determine dirigenziali – “mancette” con le quali il Sindaco Melucci da oltre tre anni “foraggia” i soliti markettari e giornaletti da quattro soldi manipolando e ricattando (economicamente parlando) la stampa locale. E’ imbarazzante leggere le dichiarazioni del sindaco Melucci, “ras” incontrastato dei conflitti d’interesse, dei rifiuti di accesso agli atti amministrativi, di incarichi a staffisti del cuore o dalla tessera PD in tasca, affermare che Invitalia dovrebbe vergognarsi (per la precisione “si dice esterrefatto da Invitalia, un pezzo di Stato, con tanti interessi a Taranto, che opera in maniera non trasparente e si associa ad ArcelorMittal“) .di aver affiancato Arcelor Mittal Italia ed Ilva in Amministrazione Straordinaria dinnanzi al Consiglio di Stato che ancora una volta ha sospeso le folli decisioni di un TAR (quello di Lecce) molto chiacchierato, e ripetutamente smentito a Palazzo Spada dal massimo organo giudicante, in materia amministrativa. Melucci non ha il minimo senso del pudore arrivando ad attaccare persino il presidente del consiglio Draghi, la quale lui non potrebbe fare neanche da autista ! Dice Melucci: “L’unica certezza è che noi fermeremo l’area a caldo dello stabilimento siderurgico, con ogni mezzo possibile, ogni giorno sarà una pena per loro e per chi intenderà danneggiare ancora la vita dei tarantini e interferire con la svolta della città”.  Resta da capire chi sarebbe il “noi” ! Forse qual gruppetto di “nominati” che fanno gli assessori al Comune di Taranto senza alcuna competenza e capacità, se non per manifesto servilismo? E’ semplicemente ridicolo e vergognoso leggere dichiarazioni di un primo cittadino contro le decisioni dello Stato, cioè di un’istituzione ed un potere a lui superiore, ma ormai a Taranto alle sue dichiarazioni tanto per aprire bocca, non ci fa caso più nessuno. Melucci ha iniziato da tempo la sua campagna elettorale clientelare, ma questa volta la sta facendo con i soldi dei contribuenti di Taranto, cioè anche di coloro che non lo hanno votato e mai lo voterebbero. Ed un giorn. potrebbe risponderne dinnanzi alla Corte dei Conti insieme ai suoi dirigenti appecorinati. Mi chiedo se questo Sindaco è la stessa persona che voleva rilevare con lo Ionian Shipping Consortium la società del Gruppo ILVA che si occupava di trasporti marittimi ? Se è il figlio di quel Melucci consulente della società Meridian Shipping (ex Melucci Shipping) che ha lavorato per la società Cimolai mentre realizzava la copertura dei parchi minerari dello stabilimento siderurgico di Taranto ? Mi chiedo se è lo stesso sindaco Melucci che il 26 novembre 2019 insieme a Michele Emiliano partecipava ad una conferenza stampa con Arcelor Mittal ed il suo amministratore delegato Lucia Morselli, dichiarando “Dissolta la nebbia tra fabbrica e comunità” allineandosi a Emiliano: “Primo passo, oggi qui mi sento a casa” ? O forse a quel tavolo invece di Melucci c’era il sergente Garcia? A proposito cari lettori, concludendo permettetemi di chiedermi una cosa: come mai Melucci ci querela senza mai accettare di farsi intervistare da noi in diretta video (senza suggeritori e “staffisti” intorno…). Non ha ancora capito cosa significa fare il sindaco e che la libertà di stampa si rispetta. Non si compra come fa lui con i pennivendoli e giornaletti locali. O forse ha paura di essere ridicolizzato ? Lascio a voi ogni considerazione!

IL CONSIGLIO DI STATO SOSPENDE LA DECISIONE DEL TAR PUGLIA: L’ILVA NON SI SPEGNE Il Corriere del Giorno il 12 Marzo 2021. ArcelorMittal Italia gestore dello stabilimento siderurgico (di proprietà di ILVA in A.S.) ha sostenuto nel ricorso che le relazioni Ispra confermarono il rispetto delle prescrizioni Aia, ed in conseguenza della pronuncia del Consiglio di Stato, con una nota ha precisato di non avere, “l’obbligo di avviare la fermata dell’area a caldo dello stabilimento di Taranto e degli impianti connessi” . La quarta sezione del Consiglio di Stato, ha accolto la richiesta di sospensiva presentata da ILVA in A.S. ed ArcelorMittal, contro la chiusura dell’area a caldo dello stabilimento siderurgico di Taranto, rinviando la decisione finale all’udienza di merito che si terrà il prossimo 13 maggio. L’ordinanza del sindaco di Taranto Rinaldo Melucci, emessa il 27 febbraio del 2020, venne sospesa dal TAR Puglia il successivo 24 aprile a seguito dei ricorsi di ArcelorMittal e ILVA in A.S., che vennero invitate dal tribunale amministrativo pugliese, sezione di Lecce, a consegnare entro il 7 ottobre dello scorso anno della ulteriore documentazione. Ma secondo il TAR Puglia gli elementi forniti non erano stati ritenuti sufficienti per dimostrare che le criticità erano state rimosse. La decisione dell’organo giudiziario-amministrativo centrale, di fatto annulla gli effetti della sentenza del Tar di Lecce che aveva imposto di procedere entro 60 giorni dalla notifica, cioè entro il 14 aprile, alla fermata degli impianti dando seguito alla strumentale (pre-elettoralmente parlando) ordinanza sulle emissioni firmata dal sindaco di Taranto Rinaldo Melucci che è un agente marittimo e quindi sprovveduto sulle problematiche ambiente, industria ed inquinamento. Il provvedimento del sindaco di Taranto Melucci voleva imporre ad ArcelorMittal ed ILVA in A.S. di individuare e risolvere entro 30 giorni le criticità delle emissioni e, in difetto di adempimento, di procedere entro i successivi 30 giorni alla fermata dell’area a caldo (Altiforni, Cokerie, Agglomerazione e Acciaierie, compresi eventuali impianti funzionalmente connessi). Melucci partendo dalla denuncia del sindacato USB in merito allo sforamento di valori registrato in quattro giorni di agosto del 2019 (5, 17, 18 e 19) per le emissioni in atmosfera dal camino E312 di ripetuti fenomeni emissivi con rischi per la salute della popolazione, con la sua ordinanza in realtà cercò di cavalcare l’ondata ambientalistica tarantina. ArcelorMittal Italia gestore dello stabilimento siderurgico (di proprietà di ILVA in A.S.) ha sostenuto nel ricorso che le relazioni Ispra confermarono il rispetto delle prescrizioni Aia, ed in conseguenza della pronuncia del Consiglio di Stato, con una nota ha precisato di non avere, “l’obbligo di avviare la fermata dell’area a caldo dello stabilimento di Taranto e degli impianti connessi” aggiungendo che “L’attività produttiva dello stabilimento può dunque proseguire regolarmente”.

GLI ANNUNCI “A VUOTO” DEL COMUNE DI TARANTO. IL TAR SCONFESSA L’OPERATO DELL’ AMMINISTRAZIONE MELUCCI.

Il Corriere del Giorno il 20 Febbraio 2021. Dalla lettura della sentenza del TAR Puglia emerge ancora una volta l'”allergia” alla trasparenza degli uffici comunali, che puntualmente rifiutano le istanze di accesso agli atti amministrativi, nel vergognoso tentativo di nascondere le varie nefandezze ed illegalità dell’operato del Comune di Taranto. “Chi TAR ferisce, di Tar perisce” si potrebbe sintetizzare dopo l’ennesima pessima figura sopratutto sul piano istituzionale e della dovuta (mancata) trasparenza degli uffici comunali di Taranto. Appena 48 ore prima i soliti proni giornali locali, destinatari di tanta pubblicità dalla Giunta Melucci, annunciavano la “piena attività” del cantiere “per il restauro e la rifunzionalizzazione di Palazzo degli Uffici, oggi denominato Palazzo Archita”. Peccato che dopo sole 24 ore è arrivata la “doccia fredda” dal TAR di Puglia, sezione di Lecce cioè lo stesso tribunale a cui il sindaco Rinaldo Melucci si era rivolto contro l’ ILVA ed Arcelor Mittal. Chiaramente i “giornaletti” locali ben si sono guardati dal darne notizia, e come sempre ci pensa il CORRIERE DEL GIORNO a ripristinare la verità per una corretta informazione su quanto accade nella città di Taranto, dove, come diceva anche il direttore del FATTO QUOTIDIANO, Marco Travaglio (in occasione del concertone del 1 maggio n.d.r.) “la stampa a Taranto non è libera in quanto comprata dalla pubblicità !“. Dichiarazione pesante davanti alla quale nessuno fiatò, tutti zitti, compreso l’ Ordine pugliese dei Giornalisti e tantomeno quella “specie” di sindacato che si chiama Assostampa di Puglia! Dalla lettura della sentenza del TAR Puglia emerge ancora una volta l'”allergia” alla trasparenza degli uffici comunali, che puntualmente rifiutano le istanze di accesso agli atti amministrativi, nel vergognoso tentativo di nascondere le varie nefandezze ed illegalità dell’operato del Comune di Taranto . Altra circostanza altrettanto vergognosa è il silenzio e l’immobilismo della Procura di Taranto, all’interno della quale regnano (per quanto ancora ?) palesi imbarazzanti conflitti d’interesse causati da mogli e mariti di magistrati sul libro paga di enti ed aziende partecipate dall’ amministrazione comunale. E’ proprio il caso di dire “Taranto capitale della monnezza” o meglio dell’illegalità. Ma fino a quando?

·        Succede ad Avetrana.

Comunali 2021, dopo tre successi consecutivi, scompare dalla competizione il centrodestra. Manduria Oggi il 7 settembre 2021. Ora, comunque, il suo elettorato potrà determinare l'elezione a sindaco.  Alessandro Scarciglia: «Quello che è accaduto ad Avetrana è qualcosa di sconcertante e assurdo» Dopo tre successi consecutivi nelle ultime tre tornate elettorali amministrative, ecco servito il colpo di scena: il centrodestra non si presenta alle Comunali. Abbiamo raccolto, a tal proposito, il commento di Alessandro Scarciglia, vice sindaco uscente. «Quello che è accaduto ad Avetrana è qualcosa di sconcertante e assurdo» afferma Alessandro Scarciglia. «Dal mio punto di vista non ci sono colpe da attribuire a singole persone o gruppi politici. Si intravede, invece, un’assenza totale della politica nel centrodestra locale. Evidentemente il problema non può essere identificato o ritrovato nell’ultimo mese o nell’ultimo anno. L’assenza delle locali sezioni dei partiti politici e, quindi, della condivisione di idee e progetti, ha lasciato spazio a personalismi e individualismi che, come abbiamo potuto constatare, dividono invece di unire. Il non credere o lottare più per qualcosa di condiviso e programmato ha creato distanze nette tra la politica e il proprio elettorato trasmettendo, al momento della preparazione delle liste, paura e diffidenza». Anche se non avrà un proprio rappresentante nella contesa, l’elettorato di centrodestra quasi certamente, se non dovesse decidere di non partecipare alla consultazione, determinerà il successo di uno o dell’altro schieramento. «In paesi come quello di Avetrana, in cui si contendono la vittoria delle elezioni amministrative solo due liste, il risultato può essere deciso dallo scostamento di pochissimi voti. E’ alquanto ovvio che l’elettorato di centrodestra, orfano di propri rappresentanti in questa tornata elettorale, ricoprirà un ruolo fondamentale e, credo, decisivo». Il centrodestra, dunque, sarà spettatore in queste ormai imminenti consultazioni amministrative. L’anno zero, insomma, dal quale però costruire il futuro. «Il centrodestra avetranese ha l’obbligo, nei prossimi cinque anni, di ricostruire un progetto comune condiviso, ripartendo proprio dalla politica, dalla base, dai cittadini: incontri costanti e confronti quotidiani dovranno essere i pilasti fondamentali su cui costruire la nuova casa politica e, magari, la nuova classe dirigente».

Quattro candidati sindaci per Torricella e Avetrana (dove scompare il centrodestra). Ecco i candidati consiglieri che si batteranno nei due comuni alla conquista di un posto in Consiglio comunale. La Voce di Maruggio lunedì 06 settembre 2021. Nel prossimo consiglio comunale di Avetrana non ci sarà il centrodestra che non si presenta alle elezioni del prossimo 3 e 4 ottobre contese da due schieramenti civici, uno di centrosinistra e l'altro di diverse estrazioni della società civile che affideranno le sorti del comune rispettivamente all’ex sindaco Luigi Conte e al giovane Antonio Iazzi.

Ecco i candidati consiglieri che si batteranno nei due comuni alla conquista di un posto in Consiglio comunale.

Avetrana

Antonio Iazzi è rappresentato dalla lista civica “R-Innoviamo Avetrana” così composta: Addabbo Giuseppe, Alfarano Vito, Carrozzo Mariella, Giangrande Pietro, Mangione Santo, Marchetti Elisabetta, Melinossa Giovanni, Micelli Emanuele, Nigro Emanuele, Nigro Giovanna, Saracino Francesco, Scredo Claudia. 

Luigi Conte, con la civica “Rilanciamo Avetrana” composta da: Addabbo Patrizio, Buccolieri Vincenzo Daniele, Carrozzo Silvia, Di Cursi Roberto, Gioia Stefano, Ingrosso Valentina, Lanzo Antonio, Leo Gianluca, Lomartire Vito, Petracca Rosaria, Tarantini Martina, Vacca Lucia.

Avetrana, corsa fra due liste di centrosinistra. Tarantobuonasera.it giovedì 30 Settembre 2021. Avetrana va al voto il 3 e il 4 ottobre prossimi orfana di sindaco. Antonio Minò, eletto nel 2016, è morto a 61 anni il 17 settembre scorso, a causa del Covid, dopo una lotta col virus durata alcuni mesi. Una triste notizia piombata durante la campagna elettorale, che ha suscitato commozione fra i cittadini e fra le diverse forze politiche. Tutti, in segno di lutto, hanno subito sospeso per alcuni giorni gli appuntamenti in segno di rispetto e anche in adesione al lutto cittadino. Con la scomparsa del primo cittadino, il testimone dell’’Amministrazione comunale è passato al vicesindaco Alessandro Scarciglia in attesa dello svolgimento delle elezioni. Le comunali del 3 e 4 ottobre vedono in campo soltanto liste di centrosinistra. Clamorosa, invece, l’assenza di liste di centrodestra, dopo tre tornate elettorali che lo vedevano vittorioso. Lo scorso agosto sembrava tutto pronto per una lista a sostegno del candidato sindaco Enzo Tarantino, noto avvocato del posto. Invece non è stata presentata nessuna lista e i partiti di centrodestra faranno da spettatori, mentre gli elettori dell’area potrebbero risultare decisivi per la vittoria. A contendersi la fascia tricolore di primo cittadino saranno soltanto due candidati. L’ex sindaco di Avetrana e consigliere provinciale Luigi Conte, alla guida della lista civica di area centro sinistra “Rilanciamo Avetrana” e il professore universitario Antonio Iazzi sostenuto alla lista civica “R-innoviamo Avetrana” che raggruppa diversi candidati espressione dell’area di centrosinistra. I due competitor in queste settimane si sono confrontati soprattutto sui temi dello sviluppo del piccolo centro della provincia ionica, sulle proposte di rilancio dell’economia del territorio e dei suoi settori strategici, soprattutto l’agricoltura e il turismo le cui potenzialità non sono state finora sufficientemente sfruttate considerando la vicinanza di località turistiche del Leccese che in estate fanno il pienone.

L’esigenza prioritaria della comunità è quella di puntare sul turismo facendo leva sui punti di forza del territorio (mare e bellezze naturali). Tutto ciò in attesa dell’adozione del nuovo Piano urbanistico generale e della riqualificazione del centro storico e delle periferie. Gli interventi dell’ultima amministrazione, invece, hanno restituito al paese edifici scolastici riqualificati, con la ririapertura della materia di via D’Aosta, rimasta chiusa per alcuni anni e l’efficientamento energetico della “Giovanni XXIII”.

Luigi Conte, 60 anni, medico di medicina generale, è il candidato sindaco della lista Rilanciamo Avetrana espressione di diverse forze di centrosinistra, il Partito Democratico, il Movimento 5 stelle, LeU. E’ stato sindaco di Avetrana per due mandati e consigliere provinciale del Pd per tre legislature.

Antonio Iazzi, 51 anni, è professore associato di Economia e Gestione delle imprese all’Università del Salento, revisore dei conti con esperienze negli enti locali. E’ il candidato sindaco della Lista R-Innoviamo Avetrana, un progetto civico che racchiude diverse componenti dell’area di centro sinistra anche se c’è chi considera la lista trasversale.

Trame e trappole dietro le comunali di Avetrana. I veti e i personalismi e gli accordi trasversali nella competizione per le amministrative. La Voce di Manduria - lunedì 20 settembre 2021. (Quelli più a lui vicini che oggi piangono Antonio Minò erano coloro che volevano fargli le scarpe. Già si parlava di doppia lista nel centrodestra. Da una parte Antonio Minò e dall'altra Alessandro Scarciglia. Antonio Minò mi diceva: questi qua senza di me non sanno presentare nemmeno la lista. E' così è avvenuto. Perchè 12 candidati si trovano anche all'angolo della strada: perchè più incompetenti si è, più si aspira ad essere candidati.  N.d.a). “Clamoroso: ad Avetrana scompare il centro-destra”. “Il centro-destra avetranese, dopo tre successi amministrativi consecutivi, non si presenta alle comunali 2021”. Erano questi i titoli dei giornali e dei post sui social che nei giorni scorsi hanno fotografato la realtà politica avetranese destando non poco clamore e sorpresa. Ma cosa è successo davvero di così clamoroso e “strano” nella cittadina avetranese nei giorni immediatamente precedenti alla presentazione delle liste per le amministrative 2021? Come è stato possibile che una compagine amministrativa sulla cresta dell’onda politica da 15 anni si sia sciolta così improvvisamente evaporando improvvisamente in un batter d’occhio? Complici, forse, la sentita commozione e il sincero dolore di un’intera cittadina di fronte ai funerali del sindaco Antonio Minò, nel muro di silenzi e di sconcerto che ha caratterizzato i giorni scorsi si è pian piano creata una breccia che sta facendo filtrare indiscrezioni e ricostruzioni molto interessanti. Partiamo da lontano: il nome di Antonio Iazzi come candidato sindaco di una lista “trasversale” era già nota a tutti da tempo (almeno fin da marzo scorso), così come non era un mistero che a sostegno di tale candidatura lavorassero in prima linea il consigliere comunale uscente (di area centrosinistra) Emanuele Micelli e il noto imprenditore avetranese Pietro Giangrande. Non solo: in tanti ad Avetrana erano a conoscenza che nella lista capeggiata da Antonio Iazzi sarebbero confluiti almeno due componenti dell’amministrazione di centrodestra uscente: Francesco Saracino e Claudia Scredo (cosa poi effettivamente avvenuta). Voci e nomi che si rincorrevano incessantemente ad Avetrana fin quando, nella seconda metà di agosto, l’avvocato Enzo Tarantino rompe gli indugi e ufficializza in pompa magna la propria candidatura a sindaco addirittura “d’intesa con altri gruppi politici locali”. Cosa aveva spinto Tarantino (poi ritiratosi e sparito dalle scene al momento di presentare la sua lista elettorale) a ufficializzare per primo la propria volontà di correre alle amministrative? In base alle nostri fonti, Enzo Tarantino avrebbe fatto il grande passo pubblico forte di accordo politico proprio con Antonio Iazzi il quale, riferiscono i beninformati, avrebbe prima tentennato e poi rinunciato alla propria candidatura a sindaco, confluendo proprio nella lista (già pronta da tempo, assicuravano in tanti) a sostegno di Tarantino e facendo così naufragare il progetto portato avanti da mesi da Emanuele Micelli e Pietro Giangrande, definiti da molto come i veri “deus ex machina” politici dietro ad Antonio Iazzi. Si giunge agli ultimi giorni utili per la presentazione ufficiale delle liste e accade qualcosa di “tumultuoso” (alcune voci, non confermate, parlano addirittura di sedie volate per aria): Antonio Iazzi torna sulle sue posizioni iniziali, abbandona la lista di Enzo Tarantino e ufficializza la volontà di correre per la carica di sindaco di Avetrana, azzoppando così il progetto politico di Tarantino e svuotandogli così una cospicua parte della sua lista elettorale: è il via libera definitivo ai propositi del duo Giangrande-Micelli, creare un’unica lista “trasversale” senza l’intralcio di una lista di centrodestra con cui competere. Nessun’altra lista di centrodestra, appunto! Perché nelle stesse ore si era consumato il “suicidio politico” del vice-sindaco uscente Alessandro Scarciglia che, sempre secondo le insistenti voci susseguitesi in quei movimentati giorni, era riuscito nella non facile impresa di farsi respingere sia dalla poi naufragata lista di Enzo Tarantino (Scarciglia avrebbe nientemeno chiesto di essere candidato a sindaco proprio al suo posto), sia dalla resuscitata lista Iazzi-Giangrande-Micelli, dove proprio quest’ultimo avrebbe imposto il proprio veto alla presenza di Scarciglia (il classico “o lui o io”). Ed è forse a questo che alludeva Scarciglia quando, appurato che per lui non vi erano più spazi di manovra, ha parlato pubblicamente di “personalismi ed individualismi che dividono invece di unire”. Sospetti ed accuse che non finiscono qui: in tanti ad Avetrana, specialmente tra i più avvezzi alla politica locale, si spingono oltre, giurando che dietro le vicende dei mesi scorsi, fatte di tira e molla, pensamenti e ripensamenti, adesioni e disdette a liste più o meno pronte, voci e candidature date per certe e poi evaporate nell’aria, ci sia stato in realtà un chiaro e “semplice” gioco di specchietti per le allodole tale da escludere e non ripetere una situazione simile a quella di 5 anni fa, quando l’allora area di centrosinistra-5 stelle si presentò spaccata e, presentando due liste diverse, diede così via libera alla vittoria del compianto Antonio Minò. Quindi, di fronte alla ormai certa (perché unico nome spendibile) candidatura unica per il centrosinistra (Pd e 5 Stelle) di Luigi Conte, non restava altro che scongiurare a tutti i costi la formazione di altre due liste, cosa ampiamente riuscita a Iazzi-Giangrande-Micelli e, forse, non compresa in tempo da chi alla fine è rimasto fuori dai giochi. E forse proprio a questo alludeva il vicesindaco uscente Alessandro Scarciglia quando pochi giorni fa, dal palco allestito in Piazza Giovanni XXII, ha espressamente dichiarato che la “colpa” della mancata presentazione di una lista del centrodestra è “soltanto nostra”.

Avetrana, è Antonio Iazzi il nuovo Sindaco. Taranto Buonasera il 4 ottobre 2021. Dato aggiornato al: 04/10/2021  

ANTONIO IAZZI Sindaco 2.176 50,70% 

LUIGI CONTE 2.116 49,30%

Totale 4.292 

Elettori: 6.810

Votanti: 4.375 (64,24%)

Schede nulle: 58

Schede bianche: 25

Schede contestate: 0

Nota bene. Non illudetevi dai voti alti. I voti ottenuti dai candidati alle amministrative non sono voti esclusivamente personali, ma conseguiti attraverso alleanze e tradimenti. Con il voto con doppia preferenza di genere ognuno ha potuto fare l’alleanza con il candidato dell’altro sesso della medesima lista. I più furbi hanno stabilito alleanza con più partner disattendendo il principio della reciprocità.

AVETRANA - Comunali 2021, le preferenze riportate da tutti i candidati e i consiglieri eletti. Manduria Oggi il 6 ottobre 2021.  Recordman di preferenze Antonio Lanzo (657) e Francesco Saracino (569)

Rinnoviamo Avetrana Candidato a sindaco Antonio Iazzi

569 voti Francesco Saracino

422 voti Claudia Scredo

394 voti Elisabetta Marchetti

333 voti Mariella Carrozzo

254 voti Emanuele Micelli

250 voti Giovanna Nigro

214 voti Santino Mangione

205 voti Giovanni Melinossa

198 voti Emanuele Nigro

189 voti Pietro Giangrande

168 voti Vito Alfarano

114 voti Giuseppe Addabbo

Rilanciamo Avetrana Candidato a sindaco Luigi Conte

657 voti Antonio Lanzo

435 voti Lucia Vacca

377 voti Rosaria Petracca

306 voti Martina Tarantini

297 voti Stefano Gioia

244 voti Patrizio Addabbo

240 voti Valentina Ingrosso

197 voti Roberto Dicursi

159 voti Silvia Carrozzo

156 voti Vincenzo Daniele Buccoliero

134 voti Vito Lomartire

130 voti Gianluca Leo 

 

 

 

Altri Tempi, altri Personaggi…quando Avetrana aveva la passione politica.

Avetrana. Elezioni Amministrative Comunali 26 giugno 1983. Una delle tante liste…

Nessuna descrizione disponibile.

 

AVETRANA - Comunali 2021, respinto dal Tar di Lecce il ricorso della lista sconfitta. Manduria Oggi il 16/12/2021. Il commento, in un post, dell'assessore Emanuele Micelli: «Conte e soci ancora sconfitti». Sulla sentenza del Tar, il sindaco Iazzi ha preferito evitare commenti. Invece l'assessore Emanuele Micelli, ha pubblicato un post che vi proponiamo integralmente. «Avetrana elezioni Amministrative 3/4 ottobre 2021, esito finale, Conte e soci ancora sconfitti. Dopo le elezioni amministrative, vinte dal Sindaco Antonio Iazzi e la lista R-innoviamo Avetrana, Luigi Conte e soci hanno deciso di presentare ricorso mettendo in dubbio la buona fede ed onestà dei presidenti di seggio, scrutatori e di tutta la macchina elettorale.  Il TAR ha respinto le loro accuse. Siccome il ricorso era contro il Comune di Avetrana (come si evince dagli atti) ai cittadini avetranesi spetta anche pagare le spese legali per la difesa. Ora la mia speranza è che finisca questo clima, che il consigliere comunale Conte Luigi ritorni in Consiglio comunale dopo tantissimi mesi di assenze ingiustificate e faccia la sua parte di minoranza/opposizione, ruolo assegnatogli per l’ennesima volta dai cittadini avetranesi».

AVETRANA - Sentenza del Tar di Lecce: il comunicato dell'avvocato Saverio Sticchi Damiani. ManduriaOggi.it il 17 dicembre 2021. «Il TAR di Lecce, accogliendo le tesi del Comune di Avetrana, ha respinto il ricorso senza procedere ad alcuna verifica sulle presunte schede erroneamente scrutinate, ritenendo del tutto infondati a monte i motivi di impugnazione» Sentenza del Tar di Lecce, ecco il comunicato dell’avvocato Saverio Sticchi Damiani, avvocato nominato dal Comune. «Con sentenza n. 1826/2021 del 16 dicembre 2021 il TAR di Lecce (presieduto dal dr. Antonio Pasca, Giudice relatore dr. Ettore Manca) ha respinto il ricorso proposto dal candidato sindaco Luigi Conte e da alcuni candidati consiglieri della lista “Rilanciamo Avetrana” per ottenere l’annullamento delle operazioni per l’elezione del sindaco e del Consiglio comunale di Avetrana svoltesi lo scorso ottobre e la correzione dell’esito del voto a proprio favore. Le consultazioni elettorali si erano infatti concluse con l’elezione del candidato Sindaco dr. Antonio Iazzi e con la vittoria della lista “R-Innoviamo Avetrana” dal medesimo capeggiata, con uno scarto di 60 voti rispetto alla lista del candidato sindaco Luigi Conte il quale, non accettando l’esito delle urne, ha proposto ricorso dinanzi al TAR di Lecce lamentando, per un verso, talune presunte irregolarità in sede di identificazione degli elettori e, per altro verso, la presunta erronea attribuzione in favore del candidato avversario Iazzi di alcuni voti che avrebbero dovuto invece essere annullati, così da ottenere, in primo luogo, l’esame e il riconteggio delle schede effettivamente valide e dei voti assegnabili al dr. Antonio Iazzi e, quindi, la correzione dello scrutinio e la proclamazione del ricorrente quale nuovo sindaco di Avetrana. Il TAR di Lecce, tuttavia, accogliendo le tesi del Comune di Avetrana, difeso dall’avv. Saverio Sticchi Damiani, ha respinto il ricorso senza procedere ad alcuna verifica sulle presunte schede erroneamente scrutinate, ritenendo del tutto infondati a monte i motivi di impugnazione. Dalle motivazioni della decisione emerge infatti che i Giudici Amministrativi hanno ritenuto superfluo disporre la verificazione delle schede, in quanto, conformemente alla prospettazione difensiva del Comune di Avetrana, i presunti vizi o le presunte irregolari modalità di espressione di voto descritti nel ricorso sono stati ritenuti inesistenti».

Un'artista avetranese. D tg24.sky.it il 23 luglio 2021. Il brano, introdotto da un testo originale dell'artista, racconta l’amore visto dalla prospettiva dell’entusiasmo di potersi amare, avendo comunque la consapevolezza che prima o poi si dovrà convivere con l’abbandono o il distacco. Mi chiamo Marina Erroi e sono una cantante di origine pugliese, per l’esattezza della provincia di Taranto (Si vergogna di dire di Avetrana nda). In questa occasione voglio parlarvi di me e del mio primo singolo intitolato “Paracadute” in uscita il 23 Luglio, brano interpretato insieme a Biondo che ha curato parole e composizione della parte rap. Ho avuto la fortuna di firmare il mio primo contratto discografico con la MMline Records per poi passare con la Jericho Records. Attualmente sono seguita dalla manager e discografica Maria Totaro e dai produttori Anthony & Vittorio Conte. Ricordo esattamente il giorno in cui la mia manager mi disse che saremmo usciti con un singolo featuring con Biondo. Ero entusiasta e felice come non mai. Avevo l’opportunità di poter vivere una nuova esperienza, sperimentare e condividere la mia idea di musica con un altro giovane artista appassionato come me. La prima volta che ho ascoltato il brano ho provato in prima persona un’emozione indescrivibile, e pian piano che il progetto prendeva forma mi accorgevo che quella melodia era nelle mie corde e stava entrando a far parte di me. Una sensazione così bella e forte che è difficile da descrivere. Quando finalmente ho cantato il pezzo l’ho sentito già mio, mi ci sono trovata subito in sintonia e per tutta la giornata la melodia mi frullava per la testa. “Paracadute” è un brano che racconta l’amore visto dalla prospettiva dell’entusiasmo di potersi amare, avendo comunque la consapevolezza che prima o poi si dovrà convivere con l’abbandono o il distacco dalla persona amata. Nella vita ogni cosa ha un inizio ed una fine. Questa è un aspetto con il quale dobbiamo misurarci e convivere. Il testo e la composizione sono stati scritto da Anthony Conte mentre Biondo ha curato parole e composizione della parte rap. La produzione, l’arrangiamento e il mixaggio sono invece di Vittorio Conte, realizzati presso i Jericho Studios, sede tecnica dell’etichetta Jericho Records. Sono orgogliosa e felicissima di interpretare questo brano e di far percepire alla gente le stesse emozioni che provo mentre canto. Il mio sogno ed anche obiettivo è poter esprimere cosa sento e riuscire ad arrivare nei cuori di chi mi ascolta, fare scoprire il “mio mondo” e riuscire a far emozionare con la mia voce. Fin da piccola ho coltivato questo “sogno”, quello di cantare e di vivere la musica. Ma non è stata solo passione. La musica per me è stata una forma di sfogo nei momenti in cui mi sentivo sovrastata da delusioni e, dentro questa sfera piena di note, ho imparato ad essere me stessa e ad amarmi anche con le mie fragilità ed insicurezze.

C’è posto per tutti. La tradizione dei femminielli. È il luogo della diversity ante litteram, che da sempre consente agli uomini di manifestare il lato femminile della loro natura. Come testimonia la tradizione dei femminielli, «un’identità possibile a partire da un corpo trasfigurato, che si lega al territorio e alla popolazione». Marco Grieco il 10 agosto 2021 su Vogue.it. «Dalla miseria profonda della sua vita reale, Napoli non ha avuto altro conforto che nelle illusioni della propria fantasia e altro rifugio che in Dio», scriveva Matilde Serao della Napoli di fine Ottocento, stretta tra l’epidemia di colera e il misticismo cristiano. E qui, nella città doppia per eccellenza nasce il femminiello, icona della diversity ante litteram. Il nome, un sostantivo dialettale femminile declinato al maschile, descrive uomini che si sentono donne e decidono di vivere come tali, attingendo a espressività e prossemica del mondo femminile. La sua prima attestazione risale alla Napoli borbonica, ma ha radici che discendono dalle sacre Mater Matutae di Capua, le divinità primordiali sedute in trono che dispensavano prosperità. Per tutto l’Ottocento, i femminielli erano parte della società partenopea, presenziavano le tombolate, erano accolti nelle case perché portatori di fortuna: fatalità e ilarità s’inanellano nella sua identità, le cui sfumature restano imperscrutabili e in bilico, come gli oggetti della stanza claustrofila di Rosalinda Sprint, il femminiello al centro del romanzo Scende giù per Toledo di Giuseppe Patroni Griffi. 

La Tarantina fotografata nel suo appartamento, un “basso” nel cuore dei Quartieri Spagnoli. I bassi sono piccole abitazioni di uno o due vani al piano terra, con l’accesso diretto sulla strada.

Lo sa bene la Tarantina, il più anziano femminiello di Napoli, che a undici anni ha dovuto lasciar morire Cosimo e quanto la famiglia d’origine le aveva cucito addosso con violenze e soprusi: «Era il 1946, pieno Dopoguerra: c’era tanta miseria, ma qui, a Napoli», ammette, «ho trovato la mia vera famiglia, quel calore che ad Avetrana (Puglia, ndr) mi è mancato». Quando giunge a Napoli, la Tarantina è un bambino affamato e scalzo che vive all’ombra dei Quartieri Spagnoli. Lì, nella trama di vicoli intessuta di miseria, trova il suo riscatto: «Quando per la prima volta una signora mi chiamò femminiello, sentii un calore familiare: non mi avrebbe più lasciato», confessa. Conosciuta da Fellini e Pasolini, amata da Goffredo Parise, la Tarantina ha vissuto il turbinio della Dolce Vita romana e il rifiuto di tanti femminielli come lei, che negli anni ha adottato: «Accoglievo tutti i ripudiati, so cosa si prova a rimanere per strada: il mio cervello è fatto dei mali e delle discriminazioni che ho subito, ma Napoli mi ha capita, mi ha aiutata e io ho ricambiato», dice con lo sguardo rivolto a un antico quadro di Sant’Anna sopra una manciata di fiori di plastica: memento che la preziosità può cristallizzarsi senza appassire. L’unico barlume di sacro nelle storture della sua vita è l’amore: «Non tutto, il più autentico è quello tra madre e figlio, perché disinteressato e gratuito», ammette con nostalgia controluce, la stessa che l’ha resa refugium peccatorum per tanti come lei, viscerale come Napoli, città mestruata di san Gennaro.

Gli amministratori di Avetrana hanno ritirato il premio di miglior Comune Riciclone pugliese.  Manduria Oggi il 24/07/2021 Gli amministratori di Avetrana hanno ritirato il premio di miglior Comune Riciclone pugliese. La cerimonia si è svolta ieri a Monte Sant’Angelo Ieri mattina gli amministratori di Avetrana ha ricevuto il prestigioso riconoscimento di miglior Comune Riciclone pugliese e, quindi, nominato Comune “Rifiuti Free”. Tutto ciò è avvenuto a Monte Sant’Angelo, durante la diciassettesima edizione del FestambienteSud, il Festival nazionale di Legambiente per il Sud Italia! «Siamo orgogliosi di questo riconoscimento che è di tutti i cittadini avetranesi, perché solo grazie all’impegno di tutti (operatori ecologici compresi) abbiamo potuto raggiungere l’82% di differenziata nel nostro paese» è riportato in un ppst del vice sindaco Alessandro Scarciglia. «Quindi, per il secondo anno consecutivo, i cittadini avetranesi vedranno ridursi la TARI! Complimenti a tutti noi! Complimenti Avetrana».

AVETRANA. La fabbrica del Tonno Colimena visitata da una delegazione dei funzionari provenienti da Albania, Tunisia, Libia, Somalia, Kenya e Mozambico. manduria Oggi il 20/07/2021.  La produzione artigianale di conserve ittiche di alta qualità della Tonno Colimena mira alla valorizzazione del prodotto locale e delle ricette tradizionali La fabbrica del Tonno Colimena, con sede ad Avetrana, è stata tappa della visita tecnica dei funzionari ministeriali partecipanti al corso sullo Sviluppo Sostenibile delle Comunità Costiere, organizzato dal CIHEAMBari in collaborazione con la Food and Agriculture Organization of the United Nations (FAO) e finanziato dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. La produzione artigianale di conserve ittiche di alta qualità della Tonno Colimena mira alla valorizzazione del prodotto locale e delle ricette tradizionali. L'azienda stessa rappresenta un buon modello di sviluppo per le comunità costiere. È importante considerare che le conserve hanno la peculiare caratteristica di poter essere trasportate e stoccate a temperatura ambiente, e questa condizione è estremamente importante per diffondere i prodotti ittici anche nei luoghi in cui è difficile mantenere la catena del freddo.

Scarico a mare Sì, Pd e M5S esultano. Ovviamente i reflui che andranno a mare saranno depurati, quasi potabili, ci dicono. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 02 luglio 2021. Alla fine la giostra dei silenzi e delle mezze verità si è fermata. Il depuratore consortile Manduria-Sava già quasi ultimato in zona Urmo marina di Specchiarica avrà lo scarico in mare. Lo hanno detto senza mezzi termini e riportato nero su bianco nei comunicati stampa, i tecnici dell’Acquedotto pugliese e i politici regionali che hanno preso parte all’audizione sul tema richiesta dal consigliere regionale del Partito democratico, Fabiano Amati.  Quest’ultimo, per primo, definisce così l’opera destinata forse a stravolgere le coste manduriane: «Una serpentina fatta di 12 trincee, primo recapito a Torre Colimena e scarico finale in mare». Finalmente, dunque, cadono i fantasiosi termini utilizzati sinora per addolcire la pillola e per creare illusioni nei più speranzosi. Non più buffer o recapiti finali, o scarico in corpo idrico superficiale e ruscellamenti vari. La politica dà il giusto nome alle cose: scarico a mare. Fabiani si lamenta dei ritardi nel completamento dell’opera, «nonostante tutti gli indicatori Arpa – dice -, riferiscano le condizioni ambientali scarse del suolo e del mare di quel territorio; non darò tregua per riportare a salute e normalità una situazione d’inquinamento non più tollerabile», promette Amati. Ancora più chiaro e trionfalistico il racconto fatto dal consigliere del Movimento 5 Stelle, anche lui presente all’audizione di ieri. «Si è trovata la migliore soluzione possibile per il recapito finale – dice - che, prevedendo 12 trincee drenanti e lo scarico dei reflui non recuperati nel bacino di Torre Colimena, permetterà di massimizzare il riuso a fini irrigui e civili». Quindi si chiarisce quello che era nota sin dall’inizio a molti (ma non a tutti): lo scarico nel mare di Torre Colimena servirà, lo dice Galante, per i “reflui non recuperati non recuperati” cioè non utilizzati in agricoltura oppure in accesso. Ovviamente i reflui che andranno a mare saranno depurati, quasi potabili, ci dicono. Sempre che tutto funzioni alla perfezione. E qui la storia, anche giudiziaria, ci insegna esattamente il contrario. È di ieri, infatti, la notizia del rinvio a giudizio di alcuni dirigenti e tecnici dell’Aqp accusati del disastro ambientale del depuratore di Martina Franca. Una settimana fa un altro processo si è aperto per i disastri ambientali creati dal depuratore di Francavilla Fontana: imputato proprio Emilio Tarquinio, responsabile del procedimento del depuratore di Urmo-Specchiarica. L’audizione di ieri è servita anche per conoscere il cronoprogramma dei lavori. Aqp ha assicurato che a settembre riprenderanno i lavori di collettamento del nuovo e vecchio depuratore e le trincee drenanti vicino alla Masseria Marina. Tempo previsto per il completamento: giugno 2022. Su questo però si devono esprimere gli enti e i comuni interessati, compreso quello di Manduria.  

Proprio ieri i consiglieri comunali di opposizione del comune di Avetrana hanno iInoltrato al presidente del Consiglio la convocazione urgente di un consiglio comunale monotematico «al fine di intraprendere – si legge nella richiesta – ogni azione utile alla salvaguardia del territorio». 

Nazareno Dinoi

Il collezionista Scarciglia dona al comune il suo tesoro di ceramiche pregiate. La volontà di tale lascito era stato già espresso da Scarciglia alla precedente amministrazione. La Redazione de La Voce di Manduria venerdì 02 luglio 2021. L’avetranese Elio Scarciglia, per anni affidatario dell’antica Torre di Colimena, ha donato al comune di Manduria la sua preziosa collezione di manufatti ceramici destinati alle produzioni agricole della zona e di tutto il Salento. Il collezionista ha rinunciato anche alla concessione demaniale marittima lasciando quindi tutto all’amministrazione comunale manduriana. La volontà di tale lascito era stato già espresso da Scarciglia alla precedente amministrazione straordinaria che ne prese atto con atto deliberativo del giugno 2019. Ora l’attuale amministrazione ha acquisito i beni ed ha deciso di valorizzare la mostra delle ceramiche di pregio già esposta nei locali della torre. Già per la stagione stiva in corso sarà allestito un museo e relativo punto informativo che nelle more del definitivo affidamento, sarà affidato momentaneamente all’Ente Riserve naturali presieduto da Alessandro Mariggiò il quale ha già dato la sua disponibilità.

Soccorritori del 118 aggrediti in servizio. La Voce di Manduria martedì 29 giugno 2021. Due soccorritori manduriani che prestano servizio nella postazione 118 di Avetrana per conto della società “Manduria Soccorso”, sono stati aggrediti da un avetranese di 44 anni che è stato arrestato dai carabinieri. L’uomo in stato di agitazione psicomotoria, è salito a brodo dell’ambulanza quando i due erano intenti a soccorrere una persona colta da malore nella sua casa ma è stato fermato dai due soccorritori contro cui si è avventato. Uno dei due sanitari, Cosimo Borgia, di 53 anni, è riuscito infine a bloccarlo sino all’arrivo dei militari che lo hanno portato in caserma e dopo le formalità di rito sottoposto agli arresti domiciliari. L'allarme è scattato nel cuore della notte quando l'ambulanza del 118 è stata parcheggiata nei pressi dell'abitazione dell'anziano che aveva richiesto i soccorsi. I due manduriani in divisa sono entrati nella casa del paziente e quel punto il 44enne di Avetrana, con precedenti alle spalle, è salito a bordo tentando di allontanarsi. I rumori del motore hanno insospettito i soccorritori che sono usciti all'esterno. Quando il presunto ladro si è visto scoperto ha reagito in malo modo aggredendoli. Ne è nata una colluttazione mentre è scattato l'allarme e sul posto sono intervenuti i carabinieri. All'arrivo dei militari il parapiglia era ancora in corso.  Il 44enne è stato arrestato con le accuse di tentata rapina, lesioni personali e interruzione di pubblico servizio. Per lui sono stati disposti i domiciliari. I due soccorritori che hanno sventato il furto dell’ambulanza sono stati accompagnati al pronto soccorso dove sono stati dimessi con una prognosi di sette giorni ciascuno.

Quello che non si dice nell’articolo, è che l’autore del reato (detto “Cucuzza”) viene da una famiglia problematica i cui comportamenti accomuna alcuni di essi, di cui uno è morto, accusato di molestie sessuali su minori. Si rilevano episodi frequenti di instabilità mentale a danno della comunità, trascurati nel tempo dagli organi preposti. Anche perché, chi tenta di rubare un’ambulanza e, per di più, rimanendo sul posto per farsi beccare, ha il chiaro intento di attirare l’attenzione.  

Delitto di Avetrana, annullate le condanne e conferme su Sabrina e Cosima fuori dal carcere. Da worldnotix.net il 13 ottobre 2021. Annullate le condanne per Michele Misseri e Ivano Russo per prescrizione del reato nel processo sui depistaggi e falsi testimoni legato all’omicidio di Sarah Scazzi, la studentessa 15enne di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto del 2010. E ci sono importanti novità anche per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, confermate dal loro avvocato, che potranno uscire presto dal carcere. È questa la decisione emessa oggi dalla sezione distaccata di Taranto della Corte d’Appello di Lecce nel secondo grado di giudizio del cosiddetto processo bis per il delitto di Avetrana. Oltre che per i due imputati più noti, il tribunale ha annullato le sentenze di condanna anche per tutti gli altri imputati che erano stati giudicati colpevoli dal giudice monocratico nel processo di primo grado nel gennaio dello scorso anno. Sia per Ivano Russo che per Michele Misseri la Corte ha dichiarato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione. In primo grado Ivano Russo, considerato al centro della contesa tra Sabrina Misseri e Sarah Scazzi, aveva ottenuto la pena più pesante di 5 anni di reclusone per aver mentito su quanto accadde il giorno del delitto. Secondo i giudici, la morte di Sarah Scazzi sarebbe da ricondurre proprio agli screzi in corso tra la 15enne e la cugina attorno alla figura di Ivano. Misseri invece era stato condannato a 4 anni per aver mentito ai giudici incolpandosi ingiustamente dell’omicidio di Sarah nel tentativo di scagionare moglie e figlia, Cosima Serrano e Sabrina Misseri, rispettivamente zia e cugina di Sarah, condannate in via definitiva all’ergastolo nel processo principale. Prescrizione e condanna annullata anche per altri sei imputati nel processo bis: Alessio Pisello, amico di comitiva di Sarah e Sabrina, per la mamma di Ivano, Elena Baldari, per Maurizio Misseri, nipote di Michele, per Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri e per Claudio Russo, fratello di Ivano. Assolta perché il fatto non sussiste Salvatora Serrano, sorella di Concetta e Cosima, così come sono andati assolti Giuseppe Serrano, Anna Scredo e Giuseppe Augusto Olivieri. In merito a Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano, entrambe condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi, arriva la conferma che potranno uscire dal carcere, ma temporaneamente (ovviamente) con dei permessi premio. A poco meno di 11 anni dal delitto di Avetrana, la cugina e zia della vittima sono pronte a chiedere dei permessi premio. A confermarlo è stato l’avvocato Franco De Jaco, legale della Serrano, in un’intervista rilasciata al settimanale ‘Oggi’ in edicola da oggi. «Hanno già scontato dieci anni e presto faremo un’istanza al tribunale di sorveglianza perché possano godere di qualche premio». Inoltre, le ha definite «due detenute modello». Di Sabrina Misseri ha raccontato che lavora nel centro estetico del carcere di Taranto, mentre la madre in sartoria.

DA tgcom24.mediaset.it il 17 giugno 2021. La Corte d'Appello di Lecce ha cancellato 11 condanne nel processo bis per depistaggi legato all'inchiesta sull'omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo nell'agosto del 2010. Il non doversi procedere per intervenuta prescrizione è stato dichiarato nei confronti di 8 imputati, tra cui Michele Misseri, lo zio di Sarah, condannato nel processo principale in via definitiva a 8 anni per soppressione di cadavere. Michele Misseri era stato condannato in primo grado, nell'ambito del processo bis per depistaggi, a 4 anni di reclusione a rispondeva di autocalunnia perché si accusò dell'omicidio. E' scattata la prescrizione anche per Ivano Russo, il giovane di Avetrana che sarebbe stato conteso da Sabrina Misseri (condannata con sentenza passata in giudicato all'ergastolo per l'omicidio con sua madre Cosima Serrano) e la cugina Sarah: in primo grado aveva rimediato 5 anni di reclusione per le ipotesi di false informazioni al pm e falsa testimonianza alla Corte d'Assise. Prescrizione pure per Alessio Pisello, uno degli amici di comitiva di Sarah e Sabrina, accusato di falsa testimonianza (3 anni in primo grado), per la mamma di Ivano, Elena Baldari (3 anni), per Maurizio Misseri, nipote di Michele (3 anni), per Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri (3 anni), per Claudio Russo, fratello di Ivano (2 anni e sei mesi). Salvatora Serrano, detta Dora (sorella di Concetta, mamma di Sarah, e Cosima), condannata a 3 anni e mezzo in primo grado, è stata assolta perché il fatto non sussiste in relazione all'episodio delle presunte molestie attribuite a Michele Misseri e ha beneficiato della prescrizione per un residuo episodio del 17 aprile 2012. Assolti Giuseppe Serrano (3 anni e 6 mesi in primo grado), Anna Scredo, cognata del fioraio Giovanni Buccolieri, l'uomo che avrebbe assistito al sequestro di Sarah da parte di Cosima e Sabrina, poi derubricato in aula a un semplice sogno (3 anni), e Giuseppe Augusto Olivieri (3 anni e 2 mesi).

Omicidio Scazzi, tutti i presunti depistaggi assolti: i nomi. Si chiude così il processo a carico della parte più oscura delle indagini sull'uccisione della quindicenne. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 18 giugno 2021. Colpo di spugna della Corte d’appello del Tribunale di Taranto che nel processo sui presunti depistaggi nell’inchiesta sull’omicidio di Sarah Scazzi, ha cancellando undici condanne imposte dalla sentenza di primo grado che aveva inflitto pene per un totale di 35 anni di reclusione. Il dispositivo firmato dal presidente Antonio Del Coco, ha quindi riformato la sentenza emessa il 21 gennaio 2020 dal giudice monocratico del Tribunale di Taranto, Loredana Galasso. Si chiude così il processo a carico della parte più oscura delle indagini sull'uccisione della quindicenne, quella delle mezze verità e dei non ricordo di tanti testimoni divenuti poi indagati e quindi imputati. Alla sbarra personaggi centrali ma anche persone che hanno occupato posti di secondo piano nella terribile storia sulla morte della ragazzina strangolata dalla cugina Sabrina Misseri e dalla zia Concetta Serrano, entrambe condannate all’ergastolo e poi gettata in un pozzo dallo zio, Michele Misseri. Nell’appello di ieri è stato disposto il non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei confronti di otto imputati tra cui lo «zio Michele» (difeso dall'avvocato Luca La Tanza) che in primo grado era stato accusato di autocalunnia e condannato a quattro anni di reclusione per l’autoaccusa dell’omicidio di Sarah. Nel processo principale, Misseri è stato condannato in via definitiva a otto anni di carcere per la soppressione del cadavere della nipote che sta scontando nel carcere di Lecce. È scattata la prescrizione anche per Ivano Russo (difeso da Carmine Di Zenzo), il giovane di Avetrana che secondo tre tribunali è stato conteso da Sabrina Misseri e la giovanissima Sarah. In primo grado, l’«Alain Delon di Avetrana» aveva rimediato la pena più alta, cinque anni di reclusione, per le ipotesi di false informazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza alla Corte d’Assise.  Prescrizione anche per Alessio Pisello (difensore Nicola Marseglia), uno degli amici di comitiva di Sarah e Sabrina, accusato di falsa testimonianza (a lui tre anni in primo grado); prescrizione anche per la mamma di Ivano, Elena Baldari (difensore Di Zenzo) che aveva preso tre anni in prima istanza; per Maurizio Misseri (lo difende Lorenzo Bullo), nipote di Michele (tre anni), per Anna Lucia Pichierri (Bullo), moglie di Carmine Misseri (tre anni), per Claudio Russo (Di Zenzo), fratello di Ivano (due anni e sei mesi). Salvatora Serrano (difesa da Marseglia), detta Dora (sorella di Concetta, mamma di Sarah, e Cosima), condannata a tre anni e mezzo in primo grado, è stata assolta perché il fatto non sussiste in relazione all’episodio delle presunte molestie attribuite a Michele Misseri e ha beneficiato della prescrizione per un residuo episodio del 17 aprile 2012. Assolti Giuseppe Serrano (lo difende Marseglia) che in primo grado doveva scontare tre anni e sei mesi, Anna Scredo (difensore Pasquale Lisco), cognata del fioraio Giovanni Buccolieri, l’uomo che avrebbe assistito al sequestro di Sarah da parte di Cosima e Sabrina, poi derubricato in aula a un semplice sogno (tre anni per lui) e Giuseppe Augusto Olivieri (tre anni e due mesi in primo grado), difeso dagli avvocati Armando Pasanisi e Mario D’Oria, titolare di un’impresa di Avetrana accusato di aver dichiarato false deposizioni in fase di interrogatorio. Nazareno Dinoi

Omicidio Sarah Scazzi, riformata la sentenza del giudice monocratico del Tribunale di Taranto. Redazione il 18/06/2021 su oltrefreepress.com. La sezione distaccata di Taranto della Corte d’Appello di Lecce ha riformato la sentenza del giudice monocratico del Tribunale di Taranto del 21 gennaio 2020, sancendo il non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei confronti di 8 imputati, tra cui Michele Misseri (lo zio di Sarah, condannato nel processo principale in via definitiva a 8 anni di carcere per soppressione di cadavere), che era stato condannato in primo grado a 4 anni di reclusione a rispondeva di autocalunnia perché si accusò dell’omicidio di Sarah. E’ scattata la prescrizione anche per Ivano Russo, il giovane di Avetrana che sarebbe stato conteso da Sabrina Misseri (condannata con sentenza passata in giudicato all’ergastolo per l’omicidio con sua madre Cosima Serrano) e la cugina Sarah; Russo, in primo grado, aveva rimediato la pena più alta – 5 anni di reclusione – per le ipotesi di false informazioni al pm e falsa testimonianza alla Corte d’Assise. Prescrizione pure per Alessio Pisello, uno degli amici di comitiva di Sarah e Sabrina, accusato di falsa testimonianza (3 anni in primo grado), per la mamma di Ivano, Elena Baldari (3 anni), per Maurizio Misseri, nipote di Michele (3 anni), per Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri (3 anni), per Claudio Russo, fratello di Ivano (2 anni e sei mesi). Salvatora Serrano (sorella di Concetta, mamma di Sarah, e Cosima), condannata a 3 anni e mezzo in primo grado, è stata assolta perché il fatto non sussiste in relazione all’episodio delle presunte molestie attribuite a Michele Misseri e ha beneficiato della prescrizione per un residuo episodio del 17 aprile 2012. Assolti anche Giuseppe Serrano (3 anni e 6 mesi in primo grado), Anna Scredo, cognata del fioraio Giovanni Buccolieri, l’uomo che avrebbe assistito al sequestro di Sarah da parte di Cosima e Sabrina, poi derubricato in aula a un semplice sogno (3 anni), e Giuseppe Augusto Olivieri (3 anni e 2 mesi).  

Sarah Scazzi: delitto di Avetrana, perchè Ivano Russo era stato condannato e poi la condanna è stata annullata? Emanuela Rizzo il 18 giugno 2021 su controcopertina.com. Sono passati esattamente 11 anni dal delitto di Avetrana ovvero da quando la giovane Sarah Scazzi è stata uccisa. In quest’ultimo periodo sembrerebbe che sia stata annullata la condanna per Ivano Russo. Il giovane è stato infatti al centro di questa inchiesta, ma in realtà che cosa aveva fatto il ragazzo? Facciamo un pò di chiarezza.

Sarah Scazzi, chi l’ha uccisa? La giovane Sarah è stata la protagonista purtroppo di una delle storie di cronaca nera più discusse del nostro paese. L’annuncio del ritrovamento del suo corpo senza vita è avvenuto a distanza di tempo dalla sua morte. L’annuncio sarebbe stato fatto proprio in diretta televisiva Chi l’ha visto dove pare fosse ospite in collegamento la madre di Sarah. È stato sicuramente un duro colpo per lei ovvero Concetta Serrano Spagnolo. Il corpo della giovane venne ritrovato all’interno di un pozzo e da quel momento si è iniziato ad investigare per cercare di capire chi avesse ucciso la piccola Sarah e soprattutto per quale motivo. La corte suprema di Cassazione il 21 febbraio 2017 ha riconosciuto colpevoli per concorso in omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, la zia Cosima Serrano e la cugina Sabrina Misseri. Ma perché Sarah Scazzi sarebbe stata uccisa? 

L’omicidio, perchè la giovane è stata uccisa? Perché quindi Sarah sarebbe stata uccisa dalla zia e dalla cugina? Il motivo per cui Sarah ha perso la vita sembra essere legato proprio ad Ivano Russo un giovane che pare fosse nel mirino della cugina. Si dice che l’omicidio sia stato fatto per motivi di gelosia, perché Ivano pare riservasse delle attenzioni proprio a Sarah Scazzi e non a Sabrina che tra l’altro pare fosse innamorata del giovane. Ma allora per quale motivo Ivano è stato condannato?

Ivano Russo, perchè il giovane è stato condannato? Ivano Russo è stato condannato a 5 anni di reclusione perché pare avesse mentito in merito ai suoi spostamenti proprio nel giorno dell’omicidio della piccola Sarah Scazzi. A far si che Ivano si trovasse al centro dell’indagine sono state le dichiarazioni rilasciate dall’ex fidanzata dell’epoca. Secondo quest’ultima infatti Ivano avrebbe dichiarato il falso nel dire che il giorno in cui Sarah è stata uccisa, lui si trovasse a casa a dormire. Nonostante comunque Ivano venne accusato, poi la condanna venne annullata per prescrizione del reato. Ad oggi, quindi, per l’omicidio della giovane, rimangono in carcere la zia e la cugina. 

Delitto di Avetrana: annullate le condanne di Michele Misseri e Ivano Russo nel processo sui depistaggi. Teleradio News Cronache Agenzia Giornalistica  sabato, 19 Giugno 2021. Sia per Ivano Russo che per Michele Misseri la Corte ha dichiarato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione. In primo grado Ivano Russo, considerato al centro della contesa tra Sabrina Misseri e Sarah Scazzi, aveva ottenuto la pena più pesante di 5 anni di reclusone per aver mentito su quanto accadde il giorno del delitto. Secondo i giudici, la morte di Sarah Scazzi sarebbe da ricondurre proprio agli screzi in corso tra la 15enne e la cugina attorno alla figura di Ivano. Misseri invece era stato condannato a 4 anni per aver mentito ai giudici incolpandosi ingiustamente dell’omicidio di Sarah nel tentativo di scagionare moglie e figlia, Cosima Serrano e Sabrina Misseri, rispettivamente zia e cugina di Sarah, condannate in via definitiva all’ergastolo nel processo principale. Prescrizione e condanna annullata anche per altri sei imputati nel processo bis: Alessio Pisello, amico di comitiva di Sarah e Sabrina, per la mamma di Ivano, Elena Baldari, per Maurizio Misseri, nipote di Michele, per Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri e per Claudio Russo, fratello di Ivano. Assolta perché il fatto non sussiste Salvatora Serrano, sorella di Concetta e Cosima, così come sono andati assolti Giuseppe Serrano, Anna Scredo e Giuseppe Augusto Olivieri. 

Sabrina Misseri e le speranze di lasciare il carcere. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 18 giugno 2021. L’esito del processo d’appello che cancella le condanne e quindi molte delle accuse nei confronti dei presunti depistatori della difficile inchiesta sulla morte di Sarah Scazzi, sarà oro colato per la difesa delle due assassine, Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Le due donne hanno presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo chiedendo la revisione della condanna all’ergastolo che stanno scontando nel carcere di Taranto. L’assoluzione di ieri di alcuni imputati di rilievo che erano stati condannati in primo grado con l’accusa di aver raccontato il falso per coprire responsabilità a carico delle due donne, potrebbe avere un peso significativo nelle memorie difensive che gli avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia saranno pronti a depositare all’organo giurisdizionale internazionale quando li convocherà per trattare il delicato caso. Quanto tempo si dovrà aspettare è ancora una scommessa. L’ammissibilità del ricorso (procedura per niente scontata), risale a settembre del 2018 e considerati i tempi medi di attesa per cause di questo genere, tutti che si aggirano intorno ai tre anni, la chiamata da Strasburgo potrebbe arrivare da un momento all’altro. Nel frattempo mamma e figlia attendono pazientemente quel giorno rendendosi utili nella sartoria del penitenziario tarantino. Le detenute modello, così vengono definite, cuciono abiti e biancheria per il consumo interno e, in questo periodo pandemico anche mascherine. Sabrina si presta anche a fare acconciature alle detenute avendo preso l'abilitazione professionale durante la detenzione. L'ergastolo non ostativo che devono scontare e il tempo già trascorso in carcere, consente di sperare in qualche uscita premio che nessuno delle due ha ancora chiesto. Potrebbero farlo, come prevede l’ordinamento, per quindici giorni di seguito, ripetuti sino a tre volte in un anno, ma, in accordo con i propri legali di fiducia, nessuna ha mai tentato di ottenerle il premio che spetta al loro status di «condannate che hanno tenuto regolare condotta e che non risultano socialmente pericolose» che hanno già scontato dieci anni di pena. Meglio aspettare il miracolo da Strasburgo e se sarà negativo anche quello, come lo sono stati i tre gradi di giudizio, allora non resterà che affidarsi al calendario. E contare i giorni che mancano al fine pena. Trascorsi 26 anni di prigionia, Sabrina e Cosima avranno diritto alla libertà condizionata che sarà sempre oggetto di un giudizio. Se si sottraggono poi gli sconti di pena previsti per la buona condotta, pari a 45 giorni ogni sei mesi di chiusura, i 26 anni necessari per lasciare il carcere diventano 21. Facendo così i conti, Sabrina che quando è stata arrestata aveva 22 anni, quando ne avrà 43 potrà tornare nella sua Avetrana o dove vorrà fissare il luogo della sua libertà condizionale. Sua madre Cosima che di anni attualmente ne ha 66 ed è stata arrestata dopo la figlia, dovrà attendere sei mesi in più dietro le sbarre che si aprirebbero nel 2032 quando di anni ne avrà 78. Ma non saranno ancora libere. Dopo aver ottenuto la libertà condizionale, recita la normativa, seguiranno cinque anni di libertà vigilata che prevedono obblighi e prescrizioni da rispettare. Se al termine di questo periodo di prova le due donne riusciranno a dimostrare che il loro ravvedimento è reale, allora la pena sarà scontata in modo definitivo e torneranno ad essere cittadine libere.

Michele Misseri ieri e oggi: che fine ha fatto? Quanti anni ha? Maria Carmela Furfaro il 18/06/2021 su donnapop.it. Michele Misseri, lo zio di Avetrana autoaccusato dell’omicidio della nipote Sarah Scazzi, ha ricevuto clamorosamente la cancellazione della condanna per prescrizione. Conosciamo meglio i dettagli. Michele Misseri era un tranquillo lavoratore che aveva guadagnato giusto quei soldi necessari ad acquistare un fazzoletto di terra in Puglia. Si presenta come un agricoltore, pio e timoroso, con l’aria un po’ da bradipo ma nello stesso tempo furbo. Nato a Manduria, in provincia di Taranto, il 22 Marzo del 1954, nel delitto di Avetrana ha raccontato, tra le lacrime, la sua presunta verità in merito alla morte della nipote Sarah Scazzi. Scomparsa il 26 agosto 2010, la ragazzina quindicenne, è stata ritrovata morta la notte tra il 6 e il 7 ottobre dello stesso anno. Durante le indagini il ruolo dello zio acquisito di Sarah è passato da innocuo osservatore a testimone del delitto. L’uomo si presentava davanti le telecamere con un cappello da pescatore, malvestito e dimesso, visibilmente scosso per la morte della nipote Sarah.

Chi è Michele Misseri per Sarah? Michele Misseri è lo zio acquisito della sfortunata Sarah Scazzi. Sposato con la zia Cosima Serrano, sorella della mamma Concetta di Sarah, si è sempre mostrato un uomo innocuo. Fin qui tutto a posto se non fosse stato per tutta una serie di confessioni e smentite. Dopo aver ritrovato in un campo il cellulare mezzo bruciacchiato di Sarah Scazzi, è iniziata una serie di confuse bugie miste a verità nascoste. Tra accuse alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina Misseri, a un certo punto Michele Misseri si è addirittura accusato di essere colpevole dell’omicidio. Nel corso dei mesi Michele Misseri ha abbandonato l’aspetto dimesso e trasandato, mostrandosi in pubblico più elegante, sia nell’abbigliamento, sia nei modi. Le indagini si sono concluse con la condanna, da parte del tribunale monocratico di Lecce il 21 gennaio del 2020, verso Michele Misseri. L’uomo è stato condannato per il reato di autocalunnia a 4 anni di reclusione, anche se nel processo precedente, quello principale per il sequestro e l’omicidio, aveva ricevuto la pena di 8 anni per aver soppresso il cadavere di Sarah.

Oggi. Il 17 giugno 2021 la sezione distaccata di Taranto della Corte di appello di Lecce ha emesso la prescrizione per il delitto. In altre parole la condanna a 4 anni di reclusione per Michele Misseri è stata cancellata.

Che fine ha fatto. Michele Misseri è in carcere e il 18 giugno 2021 aspetta la sua scarcerazione.

Quanti anni ha oggi? Michele Misseri ha 67 anni: è nato a Manduria, in provincia di Taranto, il 22 Marzo del 1954.

Condanna. Lo zio di Avetrana è stato condannato, tramite sentenza emanata dal tribunale monocratico di Lecce il 21 gennaio del 2020. Michele Misseri è stato condannato per il reato di autocalunnia a 4 anni di reclusione, anche se nel processo precedente, quello principale per il sequestro e l’omicidio, aveva ricevuto la pena di 8 anni per aver soppresso il cadavere di Sarah.

Prescrizione. Cosa è la prescrizione? La prescrizione è una causa di estinzione del reato. In altre parole un illecito penale non può più essere punito se trascorre un certo periodo di tempo dalla sua commissione.

Il 17 giugno 2021 la sezione distaccata di Taranto della Corte di appello di Lecce ha emesso la prescrizione per il delitto. In altre parole la condanna a 4 anni di reclusione per Michele Misseri è stata cancellata. La prescrizione è avvenuta perché sono scaduti i termini.

Cosima Serrano. La moglie di Michele Misseri, Cosima Serrano è stata condannata all’ergastolo per il delitto del delitto di Sarah Scazzi, la nipote. L’omicidio efferato ai danni della ragazza è avvenuto nell’agosto 2010 ad Avetrana. Cosima nelle prime fasi della ricerca del corpo di Sarah non sembrava per nulla collegata alla tragedia.

Nel corso delle indagini, da zia disperata per la morte della povera nipote, ha mostrato un volto di persona scaltra e risoluta ma soprattutto colpevole del nipoticidio. La donna sta scontando nel carcere di Taranto la pena dell’ergastolo: in cella è impegnata nella realizzazione di abbigliamento e corredi per la casa. Nel 2020 è stata assegnata al confezionamento di mascherine anti-Covid, a causa dell’emergenza sanitaria.

Sabrina Misseri. Sabrina Misseri è la figlia di Michele Misseri. Nelle prime fasi della ricerca del corpo di Sarah Scazzi è apparsa sempre disperata, quanto fedele amica della cugina, figlia della sorella della mamma. Molte volte si è fatta vedere in lacrime davanti alle televisioni, invocando ai presunti colpevoli di dire la verità. Dopo aver lanciato mielosi appelli di giustizia, la figlia di Michele Misseri è stata condannata, come la madre, all’ergastolo.

Come la madre, sta scontando in carcere la pena dell’ergastolo nel carcere di Taranto. Divide la stessa cella di Cosima Serrano e insieme sono impegnate come sarte per la realizzazione di manufatti e abbigliamento. Anche a lei dal 2020, a causa dell’emergenza sanitaria, è stato assegnato il compito di confezionare mascherine anti-Covid. 

MARIA CARMELA FURFARO. Curiosa per natura e appassionata di musica e cinema: scrivo per diletto e insegno per professione.

Vespa porta in Puglia i big della politica e il gotha della finanza: il talk in masseria al via lunedì 7 giugno.  Anna Puricella su La Repubblica il 6 giugno 2021. L'iniziativa si terrà negli spazi di Masseria Li Reni, fra Manduria e Avetrana, il buen retiro del giornalista che nella regione produce i suoi vini. È il buen retiro di Bruno Vespa, e non solo il suo. Masseria Li Reni è un rifugio di benessere fra Manduria e Avetrana, una struttura risalente al XVI secolo e trasformata in un resort con otto suite, piscina, giardino segreto, ristorante e salone per eventi. È l’espressione del lato pugliese di Vespa, che ha rilevato il posto, ne ha esaltato la bellezza, e ci fa pure il vino. Non dimentica la sua professione, però, e Masseria Li Reni – immersa nel silenzio della campagna, atmosfera rilassata e mare a pochi chilometri – si fa trovare pronta ad accogliere il gotha della politica italiana, e non solo. Lunedì 7 giugno parte la rassegna 'Forum in masseria', un ciclo di tre eventi che fino all’autunno faranno il punto sullo stato dell’Italia che sta uscendo dalla pandemia e che deve definire le strategie per la ripartenza. Ci si vede in masseria, allora, e ci si confronta per ore: si discuterà di 'Innovazione e turismo' in una serie di panel che si potranno seguire anche online (masserialireni.com), e che partiranno alle 10 con Mariangela Marseglia (country manager Italia Spagna Amazon), Bernardo Mattarella (amministratore delegato Microcredito centrale), Alessandro Profumo (amministratore delegato Leonardo) e Walter Ruffinoni (amministratore delegato Ntt Data ed Emea). Alle 12 è il turno del presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, con Maria Chiara Carrozza (presidente Cnr) e Massimiliano Di Silvestre (presidente e ceo di Bmw italia). La mattina si parla di innovazione, dopo pranzo di turismo: alle 14,30 si prosegue con lo chef Heinz Beck, e poi il ministro del Turismo Massimo Garavaglia, Giorgia Abeltino (director publicy policy South Europe and external relations Google), Rocco Forte (presidente Rocco Forte Hotels), Marina Lalli (presidente Federturismo), Alberto Yates (country manager Italy di Booking.com). Si chiude alle 16,30 parlando di mobilità, territorio e turismo con la ministra per il Sud Mara Carfagna, Carlo Bonomi (presidente Confindustria), Fabio Lazzerini (amministratore delegato e direttore generale Italia Trasporto Aereo s.p.a.) e Pier Francesco Rimbotti (ceo di Infrastrutture s.p.a.). Main partner dell’iniziativa è Ntt Data; la rassegna è patrocinata dalla Regione Puglia.

Non solo mare. Otto modi insoliti per (ri)scoprire la Puglia. Stefania Leo il 26/7/2021 su L'Inkiesta.it. A piedi, dormendo sotto le stelle in un trabucco, navigando tra i delfini: ecco i più bei percorsi, non solo in Salento, per scoprire un lato insolito della regione che negli ultimi anni sta conquistando il cuore degli italiani, alla ricerca di mare e tradizioni, storie e buona cucina. Dimenticate la Puglia da cartolina: è tempo di battere nuovi sentieri. In tutti i suoi 400 chilometri di lunghezza questa regione generosa è in grado di coniugare la voglia di mare con una collina e montagna selvaggia, poco esplorata e desiderosa di essere riconosciuta. Dal Gargano al Salento sostenibile, ecco 8 tour insoliti per riscoprire la Puglia.

Ritorno alla Natura. Il Salento non è solo discoteca, spiagge e mare cristallino da sfruttare senza pensare al proprio impatto sull’ambiente. Puglia Eco Travel ha messo a punto una vacanza sostenibile che, al minimo impatto ambientale, associa la figura dell’Eco Travel Assistant. Perfetto da fare in coppia o con amici, con questo percorso si ha l’opportunità di vivere anche il Salento dei prati fioriti, passeggiate in bici, vegan brunch e coccole golose. Si può prenotare da maggio a settembre (agosto escluso) tramite il sito.

Incontro con il Salento delle Murge. Il progetto Salento delle Murge nasce come una rete di 24 imprese con la “missione” di promuovere un’industria turistica innovativa e sostenibile, sviluppando un brand riconoscibile per questa parte di Puglia ancora da scoprire. Come lo fanno? Con un nugolo di esperienze che guardano all’arte, al folklore, alla storia, alla sostenibilità e, naturalmente, al cibo. Il tutto avviene tra le murge tarantine e quelle brindisine, una terra di confine tra valle d’Itria e Salento. Tra i percorsi da non perdere c’è Capperi in vigna, un’escursione guidata in un vigneto ricco di biodiversità in cui apprendere l’arte di raccolta dei capperi.  Bellissimo anche l’incontro con le api del Salento delle Murge: in questo percorso della durata di due ore si ha la possibilità di familiarizzare con il lavoro dell’apicultore e le sue arnie. Disponibili anche offerte con tour di tre o sei giorni.

Sobremesa travel. Marianna, Jenny e Bea sono i corpi e le anime di Sombremesa, parola intraducibile in italiano, che rappresenta un tipo di viaggio naturale fatto di scambi, condivisione, accoglienza, arricchimento e benessere. Perché la sostenibilità non è solo una questione ambientale, ma anche umana. Tra le avventure più suggestive i tour Gargano Unplugged, in cui si ha la possibilità di esplorare Vieste, ma anche di dormire sotto le stelle, cullati dal suono del mare, su uno dei famosi trabucchi della costa.

La Puglia in Auto. Authentic Puglia Tours ha un set di viaggi tutti programmati con uno degli elementi essenziali per visitare in modo completo la regione: l’auto. Tra le tante offerte – tra cui un viaggio in un’auto vintage – la proposta più eco-friendly è il tour in auto elettrica. Disponibile tra settembre e novembre, il viaggio si sviluppa in nove giorni, arrivando a toccare Bari, Alberobello, Polignano, Matera, Grottaglie, Lecce, Otranto, Gallipoli, Ostuni. Il tutto è pensato per spogliare i viaggiatori dell’etichetta di turisti e avvicinarli quanto più possibile a una vera esperienza da local.

In bici nel Parco dell’Alta Murgia. 4cycling’n Trek ha fatto dell’esplorazione del Parco Nazionale dell’Alta Murgia il punto di partenza per percorsi nella natura a piedi o in bici (e-bike compresa). Tra le varie experience in calendario, da non perdere la Transmurgiana short in bicicletta, ad oggi l’unico viaggio in bici attraverso il Parco Nazionale dell’Alta Murgia. Ma le escursioni in programma sono tantissime, di varie lunghezze. Tra le più interessanti quelle che includono pernottamenti, cene e degustazioni, insieme con la visita guidata al Museo dedicato all’Uomo di Altamura, alla Gravina Sotterranea e a tanti altri luoghi avventurosi, raccontati attraverso gli occhi di chi, in questa terra, ci è nato e cresciuto. Per i più allenati, da non perdere la Transmurgiana, l’unico viaggio in bici attraverso il Parco Nazionale dell’Alta Murgia

Trekking e amici a quattro zampe. L’estate è quella stagione delicatissima in cui cani e gatti rischiano di più: abbandono, malnutrizione, solitudine. Ivano Piccolomo ha voluto mettere insieme il suo enorme amore per gli animali con quello per la scoperta della sua Puglia, creando Cinovìa – il cammino degli animali.

I progetti connettono l’esplorazione della Murgia e la passeggiata con gli animali. Ma le escursioni sono in continuo divenire: per questo non va persa d’occhio la pagina Facebook.

Navigare con i delfini, a Taranto. Nel golfo di Taranto si può navigare in catamarano e osservare i delfini nel loro habitat naturale. Sembra uno scherzo, ma non lo è. Non c’è bisogno di volare verso mete esotiche e lontane: il mar Ionio offre la possibilità di osservare diverse specie di cetacei. Ci vuole un po’ di pazienza e qualche ora di navigazione in compagnia dello staff dello Jonian Dolphin Conservation, un progetto che sta anche puntando a trasformare l’isola di San Paolo, in un sanctuary dove riabilitare i delfini cresciuti negli ocenari, in cattività. Nel frattempo, continuano a studiare i mammiferi nel golfo di Taranto, mostrando ai visitatori quanto sono belli da liberi, nel mare.

A tutto Gargano. Gargano NaTour è un modo nuovo di scoprire le bellezze del Gargano attraverso esperienze non convenzionali. L’attenzione alla sostenibilità è massima e, attraverso le storie e le esperienze, si può scoprire un territorio ancora poco battuto dal turismo di massa. Da non perdere (nella stagione giusta) l’escursione sul sentiero delle orchidee Abbazia di Monte Sacro, con degustazione di formaggi tipici, oltre a tutte le escursioni e appuntamenti di trekking sul Gargano.

Cosa vedere nel Salento in 7 giorni? Marco su Video. Salento.it il 7 giugno 2021. Molti turisti che ogni giorno contattano Salento.it per prenotare una vacanza ci chiedono: cosa vedere nel Salento in 7 giorni? Questa domanda racchiude la necessità di un viaggiatore di prenotare un alloggio comodo per visitare il Salento partendo da una posizione strategica che permetta di raggiungere la costa adriatica, la costa ionica, il capo di Leuca e la città di Lecce in tempi rapidi.

Tour del Salento: cosa visitare in 7 giorni. Ecco l’itinerario di Salento.it per visitare il Salento in 7 giorni di vacanza. Qui vi elenchiamo i 20 luoghi più belli da visitare in Salento, e da non perdere assolutamente:

la bellezza della città di Lecce ed i suoi monumenti

Ostuni, denominata la città bianca

la zona di Avetrana, Manduria e la salina dei Monaci

La città di Gallipoli ed il suo centro storico

Il santuario di Finibus Terrae a Santa Maria di Leuca

Otranto con la sua Cattedrale ed il suo castello

Le spiagge più belle di Punta Prosciutto, Porto Cesareo e Torre lapillo, e consigliata una gita in barca all’isola dei conigli

la grotta della Zinzulusa a Castro

la grotta della poesia e la scogliera delle 2 sorelle a Torre dell’orso

la cava di Bauxite a Otranto, e la spiaggia di baia dei turchi

la piscina di marina serra, frazione di Tricase

il ponte Ciolo a Gagliano del capo e la meravigliosa litoranea

la località di porto miggiano a Santa Cesarea, e le sue terme

Porto badisco per conoscere la grotta dei Cervi

le spiagge delle maldive del Salento e torre pali con la sua torre in mezzo al mare

il museo di Ugento, oltre alla sua meravigliosa costa

le marine di Santa Caterina e Santa Maria al bagno, e la riserva di Porto Selvaggio

i faraglioni di Sant’Andrea, luogo fantastico sulla costa adriatica salentina

le città di Galatina, con la basilica di Santa Caterina d’Alessandria

i castelli di Copertino, Corigliano d’otranto e Acaya

Vi sembra un pò troppo per 7 giorni di vacanza?

Allora prenotate per 10 – 12 o 15 giorni, oppure tornate a fare una vacanza in Salento, gustandovi questi e tanti altri luoghi meravigliosi di scoprire. 

Cosa fare e vedere in 7 giorni in Salento?

Chiaramente il nostro itinerario non finisce qui, occorre assolutamente ballare la pizzica pizzica in una delle tante sagre paesane della provincia di Lecce, oppure cenare in uno dei ristoranti sul mare, oppure fare il bagno in una delle tante spiagge incantevoli del Salento.

A Lecce, “la Firenze del Sud” il colore della “pietra leccese” dona calore agli edifici e da non perdere la Basilica di Santa Croce e il Duomo.

A Gallipoli, la “perla dello Ionio”, con le sue innumerevoli spiagge incantevoli è un altro esempio di “vacanza perfetta in 7 giorni”.

Tra le più belle località da visitare non può mancare Otranto con il suo suggestivo centro e la sua storia da scoprire.

La spiaggia di Pescoluse è considerata una delle più belle di tutta Italia, e la sua sabbia bianchissima e sottile e i suoi fondali bassi la rendono adatta per vacanze in Salento per famiglie con bambini.

La spiaggia in estate è molto frequentata da turisti e salentini, e si possono trovare una serie di stabilimenti balneari per tutte le tasche. 

Esempi di itinerari per 7 giorni in Salento

Primo Giorno: Lecce, itinerario fra i monumenti del Barocco

Secondo Giorno: Otranto, il centro storico accompagnati da un Ape car

Terzo Giorno: La grotta della Poesia e le marine di Melendugno

Quarto Giorno: Santa Cesarea e Castro marina, le Grotte e le Terme

Quinto Giorno: Marina serra di Tricase, il ponte Ciolo e Santa Maria di Leuca

Sesto Giorno: la città di Galatina, i castelli del Salento e tappa finale in un ristorante del centro storico a Gallipoli

Settimo Giorno: Parco Naturale di Porto Selvaggio fino a Punta Prosciutto, passando da Porto Cesareo 

Come prenotare una vacanza di 7 giorni nel Salento?

Prenotare una vacanza di 7 giorni nel Salento è molto facile.

Ma trovate anche itinerari per 3 – 4 – 5 – 10 – 12 e 15 giorni.

Per il volo occorre inserite le date e visualizzare le tariffe di tutte le compagnie aeree che volano per la Puglia.

La "strage" del coronavirus, al Giannuzzi in 200 non ce l'hanno fatta. Il bilancio della direzione medica che fa un encomio a tutto il personale. La Voce di Manduria sabato 12 giugno 2021. Da martedì scorso è in funzione il nuovo reparto No Covid dell’ospedale Marianna Giannuzzi di Manduria. Sono 15 posti (terzo piano lato pronto soccorso), dedicati a pazienti con patologie sia internistiche che ortopediche, cardiologiche o chirurgiche. In questi 8 mesi nel presidio Covid manduriano sono stati ricoverati 600 persone contagiate dal coronavirus. Circa duecento di loro non ce l’hanno fatta. Il drammatico dato è contenuto in una lettera che la direzione medica del Giannuzzi ha distribuito a tutto il personale sanitario e tecnico. La comunicazione firmata dalla dottoressa Irene Pandiani, contiene un encomio e un ringraziamento rivolto a tutti gli operatori di ogni ruolo per tutto il lavoro svolto. «Nel corso di questi mesi – si legge nella missiva – si è potuto constatare che il personale tutto ha operato con determinazione e coraggio affrontando situazioni che definire drammatiche suona come un eufemismo, adottando correttamente e senza remore nuovi protocolli e stili comportamentali, facendo sì che non si sviluppassero focolai all’interno dell’ospedale». Attualmente solo un paziente in condizioni gravi è ricoverato ancora in rianimazione. Quando sarà dimesso, il reparto di terapia intensiva sarà chiuso per permettere i lavori di potenziamento che prevedono l’aumento di altri tre posti letto. Il reparto ne potrà ospitare otto. Sono intanto in corso gli interventi di sanificazione dei reparti Covid. In questa fase di transizione, secondo quanto annunciato dalla direzione sanitaria del Giannuzzi, un reparto di 10 posti letto situato al quarto piano della palazzina di medicina (ex cardiologia), sarà dedicato ai pazienti Covid mentre un altro Al secondo piano della palazzina medica (ex oncologia) sarà allestiti 10 posti di nefrologia. Dall’ultima rilevazione resa pubblica del 9 giugno, i manduriani ancora positivi al Covid sono 33 e 3 quelli in attesa di tampone che si trovano in isolamento fiduciario.

“La rianimazione non può chiudere”, la minoranza chiede un consiglio con Emiliano. Nazareno Dinoi su La voce di Manduria mercoledì 30 giugno 2021. «Ampliamento sì, chiusura no. Nemmeno momentanea». Dopo il consigliere regionale della Lega, Giacomo Conserva, componente della terza Commissione Sanità della Regione Puglia, ad alzare gli scudi intorno al presidio di terapia intensiva del Marianna Giannuzzi sono ora tutti i consiglieri comunali della minoranza del comune di Manduria che sulla questione anticipano una richiesta di seduta consiliare monotematica con i rappresentanti dei comuni vicini e l’invito al presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano e all’assessore alla Salute, Pier Luigi Lopalco. A farsi avanti, promettendo battaglia, sono i consiglieri di opposizione, Lorenzo Bullo e Domenico Sammarco, rispettivamente capogruppo della coalizione di centrodestra e dei Progressisti e i rappresentanti dei due movimenti civici, Mimmo Breccia e Dario Duggento. Scontata, infine, l'adesione del consigliere leghista, Francesco Ferretti. Unitariamente si faranno promotori di un invito rivolto al sindaco Gregorio Pecoraro per farsi promotore dell’adunanza politica allargata ai colleghi del territorio. L’obiettivo è quello di difendere la rianimazione dell’ospedale cittadino, unico presidio di eccellenza rimasto intatto dopo lo smembramento dell’ospedale per la riconversione in Covid. I piani della direzione medica comunicata agli operatori non convincono. Tecnicamente il reparto dovrebbe essere chiuso per permettere i lavori di ampliamento di ulteriori tre posti per una capienza totale di otto. «Va benissimo lo scopo, ma è sbagliata la procedura e soprattutto il periodo scelto per sospendere l’attività della rianimazione durante il periodo estivo quando l’utenza di decuplica e soprattutto aumentano le patologie traumatiche», è il commento unanime dei consiglieri comunali che hanno preso a cuore il problema. Da un consulto avuto con gli addetti ai lavori, i gruppi politici porranno un’alternativa alla chiusura: isolare l’ala destinata ai tre nuovi posti letto garantendo la sicurezza di tutti e nello stesso tempo l’operatività della terapia intensiva. Ipotesi sollecitata anche dagli stessi operatori preoccupati di vedere vanificati tutti gli sforzi profusi nella faticante battaglia contro il Covid. La rianimazione di Manduria ha trattato in tutto 68 persone con sintomi gravi dell’infezione pandemica, registrando una sopravvivenza del 59%, performance questa tra le migliori nell’ambito del trattamento intensivo a livello regionale e nazionale. Un successo ottenuto con soli 5 medici anestesisti che da un giorno all’altro si sono dovuti «inventare» uno dei pochi reparti in Puglia per il trattamento salvavita dei contagiati dal virus all’ultimo stadio della sopravvivenza.  N.Din.

Vaccini, lunga odissea dei manduriani per la dose a Taranto. Non si conosce il motivo per cui si è deciso di spostare a Taranto tutti i vaccinandi dei comuni del distretto che fa capo a Manduria. La Voce di Manduria martedì 08 giugno 2021. Quattro ore in macchina nel momento in cui scriviamo, molti di più alla fine, e la strada da fare per raggiungere il punto vaccinale dell’ex Auchan di Taranto è ancora lunga. È l’odissea di tre manduriani, una coppia di ottantenni con la figlia che li accompagna per il richiamo del vaccino anti coronavirus. I due anziani hanno ricevuto la prima dose nell’hub della palestra coperta della scuola G.L. Marugj di Manduria e in quella stessa sede avrebbero dovuto ricevere il richiamo. Almeno così era stato loro assicurato. Poi qualche giorno fa è arrivata la telefonata a casa con la comunicazione del cambio di programma e con l’invito a recarsi al drive through allestito nel parcheggio del centro commerciale «Porte dello Jonio». Un viaggio che si rivela una tortura. «Bisogna avvisare la popolazione che deve fare la seconda dose di vaccino a Taranto che è praticamente impossibile», si sfoga Monica De Valerio, l’accompagnatrice dei deu genitori che scrive a La Voce di Manduria per esprimere disagio e rabbia. «Sono bloccata nel traffico con i miei genitori di 80 anni dalle 16, in macchina, sotto il sole e senza servizi igienici», si lamenta. La manduriana invia anche le foto di una interminabile coda di auto dove si cammina a passo duomo tra soste anche di 10 minuti. «La fila comincia da San Giorgio, si prosegue fino alla prima rotatoria dopo L’Auchan e si torna indietro. Fermi, completamente fermi», scrive ancora Monica che non ne può più. Non tanto lei, ovviamente, ma soprattutto i suoi anziani genitori fermi da quattro ore senza servizi. Stessa cosa toccherà a tutti gli utenti dei comuni di Manduria, Avetrana, Fragagnano, Lizzano, Maruggio, Sava e Torricella che si sono vaccinati nella palestra di via Primo Maggio a Manduria. Non si conosce il motivo per cui si è deciso di spostare a Taranto tutti i vaccinandi dei comuni del distretto che fa capo a Manduria. L’unico, a quanto pare, ad aver subito il trasferimento in città, perché gli abitanti di Martina Franca, Massafra, Grottaglie e Ginosa stanno continuando ad operare secondo i programmi. «Una scelta scellerata che penalizza ancora una volta questo versante della provincia abbandonata da Dio e dagli uomini», accusa il consigliere comunale Cosimo Breccia che se la prende con l’inerzia di chi amministra il comune. «Però mi risulta che il nostro sindaco che ha fatto il furbo facendosi vaccinare nella palestra della Marugj, ha fatto ancora il furbetto immunizzandosi con la seconda dose, con tutti i comfort, nella palestra del Classico e non a Taranto come tutti i comuni mortali; tra l’altro proprio il giorno del consiglio comunale in cui ammise la furbizia della prima dose con una vera e propria sceneggiata napoletana che secondo lui avrebbe dovuto commuovere e convincere qualcuno», conclude il leader di Manduria Noscia. L’allarme dei disagi lo aveva anche sollevato il sindaco di Sava, Dario Iaia. «Abbiamo notizia di un giro losco di persone che si fanno pagare sino a 40 euro per accompagnare gli anziani a Taranto». Ancora peggio la paura che saranno in molti, sia per impossibilità economiche o familiari che per pigrizia a rinunciare alla seconda dose.

Vaccini, l'inutile attesa dietro ai cancelli chiusi del liceo classico. La rabbia degli anziani rimandati a casa oppure rinviati a Taranto. La Voce di Manduria sabato 03 luglio 2021. Anziani in attesa dietro ai cancelli chiusi dell’hub vaccinale del liceo classico di Manduria. Sono le scene che si ripetono da giorni e le immagini che pubblichiamo sono quelle di ieri pomeriggio. Attesa inutile al caldo perché i cancelli non apriranno. E’ lo stesso hub vaccinale che il sindaco Gregorio Pecoraro con il suo staff visitavano quotidianamente quando le dosi erano così tante da buttarle (salvo incontrare volontari disposti a farseli), che è ora deserto. Adesso le dosi per i richiami di chi ha fatto l’AstraZeneca non ci sono. Almeno non a Manduria perchè a Taranto qualcosa arriva ma per averla bisogna spostarsi e per le persone anziane non è sempre agevole, soprattutto con le temperature del periodo. Molti stanno rinunciando. Le proteste che giungono in redazione lamentano tutti la stessa cosa: la mancanza di informazione. Persone che hanno la prenotazione per quel giorno e che arrivano in via Sorani trovano chiusi i cancelli senza che nessuno li abbia avvertiti. Oppure che ricevono la comunicazione dell’annullamento ed attendono invano la nuova data che non arriva. E’ il caso del pensionato Franco Mingolla. «È possibile – ci scrive - che un cittadino quasi 80enne, con prenotazione per la seconda dose del vaccino AstraZeneca, a 75 giorni dalla prima dose deve ancora aspettare? Oggi, all'orario stabilito dalla prenotazione – continua Mingolla - ho trovato la sede (liceo classico) chiusa per indisponibilità di dosi AstraZeneca con diverse persone ad aspettare fuori dal cancello d'entrata». Il manduriano si chiede dove siano le istituzioni. «Il signor sindaco che fa? Ma esiste un sindaco a Manduria? Esiste un responsabile alla Sanità nella sua squadra che dovrebbe interessarsi di questi problemi?!, si chiede infine il cittadino.

Troppi contagi ad Avetrana, il comune blinda la piazza principale. Il vicesindaco scarciglia raccomanda cautela e consiglia. La Voce di Manduria lunedì 19 aprile 2021. Centoundici residenti attualmente positivi al coronavirus compreso il sindaco Antonio Minò che si trova in isolamento fiduciario, ed altri 86 in attesa di tampone. Avetrana decide così di blindare i luoghi di aggregazione per evitare assembramenti ma anche il semplice transito e l’uso delle panchine della piazza principale del paese. Sono le ultime misure adottate dal vicesindaco, Alessandro Scarciglia, che sta reggendo le sorti del comune in sostituzione del primo cittadino contagiato dal virus. Il sindaco reggente ha quindi dato disposizione ai vigili urbani di interdire al pubblico Piazza Giovanni XXIII, cuore pulsante e punto di aggregazione della cittadina sulla punta estrema del versante orientale della provincia di Taranto. Gli agenti di polizia urbana hanno così recintato l’intero perimetro della piazza con il nastro e rosso che impedisce l’attraversamento. La preoccupazione tra la popolazione è molto alta anche per i primi decessi per Covid avvenuti nelle ultime ore e per la positività al test registrato su una bambina delle elementari. Per questo Scarciglia ha emesso anche un’ordinanza che sospende le lezioni in presenza delle scuole avetranesi di ogni ordine e grado. È sempre lui, inoltre, a diffondere raccomandazioni alla cautela e al rispetto delle norme sul distanziamento sociale. «Cari concittadini, pochi suggerimenti che possono essere fondamentali», si legge in un suo recente post affidato ai social dove elenca le cose da fare e da non fare per evitare il contagio. «Stiamo in casa se siamo positivi; stiamo in casa se abbiamo avuto contatti con positivi, anche se stiamo bene; se abbiamo sintomi dobbiamo informare il medico curante; non dobbiamo avere paura di contattare il medico e non ci si deve spaventare della possibilità di restare in casa, ne va della nostra salute e di quella dei nostri cari; se abbiamo sintomi, non dobbiamo per nessun motivo curarci da soli; evitiamo qualsiasi tipo di contatto con persone estranee al nucleo familiare. riduciamo le occasioni per fare la spesa, utilizzando orari meno affollati». Il livello di rischio ad Avetrana è cresciuto repentinamente in pochi giorni. Basti pensare che sino a dieci giorni fa il comune era quello con il minor numero di contagiati di tutta la provincia di Taranto. Qualche focolaio, non ancora individuato, ha poi diffuso il virus che le autorità locali tentano di circoscrivere e bloccare in tutti i modi. Nazareno Dinoi

Sindaco di Avetrana positivo al Covid. Chiusi gli uffici comunali. Redazione de La Voce di Maruggio il 14 Aprile 2021. Il vicesindaco di Avetrana,  Alessandro Scarciglia, firma l’ordinanza urgente della chiusura, per tre giorni, di tutti gli uffici del comune. Antonio Minò, primo cittadino di Avetrana, è risultato positivo al Covid-19. Il sindaco, aveva accusato già nei giorni scorsi primi sintomi, così si è sottoposto al tampone rapido che ha dato esito positivo. Prima del test il sindaco era stato sul comune dove avrebbe sostato in diversi uffici. Per questo, in via precauzionale, il vicesindaco Alessandro Scarciglia ha firmato un’ordinanza urgente disponendo la chiusura di tutti gli uffici comunali per tre giorni. «Constatato – si legge nell’ordinanza del firmata dal vicesindaco – che in data odierna (12.04.2021 ndr ) è stata comunicata dalle competenti autorità la positività di un membro della Giunta Comunale». … omissis ordina … per il periodo 13 aprile – 15 aprile 2021 compreso, la chiusura degli uffici comunali, fino a sanificazione avvenuta e fino all’effettuazione dei tamponi faringei a cui si sottoporranno i dipendenti comunali». Avetrana, negli ultimi giorni, ha registrato un picco di contagi mai raggiunto prima. Dagli ultimi dati ufficiali dell’11 aprile, gli avetranesi positivi sono 70 e 63 in quarantena ed isolamento domiciliare fiduciario. Dopo il municipio chiuso per tre giorni, il comune di Avetrana sospende anche l’attività delle scuole per tutto il mese in corso. L’ordinanza, firmata da Alessandro Scarciglia si è resa necessaria per un genitore di uno studente risultato positivo al Covid e per l’attesa di poter effettuare il tampone ad alcuni studenti. Sempre nella giornata di ieri, il vicesindaco ha firmato “con grandissimo dispiacere“- lo comunica in un video su Facebook–  un’ordinanza che vieta lo stazionamento in alcune strade e piazze di Avetrana. Il divieto riguarda l’accesso alle aree gioco dei parchi e delle aree ludiche attrezzate situate in Piazza Unicef, Piazza Collodi e Parco Belvedere; la circolazione sul territorio comunale dalle ore 18:00 alle ore 22:00 per i minori di anni 18, se non accompagnati da un maggiorenne convivente e salvo che per comprovate e documentate esigenze di salute, lavoro o estreme necessità: divieto di consumare cibi e/o bevande al di fuori degli esercizi commerciali di ogni tipologia, nei luoghi pubblici o aperti al pubblico; l’attività motoria all’aperto è consentita solo in forma individuale. Scarciglia, fa sapere che ha contattato tutte le forze di polizia, chiedendo loro il massimo rigore nei controlli sul territorio avetranese.

Aumento di contagi, Avetrana chiude il municipio, scuole e piazze. La Voce di Manduria martedì 13 aprile 2021. Dopo il municipio chiuso per tre giorni, a partire da ieri, per l'accertata positività al coronavirus del sindaco Antonio Minò (attualmente in quarantena), il comune di Avetrana sospende anche l'attività delle scuole per tutot il mese in corso. La misura, firmata dla vicesindaco Alessandro Scarciglia con apposita ordinanza, si è resa necessaria per la presenza di un genitore di uno scolaro positivo al Covid ed anche dall'attesa di tampone di alcuni studenti. Il numero due della giunta Minò ha anche firmato un'ordinanza che vieta lo stazionamento in alcune strade e piazze di Avetrana. Il divieto riguarda l'accesso alle aree gioco dei parchi e delle aree ludiche attrezzate situate in Piazza Unicef, Piazza Collodi e Parco Belvedere; la circolazione sul territorio comunale dalle ore 18:00 alle ore 22:00 per i minori di anni 18, se non accompagnati da un maggiorenne convivente e salvo che per comprovate e documentate esigenze di salute, lavoro o estreme necessità: divieto di consumare cibi e/o bevande al di fuori degli esercizi commerciali di ogni tipologia, nei luoghi pubblici o aperti al pubblico; l'attività motoria all'aperto è consentita solo in forma individuale. Alla data del 9 aprile gli avetranesi positivi al test erano 65 e 53 quelli in isolamento in attesa di tampone. 

NdA: Misure stringenti anticovid ad Avetrana. Siamo già in zona rossa e, quindi, sono state dette delle banalità. Le norme enunciate come più stringenti, sono già in vigore come regole nazionali, sempre che tali norme si conoscano, si rispettino e si facciano rispettare. Lo stesso sindaco, poi risultato positivo al Covid, aveva esortato la cittadinanza a rispettare tali norme con un video pubblicato l’11 aprile 2021. Probabilmente lassù, nello stesso municipio, tali norme non erano osservate, se è vero, come è vero, che i locali sono stati sanificati per tre giorni. Come si dice: il pesce puzza dalla testa.

Situazione preoccupante per i contagi ad Avetrana che decreta il lockdown comunale. Intanto il sindaco della cittadina, Antonio Minò, è stato ricoverato in rianimazione per il Covid. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 23 aprile 2021. Il precipitare delle condizioni di salute del sindaco di Avetrana, Antonio Minò (è ricoverato in rianimazione a Manduria per le complicanze dell’infezione da Covid), coincidono con l'impennata di contagi che si registrano nel suo comune la cui attività amministrativa è ora passata nelle mani del vicesindaco Alessandro Scarciglia. Proprio ieri il numero due della giunta ha firmato una nuova ordinanza che decreta il lockdown cittadino. Il sindaco pro tempore ha annunciato ieri le nuove misura con una diretta Facebook dai toni drammatici. «La situazione è davvero critica e mio malgrado sono stato costretto a firmare un'ordinanza che intensifica le misure anti contagio applicate sinora», ha detto Scarciglia annunciando i dati dell'ultimo bollettino della Prefettura-Asl i quali assegnano al suo comune numeri severi. Gli avetranesi attualmente contagiati e positivi al Covid sono 133, più 20 rispetto alla precedente rilevazione di due giorni prima; sono 87 invece quelli in quarantena in attesa di tampone per un totale di 220 persone che hanno avuto a che fare con il virus. Sono tanti per un comune di 6.300 anime, pari a 211 positivi per 10mila abitanti. Ed ecco le misure adottate ieri che si applicano da oggi sino al 2 maggio. Chiusura totale, vale a dire per tutta la giornata e per tutta la settimana, di bar, pub, rosticcerie e sale ristoro in genere che potranno vendere prodotti solo con consegna a domicilio. Vietato l'asporto. Tutte le attività commerciali, di ogni settore, chiuderanno alle ore 17 dal lunedì al sabato, domenica chiusura completa. Nei festivi serrata totale di ogni settore merceologico fatta eccezione per farmacie, parafarmacie, edicole e stazioni carburante che dal lunedì al sabato chiuderanno due ore dopo rispetto agli altri settori. Nei giorni festivi resta chiuso anche il cimitero. Negli altri giorni è vietato, in presenza di funerali, di recarsi al domicilio del defunto fatta eccezione dei parenti. Le scuole erano state già chiuse da una precedente ordinanza. «Mi rendo conto dell'enorme sacrificio che chiedo agli avetranesi per queste misure drastiche ma necessarie», afferma Scarciglia ancor più preoccupato dell'abbassamento dell'età media dei contagiati. «Basti pensare ha detto - che la fascia d'età più colpita è quella dai 51 ai 60 anni». Molti anche i giovanissimi colpiti dal virus: 6 contagiati non superano i 7 anni, 10 i 20 anni e 15 nella fascia tra i 21 e 30 anni. «Il trend si è praticamente invertito rispetto a come ci ha abituati questa pandemia - ha concluso Scarciglia - adesso gli anziani sembrano immuni mentre il virus sembra prediligere i giovani e giovanissimi». N.Din.

