Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2020
L’ACCOGLIENZA
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’ACCOGLIENZA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quei razzisti come Vittorio Feltri.
Le oche starnazzanti.
La Questione Settentrionale.
Quelli che…ed io pago le tasse per il Sud. E non è vero.
I Soliti Approfittatori Ladri Padani.
Il Sud Sbancato.
La Televisione che attacca il Sud.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Tutti i “vizietti” dei maestri degli antirazzisti.
Un mondo di confini spinati.
Quei razzisti come i Sammarinesi.
Quei razzisti come gli Svedesi.
Quei razzisti come i Norvegesi.
Quei razzisti come i Danesi.
Quei razzisti come i Tedeschi.
Quei razzisti come gli Spagnoli.
Quei razzisti come gli Svizzeri.
Quei razzisti come i Francesi.
Quei razzisti dei Paesi Bassi.
Quei razzisti come i Belgi.
Quei razzisti come gli Ungheresi.
Quei razzisti come i Rumeni.
Quei razzisti come i Kosovari.
Quei razzisti come i Greci.
Quei razzisti come i Giapponesi.
Quei razzisti come i Cinesi.
Quei razzisti come i Vietnamiti.
Quei razzisti come i Nord Coreani.
Quei razzisti come i Russi.
Quei razzisti come i venezuelani.
Quei razzisti come gli Argentini.
Quei razzisti come i Cubani.
Quei razzisti come gli Austriaci.
Quei razzisti come i Turchi.
Quei razzisti come gli Israeliani.
Quei razzisti come i Libanesi.
Quei razzisti come gli Iraniani.
Quei razzisti come gli Arabi.
Quei razzisti come i Dubaiani.
Quei razzisti come i Qatarioti.
Quei razzisti come i Brasiliani.
Quei razzisti come gli Inglesi.
Quei razzisti come gli Statunitensi.
Quei razzisti come gli Australiani.
Quei razzisti come i Sudafricani.
INDICE TERZA PARTE
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Genocidi dimenticati: Gli zingari.
Srebrenica 1995, cronaca di un massacro.
Il genocidio silenzioso dei Dogon.
Shoah ed Antisemitismo.
Paragonare le foibe alla Shoah?
Il Giorno del Ricordo.
Gli Odiatori Responsabili: ora Negazionisti e Giustificazionisti.
Non erano fascisti: erano D’Annunziani. Libertari, non libertini.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Immigrazione ed emigrazione.
Espatriati. In Fuga dall’Italia.
Il trattato di Dublino, spiegato.
La Sanatoria dell’Invasione.
Quelli che…lo Ius Soli.
La Cittadinanza col Trucco.
Il Soggiorno col trucco.
L’Africa pignorata.
La Tratta dei Profughi.
Porti Aperti.
Gli affari dell’accoglienza.
Morire di Accoglienza.
I famelici…
Lo Scuolabus dell’integrazione.
Quelli che…Porti Aperti.
Quelli…che Porti Chiusi.
Le “altre Lampedusa”.
Le Colpe in Libia.
Le colpe in Tunisia.
Le colpe in Algeria.
Le colpe in Siria.
L’ACCOGLIENZA
TERZA PARTE
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
· I Genocidi dimenticati: Gli zingari.
Il genocidio dei 500mila Rom sterminati dai nazisti, il ricordo della comunità di Scampia. Rossella Grasso il 24 Gennaio 2020 su Il Riformista. La memoria dell’Olocausto appartiene a tutto il mondo. Nei campi di sterminio nazisti si è consumato il “Porrajmos” (in lingua romanì “distruzione, annientamento”). Dal 1936 al 1945 furono sterminati 500mila rom e sinti dal regime nazi-fascista. Furono vittime dello studio per la “mutazione della psicologia razziale” essendo ritenuti “esseri deviati”, tra loro migliaia di bambini. Tra il 2 e il 3 agosto 1943 più di 4mila persone, in maggioranza donne e minori, furono sterminati nel “campo degli zingari” ad Auschwitz. È una memoria dimenticata come quella della partecipazione tra le fila partigiane di Amilcare Debar, il partigiano Taro della Brigata Garibaldi, che ebbe il riconoscimento ufficiale dal presidente Sandro Pertini. E oggi? Quali condizioni vivono le comunità rom, spesso accusate e discriminate dalla propaganda politica? L’associazione Chi rom e chi no e Chikù – Centro culturale e gastronomico di Scampia hanno realizzato e diffuso un video in cui prendono parole le nuove generazioni rom, ragazze nate in Italia, che chiedono casa e futuro per un’inclusione lontana dalla logica dei campi “istituzionali” o dal degrado in cui sono costretti per la propria sopravvivenza. “La risoluzione europea del 12 febbraio 2019 – dichiarano Barbara Pierro, Biagio Di Bennardo ed Emma Ferulano – è molto chiara e, anche se in modo non vincolante per i Paesi membri, invita ad attuare le politiche di inclusione e di lotta alle discriminazioni. L’Italia è uno degli Stati membri già più volte condannati e multati per le politiche discriminatorie contro le comunità rom. Anche Amnesty International Italia ha più volte sottolineato il rischio per i diritti umani attraverso l’incremento degli sgomberi forzati e le politiche di ‘segregazione abitativa’ negli ultimi anni. A questi aspetti si aggiunge la centralità del tema relativo alle politiche ambientali e a loro impatto sulle condizioni di vita di queste comunità che vivono in territori sottoposti a forte inquinamento e tossicità. Per questo è necessario che accanto alle commemorazioni vadano impostati nuovi principi e politiche che mettano al centro le persone, i diritti, la giustizia sociale, un nuovo modello sostenibile, il futuro delle nuove generazioni, la liberazione da ogni oppressione”. Oltre al video e alla memoria, al Chikù – Viale della Resistenza, comparto 12, Scampia – il 28 gennaio alle 17.30 l’associazione Chi rom e chi no promuove la presentazione del libro “L’ultimo viaggio. Il dottor Korczak e i suoi bambini di Irène Cohen-Janca”, illustrazioni di Maurizio A. C. Quarello, edito da Orecchio Acerbo Editore. Un dibattito su Olocausto e discriminazioni. Un evento organizzato in collaborazione con la libreria indipendente: Mio nonno è Michelangelo.