Il Covid si porta via "Ronzino", con lui è rifiorito il calcio ad Avetrana. Monica Rossi su La Voce di Manduria mercoledì 02 giugno 2021. Non ce l’ha fatta. Il maledetto Covid è riuscito a sconfiggere anche lui, una persona brava e gentile, sorridente e allegra, amico di tutti. Oronzo Dimitri detto “Ronzino” era di Avetrana, classe ‘56, aveva solo 65 anni e tanta voglia di vivere ancora. Era ricoverato da circa un mese nella rianimazione dell'ospedale MArianna Giannuzzi dove è spirato. Con lui anche l'amico di una vita, il sindaco di Avetrana Antonio Minò, colpito dal virus anche lui in gravi condizioni. Tante le persone che vorrebbero ricordarlo, era un geometra che ha insegnato a tanti ragazzi, é stato il presidente dell’Inter Club negli anni ‘85/‘89 e fondò la squadra di calcio giovanile, nel 2000 fonda la ProLoco Avetrana che riuniva tutti gli sport che poi rimane presidente della squadra di pallavolo, riuscendola a portare in serie C. Nel 2011 è presidente della ProLoco di Avetrana. Ha portato i ragazzi all’estero a fare molti tornei di calcio. Lo strazio é tanto in paese e molte persone si sentono orgogliose di poter dire qualcosa sull’amico scomparso “non ci sono parole, un amico speciale, era una persona solare, sincera e corretta. Avetrana ha perso una persona speciale perché per ricordarlo non basterebbe una sola giornata. Riusciva a trasformare momenti poco belli con il suo sorriso... descrivere Ronzino non basterebbe un intero libro” dice tra le lacrime il suo amico e collega Daniele Petarra: “aveva correttezza e umiltà da vendere. Ha sempre accettato di ammettere le sue difficoltà”. I funerali si terranno ad Avetrana in forma riservata per le norme Covid. Lascia la moglie e la figlia Paola. Monica Rossi

Guarito dal Covid, ma ancora in coma. Il calvario del sindaco di Avetrana. Nazareno DINOI Venerdì 16 Luglio 2021 su Quotidiano di Puglia e Manduria Oggi. «Aiutateci a trovare un posto letto per nostro padre che ha bisogno di assistenza specialistica in un centro di riabilitazione neurologica, in tutta Italia non se ne trovano». È il disperato appello delle figlie del sindaco di Avetrana, Antonio Minò, da due mesi ricoverato nella rianimazione dell'ospedale di Manduria, colpito dagli esiti del Covid che si sono drammaticamente complicati.

Il virus poi il coma. Il 61enne aveva contratto il coronavirus durante la fase più acuta della pandemia nella provincia di Taranto e nel suo comune. Aveva presentato i sintomi in maniera lieve e dopo una settimana di terapia domiciliare era stato ricoverato nel reparto Covid del pronto soccorso e da lì trasferito dopo qualche giorno in rianimazione dove ha avuto una serie di complicanze dalle quali è uscito vivo grazie alla tempestività e alla bravura dei sanitari che lo hanno riportato in vita in più occasioni. Ora si è negativizzato dal Covid, ma è in coma semicosciente, respira grazie alle macchine ed ha bisogno di assistenza neurologica intensiva in un centro per risvegli, indisponibile in tutta Italia.

L'appello delle figlie. «Attraverso i medici della rianimazione raccontano le figlie del sindaco ci siamo rivolte a tutti i centri pugliesi, sia privati che pubblici, che ci hanno chiuso la porta; abbiamo cercato disponibilità anche all'ospedale di San Giovani Rotondo, al Policlinico di Bari, al centro risvegli di Crotone e di Imola, persino all'Istituto Clinico Humanitas di Milano, ma nessuno è stato disposto ad aiutarci». La famiglia Minò si rivolge alle autorità sanitarie e politiche della Regione e a tutti coloro i quali potrebbero fare qualcosa per liberare un posto. «Non chiediamo un privilegio per il ruolo che ricopre nostro pare sottolineano le figlie -, chiediamo solo che come qualsiasi cittadino anche lui abbia il diritto alla sopravvivenza e alle cure così come è sancito dalla Costituzione e dalle leggi dello Stato e del Signore». Un diritto che da quasi un mese, da quando cioè i rianimatori del Marianna Giannuzzi hanno concluso il loro compito stabilendo la necessità di un trattamento intensivo specifico, gli viene di fatto negato. «I medici che lo hanno in cura e che non finiremo mai di ringraziare per tutto quello che hanno fatto e continuano a fare per il nostro papà -, dice Sabrina, la figlia più piccola del primo cittadino sono stati chiari con noi, hanno detto che il tempo trascorso in quelle condizioni non fa che allontanare di più una possibile ripresa». Che sarà più difficile da raggiungere quanto più lungo sarà il tempo di questa assurda attesa di un posto letto. «Un paziente non può stare tanto tempo senza un percorso terapeutico che gli spetta di diritto per una mancanza della sanità pubblica», aggiunge Stefania, la più grande delle figlie che con la madre Anna Rita seguono quotidianamente il decorso della malattia causata dal coronavirus facendosi anche carico di gestire gli affari di famiglia. A rendere difficoltoso l'inserimento del paziente in un centro di neuroriabilitazione intensiva, sono le sue particolari condizioni. «Chi ci dice che non lo può prendere perché fa dialisi e chi invece si rifiuta perché è ancora attaccato ad un respiratore, ma nostro padre giorno per giorno mostra segni di ripresa, ci riconosce e comincia a muovere gli arti e ad emette dei suoni, cosa vogliono di più?, che si alzi da solo e bussi alla porta del reparto?», si sfogano le donne stremate e sconfortate da tanti rifiuti. «Vorremmo sbagliarci, ma abbiamo il sospetto che i motivi siano di altra natura e che i rifiuti rispondano ad interessi che cozzano con quel diritto alla salute che soprattutto il sistema sanitario pubblico deve garantire a chiunque», dichiarano ancora i familiari di Minò, vittima della pandemia ed ora anche di un sistema che evidentemente non funziona. Il sindaco ha contratto il virus quando non era ancora stato vaccinato (la sua età non lo permetteva), nel periodo in cui Avetrana registrava il numero di positivi più alto di tutta la provincia di Taranto. Con 6.700 abitanti, gli infettati erano 147 ed altri 71 in isolamento fiduciario domiciliare o in attesa di tampone. Cifre impressionanti rapportate al numero di residenti: 219 avetranesi su diecimila erano positivi al Covid, tra le percentuali più alte, allora, dell'intera regione. Per questo il vicesindaco Alessandro Scarciglia, sindaco reggente del piccolo comune, decise in quel periodo di blindare il paese vietando gli ingressi, chiudendo tutte le scuole e persino impedendo l'uso della piazza principale e di tutti i luoghi di aggregazione del paese.

Anno 2021. La rimpatriata in cielo dei socialisti avetranesi. Ronzino Dimitri ed Antonio Minò morti per Covid. Fatal fu per loro la partecipazione a quel funerale del 9 aprile 2021 dell’ex sindaco socialista Francesco Galati morto per un terribile male. Tutti e tre candidati alle Elezioni Amministrative Comunali del 26 giugno 1983 nella lista del PSI.

La sezione urbanistica del comune di Avetrana è inadeguata», le accuse dell'ingegnere. Per il tecnico quindi le «disfunzioni e ritardi» sono «talvolta al limite della comune pazienza». La Voce di Manduria giovedì 14 marzo 2019. C’è attrito tra alcuni professionisti delle costruzioni, ingegneri e geometri, di Avetrana e l’amministrazione comunale per la presunta «inadeguatezza» della sezione urbanistica ed edilizia dell’ufficio tecnico comunale. «Con rammarico, dopo reiterate e improduttive sollecitazioni personali dirette – scrive l’ingegnere Franco - mi vedo costretto a fare ricorso alla stampa per esprimere il personale disagio, sul piano professionale, rispetto alla inadeguatezza, ormai conclamata, della sezione Urbanistica ed Edilizia dell'UTC nell'offrire ai cittadini e a noi tecnici che ne rappresentiamo il tramite, servizi di appena accettabile qualità». La situazione creata, secondo l’ingegnere, non sarebbe ascrivibile al personale in servizio ma a scelte a monte che «col depotenziamento del suddetto ufficio, inteso come drastico ridimensionamento delle ore di servizio offerto alla comunità – spiega - hanno determinato forti criticità nel rapporto con i cittadini». Per il tecnico quindi le «disfunzioni e ritardi» sono «talvolta al limite della comune pazienza». Pronta la replica di Pasquale Nardelli, coordinatore cittadino di Forza Italia, partito di cui fa parte il sindaco Antonio Minò. Per Nardelli, le responsabilità provengono da lontano. «Oggi non si può addebitare i danni a codesta amministrazione – afferma - ma a chi ci ha fatto dono, con i nostri soldi, di un piano regolatore copia incolla identico a quello di Taranto», quindi inadatto ad un territorio come Avetrana che adesso, secondo il forzista, ne starebbe pagando le conseguenze.

Covid, muore a 62 anni il sindaco di Avetrana: si era contagiato ad aprile. Sul virus diceva: "Non molliamo". Anna Puricella su La Repubblica il 17 settembre 2021. L'uomo era stato ricoverato prima a Manduria e poi a San Giovanni Rotondo. Cordoglio della politica e dei cittadini: "Pensare che c'è ancora chi dice che il virus non esiste". È morto a causa delle complicanze provocate dall'infezione da coronavirus, Antonio Minò, 62enne sindaco di Avetrana (Taranto). Il primo cittadino, risultato positivo nello scorso mese di aprile, era stato prima ricoverato nell'ospedale di Manduria (Taranto) e poi trasferito a "Casa sollievo della sofferenza" di San Giovanni Rotondo (Foggia) dove è morto. "Avetrana piange la prematura scomparsa del proprio sindaco. Non ci sono parole da aggiungere, soprattutto in questo momento. Alla famiglia le più sincere condoglianze da parte dell'intera comunità", si legge sulla pagina facebook del Comune. E il cordoglio viaggia sui social, anche sulla pagina personale del sindaco: "E pensare che c'è ancora chi dice che il virus non esiste", scrive una cittadina. Minò si era speso nel corso del suo mandato, il secondo alla guida della città diventata tristemente nota per l'omicidio di Sarah Scazzi, contro il Coronavirus e durante il primo lockdown lanciava appelli all'uso delle mascherine e al distanziamento: "Non molliamo", scriveva.

Covid: Avetrana in lutto, muore a 62 anni il sindaco. Antonio Minò era ammalato da aprile. Il saluto del vice sindaco su Facebook e il cordoglio di Fi. La Stampa il 17 Settembre 2021. E' morto per le complicanze cardiache e respiratorie Antonio Minò, 62 anni, sindaco di Avetrana (Taranto), che aveva contratto il Covid nell'aprile scorso. Era stato trasferito nell'ospedale di San Giovanni Rotondo, dalla rianimazione dell'ospedale Giannuzzi di Manduria (Taranto). Minò lascia la moglie e due figlie. Era stato eletto nel giugno del 2016 con una coalizione di centrodestra e stava preparando la sua seconda candidatura. Su Facebook il saluto del vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia: «Semplice, gioioso e con lo sguardo rivolto sempre lontano. Nella tua vita - scrive - hai combattuto tanto, vincendo diverse battaglie», ma «non ce l'hai fatta a superare le conseguenze di questo maledetto Covid. Oggi la comunità avetranese, la tua comunità, perde una grande persona». Esprimono cordoglio anche il commissario regionale di Forza Italia, l'on Mauro D'Attis, e il vice commissario, il sen Dario Damiani: «Con Antonio Minò - scrivono - perdiamo un amico e un collega che si è dedicato alla politica e alla gestione della cosa pubblica con tanta passione. La comunità di Avetrana perde il suo sindaco, che quasi certamente sarebbe stato rieletto in queste elezioni amministrative».

I messaggi di cordoglio per la morte del sindaco Antonio Minò. Le forze politiche esprimono cordoglio e dolore per la perdita del primo cittadino esponente di Forza Italia. La Voce di Manduria venerdì 17 settembre 2021

Nota del commissario regionale di Forza Italia, l’on Mauro D’Attis, e del vice commissario, il sen Dario Damiani. “Con Antonio Minó perdiamo un amico e un collega che si è dedicato alla politica e alla gestione della cosa pubblica con tanta passione. La comunità di Avetrana perde il suo sindaco, che quasi certamente sarebbe stato rieletto in queste elezioni amministrative. Giunga il cordoglio di tutta Forza Italia alla sua famiglia, alla quale ci stringiamo con rispetto nel ricordo di Antonio”.

Nota del coordinatore provinciale di Forza Italia di Taranto, Vito De Palma. “L'incredibile e doloroso calvario dell'amico Antonio Minó, Sindaco di Avetrana, è giunto purtroppo al termine nel peggiore dei modi. La sua scomparsa ci addolora profondamente e desideriamo esprimere la più sentita vicinanza alla sua famiglia e all'intera comunità avetranese. Contagiato dal Covid, Minó aveva affrontato lunghi mesi di ricovero in ospedale con grande forza d'animo. Ricordiamo la strenua battaglia delle figlie per garantirgli cure adeguate in un momento estremamente delicato e caotico come è stato quello dell'emergenza pandemica nella fase più acuta. E vogliamo ricordare l'impegno politico e amministrativo che il Sindaco Minó non ha mai fatto mancare, per il bene della sua gente e della sua terra. Forza Italia lo ricorda con stima e affetto, porgendogli  con deferenza l'estremo saluto”.

Commento del vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia. Semplice, gioioso e con lo sguardo rivolto sempre lontano. Questa foto ti rappresenta in tutto ciò che sei stato. Nella tua vita hai combattuto tanto, vincendo diverse battaglie. In quest'ultima, però, quella più importante, pur avendo lottato come un leone, non ce l’hai fatta. Non ce l’hai fatta a superare le conseguenze di questo maledetto Covid. Oggi la comunità avetranese, la tua comunità, perde una grande persona. Ciao Antonio. Ciao Sindaco!

Nota del presidente dell'amministrazione provinciale di Taranto Giovanni Gugliotti. Con grande dolore questa mattina ho appreso della scomparsa del Sindaco di Avetrana Antonio Minò. Una persona di grande umanità, che ha dedicato gran parte della sua vita al prossimo e alla sua amata Avetrana, impegnandosi con alto impegno civico. La sua scomparsa, causata dalla pandemia contro la quale combattiamo, è un dolore per l'intera Terra Ionica, che perde un uomo per bene e un protagonista della vita amministrativa e politica.

Esprimo il profondo cordoglio dell'intera Amministrazione Provinciale ai familiari ed alla comunità di Avetrana. Giovanni Gugliotti

Vaccinazioni anti Covid nel distretto Messapico: più avanti Avetrana, poi Manduria e Fragagnano. Nel capoluogo si è vaccinato con almeno una dose il 79,3%. La Voce di Manduria lunedì 13 settembre 2021. In tutta la provincia di Taranto hanno completato il ciclo vaccinale oltre 388mila abitanti. La percentuale dei residenti (maggiori di 12 anni) vaccinati con almeno una dose ha raggiunto il 79%, Nel capoluogo è vaccinato con almeno una dose il 79,3% dei residenti maggiori di 12 anni.

Nei comuni del distratto sanitario che fa capo a Manduria, solo Avetrana ha raggiunto e superato di un punto l’obiettivo dell’81% di vaccinati con almeno una dose.

Di seguito la classifica dei sette comuni del distretto manduriano

Avetrana l’81,3%

Manduria il 76,9%

Fragagnano il 76,9%

Sava il 75,6%

Maruggio il 75,4%

Lizzano il 75,2%

Torricella il 75%.

BIBLIOTECA COMUNALE DI AVETRANA

OMAGGIO AGLI EROI DI AVETRANA 2015

Funere mersit acerbo. (G.Carducci)

Nel corso della grande guerra Avetrana aveva visto cadere molti dei suoi giovani, alcuni risultarono dispersi, altri infine riuscirono fortunatamente a tornare alle proprie case e riabbracciare i loro cari. Passarono alcuni anni e il 12 ottobre 1924 l'Associazione Combattenti e Reduci, nella persona del presidente Luigi Spedicato, facendosi interprete del comune sentimento della cittadinanza invia alla Curia diocesana di Oria la richiesta di permesso a celebrare all'aperto una messa in occasione della ricorrenza del 4 novembre, facendo coincidere tale evento con la posa della prima pietra per l'erezione del monumento ai caduti. Il 13 ottobre il permesso arriva e il 4 novembre 1924 l'arc. Ferrara celebra una messa solenne alla presenza del sindaco Aristodemo Marasco e delle autorità militari. La lapide marmorea commemorativa ai caduti e dispersi della Grande Guerra sarà realizzata però solo nel 1931, allorquando il dott. Michele Pignatelli, presidente insieme all'assemblea della ormai sciolta Cassa Agraria, intese devolvere la somma residua di £ 3249,52 per l'erezione di un ricordo marmoreo ai caduti della grande guerra. Nel 1932 il Commissario Prefettizio Alessandro Selvaggi commissionò quindi al prof. Raffaele Giurgola di Lecce la realizzazione della targa marmorea. Essa fu poi addossata alla Torre dell'Orologio in Piazza del Popolo. La lapide venne realizzata in marmo bianco di Carrara, mentre la parte decorativa (il fante in basso rilievo e il fascio del littorio, poi asportato alla caduta del regime) era in bronzo. Il prezzo convenuto fu quello di lire 4500. Sulla lapide furono incisi i nomi di militari avetranesi morti o dispersi in guerra emersi dalla documentazione dell'epoca. Ma l'elenco era purtroppo incompleto. Recenti ricerche d'archivio hanno infatti fatto luce scoprendo molti nominativi di altri soldati avetranesi morti in guerra o per malattie contratte durante il conflitto: ad oggi il numero ascende a 57. Trascorrono pochi anni e le vicende belliche del 1940 riportano l Italia ancora una volta in guerra e per molti giovani avetranesi arriva puntuale la chiamata alle armi. Altre giovani vite vengono sacrificate sull'altare della patria: 47 furono gli avetranesi caduti in questo nuovo conflitto. Ad essi vanno aggiunti gli altri militari, ben 68, che hanno patito la fame e gli stenti nei campi prigionia. Già nel 1949 all'indomani della Grande Guerra l'Associazione Combattenti chiedeva al sindaco, tramite il presidente Alfredo Coppola, di poter iniziare una sottoscrizione da destinare all'erezione di un monumento a tutti i caduti. L iniziativa non ebbe seguito. Nel 1960 il presidente dell'A.C.R. di Avetrana Leonardo Caraccio facendosi interprete del comune sentire circa la realizzazione di un nuovo monumento ai caduti di tutte le guerre chiedeva al comune che all'associazione fosse concesso a titolo gratuito una parte di suolo ove far sorgere il monumento. Il consiglio comunale deliberò poco dopo di concedere all'associazione il piccolo giardino di piazza Trieste al centro del quale costruire il monumento. Nel 1969 si costituì anche un comitato ad hoc per la realizzazione del tanto sospirato monumento. Ma senza esito. Tuttavia dovevano passare ancora alcuni decenni prima che il progetto si realizzasse. Nel 1982 il Comune bandisce un concorso tra ingegneri e architetti per lo studio e la progettazione di monumento ai caduti. Fu istituita una commissione ad hoc, arrivarono gli elaborati tecnici ma si dovette ancora una volta soprassedere perché problemi più urgenti presero il sopravvento. Il tutto però riprende vigore nel 1989 quando toccò al Direttore Didattico Antonio Nigro perorare appassionatamente la causa del monumento...Nel giugno del 1994 si costituisce infatti un comitato Pro Monumento ai Caduti con presidente Alfredo Dimitri il quale grazie agli aiuti economici del comune, che concede all A.C.R. l'area in piazza Bengasi, e al concorso della Cassa Rurale e Artigiana realizza un suggestivo monumento. Il Progetto viene affidato all'Architetto Giuseppe Nigro: una piramide a base triangolare poggiante su basamento a forma cilindrica. Finalmente un monumento rendeva onore anche ai caduti del secondo conflitto mondiale! Celestino Scarciglia

CADUTI E DISPERSI DELLA GRANDE GUERRA

1.                  ADDABBO Antonio di Vito Donato e Stasi Vita Crescenza, soldato CC. Di Roma n. Avetrana 1/04/ Albania per ferite i combattimento.

2.                  ANGIULLI Biagio Rarimondo di Pietrantonio e Surio Cristina sold. 138 regg. Fanteria n. Avetrana scomparso in prigionia.

3.                  BALDARI Angelo di Vincenzo sold. e Decursi Addolorata 142 regg.to fanteria n. Avetrana 7/01/ /09/1918 c/o ospedale mobile chirurgico per ferite.

4.                  COLUCCI Cosimo di Leonardo e Screti Antonietta caporale 60 regg.to fanteria n. Manduria 2/01/ / disperso sul monte Asolane.

5.                  COSMA Salvatore di Vincenzo e Filomena Salamino, soldato 138 regg.to fanteria n. Avetrana 21/07/ /04/1918 in Avetrana per malattia contratta in guerra.

6.                  DEFALCO Vito di Angelo e De Nitto Angela 9 regg.to Bersaglieri n. a Carosino il 26/08/ il 24/01/1916 sul Carso per ferite.

7.                  DERINALDIS Giovanni Leonardo di Silvano e Malagnino Biagina 264 regg.to fanteria nato in Avetrana 11/07/ /07/1918 ospedaletto da campo n. 319 per meningite cerebro spinale.

8.                  DETOMMASO Vincenzo di Giuseppe e De Franco Salvatrice132 regg.to fanteria n. 1/10/1891 Avetrana + 4/11/1915 Monte S..Michele per ferite.

9.                  FINA Michele di Pasquale e Maddalena Laserra 65 batteria bombardieri n.23/05/1897, + 21/09/1918 sul monte Grappa per ferite a testa e gambe da scheggia di granata, sepolto nel cimitero militare di Cason di Meda.

10.               FOGGETTI Domenico Antonio di Luigi e Amatulli Maria Antonia n. 11/09/1879 morto 1/01/1919 per malattia contratta in guerra.

11.               FOGGETTI Santo Alberico di Alberto e De Franco Consiglia 96 regg.to fanteria n. Avetrana 1/11/ /10/1916 sul medio Isonzo per ferite.

12.               GABALLO Biagio di Santo e Scarciglia Maria Teresa 129 regg.to fanteria n. 8/02/1881 Avetrana + 17/03/1918 ospedale da campo n. 224 per broncopolomonite.

13.               GALASSO Lorenzo di Massimino e Galluzzi Francesca 70 regg.to fanteria nato 10/09/1899 Avetrana + 17/03/1918 per ferite.

14.               GIANNINI Biagio di Vito e Amatulli Teresa n.05/05/1888 in Avetrana, soldato del 39 regg.to fanteria disperso sul Piave il 19/06/1918 per combattimento.

15.               GIOIA Bonaventura Michele Arcangelo di Salvatore n. 21/03/ regg.to fanteria + 21/02/1918 per malattia.

16.               GIUSI Cesare di Salvatore e Vita Parisi 682 compagnia artiglieri n. 10/12/1895

7 disperso il 27/05/1917 sul Carso per ferite.

1.                  GRECO Giovanni di Francesco e Trono Maria Antonia 234 regg.to fanteria n. 22/07/1879 Avetrana, + 14/05/1918 nella 2 sezione di sanità, per peritonite acuta da perforazione intestinale.

2.                  LANZO Costantino di Carmelo e Scarciglia Rosa133 regg.to fanteria n. 1/07/1896 Avetrana disperso sul medio Isonzo in combattimento il 14/08/1916.

3.                  LANZO Michele di Francesco e Pesare Cristina n. 8/10/1895 Avetrana 77 regg. to fanteria + 29/12/1917 a Padova per malattia.

4.                  LASERRA Francesco Salvatore di Celestino e Scarciglia Cosima 80 regg. to anteria n. 5/06/1896 in Avetrana + 20/06/1918 sul Piave per ferite riportate in combattimento.

5.                  LOMARTIRE Giuseppe di Giovanni e Panzuto Giuseppa caporale 9 regg.to fanteria n. Avetrana 26/08/ il 13/11/1917 sull'altopiano di Asiago per ferite MAGGI Onofrio n. a Manduria di Alessandro e Ferretti Elvira.

6.                  MARASCO Francesco di Michele e Sammarco Rosa soldato 157 regg.to fanteria, n. Avetrana 19/11/ /08/1915 nel settore Tolmino per ferite.

7.                  MARASCO Vito di Michele Sammarco Rosa 9 regg.to fanteria, n. Avetrana 2/11/ /07/1915 sul monte S.Michele per ferite.

8.                  MASSARI Pietro di Gregorio e Caccietti Assunta 532 compagnia artiglieri, n. Avetrana 9/10/ /04/1918 in prigionia per tubercolosi polmonare sepolto nel cimitero del campo di prigionia di Iheinrischsgrun.

9.                  MICELLI Giuseppe Costantino di Salvatore Lanzo Carolina nato il 15/09/1892 e morto il 29/07/1925 per malattia contratta in guerra. MITRANGOLO Emanuele di Francesco e Nigro Caterina 139 reg. to fanteria, n. Avetrana 7/06/ /06/1917 a Chioggia per ferite.

10.               MORLEO Mario Costanzo di Michele e Antonietta Mingolla sottotenente di complemento, 37 reg.to fanteria, n. Avetrana 25/09/ /10/1915 sul medio Isonzo per ferite (Plava, Zagora). Una breve nota di pugno dell'arciprete Francesco Ferrara a margine dell'atto di Battesimo ricorda il giovane sottotenente: Morì sott'ufficiale di fanteria; primo caduto di Avetrana nella grande guerra europea compianto dalla cittadinanza tutta perché ottimo giovine da un ottimo avvenire sorriso stroncato crudelmente dallo stesso suo eroismo giovanile votato alle fortune della patria. Zagora 28.X F. Arch. Ferrara.

11.               NIGRO Angelo di Antonio e Lanzo Teresa 140 reg.to fanteria, n. Avetrana 2/06/1890 Disperso sul Monte S.Michele in combattimento.

12.               NIGRO Salvatore di Michele ed Eupremia Mitrangolo 10 reg.to fanteria n. Avetrana 18/04/ /06/1916 sul monte Cappuccio in seguito ad azioni di gas asfissianti.

13.               PANZUTO Biagio Salvatore di Nicola e Potenza Maria 81 compagnia presidiaria n. Avetrana 21/01/ /09/1918 a Taranto per malattia PARISI Giuseppe di Cosimo e Biagina Mitrangolo 217 reg.to fanteria n. Avetrana 1/12/ / monte S.Michele per ferite in combattimento.

14.               PERNORIO Giuseppe di Cosimo e Massari Addolorata caporale 32 reg.to fanteria n. Avetrana 13/12/ Disperso 19/05/1917 sul monte Vodice in combattimento.

15.               PERTOSO Leonardo Giuseppe di Rocco Ciro e Maria Nigro 231 reg.to fanteria n. Avetrana 23/01/ /05/1917 sul medio Isonzo per ferite.

16.               PESARE Antonio Michele di Grazio e Affidani Teodora 39 reg.to fanteria, n Avetrana 29/11/ /05/1917 presso ospedale da guerra n.39 per malattia.

17.               PESARE Carmelo Massimino di Grazio e Affidani Teodora 16 reg.to fanteria n. Avetrana 23/01/ /02/1916 in Albania per malattia.

18.               PEZZAROSSA Giovanni Battista Tommaso di Valerio e De Franco Vincenzina 133 reg. to fanteria n. Avetrana 23/01/ Scomparso in prigionia.

19.               PEZZAROSSA Leonardo di Giuseppe e Sammarco Maria caporale 43 reg.to fanteria n. Avetrana 26/08/ /09/1917 ad Alessandria per malattia contratta in guerra.

20.               PEZZAROSSA Nicola di Tommaso e n. in Avetrana il 24/09/1891.

21.               PEZZAROSSA Tommaso di Valerio e De Franco Vincenzina n. 23 gennaio 1889 in Avetrana soldato morto in Austria durante la prigionia.

22.               PRESICCE Cosimo di Vito Antonio e Strafella Santa 134 regg.to fanteria n. Leverano distretto di Lecce 22/07/ /07/1916 c/o ospedale militare di Bologna per ferite.

23.               RIZZO Orazio di Michele e Cosima Loperto 9 reg.to fanteria n. Lizzano 20/03/ /08/1916 sul Carso per ferite.

24.               SAMMARCO Leonardo di Cosimo e Greco Raffaela 9 reg.to fanteria n. Avetrana 15/04/ /12/1915 sul monte S. Michele per ferite SARACINO Angelo di Gaetano e Ceglie Rosa.

25.               SARACINO Arcangelo di Cataldo e Parisi Rosa 36 reg.to artiglieria di campagna, n. Avetrana 20/11/ /07/1917 a S.Martino di Castrozza per ferite provocate da proiettile nemico.

26.               SARACINO Giuseppe Cosimo Antonio di Francesco e Screti Maria 135 reg.to fanteria n. Avetrana 16/11/ /01/1918 sul monte Grappa ( Molza Valpore di Cima) per ferite multiple.

27.               SCARCIGLIA Damiano Cosimo di anni 37, nato in Avetrana il 27/01/1880 di Antonio e Rosa Scarciglia. soldato del 256 Reggimento M. Territoriale morto in Lecce il 25/11/1917.

28.               SCARCIGLIA Valerio di Luigi SICARA Pietro di Giuseppe e Palumbo Vincenza n. Avetrana 1/11/ reg.to fanteria + 10/05/1917 sul Carso per ferite.

29.               SPAGNOLO Cosimo Celestino di Speranza e Massafra Maria, Caporale magg. n. Avetrana 1/01/ /06/1915 sul medio Isonzo presso Plava per ferite. Caporale Maggiore.

30.               SPAGNOLO Pasquale di Virgilio Francesco e Maria Rosa Vitale soldato 9 reg.to fanteria n Manduria 24/03/ /04/1916 monte S.Michele presso Aggerihus Boscolancia (Austria) per ferite in combattimento.

31.               SURIO Giuseppe Antonio di Raimondo e Potenza Serafina n. Avetrana 2/03/1876, 276 Batt.ne M.T.,

9 + 10/05/1917 in Avetrana per malattia TRONO Ricciotti di Tobia e Maddalena Schifone 15 reg.to fanteria n. Avetrana 10/09/ /12/1917 alle ore 12,00 presso l ospedale di Caserta per malattia contratta in guerra.

ZIZZARI Salvatore di Silvestro e Giuseppa Pepe 3 regg.to fanteria n. Avetrana 24/02/ /12/1918 ospedale da campo n.129 per colpo di schioppo nella sezione della carotide, sepolto nel cimitero greco-cattolico Gjergyò Vertegg.

ZIZZARI Santo di Silvestro e Giuseppa Pepe, n. Avetrana 1/05/ regg.to artiglieria da montagna, 32 batteria + 3/11/1917 nel reparto ricovero dell ospedale da campo n. 129 per broncopolmonite e sepolto nel cimitero comunale di Castelfranco Veneto il 26/12/1918.

ZIZZARI Vincenzo di Silvestro e Giuseppa Pepe caporale 24 regg.to fanteria, n. Avetrana 21/01/ /06/1918 sul monte Grappa per ferite.

DECORATI GUERRA

1.                  Morleo Mario, medaglia d'oro al valore militare e promozione a tenente

2.                  Sammarco leonardo, medaglia d'argento

3.                  Saracino Giuseppe, croce per merito di guerra alla memoria

4.                  Olivieri Giuseppe due medaglie d'argento al valore militare

CADUTI e DISPERSI II GUERRA MONDIALE

1.       Addabbo Vito Donato maresciallo della V brigata carabinieri reali nato nel 1912 e morto il 25/09/1943 sul piroscafo Dubac nelle acque di Otranto.

2.                  Barba Luigi di Giorgio e Vita Carolina Cataldi n. il 12/04/1914, pescatore. Marò imbarcato sul CITTA DI BARI l Dichiarato disperso a Tripoli in data 03/05/1941.

3.                  Candido Biagio Raimondo di Biagio e Lomartire Carmela nato il 02/01/1921, ritenuto disperso il 11/02/1944. Internato nel campo di raccolta n. 4 I capo R. Servizio Dematria Rodi Egeo. Coniugato con Cosma Maria Antonia. Abitava in via Pola,3.

4.                  Carrozzo Antonio, di Giambattista e Filone Caterina agricoltore nato il 22/12/1923. Via V.Emanuele, 8. disperso il 27/04/1943.

5.                  Carrozzo Nicola Gabriele colpito da proiettile esplodente raccattato sul campo in cui era precipitato un apparecchio tedesco morì nel 1943.

6.                  Cosma Carmelo contadino, di Antonio e Nigro Teresa nato il 2/09/1921, via Vittorio Emanuele, 19-21, disperso per presunta morte avvenuta in Russia il 16/12/1942.

7.                  Cosma Giuseppe caporal maggiore.

8.                  Cosma Vincenzo di Eupremio e Surio Antonietta contadino, nato il 24/03/1921 piazza Trieste, 7- disperso 109 Battaglione mitraglieri II compagnia W152 Russia.

9.                  Crisostomo Salvatore Cesare contadino, di Luigi e Trono Giuseppa nato il 27/08/1915,via Garibaldi, 18. Morto il 05/03/1943. X compagnia 26 Reggimento morto a seguito di ferite multiple. Sepolto nel cimitero di Rosice Tomba n.3.

10.               Dentice Biagio Gregorio di Leonardo e Parisi Vittoria nato il 27/04/1913, contadino. Coniugato Giannini Maria Antonia (1935) via Gioia, 1. Disperso ad Arbusow sul fronte Russo 31/11/1943, 109 battaglione mitraglieri.

11.               De Rinaldis Cosimo di Antonio e Rizzo Florinda nato il 28/03/1924, morto a Roma viale Tirreno, 10 il 26/01/1947 per malattia contratta in guerra. Abitava in L.go Cavallerizza, 12.

12.               De Tommaso Pietro n. 27/06/1909 di Stalislao Cosimo e Derinaldis Luigia Marianna Largo Cavallerizza, 8 coniugato con Gennari Pietrina Leonarda disperso 07/05/1943 a Zahouan (Tunisia) contadino. 60 reggimento artiglieri, 178 Ospedale da campo. V reggimento artiglieria. Il 29/05/1963 i resti mortali dell'Art. De Tommaso Pietro vengono tumulate nel cimitero di Avetrana.

13.               Dimitri Oronzo n. 16/07/1920 di Grazio e Pesare Eleonora morto a Rodi Egeo il 1/01/1944, contadino caporale- 6 campo di raccolta IV compagnia.

14.               Franzoso Giuseppe di Antonio, disperso.

15.               Funiati Pancrazio sarto,di Pietro e Bianco Giovanna nato il 06/09/1920.Via Mare, 67. Disperso il 16/04/1941 sergente mentre era a bordo del cacciatorpediniere Baleno nel canale di Sicilia contro unità navali nemiche. Sottocapo cannoniere.

16.               Fusarò Pietro nato nel 1920, morto il 6/12/1942 c/o il 300 ospedale da campo a ovest di Buerat. Soldato del 350 Nucleo Autonomo Mitraglieri. Ferita renale destra con fuori uscita di sostanza celebrale. Sepolto nel cimitero cattolico di Beuerat tomba n.30.

17.               Galluzzi Orazio morto c/o il Sanatorio di Napoli il 07/09/1948.

18.               Gioia Cosimo contadino, di Salvatore e Leuzzi Raffaela nato il 07/09/1924, morto il 27/08/1944 presso Anagni (Napoli) per sincope. Soldato del 347 battaglione costiero. Sepolto a Napoli.

19.               Lamusta Carmelo Salvatore di Giovanni 31 Rgt fanteria disperso 09/04/1941.

20.               Lanzo Antonio nato nel 1915, contadino, disperso, di Lattanzio e Marcucci Giovina. Abitava in via Umberto I, 11. Coniugato con Mastrovito Germana.

21.               Lanzo Francesco Luigi carrettiere, di Angelo e Copertino Anna Antonia nato il 09/04/1920 morto il 12/09/1942. Abitava in via Faboni, 42. Carabiniere. Disperso in Egitto.

22.               Malorgio Salvatore nato il 8/10/1910 da Vincenzo e Carrozzo Maria Addolorata presunta morte avvenuta il 09/06/1943 presso Isola di Pantelleria. Soldato del 226 Reggimento mitraglieri contadino. Abitava in via Gioia, 3. Coniugato con Giannini Maria Giuseppa.

23.               Manna Leonardo di Vito e Sebastio Filomena n. 15/11/1920, carrettiere via C.Schiavoni, /06/1944 in Pelopponeso (Grecia) per cause imprecisate. 9 reggimento fanteria..alle FF.AA. germaniche. Internato campo di raccolta n2.

24.               Marasco Antonio nato il 12/06/1909 di Aristodemo e Lamusta Giuseppa sarto Nel 1936 si arruola volontario nell Esercito Italiano e part e per l Africa a Gondar (Etiopia). Nel 1942 viene richiamato a Napoli a seguito della mobilitazione in vista della partenza per il fronte russo. Fu aggregato al reg. Tambov (Russia) 45 gruppo appiedato artiglieria T.M. 29 batteria. In data 04/01/1943 scrive l'ultima lettera alla famiglia. Catturato dalle FF.AAA. Russe in località Rossoch fu dichiarato disperso e non se ne ebbe più notizia. Solo nel 1994 il Ministero della Difesa inviò una nota ai familiari nella quale veniva finalmente alla luce la verità sulla morte del militare avetranese. Egli dichiarato disperso fu catturato dalle FF.AA. russe il 18/03/1943 e venne internato nel campo n. 56 a Uciostoje ove morì il 19/03/1943. Fu sepolto in una fossa comune. Abitava in via Roma, 67.

25.               Marasco Michele Nato il 12/03/ 1914 Aristodemo e Lamusta Giuseppa. Sergente contabile della marina. Arruolatosi volontario nella marina militare il 25/07/1943 fu fatto prigioniero dai tedeschi e impiegato negli uffici delle SS. Per tornare in Italia riuscì a farsi reclutare a Maridepo (Venezia) il 9/09/1943 tra le SS che andavano a difendere Trieste. Giunto sul suolo italiano cadde forse vittima delle truppe slave del M.llo Tito che intanto era entrato in Trieste. Morì nei pressi di Fiume. Abitava in via Roma, n. 67.

26.               Marchetti Giovanni Battista contadino, di Luciano e Caloscio Margherita nato il 23/06/1912 disperso. Abitava in Corte Caniglia, 5.

27.               Micelli Leonardo sergente aviere nato nel 1898 morto nel 1940 presso il nosocomio militare di Taranto in conseguenza di operazione chirurgica per otite prurulenta. Sepolto nel cimitero di Avetrana.

28.               Mitrangolo Giuseppe Antonio nato nel 1922 morto in Russia 25/01/1944.

29.               Nicolì Vincenzo macellaio, nato il 7/11/1919 di Domenico e Micelli Biasina; disperso il 08/09/1943. Soldato marconista 47 reggimento artiglieria. Abitava in via Garibaldi, 11.

30.               Nigro Giuseppe Antonio.

31.               Nigro Leonardo di Gioele e Saracino Emanuela nato il 30/10/1921 disperso contadino. Abitava in via Mazzini, 38. Disperso 16/12/1942 a Filonowo, Russia.

32.               Nigro Nicola di Gioele disperso nel fatto d armi di Ripitisti 48 Reggimento fanteria Ferrara.

33.               Palumbo Cesare studente, di Antonio e Pezzarossa Lucia nato il 11/1/1915 Abitava in via Porticella, capo segnalatore della marina militare. Il si imbarcava da Messina sulla nave Diana silurata il a 20 miglia da Tobruck. disperso.

34.               Papari Gregorio nato a Manduria da Gioacchino e Micera Maria Grazia il 31/08/1918 e morto il 12/09/1943 sul fronte croato. Coniugato con Palumbo Addolorata Annunziata. Il 1/03/1994 le sue spoglie furono traslate dal Sacrario Militare dei caduti d oltre mare (Bari) nel cimitero di Avetrana. Gli è stata conferita una medaglia di bronzo alla memoria.

35.               Pesare Antonio Tredicino di Arcangelo e Angiulli Vincenza nato il _/_/1912, carrettiere, cap. maggiore III battaglione, III reggimento Bersaglieri morto a jagpdnyj il 28/08/1942 a seguito di ferite multiple di proiettili d arma da fuoco, sepolto Rolhos n.3 do otelbeize. Dal 1993 le sue spoglie dal cimitero di BACHMUTKIN (Russia) sono state tumulate nella cappella dei combattenti e reduci del cimitero di Avetrana. Abitava in via Mentana, 3. Coniugato con Galluzzi Margherita il 14/11/1938.

36.               Pizzi Antonio nato nel 1919, di anni 25, morì il 7 novembre 1944 c/o l'ospedale di Lecce.

37.               Pollicino Antonio nato a Roccavallino (Messina) nel 1909, di Santo e Scibilla Maria soldato del 311 battaglione costiero. In servizio notturno sulla costa sorpresa da impetuosa tempesta morì il 29/06/1942, colpito da un fulmine. Gli furono tributate ufficiali onoranze col concorso degli ufficiali superiori del corpo, del clero, e delle rappresentanze politiche locali.

38.               Ricci Gaetano nato a Napoli nel 1918, impiegato, disperso.

39.               Rollo Biagio Leonardo di Pietro e Lanzo Anna Maria contadino, nato il 3/02/1920, morto il l 11/02/1944. Internato nel IV campo prigionieri morì a bordo di un piroscafo affondato durante la deportazione ad altra prigione nei pressi di Rodi Egeo. Abitava in via Solferino, 58.

40.               Saracino Grazio Antonio di Cosimo e Scarciglia Cosima nato il 12/05/1915, contadino, morto il 13/02/1943. Militare del 226 Reggimento fanteria perito a seguito di ferita al torace e sepolto nel cimitero di Dunica. Abitava in via Gorizia, 13.

41.               Scarciglia Celestino di Giuseppe e Perri Giulia nato a Tuturano (BR) il 5/1/1921, contadino. Marò, morto il 15/06/1942. Scomparso in mare nel corso di un importante missione di guerra verso l isola di Pantelleria. Dichiarato irreperibile. Abitava in via Faboni, 26.

42.               Schirone Pietro morto durante la guerra di Spagna. Nato a Lizzano.

43.               Screti Giovanni nato nel 1920,di Salvatore e Galasso Fiorenza contadino. Morto in prigionia a Scoplje (albania) il 19/09/ ospedale da campo a Patrasso perito a seguito di ferite da incursione aerea. Abitava in via Cavour, 13.

44.               Spagnolo Biagio di Ernesto Antonio e Bono Emanuela contadino, nato il 15/01/1914. Coniugato con Cosma Addolorata il 22/08/ reggimento carreggiati. Morto l 11/02/1944 a bordo di un piroscafo presso Gaidano Egeo durante la deportazione ad altro campo di prigionia. Altre fonti lo dicevano trovarsi a Lgnizze Alt Slesia, Germania.

45.               Specchio Giuseppe agricoltore, di Nicola e Rizzo Francesca nato il 28/04/1920 a Miggiano (LE), residente in Avetrana presso Masseria Il Porcile. Soldato del 49 reggimento fanteria, X compagnia, morto, in località Bregu i Mucit il 06/12/1940 quota 1021 (Albania), a seguito di ferite da scheggia di granata ivi fu sepolto ma non fu possibile recuperarne il corpo.

46.               Tarantini Antonio di Giovanni e Trono Leonarda nato il 12/02/1914 contadino disperso 6 campo di raccolta IV compagnia Rodi Egeo. Abitava in via Carmelo Schiavoni, 1.

47.               Zizzari Salvatore di Pasquale e Spagnoletti Caterina nato a Galatone il 20/09/1919 contadino Coniugato con Maggiore Nicolina, abitava in via Mare, 4. Internato presso Rodi Egeo è stato poi dichiarato disperso il 24/06/1944 presso Chrissoutsi (Grecia).

MILITARI AVETRANESI FERITI IN COMBATTIMENTO GUERRA 1940 -1945

1.                  Nigro Cesare di Biagio Salvatore 14 Reggimento Artiglieri ferito 28/01/1941 alla regione sternale da scheggia di granata e ricoverato presso l'ospedale di Taranto.

2.                  Manna Antonio di Leonardo 31 reggimento fanteria ferito 23/03/1941.

3.                  Dimitri Gino di Giuseppe, marò, V reparto Pantelleria marina Palermo, prigioniero e ferito per fatto di guerra 20/07/1941.

4.                  Forte Giovanni di Leonardo ricoverato il 22/04/1942 per infermità per fatto di guerra.

5.                  Castellano Pantaleo 226 reggimento fanteria VIII compagnia ferito l 11/03/ 1941, ricoverato presso il 59 servizio sanità.

6.                  Caraccio Leonardo di Lucio 226 reggimento fanteria ferito il 02/12/1940 e ricoverato presso l ospedale militare di Tirana.

AVETRANA 17/01/1946 ELENCO PRIGIONIERI II GUERRA MONDIALE

1.                  Addabbo Antonio di Nicola

2.                  Baldari Emanuele di Leonardo Inghilterra

3.                  Carluccio Antonio di Salvatore America

4.                  Carrino Luigi di Giuseppe Sud Africa

5.                  Carrozzo Giovanni di Giuseppe Rodi Egeo

6.                  Ceglie Michele di Antonio Australia

7.                  Cosma Antonio di Luigi Australia

8.                  Cosma Francesco di Settimio Francia

9.                  De Angelis Giuseppe di Vito G. Germania

10.               Derinaldis Giuseppe A. di Michele India

11.               Derinaldis Silvano di Michele Inghilterra

12.               Derinaldis Silvano di Pietro America

13.               Dinoi Michele di Francesco India

14.               Dinoi Pasquale di Giacinto Germania

15.               Doria Vincenzo di Cosimo Australia

16.               Erario Eliseo di Pasquale Inghilterra

17.               Fai Angelo di N.N. America

18.               Foggetti Luigi di Antonio

19.               Franzoso Giuseppe di Antonio Sud Africa

20.               Galasso Biagio di Massimino Inghilterra

21.               Greco Angelo di Francesco Inghilterra

22.               La Stella Michele di Savino Egitto

23.               Lomartire Giuseppe di Francesco Inghilterra

24.               Lomartire Giuseppe (1907) di Francesco Inghilterra

25.               Malorgio Carmine Luigi di Francesco Australia

26.               Mastrovito Antonio di Giuseppe Australia

27.               Mazza Luigi di Pietro

28.               Mero Nicola di Vito Algeria

29.               Mingolla Achille di Attilio Egitto

30.               Minonne Pasquale di Cosimo Egitto

31.               Monsellato Italo di Cosimo India

32.               Muscogiuri Cosimo di Alessandro

33.               Nigro Nicola di Gioele Germania

34.               Olivieri Enrico di Biagio Francia

35.               Palumbo Luigi di Gaetano

36.               Panzuto Nicola di Salvatore Australia

37.               Pernorio Giuseppe di Leonardo Algeria

38.               Pinto Giovanni G. di Giovanni Germania

39.               Pisanò Giovanni di Nicola Australia

40.               Prisciano Antonio di Oronzo *****

41.               Prisciano Biagio di Vito Sud Africa

42.               Prisciano Carmelo di Leonardo Inghilterra

43.               Prisciano Leonardo di Biagio *****

44.               Prisciano Pasquale di Oronzo India

45.               Prisciano Salvatore di Oronzo Egitto

46.               Ricci Enrico di Vincenzo Guedac es Seder

47.               Rizzo Carmelo di Raffaele Sud Africa

48.               Saracino Antonio di Biagio Egitto

49.               Saracino Costantino di Antonio *****

50.               Saracino Davide di Antonio *****

51.               Saracino Gaetano di Vincenzo East Africa

52.               Saracino Giuseppe di Genuario Egitto

53.               Saracino Oronzo di Angelo Germania

54.               Scarciglia Costantino di Francesco

55.               Schiavoni Cosimo di Francesco Inghilterra

56.               Schiavoni Leonardo di Giovanni

57.               Serio Raffaele di Francesco India

58.               Sicara Giovanni di Vittorio Inghilterra

59.               Spagnoletti Vito di Pietro Inghilterra

60.               Spina Nino di Cosimo Rodi Egeo

61.               Stano Gregorio di Luigi Algeria

62.               Stefanelli Salvatore di Cosimo America

63.               Surio Salvatore di Giuseppe

64.               Tarantini Salvatore di Alessandro Egitto

65.               Torino Luigi di Gioacchino Inghilterra

66.               Valentino Cosimo di Emanuele America

67.               Valentini Michele di Giuseppe Germania

68.               Zullino Ugo di Luigi Inghilterra

PARTIGIANI E ANTIFASCISTI AVETRANESI

1.                  DE FRANCO Grazio Nicola, antifascista. Nato il 2/07/1889 in Avetrana da Eleazaro e Fina Annunziata. Denunciato per offese al capo del governo.

2.                  DE RINALDIS Francesco di Paola. Partigiano. Nato il 13 luglio 1911, ad Avetrana da Donato e Saracino Cristina. Combatte, nelle file della 6a Div. Monferrato - 19a Brg. dal 15 aprile al 7 giugno.

3.                  MARASCO Aristodemo: Antifascista. Nato ad Avetrana, il 16 gennaio 1877 da Federico, avvocato, e Rosa Lucia Saracino. Contadino. Condannato a 5 anni di confino, per "propaganda contraria al conflitto etiopico". Prosciolto il 12 febbraio Morì il 27 febbraio.

4.                  MAZZEI Pietro, di Vito e Pacces Matilde. Partigiano caduto. Nato il 22/7/1910 ad Avetrana. Militò nella 9 Brg S. Justa. Cadde il 10 novembre Riconosciuto partigiano dal 10 ottobre al 10 novembre.

5.                  OLIVIERI Enrico, di Giuseppe e Carrozzo Giuseppa. Partigiano. Nato ad Avetrana il 27/06/1922. Arruolato come fante, combatte, poi, nelle file. della Resistenza, con la Div. Garibaldi "Italia", in Jugoslavia.

6.                  PANZUTO Antonio di Antonio e Schiavoni Rosa Leonarda. Antifascista. Nato il 09/06/1891 ad Avetrana. Contadino. Denunciato al Tribunale Speciale.

7.                  BRIGANTI Pietro, nato ad Avetrana il 04/11/1867 da Angelo e Schifone Elisabetta. Medico. Coniugato con Sammarco Giovannina. Morì il 23/12/1951. Per tutto il ventennio conservò intatta la sua natura liberale e antifascista, mai dichiaratamente socialista. Ragion per cui fu perseguitato e arrestato.

8.                  LUCERI Vincenzo nato a Galatina nel 1882 da Luceri Vincenza e padre ignoto. Insegnante elementare. Coniugato con Buonfrate Vincenza. Abitava in via Cavour dove era proprietario di uno stabilimento oleario. Per le sue idee antifasciste fu minacciato più volte di trasferimento ad altra sede scolastica. Si racconta che avendo la Milizia fatto irruzione nella sua abitazione fu trovato in compagnia di diversi amici tra i quali lo stesso Briganti il quale fiutato il pericolo esortò il Luceri a ingoiare due fogli di carta ove lo stesso aveva scritto alcuni versi contro il Duce. Al rifiuto dell amico il Briganti non esitò e glieli strappò di mano inghiottendoli. Luceri fu denunciato per abuso di autorità.

9.                  LANZO Cosimo Silvio, antifascista, di Leonardo e Maria Felice Parisi, industriale armentizio nato ad Avetrana il 23/10/1872. Abita in Piazza V.Veneto. Morì il 24/10/1963. LASERRA Celestino nacque ad Avetrana il 26 agosto 1867 da Francesco e Teresa Rossetti. Antifascista. Morì 23/01/1951.

10.               LASERRA Cosimo di Celestino e Francesca Laserra Nacque ad Avetrana il 05/08/1906 e morì il 19/12/1993. Antifascista.

11.               MEZZANO Francesco nacque a Manduria 16/04/1885 da Giuseppe e Francesca Brunetti. L 8/11/1916 sposò Florinda Scarciglia. Antifascista. Morì ad Avetrana il 29/08/1940. Abitava in L.go Imperiali, 10. Aristodemo Marasco Vincenzo Luceri Pietro Briganti

 

1993: il ritorno in Avetrana delle spoglie mortali del caduto Pesare Antonio Tredicino

Testo ricerca: Luigi Schiavoni

Dati documentari: Archivio Storico Comune Avetrana Archivio Storico Stato Civile Avetrana Archivio di Stato Lecce

Fotografie: Tratte dai volumi: Aristodemo Marasco un secolo di storia Avetranese, 2003 di Biagio Saracino Avetrana storia e territorio, 1998 di Leo-Santo-Scarciglia Archivio A.C.R. sezione di Avetrana Archivio Fotografico Biblioteca Comunale

Nessuna descrizione della foto disponibile.Imu e Tasi. Quando il Volontariato “va a farsi fottere”.

IMU e ONLUS ad Avetrana. Comodato e Proprietà del Volontariato.

Disuguaglianza ed Estorsione tra i No Profit più deboli presso tutte le Avetrana d’Italia.

Il Possesso e l’Ipocrisia della Politica. La Violazione dei principi costituzionali nel silenzio dei media e del Volontariato d’Elite. Una questione non di poco conto.

La denuncia pubblica del saggista Antonio Giangrande, presidente della Associazione Contro Tutte Le Mafie ONLUS, già iscritto presso la Prefettura di Taranto nell'elenco delle Associazioni Antiracket ed Antiusura. Associazione che non riceve sovvenzionamenti pubblici o privati.

Ed a quanto pare nemmeno risposte dagli Uffici preposti dei Ministeri interpellati del Walfare e delle Finanze.

Oggetto: chiarimento ed interpretazione.

Riferimento: Il presidente di una associazione di volontariato - onlus – ente non commerciale deve pagare l’Imu-Tasi, essendo usufruttuario di un immobile dato in comodato gratuito, presso il quale si è eletta sede legale dell’associazione e per il quale locale l’associazione se ne fa uso gratuito?

La legge stabilisce il no. L’alta giurisprudenza e la burocrazia impone il sì.

Di questo si fa forte il Comune di Avetrana, nella persona del Dr Mazza, che ha voluto precisare: “difenderemo gli interessi comunali in ogni stato e grado del giudizio. L’eventuale costituzione in giudizio comporta il pagamento del contributo unificato. Inoltre, la parte che perde in giudizio può essere condannata al rimborso delle spese sostenute dalla controparte, maggiorate del 50% a titolo di spese del procedimento di mediazione". 

Cosa è l’Imu? L'IMU, Imposta Municipale Propria, è il tributo istituito dal governo Monti nella manovra Salva-Italia del 2011 e si paga a livello comunale sul possesso dei beni immobiliari. È operativa a decorrere dal gennaio 2012, e fino al 2013 è stata valida anche sull'abitazione principale. L'ICI (Imposta comunale sugli immobili) era la vecchia tassa applicata al possesso dei beni immobiliari prima dell'arrivo dell'IMU, a partire dal gennaio 2012. L'IMU in buona sostanza ne ha replicato i regolamenti e i sistemi di calcolo. La tassa sulla proprietà della prima casa:

prima del 2012: non si pagava più dal 2007, quando si chiamava ICI

2012: IMU con 0,4% di aliquota standard. Detrazione di 200 euro + 50 euro per ogni figlio

2013: mini IMU di gennaio, la differenza fra l’IMU calcolata con aliquota allo 0,4% e con quella del comune. Niente detrazioni. In discussione l’eliminazione di questo conguaglio.

Dal 2014: Tasi con aliquota standard allo 0,1%, detrazioni 200 euro + 50 euro per ogni figlio.

Cos’è il Volontariato? Il Volontariato è quell’insieme di sodalizi che operano sussidiariamente nei vari campi dei servizi pubblici, laddove lo Stato non vuole o non può operare. A favore del Volontariato sono previste delle agevolazioni fiscali e dei sostegni economici a ristoro di progetti inclusivi ed accoglibili. Da questo quadro d’insieme, però, sono osteggiate le piccole realtà solidaristiche, spesso non incluse nel grande sistema della solidarietà partigiana, foraggiata dalla politica amica. I grandi nomi, sponsorizzati con partigianeria dai media e sostenuti economicamente dalla politica, non hanno difficoltà ad acquistare gli immobili dove hanno la sede locale o dove operano. Le miriadi piccole realtà, distribuite sul territorio e con maggior valore per l’intervento di prossimità, non hanno sostentamento e quindi si sorreggono con le liberalità degli associati. Gli immobili dove operano sono dati in comodato dagli stessi membri del sodalizio.

Qual è il sostegno al Volontariato? 5XMille; Finanziamento pubblico di progetti per ogni ramo di intervento; donazioni private

Quali sono e agevolazioni ed esenzioni fiscali al Volontariato? I benefici fiscali per le organizzazioni di volontariato e le onlus (Da ipfonlus.it). Oltre che dalla legge istitutiva, sono stati riconosciuti, a favore delle organizzazioni di volontariato, numerosi vantaggi anche da parte di una serie di altri provvedimenti legislativi, fra i quali assume particolare rilievo il decreto legislativo 460/97, relativo al riordino ed alla disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus). Tali vantaggi sono estesi alle organizzazioni di volontariato, in forza di esplicito rinvio con il quale vengono considerate Onlus le organizzazioni di volontariato, purché iscritte nei registri regionali. I benefici riconosciuti con il suddetto decreto possono essere suddivisi in due parti: agevolazioni ed esenzioni.

Agevolazioni. Le agevolazioni riguardano:

le imposte sui redditi;

le erogazioni liberali;

l’imposta sul valore aggiunto;

le ritenute alla fonte;

l’imposta di registro;

le lotterie, le tombole, le pesche e i banchi di beneficenza.

È il caso di fare qualche accenno su ognuna di esse. Le agevolazioni ai fini delle imposte sui redditi riguardano il solo reddito di impresa e non si riferiscono ad altre categorie reddituali che concorrono alla formazione del reddito complessivo.

Per le erogazioni liberali, il decreto legislativo pone, da una parte, le persone fisiche e gli enti non commerciali e, dall’altra, le imprese. I primi possono detrarre dall’imposta lorda le erogazioni liberali in denaro, fatte a favore delle organizzazioni di volontariato, per un importo fino a quattro milioni di lire.

Per le imprese è prevista una serie di deduzioni che riguardano:

– le erogazioni liberali in denaro per un importo non superiore a quattro milioni di lire o al due per cento del reddito di impresa dichiarato;

– le spese relative all’impiego dei lavoratori dipendenti assunti a tempo indeterminato, utilizzati per prestazioni di servizi a favore delle organizzazioni di volontariato, nel limite del cinque per mille dell’ammontare complessivo delle spese per prestazioni di lavoro dipendente;

– la cessione gratuita alle organizzazioni di volontariato, in alternativa alla usuale eliminazione dal circuito commerciale, di derrate alimentari, di prodotti farmaceutici e di beni alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa.

Le disposizioni relative all’imposta sul valore aggiunto (Iva) prevedono una serie di agevolazioni per prestazioni effettuate da organizzazioni di volontariato o a favore delle stesse organizzazioni. Esse attengono a:

– divulgazione pubblicitaria;

– cessioni di beni-merce;

– trasporto di malati o feriti con veicoli all’uopo equipaggiati;

– educazione dell’infanzia e della gioventù e didattica di ogni genere anche per la formazione, l’aggiornamento, la riqualificazione e la riconversione professionale. In esse sono comprese anche le prestazioni relative all’alloggio, al vitto ed alla fornitura di libri e materiali didattici come pure le lezioni relativi a materie scolastiche e universitarie impartite da insegnanti a titolo personale;

– attività socio sanitarie, di assistenza domiciliare o ambulatoriale, in comunità, in favore di persone svantaggiate, rese dalle organizzazioni di volontariato sia direttamente sia in esecuzione di appalti,

convenzioni e contratti in genere.

Le organizzazioni di volontariato inoltre, non sono soggette all’obbligo di certificazione dei corrispettivi mediante ricevuta o scontrino fiscale.

Per quanto riguarda la ritenuta alla fonte, non viene applicata la ritenuta del quattro per cento a titolo di acconto sui contributi corrisposti alle organizzazioni di volontariato dagli enti pubblici. Inoltre, la ritenuta sui redditi di capitale corrisposti alle organizzazioni di volontariato viene considerata a titolo di imposta anziché di acconto.

Relativamente all’imposta di registro, occorre distinguere fra Onlus e organizzazioni di volontariato. Per quanto riguarda le prime, è da sottolineare che tutti gli atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di beni immobili in genere e gli atti traslativi o contributi di diritti reali immobiliari di godimento, compresa la rinuncia ad essi, destinati ad essere utilizzati nell’ambito delle attività statutarie, deve essere corrisposta, per la registrazione, la cifra fissa di lire 250 mila.

Per quanto concerne le organizzazioni di volontariato, occorre fare riferimento alla legge-quadro la quale prevede la totale esenzione dall’imposta di registro. Con l’autorizzazione dell’Intendenza di finanza e previo nulla osta delle prefetture, le organizzazioni di volontariato possono effettuare lotterie, tombole, pesche e banchi di beneficenza, con le seguenti limitazioni:

per le lotterie è previsto che la vendita di biglietti deve riguardare il solo territorio della provincia. I biglietti vanno staccati da registri a matrice in numero determinato. L’importo complessivo di ogni lotteria non può superare i 100 milioni di lire;

per le pesche e i banchi di beneficenza, le operazioni sono limitate al territorio del comune in cui esse hanno luogo. Il ricavato complessivo non può superare i 100 milioni di lire.

Esenzioni. Le esenzioni riguardano:

l’imposta di bollo;

le tasse sulle concessioni governative;

l’imposta sulle successioni e sulle donazioni;

l’imposta sostitutiva;

l’imposta sull’incremento di valore degli immobili e della relativa imposta sostitutiva;

l’imposta sugli spettacoli;

le raccolte pubbliche occasionali di fondi;

i contributi per lo svolgimento convenzionato dell’attività.

Anche su ognuna di esse si ritiene utile fare qualche accenno.

Sono esenti dall’imposta di bollo:

gli atti, i documenti, le istanze, i contratti, le copie anche se dichiarate conformi, gli estratti, le certificazioni, le dichiarazioni e le attestazioni poste in essere oppure richieste dalle organizzazioni di volontariato.

Sono esenti dalle tasse sulle concessioni governative

tutti gli atti ed i provvedimenti concernenti le organizzazioni di volontariato.

Sono pure esenti dall’imposta sulle successioni e sulle donazioni i trasferimenti a favore delle organizzazioni di volontariato.

Agli immobili acquistati a titolo gratuito, anche per causa di morte, non si applica l’imposta sull’incremento di valore. Lo stesso trattamento è riservato all’imposta sostitutiva di quella comunale sull’incremento di valore degli immobili.

L’imposta sugli spettacoli non è dovuta per le attività spettacolistiche svolte occasionalmente dalle organizzazioni di volontariato in concomitanza di celebrazioni, ricorrenze o campagne di sensibilizzazione. Per ottenere l’esenzione è necessario dare comunicazione, prima dell’inizio della manifestazione, all’ufficio accertatore territorialmente competente.

Sono da considerarsi attività spettacolistiche:

– gli spettacoli cinematografici e misti di cinema e avanspettacolo, comunque ed ovunque dati, anche se in circoli e sale private;

– gli spettacoli sportivi di ogni genere, ovunque si svolgano, nei quali si tengano o meno scommesse;

– gli spettacoli teatrali; le esecuzioni musicali di qualsiasi genere, escluse quelle effettuate a mezzo di elettrogrammofoni a gettone o a moneta; i balli, le lezioni di ballo collettive, i veglioni e altri trattenimenti di ogni natura ovunque si svolgano e da chiunque organizzati; i corsi mascherati e in costume, le rievocazioni storiche, le giostre e tutte le manifestazioni similari;

– gli spettacoli teatrali di opere liriche, balletto, prosa, operetta, commedia musicale, rivista, concerti vocali e strumentali; le attività circensi e dello spettacolo viaggiante;

– gli spettacoli di burattini e marionette ovunque tenuti;

– le mostre e le fiere campionarie;

– le esposizioni scientifiche, artistiche e industriali, rassegne cinematografiche riconosciute con decreto del Ministero per le finanze e altre manifestazioni similari di qualunque specie.

Il Ministro delle finanze può stabilire, con proprio decreto, quando le suddette attività sono da considerarsi occasionali.

Le raccolte pubbliche occasionali di fondi non concorrono alla formazione del reddito delle organizzazioni di volontariato anche se esse avvengono mediante offerte di beni di modico valore o di servizi ai sovventori in concomitanza di celebrazioni, ricorrenze o campagne di sensibilizzazione.

Anche in questo caso, il Ministero delle finanze può stabilire, con proprio decreto, condizioni e limiti atti a definire occasionali le predette attività.

Non concorrono alla formazione del reddito i contributi corrisposti alle organizzazioni di volontario da amministrazioni pubbliche per lo svolgimento convenzionato di attività aventi finalità sociali esercitate in conformità ai fini istituzionali.

Altre agevolazioni

Tutti i vantaggi e le esenzioni finora segnalati sono riconosciuti dalla normativa nazionale. Ci sono, però, alcuni tributi che sono di pertinenza di comuni, provincia, regioni e province autonome. Per essi, i predetti enti possono prevedere la riduzione oppure, addirittura, l’esenzione. (Da ipfonlus.it)

IMU e ONLUS. Qual è la discrepanza tra Norme, Principi Costituzionali e pratica burocratica?

Il Dlgs 504/1992 (Riordino della finanza degli enti territoriali), al Titolo I, Capo I (Imposta Comunale sugli Immobili), art. 7 comma 1 lett. I (Esenzioni), recita: “Sono esenti dall'imposta:

a) gli immobili posseduti dallo Stato, dalle regioni, dalle province, nonchè dai comuni, se diversi da quelli indicati nell'ultimo periodo del comma 1 dell'articolo 4, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, dalle unità sanitarie locali, dalle istituzioni sanitarie pubbliche autonome di cui all'articolo 41 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, dalle camere di commercio, industria, artigianato ed agricoltura, destinati esclusivamente ai   compiti istituzionali;

(…)

i) gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all'articolo 73, comma 1, lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917,e successive modificazioni, fatta eccezione per gli immobili posseduti da partiti politici, che restano comunque assoggettati all'imposta indipendentemente dalla destinazione d'uso dell'immobile, destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all'articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222”. L'esenzione spetta per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte (art. 7, comma 2 Dlgs 504/1992).

Per la legge di bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022, n. 160/2019, nell'art. 1, comma 777. “Ferme restando le facoltà di regolamentazione del tributo di cui all'articolo 52 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, i comuni possono con proprio regolamento: (…)

e) stabilire l'esenzione dell'immobile dato in comodato gratuito al comune o ad altro ente territoriale, o ad ente non commerciale, esclusivamente per l'esercizio dei rispettivi scopi istituzionali o statutari”.

Questa è una Interpretazione autentica: Proviene dallo stesso soggetto che ha emanato la norma, al fine di eliminare incertezze e dubbi. Essendo contenuta in un atto avente forza di legge è vincolante per tutti; alla norma in questione non sarà più attribuibile un significato diverso da quello fissato dalla legge interpretativa.

Questa è una interpretazione EVOLUTIVA E’ necessario interpretare una disposizione normativa non solo facendo riferimento al contesto passato in cui è stata emanata ma anche a quello attuale in cui è in vigore.

Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza del 10.03.2020, n. 6752. E' bene al riguardo rammentare che l'attività ermeneutica, in consonanza con i criteri legislativi di interpretazione dettati dall'art. 12 preleggi, deve essere condotta innanzitutto e principalmente, mediante il ricorso al criterio letterale; il primato dell'interpretazione letterale è, infatti, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (vedi ex multis, Cass. 4/10/2018 n. 241651 , Cass. 21/5/2004 n. 97002 , Cass. 13/4/2001 n. 3495) secondo cui all'intenzione del legislatore, secondo un'interpretazione logica, può darsi rilievo nell'ipotesi che tale significato non sia già tanto chiaro ed univoco da rifiutare una diversa e contraria interpretazione. Alla stregua del ricordato insegnamento, l'interpretazione da seguire deve essere, dunque, quella che risulti il più possibile aderente al senso letterale delle parole, nella loro formulazione tecnico giuridica.

L’Intenzione del legislatore è chiara, ma racchiusa in quella deleteria delega agli enti locali, che sistematicamente disapplicano lo scopo ed i principi della legge.

Inoltre la mancata applicazione dell’art. 1, comma 777, della legge 160/2019 comporta la violazione dell’art. 3 della Costituzione. L’ampia discrezionalità concessa ai singoli Comuni circa la possibilità di esentare da IMU – o meno – gli immobili concessi in comodato unita all’assenza di criteri univoci utili a garantire un trattamento di eguaglianza nei confronti degli enti interessati, potrebbe portare disparità di trattamento - verso gli immobili concessi in comodato - per i diversi contribuenti che risiedono all’interno di un raggio territoriale limitato a pochi km di distanza l’un l’altro, ovvero ad eventuali calcoli di convenienza tra le parti nello svolgere le proprie attività in territori comunali con immobili ad “esenzione garantita” a favore del comodante, verso il quale sarebbe auspicabile un chiarimento sia a livello legislativo, oltre che di prassi, al fine di evitare il proliferarsi di eventuali contenziosi nei confronti dei Comuni interessati a non concedere il beneficio agevolativo di esenzione in parola.

Si denota con stupore che, se da una parte le commissioni tributarie ed il Ministero dell'Economia e Finanze si esprimono in ossequio ai principi del legislatore del 1992, prevedendone la dicotomia POSSESSO ED UTILIZZO, la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione se ne discostano, riconoscendo l'esenzione solo a quei "No Profit" che oltre ad essere utilizzatori siano anche possessori.

Va da sè che termine più aleatorio nel diritto civile è quello del POSSESSO, ma in questo caso si intende PROPRIETA' O USUFRUTTO, e non COMODATO. Il Legislatore, con la sua profonda saggezza, ha insistito sul punto, in ossequio ai fini solidaristici costituzionali.

A tal riguardo, di contro, la Deliberazione del Consiglio Comunale di Avetrana con oggetto l'approvazione del Regolamento per l’applicazione dell’Imposta municipale propria IMU del 15/06/2012, nell'art. 5 (Immobili utilizzati dagli enti non commerciali), discostandosi dai principi previsti dal legislatore, recita “L'esenzione prevista dall'art. 7, comma 1, lettera i) del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, si applica soltanto ai fabbricati ed a condizione che gli stessi, oltre che utilizzati, siano anche posseduti dall’ente non commerciale utilizzatore”.

Giunte di destra e di sinistra si sono succedute. Ma ad Oggi le Avetrana di tutta Italia non hanno nessuna intenzione di allargare le magie dell’esenzione.

Sul tema è intervenuta anche la giurisprudenza che, discostandosi dai principi previsti dal legislatore, ha circoscritto l’ambito applicativo dell’esenzione ai soli immobili che risultano posseduti ed utilizzati allo stesso tempo dall’ente non commerciale.

Con le ordinanze 19.12.2006 n. 429 e 26.1.2007 n. 19, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 59 co. 1 lett. c) del DLgs. 15.12.97 n. 446, in relazione all’art. 7 co. 1 lett. i) del DLgs. 30.12.92 n. 504.  Secondo la Consulta, tale disposizione non innova la disciplina dei requisiti soggettivi richiesti dalla richiamata lett. i), in quanto “l’esenzione deve essere riconosciuta solo all’ente non commerciale che, oltre a possedere l’immobile, lo utilizza direttamente per lo svolgimento delle attività ivi elencate”.

La Corte di Cassazione, in più sentenze, ha espressamente subordinato il riconoscimento del diritto all’esenzione alla duplice condizione soggettiva che l’ente non commerciale possieda ed utilizzi l’immobile; e tale orientamento troverebbe fondamento nella “costante giurisprudenza di questa Corte” che in materia duplice condizione “dell’utilizzazione diretta degli immobili da parte dell’ente possessore e dell’esclusiva loro destinazione ad attività peculiari che non siano produttive di reddito”.

Chiarimenti sono pervenuti anche dall’Amministrazione finanziaria. La circolare Min. Economia e Finanze 26.1.2009 n. 2/DF si è limitata a richiamare le ordinanze della Corte Cost. 19.12.2006 n. 429 e 26.1.2007 n. 19, ravvisandovi elementi atti a sostenere che l’esenzione “deve essere riconosciuta solo all’ente non commerciale che, oltre a possedere l’immobile, lo utilizza direttamente per lo svolgimento delle attività … elencate” alla lett. i) dell’art. 7 co. 1 del DLgs. 504/92. Nello stesso senso si è espressa anche la ris. Min. Economia e Finanze 4.3.2013 n. 4/DF che ha ritenuto applicabili all’IMU le sopra richiamate sentenze della Corte costituzionale, oltre alla  Cass. 30.5.2005 n. 11427.

Di senso opposto ed in ossequio ai principi previsti dal legislatore, si è conformata la giurisprudenza prevalente successiva. Si sta formando in giurisprudenza un indirizzo per cui l’esenzione da Imu e Tasi non spetta solamente ai soggetti che utilizzano direttamente l’immobile per il soddisfacimento dei propri fini istituzionali, ma anche a coloro che concedono in uso gratuito lo stesso immobile a realtà che lo utilizzano nel perseguono delle medesime finalità istituzionali del soggetto concedente.

Con riferimento al vincolo dell’utilizzo “diretto” dell’immobile, quale requisito inderogabile per riconoscere l’esenzione, recente giurisprudenza sta mettendo in crisi tale concetto, riconoscendo il beneficio anche nei casi in cui lo stesso immobile sia stato concesso in comodato a soggetti che, a loro volta, lo utilizzano per il perseguimento dei propri fini istituzionali, anch’essi meritevoli di tutela. L’esenzione spetta anche per gli immobili in comodato.

La gratuità del comodato giustifica l'esenzione dal pagamento dell'Imu per gli enti non commerciali che svolgono attività meritevole. Questa la conclusione "progressista" cui giunge il Mef nella risoluzione 4DF del 4.3.2013. Nella risoluzione 4/DF del 4.3.2013, il Mef tratta il caso di un ente non commerciale che concede in comodato gratuito un immobile di sua proprietà ad un altro ente non commerciale, per lo svolgimento di attività meritevoli. Il Mef stravolge l'orientamento prevalente della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale, che hanno da sempre richiesto la coincidenza soggettiva tra proprietario e utilizzatore dell'immobile, sostenendo che ciò che conta è la gratuità della concessione, e quindi la non formazione di reddito in capo all'ente. Secondo alcune pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, l'esenzione per gli enti non commerciali si applica a condizione che l'immobile sia posseduto e utilizzato per attività meritevoli (articolo 7 comma 1 letera i del D.lgs. 504/1992) direttamente dallo stesso ente non commerciale, circostanza che non avviene in caso di concessione in comodato ad un altro ente non commerciale. Per attività meritevoli si intendono quelle assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreativi, sportive, di religione e di culto.

In netto contrasto con questa soluzione il Ministero, nella risoluzione 4/DF, conclude affermando che l'esenzione Imu si applica nel caso di immobili concessi in comodato a titolo gratuito ad altri enti dello stesso tipo. Secondo il Mef, infatti, l'elemento decisivo per l'applicazione o meno dell'Imu è la presenza di un reddito determinato dall'immobile, che nel caso del comodato a titolo gratuito non sussiste.

A sostegno di questa tesi, nella risoluzione si richiama la sentenza n. 11427/2007 della Corte di Cassazione che ha trattato il caso di un immobile dato in locazione. Anche in questo caso si verificava la non coincidenza tra soggetto proprietario e soggetto utilizzatore dell'immobile, che secondo il principale orientamento della giurisprudenza escludeva l'applicabilità dell'esenzione. In tale sentenza però la Corte di Cassazione, esclude l'applicabilità dell'esenzione per il fatto che la locazione determinava un reddito in capo all'ente, indice di una determinata capacità contributiva, non idonea a giustificare l'agevolazione.

Nel caso del comodato gratuito, invece, a differenza della locazione non si genera alcun reddito in capo all'ente, e pertanto l'esenzione si applica.

Ovviamente l'ente utilizzatore non deve pagare l'Imu perché non è soggetto passivo, ma deve fornire all'ente non commerciale che gli ha concesso l'immobile, tutti gli elementi necessari per consentirgli l'esatto adempimento degli obblighi tributari sia di carattere formale che sostanziale.

D'altra parte l'orientamento "elastico" del Mef è da apprezzare, considerando che ha voluto cogliere la ratio più profonda della norma. L'esenzione, infatti, è il giusto riconoscimento del valore sociale apportato dagli enti no profit attivi in settori particolarmente delicati della vita dei cittadini. È proprio il carattere non lucrativo l'elemento che giustifica l'esenzione, e che tra l'altro, esprimendosi in termini di umanizzazione, costituisce un "ritorno" nelle tasche dei cittadini. E' pertanto la natura del contratto di comodato e la sua non onerosità a consentire al ministero di giustificare l'esenzione Imu. Restano ovviamente soggetti a tassazione gli immobili locati in quanto l'affitto rappresenta un reddito e una fonte di ricchezza che è oggettivamente incompatibile con gli obiettivi che le norme sull'esenzione dall'Imu tutelano.

Peraltro l’Amministrazione Finanziaria, contrariamente a quanto affermato dalla su indicata giurisprudenza, con le Risoluzioni n. 3 e 4 del 4 marzo 2013 ha chiarito che un ente commerciale che conceda in comodato un immobile ad un altro ente non commerciale per l’esercizio di attività non commerciale gode ugualmente dell’esenzione IMU.

È infatti con la sentenza n. 3528/2018 che la suprema Corte di Cassazione ha stabilito che gli enti non commerciali non sono esonerati dal pagamento delle imposte locali per il fatto di essere accreditati o convenzionati con la pubblica amministrazione. La sottoscrizione di una convenzione con l’ente pubblico, quindi, non garantisce che l’attività venga svolta in forma non commerciale e che i compensi richiesti siano sottratti alla logica del profitto. In tutte queste situazioni, pertanto, al fine di valutare l’esenzione, si dovranno verificare con molta attenzione le caratteristiche dell’attività svolta dall’ente non commerciale, non essendo sufficiente limitarsi alla verifica dell’esistenza di una convenzione con la pubblica amministrazione. In sintonia con l’ultima sentenza citata anche l’ordinanza n. 10754/2017 con la quale, sempre la Cassazione, ha affermato che le scuole paritarie sono soggette al pagamento dei tributi locali, e quindi non godono dell’esenzione, se l’attività non viene svolta a titolo gratuito o dietro richiesta di una somma simbolica.

In condizioni normali, dopo l’istanza in autotutela, rigettato, e dopo il reclamo-ricorso, rigettato, si potrebbe agire in giudizio presso la Commissione Tributaria Provinciale, ove si ponesse fiducia nel giudice illuminato e preparato sicuri della vittoria. Però il Comune di Avetrana, nella persona del Dr Mazza ha voluto precisare: “difenderemo gli interessi comunali in ogni stato e grado del giudizio. L’eventuale costituzione in giudizio comporta il pagamento del contributo unificato. Inoltre, la parte che perde in giudizio può essere condannata al rimborso delle spese sostenute dalla controparte, maggiorate del 50% a titolo di spese del procedimento di mediazione". 

Ciò significa che trovato il giudice illuminato a Taranto, ritrovato un ulteriore giudice illuminato a Bari, per forza di cose ci ritroviamo a Roma dove gli ermellini si guarderebbero bene a rinnegare i loro precedenti.

Quindi il novello Davide “Antonio Giangrande”, pur in una famiglia di avvocati e con pochezza di risorse, contro il Golia “Comune di Avetrana”, con risorse comunali illimitate, pur nella ragione, soccomberebbe.

Gli avversari troppo forti, quali sono la burocrazia e la giurisprudenza.

Il legislatore inane, che in assenza di una politica rappresentativa degli interessi diffusi, che non afferma i suoi principi e metta fine a questa sperequazione,  favorisce l’intimazione, l’oppressione e l’omertà.

Ergo: Dr Antonio Giangrande, paga, subisci  e taci!

Dr Antonio Giangrande

Gennaio, tempo di notifica delle cartelle esattoriali inviate il 31 dicembre, per impedirne la prescrizione quinquennale. Gennaio tempo di scoperte e di sorprese.

Il “No Profit” paga Imu e Tasi dei locali dove svolge la sua attività.

Intervento del Sociologo storico,  dr Antonio Giangrande, autore, tra gli altri, anche del saggio UGUAGLIANZIOPOLI e relativi aggiornamenti annuali.

L’Italia è il Paese del foraggiamento a pioggia, dove tutti chiedono e dove tutti ottengono. Eppure si trascura quel mondi fatto di centinaia di migliaia di associazioni di volontariato: il cosiddetto “No Profit”.

Mondo che supplisce a tutte quelle mancanze statali a sostegno dei diritti inalienabili dei cittadini.

La Costituzione, appunto, prevede la tutela del Principio di solidarietà e di Uguaglianza, ma, come sempre in questa Italia, tutti i principi costituzionali vengono sempre calpestati. Per inciso con l’intercalare: vanno a farsi fottere.

Il “No Profit”, proprio per sua stessa definizione, non produce reddito. La sua attività si basa sull’opera di milioni di volontari che, gratuitamente, prestano la loro opera materiale ed intellettuale.

Il Volontariato, non producendo reddito, va da sé, logicamente, non può acquistare nulla per sé, né essere proprietario di alcunché.

La sede legale è spesso sita presso un locale messo a disposizione gratuitamente dal presidente dell’associazione, o da un suo componente, o da terzi benefattori.

Quindi di quel locale con il COMODATO si ha l’UTILIZZO e non il POSSESSO.

Il Dlgs 504/1992 (Riordino della finanza degli enti territoriali), al Titolo I, Capo I (Imposta Comunale sugli Immobili), art. 7 comma 1 lett. I (Esenzioni), in ossequio alla Costituzione prevedeva la dicotomia Utilizzo e Possesso, prevedendo l’esenzione dell’Imu/Tasi sia per i possessori sia per gli utilizzatori, se diversi dai proprietari. In questo caso viene premiato il COMODATO D’USO a fini solidaristici.

Invece, i Comuni hanno pensato bene di non distinguere i possessori dagli utilizzatori, inquadrando l’esentato in una sola figura: ossia il proprietario deve essere l’utilizzatore.

A tal riguardo si riporta, a titolo esemplare, la Deliberazione del Consiglio Comunale di Avetrana con oggetto l'approvazione del Regolamento per l’applicazione dell’Imposta municipale propria IMU del 15/06/2012, nell'art. 5 (Immobili utilizzati dagli enti non commerciali), discostandosi dai principi previsti dal legislatore, che recita “L'esenzione prevista dall'art. 7, comma 1, lettera i) del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, si applica soltanto ai fabbricati ed a condizione che gli stessi, oltre che utilizzati, siano anche posseduti dall’ente non commerciale utilizzatore”. Regolamento adottato dai Consiglieri Mario De Marco, sindaco, Enzo Tarantini, assessore al ramo, Antonio Minò (presidente Onlus), Daniele Petarra, Antonio Baldari, Vito Maggiore, Pietro Giangrande e Cosimo Derinaldis, presidente del Consiglio (presidente Onlus). Il Funzionario del servizio ragioneria, Antonio Mazza, esprimeva parere favorevole.

La casistica riporta  i casi in cui vi sia l’utilizzo indiretto di un beneficiario. Prendendo in esame solo i casi in cui i beni ecclesiastici, di per sé esentati, vengono utilizzati da terzi, con le stesse finalità solidaristiche. Non si parla di possessori privati che prestano i loro beni gratuitamente alle associazioni di Volontariato.

Si denota con stupore che, se da una parte le commissioni tributarie ed il Ministero dell’Economia e Finanze si esprimono in ossequio ai principi del legislatore del 1992,  prevedendone la dicotomia POSSESSO ED UTILIZZO, la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione se ne discostano, riconoscendo l’esenzione solo a quei “No Profit” che oltre ad essere utilizzatori siano anche possessori.

Va da se che termine più aleatorio nel diritto civile è quello del POSSESSO, ma in questo caso si intende PROPRIETA’ O USUFRUTTO, e non COMODATO.

Il Legislatore, con la sua profonda saggezza, ha insistito sul punto, in ossequio ai fini solidaristici costituzionali.

Con riferimento agli Enti non commerciali, la Legge di Bilancio 2020 non modifica la precedente agevolazione prevista dall’art. 7 co. 1 lett. i) del D.Lgs. 504/1992, ovvero per tali enti prevista l’esenzione dal pagamento dell’Imu qualora ricorrano i seguenti requisiti:

·          L’immobile sia posseduto e/o utilizzato da enti non commerciali di cui all’art. 73 co 1 lettera c) del TUIR;

·          Lo stesso sia destinato, in via esclusiva, allo svolgimento, con modalità non commerciali, di una o più delle attività elencate all’art. 7, co1 lett. a) del D.lgs. 504/1992 (assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive).

Per la legge di bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022, n. 160/2019, nell'art. 1 comma 759 “Sono esenti dall'imposta, per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte: g) gli immobili posseduti e utilizzati dai soggetti di cui alla lettera i) del comma 1 dell'articolo 7 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, e destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità' non commerciali delle attività' previste nella medesima”. Con questa enunciazione la legge di Bilancio 2020 sembra discostarsi dai principi previsti dal legislatore del 1992. Ma la vera novità è introdotta dalla Legge di Bilancio 2020 nell'art. 1 comma 777 che  prevede la possibilità per i Comuni di prevedere l’esenzione del pagamento IMU sugli immobili dati in comodato d’uso gratuito alle associazioni, a prescindere dall’attività svolta dall’ente.

Art. 1 comma 777. “Ferme restando le facoltà di regolamentazione del tributo  di cui all'articolo 52 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, i comuni possono con proprio regolamento: (…)

e) stabilire l'esenzione dell'immobile dato in comodato  gratuito al comune o ad altro ente territoriale, o ad  ente  non  commerciale, esclusivamente per l'esercizio dei rispettivi scopi  istituzionali o statutari”.

Questo significa la possibilità di un’esenzione del pagamento IMU sugli immobili che spesso il presidente e / o altri dirigenti cedono a titolo gratuito. Ricordiamo che la scelta in merito a questa esenzione viene rimandata ai comuni, quindi sarà fondamentale verificare i regolamenti comunali e, se ce ne sono le condizioni, fare pressione affinché il Comune si muova in tal senso.

Degna di nota è la citazione del Comune di Falconara, in nome del vice sindaco Raimondo Mondaini, con delega al Bilancio. Comune che tra i primi, con merito, ha previsto l’esenzione IMU per quegli immobili ceduti gratuitamente alle associazioni di volontariato.

Quando il Legislatore ha configurato l’ipotesi di esenzione da Imu e Tasi per la platea degli enti non commerciali lo ha fatto con riferimento agli immobili che vengono direttamente utilizzati nella loro attività “istituzionale”.

In particolare, è l’articolo 9, comma 8, D.Lgs. 23/2011 a disporre che si applica all’Imu l’esenzione prevista dall’articolo 7, comma 1, lett. i), D.Lgs. 504/1992 recante disposizioni in materia di imposta comunale sugli immobili “destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222”.

Con il D.L. 16/2014, invece, al fine di assimilare il trattamento della Tasi a quello dell’Imu, l’articolo 1, comma 3 del citato decreto rende applicabili alla Tasi quasi tutte le esenzioni applicabili all’Imu, tra le quali certamente spicca quella riservata agli enti non commerciali, stabilendo che “Sono esenti dal tributo per i servizi indivisibili (Tasi) gli immobili posseduti dallo Stato, nonché gli immobili posseduti, nel proprio territorio, dalle regioni, dalle province, dai comuni, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, ove non soppressi, dagli enti del servizio sanitario nazionale, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali. Sono altresì esenti i rifugi alpini non custoditi, i punti d’appoggio e i bivacchi. Si applicano, inoltre, le esenzioni previste dall’articolo 7, comma 1, lettere b), c), d), e), f), ed i) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504; ai fini dell’applicazione della lettera i) resta ferma l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 91-bis del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 e successive modificazioni”. E nel richiamo alla lett. i) dell’articolo 7 D.Lgs. 504/1992 c’è proprio la citata esenzione prevista per gli enti non commerciali ai fini Imu.

Dr Antonio Giangrande

RICORSO PRESSO LA COMMISSIONE TRIBUTARIA DI TARANTO

seguente

Istanza in autotutela per l'annullamento dell'avviso di accertamento esecutivo

 

All'Ufficio Tributi – Contenzioso del Comune di Avetrana (TA)

Via Vittorio Emanuele - 74020 Avetrana (TA)

All'attenzione del Funzionario responsabile del servizio

Dr Antonio Mazza

All'attenzione del responsabile del procedimento

Sig.ra Maria Santo

 

Contribuente: Dr Antonio Giangrande, via Alessandro Manzoni n. 51, Avetrana (TA)

Oggetto: istanza in autotutela per l'annullamento  del:

-           Provvedimento n. 550 del 17/11/2020 Imposta Municipale Propria (IMU) 2015 su immobile sito in via Piave 127, Avetrana (TA), inviato in data 31/12/2020 e ricevuto in data 07/01/2021;

-           Provvedimento n. 1240 del 17/11/2020 Tassa sui Servizi Indivisibili (TASI) 2015 su immobile sito in via Piave 127, Avetrana (TA), inviato in data 31/12/2020 e ricevuto in data 07/01/2021;

 

Il sottoscritto Dr Antonio Giangrande, nato ad Avetrana (TA) il 02/06/1963 ed ivi residente alla via Manzoni n. 51, C.F. GNGNTN63H02A514Q, premesso

che i provvedimenti in oggetto sono palesemente contra legem, ossia contro il dettato chiaro ed inequivocabile della legge e del suo spirito, contenente i principi costituzionali.

PREMESSO

In data 14 gennaio 2021 si presentava Istanza in autotutela per l’annullamento degli avvisi di accertamento esecutivo, che qui si intende integralmente trascritto, in quanto parte del presente ricorso.

In data 3 febbraio 2021 l’Ufficio Tributi, in persona del responsabile Dr Antonio Mazza rigettava l’Istanza adducendo le seguenti motivazioni:

“Ritenuto che non sussistano i motivi che consentono il relativo accoglimento in quanto:

Vale l’esenzione Imu per gli immobili appartenenti agli enti no profit, ma solo se questi li utilizzano direttamente.

L’articolo 7, comma 1, lettera i) del D.Lgs 504/1992 stabilisce che sono esenti dall’ICI gli immobili utilizzati dagli enti non commerciali per lo svolgimento di una serie di attività agevolate (assistenziali, previdenziali, culturali, eccetera), svolte con modalità non commerciali. L’esenzione si applica anche all’IMU e, di conseguenza alla Tasi, per effetto del richiamo operato alla norma sopra citata dall’art. 9, comma 8, del D.Lgs /23/2011.

La Corte Costituzionale ha affermato la necessità che l’immobile, per poter beneficiare dell’esenzione, deve essere utilizzato direttamente dall’ente proprietario (sentenze n. 429/2006 e n. 19/2007).

La Corte di Cassazione, inoltre, ha confermato questo orientamento (sentenze n. 22201/2008 e n. 2221/2014) anche recentemente ribadendo che la mancanza dell’utilizzazione diretta dell’immobile, perché concesso in comodato a un terzo, fa perdere il diritto all’esenzione dell’Ici.

Con l’ordinanza del 17 maggio 2017 n. 12301, infatti, la Suprema Corte ha respinto la richiesta di esenzione avanzata da una associazione per un immobile nel quale si svolgevano attività ricreative e ricettive, concesso in comodato a un privato cui era stata affidata la gestione di queste attività.

La Corte sottolinea che, per beneficiare dell’esenzione dall’Ici, è necessaria l’utilizzazione diretta degli immobili da parte dell’ente che ne abbia possesso e dell’esclusiva loro destinazione ad attività peculiari che non siano produttive di reddito.

Occorre pertanto, che siano posseduti dall’ente non commerciale utilizzatore, cioè che vi sia coincidenza tra ente proprietario ( o titolare di altro diritto reale sul bene) e quello che utilizza l’immobile.”

IN FATTO

In data 07/01/2021 il Dr. Giangrande riceveva notifica di avviso di accertamento (n. 550 del 17/11/2020) e contestuale irrogazione di sanzioni, interessi e spese di notifica, relativo all'Imposta Municipale Unica (IMU) per l'anno 2015, per un importo complessivo di Euro 220,00, riferito all'immobile sito in via Piave 127 (allegato 1);

In data 07/01/2021 riceveva notifica dell'avviso di accertamento (n. 1240 del 17/11/2020) e contestuale irrogazione di sanzioni, interessi e spese di notifica, relativo alla Tassa sui Servizi Indivisibili (TASI) per l'anno 2015, per un importo complessivo di euro 89,00, riferito all'immobile sito in via Piave 127 (allegato 2);

L'immobile oggetto di accertamento IMU e TASI è sede legale ed utilizzato esclusivamente dall'Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS (allegato 5), sodalizio antimafia iscritto nell'anagrafe delle ONLUS (allegato 3) e già iscritto presso la Prefettura di Taranto nell'elenco delle Associazioni Antiracket ed Antiusura;

L'immobile oggetto di accertamento IMU e TASI è in possesso del dr Antonio Giangrande, quale usufruttuario (allegato 4), al fine della destinazione, svolgimento ed utilizzo esclusivo dell'Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, di cui è presidente e della quale ha ivi stabilito la sede legale. Possessore ed utilizzatore, di fatto, è lo stesso soggetto esentabile.

IN DIRITTO

Il Dlgs 504/1992 (Riordino della finanza degli enti territoriali), al Titolo I, Capo I (Imposta Comunale sugli Immobili), art. 7 comma 1 lett. I (Esenzioni), recita: “Sono esenti dall'imposta:

a) gli immobili posseduti dallo Stato, dalle regioni, dalle province, nonchè dai comuni, se diversi da quelli indicati nell'ultimo periodo del comma 1 dell'articolo 4, dalle comunità montane,  dai consorzi fra detti enti, dalle unità sanitarie locali, dalle istituzioni sanitarie pubbliche autonome di cui all'articolo 41 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, dalle camere di commercio,  industria, artigianato ed agricoltura, destinati esclusivamente ai   compiti istituzionali;

(…)

i) gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all'articolo 73, comma 1, lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917,e successive modificazioni, fatta eccezione per gli immobili posseduti da partiti politici, che restano comunque assoggettati all'imposta indipendentemente dalla destinazione d'uso dell'immobile, destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all'articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222”. L'esenzione spetta per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte (art. 7, comma 2 Dlgs 504/1992).

SI NOTI NELLA PREVISIONE DEL LEGISLATORE LA SPECIFICA DICOTOMIA TRA POSSESSO ED UTILIZZO.

 Tale disposizione trova conferma nel:

-           Dlgs 23/2011 (Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale) il quale, nell'art. 9 comma 8 (Applicazione dell'Imposta Municipale Propria) recita: “Sono esenti dall'imposta municipale propria gli immobili posseduti dallo Stato, nonché gli immobili posseduti, nel proprio territorio, dalle regioni, dalle province, dai comuni, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, ove non soppressi, dagli enti del servizio sanitario nazionale, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali. Si applicano, inoltre, le esenzioni previste dall'art. 7, comma 1, lettere b), c), d), e), f), h) ed i) del citato decreto legislativo n. 504 del 1992”;

-           Dl 16/2014, il quale, nell'art. 1 (Disposizioni  in materia di TARI e TASI), comma 3 recita: “Sono esenti dal Tributo per i Servizi Indivisibili (TASI) gli immobili posseduti dallo Stato, nonché gli immobili posseduti, nel proprio territorio, dalle regioni, dalle province, dai comuni, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, ove non soppressi, dagli enti del servizio sanitario nazionale, destinanti esclusivamente ai compiti istituzionali. Si applicano, inoltre, le esenzioni previste dall'articolo 7 comma 1, lettere b), c), d), e), f) ed i) del decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 504; ai fini dell'applicazione  della lettera i) resta ferma l'applicazione delle disposizioni di cui all'art. 91-bis del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 e successive modificazioni.

Ai fini IMU è prevista l'esenzione per i soli immobili destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali, di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive e delle attività di cui all'art. 16 co. 1 lett. a) della legge 222/1985. Inoltre è prevista, in caso di utilizzazione “mista”, il riconoscimento dell'esenzione pro quota limitato alla sola frazione di unità nella quale viene svolta l'attività non commerciale. L'art. 7 co. 1 lett. i) del Dlgs 504/1992 è stato oggetto di recenti modifiche che, nel complesso, hanno determinato un sensibile irrigidimento dei criteri di accesso all'esenzione. Per effetto delle modifiche apportate alla richiamata lett. i) dall'art. 91 bis co. 1 del Dl 1/2012 convertito L. 27/2012, ai fini dell'esenzione occorre che le attività siano svolte “con modalità non commerciali”.

Per il riconoscimento dell''esenzione IMU, la già richiamata lett. i) dell'art. 7 co. 1 del Dlgs 504/92 individua due requisiti:

Requisito soggettivo relativo al soggetto che utilizza l'immobile.

Come accennato in precedenza, ai fini dell’esenzione, gli immobili devono essere utilizzati dai soggetti di cui all’art. 73 co. 1 lett. c) del TUIR richiamato dall’art. 7 co. 1 lett. i) del DLgs. 504/92, vale a dire dagli “enti pubblici e privati diversi dalle società, i trust che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale nonché gli organismi di investimento collettivo del risparmio, residenti nel territorio dello Stato”. Rientrano tra gli enti non commerciali privati:

– gli enti disciplinati dal codice civile, quali associazioni, fondazioni e comitati;

– gli enti disciplinati da specifiche leggi di settore, quali:

– organizzazioni di volontariato (L. 11.8.91 n. 266);

– organizzazioni non governative (art. 5 della L. 26.2.87 n. 49);

– associazioni di promozione sociale (L. 7.12.2000 n. 383);

– associazioni sportive dilettantistiche (art. 90 della L. 27.12.2002 n. 289);

– fondazioni risultanti dalla trasformazione degli enti autonomi lirici e delle istituzioni concertistiche  assimilate (DLgs. 23.4.98 n. 134);

– ex IPAB privatizzate (a seguito, da ultimo, del DLgs. 4.5.2001 n. 207);

– enti che acquisiscono la qualifica fiscale di ONLUS (DLgs. 4.12.97 n.460);

– gli enti ecclesiastici.

Requisito oggettivo relativo al possesso dell'immobile.

Tale requisito riguarda la tipologia e la rilevanza dell'attività non profit svolta e alle modalità di svolgimento.

Come sopra accennato, attenendosi alla formulazione letterale della lett. i) dell’art.7 co. 1 del DLgs. 504/92, ai fini dell’esenzione l’immobile deve essere utilizzato da un ente non commerciale pubblico o privato di cui all’art. 73 co. 1 lett. c) del TUIR.

Non è invece richiesto il requisito del possesso dell’immobile stesso da parte dell’ente non commerciale che lo utilizza. Di conseguenza, l’esenzione sembrerebbe spettare relativamente a tutti gli immobili utilizzati da parte di un ente non commerciale e destinati in via diretta ed esclusiva allo svolgimento delle attività individuate dall’art. 7 co. 1 lett. i) del DLgs. 504/92, a prescindere dalla circostanza che detti immobili siano:

– posseduti a titolo di proprietà, usufrutto o superficie dall’ente non commerciale;

- ovvero anche solo detenuti, ad esempio a titolo di locazione o comodato; in tal caso, ovviamente, l’esenzione IMU spetterà al dante causa (locatore o comodante) che ha concesso la detenzione dell’immobile all’ente non strumentale che lo utilizza.

A tal riguardo la Deliberazione del Consiglio Comunale di Avetrana con oggetto l'approvazione del Regolamento per l’applicazione dell’Imposta municipale propria IMU del 15/06/2012, nell'art. 5 (Immobili utilizzati dagli enti non commerciali), discostandosi dai principi previsti dal legislatore, recita “L'esenzione prevista dall'art. 7, comma 1, lettera i) del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, si applica soltanto ai fabbricati ed a condizione che gli stessi, oltre che utilizzati, siano anche posseduti dall’ente non commerciale utilizzatore”.

Il possesso può essere acquisito per derivazione, ovvero quando viene trasferito da un vecchio possessore a uno nuovo (traditio). Si può trasferire il possesso consegnando materialmente il bene al nuovo possessore oppure consegnando allo stesso qualcosa che con quel bene abbia un legame tale da permetterne di agire liberamente su di esso.

Nel caso in esame, in data 17/11/2004, davanti al notaio Vittoria Calvi di Manduria (TA), si costituiva l'Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede in Avetrana (TA), via Piave 127 (allegato 5). Il possesso dell'immobile, sito nella suddetta via, veniva trasferito dall'usufruttuario, nonché presidente dell'Associazione, dr Antonio Giangrande, all'Associazione Contro Tutte le Mafie, per svolgere in via esclusiva le proprie attività sociali e senza scopo di lucro, come da proprio atto costitutivo e regolamento, così come già attestato nella Dichiarazione IMU-TASI 2015 (allegato 6).

Sul tema è intervenuta anche la giurisprudenza che, discostandosi dai principi previsti dal legislatore, ha circoscritto l’ambito applicativo dell’esenzione ai soli immobili che risultano posseduti ed utilizzati allo stesso tempo dall’ente non commerciale.

Con le ordinanze 19.12.2006 n. 429 e 26.1.2007 n. 19, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 59 co. 1 lett. c) del DLgs. 15.12.97 n. 446, in relazione all’art. 7 co. 1 lett. i) del DLgs. 30.12.92 n. 504.  Secondo la Consulta, tale disposizione non innova la disciplina dei requisiti soggettivi richiesti dalla richiamata lett. i), in quanto “l’esenzione deve essere riconosciuta solo all’ente non commerciale che, oltre a possedere l’immobile, lo utilizza direttamente per lo svolgimento delle attività ivi elencate”.

La Corte di Cassazione ha espressamente subordinato il riconoscimento del diritto all’esenzione alla duplice condizione soggettiva che l’ente non commerciale possieda ed utilizzi l’immobile; e tale orientamento troverebbe fondamento nella “costante giurisprudenza di questa Corte” che in materia duplice condizione “dell’utilizzazione diretta degli immobili da parte dell’ente possessore e dell’esclusiva loro destinazione ad attività peculiari che non siano produttive di reddito”.

Chiarimenti sono pervenuti anche dall’Amministrazione finanziaria. La circolare Min. Economia e Finanze 26.1.2009 n. 2/DF si è limitata a richiamare le ordinanze della Corte Cost. 19.12.2006 n. 429 e 26.1.2007 n. 19, ravvisandovi elementi atti a sostenere che l’esenzione “deve essere riconosciuta solo all’ente non commerciale che, oltre a possedere l’immobile, lo utilizza direttamente per lo svolgimento delle attività … elencate” alla lett. i) dell’art. 7 co. 1 del DLgs. 504/92. Nello stesso senso si è espressa anche la ris. Min. Economia e Finanze 4.3.2013 n. 4/DF che ha ritenuto applicabili all’IMU le sopra richiamate sentenze della Corte costituzionale, oltre alla  Cass. 30.5.2005 n. 11427.

Di senso opposto ed in ossequio ai principi previsti dal legislatore, si è conformata la giurisprudenza prevalente successiva.

Si sta formando in giurisprudenza un indirizzo per cui l’esenzione da Imu e Tasi non spetta solamente ai soggetti che utilizzano direttamente l’immobile per il soddisfacimento dei propri fini istituzionali, ma anche a coloro che concedono in uso gratuito lo stesso immobile a realtà che lo utilizzano nel perseguono delle medesime finalità istituzionali del soggetto concedente.

Con riferimento al vincolo dell’utilizzo “diretto” dell’immobile, quale requisito inderogabile per riconoscere l’esenzione, recente giurisprudenza sta mettendo in crisi tale concetto, riconoscendo il beneficio anche nei casi in cui lo stesso immobile sia stato concesso in comodato a soggetti che, a loro volta, lo utilizzano per il perseguimento dei propri fini istituzionali, anch’essi meritevoli di tutela. L’esenzione spetta anche per gli immobili in comodato.

La gratuità del comodato giustifica l'esenzione dal pagamento dell'Imu per gli enti non commerciali che svolgono attività meritevole. Questa la conclusione "progressista" cui giunge il Mef nella risoluzione 4DF del 4.3.2013.  Nella risoluzione 4/DF del 4.3.2013, il Mef tratta il caso di un ente non commerciale che concede in comodato gratuito un immobile di sua proprietà ad un altro ente non commerciale, per lo svolgimento di attività meritevoli. Il Mef stravolge l'orientamento prevalente della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale, che hanno da sempre richiesto la coincidenza soggettiva tra proprietario e utilizzatore dell'immobile, sostenendo che ciò che conta è la gratuità della concessione, e quindi la non formazione di reddito in capo all'ente.

Secondo alcune pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, l'esenzione per gli enti non commerciali si applica a condizione che l'immobile sia posseduto e utilizzato per attività meritevoli (articolo 7 comma 1 letera i del D.lgs. 504/1992) direttamente dallo stesso ente non commerciale, circostanza che non avviene in caso di concessione in comodato ad un altro ente non commerciale. Per attività meritevoli si intendono quelle assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreativi, sportive, di religione e di culto.

In netto contrasto con questa soluzione il Ministero, nella risoluzione 4/DF, conclude affermando che l'esenzione Imu si applica nel caso di immobili concessi in comodato a titolo gratuito ad altri enti dello stesso tipo. Secondo il Mef, infatti, l'elemento decisivo per l'applicazione o meno dell'Imu è la presenza di un reddito determinato dall'immobile, che nel caso del comodato a titolo gratuito non sussiste.

A sostegno di questa tesi, nella risoluzione si richiama la sentenza n. 11427/2007 della Corte di Cassazione che ha trattato il caso di un immobile dato in locazione. Anche in questo caso si verificava la non coincidenza tra soggetto proprietario e soggetto utilizzatore dell'immobile, che secondo il principale orientamento della giurisprudenza escludeva l'applicabilità dell'esenzione. In tale sentenza però la Corte di Cassazione, esclude l'applicabilità dell'esenzione per il fatto che la locazione determinava un reddito in capo all'ente, indice di una determinata capacità contributiva, non idonea a giustificare l'agevolazione.

Nel caso del comodato gratuito, invece, a differenza della locazione non si genera alcun reddito in capo all'ente, e pertanto l'esenzione si applica.

Ovviamente l'ente utilizzatore non deve pagare l'Imu perché non è soggetto passivo, ma deve fornire all'ente non commerciale che gli ha concesso l'immobile, tutti gli elementi necessari per consentirgli l'esatto adempimento degli obblighi tributari sia di carattere formale che sostanziale.

D'altra parte l'orientamento "elastico" del Mef è da apprezzare, considerando che ha voluto cogliere la ratio più profonda della norma. L'esenzione, infatti, è il giusto riconoscimento del valore sociale apportato dagli enti no profit attivi in settori particolarmente delicati della vita dei cittadini. È proprio il carattere non lucrativo l'elemento che giustifica l'esenzione, e che tra l'altro, esprimendosi in termini di umanizzazione, costituisce un "ritorno" nelle tasche dei cittadini. E' pertanto la natura del contratto di comodato e la sua non onerosità a consentire al ministero di giustificare l'esenzione Imu. Restano ovviamente soggetti a tassazione gli immobili locati in quanto l'affitto rappresenta un reddito e una fonte di ricchezza che è oggettivamente incompatibile con gli obiettivi che le norme sull'esenzione dall'Imu tutelano.

Peraltro l’Amministrazione Finanziaria, contrariamente a quanto affermato dalla su indicata giurisprudenza, con le Risoluzioni n. 3 e 4 del 4 marzo 2013 ha chiarito che un ente commerciale che conceda in comodato un immobile ad un altro ente non commerciale per l’esercizio di attività non commerciale gode ugualmente dell’esenzione IMU.

È infatti con la sentenza n. 3528/2018 che la suprema Corte di Cassazione ha stabilito che gli enti non commerciali non sono esonerati dal pagamento delle imposte locali per il fatto di essere accreditati o convenzionati con la pubblica amministrazione. La sottoscrizione di una convenzione con l’ente pubblico, quindi, non garantisce che l’attività venga svolta in forma non commerciale e che i compensi richiesti siano sottratti alla logica del profitto. In tutte queste situazioni, pertanto, al fine di valutare l’esenzione, si dovranno verificare con molta attenzione le caratteristiche dell’attività svolta dall’ente non commerciale, non essendo sufficiente limitarsi alla verifica dell’esistenza di una convenzione con la pubblica amministrazione. In sintonia con l’ultima sentenza citata anche l’ordinanza n. 10754/2017 con la quale, sempre la Cassazione, ha affermato che le scuole paritarie sono soggette al pagamento dei tributi locali, e quindi non godono dell’esenzione, se l’attività non viene svolta a titolo gratuito o dietro richiesta di una somma simbolica.

COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE per la Puglia sentenza n. 2332 sez. 3 depositata il 6 luglio 2017: Il Comune di Bari presentava appello avverso la sentenza n. 3204/2014 del 3.12.2014, avente ad oggetto l’imposta IMU gravante su immobili di un ente ecclesiastico e concessi in comodato gratuito ad enti aventi natura di Onlus e esercenti attività scolastica. La commissione di primo grado aveva accolto il ricorso dell’ente ecclesiastico affermando l’irrilevanza della circostanza che l’immobile si concesso in comodato gratuito ad altri enti che di fatto erano articolazioni dell’ente ecclesiastico e svolgevano per conto di questo una attività formativa, seppur a pagamento. La tesi sostenuta dal Comune di Bari nell’atto di appello si fonda sulla presunta necessità che sia lo stesso ente ecclesiastico proprietario del bene a svolgere l’attività commerciale non esclusiva per ottenere l’esenzione. Inoltre non vi sarebbe alcuna prova che gli enti comodatari siano strumentali dell’ente ecclesiastico resistente. Ad opinione di questa commissione, l’appello è infondato e va rigettato. In primo luogo va osservato che la norma tributaria in quanto incidente sul diritto di proprietà tutelata dalla Costituzione, va considerata norma di stretta interpretazione. Ne consegue che le norme tributarie, che prevedono esenzioni, non sono considerabili “eccezionali” e, quindi, di stretta interpretazione ma al contrario.

Ciò premesso, nel merito della vicenda va ripreso quanto affermato la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25508/2015 del 18 dicembre 2015.

La fattispecie posta all’attenzione della Suprema Corte era identica è quella de qua agitur; riguardava tre avvisi di accertamento, notificati per altrettante annualità d’imposta, relativi ad un immobile di proprietà di un Ente di culto con sede nello (omissis) e concesso in comodato d’uso gratuito a una Onlus, per perseguire le finalità di assistenza e formazione a favore di studenti universitari; tale finalità, sostenevano i ricorrenti, giustificava l’esenzione di cui all’art. 7, comma 1, lett. i) del D.Lgs. n. 504 del 1992.

In particolare, è stato messo in evidenza come non fosse rilevante il fatto che il bene in questione fosse utilizzato dal comodatario e non dal concedente, perché il comodatario utilizzava il bene in attuazione dei compiti istituzionali dell’ente concedente, al quale era legato da un vincolo di strumentalità: l’utilizzazione diretta del bene da parte dell’ente possessore, è condizione necessaria per l’esenzione, ma solo nelle ipotesi di locazione del bene o di “concessione di beni demaniali”.

Solo in questi casi, infatti, la ratio della limitazione è individuabile nell’effetto distorsivo che, in tali situazioni, si determina rispetto alle finalità tutelate dalla norma (l’esercizio di attività “protette”), in quanto il bene viene utilizzato dal possessore per “una finalità economica produttiva di reddito” e non per lo svolgimento dei compiti istituzionali.

Trattasi di fattispecie ben diverse da quella sottoposta all’attenzione di questa commissione regionale in cui, invece, sia l’Ente di culto che l’ente “concretamente utilizzatore” sono enti non commerciali e l’immobile è concesso in comodato gratuito e non in locazione onerosa.

La sussistenza del requisito, sia soggettivo che oggettivo, deve essere in sostanza accertata caso per caso, in considerazione del fatto che sarebbe ingiustificato che lo Stato gravasse quelle realtà, ecclesiali e non, che perseguono fini di interesse collettivo.

La tesi della Cassazione, che si condivide completamente, è avallata anche dalla risoluzione n. 4/DF del 4 marzo 2013, dell’Amministrazione finanziaria che ha ritenuto che l’esenzione di cui all’art. 7, comma 1, lett. i) del D.Lgs. n. 504 del 1992 spetti nell’ipotesi in cui l’immobile sia concesso in comodato a un altro ente non commerciale appartenente alla stessa struttura dell’ente concedente per lo svolgimento di un’attività meritevole prevista dalla norma agevolativa.

Nel caso di specie l’appartenenza degli enti comodatari all’ente ecclesiastico proprietario del bene è stato ben giustificato dal giudice di prime cure, la cui argomentazioni si condividono e richiamano interamente in questa sede.

L’immobile è stato affidato in comodato gratuito ad un’altra onlus che svolge attività culturale e didattica e, quindi, non commerciale.

Va a tal proposito rimarcato che l’attività scolastica primaria e secondaria, con esclusione di quella universitaria, è un diritto costituzionalmente protetto non solo per chi insegna ma anche per chi apprende ed espressione della libertà fondamentale ed inclinabile di manifestazione del pensiero oltre che del diritto di inclusione sociale di cui all’art. 2 della Carta Fondamentale.

Il pagamento delle rette da parte dei discenti non trasforma l’attività svolta in commerciale dovendosi rappresentare come una contribuzione al funzionamento della struttura educativa necessaria per l’esercizio effettivo del diritto costituzionale di insegnamento e di apprendimento.

Con la pronuncia della CTR Lombardia, sezione VIII, n. 4400 del 18.10.2018, i giudici di secondo grado hanno affermato che non può essere contestata l’esenzione Imu ad un ente non commerciale che svolge attività di scuola dell’infanzia sulla base di accordi con l’amministrazione comunale che prevedono l’erogazione di contributi in conto gestione, oltre a vincoli sulle tariffe in ragione delle fasce di reddito delle singole famiglie degli iscritti alla scuola. È proprio l’esistenza di tali vincoli ispirati ad un principio di solidarietà che impedirebbe all’ente una gestione concorrenziale, fatto che giustifica il riconoscimento dell’esenzione. Con riferimento ai contributi in convenzione, inoltre, secondo i giudici regionali, la loro erogazione contribuirebbe a realizzare i medesimi obiettivi perseguiti dall’amministrazione comunale con la gestione diretta della scuola. Nonostante le richiamate argomentazioni possano ritenersi condivisibili, occorre evidenziare come le stesse non siano state giudicate sufficienti a riconoscere l’esenzione in occasione di una altrettanto recente pronuncia dei giudici di legittimità.

In particolare, con la sentenza della CTP Reggio Emilia n. 271/2/2017 del 25.10.2017, i giudici emiliani hanno riconosciuto l’esenzione da Imu per un immobile di un ente ecclesiastico concesso in uso gratuito ad altro ente ecclesiastico per svolgervi attività didattica. Dal contenuto della sentenza emerge che, ai fini dell’esenzione, non deve sussistere la necessaria coincidenza tra chi “possiede” l’immobile e chi lo “utilizza” per attività istituzionali esenti dal tributo.

Più di recente la sezione XI della CTR Lazio, con la sentenza n. 2696 del 27.04.2018, ha sostenuto che va riconosciuta l’esenzione anche se un ente non commerciale titolare di un immobile lo concede in comodato a un altro ente non profit, qualora i due enti svolgano la stessa attività e perseguono le medesime finalità istituzionali e per il suo utilizzo non venga richiesto dal concedente il pagamento di alcun canone di locazione.

La gratuità del comodato giustifica l'esenzione dal pagamento dell'Imu per gli enti non commerciali che svolgono attività meritevole. Questa la conclusione "progressista" cui giunge il Mef nella risoluzione 4DF del 4.3.2013. Il Mef tratta il caso di un ente non commerciale che concede in comodato gratuito un immobile di sua proprietà ad un altro ente non commerciale, per lo svolgimento di attività meritevoli. Il Mef stravolge l'orientamento prevalente della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale, che hanno da sempre richiesto la coincidenza soggettiva tra proprietario e utilizzatore dell'immobile, sostenendo che ciò che conta è la gratuità della concessione, e quindi la non formazione di reddito in capo all'ente.

La gratuità del comodato è motivo di esenzione.

Secondo alcune pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, l'esenzione per gli enti non commerciali si applica a condizione che l'immobile sia posseduto e utilizzato per attività meritevoli (articolo 7 comma 1 lettera i del D.Lgs. 504/1992) direttamente dallo stesso ente non commerciale, circostanza che non avviene in caso di concessione in comodato ad un altro ente non commerciale. Per attività meritevoli si intendono quelle assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreativi, sportive, di religione e di culto. In netto contrasto con questa soluzione il Ministero, nella risoluzione 4/DF, conclude affermando che l'esenzione Imu si applica nel caso di immobili concessi in comodato a titolo gratuito ad altri enti dello stesso tipo. Secondo il Mef, infatti, l'elemento decisivo per l'applicazione o meno dell'Imu è la presenza di un reddito determinato dall'immobile, che nel caso del comodato a titolo gratuito non sussiste.

A sostegno di questa tesi, nella risoluzione si richiama la sentenza n. 11427/2007 della Corte di Cassazione che ha trattato il caso di un immobile dato in locazione. Anche in questo caso si verificava la non coincidenza tra soggetto proprietario e soggetto utilizzatore dell'immobile, che secondo il principale orientamento della giurisprudenza escludeva l'applicabilità dell'esenzione. In tale sentenza però la Corte di Cassazione, esclude l'applicabilità dell'esenzione per il fatto che la locazione determinava un reddito in capo all'ente, indice di una determinata capacità contributiva, non idonea a giustificare l'agevolazione. Nel caso del comodato gratuito, invece, a differenza della locazione non si genera alcun reddito in capo all'ente, e pertanto l'esenzione si applica.

Ovviamente l'ente utilizzatore non deve pagare l'Imu perché non è soggetto passivo, ma deve fornire all'ente non commerciale che gli ha concesso l'immobile, tutti gli elementi necessari per consentirgli l'esatto adempimento degli obblighi tributari sia di carattere formale che sostanziale.

D'altra parte l'orientamento "elastico" del Mef è da apprezzare, considerando che ha voluto cogliere la ratio più profonda della norma. L'esenzione, infatti, è il giusto riconoscimento del valore sociale apportato dagli enti no profit attivi in settori particolarmente delicati della vita dei cittadini. È proprio il carattere non lucrativo l'elemento che giustifica l'esenzione, e che tra l'altro, esprimendosi in termini di umanizzazione, costituisce un "ritorno" nelle tasche dei cittadini. E' pertanto la natura del contratto di comodato e la sua non onerosità a consentire al ministero di giustificare l'esenzione Imu. Restano ovviamente soggetti a tassazione gli immobili locati in quanto l'affitto rappresenta un reddito e una fonte di ricchezza che è oggettivamente incompatibile con gli obiettivi che le norme sull'esenzione dall'Imu tutelano.

Peraltro l’Amministrazione Finanziaria, contrariamente a quanto affermato dalla su indicata giurisprudenza, con le Risoluzioni n. 3 e 4 del 4 marzo 2013 ha chiarito che un ente commerciale che conceda in comodato un immobile ad un altro ente non commerciale per l’esercizio di attività non commerciale gode ugualmente dell’esenzione IMU.

Il Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 19 novembre 2012 n. 200 ha individuato, all’articolo 3 e 4, rispettivamente i requisiti generali e di settore che gli enti non commerciali devono possedere per godere dell’esenzione IMU.

In particolare l’articolo 3 prevede che le attività istituzionali sono svolte con modalità non commerciali quando l’atto costitutivo o lo statuto dell’ente (che deve essere redatto per atto pubblico, scrittura autenticata, ovvero semplicemente registrato all’agenzia delle entrate) prevedono:

a) il divieto di distribuire, anche in modo indiretto, utili o avanzi di gestione;

b) l’obbligo di reinvestire gli eventuali utili o avanzi di gestione esclusivamente per lo sviluppo delle attività funzionali al perseguimento dello scopo istituzionale di solidarietà sociale;

c) l’obbligo di devolvere il patrimonio dell’ente non commerciale in caso di suo scioglimento per qualunque causa, ad altro ente non commerciale che svolga una analoga attività istituzionale, salvo diversa destinazione imposta per legge.

Gli enti non commerciali devono tenere a disposizione dei comuni la documentazione utile allo svolgimento dell’attività di accertamento e controllo.

Sull'ampliamento della casistica dell'esenzione IMU e TASI, non limitandosi al solo possesso ma allargandosi anche al semplice utilizzo dell'immobile da parte di un ente non commerciale per attività senza scopo di lucro, oltre alla modifica dell'orientamento giurisprudenziale si sta assistendo al mutamento dell'orientamento da parte del nostro legislatore.  Con riferimento agli Enti non commerciali, la Legge di Bilancio 2020 non modifica la precedente agevolazione prevista dall’art. 7 co. 1 lett. i) del D.Lgs. 504/1992, ovvero per tali enti prevista l’esenzione dal pagamento dell’Imu qualora ricorrano i seguenti requisiti:

·           L’immobile sia posseduto e/o utilizzato da enti non commerciali di cui all’art. 73 co 1 lettera c) del TUIR;

·           Lo stesso sia destinato, in via esclusiva, allo svolgimento, con modalità non commerciali, di una o più delle attività elencate all’art. 7, co1 lett. a) del D.lgs. 504/1992 (assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive).

Per la legge di bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022, n. 160/2019, nell'art. 1 comma 759 “Sono esenti dall'imposta, per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte: g) gli immobili posseduti e utilizzati dai soggetti di cui alla lettera i) del comma 1 dell'articolo 7 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, e destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità' non commerciali delle attività' previste nella medesima”. Con questa enunciazione la legge di Bilancio 2020 sembra discostarsi dai principi previsti dal legislatore del 1992. Ma la vera novità è introdotta dalla Legge di Bilancio 2020 nell'art. 1 comma 777 che  prevede la possibilità per i Comuni di prevedere l’esenzione del pagamento IMU sugli immobili dati in comodato d’uso gratuito alle associazioni, a prescindere dall’attività svolta dall’ente.

Art. 1 comma 777. “Ferme restando le facoltà di regolamentazione del tributo  di cui all'articolo 52 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, i comuni possono con proprio regolamento: (…)

e) stabilire l'esenzione dell'immobile dato in comodato  gratuito al comune o ad altro ente territoriale, o ad  ente  non  commerciale, esclusivamente per l'esercizio dei rispettivi scopi  istituzionali o statutari”.

Questo significa la possibilità di un’esenzione del pagamento IMU sugli immobili che spesso il presidente e / o altri dirigenti cedono a titolo gratuito. Ricordiamo che la scelta in merito a questa esenzione viene rimandata ai comuni, quindi sarà fondamentale verificare i regolamenti comunali e, se ce ne sono le condizioni, fare pressione affinché il Comune si muova in tal senso.

Quando il Legislatore ha configurato l’ipotesi di esenzione da Imu e Tasi per la platea degli enti non commerciali lo ha fatto con riferimento agli immobili che vengono direttamente utilizzati nella loro attività “istituzionale”.

In particolare, è l’articolo 9, comma 8, D.Lgs. 23/2011 a disporre che si applica all’Imu l’esenzione prevista dall’articolo 7, comma 1, lett. i), D.Lgs. 504/1992 recante disposizioni in materia di imposta comunale sugli immobili “destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222”.

Con il D.L. 16/2014, invece, al fine di assimilare il trattamento della Tasi a quello dell’Imu, l’articolo 1, comma 3 del citato decreto rende applicabili alla Tasi quasi tutte le esenzioni applicabili all’Imu, tra le quali certamente spicca quella riservata agli enti non commerciali, stabilendo che “Sono esenti dal tributo per i servizi indivisibili (Tasi) gli immobili posseduti dallo Stato, nonché gli immobili posseduti, nel proprio territorio, dalle regioni, dalle province, dai comuni, dalle comunità montane, dai consorzi fra detti enti, ove non soppressi, dagli enti del servizio sanitario nazionale, destinati esclusivamente ai compiti istituzionali. Sono altresì esenti i rifugi alpini non custoditi, i punti d’appoggio e i bivacchi. Si applicano, inoltre, le esenzioni previste dall’articolo 7, comma 1, lettere b), c), d), e), f), ed i) del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504; ai fini dell’applicazione della lettera i) resta ferma l’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 91-bis del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 e successive modificazioni”. E nel richiamo alla lett. i) dell’articolo 7 D.Lgs. 504/1992 c’è proprio la citata esenzione prevista per gli enti non commerciali ai fini Imu.

In Conclusione si afferma che:

i provvedimenti in oggetto sono palesemente contra legem, ossia contro il dettato chiaro ed inequivocabile della legge e del suo spirito, contenente i principi costituzionali.

Le motivazioni di rigetto sono riferite a sentenze richiamate che prendono in esame l’utilizzo dell’immobile da parte di un privato e non da parte di un ente non commerciale come la legge richiede. E quindi i richiami giurisprudenziali non possono essere applicati a questo caso, oggetto del presente ricorso. Nel presente ricorso si fa riferimento ad Ente utilizzatore che è un Ente non commerciale ed utilizza l’immobile senza fine di lucro ed il possessore, di fatto, è lo stesso ente in persona del suo presidente.

Il riferimento è sbagliato anche in virtù della logica giuridica.

Il regolamento comunale non può travalicare la volontà di una norma di rango superiore. Ogni interpretazione di una norma da parte di organi di rango costituzionale o istituzionale non può porsi in contrasto con la volontà popolare che ha emanato la stessa norma, tantomeno quando vi consegue l’interpretazione autentica della norma da parte del legislatore medesimo. Ove il contrasto succedesse vi si palesa un chiaro conflitto costituzionale tra Organi dello Stato. E vi si palesa una chiara lesione dei principi fondamentali della Costituzione di cui all’art. 1, in cui si riconosce l’esclusiva sovranità popolare e, quindi,  del legislatore quale suo rappresentante.

Dispositivo dell'art. 1 Preleggi. Fonti → Preleggi → Capo I - Delle fonti del diritto: Sono fonti del diritto : 1) le leggi; 2) i regolamenti; 3) [le norme corporative] ; 4) gli usi.

L'avvento della Costituzione Repubblicana ha innovato al previgente sistema delle fonti in un duplice senso: ha, innanzitutto, aggiunto ulteriori fonti a quelle già contemplate dalla disposizione in esame, rompendo il monopolio legislativo in ossequio alla sua vocazione pluralista; ha, quindi, modificato i criteri che regolano i rapporti tra le fonti. Nel primo senso, sono attualmente fonti di diritto (secondo un'elencazione non tassativa): la Costituzione; le leggi costituzionali di revisione ed integrazione della Costituzione nonché, in genere, le leggi di rango costituzionale (es.: gli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale); le leggi ordinarie dello Stato; gli atti normativi del governo (decreti legge e decreti legislativi); il referendum popolare abrogativo; gli Statuti Regionali ordinari, le leggi regionali; le fonti comunitarie; i contratti collettivi di lavoro; i regolamenti governativi, regionali, provinciali, comunali e degli altri enti pubblici; la consuetudine etc. Nel secondo senso, il principio di gerarchia delle fonti (le fonti di grado superiore possono abrogare quelle inferiori ma non possono essere modificate da queste ultime) si è specificato nel senso imposto dalla rigidità della Costituzione attuale: la modificazione o l'abrogazione delle norme costituzionali non può più attuarsi a mezzo della legge ordinaria, ma soltanto secondo la procedura, aggravata da maggioranze qualificate, dettata dalla stessa Costituzione.

Dispositivo dell'art. 4 Preleggi. Fonti → Preleggi → Capo I - Delle fonti del diritto

I regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi). I regolamenti emanati a norma del secondo comma dell'art. 3 non possono nemmeno dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo.

Interpretazione della legge. Capo II - Dell'applicazione della legge in generale. Dispositivo dell'art. 12 Preleggi: Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse (È questa la c.d. interpretazione letterale (c.d. vox iuris), volta ad attribuire alla norma il significato ed il senso che si evince immediatamente dalle parole utilizzate), e dalla intenzione del legislatore (È questa la c.d. interpretazione logica che, superando il significato immediato della disposizione, mira a stabilire il suo vero contenuto ossia lo scopo che il legislatore ha inteso realizzare, emanandola, e consente di adeguare meglio il significato di una norma all’evoluzione della società. Può confermare il tenore letterale della norma (i. dichiarativa), oppure può attribuirle un significato più ristretto, limitandone l’ambito di applicabilità (i. restrittiva), o viceversa estenderne il significato, rendendo la norma applicabile a casi che a prima vista non vi sembrano compresi (i. estensiva). Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione (Il legislatore espressamente contempla la possibilità che vi siano fattispecie non previste né risolte da norme giuridiche. Il legislatore prevede, cioè, l'esistenza di lacune le quali devono, tuttavia, essere colmate dal giudice che non può rifiutarsi di risolvere un caso pratico adducendo la mancanza di norme), si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe (È questa la c.d. analogia legis, ammissibile soltanto se basata sui seguenti presupposti: a) il caso in questione non deve essere previsto da alcuna norma; b) devono ravvisarsi somiglianze tra la fattispecie disciplinata dalla legge e quella non prevista; c) il rapporto di somiglianza deve concernere gli elementi della fattispecie nei quali si ravvisa la giustificazione della disciplina dettata dal legislatore (eadem ratio); se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato (È questa la c.d. analogia iuris: nel richiamare i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato, il legislatore ha inteso, innanzitutto, escludere il ricorso ai principi del diritto naturale. Quanto alla loro individuazione, la dottrina prevalente ritiene che essi vadano identificati in norme ad alto grado di generalità) 

L'Interpretazione giudiziale: Proveniente dai giudici di ogni ordine e grado. Ha valore vincolante solo per il caso concreto ossia per le parti del processo perché è alla base della decisione che le riguarda e alla quale saranno obbligate ad attenersi. Non ha valore nei confronti degli altri giudici, in quanto ogni organo giudicante deve svolgere in piena indipendenza e autonomia la propria funzione.

Interpretazione autentica: Proviene dallo stesso soggetto che ha emanato la norma, al fine di eliminare incertezze e dubbi. Essendo contenuta in un atto avente forza di legge è vincolante per tutti; alla norma in questione non sarà più attribuibile un significato diverso da quello fissato dalla legge interpretativa.

Il Dlgs 504/1992 (Riordino della finanza degli enti territoriali), al Titolo I, Capo I (Imposta Comunale sugli Immobili), art. 7 comma 1 lett. I (Esenzioni), recita: “Sono esenti dall'imposta:

i) gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all'articolo 73, comma 1, lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917,e successive modificazioni, fatta eccezione per gli immobili posseduti da partiti politici, che restano comunque assoggettati all'imposta indipendentemente dalla destinazione d'uso dell'immobile, destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all'articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222”. L'esenzione spetta per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte (art. 7, comma 2 Dlgs 504/1992).

(È questa la c.d. interpretazione letterale (c.d. vox iuris), volta ad attribuire alla norma il significato ed il senso che si evince immediatamente dalle parole utilizzate), e dalla intenzione del legislatore (È questa la c.d. interpretazione logica che, superando il significato immediato della disposizione, mira a stabilire il suo vero contenuto ossia lo scopo che il legislatore ha inteso realizzare, emanandola, e consente di adeguare meglio il significato di una norma all’evoluzione della società.

Si denota con stupore che, se da una parte le commissioni tributarie ed il Ministero dell'Economia e Finanze si esprimono in ossequio ai principi del legislatore del 1992, prevedendone la dicotomia POSSESSO ED UTILIZZO, la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione se ne discostano, riconoscendo l'esenzione solo a quei "No Profit" che oltre ad essere utilizzatori siano anche possessori.

Va da se che termine più aleatorio nel diritto civile è quello del POSSESSO, ma in questo caso si intende PROPRIETA' O USUFRUTTO, e non COMODATO.

Il Legislatore, con la sua profonda saggezza, ha insistito sul punto, in ossequio ai fini solidaristici costituzionali.

Per la legge di bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022, n. 160/2019, nell'art. 1, comma 777. “Ferme restando le facoltà di regolamentazione del tributo  di cui all'articolo 52 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, i comuni possono con proprio regolamento: (…)

e) stabilire l'esenzione dell'immobile dato in comodato  gratuito al comune o ad altro ente territoriale, o ad  ente  non  commerciale, esclusivamente per l'esercizio dei rispettivi scopi  istituzionali o statutari”.

Questa è una Interpretazione autentica: Proviene dallo stesso soggetto che ha emanato la norma, al fine di eliminare incertezze e dubbi. Essendo contenuta in un atto avente forza di legge è vincolante per tutti; alla norma in questione non sarà più attribuibile un significato diverso da quello fissato dalla legge interpretativa.

Questa è una interpretazione EVOLUTIVA E’ necessario interpretare una disposizione normativa non solo facendo riferimento al contesto passato in cui è stata emanata ma anche a quello attuale in cui è in vigore.

Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza del 10.03.2020, n. 6752. E' bene al riguardo rammentare che l'attività ermeneutica, in consonanza con i criteri legislativi di interpretazione dettati dall'art. 12 preleggi, deve essere condotta innanzitutto e principalmente, mediante il ricorso al criterio letterale; il primato dell'interpretazione letterale è, infatti, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (vedi ex multis, Cass. 4/10/2018 n. 241651 , Cass. 21/5/2004 n. 97002 , Cass. 13/4/2001 n. 3495) secondo cui all'intenzione del legislatore, secondo un'interpretazione logica, può darsi rilievo nell'ipotesi che tale significato non sia già tanto chiaro ed univoco da rifiutare una diversa e contraria interpretazione. Alla stregua del ricordato insegnamento, l'interpretazione da seguire deve essere, dunque, quella che risulti il più possibile aderente al senso letterale delle parole, nella loro formulazione tecnico giuridica.

Inoltre la mancata applicazione dell’art. 1, comma 777, della legge 160/2019 comporta la violazione dell’art. 3 della Costituzione. L’ampia discrezionalità concessa ai singoli Comuni circa la possibilità di esentare da IMU – o meno – gli immobili concessi in comodato unita all’assenza di criteri univoci utili a garantire un trattamento di eguaglianza nei confronti degli enti interessati, potrebbe portare disparità di trattamento - verso gli immobili concessi in comodato - per i diversi contribuenti che risiedono all’interno di un raggio territoriale limitato a pochi km di distanza l’un l’altro, ovvero ad eventuali calcoli di convenienza tra le parti nello svolgere le proprie attività in territori comunali con immobili ad “esenzione garantita” a favore del comodante, verso il quale sarebbe auspicabile un chiarimento sia a livello legislativo, oltre che di prassi, al fine di evitare il proliferarsi di eventuali contenziosi nei confronti dei Comuni interessati a non concedere il beneficio agevolativo di esenzione in parola.

CONSIDERATO CHE

Visto l'art. 7 comma 1 lett. I del DLgs 504/1992;

Visto l'art. 9 comma 8 del Dlgs 23/2011;

Visto l'art. 1 comma 3 del Dl 16/2014;

Visto l'art. 5 del Regolamento per l'applicazione dell'Imposta Municipale Propria, approvato con Delibera del Consiglio Comunale di Avetrana (TA);

Visto l'art. 1 comma 759 e comma 777 della legge di bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022, n. 160/2019.

Visto l’articolo 1, comma 3 D.L. 16/2014.

Vista la giurisprudenza che sul tema si è pronunciata fissando, ai fini dell'esenzione dai tributi IMU e TASI, la condizione dell'esclusivo possesso e utilizzo del soggetto esente ed ha escluso l'applicabilità di IMU e TASI sugli immobili dati in comodato d'uso ad enti non commerciali;

Visto il mutamento dell'orientamento legislativo in ambito di esenzione IMU e TASI, allargandone i casi oltre al solo possesso degli immobili da parte dei soggetti esenti, estendendone gli ambiti anche ai casi di semplice comodato d'uso.

Accertati i principi previsti dal legislatore a tutela della solidarietà in attuazione dell’art. 2 della Costituzione (dovere di solidarietà) e 3 (principio di uguaglianza).

Vista la finalità sociale e senza fini di lucro dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, come da atto costitutivo, regolamento e iscrizione all'anagrafe delle ONLUS;

Visto il possesso nonché utilizzo esclusivo da parte dell'Associazione Contro Tutte le Mafie (di cui il dott. Antonio Giangrande è presidente) dell'immobile in via Piave 127 (di cui il dott. Antonio Giangrande è usufruttuario), ove ha sede legale e dove svolge le proprie attività sociali e senza scopo di lucro, così come già attestato con Dichiarazione IMU-TASI del 27 aprile 2015, Prot. Comune Avetrana n. 9708396;

I provvedimenti

-           n. 550 del 17/11/2020 Imposta Municipale Propria (IMU) 2015 su immobile sito in via Piave 127, Avetrana (TA), inviato in data 31/12/2020 e ricevuto in data 07/01/2021;

-           n. 1240 del 17/11/2020 Tassa sui Servizi Indivisibili (TASI) 2015 su immobile sito in via Piave 127, Avetrana (TA), inviato in data 31/12/2020 e ricevuto in data 07/01/2021;

sono illegittimi e/o infondati per la mancata applicazione dell'esenzione dal tributo IMU e TASI dell'immobile sito in via Piave 127, Avetrana (TA).

CHIEDE

ai sensi dell’art. 2-quater del D.L. 30 settembre 1994, n. 564, come modificato dall’art. 27 della Legge
18 febbraio 1999, n. 28, che codesto Ufficio riesamini le ragioni del proprio operato e provveda, in autotutela, all’annullamento degli avvisi di accertamento n. 550/2020 e 1240/2020, previa sospensione degli effetti dell'atto e consapevole che questa richiesta non sospende i termini per la proposizione  del ricorso alla Commissione Tributaria. Inoltre

DICHIARA

-           di essere informato che, ai sensi e per gli effetti del Dlgs 196/2003, i dati personali raccolti saranno trattati, anche con strumenti informatici, esclusivamente nell'ambito del procedimento per il quale la dichiarazione viene resa;

-           di essere consapevole che in caso di dichiarazioni false si rendono applicabili le sanzioni civili e penali previste per legge.

DELEGO

alla presentazione di tale richiesta l'Avv. Mirko Giangrande, del Foro di Taranto, con sede in Avetrana (TA) via Manzoni n. 51, cui allega fotocopia della carta d'identità n° AT1360879 rilasciata il 06/10/2011 dal Comune di Avetrana

 

Allegati:

1)         Avviso di accertamento IMU n. 550 del 17/11/2020;

2)         Avviso di accertamento TASI n. 1240 del 17/11/2020;

3)         Provvedimento iscrizione anagrafe ONLUS dell'Associazione Contro Tutte le Mafie;

4)         Nota di Trascrizione Agenzia del Territorio;

5)         Atto di costituzione dell'Associazione Contro Tutte le Mafie;

6)         Dichiarazione IMU – TASI 2015

7)         Fotocopia carta d'identità del dott. Antonio Giangrande

8)         Fotocopia carta d'identità dell'Avv. Mirko Giangrande

 

Avetrana, lì 12/01/2021

                                 Dott. Antonio Giangrande

 

Avv. Mirko Giangrande

Manduria, rapinatori assaltano un bar: le donne li mettono in fuga e arriva anche un'anziana con la scopa. Biagio Valerio su la Repubblica il 25 agosto 2021. Alla fine arriva anche una donna anziana, con la scopa, a dare manforte a due donne mentre mettono in fuga i rapinatori. Il video di una telecamera di sorveglianza rivela i particolari del tentativo di rapina al bar tabaccheria “Acca” di Torre Colimena, marina di Manduria. Un episodio finito senza feriti ma che sarebbe potuto degenerare: in questi casi il consiglio delle forze di polizia per le vittime è quello di mantenere la calma ed evitare di reagire in modo inconsulto. Ecco quanto accaduto a Manduria: due uomini, di cui uno armato di un fucile a pompa poi rivelatosi non funzionante, sono entrati nel locale minacciando la proprietaria e una commessa. Dopo i colpi sparati a vuoto, le vittime hanno reagito colpendo più volte i due malviventi e obbligandoli alla fuga precipitosa. Le donne si sono scagliate contro uno dei due, in particolare, smascherandolo e strappandogli dal viso il passamontagna. Poi lo hanno strattonato al punto di spogliarlo, levandogli la felpa da dosso. A torso seminudo l’uomo si è precipitato fuori dal negozio nascondendosi il viso con la maglietta, cadendo pure nella fuga e inseguito dalla signora. Infine è arrivata anche l’anziana mamma della proprietaria, con la scopa. I due malviventi sono scappati su una Mercedes, rubata a Francavilla Fontana e ritrovata carbonizzata nelle campagne lungo la Nardò-Avetrana. La banda, attualmente ricercata, è accusata di altre due rapine nella stessa giornata: una a Erchie e l’altra al Villaggio Boncore. di Biagio Valerio

·        Succede a Manduria.

Condannato per diffamazione l’ex consigliere regionale pugliese Giuseppe Turco. Il Corriere del Giorno il 19 Dicembre 2021. Al termine delle indagini la Procura ha condannato con una pena pecuniaria nei confronti della moglie di Giuseppe “Peppo” Turco “per aver offeso l’onore e la reputazione di Francesco Turco mediante la pubblicazione di un post, sulla propria pagina Facebook, dai contenuti offensivi e denigratori della sua figura professionale”. E‘ stata notificato soltanto la settimana scorsa dal Tribunale di Taranto, circa un anno dopo dalla sua emissione un decreto penale di condanna che porta la firma del Gip Vilma Gilli (ora in servizio presso il Tribunale di Brindisi) nei confronti dell’ex consigliere regionale del centrosinistra, ex sindaco di Torricella,  Giuseppe Turco, di sua moglie e di altre sei persone per diffamazione a mezzo stampa effettuata su Facebook, e anche attraverso esposti firmati, nei confronti di Francesco Turco primario del pronto soccorso dell’ospedale di Manduria, ed attuale sindaco di Torricella. Gli 8 imputati sono stati condannati a pagare ognuno una multa di 6.000 euro che non vanno riconosciuti alla parte offesa ma bensì a favore delle casse dello Stato. 

La vicenda giudiziaria trae origine da un’intervista che il primario Francesco Turco rilasciò nel 2017 ad un giornalista che seguiva il caso di un indigente ricoverato per le condizioni di abbandono in cui viveva nel comune di Torricella. Il medico rispondendo alle domande del giornalista che pubblicò successivamente l’articolo sulla sua pagina Facebook, analizzò lo stato di salute dell’indigente chiamandolo con il solo nome di battesimo, senza indicare il cognome nel rispetto delle norme di Legge sulla Privacy.

Le dichiarazioni rilasciate dal dr. Turco vennero ritenute scorrette deontologicamente e professionalmente dagli imputati, tutti collegati politicamente all’ex consigliere regionale Giuseppe (Peppo) Turco, i quali hanno attaccato con rimproveri e di esposti indirizzati all’ ASL Taranto per chiedere l’avvio di provvedimenti disciplinari nei confronti del primario. Ma non solo quegli stessi esposti furono presentati anche all’Ordine dei medici di Taranto. Particolare non indifferente è che degli enti a cui erano stati mandati gli esposti hanno mai avviato alcuna azione disciplinare, ritenendo evidentemente ingiustificate le accuse rivolte al dr. che nel frattempo, sentendosi diffamato, aveva presentato querela.

Al termine delle indagini la Procura ha condannato con una pena pecuniaria nei confronti della moglie di Giuseppe “Peppo” Turco “per aver offeso l’onore e la reputazione di Francesco Turco mediante la pubblicazione di un post, sulla propria pagina Facebook, dai contenuti offensivi e denigratori della sua figura professionale“; dell’ex dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Torricella, Egidio Caputo, degli ex assessori Leonardo Caputo, e Giovanni Meleleo, all’ex consigliere comunale, Cosimo Delli Ponti.

La procura ed il Gip hanno invece contestato ed addebitato all’ex consigliere regionale Giuseppe Turco e a due suoi sodali sostenitori (i suoi due portaborse), l’aver “offeso l’onore e la reputazione” del primario attraverso la trasmissione di esposti indirizzati alla direzione della Asl “dal contenuto offensivo e denigratorio, accusandolo falsamente di aver tenuto una condotta contraria alla deontologia professionale”.

Processo alla Cupola manduriana. Cupola mafiosa, chiesti tre secoli. Il pubblico ministero della Procura distrettuale antimafia, Milto Stefano De Nozza, ha chiesto per i 37 imputati condanne di carcere per tre secoli e sanzioni pecuniarie per una somma pari a 398mila euro. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria sabato 11 dicembre 2021. Sono state chieste pene pesanti per gli imputati del processo alla Cupola manduriana accusati dall’antimafia di aver diretto e fatto parte di un’organizzazione malavitosa per il controllo del mercato della droga e del crimine nella città Messapica e nel circondario. Al termine della sua requisitoria nell’aula bunker del Tribunale di Lecce, il pubblico ministero della Procura distrettuale antimafia, Milto Stefano De Nozza, ha chiesto per i 37 imputati che hanno scelto l’abbreviato, condanne di carcere per tre secoli e sanzioni pecuniarie per una somma pari a 398mila euro. Le condanne più severe, venti anni già ridotti dal rito alternativo, sono stati chiesti per i presunti componenti delle «Cupola», Giovanni Caniglia, Nazareno Malorgio e Walter Modeo. Sarebbero loro, secondo la pubblica accusa, i promotori e organizzatori della compagine mafiosa. Solo 6 anni di carcere per il quarto presunto componente della Cupola, l’imprenditore Elio Palmisano per il quale De Nozza ha chiesto 6 anni di reclusione riconoscendogli le attenuanti generiche. Palmisano che al momento dell’arresto dirigeva la società sportiva del Manduria calcio, aveva chiesto e ottenuto di essere ascoltato dagli inquirenti così come hanno fatto altri due imputati, Gianluca Attanasio e Domenico Alessandro Andrisano. Riconosciute anche a loro le attenuanti grazie ai quali la richiesta è stata di 4 anni di reclusione a testa. Né pentiti o collaboratori di giustizia, tecnicamente la loro posizione è quella dei «dichiaranti».

I loro verbali di interrogatorio depositate nella disponibilità delle parti, contengono numerosi omissis. 

Così le altre richieste: Alessandro Andrisano, 12 anni; Mario Buccoliero 12 anni, Alessandro Caniglia 10 anni; Giovanni Caniglia 20; Emidio Carella 6 anni e 4 mesi di reclusione; Andrea Ridge Carrozzo 4 anni e 4 mesi; Martin Caushaj un anno e 8 mesi; Pierluigi Chionna 10 anni; Antonio Cioffi 6 anni e 4 mesi; Valentino Corradino 4 anni; Francesco De Cagna 6 anni e 4 mesi; Gregorio De Stratis 12 anni di reclusione; Teresa Dimitri 6 anni e 4 mesi; Giuseppe Filardo 10 anni; Cosimo Iunco 10 anni; Maurizio Malandrino 14 anni; Raffaele Malandrino 14 anni; Nazareno Malorgio 20 anni; Vincenzo Mazza 4 anni e 4 mesi; Fabio Mazzotta 4 anni e 4 mesi; Gianvito Modeo 10 anni; Walter Modeo 20 anni; Raffaele Pagano 2 anni; Antonio Pangallo 6 anni; Emanuele Pastorelli 4 anni e 4 mesi; Angela Maria Pedone 12 anni; Giuseppe Policastro un anno e 8 mesi; Dario Portogallo 10 anni; Maurizio Scialpi 4 anni e 4 mesi; Pietro Spadavecchia 12 anni; Antonio Stano 4 anni e 4 mesi; Michele Antonio Trombacca 10 anni di reclusione.  

Ieri è toccato discutere anche all’avvocato Cosimo Romano in rappresentanza del comune di Manduria costituito parte civile. Il penalista che ha confermato le pene avanzate dal pubblico ministero ha fatto notare la delicatissima posizione della città Messapica reduce da un provvedimento di scioglimento per infiltrazione mafiosa. L’avvocato Romano ha messo in luce i danni all’economia e all’immagine dell’intera comunità manduriana. 

Il collegio difensivo è composto dagli avvocati Massimo Mero, Giuseppe Masini, Salvatore Maggio, Sergio Luceri, Alessandro Cavallo, Lorenzo Bullo, Antonio Liagi, Cosimo Parco, Michele Fino, Francesco Fasano, Dario Blandamura, Giuseppe Presicce, Giuseppe Giulitto, Francesca Coppi, Fabio Falco, Cosimo Micera, Manolo Gennari, Raffaele Missere, Lucia Missere, Franz Pesare, Armando Pasanisi, Cinzia Filotico, Mario Rollo e Sara Piccione. Prossima udienza il 10 gennaio. Nazareno Dinoi

La Cassazione conferma “La Cupola era mafiosa”. La recente decisione della suprema corte annulla le speranze dei difensori di affrancare dal reato di mafia i propri assistiti. La Voce di Manduria sabato 13 novembre 2021. La Corte di Cassazione ha respinto il secondo ricorso presentato dagli imputati del processo sulla presunta cupola mafiosa manduriana, intitolo appunto «Cupola» che chiedevano l’annullamento del reato a loro carico dell’associazione mafiosa. I giudici supremi che con una prima istanza avevano annullato con rinvio al tribunale del riesame di Lecce le posizioni degli imputati con il 416 bis, ha rigettato definitivamente la stessa richiesta di annullamento presentata dai difensori che speravano in una replica della precedente sentenza dopo che i giudici del Riesame di Lecce chiamati a rivedere il caso avevano riformulato il reato di mafia che ora la Corte suprema ha legittimato. Il processo che vede alla sbarra 40 persone quasi tutte manduriane tra pregiudicati e qualche imprenditore (solo alcuni con il 41 bis), prende ora una strada tutta in salita per gli imputati la cui posizione è resa ancor più critica dai tre «dichiaranti» Elio Palmisano, Gianluca Attanasio e Domenico Alessandro Andrisano, il primo sospettato di far parte della “Cupola” e quindi accusato di associazione mafiosa, gli altri due coinvolti in qualità di presunti spacciatori di sostanze stupefacenti. I tre che hanno chiesto di parlare con il pubblico ministero della Procura antimafia, Milto Stefano De Nozza, si autoaccusano dei reati contestati coinvolgendo negli stessi altri coimputati. Gli altri tre sospettati di essere a capo dell’organizzazione sono Nazareno Malorgio, Giovanni Caniglia e Walter Modeo. Secondo l’accusa i quattro imputati principali avrebbero gestito con metodo mafioso il traffico e il commercio della droga in tutto il territorio.  La recente decisione della suprema corte che annulla le speranze dei difensori di affrancare dal reato di mafia i propri assistiti, avvalora la tesi accusatoria sostenuta da De Nozza che nella prossima udienza del 10 dicembre formulerà le richieste di condanna mentre il 17 dicembre inizieranno le arringhe dei difensori.

"L'intreccio, amore e sesso", il libro erotico della manduriana Anna Giuliano. La Redazione della Voce di Manduria domenica 27 ottobre 2019. «Questo romanzo – scrive il suo editore - corona il sogno di una vita per una scrittrice emergente, dotata di grinta e di grande fantasia». Si definisce “scrittrice” e si presenta al pubblico con un libro erotico, primo del genere tra gli autori manduriani. Si chiama Anna Giuliano vive a Uggiano Montefusco, frazione di Manduria, dove si prepara all’uscita del suo romanzo dal titolo «L’intreccio: amore e sesso». «Un romanzo ambizioso – lo definisce la stessa autrice -, completo di amore, sesso e mistero». Poco altro ancora si scopre leggendo la presentazione del suo video promozionale. «Marjsol e Andrea si fondono nella carnalità di pulsione erotica da togliere il respiro. Quando la perfida Sofia impedisce loro di amarsi, gli spiriti del castello reggeranno l’intreccio che sigilla l’amore oltre ogni immaginazione». Per conoscere il resto bisogna aspettare l’uscita fissata per dicembre per opera dell’editore “Silvio Camerini” e per i tipi di “Abra Books Editrice”. «Il mio libro erotico farà scalpore», assicura Anna Giuliano, moglie e madre di due bambini con la passione per la scrittura. «Questo romanzo – scrive il suo editore - corona il sogno di una vita per una scrittrice emergente, dotata di grinta e di grande fantasia».

Manduria, autrice di libri erotici bullizzata dai compaesani. Da quotidianodipuglia.it il 22 ottobre 2021. Manduria, autrice di libri erotici bullizzata dai compaesani: «In chiesa non sei gradita». E le infilano un paio di slip nella buca delle lettere. Manduria, autrice di libri erotici bullizzata dai compaesani: «In chiesa non sei gradita». E le infilano un paio di slip nella buca delle lettere. Prima solo delle occhiatacce, poi qualche bisbiglio e dei sorrisi di scherno. E dopo ancora, le telefonate anonime, gli insulti per strada,...

Femminicidio a Manduria, la ricostruzione della brutalità. La lite appena alzati poi la brutale aggressione con la lama. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria mercoledì 13 ottobre 2021. L’allarme ieri mattina è scattato intorno alle 9,30. Manduria non si aspettava e sicuramente non meritava questo orrendo delitto, il più odioso forse che fa allungare il triste e doloroso elenco di donne uccise dai propri mari, compagni, conoscenti, amici. Così ieri è cominciata la tragedia che macchierà la cittadina di un altro infamante fatto di cronaca. «Venite in via Manfredi Ina casa, ho ucciso la mia compagna». È stato lui stesso a telefonare ai carabinieri piombati all’indirizzo che l’uomo ha dettato con lucidità. Un piccolo appartamento al primo piano delle palazzine di edilizia popolare del rione Barco a Manduria. Pietro Dimitri, 75 anni, ha poi atteso l’arrivo dei militari della locale stazione carabinieri a cui ha aperto la porta facendoli accomodare. «È lì per terra», ha detto al primo in divisa indicando la stanza da letto dove il corpo di Giuseppa Loredana Dinoi, 71 anni, giaceva sul pavimento parallelamente al letto e immerso nel suo stesso sangue. Un’altra scia rossa e lucida conduceva nella stanza vicino dove il settantacinquenne si era disteso, anche lui coperto di sangue che gli usciva da numerose ferite da taglio che si era procurate con la stessa arma usata per uccidere la sua compagna. Un femminicidio con tentativo di suicidio come se ne sentono tanti in ogni parte del mondo e dove le scene sembrano tutte uguali. L’umile abitazione si è ben presto animata di investigatori e soccorritori del 118. I sanitari, una volta accertato il decesso della donna, si sono dedicati all’uomo che continuava a perdere sangue da una miriade di micro ferite da taglio su entrambe le braccia e uno più profondo sul collo all’altezza della carotide che non era stata intaccata. Aveva invece compiuto bene l’opera sulla sua convivente, raggiunta da numerosi fendenti, almeno una ventina, su diverse parti del corpo con particolare accanimento su collo e volto. L’arma, un taglierino di grandi dimensioni di quelli usati dai tappezzieri, era ancora vicino a lui, per terra, vicino ad un divano.  Le indagini sono iniziate subito con gli investigatori del nucleo operativo radiomobile della compagnia carabinieri di Manduria e con gli specialisti della sezione scientifica del comando provinciale di Taranto che hanno cristallizzato la scena del crimine. Dalla prima ricostruzione fatta dai carabinieri che hanno raccolto la versione dell’omicida, pare che tra i due appena alzati sarebbe iniziata una lite che man mano è degenerata sino al tragico epilogo. Sull’origine dell’animata discussione non ci sono certezze. L’uomo avrebbe accennato a presunte incomprensioni che duravano da tempo sino alla volontà di lei andarsene e lasciarlo solo. Sarebbe stata questa volontà della donna a far scattare l’aggressione brutale e violenta. I due indossavano ancora il pigiama per cui la lite sarebbe scoppiata abbastanza presto. Il medico dell’ufficio legale della Asl, Fernando Greco che ha effettuato la visita necroscopica sul corpo della vittima, ha evidenziato delle profonde ferite all’avambraccio sinistro, segno evidente che la donna ha cercato di difendersi facendosi scudo con le braccia dai colpi di lama impugnata dal suo assassino. Più d’una invece le ferite mortali tutte alla gola. Nessuno nel condominio ha sentito urla o rumori.  Il pubblico ministero Remo Epifani, dopo la sutura delle ferite eseguita dai medici del pronto soccorso dell’ospedale Marianna Giannuzzi, ha disposto l’arresto dell’uomo che è stato poi trasferito nel carcere di Taranto. Difeso dall’avvocato Dario Blandamura, deve rispondere di omicidio volontario. Il titolare dell’inchiesta ieri non aveva ancora deciso se chiedere o meno l’autopsia. Nazareno Dinoi

I personaggi di questa tristissima pagina di cronaca manduriana. Una lunga e contrastata relazione tra i due finita nel peggiore dei modi. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria mercoledì 13 ottobre 2021. Una lunga e contrastata relazione tra i due finita nel peggiore dei modi. Lui, ex imprenditore, titolare di una impresa edile con discreti successi intorno agli anni Ottanta; lei pensionata ed ex titolare di una lavanderia sempre a Manduria. Pietro Dimitri, sposato e separato, padre di tre figli, due maschi e una donna, Giuseppa Loredana Dinoi, la sua vittima, nubile, che ha vissuto sempre con l’anziana madre. Poi, con la morte della sua mamma, la decisione di rendersi indipendente acquistando con i risparmi di una vita il piccolo appartamento delle case popolari del rione Barco. Un modesto alloggio di poche stanze al primo piano delle palazzine a schiera di Via Manfredi dove di tanto in tanto ospitava l’amico di una vita. Un vissuto molto travagliato quello dell’ex imprenditore caduto in disgrazia per la sua vicinanza con gli ambienti della malavita locale che lo hanno coinvolto in episodi criminali. Ha fatto così conoscenza del carcere dove è finito per reati associativi estorsivi e rapina. Agli inizi degli anni Novanta venne poi accusato di reati di mafia contro cui si è sempre dichiarato innocente dicendosi vittima di un errore giudiziario. Una decina di anni fa è stato lui stesso a far parlare i giornali per un caso di omonimia con un esponente della sacra corona unita che aveva le sue stesse generalità. Così, chiarito l’errore giudiziario, Dimitri ha avanzato una richiesta di risarcimento attribuendo il suo fallimento lavorativo alla mancanza di commesse dovute al marchio di mafioso appiccicato ingiustamente dalla giustizia. La causa intentata si concluse con il riconoscimento a suo favore di alcune migliaia di euro. Una vita turbolenta la sua con rapporti complicati con tutti i parenti per cui viveva da solo, spesso senza un letto dove dormire. Recentemente alternava l’ospitalità della sua storica compagna con la permanenza in macchina dove ha trascorso diverse notti. In questo periodo la settantunenne uccisa, evidentemente impietosita dalle condizioni di indigenza dell’ex imprenditore, aveva deciso di dargli ospitalità nel suo appartamento popolare. Una scelta costatale la vita nella maniera peggiore che si potesse ipotizzare. La famiglia di lei, numerosa e onorabilissima, è molto conosciuta in città. Dieci figli tutti sposati, tranne lei, rimasti in nove con la morte del primogenito ed ora in otto con la terribile fine di Pina, come la chiamavano in famiglia ed anche i suoi numerosi clienti della lavanderia di via Per Uggiano.  Dopo la decisione di andare a vivere da sola e con la morte della madre, Pina aveva cercato di rifarsi una vita tessendo nuove amicizie con gli inquilini della palazzina di via Manfredi. Nessuno di loro ieri ha sentito le sue urla, perché avrà pur gridato quando ha visto l’uomo che per tanti anni aveva amato e che ora la stava uccidendo con quella lunga e spaventosa lama tagliente. Le ferite all’avambraccio che il medico legale ha definito «di difesa», dimostrerebbero che la donna ha avuto il tempo di capire cosa le stesse accadendo ed avrà urlato, forse proprio per chiedere aiuto. Urla che si sono spente in gola quando la lama ha raggiunto la parte più profonda. 

L'uomo ha lamentato vessazioni da parte della compagna che ha poi ucciso tagliandole la gola. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 15 ottobre 2021. Confuso e dispiaciuto per non essere riuscito ad uccidersi. Ma anche deciso nel giustificare l’orribile gesto con le presunte vessazioni di cui sarebbe stato vittima da parte della donna che ha ucciso. Ha risposto a tutte le domande del gip, ieri, Pietro Dimitri, 75 anni, l’omicida manduriano reo confesso che martedì mattina ha tagliato la gola alla sua compagna, Giuseppa Loredana Dinoi di 71 anni, tentando poi di togliersi la vita con la stessa arma, un grosso taglierino dalla lama lunga 13 centimetri. Nel corso dell’udienza di convalida dell'arresto, confermata dalla gip al termine dell'udienza, l’indagato che era assistito dall’avvocato Dario Blandamura, ha raccontato momento per momento l’accaduto dicendosi sì dispiaciuto di quanto accaduto, ma soprattutto di non essere riuscito ad uccidersi a sua volta. Al momento del fermo aveva diversi tagli poco profondi alle braccia e al collo. Inoltre, come lui stesso ieri ha ricordato, avrebbe anche ingerito una decina di compresse di natura non definita. In quanto al motivo dell’orrendo gesto, l’uomo l’avrebbe attribuito all’esplosione di rabbia repressa da tempo dovuta a comportamenti vessatori della sua compagna che lo avrebbe torturato psicologicamente e che spesso lo avrebbe cacciato da casa costringendolo a dormire in macchina. L’indagato avrebbe fatto intendere che alla base delle continue liti ci sarebbe il comportamento della donna che non gradiva le frequentazioni che l’uomo aveva conservato con i quattro figli dopo la burrascosa separazione dalla moglie. Dimitri ha detto di aver conosciuto la sua vittima quando era ancora una ventenne e che il loro rapporto, con alti e bassi, durava da allora. Il settantacinquenne che ha risposto a tutte e domande poste dalla gip Rita Romano e dal pubblico ministero Remo Epifani, collegati con lui in videoconferenza, sarebbe apparso confuso e disorientato ammettendo di essere affetto da una forma irresistibile di attrazione per il gioco che lo avrebbe portato sul lastrico e che era anche questa alla base delle discussioni con la sua compagna. A proposito della presunta ludopatia, Dimitri avrebbe ricordato anche un precedente ricovero in una struttura psichiatrica di Lecce. Facile a questo punto pensare ad una strategia difensiva che porterebbe dritto verso la richiesta dell’infermità mentale del femminicida. Al termine dell’udienza, la gip Romano ha confermato l’arresto riservandosi di decidere sul tipo di misura da adottare. Il pm ha chiesto la conferma del provvedimento cautelare in carcere, mentre la difesa quella domiciliare con il braccialetto. Intanto sabato mattina il pubblico ministero affiderà l’incarico per l’autopsia che si terrà in giornata per consentire i funerali che con molta probabilità si terranno il giorno dopo, domenica 17. La perizia dovrà accertare le cause della morte e stabilire quali e quanti colpi inferti sulla vittima sono stati mortali. La prima visita necroscopica eseguita dal medico dell’ufficio igiene della Asl di Manduria, Fernando Greco, ha evidenziato diffuse ferite da taglio in diverse parti del corpo con particolare accanimento sulla parte destra e sinistra del collo e del volto. Intanto i sette fratelli della vittima hanno incaricato l’avvocato Lorenzo Bullo che li rappresenterà con un proprio consulente di parte nel corso dell’esame autoptico. I familiari dell’ex imprenditrice morta (in passato ha gestito una lavanderia a Manduria), si sono detti già pronti a costituirsi parte civile e a battersi con tutte le loro forze per la condanna di Dimitri. Nazareno Dinoi

Più di cinquanta fendenti per uccidere Pina. L'orrendo esito dell'autopsia sulla donna uccisa a Manduria dal suo compagno. La Voce di Manduria martedì 19 ottobre 2021. Si  è conclusa iri sera l’autopsia sul corpo della povera Pina Dinoi, barbaramente uccisa nella sua casa di via Manfredi a Manduria per mano dell’uomo con cui conviveva e che frequentava da una vita. Il risultato dell’esame è sconvolgente.  Più di cinquanta tagli, quasi tutti al collo, hanno ucciso Giuseppa Loredana Dinoi, la settantunenne manduriana che martedì scorso è stata ferita mortalmente dal suo compagno, Pietro Dimitri, 75 anni, reo confesso, detenuto in carcere con l’accusa di omicidio volontario con l’aggravante della crudeltà. Il medico legale Massimo Sarcinella che ieri ha eseguito l’autopsia su incarico del pubblico ministero Remo Epifani, ha contato più di cinquanta ferite su tutto il corpo della donna. Molte erano di difesa, agli avambracci e alle gambe con le quali la donna ha cercato di respingere l’uomo e di pararsi dalla lama del grosso taglierino industriale di quelli usati nei laboratori di tappezzeria. Come una furia, poi, il settantacinquenne si è accanito sul collo della sua vittima con numerosi fendenti. Uno in particolare, quello mortale, le ha reciso di netto la carotide destra. Altri particolari dell’autopsia che lasciano senza parole, descrivono tagli inferti anche dopo la morte della donna. All’esame autoptico hanno preso parte i medici legali delle parti interessate, Massimo Brunetti per i parenti della vittima e Angelo D’Elia per l’omicida. Il dottore Sarcinella ha inoltre prelevato le parti anatomiche necessarie per l’esame tossicologico il cui esiti si conoscerà nei prossimi giorni. La pubblica accusa che contesta al femminicida reo confesso l'omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e dalla sua convivenza con la vittima (in assenza di attenuanti la pena prevista è l'ergastolo). Dopo aver martoriato il corpo della sua compagna Dimitri ha cercato a sua volta di uccidersi con dei tagli poco profondi sulle braccia e sul collo e con l'ingestione di medicinali che assumeva regolarmente. L'arma utilizzata, una lama lunga 13 centimetri e larga 3, è stata trovata nella casa dell'orrore vicino al divano dove l'uomo ferito ha atteso l'arrivo dei carabinieri che lui stesso aveva chiamato: «sono Pierino Dimitri, venite in via Manfredi case popolari, ho ammazzato la mia compagna», ha detto al centralino della caserma carabinieri di Manduria. Domani i funerali chiuderanno la prima fase della brutta storia poi tutto nelle mani dei magistrati. Per volontà dei suoi parenti, la cerimonia religiosa si terrà in forma privata nella chiesa della parrocchia di San Giovanni Bosco. Si terranno domani i funerali di Giuseppina Loredana Dinoi, da tutti conosciuta come Pina. Per volontà dei suoi parenti, la cerimonia religiosa si terrà in forma privata nella chiesa della parrocchia di San Giovanni Bosco e ad officiarla sarà don Dario De Stefano. La terribile vicenda che ha lasciato incredula l’intera comunità e che ha travalicato anche i confini regionali proprio per la sua crudeltà, avrà ora il suo percorso giudiziaria con un processo che vedrà alla sbarra il femminicida reo confesso che rischia il carcere a vita. Saranno tristi protagonisti i familiari dei due protagonisti. I sette fratelli e sorelle della vittima hanno già dato mandato all’avvocato Lorenzo Bullo la cura della costituzione di parte civile. I quattro figli dell’omicida hanno invece dato incarico per la difesa all’avvocato Dario Blandamura. L’elemento che farà la differenza ai fini della pena (strategia difensiva a parte che a questo punto potrebbe puntare sull’infermità mentale dell’imputato), sarà la premeditazione dell’omicidio che all’omicida potrà costare il carcere a vita.

Il misterioso gigante di San Pietro in Bevagna.  Scheletro di mille anni scoperto e ricoperto durante lavori di scavo nel 2004. Nazareno Dinoi  su La Voce di Manduria martedì 05 ottobre 2021. Riposa lì dove è stato sepolto mille anni fa il misterioso gigante di San Pietro in Bevagna. Il suo scheletro perfettamente conservato misura due metri, è stato portato alla luce durante gli scavi del 2014 quando erano in corso i lavori di restauro degli antichi alloggi dei pellegrini situati vicino alla chiesa della località marina di Manduria dedicata all’apostolo. Del gigante che è stato ricoperto con la stessa terra sotto cui è stato seppellito intorno all’anno mille dopo Cristo, esiste solo una foto conservata dall’imprenditore Gregorio Tarentini, proprietario dell’omonima impresa specializzata in scavi archeologici e accreditata presso la Soprintendenza, che l’ha finalmente resa pubblica. L’immagine è tagliata e mostra lo scheletro dalla testa alle ginocchia con i due femori straordinariamente lunghi. Poggiato al suo fianco c’è il metro con cui allora è stata misurata la lunghezza: 199 centimetri di ossa distese e contratte. In carne e in posizione eretta l’altezza reale sarebbe stata di almeno 15, 20 centimetri in più. Un’altezza sorprendente per quell’epoca quando l’altezza media dell’uomo era di un metro e sessanta centimetri e della donna un metro e mezzo. Il gigante di San Pietro in Bevagna superava di sessanta centimetri quel valore medio. È poi il testimone di quel ritrovamento, l’imprenditore Tarentini, a ricordare i particolari del gigante. «Trovammo diverse sepolture nella parte destra della chiesa di San Pietro in Bevagna, ma uno in particolare attrasse immediatamente la nostra attenzione per la sua lunghezza». I lavori in corso, eseguiti sotto il controllo degli archeologi della Soprintendenza di Taranto, erano quelli per il consolidamento dei piccoli rifugi dei pellegrini. Tutti gli scheletri, fa sapere ancora l’imprenditore, avevano una moneta nella bocca, un’antica usanza a cui le fonti letterarie greche e latine danno un preciso significato: si trattava di un obolo o un tributo per Caronte che avrebbe traghettato l’anima attraverso il fiume che divide il mondo dei vivi da quello dei morti. Tutte quelle monete insieme ad altri reperti trovati nelle sepolture, furono raccolte, catalogate e conservate negli scantinati della sede manduriana della Soprintendeva ai beni archeologici. È sempre Tarentini a ricordare tra gli oggetti prelevati una rarissima coppa di delicato vetro e una medaglia longobarda.  Finiti i lavori, come spesso accade da queste parti, tutte le fosse furono ricoperte. Sono numerose le testimonianze di vissuti storici nelle marine di Manduria venuti fuori fortuitamente durante lavori di scavo. L’unico ancora visitabile, è il cimitero dei sarcofagi dei re, ventuno vasche di marmo grezzo adagiati sui fondali si San Pietro in Bevagna, prezioso carico diretto a Roma perduto durante il naufragio della nave che lo trasportava. È fermo solo nella leggenda, invece, il presunto sbarco dell’apostolo Pietro che soggiornò sulle coste manduriane dove converti alla religione di Gesù Cristo molti pagani del posto. Sempre la leggenda racconta che il luogo dove avvenivano queste conversioni di fede era proprio il luogo dove è sepolto il misterioso gigante la cui epoca, comunque, risale a più di mille anni dopo. Nazareno Dinoi  

E’ MORTO LUDOVICO VICO. Il Corriere del Giorno l'8 Settembre 2021. Lutto in casa PD. L’ on. Vico è stato sempre al fianco dei più deboli e di impegno politico per il territorio. E’ stato infatti grazie al suo impegno ed al sostegno della sua cara amica Sen. Teresa Bellanova che si sono molteplici difficili emergenze occupazionali nel Porto di Taranto. Aveva 69 anni e lottava da tempo contro un male purtroppo incurabile. È morto così Ludovico Vico, originario di Manduria ma residente da alcuni anni a Matera in Basilicata. Sindacalista con cariche dirigenziali nella Cgil e successivamente diventato esponente politico della sinistra jonica, dal vecchio Pci all’attuale Partito Democratico per il quale è stato deputato della Repubblica nella precedente legislatura. A dare la notizia nell’aula della Camera è stato Emanuele Fiano, ricordando il suo essere “un vero signore, un gentiluomo, un ottimo dirigente sindacale le cui qualità erano da tutti apprezzate e riconosciute”. Lascia una figlia e la sua prima compagna e il fratello Gianni Vico, anche lui esponente di rilievo del movimento intellettuale della sinistra manduriana. Vico venne candidato sindaco a Taranto nel 2000 dal PD, ma venne sconfitto da Rossana Di Bello, anche lei scomparsa pochi mesi fa. Viene eletto alla Camera dei Deputati, nella circoscrizione Puglia, nelle liste de L’Ulivo nelle elezioni politiche del 2006, e riconfermato deputato alle successive elezioni politiche del 2008 questa volta tra le file del Partito Democratico. Ricandidato anche alle politiche del 2013, arrivò secondo dei non eletti nella circoscrizione Puglia, rientrando alla Camera dei Deputati nel 2015, a seguito alle dimissioni dalla carica di parlamentare dell’ex ministro Massimo Bray, che lo precedeva per preferenze ricevute in lista. “Sono profondamente dispiaciuto per la scomparsa dell’on. Ludovico Vico. Nonostante politicamente siamo sempre stati distinti e distanti, non è mai mancato il rispetto ed il confronto. Esprimo vicinanza alla sua famiglia.” il cordoglio dell’eurodeputato Raffaele Fitto di Fratelli d’ Italia. Sono molti i messaggi di cordoglio nella sinistra: da Enrico Letta a Pier Luigi Bersani o Michele Emiliano. “Apprendo con dolore e rimpianto la scomparsa di Ludovico Vico, del quale ricordo la passione, la competenza e il lavoro comune sulle questioni dell’industria e del Mezzogiorno”, scrive il deputato di Liberi e uguali Bersani su Twitter, aggiungendo: “Un pensiero per i familiari e la sua comunità’ politica e sindacale”. Anche il segretario dem Enrico Letta ha voluto rendergli onore: “Sono profondamente addolorato dall’apprendere la notizia della scomparsa di Ludovico Vico, un amico e una persona di grandi qualità’ umane e politiche. Un giorno davvero triste”. “La scomparsa dell’onorevole Vico lascia un grande vuoto nella politica pugliese. La sinistra e l’area democratica più ampia perdono una voce attenta ai problemi del territorio. Ai familiari va il nostro cordoglio”, ricorda in una nota il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. “Ci lascia un vuoto enorme. In queste ore ci scorrono nella mente le tante battaglie che ha portato avanti. Ludovico – ricordano dal Pd Puglia – è stato un punto di riferimento imprescindibile per il centrosinistra tarantino, una figura riconoscibile a livello nazionale per l’impegno profuso, anche da parlamentare, per lo sviluppo del Mezzogiorno e, in particolare, della nostra terra. Ha riempito di orgoglio la comunità del PD Puglia in molte occasioni e a noi piace ricordarne soprattutto l’ammirevole costanza e l’esemplare determinazione con cui ha proseguito, fino all’ultimo, il suo lavoro di dirigente politico. Ciao, Ludovico. Ci sforzeremo di continuare a lottare con la tua stessa tenacia”. Ludovico Vico va ricordato per i suoi anni indimenticabili di lotta, sempre al fianco dei più deboli e di impegno politico per il territorio. E’ stato grazie al suo impegno ed al sostegno della sua cara amica Sen. Teresa Bellanova che si sono molteplici difficili emergenze occupazionali nel Porto di Taranto. “Sono veramente addolorato per la notizia della scomparsa di Ludovico Vico e mi stringo con grande affetto al dolore della famiglia. Ludovico è stato un caro amico prima di tutto, un leale compagno di partito, un alleato di tante battaglie dentro e fuori dal Parlamento, un uomo sempre gentile e disponibile con tutti, un politico che ha sempre messo al primo posto il lavoro e la sua comunità. Lascia un grande vuoto, umano e politico. Mancherà a tutti”. Così Francesco Boccia, deputato PD e responsabile Enti locali della Segreteria nazionale ricorda Ludovico Vico. Anche Radio Radicale ha voluto rendere onore a Ludovico Vico raccogliendo tutti i suoi interventi pubblici trasmessi. I funerali si svolgeranno domani alle ore 16,30 nella chiesta dei Padri Passionisti a Manduria (Taranto).

Matera Perde Il Suo Ex Parlamentare Vico: “Nella Città Dei Sassi Si Mise A Disposizione Con Umiltà E Gentilezza”. Ecco Il Triste Addio. Materanews.net l'8 settembre 2021. Con grande tristezza giunge la notizia della morte di Ludovico Vico, di 69 anni, ex parlamentare ed ex sindacalista, nativo di Manduria ma da alcuni anni residente a Matera. È stato sconfitto da un male incurabile. Vico ha ricoperto diversi ruoli importanti come segretario della CGIL, poi del partito comunista marxista leninista diventato Pd con il quale è stato deputato della Repubblica. Nel 2000 fu candidato sindaco a Taranto. Tante le battaglie da lui combattute in Parlamento in particolare per Matera 2019, per la ZES Ionica e, soprattutto, per il finanziamento relativo al completamento della ferrovia nazionale Ferrandina-Matera. Anche dal mondo della politica giungono pensieri di cordoglio. Ecco le parole del consigliere regionale Roberto Cifarelli: “La scomparsa dell’Onorevole Vico priva la Basilicata di un uomo di grande valore e di un politico particolarmente illuminato. Da giovane segretario dei Democratici di Sinistra della città di Matera l’ho incontrato per la prima volta vent’anni fa, allorquando trasferitosi nella città dei Sassi si mise a disposizione con umiltà e gentilezza. Elementi distintivi del suo carattere. In seguito ci siamo ritrovati insieme ad affrontare alcune emergenze occupazionali del materano come la vertenza Ferrosud oppure con l’approvazione definitiva della Zona Economica Speciale Jonica ad elaborare opportunità di sviluppo e crescita per il nostro territorio. In questo momento particolare non ci resta che stringerci intorno alla famiglia e a tutti coloro che hanno apprezzato le sue qualità”.

Taranto, morto l’ex deputato dem Ludovico Vico. Il Pd in lutto: “Un gentiluomo”. Fu segretario della Federbraccianti Cgil e della Cgil di Taranto. Nel 2005 fu candidato sindaco di Taranto. Finì nel turbine mediatico che seguì all’inchiesta sull’ex Ilva per alcune telefonate con l’allora dirigente dei Riva, Girolamo Archinà, ma mai indagato. Francesco Casula su Il Fatto Quotidiano l'8 settembre 2021.

Aveva 69 anni Ludovico Vico, ex deputato tarantino del Pd morto questa mattina al termina di una lunga malattia. “Un vero signore, un gentiluomo, un ottimo dirigente sindacale le cui qualità erano da tutti apprezzate e riconosciute” ha detto in aula alla Camera il parlamentare Emanuele Fiano. La storia politica di Vico, originario di Manduria nel tarantino, comincia nel Pci e attraverso la storia della sinistra italiana con i passaggi al Pds e poi ai Ds prima della nascita dei Dem. Nella sua lunga carriera politico sindacale è stato segretario della Federbraccianti Cgil, della Cgil di Taranto. Nel 2005 fu candidato sindaco di Taranto, sconfitto però al ballottaggio da Rossana Di Bello, prima sindaca donna del capoluogo ionico anche lei scomparsa recentemente a causa del Covid. Nella sua vita politica non sono mancati i momenti bui: Vico finì nel turbine mediatico che seguì all’inchiesta sull’ex Ilva per alcune telefonate con l’allora dirigente dei Riva, Girolamo Archinà. Pur non essendo mai indagato nella vicenda, fu travolto dalle polemiche, ma non si sottrasse mai al confronto fino all’ammenda per quei toni troppo confidenziali con i padroni dell’acciaio tarantino. “La scomparsa dell’onorevole Vico lascia un grande vuoto nella politica pugliese – ha commentato Michele Emiliano, con il quale Vico aveva spesso incrociato la spada sui che riguardavano Taranto e l’intera Puglia. “Apprendo con dolore e rimpianto la scomparsa di Ludovico Vico – ha invece twittato Pierluigi Bersani – del quale ricordo la passione, la competenza e il lavoro comune sulle questioni dell’industria e del Mezzogiorno”. Anche il segretario nazionale Enrico Letta ha tributato un saluto al compagno di partito: “Sono profondamente addolorato dall’apprendere la notizia della scomparsa di Ludovico Vico, un amico e una persona di grandi qualità umane e politiche. Un giorno davvero triste”. 

E' morto Ludovico Vico, ha scritto pagine importanti della politica manduriana. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria mercoledì 08 settembre 2021. Aveva 69 anni ed è stato sconfitto da un male contro cui si batteva da tempo. È morto così Ludovico Vico, uomo politico e intellettuale di sinistra manduriano. Fondatore negli anni Settanta del movimento extraparlamentare marxista leninista, ha scritto pagine importanti della lotta e delle proteste di massa, prima nella sua città dove è stato consigliere comunale, primo in Italia del Partito comunista marxista leninista, e poi in tutta la provincia di Taranto con cariche dirigenziali nella Cgil e in tutti i passaggi dal vecchio Pci all’attuale Partito democratico con il quale è stato deputato della Repubblica. Lascia un incolmabile vuoto nella politica italiana. Qui a Manduria da dove è partita la sua straordinaria esperienza politica, lascia una figlia e la sua prima compagna e il fratello Gianni Vico, anche lui costola fondamentale del movimento intellettuale di sinistra manduriano. E lascia tanti compagni con cui ha vissuto anni indimenticabili di lotta, sempre al fianco dei più deboli. A me lascia tanti ricordi e una ferita che non si rimarginerà mai. Buon viaggio Ludovì. I funerali si terranno domani alle ore 16,30 nella chiesta dei Padri Passionisti a Manduria. Nazareno Dinoi  

Biografia di Ludovico Vico Da Wikipedia. È stato iscritto dapprima al PCI, per poi aderire al PDS, ai DS ed infine al Partito Democratico. Alle elezioni politiche del 2006 viene eletto alla Camera dei Deputati, nella circoscrizione Puglia, nelle liste de L'Ulivo. Viene riconfermato deputato alle successive elezioni politiche del 2008 tra le file del Partito Democratico. Ricandidato anche alle elezioni politiche del 2013, risulta il secondo dei non eletti nella circoscrizione Puglia. Torna alla Camera dei Deputati il 18 marzo 2015, in seguito alle dimissioni dell'ex ministro Massimo Bray (che lo precedeva in lista) dalla carica di parlamentare. Il 28 luglio 2017, in seguito all'approvazione definitiva della legge che sancisce l'obbligatorietà dei vaccini, viene aggredito assieme ai colleghi del PD Elisa Mariano e Salvatore Capone da alcuni manifestanti No-vax che stazionavano per protesta dinnanzi a Palazzo Montecitorio, costringendo i tre deputati a rifugiarsi in un'auto poi presa a calci e pugni dagli stessi manifestanti.

Da ogni parte della Puglia per l’ultimo saluto all’onorevole Vico. Assenti l’amministrazione comunale e il sindaco di Manduria. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 10 settembre 2021. Chiesa e piazzale dei Padri Passionisti gremiti ieri per il funerale di Ludovico Vico, già onorevole della Repubblica e dirigente sindacale della Cgil e del Partito democratico. Numerosissime le autorità e personalità politiche hanno fatto onore al manduriano che ha scritto pagine importanti della cultura e della politica di sinistra in Puglia. Aveva 69 anni e da tempo lottava contro un male che lo ha portato via assistito amorevolmente sino alla fine dalla sua compagna, Anna Rita Palmisani, di Grottaglie, dove Vico ha vissuto gli ultimi anni. Tra gli affetti più cari lascia i due figli, Alessandra e Andrea e il fratello Gianni Vico con la moglie Maria Rosaria Coppola. Numerosissime le autorità e personalità politiche hanno fatto onore all’illustre manduriano che ha scritto pagine importanti della cultura e della politica di sinistra in Puglia. Da ogni provincia pugliese sono venuti per l’ultimo saluto. Tra questi si ricordano il presidente del Consiglio regionale Mario Loizzo, l’ex presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido, l’onorevole Michele Pelilllo, il consigliere regionale Di Gregorio, il presidente dell’Amiu Taranto, Mancarelli, l’ex sindaco di Manduria Francesco Massaro, il consigliere regionale Michele Mazzarano, il senatore Rocco Loreto, il consigliere del Consiglio comunale di Taranto Pietro Bitetti, il segretario della Cgil Puglia, Gianni Forte e tanti altri.  Molto presenti gli amici e i compagni manduriani. Non è passata inosservata, però, l’assenza del sindaco di Manduria, Gregorio Pecoraro come assenti sono stati i suoi assessori e il presidente del Consiglio comunale che hanno preferito affidare il proprio cordoglio ad un unico manifesto. Il Partito democratico provinciale di Taranto questo pomeriggio alle 16 organizzerà una cerimonia laica in memoria dell’onorevole Vico. Nel corso dell’iniziativa che si terrà in piazza Madonna delle Grazie a Taranto, sono previsti, tra gli altri, gli interventi del commissario provinciale del Pd di Taranto, Nicola Oddati e del segretario della Cgil di Taranto, Paolo Peluso. Tutte le testate regionali e provinciali hanno dedicato articoli al manduriano. Tra i tanti, ci piace riportare quanto ha scritto la collega del Corriere del Mezzogiorno, Rosanna Lampugnani. «Ludovico era bravo: per esempio Luigi Bersani, allora segretario del partito, si faceva preparare da lui  gli appunti prima di discutere in aula dei fondi strutturali, ma cosa importava, cosa importa la competenza di fronte alle camarille, ai maneggi, agli affari, all’ipocrisia della politica? Tra chi oggi piange Ludovico Vico si contano coloro che nel suo stesso partito lo avversavano, ma anche coloro che, come Federico Testa, oggi presidente dell’Enea, Matteo Colaninno, o Margherita Mastromauro, hanno continuato a stimarlo fino alla fine». Ludovico Vico sarà seppellito oggi nel campo a terra. Nella cassa con lui sono stati lasciati tre libri: «Il manifesto del Partico Comunista» di Marx e Friedrich Engel, «Canto di Natale» di Charles Dickens, "Kompagno di sogni, i maoisti a Manduria, un racconto d'amore" e un block notes Moleskine.  Nazareno Dinoi

Per 21 anni ha ritirato la pensione della zia morta, denunciata una manduriana. La Guardia di Finanza che l'ha scoperta le ha sequestrato una somma di 122 mila euro. La Voce di Manduria martedì 29 giugno 2021. Per 21 anni avrebbe incassato la pensione della zia deceduta per una somma pari a 122mila euro. L’indagata, una manduriana di 73 anni, è stata denunciata per il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato. Questa mattina i militari della Guardia di Finanza della compagnia di Manduria hanno eseguito un sequestro preventivo riguardante beni mobili e disponibilità finanziarie per l’equivalente della somma indebitamente trattenuta dalla donna. Il provvedimento scaturisce da indagini condotte dalle fiamme gialle al comando del capitano Giuseppe Lorenzo con la collaborazione dell’Inps, finalizzate al contrasto degli illeciti in materia di spesa pubblica, all'esito delle quali sarebbe stato accertato che la donna avrebbe continuato a percepire indebitamente la pensione dell’anziana zia della quale era tutrice, anche successivamente alla sua morte avvenuta nel lontano 2000. Non avendo provveduto a comunicare il decesso all’Inps, l’indagata avrebbe indotto in errore l’ente previdenziale continuando a ricevere gli accreditamenti mensili pensionistici su un libretto bancario "dedicato", sino a quando i finanzieri non hanno attivato le procedure di blocco immediato dell’erogazione delle somme.

Il Tribunale di Taranto riconosce il diritto di cronaca a due giornalisti. La Voce di Manduria martedì 29 giugno 2021. Il giudice del Tribunale di Taranto, Francesco Maccagnano, ha definitivamente archiviato l’accusa nei confronti del direttore de La Voce di Manduria, Nazareno Dinoi e della giornalista, Monica Rossi, accusati di aver diffamato l’ex sindaco di Manduria Paolo Tommasino. Il giudice ha disposto l’archiviazione chiesta anche dal pubblico ministero e contro la quale Tommasino si era opposto. I due giornalisti erano stati querelati dall’allora sindaco manduriano per un articolo pubblicato su La Voce a febbraio del 2017 a firma della giornalista Rossi, riguardante il processo di balnearizzazione di un tratto di spiaggia della Salina dei Monaci a Torre Colimena, marina di Manduria. L’ex sindaco si lamentava delle modalità con le quali, nel pezzo giornalistico dal titolo “Salina, tra i progetti di lido anche quello della famiglia Tommasino”, era stato rappresentato il progetto della moglie di Tommasino, Grazia Di Lauro, che riguarda la realizzazione di uno stabilimento balneare nei pressi della Salina. In particolare il denunciante riteneva l’articolo “ampiamente diffamatorio” proprio per l’espressione «famiglia Tommasino» utilizzata nel titolo quasi a voler far credere all’esercizio di «un potere economico o di altra natura, quando la verità – sosteneva l’ex sindaco -, evoca semplicemente l’iniziativa di una modesta imprenditrice che, con grossi sacrifici, ponendo in secondo piano il profitto, intende spendersi per lo sviluppo turistico della zona, senza minimamente venir meno al rispetto dell’ambiente». Per il giudice, l’espressione “famiglia Tommasino” non pare rivestisse specifici connotati diffamanti o insinuanti”. «L’avvio di un’attività imprenditoriale da parte di un soggetto legato ad altra persona da vincolo di coniugio – scrive il gip nel decreto di archiviazione -, non è mai una scelta e/o un’attività compiuta “in solitaria” considerati gli inevitabili riflessi sul patrimonio familiare che un progetto di tale tipo può sortire». Tommasino lamentava, inoltre, come «la mera iniziativa di un progetto» venisse contrabbandata per una «notizia importante destinata ad avere grande eco».  Scrive il giudice. «La realizzazione di uno stabilimento balneare presso una località ritenuta di particolare pregio paesaggistico, ben può costituire oggetto di interesse pubblico, posto che l’opportunità di un simile progetto e, correlativamente, le modalità di sfruttamento e valorizzazione di beni demaniali bel lecitamente possono essere dibattute». Per l’ex primo cittadino, poi, “l’aspetto più offensivo” della sua reputazione era stata l’ipotesi di «un trattamento di favore» da lui goduto. «In realtà – scrive sempre il giudice – alcun riferimento a favore di Tommasino o di sua moglie è stato adombrato nell’articolo della giornalista la quale, d’altra parte, non ha evocato solo il progetto imprenditoriale di Maria Grazia Di Lauro, ma analoghe iniziative assunte da Barbara Antonica e da un terzo soggetto». Nell’articolo sotto accusa, la giornalista Rossi aveva illustrato dettagliatamente e con piglio di chi descrive i fatti con cognizione avendo “studiato le carte”, tutto l’iter procedurale dei progetti presentati al comune di Manduria e l’esito di alcune conferenze di servizio che avevano proposto prescrizioni ai progetti stessi. «Un crescendo rossiniano», l’aveva definito Tommasino, al fine di «ammannire le sue velenose fandonie». Per il gip, la giornalista «non ha adottato un linguaggio tale da comportare la generale disistima e la lesione della dignità morale o professionale dei soggetti evocati nell’articolo». Inoltre. «La personale interpretazione delle fonti normative in materia ambientale che fonda l’impianto argomentativo dell’articolo, non appare meramente calunniosa, bensì è il portato di una personale rielaborazione, da parte della giornalista, di elementi di fatto e di elementi di diritto». Per questo il giudice Maccagnano ha disposto infine l’archiviazione del procedimento penale.

Sconto di pena per gli “orfanelli”. In appello pene inferiori rispetto al primo grado. Nazareno Dinoi su la Voce di Manduria venerdì 11 giugno 2021. Ulteriore sconto di pena nel processo di appello sulla morte di Antonio Cosimo Stano, il 66enne manduriano vessato dalla banda dei cosiddetti «orfanelli» dal nome della chat dove diffondevano i video delle loro violenze fisiche e psichiche nei confronti dell’uomo affetto da disagi psichici. Ieri i giudici del Tribunale della Corte d’appello di Taranto si sono espressi sui ricorsi presentati dai tre maggiorenni della gang riformando e riducendo la sentenza del primo grado. Sono stati condannati a 8 anni e 8 mesi il 21enne Gregorio Lamusta e il 25enne Antonio Spadavecchia e a 7 anni e 4 mesi il 21enne Vincenzo Mazza. Il giudice di prima istanza Vilma Gilli aveva inflitto 10 anni per i primi due e 8 anni e 8 mesi al terzo. Confermata per tutti l’imputazione di tortura con l’esclusione dell’aggravante della morte dell’uomo come diretta conseguenza di quelle violenze «portate avanti con inaudita crudeltà» da più ragazzi, undici minorenni e tre maggiorenni, tutti riuniti in gruppi. La presidente Giovanna De Sciosciolo che ha letto il dispositivo depositerà le motivazioni tra novanta giorni. La pubblica accusa era invece rappresentata dal pubblico ministero Chiara Morfini. In primo grado l’accusa affidata al sostituto procuratore Remo Epifani aveva chiesto venti anni di carcere a testa, il massimo della pena prevista. Il collegio difensivo dei tre imputati era composto dagli avvocati Armando Pasanisi, Franz Pesare, Lorenzo Bullo e Gaetano Vitale. Per i minori coinvolti si è già espresso il Tribunale per i minorenni di Taranto concedendo loro l’affidamento dei servizi sociali per un periodo da due a tre anni prima della possibile estinzione della pena. I due procedimenti si sono svolti con il rito abbreviato che ha permesso agli imputati lo sconto pari ad un terzo della pena prevista. Gli episodi di violenza e di abusi tra i più cruenti che le cronache del posto ricordino, sono venuti alla luce agli inizi di aprile del 2019 quando gli agenti del commissariato di polizia raccolsero la denuncia di una famiglia vicina di casa del pensionato che per la prima volta squarciava il velo di silenzi che per anni avevano nascosto il dramma di Stano, psicologicamente e socialmente indifeso. Mentre la polizia avviava le indagini, dalle chat vennero fuori i primi video che riprendevano le scorribande degli «orfanelli». Vere e proprie scene dell’orrore con il 66enne circondato, deriso e picchiato in strada ed anche nella sua abitazione diventata terreno di divertimenti per i bulli. Uno stato duraturo e continuo di sopraffazioni terminato il 23 aprile del 2019 con la morte dell’uomo avvenuta dopo una decina di giorni di ricovero nella rianimazione dell’ospedale Giannuzzi di Manduria. A causare il decesso fu una emorragia gastrica che secondo le due procure tarantine, quella ordinaria e per i minorenni, era la diretta conseguenza delle violenze subite. Per questo per tutti il reato contestato fu quello della tortura con esito finale della morte. Nel dibattimento con l’abbreviato è rimasta solo la tortura come reato più grave facendo così risparmiare agli imputati la pesante pena prevista di vent'anni. Nazareno Dinoi

“Un popolo che difende la propria identità non è razzista” sulle bustine di zucchero: è polemica. Valentina Mericio il 09/06/2021 su Notizie.it. Una frase dallo sfondo sovranista scritto su alcune bustine di zucchero ha creato particolarmente scalpore. Si tratta di bustine fuori produzione. “Un popolo che difende la propria identità non è razzista”, questa la frase riportata su alcune bustine di zucchero che sono state riprese in un noto bar di Manduria in provincia di Taranto. Stando a quanto appreso dal quotidiano “La Repubblica” la scritta incriminata fa parte di una serie di bustine con aforismi presi da internet che non sarebbe più in produzione. Nel frattempo la bustina con la stessa frase è stata avvistata anche in altre città come Palermo, Roma e Cagliari. “Ma è normale; serviamo un numero di bar enorme ed esportiamo che negli Stati Uniti”. La scritta dallo sfondo sovranista ha fatto scatenare non poche polemiche, grazie anche agli avvistamenti degli utenti di bustine simili in molte altre parti d’Italia. L’azienda produttrice in questione è la Royal Sugar, un’azienda con sede posta a Manduria in provincia di Taranto. Interpellata dal quotidiano “La Repubblica” la titolare di Royal Sugar Valentina Troiano ha reso noto che si tratta di aforismi presi da internet. e pertanto senza colore politico. Ad ogni modo la titolare di Royal Sugar ha messo in evidenza come la frase in questione a suo dire non sarebbe razzista, mettendo in evidenza quanto il problema piuttosto possa essere un altro. “Non vedo nulla di razzista nella frase incriminata il problema, semmai, è che quelle stampe risalgono a qualche tempo fa, lo zucchero potrebbe essere scaduto” ha spiegato al proposito la titolare di Royal Sugar. “Si tratta di una vecchia serie di stampe ora fuori produzione” […] ha spiegato la titolare aggiungendo come tutte le frasi non sarebbero altro che presi da internet aggiungendo quindi come “serviamo un numero di bar enorme ed esportiamo che negli Stati Uniti”. Nel frattempo sono moltissimi i commenti dalla parte delle persone che hanno voluto dire la propria. “Se loro possono fare questi accostamenti, allora si può fare pure l’accostamento tra “informazione” e “propaganda”, ha scritto un utente su Twitter, mentre c’è chi ha scritto: “Identità non corrisponde a razzismo ma corrisponde a comunità territorio tradizione cultura, il razzismo è un’altra cosa, il razzismo lo subisce chi viene etichettato”

“Popolo che difende la propria identità non è razzista”/ Bustine zucchero sovraniste? Alessandro Nidi su Il Sussidiario l'08.06.2021. Il caso delle bustine di zucchero “sovraniste” scuote il web: si tratta di una frase a sfondo politico o di una sfortunata casualità? Polemica a Manduria, in provincia di Taranto, per una frase impressa su alcune bustine di zucchero: “Un popolo che difende la propria identità non è razzista”. A dare la notizia dell’accaduto è il quotidiano “La Repubblica”, che ha deciso di indagare sulla questione, contattando direttamente l’azienda produttrice, la “Royal Sugar”, specializzata proprio nel packaging delle bustine di zucchero distribuite poi in tutto lo Stivale. Essa ha sede in provincia di Potenza, più precisamente a Muro Lucano, e per bocca della sua titolare, Valentina Troiano, ha reso noto che quello slogan è già stato rimosso dalla nuova “collezione”. Come ha precisato l’intervistata, si tratta in particolare di una serie di stampe effettuate in passato e andate già fuori produzione, riportanti aforismi estrapolati dal web e non riconducibili a una particolare ideologia o a uno specifico pensiero di matrice politica. Peraltro, bustine analoghe sono state ritrovate anche in altre zone del nostro Paese, come Palermo, Cagliari e Roma, ma la cosa non deve sorprendere: “Royal Sugar” rifornisce un numero importante di bar in tutta Italia ed esporta i suoi prodotti anche all’estero, con particolare riferimento agli Stati Uniti d’America. Il caso della frase “Un popolo che difende la propria identità non è razzista”, riportata su alcune bustine di zucchero rintracciate nei bar di diverse città d’Italia, inclusa Manduria, in Puglia, ha scatenato un ampio dibattito in rete, ma Valentina Troiano, titolare della “Royal Sugar”, ha affermato ai microfoni de “La Repubblica” di non rilevare nulla di razzista nella frase incriminata, aggiungendo che, semmai, il vero problema risiede nel fatto che quelle stampe risalgono a qualche tempo fa e, di conseguenza, lo zucchero potrebbe essere scaduto. Intanto, non si riesce a risalire con esattezza all’autore di questa citazione, di questo aforisma: “La Repubblica” scrive che, effettuando una rapida ricerca in rete, i risultati restituiti da Google “conducono a pagine Facebook di estrema Destra”.

“Un popolo che difende la propria identità non è razzista”: è polemica sulle bustine di zucchero. Clarissa Valia l'8 Giu. 2021su tpi.it. “Un popolo che difende la propria identità non è razzista”. È la scritta stampata su alcune bustine di zucchero “sovraniste” fotografate a Manduria, in provincia di Taranto, finite nella polemica. A riportare la notizia è Repubblica. Il quotidiano ha chiesto spiegazioni all’azienda produttrice, la Royal Sugar, azienda di Muro Lucano (in provincia Potenza). La titolare Valentina Troiano ha risposto che lo slogan che inneggia alla difesa della razza è stato rimosso dalla nuova linea di bustine di zucchero, aggiungendo: “Si tratta di una vecchia serie di stampe ora fuori produzione” […] che spiega come tutte le frasi siano “aforismi presi da internet”, più che manifestazioni di un pensiero politico. Altre bustine con la stessa frase sono state fotografate anche a Cagliari, Palermo e Roma, “ma è normale”, spiega ancora la titolare, “serviamo un numero di bar enorme ed esportiamo che negli Stati Uniti”.

CLARISSA VALIA. Nata il 26 aprile 1991 da Milano si trasferisce a Roma. Ha studiato presso l'Università statale di Milano. Dal 2018 lavora a TPI dove si occupa di produzione contenuti pop e news.

Taranto, al bar le bustine di zucchero inneggiano alla difesa della razza. Simone Fontana su La Repubblica l'8 giugno 2021. Lo slogan dall'inconfondibile sapore sovranista è opera della Royal Sugar, azienda di Muro Lucano che si difende: "Aforismi presi da Internet". "Un popolo che difende la propria identità non è razzista": le bustine da zucchero 'sovraniste' arrivano dalla Lucania. Il caffè espresso è una delle eccellenze italiane più conosciute al mondo ma qualcuno deve aver preso questo tratto distintivo decisamente troppo sul serio, come testimoniano alcune bustine di zucchero rinvenute a Manduria, in provincia di Taranto. Lo slogan dall'inconfondibile sapore sovranista è opera della Royal Sugar, azienda di Muro Lucano (in provincia Potenza) specializzata nella produzione e nel confezionamento delle bustine di zucchero destinate ad addolcire i caffè di tutta Italia.

Tutti contro. Giornali e giornalisti locali

L’attacco alla "Voce" passa attraverso i social: "Vuoi bene a Manduria? Non seguirla più". Riteniamo che l’offensiva dello staff del sindaco contro il nostro giornale rappresenti un grave attacco alla libertà e all’indipendenza dell’informazione. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria martedì 11 maggio 2021. «Più saremo, meglio è e ricordate che ogni vostro “mi piace” è un guadagno per il gestore de La Voce di Manduria strapiena di pubblicità, pensateci bene prima di mettere il like». Così l’amministrazione del cambiamento intende reprimere e togliere l’ossigeno (la pubblicità) alla stampa libera (e fastidiosa). È questa, evidentemente, l’offensiva organizzata da elementi di spicco dello staff del sindaco Gregorio Pecoraro evidentemente infastiditi dalla campagna di onestà e trasparenza sul «vaccino facile» a cui il nostro giornale sta dando ampio spazio. Non avendo altri mezzi per sopprimere la stampa scomoda, il cosiddetto «governo del cambiamento» e della cultura ha aperto un gruppo chiuso su Facebook intitolato: «Vuoi bene a Manduria? Non seguire più La Voce di Manduria». Nato il primo maggio, in dieci giorni di condivisioni e inviti ad aderire, il gruppo contava ieri 73 utenti, tutti più o meno legati ad esponenti di primo grado e loro familiari dell’amministrazione Pecoraro con una spiccata prevalenza grillina.  Tra i nomi più in vista, classificandoli per importanza del ruolo che rivestono nel governo cittadino, si legge quello del portavoce e social media del sindaco Pecoraro, Roberto Dostuni e della capo dello staff del sindaco, Valeria Stano (assunta dal comune su chiamata diretta del sindaco e senza concorso). Fanno inoltre parte del gruppo l’assessore al Commercio, Isidoro Mauro Baldari con suo padre Andrea Baldari i quali, per fare numero, hanno aderito anche con la pagina dell’azienda di famiglia «Vineria Baldari»; c’è poi Luigi Cascarano, consigliere del M5S intercettato dall’antimafia mentre chiedeva appoggi elettorali al boss; Michele Matino, consigliere e capogruppo consigliare di Città Più (Lista elettorale del sindaco); Vito Perrucci, consigliere e capogruppo consigliare del Movimento 5 Stelle; i candidati non eletti del Movimento 5 Stelle Semmi Polimeno, Rino Lacaita, Gregorio Greco; i candidati non eletti del Movimento democratico per Manduria della famiglia Baldari, Pierpaolo Lamusta e Domenico Scialpi; e ancora Monica Marinosci, avvocatessa manduriana attivista grillina di lungo corso; Fulvio Perrone, dipendente comunale, dirigente di Legambiente e fratello dell’assessora all’Ambiente, Ketty Perrone. Ed altri parenti e amici. Il sindaco Pecoraro e gli altri esponenti della giunta e della maggioranza dovrebbero prendere le distanze da queste inizative. Il gruppo è chiuso, per cui solo gli iscritti possono leggersi tra di loro. Riportiamo comunque uno dei loro post che qualcuno ci ha passato per misurare il livello delle chat: «Il lettore tipo del giornalino ha una cultura sotto la media». Riteniamo che l’offensiva dello staff del sindaco contro il nostro giornale rappresenti un grave attacco alla libertà e all’indipendenza dell’informazione. Esso, inoltre, offende e discredita la testata che dirigo per cui valuterò ogni possibile azione in altre sedi. Nazareno Dinoi

Il direttore de La Voce di Manduria ha querelato i tre commissari straordinari. Nella stessa denuncia-querela e per gli stessi reati, si chiede di punire anche i responsabili dei giornali locali che hanno pubblicato integralmente la lettera dei commissari rendendo così pubbliche le gravi frasi diffamanti. La Voce di Manduria domenica 21 ottobre 2018. Come era stato anticipato nella lettera inviata al Ministero dell’Interno e al Prefetto di Taranto, ieri il direttore de La Voce di Manduria, Nazareno Dinoi, ha depositato alla stazione dei carabinieri di Manduria una querela per diffamazione a mezzo stampa, curatagli dall'avvocato Franz pesare, nei confronti dei tre commissari straordinari del comune di Manduria o di chi sia stato il materiale redattore della nota in cui lo si accusa di pubblicare «notizie infondate» e «artatamente negative» con «obiettivo primario» di «attirare il maggior numero possibile di lettori per generare rendite pubblicitarie online». Nella stessa denuncia-querela e per gli stessi reati, si chiede di punire anche i responsabili dei giornali locali che hanno pubblicato integralmente la lettera dei commissari rendendo così pubbliche le gravi frasi diffamanti in essa contenute.

Lettera aperta al presidente Girardi che minaccia querele. La Voce di Manduria domenica 19 febbraio 2012. «Non sono indagato, contro di me solo un feroce attacco giornalistico». Inizia così la crociata nei miei confronti del presidente del Consiglio comunale, Leo Girardi. Ero preparato alla sua reazione e sapevo anche quale firma e quale bacheca avrebbe scelto per i suoi attacchi (Nando Perrone di Manduria Oggi). Niente di nuovo, niente di originale. La mia e la sua sono le storie di chi ha caratteri e ruoli diversi esercitati in ambiti così ristretti: il mio è quello di scrivere di cose spiacevoli anche quando riguardano persone che conosco e che magari stimo; il suo è quello opposto di chi legge ciò che scrivo e di gioire quando quelle cose spiacevoli non riguardano la sua persona. Chi fa cronaca in ambiti dove tutti si conoscono sa che deve mettere in conto questo genere d’incidenti. Questa volta, però, è stato superato il limite. Questa volta il risentito di turno, il presidente Girardi, ha esagerato peccando di grave presunzione. Offuscato com’è da quel senso smisurato d’intoccabilità di cui è vittima e della quale ho avuto modo in passato di sperimentare personalmente, Girardi ha usato termini e modi che offendono e mi spingono a fare quello che avrei dovuto e che non ho fatto. Mi dispiace presidente Girardi ma non posso permettere che mi si dica di essere “disonesto intellettualmente”, o di “distorcere” la realtà o peggio ancora di avere inventato cose per “attaccare ferocemente la sua persona”. La fonte delle notizie che ho riportato solo in piccolissima parte, è la Procura antimafia di Lecce e nello specifico l’ordinanza di 300 pagine firmata dal gip Antonia Martalò. E’ traendo particolari da quelle pagine che ho scritto ciò che l'ha fatta arrabbiare. Lo riporto. «Le intercettazioni a questo punto fanno emergere oscuri interessi del sodalizio criminale nei confronti di candidati alle passate elezioni comunali e regionali. Beneficiario di tali favori risulta essere l’attuale presidente del Consiglio comunale di Manduria, Leo Girardi. In un caso è emerso che il presunto capo in pectore della «Global Work», Pietro Tondo, ordinò il licenziamento di uno degli ausiliari del traffico colpevole di essersi messo in lista per il rinnovo del consiglio comunale togliendo voti al candidato di riferimento e cioè Girardi». In nessuna parte dell’articolo, quindi, si evince che il dottor Girardi sia indagato o che il suo comportamento abbia avuto implicazioni penali. Non l’ho scritto, non l’ho pensato e non me lo sono mai augurato per il rispetto che avevo della sua persona. Per questo la sua giustificazione su questo punto (“non sono indagato”) mi sembra esagerata e inutile. Bene, presidente Girardi. Sul giornale-bacheca dove mi attacca e mi offende, testualmente dice che «l’unico riferimento alla mia persona è costituito da un passaggio di una intercettazione telefonica nel corso della quale uno degli arrestati si augurava la mia elezione a consigliere comunale. Tutto qui!». Invece no, caro presidente Girardi. Non è tutto lì perché in quella corposa ordinanza il suo nome  compare in sette pagine (21, 78, 79, 81, 86, 90, 150, 154) e viene ripetuto ben 14 volte in altrettanti contesti  tra intercettazioni e considerazioni degli investigatori. Ripeto: il suo nome compare quattordici volte in sette pagine dell’ordinanza. Come ho scritto nel mio articolo che non le è piaciuto, a fare il suo nome sono state sempre altre persone coinvolte nel blitz e nell’inchiesta e non è mai stato intercettato lei. In un primo momento, oggi, avevo deciso di pubblicare integralmente tutte quelle parti ma parlando con un amico in comune, più esperto e saggio di me e di lei, ho deciso diversamente riservandomi però di farlo nelle sedi giudiziarie che lei invoca. Se mi avesse chiesto un parere su tutto questo suo coinvolgimento nella vicenda, le avrei detto, come ho detto ad alcuni amici con cui ho affrontato l’argomento, che personalmente non vedo niente di grave perchè nessun candidato può conoscere tutti i propri elettori e né può impedire ad un poco di buono, o presunto tale, di votarlo. Semmai, però, alla luce di ciò che è emerso, le avrei consigliato (invece di prendersela con chi scrive), di prendere pubblicamente le distanze morali da certi personaggi. Tornando alla sua reazione e al suo smisurato risentimento, il suo articolo conclude dicendo: «difenderò la mia dignità e la mia reputazione in ogni sede e con ogni mezzo, e di questo i miei detrattori potranno essere certi». Faccia pure. Faccia quello che ritiene più giusto ma se la prenda con chi l’ha tirata in ballo nelle intercettazioni e con gli investigatori e i magistrati che hanno scritto le cose di cui io avevo riportato una parte davvero minimale. Per quanto mi riguarda, le sembrerà assurdo, dovrei essere io a rivolgermi alla giustizia per le offese e diffamazioni di cui mi fa bersaglio. Ma anche su questo voglio essere diverso da lei. La perdono. Mi accontenterò di fare piacevolmente a meno del suo saluto e della sua falsa amicizia. Nazareno Dinoi

Leo Girardi: «Non sono indagato. Contro di me solo un feroce attacco giornalistico». Nando Perrone su Manduria Oggi il 18 febbraio 2012. «Difenderò la mia dignità e la mia reputazione in ogni sede e con ogni mezzo, e di questo i miei detrattori potranno essere certi» «Non sono indagato nell’ambito dell’operazione di polizia giudiziaria che, nei giorni scorsi, ha consentito l’arresto di numerose persone. Sono stato però oggetto di un feroce attacco giornalistico, del quale il responsabile dovrà rispondere al giudice». Leo Girardi, medico ospedaliero e presidente del Consiglio Comunale di Manduria, replica con fermezza alle notizie di stampa diffuse da una sola testata locale, avvertendo l’esigenza di evidenziare la totale infondatezza di tali “insinuazioni”. «Ho preso atto con vivo sconcerto dello squallido tentativo di coinvolgermi nell’inchiesta giudiziaria avviata dalla DNA di Lecce, posto in essere da un foglio locale» scrive, in una nota, il presidente del Consiglio Comunale di Manduria. «Stento a rinvenire adeguati termini verbali idonei a stigmatizzare simili bassezze sintomatiche di una spregiudicatezza e di una disonestà intellettuale sconnate, ma mi preme sin da questo momento evidenziare che non rivesto la qualità di indagato nell’ambito della predetta inchiesta e mai potrei rivestire tale qualità per il semplice fatto che l’unico riferimento alla mia persona è costituito da un passaggio di una intercettazione telefonica nel corso della quale uno degli arrestati si augurava la mia elezione a consigliere comunale. Tutto qui! Sulla base di tale insignicante circostanza, un individuo, che interpreta in maniera distorta la professione del giornalismo, ha costruito un feroce attacco alla mia persona, creando dal nulla dettagli e particolari del tutto inventati. E’ sin troppo evidente che la mia legittima reazione a tale rivoltante e disgustosa manifestazione di protervia non potrà limitarsi a questa iniziativa: difenderò la mia dignità e la mia reputazione in ogni sede e con ogni mezzo, e di questo i miei detrattori potranno essere certi». Già durante la conferenza stampa, peraltro, i giudici presenti avevano rimarcato che alcuni episodi che riguardavano un paio di consiglieri comunali non rivestivano alcun rilievo di carattere penale. Sgombrando, sin dall’inizio, il campo da ogni possibile dubbio. Il presidente del Consiglio Comunale Leo Girardi aggiunge poi un altro passaggio signicativo per inquadrare meglio la vicenda. «In Tribunale esistono, da anni, degli atti che chiariscono il rapporto, esclusivamente professionale, che intercorre fra il sottoscritto e Pietro Tondo, uno degli arrestati nell’operazione di polizia giudiziaria» aggiunge Girardi, eletto nel corso dell’ultima campagna elettorale amministrativa con un’omonima lista civica. «Sin dal 2000, infatti, Tondo mi ha nominato, ucialmente, suo consulente di parte. Nomina che si è resa necessaria per elaborare una perizia medica sulle condizioni di salute dello stesso Tondo e, quindi, sulla sua compatibilità con il regime carcerario. Non ho mai avuto rapporti di natura diversa con Tondo e non credo possa congurarsi come reato l’auspicio di una persona sulla elezione di questo o di quel candidato».

Giornalista condannato per aver diffamato il sindaco di Sava, Iaia. Sette mesi di reclusione e maxirisarcimento. La Voce di Manduria mercoledì 07 ottobre 2020. Il giornalista savese Giovanni Caforio è stato condannato dal Tribunale di Taranto alla pena di sette mesi di reclusione perché ritenuto colpevole di diffamazione continuata a mezzo stampa nei confronti del sindaco di Sava, Dario Iaia. I fatti per i quali Caforio è stato ritenuto colpevole si riferiscono ad alcuni articoli pubblicati a sua firma sul suo giornale e su Facebook relativi ad un attentato incendiario di cui fu vittima il sindaco di Sava nel 2013. (L’incendio della sua auto e della moglie). Per quegli articoli il pubblico ministero Lelio Fabio Festa aveva già emesso un decreto di citazione in giudizio nei confronti dell’imputato accusandolo di avere «offeso l’onore e la reputazione personale e politica di Dario Iaia nella qualità di sindaco del comune di Sava». Dopo l’attentato incendiario dell’aprile del 2013, si legge negli atti d’accusa, Caforio «in numerosi articoli ed editoriali … avviava una sistematica campagna denigratoria, sostenendo – senza al contempo indicare il fondamento conoscitivo delle proprie affermazioni, che l’attentato fosse riconducibile al malcontento di ambienti criminali ai quali Iaia si era rivolto, promettendo, in cambio di sostegno elettorale, benefici (primo fra tutti posti di lavoro) che poi non aveva elargito e così usando l’illegalità per farsi erigere a rappresentante della legalità». Al termine della pubblica udienza che si è svolta lunedì 5 ottobre, il giudice della prima sezione penale del Tribunale di Taranto, ha inoltre condannato il giornalista al pagamento delle spese processuali pari a 6.840 euro (per le spese di costituzione parte civile sia da parte del sindaco Iaia sia del comune di Sava), oltre al risarcimento danni in favore di Iaia quantificati in 7.500 euro e del comune per latri 5.000 euro. Le parti lese sono state assistite dagli avvocati Egidio Albanese e Franco Fistetti. Certo il ricorso in appello da parte dell’imputato.

Eexcusatio non petita accusatio manifesta.

Nazareno Dinoi: “Quando un sindaco denuncia un giornalista”. Redazione de La Voce di Maruggio il 17 Novembre 2014.  Da lavocedimanduria.it, pubblichiamo questo articolo del suo direttore. Il sindaco di Sava, Dario Iaia, con la sua giunta, ha dato incarico all’avvocato tarantino, Egidio Albanese, di rappresentare l’ente nella denuncia-querela del giornalista savese Giovanni Caforio e della sua testata online, Vivavoce. Chi fa il nostro mestiere è purtroppo abituato a questo genere di incidenti di percorso. Chi si sente offeso o diffamato da ciò che scriviamo, ha il diritto di rivolgersi alla giustizia. A volte possiamo sbagliare. Spessissimo siamo noi ad essere oggetto di vere e proprie intimidazioni da parte di chi, potendo pagare la parcella di un qualsiasi legale (nel caso di cui ci occupiamo, poi, si è scelto il meglio perché paga «Pantalone»), oppure rivolgendosi gratuitamente ad un qualsiasi corpo di polizia giudiziaria, non ci risparmia il dispiacere di un’altra querela. In tal caso lo scopo di costoro, già al momento della denuncia, sia essa gratis sia a pagamento, lo hanno già raggiunto: quel giornalista preso di mira, non solo non parlerà più male del denunciante, ma non scriverà proprio più niente che gli riguardi. Con quella denuncia, insomma, si è acquistata l’immunità. E quando questo denunciante è un politico, vi lascio immaginare quanto importante sia per lui questo risultato. C’è chi si piega a questi ricatti e chi invece, parlo del giornalista, continua a fare il proprio dovere. L’amico Giovanni, a cui va la mia personale solidarietà e quella della redazione del giornale che dirigo, non è uno di quelli che si arrendono a questi ricatti. Non voglio e non posso entrare nel merito dei motivi che hanno spinto la giunta savese a querelare il giornale e il giornalista. Seguo la cronaca di Sava e riconosco lo stile spigoloso, a volte eccessivamente spigoloso, di Giovanni Caforio. Condanno però a prescindere il gesto della querela perché quando un potere così forte come un ente comunale arriva alle vie di fatto nei confronti di un giornale locale piccolo, senza editori alle spalle e quindi vulnerabilissimo, è sempre una sconfitta del buonsenso, del confronto e della democrazia. Dico questo perché è capitata a me la stessa cosa. Anche io in passato sono stato querelato dal mio comune. Due volte. Una prima volta perché avevo definito «guerra» una discussione molto ma molto accesa tra esponenti politici durante una seduta di consiglio; l’altra volta perché sul mio giornale avevo ospitato la vignetta del bravo vignettista Paolo Piccione (la famosa vignetta della coppia cojons). Anche gli amministratori dell’epoca si ritennero diffamati e mi incolparono, con me anche il vignettista, di avere «gravemente» danneggiato l’immagine della nostra città. Come è andata a finire? La prima causa l’ha persa il comune con tanto di spese di giustizia e legali a suo carico (al suo e al mio avvocato); la seconda è stata chiusa per la remissione della querela da parte del sindaco, evidentemente ravveduto dell’errore, che firmò quell’atto. Risultato? Io continuo a scrivere, Paolo Piccione disegna e pubblica ancora, mentre quasi tutti i politici che firmarono quelle denunce, tranne forse un paio, sono scomparsi dallo scenario politico di Manduria. Gli unici ad aver perso in quel caso, come nel caso di Sava, furono il buonsenso, il confronto e la democrazia. A guadagnare (molto, abbastanza), furono allora gli avvocati pagati con i soldi pubblici, anche miei, nostri, di tutti. Spero tanto che il sindaco di Sava ritiri la sua denuncia e risparmi le tribolazioni ad un piccolo editore ed anche i soldi pubblici delle parcelle legali che, lui lo sa bene come lo sappiamo tutti, noi si fermano quasi mai alle tremila euro impegnati all’inizio. Nazareno Dinoi. Direttore  responsabile de lavocedimanduria.it

Taranto, Asl contro infermiere-giornalista: “Due procedimenti disciplinari in poco tempo. È un bavaglio”. Di Gianluca Lomuto il 27 Settembre 2017 su bari.ilquotidianoitaliano.com. “Per me si tratta di un bavaglio”. Infermiere a pieno titolo presso il 118 di Manduria, giornalista di cronaca fuori dall’orario di lavoro. Nazareno Dinoi, suo malgrado, questa volta è finito letteralmente dentro la notizia. La vicenda che lo vede contrapposto alla Asl di Taranto, sta in fatti conquistando le pagine dei quotidiani. “Ho sempre scritto senza mai avere problemi di alcun tipo – ci ha raccontato a telefono – fino a quando il consigliere regionale Giuseppe Turco, a gennaio, ha presentato un esposto contro di me, secondo cui le due attività di infermiere e giornalista sono incompatibili. Da lì è partito un procedimento disciplinare, a marzo ho avuto la sospensione senza stipendio per un mese. La motivazione addotta dalla Asl è che io non potevo avere la partita iva, necessaria per documentare gli introiti della mia attività giornalistica. Ovviamente ho fatto opposizione e ne discuteremo davanti al Giudice del lavoro a novembre”. “Adesso mi è arrivata un’altra contestazione. In sostanza -spiega – mi dicono che posso fare il giornalista, senza però trattare argomenti che riguardano la Asl, genericamente, senza entrare nello specifico; non mi dicono, per esempio, che non posso scrivere di malasanità. La cosa particolare, però, è che gli articoli oggetto della contestazione riguardano una vicenda di cronaca nota a tutti, l’omicidio di una signora al Pronto Soccorso dell’ospedale di Taranto commesso da uno squilibrato”. “Nel primo pezzo riporto fedelmente degli estratti dai comunicati stampa del Sindaco, dell’Onorevole Vico e del consigliere Borraccino; nel secondo riporto una delibera pubblicata sul sito della Asl, accessibile da chiunque, per cui l’Azienda Sanitaria Locale si costituirà parte civile quando inizierà processo per il delitto della signora. Il 3 ottobre si riunirà la commissione di disciplina e mi aspetto che ci andranno con la mano pesante, parliamo di due contestazioni in breve tempo. Lo stesso contratto prevede l’inasprimento della pena”. “Che tutto sia iniziato con l’esposto di Turco non lo dico io, lo scrive la stessa Asl nelle motivazioni del provvedimento di sospensione. Ora, non mi dicono che io non posso scrivere, cosa che tra l’altro non si può fare perché viola il diritto costituzionale della libertà d’espressione, però così passa il messaggio che non posso scrivere cose scomode a loro, ed è brutto”. Gianluca Lomuto

Dalle polemiche aspre alle carte bollate: il passo è stato breve. Nando Perone su Manduria Oggi il 20 gennaio 2017. Il consigliere regionale Giuseppe Turco deposita in Procura e invia alla Asl di Taranto un esposto: chiede accertamenti sulla compatibilità della professione infermieristica con quella giornalistica e di “editore” di Nazareno Dinoi Abbiamo ricevuto dal consigliere regionale Giuseppe Turco la copia di un esposto depositato presso la Procura della Repubblica e inviato anche al direttore generale della Asl, all’Ispettorato del Lavoro, al Nucleo Carabinieri Ispettorato del Lavoro e al Comando Provinciale della Guardia di Finanza. Attraverso questo esposto, Turco chiede, in sostanza, che sia accertata la compatibilità fra la professione infermieristica alle dipendenze di un ente pubblico del direttore de “La Voce di Manduria”, Nazareno Dinoi, con l’attività di giornalista e, secondo quanto è riportato nell’esposto, anche di “piccolo imprenditore”. Con questo esposto, Turco «auspica chiarezza, per garantire il rispetto delle regole del nostro ordinamento». Non molto tempo fa, era stato il Dinoi a sottoscrivere un altro esposto, attraverso il quale chiede alla Guardia di Finanza di vericare la correttezza del rapporto in itinere fra “Ciaksocial” e il progetto “Bollenti Spiriti” (argomento sul quale si discute ormai da mesi anche in Consiglio Comunale). Dalle aspre polemiche degli ultimi mesi, insomma, si è passati agli esposti e alle denunce. Per carità, in entrambi i casi, è legittimo chiedere agli enti preposti di fare chiarezza su determinate posizioni e su determinate vicende. Noi crediamo però, in attesa di apprendere gli sviluppi di entrambi gli esposti, che sia auspicabile riportare i toni ad un livello più accettabile. Sempre in merito al proprio esposto, inne, Giuseppe Turco ha pubblicato sul proprio prolo facebook un post con il quale spiega le ragioni del suo gesto. «Sono un personaggio pubblico e come tale voglio essere trattato: è giusto che tutta la mia vita debba essere un libro aperto. Chi maneggia la mia vita lo faccia con cura ed è giusto che i critici subiscano ogni tanto un minimo di attenzione. Ecco perché ho deciso di esporre alle autorità competenti anché accertino la verità su alcune considerazioni che vedono interessato l’infermiere, editore, pubblicista collaboratore del Quotidiano Reno Dinoi. Ho chiesto se è normale che sia titolare, come dipendente pubblico a tempo indeterminato, di una impresa individuale. Non è pettegolezzo, ma accertamento della verità».

Asl condannata per punizione impropria. ​Il giudice del lavoro del Tribunale di Taranto, Giovanni De Palma, ha condannato la Asl a risarcire Nazareno Dinoi, l’infermiere giornalista che collabora con alcuni giornali locali e dirige la Voce di Manduria. La Voce di Manduria giovedì 05 aprile 2018. Il giudice del lavoro del Tribunale di Taranto, Giovanni De Palma, ha condannato la Asl a risarcire Nazareno Dinoi, l’infermiere giornalista che collabora con alcuni giornali locali e dirige la Voce di Manduria, e a farsi carico delle spese legali e di giudizio. Il giudice ha riconosciuto che non c’erano i presupposti per portare l’infermiere in commissione disciplina. Non solo, ha stabilito anche che la sanzione comminata era comunque sproporzionata alla presunta violazione (l’apertura della partita Iva), per l’incarico extra-istituzionale. Nazareno, assistito nel processo dall’avvocato Antonio Pompigna, era stato sospeso dall’Asl in cui lavorava per omissione contrattuale. Secondo l’azienda, infatti, non poteva scrivere sui giornali e lavorare come infermiere. Per questo l’azienda, sollecitata da un esposto presentato dal consigliere regionale di Torricella, Giuseppe Turco, aveva aperto un procedimento disciplinare nei suoi confronti e lo aveva sospeso dal servizio per 30 giorni. Ora il giudice del lavoro di Taranto gli ha dato ragione, annullando la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio, con privazione della retribuzione e condannando l’Asl di Taranto al pagamento di 1.700 euro come risarcimento e di 1.500 euro per le spese legali. Questa non è la prima contestazione disciplinare, aperta nei confronti di Dinoi per la sua attività di giornalista, che cade nel vuoto. Un’altra, più recente, si è risolta a dicembre scorso con l’archiviazione decisa dalla stessa commissione di disciplina che era stata chiamata, dal direttore generale Stefano Rossi, ad esprimersi sulla presunta colpa del giornalista per aver firmato due articoli pubblicati sul Quotidiano di Puglia relativi ad un fatto di cronaca (l’uccisione da parte di uno squilibrato di una anziana signora ricoverata nel pronto soccorso dell’ospedale Santissima Annunziata di Taranto). In precedenza un ennesimo deferimento disciplinare, sempre legato all’attività giornalistica con partita Iva, si era chiuso con l’archiviazione della competente commissione di disciplina della Asl. Significativo il commento del protagonista. «Mi chiedo ora se sia giusto che a pagare (spese legali e di giustizia) siano i contribuenti e se non sarebbe giusto invece che il conto arrivasse a chi ha voluto tutto questo, partendo dal politico autore dell’esposto e poi a chi ha voluto dare seguito alle assurde accuse con fare quasi inquisitorio. Solo allora potremmo dire: giustizia è fatta». Dinoi infine ringrazia «tutti i colleghi infermieri e giornalisti che hanno sostenuto la mia battaglia di libertà, primo tra tutti il collega del Quotidiano, Mario Diliberto, che è stato l’unico ad interessarsi concretamente al caso presentandosi spontaneamente, in qualità di uditore, in sede di commissione disciplinare nella sede della Asl; straordinari – infine – l’impegno e la bravura dell’avvocato Antonio Pompigna che ha saputo rappresentare e difendere i miei diritti».

TARANTO. “Diffamazione aggravata”. Condannato Nazareno Dinoi, direttore de “La voce di Manduria”. Giovanni Caforio su Viva Voce Web il 15 febbraio 2020. Diffamò Vittorio Saladino, Capo della Commissione straordinaria inviata a Manduria dal Ministero dell’Interno dopo lo scioglimento per infiltrazioni camorristiche-mafiose nel Comune messapico. Per il direttore de “La voce di Manduria”, e articolista del “Nuovo Quotidiano di Puglia”, il dott. Vittorio Saladino “avrebbe annullato, senza motivo, multe a parenti, amici e conoscenti”. Alla luce di questo articolo partì la denuncia per diffamazione aggravata “per aver falsamente e reiteratamente riportata la notizia anche on line”, presso la Procura della Repubblica di Taranto e avanti ieri, 13 febbraio,  con sentenza numero 376/2020, il  giudice Antonio Taurino ha condannato Nazareno Dinoi, difeso dagli avvocati Armando Pasanisi e Franz Pesare di Sava, al risarcimento danni di € 2000,00 + gli interessi per diffamazione aggravata dal mezzo della stampa nei confronti del dottor Vittorio Saladino, difeso dall’avv. Andrea Silvestre di Taranto. Nazareno Dinoi è stato altresì condannato alle spese di giudizio e di onorario all’avv. Andrea Silvestre di € 1500,00.

«Falsa rappresentazione della realtà», direttore de La Voce condannato a risarcire l'ex prefetto. Nel dare notizia di tale procedimento, il giornalista Dinoi aveva erroneamente descritto l’imputazione a carico dell’ex prefetto di Rimini con la seguente contestata frase: «Saladino avrebbe annullato senza motivo multe a parenti. La Voce di Manduria domenica 16 febbraio 2020. Il Tribunale civile di Taranto, giudice onorario Antonio Taurino, ha accolto parzialmente la richiesta di risarcimento danni avanzata dal prefetto in pensione, Vittorio Saladino, commissario straordinario del comune di Manduria, nei confronti del direttore de La Voce di Manduria, Nazareno Dinoi, che è stato condannato a pagare 2.000 euro (la richiesta del danneggiato era di trentamila euro) - e non per “diffamazione aggravata” come erroneamente riportato da qualche giornalista male informato -, per aver riportato in maniera difforme la notizia di un procedimento penale a carico di Saladino che lo ha visto imputato per abuso d’ufficio e poi assolto dal Tribunale di Rimini “perché il fatto non sussiste”. A Saladino, allora prefetto di Rimini, era contestato un indebito utilizzo di un dipendente della prefettura e di aver fatto annullare senza motivo una multa presa dall'auto della moglie. Accuse poi cadute con l’assoluzione del primo grado di giudizio. Nel dare notizia di tale procedimento, il giornalista Dinoi aveva erroneamente descritto l’imputazione a carico dell’ex prefetto di Rimini con la seguente contestata frase: «Saladino avrebbe annullato senza motivo multe a parenti e amici». Così, evidentemente, non era. «Esaminando la richiesta di rinvio a giudizio del Piemme – scrive il giudice Taurino nella sentenza di condanna a Dinoi -, emerge in maniera univoca ed inequivoca che il fatto costitutivo ascritto dalla pubblica accusa a base dell’imputazione per abuso d’ ufficio (a carico dell’ex prefetto, Ndr), non è certo l’aver annullato multe a parenti ed amici, quanto l’ aver dichiarato “falsamente” in un ricorso promosso per l’ annullamento di una multa comminata alla moglie, di essere stato lui, il Saladino, nella circostanza, ad essere stato l’ effettivo utilizzatore dell’auto per esigenze di servizio, che è fatto del tutto diverso dall’annullare multe “ a parenti ed amici”».

Scrive ancora nella sentenza il giudice di Taranto. «Sul punto va sottolineata la profonda differenza che corre tra l’agire per l’annullamento di un verbale (quale astratto diritto di difesa che il pubblico funzionario possiede al pari di qualunque altro cittadino che ritenga ingiusta la comminatoria), avvalendosi di false dichiarazioni, e annullare multe a “parenti ed amici”, fatto dai contenuti fenomenici del tutto diversi oltre che suscettibili di suggestionare ed alterare la percezione dell’immaginario della comunità dei lettori». Sbagliata era anche, secondo il giudice, la definizione di “parenti” quali ipotetici e quindi di più persone beneficiari del presunto abuso. Anche perché, si spiega, Il legame che lega i coniugi non è di tipo parentale.

Scrive Taurino. «La tesi, basata sulla rispondenza tra il capo d’ accusa nella parte in cui si riferisce al ricorso per l’annullamento della multa di un parente ed il contenuto dell’articolo che avrebbe ascritto l’abusività del contegno in riferimento a parenti (in effetti concetto anche improprio in quanto l’ esatto rapporto intercorrente tra marito e moglie è il coniugio), non convince, in primis perchè è accertato che trattasi di un unico caso (quindi pare distorcere la realtà nel momento in cui si riferisce, seppur implicitamente, ad una pluralità di persone, prospettazione che implica suggestivamente una sorta di “recidiva” del comportamento illecito». Per tali motivi, rileva il giudice Taurino, la narrazione di cronaca riportata dal direttore della Voce di Manduria, è «da considerarsi ontologicamente non veritiera, in quanto in distonia con i fatti rappresentati nel capo d’ accusa». Nello stesso errore sono incorsi altri giornalisti di testate anche nazionali e agenzie di stampa da cui Dinoi aveva attinto il presunto capo d’accusa delle «multe annullate a parenti amici». Giustificazione non sufficiente per il giudice Taurino ad avvalorare: «l’incolpevolezza dell’autore nell’aver confidato sull’attendibilità della notizia perchè riportata da autorevoli fonti informative di ampia diffusione nazionale (quali l’Ansa, tra le più prestigiose)». Su questo punto lo stesso giudice fa notare «che inspiegabilmente l’attore, pur legittimato, ha tralasciato ogni azione nei confronti di chi, egualmente, aveva pubblicato la medesima falsa notizia, peraltro preventivamente». L’ex prefetto, insomma, si è sentito leso solo da Dinoi e non da tutti gli altri che prima di lui avevano erroneamente scritto la stessa cosa. Merita attenzione, infine, la parte della sentenza (che qualche giornalista avrebbe dovuto leggere e non fidarsi solo della solita «velina» passatagli), in cui lo stesso giudice Taurino evidenzia «che la genesi della vicenda è connessa alla pubblicazione di un fatto vero, costituito dalla proposizione di accusa per reato di abuso di ufficio, che, pare aver di per sé contribuito, in maniera quasi del tutto assorbente rispetto a dettagli accessori non secondari (quali appunto aver attribuito come presupposto d’ accusa un fatto non rispondente al vero), ma di portata mediatica non prevalente, di modo che gran parte del discredito procurato all’ immagine pubblica dell’attore sarebbe attribuibile all’ accusa autonomamente considerata, e solo in quantità marginalmente significativa alla distorsione perpetrata dall’autore (Dinoi, Ndr)».

E ancora questa parte in cui il giudice riconosce la «logica della difesa convenuta nella parte in cui sminuisce, seppur in via gradata, la portata dell’allarme sociale procurato dall’illecito». E che «a prescindere dalla discrasia in cui è colpevolmente incorso l’ autore, che, peraltro, raccontando i fatti in maniera esaustiva (quantunque con i risultati distorsivi e fuorvianti in parte qua) ha dato contezza dell’intera vicenda ai lettori, consentendo loro l’ esercizio di quello spirito critico che deve contraddistinguere l’ approccio alla lettura delle pubblicazioni di cronaca, che, accidentalmente possono essere connotate da inesattezze, errori o travisamento delle vicende narrate, sino a fare ammenda totale con l’ ultimo degli articoli pubblicati sulla incresciosa vicenda, in cui ha correttamente e compiutamente reso giustizia all’ attore, fornendo il resoconto dell’avvenuta assoluzione dell’imputato». Secondo il giudice Taurino, il danno comunque c’è stato per un valore quantificato in duemila euro da riconoscere all’ex prefetto Saladino (che ne chiedeva 30.000) e 1.500 euro al suo avvocato. Il direttore Dinoi ha già dato mandato ai legali che lo hanno assistito nella causa civile, Franz Pesare e Armando Pasanisi, per presentare ricorso alla Corte d’Appello di Taranto.

Si avvicina la sentenza Misseri, si getta la solita polvere e Nazareno Dinoi tenta l'ultimo scoop e offre 500 euro a Michele Misseri per una lettera da pubblicare sul settimanale che pubblicò quella in cui Concetta scrisse: cara Sabrina ti voglio bene.  Massimo Prati il 13 luglio 2015 su albatros-volandocontrovento.blogspot.com. Certi personaggi di Taranto sono sull'orlo del baratro e dopo aver volato per quattro anni non si accorgono di vivere in un momento di precario equilibrio. Ciò che non si capisce è se siano preda della follia - che andrebbe subito diagnosticata e curata - della malafede, della smania di protagonismo, della voglia di guadagno facile o della convinzione che non ci sarà mai chi smaschererà la loro ipocrisia. Il processo contro Sabrina Misseri e sua madre è alle battute finali e dopo l'arringa della difesa - che senza giri di parole ha attaccato i metodi usati dai procuratori per rivoltare nei mesi una frittata già pronta e chiedere un processo e più condanne basate su un sogno - nei palazzi tarantini serpeggia la paura di una sentenza assolutoria. Sentenza assolutoria che i giudici privi di pregiudizio troverebbero logica - data la completa mancanza di elementi probatori a colpevolezza. Sentenza che però in loco non è gradita, perché non sarebbe facile spiegare il motivo di una custodia cautelare così lunga. Ed ecco che per incanto, come si è fatto alla fine del processo di primo grado quando furono addirittura i giudici di corte a incentivare la voglia di colpevolezza, nella città dei due mari i personaggi oscuri si muovono e alzano polveri sottili. Non sono le polveri alzate dai giornalisti tarantini indagati perché sul libro paga dell'Ilva, quelli sono talmente tanti che nessuno sa quanti realmente siano (link di conferma), e pagati profumatamente per dire che tutto a Taranto è bello e pulito, che gli allarmismi ambientali sono fasulli. No, i giornalisti che alzano polvere sul caso Scazzi sono altri... anche se il seme e il sistema che hanno usato appare identico. Infatti, pur di continuare a condizionare le teste italiane e i giudici che fra pochi giorni dovranno sentenziare, pur di far condannare ancora una volta Sabrina Misseri, sua madre e gli imputati che a processo insistono a parlare di un sogno, ad alzare la polvere sono i personaggi che negli anni sui media si sono affermati grazie all'informazione nazionale che ne amplificava la voce. Ed ecco perché ancora oggi le polveri di Taranto si spargono come un virus nell'etere italiano. Alcuni di quei personaggi si mostrano al pubblico una tantum, come fece il Gip Rosati che rilasciò una lunga intervista al Tg1 delle 20.30 quando la Cassazione doveva decidere se mantenere il processo a Taranto o spostarlo a Potenza (e quell'intervista concordata all'ultimo momento e mandata in prima serata sulla tivù di stato fece capire che tipo di contatti mediatici-politico-giudiziari ci fossero sull'asse Taranto-Roma), mentre altri sono presenti sin dalla scomparsa di Sarah e hanno già raggiunto moltissimi cervelli convincendoli che da un lato sono tutti buoni e dall'altro tutti schifosi e cattivi. I buoni, naturalmente, sono i colpevolisti, quelli schierati contro Sabrina Misseri e sua madre. A partire dai famigliari di Sarah Scazzi per arrivare agli avvocati di parte civile passando dai procuratori che alla ragazzina vogliono rendere giustizia a modo loro. Ma non sono i soli ad essere pensati buoni e onesti. Attorno a questa brava gente girano anche strani opinionisti e giornalisti che grazie al caso Scazzi in questi ultimi anni hanno ricevuto promozioni e onorificenze fino ad arrivare al plus della loro carriera. Come non ricordare gli articoli di Mimmo Mazza, a Taranto si vocifera che si abbronzi la capa pelata dalle finestre della procura, il giornalista che per contratto non può criticare i procuratori e durante le indagini (indagini???) copiava e incollava quanto gli dicevano di copiare e incollare. Che anche dopo aver assistito alle udienze e ascoltato con le proprie orecchie i testimoni travisava intere testimonianze. Lui è uno dei miti che hanno fatto diventare tanti suoi lettori colpevolisti. Ma non c'è solo la "velina Mazza" (pare che "velina" sia il soprannome datogli negli ambienti tarantini) a imperversare... ce un altro mito di cui parlare. Si può forse dimenticare il bravo Nazario Dinoi, che dirige La Voce di Manduria, scrive per il Corriere del Mezzogiorno e non disdegna di assemblare qualche libro? E' vero, non è un giornalista perfetto: basti pensare che andò in contrada Mosca con la videocamera per far conoscere i luoghi del crimine ai suoi lettori e filmò, soffermandosi anche a fondo su quanto si trovasse al suo interno, il fico sbagliato: quello attaccato alle mura cadenti non sapendo neppure che il giusto si trovava a 30 e passa metri di distanza (ora è stato potato e rimpicciolito). Pazienza, anche i migliori sbagliano e in fondo la sua onestà chi la può mettere in dubbio? Non era forse lui che in una intervista fattagli nel gennaio 2012 bacchettava i suoi colleghi e alla domanda: "Qual è dal punto di vista mediatico e giornalistico l’aspetto più squallido della vicenda, secondo lei?", rispondeva: "L’aspetto più squallido è stato il mercato di immagini, di interviste e di documenti dell’inchiesta ad opera di personaggi tuttora, diciamo, "oscuri" e lo sfruttamento televisivo che si è fatto e si continua a fare"? (link di conferma) Era lui che rispondeva in siffatta maniera, era il bravo Nazareno Dinoi che tutti amano e che dando quella risposta aveva completamente ragione. Infatti uno degli aspetti squallidi della vicenda Scazzi è stato il mercato di interviste e lo sfruttamento televisivo (mediatico) che personaggi oscuri han fatto per anni e continuano a fare. Mercato che, però e ahimè, da venerdì 10 luglio ha un personaggio "oscuro" in meno, dato che sappiamo essere il mitico Nazareno Dinoi uno degli oscuri personaggi da lui citati. E questa scoperta fa nascere spontanea la domanda: "Ma il Dinoi in questi anni ha scritto per informare i suoi lettori o per altri motivi? Quante bugie ci ha raccontato?". Non si possono fare altri pensieri dopo aver saputo che è andato lui stesso a cercare Michele Misseri, addirittura scendendo nella cava dietro casa (e ci sono persone che dall'alto hanno visto e sentito e anche chi ha parlato con l'uomo che lo attendeva in auto), per offrirgli 500 euro in cambio di una sua lettera a Concetta. Una lettera scritta in qualsiasi forma che dicesse qualsiasi cosa. Una lettera da non spedire ma da pubblicare su Di Più, lo stesso settimanale che la settimana scorsa ha pubblicato la lettera benevola - ma altamente colpevolista - della madre di Sarah. La lettera che iniziava con: cara Sabrina ti voglio bene. Embé, caro signor Dinoi, l'ha stupita il dignitoso rifiuto di Michele Misseri che da quando gli hanno bloccato il conto corrente per sopravvivere si arrangia con le unghie e coi denti? Di certo quei 500 euro gli avrebbero fatto molto comodo e lei lo sapeva. Eppure si è comportato come non è stato capace di comportarti lei e i suoi trenta denari li ha rifiutati. A questo punto dovrebbe dirci se è stata Concetta Serrano a contattarla per pubblicare la lettera in cui, pur scrivendo cara Sabrina ti voglio bene, dava per scontata la colpevolezza della nipote o se, invece, è stato lei a chiederle di scriverla. In fondo è stata pubblicata solo una settimana fa e sotto c'era la sua firma (quindi la Cairo Editore l'ha ben pagata). Signor Dinoi, ha offerto soldi anche alla signora Concetta e lei li ha accettati? Sarebbe bello se qualche giornalista non coinvolto nei giochetti del potere telefonasse alla signora e glielo chiedesse. Sarebbe bello ascoltare la sua risposta (chissà che non sia io a porle la domanda e a registrare la risposta). Perché, sa signor Dinoi, a noi che da troppo tempo non ci fidiamo né di lei né dei giornalisti come lei né della famiglia di Sarah né di nessun altro che si comporti in maniera simile alla vostra, ancora non vanno giù tante cose. Noi rispettiamo Sarah più di qualsiasi altro, più di chi commercia e guadagna usando il suo nome e la sua morte, e oltre a chiedere per lei una vera giustizia vorremmo capire chi l'ha usata da morta per scopi economici. Tanto per iniziare si potrebbe parlare del canile promesso da Claudio Scazzi e mai realizzato. Sin dall'inizio eravamo perplessi e non capivamo per quale motivo, se Sarah non voleva vedere cani in gabbia, si fosse deciso di costruire un canile. Lei signor Dinoi, che vive a un passo da Avetrana e ha stazionato per mesi in casa Scazzi, questa domanda se l'è posta e l'ha posta ai diretti interessati? Vabbé, tanto poco conta ormai quella domanda, visto che il canile è svanito nel nulla assieme al sito internet servito a raccogliere fondi. Di questi ultimi lei sa qualcosa signor Dinoi? Se sì, perché non ne scrive? A noi han detto che i denari raccolti e incassati grazie anche al libro e al calendario (sui 90.000 euro) non sono più nel conto corrente gestito da Concetta Serrano... a noi han detto anche dove sono finiti. Possibile che lei, invece, nulla sappia? Lei che quell'associazione l'ha pubblicizzata tramite il Corriere del Mezzogiorno e La Voce di Manduria, inserendo anche la piantina del progetto e le specifiche sui luoghi in cui si sarebbe realizzata (clicca qui per conferma)? In pratica ha incentivato i suoi lettori a versare oboli sul numero di conto corrente che ha pure inserito sotto l'articolo che ha scritto. Lettori pentitisi della loro offerta mesi dopo. Come dimostra il commento di una sua lettrice su La Voce di Manduria, commento che lei ha ripreso in un articolo in cui giustificava le istituzioni locali (clicca qui per leggerlo), invece di usarlo per criticare chi si stava comportandosi in maniera ignobile. Poi, della stranezza di quell'associazione ha scritto solo la Gazzetta del Mezzogiorno (non Mimmo Mazza però) nell'agosto del 2012 (qui l'articolo). Alla fine è calato l'oblio e nessun giornalista tarantino si è azzardato a tornare sull'argomento, neppure quando il sito è scomparso da internet. E come i giornalisti nessun procuratore tarantino si è mai chiesto né che fine abbiano fatto i denari raccolti da un'associazione senza scopo di lucro (grazie al calendario, al libro e alle donazioni) né quali conti correnti avetranesi e manduriani si siano gonfiati grazie alla morte di Sarah. A noi, dopo avervi assicurato che il conto corrente della famiglia Misseri non si è gonfiato dopo la morte della piccola, nessun giornalista ha mai pagato una intervista ai Misseri, piacerebbe sapere, dato che poco ci vuole a vedere chi siano i nuovi ricchi della zona, come siano arrivati i tanti denari che alcuni hanno accumulato. Ce lo chiediamo anche se in fondo, ragionando senza emotività, è facile capire il motivo di quegli introiti che non vengono da giochi di prestigio personali ma di certo hanno tratto linfa dai giochi di prestigio messi in pratica da altri. Il primo gioco di prestigio messo in atto a Taranto era chiaro e pochissimo ci voleva ai giornalisti veri per capirlo e farlo capire ai propri lettori. La procura sin da settembre aveva una propria tesi (tesi che contemplava la colpevolezza di Ivano e Sabrina ed era conosciuta da tutti i giornalisti), che non abbandonò neppure dopo la confessione del contadino. La difesa di Michele Misseri fu invitata al gioco dal procuratore che usò il suo cellulare per chiamare l'avvocato amico (mentre avrebbe dovuto lasciare il compito al centralone della procura che avrebbe scelto un avvocato a caso). E fu così che invece di far tacere il proprio assistito, quando a fatica lo stesso capiva le domande e cosa stesse dicendo (basta guardare il video dell'interrogatorio del 15 ottobre per rendersene conto), il legale scelto dal procuratore lo incentivò affinché dicesse la verità voluta dall'accusa. Forti di questo gioco di prestigio che stava riuscendo, nei primi mesi i giornalisti tarantini, coadiuvati da quelli delle tivù nazionali, invece di farsi domande (ad esempio su come si potessero ottenere tante versioni da Michele Misseri) divulgarono sui media la verità della procura e le innumerevoli interviste della madre di Sarah (che l'anno successivo le diede in esclusiva a una sola giornalista... a pagamento?), convincendo per primi gli avetranesi della bontà della tesi accusatoria. Non per niente ci fu chi girava con Sarah e sua cugina e nonostante questo quando testimoniò disse che seppe dalla televisione della gelosia di Sabrina. Con il lavoro di gruppo, con le accuse mosse dalla procura che mese per mese venivano divulgate dai giornalisti quale verità acclarata, si resero certamente più malleabili le menti di quei testimoni che non avevano portato nulla di valido a ridosso della scomparsa di Sarah. Gli stessi testimoni che a cadenza mensile vennero chiamati e ascoltati in caserma e in procura e che a poco a poco, seguendo la rotta colpevolista indicata dai procuratori e reclamizzata dai media, divennero colpevolisti, cambiarono le precedenti versioni e finirono per diventare i perni dell'accusa. Possibile che le persone intelligenti non abbiano capito questo elementare trucco che nonostante sia vecchio si continua a usare in tante città e procure? Sorprendere con numeri di prestigio degni del miglior circo - non della giustizia - per influenzare la mente della pubblica opinione e dei giudici popolari. Questo è il motto che andava di moda qualche anno fa e che ancora si usa. Un motto che continua a spopolare in luoghi dove più che la bravura giudiziaria di procuratori e giudici che contribuiscono alle indagini, agli interrogatori e alle sentenze, abbiamo assistito a magie, a fuochi d'artificio e a giochi di prestigio capaci di far presa anche sulla Casta e mantenere in carcere per quasi cinque anni due persone che di pericoloso non han nulla e per la legge sono innocenti fino a sentenza definitiva. E, come ho già scritto, se nel processo di primo grado furono addirittura i giudici Trunfio (ex collega dei pubblici ministeri che chiedevano le condanne) e Misserini a far capire ai popolari quale fosse la direzione da prendere per giungere all'ergastolo, oggi abbiamo altri della stessa risma che, pur essendo una parte attiva del processo, premono sulla pubblica opinione grazie a giornalisti e settimanali che non hanno né vergogna né coscienza. Parlo del procuratore generale Ciro Saltalamacchia che dopo le arringhe della difesa ha rilasciato un'intervista in cui ha cercato di abbindolare la pubblica opinione senza avere nulla da portare a conferma della sua tesi... cosa che un magistrato serio lascia nell'aula del processo senza sbandierarla ai quattro venti (clicca qui per vedere il servizio di TgNorba). C'è da chiedersi perché il giornalista lo abbia fatto parlare del caso Scazzi senza cogliere l'occasione per chiedergli il motivo per cui suo figlio è diventato socio de la "Magna Grecia Società sportiva dilettantistica a responsabilità limitata" e di un signore indagato a Potenza. Dovete sapere che la società di cui sopra, aperta il 2 marzo 2015 solo per partecipare al bando di assegnazione di un famoso centro sportivo tarantino chiuso bruscamente l'anno passato e in odor di mafia, è amministrata da un tale (da far girare in manette visto che ha già patteggiato una condanna per aver usato le mani in maniera impropria) che mesi fa picchiò il figlio del procuratore aggiunto Pietro Argentino. Avete letto bene, a prenderle purtroppo fu proprio il figlio del magistrato che ha indagato, interrogato per mesi, cambiato varie versioni e chiesto l'ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Proprio chi ora vuole portare a processo altre dodici persone per falsa testimonianza. Proprio lui che un giudice di Potenza vorrebbe a sua volta portare a processo per falsa testimonianza, assieme ad altri magistrati e uomini di spicco delle forze dell'ordine tarantine (21 in totale), tanto da aver spedito gli atti alla procura di Taranto (di Taranto?) perché i procuratori valutino la sua posizione (link di conferma). Naturalmente il nuovo gioco di prestigio prevede che nessun giornalista scriva mai di simili fatti. A Taranto è vietato farsi domande su società sportive a responsabilità limitata (non SRL tradizionali che non potrebbero accedere a fondi speciali) che i figli dei procuratori aprono per poter entrare nei marchingegni segreti dei Comuni magari solo per ricevere sovvenzioni a fondo perduto dallo stato. Nessun giornalista capisce il valore della parola vergogna mentre finge di non conoscere i collegamenti che si incrociano in maniera inquietante nella sua città e nessun procuratore indaga sulla scomparsa dei fondi di un'associazione non a scopo di lucro e su quanto l'informazione manipola e acquista. Ilaria Cavo per qualche stupida foto è diventata parte in causa nel processo d'appello contro Misseri e altri. I giornalisti pugliesi invece sono tutti liberi di andare ad acquistare interviste da vendere ai settimanali per rimpinguare il loro conto corrente. Possibile che sia tutto regolare? Possibile non capire che per ogni intervista che un giornalista acquista c'è una persona che l'intervista la vende? Chi è la persona più intervistata di Avetrana? La povera Sarah è morta e sin dal 2010 c'è chi fa soldi facili grazie alla sua morte. C'è chi sfruttando il suo nome alza polvere per nascondere il nulla probatorio all'opinione pubblica. C'è chi, pur di creare nuovi adepti colpevolisti, usa il suo nome per sporcare di ipocrisia il foglio di giornale su cui scrive e gli schermi delle televisioni da cui parla. C'è chi ha deciso che la sua ultima ricostruzione accusatoria, ideata a otto mesi dall'arresto del suo colpevole preferito e molto diversa dalle prime che il Gip aveva in ogni caso avallato come buone per mandare e mantenere in carcere Sabrina Misseri, è perfetta anche senza prova alcuna. C'è chi in nome di Sarah e del popolo italiano chiede la condanna di una ragazza incensurata che per la ragazzina era una sorella maggiore. Siamo alle battute finali di un processo che non si doveva neppure celebrare in primo grado e sarebbe il caso di iniziare a cambiare, di lasciare in pace Sarah lavorando con più morale e meno smania di guadagno. Sarebbe il caso di non inserire il popolo nella formula di condanna e sentenziare a titolo personale scrivendo su un file del tribunale tutti i nomi degli italiani che la condanna la vogliono. Così che un domani, in presenza di uno sbaglio giudiziario rilevante, non sia tutto il popolo a pagare i risarcimenti milionari ma solo quella parte inserita nel file. Naturalmente dopo aver pagato i rimborsi gli stessi potrebbero rivalersi sui magistrati, sugli opinionisti televisivi (qualsiasi professione dichiarino) e su quei giornalisti privi di scrupoli che li hanno convinti della colpevolezza pubblicizzando giochi di prestigio buoni a stuzzicare l'emotività, pagando interviste di comodo e sostenendo iniziative rivelatesi buffonate...

Nel mirino 4 gennaio 2012 su L'Inkiesta : Immagini sconsigliate a un pubblico intelligente.   Esempi di pessimo giornalismo. Mi chiedo come possa il Corriere della Sera online pubblicare un articolo come quello di tale Nazareno Dinoi dal titolo delirante "Il corpo di Sarah estratto dal p...” Esempi di pessimo giornalismo. Mi chiedo come possa il Corriere della Sera online pubblicare un articolo come quello di tale Nazareno Dinoi dal titolo delirante “Il corpo di Sarah estratto dal pozzo. In 71 scatti la sequenza dell’orrore”. E’ il classico caso da citare nelle scuole di giornalismo come trappole in cui non cadere. Titoloni urlati approfittando delle tragedie altrui per attirare i lettori e sotto il vestito niente. A corredo dell’articolo una squallida fotogallery che ovviamente non è composta dai 71 scatti della sequenza dell’orrore perchè quelli li vedranno in aula (E MENO MALE a meno che il signor Dinoi non voglia propinarceli anche sul Corriere) ma da foto in bianco e nero del pozzo da cui è stata estratto il corpo di Sarah Scazzi. La prima slide tuona addirittura “ATTENZIONE IMMAGINI PARTICOLARMENTE CRUDE E SCONSIGLIATE AD UN PUBBLICO SENSIBILE”, le slides a seguire sono tutte immagini del buco per terra, misurazioni ecc, non c’è nessuna foto che possa urtare la sensibilità di alcuno ma l’intelligenza si. Premesso che io la cronoca nera la eliminerei tout court perchè non ne vedo proprio l’utilità se non quella di appagare un lato oscuro e morboso degli esseri umani, turisti nelle disgrazie altrui, quando invece ci sarebbero tanti altri argomenti interessanti da approfondire, ma capisco che se fatta professionalmente e con rispetto possa essere un termometro della società (o almeno di alcune sue parti). Aggiungo che in questo mirabile articolo di questo credo giornalista non capisco quale sia il diritto – dovere di cronaca. La notizia è che durante il processo saranno proiettate le immagini del ritrovamento del cadavere, quindi il titolo è falso e fuorviante, così come la photogallery. Vi sono poi ammiccamenti nel testo da fare venire i brividi: “Non mancherà l’occasione (l’implacabile esigenza della giustizia lo imporrà), di vedere la sequenza fotografica di quella terribile notte tra il 6 e il 7 ottobre del 2010” e ancora: “Sarà un film composto da settantuno scatti, non sarà facile guardare.” e poi: “Da questo punto in poi le immagini sono inguardabili perché l’antro allargato dalla pala d’acciaio mostra qualcosa che galleggia che è ricoperto di terra. Sarà quella la parte peggiore per chi vorrà resistere. “Questo è un articolo del Corriere del Mezzogiorno ripreso dal Corriere della Sera, il mio consiglio per le prossime photogallery del genere è come prima slide di mettere la seguente scritta: ATTENZIONE IMMAGINI SCONSIGLIATE A UN PUBBLICO INTELLIGENTE.

Antonio Cosimo Stano. Manduria tra gogna mediatica ed ignominia. Antonio Giangrande su Corrierepl.it il 29 Aprile 2019. I Manduriani ed i loro giornalisti provano sulla loro pelle cosa sia la gogna della vergogna. Il commento dello scrittore Antonio Giangrande, che tra le altre cose ha scritto il libro “Sara Scazzi. Il delitto di Avetrana”. Devo dire che a meno di 9 anni di distanza le frasi “omertà del paese”, “tutti sapevano”, sono atti di accusa per un intero territorio e risuonano per tutta Italia per mano di scribacchini che, venuti da lontane sponde, nulla sanno della verità, se non quella filtrata da veline giudiziarie. La denigrazione del paese di origine dei responsabili meridionali di un reato e la pena accessoria a cui tenere conto. Devo dire che, scartando la gogna di giornalastri forestieri, è proprio dalla medesima Manduria che son venuti attacchi alla stessa Avetrana, quando vi fu l’aggressione con conseguente morte di Salvatore Detommaso, ovvero vi fu il mediatico omicidio di Sarah Scazzi. «Continuano le indagini dei carabinieri di Avetrana per individuare i responsabili della brutale aggressione che questa mattina ha ridotto in fin di vita un avetranese di 63 anni colpito alla testa con delle bottiglie di vetro. Il violento pestaggio è avvenuto davanti al bar Mojito alla presenza di numerosi testimoni che hanno dichiarato di non aver visto niente o di non ricordare particolari utili. E sugli avetranesi ritorna il fantasma dell’omertà venuto fuori durante le indagini del delitto di Sarah Scazzi, un episodio che ha fatto parlare e fa parlare ancora l’Italia intera e che ha visto il coinvolgimento di una quarantina di persone tra sospettati, indagati, imputati, condannati e sognatori. Nessuna ammissione, nessun aiuto concreto agli inquirenti e alla verità sulla morte della quindicenne uccisa dai parenti». Così scriveva Nazareno Dinoi il 27 marzo 2016 su “La Voce di Manduria” in riferimento all’aggressione avvenuta a danno di Salvatore Detommaso la mattina presto del giorno di Pasqua, ricoverato poi in prognosi riservata. Aggressione su una via di passaggio per chi, proveniente da Manduria, è diretto a Nardò od a Torre Colimena. Lo stesso Dinoi continua con la solita litania anche il 29 marzo 2016: «Il bruttissimo episodio è ora materia degli investigatori dell’Arma che stanno incontrando difficoltà a raccogliere testimonianze dei presenti. Sino a ieri il maresciallo Fabrizio Viva che comanda la stazione di Avetrana ha sentito diverse persone che erano presenti nelle vicinanze, ma nessuno di loro ha detto di ricordare o di aver visto niente. Un atteggiamento omertoso che ha spinto gli amministratori pubblici e il parroco a lanciare appelli a parlare (di questo parliamo a parte). I militari hanno già ritirato le registrazioni delle telecamere di sorveglianza installate nei punti commerciali della zona, ma nessuna di loro era puntata sulla zona dell’aggressione. Un testimone che avrebbe visto tutto, avrebbe detto di aver visto delle persone fuggire a bordo di una piccola utilitaria di colore scuro di cui non ricorda la marca. Ancora poco per dare un nome e un significato a tanta violenza.» A quell’ora del dì di festa ovviamente non potevano esserci tanti avventori del bar, nè, tantomeno, numerosi testimoni, ma parlare di omertà ad Avetrana fa notizia. Chi fa la professione di giornalista dovrebbe sapere che i curiosi, accorsi in massa, non possono essere definiti testimoni. Non si può parlare di omertà se la stessa vittima non ha potuto fornire notizie utili alle indagini, né tanto meno si può parlare di indagini. Le indagini vengono svolte alla notizia di reato e, a quanto pare, al momento del fatto il reato palesato (lesioni) era perseguibile per querela, che non vi è stata. E comunque l’indagine fatta bene, anche successivamente attivata per querela o denuncia per fatto più grave, i responsabili li trova. Nazareno Dinoi, come corrispondente del Corriere della Sera ha scritto sempre articoli su Avetrana dello stesso tenore quando riferiva sul caso di Sarah Scazzi, come tutti d’altronde. Rispetto agli altri, però, Dinoi è di Manduria, paese a 17 chilometri da Avetrana, non certo un canonico razzista settentrionale. Nazareno Dinoi, amico dei magistrati di Taranto è direttore de “La Voce di Manduria”, un giornalino locale di un paese vicino ad Avetrana. Il “mandurese” diffama indistintamente tutti gli avetranesi e non me ne spiego l’astio. Gli amministratori locali e la loro opposizione, poi, non sono capaci di difendere l’onore di Avetrana contro la gogna mediatica programmata sin dal 26 agosto 2010 e protratta da giornalisti da strapazzo sui giornali ed in tv. «La triste fine di Sarah Scazzi ha dato improvvisa notorietà al piccolo paese di Avetrana altrimenti sconosciuto ai più – scriveva già il 29 luglio 2015 il nostro Dinoi – Ha portato luce su un paese in ombra infastidendo chi vi abita. Ed è anche sugli avetranesi che il caso Scazzi si è contraddistinto per un’altra peculiarità: l’omertà, il visto e non visto, il non ricordo, il forse, il lo so ma non ne sono sicuro, il meglio farsi gli affari propri. Un popolo onesto che di fronte alla richiesta di coraggio si è tirato indietro. Anche in questo caso parlano i numeri e i dati: gli investigatori hanno ascoltato poco più di duecento persone, per la maggioranza avetranesi, poche hanno detto di aver visto qualcosa, nessuno si è presentato spontaneamente per aiutare la giustizia con l’amaro risultato che resterà negli annali delle cronache giudiziarie: dodici di loro sono stati indagati per falsa testimonianza o addirittura per favoreggiamento. Un record in negativo con cui Avetrana e gli avetranesi dovranno fare i conti.» Detto questo sui corsi e ricorsi storici ed a discolpa dei manduriani andiamo ad analizzare i fatti. «Chiederemo pene esemplari. Siamo di fronte a una violenza senza limiti». Lo ha detto al Tg1 il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo in merito alle aggressioni subite da Antonio Cosimo Stano da ragazzini tra i 16 e i 23 anni, tutti di Manduria. «L’intervento è stato tempestivo ma sarebbe stato ancora più tempestivo se chi sapeva avesse avvisato prima le forze dell’ordine – ha aggiunto – Saremmo intervenuti in tempo e oggi Stano sarebbe ancora vivo». «Se i bulli invece che con quel pover’uomo se la fossero presa con un cane, ci sarebbe stata la rivolta popolare. E invece tutti zitti, in un silenzio assordante che oggi mi lascia amareggiato. Quanto subiva Stano è stato chiuso e isolato in una casa, in una strada, in una comunità: un essere umano che abitava davanti a una parrocchia lasciato solo. Il prete ha detto di essere intervenuto più volte, ma perché non ha segnalato subito ai servizi sociali?». E’ lo sfogo, forte e appassionato, del prefetto Vittorio Saladino, uno dei tre commissari prefettizi di Manduria che, all’AdnKronos, parla di un “silenzio assurdo” che ha avvolto e cullato la brutalità delle aggressioni subite nel tempo. «Stano era sconosciuto ai servizi sociali perché nessuno, per quanto ne dicano oggi, ha mai fatto segnalazioni – aggiunge – La cosa strana è che il soggetto era preso di mira da tanto tempo e nonostante questo anche il responsabile dei servizi sociali ne era all’oscuro. Manduria tra l’altro è capofila nell’efficienza dei servizi sociali, è un paese ricco tra i primi posti di quelli con cittadini risparmiatori, preso di mira da turisti inglesi e tedeschi». Nessuna giustificazione, dunque, e l’annuncio: «Alla manifestazione di sabato 4 maggio per la legalità – ha detto Saladino – parteciperemo con il gonfalone come Commissione straordinaria. Le colpe le ha una comunità distratta, chiusa, coi giovani bombardati dai media e da episodi negativi. Come si fa a rendere oggetto di gioco un uomo, un soggetto indifeso?». Allora, Chi mente? Silvia Mancinelli 27 aprile 2019 Adnkronos. I vicini avevano segnalato, si erano rivolti alle forze dell’ordine per denunciare i soprusi, subiti troppo spesso da Antonio Cosimo Stano. La prova è in un esposto presentato al commissariato di Manduria e firmato da 7 residenti di via San Gregorio Magno, la stessa strada dove viveva il 66enne, e da don Dario. “Da alcune settimane, durante le ore serali e le prime ore del mattino – si legge in una prima denuncia – si stanno verificando diversi episodi di atti illeciti commessi da ignoti (circa 5/6 persone) a danno del signor Antonio Cosimo Stano”. “Nello specifico – si legge ancora – segnaliamo continui e reiterati danneggiamenti che tali ignoti stanno perpetrando a danno dell’abitazione (…) con lancio di pietre e oggetti vari al prospetto dell’abitazione e dando calci e colpi diretti alla porta d’ingresso e agli infissi della medesima casa”. Secondo quanto denunciato dai residenti, la vittima aveva confessato loro quanto stava subendo: “Il signor Stano, da quanto ci ha riferito, ha subito altresì vessazioni, soprusi e lesioni anche fisiche da parte di questi soggetti, i quali in una occasione sono anche riusciti a introdursi in casa. Tale condotta illecita, lesiva della sicurezza e della quiete pubblica, cagiona, inoltre, stati d’ansia, malessere e agitazione soprattutto nei minori residenti nel vicinato”. “In piena notte sentivamo urlare. Erano grida strazianti, terribili. La sera tardi e in piena notte. Mia moglie e con lei altri 7 residenti di via San Gregorio Magno e don Dario, ha così presentato l’esposto, per paura soprattutto, ma anche per tutelare quel povero Cristo”. A raccontarlo all’Adnkronos è Cosimo, che abita due cancelli più avanti rispetto all’abitazione di Stano, al civico 8. “Non tutti hanno voluto firmare, ma noi non ce la siamo sentita di restare inermi”. Cesare Bechis, Giusi Fasano su Corriere.it. 26 aprile 2019.  Era un uomo malato, Antonio. La sua mente era confusa e tutti, in paese, lo conoscevano come «il pazzo», «quello del Villaggio del fanciullo», dal nome dell’oratorio della chiesa di San Giovanni Bosco che sta proprio di fronte a casa sua. Dicono che fosse in cura al Centro di igiene mentale ma di fatto era abbandonato a se stesso, non seguito dai servizi sociali, come avrebbero richiesto le sue condizioni, né aiutato nella sua vita quotidiana dai parenti che vivono a un passo da lui. Si manteneva con la pensione che si era guadagnato lavorando all’arsenale di Taranto come operaio e tutti, a Manduria, sapevano che ormai da molti anni passava gran parte del suo tempo a coltivare la sua solitudine, aiutato in questo dalle sue condizioni psichiche. Le segnalazioni sono arrivate, ai servizi sociali. Ma lui è rimasto a casa sua, nella sporcizia e nell’indifferenza, sempre più isolato dal mondo. E i bulli hanno capito che era un bersaglio facile. Lo hanno preso di mira e lo hanno vessato senza pietà. I vicini di casa vedevano le bande arrivare, non sempre le stesse. L’ultima volta, prima di quel 6 aprile, dev’essere stata più dura del solito. Perché quando «quelli» se ne sono andati lui si è chiuso in casa e non è più uscito. Niente spesa, niente cibo, niente di niente pur di non incrociarli mai più. I vicini non l’hanno visto uscire e hanno avvisato la polizia. Gli agenti si sono appostati lì fuori nel tentativo di sorprendere qualcuno dei ragazzini ma quel giorno non si è visto nessuno e alla fine la parte più difficile dell’intervento è stato convincere lui, Antonio, ad aprire la porta per lasciarsi aiutare. Da allora in poi è stato in ospedale fino al giorno della morte, con gravi problemi fisici oltre quelli mentali. Nazareno Dinoi La Voce di Manduria venerdì 26 aprile 2019. Il povero Stano, insomma, era diventato (e così lo chiamavano nel branco), «il pazzo del Villaggio del fanciullo», dal nome dell’oratorio e della chiesa di San Giovanni Bosco situato proprio di fronte alla sua abitazione. La notizia degli indagati sta scuotendo le coscienze dei manduriani che si interrogano sul «come sia potuto accadere». Molto significativo è l’intervento di un educatore della parrocchia in questione, Roberto Dimitri che su Facebook ha pubblicato un lungo intervento che prova quanto le vessazioni e le violenze su Stano fossero conosciute da molti. Nel descrivere «un tessuto sociale che si sta deteriorando sempre di più», l’educatore confida le sue difficoltà di interagire con i ragazzi e poi ammette: «personalmente – scrive – ho ripreso tante volte i ragazzi che bullizzavano il signore, chiamato le forze dell’ordine e chiamando i genitori, ma senza risultati. Il Fatto Quotidiano. 29 Aprile 2019. Le aggressioni duravano da almeno sette anni, secondo i vicini: uno dei video sequestrati dalla procura risale al 2013. Eppure, stando a quanto emerso finora, nessun segnale è arrivato alle autorità su Stano, conosciuto in paese come “il pazzo del Villaggio del fanciullo”, in riferimento al nome dell’oratorio di fronte casa sua. “Mai ci è arrivata, né formalmente né informalmente, fosse almeno in maniera anonima, alcuna segnalazione su Antonio Cosimo Stano”, riferisce Raffaele Salamino, responsabile dei servizi sociali del comune di Manduria. “Sarebbe bastata una chiamata – aggiunge – e un assistente avrebbe preso in carico la cosa, coinvolgendo il servizio di igiene mentale”. Un anno e mezzo fa gli operatori del 118 intervennero su segnalazione della polizia davanti alla casa di Stano. L’uomo era a terra, con delle ferite alla testa. Forse, anche in quel caso, era stato preso di mira dai ragazzini. Il 66enne venne medicato sul posto perché, vinto dalla paura, rifiutò il trasporto in ospedale. Quindi già un anno e mezzo fa le istituzioni avevano conoscenza dei fatti e non sono intervenuti. Allora perché si continua a nascondere una omissione di atti di ufficio ed accusare la cittadinanza ed il clero di omertà? A due anni dalla morte di Sarah Scazzi Don Dario De Stefano sul suo profilo facebook il 25 agosto 2012 ha annunciato il suo trasferimento alla parrocchia di San Giovanni Bosco a Manduria. Avetrana in segno di disapprovazione ha reagito. Una raccolta di migliaia di firme tenta di far smuovere il vescovo di Oria dalla sua decisione di trasferire Don Dario De Stefano, il parroco della parrocchia Sacro Cuore di Avetrana. Sua destinazione la parrocchia di San Giovanni Bosco a Manduria. Don Dario va via, viva Don Dario e fortunati quei manduriani che lo avranno come parroco. Non è una nota stampa, né un commento ad un fatto di cronaca, ma un ringraziamento pubblico a Don Dario De Stefano, parroco della parrocchia del Sacro Cuore di Avetrana e futuro parroco della parrocchia di San Giovanni Bosco a Manduria. Lo faccio io che dovrei essere l’ultimo a farlo, in quanto molto cristiano sì, ma poco frequentante le chiese. Anche se non c’è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Eppure non frequento molto la sua casa perché si accompagnano a Gesù in quei posti cattive compagnie. Laici peccatori che sulle panche consacrate sembrano angioletti che con un piccolo obolo si lavano la coscienza od usano le amicizie ivi coltivate a fini elettorali. E’ vero: il parroco raccoglie le pecorelle smarrite, ma mi trovo in disagio a frequentare interi greggi di ovini smarriti. Don Dario è un personaggio votato alle iniziative sociali, ma non alle lotte sociali. Eppure sono convinto che Don Dario, nonostante abbia nessun rapporto con me, merita di essere ringraziato. Una mia poesia dialettale contiene queste strofe:

“Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè quistu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.”

Bene! Don Dario al suo arrivo era un giovane di Oria ambizioso, tenace, diplomatico fino ad un certo punto e con tanta voglia di fare. Io che guardo l’aspetto materiale, ossia i fatti, elenco alcune delle sue opere che resteranno alla storia sua e di Avetrana. Opere che vanno oltre la competenza parrocchiale, di cui tutta Avetrana ne ha tratto benefici: il rinnovo della sua chiesa e la costruzione del campanile, l’oratorio dove i giovani si educano e passano il loro tempo libero; i campi scuola; “il presepe vivente”; “la grande calza della Befana”; la squadra di calcio di Avetrana; la festa compatronale di Sant’Antonio; “Certe notti qui…”, ossia la “Notte Bianca”: evento agostano dove Avetrana per una notte è invasa dai turisti estasiati da decine di piccole e grandi manifestazioni culturali, culinarie, musicali, ecc…Non dimentichiamoci che ha gestito anche le funzioni religiose per la povera Sarah Scazzi ed avrebbe potuto fare di più se non fosse che la madre di Sarah è dei Testimoni di Geova ed il vescovo ha evitato inutili polemiche con nuove iniziative in suo ricordo. Questo è solo piccola cosa di quanto lui abbia fatto per la sua parrocchia e per tutta Avetrana. Non è stato facile per Don Dario fare tutto ciò in un piccolo paese con piccole vedute, molte maldicenze e con il braccino corto, specie da parte degli imprenditori che fanno affari con gli eventi organizzati da Don Dario.

Non sono mancati sin dall’inizio tra i suoi fedeli fazioni contrarie che spinte da gelosie prima hanno cercato di allontanarlo, per poi, non riuscendoci si sono allontanati loro stessi. Così come Don Dario è stato frenato e si è scontrato con degli amministratori poco illuminati e spesso incapaci a sostenere le sue o le altrui iniziative. Così come è stato vittima dei contrasti politici tra le avverse fazioni.

Intanto, a parità di fondi finanziari gestibili, ha fatto più Don Dario (orietano) in nove anni che tutti i politici avetranesi messi insieme per tutta la loro vita. Lui ha tirato dritto. Si è accompagnato con giovani fidati che lui stesso ha cresciuto. (In nove anni i bambini diventano ragazzi). Naturalmente lui ha i suoi pregi, ma anche i suoi inevitabili difetti, che sono infimi e non si notano pensando alla sua instancabile operosità. Avetrana perderà un attivissimo parroco, nella speranza che il nuovo, con la scomoda eredità, non lo faccia rimpiangere. Ecco perché a lei ed ai suoi lettori, per i passati di Don Dario posso dire: Don Dario va via, viva Don Dario e fortunati quei manduriani che lo avranno come parroco. E pensate un po’ cosa sarebbe una diocesi guidata da gente come lui……..

Il parroco di Avetrana che, come spiega Nazareno Dinoi su “La Voce Di Manduria”, smaschera i difensori “preventivi”. Don Dario De Stefano è furioso. Qualcuno gli ha fatto leggere il suo nome su un articolo che lo indica come colui che ha segnalato alla famiglia Misseri, per la difesa di Sabrina, l’avvocato del foro di Taranto, Vito Russo. «Io ho consigliato chi? Assolutamente no. Non conosco questo avvocato», commenta il sacerdote visibilmente contrariato.

Rilegge la notizia e la pressione gli alza. «Ecco un’altra delle cose che non mi piacciono di questa storia, ormai non se ne può più», sospira don Dario il cui volto è stato tra quelli più diffusi nei primi giorni della scomparsa di Sarah Scazzi. Da qualche settimana però, il parroco di Avetrana, fugge ai mezzi d’informazione perché, si dice, la curia vescovile di Oria ha consigliato di tenersi lontano dal circolo mediatico. Non può però tacere o celare la rabbia e, seppure con molto risparmio di parole, si lascia sfuggire dei commenti.

«Come si chiamerebbe questo avvocato? Russo? E di dov’è, chi lo ha mai conosciuto?». Il nome e il volto del legale, ben noto oggi grazie alle trasmissioni televisive, era saltato fuori all’improvviso la mattina del 15 ottobre quando la villa dei Misseri fu circondata dai carabinieri del Ris, inquirenti e investigatori che indagano sulla morte della quindicenne. Via Deledda fu dichiarata off limit e a nessuno fu consentito avvicinarsi al luogo delle operazioni.

Nemmeno all’avvocato Russo che con la sua grossa auto fu invitato da un carabiniere ad attendere poco distante da lì. Qualche giornalista lo riconobbe così il suo nome cominciò a circolare senza che nessuno riuscisse a spiegarsi la ragione della sua presenza.

Anche l’avvocato Daniele Galoppa, il giorno dopo, difensore della controparte, Michele Misseri, si chiedeva come mai il suo collega il giorno prima si trovasse a venti metri da via Deledda se Sabrina, sua futura assistita, non era stata nemmeno interrogata né poteva sapere che dodici ore dopo sarebbe stata addirittura arrestata per la confessione del padre che coinvolgeva nel delitto. In effetti fu lo stesso avvocato Russo, successivamente, a dichiarare pubblicamente che la sua venuta ad Avetrana era stata caldeggiata dal suo «amico don Dario». Il religioso, però, è pronto a smentire.

«Per favore non mi mettete in mezzo a queste cose, per questi comportamenti mi rifiuto di rilasciare interviste, questo modo di fare non mi piace proprio». E non che le richieste siano poche. «Sto dicendo di no a tutti e mi dispiace perché per colpa di pochi debbano patire tutti», afferma don Dario che torna sull’argomento.

«Questa notizia dell’avvocato o è una sua invenzione o un’invenzione del giornalista». L’avvocato Russo, informato del risentimento del parroco, spiega meglio e raddrizza il tiro. «Come? Don Dario non mi conosce? Ho qui i tabulati di due telefonate che personalmente gli ho fatto il giorno prima il mio arrivo ad Avetrana», informa il legale non spiegando, però, il contenuto e il tono di quelle conversazioni».

Si accusa una comunità di omertà. Perche? Perché è molto facile accusare una comunità di omertà. Ma non è omertà, è solo assuefazione al disservizio. Perché, come è ampiamente dimostrato, ma non dai media asserviti al potere, è inutile denunciare: o le indagini si insabbiano o i responsabili restano impuniti.

Questa è l’Italia e tutti lo sanno, ma fanno finta di ignorarlo.

INTERROGAZIONE A RISPOSTA ORALE 3/00826 presentata da ZAMPARUTTI ELISABETTA (PARTITO DEMOCRATICO)

Atto Camera Interrogazione a risposta orale 3-00826 presentata da ELISABETTA ZAMPARUTTI lunedì 4 gennaio 2010, seduta n.262

ZAMPARUTTI, BELTRANDI, BERNARDINI, FARINA COSCIONI, MECACCI e MAURIZIO TURCO. - Al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che: l'ex boss della Sacra Corona Unita Vincenzo Stranieri, oggi 49enne, aveva 24 anni quando fu arrestato nel 1984 e, da allora, non è più uscito dal carcere dove sta espiando - secondo il provvedimento di cumulo pene emesso l'11 aprile del 2007 dalla procura generale della Repubblica di Taranto - la pena complessiva di anni 29, mesi 4 e giorni 3 di reclusione per associazione per delinquere di stampo mafioso, associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, sequestro di persona a scopo di estorsione, estorsione ed altro (non sta scontando ergastoli, quindi, nè ha condanne per omicidio); già affiliato alla camorra di Raffaele Cutolo e passato alla Sacra Corona Unita di Pino Rogoli quando era già in carcere, Stranieri ha ancora un sospeso con la giustizia che riguarda il processo nato dall'inchiesta cosiddetta «Corvo» dove e' imputato a piede libero per un contrabbando di tabacchi lavorati esteri (niente a che fare con l'associazione mafiosa), contrabbando al quale secondo l'accusa avrebbe partecipato da dentro il carcere ristretto in regime di 41-bis; Vincenzo Stranieri, attualmente detenuto nel supercarcere di L'Aquila, è sottoposto ai regime di cui all'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario ininterrottamente da 17 anni, cioe' dal momento della sua istituzione avvenuta nell'agosto del 1992; il 3 dicembre 2009, con decreto del Ministro della giustizia, a Stranieri è stata notificata l'ennesima proroga del regime di carcere duro, motivata con una formula che negli anni si è ripetuta sempre la stessa: «non risulta sia venuta meno la sua capacità di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell'organizzazione criminale di appartenenza»; oltre alle note informative e alle segnalazioni degli organi investigativi e giudiziari che di decreto in decreto si ripetono nell'ultimo provvedimento applicativo del 41-bis compare una «novita'» segnalata dalla direzione distrettuale antimafia (DDA) di Lecce che secondo il Ministro Guardasigilli sarebbe indicativa tra le altre della capacità di Vincenzo Stranieri di mantenere i rapporti con la criminalita' organizzata; nella suddetta nota, la DDA di Lecce si esprime testualmente come segue: «Da segnalare infine il tentativo di intervista a Stranieri da parte di un giornalista di quotidiano a tiratura nazionale che potrebbe veicolare notizie, informazioni e messaggi che il detenuto ben potrebbe articolare proprio in risposta allo schema di domande predisposto dal giornalista ed inviatogli per lettera, non consegnatagli a seguito di provvedimento di non inoltro da parte del Magistrato di sorveglianza di Milano in data 13 ottobre 2008 (nonostante l'interessamento di "persone sempre piu' influenti" che il giornalista avrebbe interessato per incontrare Stranieri, evidentemente con scarso successo!). Secondo tale schema, Stranieri avrebbe dovuto, tra l'altro, indicare "con quale degli imputati dei primi processi a Lecce e Brindisi mantenesse rapporti epistolari", se "avesse letto il libro di Antonio Perrone" (esponente fin dal primo momento della S.C.U. della zona a Nord di Lecce, avente influenza nella città di Trepuzzi, condannato all'ergastolo per omicidio, oltre che per il delitto di cui all'articolo 416-bis c.p., e autore di un libro sulla vita della S.C.U. e sulle modalità della sua partecipazione ad essa), se abbia letto "quello di Salvatore Mantovano" ed il giornalista aggiunge se abbia saputo che l'autore e' stato ucciso (ma sbaglia il cognome perche' la persona in questione si chiama Padovano, detto Nino Bomba, esponente "storico" e di primo piano della criminalita' mafiosa salentina, affiliato alla Sacra Corona Unita e "responsabile" del territorio di Gallipoli, autore di un libro sulla condizione carceraria, ucciso il 6 settembre 2008 su mandato del fratello Rosario per conflitti all'interno della famiglia "naturale" e di quella "mafiosa" di appartenenza di entrambi). E infine il giornalista chiede a Stranieri "quali personaggi pubblici o politici o cosiddetti vip (ammesso che Manduria ne abbia mai avuti) ricordi dopo tanti anni di assenza da Manduria". Si ritiene, pertanto, che nei confronti Stranieri Vincenzo debba essere mantenuto il regime di sospensione delle regole del trattamento penitenziario di cui all'articolo 41-bis...»; un giornalista in questa vicenda esiste effettivamente e agli interroganti risulta essere Nazareno Dinoi, corrispondente da Lecce e Taranto del Corriere del Mezzogiorno (inserto pugliese del Corriere della Sera) e coautore con Vincenzo Stranieri del libro di prossima pubblicazione «Dentro una vita», con prefazione del segretario di Nessuno tocchi Caino Sergio D'Elia, nel quale l'ex boss di Manduria racconta la sua storia da delinquente e, poi, di detenuto da 17 anni al carcere duro; agli interroganti risulta altresi' che Nazareno Dinoi, nella primavera del 2008, in previsione della scrittura del libro, avrebbe avanzato al Ministero della giustizia formale richiesta di incontrare in carcere Vincenzo Stranieri e, ricevutane risposta negativa, avrebbe deciso di procedere per via epistolare, sempre qualificandosi ed esplicitando le finalità del carteggio -: se il giornalista di cui si riferisce nella nota della DDA di Lecce corrisponda al nome di Nazareno Dinoi e se corrisponda al vero che il giornalista abbia avanzato al Ministero della giustizia richiesta di incontrare in carcere Vincenzo Stranieri e, in seguito, deciso di intrattenere con lui un rapporto epistolare finalizzato alla scrittura di un libro sulla storia dell'ex boss di Manduria; in tal caso, se non intenda accuratamente verificare che i «dati» e i «fatti» indicativi dell'attualità dei collegamenti di Stranieri con la criminalità organizzata segnalati dalla DDA di Lecce siano tali da giustificare la permanenza ancora, dopo 17 anni, del detenuto in regime di carcere duro. (3-00826)

Da vigilante a killer: uccide la moglie. Nadia Muratore l'8 Maggio 2021 su Il Giornale. L'assassino è una guardia giurata: ha atteso la donna e l'ha freddata con 8 colpi. L'ha attesa sul pianerottolo, davanti alla porta del suo appartamento e quando l'ex moglie è arrivata dal lavoro e con le borse della spesa in mano, le ha sparato otto colpi di pistola, dei quali cinque sono andati a segno. Senza un ripensamento, né una parola ha solo premuto il grilletto, Massimo Bianco - 50 anni, originario di Brindisi ma da anni residente a Torino dove lavora come guardia giurata -, poi è passato davanti al corpo di Angela D'Argenio, 48 anni, originaria di Manduria nel Tarantino ed è tornato nel suo appartamento, al piano di sopra, dove è rimasto fino a quando gli agenti della Polizia di Stato lo hanno arrestato con l'accusa di omicidio. Prima della raffica di colpi, sparati con la pistola - una Smith&Wesson semiautomatica - detenuta legalmente (era l'arma che l'uomo aveva per lavoro di guardia giurata), una donna che abita nello stesso condominio di via Novara ha sentito i toni accessi di una lite tra i due. Sposati da quasi trent'anni, Angela a dicembre dell'anno scorso, aveva deciso di porre fine al loro matrimonio, ed infatti lui si era trasferito, affittando un alloggio al piano superiore dello stesso condominio. Un modo per non allontanarsi del tutto da lei e anche, aveva detto Massimo agli amici, per stare più vicino al figlio minore di 16 anni che abitava con la mamma. La coppia aveva anche una figlia più grande, di 25 anni, già sposata e che li aveva resi nonni pochi mesi fa. Massimo però non aveva accettato di buon grado la decisione dell'ex moglie e le discussioni tra di loro, erano pressoché quotidiane. Nonostante gli otto colpi sparati a bruciapelo, quando in corso Novara, sono arrivati i soccorsi, attivati dai condomini, Angela respirava ancora ma è morta pochi attimi dopo essere stata ricoverata al pronto soccorso dell'ospedale. «Sapevo che Massimo non si rassegnava alla fine del suo matrimonio - racconta una amica di Angela -. Lei mi raccontava che spesso l'attendeva sull'uscio di casa ed ogni motivo era buono per innescare una discussione o per entrare nell'appartamento, con la scusa di vedere il figlio. Angela, però non sembrava aver paura di lui, e non ha mai pensato ad una sua reazione violenta. Io invece ero terrorizzata: più volte le avevo detto di fare attenzione, perché comunque Massimo aveva sempre la sua pistola di ordinanza».

Femminicidio a Torino, anche l'omicida è di Manduria. I ricordi dei parenti di Angela. "Lei non aveva paura del marito". La coppia dopo il matrimonio si era trasferita da Manduria in Piemonte per lavoro. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria domenica il 09 maggio 2021. «Mi diceva di non aver paura perché con lei il marito non era stato mai violento e che non le avrebbe mai fatto del male». Quanto si sbagliava Angela Dargenio quando assicurava questo ad un suo cugino qualche settimana prima che quell'uomo «non violento» le scaricasse addosso la Smith & Wesson uccidendola sul pianerottolo di casa a Torino. Giuseppe Agnusdei, uno dei tanti parenti della vittima di femminicidio, ricorda quelle parole con un profondo senso di angoscia. «Ogni mattina ci mandavamo il buongiorno con WhatsApp e il suo ultimo buongiorno cuginone mi è arrivato proprio venerdì», ricorda il cugino che qualche mese fa, parlando con lei della separazione dal marito, si era preoccupato che non ci fossero tensioni tra i due. «Non ti preoccupare cugì, lui abita nel mio stesso palazzo ma è una persona tranquilla», aveva detto la donna. «Comunque se hai bisogno di qualsiasi cosa chiamami che faccio intervenire i miei nipoti che vivono a Torino», aveva insistito Agnusdei prima di chiudere la telefonata. «Forse avrei dovuto insistere - dice oggi - ma mi sembrava molto serena e convinta di quello che diceva», ripete Agnusdei che non è l'unico a Manduria ad aver mantenuto rapporti a distanza con la parente che appena sposata aveva deciso con il marito, Massimo Bianco, anche lui manduriano, di trasferirsi a Torino per lavoro dove avevano cresciuto i loro due figli, Eleonora di 26 anni e un altro di sedici anni. A Manduria vivono molti parenti, la madre, due sorelle e un fratello di lei e numerosi cugini; solo qualche cugino e due cognati lui che ha perso entrambi i genitori e due fratelli morti prematuramente. I suoi ex amici lo ricordano tutti come un «tipo introverso che tendeva ad isolarsi ma molto buono». «Sicuramente non uno che avrebbe potuto fare una cosa simile», dichiara uno che lo ha conosciuto bene quando faceva il muratore a Manduria. Lavoro che ha fatto anche a Torino nei primi anni del suo trasferimento prima di trovare il posto come guardia giurata nell'istituto di vigilanza che da poco lo aveva messo in cassa integrazione. La separazione dalla moglie non l'avrebbe presa bene ma il loro rapporto, forte anche della presenza dei due figli, era apparentemente tranquillo. Per non disperdere la famiglia, il vigilante aveva deciso di abitare in un appartamento situato al quinto piano della stessa palazzina dove su un altro piano abitava anche la figlia Eleonora con il suo compagno e un figlio molto piccolo. Il sedicenne, invece, viveva con la madre. Sul movente del folle gesto ci sono solo ipotesi. Nel suo interrogatorio avvenuto negli uffici della questura torinese subito dopo l'omicidio, l'uomo, frastornato e in lacrime, avrebbe fatto accenno a un altro uomo e avrebbe parlato anche di discussioni avute con l'ex moglie relative ai soldi di mantenimento per i figli. Naturalmente niente potrà mai giustificare il delitto consumato sul pianerottolo di quel condominio dove il 50enne ha atteso l'arrivo della moglie che era andata a fare la spesa. Quando è arrivata, la donna ha preso l'ascensore sino al terzo piano dove all'uscita ha trovato il suo ex che l'ha freddata con cinque colpi della pistola d'ordinanza. «Marcisca in prigione per il male che ha fatto, che muoia da solo» - ha detto la figlia Eleonora uscendo dalla questura di Torino dove era stata portata per le formalità di rito. Nazareno Dinoi

Non basta raccogliere i bisogni del cane: ora è obbligatorio anche ripulire il suolo con l'acqua. Ordinanza del Comune: multe fino a 500 euro. Nazareno Dinoi su quotidianodipuglia.it Domenica 11 Aprile 2021. Da qualche giorno per portare a spasso il proprio cane per le vie di Manduria, non basta munirsi di sacchetto per la raccolta dei ricordini solidi che lascia l'amico peloso, ma bisogna portarsi dietro anche una bottiglia con dell'acqua per sciacquare il terreno. Lo stabilisce un'ordinanza firmata dal sindaco della città Messapica, Gregorio Pecoraro, che si appella a motivi di natura igienica sanitaria ma non solo.

Il provvedimento. La misura, spiega l'atto sindacale, è necessaria anche a dare risposta alle numerose proteste di cittadini che lamentano la presenza di materiale organico e liquido animale su marciapiedi, piazze e luoghi pubblici in genere. Fenomeno mal tollerato da molti ed esistito da sempre che in questo periodo di lockdown sta moltiplicando i suoi effetti per l'aumento delle uscite dei cani anche in orari insoliti e ripetuti più volte al giorno. Ed ecco quindi l'ordinanza che impartisce dettagliatamente le regole che devono rispettare i proprietari di cani o loro custodi: tutti sono obbligati alla «raccolta immediata degli escrementi solidi dell'animale ed il loro regolare smaltimento nonché la pulizia del suolo, mediante getto d'acqua, a seguito di urina canina». Oltre al guinzaglio e alla museruola, dunque, prima di portare a spasso l'animale a quattro zampe, l'accompagnatore non dovrà dimenticare gli strumenti per la raccolta e smaltimento e il contenitore dell'acqua. Bisogna insomma ricordarsi, si legge nell'ordinanza, «di essere sempre forniti di strumenti idonei a raccogliere eventuali deiezioni prodotte dai loro animali, quali sacchetti o apposita paletta nonchè opportuni contenitori d'acqua (bottiglie) per bagnare adeguatamente l'urina canina nell'immediatezza dell'espletamento del bisogno fisiologico». Vale sempre l'obbligo, specifica l'imposizione del sindaco, «sull'utilizzo del guinzaglio di una misura massima pari a metri 1,50 e museruola durante la conduzione dell'animale nei luoghi pubblici o di uso pubblico e di assicurare che il cane abbia un comportamento adeguato alle specifiche esigenze di convivenza con persone ed animali rispetto al contesto in cui vive». Le sanzioni previste per chi non rispetta queste regole prevedono multe da 25 a 500 euro. «Alla immediata rimozione delle deiezioni canine - chiarisce ancora l'ordinanza -, sono esentati i non vedenti accompagnati da cani guida e particolari categorie di persone con disabilità impossibilitate ad eseguirne la raccolta. Sono fatte salve le sanzioni previste dal vigente Codice Penale in materia di maltrattamento e malgoverno degli animali e comunque dalla normativa vigente in materia».

La campagna di sensibilizzazione. L'ordinanza che richiama una precedente pubblicata nel 2016 da un'altra amministrazione ma di fatto mai applicata, non è stata adeguatamente diffusa tra la popolazione ma solo pubblicata sull'albo pretorio dell'ente. Un principio di campagna di sensibilizzazione sui corretti comportamenti di chi possiede animali da affezione, è comparsa qualche giorno fa sulla piazza Giovanni XXIII, una delle aree a verde della cittadina, dove sono stati affissi dei cartelli che vietano l'ingresso nelle aiuole degli animali accompagnati e obbligano i padroni a raccogliere gli escrementi che i loro amici a quattro zampe lasciano lungo il cammino.

Michele Dinoi impiccato nel cappuccio della sua felpa (la foto del luogo della tragedia). I familiari non credono alla ricostruzione degli inquirenti. La Voce di Manduria venerdì 12 febbraio 2021. «L’impossibilità di ricostruire lo svolgimento del fatto non consente di formulare un’accusa sostenibile in giudizio». Con queste parole il gip del tribunale di Taranto, Rita Romano, ha chiuso definitivamente il caso sulla misteriosa morte di Michele Dinoi, il diciottenne manduriano trovato in fin di vita la sera del 27 dicembre del 2017 nella veranda esterna di casa. E sono queste parole che per i suoi familiari, il padre Damiano e la sorella Martina, l’archiviazione diventa ancor più insopportabile. I due, che durante i tre anni delle indagini si sono fatti assistere dall’avvocatessa Sara Piccione, trovano inspiegabile tante cose ma soprattutto la dinamica indicata come causa dell’asfissia che ha causato poi il coma irreversibile e la morte di Michele dopo sei mesi di ricovero. Ricostruzione che nemmeno gli investigatori sono riusciti a farla con convinzione aggiungendo ai fatti delle ipotesi presuntive. «Non è stato possibile – ammettono gli inquirenti – chiarire la dinamica dell’evento, atteso che può lasciar perplessità l’ipotesi che il fatto sia stato causato da una caduta accidentale o da un malore improvviso». Secondo i magistrati e i periti incaricati, nella caduta dovuta a qualsiasi causa, la testa di Michele si sarebbe infilata, da sola, tra i decori in ferro della ringhiera mentre il cappuccio della felpa che indossava si sarebbe agganciato in qualche punto strozzandolo. I familiari insistono e non credono alla possibilità di una caduta ma soprattutto che la testa da sola si possa essere infilata nella struttura bassa poco più di ottanta centimetri dal terreno. E mostrano la foto dell’inferriata dove in effetti si fa fatica a pensare che la testa possa essersi introdotta e rimanere appesa al cappuccio della felpa. Stessi dubbi si pone l’avvocato della madre di Michele (i suoi genitori sono separati) che nella opposizione alla richiesta di archiviazione avanzata dal piemme, ipotizza senza esitazioni che ad infilare la testa del ragazzo nell’inferriata sia stato un suo amico di cui si fa il nome: «che avesse lui stesso infilato la testa di Michele nella ringhiera per spaventarlo e la cosa gli fosse sfuggita di mano?». In effetti nella triste storia di Michele ruotano personaggi oscuri e storie inquietanti di debiti e di droga, di comportamenti strani di amici e conoscenti, di strani messaggi fatti arrivare alla sorella dopo la tragedia. Dalla morte del ragazzo è nata una inchiesta parallela che ha permesso ai carabinieri di indagare nove giovani manduriani accusati di traffico e spaccio di sostanze stupefacenti.

Il giallo sulla morte di Michele Dinoi: gli ultimi quattro minuti raccontati dall'amico. La ricostruzione degli ultimi momenti di vita del diciottenne. La Voce di Manduria sabato 13 febbraio 2021. Sono molti i lati oscuri sulla morte dei Michele Dinoi il diciottenne manduriano finito in un giro di cattive amicizie e di droga trovato in fin di vita la sera del 27 dicembre del 2017 e morto tre mesi dopo in ospedale senza aver mai ripreso conoscenza. Il mistero più grande è quello della dinamica della causa della morte: asfissia da strangolamento con la testa infilata tra le sbarre del parapetto della veranda di casa. Per la magistratura che ha archiviato il caso si è trattato di una caduta accidentale o di un malore. Per i familiari che contestano la chiusura del caso senza responsabili, la testa non sarebbe mai potuta entrare da sola in quegli spazi della ringhiera, ma a farlo sarebbe stato qualcuno durante una colluttazione. Un’aggressione improvvisa, inaspettata e durata pochi minuti, quattro per la precisione, tempi certi, questi, stabiliti dall’ultima telefonata che la vittima ha ricevuto da un suo amico e vicino di casa che lo doveva raggiungere e che è stato il primo a trovarlo in quella stranissima posizione con la testa infilata nell’inferriata. Ecco il drammatico racconto nella trascrizione del suo interrogatorio fatta dai carabinieri di Manduria il giorno dopo l’accaduto. «Poiché abbiamo l’abitudine di vederci ogni sera, ieri sera verso le 23 l’ho contattato telefonicamente e, poiché dovevamo vederci, mi riferiva che si trovava a casa sua, precisamente nella veranda esterna e mi chiedeva di raggiungerlo lì». Il suo amico che si trovava nella villa comunale si congedò dalla fidanzata e s’incamminò per raggiungere Michele. Ed ecco i tempi scanditi dalle telefonate entro cui in quella verandina è successo qualcosa. «Lasciavo la mia ragazza in villa – racconta l’amico - e, a piedi, mi incamminavo verso casa. Durante il tragitto, alle ore 23,12 ho ricontattato telefonicamente Michele dicendogli che stavo per raggiungerlo e lui mi diceva che mi stava aspettando fuori nella veranda. Arrivato nelle vicinanze di casa, a circa cento metri di distanza, alle ore 23,16, l’ho richiamato senza però ricevere alcuna risposta». Michele era già privo di sensi e morente in quella strana posizione in cui è stato trovato subito dopo. Prosegue il racconto. «Sono arrivato sotto casa sua e con stupore ho visto che Michele giaceva per terra all’interno della veranda, disteso in avanti con la testa infilato tra la ringhiera e privo di sensi». Ho cercato di chiamarlo e di scuoterlo ma egli non rispondeva e non dava alcun segno di vita». Il testimone riferirà ai carabinieri che «nelle due chiamate in cui Michele mi ha risposto ho avuto modo di constatare che egli era sereno». Cosa sia successo in quei quattro minuti di apparente serenità se lo chiedono i familiari e se lo son chiesto per tre anni i carabinieri che hanno indagato senza trovare niente che provasse la responsabilità per quell’assurda morte ma riuscendo, grazie alle intercettazioni dei sospettati, a scoprire un traffico di droga individuando 9 indagati, quasi tutti giovanissimi.

Si è spento Pier Luigi Parlatano, Manduria perde un grande avvocato e un politico d'altri tempi. Aveva 89 anni. La Voce di Manduria giovedì 05 agosto 2021. Si è spento all’età di 89 anni l’avvocato Pier Luigi Parlatano, decano manduriano della toga. Era malato, se n’è andato serenamente nella sua storica casa nella centralissima Piazza Garibaldi di Manduria. Lascia al figlio Davide con il quale divideva lo studio legale, l’eredità da giurista. E’ stato un serio e capace professionista e un grande politico della cosiddetta prima Repubblica quando ha ricoperto cariche di amministratore sempre di opposizione. L’avvocato Pier Luigi Parlatano nasce a Manduria il 30 novembre 1931, consegue la maturità classica al liceo “Palmieri” di Lecce, e poi la laurea in giurisprudenza all’Università degli Studi di Bari. Comincia così la pratica professionale come praticante procuratore legale nello studio del padre Davide, anche lui avvocato e nel 1968 si iscrive nell’albo forense di Taranto.  Nel 1977 diviene avvocato patrocinante in cassazione. Il 5 gennaio 1982, in considerazione di particolari benemerenze, riceve dall’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, l’onorificenza di cavaliere dell’ordine al merito della Repubblica italiana. Nel 2005 viene insignito della toga d’oro presso il tribunale di Taranto. I funerali si terranno domani, 7 agosto, alle ore 10 con cerimonia religiosa nella chiesa Madonna del Carmine (Piazza Garibaldi). La redazione de La Voce di Manduria esprime cordoglio alla famiglia Parlatano.

L’omaggio degli avvocati con la toga dietro al feretro di Parlatano. L'ultimo saluto al decano dei legali manduriani. La Voce di Manduria sabato 07 agosto 2021. Ci saranno tantissimi avvocati manduriani e di altri comuni questa mattina alle dieci a rendere omaggio a Pier Luigi Parlatano, decano manduriano della toga che si è spento l’altro ieri sera all’età di 89 anni. Una quarantina di suoi colleghi sfileranno dietro al feretro indossando la toga in segno di rispetto della lunga professione del loro collega che lascia l’eredità al figlio Davide e alla nuora Daniela, entrambi avvocati, cui toccherà portare avanti la tradizione di famiglia. Il papà di Pierluigi, Davide Parlatano, era anche lui avvocato, tra i primi professionisti togati della Puglia. Pier Luigi che a novembre avrebbe compiuto 90 anni, è stato un serio e capace professionista e un grande politico della cosiddetta prima Repubblica ricoprendo in quel contesto diverse cariche elettive con il Movimento Sociale Italiano. La messa funebre sarà celebrata nella chiesa della Madonna del Carmine in Piazza Garibaldi a due passi dal suo studio e dalla sua storica abitazione con l’inconfondibile veranda con i tre archi e quattro colonne. Manduria perde un grande uomo e un capace professionista.

Si è spenta Maria Calò, grave perdita per Manduria. Oggi pomeriggio nella sua casa. La Voce di Manduria giovedì 11 febbraio 2021. Tragica scomparsa oggi pomeriggio di Maria Calò, conosciutissima avvocatessa manduriana e donna impegnata nel sociale e nella politica dove ha ricoperto diversi ruoli e incarichi anche istituzionali. Ha iniziato a fare politica nel vecchio Pci ed ha poi fatto un lungo e intenso percorso politico sempre nella sinistra sempre con ruoli dirigenziali. E' stata consigliera comunale dei Progressisti nella prima sindacatura di Gregorio Pecoraro ed ha partecipato all'ultima campagna elettorale delle amministrative nella coalizione di centrosinistra in appoggio al candidato sindaco Domenico Sammarco.  E’ morta improvvisamente per il ritorno di un male di cui aveva sofferto e che si sarà ripresentato non lasciandole scampo. Si è spenta oggi pomeriggio nella sua casa a Manduria. Era vedova e lascia tre figli. I suoi funerali si terranno domani pomeriggio, venerdì 12 febbraio, alle ore 14 nella chiesa madre. Manduria perde una professionista e una donna impegnata sempre a difesa dei più deboli e dalle doti umane eccezionali. La direzione e tutta la redazione de La Voce di Manduria saluta una compagna unica e insostituibile. 

All’ufficio cittadino del Codacons si sono già rivolti numerosissimi automobilisti sicuri di aver rispettato il codice e soprattutto l’orario. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria giovedì 04 febbraio 2021. Decine e decine di multe per violazione al codice della strada sono state notificate e continuano ad arrivare agli indirizzi di automobilisti sanzionati per aver violato la zona a traffico limitato di Manduria. Tutte le contravvenzioni, nessuna esclusa, hanno una particolarità: la presunta violazione è avvenuta sempre negli ultimi venti minuti prima che finisse il divieto. Per cui si sospetta che il meccanismo a tempo che fa scattare il libero transito, impostato alle 13 e alle 22 dei giorni prefestivi e festivi, si sia starato e che viaggi con almeno mezzora di ritardo rispetto all’orario naturale. Sarebbe accaduto quindi, e probabilmente sta accadendo tuttora, che il passaggio dell’autovettura entro i trenta minuti dopo il semaforo verde abbia fatto scattare la foto alla targa per via dello sfasamento delle lancette interne al cosiddetto «varco intelligente». All’ufficio cittadino del Codacons si sono già rivolti numerosissimi automobilisti sicuri di aver rispettato il codice e soprattutto l’orario. Il responsabile dello sportello locale dell’organismo di difesa del consumatore, avvocato Antonio Casto, ha già predisposto i primi ricorsi di automobilisti ed altri si stanno accodando per farlo. A sollevare il problema, facendo via via venire il dubbio ad altri multati, è stato un manduriano che su Facebook aveva raccontato la sua storia chiedendo se ci fossero altri che come lui avevano ricevuto la multa entro quella fascia d’orario. Il social ha fatto così da cassa di risonanza facendo emergere «il caso»: decine di storie simili di automobilisti sicuri di essere passati dopo la fine del divieto, molti che hanno già pagato entro i cinque giorni dalla notifica per usufruire dello sconto, altri ancora con la multa in mano intenzionati ad andare avanti. C’è stato anche chi ha svolto delle indagini personali dimostrando, con delle foto, di trovarsi con l’auto in un posto lontano venti chilometri da Manduria quando l’obiettivo della Ztl lo aveva immortalato. Via via il fenomeno è diventato diffusissimo tanto da spingere l’agenzia Unipol Sai di Manduria ad offrire un’assistenza ad hoc ai propri assicurati vittime della Ztl ritardataria, diffondendo questo annuncio: «Nei giorni scorsi a Manduria sono state recapitate decine di multe “dubbie” per violazione della Zona a traffico limitato. Tutti i nostri clienti RcAuto con dispositivo Unibox (scatola nera) possono richiedere alla nostra compagnia un report dettagliato dei movimenti del proprio veicolo, utile per dimostrare di no aver commessi l’infrazione e poter quindi contestare il verbale ricevuto». I primi esperimenti pare abbiano dato il risultato sperato. È il caso di un automobilista che interrogando il sistema di tracciamento Gps montato sulla propria autovettura, sarebbe riuscito a dimostrare che nell’ora in cui avrebbe oltrepassato il limite della Ztl, la sua macchina si trovava in un altro punto della città ben distante dalla palina con il segnalatore del varco attivo. Anche questo sarà materia di documentazione di prova che l’avvocato del Codacons non mancherà di inserire nei vari fascicoli del ricorso. Nazareno Dinoi

Sanremo 2021, cantante pugliese arrestato si esibiva senza mascherina, ai poliziotti “Voi siete la legge io sono una leggenda”.  Zazoom.it il 5 marzo 2021. Sanremo 2021, cantante pugliese arrestato, si esibiva senza mascherina, ai poliziotti “Voi siete la legge, io sono una leggenda” (Di venerdì 5 marzo 2021) E’ finita male l’avventura sanremese di Piero Epifani, nome d’arte Piero Venery, cantante di Manduria, diventato famoso nel suo paese per essere il leader del gruppo White Queen. Il cantante è stato fermato a Sanremo nel pomeriggio di ieri dalla Polizia, perché si stava esibendo fuori al teatro Ariston senza mascherina. Il cantante pugliese era già stato multato due volte dalla Polizia locale per aver violato le norme anticovid. Pietro Epifani è diventato anche famoso per essere un fan di Freddie Mercury e per aver dichiarato più  volte, di essere la sua incarnazione. Il cantante pugliese, prima di essere arrestato, era stato intervistato da Red Ronnie. Pietro Venery a Red Ronnie aveva rilasciato le ...

Canta senza mascherina davanti all'Ariston, Freddie Mercury fermato a Sanremo. Nazareno Dinoi su Il Quotidiano di Puglia Venerdì 5 Marzo 2021. Ancora una volta lo show dell'artista manduriano Piero Venery, front man della tribute band «White Queen», ha conquistato spazi degli organi di stampa nazionali. Arrivando, questa volta, a farsi prelevare dalla polizia di Sanremo dove da tre giorni il pittoresco personaggio, all'anagrafe Pietro Epifani, si aggirava senza mascherina sfidando in più occasioni le forze dell'ordine che prima di portarlo negli uffici del commissariato lo hanno già multato due volte. «Non le pagherò perché loro rappresentano la legge e io la leggenda», aveva detto la sera il sosia di Freddie Mercury ai microfoni di Red Ronnie che lo intervistava all'esterno dell'Ariston. Sul suo profilo Facebook poi vantava così: «Nonostante i richiami e le minacciose multe delle forze armate, non ho indossato neanche per un attimo la mascherina; Dio salvi Freddie Mercury da questa dittatura». «Piero dei Queen», come lo chiamano nella sua città dove sta vivendo il suo esilio per il fermo dei concerti, si era recato nella città dei fiori per protestare contro il festival della canzone italiana e contro gli artisti che vi partecipano. «È una violenza non far cantare i piccoli cantanti per questo giudico questo festival illegale e i big dei farabutti perchè hanno accettato di partecipare», sosteneva il manduriano ai cronisti che lo intervistavano. Ai microfoni di Red Ronnie che davanti al teatro gli ha fatto cantare «Radio Gaga» e «We are the Champion» dei Queen, l'artista manduriano ha confessato di essere stato vicino al suicidio per la crisi che ha colpito il suo settore. «È stato lo spirito di Freddie a salvarmi - ha detto - perchè tre giorni dopo mi hanno chiamato per un concerto in Spagna».

A Sanremo il sosia di Freddie Mercury canta per strada senza mascherina: arrestato, Red Ronnie lo difende. Anna Puricella su La Repubblica il 5 marzo 2021. Piero Venery è un artista di Manduria molto noto per le sue esibizioni nel segno dei Queen. A Sanremo è andato per protestare per il blocco di spettacoli e cultura ma si è rifiutato di rispettare le prescrizioni anti Covid e dopo due sanzioni è stato fermato: "Considero anticostituzionale indossare la mascherina, se mi nascondi i baffi addio al personaggio". "Voi rappresentate la legge, io rappresento una leggenda". Piero Venery è un artista di Manduria (Taranto), che da anni si esibisce nel nome di Freddie Mercury: ha costruito la sua immagine ricalcando quella del cantante dei Queen, ne racconta vita e segreti, ne rievoca il carisma e la vocalità nei concerti, con la sua band White Queen. Venery - al secolo Piero Epifani - è da giorni davanti al teatro Ariston di Sanremo. Dentro si celebra il festival della canzone italiana alla 71esima edizione, la prima blindata e senza pubblico a causa della pandemia di Covid-19. Fuori il consueto via-vai di curiosi, turisti e sosia è stato pressoché azzerato dai controlli delle forze dell'ordine. Ma Piero Venery ha fatto di tutto per esserci: si è portato dietro un microfono e canta per strada, fa foto con i pochi passanti. Il tutto senza mascherina, tanto che la polizia l'ha più volte fermato per costringerlo a indossarla, fino a comminargli due multe da 280 euro. Non pago, lui ha continuato a cantare, e l'esito della sua ostinazione è stato prevedibile: i poliziotti l'hanno arrestato caricandolo su una volante, il 4 marzo. Lui indossava un completo rosa, ed era sempre senza mascherina. Ma nel frattempo aveva avuto modo di spiegare il perché di questa sua scelta a Red Ronnie, che ha poi filmato il momento del suo arresto. I due si erano incontrati la sera prima proprio davanti all'Ariston, Venery aveva colpito il giornalista per la sua forte somiglianza con Freddie Mercury, e il sosia si era raccontato. Ha spiegato di essere a Sanremo per protestare per il blocco dell'attività artistica in Italia - dove teatri, cinema e sale da concerto continuano a essere chiusi - ha rievocato Freddie cantando "Radio Gaga", ha ammesso di aver tentato il suicidio alla fine del 2020, sentendosi salvato da Mercury perché poco prima di compiere l'atto ha saputo che avrebbe avuto un concerto in Spagna. Piero Venery è conosciuto, in Italia e fuori, perché con la sua tribute band White Queen si è esibito ovunque, con uno spettacolo confezionato in ogni aspetto per celebrare Freddie Mercury. Il suo successo non era passato inosservato al fisco, e nel 2014 finì nei guai perché accusato di aver nascosto all'erario circa 800mila euro di cachet percepiti proprio per le sue esibizioni. Lui ha continuano imperterrito, rilanciando la questione in trasmissioni televisive in Italia all'estero, si è paragonato - e continua a farlo - a quelli che chiama "evasori fiscali orgogliosi" (di recente sulla sua pagina Facebook ha chiamato così anche Umberto Tozzi). E ora che lo spettacolo è fermo, l'ha portato a Sanremo. Facendosi beffa delle prescrizioni imposte per evitare la diffusione dei contagi da Covid-19, e quindi orgoglioso di non indossare la mascherina: "Non la indosso perché è come ri-ammazzare la persona che ho ricucito - ha spiegato ai microfoni di Red Ronnie - Dal 2003 ho rimesso in piedi il cantante sacrificando me stesso. Ho già perso la mia identità, non mi spavento di una multa che non pagherò e che considero anticostituzionale. Perché se mi nascondi i baffi con la mascherina, addio al personaggio". La sua missione per conto di Freddie Mercury non ha convinto gli agenti della polizia, però, che lo hanno arrestato. "A nulla sono valse le mie parole in sua difesa - ha detto su Facebook Red Ronnie postando il video dell'arresto - Con Veronica Maya lo avevamo coinvolto nella diretta su RaiDue. Lui aveva cantato e quindi attirato l'attenzione della polizia perché privo di mascherina". "Non c'è tempo per i perdenti, perché noi siamo i campioni del mondo", cantava Freddie Mercury in "We are the champions". Ma a quanto pare non va a finire sempre così.

Un piano riuscito, il suo, perché non c’è stato inviato delle web tivù ligure che non lo abbia intervistato e fatto esibire davanti alle telecamere. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria sabato 06 marzo 2021. Il Freddie Mercury manduriano ha ottenuto a Sanremo quello che cercava e lo dichiara senza timori: «Ho bisogno di protagonismo e di essere al centro dell’attenzione. Farsi arrestare? Che problema c’è? Sono cose da rockstar, tutte le rockstar sono maledette proprio perché vanno contro la legge». Così, Piero Queen, Pietro Epifani all’anagrafe, 41 anni, frontman dei «White Queen», tribute band della formazione del mitico Freddi Mercury di cui Pietro è convinto di essere la reincarnazione, ha incassato un provvedimento Daspo: per tre anni non potrà mettere piede nella città del festival. Era andato lì «per far rumore» e per protestare contro i cantanti che partecipano alla kermesse più popolare del panorama musicale italiano e non solo. Ma era andato anche e soprattutto per fasi notare. Un piano riuscito, il suo, perché non c’è stato inviato delle web tivù ligure che non lo abbia intervistato e fatto esibire davanti alle telecamere. Anche giornalisti del calibro di Red Ronnie hanno fatto parte dei programmi di Piero Queen. Che importa se non indossava la mascherina in una città come Sanremo dove il virus galoppa e, fa sì rumore, più della musica dell’Ariston. «La mascherina mai, perché copre il volto di Freddie che mi sono cucito addosso», ha risposto agli agenti della polizia sanremese che per due volte lo hanno fermato, multandolo. E che alla terza volta, all’ennesima provocazione dell’artista manduriano («voi rappresentante la legge, io la leggenda»), lo hanno accompagnato in commissariato dove è rimasto per quattro ore sino all’emissione del Daspo e il foglio di via in tasca lo hanno lasciato libero. Con l’obbligo di rientrare a Manduria entro le ore 18 di ieri. Missione compiuta. Durante il viaggio di ritorno, Piero Queen anticipa sui social il suo rientro a casa. «Le multe non le pagherò», ha detto ai microfoni di Red Ronnie. Su Facebook ha poi postato una sua foto con il cantante Umberto Tozzi incontrato a Sanremo, ricordando un’altra sua trasgressione: «Lo stimo in quanto è un evasore fiscale orgoglioso come me», ha scritto. Nel 2014, la reincarnazione di Freddie Mercury, è stato al centro di un'altra vicenda che conquistò i media nazionali. La Guardia di Finanza di Manduria gli contestò l’evasione erariale di 500 concerti tenuti dal 2009 al 2013 per un volume d’affari non dichiarato pari a circa 700mila euro ed altri 70mila di Iva evasa. N.Din.

Piero dei Queen fermato dalla polizia a Sanremo: "contro il Festival e le mascherine". Nel 2014, la reincarnazione di Freddie Mercury, come ama definirsi, è stato al centro di un'altra vicenda che conquistò i media nazionali.  Nazareno Dinoi su La Voce Manduria venerdì 05 marzo 2021. Ancora una volta lo show dell’artista manduriano Piero Venery, front man della tribute band «White Queen», ha conquistato spazi degli organi di stampa nazionali. Arrivando, questa volta, a farsi prelevare dalla polizia di Sanremo dove da tre giorni il pittoresco personaggio, all’anagrafe Pietro Epifani, si aggirava senza mascherina sfidando in più occasioni le forze dell’ordine che prima di portarlo negli uffici del commissariato lo hanno già multato due volte. «Non le pagherò perché loro rappresentano la legge e io la leggenda», aveva detto la sera il sosia di Freddie Mercury ai microfoni di Red Ronnie che lo intervistava all’esterno dell’Ariston. Sul suo profilo Facebook poi vantava così: «Nonostante i richiami e le minacciose multe delle forze armate, non ho indossato neanche per un attimo la mascherina; Dio salvi Freddie Mercury da questa dittatura». «Piero dei Queen», come lo chiamano nella sua città dove sta vivendo il suo esilio per il fermo dei concerti, si era recato nella città dei fiori per protestare contro il festival della canzone italiana e contro gli artisti che vi partecipano. «È una violenza non far cantare i piccoli cantanti per questo giudico questo festival illegale e i big dei farabutti perchè hanno accettato di partecipare», sosteneva il manduriano ai cronisti che lo intervistavano. Ai microfoni di Red Ronnie che davanti al teatro gli ha fatto cantare «Radio Gaga» e «We are the Champion» dei Queen, l'artista manduriano ha confessato di essere stato vicino al suicidio per la crisi che ha colpito il suo settore. «È stato lo spirito di Freddie a salvarmi - ha detto -  perchè tre giorni dopo mi hanno chiamato per un concerto in Spagna». Nel 2014, la reincarnazione di Freddie Mercury, come ama definirsi, è stato al centro di un'altra vicenda che conquistò i media nazionali. La Guardia di Finanza di Manduria gli contestò l’evasione erariale di 500 concerti tenuti dal 2009 al 2013 per un volume d’affari non dichiarato pari a circa 700mila euro ed altri 70mila di Iva evasa.

Piero Venery: il sosia dei Queen che ha portato scompiglio a Sanremo si confessa e denuncia l’inerzia dei big. Maria Teresa Valente il 10 marzo 2021 su ilsipontino.net. “L’unico scandalo a Sanremo sono stato io”.  È chiaro, conciso e diretto Piero Venery, nome d’arte di Pietro Epifani, quando mi racconta la sua avventura nella cittadina del festival. Contatto Piero tramite un amico in comune che mi descrive l’artista di Manduria come la reincarnazione, per voce e sembianze, del grande Freddie Mercury, di cui è uno dei sosia più popolari. “Sto soffrendo”, ha dichiarato Venery al microfono di Red Ronnie che lo ha intervistato mentre era a Sanremo a portare in giro per le strade il suo personaggio, in un’atmosfera quasi surreale. La città dei fiori la sera era deserta per via delle restrizioni Covid, ma nel teatro Ariston andava in scena con tutti i suoi lustrini ed eccessi, e a dispetto di ogni divieto, il festival della canzone italiana. Un controsenso che a Piero proprio non è andato giù e che ha visto come una vera e propria ingiustizia nei confronti di tutti coloro che fanno parte del mondo dello spettacolo e che sono fermi ormai da un anno. “Il festival non si sarebbe dovuto tenere e i big potevano avere il potere supremo di protestare contro la chiusura dei teatri”, ha evidenziato. L’artista è stato multato più volte dalla polizia di Sanremo per la violazione delle norme anti-Covid ed è stato persino arrestato: “Voi rappresentate la legge, io la leggenda”, ha raccontato di aver detto alle forze dell’ordine, giustificando il fatto che fosse senza mascherina per non dover nascondere il personaggio che rappresenta. Ma non ha paura di contagiarsi? E non le sembra una mancanza di rispetto? “Se non muoio di virus muoio di fame o di depressione e la vera mancanza di rispetto è da parte di chi ha dimenticato gli artisti in quest’ultimo anno”, afferma, confessando che lo scorso novembre era arrivato al punto di tentare il suicidio. Poi, una chiamata improvvisa per uno spettacolo in Spagna gli ha ridato la forza e la voglia di continuare a vivere. “È stato lo spirito di Freddie a salvarmi”, ha detto. “Sì, lo so, posso sembrare un folle, ma non è forse la follia che genera la genialità”, mi domanda. Per Piero The Show Must Go On, dicendola come Freddie, ma per tutti e non solo a Sanremo, perché gli artisti devono poter continuare ad essere artisti e non a cambiare mestiere violentando il proprio essere. La sua incursione nella cittadine ligure, a mo’ del cavallo pazzo degli anni ’90, è stata un modo per far sentire il grido di disperazione di un mondo, quello dello spettacolo, dove i riflettori stentano a riaccendersi e per alcuni artisti e anche per tutti coloro che lavorano dietro le quinte, se non s’interviene con urgenza potrebbero non riaccendersi mai più. Maria Teresa Valente

Piero Queen "no mask" multato anche a Manduria: «io come Gesù Cristo». Fermato dalla polizia in piazza Garibaldi, non indossava la mascherina. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria domenica 07 marzo 2021. Appena arrivato a Manduria, con ancora in tasca il foglio di via, una specie di Daspo urbano disposto dal questore di Imperia, Pietro Milone che gli vieta per tre anni di tornare a Sanremo, il Freddie Mercury manduriano, all’anagrafe Pietro Epifani, ha collezionato la quarta multa perché non indossava la mascherina. A fermarlo nella centralissima piazza della sua città, sono stati ieri pomeriggio gli agenti della polizia di Stato del locale commissariato che lo hanno identificato contestandogli la violazione del Dpcm sulle misure anti pandemiche. Un’altra multa da 280 euro che si sommerà alle precedenti tre dello steso importo e per la stessa infrazione che Piero Venery (questo il suo nome d’arte), ha collezionato nei suoi tre giorni nella città del festival dove si è esibito a favore di ogni telecamera o telefonino che fosse, in cerca di notorietà. Naturalmente sempre senza mascherina. «Altrimenti i baffi non si vedono e poi nasconde il volto di Freddy Mercury che mi sono cucito addosso», si giustifica ogni volta l’artista con le forze dell’ordine che lo richiamano al rispetto delle regole. «Tanto non le pagherò», afferma lui spavaldamente. «Dovrei preoccuparmi per 280 euro perché non ho la mascherina? Sono un evasore, a me interessa far vivere il cantante dei Queen con i suoi iconici baffi», ha dichiarato il manduriano in una delle tante interviste che si è guadagnato a Sanremo. Essere la reincarnazione di Freddie Mercury, costi quel che costi, è la sua ossessione. E dopo il fermo della polizia di Sanremo che lo ha portato in commissariato, il suo sacrificio ha toccato punte estreme: «Tutto va come deve andare, che io ricordi successe anche ad un certo Gesù Cristo», scrive Pero Queen su uno dei suoi tanti profili Facebook. Nazareno Dinoi  

Lettera al sindaco dei tre sindacati confederali. Nazareno Dinoi de la Redazione di La Voce di Manduria venerdì 05 marzo 2021. Come era facile prevedere dopo le accuse si fannulloneria da parte del sindaco Gregorio Pecoraro, i dipendenti comunali di Manduria passano all’attacco. E con i propri sindacati firmano una lettera indirizzata al primo cittadino. «È con grande stupore – si legge - che le scriventi apprendono a mezzo stampa, regionale e nazionale, i suoi legittimi interrogativi concernenti lo stato di produttività dei dipendenti del comune di Manduria». Questo l’inizio della missiva dei segretari provinciali di categoria di Cgil, Cisl e Uil, tutto sommato composto più di quanto non siano state le esternazioni pubbliche del capo dell’amministrazione che nei giorni scorsi, su tivù e giornali, accusava i lavoratori di «fare comunella nelle varie stanze senza rispetto del buonsenso». Cambiando poi tono, le parti sociali non gliela mandano a dire alla politica imputandole responsabilità nella mala gestione della macchina amministrativa. «I dipendenti pubblici del comune di Manduria – scrivono - erano lì signor sindaco, a contrastare i contraccolpi subiti delle amministrazioni che si sono succedute nel tempo e a contrastare i postumi di un territorio sciolto per mafia». L’amministrazione Pecoraro è la prima democraticamente eletta dopo tre anni di commissariamento straordinario affidato a tre funzionari del Ministero dell’Interno che aveva decretato lo scioglimento della precedente amministrazione per infiltrazioni mafiose. Ricordando al sindaco l’esistenza di strumenti contrattuali e normativi utili a punire i dipendenti eventualmente colpevoli di illeciti, i sindacati sostengono che «la denigrazione di tutto il personale del comune di Manduria delegittima la loro funzione sociale nonché il valore pubblico svolto negli anni». Per i lavoratori, inoltre, le «etichette ingenerose» che «ledono la dignità» scatenerebbero inoltre la rabbia dell'opinione pubblica contro la categoria. «Un retaggio brunettiano – dicono - che ha nel corso degli anni gettato fango sui lavoratori pubblici, bloccato la contrattazione nazionale, usando leve come la produttività in una logica punitiva e nell'antico adagio del dipendente fannullone si sono favoriti esternalizzazione e precariato, quel precariato che anche Manduria ha generato e che oggi si trova prossimo alla scadenza senza prospettive per il futuro». Richiamando i doveri del sindaco per una buona amministrazione della cosa pubblica, i rappresentanti dei lavorati con comprendono questa sua scelta «di incidere negativamente sull'opinione pubblica se l'obiettivo del territorio è una pubblica amministrazione più efficiente, efficace e vicina ai cittadini, innovata e digitale». Chiedendo un incontro in cui discutere la questione, i sindacati fanno intendere possibili risvolti giudiziari e invitano Pecoraro a «non utilizzare impropriamente canali che ledono i diritti e la serietà della stragrande maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori, diversamente avvieremo ogni percorso utile a tutela delle lavoratrici e dei lavoratori al fine di preservare il loro decoro». A capo di una maggioranza giallo verde, il sindaco di Manduria ha iniziato la sua battaglia contro la presunta inoperosità dei dipendenti del suo comune vietando macchinette del caffè negli uffici e contenendo le pause a non più di una volta al giorno per 15 minuti previa timbratura del cartellino in uscita per non incidere sull’orario di lavoro. Nazareno Dinoi

"Un sindaco dovrebbe difendere il servizio pubblico, mentre spara nel mucchio”. Dopo la pubblicazione e la messa in onda di servizi contro i dipendenti pubblici di Manduria, portati all’onore della pubblica opinione dal Sindaco della cittadina per i loro caffè e gli snack consumati negli orari di lavoro. La redazione de La Voce di  Manduria - venerdì 05 marzo 2021. Chissà perché quando un capo nel privato, fa “mobbing” o lede l’immagine e l’onorabilità di un suo dipendente fa notizia la vittima, e quando, invece, un sindaco spara nel mucchio e definisce tutti i suoi dipendenti fannulloni, la notizia da subito il giro del mondo senza neanche un minimo di contraddittorio o uno straccio di verifica. Eccoli i “fannulloni” da additare, il tiro a bersaglio dello sport nazionale di massa del “dagli addosso al dipendente pubblico”. E fa specie che a farsene alfiere sia proprio un sindaco, un rappresentante istituzionale, che invece sa, o almeno dovrebbe sapere, quanto difficile e a tratti eroica è la vita di chi ogni giorno assicura il funzionamento di servizi essenziali come anagrafe, stato civile, scuole, controllo del territorio o servizi alle persona. Così la seppur legittima richiesta di un sindaco verso un numero imprecisato di dipendenti comunali che invece si sarebbero potuti raggiungere e sanzionare come prevede la legge, diventa l’ennesima bandiera contro il servizio pubblico, uno sparare nel mucchio alla ricerca di qualche facile “like”. Legittimi interrogativi – dicono in una nota firmata congiuntamente dai sindacati delle Funzioni pubbliche di Cgil Cisl e Uil e in cui si chiede un incontro urgente al Sindaco Gregorio Pecoraro – ma non condivisibili sicuramente nel modo. Così mentre le istituzioni pubbliche subiscono il grave attacco sferrato dall’enorme mole di lavoro imposta dalla pandemia, invece di fare fronte unico e restituire l’immagine ad un Comune più volte attinto dalle cronache sulle infiltrazioni mafiose, si colpisce l’anello più debole che da anni invece paga ristrettezze di bilancio, sottodimensionamento della pianta organica ed ora anche pubblico ludibrio. Pertanto fanno notizia i caffè, consumati solo da alcuni nei locali dell’ente, ma non fa notizia il fatto che su un territorio vasto come quello di Manduria e del suo hinterland, con ben 16 chilometri di costa, a lavorare ci siano solo 21 agenti di polizia municipale, un tenente e un comandante in aspettativa part-time. Non fa notizia che a rispondere alle migliaia di esigenze socio-assistenziali di un comune così popoloso, ci siano solo tre assistenti sociali anziché sei. Non fa notizia l’antica carenza di personale in una realtà che pur avendo un grande potenziale storico, culturale e di attrattività imprenditoriale e turistica venga trattato, invece e ancora, con gli strumenti amministrativi del secolo scorso. Se il Sindaco non se ne è accorto ci farà piacere parlarne di persona, se vorrà concederci udienza anche di fronte ad un caffè virtuale. Organizzazioni sindacali della funzione pubblica di CGIL, CISL e UIL.

Il sindaco sputtana i dipendenti comunali anche in tivù: “facevano comunella negli uffici”. L'intervento su Telenorba. La Voce di Manduria venerdì 26 febbraio 2021. «I dipendenti facevano comunella nelle varie stanze senza rispetto del buon senso». Così il sindaco di Manduria, Gregorio Pecoraro, ha motivato a Telenorba il suo ordine di servizio che vieta alcune libertà ai dipendenti comunali: divieto delle macchinette per il caffè, anche a capsule, negli uffici; scorte di snack negli armadi (solo dosi per il consumo giornaliero) e impossibilità di fare pausa per più di una volta per ogni turno e per non più di 15 minuti dopo aver timbrato il cartellino. E se si ha voglia di una tazzina di caffè, obbligo di farlo dagli appositi distributori automatici disponibili da qualche giorno.    Il sindaco commercialista ha poi bacchettato i dipendenti del suo comune dicendosi infastidito e meravigliato per l’andazzo creato tra i lavoratori. «Son dovuto intervenire in questo modo – ha detto Pecoraro al microfono del collega Francesco Persiani -, quando, arrivata la politica ci sarebbe dovuto essere buon senso da parte del personale». Così la necessità per il sindaco di dettare regole e comportamenti di rigore per i suoi sottoposti. «Quei comportamenti erano da eliminare, quelle abitudini non andavano assolutamente», ha concluso Pecoraro nell’intervista.

Tre lettere al prefetto contro il presidente Gregorio Dinoi. Da tre consiglieri e dal Codacons. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 26 febbraio 2021. Inizia con i primi intoppi la presidenza del Consiglio comunale di Manduria affidata al consigliere Gregorio Dinoi che già alle prime due assemblee ha collezionato tre esposti indirizzati al Prefetto di Taranto. Le prime due firmate da tre consiglieri di minoranza e la terza dalla sezione manduriana del Codacons. Tutte e tre contengono accuse di discrezionalità, cattiva applicazione di norme contenute nel Testo unico sugli enti locali, di inosservanza dei regolamenti interni e limitazioni all’accesso del pubblico alle attività amministrative. Le prime due contestazioni sono partite quasi contemporaneamente ma per episodi. Gli autori sono il consigliere comunale Mimmo Breccia del movimento civico «Manduria Noscia» e i due consiglieri del gruppo Progressista, Domenico Sammarco e Gregorio Gentile. Il primo denuncia la sua cacciata dall’aula nel corso di una seduta consiliare nel momento in cui l’assemblea doveva discutere un punto all’ordine del giorno relativo ad una sua supposta incompatibilità. Al consigliere Breccia che aveva una pendenza tributaria con l’ente risolta tre giorni prima che si riunisse la seduta, sarebbe stato impedito di prendere parte alla discussione sull’avvio di procedura della sua contestata incompatibilità. Secondo il consigliere che effettivamente non ha potuto prendere parte a quella discussione perché invitato a lasciare la sala, il presidente avrebbe confuso l’astensione dal voto di un consigliere di fronte ai casi di comprovato conflitto dii interesse, con l’abuso di allontanarsi dall’aula impedendogli, di fatto, ogni possibilità di difesa. In effetti in sua assenza non ha potuto dimostrare al resto dei consiglieri l’avvenuto saldo del debito vantato dall’ente con regolare notifica della quietanza di pagamento (circa 700 euro), cosa di cui il presidente Dinoi, sostiene Breccia, era a conoscenza. I progressisti lamentano invece la presunta incapacità del presidente del Consiglio di condurre democraticamente l’assemblea. Dinoi è accusato in particolare di non dare la parola quando è dovuta e di commentare e interrompere in maniera pretestuosa gli interventi dei consiglieri. Ancora più grave l’episodio descritto nella segnalazione dei Progressisti al Prefetto secondo cui il presidente avrebbe arbitrariamente soppresso la possibilità di discutere il punto all’odine del giorno riguardante le linee programmatiche di mandato del sindaco. La contestazione dell’organismo per la difesa dei diritti degli utenti e dei consumatori, Codacons, riguarda infine il diniego del presidente Dinoi alla richiesta di una webTv locale disposta a trasmettere gratuitamente la diretta streaming delle sedute delle commissioni consigliari pubbliche e dare così la possibilità di partecipazione ai cittadini impediti dalle restrizioni pandemiche. «La richiesta di trasmettere sul web la diretta delle Commissioni consiliari – scrive nella lettera il referente cittadino del Codacons, l’avvocato Antonio Casto - è giuridicamente fondata e merita di essere accolta per fornire un servizio gratuito ai cittadini in quanto il regolamento comunale vigente prevede espressamente la pubblicità delle sedute delle commissioni». N.Din.

Breccia incompatibile fuori dall’aula consiliare: “Sono in regola e chi ha sbagliato pagherà". Con il voto favorevole di tutti i consiglieri della coalizione del sindaco Gregorio Pecoraro e con l’astensione del consigliere indipendente Pasquale Pesare e di tutta la minoranza presente in aula. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 29 gennaio 2021. Il consigliere comunale di “Manduria Noscia”, Mimmo Breccia, è stato cacciato fuori dall’aula del Consiglio di ieri e in sua assenza è stata votata la sua presunta incompatibilità dalla carica elettiva perché, secondo il presidente del consiglio Gregorio Dinoi e di tutta la maggioranza gialloverde, aveva un debito tributario con l’ente. Con il voto favorevole di tutti i consiglieri della coalizione del sindaco Gregorio Pecoraro e con l’astensione del consigliere indipendente Pasquale Pesare e di tutta la minoranza presente in aula, l’assise ha approvato la delibera che apre la procedura di incompatibilità di Breccia e gli concede dieci giorni per saldare il suo debito con l’ente. «Se mi avessero permesso di parlare anziché sbattermi fuori, avrei spiegato che ho già pagato tutto, ma loro lo sapevano già ma anche noi abbiamo capito che vogliono farmi fuori», dichiara Breccia con rabbia. «Denuncerò tutti, anche i consiglieri che in mia assenza hanno votato per la mia incompatibilità che non esiste», fa sapere il consigliere dopo essersi consultato con gli avvocati. Quale regolamento o normativa abbiano letto il presidente Dinoi e i suoi consulenti, sindaco Pecoraro in testa, per impedire ad un consigliere legittimamente eletto di discutere ed eventualmente difendersi dalle accuse di incompatibilità, dovranno spiegarlo a chi di dovere. «Perché di questa storia coinvolgerò anche il Prefetto oltre ai tribunali amministrativi e penali», assicura Breccia. Di casi simili sono piene le cronache e leggendole nessuno darebbe ragione agli amministratori manduriani. Uno a caso che riguarda la proposta di incompatibilità della carica di consigliere, lo insegna una delibera, consultabile in rete, del consiglio comunale di Balsolaro in provincia dell’Aquila che tratta un caso analogo, anzi, ancora più delicato di questo manduriano perché riguarda la presunta incompatibilità di un consigliere comunale che aveva presentato un ricorso al Tar contro il comune di cui era consigliere per difendere le sorti della figlia minorenne. A differenza del comportamento della maggioranza Pecoraro, quella del comune aquilano ha permesso all’interessato non solo di restare in aula ma anche di difendersi prendendo parte alla discussione. Ma cerchiamo di capire come sono andate le cose qui a Manduria. Breccia in effetti aveva un debito con l’erario comunale per tributi non versarti per circa 700 euro. Ad elezioni avvenute, il consigliere ha concordato con l’ufficio tributi un piano di rientro dividendo la somma in sette “comode rate”. Qualcuno però si è accorto in seguito che la legge non permette dilazioni per certi debiti per cui il presidente Dinoi ha inserito la discussione del caso nel consiglio comunale di ieri. Breccia, intuendo il «giochetto», qualche giorno prima avrebbe provveduto a saldare tutto presentando al comune copia del versamento. Per Dinoi-Pecoraro, però, la ricevuta non bastava ma per estinguere il debito occorre la liquidità che la Soget non ha ancora trasferito nelle casse comunali. Insomma: soldi liquidi o fuori. E così è stato con il voto scontato dei consiglieri di maggioranza che hanno approvato la delibera di avvio della procedura di incompatibilità di Breccia. Quest’ultima parte della seduta consiliare di ieri è stata la più tragica per la mancanza di democrazia, ma anche la più interessante perché il resto è stata una goffa e stancante elencazione di buoni propositi del sindaco che ha letto interminabili pagini della relazione programmatica dei prossimi cinque anni di governo. Unico risultato tangibile per la città, la mozione nata da una proposta dell’avvocato Francesco Ferretti della Lega e subito ripresa dagli altri consiglieri di minoranza, Domenico Sammarco e Dario Duggento. La mozione, poi votata all’unanimità, impegna il sindaco a cercare comuni partner d’accordo a ricreare quel consorzio tra enti, poi fallito per il venir meno del comune di Avetrana, che ha permesso per tanti anni di avere a Manduria l’Ufficio del Giudice di pace. Nazareno Dinoi

Il comandante della polizia locale di Manduria lascia il comune per un incarico a Ostuni. La Voce di Manduria giovedì 22 luglio 2021. Il comandante della polizia municipale di Manduria, avvocato Enzo Dinoi, lascerà il comando della polizia locale della città Messapica. L'ufficiale ha vinto il concorso del comun di Ostuni dove ricoprirà il ruolo di dirigente e comandante del Corpo della città Bianca. Il sindaco Ostunese Guglielmo Cavallo ha firmato poco fa il decreto di nomina «all'’esito della selezione pubblica per il conferimento dell'incarico di dirigente comandante della Polizia locale per anni tre, per il dottor Vincenzo Dinoi quale soggetto idoneo per poter assolvere con professionalità e autorevolezza l’incarico di dirigente, comandante del corpo di Polizia locale dell’Ente, in possesso di adeguato livello di conoscenze specialistiche e delle necessarie competenze e esperienza». Il comandante manduriano è stato scelto da una rosa di cinque professionisti che si erano candidati per lo stesso ruolo. 

Il tribunale boccia il “super dirigente” e promuove l’eliminazione della dirigenza. L’estromissione non è piaciuta al comandante che si era rivolto al giudice del lavoro, affidando incarico agli avvocati Cataldo Balducci del foro di Bari e Luisa Serrano. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 15 gennaio 2021. Per circa vent’anni avrebbe ricoperto un ruolo dirigenziale nell’organico del comune di Manduria non avendone diritto. Attribuzioni e remunerazioni improprie godute da Vincenzo Dinoi, avvocato, attuale comandante del corpo di polizia municipale manduriano. Questo almeno il parere del giudice del Tribunale di Taranto, Lorenzo De Napoli, che ha respinto il ricorso presentato dall’ex dirigente che chiedeva l’annullamento di una delibera del 2020 con la quale l’allora commissione straordinaria del comune messapico ha soppresso la dirigenza dalla pianta organica, attribuendo funzioni organizzative a sette dipendenti della categoria D3, responsabili di altrettante e specifiche aree. Oltre a dichiarare «legittimi ed efficaci» gli atti commissariali, il giudice De Napoli ha ritenuto nullo un verbale di conciliazione del 2002, approvato con delibera di giunta dell’epoca, che legittimava la posizione dirigenziale di Dinoi, in quanto contrario a norme imperative che prevedono un concorso pubblico che il comandante non ha mai superato. Per tanti anni, quindi, il capo dei vigili urbani, assunto per concorso e inquadrato nella categoria D3, avrebbe ricoperto un ruolo apicale non dovuto grazie ad incarichi «ad personam» conferitegli di volta in volta dagli amministratori succeduti negli anni e al verbale di conciliazione ritenuto nullo. Sino a giugno dello scorso anno, Dinoi ha diretto i settori Affari generali, personale, finanze, cultura, turismo e spettacolo, e vice segretario comunale. Una pluralità di incarico che ha fatto meritare al comandante l’appellativo di super dirigente. Alla stessa conclusione del giudice De Napoli erano arrivati diversi pareri legali commissionati da precedenti sindaci ed anche dai revisori dei conti che in una loro relazione del 2019 avevano definito Dinoi come «dirigente atipico». Anomalie su cui hanno sollevato sospetti anche i giudici della Corte dei Conti che hanno aperto un’inchiesta, tuttora in corso, chiedendo conto al comune degli ultimi cinque anni di presunta dirigenza atipica. Evidentemente preoccupati di questo, i commissari straordinari hanno pensato bene di cancellare la figura dirigenziale dalla pianta organica comunale giustificando la misura in questo modo: «Il mantenimento dell’attuale assetto organizzativo, con l’impossibilità di coprire le posizioni dirigenziali vacanti, per effetto dei vari vincoli normativi e della carenza di risorse di bilancio, ha imposto accorpamenti di funzioni eterogenee per competenze e contenuti, in contrasto con la disciplina a tutela della divisione dei ruoli e delle competenze, determinando potenziali profili di incompatibilità tra le varie attribuzioni del medesimo dirigente». L’estromissione non è piaciuta al comandante che si era rivolto al giudice del lavoro, affidando incarico agli avvocati Cataldo Balducci del foro di Bari e Luisa Serrano del foro di Lecce, per chiedere la revoca degli atti adottati dal Comune e la conseguente restituzione del ruolo dirigenziale ricoperto per diversi anni. I suoi legali chiedevano che il loro assistito fosse «inquadrato nella prima qualifica dirigenziale del Contratto collettivo nell'ambito dell'organico del Comune di Manduria con ogni conseguenza di legge, il tutto con vittoria di spese e competenze di causa». Il giudice ha invece  condannato il ricorrente alle spese di lite. Gli interessi dell’amministrazione comunale sono stati curati dall’avvocato Giuseppe Misserini del foro di Taranto. Nazareno Dinoi

SOLITA LECCE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·                        Succede a Lecce.

Galatina, dal pasticciotto alle "tarantate" guarite dai santi. Angela Leucci il 16 Novembre 2021 su Il Giornale. La storia di Galatina, al centro del Salento, è legata al tarantismo, alla cultura e ad alcuni dolci tipici, la cui origine si fonda su antiche leggende. La città di Galatina, posta al centro della provincia di Lecce, è un luogo d’arte, cultura popolare ed enogastronomia. Si tratta di un posto letteralmente magico: i santi patroni sono Pietro e Paolo, che si festeggiano il 29 giugno. San Paolo, in particolare, non è solo uno dei protettori della città ma anche colui che si riteneva potesse salvare le “tarantate”, donne in preda al delirio e a forti spasmi a causa del morso di un ragno.

Galatina tra devozione e arte

La città ospita numerose e suggestive chiese, per lo più romaniche e barocche. Si va dalla trecentesca basilica di Santa Caterina di Alessandria, la cui costruzione è legata al nome degli Orsini del Balzo e naturalmente con la mitica principessa Maria d’Enghien, che negli ultimi decenni sta vivendo una grande attenzione storiografica e letteraria. Fu lei a volere per la basilica le pitture murali e sulle volte, legate a maestranze giottesche, come in effetti è facile evincere solo osservandone lo stile. Tra gli altri edifici religiosi, i più notevoli sono la chiesa dei Santi Pietro e Paolo, la chiesa delle Anime Sante del Purgatorio e la chiesa del Carmine. Questi luoghi, oltre che essere interessanti dal punto di vista artistico, sono il simbolo di una devozione secolare, in cui l’agiografia si mescola alla vita quotidiana.

Le donne guarite dai santi Pietro e Paolo

Segno tangibile di questa mescolanza è la cappella di San Paolo, situata all’interno di palazzo Tondi. Qui, dal Medioevo fino al Secolo Breve, venivano condotte le donne che erano state morse dalla “taranta”, un ragno il cui veleno dava effetti simili a una frenesia, ma anche dolori intensi. Queste donne giungevano da tutta la provincia di Lecce, e pure da luoghi più lontani, su grandi carri trainati da cavalli, completamente vestite di bianco. Una volta nella cappella di San Paolo, le “tarantate” (in italiano “tarantolate”) venivano abbeverate con l’acqua di un pozzo legato alla chiesetta, dopo di che erano sottoposte alla cura: attraverso la musica di tamburi a cornice e ritmi frenetici (e non è raro, ancora oggi, che i tamburellisti finiscano per avere le mani sanguinanti), si eseguiva una sorta di esorcismo, che sarebbe servito a liberare le donne dal morso del ragno. Sono molte le ipotesi che si possono avanzare su questo fenomeno. L’antropologo Ernesto De Martino notò che era legato al genere femminile e una particolare età della vita, ossia il menarca e la pubertà: la liberazione dal veleno della “taranta” era quindi un rito di passaggio delle donne verso l’età adulta, un rito in un certo senso di liberazione sessuale, tanto che, non a caso, molti brani tipici della pizzica salentina parlano di rapporti sessuali (talvolta anche non consensuali, quindi stupri), zone erogene, seduzione e voti di astinenza, come d’altra parte accade un po’ in tutta la musica folkloristica regionale italiana.

Dalla pizzica “trance” alla Taranta 

Dai brani musicali che venivano eseguiti, spesso estemporaneamente a partire da canovacci di note e ritmi, per liberare le “tarantate”, è nata la "pizzica trance”, ossia un filone musicale all’interno della pizzica, che prende spunto dal ruolo salvifico e catartico che la musica possiede.

Ma le influenze della pizzica sono diverse e la musica folk salentina è partita da un agglomerato di diversi sottogeneri che sono confluiti in essa: le serenate, gli stornelli, la cosiddetta “pizzica de core” in cui avviene il corteggiamento tra ballerina e ballerino, i lamenti funebri e molto altro. Con il passare del tempo, la pizzica è diventata world music, attraverso la contaminazione con altra musica folk, per lo più dal Mediterraneo (d’altra parte, ad esempio, “Kalinifta”, canto popolare della Grecìa salentina, ha delle forti connessioni con il sirtaki), ma non solo. Con la nascita della Notte della Taranta, festival sorto in seno a Melpignano, cuore della Grecìa salentina, questo legame della pizzica con la world music si è istituzionalizzata e il festival, che dura alcune settimane in agosto ogni anno, fa naturalmente tappa a Galatina, che sebbene non faccia parte della Grecìa rappresenta un punto fondamentale per le tradizioni popolari salentine. Soprattutto quelle legate appunto al tarantismo.

Il pasticciotto 

Alla città di Galatina sono inoltre legati dei prodotti tipici, in particolare prodotti di pasticceria, come gli africani, che sono realizzati a partire da una specie di zabaione cotto. Ma il cibo galatinese più celebre tra tutti è forse il pasticciotto, versione monoporzione di un dolce diffuso in tutto il sud Italia già dal '500, a base di pasta frolla e crema pasticciera. Non si sa se sia leggenda o realtà: il pasticciere Nicola Ascalone, a metà del ‘700, realizzò per caso il pasticciotto con avanzi di crema e pasta frolla: secondo la leggenda, lo fece in una sera ben precisa, quella del 29 giugno, il giorno delle “tarantate”. 

Angela Leucci.  Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Scorrano, nel paese delle luminarie tra fede ed economia. Angela Leucci il 12 Novembre 2021 su Il Giornale. Scorrano è la città delle luminarie: questa tradizione artigiana proviene però da un forte legame con la fede cristiana e la santa patrona Domenica di Tropea. Il comune di Scorrano, in provincia di Lecce, ha la denominazione di “città delle luminarie”. Questa fama è dovuta al fatto che questo piccolo borgo, che da un lato basa la propria economia sulla trasformazione di peperoni e altri ortaggi e su un’ottima produzione vitivinicola, possiede una grande “industria” di luminarie, amate, ammirate ed “esportate” in tutto il mondo. Dai Paesi Arabi all’Asia, da ogni parte del globo si contattano le tre aziende del territorio per gli allestimenti delle feste. Quella delle luminarie non è di fatto un’industria, ma un’attività artigianale perlopiù, che coinvolge ampie fasce di popolazione, sia dal punto di vista emozionale e della fruizione del prodotto finito che dal punto di vista occupazionale, e che si svolge in fase di progettazione esattamente come avveniva in antichità, ma con uno sguardo attento alle nuove tecnologie, in particolare dal punto di vista del risparmio energetico.

Le luminarie

Le luminarie sono strutture in legno che riproducono architetture fatte di luci coloratissime. La loro funzione iniziale non era solo quella di illuminare piazze e strade di paesi e città in occasione di una festa, ma soprattutto di rompere, attraverso un gioco di illusioni ottiche, la prospettiva consueta dello spazio urbano.

Questo è vero dal punto di vista tecnico, ma c’è una ragione prettamente spirituale per cui le luminarie sono diventate nel tempo molto amate e apprezzate per festività religiose, come il Natale, la Pasqua e naturalmente i giorni dedicati ai santi patroni.

Le strutture che vengono realizzate sono di diversi tipi:

il frontone, una parazione centrale e frontale per una strada o una piazza;

la spalliera, una parazione laterale;

il rosone, un elemento rotondeggiante che ricorda i rosoni delle chiese, soprattutto quelle barocche;

la galleria, ossia l’unione di più elementi luminaristici a formare un corridoio chiuso sui lati e verso il cielo;

la cassarmonica, che serve a ospitare il concerto bandistico di turno e possiede particolari caratteristiche di amplificazione sonora naturale.

A Scorrano, dove la progettazione e la realizzazione avviene come da tradizione, si esegue il disegno su carta o computer - ma un tempo poteva avvenire anche direttamente sull’asfalto, per poi passare alla costruzione dello scheletro e il montaggio delle lampadine, che oggi sono esclusivamente a led, ma anticamente i lumi erano a olio.

Una delle più moderne tradizioni delle luminarie di Scorrano è legata al rito dell’accensione: nell’ora clou della festività, quando il sole è già tramontato da tempo, va in scena l’accensione musicale, per cui le luci delle paragoni si illuminano progressivamente seguendo il tempo di una canzone scelta dai progettisti.

La festa di santa Domenica 

Se le luminarie rappresentano indubbiamente una fonte di creazione artistica folkloristica, non bisogna sottovalutare il ruolo della fede religiosa: le luminarie sono una commistione indissolubile tra sacro e profano. Soprattutto quando si tratta della santa patrona di Scorrano, santa Domenica di Tropea, la “santa della luce”.

Santa Domenica visse tra il 287 e il 303, ossia ai tempi dei sanguinari imperatori Diocleziano e Massimiano. Domenica, secondo l’agiografia cristiana, fu una giovane piena di fede che venne sottoposta a martirio: fu dapprima messa in un’arena con dei leoni che subito diventarono mansueti e la risparmiarono e poi venne decapitata.

Tra le varie leggende che vedono protagonista la santa, c’è un avvenimento miracoloso proprio legato alla città di Scorrano. Nel XVII secolo in molte zone d’Italia infuriò la peste e anche questo piccolo centro non ne fu esente. Santa Domenica venne implorata da un’anziana donna, il cui figlio malato rischiava la vita: la santa apparve in sogno alla donna, chiedendole di accendere una luce e di posizionarla fuori dalla finestra. Così fece, e così fecero tutti i suoi concittadini: fu in questo modo che la peste rimase fuori da Scorrano e non vi fece più ritorno. Era la notte del 6 luglio, giorno in cui ricorreva il martirio di Domenica, che oggi viene festeggiata ogni anno con imponenti luminarie.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

I genitori non approvavano la relazione: Gps sull'auto della donna. Carabiniere ucciso a fucilate dal padre della compagna, la testimonianza del figlioletto: “E’ stato l’uomo nero”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 29 Ottobre 2021. Ex carabiniere giustiziato con quattro colpi di fucile davanti al figlioletto di 11 anni perché intratteneva una relazione sentimentale con una donna che i genitori di quest’ultima non approvavano, tanto da installare anche un dispositivo Gps sulla sua auto per controllarne i movimenti. Sarebbe questo il movente dietro il brutale omicidio avvenuto in provincia di Lecce la sera del 3 maggio 2021 di Silvano Nestola, maresciallo dell’Arma dei carabinieri in quiescenza per motivi di salute. Un omicidio avvenuto in località Tarantini, nel comune di Copertino, intorno alle 22 di sera e che ha portato nelle scorse ore all’arresto, a distanza di circa sei mesi, di Michele Aportone, 70enne di San Donaci (Brindisi), padre della donna con la quale Nestola intratteneva una relazione da pochi mesi. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, Nestola è stato ucciso dopo essere uscito dall’abitazione della sorella, dove aveva cenato, mano nella mano con il figlioletto di 11 anni. I due si apprestavano a tornare a casa in virtù anche del coprifuoco in vigore all’epoca (previsto alle 23). Nel momento in cui stava per salire a bordo della propria autovettura, una persona, che il figlio Leonardo, unico testimone diretto, descriveva come “una persona nera che stava accovacciato sotto al muretto sulla destra”, lo colpiva con almeno quattro colpi di fucile calibro 12 che ne cagionavano immediatamente la morte. Sin dai preliminari accertamenti i militari del Nucleo Investigativo del Reparto Operativo del Comando Provinciale di Lecce coadiuvati dagli uomini della Sezione Anticrimine, escludevano la pista della criminalità organizzata e quella del contesto professionale della vittima, concentrandosi invece sulla vita privata di Nestola, un uomo molto schivo e riservato. Ed è stata proprio la vita privata la chiave di lettura del crimine. Nestola infatti separato dalla moglie aveva intrapreso dall’estate scorsa una relazione con Elisabetta Aportone, anch’ella separata, figlia di Michele. Tale relazione sarebbe stata fortemente osteggiata dall’arrestato appunto e da Rossella Manieri, sua moglie, che vedeva nell’ex carabinieri il responsabile della separazione della figlia dal marito. Fortemente risentita, in più occasioni, la donna aveva affrontato Nestola, anche sulla pubblica via ed in compagnia della stessa Elisabetta, svilendone l’immagine del militare, arrivando finanche ad attacchi diretti verbali. La decisione di Elisabetta di separarsi di fatto dal marito e intraprendere una relazione con Silvano Nestola aveva compromesso i rapporti con la madre che si erano sostanzialmente interrotti, anzi nel marzo 2021 i rapporti tra madre e figlia erano ormai ridotti ai minimi termini tanto che era Elisabetta a rifiutare ogni contatto con la madre. Tanti gli episodi significativi emersi nel corso delle indagini, ma senz’altro quello rappresentato dall’attivazione da parte dei genitori di un GPS utilizzato per monitorare gli spostamenti della loro discendente Elisabetta, rendono l’idea dell’ossessione che coniugi nutrivano nei confronti della figlia. L’assillante controllo sulla vita di Elisabetta, ormai adulta, non si limitava alle manifestazioni verbali, avevano infatti, i genitori, congiuntamente acquistato e fatto installare sull’autovettura in uso a Elisabetta un apparato GPS allo scopo di controllarne gli spostamenti. Da questi elementi e tanti altri emersi nel corso delle indagini, si può comprendere come l’avversione alla relazione tra Silvano e Elisabetta non si limitava alla madre ma era condivisa dal padre pertanto appare conseguenziale che entrambi i coniugi (entrambi iscritti nel registro degli indagati) nutrissero sentimenti di rancore, odio e rabbia nei confronti di Nestola ritenuto non solo il responsabile del naufragio del matrimonio della figlia, ma anche una minaccia attuale ed incombente per i loro rapporti con il nipotino. Numerosi sono stati i gravi indizi di colpevolezza raccolti dagli investigatori dei carabinieri che hanno portato i Pubblici Ministeri della Procura di Lecce, Alberto Santacatterina e la Paola Guglielmi, che hanno coordinato le indagini, a chiedere ed ottenere dal Gip Sergio Mario Tosi l’arresto di Michele Aportone. Tra questi, non vanno sottaciute le immagini (tra le centinaia esaminate dagli inquirenti) di un sistema di videosorveglianza installato in una zona non distante l’area sosta camper “Santa Chiara“ (di cui Michele Aportone ne è titolare) che lo riprendono quando a bordo del suo Fiat Ducato alle ore 19.30 circa del 3 maggio esce per raggiungere l’abitazione di Copertino; immagini che lo riprenderanno anche al rientro in quella stessa area camper alle ore 22.30 circa, evidentemente dopo aver consumato l’omicidio. Tragitto che Aportone non avrebbe compiuto interamente a bordo del furgone, infatti le risultanze investigative avrebbero evidenziato che ad un certo punto il 70enne, dopo aver lasciato il furgone nei pressi di una carrozzeria di Leverano continua il percorso a bordo di un ciclomotore che evidentemente aveva dapprima caricato sullo stesso furgone. Questo ciclomotore viene, nel corso delle indagini, rinvenuto bruciato, proprio nei pressi dell’area camper gestita da Aportone, il quale si era preoccupato di distruggerlo a mezzo fuoco al fine di scongiurare la scoperta di tracce della sua colpevolezza. Ulteriori sviluppi dalle indagini sono arrivati dagli esami scientifici eseguiti dal Ris di Roma che hanno accertato la presenza di minuscole particelle di polvere da sparo sugli indumenti dell’assassino riconducibili ai colpi esplosi da un fucile da caccia, che gli investigatori continuano a cercare. Aportone, dopo l’arresto eseguito dai Carabinieri del Comando Provinciale di Lecce, è stato condotto, prima, presso la caserma del Comando Provinciale dei Carabinieri di Lecce e, dopo le notifiche di rito e le operazioni di fotosegnalamento, è stato, su disposizione del Gip di Lecce, portato presso la locale casa circondariale in attesa dell’interrogatorio di garanzia previsto nei prossimi giorni. 

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

L'OMICIDIO DEL 2020. Fidanzati uccisi a Lecce, killer capace d'intendere e volere. La perizia: «Può anche stare in giudizio. Affetto da rabbia narcisistica». Linda Cappello su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Maggio 2021. Lecce - Antonio De Marco, l’omicida reo confesso dell’arbitro leccese Daniele De Santis e della sua fidanzata Eleonora Manta, è perfettamente in grado di intendere e volere nonché capace di stare in giudizio. E’ il risultato della perizia psichiatrica disposta dalla Corte d’assise di Lecce sullo studente 21enne in Scienze infermieristiche di Casarano che la sera del 21 settembre 2020, a Lecce, uccise con brutale premeditazione i due fidanzati colpendoli con 79 coltellate nella loro abitazione di via Montello, solo perché «erano felici». «Non sono comparsi sensi di colpa o rimorso per ciò che ha commesso - si legge in un passaggio della perizia. E ancora: «Si notano appunti nei suoi diari - è scritto - in cui si riscontra forte rabbia, connessa soprattutto al fallimento dei tentativi di fidanzarsi con ragazze, in particolare con una sua collega di corso. Notiamo, in questo incremento delle recriminazioni verso il suo non avere una donna e delle annotazioni sulla rabbia che sfociano nel desiderio di uccidere qualcuno, per poi identificare la sua vittima in Daniele». I periti dicono di essersi trovati davanti ad un «deserto relazionale, gli altri non esistono come persone dotate di vita, esistono come oggetti da usare e poi fondamentalmente come generatori della sua rabbia». Al centro del suo dilemma personale, quindi, la mancanza di una compagna. «Per De Marco - si legge - stare con una donna avrebbe significato fortificare l’autostima e sentire meno invidia, rabbia e desiderio di vendetta. Ma ciò non avveniva». «Daniele ed Eleonora - è scritto - venivano concepiti alla stregua di oggetti inanimati, senza possibilità di reagire all’assalto: due oggetti da prendere, legare e manipolare sadicamente. «Il desiderio di vendetta non è per ciò che gli altri ci hanno fatto ma per le violente e disturbanti emozioni che la loro esistenza stessa ha generato nella psiche. Spinto da invidia e rabbia decise di cancellare la fonte di queste emozioni, cioè di cancellare nella realtà Daniele ed Eleonora, come già aveva cancellato Daniele dalla foto in cui era ritratto con Eleonora». Il giovane, secondo i periti, sarebbe affetto da un disturbo della personalità di tipo narcisistico, ma non tale inficiare la capacità di intendere e volere, tantomeno la partecipazione al giudizio. I due periti nominati dalla Corte d’assise, il dicente della Sapienza Andrea Baldi e il neuropsichiatria di Casarano Massimo Marra, hanno evidenziato una «disregolazione degli stati emotivi e comportamentali, una rabbia narcisistica». I risultati della perizia saranno esaminati nel corso dell’udienza del processo programmata per il prossimo 18 maggio nell’aula bunker della Corte d’assise.

"Perché difendo un assassino": parla l'avvocato del killer. Angela Leucci il 10 Maggio 2021 su Il Giornale. Parla l'avvocato di Antonio De Marco: il 18 maggio ci sarà la prima udienza per il duplice omicidio di Daniele De Santis ed Eleonora Manta. Mancano pochi giorni. Il 18 maggio ci sarà l’udienza della Corte d’Assise di Lecce: al vaglio della giustizia la posizione di Antonio De Marco, lo studente di infermieristica 21enne che ha confessato l’omicidio di Daniele De Santis ed Eleonora Manta, avvenuto a Lecce il 21 settembre 2020 nella casa della coppia che un tempo condivisero con il killer, il quale aveva in affitto una stanza. Di questo caso è stato detto molto. Si è parlato del presunto movente: De Marco potrebbe aver ucciso la coppia di Lecce per vendetta. Lui stesso ha scritto in alcuni fogli durante la sua permanenza in carcere: “Io ho ucciso Daniele ed Eleonora perché volevo vendicarmi, perché la mia vita doveva essere così triste e quella degli altri così allegra?”. La sua quotidianità è stata scandagliata nei minimi particolari: si è parlato della sua famiglia, dei suoi studi, delle sue passioni. Sono state analizzate mediaticamente le sue letture e i suoi scritti. Letture e scritti sono al centro delle novità in merito a De Marco: secondo quanto riportato nei giorni scorsi dal Corriere Salentino, il giovane ha abbandonato le sue solite abitudini e sarebbe fortemente demoralizzato. Non è ancora stata pensata per lui una terapia specifica, perché si attendono gli esiti della consulenza psicologica dei periti, che cercano di capire se ci fosse in De Marco capacità di intendere e di volere al momento del duplice omicidio. “Il suo desiderio è allontanarsi da Lecce - racconta a IlGiornale.it il legale Andrea Starace, che difende De Marco insieme a Giovanni Bellisario - […] Lui è rassegnato al suo destino”.

Avvocato, siete preoccupati per le attuali condizioni del vostro assistito?

“Certamente sì. Anche perché il ragazzo manifesta confusione e disinteresse per ciò che lo riguarda. Da subito si è avvertito il rischio che potesse compiere gesti autolesionisti e attualmente, a nostro modo di vedere, la situazione è peggiorata. Riteniamo che la soglia di attenzione debba essere ancora maggiore”.

È importante che De Marco continui a svolgere attività per lui consuete come lettura e scrittura?

“Si trattava di attività per lui fondamentali proprio da un punto di vista esistenziale; nell'ultimo periodo, però, le ha abbandonate. Sembra non avere alcun interesse”.

Su alcune testate locali si è ventilata l’ipotesi di trasferimento in altro carcere. Lo chiederete?

“Il ragazzo ha manifestato il desiderio di essere trasferito in un’altra struttura penitenziaria, ove ritiene di poter ricevere una minore pressione anche mediatica. Comunque al momento non è stata formulata nessuna istanza in tal senso”.

Come mai si è parlato del carcere di Bollate?

“Evidentemente, all’interno della struttura carceraria, qualcuno avrà parlato a De Marco del carcere di Bollate, riferendogli della possibilità di svolgervi attività culturali, ricreative e lavorative. Ciò potrebbe averlo attratto verso quella destinazione, ma il suo principale desiderio è quello di allontanarsi da Lecce”.

Pizzino choc dal carcere del killer dei fidanzati: "Contento di uccidere"

Perché secondo voi c'è una tale pressione mediatica su questo caso?

“Sicuramente è un fatto che ha scosso la coscienza dell’intera comunità, sia a Lecce città che in provincia. C’è stato un grande allarme sociale per via di un evento violento, imprevisto e imprevedibile, che ha coinvolto un ragazzo apparentemente insospettabile, con un inquietante disagio interiore, e delle vittime giovani, solari e ben volute da tutti. Questi aspetti, uniti ai tempi e alle modalità dell'evento, hanno scatenato indignazione e preoccupazione. Poi, vi sono all’interno di questa storia una serie di peculiarità che hanno catturato l'attenzione dei media”.

Secondo alcune testate locali, il malessere di De Marco è legato a un possibile pentimento. È così?

“Non credo che si sia alcun legame. Antonio De Marco si confronta quotidianamente con il proprio disagio interiore, a prescindere da un eventuale discorso di pentimento o non pentimento. È in continua battaglia con se stesso. C’è una sofferenza che egli vive nella propria interiorità, nel proprio io. Poi non escludo che egli probabilmente stia iniziando ad acquisire consapevolezza di ciò che lo aspetta e questo potrebbe acuire lo sconforto. Anche se lui è sempre stato rassegnato sul suo destino”.

Sui social si chiedono in molti: come stanno i genitori di Antonio De Marco?

“Stanno molto male ovviamente, soffrono sotto un doppio profilo. Da una parte vivono il dolore di vedere un figlio, che si è reso responsabile di un fatto del genere, detenuto - forse per sempre - e si interrogano sul perché non siano riusciti a rendersi conto del disagio, di questa sofferenza di Antonio e su cosa avrebbero dovuto fare. Anche se, a mio modo di vedere, era impossibile che loro se ne potessero rendere conto. Dall'altra soffrono per la tragedia che Antonio ha provocato, per il dolore che il loro figlio ha cagionato alle sue vittime e ai loro famigliari”.

Quando avete assunto il caso siete stati tempestati di insulti e minacce. Come mai?

“Non voglio dare troppo risalto a questi comportamenti. Oggi purtroppo non c’è la cultura dello stato di diritto. Non si comprende che tutti hanno diritto a essere difesi e che questo diritto è fondamentale anche per la tutela delle vittime. Perché un processo, se non ci fosse il difensore dell'imputato, non si potrebbe fare e ciò frustrerebbe proprio le esigenze delle vittime e dei loro famigliari di arrivare a una punizione del colpevole. Il compito di noi avvocati è vigilare e garantire il rispetto delle regole, un giusto processo, una pena conforme ai canoni della Costituzione”.

Esiste, nel senso comune, una visione distorta nel modo in cui si guarda al mondo degli avvocati?

“Purtroppo questo è il frutto di continue campagne demagogiche. Ormai nell'opinione pubblica e sui social domina una cultura giustizialista. E si finisce per sovrapporre l’avvocato al proprio assistito, come se fosse anch'egli responsabile o comunque complice del reato. Dovrebbe essere inutile specificarlo, ma non è così: l’avvocato è una figura tecnica, che svolge una funzione essenziale nel processo penale a tutela di ogni imputato, indipendentemente dal fatto che questi al termine del processo risulti colpevole o innocente. Non sono infrequenti, del resto, i casi in cui soggetti condannati dall'opinione pubblica e a volte anche sottoposti a misure custodiali vengano poi assolti nei tribunali. Trovo, infine, inquietante che gli stessi soggetti diventino volta per volta garantisti o giustizialisti, a seconda del fatto che l'indagato/imputato sia un ‘amico’ o un ‘nemico’".

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Omicidio Noemi, «trovate i complici dell'assassino di mia figlia». Da Specchia il disperato appello della madre. La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Aprile 2021. Specchia - Le indagini sulla morte di Noemi Durini devono andare avanti. È questa la richiesta dei genitori della 16enne uccisa nel settembre 2017 dal fidanzato Lucio Marzo, già condannato a 18 anni di carcere. I familiari della giovane si sono nuovamente opposti alla seconda richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura nei confronti dei genitori del ragazzo, indagati per occultamento e soppressione di cadavere. L’ultima parola, però, spetta al gip Alessandra Sermarini. «Abbiamo evidenziato una serie di elementi che riteniamo importantissimi - spiega l’avvocato Claudia Sorrenti, legale della fondazione antiviolenza Doppia Difesa, creata nel 2007 da Michelle Hunziker e Giulia Buongiorno - Abbiamo prodotto delle immagini che collocano l’auto dei genitori di Lucio nelle ore successive all’omicidio a Castrignano, nei pressi del luogo dove fu ritrovato il cadavere. Chiediamo inoltre che venga analizzata un’impronta di sangue sulla maniglia della macchina e che vengano esaminati con attenzione i dati delle celle telefoniche». «Secondo noi sono coinvolti anche loro - dichiara Immacolata Rizzo, la madre della ragazza - le indagini devono andare avanti, questi elementi addotti dal nostro legale devono essere valutati dal giudice». Di Noemi Durini si persero le tracce nella notte tra il 2 e il 3 settembre 2017. Le indagini portarono alla ricostruzione dei fatti. Guidando senza patente la Fiat 500 di famiglia, Lucio Marzo arrivò da Montesardo, la frazione di Alessano dove viveva, sino a Specchia: qui fece salire in auto la ragazzina che diceva di amare. A bordo dell’utilitaria raggiunsero un uliveto alla periferia di Castrignano del Capo, lungo la provinciale che conduce al mare. Il ragazzo colpì Noemi prima con alcune pietre e poi con un colpo di coltello alla nuca. Trascinò quindi il corpo della vittima ancora agonizzante ai piedi di un muretto a secco e lo coprì sotto i sassi.

"Mia figlia, sepolta viva dal fidanzatino. E nessuno mi chiederà scusa". Angela Leucci il 24 Aprile 2021 su Il Giornale. Imma Rizzo, mamma di Noemi Durini, la sedicenne uccisa nel 2017, racconta della figlia e di cosa si può fare per contrastare la violenza di genere. La diffamazione dopo l’omicidio. La settimana scorsa il giudice Roberto Tanisi si è espresso con un primo verdetto nei confronti dei genitori di Lucio Marzo, il giovane salentino che ha confessato il brutale femminicidio di Noemi Durini, avvenuto nel settembre 2017 e per il quale è stato condannato a 18 anni e 8 mesi con rito abbreviato. Secondo quanto riporta il Corriere Salentino, Biagio Marzo e Rocchetta Rizzelli, padre e madre di Lucio, sono stati condannati rispettivamente a 1 anno e 6 mesi di reclusione. La giustizia ha concesso loro la pena sospesa e disposto una provvisionale di 10mila euro per la mamma di Noemi, Imma Rizzo, parte civile nella questione. A luglio 2020 intanto, a Muro Leccese, poco lontano da Specchia, dove la giovane Noemi ha vissuto e dove ha trovato una morte terribile e iniqua, è stato inaugurato uno sportello antiviolenza alla sua memoria, finanziato dalla Regione Puglia e gestito da Comunità San Francesco per conto del Consorzio per l’Integrazione e Inclusione Sociale dell’Ambito di Maglie. La signora Imma, in prima linea nella lotta alla violenza di genere, ha presenziato alla sua inaugurazione, pronunciando queste parole, come riportato all’epoca dalla Gazzetta del Mezzogiorno: “Il sacrificio di Noemi non deve essere vano”. La mamma di Noemi ha raccontato a IlGiornale.it di sua figlia e di cosa può fare ogni persona affinché non accada più quello che è accaduto. Noemi aveva 16 anni quando scomparve e fu trovata morta nelle campagne intorno a Castrignano del Capo. Fu sepolta viva da un coetaneo con cui aveva una relazione sentimentale.

Imma, crede che i genitori di Lucio Marzo chiederanno scusa?

“No, non mi hanno chiesto scusa nell’aula del tribunale. Non credo che lo faranno mai e non lo vorrò nemmeno. Non l’hanno fatto in quasi quattro anni, avrebbero potuto farlo, hanno avuto tutto il tempo. Per ben due anni hanno diffamato Noemi e la mia famiglia. Non tanto me, perché io alla fine sono viva, riesco a sapere come potermi difendere dalle accuse. La mia coscienza è pulita come mamma”.

Esiste un rischio che, nelle narrazioni di cronaca nera, la storia della vittima possa passare in secondo piano rispetto a quella del killer?

“Succede, ogni giorno si leggono articoli di questo tipo nei casi di femminicidio. Si parla più dell’assassino che della vittima, quando invece si dovrebbe parlare della vittima. E troppo spesso leggo degli articoli in cui si giustifica addirittura il killer, affermando che fosse geloso o che la vittima fosse una bella ragazza. Non esiste. Alla donna è stata tolta la vita. Non si può giustificare un femminicidio”.

Qual è la storia di Noemi? Ci racconti un po’ di lei.

“Noemi, da quando è nata, è stata da sempre appassionata di danza. All’età di 3 anni, la iscrissi a danza classica e iniziò un percorso di apprendimento sulla danza classica e poi sulla danza moderna. Amava tantissimo gli animali. Amava tanto stare in mezzo alle persone, soprattutto le persone più fragili e nel suo piccolo le supportava. A volte faceva volontariato in alcune strutture. A scuola c’era un compagno con autismo che voleva stare solo con lei, perché Noemi riusciva a relazionarsi bene grazie alla sua empatia. Aveva un cuore puro”.

Cosa può fare ognuno di noi per contrastare la violenza di genere?

“Ogni persona può contribuire: il buon esempio è sempre uno specchio riflesso per gli altri. La prima cosa da fare è non essere omertosi. Perché l’omertà, a mio avviso, uccide due volte. Quando una ragazzina o una donna subisce violenza - parliamo sia di quella fisica che di quella psicologica - è importante che sappia che può parlare con qualcuno. Certo, quando c’è violenza fisica, possiamo sentire ad esempio le urla, ma la violenza psicologica è più difficile da individuare. Se sappiamo che una donna cerca di sopravvivere alla violenza, abbiamo il dovere morale di parlare con lei, consigliarle di chiedere aiuto. Ci sono le istituzioni, come i centri antiviolenza. Spero che, dopo tutto quello che è successo a Noemi, anche le forze dell’ordine siano più solerti: mi auguro che incoraggino sempre più donne a sporgere denuncia. Le forze dell’ordine svolgono un ruolo importante come istituzione”.

Esiste, a suo avviso, un problema diffuso o potenziale di violenza di genere tra i giovanissimi?

“Sì. La violenza è quotidiana, potenzialmente parlando, nella vita. Ci può essere violenza in casa, quando si è bambini: ci sono genitori che mettono le mani addosso ai figli. Quando si comincia ad andare a scuola, anche gli insegnanti possono essere violenti, senza contare il possibile bullismo dei compagni. Di questi argomenti si dovrebbe parlare di più, perché il rischio c’è e l’informazione gioca un ruolo fondamentale. Da un po’ di anni almeno, si viene a conoscere della violenza che avviene in alcune scuole, ma a volte si finisce per parlare di questi argomenti solo in determinate occasioni. Come per i femminicidi si torna a parlarne solo nella giornata contro la violenza sulle donne o per l’8 marzo. Anche i centri antiviolenza sostengono che se ne debba parlare sempre, magari anche attraverso film di sensibilizzazione, in modo da innescare un cambiamento culturale. Il primo posto in cui parlare dei rischi è in famiglia, ma anche nella scuola, dove gli adolescenti trascorrono la maggior parte del tempo. Dovrebbe essere proprio una materia, ci dovrebbero essere consulenze e incontri con professionisti”.

Si poteva fare qualcosa per proteggere Noemi?

“Si poteva fare tanto, soprattutto a scuola o nel paese, è possibile che qualcuno abbia visto e non abbia parlato. Ma non si è fatto nulla, ahimè”.

Diario di chi c'era: la prima volta del Lecce in A. Cronaca e ricordi di Adolfo Maffei con una carrellata di contributi doc. Gloria Indennitate su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Marzo 2021. È una pura coincidenza che, esattamente nel 113esimo anniversario della fondazione della Società giallorossa, sia uscito un libro che racconta la prima volta della promozione in Serie A. Una cosa che potrebbe essere di buon auspicio per chi crede alla scaramanzia, che nel mondo del pallone è una pratica quasi obbligata, nonché un auspicabile viatico verso un risultato che, appunto, non si deve nominare…Il libro è di Adolfo Maffei , giornalista di lungo corso, il quale fin dalla premessa ammette candidamente di aver dismesso i panni imposti dalle rigide regole del mestiere, per indossare una casacca sfacciatamente di parte. «Lecce 1985. La prima volta in Serie in A» (Idea Dinamica Editore, 15 euro) è un vero e proprio diario realizzato da «chi c’era», ovvero da quella grande famiglia allargata - società, staff tecnico e sanitario, giocatori, tifosi e stampa - che ha generato l’habitat di quell’impresa. A ciascuno dei singoli protagonisti e testimoni che l’autore ha intercettato è dedicato un capitolo amarcord carico di aneddoti e confidenze che riportano il lettore a quella che era l’essenza del calcio 35 anni fa, mille miglia distante dall’attuale. La parola squadra era prossima al concetto di famiglia, i compagni erano fratelli, l’allenatore un papà. Lo dicono loro. Mancano alcuni protagonisti, scomparsi prematuramente. Il più importante del quali Franco Iurlano, il vulcanico e indimenticato presidente di quel Lecce, la cui presenza è però costante nell’affettuoso e riconoscente ricordo di tutti. Scorrono nelle pagine, mister Fascetti, il dottor Palaia, capitan Orlandi, i giovanissimi e talentuosi Alberto Di Chiara e Rodolfo Vanoli, i tre difensori di ferro Miceli, Stefano Di Chiara e Rossi, il mediano-diga del centrocampo Giorgio Enzo, il bomber Paiciocco, gli amatissimi «fratelli» dei Ragazzi della Nord Claudio Luperto e Roberto Rizzo. Attraverso la loro voce, Maffei fa rivivere al lettore l’atmosfera quasi «magica» che generò l’energia necessaria per realizzare quell’impresa. L’autore è tra quelli che c’erano. Non soltanto come cronista delle partite, in casa e fuori casa, per il suo giornale ma come parte integrante del gruppo, per una singolare serie di coincidenze legate alla mania per la scaramanzia del presidente, al punto (clamoroso) di essere autorizzato ad entrare nello spogliatoio: «Maffei porta bene», sentenziò Franco Iurlano, il capitano Orlandi ne prese atto ma pose una condizione al giornalista: «Tu qui sei come un armadietto!». E, come questo, sono decine gli spunti: esilaranti e banali, divertenti e tragici (la morte, l’anno prima, di Lorusso e Pezzella cui, su richiesta dei giocatori, è dedicato il libro). Tutta roba assolutamente inedita, come i nomignoli con cui il compianto massaggiatore Raffaele Smargiassi ribattezzò tutti i ragazzi giallorossi. Ampio spazio è riservato anche ai tifosi. Il fenomeno della Curva Nord viene raccontato da uno dei fondatori, Nicola Ricci, oggi giornalista e direttore del settimanale free press «Salento in Tasca», ma non mancano i cosiddetti vip che si sobbarcavano il peso delle stesse trasferte degli altri tifosi, sia pure in Mercedes. Per tutti ne parla il tributarista leccese Ennio De Leo. A tutti i colleghi ai quali si è affiancato in quell’anno straordinario, Maffei ha dedicato un capitolo: Umberto Verri, storica firma de «La Gazzetta del Mezzogiorno», Mimmo De Gregorio di Telenorba, Marcello Favale della Rai e Silvia Famularo la quale, qualche anno dopo, diventerà un volto popolarissimo di TeleRama. Il più prestigioso giornalista sportivo leccese, Elio Donno, ha firmato la prefazione, rivelando un clamoroso inedito che riguarda proprio l’autore. Una piccola perla del libro è il ricordo, a volte toccante, di un bambino che nell’85 aveva dieci anni, di nome Saverio Sticchi Damiani. L’attuale presidente dell’Us Lecce intreccia il passato del tifoso sfegatato al presente del manager oculato, e rivela la sua strategia aziendale, molto prossima ad un progetto sociale per il territorio. Il libro si conclude con una postfazione firmata da Gabriele De Giorgi, firma del quotidiano on line Lecce Prima, il quale il meno di 20 pagine ripercorre le successive promozioni in Serie A del Lecce. Tutte belle ed esaltanti. Ma nessuna come la prima.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Succede in Basilicata.

Nella Basilicata del petrolio la green economy è diventata un incubo. L’oro nero ha creato guasti alla regione e meno occupazione di quanto promesso. Ma l’eolico selvaggio ha devastato il paesaggio, alimentato speculazioni e reso inabitabili molti paesi. Così i cittadini e i Comuni si mobilitano (foto di Michele Amoruso per L’Espresso). Marco Griego su L'Espresso il 25 agosto 2021. A Viggiano, la cappella della Madonna nera venerata dai lucani domina sul grande polo industriale a valle, dove c’è un’altra nera ricchezza che ha acceso i motori della regione dalla fine degli anni Novanta. Sull’intera area, inclusa la Val d’Agri, si estende il giacimento di petrolio più ricco d’Europa. Nel Texas d’Italia, la green economy prospettata dal Piano nazionale di ripresa e resilienza sembra, però, un miraggio: «Se vogliamo declinare la transizione energetica a livello regionale, dobbiamo andare oltre il petrolio», ammette Antonio Lanorte, presidente regionale di Legambiente. Così, mentre a Bruxelles si contano i 25 miliardi di euro di anticipo sul piano nazionale per la transizione ecologica, l’economia verde lucana ha già preso altre vie, alcune così distorte da impattare sulle comunità che costellano la regione: «Negli ultimi dieci anni, la regione ha visto speculazioni nel campo di rinnovabili come l’eolico e oggi c’è un clima culturale che vede queste soluzioni come la peste», spiega Lanorte. In Basilicata, la black e green economy non sono stati il volano dello sviluppo prospettato e lo dicono nero su bianco i numeri dell’occupazione: «In passato è stato creato lavoro, ma non nella misura delle cifre dichiarate delle compagnie petrolifere», spiega Davide Bubbico, professore associato di Sociologia economica e del lavoro all’Università di Salerno. Nella regione, il carbon fossile non è un freno allo spopolamento: una vera e propria emorragia sociale a scapito delle nuove generazioni, che neppure il welfare di pochi comuni irrorati dalle royalties riesce ad bloccare. La lista delle criticità è lunga. Lo sa bene Giorgio Santariello, fondatore del collettivo Cova Contro, che da anni cerca di accendere la luce sulle ombre del carbon fossile lucano: «Oggi si vuole puntare sul Pnrr lasciando aperta la grande ferita cronica di questa regione: l’assenza dei controlli ambientali», denuncia. Giorgio è prossimo ai quarant’anni e, quando ha deciso di aprire un’associazione con dieci amici, non aveva ben chiaro quanto i problemi generati dall’industria energetica siano radicati: «Oggi noi facciamo intelligence ambientale dove i controlli non arrivano. Sul territorio, le soprintendenze hanno poco personale, per cui non possono ispezionare di frequente i cantieri. Noi cerchiamo di colmare questo buco, perché spesso vengono a mancare stimoli per cambiare», spiega. Oggi grazie a una rete di sentinelle su tutto il territorio, da giovani attivisti a pensionati muniti di smartphone, Cova Contro denuncia quei progetti che sconfinano nell’illegalità: «Abbiamo fermato lo sversamento di acque che venivano dall’estrazione per essere immesse nei torrenti della località Tempa Rossa e nell’invaso della diga del Pertusillo, che porta acqua potabile nelle nostre case». Mentre sta parlando, Giorgio riceve la chiamata di un amico che sta facendo analizzare l’acqua del mare dopo una febbre anomala dei figli: «Gli impianti di depurazione a ridosso della costa non funzionano correttamente quando c’è un grande afflusso di turisti», spiega. Con l’allineamento agli obiettivi europei di de-carbonizzazione e l’attività incessante delle estrazioni, loro sono i primi a chiedersi quale sarà la strada che la regione intraprenderà fino al 2050. Nell’alta Val Basento, anche l’incantesimo delle rinnovabili sì è spezzato da tempo. Almeno dal 2015, quando i crinali che legano il potentino a Matera sono stati oggetto dell’installazione massiva di turbine eoliche. A Balvano lo chiamano eolico selvaggio, nelle contrade dove i campi agricoli sono invasi dall’ombra di pale che sembrano ecomostri. Qui l’energia eolica ha segnato drammaticamente il futuro di tante famiglie, come quella di Mario Bagnulo che, dopo vent’anni di lavoro nella ristorazione italiana, oggi rimpiange il ritorno al paese d’origine: «Sarei disposto a vendere tutto e partire con la mia famiglia, ma la quotazione della casa è scesa da quando hanno installato le pale eoliche nelle vicinanze», spiega. Da lontano, la sua casa blu abbacinata dal sole sembra emergere da un quadro di Magritte, ma è solo un’illusione nel luogo dove gli appezzamenti agricoli divenuti lotti industriali, il suono metallico degli aerogeneratori da sottofondo: «Ne ho contati sedici, di cui tre a meno di duecento metri dal patio», indica amareggiato. Nei suoi occhi affranti c’è, però, la tenacia di chi ha appena intrapreso una battaglia che non vuole lasciare. È di pochi giorni fa la notizia che il pm del tribunale di Potenza, Valeria Farina Valaori, ha chiesto il rinvio a giudizio per otto persone, fra privati e dipendenti pubblici. Per Mario è l’ennesimo round di una lotta che ha iniziato con l’associazione Balvano Libera: «Siamo 150 firmatari, inclusi i sindaci di Vietri di Potenza e Muro Lucano», spiega. Con lui raggiungiamo Giovanni Bovino. Nel suo giardino il rumore di almeno sette pale eoliche in funzione ricorda il cigolio della carena di un transatlantico: «Non abbiamo tregua, quando il rumore ti entra nella testa è dura vivere la quotidianità», ammette. Sua figlia, di pochi mesi, fatica a dormire la notte: «Chiudiamo le finestre per attutire un poco il frastuono, ma quando ti abitui al rumore, ti accompagna sempre». L’area intorno al comune di Balvano ha l’aspetto di un grande parco eolico, seppure diverso dal quello della vicina Ricigliano (Salerno), costituito da dodici grandi turbine eoliche sulla montagna. Nella maggior parte dei casi, si tratta di impianti di minieolico, che producono pochi megaWatt ciascuno, e che si affastellano come una selva di mulini a vento a ridosso di abitazioni private. Oggi se ne contano 85: «Questa non è la transizione energetica che vogliamo, nessuno incentiva il fotovoltaico né c’è un interesse a riqualificare le aree industriali», lamenta Mario. Sia lui che Giovanni hanno storie che s’intrecciano ad altre. Come quella di Francesco Teta, che ogni settimana riceve la visita del veterinario per placare l’infiammazione acustica di cui sono affetti i cani che alleva: «Il rumore è martellante, non ci fai mai l’abitudine», dice Giovanni. Non è l’unico problema. D’inverno, il soggiorno di Mario sembra una sala da discoteca: «È l’effetto shadow-flickering, uno sfarfallio intermittente dell’ombra. Per limitarlo, sto facendo crescere le aiuole intorno». A pochi chilometri da Balvano, il comune di Vietri di Potenza è chiamato la porta della Lucania. Fin dal suo insediamento nel 2017, il 39enne sindaco Christian Giordano si è scontrato con la realtà dell’eolico: «Vedere arrivare sul proprio territorio aziende private che non conosciamo e che promettevano investimenti, mi ha subito insospettito perché gli impianti di cui parliamo non sono installati per coprire il fabbisogno energetico della nostra comunità né guardano alla sostenibilità del posto», spiega. Nella causa che vede fra gli imputati anche i tecnici di Balvano, il Comune di Vietri si è costituito parte civile: «Questa battaglia ormai si traduce in procedimenti giudiziari, perché ne va dell’interesse di tutta la comunità che rappresento», ammette. A pochi chilometri di distanza, il piccolo borgo di Muro Lucano è l’ultimo argine alla speculazione energivora. Il primo cittadino Giovanni Setaro, anche lui impegnato a rilanciare la realtà locale, ha in mente altre alternative alla sperequazione green: «Noi chiediamo solamente che si scelgano luoghi adatti a installare gli impianti, non possiamo accettare che sia devastato un intero paesaggio», aggiunge. Alle sue spalle, campeggia il castello dove la regina Giovanna d’Angiò fu assassinata: «Abbiamo un patrimonio da salvaguardare, se non fosse per la nostra resistenza, dietro al castello oggi avremmo pale eoliche, con un impatto anche sulle migrazioni annuali della cicogna nera», sottolinea. Per i due sindaci, la Basilicata è una terra dal grande potenziale, ma la politica spessa lo intercetta su altri binari: «Abbiamo tanti corsi d’acqua da poter investire sull’idroelettrico o sul turismo slow. Per questo, mi domando se il governo non abbia già deciso il nostro destino. In tal caso, meritiamo una risposta sincera», dice Setaro. Per Lanorte di Legambiente, è necessario tracciare scadenze temporali e tradurle in azione: «Davanti alle deadline del Pnrr, solo con un limite temporale si può procedere a una strategia di decommissioning e riconversione degli impianti industriali, perché si adattino alla green economy e non siano semplicemente tentativi di greenwashing». L’impegno dei cittadini e quello di alcuni comuni finora ha mostrato che anche l’energia green può avere un retrogusto amaro. Nella resistenza mista a rassegnazione di chi spera in una vita tranquilla, sembra di leggere ancora quanto scriveva nel Dopoguerra Carlo Levi, quando menzionava l’«antico diritto feudale di vita e di morte sui cafoni». Oggi quel “diritto” ha il volto della speculazione e del tacito assenso, ma c’è chi resiste per ricordare che il futuro può ancora cambiare, oltre le vane promesse.

Mafia caffé in Tribunale a Potenza, 14 arresti. Nuovo colpo al clan dei pignolesi di Riviezzi. C’erano loro dietro la gestione del locale nel Palazzo di Giustizia nel capoluogo lucano. Individuati anche gli autori di 2 rapine a Potenza tra il 2017 e il 2018. Il gruppo offrì anche supporto logistico per un omicidio a Melfi. Leo Amato su Il Quotidiano del Sud il 28 aprile 2021. Come atto di suprema “guapparia” avrebbero deciso di impossessarsi del bar all’interno del Palazzo di giustizia di Potenza. Proprio lì dove da almeno la metà degli anni ’90 magistrati e investigatori cercano di porre un argine alle loro “imprese” criminali. Quella stessa “guapparia” esibita nelle feste di Sant’Antonio cavalcando a pelo i muli del loro ranch nelle tradizionali corse equestri per le stradine di Pignola. E’ stata questa la goccia che ha fatto traboccare il vaso con le accuse che da anni andavano accumulandosi nei confronti del presunto boss dei pignolesi, Saverio Riviezzi, e dei suoi presunti sodali. Il risultato è stata l’operazione scattata ieri mattina, già ribattezzata “Iceberg”, che ha portato all’esecuzione di 11 ordinanze di custodia cautelare in carcere, più 3 ai domiciliari e altri 3 obblighi di firma.

Il boss è stato raggiunto dalla misura spiccata nei suoi confronti dal gip Teresa Reggio nel carcere di Ancona. Per gli altri, invece, la sveglia è suonata in piena notte con gli agenti di Squadra mobile e Sco della Polizia a bussare alle porte degli arrestati assieme alle fiamme gialle del Gico della Guardia di Finanza per gli aspetti economici. In manette, con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, è finito anche il gestore di fatto del bar del Tribunale di Potenza, Salvatore Sabato, che anni fa era già finito sotto inchiesta per estorsione assieme alla compagna, Barbara Nella, da ieri ai domiciliari, e il figlio del boss, Vito Riviezzi.
Tra le vicende per cui sono state spiccate le misure cautelari, tuttavia, c’è anche la clamorosa rapina all’ufficio postale di via Messina, a Potenza, di giugno del 2018. Quando vennero portati via 250mila euro. Come pure il colpo fallito 9 mesi prima in un altro ufficio postale di Potenza, in via Grippo, dove i rapinatori ebbero l’accortezza di bucare una gomma dell’auto della vigilanza privata per evitare distrazioni. Ma anche un drammatico fatto di sangue come l’omicidio, a Melfi, di Giancarlo Tetta, nel 2008. Un delitto che rientra a pieno titolo nella faida tra clan del Vulture per cui il gruppo dei pignolesi avrebbe offerto supporto logistico agli alleati del clan Cassotta, fornendo l’auto per i killer. Nella conferenza stampa di presentazione dei risultati dell’operazione, ieri mattina, il procuratore capo di Potenza si è soffermato anche sul riconoscimento mafioso del gruppo Riviezzi da parte dei più potenti clan ‘ndranghetistici calabresi. Quindi ha aggiunto che il prezzo offerto per accaparrarsi la gestione del bar del Tribunale sarebbe stato spropositato, ma essere lì avrebbe avuto un valore «strategico». «Non solo per incontrare coindagati, coimputati. difensori ed ottenere informazioni, ma anche per restituire particolare visibilità e prestigio ai Riviezzi». Così spiegano gli investigatori negli atti dell’inchiesta. «Attraverso l’affidamento della gestione in pianta stabile a soggetti a loro vicini, così da consentire al clan una vera e propria ostentazione di presenza verso gli altri gruppi criminali, in un luogo deputato all’amministrazione della giustizia, nel quale la supremazia della legge dovrebbe ritenersi scontata».

Da dietro quel bancone di bar, giudici, gip, pm e cancellieri ingollavano bevande calde scambiandosi confidenze e smontando impianti accusatori. Il punto non è che le forze dell’ordine hanno sgominato la mafia infiltrata tra gli uffici del Tribunale e della Procura. Il punto è come diavolo ha fatto, la Mafia, ad infiltrarsi lì, per anni. Un avvocato del foro locale parla di “diversificazione degli investimenti”. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 28 aprile 2021. La notizia è da film: il clan mafioso Riviezzi di Pignola aveva l’appalto della caffetteria interna del Tribunale del capoluogo lucano, luogo simbolo dell’inespugnabilità della giustizia. Lì, i suoi tre/quattro dipendenti eterodiretti da una testa di legno, servivano in fretta panini e parmigiane calde agli avvocati e ai clienti. Da dietro quel bancone, giudici, gip, piemme e cancellieri ingollavano bevande calde scambiandosi confidenze e smontando impianti accusatori. Proprio lì, tra quei tavoli dall’allure istituzionale, s’ affollavano pentiti, testi, imputati in attesa di processo e detenuti in attesa di giudizio, senza minimamente sospettare che quella stessa istituzione fosse affidata ai suoi peggiori nemici. Non c’era neanche bisogno di piazzare cimici: l’intero locale con il suo carico di storie, umori e informazioni era controllato dalla criminalità organizzata. L’ingresso del bar all’interno del Palazzo di Giustizia di Potenza Il clan dava così un'”eclatante dimostrazione della propria forza verso l’esterno ed allo stesso tempo si garantiva un osservatorio privilegiato all’interno di un palazzo nevralgico nel sistema di tutela e ripristino della legalità”, a detta della Dda di Potenza che attraverso la cosiddetta “Operazione Iceberg” s’è prodotta ieri in 17 misure cautelari.  Sono finite in carcere undici persone, tre ai domiciliari e tre agli obblighi di presentazione alla polizia giudiziaria; il tutto grazie all’azione congiunta di Polizia e Guardia di Finanza. Ma il punto non è che le forze dell’ordine hanno sgominato la mafia infiltrata tra gli uffici del Tribunale e della Procura. Il punto è come diavolo ha fatto, la Mafia, ad infiltrarsi lì, per anni. Un avvocato del foro locale ci parla di “diversificazione degli investimenti”. Ma, al di là della battuta, la sensazione, per il cittadino, è di totale spiazzamento; è come avere la Cia che gestisce la mensa del Cremlino, o uno jihadista che serve messa. Se il crimine penetra nei gangli stessi della giustizia, qui ogni tipo di riforma va – ci si scusi il francesismo – a farsi fottere. E hai voglia a vantarsi, come ha fatto ieri il Procuratore distrettuale Francesco Curcio – davanti alla stampa in un ardito storytelling – che il sequestro del bar interno del Palazzo di Giustizia “ha un forte valore simbolico” e che “c’è evidentemente qualcosa che non va nel controllo antimafia” (ma va’?); e ribadire “la richiesta di avere la Dia nel capoluogo lucano, anche in relazione alla presenza di clan mafiosi.”

Mafia caffè al Tribunale di Potenza, il gip: «In tanti sapevano». Intercettato un avvocato che presentava il gestore del bar del Tribunale come un «amico di Saverio di Pignola». Per il giudice si riferiva al capoclan. Leo Amato su Il Quotidiano del Sud il 29 aprile 2021. «Occorre osservare che il legame tra Sabato e i Riviezzi fosse riconosciuto non solo dai dipendenti del Bar-Caffetteria ma, incredibilmente, anche da professionisti ed avvocati». C’è anche questa constatazione tra i passaggi più duri dell’ordinanza di misure cautelari spiccata da gip di Potenza Teresa Reggio, nell’ambito dell’inchiesta sugli affari del clan guidato dal pignolese Saverio Riviezzi. A partire proprio dalla gestione del bar all’interno del Palazzo di giustizia del capoluogo. Oggi dovrebbero iniziare gli interrogatori di garanzia degli 11 finiti in carcere, a cui seguiranno i 3 agli arresti domiciliari e i 3 per cui è stato disposto l’obbligo di firma in caserma. Perché si definisca il quadro delle accuse, tuttavia, è probabile che occorra ancora del tempo. Al vaglio degli inquirenti, infatti, ci sarebbero ancora diverse vicende collaterali. Da approfondire, poi, c’è anche il modo in cui è stato possibile che un’attività del genere, con una clientela composta in massima parte da avvocati, magistrati e operatori delle forze dell’ordine, finisse a dei prestanome di un esponente del clan, Salvatore Sabato. Basti pensare ai traffici di cocaina per cui il boss è tornato in carcere, a giugno del 2018, dopo appena due anni da un altro periodo di detenzione. Finisse e vi restasse, almeno per un certo periodo, in maniera indisturbata. Anche in tanti sapevano e facevano spallucce. «Il 21.06.2018 – scrive il gip passando in rassegna il contenuto di alcune conversazioni registrate dalle microspie piazzate all’interno del locale – durante un colloquio al tavolino del bar tra Sabato Salvatore, l’avvocato – omissis – ed un uomo in corso di identificazione, proprio il legale enfatizzava le “conoscenze” del Sabato».

«Lui è amico di Saverio». Questa è la frase del legale captata dalle microspie che ha acceso la curiosità del giudice.

«Sempre l’avvocato – omissis – per non lasciare spazio ad equivoci, ribadiva all’uomo: “amico di Saverio, hai capito chi? Di Pignola, mi hai già capito. Ha i cavalli. Hai capito i cavalli? Ma lui sa andare benissimo a cavallo. Eh!”»

L’inchiesta di Squadra mobile e Gico della Finanza era partita dalla denuncia di un altro legale su un tentativo di farlo recedere dal ricorso al Tar intentato contro l’aggiudicazione della gara bandita dal Comune di Potenza per l’assegnazione dei locali del bar del Tribunale.

Ma a Sabato e alla compagna Barbara Nella (il primo in carcere e la seconda ai domiciliari) viene contestata anche un’ipotesi di turbativa nella scelta del contraente assieme ai responsabili del Comune di Potenza, Mario Giuliano e Mario Restaino, che si occuparono, nel 2017, della gara, e avrebbero spifferato «in anteprima le offerte presentate dagli altri concorrenti».

Intanto, ieri mattina, l’amministratore giudiziario nominato dal gip per il prosieguo delle attività della società “Bar del Tribunale srl” ha disposto la chiusura dei battenti fino a nuovo ordine.

A stretto giro, infatti, dovrebbe ultimare una verifica sui conti dell’azienda, al termine della quale si è riservato di decidere se far tornare i dipendenti al lavoro o meno.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Succede in Calabria. 

Le maschere di Seminara: l'arte della ceramica in Calabria. Angela Leucci il 30 Novembre 2021 su Il Giornale. Le maschere di Seminara rappresentano un'antica tradzione calabrese: una vera e propria arte, tra semplice decoro ornamentale e scaramanzia. Le maschere di Seminara sono allegre, coloratissime e perpetuano la bellezza di un artigianato antico. Eppure non sono semplicemente delle suppellettili da ammirare. Nascondono infatti radici storiche e culturali ataviche, che vanno al di là della suggestione che i manufatti suggeriscono, una suggestione che affascinò perfino l’artista Pablo Picasso.

Che cosa sono le maschere di Seminara 

Si tratta di manufatti in ceramica, successivamente dipinti o smaltati con colori spesso a contrasto, originariamente sulla falsariga delle maschere del teatro greco. D'altronde Seminara si trova in un luogo della Calabria impregnato di un superstrato di cultura ellenica, dato che è una zona della Magna Grecia. Per via dei loro colori, le maschere spiccano infatti sui muri interni o esterni delle case, sui quali vengono poste.  

Nel 1746 a Seminara, borgo posto tra pianura e montagne in provincia di Reggio Calabria, erano presenti 23 pignatari, ossia artigiani della ceramica, come in effetti risulta dal catasto onciario del tempo. I pignatari vengono chiamati così perché realizzavano non solo ceramiche a scopo ornamentale, ma soprattutto “pignati” - ossia pignatte - particolari pentole in ceramica adatte soprattutto alle cotture in umido, come zuppe. Il numero di pignatari è cresciuto nel tempo, a testimoniare che questa forma di artigianato è rimasta viva: l’arte resiste alle lusinghe del progresso e certe tradizioni popolari, anche se perdono il significato originario, rimangono presenti per il loro fascino.

Le tipologie e la funzione delle maschere di Seminara 

La forma più nota e più diffusa di queste maschere è sicuramente quella che ritrae le fattezze di un demone, per lo più ispirato ai miti di Medusa e delle Gorgoni. Le maschere “demoniache” avevano una chiara funzione apotropaica e quindi scaramantica: incassate nei muri delle nuove abitazioni, servivano infatti a tenere lontane invidie e gelosie da parte delle persone malvagie. Le fattezze delle maschere “demoniache” sono infatti spaventose perché si riteneva che solo una figura dall’aspetto molto cattivo potesse scacciare il male.

I babbaluti

L’altra forma molto diffusa è invece quella dei babbaluti, ossia delle bottiglie che richiamano i volti dei soldati borbonici, cui vengono mescolati elementi della mitologia greca, come Dioniso e i satiri. Anche questi manufatti hanno funzione per lo più apotropaica, ma in senso positivo: non servono a scacciare il male, ma a essere di buon augurio.

Dalle bottiglie ad “anello” ai guerrieri greci 

Altre ceramiche di Seminara ritraggono i temi più disparati, in questo caso con funzione per lo più tradizionale e ornamentale. Si va da bottiglie a forma di “anello” che simboleggiano l’alvo femminile - si tratta di una simbologia che risale alla letteratura medievale - in quanto fonte erotica ma anche materna, ma anche quelle a forma di riccio o di antichi lumi. Spesso queste bottiglie, oltre ad avere funzione ornamentale, sono usate come borracce per via delle capacità della ceramica di mantenere fresca la temperatura dei liquidi.

Non mancano neppure temi relativi alla cristianità, come il pesce, che possono avere una funzione votiva, e maschere che ritraggono guerrieri greci con una tipica fronte corrucciata.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

L' "Onorata sanità" calabrese: dai medici uccisi agli ospedali fantasma, da Gino Strada snobbato alla rivolta dei cittadini. Giuseppe Smorto su La Repubblica il 26 Novembre 2021. Storia dell'incrocio fra malapolitica e organizzazioni criminali in una Regione che destina il 70% del proprio bilancio alla Salute, ma ha un punteggio di 125 nei Livelli essenziali di assistenza, quando la sufficienza è 160. La Sanità è spesso un incrocio fra malapolitica e organizzazioni criminali. Come per i lavori pubblici, non c'è subappalto per le pulizie o grande opera che non scateni un certo appetito. Anche le nomine rispondono spesso a criteri di fedeltà e non di competenza. La Calabria in questo è un caso di scuola: la Regione destina una cifra intorno al 70% del suo bilancio (che supera i sei miliardi) alla Salute, il risultato è il punteggio di 125 nei LEA (Livelli essenziali di assistenza), quando la sufficienza è 160.

Candidati alle Regionali figli, mogli e cognati: la politica è affare di famiglia. Massimo Clausi su Il Quotidiano del Sud il 3 settembre 2021. E’ sempre stata una questione di famiglia la politica in Calabria. In questa tornata elettorale però questo elemento balza ancora più prepotentemente agli occhi. La montagna di dichiarazioni sulle liste pulite o rinnovate alla fine sta rischiando, almeno sulla base delle prime indiscrezioni trapelate, di partorire un topolino. Non mi posso candidare io? Nessun problema, candido mia moglie, mia figlia, mio fratello, un congiunto qualsiasi. Quasi come fosse una successione dinastica. Così alle elezioni del 3 e 4 ottobre abbiamo come candidato governatore Roberto Occhiuto, fratello del sindaco di Cosenza Mario. Nelle liste del centrodestra dovrebbe candidarsi anche il loro cognato, Piercarlo Chiappetta, probabilmente con la lista del presidente. In Forza Italia, invece, ritroviamo la figlia di Pino Gentile, Katia che evidentemente ha seppellito l’ascia di guerra contro gli Occhiuto in nome di un accordo più complessivo che passa anche dalla Camera dei Deputati. In caso di elezione di Occhiuto, infatti, il suo posto fra i banchi di Montecitorio andrà ad un altro Gentile, questa volta Andrea, figlio del senatore Antonio. Sempre in Forza Italia, ma nella circoscrizione centro, si candida un altro congiunto illustre: Silvia Parente, figlia di Claudio, due anni fa coordinatore elettorale per Forza Italia. Mimmo Tallini, coordinatore provinciale di Catanzaro degli Azzurri, ieri però ha tenuto subito a precisare che la scelta non è dovuta al fantomatico vaglio preventivo delle liste da parte dell’Antimafia. «L’esigenza di candidature femminili radicate e qualificate – scrive Tallini – ha convinto la propria figlia (di Parente, ndr), giovane professionista di Catanzaro a scendere in campo dando la disponibilità alla candidatura. Ogni altro retroscena è privo di fondamento in quanto il dottor Claudio Parente è persona candidabile, assolutamente specchiata, che non ha mai avuto bramosie di candidature e quando è stato chiamato, si è sempre messo a disposizione del partito e della coalizione». Qualche sospetto in più, invece, potrebbe sorgere sulla moglie dell’ex consigliere regionale Luca Morrone, Luciana De Francesco. Morrone avrebbe avuto qualche problema nel superare l’asticella altissima di cui parlava Roberto Occhiuto visto che si trova indagato per corruzione nell’inchiesta Passepartout nella quale, paradossalmente, è accusato di aver firmato per la defenestrazione del sindaco di Cosenza in cambio di eventuali utilità politiche future. Il paradosso è che quel sindaco era proprio Mario Occhiuto. Infine c’è un altro caso nell’Udc ovvero Flora Sculco, figlia di Enzo che però è ormai una veterana essendo già stata consigliere regionale con Oliverio e poi con la Santelli ed oggi al suo terzo tentativo di elezione. Qualche caso c’è anche nel centrosinistra. Ci riferiamo ad Aquila Villella, futura candidata del Pd nella circoscrizione centro, che è la cognata della candidata presidente Amalia Bruni. In questo caso, come ha detto la stessa candidata, è lei che ha voluto provare una parentesi politica essendo la professoressa Villella una navigata che ha sempre avuto un buon consenso elettorale. Infine c’è Graziano Di Natale in questo caso parente acquisito di Mario Pirillo di cui ha sposato la figlia. Anche Di Natale è ormai politico di lungo corso ed ha sempre cercato di tenere, per quanto possibile, un profilo autonomo rispetto al suocero. 

IL REPORTAGE - Da Scilla a Locri, viaggio nella Calabria reggina: tra bellezze, incendi e Gratteri. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 25 agosto 2021. La Calabria è un’isola circondata da tre mari e dalla catena montuosa del Pollino condivisa con la Basilicata. Lo sostiene il paesologo Franco Arminio. Ma anche Franco Brevini ha scritto di una terza isola italiana accanto a Sicilia e Sardegna.   Un’isola che ne contiene molte altre. Le Calabrie. Una matrioska con diverse identità, lingue e comportamenti. Mi sono messo in viaggio a zonzo e a macchia di leopardo nella Calabria reggina con un taccuino e i ricordi di letture fatte e articoli scritti in passato. Cercando di capire e far capire.

SCILLA. Evito di andare a Chianalea. Un presepe marino raccolto come in un piccolo villaggio dentro una palla di vetro. Canta Pantarei: “A Chianalea le case sono barche, le barche sono case, e il mare se le prende perché gli piace”. Troppo semplice e oleografico partire dalla bellezza di Chianalea. Vado verso Favazzina, amena spiaggia circondata dai limoni. Finisco in uno dei tanti non luoghi calabresi. A sinistra si prosegue verso Bagnara terra di matriarcato e delle sorelle Bertè-Marini. Mi infilo sotto un cavalcavia. Detriti e piccole discariche. Attraverso cunicoli di strade che solcano piccole case basse meridionali. Arrivo su una spiaggia. Grande. Non hai problemi di distanziamento. Uno stabilimento ha piazzato un lido ristorante accogliente. Prezzi decenti, pietanze anche. L’odore del mare è intenso. Le acque sono intorpidite dalle alghe. Nel mese di luglio l’operazione “Lampetra” ha sgominato il clan locale. Una rete di spaccio di 400 clienti tra Scilla e Bagnara. Volevano sequestrare il sindaco per mettergli paura e farsi dare una concessione per una spiaggia. Se guardi Scilla non la vedi la ‘ndrangheta. Pensi ad altro. Al mare e alla bellezza.  La scopri nei media la mafia calabrese. Le ‘ndrine sono un miraggio.

REGGIO CALABRIA. Raggiungo la città dalla strada provinciale. Attraverso un itinerario spesso panoramico. Passo da Villa San Giovanni. Un paesaggio multiforme alterna palazzi vetusti e imperiosi a brutture moderne sorte con la ricchezza. È la controra simile alle lande del Messico. Arrivo a Reggio Calabria. La più grande rivolta di massa del Novecento non è riuscita a farla diventare capoluogo di regione. Una Regione inutile. Schiava degli interessi di pochi e di parte. Reggio è capoluogo morale. Alla gran parte degli italiani se chiedi qual è il capoluogo della Calabria ti rispondono Reggio. È anche città metropolitana Reggio Calabria. Comprende 97 comuni, molti non hanno nessuna identità metropolitana. È l’antico territorio della Calabria Ulteriore Prima. Andavano federati meglio i numerosi quartieri di Reggio che dal mare salgono fino all’Aspromonte. Oppure unirsi con Messina per costruire una vera metropoli in mezzo al Mediterraneo. Impossibile nell’Italia dei campanili e da parte di una città che ha combattuto per essere capoluogo. Vado al Waterfront. Regium Waterfront. I creativi hanno puntato su antico e postmoderno. Né carne né pesce. Ma è una svolta urbanistica da non disperdere. All’inaugurazione i fans mai domi dell’ex sindaco Scopelliti hanno srotolato uno striscione con su scritto: “Grazie Peppe, no Giuseppe”. Falcomatà junior ha cercato di essere inclusivo ma non è bastato. C’era vicino anche quello della sezione intitolato a Ciccio Franco. Quello della canzone di Giovanna Marini: “Domani tutto chiuso in segno di lutto. Ha detto Ciccio Franco a Sbarre”. Quando Nord e Sud si unirono a Reggio Calabria nella capitale fasciomissina d’Italia. Tanto tempo fa. Quarant’anni dopo la gran parte dei reggini, almeno loro, si sono pacificati con i propri fantasmi. C’era anche la ‘ndrangheta nella Rivolta per la prosa giudiziaria. Di recente la sentenza Gotha ha lasciato la città indifferente a mangiarsi il buon gelato di Cesare a via Marina. Un Gotha a metà. Condannati duramente Paolo Romeo puparo di ogni stagione e don Pino Strangio rettore del Santuario di Polsi. Assolto l’ex senatore Antonio Caridi che ha scontato ingiustamente carcere e processo mediatico. Assolto anche l’ex presidente della Provincia Giuseppe Raffa. Condannati 15, assolti 15. Finisce tutto a pareggio sulla ruota della Giustizia a Reggio Calabria.

PALIZZI. Dalla 106 il cartello mi richiama un luogo che non ho mai visto. L’ho sentito la prima volta grazie ad un film di Citto Maselli “Storia d’amore”. Uno dei personaggi si chiamava da Palizzi, veniva da lì. Maselli era stato da queste parti come aiuto di Luigi Chiarini per girare “Il tocco del diavolo” da un soggetto di Corrado Alvaro. Palizzi è un incanto. C’è un lido che si chiama “L’ultima spiaggia”. Chissà se pensavano di far coro all’omonimo di Capalbio. Ma qui sulla rena dorata è un mare azzurro senza intellettuali vip da ztl. Pochi emigrati di ritorno e qualche reggino. Una masseria gentilizia cadente sta di fronte al bagnasciuga. Potrebbe finire il mondo a Palizzi. Un’ultima spiaggia dove potremmo passare le nostre ore felici e rilassate. Si potrebbe vivere di turismo in Calabria. Ma Palizzi non sarebbe più uguale.

ARDORE. Anche qui mi porta il cinema. Un agguerrito gruppo di cinefili santifica la nascita in questo sconosciuto borgo di Francesco Misiano, un rivoluzionario comunista che produsse i film della rivoluzione. Il mare è molto bello, le spiagge grandi ospitano pochi bagnanti che vengono qui per motivi d’origine. Un solo hotel, il Panama. Vintage e accogliente. Una monade romagnola nella Locride. Sotto il balcone della stanza passano i treni che risalgono verso la jonica. Su, in paese, hanno restaurato il castello con cura e precisione. Un contenitore che potrebbe attrarre molti turisti. Ma i tour operator non sono interessati. La piazza retrostante ha degli alberi frondosi davanti ad bar che propone granite artigianali da sballo. Vecchie scritte ed effigi del duce e del fascismo sono rimaste sulle mura. Il Novecento aleggia su Ardore. Il borgo si spopola. Si rianima ad agosto. Il terribile e bellissimo Novecento delle rivoluzioni vi aleggia come uno spettro.

GERACE. La nebbia della brutta giornata consegna un’aria da film fantasy a questa rocca costellata da chiese e palazzi. Qui convivono da sempre con il turismo d’arte. Si vede entrando nella splendida cattedrale che schiera un’accoglienza che sembra di essere in Toscana. La guida parla correttamente inglese e non ha inflessioni dialettali nel sciorinare informazioni che ben conosce per averle evidentemente ben studiate. La Cattedrale di Gerace è un luogo mistico essenziale che propone mitologie e “si dice” tramandati nei secoli. Uno lo racconta il geracese più illustre della contemporaneità, Nicola Gratteri, il magistrato più celebre d’Italia, che qui è nato e ancora vive coltivando pomodori nel suo orto per rilassarsi della sua tremenda vita blindata. Dallo zio canonico in Cattedrale egli ha appreso e ci tramanda che le misure enormi sarebbero state stabilite sulle rispondenze dell’Arca di Noè. Gratteri a Gerace diventa un uomo normale. Diventa Noè. Quando torna a Catanzaro a lavorare diventa il Dio punitivo dell’Antico Testamento. È idolatrato dai suoi seguaci. I politici lo temono. Un titanico inquisitore che molti calabresi avrebbero votato. Qualcuno contrasta il suo giustizialismo. Nicola Gratteri, comunque la si pensi, è nella storia nazionale.

ROCCAFORTE DEL GRECO. Mi arriva un video sul telefono. Un giovane allevatore con composta dignità racconta i danni dei tremendi incendi di agosto. Il fuoco ha bruciato case, uliveti, automobili, il bosco, il casolare, 1500 metri di recinzione. Sono morte 27 capre. Qualcuno ha mandato del foraggio per gli animali vivi. Poi niente.

Servono denaro e aiuti. Lo stato di calamità nazionale tarda ad arrivare. Fate presto. Come quel famoso titolo di giornale.

LOCRI. Passo da Palazzo Nieddu. Qui alle prime Primarie uccisero davanti al seggio Francesco Fortugno, vice presidente del consiglio regionale. Pietro Grasso azzardò paragoni con il caso Moro. Ci fu reazione. Insorsero sulla scena i ragazzi di Locri grazie allo slogan “Ammazzateci tutti”. Pierluigi Diaco diceva “Siamo tutti calabresi”. Jovanotti in concerto a Locri. La Calabria era diventata un argomento nazionale. Mi sembra tutto lontano. Alla fine ci hanno ammazzato la voglia di riscatto.

La bella Calabria malata di ultimità. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 5/7/2021. Caro Aldo, Crotone rappresenta lo scempio delle politiche industriali pensate per il Sud negli anni del boom: una realtà contadina fu trasformata nella più grande realtà operaia della regione. Pertusola, Montedison, tutte le altre industrie pesanti ora chiuse hanno lasciato una eredità di inquinamento ambientale, cancellando la memoria degli antichi fasti della città, Kroton. «Parte bonifica area archeologica antica Kroton», si legge ancora oggi sul sito di Miniambiente. L’accordo fra ministeri e la Regione, del 2013, non è mai entrato in vigore. Ora, in campagna elettorale, se ne riparla. Eppure la mia terra continua a essere ultima, che si parli di ambiente, lavoro, vaccino. Dobbiamo credere ancora alla politica o fare da soli? ing. Piero Polimeni, Crotone

Caro Piero, La sua lettera mi ha riportato alla mente uno dei libri che più mi ha colpito ed emozionato quest’anno: A Sud del Sud. Viaggio dentro la Calabria tra i diavoli e i resistenti (Zolfo), di Giuseppe Smorto. L’idea dell’autore è che la Calabria si crogioli nella propria «ultimità», che diventa una sorta di mestiere, di fonte di sostentamento, di «burocrazia del perenne declino». La Calabria è rovinata (anche) dal lamento, dall’«ostinazione alla disgrazia». La ‘ndrangheta ovviamente esiste ed è molto potente, ma a volte diventa anche un alibi. La struttura amministrativa è lenta e farraginosa, pare fatta apposta per alimentare se stessa, e per richiedere la tangente come unico mezzo di risoluzione dei problemi. Va da sé che la Calabria sia bellissima, e sia abitata da persone capaci e intelligenti, come dimostra l’impressionante numero di calabresi che si sono affermati a Milano, a Roma, in Europa, nel mondo. Ma come fai a dire a un figlio che deve studiare per poi andarsene? Per fortuna Giuseppe Smorto è calabrese e orgoglioso di esserlo; se avessi scritto io, che calabrese non sono, le cose che ha scritto lui, non potrei più mettere piede tra Cosenza e Reggio. Ma in realtà si criticano le cose che si amano; e l’autore ama profondamente la propria terra. Lei, gentile ingegnere, chiede se i calabresi debbano fare da sé. Certo che sì; ma devono anche pretendere infrastrutture di livello europeo. A cominciare dall’alta velocità e dal ponte sullo Stretto: cui però molti calabresi (compreso Smorto) sono contrari, perché temono diventi un modo per bypassare la Regione, per usarla in modo da arrivare più rapidamente in Sicilia.

Dagospia il 21 giugno 2021. Da "KlausCondicio". «Sono un pacifico sessantenne. Mantengo i sentimenti ma veramente c'è molto poco spazio per avere a fianco una persona a cui non potrei dedicare il tempo necessario. Non ho una relazione fissa e tantomeno mobile. Sono stato birichino per tantissimi anni ma ora ho altro da fare». Lo ha dichiarato Nino Spirlì, Presidente della Regione Calabria, intervistato da Klaus Davi per il programma KlausCondicio in onda su Youtube.

SPIRLÌ: "HO AVUTO GRANDI AMORI ANCHE CON RAGAZZE". «È assolutamente vero che ho avuto dei grandi amori, anche importanti, con ragazze, specialmente da Palmi in su. Sì, alcuni grandi, ma io sono un traghettatore anche sentimentale per cui non ho mai badato al sesso, mi sono adeguato a quello che ho trovato, mi sono innamorato della persona. Sono ancora in contatto con queste ragazze, io con tutti i miei amori del passato ho sempre mantenuto un bellissimo rapporto. Come accade sempre nella vita ci si lascia in due però mediamente se ne assume la responsabilità o si dà la responsabilità a una, ma in linea di massima si costruisce in due l'arrivederci o l'addio».

SPIRLÌ: "SUD OMOFOBO UN FALSO, DA GAY MAI AVUTO PROBLEMI IN CALABRIA". «Mai avuto problemi in Calabria. Sono cresciuto in piena armonia con due genitori meravigliosi che mi hanno pienamente accettato. Dobbiamo sfatare questo pregiudizio verso il Sud. Il Sud ‘omofobo’ ha prodotto tre governatori omosessuali: Nichi Vendola, Rosario Crocetta e Nino Spirlì. Proprio quello Spirlì che è stato riconfermato proprio da Matteo Salvini. Alla faccia di chi dice che la Lega sia omofoba».

SPIRLÌ: "MUSSOLINI? CONDANNO LEGGI RAZZIALI MA HA FATTO ROVOLUZIONE SOCIALE". «Condanna assoluta e totale delle leggi razziali e delle guerre coloniali, della seconda Guerra Mondiale e di Salò ma bisogna riconoscere che il Duce è stato soprattutto all'inizio fautore di una rivoluzione sociale. Per la sua parte socialista mi piace dire che andrebbe riletto e nella rilettura dare una valutazione positiva a quello che la merita, poi c'è altro che non la merita. Una rilettura oggi si può fare». «Ha creato - continua Spirlì - le case popolari, le pensioni, l'assistenza all'infanzia, l'assistenza alle donne, le bonifiche, l'industrializzazione, la grande industria della cinematografia con la costruzione di Cinecittà. Insomma tante e tante cose sono state fatte in quegli anni e io non posso dimenticarlo. Perché sarebbe come dire che dalla Prima Repubblica dobbiamo cancellare tutto perché ci sono state anche le stragi».

SPIRLÌ: "BERLUSCONI? PER ME SAREBBE UN OTTIMO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA". «Silvio Berlusconi per me sarebbe un ottimo Presidente della Repubblica», ha dichiarato Nino Spirlì. Il presidente calabrese ha anche ricordato i suoi anni a Mediaset: «Ci ho passato quasi 19 anni, dal '94 al 2011, una bellissima galoppata professionale. Con me la famiglia del presidente Berlusconi è stata sempre molto generosa, dimostrando grande affetto famigliare. Mi colpiscono gli attacchi ingiustificati, a volte anche pesanti e volgari, che hanno punito in maniera eccessiva e gratuita Berlusconi, come se fosse necessario infangarlo quando in realtà oggi ci si rende conto che si ha a che fare con una persona che va oltre ogni condizionamento, un uomo di un ingegno incredibile, rappresentativo del carattere dei grandi italiani».

La sfidante di Occhiuto e de Magistris. Chi è Maria Ventura, l’imprenditrice e presidente regionale Unicef candidata da PD e M5S in Calabria. Carmine Di Niro su Il Riformista il 18 Giugno 2021. Dopo una lunga tribolazione, annunci e rinunce, Partito Democratico e Movimento 5 Stelle hanno finalmente un nome come candidato alla presidenza della Regione Calabria. Si tratta di Maria Antonietta Ventura, imprenditrice di 53 anni, presidente del Cda del Gruppo Ventura che opera nel settore industriale dell’armamento ferroviario, presidente del comitato regionale Unicef della Calabria. “Sono ancora frastornata – sono state le sue prime parole all’Ansa – e sto cercando di riprendermi. E’ una situazione completamente nuova nella quale devo cercare di calarmi al più presto. Ho accettato appena mi è stato proposto di candidarmi”. Maria Antonietta Ventura vive a San Lucido, nel cosentino, ed è sposata col sindaco Dem della città Cosimo De Tommaso, titolare dell’omonimo marchio di calzature artigianali. Una candidatura, quella di Ventura, tra impresa e impegno sociale: entrata sin dalla giovane età in contatto col mondo del lavoro, avvicinandosi al settore industriale dell’armamento ferroviario, attività avviata dal nonno nel primo ventennio del secolo scorso, attualmente è presidente del Cda del Gruppo Ventura. Ma alla parte imprenditoriale Ventura ha aggiunto l’attenzione per il sociale, con l’impegno nel mondo dell’associazionismo: Unicef, Fidapa, Assisi pax international, Fondazione Marisa Bellisario le attività in cui è stata impegnata. Nel periodo della pandemia con proprie risorse ha garantito sostegno diretto ai Comuni e al Servizio sanitario l’erogazione di fondi per superare le difficoltà rivenienti dal Covid-19. Nel voto che si terrà in autunno Ventura sfiderà per la presidenza della Regione il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, il capogruppo alla Camera di Forza Italia Mario Occhiuto ed Ernesto Magorno, senatore di Italia Viva.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Maria Antonietta Ventura chi è: la candidata Pd-M5s per le elezioni regionali Calabria 2021. Jacopo Bongini il 18/06/2021 su Notizie.it. La coalizione di centrosinistra capeggiata da Pd e M5s ha scelto l'imprenditrice Maria Antonietta ventura come candidata alle regionali in Calabria. Dopo molte settimane di incertezze finalmente anche la coalizione di centrosinistra ha scelto il candidato alle prossime elezioni regionali in Calabria. Candidato che risponde al nome di Maria Antonietta Ventura; imprenditrice e presidente del Comitato regionale per l’Unicef. Ventura, 53 anni, è infatti presidente del Cda del Gruppo Ventura, che opera nel settore industriale dell’armamento ferroviario. La candidatura di Ventura va dunque ad aggiungersi a quella di Luigi De Magistris di DemA, a quella di Roberto Occhiuto per la coalizione di centrodestra e a quella dell’indipendente Carlo Tansi. Originaria di San Lucido, in provincia di Cosenza, Maria Antonietta Ventura ha commentato la sua candidatura ai microfoni dell’Ansa con le seguenti parole: “Sono ancora frastornata e sto cercando di riprendermi. È una situazione completamente nuova nella quale devo cercare di calarmi al più presto. Ho accettato appena mi è stato proposto di candidarmi”. L’imprenditrice ha poi aggiunto: “Io immagino una Calabria più semplice e fruibile per tutto, perché abbiamo le potenzialità per diventare il posto più bello del mondo. Una terra che già di suo è meravigliosa, ma che deve diventare soprattutto vivibile, dove non deve essere tutto complicato. Qui da noi, e lo sappiamo bene, è complicato fare impresa, accedere in ospedale, portare i propri figli all’asilo, tutti temi sui quali si può e si deve lavorare”. Oltre a Pd e M5s il nome di Ventura dovrebbe trovare l’appoggio anche di Liberi e Uguali, Partito Socialista Italiano, Centro democratico e le alcune liste civiche calabresi. Secondo quanto appreso da fonti locali inoltre, di fronte al nome dell’imprenditrice potrebbe accodarsi anche Carlo Tansi, che alle scorse regionali del 2020 aveva corso da indipendente e che recentemente ha rotto l’accordo che aveva stretto con Luigi De Magistris. Al nome di Ventura si sarebbe arrivati dopo che Pd e M5s avevano compilato una precedente ‘short list’ con i nomi di possibili candidati, nella quale il punto fermo era che il prescelto fosse una donna. Tra i papabili erano presenti la magistrata Gabriella Reillo e una giornalista del quotidiano la Repubblica di origini calabresi. Su Reillo, e su possibili candidature di magistrati, sarebbe però stato Giuseppe Conte in persona a dire no.

Passo indietro per vicende giudiziarie. Psicodramma centrosinistra in Calabria, Ventura si ritira: era stata indicata da Letta e Conte. Fabio Calcagni su Il Riformista il 3 Luglio 2021. Sta assumendo i contorni della farsa la strategia del centrosinistra in Calabria, Regione dove in autunno si andrà a voto per trovare il successore di Jole Santelli, la governatrice tragicamente scomparsa lo scorso ottobre. Il centrosinistra si ritrova infatti senza un candidato a pochi mesi dalle urne: Maria Antonietta Ventura, l’imprenditrice scelta lo scorso 18 giugno da Enrico Letta, Roberto Speranza e Giuseppe Conte, allora leader in pectore dei 5 Stelle, ha fatto venerdì sera “un passo di lato”. Al nome del presidente di Unicef Calabria e del Cda del Gruppo Ventura, società di famiglia che opera nel settore dell’armamento ferroviario, si era arrivati non senza polemiche: il consigliere regionale Dem Nicola Irto era stato "costretto" al ritiro perché bocciato dagli stessi vertici del Nazareno sull’altare dell’alleanza con Conte. Alleanza di centrosinistra che aveva quindi puntato sull’imprenditrice di 53 anni, che però ieri ha preferito ritirarsi dalla corsa alla Regione Calabria sulla spinta delle polemiche riguardanti vicende giudiziarie dell’azienda di famiglia. Venerdì si era diffusa la voce di una interdittiva antimafia che avrebbe colpito una delle aziende del gruppo. Voce che è rimasta tale, sottolinea anche l’Ansa, non avendo trovato conferme. “Avevo deciso – afferma la Ventura in una nota – di raccogliere l’invito a candidarmi e condurre una battaglia fiera e leale, a viso aperto, con parole chiare e proposte concrete per ridare dignità alla Calabria e orgoglio ai calabresi. Preferisco però, con dolore, fare un passo di lato per evitare che vicende, che – lo sottolineo con forza – non mi riguardano personalmente, possano dare adito a strumentalizzazioni che nulla avrebbero a che fare con il merito della campagna elettorale”. Il pensiero va poi alle “oltre 1.000 famiglie dei lavoratori diretti e indiretti relativi alle aziende del mio gruppo” che, dice Ventura, “ho la responsabilità di tutelare”. In campo per le Regionali restano dunque il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, il capogruppo alla Camera di Forza Italia Mario Occhiuto ed Ernesto Magorno, senatore di Italia Viva.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

La candidatura Ventura nata sventurata e deragliata per l'antimafia. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 2 luglio 2021. Nata male e finita peggio la storia di Maria Antonietta Ventura, candidata presidente del centrosinistra alle prossime regionali. A fronte delle evidenze, stasera c’è stato il passo di lato dell’amministratrice del gruppo operante nel settore ferroviario (LEGGI) che a fronte dell’interdittiva antimafia emanata dalla prefettura di Lecce (ce ne sarebbe una seconda anche da Napoli), ha capito che non era il caso di continuare a sostenere difese con questioni di omonimie e altre pezze a colori. Un disastro da parte di chi ha gestito la partita a Roma. Ad iniziare dal segretario Enrico Letta, e poi Giuseppe Conte e Francesco Boccia, pronube del partito in Calabria come responsabile dei rapporti con i territori e da pochi giorni commissario della Federazione del Pd di Cosenza. Un dilettantismo da ragazzini ha caratterizzato i responsabili nazionali che nell’incontro romano che ha deciso di puntare sulla donna di Confindustria nonché presidente regionale dell’Unicef erano stati messi a conoscenza del problema in corso in evoluzione in Puglia per un subappalto finito ad un’azienda in odore di mafia per vicinanza ad una cosca di Isola Capo Rizzuto. La candidata sarebbe stata rassicurata che la vicenda non presentava grandi problemi e i vertici nazionali avrebbero anche avviati riscontri presso la prefettura di Roma che avrebbero dato esiti negativi rincuorando l’entourage dei Ventura. Una grande superficialità ha creato una situazione precipitata ieri. Le interdittive esistono. Accertata a Lecce ed emessa dalla prefettura il 9 aprile del 2021 e rimbalzate a quanto pare anche a Napoli. A quel punto, mentre si preparava la prima uscita pubblica per domenica a San Lucido, paese dove il marito della Ventura è sindaco, non è rimasto che chiamare la ritirata. Per il centrosinistra tutto da rifare. Il casting del candidato riprende. Per la Ventura un’avventura sventurata. Un deragliamento che si poteva evitare.

Il documento - L’interdittiva Ventura che ha provocato il ritiro. Il Quotidiano del Sud il 3 luglio 2021. Perché un candidato benedetto a Roma da Enrico Letta, Boccia, Giuseppe Conte, Spadafora a 48 ore dal suo primo comizio e con i manifesti stampati per la sua campagna elettorale decide di fare un passo a lato schiantando nel silenzio il centrosinistra nazionale e locale? Tutto ruota attorno ad una interdittiva della Prefettura di Lecce che abbiamo deciso di rendere pubblica per permettere ai nostri lettori di conoscere i motivi della clamorosa ritirata. È una materia ostica quella in questione. “L’interdittiva antimafia non va confusa con la comunicazione antimafia, infatti la comunicazione antimafia presenta una natura ricognitiva sull’esistenza di cause di revoca, decadenza o divieto tipizzate. L’informazione antimafia, invece, è il frutto di una valutazione dell’autorità prefettizia, che si basa su una serie di elementi sintomatici ed esprime un motivato giudizio, in via preventiva, sul pericolo di infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa; in virtù di tale rischio, viene interdetto l’inizio o la prosecuzione di attività con l’amministrazione pubblica o l’ottenimento di sussidi, benefici o sovvenzioni, determinando la revoca di quelli già erogati. L’interdittiva antimafia è una misura preordinata alla tutela dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica amministrazione. A differenza della comunicazione antimafia, l’informazione interdittiva si basa su una valutazione discrezionale, da parte dell’autorità prefettizia, in merito alla sussistenza (o meno) di tentativi di infiltrazione della criminalità. La suddetta valutazione è fondata su «fatti ed episodi i quali, seppure non assurgano al rango di prove o indizi di valenza processuale, nel loro insieme configurino un quadro indiziario univoco e concordante avente valore sintomatico del pericolo di infiltrazioni mafiose nella gestione dell’impresa esaminata» (Tar Toscana 910/2018).” I contenuti dell’interdittiva avrebbero allarmato i vertici romani nelle ultime ore, quando si è preso contezza dell’inchiesta “Passpartout” condotta da Nicola Gratteri. Pur se di fatti tutti ancora da provare, mediaticamente avere la famiglia della candidata indagata dal pm più famoso d’Italia non era sostenibile. Per questi motivi pubblichiamo integralmente questo documento (per la visualizzazione a schermo intero clicca sul quadrato in basso a destra).

Le elezioni nel prossimo autunno. Chi è Roberto Occhiuto, il candidato del centrodestra alle elezioni in Calabria. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Giugno 2021. Il centrodestra ha scelto Roberto Occhiuto come candidato alla presidenza della Regione Calabria. Il voto si terrà il prossimo autunno, dopo la morte improvvisa della governatrice Jole Sanelli, lo scorso autunno, che aveva vinto le ultime elezioni. A dare l’annuncio lo stesso Occhiuto, capogruppo di Forza Italia alla Camera che ha incontrato a Vibo Valentia i suoi sostenitori: “I mesi con Jole Santelli presidente sono stati straordinari, un’esperienza vista da fuori come grande riscatto territoriale. La nostra sarà un’esperienza di continuità. Ripartiremo dalla sanità. Ci batteremo per la fine del commissariamento ma soprattutto perché ai posti apicali ci siano persone con competenze in sanità”. Occhiuto ha 52 anni, è in parlamento dal 2008. È nato a Cosenza ed è fratello di Mario, sindaco di Cosenza. È giornalista pubblicista e laureato in economia. È stato direttore generale del gruppo Media TV. È stato eletto consigliere comunale di Cosenza nel 1993. Ha aderito, dopo una polemica con i leader locali di Fi, ha aderito al Centro Cristiano Democratico di Pierferdinando Casini e quindi nell’Unione dei Democratici Cristiani e di Centro. È stato quindi eletto alle Regionali del 2005. Alle politiche del 2013 è stato confermato alla Camera dei Deputati. Nel 2013 è tornato in Forza Italia. Dopo le politiche del 2018 è stato promosso a capogruppo dal febbraio 2021. Una candidatura politica, in Calabria, a differenza di quello che sta succedendo altrove. L’annuncio su Occhiuto a due giorni da quelli sulla candidatura a Roma di Enrico Michetti, sponsorizzato dalla leader di Fdi Giorgia Meloni, in ticket con la magistrata Simonetta Matone, e a Torino di Paolo Damilano. Restano dunque scoperte le caselle di Milano e Bologna. L’annuncio per il candidato nel capoluogo lombardo dovrebbe spettare a questo punto a Matteo Salvini, Segretario della Lega. Le caselle del centrodestra si stanno riempiendo via via. A centrosinistra intanto è caos e rissa. Nicola Irto, consigliere regionale e astro nascente del Pd, è saltato. Forse bruciato per l’appoggio poco consistente del Movimento 5 Stelle. Insiste il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, che tuttavia non sembra convincere. Si voterà tra il 15 settembre 2021 e il 15 ottobre 2021.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Concussione sessuale, arrestato il sindaco di Petilia Policastro Nicolazzi. Il Quotidiano del Sud il 18 aprile 2021. PETILIA POLICASTRO (CROTONE) – I carabinieri del Comando Provinciale Carabinieri di Crotone hanno arrestato il sindaco di Petilia Policastro Amedeo Nicolazzi su disposizione del gip di Crotone e come richiesto dalla Procura. Il primo cittadino, per i quali sono stati disposti gli domiciliari, è accusato di concussione sessuale in un’inchiesta che nei mesi scorsi era stata raccontata sulle pagine del Quotidiano. Il 27 luglio 2018 una madre che si era rivolta a lui per trovare un posto di lavoro al figlio ha subito delle molestie sessuali. Il sindaco è attualmente ricoverato in un ospedale romano perché colpito dal Covid e le sue condizioni sarebbero gravi. Nella stessa operazione che comprende arresti domiciliari e divieto di dimora nella provincia di Crotone, sono coinvolte altre sette persone ritenute responsabili, a vario titolo, di peculato, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, corruzione in atti giudiziari, concussione e violenza sessuale. Gli arresti domiciliari sono scattati anche per l’ex vice sindaco Francesca Costanzo. Divieto di dimora nella provincia di Crotone invece per Palmo Garofalo (imprenditore edile), Antonio Curcio (consigliere di maggioranza), Marilena Curcio (ex componente dello staff del sindaco), Vincenzo Ierardi (assessore ai Lavori pubblici del Comune di Petilia), Sebastiano Rocca (tecnico del Comune di Petilia) e Domenico Tedesco (direttore del dipartimento di Prevenzione dell’Asp di Crotone). Secondo gli inquirenti i pubblici amministratori e il dipendente del Comune di Petilia Policastro, in più occasioni dall’aprile al dicembre 2018, si sono appropriati arbitrariamente o comunque hanno distratto dalle loro finalità alcune derrate alimentari rientranti nel cosiddetto progetto “Lotta alla povertà”, per il quale il Comune di Petilia aveva sottoscritto una convenzione con il Banco delle Opere di Carità. Era stato stabilito che i beni alimentari venissero distribuiti per il sostegno delle persone indigenti. Diversi invece sono stati i pacchi viveri distribuiti non a soggetti bisognosi e ricompresi negli appositi elenchi, ma ad amici e conoscenti e addirittura, in alcune occasioni, anche a persone appartenenti alla locale criminalità. Le indagini hanno altresì permesso di acquisire gravi indizi in relazione ad un episodio di corruzione verificatosi il 21 novembre 2018 a Crotone. In quella data, in un bar, due amministratori e un tecnico comunale del Comune di Petilia, su mandato del sindaco, si sono accordati con un dirigente del Dipartimento di Prevenzione dell’Asp di Crotone, affinché, ricevuti alcuni beni alimentari quali olio e castagne, questi provvedesse a diminuire, arbitrariamente, un’ammenda di circa tremila euro. La sanzione era stata elevata, il 15 novembre 2018, da due ispettori della stessa Asp, i quali avevano rilevato in un cantiere comunale delle violazioni in materia di tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro. La modifica del verbale aveva comportato una riduzione della sanzione pecuniaria e un indebito vantaggio nell’ambito di due procedimenti penali instaurati presso la Procura della Repubblica di Crotone, per il Responsabile dei lavori e il titolare dell’impresa edile che stava svolgendo i lavori.

Gabriella Mazzeo per "fanpage.it" il 18 aprile 2021. Si era recata dal sindaco per chiedere lavoro per suo figlio, ma il primo cittadino avrebbe cercato di violentarla. L'apice di una serie di illeciti contestati al sindaco di Petilia Policastro, Amedeo Nicolazzi: tra questi anche il dirigente di un'azienda ospedaliera corrotto con un fiasco d'olio  e pacchi alimentari donati agli elettori invece che agli indigenti. La procura di Crotone, tramite un'inchiesta, ha così potuto capire alcuni spaccati sulle stanze del potere locali. Coinvolti, oltre al sindaco esponente di Fratelli d'Italia, anche l'ex vicesindaco Francesca Costanzo, l'assessore ai Lavori pubblici Vincenzo Ierardi, Marilena Curcio dello staff del sindaco, il tecnico comunale Sebastiano Rocca, un imprenditore edile, un consigliere di maggioranza e il direttore del dipartimento di prevenzione dell'Asp di Crotone. Nicolazzi è stato denunciato. Attualmente il primo cittadino si trova ricoverato per Covid a Roma. I domiciliari sono invece stati eseguiti nei confronti del vicesindaco, mentre per gli altri è stato deciso il divieto di dimora nei comuni di residenza. Si contestano concussione, corruzione in atti giudiziari, soppressione e occultamento di atti, peculato, falsità ideologica e violenza sessuale.

La tentata violenza. Il fatto sarebbe avvenuto in ufficio nel mese di luglio 2018, dove il sindaco aveva ricevuto una donna disperata praticamente indigente. La cittadina aveva chiesto un posto di lavoro per il figlio disoccupato da anni. A quel punto Nicolazzi avrebbe cercato di rassicurare la donna, proponendole "opportunità" per suo figlio legate però al suo comportamento durante l'incontro. La donna ha quindi chiesto cosa avrebbe dovuto fare per aiutare suo figlio e il sindaco avrebbe chiesto esplicitamente una prestazione sessuale. Avrebbe cercato di rubarle un bacio e metterle le mani addosso. La donna è fuggita prima che potesse accadere il peggio. Il dialogo col primo cittadino è stato registrato da alcune microspie posizionate in ufficio, lì istallate per chiarire i risvolti dell'inchiesta su tentativi di corruzione.

La corruzione. Nelle intercettazioni in possesso della Procura di Crotone, si parla di favori e corruzione per funzionari pubblici e dipendenti comunali. C'è chi corrompe un dirigente dell'Asp per evitare di pagare una multa amministrativa sui cantieri comunali e chi usa i pacchi alimentari destinati agli indigenti per fare un dono agli elettori. Nel primo caso si deve tornare al 2018: in un bar di Crotone un tecnico comunale petiliese e due amministratori comunali si sono accordati con il dirigente Tedesco per evitare il pagamento di un'ammenda di 3mila euro fatta al Comune per illecito amministrativo. In cambio? Un fiasco d'olio e un paio di chili di castagne. I doni di pacchi alimentari, invece, riguarda il primo lockdown, quando le chiusure hanno costretto centinaia di persone a chiudere le loro attività. Ebbene, per ringraziare l'elettorato della coalizione, il sindaco e altri amministratori indagati avrebbero fatto loro dono degli aiuti per i più deboli. Secondo quanto ascoltato dagli inquirenti, vi sarebbero anche state indicazioni per favorire anche appartenenti a cosche di ‘ndragheta locali. Di questo ultimo elemento, però, non sono ancora stati trovati riscontri.

Morra indagato per le frasi dopo la morte di Jole Santelli: «Notizia dopo annuncio dell'audizione di Palamara». Il Quotidiano del Sud l'11 febbraio 2021. Il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra, è indagato in un’inchiesta della Procura di Cosenza per diffamazione. Morra è stato querelato dalle sorelle di Jole Santelli, Paola e Roberta, dopo la frase pronunciata dal senatore del Movimento 5 Stelle subito dopo la morte della governatrice. Morra, infatti, aveva detto: «Sarò politicamente scorretto, era noto a tutti che la presidente della Calabria Santelli fosse una grave malata oncologica. Umanamente ho sempre rispettato la defunta Jole Santelli, politicamente c’era un abisso. Se però ai calabresi questo è piaciuto, è la democrazia, ognuno dev’essere responsabile delle proprie scelte: hai sbagliato, nessuno ti deve aiutare, perché sei grande e grosso». Espressioni che avevano indotto Paola e Roberta Santelli, sorelle della governatrice, a sporgere querela. Dopo avere appreso di essere indagato, Morra ha affermato: «Dopo due giorni dall’aver divulgato la notizia della prossima l’audizione del Dott. Palamara in Commissione Antimafia, apprendo da un’agenzia di essere indagato per diffamazione». Attraverso i social, Morra ha aggiunto: «Ho il dovere-diritto della trasparenza, sarà un caso, certamente, due giorni fa ho dato la notizia della prossima audizione del dottor Luca Palamara in Commissione Antimafia, sarà forse qualche altra cosa, però, tutto potrebbe essere. Io adesso provvederò a segnalare la notizia, per come sono le regole del Movimento, a chi di dovere, ai Probiviri, al garante, e procederò tranquillamente, perché se ho sbagliato dovrò rispondere dei miei errori, se non ho sbagliato, come penso, tutto dovrà essere archiviato». Il presidente della Commissione Antimafia ha sostenuto: «Mi sembra francamente irrituale che quelle parole, che sono state oggetto di polemiche formidabili all’epoca, possono produrre un’inchiesta con l’ipotesi di diffamazione aggravata e continuata, però sarà la magistratura a dover decidere. Io intanto continuo e cercherò certamente di audire il dottor Palamara». L?avvocato Sabrina Rondinelli, legale delle sorelle Santelli, ha confermato all’Adnkronos: «Confermo che Morra è stato querelato, una volta a novembre e una a dicembre, e che c’è un’indagine della procura di Cosenza». 

Gli insulti alla governatrice scomparsa. Nicola Morra indagato per le frasi diffamatorie su Santelli: ma il grillino evoca complotti e Palamara. Fabio Calcagni su Il Riformista il 12 Febbraio 2021. Parole che costano caro. Il presidente della della commissione parlamentare antimafia, il grillino Nicola Morra, è indagato dalla Procura di Cosenza per il reato di diffamazione aggravata e continuata. Il fascicolo su Morra si riferisce alle frasi espresse dal parlamentare dopo la morte della presidente della Regione Calabria Jole Santelli (“scelta e votata malgrado fosse risaputa la sua malattia oncologica” disse Morra a novembre). Frasi che innescarono la querela da parte delle sorelle della governatrice, Paola e Roberta, tramite l’avvocato Sabrina Rondinelli. Morra, nel prendere atto di essere indagato, evoca complotti. Per il presidente dell’antimafia non sarebbe un caso che la notizia della sua indagine esca due dopo quella sulla imminente audizione in commissione antimafia dell’ex giudice Palamara. “Un caso? Forse, chi lo sa – ha detto Morra in un intervento su Facebook – ne risponderò se ho sbagliato, altrimenti tutto verrà archiviato”. Quanto alle parole spese su Jole Santelli, Morra non fa marcia indietro: “Era noto a tutti che la presidente della Calabria Regione Santelli fosse una grave malata oncologica. Se però ai calabresi questo è piaciuto è la democrazia, ognuno deve essere responsabile delle proprie scelte”, queste le frasi dopo le quali le sorelle Santelli, Paola e Roberta, parti offese, presentarono querela. Morra ha ribadito che “provvederà a segnalare la notizia, secondo le regole del Movimento a chi di dovere, ai probiviri, al garante, e procederò tranquillamente perché, se ho sbagliato dovrò rispondere dei miei errori, se non ho sbagliato, come penso, tutto dovrà essere archiviato”.

Un anno senza Jole Santelli, la presidente che voleva cambiare l’immagine della Calabria. Paride Leporace il 15 ottobre 2021 su Il Quotidiano del Sud. È trascorso un anno dalla scomparsa di Jole Santelli, prima donna eletta dai cittadini in Calabria come presidente della Regione, ma anche nell’intero Mezzogiorno. Era morta all’improvviso, lasciando di sasso e con le lacrime agli occhi parenti, amici, stretti collaboratori, mondi politici di riferimento, elettori che solo 8 mesi prima l’avevano premiata con il 55 per cento dei consensi; ma anche gli avversari leali e quelli ostili che non gli avevano risparmiato malvagità atroci sul tribunale del popolo dei social. La morte a soli 51 anni, da sola, nella sua casa di Cosenza, con i dossier in mano che con determinazione seguiva, commosse quasi tutti. Fu un lutto condiviso. Nelle classifiche Google del 2020 il suo nome e cognome in Italia figurerà tra i più cliccati dopo la morte insieme a personaggi come Maradona, Kobe Bryant, e Gigi Proietti. Una principessa del popolo dagli occhi allegri Jole Santelli. Per la politica aveva rinunciato al matrimonio, decidendo pur in presenza di richieste di non mettere da parte quell’impegno che la vedrà deputata, sottosegretaria, coordinatrice di Forza Italia e infine presidente della Regione della sua amata Calabria, che con profonda convinzione voleva far uscire dalla sua pessima reputazione di ultima della classe. Ha pesato nel tributo popolare il finale triste e solitario di una donna che, invece di pensare a curarsi, fino alla fine ha pensato al bene pubblico, non risparmiando neanche un minuto alla sua cagionevole salute. A rileggere la rassegna stampa di un anno fa, colpiscono le parole dl direttore dell’Espresso, Marco Damilano, antiberlusconiano militante che la definisce nel suo tombau «politica di razza e amante della vita». Nei Palazzi non aveva riscaldato le poltrone considerato che l’archivio di Montecitorio custodisce 151 progetti di legge e 578 atti d’indirizzo e controllo con la sua firma. È il primo politico calabrese che per la prima volta sarà ricordata in effige con un francobollo. Ma per non ridurla ad un santino laico, pur con i limiti e gli errori che ogni donna e uomo commettono, l’ultima stagione della sua giovane vita merita alcune considerazioni. La presidente della Calabria, fin dalla campagna elettorale, si era mossa felpata sulla questione della legalità e della contaminazione con poteri criminali. Lo ribadirà da governatrice in televisione intervistata da Peter Gomez: «L’avvicinamento di forze criminali alla politica regionale è forte. In tutta la campagna elettorale non ho mai partecipato a una cena e non sono mai andata a casa di qualcuno, ho fatto solo incontri pubblici». Durante gli otto mesi di governo aveva avuto costante interlocuzione con il Procuratore della Repubblica, Nicola Gratteri, scambiandosi informazioni e ricevendo preziosi suggerimenti. Gratteri non dimenticherà, e il 24 novembre 2020, a Di martedì dirà in diretta: «In questi anni ho fatto migliaia di intercettazioni e Jole Santelli non è mai uscita in nessuna di queste. È dal 1986 che faccio questo lavoro. Jole Santelli era una persona onesta». Pochi giorni prima il senatore Nicola Morra aveva dichiarato a Radio Capital: «Era noto a tutti che la presidente della Calabria Santelli fosse una grave malata oncologica. Umanamente ho sempre rispettato la defunta Jole Santelli, politicamente c’era un abisso. Se però ai calabresi questo è piaciuto, è la democrazia, ognuno dev’essere responsabile delle proprie scelte». Fu bufera, anche i 5 Stelle si dissociarono dal loro esponente calabrese. Jole Santelli appena insediata si era trovata a fronteggiare la pandemia. Contarono molto le sue relazioni istituzionali con diversi esponenti del governo giallorosso. Nel libro mastro di quegli otto mesi furono di gran lunga superiori le scelte giuste rispetto a quelle poco opportune. Tra queste la tarantella ballata a San Giovanni in Fiore, per festeggiare l’elezione del sindaco Succurro. Santelli senza mascherina e tutti assembrati. Pochi giorni prima di morire. Forse, Jole Santelli voleva esorcizzare la sua malattia come una moderna tarantolata. Nel disegnare la sua giunta fu decisionista. Un assessore gay e una lesbica dichiarati (mai accaduto prima), all’ambiente Capitano Ultimo, colui che aveva arrestato Totò Riina. Dai partiti scelse Gallo, Orsomarso e Spirlì. Quest’ultimo era suo amico personale. Tutto sommato uno stratagemma politico per evitare i nomi di Salvini, la nomina a vicepresidente e assessore della cultura del molto politicamente scorretto Spirlì la lasciava più tranquilla.

Chiamò Minoli per la politica audiovisiva. Ora rimasto a continuare l’opera. Lascia la macchia del cortometraggio di Muccino bocciato a furor di popolo. Ma la morte le impedì di gestire la strategia comunicativa e il prodotto finale che doveva essere fruito e montato in modo diverso. Progettava programmi di sviluppo turistico per la Locride e la Sila, una politica molto pop per cambiare l’immagine triste e criminale della Calabria. I dossier sul sostegno all’economia e per dotare la regione di infrastrutture adeguate avevano ricevuto l’apprezzamento del mondo produttivo. Otto mesi furono solo un rodaggio. Le sorelle ne hanno impedito lo sfruttamento d’immagine nella campagna elettorale. Ha detto il suo successore Roberto Occhiuto: «Vorrei che la Calabria fosse raccontata in modo diverso. Quando ci riuscirò dirò che non sono stato il primo. Jole lo ha fatto prima di me. Questa è la sua eredità». Se la Calabria un giorno, sarà diversa da come la si racconta, Jole Santelli ne avrà il giusto merito. Comunque vada, è stata una donna in politica che ha provato a cambiare lo stato delle cose. 

Un anno senza Jole Santelli, il ricordo di Giorgetti: «Collega straordinaria e persona per bene». Francesco Ridolfi il 15 ottobre 2021 su Il Quotidiano del Sud. Esattamente un anno fa moriva tragicamente e improvvisamente Jole Santelli. Prima presidente donna della Giunta Regionale della Calabria eletta appena nove mesi prima con un largo sostegno popolare ma anche esponente politico di centrodestra particolarmente apprezzata e stimata non solo dai suoi alleati ma anche dai suoi avversati politici. A distanza di un anno diverse sono le iniziative che vogliono renderle omaggio e ricordarne la figura che, malgrado sia venuta meno in modo repentino e prematuro, ha lasciato senza dubbio un segno importante nel mondo della politica calabrese. Tra le iniziative anche l’emissione di un francobollo dedicato (LEGGI), iniziativa apprezzata anche dal ministro per lo Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, che ha voluto fare un persona ricordo della ex presidente di Regione tenendo in mano proprio una riproduzione del Francobollo. «Una straordinaria collega – ha scritto Giorgetti su Twitter – ma prima ancora una persona perbene che ricordo con affetto».

Chi era Jole Santelli. Il Quotidiano del Sud il 15 ottobre 2021. Jole Santelli (Cosenza, 28 dicembre 1968 – Cosenza, 15 ottobre 2020) è stata una politica italiana, Presidente della Regione Calabria per otto mesi, dal 15 febbraio 2020 fino al giorno della sua morte. Deputato dal 2001 al 2020, è stata Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia dal 2001 al 2006 nel secondo e nel terzo Governo Berlusconi, nonché Sottosegretario al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali da maggio a dicembre 2013 nel Governo Letta.

Biografia

Dopo aver conseguito la maturità classica al liceo Bernardino Telesio di Cosenza ed essersi laureata in giurisprudenza nel 1992 e specializzata in diritto e procedura penale presso l’Università di Roma La Sapienza, iniziò la pratica forense con Tina Lagostena Bassi, quindi con Vincenzo Siniscalchi, infine entrò nello studio di Cesare Previti. Aderì da giovanissima al Partito Socialista Italiano. A 25 anni, nel 1994, si iscrisse a Forza Italia e dal giugno del 1996 ha collaborato con l’ufficio legislativo del gruppo di Forza Italia al Senato, per poi passare anche a quello della Camera nel 1998; nel 2000 è stata coordinatrice del dipartimento giustizia del partito.

Parlamentare e Sottosegretario

Nel 2001 è stata eletta deputato con il sistema maggioritario nella circoscrizione Calabria, nel collegio di Paola, ed è stata membro della Commissione Giustizia della Camera.

È stata Sottosegretario al Ministero della Giustizia sia nel secondo sia nel terzo Governo guidato da Silvio Berlusconi (dal 2001 al 2006). È stata rieletta per un secondo mandato alle elezioni politiche del 2006, candidata nelle liste di Forza Italia per la circoscrizione Emilia-Romagna. È stata riconfermata alla Camera dei deputati alle successive elezioni del 2008 nelle liste calabresi del Popolo della Libertà, venendo eletta vicecapogruppo alla Camera dei deputati.

Nella legislatura ha ricoperto l’incarico di vicepresidente della I Commissione (Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni) ed è stata membro di diversi organi parlamentari. Dal 2009 al 2013 ha fatto parte del Popolo della Libertà, il partito fondato e guidato da Berlusconi a seguito dell’unione di Forza Italia con Alleanza Nazionale ed altri partiti minori.

Alle elezioni politiche del 2013 Jole Santelli è stata capolista nella circoscrizione Calabria ed è stata eletta per la quarta volta alla Camera. Il 2 maggio 2013 è stata nominata Sottosegretario di Stato al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali guidato dal ministro Enrico Giovannini nel Governo Letta, carica che ha mantenuto fino alle dimissioni rassegnate il successivo 6 dicembre, a seguito della sua adesione al rinato partito Forza Italia dopo la scissione del PdL, che si è collocato all’opposizione del Governo.

È stata coordinatrice regionale della Calabria di Forza Italia. Dal 28 giugno 2016 ha ricoperto gli incarichi di vicesindaco e assessore alla cultura della sua città natale, Cosenza, nella giunta guidata dal sindaco Mario Occhiuto. Nel 2018 è stata rieletta alla Camera nel proporzionale in Calabria e ha ricoperto la carica di Vice Presidente della Commissione Antimafia.

Presidente della Regione Calabria

Il 9 dicembre 2019 si è dimessa da vicesindaco di Cosenza e il 19 dicembre è stata indicata da Forza Italia come candidata a Presidente della Regione Calabria per il centro-destra in vista delle elezioni del 26 gennaio 2020.

Il 26 gennaio 2020 ha vinto la competizione elettorale con il 55,3% dei consensi.

Con la vittoria alle elezioni regionali è diventata la prima donna eletta Presidente della Regione Calabria nonché la seconda donna eletta Presidente di una regione dell’Italia meridionale e la prima eletta direttamente dai cittadini, sia in Calabria che in tutto il Mezzogiorno.

Morte

È deceduta improvvisamente, all’età di 51 anni, il 15 ottobre 2020 (otto mesi dopo il suo insediamento alla Cittadella regionale, che oggi porta il suo nome) nella sua casa di Cosenza.

Un francobollo e un annullo per ricordare Jole Santelli. Il Quotidiano del Sud il 15 ottobre 2021. A partire da questa mattina e per tutta la giornata Poste Italiane comunica che viene emesso dal Ministero dello Sviluppo Economico un francobollo ordinario appartenente alla serie tematica “il Senso civico” dedicato a Jole Santelli, relativo al valore della tariffa B pari a 1,10€. La tiratura del francobollo sarà pari a trecentomila esemplari. Foglio da quarantacinque esemplari Il francobollo è stampato dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato S.p.A., in rotocalcografia, su carta bianca, patinata neutra, autoadesiva, non fluorescente. Il bozzetto è stato realizzato a cura di Claudia Giusto. La vignetta riproduce un ritratto di Jole Santelli, protagonista della politica italiana, in primo piano sul profilo dell’Italia in cui è evidenziata la Calabria, regione in cui è stata la prima donna a ricoprire l’incarico di Presidente. Completano il francobollo la leggenda “Jole Santelli”, “1968 – 2020” e “Presidente Regione Calabria”, la scritta “Italia” e l’indicazione tariffaria “B”. L’annullo per il primo giorno di emissione sarà disponibile per coloro che vorranno ottenerlo presso gli sportelli filatelici dell’ufficio postale di Cosenza Veneto e di quello di Roma Senato. Il francobollo e i prodotti filatelici correlati, cartoline, tessere e bollettini illustrativi saranno disponibili presso gli Uffici Postali con sportello filatelico, gli “Spazio Filatelia” di Firenze, Genova, Milano, Napoli, Roma, Roma 1, Torino, Trieste, Venezia, Verona e sul sito poste.it . Per l’occasione è stata realizzata anche una cartella filatelica in formato A4 a tre ante, contenente una quartina di francobolli, un francobollo singolo, una cartolina annullata ed affrancata e una busta primo giorno di emissione, al prezzo di 15€.

Francesco Creazzo per "la Stampa" il 9 febbraio 2021. «Andate a controllare se i vostri cari sono ancora lì, al cimitero», dice ai cronisti il procuratore di Vibo Valentia Camillo Falvo. L' implicazione, alla luce di quanto ha appena raccontato, è chiara e raccapricciante: i resti mortali del caro estinto potrebbero essere stati smembrati e bruciati dai custodi del cimitero, per fare spazio ai nuovi deceduti e - presumibilmente - per profitto. È questa l' incredibile accusa con la quale gli inquirenti calabresi hanno arrestato stamattina tre uomini: Francesco Trecate, di 62 anni, dipendente del Comune di Tropea, Salvatore Trecate, 38 anni, figlio di Francesco e Roberto Contartese, di 53 anni. Sono accusati di di associazione a delinquere, violazione di sepolcro, distruzione di cadavere, illecito smaltimento di rifiuti speciali cimiteriali e peculato, commessi all' interno del cimitero di Tropea. Secondo il giudice per le indagini preliminari Marina Russo, i tre indagati «hanno eseguito numerose estumulazioni illegali, al fine di conseguire, con ogni probabilità, illeciti profitti, assicurando ai congiunti di persone defunte l' utilizzo di loculi per la sepoltura, resi improvvisamente disponibili, eliminando, senza averne titolo, i poveri resti mortali rimasti di altre persone già sepolte da anni, approfittando della situazione di carenza di posti liberi che da molto tempo esiste presso il Cimitero di Tropea». «L' episodio del 20 novembre - scrive il giudice - appare particolarmente ripugnante». La bara della vittima viene distrutta, Francesco Trecate tira fuori la salma, la spoglia e «inizia a sezionarla riponendo i resti, con l' ausilio di Roberto Contartese, in dei sacchi di plastica dopo averne mozzato il capo e mostrato ai presenti (quasi a mo' di trofeo)». Il tutto viene ripreso dalle telecamere installate dalle Fiamme Gialle. Nel video è presente Francesco Trecate, inquadrato. Con lui il figlio, Salvatore, Contartese, ma anche altri due uomini (non indagati): sono gli operai di un' impresa impegnata in lavori edili all' interno del cimitero. Tutto viene accatastato e bruciato.

«Nella giornata successiva, nel loculo ove era seppellita la salma carbonizzata è stata seppellita una nuova salma». Francesco Trecate l' estate scorsa era stato insignito di una benemerenza comunale per l' abnegazione sul lavoro.

"Controllate le vostre tombe" Così bruciavano cadaveri per vender i loculi svuotati. Svuotavano le tombe per rivenderle, arrestati il custode del camposanto e due suoi complici. Valentina Dardari, Martedì 09/02/2021 su Il Giornale.  Scene raccapriccianti quelle che sono avvenute tra le tombe del cimitero di Tropea. Così sono state definite dal gip. Il procuratore di Vibo Valentia, Camillo Falvo, ai microfoni ha fatto un appello e lanciato l’allarme: “Andate a controllare se i vostri cari sono ancora lì, al cimitero”. Già, perché i nostri cari passati a miglior vita potrebbero non essere più nelle loro tombe, dopo essere stati smembrati e bruciati dal custode del cimitero e da suoi complici. Per quale motivo? Per fare spazio ai nuovi arrivati e per un fattore economico.

Distrutte tombe e salme per fare soldi. Secondo quanto riportato da La Stampa infatti, sarebbe questa l’accusa mossa dagli inquirenti calabresi nei confronti di tre soggetti finiti in manette questa mattina. Le forze dell’ordine hanno arrestato Francesco Trecate, di 62 anni, dipendente del Comune di Tropea, Salvatore Trecate, di anni 38, figlio di Francesco e il 53enne Roberto Contartese. Tutti accusati di associazione a delinquere, violazione di sepolcro, distruzione di cadavere, illecito smaltimento di rifiuti speciali cimiteriali e peculato. Tutti reati che sarebbero stati commessi tra le tombe del cimitero di Tropea. Da quanto riportato, i tre indagati avrebbero “eseguito numerose estumulazioni illegali, al fine di conseguire, con ogni probabilità, illeciti profitti, assicurando ai congiunti di persone defunte l'utilizzo di loculi per la sepoltura, resi improvvisamente disponibili, eliminando, senza averne titolo, i poveri resti mortali rimasti di altre persone già sepolte da anni, approfittando della situazione di carenza di posti liberi che da molto tempo esiste presso il Cimitero di Tropea”, secondo il giudice per le indagini preliminari Marina Russo.

Beccati dalle telecamere. Come scrive il gip, particolarmente ripugnante sarebbe stato l’episodio avvenuto lo scorso 20 novembre. Quel giorno infatti la bara con all’interno il corpo della vittima sarebbe stata prima distrutta, e subito dopo privata del cadavere. La salma sarebbe stata quindi spogliata e sezionata “riponendo i resti, con l'ausilio di Roberto Contartese, in dei sacchi di plastica dopo averne mozzato il capo e mostrato ai presenti (quasi a mo' di trofeo)”. Decisamente una scena a dir poco raccapricciante e degna di un film dell’orrore. Tutto questo scempio è avvenuto sotto gli occhi delle Fiamme Gialle che avevano posizionato alcune telecamere all’interno del cimitero. Nel video si vedrebbe anche bene il volto di Francesco Trecate. Con il padre anche il figlio Salvatore, Contartese e altre due persone che non sono però state indagate. Si tratta dei dipendenti di un'impresa edile impegnata in alcuni lavori all'interno del camposanto. Salma e tomba sarebbero alla fine state date alle fiamme. Così, “nella giornata successiva, nel loculo ove era seppellita la salma carbonizzata è stata seppellita una nuova salma”. E pensare che la scorsa estate Francesco Trecate aveva anche ricevuto una benemerenza comunale per l'abnegazione sul lavoro. Con ogni probabilità, tutto sarebbe stato fatto a scopo di lucro, per conseguire profitti illeciti in un momento in cui i posti ai cimiteri scarseggiano per via dei tanti decessi causati dall’epidemia. I video che hanno reso possibile i tre arresti sono stati realizzati grazie all’installazione di un impianto di videosorveglianza autorizzato dal Procuratore della Repubblica di Vibo Valentia. In alcuni casi i resti dei cari estinti estratti dalle tombe sarebbero stati gettati nei contenitori riservati alla raccolta dei rifiuti urbani. In altri, carbonizzati invece sul posto. Le Fiamme Gialle avrebbero anche eseguito un decreto di perquisizione presso le abitazioni dei tre arrestati e all'interno del camposanto. Altri militari avrebbero invece visitato gli uffici del Comune di Tropea al fine di acquisire documenti utili alle indagini.

La candidatura. Dopo aver scassato Napoli, de Magistris punta a scassare la Calabria . Salvatore Prisco su Il Riformista il 20 Gennaio 2021. Il sangue di San Gennaro potrà anche non sciogliersi, purtroppo per noi, e a pensarci sono dolori. Mai, però, quanto accade se viene rivelato il segreto di Pulcinella, come è appena successo. Il sindaco scassatore qualcosa scioglie, ossia la riserva, e si candida dunque a presidente della Regione Calabria. Come a dire: qui ho finito, non essendoci rimasto altro posso andare a scassare altrove. I calabresi, peraltro, sembra che si siano fatti mandare subito curnicielli deprecatori da sfregare compulsivamente. Si dice, infatti, che le botteghe dei commercianti di San Gregorio Armeno e dei negozi similari delle vie vicine abbiano subito esposto un suo pupazzetto con la testa avvolta nella bandana, glorificandolo in questo modo per avere contribuito a rimpinguare le loro entrate in un periodo in cui mancano i turisti. Luigi de Magistris, insomma, cerca uno spazio politico in altri lidi. Aveva cominciato come Masaniello, deciso a liberare la sua Napoli dai potenti-prepotenti, invece continua l’avventura in politica come un qualunque capitano di ventura del Quattrocento o un calciatore che riscatta il cartellino, dismette la maglia arancione e ne indossa una di altro colore, entrambi in cerca di ingaggio. Non sarebbero cavoli nostri – semmai ‘nduja e cipolle di Tropea altrui – se non ci pungesse una curiosità: ma perché, se gli era venuto l’uzzolo della politica ormai professionale, non è rimasto qua per continuare a incrociare il bastone del teatro delle guarattelle col suo nemico da sempre dichiarato, ossia Bicienzo ‘o sceriffo? Ci eravamo abituati allo spettacolo delle ripetute repliche. Anzi, per dirla tutta, ce la spassavamo assai. Ora con la sua fuga ci mancherà, anche se certo qualche giustificazione obiettivamente ce l’ha: dopo avere liberato Napoli e il lungomare, si propone di liberare altre terre irredente. L’eroe delle due regioni, insomma, il Garibaldi di Vibo Valentia, il Che Guevara non delle Ande ma della Sila, che a Napoli lascia Clemente, per di più crucciata perché un più famoso omonimo di lunga esperienza le toglie in questi giorni la scena piroettando e manovrando da Benevento dietro le quinte del palcoscenico parlamentare. Anzi, a pensarci bene, dobbiamo correggerci. Poiché lui farà pure il polemico, ma in fondo è un buono e ha voluto dare un contentino finale anche ad altri. Un giro di giostra, si sa, non si nega a nessuno. E allora, raschiando il fondo del barile, si riesce ancora a trovare due giovani da nominare assessori sciué sciué, in articulo mortis della consiliatura. Non proprio due capitani del popolo, titolo che gli spetta di diritto ed è monocratico e non trasmissibile, ma cariche minori, cui sono stati chiamati traendoli dalla strada della contestazione a De Luca a base di urlacci e sacchetti di monezza scagliatigli addosso (a leggere lontane cronache, almeno su uno dei due) e a farli accomodare a Palazzo. Viene da ricordare un godibilissimo film di Luciano Salce, cioè Il federale. Il protagonista è Ugo Tognazzi, militante fascista incrollabile, che attorno al 25 luglio del 1943, mentre i capi se la squagliano o già si preparano al trasformismo, viene in fretta e furia nominato federale o quasi e incaricato di una missione segreta, ossia scortare a Roma dall’Abruzzo un mite professore antifascista lì confinato, personaggio nel quale si cela forse un’allusione a Ivanoe Bonomi. Sarà proprio quest’ultimo a salvarlo dal linciaggio, mentre si pavoneggia nell’ormai incongrua e imbarazzante divisa.

Calabria 2021. Tutta la paranza massomafiosa contro la candidatura di De Magistris. Da Iacchite il 19 Gennaio 2021. Finalmente è arrivato l’annuncio ufficiale: Luigi De Magistris sarà il candidato alla presidenza della Regione Calabria alle prossime elezioni regionali di una larga coalizione civica. Rompe gli indugi De Magistris dopo aver sondato in lungo e in largo la Calabria, e dice: “Mi candido perché è dal basso che arriva la richiesta. Ed è per questo motivo che accetto la sfida”. E sulla sfida non c’è dubbio: De Magistris sfida a viso aperto tutta la vecchia e stantia nomenklatura politica calabrese responsabile di oltre 40 anni di furti e saccheggi a danno dei calabresi. Ed infatti la risposta dei capibastone politici calabrese non si è fatta attendere. E via con le dichiarazioni contro l’ex pm: non è calabrese, la Calabria non ha bisogno di estranei, la sua candidatura è una offesa ai calabresi, non ha le capacità per governare una regione come la Calabria, ma l’accusa principale che i mammasantissima della politica calabrese rivolgono oggi a De Magistris è quella di aver “fallito” nelle sue imprese da pm, su tutte le inchieste Why Not e Poseidone, entrambe finite con un nulla di fatto. E questa per i boss dei partiti locali è una colpa che nessuno può cancellare: De Magistris è un nemico giurato della paranza politica calabrese, ha osato mettere alla sbarra gli amici degli amici. E a queste latitudine, pretendere legalità dalla classe politica, è un torto difficile da dimenticare. È chiaro che non hanno argomenti politici per contrastare quella che si annuncia come un candidatura forte che potrebbe risvegliare le coscienze addormentate della tanta brava gente che vive in Calabria, e questo fa paura alla casta dei magnaccioni. De Magistris potrebbe riaccendere le speranze di tanti che da tempo non si recano più alle urne. Una corposa fetta di popolazione che in Calabria è pari al 50% degli aventi diritto al voto: l’astensionismo, il più grande partito calabrese.  Ed è principalmente ai delusi, ai disillusi, a chi si sente tradito dalla politica che De Magistris si rivolge. Una mossa che ha creato il panico nei tanti maneggioni massomafiosi che per conto delle ‘ndrine organizzano i “pacchetti di voti” per i politici corrotti. Le accuse mosse a De Magistris da parassiti sociali, politici corrotti e collusi, e tutta la fetenzia che gli ruota attorno, sono l’ultima linea di difesa a loro disposizione: sperano ancora di poter “intortare” la gente con il finto garantismo che come sappiamo, in Calabria e in Italia, vale solo per gli amici degli amici. Accusano De Magistris di essere un manettaro, senza tener conto (o meglio fanno finta di non saperlo) che il lavoro di De Magistris da pm è stato boicottato da tutti: giudici corrotti, politici collusi, e partiti asserviti alle ‘ndrine. Quando tocchi i veri fili dei poteri forti è questo che succede a chi prova a denunciare il vero malaffare: isolamento, ostacoli di ogni tipo, accuse di infamità, e tutto il repertorio possibile e immaginabile utile a distruggere una persona. Gli argomenti usati dai massomafiosi per denigrare De Magistris, fanno ridere: come se in Calabria esistesse una magistratura seria e onesta. Lo sanno tutti, anche i bambini, come funziona la Giustizia in Calabria. E lo abbiamo visto con tutto quello che è successo nel distretto giudiziario a Catanzaro con l’allontanamento di pm corrotti dagli uffici della Dda, e con le inchieste di Salerno che parlano di 15 magistrati indagati per corruzione e collusione con la ‘ndrangheta. Su tutti il caso del giudice Petrini (ex presidente della corte d’Appello di Catanzaro arrestato dalla procura di Salerno per corruzione) che ben restituisce, a chi vuole realmente capire come stanno le cose, il funzionamento della Giustizia in Calabria: le sentenze si comprano tanto al chilo. Il che garantisce l’impunità a tutti gli amici degli amici. Ed è chiaro come la luce del sole che le inchieste dell’allora pm De Magistris sono state fatte a pezzi, con motivazioni che lasciano il tempo che trovano, dall’intero apparato della malagiustizia che da sempre opera indisturbato in terra di Calabria. Più che parlare degli insuccessi dell’allora pm De Magistris, la classe politica che lo accusa di questo, dovrebbe chiedersi a chi è affidata la giustizia in Calabria. Cosa che non fanno perché appartengono tutti alla stessa paranza malavitosa. E la prova di come funziona la Giustizia a cui fanno riferimento gli imbroglioni e gli impuniti, sta tutta nell’inchiesta di Salerno sul sindaco di Rende Manna, beccato dalle telecamere della GdF nell’atto di corrompere il giudice Petrini, con tanto di consegna di una bella bustarella farcita, e nonostante la prova schiacciante, Manna è ancora il sindaco di una delle città più importanti della Calabria: Rende. In questa situazione chiunque ha indagato pezzotti politici e massomafiosi, è finito con l’essere trasferito e le inchieste insabbiate. Che non è certo una novità in Calabria. Perciò di quale magistratura parlano i picciotti dei partiti incaricati di denigrare De Magistris, quando fanno riferimento al flop delle inchieste dell’allora pm? Di sicuro a quella che li protegge e gli garantisce l’immunità. Del resto se a muovere accuse contro il sindaco di Napoli sono personaggi del calibro di  Nicola Adamo, Madame Fifì, Roberto Occhiuto, Meloni, Salvini, Orsomarso, Bevacqua, Irto, Minniti, Cannizzaro, Tallini, Incarnato, e tutta la munnizza che gli sta attorno, ovvero i distruttori della Calabria, per chi conosce realmente tali personaggi, è un motivo in più per votare De Magistris. Per quel che riguarda invece l’accusa di non essere calabrese, il significato recondito di questa affermazione è presto detto: in Calabria a rubare devono essere solo politici calabresi, perché ai calabresi piace essere derubati solo da “paesani”. A dire questo anche quelli che fino a qualche tempo fa difendevano Gino Strada dalle accuse di colonialismo di Spirlì, una manica di poveracci che vede nella candidatura di De Magistris un impedimento alla prosecuzione dei loro intrallazzi. Intorno alla candidatura di De Magistris adesso si può costruire un progetto che parli di democrazia, diritti sociali e lavoro. Per tutti quelli che non credono più nelle parole dei soliti parassiti politici, quella che si presenta è l’occasione giusta per porre fine allo strapotere mafioso dei partiti in Calabria. E il sol fatto che tutto questo ha creato ansia, panico e sgomento in tutti i ladri di stato, i parassiti della sanità privata e i loro lacchè, è già di per se, vittoria o sconfitta elettorale a parte, un motivo di forte goduria. Ora spetta ai calabresi fare la scelta: confermare il vecchio sistema truffaldino, oppure aprire le porte alla legalità e alla democrazia: De Magistris presidente della Regione Calabria? Perché no! Why Not…

Calabria 2021. Il giustiziere contro il Terrone e L’IndYgesto nel mezzo. Da Iacchite il 22 Gennaio 2021. Di Saverio Paletta. Fonte: IndYgesto.

Carlo Tansi ha usato un nostro articolo per colpire Pino Aprile. Ci dissociamo da questo modo di agire e ribadiamo, nell’articolo che segue, che la nostra è una critica culturale e la politica, soprattutto quella calabrese, non c’entra. Prima di iniziare è doveroso un ringraziamento a Carlo Tansi, per aver condiviso sui propri canali social, seppure solo per alcune ore, un articolo de L’Indygesto dedicato a Pino Aprile. Forse il candidato alla guida della Regione Calabria non ha ottenuto i risultati che si aspettava e ha rimosso l’articolo. Tuttavia, i colleghi di Iacchitè hanno registrato l’accaduto con ottima tempestività (e fedeltà ai fatti) assicurandogli l’eternità mediatica (leggi qui). A questo punto è doverosa una domanda: quali problemi politici ha Tansi nei confronti di Aprile da arrivare a usare un articolo di questo giornale contro di lui? Il quesito non è banale: è vero che chi scrive ha polemizzato a lungo con l’autore di Terroni, ma è altrettanto vero che queste polemiche non hanno praticamente nulla a che fare con le scelte politiche di Aprile, inclusa quella di scendere in campo alla guida di un proprio gruppo, il Movimento 24 agosto-Equità territoriale. Queste polemiche riguardano solo l’attività intellettuale del giornalista di Gioia del Colle. Chi scrive le ritiene infondate e ritiene inoltre di aver fornito con un dossier corposo le prove di questa infondatezza. Perciò se Tansi avesse voluto prendere davvero sul serio la polemica culturale de L’IndYgesto si sarebbe dovuto tenere a distanza da Aprile. Invece no: il geologo del Cnr ha flirtato a lungo con l’autore di Terroni. Al riguardo, è il caso di ricordare che Tansi fu l’unico candidato alle precedenti Regionali ad aver presenziato alla fondazione del Movimento di Aprile, avvenuta proprio a Cosenza a settembre 2019. Non ci interessa sapere se l’ex presidente della Protezione Civile calabrese creda al terronismo oppure sia mosso da un senso cinico (e un po’ gretto) della Realpolitik.

Il “giustiziato” (da Tansi): Pino Aprile. Comunque sia, il flirt tra il terronista e il geologo si è interrotto lo scorso novembre con una polemica non proprio bella: ad Aprile che gli chiedeva (legittimamente) di fare un passo indietro per concordare una linea politica comune, Tansi aveva contrapposto il suo solito mantra: «Il candidato presidente devo essere io». La politica, probabilmente, non è roba adatta a molti giornalisti. Ma è sicuro che i giornalisti la mastichino di più dei geologi. Infatti, mentre Aprile ha lavorato per cucire un fronte in cui ricavare spazi proporzionati alle proprie forze reali, Tansi, un po’ troppo lusingato dai risultati ottenuti nelle Regionali del 2019, ha insistito con la sua voglia di leadership purchessia. Quindi ha adattato il mantra nei confronti di Luigi De Magistris, che ha lasciato la sua Napoli per candidarsi a governatore della Calabria: sono disposto ad allearmi con lui ma il candidato presidente devo essere io. De Magistris, del quale tutto si può dire tranne che sia un fesso (tra l’altro è napoletano doc), è sceso a Cosenza dopo aver dichiarato di volersi candidare alla presidenza ed è andato a trovare Tansi, il quale, una volta tanto e finalmente, ha dovuto mettere da parte il mantra. Uno dei due rinuncerà, prima o poi, ma per il momento il feeling c’è. O meglio, ci sarebbe. Già: tutto lascia credere che per l’ex sostituto procuratore di Catanzaro la questione si riduca all’agibilità politica, mentre per l’ex capo della Prociv la leadership a tutti i costi sia un fatto d’onore. Sembra quasi che Tansi, più che fare il presidente di Regione, aspiri a diventare il Führer dei calabresi. Ciò non è parso vero ad Aprile che, da giornalista di lungo corso qual è, ha infilato una stoccata micidiale delle sue a Tansi: «Tra mille anni litigherà col Padre Eterno per stabilire chi dovrà comandare in Paradiso». Con tutta probabilità, proprio questa battuta ha ispirato a Tansi la condivisione mordi-e-fuggi del nostro articolo. Il che fa capire che la compresenza di Aprile e De Magistris rischia di diventare un bel problema per Tansi. Quest’ultimo ha costruito la sua comunicazione politica su due asset: il giustizialismo e il terronismo, declinato in chiave ultracalabrese, per riempire il vuoto politico che neppure i grillini sono riusciti a colmare. Basta scrollare i canali social di Tansi per rendersi conto: sulle pagine del geologo le proposte di programma sono poche. In compenso, c’è una serie continua di post che esaltano le bellezze della Calabria in maniera ultraretorica oppure puntano il dito sulla classe dirigente, ladrona per definizione (la sua) e dipinta con un acronimo da cantina: Put, ovvero Partito unico della torta. Tuttavia, di fronte al sindaco di Napoli il giustizialismo di Tansi sbiadisce. Al riguardo, è il caso di fare qualche domandina retorica: dov’era il ricercatore del Cnr quindici anni fa, quando De Magistris metteva alla gogna con le inchieste Poseidone e Why Not? la classe dirigente calabrese? Non entriamo nel merito delle inchieste, che chi scrive seguì come cronista, ma è doveroso ribadire che Tansi si è trasformato in fustigatore del malcostume politico-amministrativo solo dopo l’esperienza nella Prociv. Prima si è limitato a fare (benissimo) il proprio lavoro: studiare il territorio e denunciarne i pericoli. E lo ha fatto anche per istituzioni gestite da una parte di quella classe dirigente su cui ora lancia strali. Non intendiamo, con questo, rimangiarci alcuna delle critiche che abbiamo espresso finora. Ma è doveroso riconoscere un merito: se non fosse stato per Terroni (soprattutto per il suo successo editoriale) e Carnefici la questione meridionale, già assente dall’agenda politica, sarebbe sparita anche dal dibattito culturale. Se non ci fosse stato il revisionismo borbonizzante di Aprile, il mondo accademico sarebbe rimasto arroccato sui propri snobismi culturali, quello giornalistico avrebbe continuato a parlar d’altro e il Sud sarebbe rimasto il classico convitato di pietra da trattare con fastidio o, alla peggio, con degnazione. Se gli storici meridionali (e non solo) hanno ripreso a fare il loro lavoro, se alcuni economisti (Felice da un lato, Daniele e Malanima dall’altro) hanno riscoperto il Mezzogiorno come problema e sfida, lo si deve agli stimoli violenti di certo revisionismo. In tutto questo, è lecita una considerazione: chi scrive ha criticato le tesi di Terroni e Carnefici dopo averli letti e approfonditi, Tansi – che ha provato a usare L’IndYgesto come una clava – ne ha sfogliato almeno qualche pagina? Se arrivano gli originali, le riproduzioni rischiano di non servire più. E forse non si va lontani dal vero nel pensare che l’ex capo della Prociv abbia cazziato la nuora (Aprile) perché suocera (De Magistris) capisca. Invece, come ha riportato correttamente Iacchite’, hanno iniziato a capire i seguaci di Tansi, che non hanno lesinato critiche all’aspirante Obergruppenführer ’i nuavutri. Per quel che ci riguarda, abbiamo capito anche noi. Persino troppo.

Calabria 2021. Tansi l’incontinente (ri)attacca Pino Aprile: raffica di commenti negativi sul web. Da Iacchite il 21 Gennaio 2021. E’ più forte di lui, non riesce a contenersi, anche se c’è una campagna elettorale in corso e anche se appena qualche ora prima si era confrontato col leader della coalizione e aveva giurato e spergiurato che si sarebbe speso lealmente per la causa comune della vittoria contro il centrodestra. Carlo Tansi è l’incarnazione vivente dell’Ego ipertrofico del politico dilettante e lo ha dimostrato attaccando senza motivo il suo vecchio rivale Pino Aprile, questa volta “colpevole” di essersi schierato prima di lui con De Magistris. E lui cosa fa per “cementare” l’alleanza? Un bel post contro Pino Aprile… Eccolo qui.

IL FALSO MITO DI PINO APRILE (PER ALCUNI “PRIMO APRILE” … ). Vi ricordate Oggi e Gente? I due settimanali ora fanno a gara a sparare in prima pagina le immagini di soubrette, conduttrici tv e donne di successo, il meno vestite possibili. In quei giornali fece la sua brava carriera il giornalista pugliese Pino Aprile, che fu direttore del primo e vicedirettore del secondo. Aprile, di cui – come per tanti giornalisti, che non ne hanno – sono sconosciuti i titoli accademici, proveniva dalla classica gavetta nei giornali locali, come La Gazzetta del Mezzogiorno. Parliamo, ovviamente, dello stesso Pino Aprile che, dal 2010 in avanti, dopo una fortunata parentesi come esperto di navigazione sportiva a vela, si è riscoperto ultrameridionalista (almeno in pubblico, visto che altre tracce precedenti di questa sua passione non ce ne sono), ha buttato alle ortiche la precedente attività di divulgatore storico e si dedica al revisionismo antirisorgimentale.

Estratto da un articolo di Saverio Paletta. Per una migliore comprensione dei fatti. Tansi prende un “estratto” dell’articolo di Saverio Paletta per mascariare il suo potenziale alleato Pino Aprile. Un atto talmente idiota che richiama decine di commenti negativi da parte di suoi stessi sostenitori e persino candidati sul suo stesso post e che passiamo velocemente in rassegna. Un figurone, non c’è che dire…

Fra Gta. Il modo in cui sta conducendo questa campagna elettorale è pessimo, a differenza di un anno fa. 1) Ha abbandonato il tavolo organizzato da PD, M5S, ecc. e ci è tornato più volte al solo scopo di avere il loro supporto elettorale (cioè pensando ai suoi interessi prima che a quelli della comunità). 2) Non ha condannato e anzi ha difeso quello che è successo a Crotone dove la giunta di cui Tesoro Calabria fa parte ha respinto la mozione contro la legge Zan; 3) L’ultima affermazione in cui dice che Tesoro Calabria non è nè di destra, nè di sinistra fa semplicemente ridere ed è chiaro che serva solo a prendere voti da entrambe le parti (esiste una differenza ben precisa ed un politico a livello regionale è tenuto a schierarsi necessariamente). 4) Ora continua a buttare fango su Pino Aprile in maniera assolutamente ingiustificata. Sono rimasto molto molto deluso da questi suoi comportamenti che hanno completamente cambiato la mia idea su di lei come candidato politico. In bocca al lupo…

Mario Bruno. Dottor Tansi, sono rimasto profondamente deluso per il post da lei pubblicato. Attaccare in modo così ingiustificato, Pino Aprile che parla di riscatto del Meridione e di Equità territoriale, mi sembra un comportamento assurdo e autolesionista. Possibile che lei non comprenda che in questo modo sconcerta il suo elettorato. Spero che lei elimini questo post, scritto da una persona assolutamente disinformata o in malafede.

Daniela Primerano. Mi dispiace dott. Tansi non ho mai fatto mistero con nessuno della stima che nutro nei Suoi confronti ritenendoLa persona perbene, seria e professionalmente preparata e considerandoLa una garanzia per il futuro della Calabria, ma questo post lo trovo davvero di pessimo gusto… La invito ad eliminarlo dalla Sua pagina, perché non Le rende merito, anzi suscita in me ed in tanti che come me continuano a credere in Lei, profondo sdegno. Mi dispiace ma é una caduta di stile che sinceramente non mi aspettavo da Lei.

Giovanni Gigliotti. Geologia ok sicuramente, voglia di fare per la Calabria idem, ma strategia comunicativa zero tagliato, penosa. Sembra il post di una bambina di prima media incazzata con un’amichetta per la scemenza di turno, e non è il primo, purtroppo.

Filippo Plissken Esposito. Carlo nn so quale sia il motivo del dibattito nei confronti di Pino Aprile, ma concentrati su obiettivi e quindi sulla meta, ovvero vincere le elezioni. La concorrenza è spietata e la strada è come prevedibile in salita. Lascia perdere le futilità, nn cadere in provocazione e non scendere al livello dei miserabili. Un tuo fervido sostenitore.

Francesco Greco. Seriamente? È questa l’alternativa in Calabria? Poi vi lamentate che la destra vince con un candidato dell’ultimo minuto, mentre lei pensa a infangare i vari esponenti con articoletti di qualche rivista. Proponga idee e soluzioni, non queste schifezze.

Massimo Maletta. Avevo un sogno. Chi facesse politica parlando di se e di ciò che erano i propri programmi. Parlando dei propri pregi e non dei difetti degli altri. Ma credo che resterà un sogno. Le auguro il meglio dottor Tanzi

Francesco Panariello. Post inopportuno, di cattivo gusto la politica è fatta di proposte, di analisi, di ragionamenti, non di attacchi disgustosi sulle persone.

Francesco Vivone. Autorete….

Salvatore Tripaldi. E adduvi amu jamu si ndi scannamu tra nui. Mentalità coloniale.

Giulio Vita. Mi dispiace ma questo modo di comunicare non mi rappresenta. Non mi interessa Pino Aprile ma penso che un politico abbia il compito di diffondere le proprie idee e progetto anziché dedicarsi ad infangare chi non gli sta simpatico. Vi ho anche espresso tante volte pubblicamente la mia voglia di dare una mano nella comunicazione, perché ci tenevo ad aiutare. Forse se non eravate troppo occupati a litigare, potevate trovare il tempo per chi voleva aiutare a costruire. Buona fortuna.

Paolo Munizione Compagnino. Sono sicuro che lei possa far parte di una squadra di persone che possano tentare di capire perchè tutto il mondo ci schifa. La prego di rivolgersi a gente esperta per la cura dell’immagine sui social. I suoi post oltre ad essere ridicoli e infantili saranno usati in maniera scientifica dai suoi avversari nella prossima campagna elettorale.

Il revisionismo e il falso mito di Pino Aprile.  Saverio Paletta su L'Indygesto il 22 maggio  2019. Il business del giornalista pugliese, dalla navigazione a vela alla controstoria. Vi ricordate Oggi e Gente? I due settimanali ora fanno a gara a sparare in prima pagina le immagini di soubrette, conduttrici tv e donne di successo, il meno vestite possibili. Tra gli anni ’70 e ’80 gareggiavano in cose più serie, almeno dal punto di vista storiografico: ritratti e titoli sui membri della famiglia Savoia, allora in esilio, sui superstiti della famiglia Mussolini e sullo scià di Persia. In quei giornali fece la sua brava carriera il giornalista pugliese Pino Aprile, che fu direttore del primo e vicedirettore del secondo. Aprile, di cui – come per tanti giornalisti, che non ne hanno – sono sconosciuti i titoli accademici, proveniva dalla classica gavetta nei giornali locali, come La Gazzetta del Mezzogiorno. Parliamo, ovviamente, dello stesso Pino Aprile che, dal 2010 in avanti, dopo una fortunata parentesi come esperto di navigazione sportiva a vela, si è riscoperto ultrameridionalista (almeno in pubblico, visto che altre tracce precedenti di questa sua passione non ce ne sono), ha buttato alle ortiche la precedente attività di divulgatore storico e si dedica al revisionismo antirisorgimentale. I Savoia restano in cima alle sue preoccupazioni, ma non come personaggi da prima pagina bensì come bestie nere. L’Unità d’Italia, a sentire l’Aprile di oggi, è stata la iattura del Sud. Il Risorgimento fu una guerra di conquista, con tanto di genocidio annesso, almeno tentato e, a sentir lui, in parte riuscito. Con questa ricettina, il Nostro ha scritto uno dei più grandi best seller del decennio: quel Terroni (Piemme, 2010) che, forte di oltre 250mila copie vendute, ha suscitato un dibattito fortissimo, che dal mondo della cultura (e nonostante esso) è tracimato nella politica. Se sette anni fa non ci fosse stato Terroni oggi il Movimento 5Stelle non avrebbe lanciato l’idea di una giornata della memoria dedicata alle vittime meridionali dell’Unità d’Italia. Senza il successo di Terroni, che ha trasformato il suo autore in una specie di Messia dei movimenti sudisti, le tesi dei neoborbonici giacerebbero in una nicchia più piccola di quella che occupano adesso. E non ci sarebbe, soprattutto, il battage editoriale che, a sette anni dal centocinquantenario dell’Unità, continua a martellare l’opinione pubblica, a dispetto della crisi dell’editoria. Inutile dire che tanta fortuna si basa sul nulla o quasi: le tesi storiografiche di Aprile suggestionano al primo impatto ma si smorzano non appena si inizi una seconda lettura. Non solo per una questione di stile, che non è proprio gradevole (irrita ad esempio la scrittura in prima persona e l’abbondanza di dialettismi, roba che ad altri verrebbe censurata in qualsiasi giornale di provincia), ma soprattutto di contenuti e di onestà intellettuale. Evitiamo di scendere nei dettagli del corposo revisionismo apriliano e soffermiamoci, piuttosto, su un’espressione che ricorre come un mantra in tutti i libri dell’autoproclamato storico di Gioia del Colle: «Certe cose non le sapevamo perché nessuno ce le ha mai raccontate». Non sapevamo, ad esempio, che l’Unità d’Italia fu la guerra di conquista vinta da uno Stato, il Regno di Sardegna, nei confronti di tutti gli altri della Penisola. Non sapevamo che all’Unità seguì un periodo di disordini profondissimi con episodi tragici, stermini e abusi da guerra civile. Non sapevamo che, in effetti, il Sud iniziò ad arretrare con l’Unità (o meglio, restò al palo mentre le altre zone, altrettanto non sviluppate, crebbero). Ma non è vero che non sapessimo tutto questo perché «nessuno ce l’ha mai raccontato». Non lo sapevamo perché semplicemente non abbiamo studiato oppure non ci siamo documentati a dovere. Dopodiché, persino il cinema si è occupato di certe cose. Si pensi all’eccidio di Bronte, rievocato da Aprile col tono di chi rivela novità assolute: a quest’episodio, tragico ma non sconosciuto, il regista Florestano Vancini dedicò nel 1971 Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, una coproduzione italo-jugoslava trasmessa varie volte dalla Rai e perciò vista da milioni di telespettatori. Nel 1999, invece, Pasquale Squitieri (la cui recente scomparsa è passata inosservata ai neoborbonici e agli aficionados di Aprile) girò Li chiamarono briganti, dedicato, appunto, alle gesta del brigante lucano Carmine Crocco. Anche la musica ha fatto la sua parte: nel 1974, ben prima che il milanese Povia si convertisse alle tesi neoborboniche per rilanciare la sua carriera con la stucchevole Al Sud, gli Stormy Six, band di punta dell’underground milanese, dedicarono una canzone al massacro di Pontelandolfo. Se ci concentriamo invece sui libri, che poi sono le uniche fonti utilizzate da Aprile, che tuttavia ben si guarda dal fornire una bibliografia, ci accorgiamo che tutto era stato già scritto, anche con un certo rigore e che nessuno, a partire dal compianto Carlo Alianello e da Franco Molfese, autore di una pregevolissima Storia del brigantaggio dopo l’Unità, è mai stato censurato. Tutt’altro. Tutto ciò che è riportato nei libri del pugliese a partire da Terroni era già stato pubblicato prima. È stato solo grazie al clima d’odio creato dalla crisi economica e politica del Paese e dalla rinascita dei pregiudizi localistici, in particolare quello antimeridionale sfruttato alla grande dalla Lega Nord dell’era Bossi, che certe tesi sono state distorte e trasformate nella clava politica che in tanti, adesso soprattutto i grillini, cercano di brandire per cattivarsi un po’ di consensi. Ma secondo Aprile, che ha rincarato la dose nel suo ultimo Carnefici (Piemme, 2016), non sapevamo altro, e cioè che il Risorgimento è stato quasi un genocidio concertato ad arte. Peccato che il nostro non sia riuscito a provare le cifre da Prima Guerra Mondiale snocciolate per avallare la tesi che il Sud è quel che è perché i settentrionali, a furia di massacri e rapine, l’hanno depauperato. Peccato, inoltre che certe narrazioni siano state smontate nel frattempo. Ad esempio, quella secondo cui Fenestrelle, il forte alpino in cui erano alloggiati i Cacciatori Franchi, cioè il corpo punitivo del Regio Esercito (italiano e non piemontese), fosse nientemeno una sorta di Auschwitz sabauda in cui sarebbero stati macellati a migliaia i soldati del disciolto esercito delle Due Sicilie. Al riguardo, val la pena di menzionare la polemica a distanza tra Aprile e lo storico torinese Alessandro Barbero, autore di I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle (Laterza, Roma-Bari 2012). Per parare il colpo dello storico piemontese, Aprile scende piuttosto in basso: definisce in Carnefici il suo contraddittore «un medievista e romanziere prestato alla storia contemporanea» e si arrampica sugli specchi, non riuscendo a controbattere coi documenti. Su questo punto si potrebbe rispondere non senza ironia che un medievista è uno storico e, in quanto tale, applica un metodo affinato sullo studio di documenti difficili come quelli medievali, redatti in latinorum o, peggio, in volgare. Di Aprile si sa, per sua stessa pubblica ammissione, che è un perito industriale. Nulla di male in ciò. Ma si ammetterà che il passaggio da perito industriale a storico attraverso il giornalismo è più tortuoso e dà meno garanzie sulla qualità della ricerca, o no? Al netto delle polemiche, si potrebbe concludere che il potere di firma permette ad alcuni ciò che i titoli non consentono ad altri. Nel caso di Aprile si va oltre e il potere di firma diventa transitivo e generazionale. Infatti, Marianna Aprile, figlia di Pino e piezz’e core come tutti i figli d’arte, è una firma di Oggi e, di tanto in tanto, fa comparsate in Rai. Questo lo sappiamo. E sappiamo altro. Sappiamo che i guai del Sud di oggi non sono il prodotto dei Savoia di ieri, ma di quella classe dirigente corrotta, incapace, impreparata e collusa che, spesso, ricicla il sudismo alla Aprile per dotarsi di una linea culturale. Sappiamo queste cose perché ce le raccontano tanti giornalisti che sfidano il precariato e le querele in redazioni spesso improbabili e fanno i conti in tasca a chi amministra quel po’ di potere rimasto e i suoi dividendi. E sappiamo che il compito di questi giornalisti è difficile perché la censura, anche fisica, è un rischio quotidiano. Diffamare i morti (se il generale Cialdini risuscitasse, quante querele beccherebbe Aprile?) invece è facile. Sappiamo anche questo, per averlo sperimentato di persona. Ma prima o poi le mode passano. Sono passate quelle estetiche, che hanno condannato alla bulimia e all’anoressia qualche migliaio di ragazze, passeranno quelle culturali, che condannano all’odio migliaia di persone. Forse questo non lo sappiamo di sicuro. Ma ci speriamo. Saverio Paletta.

Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. 

Epica, politica e rivolta nella Reggio del 1970. "Salutiamo, amico" di Turano rievoca l'epoca delle proteste per il cambio del capoluogo. Paolo Guzzanti, Martedì 29/12/2020 su Il Giornale. Ci sono momenti in cui il recensore di un libro si caccia in un angolo senza via d'uscita. Così è successo a me quando ho affrontato Salutiamo, amico di Gianfrancesco Turano (Giunti, pagg. 492, euro 18). È un libro che rende la vita difficile a chi deve scriverne se, come nel mio caso, ha vissuto in una lontana e tumultuosa epoca della sua vita gli stessi eventi storici che narra il libro. È una storia ed è la storia sullo scenario dei «fatti di Reggio Calabria» del 1970 quando scoppiò una rivoluzione innescata dall'assegnazione del capoluogo regionale a Catanzaro per una spartizione fra politici calabresi, come il socialista Giacomo Mancini e il democristiano Riccardo Misasi, che avevano progettato un nuova regione moderna, con una vera autostrada, un giornale stampato sul posto, una Università, un aeroporto intercontinentale, un oggetto mitico e irrealizzabile come un centro siderurgico che avrebbe dovuto produrre calabresi in tuta blu come i Cipputi (personaggio di Altan) della Fiat e tradurre in modernità un territorio sventurato e paradisiaco con i simboli ormai datati del progresso. Le opere furono poi fatte l'autostrada finita soltanto dopo cinquant'anni, l'ateneo con modernissime maisonette per studenti fuorisede nel campus di Arcavacata, e uno squadrato porto di mare rubato a una piana su cui crescevano inutili e magnifici ulivi secolari. In quell'operazione meridionalista e illuministica, furono decisi e assegnati nuovi ruoli alle città: fu così che Reggio Calabria, la perla dello Stretto, si trovò espropriata dal titolo di capoluogo che fu assegnato per alchimie politiche alla periferica Catanzaro. Fu così che da un giorno all'altro esplose una rivolta indistricabile in cui passato e presente entrarono in un conflitto paradossale per cui la destra estrema diventò sinistra e viceversa, le donne corsero sulle barricate coi maschi e noi giornalisti dell'Italia di sopra viaggiavamo tra i fuochi, le esplosioni, i morti e i feriti, privi di parametri e di strumenti intellettuali per decifrare e raccontare in totale onestà di che cosa fossimo testimoni. A conti fatti, mentre quegli eventi accadevano, l'autore di Salutiamo, amico era un bambino di otto anni, più o meno coetaneo dei miei figli che negli anni successivi mi avrebbero spesso seguito in Calabria quando ero caporedattore del Giornale di Calabria. Tempi, dunque, per me eroici e terribili, esaltanti e deprimenti, spesso incomprensibili come resta secondo me magnifica e incomprensibile quella regione così diversa nel suo tessuto un po' greco e un po' saraceno, contadino e aristocratico, con accenti che cambiano a seconda delle influenze della pronuncia della consonante t che può essere theta o tau o quella siciliana dei greci antichi di cui conserva ancora dei dialetti che non discendono dal greco Basileo o dei fuggiaschi di Costantinopoli, ma dal greco omerico. Oggi, al posto degli altissimi ulivi secolari del marchese Zorzi sulla piana di Gioia Tauro, c'è un porto moderno che è anche un centro dello spaccio della droga via container per servire il Quinto centro siderurgico che poi non si fece mai perché non era più tempo di siderurgia, guarda l'Ilva di Taranto e gli stabilimenti chimici della Sir dell'imprenditore Rovelli, amico e sostenitore del leader socialista calabrese Giacomo Mancini, per il quale aprì il primo quotidiano stampato nella regione in uno stabilimento nordico di plexigas, metallo e moquette sintetica al chilometro 273 dell'autostrada, di cui io fui redattore capo fin quando Eugenio Scalfari fondò Repubblica. I fatti narrati nel libro avvennero però un po' prima, nel 1970, quando Gianfrancesco Turano aveva otto anni ed io trenta. Questo groviglio di ricordi personali molto intensi evocati fra tante storie di amori e odio e morti e vivi di 490 pagine con tantissimi pregi, mi ha tenuto in scacco per due mesi. Salutiamo, amico è un libro d'amore, politica, iniziazione, giudizi e pregiudizi, memorie di digestioni ideologiche e grandiosi esperimenti linguistici che guidano non solo alla cadenza fonetica, ma alla cadenza dei pensieri, dei sentimenti, degli inasprimenti e della condizione umana in una terra in cui il carattere omerico è in perenne conflitto col moderno. Turano gioca con una certa anima saracena usando la q al posto del suono k che in italiano si rende con ch, alla maniera delle traslitterazioni dall'arabo. È un libro che ho ammirato e con cui ho litigato come si fa con i compagni di viaggio, sicché non riuscendo più a liberarmi dell'articolo che state leggendo, ho dovuto fare una scelta per decidere quale privilegiare fra i ricorrenti piani di scrittura di Turano (che è un giornalista dell'Espresso e autore esperto e di successo) e ho dovuto restringere la materia alla storia, perché c'ero e ricordo: ecco il marchese Zorzi, fascistissimo a cavallo con sahariana, Ciccio Franco (il rivoltoso di estrema destra, poi senatore del Msi), la sinistra giornalistica sull'orlo di crisi di nervi. «Va bene, questa è una rivolta fascista. Ma il popolo è con loro. E se sbagliassero i partiti?». Mi sono imbattuto, leggendo il libro di Turano, di fronte a una lapide: è l'elenco di tutti i giornalisti (per lo più nordisti) che scesero a Reggio e scrissero, scrivemmo, come forsennati: da Giorgio Bocca, a Giampaolo Pansa, da Adele Cambria a tanti altri che sono tutti assolutamente morti. Così ho scoperto di essere io l'unico rimasto vivo di quel corpo di spedizione e questa banale considerazione, o certificazione di residuale esistenza in vita di un gruppo di testimoni estinti, mi ha pugnalato al cuore. Mi torna in mente il sofisticato Alfonso Madeo del Corriere della Sera famoso per aver messo a rimborso sotto la voce «fiori per la moglie del prefetto» le prestazioni di una signorina stanziale nell'Hotel Excelsior, con la nota «l'uomo non è di legno», ma io mi trovavo nella situazione peggiore perché ero l'inviato poverissimo del quotidiano socialista Avanti! di cui si bruciavano copie sui roghi accanto ai fantocci di Giacomo Mancini impiccato insieme a Misasi. Una sera chiesi un passaggio a un automobilista che mi accolse e poi mi chiese: «Ma voi lo conoscete questo grandissimo figlio di puttana di Guzzanti, che scrive sull'Avanti?». Giurai di non conoscermi.

Una notte fui costretto a rifugiarmi in un albergo di Messina per sfuggire ai più esaltati, ma non furono queste le cose più sensazionali per me, in quell'epoca in cui terminava una fase della nostra storia. Turano racconta moltissime storie viste, udite, ricreate, vere o letterarie e comunque storie che si incastrano in un cambiamento rivoluzionario che purtroppo non ha poi dato frutti magnifici, come le recenti questioni calabresi hanno mostrato, con mio sommo dolore perché pur non avendo alcuna origine in quelle terre, posso dire di amarle in un perenne stato di inquietudine. Una espressione ormai coperta dall'oblio va spiegata ed è anche in copertina, «Boiachimolla»: era la password di quei moti e i «boia chi molla» erano liquidati alla spiccia come fascisti il che non era del tutto vero. Ma nessuno credo sia in grado di dire quanto ci fosse di fascista o di comunista o di socialista in quel teatro sassoso e insanguinato, limpido e torbido che è la Calabria. Posso però testimoniare che Salutiamo, amico, benché ardisca mescolare il genere del saggio, del poema omerico moderno, del diario politico e di tanti altri diari umani compresi quelli palpitanti di iniziazione sessuale, è una testimonianza italiana di un tempo e di un luogo di cui l'Italia intera ha perso la memoria, che qui è invece catapultata con tutti i suoi odori e temperamenti aspri, sulle pagine di un ambizioso libro da leggere come è stato scritto, con animo epico.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Succede in Sicilia.

(ANSA il 13 dicembre 2021) - "Il 76% delle tratte di rete indagate deve essere sottoposto con urgenza a un intervento di risanamento": così gli amministratori giudiziari nominati dal tribunale di Palermo nel procedimento di prevenzione che interessò Italgas scrivevano nel 2014 dopo aver controllato, attraverso un pool di tecnici, la rete del metano gestita dalla società. I controlli avevano riguardato mezza Italia e anche gli impianti dell'agrigentino. Da accertamenti a campione erano emerse gravi situazioni di rischio ad esempio ad Agrigento città. La relazione degli amministratori sarà acquista dagli investigatori che indagano sulla fuga di gas di Ravanusa.

(ANSA il 13 dicembre 2021) - Cinque giorni prima della strage di Ravanusa c'è stato un intervento di manutenzione ordinaria sull'impianto della rete di metano che non aveva evidenziato alcuna criticità. E' quanto hanno accertato i carabinieri che ora dovranno acquisire il verbale d'intervento per verificare chi abbia materialmente eseguito il collaudo e se sia stato fatto a regola d'arte.

Da leggo.it il 13 dicembre 2021. Salvi perché a cena fuori. Così un'intera famiglia è riuscita a evitare la tragedia che si è consumata a Ravanusa.

«Pensare che io a quella cena in un ristorante a Mazzarino, un paese qui vicino, neppure volevo andarci. Se mio marito non avesse insistito oggi forse saremmo tutti morti. Anche i miei tre figli. Non ci voglio pensare», ha dichiarato Franca, 35 anni, mostrando le foto di come è ridotta la sua casa. 

Ravanusa, famiglia si salva perché a cena fuori

La casa è distrutta perché si affaccia sul cratere dell'esplosione, ma fortunatamente non c'era nessuno al suo interno. La coppia aveva deciso proprio quella sera di uscire e andare a mangiare fuori insieme ai figli di 1, 5 e 10 anni.

«Erano le 8 della sera, eravamo attesi da amici in un ristorante in un Paese qui vicino. Io non volevo andare, ero stanca, ma mio marito ha insistito e alla fine mi ha convinto. Siamo usciti tutti, ovviamente abbiamo portato anche i nostri figli, sono piccoli, non possono restare a casa da soli», ha raccontato la donna a Il Messaggero. 

Ravanusa, famiglia si salva perché a cena fuori

«Al ristorante avevamo avuto  appena il tempo per mostrare il Green pass, quando è arrivata una telefonata a mio marito, lo hanno avvertito che c'era stata l'esplosione. È sbiancato, non l'avevo mai visto così. 

Lui è uscito nel parcheggio del ristorante, io l'ho raggiunto. Mi ha detto cosa era successo, proprio a fianco a casa nostra. Agli edifici dei nostri vicini. Ma anche a una parte della nostra abitazione. Ho subito pensato: se non fossimo usciti per andare al ristorante, saremmo stati nella sala. Non ci saremmo salvati. Non si sarebbero salvati i nostri figli. Loro sono rimasti ammutoliti, scioccati. Adesso siamo fuori di casa. Ci hanno lasciato entrare qualche minuto per recuperare alcune cose. Chissà quando potremo tornare».

Il peggio è stato evitato, ma restano senza casa. «Ci ha ospitato mio cognato, ci sta aiutando a portare via qualcosa. Ma per i bambini non è facile. Qui gli sfollati sono molti, dicono anche cento. Tutta la zona è inagibile. Una distruzione inimmaginabile, io davvero non so dire come sia potuto accadere... Penso che ciò che conta è che ci siamo salvati. Siamo andati via appena in tempo, prima che ci fosse questo inferno. Chissà che fine hanno fatto i nostri vicini. Qui ci conosciamo tutti».

(ANSA il 14 dicembre 2021) - Non sono ancora stati trovati i corpi di Calogero e Giuseppe Carmina, padre e figlio, gli ultimi due dispersi dell'esplosione avvenuta a Ravanusa sabato sera in cui sono morte sette persone. I vigili del fuoco hanno lavorato tutta la notte rimuovendo le macerie di quello che era l'appartamento del padre, dove il figlio era andato per un saluto veloce, ma dei corpi dei due non c'è traccia. Si continuerà dunque a scavare per rimuovere le macerie e arrivare al livello della strada: non è escluso infatti che i due potessero trovarsi proprio lì al momento dell'esplosione. Parallelamente alle ricerche si è iniziato a portare via le macerie anche perché, senza spostare parte delle tonnellate di cemento e pietre provocate dall'esplosione diventa impossibile proseguire le operazioni di soccorso.

Fabio Albanese e Fabrizio Goria per "la Stampa" il 14 dicembre 2021. Il dissesto idrogeologico della zona, la vetustà e le possibili carenze della rete del metano, gli appalti e i subappalti per il controllo degli impianti. Di elementi su cui fare luce per capire cosa abbia provocato la disastrosa esplosione di sabato sera a Ravanusa, con un bilancio di sette morti accertati e due dispersi, i periti e la procura di Agrigento ne hanno tanti. L'inchiesta per disastro e omicidio plurimo colposi aperta poche ore dopo l'incidente è ancora alle fasi iniziali e, come sottolineano ancora una volta gli investigatori, solo dopo la fine delle operazioni di soccorso potrà procedere più spedita: «Gli elementi verranno fuori non appena l'area sarà sequestrata», dice un investigatore. Ieri sono state acquisite le mappe della rete cittadina e in Comune è stata prelevata altra documentazione. Si è appreso che appena cinque giorni prima dell'esplosione, Italgas (la società che ha in gestione la rete) aveva effettuato dei controlli ordinari che non avrebbero rivelato alcuna anomalia e che, ha fatto sapere l'azienda, «sono stati svolti in zone distanti da quella dell'esplosione». Anche le relazioni di servizio di quell'intervento verranno acquisite. Capire che cosa è accaduto è fondamentale per accertare le responsabilità; l'ipotesi principale resta quella di un tubo rotto a causa di movimenti del terreno con la creazione di una grossa sacca di gas nel sottosuolo, che è poi esplosa. Come è strutturata la rete nel sottosuolo di Ravanusa costruita tra il 1984 e il 1986 - con la zona di Masci Minici dove è avvenuta l'esplosione da tempo dichiarata a rischio idrogeologico tanto che sono in corso lavori di consolidamento di un costone - lo dovrà accertare il perito nominato dal procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio. Il tecnico aspetta di poter compiere il sopralluogo appena le ruspe e i soccorritori potranno lasciare l'area di via Trilussa. Prima, bisogna trovare gli ultimi due dispersi, Calogero e Giuseppe Carmina, padre e figlio, dopo che ieri mattina un cane molecolare dei vigili del fuoco aveva individuato i corpi di altre quattro persone che fanno salire a sette il numero delle vittime. Sotto il profilo delle responsabilità oggettive, la situazione è in divenire. Quello che è certo è che mercoledì 22 ottobre 2014 gli amministratori giudiziari di Italgas - Andrea Aiello, Sergio Caramazza, Marco Frey, Luigi Giovanni Saporito - furono ascoltati dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie, all'epoca presieduta da Rosy Bindi. Proprio per chiarire i rapporti intrapresi con due società, Comest ed Euroimpianti plus riconducibili ai fratelli Cavallotti e ai loro familiari. I Cavallotti, sotto inchiesta perché considerati vicini al boss Bernardo Provenzano, furono poi assolti e i loro beni dissequestrati. Riguardo a questo, Italgas ha comunicato che «Euroimpianti plus non ha mai lavorato a Ravanusa». C'è altro. Secondo quanto emerso nella giornata di ieri, i quattro manager nominati dal tribunale di Palermo nel procedimento di prevenzione che interessò Italgas avevano controllato la rete del metano in gestione dalla società. Verifiche che erano state condotte su larga scala nel territorio nazionale e anche nella provincia di Agrigento. In base proprio a quest' ultima zona, si evidenziavano significative criticità, come nel perimetro di Agrigento. «Il 76% delle tratte di rete indagate deve essere sottoposto con urgenza a un intervento di risanamento», è scritto nel documento, che fu trasmesso dalla procura di Palermo a tutte le procure e le Prefetture italiane. Che non riguardava solo l'agrigentino o la Sicilia, ma anche altri parti del Paese. Le difformità ravvisate nel 2014 nell'area di Agrigento furono diverse. Come il passaggio di tubature «in adiacenza alle pareti dei pozzetti di ispezione senza alcuna protezione creando rischiose interferenze con tubi corrugati dentro ai quali sarebbe necessario che le tubazioni fossero protette con sistema dotato di sfiati per evitare che il gas fugante trovi nei cavidotti una via preferenziale di movimento». O come la non conformità nella profondità di interramento, elemento che avrebbe potuto avere ripercussioni sulla staticità dell'impianto. Allo stesso tempo, Italgas ha fatto sapere che la rete di Ravanusa «non è stata oggetto di indagine e rilievi nel periodo di amministrazione giudiziaria del 2014».

Esplosione a Ravanusa, le vittime: Selene, la giovane sposa a una settimana dal parto. Felice Cavallaro su Il Corriere della Sera il 12 dicembre 2021. Volti e storie delle persone ancora intrappolate sotto le macerie nella tragedia di Ravanusa. Il docente che aveva scritto un volume che ruota attorno a un pauroso rogo avvenuto a Ravanusa. La tragedia di Ravanusa ha i volti e le storie di chi viene cercato sotto le macerie anche graffiando pietre e cornicioni con le unghie e il cuore in gola. Ed è la tragedia di chi ha sperato invano di udire un pur flebile richiamo per potere affondare le mani in una notte segnata da fiamme, pioggia e terrore. Com’è successo a Luigi Pistelli che non si rassegna all’idea di avere perduto la sua incantevole figliola, la sua Selene, infermiera all’ospedale di Agrigento, sposata da un anno con Giuseppe Carmina, pronta a partorire, al nono mese, il pancione mostrato felice alla suocera sabato sera, mentre erano ancora sul pianerottolo del terzo piano che non c’è più.

Come un terremoto

Perché in un istante un boato ha annullato progetti e sogni. Di tutti, Giuseppe compreso. Come dei suoi genitori, degli inquilini di altri piani e della casa accanto. Ed è rimasto solo questa infernale scenografia da day after scrutata da Pistelli che gli effetti speciali finora li aveva costruiti con il suo service, esperto di audio e video, luci e suoni, ingaggiato da tutti per eventi e feste di piazza fra Canicattì e Campobello di Licata dove vive lui, dove vivevano la sua Selene e il genero, l’altra sera di passaggio per un saluto prima di una settimana impegnativa.

Già, cominciava da oggi il countdown per il parto e papà Pistelli fremeva perché doveva volare a Milano per la laurea del figlio maschio, Vincenzo, un vanto per i successi alla Cattolica dove mercoledì è fissato l’ultimo esame per il neo dottore in Scienze linguistiche. Sacrifici, passioni, lontananza, gioie. Tutto cancellato da un terremoto che s’abbatte fra questi paesini dove tutti si conoscono e si incrociano. Anche con i cognomi.

Il prof del liceo

Selene è precipitata con il suo bimbo in grembo accanto al giovane marito, Giuseppe Carmina, che non è parente dell’inquilino travolto nella casa attigua, Pietro Carmina, «il professore», come lo chiamavano tutti. Un intellettuale — una delle tre vittime accertate, le altre sono Maria Crescenza Zagarrio e Calogera Gioacchina Minacori, per tutti Liliana — amato dagli studenti del liceo Foscolo a Canicattì, un figlio direttore in un grande albergo di Milano, una vita per la filosofia, autore di un libro appena premiato con una targa a Sambuca di Sicilia, «I totomè del barone». Una trama che inquieta perché, oltre ai dolci carnevaleschi citati nel titolo, tutto ruota attorno al pauroso incendio della chiesa madre di Ravanusa. Anni Trenta. Con un intero paese allora attonito alla ricerca delle cause.

Un po’ come succede adesso davanti ai dubbi sulla rete del gas, parlando del professore che qualche mese fa incrociò Selene Pistelli in ospedale ad Agrigento. Lei infermiera, lui ricoverato per Covid, come ricorda una collega del Foscolo, Manuela di Nardo, insegnante di italiano: «Temevamo il peggio. Era intubato. Noi professori organizzammo una veglia di preghiera online. Grato lui quando seppe, pronto a sorridere sul destino che non aveva ancora fissato la sua ora, pronto a riabbracciare i suoi ragazzi, anche dopo essere andato in pensione».

Il messaggio agli studenti

E se lo ricorda bene Giuseppe Lo Leggio, giovane imprenditore di una famosa cantina di Campobello, dei Vini Milazzo, ex alunno del professore-scrittore: «L’unico che ci faceva fare il compito scritto di filosofia: “Così vi abituate per l’università...”. A loro, agli studenti di una vita si è rivolto Pietro Carmina prima di lasciare la scuola con un messaggio oggi letto come un lascito morale: «Un’ultima raccomandazione, mentre il mio pullman si sta fermando: non siate spettatori ma protagonisti della storia che vivete oggi... impegnatevi, non siate indifferenti, non state tutto il giorno a cazzeggiare con l’iPhone. Leggete, viaggiate, siate curiosi...».

Le vite spezzate

Restano le sue parole come il libro premiato a Sambuca il mese scorso dove riabbracciò un altro professore-scrittore, Francesco Pira, oggi all’università di Messina: «Ci ritrovammo dopo tanti anni. Da ragazzo lo andavo a trovare quando era segretario del Ravanusa calcio...». Pezzi di vita evocati come fa anche Enzo Randazzo, altro scrittore che domenica lo aveva invitato a Racalmuto per un suo libro. Ma a Ravanusa e dintorni diluviava e temendo il peggio Carmina preferì restare fra le mura poi sventrate. Precipitando nell’abisso con i vicini, con le loro storie, come quella d’amore fra Selene e Giuseppe, la stessa evocata nei diari pubblici dei social dove si legge ancora la scritta della loro torta nuziale: «Una lunga vita insieme». 

Ravanusa, trovati altri 4 corpi di vittime dell’esplosione: i morti salgono a 7. «Colpa di una bolla di gas sottoterra». Carlo Macrì su Il Corriere della Sera il 13 dicembre 2021. Dopo una notte di lavoro, i soccorritori hanno individuato quattro corpi: salgono a 7 le vittime accertate. Tre persone ancora disperse. I testimoni: «C’era puzza di metano da giorni». Ma Italgas: nessuna segnalazione. Il giorno dopo si scava e si prega. Vigili del fuoco e volontari della Protezione civile vanno avanti a mani nude e quando i cani molecolari annusano qualcosa invitano tutti al silenzio, nella speranza di riuscire a cogliere qualche anelito di vita sotto l’enorme cumulo di macerie. Nelle prime ore del giorno, oggi, quella speranza s’è fermata quattro volte. Altri quattro corpi. Sette morti, per ora. E si cercano ancora due dispersi. A far da cornice la gente di Ravanusa che non ha lasciato per un solo istante l’area delle ricerche. Al calar della sera, ieri, qualcuno cominciava a pregare. «Dio abbi pietà di noi» ripeteva una donna, segnandosi il petto e la fronte. Si spera che la tenacia dei soccorritori e una mano dall’alto possano ancora fare qualche miracolo. Come del resto sono un miracolo le due donne estratte vive: Rosa Carmina, rimasta per ore sotto le macerie, e Giuseppa Montana. Rosa, dal letto dell’ospedale di Licata, racconta di aver gridato con tutte le forze sino a quando la sua voce non è stata sentita dai Vigili del fuoco. «Ero tornata a casa da poco, erano le 20 e, all’improvviso, la luce è andata via. In un attimo il tetto e il pavimento sono venuti giù e io sono rimasta intrappolata». E poi aggiunge: «Alla mia età avrei preferito restarci io sotto le macerie invece di quei poveri ragazzi». Per il resto il bilancio ufficiale parla ora di 7 morti accertati. Tre sono stati estratti domenica: Pietro Carmina, 68 anni, Maria Crescenza Zagarrio, 69 anni, e Calogera Gioacchina Minacori, di 59.  Gli altri quattro all’alba di lunedì: Selene Pagliariello e il marito Giuseppe Carmina, insieme ai genitori di quest’ultimo. (Qui i ritratti delle vittime di questa tragedia). Quattro abitazioni, tra via Trilussa e via Galilei, sono state letteralmente rase al suolo dall’esplosione e decine di altri stabili sono stato stati danneggiati in un raggio di circa 400 metri quadrati, ma l’esplosione è stata avvertita a chilometri di distanza. In totale un centinaio di persone sono state evacuate e trasferite in alberghi o dai parenti. «Una scena di guerra, sembra Beirut» continuano a ripetere gli abitanti della zona. Ma occorre capire il perché di una tragedia del genere. I residenti dicono che da giorni si avvertiva in strada un forte odore di gas. È possibile che chi gestisce la rete non si sia accordo che c’era una perdita nelle condotte che ha creato quella «sacca di gas» di cui parlano i Vigili del fuoco e che poi avrebbe trovato «un inesco accidentale provocato da un frigorifero o da una sigaretta»? La circostanza è stata confermata da un consigliere comunale, Giuseppe Sortino, e dal comandante provinciale dei carabinieri, il colonnello Vittorio Stringo: «Nella zona da giorni ci sarebbe stato un accumulo di gas metano nel sottosuolo che si sarebbe protratto fino a sabato». È quanto dovrà accertare anche la Procura di Agrigento che ha già aperto un’inchiesta per disastro e incendio colposo, al momento contro ignoti. Il procuratore Luigi Patronaggio ieri ha fatto un primo sopralluogo e altri ne farà nei prossimi giorni, assieme ai tecnici incaricati dalla Procura. Si dovrà capire se la rete del gas, che risale al 1984, era a norma e se nel tempo sono stati fatti tutti i dovuti controlli e gli interventi di manutenzione. La zona della tragedia da anni è interessata anche da un evidente un movimento franoso visibile anche dalle fenditure lungo strade e abitazioni. E questo potrebbe aver provocato una rottura alla condotta dal gas. Ieri il capo dello Stato Sergio Mattarella ha telefonato al sindaco di Ravanusa, Carmelo D’Angelo: «Ha espresso il massimo sostegno e il suo cordoglio alla comunità». Il premier Mario Draghi si è tenuto costantemente in contatto con il capo della Protezione civile Fabrizio Curcio che ha coordinato sul posto le ricerche e i soccorsi.

Ravanusa, «il gas usciva anche dai bagni». Nove mesi fa la zona fu evacuata. Carlo Macrì su Il Corriere della Sera il 13 dicembre 2021. L’inchiesta dopo l’esplosione della palazzina a Ravanusa, in Sicilia. La relazione del 2014: «La rete nell’Agrigentino è pericolosa».  Ci sono ancora 142 vigili del fuoco all’opera sulle macerie delle quattro palazzine di Ravanusa, completamente distrutte dall’esplosione di sabato sera. Un lavoro incessante, per cercare di recuperare i due corpi che mancano all’appello: quelli di Calogero e Giuseppe Carmina, padre e figlio, per cui le speranze sono ormai ridotte a un lumicino. Nel doloro della comunità, che piange già 7 vittime, iniziano però a sollevarsi dubbi e interrogativi sulla tragedia. «Cinque giorni prima del disastro erano state fatte alcune verifiche sulla condotta della rete di gas metano a Ravanusa, senza riscontrare nessuna irregolarità nelle tubazioni», dice il colonnello dei carabinieri Vittorio Stingo, comandante provinciale di Agrigento. Italgas, che gestisce l’impianto di gas metano nel paese dell’Agrigentino, smentisce la notizia. «Sulla base di quanto registrato nei sistemi aziendali — non vi è evidenza di lavori eseguiti sulla rete stradale, ma unicamente interventi routinari eseguiti su contatori domestici e su alcune valvole stradali da eseguire con cadenza periodica. Questi interventi si sono svolti nell’abitato di Ravanusa, in vie distanti dal luogo dell’evento». Sui lavori effettuati nella zona del disastro, c’è comunque una relazione che sarà acquisita dalla procura di Agrigento che, sul disastro ha aperto un fascicolo, al momento contro ignoti. Gli interventi nell’area adiacente la deflagrazione causata, probabilmente, dall’accumulo di gas nel sottosuolo, stanno diventando un vero giallo. Nessuno degli abitanti della zona, in quei giorni, avrebbe notato operai all’opera sulla linea che fornisce il metano nelle case, poi crollate con l’esplosione. «E tra gli sfollati delle case inagibili, a me non c’è nessuno che mi ha detto di aver sentito, nei giorni precedenti l’esplosione odore di gas», sostiene sempre il colonnello Stingo: «Non risultano reclami o chiamate d’intervento per fughe di gas». Tuttavia, dopo lo scoppio, molti abitanti della zona giuravano invece che in quei giorni l’aria era invasa dall’odore di gas. Nove mesi fa, poi, nelle vie Marche e Sicilia, a circa 50 metri in linea d’area dalla zona dello scoppio, alcuni abitanti della zona avevano segnalato ai Vigili del fuoco, carabinieri, in Comune, che nella zona si sentiva odore di gas. «Addirittura l’esalazione fuoriusciva dal water», dice la signora Gianna Lombardo. «Ho avuto timore per mia figlia ed ho dovuto pregare i carabinieri a intervenire», aggiunge Alessandro Patti. Un elemento confermato anche da don Filippo Barbera, parroco della chiesa di San Giacomo: «Io stesso — ha affermato — nelle vicinanze della Chiesa Madre ho avvertito nei mesi scorsi, a maggio o a giugno, un odore acre di gas». In effetti, dopo tanti solleciti, il Comune aveva chiesto ai tecnici di Italgas di intervenire. «Un giorno sono arrivati in massa i carabinieri e ci hanno imposto di lasciare le nostre case perché si dovevano fare dei lavori di manutenzione sulla rete del metano. Ci hanno evacuato, in trenta, anche chi era in quarantena per il Covid, ha dovuto lasciare la casa», racconta Patti. In effetti, in molte strade del quartiere si notano i rappezzi d’asfalto che coprono gli scavi e, soprattutto sono ben visibili i fori praticati nel terreno da parte di Italgas che ha trivellato il suolo per verificare la fuoriuscita di gas. 

Sempre dal passato, e precisamente dal 2014, è emerso anche un procedimento di prevenzione che interessò all’epoca sempre Italgas (coinvolta in un commissariamento), in cui erano emerse «gravi situazioni di rischio nell’area di Agrigento». Ma anche in questo caso la società ha subito replicato che «tutte le situazioni erano state sanate laddove necessario». E comunque non riguardavano Ravanusa.

Ci sono infine le battaglie di paese. Come quella combattuta da anni dall’avvocato Lillo Musso, già candidato sindaco, che punta il dito sui lavori di manutenzione e sul rischio di cedimenti strutturali di una parte del centro abitato. Il 10 settembre 2020 il legale aveva presentato un esposto alla procura di Agrigento. E sabato mattina, vale a dire otto ore prima dello scoppio, era stato sentito dalla polizia giudiziaria. «Alle 8,40 al momento dell’esplosione mi trovavo nello studio. Ho sentito un boato: ho pensato che mi avessero messo una bomba. Quando ho avuto contezza di quel che era accaduto, mi si è gelato il sangue. Dentro di me mi sono detto: “Forse tutto questo si poteva evitare”».

Già oggi i consulenti della procura potrebbero fare i primi sopralluoghi nell’area dello scoppio. Per accelerare le operazioni di recupero il colonnello Stingo ha disposto lo spostamento di tutte le macerie in una zona adiacente. Ma resta il dolore. Come quello di Vicenzo, fratello di Selene, l’infermiera incinta al nono mese, morta sotto le macerie: «Sabato mia sorella mi aveva regalato i confetti e comprato le calze da mettere sotto il vestito per la mia laurea», dice Vincenzo, che attende di sapere se la Cattolica di Milano gli consentirà di discutere la tesi da remoto. Lo scoppio ha cancellato tutto.

C.Ma. per il "Corriere della Sera" il 15 dicembre 2021. Adesso che i corpi di Calogero e Giuseppe - le ultime due vittime - sono stati ritrovati e che chi rimane della loro famiglia potrà piangerli, toccherà alla Procura di Agrigento capire cosa sia davvero successo a Ravanusa. Da ieri sera l'area dove quattro palazzine sono collassate come castelli di carta è stata transennata e i consulenti dei pm hanno iniziato il loro lavoro. Sarà la zona rossa della strage. Tra qualche giorno scatteranno i primi avvisi di garanzia per disastro e omicidio colposo plurimo. Quasi un atto dovuto. Nulla trapela sui nomi che verranno iscritti, ma Luigi Patronaggio, il procuratore che coordina l'indagine affidata alla pm Sara Varazi, ieri ha tenuto a ribadire che «rimosse le macerie le indagini tecniche ripartiranno con nuovo vigore per l'accertamento delle cause del disastro». Sono già stati sentiti come persone informate sui fatti decine di testimoni. I primi interrogativi ai quali i consulenti nominati dalla Procura dovranno dare una risposta sono naturalmente quelli su cosa ha provocato l'esplosione e su quale sia l'effettiva condizione della rete del metano. I primi elementi acquisiti destano qualche perplessità: nel paese sono in corso da tempo interventi di consolidamento del terreno soggetto a smottamenti. Durante i lavori si sarebbe provveduto a mettere in opera nuove tubature del metano ma, accanto, anche quelle delle acque di scolo. Lavori che si protrarrebbero da sette mesi senza che le condutture siano state ricoperte, con il rischio che venissero in qualche modo danneggiate. Ieri, la segnalazione di nuove dispersioni di gas nelle vie Calabria, San Francesco e Galilei, a poca distanza dal luogo in cui sabato è avvenuta l'esplosione, hanno fatto vivere momenti di inquietudine alla popolazione. Italgas è intervenuta per poi precisare che «a seguito di verifiche, per due di esse non sono state rilevate alcune perdite; per una terza i tecnici hanno provveduto alla sostituzione di un breve tratto di tubazione». Un presidio stabile di pronto intervento da oggi sarà dislocato in paese. E a proposito dei primi sviluppi dell'indagine, i titolari della ditta che ha in appalto la manutenzione da Italgas, la Vitale di Partinico, sono già stati sentiti dai carabinieri. Avrebbero ribadito che cinque giorni prima dello scoppio venne verificata la condizione della rete con ispezioni nei pozzetti. Gli inquirenti intendono accertare che tipo di manutenzione sia stata effettuata, fermo restando che si tratta di una rete vecchia di 37 anni e che in moltissimi punti di Ravanusa le tubature risulterebbero arrugginite.

(ANSA il 18 dicembre 2021) - "L'esplosione è stata prodotta da una 'bolla' o 'camera' di metano innescata da una casuale scintilla". A fare chiarezza, in maniera ufficiale, sulle cause dell'inferno di via Trilussa a Ravanusa, è il procuratore capo di Agrigento Luigi Patronaggio. "Si sta cercando di ricostruire la dinamica dell'esplosione e del successivo propagarsi della 'palla di fuoco' e dell'onda d'urto - ha spiegato - . Viceversa, sul come e sul perché si sia creata la 'bolla', e perfino sul punto esatto dove la stessa si sia creata (al momento localizzata al di sotto o in adiacenza della abitazione del civico numero 65 di via Trilussa), permangono dubbi che saranno sciolti dalle investigazioni tecniche e di polizia giudiziaria in corso".

Ravanusa, tra Italgas e Comune è già scontro sulle le responsabilità. La procura nomina il super-perito. Carlo Macrì su Il Corriere della Sera il 15 Dicembre 2021. La società del gas: «I lavori? Li stava facendo l’amministrazione». L’ira del sindaco e il nodo dei 130 sfollati. E intanto si studia il precedente di Ventotene. Venerdì i funerali delle vittime dell’esplosione, ci sarà il ministro Giovannini. L’inchiesta sulla strage di Ravanusa è ancora agli inizi ma, intanto emergono già evidenti i primi contrasti tra Italgas, la società che gestisce la rete del metano e l'amministrazione comunale sulle responsabilità in merito ad alcuni lavori sul territorio, e in particolare proprio quelli nella zona del disastro. La società, in una nota, afferma che «gli interventi nel cantiere comunale di via San Francesco, dove il crollo di una palazzina ha fatto nove vittime, non sono stati fatti da Italgas Reti, ma dal Comune di Ravanusa». Pronta la replica del sindaco del comune dell’Agrigentino, Carmelo d’Angelo: «La responsabilità della rete del metano è di Italgas. Appureranno gli inquirenti di chi è stata la responsabilità del crollo». Italgas chiarisce, inoltre, alcuni aspetti della vicenda. «Siamo stati noi a fornire ai tecnici del Comune, la cartografia relativa al posizionamento delle nostre condotte».

Il territorio comunale di Ravanusa da anni è oggetto di lavori di consolidamento del sottosuolo che da due anni però sono fermi. Alcuni di questi scavi, effettuati per disporre la barriera in cemento armato, profonda 35 metri, non sono stati ricoperti, così come ha documentato nei giorni scorsi il Corriere (vedi foto sopra). In parallelo a questo sbarramento, passa la nuova condotta del gas metano, sostituita nel 2013. Sopra della quale sono stati posti, quasi a toccarsi, gli scarichi fognari dei privati. Il cantiere, da anni, è a cielo aperto con chiunque in grado di sabotare le condotte del metano o anche la struttura stessa.

«Al fine di accertare che le lavorazioni delle imprese del Comune non producano danneggiamenti alla tubazione in esercizio, Italgas Reti effettua sopralluoghi settimanali in questi cantieri. In occasione dell’ultimo controllo, effettuato il 7 dicembre scorso — sostiene la Società del gas — lo strato di copertura delle condotte risultava regolare». Così però non risulta, perché ancora mercoledì, lo scavo lungo circa 30 metri era scoperto. Le testimonianze degli abitanti del luogo, che da anni subiscono un profondo disagio, poiché gli scassi sono stati eseguiti sino al limite degli usci di casa, sostengono che gli scavi non sono mai stati ricoperti. 

Ieri, intervistato dal Tg1, ha parlato anche Saverio Vitale, titolare della ditta Vitalegas, di Partinico. La sua azienda, da un anno e mezzo, lavora per conto di Italgas, sul metanodotto di Ravanusa. «Non c’entro niente con la strage di Ravanusa. Lavoriamo solo a chiamata. Se c’è un lavoro da fare Italgas ci chiama e noi andiamo». Hanno fatto così anche cinque giorni prima della strage. «Abbiamo pulito il pozzetto, ingrassato la valvola e controllato se funzionava» , ha spiegato il titolare della Vitalegas.

Da mercoledì, intanto, l’area interessata allo scoppio è stata sottoposta a sequestro, mentre i Vigili del fuoco continuano a ripulire l’area dello scoppio per agevolare i sopralluoghi dei tecnici, previsti nei prossimi giorni. La procura di Agrigento ha affidato l’incarico al professor Antonio Barcellona, ordinario di Tecnologia dei materiali all’Università di Palermo, di chiarire le cause dell’esplosione. Un lavoro certosino e complicato, che potrebbe durare mesi visto che, delle quattro case dove si presume possa essere partita la scintilla che avrebbe causato l’esplosione, sono rimasti solo detriti. 

Lo scoppio di Ravanusa è paragonabile — dicono i Vigili del fuoco – a quello avvenuto in via Ventotene, a Roma, esattamente 20 anni fa. Otto le persone decedute, cinque dei quali Vigili del fuoco. Venerdì, intanto, nel piazzale antistante la chiesa Madre, a valle di via Trilussa, a cento metri dal luogo della strage, si terranno i funerali delle nove vittime, alla presenza del ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini. 

Il sindaco di Ravanusa, mercoledì, ha incontrato una delegazione dei 130 sfollati. «Per la ricostruzione chiederemo al Governo l’impegno di essere celeri come nella costruzione del ponte Morandi, a Genova e non com’è accaduto per il terremoto dell’Aquila». Poi l’impegno: «Entro sabato avremo la mappatura sulle verifiche di stabilità degli edifici: capiremo quindi chi potrà rientrare e chi no, nelle proprie abitazioni. Per chi ha avuto la casa distrutta il Comune se ne farà carico pagando il fitto di una nuova abitazione che voi stessi potete cercare tra quelle libere», ha assicurato il sindaco. La solidarietà alle persone sfollate non sta mancando. Continuano ad arrivare contributi, mentre la Croce Rossa sta facendo una straordinaria opera di raccolta di generi di prima necessità per gli sfollati. Anche le Iene sono scese in campo. La trasmissione televisiva disputerà una partita del cuore per gli alluvionati di Catania. Parte dell’incasso sarà devoluto agli evacuati di Ravanusa.

Alessandro Vinci per corriere.it il 14 dicembre 2021. È stata addestrata a cercare persone ancora vive. Questa volta, però, ha fatto ritrovare i corpi di quattro vittime: Selene Pagliarello (al nono mese di gravidanza), il marito Giuseppe Carmina e i genitori di quest'ultimo, Pietro Carmina e Carmela Scibetta. All'alba di lunedì tra le macerie di Ravanusa non c'è stato il lieto fine, ma quello di Luna, labrador di sei anni in servizio all'unità cinofila dei vigili del fuoco di Palermo, è stato ugualmente un contributo di grande importanza. Grazie al suo fiuto, infatti, ora i dispersi della drammatica esplosione di sabato sera sono non più sei, ma due: un uomo di 70 anni e il figlio di 30. Che la cagnetta avesse avvertito qualcosa di anomalo, il suo conduttore Claudio Pieri se n'è reso conto subito: anziché abbaiare a intervalli continui e regolari – segnale codificato in caso di ritrovamento di superstiti –, tutt'a un tratto ha iniziato ad agitarsi, innervosirsi, muoversi in maniera irrequieta e disordinata. Così è venuto alla luce il primo cadavere, seguito a stretto giro dagli altri tre. Eppure niente premio per lei: per evitare di confonderla, la gratificazione deve restare associata unicamente al ritrovamento di individui ancora in vita. Operativa da tre anni, Luna continuerà il suo prezioso lavoro sul campo fino a quando ne avrà 11. E chissà che nelle prossime ore non possa giovare ulteriormente ai soccorsi. Sul luogo del maxi crollo d'altronde si continua a scavare, ma purtroppo per gli ultimi dispersi le speranze sembrano ormai ridotte al lumicino. Rimossi dalle ruspe i detriti più grossi, proprio il lavoro delle unità cinofile potrebbe risultare in questo senso decisivo. Nel frattempo si indaga sulle cause del disastro: ipotesi al momento più accreditata, quella di una bolla di gas formatasi sotto le abitazioni a seguito della rottura di una tubatura dopo uno smottamento.

Dal "Corriere della Sera" il 14 dicembre 2021. «Ai miei ragazzi, di ieri e di oggi. Ho appena chiuso il registro di classe. Per l'ultima volta. In attesa che la campanella liberatoria li faccia sciamare verso le vacanze, mi ritrovo a guardare i ragazzi che ho davanti. E, come in un fantasioso caleidoscopio, dietro i loro volti ne scorgo altri, tantissimi, centinaia, tutti quelli che ho incrociato in questi ultimi miei 43 anni. Di parecchi rammento tutto, anche i sorrisi, le battute, i gesti di disappunto, il modo di giustificarsi, di confidarsi, di comunicare gioie e dolori, di altri solo il viso o il nome. Con alcuni persistono rapporti amichevoli, ma il trascorrere del tempo e la lontananza hanno affievolito o interrotto quelli con tanti altri. Sono arrivato al capolinea ed il magone più lancinante sta non tanto nell'essere iscritto di diritto al club degli anziani, quanto nel separarmi da questi ragazzi. A tutti credo di aver dato tutto quello che ho potuto, ma credo anche di avere ricevuto molto di più. Vorrei salutarvi tutti, quelli che incontro per strada, quelli che mi siete amici sui social, e, tramite voi, anche tutti gli altri, tutti, ed abbracciarvi ovunque voi siate. Vorrei che sapeste che una delle mie felicità consiste nel sentirmi ricordato; una delle mie gioie è sapervi affermati nella vita; una delle mie soddisfazioni la coscienza e la consapevolezza di avere tentato di insegnarvi che la vita non è un gratta e vinci: la vita si abbranca, si azzanna, si conquista. Ho imparato qualcosa da ciascuno di voi, e da tutti la gioia di vivere, la vitalità, il dinamismo, l'entusiasmo, la voglia di lottare. Gli anni del liceo, per quanto belli, non sempre sono felici né facili, specialmente quando avete dovuto fare i conti con un prof che certe mattine raggiungeva livelli eccelsi di scontrosità, insomma: rompeva alla grande. Ma lo faceva di proposito, nel tentativo di spianarvi la strada, evidenziandone ostacoli e difficoltà. Vi chiedo scusa se qualche volta non ho prestato il giusto ascolto, se non sono riuscito a stabilire la giusta empatia, se ho deluso le aspettative, se ho dato più valore ai risultati e trascurato il percorso ed i progressi, se non sono stato all'altezza delle vostre aspettative e non sono riuscito a farvi percepire che per me siete stati e siete importanti, perché avete costituito la mia seconda famiglia. Un'ultima raccomandazione, mentre il mio pullman si sta fermando: usate le parole che vi ho insegnato per difendervi e per difendere chi quelle parole non le ha; non siate spettatori ma protagonisti della storia che vivete oggi: infilatevi dentro, sporcatevi le mani, mordetela la vita, non «adattatevi», impegnatevi, non rinunciate mai a perseguire le vostre mete, anche le più ambiziose, caricatevi sulle spalle chi non ce la fa: voi non siete il futuro, siete il presente. Vi prego: non siate mai indifferenti, non abbiate paura di rischiare per non sbagliare, non state tutto il santo giorno incollati a cazzeggiare con l'iPhone. Leggete, viaggiate, siate curiosi. Io ho cercato di fare la mia parte, ora tocca a voi. Le nostre strade si dividono, ma ricordate che avete fatto parte del mio vissuto, della mia storia e, quindi, della mia vita. Per questo, anche ora che siete grandi, per un consiglio, per una delusione, o semplicemente per una risata, un ricordo o un saluto, io ci sono e ci sarò. Sapete dove trovarmi. Ecco. Il pullman è arrivato. Io mi fermo qui. A voi, buon viaggio».  

Ravanusa, individuati altri 4 corpi tra le macerie: sono della giovane donna incinta e della sua famiglia. Selene era al nono mese di gravidanza. Sale a sette il numero delle vittime. La scoperta dopo una notte di scavi dei Vigili del fuoco: erano sepolti sotto la palazzina di quattro piani crollata. All'appello mancano ancora due dispersi. La Repubblica il 13 dicembre 2021. I corpi di quattro dispersi nell'esplosione a Ravanusa sono stati individuati dai Vigili del fuoco, che hanno scavato per tutta la notte e ora stanno cercando di estrarre i resti. I cadaveri erano tutti insieme, sotto le macerie della palazzina di quattro piani crollata con l'esplosione di sabato notte. Si tratta di Selene Pascariello, la donna al nono mese di gravidanza, e della sua famiglia: suo marito Giuseppe Carmina e i genitori di quest'ultimo, Angelo Carmina e Enza Zagarrio, che abitavano al terzo piano. La giovane coppia era andata a trovare gli altri due la sera di sabato e si trovava nell'appartamento alle 20,30, quando c'è stata l'esplosione. Con il ritrovamento salgono a sette le vittime del disastro. Restano da rintracciare ancora due dispersi. Le ricerche sono proseguite per tutta la notte, i Vigili del fuoco non si sono mai fermati, con l'aiuto dei generatori elettrici hanno lavorato, anche a mani nude, tra i detriti. Si proseguirà a oltranza. E' stato il cane Luna dei Vigili del fuoco a individuare, poco dopo le 6.30 di questa mattina i quattro corpi senza vita poi estratti dalle macerie a Ravanusa. Luna è dell'unità cinofila dei Vigili del fuoco di Palermo. Per ora è stata accompagnata sulle macerie, da ieri, per individuare i dispersi. Questa mattina il ritrovamento.

Ravanusa, la settimana scorsa un intervento di manutenzione alla rete del gas. Trovati altri 4 corpi tra le macerie. La Repubblica 13 dicembre 2021. Selene era al nono mese di gravidanza. Sale a sette il numero delle vittime. La scoperta dopo una notte di scavi dei Vigili del fuoco: erano sepolti sotto la palazzina di quattro piani crollata. All'appello mancano ancora due dispersi.  Cinque giorni prima della strage di Ravanusa c'era stato un intervento di manutenzione ordinaria sull'impianto della rete di metano che non aveva evidenziato alcuna criticità. E' quanto hanno accertato i carabinieri che ora dovranno acquisire il verbale d'intervento per verificare chi abbia materialmente eseguito il collaudo e se sia stato fatto a regola d'arte.

I corpi di quattro dispersi nell'esplosione, intanto, sono stati individuati dai vigili del fuoco, che hanno scavato per tutta la notte. I corpi erano tutti insieme, sotto le macerie della palazzina di quattro piani crollata con l'esplosione di sabato notte. Si tratta di Selene Pagliarello, la donna al nono mese di gravidanza, e della sua famiglia: suo marito Giuseppe Carmina e i genitori di quest'ultimo, Angelo Carmina e Enza Zagarrio, che abitavano al terzo piano. La giovane coppia era andata a trovare gli altri due la sera di sabato e si trovava nell'appartamento alle 20,30, quando c'è stata l'esplosione.

Con il ritrovamento salgono a sette le vittime del disastro. Restano da rintracciare ancora due dispersi.Le ricerche sono proseguite per tutta la notte, i Vigili del fuoco non si sono mai fermati, con l'aiuto dei generatori elettrici hanno lavorato, anche a mani nude, tra i detriti. Si proseguirà a oltranza.

E' stato il cane Luna dei Vigili del fuoco a individuare, poco dopo le 6.30 di questa mattina i quattro corpi senza vita poi estratti dalle macerie a Ravanusa. Luna è del'unità cinofila dei Vigili del fuoco di Palermo. Per ora è stata accompagnata sulle macerie, da ieri, per individuare i dispersi. Questa mattina il ritrovamento.

Selene Pagliarello "è la figlia di tutti". Così la prefetta di Agrigento, Maria Cocciufa, definisce l'infermiera al nono mese di gravidanza morta sotto le macerie. Sabato sera Selene era andata a trovare i suoceri insieme al marito Giuseppe Carmina. Mancava una settimana dal parto. Selene lavorava al pronto soccorso dell'ospedale San Giovanni di Dio di Agrigento, è rimasta sepolta per oltre trenta ore sotto le macerie, insieme al figlio che portava in grembo e al marito.

Claudia Guasco per "il Messaggero" il 13 dicembre 2021. C'è chi racconta che, nei giorni scorsi, la puzza di gas si sentisse in tutto il quartiere. «Macché, non c'è stato nulla di strano», smentisce Rosa Carmina, la prima donna estratta dalle macerie. Eppure la fuga di metano dalla rete di distribuzione cittadina di Ravanusa ha fatto crollare quattro edifici, sventrandone altri tre. Un intero isolato raso al suolo e mentre i soccorritori continuano a scavare tra le macerie la Procura di Agrigento ha aperto un'inchiesta per disastro e omicidio colposi a carico di ignoti. Ieri mattina il capo dei pm Luigi Patronaggio era sul luogo del disastro, per un vertice operativo con il responsabile della protezione civile Fabrizio Curcio, il sindaco Carmelo D'Angelo e le forze dell'ordine. Primo passo dell'inchiesta sarà accertare l'origine dell'esplosione. I magistrati hanno sequestrato i diecimila metri quadrati dell'area e incaricato un consulente dei primi accertamenti, ora provvederanno ad acquisire tutta la documentazione della rete: nelle prossime ore, anticipa Patronaggio, ci saranno le prime iscrizione al registro degli indagati di tecnici e amministratori che, a vario titolo, abbiano profili di responsabilità, anche per permettere loro di partecipare a tutti gli accertamenti irripetibili. La prima ipotesi, fatta dalla protezione civile e dai vigili del fuoco, è che il gas fuoriuscito da una tubatura cittadina - forse a seguito di uno smottamento determinato da una frana o dal maltempo - si sia incanalato nel sottosuolo creando un'enorme sacca di metano che a un debole innesco, come l'avvio di un ascensore, si è trasformata in una bomba. «Raramente ho visto cose simili», afferma il comandante provinciale dei vigili del fuoco di Agrigento, Giuseppe Merendino. Una scintilla, spiega, può partire ovunque: da un frigorifero che si è attivato, una luce accesa o una sigaretta. «Questa sacca di gas risalendo ha trovato un innesco accidentale: un'automobile, un elettrodomestico. Un evento che ha dimensioni eccezionali». Ciò che al momento si sa, rilevano gli investigatori, è che l'esplosione ha provocato fessurazioni nel terreno, nella rete fognaria e nei palazzi, spazi nei quali si è insinuato il gas generando incendi che si sono protratti per ore. Le indagini devono chiarire cosa abbia determinato la rottura della tubatura, le condizioni della rete installata nel 1984, la manutenzione ordinaria e straordinaria e se davvero ci siano state perdite. Ieri Italgas ha bloccato l'erogazione del metano a monte e a valle del quartiere, i carabinieri riferiscono che i cittadini non hanno segnalato alcuna anomalia. Secondo gli investigatori l'accumulo di gas sottoterra è avvenuto almeno per tutta la giornata di sabato, ora si procederà a «una attenta mappatura dei luoghi», precisa Patronaggio: «Si parte da una fuga di metano ma non escludiamo alcuna pista». Il sindaco Carmelo D'Angelo è la memoria storica del paese: «La zona è stata interessata da una frana», ricorda. Ancora misteriosa la scintilla dell'esplosione. «Non ci sono certezze - conferma il comandante provinciale dei Carabinieri, il colonnello Vittorio Stingo - Quando saranno terminate le operazioni di ricerca e soccorso tra le macerie, potremmo individuare il punto in cui è iniziata la fuga di gas e da lì risalire all'innesco». Italgas, la concessionaria, da parte sua «esprime dolore e cordoglio alla comunità colpita, offre la propria assistenza alla cittadinanza nonché la massima collaborazione alle autorità per gli aspetti di propria competenza». Il gruppo fa sapere inoltre che, «da una prima immediata analisi dell'evento», emergono due elementi rilevanti: «La rete di distribuzione di Ravanusa è stata ispezionata interamente sia nel 2020, sia nel 2021. E non risultano segnalazioni di alcun tipo giunte nell'ultima settimana al servizio di pronto intervento che lamentassero perdite di gas». Dopo l'esplosione, ricostruisce la concessionaria, la prima telefonata dalla caserma dei vigili del fuoco è arrivata alle ore 21.02 al Cis, il Centro integrato di supervisione di Italgas Reti. «L'intervento di primo sezionamento della rete, finalizzato alla messa in sicurezza della condotta, è iniziato alle ore 24.00 e terminato alle 2.05. La tubazione in bassa pressione è in acciaio, del diametro di 100 millimetri. Sul tratto di condotta interessato non vi erano cantieri di Italgas Reti». 

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 13 dicembre 2021. «Un boato spaventoso, per un tempo infinito le finestre hanno continuato a tremare» racconta Daniele Calafato, 26 anni, che l'altra sera era a cena a poche centinaia di metri dalle tre case dilaniate di Ravanusa. «Pensavo fosse caduto un aereo, sembrava l'11 settembre» dice un altro abitante della cittadina all'interno della provincia di Agrigento. «Quando ho visto le macerie mi è tornata in mente l'immagine che trovai ad Amatrice dopo il terremoto» spiega un soccorritore. In fondo, il video sui social girato dal sindaco di Ravanusa, Carmelo D'Angelo, subito dopo l'esplosione con cui ha chiesto di mandare aiuti ricordava la telefonata in diretta di Sergio Pirozzi, allora sindaco di Amatrice, che subito dopo il sisma lanciò un appello invocando i soccorsi. Ieri sera il bilancio era di tre morti, sei dispersi e due donne salvate. In questa cittadina di poco più di 10mila abitanti ieri i vigili del fuoco con le unità cinofile e le squadre specializzate nelle ricerche tra le macerie, fino a tardi hanno continuato a scavare tra i detriti delle quattro palazzine danneggiate (di queste, tre sono polverizzate), sperando nel miracolo. Ma rimbalza un sospetto. Più di una persona aveva detto che si sentiva odore di gas: smottamenti e maltempo che stanno flagellando da tempo la Sicilia, hanno danneggiato le tubature del gas metano, installate sottoterra 40 anni fa, ma nessuno sarebbe intervenuto. Un consigliere comunale, Giuseppe Sortino, racconta: «Negli ultimi sette giorni so che diversi cittadini hanno lamentato la puzza di gas nella zona, in contrada Masciminici, ma nessuno è intervenuto». Segnalazioni ufficiali a sindaco e tecnici di Italgas, aggiunge però Sortino, non erano arrivate. Circostanza confermata dalla stessa Italgas, che aggiunge: «La rete di distribuzione di Ravanusa è stata ispezionata interamente sia nel 2020, sia nel 2021. Esprimiamo dolore e cordoglio per le persone che hanno perso i loro cari». Pensieri per le vittime e per i loro parenti sono stati espressi anche dal presidente Mattarella e dal premier Draghi.  Ma ora la procura di Agrigento ha aperto un'indagine per disastro e omicidio colposo. Sotto sequestro un'area di 10mila metri quadrati, molte abitazioni sono inagibili e ci sono un centinaio di sfollati, per lo più ospitati da familiari. Calogero Bonanno è uno di loro e ripete: «Alcuni vicini mi hanno detto che si sentiva odore di gas, ciò che è successo è imperdonabile». Il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, ha spiegato: «L'ipotesi privilegiata è quella della fuga di metano, abbiamo già nominato un consulente. Faremo una mappatura della zona, non si può escludere nessuna pista». Il capo della protezione civile siciliana, Salvo Cocina, è incredulo: «È davvero difficile da spiegare la potenza dell'esplosione. Di solito non basta una fuga di gas per causare una distruzione di queste dimensioni. Il sospetto è che si sia creato un accumulo nell'unica delle tre case disintegrate che non era abitata. Le lingue di fuoco uscivano dai muri, come se il gas si fosse immagazzinato all'interno». In sintesi: nelle settimane del maltempo, delle piogge intense e della terra che cede, le tubature sotto la superficie cedono, dalle ferite esce il gas, ma il grosso si accumula nella casa abbandonata e così nessuno si rende conto della minaccia. Addirittura si ipotizza che quando la signora in stato interessante, ancora dispersa, ha chiamato l'ascensore, si sia creato l'innesco. Ma cosa è successo sabato sera in via Trilussa a Ravanusa? Sono da poco trascorse le 20.40. In un palazzo di quattro piani la vita scorre normalmente: al primo c'è Rosa Carmina, che sarà trovata viva tra le macerie. Dirà parlando dall'ospedale di Licata: «Ero tornata a casa da poco. All'improvviso la luce è andata via, il tetto e il pavimento sono crollati e io sono rimasta intrappolata. Più tardi ho sentito delle voci: erano i vigili del fuoco, mi hanno liberata». Al secondo la cognata Giuseppa Montana, l'altra sopravvissuta. Al terzo il gruppo più numeroso: Enza Zagarrio (69 anni, morta), il marito Angelo Carmina, disperso. C'erano anche il figlio Giuseppe che insieme alla moglie, Selene Pagliarello, incinta al nono mese, era venuta a trovare i genitori. Testimoni dicono che la donna stesse uscendo, «Sono già in ascensore» ha spiegato agli amici dal telefonino. Non ha fatto in tempo ad andarsene, lei e il marito sono dispersi. Al quarto piano, infine, Calogero Carmina (disperso), con la moglie Gioacchina (morta). Manca anche Giuseppe Carmina, di 88 anni. Infine, nella palazzina vicina distrutta c'era Pietro Carmina, 68 anni, il cui corpo è stato recuperato ieri, e la moglie Carmela Scibetta, che in serata risultava dispersa. Come ben raccontano i cognomi, nell'isolato a poche centinaia di metri dal Comune e dalle scuole elementari, c'erano persone unite da legami familiari, cognomi che si ripetono, come spesso succede nei piccoli centri. Tutto finisce con l'esplosione, quella che sembrava il boato di un aereo caduto, quella che ha mandato in frantumi anche le finestre delle case più lontane, quella che è stata udita anche in periferia, in campagna. «Superato lo choc siamo corsi a vedere - spiega un gruppo di ragazzi - e c'era solo fumo, macerie, fuoco. Abbiamo compreso la gravità di quanto accaduto quando poi in TV e sui social abbiamo visto il video del sindaco che implorava di mandare aiuto». Da tutte le città vicine sono corsi vigili del fuoco e volontari della protezione civile, ma per molte ore hanno potuto fare ben poco, bisognava attendere che i tecnici di Italgas mettessero in sicurezza la zona, mentre di bocca in bocca si inseguiva una sorta di appello, per sapere chi c'era e chi invece si è salvato, come la coppia - racconta don Filippo Barbera, arciprete di Ravanusa - che era uscita per partecipare alla messa del 20.30. «Il boato - dice il sacerdote - ha spalancato le porte della chiesa». Ieri per tutto il giorno, mentre i vigili del fuoco scavavano con cautela nella speranza di trovare superstiti, si era creato una strana e mesta immagine: le ruspe, a sera Illuminate dai vari, sembravano sul palcoscenico di un teatro naturale, lungo la strada in salita, la continuazione di via Trilussa, silenziosi, centinaia di cittadini assistevano in silenzio. «Speriamo che Dio faccia il miracolo, che qualcuno sia ancora vivo» ripeteva una ragazza.

Ravanusa, quello che sappiamo sul crollo delle palazzine. Sofia Dinolfo il 12 Dicembre 2021 su Il Giornale.  Mentre si cerca di capire quale sia stata la causa scatenante lo scoppio arrivano le testimonianze dei sopravvissuti: "Sembrava una bomba atomica". E intanto i Vigili del fuoco chiedono silenzio per captare le voci di possibili sopravvissuti. Si continua a scavare a Ravanusa, nell’agrigentino, nella speranza di trovare altri sopravvissuti tra le macerie causate dal crollo di una palazzina la scorsa notte tra la via Trilussa e la via Galilei. E mentre si cerca di captare la voce dei 5 dispersi, dopo il ritrovamento dei primi cadaveri, si pensa a far chiarezza sulle cause che hanno scatenato la tragedia e a verificare i danni materiali. Quattro in sostanza gli edifici crollati al suolo e altri tre devastati per un totale di una cinquantina di persone sfollate. La causa che ha innescato la miccia è ancora da definire, anche se la matrice è ormai quasi certo divenga dalla fuga del gas metano.

Ma cos’è successo? Perché nessuno dei residenti nel quartiere in passato ha dato segnalazioni circa le fughe di gas? Questa la domanda principale alla quale si cerca di dare risposta. Nessuno avrebbe avvertito la presenza di un problema fino allo scoppio improvviso di ieri sera. Gli operatori della Protezione civile che lavorano sul posto definito “Beirut” dal capo del dipartimento regionale, Salvo Cocina, parlano di un’esplosione causata da un’ingente fuga di gas. Al vaglio diverse ipotesi sulla sua improvvisa e violenta fuoriuscita. Una possibile causa potrebbe essere legata alla presenza di una frana nel sottosuolo, un movimento del sottoterra che avrebbe causato la rottura dei tubi dove passava il gas provocandone l’immediata fuoriuscita. La miccia per l’esplosione potrebbe essere stata a quel punto l’utilizzo dell’ascensore in una delle palazzine coinvolte. La procura di Agrigento ha aperto un’inchiesta per disastro colposo per far luce sulla tragedia. Nel frattempo, in mattinata è stato convocato dal sindaco, Carmelo D’angelo, un vertice al municipio per fare il punto della situazione alla presenza del presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci, del procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, del capo della Protezione civile Fabrizio Curcio e del capo del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco Guido Parisi, oltre alle forze dell'ordine.

Tra le macerie i Vigili del fuoco continuano a scavare. Chiedono silenzio adesso. Nessun rumore attorno a loro. Hanno bisogno di captare anche una piccola voce, un segno che indichi la presenza di sopravvissuti. Usano anche il drone per vedere meglio dall'alto anche i minimi particolari. Sono ore cruciali, una corsa contro il tempo dove si gioca tutto e la speranza non può essere messa da parte. Ed ecco che mentre arrivano le prime testimonianze dei sopravvissuti: "È stato spaventoso. Sembrava una bomba atomica, abbiamo anche pensato che un aereo fosse caduto qui vicino. Siamo vivi per miracolo". Ad affermarlo all’Adnkronos è stato Calogero Bonanno, che ieri sera si trovava a casa dei suoceri in via Trilussa. "Mia moglie - ha proseguito l’uomo - stava allattando la bimba di 4 mesi quando abbiamo sentito lo scoppio e abbiamo pensato che l'edificio si fosse spostato. Subito con gli altri due miei figli, di 5 e 11 anni, siamo scesi per strada. C'erano vetri e fiamme ovunque. Tutti gli infissi scoppiati. Non capivamo se ci fosse stato il terremoto. La paura è stata tanta. Siamo vivi solo per miracolo". Nel frattempo il mondo della politica si stringe al dolore di Ravanusa con messaggi di cordoglio e vicinanza alle famiglie coinvolte. 

Ravanusa, rinvenuti altri quattro morti da sotto le macerie. Sofia Dinolfo il 13 Dicembre 2021 su Il Giornale. Le ricerche sono andate avanti anche la scorsa notte. Estratti altri cadaveri. Si tratta di due uomini e una donna. La quarta vittima è in corso di identificazione. Mancano all'appello due persone. Sale a 7 il bilancio dei morti del crollo delle palazzine di Ravanusa, nell'Agrigentino, avvenuto sabato sera tra le vie Trilussa e Galilei a causa dello scoppio del metanodotto. I vigili del fuoco hanno scavato ininterrottamente anche la notte scorsa con la speranza di salvare le persone mancanti all’appello dopo le prime due donne tratte in salvo e i primi tre corpi estratti senza vita nella giornata di ieri. Oggi, purtroppo, si aggiungono altre quattro vittime. Si tratta di due uomini e una donna. Il quarto cadavere è ancora sotto le macerie e se ne sconosce l’identità. Si cercano ancora altri due dispersi.

Si lavora, si scava, si cerca. La speranza di riuscire a salvare ancora qualcuno c’è. Da ieri vigili del fuoco hanno chiesto silenzio lungo la zona dei lavori per potere captare qualche possibile voce da sotto le macerie. I soccorritori hanno scavato anche a mani nude, non si sono fermati mai un minuto pur di potere tenere accesa la speranza. Quasi 300 soccorritori impegnati sul luogo della tragedia dove sono state attivate le migliori risorse umane e tecnologiche. Ma quello di via Trilussa è diventato ormai un quartiere segnato dal dolore, dalla devastazione dei parenti e degli amici dei dispersi che attendono l’arrivo di notizie timore. Non appena si termineranno i lavori di soccorso sarà il momento di far luce sulla tragedia.

Ravanusa, quello che sappiamo sul crollo delle palazzine

La procura di Agrigento ha aperto un’inchiesta per disastro colposo e omicidio colposo. Il primo punto della situazione è stato fatto ieri al palazzo comunale della città, tra il primo cittadino, il procuratore Luigi Patronaggio, il presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci, il capo della Protezione civile Fabrizio Curcio e il capo del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco Guido Parisi, oltre alle forze dell'ordine. Dentro le mura del municipio è entrata anche la voce del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha espresso vicinanza ai cittadini e al sindaco attraverso una telefonata.

Ravanusa, la maestra della materna, il prof: chi sono le vittime 

Molti adesso i nodi da sciogliere. Da quella zona non era mai stato mai segnalato qualcosa che facesse pensare a fuoriuscite di gas. Nessun guasto segnalato. Adesso qualcuno ha detto di aver sentito odore di gas da circa una settimana. Italgas ha riferito di non aver mai ricevuto segnalazioni di pronto intervento da quel quartiere e ha precisato che "La rete di distribuzione di Ravanusa è stata ispezionata interamente sia nel 2020, sia nel 2021". L’area interessata dal disastro, circa 10mila metri quadrati, è stata sottoposta a sequestro nella giornata di ieri in attesa dell’avvio delle indagini. I sopravvissuti, un centinaio di sfollati, sono adesso ospiti in strutture alberghiere messe a disposizione dal comune.

Sofia Dinolfo. Sono nata il 30 marzo del 1982 ad Agrigento e sin da piccola ho chiesto ai miei genitori un microfono per avvicinarmi a chi mi stesse vicino e domandare qualsiasi cosa mi passasse per la mente. Guardavo i telegiornali e poi imitavo i giornalisti raccontando a modo mio quello che avevo appena ascoltato. Quella passione non mi ha mai abbandonato pur intraprendendo, una volta cresciuta, gli studi di Giurisprudenza. Appena laureata, non ho pensato di fare l’avvocato ma di andare avanti con il settore del giornalismo che nel frattempo non avevo mai accantonato coltivandolo come hobby. Ed ecco che poi sono arrivate le prime esperienze lavorative effettive: dalla conduzione di una trasmissione di calcio in una tv locale (dal 2006 al 2009), all’approccio con la cronaca tramite il quotidiano cartaceo La Sicilia (dal 2010 al 2012). Poi quella che, a livello personale, ha rappresentato una vera e propria palestra nella mia crescita lavorativa: il giornalismo televisivo. Dal 2011 al 2016, sempre ad Agrigento, mi sono occupata della stesura di servizi televisivi, della conduzione del telegiornale, della realizzazione e conduzione di programmi spaziando fra tutti i colori della cronaca, ma anche nel settore della medicina. Negli anni successivi ho intrapreso l’esperienza giornalistica in radio confrontandomi con una nuova metodologia di approccio al pubblico che mi ha spinto ad amare ancor di più questo lavoro. Scrivo per il Giornale.it assumendo con impegno ed orgoglio il dovere di raccontare ai lettori i fatti di cronaca di principale interesse.

"Da giorni c'era puzza di gas". La Procura apre un'inchiesta: "Disastro e omicidio colposo". Valentina Raffa il 13 Dicembre 2021 su Il Giornale. Un fortissimo boato ed è stato l'inferno a Ravanusa, nell'Agrigentino. Alle 20.21 di sabato è saltata per aria una palazzina, tre sono state sventrate e una quarantina di edifici sono rimasti danneggiati. Un fortissimo boato ed è stato l'inferno a Ravanusa, nell'Agrigentino. Alle 20.21 di sabato è saltata per aria una palazzina, tre sono state sventrate e una quarantina di edifici sono rimasti danneggiati. Tutt'intorno è solo fiamme, polvere e macerie. La gente in strada urla, cerca di capire cosa sia successo, arrivano i primi soccorritori. Il bilancio, in via di aggiornamento, è di 3 morti e 6 dispersi. Due signore anziane, Rosa Carmina e la cognata Giuseppa Montana, sono state estratte vive dalle macerie. Hanno visto la morte con gli occhi. Il loro pensiero va ai cari sepolti in quell'inferno di cemento. «Ci sono tutti i miei familiari. Aiutateci!» è il mantra doloroso di una delle due, che ricorda come nella palazzina crollata vi abitasse un intero nucleo familiare. È miracolata: ha riportato solo una frattura all'ulna. È anche grazie alla loro testimonianza che si è profilata una prima ipotesi sulle cause della tragedia. «Si è spenta la luce hanno raccontato -. Poi c'è stato un fortissimo rumore e il pavimento e il tetto hanno ceduto». Da giorni nel quartiere Mastro Dominici, nelle strade della tragedia, tra via Trilussa e via Galileo Galilei, si sentiva odore di gas. «Non si capiva perché», dicono alcuni dei 150 sfollati. I vigili del fuoco lo hanno invece compreso e ritengono che ci sia stato un guasto a una tubazione della condotta del metano. Il gas ha saturato il sottosuolo. «A questo punto è bastata l'accensione di una luce, l'avvio del motore di un frigo, l'utilizzo dell'ascensore per fungere da detonatore», ha detto un pompiere. In campo sono scesi 250 soccorritori, tra vigili del fuoco, uomini della Protezione civile, della Croce rossa, volontari. Hanno iniziato a scavare mentre ancora le fiamme non erano domate. Per operare, i tecnici di Italgas hanno interrotto l'erogazione del metano. «Sembra Beirut» non fanno che ripetere i soccorritori mentre si addentrano tra le macerie. Sono arrivati anche il capo della Protezione civile Fabrizio Curcio e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco Guido Parisi. Fondamentale è stato l'ausilio dei cani molecolari, che fiutano da lontano la presenza di persone e hanno un udito tanto sviluppato da intercettare minimi movimenti sotto le macerie. «Purtroppo i cani non sembrano avvertire più nulla. Sarà difficile trovare qualcuno vivo», dice un vigile del fuoco. Tra i 6 dispersi c'è una trentenne al nono mese di gravidanza, Selene Pagliarello. Non abitava nella palazzina, ma era andata a trovare i suoceri con il marito, Giuseppe Carmina, anche lui disperso, in vista del felice evento della nascita del primogenito programmato per mercoledì. I corpi senza vita ritrovati sono quelli del professor Pietro Carmina, 68 anni, di Enza Zagarrio e Calogera Maria Minacori. I parenti dei dispersi seguono da vicino le operazioni col fiato sospeso. C'è un silenzio surreale nella speranza che sia intercettato un qualsiasi rumore proveniente da sotto le macerie. Poco distante le autoambulanze sono pronte a intervenire. Il procuratore capo di Agrigento, Luigi Patronaggio, ha presenziato a un vertice. È stata aperta un'inchiesta, al momento senza nomi iscritti sul registro degli indagati, per disastro e omicidio colposo. I pm hanno sequestrato un'area di 10mila metri quadrati e il consulente tecnico nominato dalla procura ha fatto un sopralluogo. «È una tragedia immensa. In passato la zona è stata interessata da crolli. Ma al momento cerchiamo i dispersi», dice il sindaco Carmine D'Angelo che ha ricevuto la telefonata del presidente Mattarella. «È una sciagura che colpisce tutta la comunità siciliana commenta il presidente della Regione, Nello Musumeci -. Non faremo mancare la nostra presenza». Valentina Raffa

"Controlli prima dello scoppio". L'ombra della mafia sulla rete. Valentina Raffa il 14 Dicembre 2021 su Il Giornale. Verifiche 5 giorni prima della tragedia: "Niente criticità". Le indagini: nel 2014 il commissariamento delle società.  

Lacrime e polvere. I soccorritori, sfiniti, inghiottono ma continuano a scavare a Ravanusa, nell'Agrigentino, tra le macerie delle palazzine distrutte nello scoppio di sabato sera per una fuga di gas dalla condotta cittadina. Le speranze di trovare dei vivi, oltre alle due signore anziane, Rosa Carmina e la cognata Giuseppa Montana, erano pressoché nulle, perché i cani molecolari non avevano intercettato movimenti o rumore, ma fino all'ultimo i parenti dei dispersi hanno sperato nel miracolo.

Poi ieri il labrador Luna dei vigili del fuoco ha individuato 4 corpi che si aggiungono ai 3 del giorno prima. Tra questi quello dell'infermiera 30enne Selene Pagliarello con in grembo il corpicino del bambino che sarebbe dovuto nascere domani. Ritrovato il corpo del marito, Giuseppe Carmina, e del suocero Angelo, infine quello di Carmela Scibetta, moglie del prof. Pietro Carmina, che era stato recuperato morto domenica con Enza Zagarrio e Gioachina Calogera Minacori. I pompieri scavano in un punto preciso, dove si ritiene siano sepolti gli altri due dispersi, un 70enne e il figlio di 30 anni.

A Ravanusa è il tempo del dolore, ma è anche il tempo della giustizia, quella che si è già messa in moto con un'inchiesta per omicidio plurimo e disastro colposi aperta dalla procura di Agrigento e che inizia a dare i primi risultati e pare che il procuratore capo Luigi Patronaggio abbia già gli elementi necessari per iscrivere alcuni nomi sul registro degli indagati, azione che consentirà di svolgere determinati accertamenti. I carabinieri hanno scoperto che cinque giorni prima della tragedia era stato effettuato un intervento di manutenzione ordinaria sull'impianto della rete di metano e non erano state individuate criticità. Bisognerà accertare se l'operazione è stata condotta a regola d'arte e se la probabile rottura della tubazione della condotta del metano sia successiva all'intervento, magari per uno smottamento in quella zona soggetta a frane. Al vaglio degli inquirenti il verbale dell'intervento.

Sul conto della Italgas che eroga il servizio si è scoperto che nel 2014 erano state rilevate criticità nella condotta del metano. Quell'anno la Italgas era stata commissariata per 6 mesi, prorogati di altri 6, dalla sezione misure di prevenzione di Palermo quale risultato di un'inchiesta sulla Gas Spa, gestita da un imprenditore, ma di fatto riconducibile a Vito Ciancimino. Il pool di tecnici che aveva fatto controlli in mezza Italia aveva verbalizzato che il 76% della rete del metano gestita da Italgas necessitava di «essere sottoposto con urgenza a un intervento di risanamento».

Tra le difformità individuate nella rete di Agrigento c'è l'uso di sfabbricidi come materiale di riempimento (pericolosi perché in caso di fuoriuscita di gas non consentono la formazione di spazi per l'accumulo) e «interferenze parallele non protette con cavidotto a diretto contatto» ovvero mancata sicurezza nelle tubature. Risultato, si chiedono gli inquirenti oggi, della gestione in odor di mafia che aveva fatto scattare il commissariamento? E gli interventi necessari di risanamento nella condotta che, come ha detto il col. Stingo dei carabinieri Agrigento, «è vetusta» furono eseguiti?

Alcuni residenti sentivano puzza di gas da giorni, anche una delle sopravvissute, ma non risultano segnalazioni a Italgas. Lascia interdetti anche la maxiparcella di 120 milioni di euro che gli ex amministratori giudiziari inviarono nel 2020 al Tribunale di Palermo per il solo 2014. Valentina Raffa

Ravanusa, sono 10 le vittime. Inchiesta sui controlli alla rete. Valentina Raffa il 15 Dicembre 2021 su Il Giornale. Recuperati gli ultimi due dispersi, oggi sarebbe nato Samuele. Italgas: 5 giorni prima lavori di manutenzione. C'è da scavare a Ravanusa non più sotto le macerie, dove ieri pomeriggio, dopo 72 ore di ricerche ininterrotte, sono stati ritrovati i corpi degli ultimi due dispersi: Giuseppe Carmina, 33 anni, e il padre Calogero, insieme anche negli ultimi momenti della loro vita, nell'autorimessa della palazzina in cui abitavano. C'è da scavare a fondo per individuare le cause e i responsabili della tragedia. Le domande a cui la procura di Agrigento dovrà dare una risposta sono tante.

La chiave sta negli accertamenti sul grande cratere creato dalla deflagrazione di sabato sera, che ha fatto saltare per aria una palazzina e ne ha danneggiate diverse, e nelle testimonianze dei residenti della zona e delle due uniche superstiti Rosa Carmina e Giuseppa Montana, che porteranno i consulenti tecnici nominati dalla procura a fare luce su cosa abbia provocato un accumulo di gas nel sottosuolo e cosa abbia innescato l'esplosione. La prima domanda a cui bisognerà dare una risposta è se c'erano i presupposti per effettuare dei controlli accurati nella condotta del gas metano dove, invece, sembra che venissero svolti lavori di manutenzione ordinaria. Molti residenti del quartiere Dominici, dove sabato si è consumata la tragedia (10 vittime, tra cui un bambino che avrebbe dovuto vedere la luce proprio oggi), sostengono che da giorni ci fosse puzza di gas.

Anche la superstite Rosa ha raccontato che l'odore del gas proveniva da giorni dalle tubature della fognatura. I carabinieri del Comando provinciale di Agrigento, a cui sono state affidate le indagini dalla procura che ha aperto un'inchiesta per omicidio plurimo e disastro colposi, hanno scoperto che cinque giorni prima risulta effettuato un intervento di manutenzione ordinaria da parte dei tecnici di Italgas, che gestisce il servizio. In paese c'è chi mette in dubbio che il controllo sia avvenuto: «Non abbiamo visto tecnici al lavoro» dicono.

Le indagini dovranno appurare, dunque, se i lavori sono stati effettivamente svolti, come risulta sulla carta, chi li ha effettuati e se sono stati svolti a regola d'arte. Per i vigili del fuoco l'odore del gas avvertito dai residenti dovrebbe significare che c'era una perdita. Se così fosse accertato, questa è avvenuta successivamente ai lavori di manutenzione ordinaria di 5 giorni prima della deflagrazione? A causarlo è stata una frana, visto che la zona è interessata da smottamenti, oppure l'accumulo di gas è avvenuto lentamente nel tempo? Quali controlli si sarebbero dovuti effettuare? Sono stati fatti? Una testimonianza chiave potrebbe essere quella di un collaboratore scolastico in pensione da un anno che era in servizio alla scuola Don Bosco vicina alla palazzina interessata dall'esplosione. «Qualche volta, vedrete, salterà tutto per aria» diceva ai colleghi, perché avvertiva puzza di gas. La perdita, dunque, potrebbe risalire addirittura ad oltre un anno fa? Se così fosse perché nessuno di competenza se n'è mai accorto? E, ancora, gli «interventi di risanamento» ritenuti necessari da un pool di tecnici nominati a seguito del commissariamento di Italgas nel 2014 per un anno da parte della sezione misure di prevenzione di Palermo in quanto la Gas Spa era vicina a Vito Ciancimino, sono mai stati effettuati? Diversi i soggetti che potrebbero finire indagati. Valentina Raffa

Il professore, l'impiegata e l'infermiera incinta: storie di famiglie spezzate. Nino Materi il 13 Dicembre 2021 su Il Giornale. La frase che ci si illudeva di non ascoltare, aggiunge dolore a dolore: "Non ci sono segnali da sotto le macerie". La frase che ci si illudeva di non ascoltare, aggiunge dolore a dolore: «Non ci sono segnali da sotto le macerie». Le palazzine crollate a Ravanusa erano un alveare di affetti: i nomi delle «vittime accertate» e quelli dei «dispersi» sono i medesimi, in un grand tour familiare tra parenti girovaghi intenti a scambiarsi visite di casa in casa. Tutte lì le abitazioni dei «Carmina» e dei «Minacori», concentrate in un raggio di pochi metri e suddivise su pochi piani di edifici modesti ma dignitosi. La stessa dignità che caratterizzava l'esistenza di chi, dopo la «strage del gas», non potrà mai più tornare alla sua vita di lavoro e amori condivisi. Tutto sepolto sotto la polvere dei calcinacci. E ancora nell'aria quella puzza penetrante. Chissà qual è l'odore della morte. Qui, di certo, è quello del gas e del fumo che si leva dai cumuli di cemento. Lì dove fino a due giorni fa c'erano pareti solide, ora ci sono mucchi di muri polverizzati. Il primo ad essere estratto dalle rovine è stato Pietro Carmina, 68 anni, docente di storia e filosofia dell'istituto «Foscolo» di Canicattì, dove lo ricordano come un «docente esemplare e un uomo da prendere a modello». Era da poco andato in pensione, ma il professor Carmina era un docente all'antica: uno che mai avrebbe rinunciato al suo ruolo di educatore, perché l'amore per la scuola - in insegnanti come Carmina - diventa una seconda pelle che non ti abbandona mai. Solo una maledetta esplosione può riuscirci. Fra i sei «dispersi» c'è anche la moglie del professor Carmina, oltre a una loro nipote, Selene Pagliarello: un'infermiera al nonno mese di gravidanza che era andata a trovare i suoceri insieme al marito, Giuseppe Carmina. I due giovani si erano sposati ad aprile ed erano pieni di sogni, soffocati da un boato che non ha lasciato scampo a nulla, neppure ai sogni.

A pochi metri di distanza, separati da un piano, c'erano Calogero Carmina e sua moglie, Maria Minacori (morta anche lei), 59 anni, insieme con il figlio Giuseppe Minacori e un'altra loro conoscente, Enza Zagarrio (la terza vittima), 69 anni.

Disperazione anche al municipio di Ravanusa per la tragedia scaturita dal crollo delle palazzine. Una delle due donne decedute, Maria Minacori, era infatti impiegata nel Comune: «Ci eravamo visti appena ieri - racconta in lacrime una collega -, era una donna generosa e sempre disponibile ad aiutare gli altri, sia sul lavoro sia nella vita privata».

Il sindaco, Carmelo D'Angelo, è commosso: «Con lei è morto anche un po' di noi. Abbracciamo i suoi familiari e quelli degli altri morti in questa sciagura. Il Comune di Ravanusa ha già indetto un giorni di lutto in ricordo delle vittime. Speriamo ancora che qualche persona coinvolta nel crollo possa essere estratta viva».

Rosa Carmina, 80 anni, scampata miracolosamente all'esplosione ha la lucidità di raccontare l'attimo in cui ha avuto inizio la fine di tante vite: «Improvvisamente è andata via la luce, poi sono venuti giù il tetto e il pavimento. Ero sepolta dai sassi e ho sentito mia cognata Giuseppina invocare aiuto. Vi prego, ditemi che è ancora viva». Sì, Giuseppina è una delle due donne estratte vive, un doppio miracolo che però con il passare delle ore difficilmente potrà ancora ripetersi. L'intera zona dell'esplosione è stata isolata e tutti palazzi adiacenti a quelli coinvolti nell'esplosione sono stati evacuati. Ma gli «sfollati» non si allontano dal luogo della tragedia. In tanti hanno pregato e dormito in macchina. In una mano la coperta di lana, nell'altra la corona del Rosario: la prima per scaldare il corpo, la seconda per scaldare l'anima. Nino Materi

Selene dai suoceri: "Tra 4 giorni sarete nonni". Poi tutta la casa è crollata per la fuga di gas. Nino Materi il 14 Dicembre 2021 su Il Giornale. L'infermiera avrebbe partorito domani. La lettera commovente scritta dagli ex studenti del professor Carmina: "Buon volo, sei stato un maestro di vita".

«Ormai è fatta. Tra pochi giorni sarete nonni». Il conto alla rovescia era cominciato. E Selene lo scandiva con la tipica gioia di chi, per la prima volta, sta diventando mamma. Una felicità da condividere coi propri genitori, ma anche con i suoceri. Per questo Selene nel sabato sera maledetto era con Giuseppe in casa della famiglia Carmina. Per rinnovare il solito annuncio che regala sempre un'emozione nuova: «Ormai è fatta. Tra pochi giorni sarete nonni». Volti sorridenti. Da una parte gli anziani genitori di Giuseppe, dall'altra la giovane coppia di sposi che 8 mesi fa aveva - come si suole dire con una frase a gettone - «coronato il sogno d'amore».

Un sogno andato in fumo nella polvere delle macerie. Selene, 30 anni, e Giuseppe, 38, si erano appena accomiatati dalla visita, avevano prenotato la cena in pizzeria. Ma proprio mentre erano nell'ascensore, il palazzo è venuto giù. E loro, lì, sotto una montagna di pietre. Speriamo non abbiano sofferto.

I pompieri li hanno trovati ieri all'alba. Selene, Giuseppe e un bimbo «invisibile»: quello che la donna portava in grembo. No, Selene e Giuseppe non diventeranno mai mamma e papà. Né i genitori di lui (Angelo Carmina, 72 anni, e Maria Crescenza Zagarrio, 69) diverranno mai nonni; morti anche loro nella strage di via Trilussa a Ravanusa.

Selene Pagliarello era infermiera al pronto soccorso dell'ospedale «San Giovanni di Dio» ad Agrigento: ieri i suoi colleghi di lavoro hanno deposto una corona ricordando lo spirito di abnegazione con cui Selene svolgeva la sua professione; «Sempre disponibile, altruista e col sorriso sulle labbra», così la ricordano in corsia.

Ma nella comunità di Ravanusa, per ognuna delle vittime dell'esplosione, c'è oggi un ricordo commosso. Come quello che gli ex allievi del professor Pietro Carmina hanno voluto riservare al «maestro di vita». Il professor Carmina, per 40 anni docente di storia e filosofia al liceo classico «Ugo Foscolo» di Canicattì (di cui era stato anche preside prima di andare in pensione) si è meritato una lettera bellissima che i «ragazzi» gli hanno dedicato appena saputo della sua morte. Si tratta di «studenti» oggi diventati adulti che però non hanno mai dimenticato il loro insegnante preferito.

«Caro professore, ti saremo per sempre immensamente grati», comincia così la lettera dell'addio. Un saluto che ha accomunato i «giovani» di ieri a quelli di oggi a cui l'attuale preside del liceo «Foscolo» di Canicattì ha spiegato chi era il professor Carmina.

«Usate le parole che vi ho insegnato per difendervi e per difendere chi quelle parole non le ha», aveva scritto il professore, nel giorno in cui era andato in pensione. Parole che ieri sono riecheggiate nell'aula magna della scuola. Volava alto il professor Carmina, tra concetti che - ieri come oggi - dovrebbero essere il faro di ogni giovane (e non solo): «Non siate spettatori ma protagonisti della storia che vivete: infilatevi dentro, sporcatevi le mani, mordetela la vita, non "adattatevi", impegnatevi, non rinunciate mai a perseguire le vostre mete, anche le più ambiziose, caricatevi sulle spalle chi non ce la fa: voi non siete il futuro, siete il presente».

«È il prof che ti rimane nel cuore tutta la vita, che torni a trovare a scuola tutte le volte che torni a casa - racconta all'Adnkronos un'«ex studentessa» -. Lui era il prof che continua ad essere tuo amico quando sei adulta. Che ha segnato la tua strada. Il prof che faceva filosofia ascoltandoti e trovando le parole per arrivare a degli adolescenti che pensavano di avere mille problemi. Che ti ha insegnato, che ha riso e giocato con te. Il prof con cui oggi avresti parlato di questa tragedia e avrebbe trovato le parole per provare a dare un senso a tutto questo». La lettera si conclude con una frase di cui il «prof» andrebbe orgoglioso: «Noi abbiamo avuto la fortuna e il privilegio di incontrarla sulla nostra strada, ma adesso il cuore è a pezzi. Buon volo». Nino Materi

Due le persone ancora disperse. Crollo di Ravanusa, trovati altri 4 corpi sotto le macerie: salgono a 7 le vittime della strage delle palazzine. Antonio Lamorte su Il Riformista il 13 Dicembre 2021. Altri quattro corpi trovati sotto le macerie, due ancora i dispersi. Si continua a scavare a Ravanusa, in provincia di Agrigento, dove un’esplosione percepita a chilometri di distanza, sabato scorso, ha letteralmente raso al suolo quattro abitazioni tra via Trilussa e via Galilei. Decine gli stabili danneggiati. I morti in tutto salgono così a sette. Dei quattro corpi trovati tra questa notte e stamattina, uno è stato estratto dalle macerie ed è in corso l’identificazione. Tre dei dispersi sono stati identificati con precisione: Pietro Carmina, 68 anni, Maria Crescenza Zagarrio, 69 anni, e Calogera Gioacchina Minacori, di 59. Ieri risultavano dispersi Angelo Carmina, Selene Pagliarello, Giuseppe Carmina, Calogero Carmina e il figlio Giuseppe, Carmela Scibetta. Un centinaio le persone evacuate e trasferite in alberghi o dai parenti.

A individuare gli ultimi quattro dispersi tra ieri notte e stamane è stata Luna, il labrador in dotazione dei vigili del fuoco, un cane di sei anni parte dell’Unità cinofila di Palermo. I quattro cadaveri rinvenuti erano di Selene Pascariello e della sua famiglia. La donna era incinta, al nono mese di gravidanza. Con il marito Giuseppe Carmina erano andati a trovare i genitori dell’uomo, Angelo Carmina ed Enza Zagarrio, che abitavano al terzo piano. Ancora in corso di accertamento la causa del tragico incidente. Alcuni residenti riferiscono che da giorni, da quelle parti, si percepiva un forte odore di gas. Forse una perdita, una sacca di gas che avrebbe trovato un fatale innesco, provocato probabilmente 2da un frigorifero o da una sigaretta”. “Nella zona da giorni ci sarebbe stato un accumulo di gas metano nel sottosuolo che si sarebbe protratto fino a sabato”, ha commentato il colonnello comandante provinciale dei carabinieri Vittorio Stringo. Italgas ha fatto sapere che non risultava alcuna segnalazione sul presunto malfunzionamento.

La rete del gas risale al 1984. L’area dell’incidente sarebbe da anni interessata da un movimento franoso: non è escluso che anche questa possa essere stata una causa. La Procura di Agrigento ha aperto un’inchiesta per disastro e incendio colposo contro ignoti. Il procuratore Luigi Patronaggio ieri ha compiuto un primo sopralluogo sul posto della strage.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

La strage dell'esplosione e del crollo delle palazzine nell'agrigentino. Ritrovati i corpi di Calogero e Giuseppe Carmina, padre e figlio erano gli ultimi 2 dispersi ancora sotto le macerie a Ravanusa. Vito Califano su Il Riformista il 14 Dicembre 2021. Sono stati ritrovati oggi pomeriggio i corpi di Calogero Carmina, 59 anni, e del figlio Giuseppe 33 anni. Erano gli ultimi dispersi ancora da rintracciare sotto le macerie della strage di Ravanusa. La tragedia dopo il crollo in seguito a un’esplosione sabato scorso nel comune in provincia di Agrigento. Sale quindi a nove il bilancio delle vittime nella tragedia di via Trilussa. Erano ormai praticamente nulle le speranze di trovarli vivi.  Sul disastro la Procura di Agrigento ha aperto un’inchiesta contro ignoti.

Per tutta la notte sono andate avanti le attività di rimozione delle macerie di quello che era l’appartamento del padre. L’esplosione e il crollo non hanno lasciato scampo. Non era stato escluso, riportava l’Ansa, che i due potessero trovarsi al livello della strada al momento della tragedia. Giuseppe Carmina, 33 anni – non è parente del professor Pietro Carmina, morto sotto le materie, e omonimo di un’altra vittima – era impiegato in un negozio di detersivi. Era passato per salutare al volo il padre Calogero, pensionato di 69 anni, e la madre Calogera Gioacchina Minacori, 59 anni. Spesso portava con sé i suoi figli dai nonni: non questa volta, fortunatamente. Minacori è stata rinvenuta tra le macerie nei giorni scorsi.

All’opera oltre 140 vigili del fuoco. Si è continuato a scavare quindi fino al livello della strada e parallelamente si è iniziato a portare via le macerie per poter proseguire le operazioni di soccorso e rintracciamento. Centinaia le persone evacuate dall’area del disastro. La deflagrazione che ha provocato il crollo sarebbe stata causata, secondo l’ipotesi più accreditata al momento, da un accumulo di gas nel sottosuolo.

“Cinque giorni prima del disastro erano state fatte alcune verifiche sulla condotta della rete di gas metano a Ravanusa, senza riscontrare nessuna irregolarità nelle tubazioni”, ha dichiarato il colonnello dei carabinieri Vittorio Stingo, comandante provinciale di Agrigento. Italgas ha smentito. “Sulla base di quanto registrato nei sistemi aziendali non vi è evidenza di lavori eseguiti sulla rete stradale, ma unicamente di interventi routinari eseguiti su contatori domestici e su alcune valvole stradali da eseguire con cadenza periodica. Questi interventi si sono svolti nell’abitato di Ravanusa, in vie distanti dal luogo dell’evento”.

I militari sostengono che “non risultano reclami o chiamate d’intervento per fughe di gas” nei giorni precedenti all’incidente. Molti abitanti della zona invece sostengono il contrario: che l’aria era invasa dall’odore di gas. Per alcuni l’esalazione usciva perfino dal water. Si indaga sulle segnalazioni negli ultimi mesi e sulle verifiche alla rete degli ultimi anni, come ricostruisce Il Corriere della Sera. “Tutte le situazioni erano state sanate laddove necessario”, chiarisce l’azienda.

Sotto le macerie erano già stati trovati invece i corpi di Selene Pagliarello e Giuseppe Carmina, e dei suoceri Angelo ed Enza Zagarrio. Pagliarello era incinta, al nono mese di gravidanza, avrebbe partorito la settimana prossima. Recuperati i corpi anche di Carmela Scibetta, 61 anni, e del marito Pietro Carmina, 68 anni, professore di Filosofia la cui lettera di congedo ai suoi studenti in occasione del pensionamento è diventata virale. “Usate le parole che vi ho insegnato – diceva l’insegnante – per difendervi e per difendere chi quelle parole non le ha; non siate spettatori ma protagonisti della storia che vivete oggi: infilatevi dentro, sporcatevi le mani, mordetela la vita, non ‘adattatevi’, impegnatevi, non rinunciate mai a perseguire le vostre mete, anche le più ambiziose, caricatevi sulle spalle chi non ce la fa: voi non siete il futuro, siete il presente”. Sopravvissute alla tragedia Rosa Carmina, di 80 anni, e Giuseppa Montana, sua cognata.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Da open.online.it il 14 dicembre 2021. I vigili del fuoco hanno trovato il corpo dell’ultimo disperso dell’esplosione di Ravanusa. La vittima è Giuseppe Carmina, 33 anni, raccolto senza vita accanto al padre Calogero, in quello che era il garage della palazzina crollata. Lo scoppio probabilmente originato da una fuga di gas risale allo scorso 11 dicembre. Una tragedia che nel comune agrigentino ha provocato la morte di altre 7 persone e la distruzione di almeno 4 palazzine. I pompieri avevano già individuato ieri l’area dove sarebbe stato utile scavare alla ricerca dei due uomini dispersi.

Le altre vittime della catastrofe

Le altre persone che hanno perso la vita nel crollo sono Selene Pagliarello, l’infermiera incinta al nono mese, il suocero Angelo Carmina. Una quarta vittima dell’esplosione è Carmela Scibetta, moglie del professore Pietro Carmina, il cui corpo è stato recuperato insieme a quello di Enza Zagarrio, moglie di Angelo Carmina, e di Calogera Minacori, a sua volta moglie di Calogero Carmina e madre di Giuseppe Carmina. Le uniche due persone sopravvissute alla catastrofe di Ravanusa sono Giuseppina Montana e Rosa Carmina trovate vive sotto le macerie nella tarda serata di sabato scorso. Intanto la Regione Siciliana, insieme alla Protezione civile, ha avviato una raccolta fondi per la ricostruzione degli edifici collassati. IT 18 B 02008 04625 000105458608: è il conto corrente bancario dedicato per le donazioni.

Esplosione Ravanusa, la drammatica storia di Selene Pagliarello: mercoledì avrebbe partorito. Felice Emmanuele e Paolo De Chiara il 12/12/2021 su Notizie.it. Selene Pagliarello è stata sfortunata, non era all'interno dell'abitazione ma fuori. Il padre è ancora lì ed aspetta che la figlia ricompaia dalle macerie. L’esplosione a Ravanusa avvenuta sabato 11 dicembre 2021 intorno alle 20:30, ha segnato profondamente la provincia di Agrigento. Tre sono le vittime accertate e sei i dispersi. Tra questi vi sono anche Selene Pagliarello e il marito. La storia di Selene Pagliarello è forse la più triste riguardo tutta la vicenda. Selene è un’infermiera. Da poco sposata aveva deciso di mettere al mondo un figlio. La gravidanza andava a gonfie vele, tanto che per mercoledì 15 dicembre 2021 era anche previsto il parto. L’esplosione avvenuta sabato sera potrebbe aver infranto il sogno di Selene. Attualmente di Selene e del marito non si sa nulla. Sono due dei sei dispersi dopo il crollo della palazzina e nonostante i vigili del fuoco e le forze dell’ordine stiano scavando ininterrottamente da sabato sera, i loro corpi non sono stati ancora trovati, nè vivi nè morti. Selene Pagliarello, al momento dell’esplosione, non si trovava all’interno dell’abitazione, ma fuori. La donna era andata a trovare i suoceri insieme a suo marito. La straziante immagine di questa vicenda la offre il padre di Selene. L’uomo, che sarebbe dovuto diventare nonno, è in piedi, inamovibile, tra le macerie di ciò che resta di quelle abitazioni distrutte. Chiede notizie e vorrebbe sapere, ma lui come tutti non sanno nulla. Intanto è lì che aspetta, aspetta che la figlia venga trovata viva e spera che il suo futuro nipote stia bene. 

L'ultimo anno nero del gas: 157 incidenti e 16 vittime. Manila Alfano il 14 Dicembre 2021 su Il Giornale. I casi in aumento. Manca una mappa aggiornata dei controlli e un ente nazionale che supervisioni. Poteva succedere anche a casa mia? Quanto è sicura la rete del gas in Italia? Dopo la tragedia di Ravanusa il tema della sicurezza del gas è tornato al centro dell'attenzione. Gli incidenti sono in aumento e la maggior parte avvengono in casa: sono 157 gli incidenti legati al gas canalizzato di cui 16 mortali e 53 con esplosione /scoppio ma la gran parte è legata a caldaie, scaldabagni, cottura e solo 11 alla rete di distribuzione di cui 2 su parte interrata, 5 su parte aerea; 3 sul gruppo di misura. Sono i dati forniti dal rapporto del Cig, comitato italiano Gas e si riferiscono al 2019 e danno un quadro chiaro della situazione nazionale e dai dati si capisce che il dato è in aumento rispetto all'anno precedente. Il comitato lo redige su mandato dell'Arera, l'autorità di regolazione per energia reti e ambiente che tiene conto degli incidenti nelle reti di distribuzione del gas naturale, le reti di distribuzione cittadine di GPL e di propano-aria. Scorrendo il rapporto che separa gli atti volontari, suddivisi tra tentati suicidi e atti dolosi, si rileva come gli infortunati sono stati 308 e 23 deceduti. Nel settore del GPL, risultano costanti gli incidenti registrati (da 112 a 113) e si registra un decremento del numero dei decessi (da 22 a 19).

Il 22% secondo il rapporto, è attribuibile ad apparecchi non correttamente manutenuti e malfunzionanti, ricadono invece 19% degli incidenti e il 4% degli infortunati, nella evacuazione dei prodotti della combustione non idonea o mancante.

L'installazione irregolare ha provocato il 12% degli incidenti, il 10% degli infortunati e il 39% dei deceduti. La carenza di manutenzione ha provocato il 10% degli incidenti e il 9% degli infortunati. L'uso poi scorretto o l'errata manovra è stata la causa del 2,5% degli incidenti; a ciò si unisce anche la disattenzione, causa del 4,5% degli incidenti. Nel rapporto, il Comitato italiano gas scrive che questi dati «confermano la necessità di attivare i controlli in campo degli impianti e sulla regolarità delle manutenzioni, e dell'informazione dell'utente. In primo luogo, sia sul funzionamento degli impianti sia degli apparecchi, specie le caldaie, con specifico obiettivo il fenomeno diffuso degli incidenti con intossicazione da monossido di carbonio, ancorché questo avvenga ancor più in numero importante per causa di utilizzo di altri apparecchi con combustibile diverso dal gas».

E per quanto riguarda i controlli? Come spiega Violetto Gorrasi di Today, sono circa duecento operatori a gestire la distribuzione, quasi 265mila chilometri di tubi nel complesso. Secondo l'Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente, il gas viene distribuito nei centri abitati del nostro Paese tramite una rete che si estende per oltre 265mila chilometri. Gli operatori-gestori della rete erano 228 nel 2013, poi per alcune operazioni di fusione sono diventati 194 nel 2020.

Il maggiore tra questi è Italgas, che distribuisce gas anche a Ravanusa e ha fatto sapere che nell'ultima settimana non erano arrivate segnalazioni di alcun tipo che lamentassero perdite di gas al pronto intervento. Italgas ha spiegato anche che la rete in questione è stata ispezionata interamente nel 2020 e nel 2021. Altri grossi operatori del mercato sono 2i, A2A, Hera e Snam rete gas. I Comuni giocano poi un ruolo importante per la prevenzione, possono segnalare o contestare eventuali rischi o pericoli derivanti dalla posa delle tubature del metano. Manca non solo una mappa aggiornata delle condutture in cui scorre il metano, spesso molto datate oltre che posizionate in territori con un elevato rischio idrogeologico, ma anche un ente nazionale che supervisioni. Manila Alfano

Chi è il re dei rifiuti siciliano amico dei politici e per i pm prestanome dei Santapaola. Per la procura di Catania e la Dia Antonino Paratore è legato ai boss di Cosa Nostra. E aveva entrature ai piani alti del potere: l’ex senatore Lumia lo fece incontrare con un dirigente della Regione, Piero Amara ha mediato un suo incontro con Denis Verdini ed è andato in Cina con la delegazione del governo Renzi. Antonio Fraschilla su L'Espresso l'8 novembre 2021. Era l’astro nascente nel settore dei rifiuti in Sicilia, con entrature nei palazzi della politica e della burocrazia a Palermo come a Roma. Antonino Paratore con le sue aziende nate nei primi anni Duemila nel settore dell’immondizia ha fatto affari d’oro, grazie anche ai buoni rapporti con politici di peso: dal governo Crocetta ha ottenuto l’ampliamento della sua discarica di Melilli e l’autorizzazione, in due giorni, a smaltire i rifiuti urbani, dal ministero dello Sviluppo economico durante i governi del centrosinistra ha avuto l’ok a smaltire il polverino dell’Ilva. Ma Paratore aveva buone entrature anche con Denis Verdini, attraverso l’avvocato aggiusta sentenze Piero Amara, e sapeva muoversi tra i lobbisti che contano nei palazzi ministeriali e nelle società di Stato. Nei giorni scorsi il Tribunale di Catania ha accolto la richiesta della procura che dopo una indagine della Dia coordinata dal capocentro Carmine Mosca ha chiesto, e ottenuto, il sequestro di beni alla famiglia Paratore per 100 milioni di euro. Secondo passo dopo l’indagine del 2017 che travolse i Paratore, oltre al padre anche il figlio Carmelo, e che alzò il velo sulla corruzione nel rilascio delle autorizzazioni da parte della Regione Siciliana. Il processo è in corso e i Paratore sono in libertà in attesa di giudizio. Il cuore centrale dell’indagine e del sequestro dei giorni scorsi è il legame tra i Paratore e i Santapaola-Ercolano. Si legge nel provvedimento di sequestro: «Secondo il gip gli elementi indizianti costituiti dalle dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, da intercettazioni e dalle indagini acquisite in altri procedimenti hanno evidenziato l’appartenenza all’associazione Santapaola di Rosario Zuccaro, longa manus del pane Mauruo, e dei Paratore Antonino e Sanremo quale loro espressione imprenditoriale… La nascita delle aziende dei Paratore è stata finanziata con denaro di provenienza illecita dello Zuccaro e la successiva crescita è stata possibile, oltre che con l’impiego di fondi di provenienza illecita, mediante il ricorso alla forza intimidatorie derivante alla contiguità con lo Zuccaro e l’associazione mafiosa denominata “Santapaola-Ercolano”». Tra i beni sequestrai le società operante nel settore dei lidi per balneazione (avevano lo stabilimento la Piramide alla Playa), nella ristorazione, nella pulizia (avevano in passato l’appalto per la pulizia dell’ospedale Garibaldi di Catania) e appunto nei rifiuti. E poi ville, appartamenti a Catania e nel Messinese e auto di lusso. Un impero, quello dei Paratore. A Catania erano molto conosciuti. Nel decreto di sequestro si fa riferimento ad esempio ai rapporti di Carmelo Paratore con Giovanni Costanzo, altro noto imprenditore etneo: in particolare secondo gli inquirenti i due parlavano al telefono dei lavori di ampliamento della discarica di Gela, della messa in sicurezza e bonifica della falda Brindisi-Area Micorosa aggiudicata all’Ati di Paratore e Costanzo per 38 milioni di euro. Ma proprio per crescere nel comparto immondizia i Paratore avevano cercato, e ottenuto, sponde politiche. Ascoltato in commissione Antimafia regionale l’ex dirigente del settore Acque e rifiuti della Regione, Marco Lupo, racconta la vicenda Cisma: la discarica di rifiuti speciali di Melilli autorizzata durante l'emergenza nel luglio 2016 ad accogliere rifiuti urbani. Pochi mesi prima Lupo si era opposto ad autorizzare questa discarica perché «mancava la Valutazione ambientale»: un documento fondamentale. Dice Lupo a verbale «Mandai indietro l'autorizzazione e a quel punto cominciarono tutta una serie di colloqui. Dico tranquillamente chi me ne parlarono Crocetta e il senatore Giuseppe Lumia. Mi chiesero come mai avessi rimandato indietro l’autorizzazione». Il presidente della commissione Claudio Fava domanda: «Il presidente Crocetta e Lumia le dissero esplicitamente che erano stati contattati dalla famiglia Paratore?». Lupo risponde: «Lumia sì, nel senso che non c'era bisogno che me lo dicesse perché quando mi chiamò per parlarne, lì con lui c'era il titolare dell'impianto, Paratore. Lumia mi disse se quando andavo a Roma glielo facevo sapere... Quando sono andato a Roma, al bar Sant'Eustachio, arrivai un po' prima, mi sedetti e girandomi vidi che c'era Paratore, quindi gli dissi 'lei per caso sta aspettando il senatore Lumia?', disse: 'sì'. Paratore sosteneva che loro la Via l'avevano già avuta all'atto della prima autorizzazione e io feci presente a tutti e due (Lumia e Paratore, ndr) che secondo me non era così. La cosa che mi allarmò è che, dopo questi passaggi, arrivarono dei periti nominati dalla procura di Siracusa... andarono dal mio dirigente Patella e gli fecero capire che io ero indagato perché non volevo rilasciare le autorizzazioni…». Andato via Lupo, la Cisma otterrà l'autorizzazione. La procura di Siracusa finirà nell'occhio del ciclone per il sistema Amara-Calafiore e la corruzione dei giudici. Amara farà da tramite per un incontro a Roma tra Paratore e Denis Verdini. Ma i Paratore avevano rapporti ad ampio raggio. Ad esempio grazie a Carmelo Messina dell’Unione amicizia Italia-Turchia ed ex responsabile relazioni esterne delle Ferrovie, i Paratore entrano in contatto con Invitalia e nel 2016 andranno al seguito della missione dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi in Cina per fare affari lì. E grazie a Messina riceveranno nella discarica di Melilli perfino l’ambasciatore turco in Italia, al quale spiegano intenzione di voler aprire un impianto in Turchia. Per la procura dietro il loro attivismo c’erano i soldi della mafia.

Harrison Ford perde la carta di credito a Palermo e la Polizia gliela restituisce. Giampiero Casoni il 23/10/2021 su Notizie.it. Harrison Ford perde la carta di credito a Palermo e la Polizia glie la restituisce dopo essere risalita all'intestatario: nientemeno che "Indiana Jones". Harrison Ford perde la carta di credito a Palermo e la Polizia guidata da Manfredi Borsellino glie la restituisce dopo che un cittadino l’aveva trovata a Mondello: gli agenti sono risaliti all’identità dell’attore e lo hanno convocato, “smascherando” ma per un buon fine la sua presenza in incognito in Sicilia per girare alcune scene di una serie cinematografica. Una vera disavventura a lieto fine per “Indiana Jones”. La star di Hollywood aveva perso la card a Mondello, che aveva raggiunto per rilassarsi negli step fra le ripese. Nel corso del pomeriggio di ieri, 22 ottobre, quella carta era stata ritrovata da un cittadino che che si è presentato al Commissariato di Mondello, il cui dirigente è Manfredi Borsellino, il figlio del giudice ucciso dalla mafia. Sono bastati alcuni riscontri per risalire all’identità dell’intestatario della carta e scoprire che era proprio lui, “Indiana Jones”. E l’attore è stato rintracciato da Borsellino jr e da due agenti in un locale che Ford aveva raggiunto per cercare di sfuggire ad alcuni fan che lo avevano riconosciuto.  A quel punto Borsellino ha raggiunto l’attore con due agenti, gli ha riconsegnato la carta di credito sconfessando ogni luogo comune su presunte disonestà ataviche e ha voluto immortalare quel momento con una foto ricordo.

Palermo, bilanci comunali falsi: indagato il sindaco Leoluca Orlando. Il Corriere della Sera il 21 ottobre 2021. Indagati anche 23 tra ex assessori, dirigenti e capi area comunali. Le indagini avrebbero accertato numerose irregolarità nei bilanci di quattro anni, dal 2016 al 2019. Il sindaco di Palermo Leoluca Orlando e 23 fra ex assessori, dirigenti e capi area comunali sono indagati per falso nei bilanci comunali. Secondo quanto scrive il quotidiano La Repubblica, tutti hanno avuto notificato un avviso di conclusione indagini. L’accusa contestata dalla procura di Palermo è «falso materiale commesso da pubblico ufficiale in atto pubblico». Le indagini del nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Palermo, avrebbero accertato numerose irregolarità nei bilanci di quattro anni, dal 2016 al 2019. Le indagini sono state condotte dai sostituti procuratori Andrea Fusco, Giulia Beux e dal procuratore aggiunto Sergio Demontis. Scrivono i magistrati nel provvedimento: «I pubblici ufficiali sottoscrivevano e inviavano all’ufficio Ragioneria generale delle schede di previsione di entrate sovrastimate (tenuto conto dei dati - a loro noti - degli effettivi accertamenti delle entrate nelle annualità precedenti) così inducendo in errore il consiglio comunale di Palermo sulla verità dell’atto, determinandolo ad adottare la deliberazione con la quale veniva approvato il bilancio di previsione».

I debiti verso l’Amat

Un capitolo delle accuse riguarda i bilanci di previsione, un altro i rendiconti di gestione. A Orlando viene contestata anche una direttiva del 18 giugno 2018 «per avere in un atto pubblico facente fede fino a querela di falso...esposto dati falsi ed in particolare riportato crediti da riconoscere/transigere del Comune verso le società partecipate inferiori rispetto a quelle reali». Il riferimento è ai debiti del Comune verso l’Amat (la società che gestisce il trasporto pubblico in città ndr) : sarebbero stati «quantificati falsamente in soli 197 mila euro, per l’anno 2016, a fronte di crediti della società privi di impegni di spesa pari a 8 milioni 890 mila euro».

La Lega: il sindaco lasci

«Saranno i giudici a stabilire le eventuali responsabilità penali del sindaco Orlando e delle altre persone indagate dalla procura di Palermo per possibili irregolarità nei bilanci e fino ad allora vale come per tutti la presunzione di innocenza. Ma è evidente che vi è un problema tutto politico nel momento in cui il Comune si avvia al dissesto finanziario ed è già da tempo in totale dissesto funzionale. Lo diciamo da tempo e torniamo a ribadirlo: è ora di votare la sfiducia». Lo affermano il capogruppo della Lega in Consiglio comunale a Palermo, Igor Gelarda, e la deputata e consigliera Marianna Caronia, sull’inchiesta per falso nei bilanci in cui sono indagati il sindaco Leoluca Orlando e 23 fra ex assessori, dirigenti e capi area comunali. «Quella sfiducia che abbiamo promosso da mesi e che finora ha raccolto una decina di firme - aggiungono - è la cartina al tornasole di come qualcuno a Palermo abbia fatto opposizione solo a parole. Ma oggi più di prima e in maniera definitiva non ci possono più essere mezze misure. O si è con Palermo o si è con Orlando. O si firma e vota la sfiducia o si è contro la città». (fonte agenzie)

"Falsi nei bilanci comunali": indagati il sindaco Orlando e altri 23 fra ex assessori e dirigenti. Salvo Palazzolo,  Claudio Reale,  Sara Scarafia La Repubblica il 20 ottobre 2021. L'avviso di chiusura dell'inchiesta è stato notificato dalla Guardia di finanza. Il primo cittadino non commenta, in attesa di parlare con l'autorità giudiziaria. “Falso materiale commesso da pubblico ufficiale in atto pubblico”, questa l’accusa contestata dalla procura di Palermo al sindaco Leoluca Orlando e a 23 fra ex assessori, dirigenti e capi area comunali. Hanno ricevuto un avviso di conclusione delle indagini: secondo la ricostruzione dei finanzieri del nucleo di polizia economico finanziaria di Palermo, falsi sarebbero i numeri delle entrate e delle uscite inserite nei bilanci degli anni 2016, 2017, 2018 e 2019. Il primo cittadino, interpellato da Repubblica, non commenta, in attesa di parlare con l'autorità giudiziaria. Le indagini dei sostituti procuratori Andrea Fusco, Giulia Beux e del procuratore aggiunto Sergio Demontis contestano irregolarità in diversi settori: dall’ufficio del condono edilizio a quello dei tributi, dalle risorse patrimoniali alle politiche abitative. Hanno scritto i magistrati nel provvedimento: “I pubblici ufficiali sottoscrivevano e inviavano all’ufficio Ragioneria generale delle schede di previsione di entrate sovrastimate (tenuto conto dei dati - a loro noti - degli effettivi accertamenti delle entrate nelle annualità precedenti (...) così inducendo in errore il consiglio comunale di Palermo sulla verità dell'atto, determinandolo ad adottare la deliberazione con la quale veniva approvato il bilancio di previsione".

L'indagine

Un capitolo delle accuse riguarda i bilanci di previsione, un altro i rendiconti di gestione. Sotto accusa anche una direttiva del sindaco, del 18 giugno 2018: un altro falso contestato al primo cittadino, "per avere in un atto pubblico facente fede fino a querela di falso quale la direttiva del 18 giugno 2018, protocollo numero 911925, esposto dati falsi ed in particolare riportato crediti da riconoscere/transigere del Comune verso le società partecipate inferiori rispetto a quelle reali". Si fa riferimento ai debiti del Comune verso l'Amat: sarebbero stati "quantificati falsamente in soli 197 mila euro, per l'anno 2016, a fronte di crediti della società privi di impegni di spesa pari a 8 milioni 890 mila euro". Altre cifre sono contestate nel 2018.

Le indagini della Guardia di finanza muovono l'accusa di falso anche nell'attestazione dei debiti del Comune di Palermo nei confronti della Rap per l'anno 2016. Ancora un contestazione ad Orlando riguarda le certificazioni sui pareggi di bilancio: sarebbe stato indicato "un saldo finale tra entrate e spese per l'anno 2016 pari a +55 milioni di euro (...) a fronte di un saldo reale negativo per meno 35 milioni di euro (...) celando il mancato rispetto del pareggio di bilancio da parte del Comune". Irregolarità riscontrata pure nel 2017 (sarebbe stato segnato un saldo finale fra entrate e spese pari a + 122 milioni di euro (...) a fronte di un inferiore saldo reale di non oltre più 52 milioni di euro".

Avviso di conclusione

Questi gli indagati, che adesso hanno trenta giorni di tempo per presentare memorie a difesa o essere ascoltati dai pm, prima di un'eventuale richiesta di rinvio a giudizio: Luciano Abbonato  (ex assessore comunale al Bilancio), Lucetta Accordino (dirigente servizi Affari generali), Carmela Agnello (ex ragioniere generale oggi ai Beni confiscati e Edilizia scolastica), Cosimo Aiello (ex componente collegio revisori), Marcello Barbaro (ex presidente del collegio dei revisori), Paolo Basile (attuale ragioniere generale), Leonardo Brucato (ex dirigente del settore Tributi oggi alle Circoscrizioni), Roberto d’Agostino (ex assessore al Bilancio), Paola Di Trapani (ex dirigente Attività produttive oggi dirigente Verde), Salvatore Di Trapani (ex revisore), Carlo Galvano (ex dirigente condono edilizio), Antonino Gentile (ex assessore al Bilancio), Mario Lo Castri (ex dirigente dei Lavori Pubblici), Gabriele Marchese (ex comandante della Polizia municipale), Marco Mazzurco (ex revisore), Vincenzo Messina (capo della Polizia municipale), Antonino Mineo (ex revisore), Luigi Mortillaro (ex dirigente del servizio Bilancio), Sebastiano Orlando (ex revisore), Sergio Pollicita (capo di gabinetto), Paolo Porretto (ex dirigente Sportello unico), Stefano Puleo (ex dirigente tributi), Daniela Rimedio (ex dirigente servizio Tari oggi risorse immobiliari).

Ottavio Cappellani per “la Sicilia” il 17 ottobre 2021. E niente, Harrison Ford è in Sicilia, per girare il nuovo Indiana Jones, e noi siciliani siamo in piena adorazione cristologica. Harrison Ford è in Sicilia ed è come un avvento, un’apparizione teologica, una carezza dell’universo a quest’isola dimenticata da Dio (sono i ‘politici’ ad averci ridotto così, non Dio). Non è che il siciliano dice: “Vabbè, il posto bellissimo, i luoghi archeologici sono sbrizziati mura mura, la stagione a ottobre è ancora semibalneare, Harrison Ford e tutta la produzione hollywwodiana ce la dovrebbero sucare (“sucare” inteso in senso istituzionale, come l’assessore Messina ha detto a Serpotta), no. Siamo tutti emozionati. Il vero problema, però, è che non siamo solo noi, a comportarci come dei vermi di fronte a una star. Anche il “Corriere della Sera” pensa che sia una notizia che ‘sto spacchio di Harrison Ford ha “mangiato una pizza alla norma” a Paternò. Che a uno ci iene voglia di dirci: “Caro Corriere della Sera, ma a chi ce la sta sta raccontando che Harrison Ford si mangiau a pizza cca mulinciana fritta, perché, sinceramente, a noi siciliani, che Harrison Ford si mancia la mulinciana fritta, cosa minchia ce ne dovrebbe strafottere?”. E invece no, non è così, è tutto un dire: “’U viristi, macari ‘u Corriere della Sera parrau da mulinciana fritta ca si calau Harrison Ford”. Perché per i siciliani è così, vivono nel pizzo, nella munnizza, nel voto di scambio, nei governanti pazzi, nell’ignoranza di gente che non sa scrivere neanche una richiesta di fondi (e poi, giustamente, gliela bocciano), nell’analfabetismo funzionale e disfunzionale, e però poi viene Fedez e sua moglie a sposarsi qui, viene Mick Jagger, viene Harrison Ford e per noi è come se fosse arrivato il Cristo e gridiamo al miracolo perché Harrison Ford si è ammuccato menza mulinciana fritta. Dovremmo essere incazzati se questi quattro pazzi che da decenni ci governano non sono riusciti a fare della Sicilia l’hollywood del Mediterraneo, dovremmo essere indignati se la situazione ci costringe a genufletterci a Harrison Ford, o al primo svippisi che ci degna di considerazione. Dovremmo essere indignati anche quando l’assessore di turno si fa la foto col vippis che (pagato, ci mancherebbe) viene in Sicilia a tipo che ci fa un favore a venire qui a celebrare, che ne so, Euripide, Bellini, il teatro greco, la mulinciana fritta. Il siciliano è fatto così: è masochista. In mano a una classe dirigente che lo ha sempre affamato e insultato per il proprio tornaconto, che cerca di trovare il proprio riscatto come se fosse un influencer che si fa fotografare con l’influencer più influencer di lui. E questo mi fa rabbia. Detto fuori dai denti: ma chi spacchio se ne fotte se in Sicilia c’è Mick Jagger o Harrison Ferd o Fedez o chissàcchi. Siamo in Sicilia, purtroppo i siciliani non se ne accorgono e sarà sempre così. Persone che non si accorgono della propria ricchezza e che mendicano visibilità. Harrison Ford è in Sicilia e, personalmente, me ne sto fottendo alla grande. 

Il caldo in Sicilia è troppo forte: scompaiono le arance e arrivano mango e avocado. Il raccolto degli agrumi, meno redditizio, è crollato negli ultimi anni. Nell’isola si moltiplicano gli esperimenti di nuove coltivazioni fino a ieri impensabili. Ma le temperature sempre più alte rischiano di compromettere le nuove produzioni. Alan David Scifo su L’Espresso il 21 settembre 2021. Maruzza, trentacinque anni e una vitalità che supera anche il caldo torrido di agosto, corre nel primo pomeriggio di nuovo nei suoi campi perché un incendio minaccia le sue colture di avocado e mango a Capri Leone, territorio dei monti Nebrodi, nel Messinese. Lei ha investito il futuro suo e della sua famiglia in quella zona e non vuole che tutto vada in fumo, timore che si fa vivo ogni anno nella stagione in cui i terreni da gialli passano al nero: «Per fortuna non è mai successo nulla, anche perché siamo attrezzati ad affrontare questo, adesso i Vigili del fuoco stanno spegnendo le fiamme, ma è un pericolo costante». Anche quest’anno le sue piantagioni sono al riparo dalla condanna che come ogni estate accade si abbatte anche stavolta sui monti siciliani. Il territorio è però perfetto per la coltivazione di frutti tropicali: dalle pendici dell’Etna ai Nebrodi, fino a Terrasini, nel Palermitano, più giù nel meridione dell’isola dove si attestano gli ultimi esperimenti (alcuni falliti) nelle zone dell’Agrigentino e poi nel Belice: sotto i colori della Trinacria sorgono ogni anno nuove aziende che coltivano piante esotiche dove prima c’erano agrumeti. Mango, avocado, ma anche passion fruit, litchi, papaya, banane e altro ancora: nel mondo salutare che strizza l’occhio ai frutti con grandi proprietà la maggiore richiesta ha portato in 5 anni, secondo Coldiretti, a 500 ettari una coltivazione che fino a poco tempo fa non arrivava neanche a 10. Dove c’erano agrumeti, limoni e arance, tipici prodotti siciliani, adesso si parla una lingua straniera: «Quando questi terreni li coltivava mio nonno non c’erano le condizioni per i frutti tropicali. Adesso produciamo mango dove c’erano aranceti e limoneti, ma in alcuni terreni abbiamo ringiovanito gli agrumeti. Non mi piace parlare di sostituzione ma di riorganizzazione», racconta Maruzza Cupane.

Un ex pescheto è adesso coltivato con frutti tropicali, mentre i cambiamenti climatici hanno portato alcuni a spostarsi perché in alcune zone non c’è più acqua. La giovane imprenditrice agricola, laureata in agricoltura biologica, con la sua famiglia ha deciso di lanciarsi nella coltivazione di mango (il suo Marumango, come lo chiama) riprendendo terreni che rendevano poco. Ha trovato la condizione perfetta: «La nostra è una innovazione che ha portato a fare delle scelte anche economiche in quanto i frutti esotici rendono di più. Il motivo essenziale sta nella vocazionalità dei terreni e di questo ambiente, dove non c’è una grande escursione termica, dove l’acqua non manca grazie ai Nebrodi e i terreni sono tendenzialmente “sciolti”». Terreni ottimi per i nuovi frutti che prendono così il posto di quelli tradizionali, alcuni dei quali non vengono neanche più raccolti negli agrumeti ancora in attività. Secondo Coldiretti, il terreno coltivato ad arance è diminuito del 31% negli ultimi 15 anni, mentre quello dei limoni ha subito una riduzione del 50%. Minore quantità ma maggiore qualità per gli imprenditori che adesso mirano da un lato agli agrumi selezionati, come l’arancia rossa, e alle piante tropicali, per cui il caldo non rappresenta un problema. Almeno fino a qualche tempo fa. Il paradosso è infatti che gli stessi cambiamenti climatici favorevoli alle coltivazioni tropicali anche in Sicilia, adesso rischiano di inficiare il raccolto: «Il forte caldo (la Sicilia ha toccato il record europeo questa estate, ndr) ha portato molti frutti a bruciarsi, ad aumentare lo scarto e a portare problemi al mango. Speriamo sia solo una estate torrida straordinaria e quindi un problema momentaneo, ma se queste estati così calde dovessero continuare sarebbe un serio problema per le nostre colture». Dai Nebrodi a Giarre, vicino Catania, le ambizioni e i problemi sono gli stessi: Andrea, dell’azienda “Avocado di Sicilia” da venti anni ha fatto una scelta di vita che lo ha portato a lasciare la carriera legale per l’agricoltura: «L’ho fatto per mio nonno, non l’ho conosciuto ma ho ereditato la sua passione per i campi», racconta: «Adesso l’agricoltura è cambiata, occorre comprendere anche il marketing e la parte commerciale. Io due volte l’anno prendo la macchina e vado da tutti gli acquirenti nella penisola, curo l’immagine di questi frutti che adesso hanno raggiunto i supermercati nazionali e internazionali». La tecnologia ha aiutato Andrea, che otto anni fa si era lanciato nell’e-commerce dell’avocado di Sicilia con ottimi risultati e adesso mira a raggiungere nuovi mercati, non solo con l’avocado ma anche con gli altri frutti che lavora in maniera costante per una richiesta che continua a salire. Il caldo torrido di questa estate però non ha fatto bene: «La vocazione del terreno è essenziale per queste colture, ma dobbiamo fare i conti con l’aleatorietà del clima, perché da noi le condizioni climatiche sono state sempre ottime, da almeno trent’anni». Il forte caldo di luglio e agosto anche per gli avocado e i mango ha portato qualche problema nei 130 ettari e nelle 24 aziende agricole con cui collabora Andrea Passanisi, che guarda con orgoglio i suoi campi verdi di avocado sotto gli occhi di “mamma Etna”, la cui cenere è un rinforzo in più per i terreni. «Il clima, se prima era un fattore favorevole, oggi influisce negativamente, il cambio di stagionalità è diventato drastico, violento», spiega Passanisi, che ricopre anche il ruolo presidente di Coldiretti Catania. «Il nostro resta però un territorio ideale per l’avocado, sia per il terreno che per l’escursione climatica. La speranza è che il forte caldo non ci sia anche i prossimi anni. Il cambiamento è un’arma a doppio taglio ma la soluzione per me è solo una: piantare». Nei suoi campi sembra di stare in Brasile, ma nonostante l’avocado e il frutto della passione lui però non vuole abbandonare i limoni: «Estirpare le vecchie colture sarebbe un fallimento».

Dall’Etna al mare di Terrasini, di cambiamento climatico si parla anche nel Palermitano: «Quest’anno, in queste zone, la produzione di mango sarà in negativo dell’80% rispetto al 2020 a causa dell’inverno troppo caldo», racconta un altro giovane imprenditore agricolo, Rosolino Palazzolo, tra quelli che si stanno facendo strada in Sicilia, regione che oggi rappresenta la maggiore produttrice di frutti esotici in Italia. «Prima l’inverno era più lungo: adesso la stagione si è accorciata, la vegetazione non ha fatto la fioritura. Dall’altro lato vanno bene le coltivazioni di papaya e banane. Il forte caldo di quest’anno mi ha però permesso di sperimentare le coltivazioni di cacao che negli anni scorsi invece non mi erano riuscite. Considerato il cambiamento climatico aumenterò le produzioni. Bisogna adattarsi: ad esempio lo stesso clima ha ucciso la mosca dell’ulivo, quindi ci sono lati positivi e lati negativi, bisogna rinnovarsi». A differenza di quello che accade a Palermo, dove Rosolino nel suo “Orto di Rosolino” è riuscito ad adattarsi ai cambiamenti climatici, testando nuove colture, in alcune zone climatiche gli esperimenti non sono però riusciti. A Menfi, ad esempio, nell’Agrigentino, le coltivazioni di mango non sono andate a buon fine per il troppo caldo. «La pluviometria è cambiata in Sicilia. A Licata, ad esempio, arrivano 300 millimetri di acqua all’anno, nel Messinese mille», spiega il giovane agronomo Piero Cumbo, una laurea in Agroingegneria e una passione sin da giovane per l’agricoltura con un occhio di riguardo per la natura. «Negli ultimi anni c’è una maggior durata dei periodi secchi mentre i periodi caldi sono elevati, ciò comporta la coltivazione di frutti esotici da un lato, ma dall’altro l’abbandono di vecchie colture a causa del clima ma anche per cause economiche, perché la produzione di queste colture nuove rende di più». I frutti esotici infatti hanno più mercato e un’espansione che è nel pieno della sua esplosione a differenza di agrumi, ulivi e vitigni che subiscono la concorrenza dei Paesi stranieri. Il paradosso è anche questo: se negli anni la Sicilia si converte all’esotico, adesso colture tipicamente siciliane si spostano verso Nord. «Gli ulivi siciliani e del sud Italia adesso subiscono la concorrenza di quelli della Pianura Padana, portando a un deprezzamento delle colture storiche siciliane», racconta ancora Piero Cumbo, che della sua passione ha fatto il suo lavoro. Se il presente è quello dell’incremento del mercato, il futuro della “Sicilia tropicale” è in continuo cambiamento, ma i giovani e arrembanti imprenditori agricoli non hanno intenzione di fermarsi a guardare: «Noi studiamo metodi per consumare meno acqua», spiega ancora Maruzza: «Dobbiamo pensare ai nostri figli, per loro dobbiamo rispettare la natura». Anche Andrea pensa a suo figlio, oltre che al futuro dell’azienda: «Non dobbiamo bruciare, dobbiamo piantare sempre e dare ossigeno alla terra, seguendo la vocazione del territorio».

La Sicilia di Goethe: l’arrivo a Palermo nel 1787. Redazione siciliafan.it il 12 luglio 2019. Johann Wolfgang Von Goethe intraprese il suo primo viaggio in Italia nel 1787, facendo un’importante tappa in Sicilia. Viaggiare in Sicilia era ai tempi abbastanza difficoltoso: non vi erano grandi strutture ricettive e il viaggio era un po’ rischioso, per le condizioni delle strade e per la propria incolumità. Goethe fu spinto da uno spirito di avventura e scoperta. Vediamo insieme cosa ha scritto in occasione dell’arrivo a Palermo via mare. Era il 2 aprile del 1787. Finalmente dopo molti sforzi, siamo arrivati circa le tre del pomeriggio nel porto, dove ci si offrì una vista piacevolissima, e trovandomi pienamente ristabilito, ho potuto goderla a mio bello agio. La città giace in pianura, ai piedi di un monte, volta verso il mare a tramontana, ed era oggi illuminata da un sole limpidissimo; scorgevamo il profilo di tutti gli edifici, illuminati dal riflesso di quello.

Sorgeva a destra il monte Pellegrino, di forma bellissima, ed a sinistra si stende in lontananza la spiaggia, con seni, capi, e promontori. Contribuivano poi molto ad abbellire il colpo d’occhio, le frondi verdeggianti di alberi graziosissimi, le cui cime illuminate da tergo, brillavano per le tinte cupe degli edifici, quasi a foggia di lucciole vegetali. La limpidezza dell’atmosfera, dava tinta azurrina a tutte le ombre. A vece di provare impazienza di scendere a terra ci fermammo sul ponte in fino a tanto vennero cacciarci di là; dove mai avessimo potuto trovare punto di vista più favorevole? Entrammo nella città per la porta meravigliosa formata da due immensi pilieri, i quali non sono chiusi in alto da arco, acciò vi possa passare senza incontrare ostacolo, il carro colossale, nell’occasione delle famose feste di S. Rosalia; e girando a sinistra, appena entrati, trovammo una locanda. L’albergatore, vecchietto di modi piacevoli, assuefatto ad accogliere forastieri di tutte le nazioni, ci portò in una vasta camera, dalla cui finestra si scorgevano il mare, la strada ed il monte di S. Rosalia, la spiaggia, e dalla quale potemmo vedere pure il legno, da cui eravamo scesi poco prima. Soddisfatti della bella vista che si godeva dalla nostra stanza, non osservammo neppure dapprima, che in fondo a quella si apriva un’alcova chiusa da cortine, dove stava un letto immenso, con un padiglione in seta, il quale corrispondeva pienamente al resto del mobiglio, ricco, e di forme antiche. Tutta quella splendidezza ci pose in un certo imbarazzo, e domandammo fare i nostri patti per il prezzo; ma il vecchietto ci rispose non esservi d’uopo di patti, o di condizioni; bastargli solo che il tutto fosse di nostra convenienza. Pose parimenti a nostra disposizione l’anticamera aderente alla nostra stanza, la quale era fresca, ariosa, con vari balconi. Ci godemmo per tanto la vista bella e variata, cercando formarcene idea precisa dal lato pittorico, imperocchè poteva porgere argomento al pennello, ed alla matita di un artista. La luna, la quale splendeva limpida, c’invitò a girare ancora alla sera per istrada, e tornati a casa, ci trattenne buona pezza sul balcone. La luce era meravigliosa; regnavano un silenzio, ed una quiete piacevolissimi.

Da palermo.repubblica.it del 25 giugno 2021. Adesso un regolamento per disciplinare le grandi operazioni promozionali che utilizzano l'immagine dei beni culturali della città. Il giorno dopo le polemiche per il video della Red Bull, che ha versato solo 182 euro di suolo pubblico al Comune, ma martedì ha paralizzato il traffico della città, l'amministrazione rivendica la bontà dell'operazione, ma ragiona su regole certe per disciplinare altre operazioni in futuro. A partire dalla riproduzione per fini commerciali dei beni culturali, su tutti i Quattro Canti, ripresi sabato mattina mentre la monoposto girava su se stessa. Traffico in tilt a palermo dove la chiusura della zona del Foro italico, in cui si sta girando uno spot con la Red Bull di Formula 1, ha provocato il caos nella circolazione stradale. Il Comune aveva disposto la sospensione della Ztl centrale per la giornata di oggi con l'obiettivo di far defluire meglio il traffico, ma non è bastato. Lunghe code in via Roma e nella zona di piazza Giulio Cesare, alla stazione centrale. Situazione pesante anche nella centralissima via Cavour. Ripercussioni anche in via Montepellegrino, una delle strade adiacenti alla zona del porto. "Secondo l'articolo 108 del codice dei beni culturali è previsto un canone da pagare in casi di riproduzione per fini commerciali di beni culturali, ma il Comune di Palermo, come la gran parte degli altri non ha un regolamento", dice l'assessora alle Attività produttive Cettina Martorana. "Non è impossibile in futuro ipotizzare un piccolo contributo per i costi extra della polizia municipale o dei servizi". Ma il sindaco Leoluca Orlando, ieri pomeriggio, a margine di una conferenza stampa ha anche rivendicato un'iniziativa promozionale "che vedranno 300 milioni di persone. C'è qualcuno che utilizza le criticità di un'amministrazione che viene da 15 mesi di pandemia per distruggere la visione di città che stiamo costruendo", ha detto. L'amministrazione è intervenuta anche sui disagi: "Il sindaco si è scusato e la comunicazione non è stata tempestiva, ma rivendichiamo la scelta di aver dato alla città una grande visibilità con un video che sarà proiettato al Gran premio di Monza - dice l'assessore allo Sport Paolo Petralia, che ha interloquito con le società di eventi che hanno girato per la Red Bull - il problema riguarda un metro quadro in più o in meno di suolo pubblico, ma alcune regole certe per gli altri eventi di promozione internazionale che verranno a Palermo. A questo proposito abbiamo discusso molto con la Red Bull per alcuni eventi specifici che si potranno organizzare in futuro". Ma la notizia del corrispettivo di 182 euro per il suolo pubblico, rivelata da "Repubblica", ha scatenato un vespaio di polemiche sui social e in consiglio comunale. L'assessora Martorana ha spiegato perché la Red Bull, che ha girato su superfici molto estese della città, ha pagato il suolo pubblico soltanto per 160 metri quadrati: "Sono stati concessi solo gli spazi di stazionamento - dice ancora l'assessora - Se ci fossero due tendoni fissi in un punto A e un punto B, in teoria il regolamento comunale consentirebbe di chiedere il suolo pubblico per la superficie che si trova nel mezzo, ma così non è stato, i presidi non erano collegati tra loro". "Girare il video è stata una scelta strategica che porterà un grande beneficio all'immagine della città, ma l'amministrazione ha avuto scarso potere contrattuale se ha acconsentito a richieste di riservatezza e non ha comunicato tempestivamente alla città l'organizzazione delle riprese - dice il presidente della commissione Sport e Cultura di Italia Viva Francesco Bertolino - In mancanza di un regolamento o un tariffario sull'utilizzo dell'immagine dei beni della città, forse si poteva chiedere qualche contropartita di promozione sociale. Ho trovato anche di cattivo gusto le sgommate in un luogo come i Quattro Canti". Il capogruppo della Lega Igor Gelarda ha presentato un'interrogazione su quanto ha versato la multinazionale.

Dopo lo zolfo, il nulla: così la Sicilia è rimasta senza un futuro industriale. Il passato tramontato nel distretto minerario di Agrigento e Caltanissetta è il simbolo della fine di un domani moderno per l’Isola. Ora il paesaggio è punteggiato di ruderi e incompiute costate milioni. Alan David Scifo e Rosario Sardella su L'Espresso il 18 agosto 2021. Nel silenzio di via miniera Ciavolotta, tra le sterpaglie bruciate e i campi ancora gialli volano i corvi, le “ciavole” appunto, come Pirandello aveva chiamato il protagonista di una sua novella, Ciaula scopre la luna, perché il suo lamento risalendo in miniera sembra quello di un corvo. Il territorio tra Agrigento e Caltanissetta, che ha ispirato lui e altri scrittori del Novecento, non può dimenticare il suo passato minerario, quando le due province rappresentavano il cuore pulsante dell’Italia nell’estrazione di zolfo e kainite. E nella zona industriale di Agrigento tutte le vie ricordano quel passato produttivo onorato con la speranza che il futuro sarebbe stato altrettanto fruttuoso. Al termine di queste strade però, ad Agrigento, a simboleggiare la mancata rinascita industriale dell’entroterra siciliano c’è il Palafiera, opera avveniristica, costata più di tredici miliardi di lire insieme al centro direzionale, e rimasto una incompiuta utile solo ai piccioni per nidificare. È il destino dell’illusione industriale della Sicilia, fatta di promesse non mantenute e di un futuro mai raggiunto che ha costretto molti paesini nati con le miniere a svuotarsi per spedire al nord i figli di quegli stessi minatori. Loro avevano costruito case con quei risparmi ma i figli che dovevano essere impiegati in quelle industrie sono già volati via, come corvi. Racconta Giovanni Picone, oggi sindaco di Campobello di Licata, ora al secondo mandato: «Abbiamo cominciato a chiedere interventi quando ero un giovane consigliere comunale ma nulla è cambiato. Le strade sono asfaltate, c’è l’illuminazione al led ma le industrie non ci sono». Nella piccola zona industriale di Campobello di Licata l’erba spunta tra l’asfalto delle stradine interne, queste mai ammodernate: per realizzare quella zona industriale dove ci sono appena tre piccole aziende, negli anni Ottanta, sono state sbancate colline e distrutti vigneti, affinché ricadesse anche nel territorio di Ravanusa, come voleva l’ormai defunto onorevole Salvatore Lauricella. Oggi anche la via che porta il suo nome, è però impraticabile. «Alle poche aziende esistenti manca l’acqua, la linea telefonica non prende, mancano i servizi e manca pure un centro direzionale. Come si può fare industria così?», si chiede Picone. Tra gli innumerevoli scatoloni vuoti immersi tra i vigneti dell’uva Italia, anche il centro direzionale, il palazzo di vetro, è rimasto vuoto. Fino a pochi anni fa, dentro quella struttura, costata 5 miliardi di lire, venivano tenuti i cavalli impiegati nelle corse clandestine. L’ente che doveva occuparsi di quelle zone industriali, l’Asi, è finito in liquidazione dopo aver accumulato debiti per centinaia di milioni di euro. L’ultimo a lanciare una promessa fu Alfonso Cicero presidente dell’altro carrozzone chiamato Irsap, che nel 2014, annunciò la riqualificazione del centro direzionale, mai avvenuta. Ai giganti grigi rimasti vuoti fanno da cornice paesi svuotati, come Casteltermini: la zona industriale era nata dopo la chiusura della più grande miniera di zolfo della Sicilia, la Cozzo Disi, ma oggi dietro alla stazione ferroviaria dove passa un solo treno, ci sono poche aziende rimaste in vita, che insieme riescono a impiegare circa sessanta persone. A pochi passi dall’ex fabbrica Montecatini che ne raccoglieva migliaia fino agli anni Ottanta. «Non è rimasto più nessuno in questa zona industriale c’è soltanto degrado», dice la barista che lavora a due passi dalla statale 189 che attraversa i paesi nati con le miniere. Dietro quell’area industriale mai sviluppata l’unica memoria è quella dei minatori che onorano la seconda settimana d’agosto Maria Santissima Annunziata, protettrice dei minatori della Cozzo Disi: «Preghiamo per i minatori morti in miniera per coloro che hanno lavorato e per tutti quelli che lavorano ogni giorno», celebra don Lo Coco, ostensorio e Bibbia in mano. Il lavoro però a Casteltermini non c’è più e dei 15mila abitanti negli anni delle miniere, ne sono rimasti appena 7mila, tra cui i tre minatori che ogni anno celebrano la Madonna, mentre i loro figli abitano ormai fuori dalla Sicilia. Il ricordo delle miniere è sempre collegato a doppia mandata con la storia delle zone industriali siciliane: «Ieri gli zolfatai… oggi muoiono gli operai del Polo Tessile. Non parole ma lavoro». Così riportava uno striscione portato a mano durante una manifestazione dai lavoratori dei due grandi capannoni che erano sorti, nei primi anni 2000, nell’area industriale collocata a sud del piccolo paese di Riesi, in provincia di Caltanissetta: diecimila anime e con il primato dell’emigrazione all’estero, aveva vissuto un sogno. Le chiamano ancora oggi “le fabbrichette”, e ci lavoravano circa 370 riesini. La maggior parte erano donne. Ricordano bene quei giorni di proteste e quello striscione Sandro, Gianni, Luca, Rosalba, Carla. Sono solo alcuni degli ex operai delle varie società nate sotto la stella “Polo Tessile”. «Era un sogno per Riesi. Tanti giovani, come noi, lavoravano li. Oggi sono tutti andati al nord», raccontano. Davvero un sogno, per la Sicilia tutta, in un territorio che ancora oggi racconta del suo passato, delle miniere di zolfo. Una, la Trabia Tallarita, si trova proprio tra Riesi e Sommatino, percorrendo la strada delle solfare. Lì, in una società satellite lavorava anche il capomafia Giuseppe Di Cristina, ucciso negli anni Settanta a Palermo per volere dei corleonesi di Totò Riina. La Trabia Tallarita per metà è stata riqualificata in un museo, l’altra metà è rimasta incompleta e abbandonata al suo destino. Così come abbondonati al loro destino furono gli operai del “Polo Tessile di Riesi”, creazione dell’imprenditore Pietro Capizzi, che riuscì a sfruttare la concessione di una montagna di soldi pubblici e così costruire una delle più grandi e drammatiche illusioni. All’inizio tutto sembrava andare per il verso giusto, ma dopo alcuni mesi, dai ritardi dei pagamenti ai lavoratori e alle lavoratrici, arriva Guardia di Finanza. Furono poste sotto sequestro le imprese del cosiddetto “Polo tessile di Riesi”, il cui valore complessivo era di circa 26 milioni di euro. Durante l’operazione furono sequestrati depositi bancari, titoli azionari, obbligazionari e di stato, contributi, finanziamenti. Un’illusione, l’ennesima nella terra del Gattopardo. Perché gattopardi lo furono i politici, interessati al consenso elettorale sulle varie casse integrazioni concesse ai lavoratori ormai licenziati. In pochi anni dal sogno si passò all’incubo per chi aveva lasciato la terra di origine, dopo la chiusura delle miniere andando in Belgio o in Germania, ed era tornato per “le fabbrichette”. Debiti, mutui, e di nuovo la valigia pronta per l’Europa. Oltre il lavoro agricolo, spesso in nero, c’è ben poco a Riesi. Fino a poco tempo fa l’unica fonte di reddito erano le pensioni dei minatori appunto. «Quelle fabrichette testimoniano ancora oggi la distruzione di un intero territorio. È stato sbagliato concedere con la legge 488 tutti quei finanziamenti a fondo perduto», dice Salvatore Chiantia, sindaco di Riesi e presidente della cantina sociale La Vite, una realtà imprenditoriale che sta cercando di dare risposte concrete al territorio. «Tra poco inizierà la raccolta dell’uva, e speriamo di poter dare linfa vitale, economicamente parlando. C’è una ripresa dell’attività agricola imprenditoriale che sembra andare nella direzione giusta», dice seduto tra i quadri dei soci. Oggi tutto è più chiaro tra le macerie e la “mattanza” di giovani che sono stati in qualche modo costretti a lasciare il loro paese. Intere vie e quartieri con su scritto “vendesi”, raccontano l’emigrazione a Genova, Torino, Milano e negli ultimi dieci anni a Bergamo. La zona industriale, a due passi dal cimitero comunale, è deserta. Niente più rumori di telai, camion e macchine di operai che entrano ed escono dai cancelli. I capannoni con tutto ciò che contengono sono stati messi in vendita da parte del tribunale fallimentare, nessuno mai ha voluto ricomprare e così riscattare quel poco che ne è rimasto. Non ci riuscì neanche quel mondo dell’antimafia, che poi è andato sotto inchiesta giudiziaria e che faceva capo all’ex presidente di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, che proprio dal fallimento del “Polo Tessile” di Riesi, partorirono l’idea di impiantare in questa area la Zona Franca della Legalità, una zona defiscalizzata per gli imprenditori onesti e vessati dalle cosche. È cambiata anche la narrazione del patron di “Riesi Maglieria” una delle società del più ampio Polo Tessile. Pietro Capizzi non è più il “papà di Riesi”, niente più file di gente alla porta per chiedere un posto di lavoro. L’uomo che vantava di parlare con il “tu” a Benetton, ha lasciato per sempre Riesi e i suoi concittadini. Il tentativo di andare oltre il Petrolchimico di Gela, unico insediamento industriale nella provincia nissena, è andato perduto per sempre.  

Luigi Ficacci, storico dell’arte, per Dagospia il 22 agosto 2021. Catania – Palazzo Biscari - “Mondo – Museo Archeologico del reale”, opera espositiva di Renato Leotta in Palazzo Biscari, curata da Gulli e Scammacca. Capita sempre più di frequente che lo spostamento vacanziero inibisca il fascino delle cose e dei luoghi. Già che il viaggio decada a ‘’spostamento’’, non aiuta. Poi le insoddisfazioni nevrotiche causate da troppa ressa, troppa disorganizzazione, troppa sporcizia, troppi disturbi … insomma, una quantità di ‘troppi’ che ottundono la meraviglia della prima volta. Cosi, l’attesa del piacere estetico non si realizza. Anzi, si dissolve in un nulla del sentimento rispetto a quel contenuto di luoghi e cose. Comunque sia, si tratta di quel sottofondo inesauribile che una pagina di buona letteratura o un’immagine fotografica giusta riescono a suscitare e che invece all’esperienza reale di quelle stesse cose, di quegli stessi luoghi, può restare nascosto e non apparire affatto. Perché proprio per afferrare uno spirito, un’anima, di Palazzo Biscari, forse la dimora più stupefacente di una città preziosa come Catania, ma dall’evidenza intermittente e silente, si sono messi in tre a cercare nei depositi del Castello Ursino. Sono Pietro Scammacca, curatore di arte contemporanea, con esperienze internazionali su potenti quanto segrete radici siciliane; Claudio Gulli, storico dell’arte, dalle raffinate competenze di alta formazione accademica, evolute in profondo impegno siciliano; Renato Leotta, artista dal linguaggio visivo netto come una sciabolata, ora puntato nell’intimo di materia e pensiero siciliani. Si sono uniti, con umore filosofico integralmente magnogreco e, ciascuno nel proprio ruolo, hanno lavorato assieme come rabdomanti, concordi però nella chiarezza della finalità. Dal nulla insensibile che diagnosticavo prima, quello che pare rendere ottuse le cose e i luoghi, hanno così estratto la figura di Ignazio Paternò Castello, quinto Principe di Biscari, vissuto in pieno settecento, che per tutta Europa è il secolo della ragione. Nel suo sontuoso palazzo, in una Catania ricostruita e proiettata verso una vita nuova e moderna, dopo lo sconvolgente cataclisma del 1693, terremoto, maremoto, eruzione, che l’avevano distrutta, ricoprendola di lava nera, aveva creato un suo museo strano, effetto di insaziabile curiosità verso la storia e la natura. Il Principe era proiettato a creare un mondo nuovo, radicato nel suo palazzo e nella sua città. Perciò rincorreva i segreti dell’antichità archeologica del luogo e quelli altrettanto misteriosi della sua natura fisica, per fondarvi una scienza dell’uomo e della materia. Precisare le sue ricerche alla sua terra e circoscriverle alla sua dimora era per lui una garanzia di esattezza empirica. Quando i risultati gli parvero sufficientemente consolidati di contenuti, oggetti archeologici e naturali, testimonianze molteplici, forme significative, nel 1758 lo rese visitabile, istituendo uno dei primi musei a destinazione pubblica della Sicilia. Ma nei decenni successivi i progressi delle scienze produssero conoscenze, ipotesi e ordinamenti differenti, correggendo o smentendo molte delle sue convinzioni. Col tempo, il Museo perse gradualmente di validità. Quando nel 1934 il Castello Ursino fu adibito a Museo Civico della città etnea, la collezione Biscari vi confluì come nucleo fondamentale. Ma logiche e categorie del sapere erano a quel punto completamente mutate, così da spezzettare quella correlazione che il Principe di Butera aveva tramato, per interpretare a modo suo un ideale enciclopedico, inseguito da molti, nel suo secolo. Non comprendendo più questo ordine mentale, i metodi moderni avevano svalutato a fantasticheria l’aspirazione di Ignazio Paternò a comporre un mondo nuovo, basato sulle sue scoperte. Dissolta così l’utopia, il palazzo, che ne era lo scrigno, ne perse la voce. Gli oggetti dal valore riconoscibile, prevalentemente quelli archeologici, finirono inseriti nelle categorie novecentesche del museo civico, il resto decadde a curiosità e stranezza o finì in magazzino. Lì e ricorrendo ai documenti, integrando con prestiti opportuni, i tre rabdomanti d’anima, hanno frugato, alla ricerca di quel sapere che oggi risulta molto prossimo al sogno, ricostituendone la filologia, orchestrandone una scrittura espositiva, creando un significato e un linguaggio da quella immaginazione del Principe che le categorie scientifiche moderne avevano annullato. Ricostruire la nozione di una raccolta dispersa è operazione frequente all’erudizione. Aiuta a capire certe idee nel loro tempo e contribuisce a stabilire una storia del collezionismo. Ma se allo storico si unisce l’artista, assieme alla mano registica del curatore d’arte contemporanea, allora percorso e approdo si fanno radicalmente diversi. Il museo perduto, le ipotesi fantastiche sulle leggi segrete che dominano il rapporto tra fisica -degli astri o della natura terrestre- e umanità, diventano allora la materia, linguistica e tecnica, dell’artista: il suo medium. I significati risultano tutti rimescolati, perché i rabdomanti dell’anima si sono accordati sul tono del gioco e la sua regola, per provocare il rinnovamento dei significati. Questa è la mossa propria dell’arte, nella sua contemporaneità. Così è nato “Mondo – Museo Archeologico del reale”, opera espositiva di Leotta in Palazzo Biscari, curata da Gulli e Scammacca, il cui titolo è illuminante perché rivela l’originalità dell’operazione. Quello spirito che cercavano e hanno recuperato è il lato fantastico della immaginazione del Principe. La sua validità consiste esclusivamente nella possibilità della sua reinvenzione artistica, perché solo l’arte, nella sua attualità assoluta può risarcire quella fantasia, appropriarsene e trasfigurarla, darvi validità di significati originali. Nella temperatura torrida di questi giorni a Catania, risulta di un’attualità assoluta l’interrogativo su cui si articola la sezione di cose naturali, tanto del settecentesco Museo Biscari che della poetica contemporanea di Leotta. Entrambi e simultaneamente indagano per scoprire quale sia il rapporto nascosto tra mare, terra e cielo. Nella mostra, sulla traccia delle tassonomie in cui il sapere empirico si organizza, fino dagli esordi della moderna scienza, una delle articolazioni dell’opera di Leotta è dedicata alla luna. Nello stesso palazzo, sono presentati, in perfetta continuità inventivo – ipotetica, le osservazioni delle tracce prodotte dai cicli lunari sul litorale terrestre, che Ignazio, V principe di Biscari, interpretava come sculture sovra umane, e le graficizzazioni eseguite da Leotta del moto ondoso sulle spiagge durante le basse maree. Per la sua ricerca di realtà, senza alcuna alterazione dovuta all’intervento manuale, sono porzioni di sabbia estratta dalle configurazioni delle rive e trasferita negli stessi armadi del Museo Biscari, tradotti a spazio di esposizione. Ostensione scientifica e cornice allestitiva si identificano, perché l’arte ne unifica materia e linguaggio. Scienza del principe settecentesco e concetto dell’artista del secolo attuale si legittimano nella lingua unificante della fantasia. E il fantasma da cui origina l’intera operazione estetica prende perfino figura fisiognomica, nel ritratto del Principe, una cera policroma che, imitando il vero con effetto illusivo di somiglianza rasente l’ironia, accoglie il visitatore per sedurlo con le trame del Museo. Il reale, che dal titolo della mostra corona e spiega con chiarezza inequivocabile l’arte di Leotta, è dunque l’invenzione della natura e della sua verificabile molteplicità segreta, alternativa alla presunzione delle scienze di ordinare il mondo secondo le proprie classificazioni. Reale quindi è l’attributo dell’arte, veicolo (sortilegio, tecnica, linguaggio) per rinnovare l’utopia del Principe. A fine mostra, gli oggetti che torneranno nelle loro vetrine nel Museo Civico o nei suoi depositi e il Palazzo alla sua vita, non saranno più gli stessi, perché resteranno accesi. Quando si cerca con questo metodo da rabdomanti dell’anima delle cose e dei luoghi, se ne trovano tracce tentacolari all’infinito. Infatti, dal “Mondo” di Palazzo Biscari, deriva un altro progetto espositivo di Leotta, ideato da Scammacca e da lui curato con Gulli. Questa volta nel vicino borgo di Centuripe, “Eros e Psyche”, che loro definiscono una costola del lavoro condotto a Catania. Di lì, determinati a proseguire le loro rabdomanzie per la Sicilia, i tre trovatori di anima si sono dati un nome, spiritosamente accademico, di “Istituto Sicilia”, che indica una continuità e non sarebbe dispiaciuto a qualche discendente ottocentesco del Principe di Biscari. Con questo titolo promettono di ricomparire qua e la per l’isola, dove avranno trovato in materia e spirito la loro alternativa geografia del reale. 

Lucarelli fa la maestrina sui rifiuti di Catania. La giunta Pogliese le spiega un paio di cose che non sa. Luisa Perri lunedì 27 Settembre 2021 su Il Secolo d'Italia. «Cara Selvaggia se la Sicilia ha bisogno d’aiuto io sono d’accordo. Ma non di aiuto esterno. Semmi è quello che ci ha rovinato. Questa terra sconta una arretratezza infrastrutturale anche in ambito ambientale che non è stata voluta da questa terra ma da fuori». Così all’AdnKronos l’assessore comunale all’ecologia di Catania, Fabio Cantarella, replica all’attacco postato sui social dalla blogger Selvaggia Lucarelli sull’emergenza rifiuti che sta colpendo Catania. «Ricordo alla Lucarelli – aggiunge Cantarella – che il piano dei rifiuti della Sicilia è rimasto bloccato sul tavolo del ministro dell’ambiente per troppo tempo». «Ricordo pure a Selvaggia Lucarelli – continua Cantarella – che lo “sblocca Italia” di Renzi all’articolo 5 prevedeva due termovalorizzatori in Sicilia ma due associazioni ambientaliste lo hanno impugnato ed il Tar del Lazio lo ha annullato». «Quindi ancora una volta, fuori da questa terra – ammonisce Cantarella – qualcuno ha deciso le sorti di questa regione ma questo la Lucarelli non lo sa. Dunque -sottolinea ancora l’assessore comunale- lasciateci lavorare e che la Sicilia possa veramente avere autonomia in questi settori delicatissimi che richiedono scelte immediate. Noi vorremmo dei termovalorizzatori come ci sono nel nord Italia e non capisco perché qui non devono esserci». «Ci scusiamo – dice infine Cantarella – con tutti i cittadini che pagano la tassa sui rifiuti e con quelli che fanno la raccolta differenziata. Con gli altri non ci scusiamo. Abbiamo subito il funzionamento a singhiozzo della discarica e purtroppo non avevamo dove conferire i rifiuti. Non appena è stato possibile farlo – conclude- abbiamo ripulito la città in pochi giorni sanificando le zone e le strade in questione». In un lungo e articolato post su Facebook, il sindaco Salvo Pogliese ha spiegato le ragioni dell’emergenza. Ricordando la sciagurata decisione del suo predecessore, Enzo Bianco. «Ci sono tanti fallimenti in questa situazione – ha scritto il primo cittadino catanese – prima di tutto quello del sistema delle discariche; c’è poi la scelta folle, fatta da altri amministratori della Città con il precedente appalto, che ha previsto il “porta a porta” in una parte minima della Città, lasciando a circa 270 mila catanesi le file di cassonetti che si riempiono dei rifiuti anche dell’hinterland, per quel fenomeno ripugnante dei non-catanesi che vengono a gettare l’immondizia da noi, anche in questi giorni terribili, senza rispetto e fregandosene dei cumuli infiniti sulle strade. Ognuno pensa a sé stesso, senza preoccuparsi delle conseguenze. E non abbiamo potuto cambiare sistema – ha aggiunto Pogliese – e non potremo farlo fino alla scadenza contrattuale. Dobbiamo subire e pagare gli errori altrui». Ma sono fatti che la Lucarelli, evidentemente, ignora.

"Disastro in ferie", "Porta rispetto". Rissa con la Lucarelli. Francesca Galici il 16 Agosto 2021 su Il Giornale. Tra immondizia lungo le strade e mancanza di energia elettrica, Selvaggia Lucarelli ha rivelato (con polemica) i retroscena della sua vacanza in Sicilia. Prima o poi nella vita a tutti capita di trascorrere una vacanza da incubo per un qualsiasi motivo. Ci si illude, si idealizza quel luogo che poi si rivela diverso da quello che ci si era immaginati e le cause possono essere innumerevoli. Stavolta è capitato a Selvaggia Lucarelli, che dopo aver attraversato l'Italia da nord a sud ha deciso di stanziare in Sicilia per qualche settimana insieme al suo compagno, al figlio e alla sua fidanzata. La giornalista ha scelto noto per la sua vacanza che, a causa della mancanza di elettricità notturna nella zona e al ben conosciuto problema dei rifiuti in Sicilia, si è trasformata in un'odissea prontamente raccontata sui social. Se fosse una persona qualunque a lamentarsi per i disagi, probabilmente non verrebbe minimamente presa in considerazione ma, trattandosi di Selvaggia Lucarelli, le sue rimostranze hanno fatto molto rumore, tanto da scatenare la risposta del sindaco di Noto.

Le proteste di Selvaggia Lucarelli. Oltre alle belle foto di Noto, la cui magnificenza è conosciuta in tutto il mondo, la giornalista ha mostrato sui social anche the dark side della provincia siracusana, ossia l'annoso problema dei rifiuti accatastati lungo la strada. Un affronto insopportabile alla bellezza del luogo per Selvaggia Lucarelli, che ha denunciato in più riprese la situazione locale, fotografando i sacchi e le cianfrusaglie destinate alla discarica che, invece, si incontrano percorrendo le strade che portano a Noto, ma anche quelle cittadine. Un problema che in parte la giornalista ha attribuito al mancato pagamento della tassa comunale sui rifiuti da parte dei cittadini ma anche dei proprietari delle case che le affittano per le vacanze, com'è successo a lei. A Noto è stata istituita la raccolta differenziata porta a porta e sono spariti i cassonetti, pertanto chi non ha pagato la tassa (e non ha ricevuto i bidoni comunali per smistare la spazzatura) si arrangia in quel modo. Ma c'è di più, perché la Lucarelli ha denunciato anche l'assenza di energia elettrica nelle ore notturne nella villa da lei affittata, che si ripercuote anche nell'assenza di acqua. Un disagio troppo grande che la giornalista ha voluto rendere pubblico attraverso il suo seguitissimo profilo Instagram.

Il botta e risposta col sindaco. Le sue parole sui social hanno portato il sindaco a fornire una risposta pubblica con un lungo post su Facebook. Corrado Bonfanti, al suo secondo mandato come primo cittadino di Noto, dopo aver dichiarato di comprendere e capire le ragioni di Selvaggia Lucarelli, ha scritto: "Gentile signora, così come il suo disagio merita comprensione e rispetto, allo stesso modo la nostra città e il nostro territorio, luoghi unici e ricchi di storia, meritano, anzi esigono, altrettanto rispetto pur nella consapevolezza che molti di noi, che questi luoghi abitiamo, siamo lontani dal farlo, anzi, molto spesso, pronti a rincarare la dose rinnegandoli e profanandoli". Bonfanti, inoltre, ci ha tenuto a specificare che la Lucarelli "ha optato per la scelta di affittare un’intera villa privata, di proprietà di un privato, in un luogo privato". Il sindaco ha menzionato i tanti imprenditori e investitori che cercano di dare un futuro migliore a questa parte di Sicilia, ai giovani che si inventano un lavoro pur di non lasciare la Sicilia, "una comunità che si ritiene, proprio come lei cara signora Lucarelli, offesa e tradita". Bonfanti si chiede, e chiede alla Lucarelli, se "una disavventura può mai arrivare a mortificare una comunità che l’ha accolta a braccia aperte". La replica della giornalista non si è fatta attendere e nel suo lungo intervento di risposta, oltre a ribadire quanto già detto nelle storie precedenti in merito al disservizio dell'energia elettrica e alla spazzatura lungo le strade, oltre che all'assenza dei bidoni nell'abitazione da lei locata, ha sottolineato che le "scrivono tanti, tantissimi siciliani, stanchi della narrazione parziale e ingannevole del luogo in cui tutto è meraviglioso e pulito come le vie del centro. Non bastano un po’ di cipria e il rossetto per ingannare i turisti". Quindi, con tono piccato, rivelando un retroscena: "Dovrebbe essere suo dovere dialogare con chi denuncia i problemi locali, non liquidarlo come un turista capriccioso che si tiene buono facendolo chiamare dal miglior ristorante di Noto per fargli offrire un pranzo. Invito di cui la ringrazio, ma che ho rifiutato cordialmente proprio per sentirmi libera di raccontare la verità". La controrisposta di Bonfanti non si è fatta attendere: "Gentile signora, quindi sarei responsabile di non averle fornito dei mastelli per i rifiuti e, soprattutto, sarei responsabile di averla invitata a cena per farla tacere. Signora Lucarelli, grazie per la sua risposta, non c'è dubbio che palesa una sua ingiustificata indisposizione".

La denuncia di Selvaggia Lucarelli. "Dovrei dire che sono delusa da quello che ho visto, ma la verità è che sono delusa da quello che ho capito. Ho avuto un’esperienza disastrosa (la prima nella vita) nell’affittare una casa e tutto questo, come un vaso di Pandora il cui contenuto è un caos indifferenziato, mi ha mostrato la difficoltà nel dire le cose ad alta voce da queste parti", ha scritto Selvaggia Lucarelli nel post conclusivo della sua vacanza. "Mostrare solo la bellezza (abbagliante) di questa Sicilia sarebbe tradire il mio mestiere e il mio piacere. Nella casa in cui sono ho avuto mille problemi: luce e acqua che andavano via per problemi in parte dell’Enel e in parte del locatore che ha una trivella per l’acqua e nessun generatore", ha proseguito la Lucarelli, che in quasi tutti i suoi post di protesta ci ha tenuto a sottolineare di trovarsi in una villa lussuosa, a un certo punto definita "faraonica".

 Dal Profilo di selvaggialucarelli

Verificato. Da dove cominciare? Forse dalla fine. Domai andrò via da Noto con qualche giorno di anticipo dalla tabella di marcia. Dovrei dire che sono delusa da quello che ho visto, ma la verità è che sono delusa da quello che ho capito. Ho avuto un’esperienza disastrosa (la prima nella vita) nell’affittare una casa e tutto questo, come un vaso di Pandora il cui contenuto è un caos indifferenziato, mi ha mostrato la difficoltà nel dire le cose ad alta voce da queste parti. Che novità, direte voi. Già, l’unica novità sta nel fatto, forse, che per la mia promozione (sempre gratuita e senza alcun ritorno) di un luogo in cui sono in vacanza, questa volta ho deciso di non scegliere solo le foto migliori. Perché mostrare solo la bellezza (abbagliante) di questa Sicilia sarebbe tradire il mio mestiere e il mio piacere. Nella casa in cui sono ho avuto mille problemi: luce e acqua che andavano via per problemi in parte dell’Enel e in parte del locatore che ha una trivella per l’acqua e nessun generatore. Soprattutto, mentre raggiungevo le mete più belle di questa Sicilia, mi imbattevo nelle cose più brutte. Quella Noto che tanto avevo immaginato era coerente nella sua meraviglia finché non si allargava lo sguardo. Noto è stretta in una morsa di rifiuti prepotente e nauseabonda. Rifiuti che non si nascondono, ma che sono ovunque. Nelle vie che portano alla cittadina, davanti agli ingressi dei grandi resort, sulle strade per l’oasi di Vendicari, nella stessa Noto, se si sposta lo sguardo poco più in là dal centro. Frigoriferi, pannolini, tv, perfino un biliardino in bella vista. E poi discariche abusive ovunque a cui si dà fuoco, che si rigenerano all’istante. Il paradosso è che qui la differenziata è obbligatoria: si paga la Tari e il comune fornisce i cesti (mastelli) per suddividere. Si passa a prelevare il tutto porta a porta. C’è circa il 60% di evasione. Chi non vuole pagare, chi ha la casa abusiva e non vuole auto-denunciarsi, chi si scoccia nel separare la carta dalla frutta. (il testo continua sotto nei commenti) #noto #sicilia

La Lucarelli e l'inferno di discariche: "Qua nessuno vuol metterci mano". Giuseppe Spatola il 21 Agosto 2021 su Il Giornale. Basta girare per le campagne tra Noto, Rosolini e Pachino, fino a Modica, Ragusa e Scicli per trovare conferma delle denunce. "Tutti vedono lo schifo, nessuno sa cosa fare". L’asfalto ribolle ad ogni metro e fuma rovente sotto il sole dell’agosto più caldo della storia europea. Lunghe lingue di catrame marcano il confine tra Siracusa e Ragusa incorniciano quelle campagne dove crescono i pomodorini pachino, il “tarocco" siciliano, i limoni di Montalbano o pascolano placide e stanche le vacche modicane. Qui, dove il sud Italia sarcasticamente è definito meglio come "nord-est produttivo dell’Africa", le discariche non sono solo a cielo aperto ma libere, diffuse e tutte naturalmente abusive. Non c’è metro di strada, che sia poderale, provinciale o statale, che non conosca sacchetti abbandonati, pneumatici gettati senza criterio e addirittura mobili lasciati all’addiaccio ad aspettare che qualcuno li porti via e li smaltisca regolarmente. E a nulla servono i cartelli in cui si invita a "non gettare rifiuti".

L’inferno fatto di discariche abusive. A Noto, Rosolini e Pachino, sconfinando poi nel ragusano fino a Modica, Ragusa e Scicli, le campagne paiono un inferno con le contrade più isolate che sono i suoi gironi più profondi soffocati dall’immondizia. Basta imboccare la sp 26 all’uscita dell’autostrada Siracusa-Gela (mai ultimata e monca fino a Ispica) di Rosolini e dirigersi verso le meravigliose spiagge di San Lorenzo e Vendicari (oasi naturale) o puntare all’Isola delle Correnti, dove si incrociano Ionio e Mediterraneo con l’Italia che tocca il suo più estremo sud, per dare conferma alla denuncia di Selvaggia Lucarelli. La blogger ha sollevato il "caso discariche" durante la sua vacanza a Noto immortalando tutto sui suoi social. Anche nella vita reale i chilometri di strada del lembo più meridionale del siracusano sono scanditi da ininterrotti cumuli di macerie e sacchetti gettati ignobilmente tra i campi.

Contadini scoraggiati e dito puntato sugli stranieri. Poco riescono a fare i contadini della zona che cercano invano di tenere almeno puliti i propri confini. "Ca nissuno voli metterci manu, si mori ro fietu..." (Qua nessuno vuole metterci mano, si muore dalla puzza, ndr), ripete un giovane manovale impegnato a smontare una delle migliaia di serre alzate per i meloni gialli. Eppure qualcuno getta sacchetti, abbandona frigoriferi e pneumatici. "Sono gli stranieri, nessuno di loro fa la differenziata. I sacchetti li gettano dalle auto andando a lavorare nei campi...", accusano in tanti ma senza prove provate. Tutti vedono lo schifo, nessuno sa cosa fare. Neppure la politica, che ha anche cercato di mettere ordine nel disordine delle campagne. "A Rosolini abbiamo avviato la differenziata e anche i parroci hanno cercato di sensibilizzare la popolazione chiudendo le omelie invitando ad andare in pace e fare la differenziata", dice l’ex sindaco Giuseppe Incatasciato.

L’esercito per i nuovi Vespri. Qualcuno chiede l’Esercito da impegnare in una nuova campagna dei Vespri siciliani a battere i campi e magari ripulire le strade non dai delinquenti ma dai rifiuti. Come dire che il problema esiste ed è noto anche a Noto, proprio dove Selvaggia Lucarelli ha denunciato i più grandi disservizi e dove il sindaco Corrado Bonfanti ha però fatto spallucce e rispedito le critiche al mittente. "Una disavventura può mai arrivare a mortificare una comunità?", si è chiesto il sindaco della capitale del Barocco scelta da Fedez e Chiara Ferragni per il loro "sì".

La Regione. Da Palermo l'assessore regionale Daniela Baglieri ha ribadito come le discariche abusive a Noto siano inammissibili. "Non è ammissibile che il valore delle risorse turistiche del territorio siciliano venga deturpato a causa dei rifiuti abbandonati per strada", ha detto l’assessore all’Energia e ai Servizi di pubblica utilità. Le discariche abusive che invadono le strade di numerose città siciliane mettono a rischio non solo l’ambiente ma pure il sistema turistico. "Il problema dell'abbandono della spazzatura in strada – aggiunge l’assessore – non è nuovo per i siciliani e non rappresenta affatto un bel biglietto da visita per le nostre città. Occorre massima vigilanza sul rispetto dei contratti di raccolta". Intanto le strade sono immense discariche che accolgono i turisti alle porte di Scicli, indicano la strada verso Vendicari o segnano il passo tra gli agrumeti della valle dell’Eloro. Se è vero che tutte le strade portano a Roma qui la Capitale rimane più distante di Tunisi.

Giuseppe Spatola. Sono nato a Modica (Ragusa) il 28 ottobre 1975 e subito adottato dalla Lombardia dove ho vissuto tra Vallecamonica, Milano, Pavia e lago di Garda bresciano. Giornalista professionista, sono sposato con una collega, Carla Bruni, e ho due figlie, Ginevra e Beatrice, con cui vivo a Desenzano insieme a due cani e quattro gatti.  Ho frequentato la facoltà di Scienze Politiche a Pavia e il corso triennale in Sociologia dell'Ateneo di Chieti. Già consigliere nazionale dell'ordine dei giornalisti, segretario della commissione ricorsi, sono stato anche consigliere dell’Associazione Lombarda dei giornalisti e consigliere regionale dell'Ordine. Premio cronista dell'anno con menzione speciale del Vergani nel 2016, ho scritto un libro storico sugli Spedali Civili edito nel 2014 e pubblicato per l'Unione Europea un manuale sulle F

(ANSA il 9 luglio 2021) - Andavano a fare la spesa o a fare jogging pur risultando presenti al lavoro. Una nuova inchiesta sui "furbetti del cartellino" investe i dipendenti del Comune di Palermo e di alcune società partecipate, in servizio presso i Cantieri culturali alla Zisa. I finanzieri del comando provinciale hanno eseguito un'ordinanza di applicazione di misure cautelari emessa dal gip del capoluogo nei confronti di 28 persone. Per 8 sono scattati gli arresti domiciliari; per altri 14 l'obbligo di dimora e di presentazione alla pg; per 6 solo quest'ultimo. Sono indagati a vario titolo per truffa a danno di un ente pubblico e falsa attestazione. I destinatari del provvedimento cautelare sono tutti dipendenti del Comune di Palermo (11), del Co.I.M.E. (3) e della Re.Se.T. (14), in servizio presso i Cantieri Culturali della Zisa. Tra di loro anche un soggetto indagato per mafia. Le indagini condotte dagli investigatori del nucleo di polizia economico-finanziaria di Palermo-gruppo tutela mercato beni e servizi, diretto dal colonnello Gianluca Angelini, attraverso videoriprese, appostamenti, pedinamenti ed esami documentali, hanno fatto emergere numerosi e reiterati episodi di assenteismo perpetrati dai dipendenti infedeli che, secondo le indagini, dopo aver attestato la propria presenza in servizio, si allontanavano arbitrariamente dal luogo di lavoro per dedicarsi ad attività di natura privata e personale, come acquisiti o pratiche sportive. Molto frequenti erano poi i casi di timbrature multiple da parte di un singolo soggetto per conto di diversi colleghi che in realtà non erano presenti. In altri casi, invece, veniva fatto illegittimamente ricorso allo strumento straordinario della "rilevazione manuale", che consente in caso di "dimenticanza" del proprio badge personale, di attestare la propria presenza tramite comunicazione scritta. In questo modo gli indagati pensavano di aggirare la rilevazione automatica, che tuttavia i finanzieri hanno puntualmente ricostruito. Una telecamera nascosta proprio a ridosso dell'apparecchio per la rilevazione elettronica delle presenze ha consentito, in poco più di tre mesi, di registrare oltre mille casi che hanno determinato una falsa rendicontazione per un ammontare complessivo di circa 2.500 ore di servizio in realtà mai prestate.

Assenteismo e furbetti del cartellino, 28 indagati a Palermo: “Anarchia amministrativa”. Le Iene News il 9 luglio 2021. Nuovo clamoroso caso di “furbetti del cartellino” a Palermo: risultavano regolarmente al lavoro ma magari erano a fare la spesa o jogging. La Finanza: “Quasi assoluta anarchia amministrativa”. Competitiva con “il bomber dei furbetti”, che avrebbe incassato 15 anni di stipendio in un ospedale di Catanzaro senza mai lavorare un giorno e che abbiamo beccato con Antonino Monteleone. Risultavano regolarmente al lavoro ma in realtà erano andati a correre o a fare la spesa. La nuova inchiesta sui “furbetti del cartellino” riguarda alcuni dipendenti del Comune di Palermo e di società partecipate nei Cantieri culturali alla Zisa e ha portato a misure cautelari per 28 persone a vario titolo per truffa a danno di un ente pubblico e falsa attestazione. Tra queste figura anche un indagato per mafia. Il malcostume sembra continuare dunque. In un paese che ha visto da poco smascherato “il bomber dei furbetti”, tra i più ricercati dai media di mezza Europa: avrebbe preso lo stipendio per 15 anni senza mai andare al lavoro. Noi con Antonino Monteleone siamo riusciti a incontrarlo in maggio nel servizio che vedete qui sopra. Il generale della Guardia di Finanza Antonio Nicola Quintavalle Cecere, comandante provinciale di Palermo, parla per il nuovo episodio di “un contesto di quasi assoluta anarchia amministrativa”, con assenteismo “cronico”, “estremamente diffuso all’interno della struttura pubblica cittadina”, tanto da “essere considerato normale". Alcuni degli indagati avrebbero costituito delle vere e proprie "squadre di lavoratori assenteisti” organizzati per reciproche timbrature multiple dei badge. A incastrare i furbetti sono state le telecamere piazzate dai finanzieri, in poco più di tre mesi sono stati registrati oltre mille casi di infedeltà nell’attestazione degli orari con circa 2.500 ore dichiarate e mai lavorate. Tantissime, anche se non possono eguagliare il record di Salvatore Scumace che, secondo le indagini della Guardia di Finanza, si sarebbe intascato 15 anni di stipendio in un ospedale di Catanzaro senza presentarsi mai al lavoro. Anche in quell’ospedale purtroppo ci sarebbero stati dipendenti che arrivavano, timbravano e invece di andare al lavoro facevano altro: chi se la spassava alle macchinette di videopoker, chi andava a farsi due passi. E anche qui c’erano anche gli altruisti… timbravano e timbravano per altri colleghi che non si presentavano a lavoro. Come vedete qui sopra, Antonino Monteleone incontra prima l’avvocato Francesco Procopio, il nuovo commissario straordinario dell’Azienda ospedaliera di Catanzaro, con cui cerchiamo di ricostruire la storia di Scumace che sulla carta faceva parte di un ufficio con una funzione molto importante: “Un gruppo di persone che sta in ospedale e si occupa della prevenzione degli incendi”. È il 2005: “Scumace non ci va mai, tanto è vero che non risulta inserito nei turni di servizio”. Ma come fa a sfuggire a quei turni? “Nessuno sapeva chi fosse perché non aveva timbrato neppure una volta, il sistema non l’ha mai agganciato. Veniva pagato solo sul fatto di essere dipendente”. I mesi passano e diventano anni. Ma quella strana matricola invisibile a un certo punto desta dei sospetti. “Ci sono state segnalazioni da parte del responsabile”, prosegue l’avvocato. Ma, secondo quanto emerge dalle indagini, sarebbe accaduta un’altra cosa gravissima. Dopo aver fatto le segnalazioni, la responsabile dell’ufficio di Scumace “viene avvicinata da un soggetto diverso che gli dice di lasciar perdere, che potrebbero esserci dei problemi”. Dopo questo, l’uomo torna nell’oblio. E in 15 anni di stipendio “il bottino”, secondo le indagini, avrebbe superato i 500mila euro. Poi arriva il peccato di gola, quando l’azienda ospedaliera stava distribuendo i premi di produzione per alcuni dipendenti: “Lui si presenta in azienda a protestare perché non ha ricevuto il premio di produttività”. L’ospedale fa un incrocio dei dati e scopre l’inghippo. Ma come è possibile che i vari dirigenti per tanti anni non si siano accorti di nulla? Monteleone va a parlare con chi, secondo le indagini, avrebbe delle responsabilità. E anche da Scumace per chiedergli come abbia fatto, mentre i media di mezzo mondo cercavano di incontrarlo perché del suo caso hanno parlato in tantissimi tra cui, solo per citare due casi, la Bbc e il New York Times.

Da "gds.it" il 10 luglio 2021. Tra gli indagati accusato di essere un furbetto del cartellino nell'inchiesta della guardia di finanza e colpito dall'obbligo di dimora c'è anche Isidoro Chianello, 60 anni, padre di Angela, diventata famosa come "Angela da Mondello" per la frase "non ce n'è Coviddi". Un'affermazione che è poi diventata un tormentone nel periodo della pandemia e anche una canzone. La donna ha avuto un periodo di celebrità anche sui social. I suoi profili hanno collezionato fino a 100 mila follower. La donna è apparsa più volte in trasmissioni televisive. C'era poi chi timbrava mentre faceva jogging e chi andava in alcuni negozi durante l'orario di lavoro. E anche chi, come Tommaso Lo Presti, già indagato in inchieste di mafia, mentre era ricoverato in ospedale risultava al lavoro. Lo Presti aveva dimenticato di avvertire l'impiegato che utilizzava il suo badge ogni giorno. Servizio che andava avanti in modo automatico anche quando l'impiegato aveva presentato regolare certificato medico per un ricovero ospedaliero.

Riccardo Arena per “la Stampa” il 19 agosto 2021. La prima cosa che ti prende come un pugno allo stomaco non si può rendere sulla carta né in video né in altro modo, non si può comprendere se non si entra materialmente nel girone infernale del cimitero palermitano dei Rotoli. È la puzza. Una dannata puzza di morto, se vogliamo usare un linguaggio da film western. Perché, se ne parli senza avere un congiunto, un familiare, un genitore, un fratello, un figlio tra le mille bare in attesa di sepoltura nella Palermo del XXI secolo, magari non ti fa tanto effetto. Ma immaginate chi, per "pietas", per affetto, per dolore, per la speranza di poterlo finalmente seppellire, va a trovare un defunto che era una persona cara. Immaginate di sentire l'odore acre e nauseabondo della sua e di 999 altre contemporanee decomposizioni, accelerate dal caldo, il terribile caldo siciliano di queste settimane. E se poi la decomposizione si vede pure materialmente, con tracce evidenti che spuntano sotto e accanto alle bare accatastate dove capita, il dolore si centuplica, si mescola allo schifo e si trasforma in rabbia. Benvenuti all'inferno. Storia per stomaci forti, questa. Storia che si snocciola in mezzo alla gente sparuta che in questi giorni a cavallo di Ferragosto trova il coraggio di andare alla ricerca delle bare dei parenti, degli amici, che l'amministrazione comunale di Palermo, guidata da Leoluca Orlando, non riesce a seppellire. Storia di inefficienza e burocrazia, di rimpallo di competenze e di incapacità di trovare una soluzione che sia veramente tale. Storia di sopraffazione e rassegnazione, perché va avanti da così tanto tempo, dalla seconda metà del 2019, che rientra quasi nella normalità di una Palermo che normale veramente non lo diventerà mai. Quando Gianluigi Nuzzi scrisse sulla Stampa, alla fine di giugno del 2020, facendo conoscere il caso a livello nazionale, le bare insepolte ricoverate (si fa per dire) sotto i tendoni, i gazebo, ma anche in uffici, sopra impalcature, a terra, nei gabinetti, erano "appena" 480. Ora viaggiano tra 975 e mille, soglia psicologica difficile da accettare e per questo probabilmente occultata in questo macabro calcolo quotidiano. Non c'è posto, mancano gli spazi per l'inumazione e i loculi; gli altri due cimiteri comunali, Cappuccini e Santa Maria di Gesù, sono piccoli, la costruzione del quarto, a Ciaculli, borgata intrisa di mafia, è lontana anni luce. I privati che gestiscono il camposanto di Sant' Orsola non sono tenuti a ospitare le salme. Forse lo faranno adesso, dopo l'ordinanza del sindaco. Ma intanto, racconta Giuseppe, giovane e disfatto perché lì ai Rotoli ha la madre e un fratello privi di sepoltura, «non si trova nemmeno il posto per mettere la bara per terra». Gli fa eco il padre, Paolo, che è lì con lui: «Sono buttati così, come le cose. Chi arriva prima si sistema, gli altri poi si vede». La signora Maria commenta: «Non ci è possibile portare un fiore ai nostri cari, ma è possibile tutto questo?». E mostra il tappeto di bare da percorrere per arrivare alla cassa in cui c'è la madre, mentre stringe la mascherina al viso, non certo per paura del Covid. Storia disgustosa quanto brutta. Perché nei giorni scorsi il direttore del cimitero di Santa Maria dei Rotoli, Leonardo Cristofaro, ha preso tastiera e video e ha scritto una mail al capo di gabinetto del sindaco, Sergio Pollicita: le bare scoppiano, gli ha comunicato, ma non tanto per dire. Scoppiano, sì, è un processo naturale causato dalle alte temperature. E così, mentre Matteo Salvini coglie la palla al balzo e preannuncia una visita al cimitero della borgata marinara palermitana, per sfidare il nemico Orlando, lo stesso sindaco di lungo, lunghissimo corso (con alcune pause lo è dal 1985) litiga col Consiglio comunale ed emana ordinanze che in sostanza avrebbe potuto firmare un anno, un anno e mezzo fa, per cercare di trovare una soluzione. C'è un'altra signora, in mezzo ai gazebo pieni di morte sospesa, che decide di affrontarlo con grande rispetto ma direttamente: «Sindaco Orlando, non so se è lei la persona interessata». Non dice il nome, ma non per paura o reticenza, perché si mostra anche alle telecamere, sistemandosi gli occhiali di tartaruga e ravviandosi i capelli lunghi e mossi, poco curati nei giorni del dolore senza fine della mancata sepoltura del padre: "Se è lei la persona interessata, è a lei che mi rivolgo. Non userò parole offensive. Le parlo civilmente da palermitana, perché lei possa fare, per favore, qualcosa. Si prenda cura dei suoi palermitani. Per favore, glielo chiedo, sindaco Orlando». Parole che sintetizzano il rapporto viscerale, unico, strano, che c'è tra il sindaco e la sua Palermo. Faccia qualcosa per i palermitani, gli dicono i cittadini e anche quelli della Lega e delle opposizioni di centrodestra, oggi diventati maggioranza in Consiglio comunale. Ma Leoluca Orlando, nel pieno dell'emergenza bare e dei rifiuti che affollano le strade della città, vuota di persone per le ferie ma piena di spazzatura per le inefficienze dell'azienda comunale, si rivolge invece all'Onu: «Il Consiglio di sicurezza batta un colpo - scrive -. In Afghanistan c'è un'emergenza umanitaria che impone interventi immediati». Le bare di Palermo possono aspettare.

"Esplodono le bare": è allarme al cimitero di Palermo. Valentina Dardari il 17 Agosto 2021 su Il Giornale. Nel cimitero dei Rotoli le bare accatastate sono quasi mille. La Lega ha annunciato una interrogazione parlamentare. Il cimitero dei Rotoli di Palermo è in piena emergenza. Sono infatti quasi mille le bare accatastate in attesa di essere interrate. Tutto ha avuto inizio nell’autunno del 2019 e da allora le bare hanno cominciato ad aumentare e, complici le alte temperature degli ultimi mesi, a diventare un "grave pericolo sanitario, perfino secondo il Comune di Palermo. Lo scandalo del cimitero Rotoli nel capoluogo siciliano, sarà oggetto di una interrogazione parlamentare del senatore Matteo Salvini che prossimamente intende fare un sopralluogo" ha fatto sapere l'ufficio stampa della Lega al Senato. Oggi, come riportato da il Giornale di Sicilia, il report di inizio agosto della Reset, partecipata del Comune di Palermo, registra 242 bare a terra e altre 733 sugli scaffali fino a esaurimento posti.

Il cimitero in emergenza dal 2019. Immagine terribile aggravata anche dal gran caldo che, provocando la rottura dei feretri, fa letteralmente “scoppiare” le bare. Il direttore del cimitero, Leonardo Cristofaro, ha spiegato che "senza fosse di inumazione o cassoni di zinco la situazione non potrà che ulteriormente peggiorare sino a diventare un pericolo sanitario grave”. Quello che sta accadendo al camposanto dei Rotoli è una situazione che si protrae dagli anni ’80 ma che dalla fine del 2019 è diventata sempre più preoccupante. Soluzioni tampone adottate negli scorsi anni non sono riuscite a risolvere il problema. Alcuni interventi sono stati programmati in passato, ma nessuno è stato mai fatto o comunque completato. Primo fra tutti quello riguardante le estumulazioni dei loculi a parete lungo l'asse che costeggia la via Papa Sergio, dove in questo modo si potrebbero utilizzare circa mille posti. Proprio il numero che servirebbe adesso. Nel 2020 il cimitero era finito alla cronaca anche per la compravendita illegale dei loculi con un presunto giro di mazzette. Erano stati indagati 8 dipendenti comunali e 2 medici, oltre ad alcune agenzie funerarie. Nel 1982 venne costruito un forno crematorio durante una preoccupante saturazione dei posti. Peccato però che il servizio in questione non funzioni da parecchio, costringendo coloro che vogliono cremare i propri defunti a rivolgersi a Reggio Calabria o a Messina. In progetto ci sarebbe un nuovo forno finanziato nel 2015 con una posta di bilancio di circa 3 milioni di euro, ma non è mai stato fatto. Si è provato anche a un gemellaggio con il cimitero di Sant'Orsola, sempre a Palermo, dove dirottare lentamente qualche decina di feretri. Ma anche questa soluzione non ha aiutato granchè.

Salvini farà un sopralluogo. Nelle ultime settimane la situazione è peggiorata ulteriormente. Prima di Ferragosto Cristofaro ha scritto al capo di gabinetto Sergio Pollicita, spiegando che "a causa della mancanza di fosse dove operare inumazioni, oltre alle elevate temperature, numerosi feretri hanno cominciato a percolare copiosamente. La situazione è ormai tale da imporre l'immediata inumazione o l'acquisto improcrastinabile e urgentissimo di un congruo numero di sovracasse di zinco destinate a contenerli". A intervenire è stato il leader della Lega Matteo Salvini che ha annunciato una interrogazione parlamentare. In una nota l’ufficio stampa del Carroccio ha sottolineato che vi sono bare accatastate da mesi e che adesso, complici le alte temperature, possono diventare un grave pericolo sanitario. “Lo scandalo del cimitero Rotoli nel capoluogo siciliano sarà oggetto di una interrogazione parlamentare del senatore Matteo Salvini che prossimamente intende fare un sopralluogo" è stato infine comunicato. 

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni. 

Felice Cavallaro per corriere.it il 27 marzo 2021. Il dramma e la vergogna delle bare accatastate fra magazzini e tendoni di fortuna si consuma da anni in una Palermo dove sulla gestione dei cimiteri la procura della Repubblica ha aperto sei inchieste con arresti e incriminazioni. Periodicamente arrivano impegni e promesse per risolvere un problema che invece si amplifica. Appena due mesi fa il sindaco Leoluca Orlando, sostituito l’assessore al ramo, aveva detto di assumersi ogni responsabilità: «Comprese quelle non mie perché un cittadino non può tirarsi indietro». Ne parlò dopo Capodanno davanti all’imbarazzo di 600 bare ammucchiate al cimitero dei Rotoli. E adesso, più di due mesi dopo, abbiamo superato le 800 bare che un consigliere di opposizione, il leghista Igor Gelarda, ha filmato con il suo cellulare.

La concessione dei loculi. Un documento che, al di là di ogni contrapposizione politica o di ogni eventuale uso strumentale, costituisce una denuncia pesante. Orlando aveva detto a gennaio, con una certa soddisfazione, che su questa drammatica questione un po’ tutti stavano forse evitando speculazioni elettorali. E tanti hanno atteso i progetti annunciati. A cominciare dal reperimento di alcune centinaia di posti per procedere a una riduzione delle concessioni dei vecchi loculi da 50 a 30 anni, in modo da liberarne in prospettiva più di tremila. Seppure con disappunto di chi vorrebbe potere continuare a pregare i propri cari là dove riposano.

L’affare del forno crematorio. Devastante il quadro illustrato da Gelarda: «Ci sono 800 salme a deposito, molte per terra, fra tensostrutture e vari depositi disseminati all’interno cimitero». Nessuna notizia sull’annunciata sistemazione del vecchio forno crematorio. Altra vergogna che si trascina da anni con soddisfazione di chi offre costosissimi servizi trasportando le bare dalla Sicilia fino in Campania per le operazioni relative. E il nuovo forno crematorio tante volte annunciato? «Manca il collegamento con la rete fognaria, un grosso problema», hanno risposto i responsabili del cimitero a Gelarda che invoca date certe sul progetto del nuovo cimitero. Anche questo rimasto sulla carta in una città dove già si parla di trasferire alcune centinaia di salme in altre regioni. Senza pace per chi se ne va e per chi resta piangendo sotto un capannone.

Laura Anello per “la Stampa” l'11 aprile 2021. A Nicolò Cricchio, nato il 14 gennaio del 1924 e morto il 15 gennaio 2021, è andata bene: in vita perché è riuscito a festeggiare ben 96 primavere, e in morte perché sta nel deposito di serie A. La bara è a terra, d'accordo, sul pavimento nudo, ma al coperto e all'asciutto nella sala restaurata e intitolata «al sindaco del rinnovamento Pietro Bonanno» - recita la lapide - le cui spoglie furono custodite qui per cinquant' anni. Lui era in beata solitudine, mentre adesso Nicolò è in folta compagnia, stipato insieme con altre centinaia di bare, una sull'altra in attesa della sepoltura impossibile. C'è Gaetana Palumbo, una veterana, in attesa di una tomba dal 21 agosto 2020, così come Lidia Arnone, o Michele Gulizzi, che aspetta dal settembre, e da allora sorride da una fotografia provvisoria su un cartello delle pompe funebri dove lo si rassicura del fatto che «la sua cara memoria rivivrà eternamente nell'animo di quanti lo conobbero e gli vollero bene». Vietato morire, a Palermo. Vietato morire se non hai la fortuna di una sepoltura gentilizia o di qualche migliaio di euro in tasca per comprare un loculo nel cimitero privato di Sant' Orsola. Per tutti gli altri c'è un'attesa senza fine - prologo dell'eternità - in una delle centinaia di bare accatastate in ogni spazio libero dello storico camposanto comunale di Santa Maria dei Rotoli, tra un costone pericolante del Monte Pellegrino e l'azzurro del mare. Sono ottocento, un esercito di defunti insepolti che si ingrossa di cinquanta nuovi arrivi al giorno e che - complici i morti del Covid - a giugno si prevede arrivi a duemila. «Ma dove li dovremo mettere?» dice un necroforo, sguardo candido come la tutona bianca che indossa. Già, dove? Sono finiti i posti, pure quelli nella terra nuda. E ogni acquisto di piccoli loculi prefabbricati è poca cosa, come svuotare l'oceano con il cucchiaino. Da vent' anni gli uffici si rimpallano il progetto di un nuovo cimitero nella borgata di Ciaculli - terra di manderineti diventata famosa per la famiglia mafiosa di Michele Greco, il "papa" di Cosa Nostra - ma adesso che l'emergenza è esplosa l'amministrazione ha realizzato che ha solo quindici milioni di euro in cassa quando ne servirebbero ottanta. Leoluca Orlando, il sindaco-icona che ha riaperto il Teatro Massimo chiuso per 23 anni che ha convertito il terrapieno brullo del lungomare in un immenso prato verde, non è riuscito a dare un cimitero ai suoi cittadini. In consiglio comunale, non ha potuto che assumersi personalmente la responsabilità: «È colpa mia». Sì, perché all'ennesimo assessore liquidato, all'ennesimo dirigente fatto ruotare, all'ennesima inchiesta sulla corruzione dei dipendenti o sulle infiltrazioni malavitose, Orlando a luglio scorso ha preso l'interim sui cimiteri. Ci ha messo la faccia. Ma neanche questo è bastato a garantire ai palermitani una sepoltura degna, paradosso per una città che ai morti dedica pure una festa - il 2 novembre - con tanto di regali, dolci tipici e tradizioni. La città che custodisce, nelle sue Catacombe dei Cappuccini, quella che è stata definita la mummia più bella del mondo, la piccola Rosalia, morta a due anni e ancora intatta, curata come una bambola. Primi Novecento, gli anni in cui - racconta lo studioso di mummie Dario Piombino Pascali, conservatore ai Cappuccini - «il siciliano Alfredo Salafia aveva inventato la formula con cui eternare gli uomini e le donne, e l'aveva esportata perfino negli Stati Uniti». Poi vennero le guerre, con le loro carneficine, e la cura dei morti (di coloro che se lo potevano permettere) passò in secondo piano. Erano troppi. Sembra un passato remoto, mentre si percorre il viale del cimitero che porta a monte e si incrociano due giganteschi gazebo bianchi dove sono accatastate centinaia di casse. Effetto straniante: la luce della primavera, i gazebo che evocano cocktail in riva al mare e sotto i morti. I più fortunati hanno i feretri collocati su ripiani di metallo, gli altri stanno a terra, e la speranza è che non piova. Sulla bara di Giovanna Vitale, nata nel 1944 e morta tre mesi fa, c'è una scritta che appare un auspicio: «Salma per inumazione al cimitero dei Rotoli», accanto c'è Giuseppe Giuliano, vissuto neanche trent' anni e da uno in attesa di sepoltura. E poi gli ultimi, ancora pieni di fiori freschi e di cuori, di cartoncini colorati. A Giuseppe Caccamo - cui tocca a terra uno strapuntino - hanno portato perfino una piccola colomba pasquale. Nel suo cartone, chiusa, nessuna la mangerà. D'altronde, anche i Greci e gli antichi romani lasciavano cibo per i morti. Li guardi, uno dopo l'altro, questi occhi che sorridono dalle fotografie, e pensi alle braccia che li hanno accolti quando sono nati. Culle, corredi, regali, feste, parenti. Adesso sono disperatamente soli.

La Sicilia devastata dagli incendi, ecco le mani che hanno acceso i roghi. Allevatori, agricoltori, precari forestali e chi ha interessi speculativi nelle riserve e in alcuni terreni. Le indagini degli inquirenti seguono queste piste e dalle intercettazioni arrivano le prime conferme. Nell’isola bruciati quasi gli stessi ettari della Grecia, pur essendo cinque volte più piccola. Antonio Fraschilla su L'espresso il 10 settembre 2021. Sui tornanti della statale che dall’autostrada sale verso Polizzi Generosa a un tratto nonostante la giornata di sole abbagliante tutto si fa scuro. Gli alberi con i loro rami sembrano volersi abbracciare da una parte all’altra della strada, ma sono braccia secche, senza foglie, sottili e nere. I tronchi con grandi buchi sul dorso sembrano imploranti aiuto in un urlo strozzato. Questo angolo delle Madonie la sera dell’11 agosto è stato attraversato da un grande fuoco che ha bruciato tutto. Il paese arroccato su un costone roccioso, nel secolo scorso noto per aver dato i natali all’intellettuale antifascista Giuseppe Antonio Borgese e oggi conosciuto più per averli dati allo stilista Domenico Dolce, è stato assediato per ore dalle fiamme. «Siamo stati circondati dal fuoco, in poche ore qualcuno ha appiccato incendi a nord e a sud, e mentre arrivavano i soccorsi vedevamo partire altri roghi come se ci fosse stata una regia, un coordinamento del male», dice il sindaco Gandolfo Librizzi mentre passeggia in via Itria, un budello che costeggia il versante nord. Entra in un appartamento che dà sulla vallata: «Qui quella sera siamo arrivati con il tubo dell’autobotte attraverso la cucina per spegnere le fiamme che salivano dal fondovalle». Affacciandosi da questa balconata non si viene più accecati dal giallo delle dolci colline da secoli coltivate a grano, ma si resta impressionati dal nero che colora tutto a perdita d’occhio. Una scena che si ripete a macchia di leopardo in tutta l’isola nei paesaggi più belli ridotti a cenere, dagli Iblei ai monti che circondano Palermo. In Sicilia da gennaio ad agosto sono andati in fumo 80 mila ettari di boschi, campi di grano e macchia Mediterranea. Quasi quanto l’intera Grecia, che nell’anno dei record delle fiamme in terra ellenica è arrivata a 110 mila ettari. Con una piccola differenza: l’isola ha una estensione di 25 mila chilometri quadrati, la Grecia di 130 mila. Di fronte a questi numeri le temperature record, con i 48 gradi di Floridia nel Siracusano che hanno fatto registrare il picco storico in Europa, non bastano certo a giustificare una terra messa a fuoco e fiamme. Dietro c’è la mano dell’uomo. Non a caso, nell’area del demanio tra Polizzi Generosa e Gangi, sono stati trovati dagli operai forestali degli inneschi: sacchetti di plastica con dentro della benzina e una sorta di miccia. Ma chi ha dato fuoco a questo pezzo di Madonie? Anzi, chi ha dato fuoco alla Sicilia? Raccogliendo documenti e testimonianze di chi sta indagando vengono fuori storie di pastori, di agricoltori sfiancati dal mercato, di precari forestali e di interessi speculativi in riserve e contrade che valgono oro per la fertilità dei terreni. Storie vere. 

“IL FUOCO SISTEMA TUTTO“. Poco prima di Ferragosto i carabinieri di Siracusa coordinati dal capitano Simone Clemente hanno fermato due pastori, Salvatore e Franco Coniglione, padre e figlio. L’indagine nasce dalla segnalazione di altri due pastori che negli incendi dello scorso anno avevano perso bestiame e pezzi di azienda. Il 28 luglio scorso l’auto dei Coniglione entra nell’area demaniale Bosco Pisano, tra Buccheri e Vizzini. Poco dopo parte un incendio vasto in tutta la vallata con più focolai. Intercettato, il figlio dice al padre: «Due minuti e lì bum bum, tutto a fuoco». Un pomeriggio, davanti alla Sughereta di Buccheri, Salvatore con un suo amico inizia a vantarsi: «Qui dal confine fino a varco Pisana ho pulito quattro salme (sette ettari, ndr)», dice. «Poi ci fu quello che partì da Vizzini e si pulirono altre quattro salme», aggiunge riferendosi a un incendio del 30 luglio. Pulire significa bruciare. Salvatore minaccia di appiccare un grande incendio per Ferragosto: «Ci sarà da piangere per Buccheri… pulisco altre quattro salme… il fuoco sistema tutto… la prima volta avevo bruciato mezza salma poi i figli di buttana l’hanno spento». Ma perché questi pastori danno fuoco a tutto? Lo spiega lo stesso Coniglione: «Le vacche», dice, «dove le devo tenere per loro, nella strada? Ma se la facessero ficcare in culo… tutti questi terreni dove non ti fanno entrare, ma che è giusto? Qui se non fai così terreno non ce n’è, le vacche le devi fare furriare (girare, ndr). E poi per un camion di fieno ci vogliono 1.300 euro. Così brucio tutto». Spesso alcuni allevatori non dichiarano tutti i capi di bestiame che hanno: quindi non possono comprare foraggio per tutti e con regolari ricevute. Allora hanno bisogno di spazi e di terreni, e nei campi incendiati alle prime piogge cresce subito spontaneo proprio il foraggio. Ecco una prima mano che ha dato fuoco alla Sicilia e la pista degli allevatori è seguita anche nel Palermitano per spiegare gli incendi tra Piana degli Albanesi, Altofonte e San Giuseppe Jato. Ma quella di alcuni pastori non è stata la sola mano in azione. Nell’Ennese gli inquirenti stanno seguendo una pista particolare: nella provincia considerata davvero il granaio di Sicilia quest’anno sono andati in fumo 1.400 ettari, in gran parte terreni coltivati a cereali. A quanto pare molti produttori non avevano fatto alcun lavoro di prevenzione. Perché? Il sospetto è che qualcuno (pochi tra i tanti imprenditori onesti) abbia preferito intascare i soldi dell’assicurazione e sperare magari in qualche contributo per gli incendi che arriverà da Palermo o da Roma, piuttosto che vendere al mercato il grano. A maggio il prezzo era bassissimo, 25 centesimi al chilo, e solo alla fine di agosto è salito oltre i 45 centesimi, quando la produzione era ormai diminuita anche a causa delle fiamme. 

GLI INTERESSI SPECULATIVI SULLE RISERVE. Gli agenti del Corpo forestale stanno indagando inoltre sugli strani incendi iniziati già a maggio, con temperature non elevate, in alcune aree del Siracusano: Pantalica, la riserva di Vendicari e l’area dei laghetti di Avola. Raccontano gli inquirenti: «Lì gli incendi sono iniziati in un periodo anomalo, la cosa ci ha colpito e abbiamo fatto delle verifiche. Ad esempio abbiamo scoperto che qualcuno non ha gradito alcuni limiti al transito nell’area dei laghetti di Avola. E quindi per ripicca ha dato fuoco all’area. A Vendicari stiamo verificando alcuni interessi speculativi: lì la riserva è nata quando c’erano già diverse abitazioni. Ad alcuni è stato consentito di fare dei lavori negli anni, ad altri no. Questa cosa non è stata gradita così hanno appiccato incendi». C’è poi un’altra storia che circola nel Siracusano e che gli inquirenti stanno verificando: la politica, regionale e locale, aveva promesso di dare in concessione le stazioni ferroviarie dismesse a privati che erano pronti a realizzare locali e ristoranti. Poi l’affidamento è stato sospeso e qualcuno per lanciare un segnale ha dato fuoco proprio nell’area attorno alle stazioni. Il procuratore di Messina, Maurizio De Lucia, negli anni scorsi ha coordinato invece indagini sui grandi incendi avvenuti tra il 2017 e il 2018 nel parco dei Nebrodi con migliaia di ettari di bosco andati in fumo. In tre sono stati fermati perché avevano dato fuoco a delle sterpaglie nelle loro terre in giornate di scirocco facendo poi nascere mega incendi: «Quindi una bonifica costante dei territori è fondamentale. Poi, è chiaro, ci sono spesso interessi speculativi e criminali: non si riunisce la Cupola per gli incendi, ma qualche legame con mafiosi c’è, in alcuni casi, grazie alla forza di intimidazione che certi personaggi hanno». 

LA MAFIA C’ENTRA? Le parole di De Lucia trovano conferme. Un’altra area andata a fuoco, dove ha perso la vita anche un agricoltore che cercava di spegnere le fiamme, è stata quella delle campagne di Paternò, in provincia di Catania. In particolare in una contrada che si chiama Sciddicune: qui lavora ed è molto attivo un giovane imprenditore agricolo, Emanuele Feltri, già nel 2013 vittima di attentati intimidatori perché qualcuno non aveva gradito il suo voler chiedere attenzione per queste terre dove i caporali facevano coltivare gli ortaggi ad immigrati senza alcun rispetto delle regole. Ma questa volta gli incendi, che hanno distrutto gli allevamenti e i terreni non solo di Feltri ma anche di altri agricoltori e pastori della zona, sembrano avere altre motivazioni. La pista seguita dai carabinieri è quella di un forte interesse a questi terreni, considerati tra i più fertili del Catanese, da parte di qualche altro agricoltore che vorrebbe averli ceduti a prezzi di comodo. Personaggi magari con precedenti mafiosi. Come il volto apparso nei giorni delle fiamme tra Bronte e Castiglione di Sicilia. Le uniche aree in Sicilia non bruciate sono state quelle dei vigneti, tranne in questo scorcio dell’Isola alle falde dell’Etna. Guarda caso, il giorno nel quale sono stati appiccati diversi roghi attorno ad alcuni vigneti, al bar del crocevia è stato notato un operaio forestale precario conosciuto per i suoi precedenti penali perché legato al clan Brunetto: chiedeva il pizzo agli agricoltori della zona. Una presenza anomala, quasi a voler dire “io sono qui e a me dovete chiedere protezione”. Il fatto è stato segnalato alle forze dell’ordine che stanno facendo verifiche su questo operaio forestale. Ecco, a proposito di operai forestali (il bacino da 20 mila precari chiamati ogni anno a lavorare nei boschi e nelle campagne demaniali), il sospetto che tra loro qualche isolato delinquente abbia contribuito al caos di questa estate c’è. La gran parte è intervenuta quasi in maniera eroica, senza mezzi, per spegnere gli incendi, rischiando la vita. Ma a quanto pare non tutti i precari quest’anno sono stati chiamati in servizio, soprattutto quelli che fanno al massimo 78 giornate lavorative. Già a febbraio un operaio forestale precario di 61 anni era stato fermato sui Nebrodi in flagranza di reato. Voleva iniziare la stagione dei fuochi in anticipo sperando così in una chiamata in servizio da parte della Regione. Queste sono le piste investigative, che raccontano bene il clima che si respira nelle terre di Sicilia (e d’Italia) date alle fiamme in questa calda, caldissima, estate.