Il libro, sinossi. Simone, poco più che adolescente, tiene per mano il piccolo Mietek. Insieme ai loro compagni dell’orfanotrofio -mesti, ma la testa alta e una canzone sulle labbra- stanno attraversando le strade di Varsavia per raggiungere l’altra parte, il ghetto. Così hanno ordinato gli occupanti tedeschi. A guidare quella comunità, come sempre, Pan Doktor, il dottor Korczak. Non la fame, né le malattie, e neppure le sadiche angherie naziste riescono a intaccare i principii e le pratiche della loro convivenza. Nel prendersi cura di Mietek, Simone gli racconta della Repubblica dei bambini, con tanto di Parlamento, Codici, Tribunale. E poi del giornale murale, delle sedute di lettura, delle rappresentazioni teatrali, delle vacanze alla colonia estiva… Quel treno che li preleva nell’estate del 1942, però, non in campagna li avrebbe portati ma nel lager di Treblinka.
· Srebrenica 1995, cronaca di un massacro.
Srebrenica 1995, cronaca di un massacro. Come si uccidono ottomila prigionieri nel minor tempo possibile? Come si organizza un genocidio? Un romanzo-documento ricostruisce la strage con atti, testimoni, versioni a confronto. Per mostrare tutta la macchina dell’orrore, minuto per minuto. Gigi Riva il 21 febbraio 2020 su L'Espresso. Alla vigilia del suo cinquantaseiesimo, il 13 luglio del 1995, il colonnello Ljubisa Beara ricevette dal generale Ratko Mladic l’ordine di ammazzare ottomila persone e di far sparire i loro corpi nel più breve tempo possibile. Uso ad obbedire ai superiori e tanto più a quel comandante così stimato, per lui la faccenda non rappresentava un problema morale semmai una questione tecnica. Già, come ammazzare gli ottomila musulmani bosniaci fatti prigionieri a Srebrenica dopo che la città era caduta nelle mani dell’esercito dei serbi di Bosnia sotto gli occhi dei caschi blu olandesi delle Nazioni Unite? La decisione era stata presa all’improvviso, senza pianificazione precedente. Dunque si trattava, con tutto lo zelo di cui era capace, di montare una efficiente macchina genocidiaria, organizzare una catena burocratica per la morte all’ingrosso, senza tralasciare alcun particolare che potesse inficiare l’operazione. Per ricavarne un encomio, magari addirittura uno scatto di carriera. Doveva risolvere diverse equazioni matematiche. Quanti autobus servono per portare ottomila e passa persone in luoghi il più possibile discosti dalle vie principali per poi eliminarli? Quanta benzina si consuma? Quanti mezzi meccanici servono per scavare fosse comuni tanto capaci, grandi in totale qualche migliaia di metri cubi? E, soprattutto, quanti assassini ingaggiati a cottimo avrebbero dovuto svolgere il lavoro, calcolando alcuni renitenti e le sostituzioni necessarie di chi poteva stancarsi nel premere senza soluzione di continuità il grilletto contro le schiene dei condannati a morte legati e inermi? Non possiamo sapere se il colonnello Beara abbia rimpianto l’efficienza nazista mentre si adoperava all’impresa nel giorno del suo compleanno, quel 14 luglio che evoca l’origine dei diritti dell’uomo, e nei due successivi, avendo a disposizione scarsi mezzi, pochi uomini, tra mille difficoltà e troppi ostacoli. Sappiamo però come ha risolto le incognite di tutte le equazioni complicate, come ha affrontato gli imprevisti e come alfine ce l’ha fatta in uno spazio di tempo da record date le circostanze. Lo sappiamo grazie all’ostinazione e alla dedizione di uno scrittore, Ivica Dikic, oggi 43 anni, croato di Erzegovina, normalmente versato nella fiction, diventato famoso nel mondo come autore della serie “Novine” in onda su Netflix. Dikic ha compreso che davanti all’enormità della carneficina doveva abbandonare la fantasia per esplorare il territorio della letteratura del vero. Si è letto centinaia di migliaia di pagine dei vari processi all’Aja, in Serbia, in Bosnia, ha rintracciato una miriade di testimoni, ha confrontato e incrociato versioni e in capo ad alcuni anni ha finalmente dato alle stampe “Beara”, pubblicato nel 2016 in Croazia e che ora esce in Italia col titolo “Metodo Srebrenica” (Bottega Errante Edizioni, 280 pagine, 17 euro) con la splendida traduzione di Silvio Ferrari. Un libro definitivo, il romanzo documentario del massacro ricostruito quasi minuto per minuto, personaggio per personaggio. Perché, oltre al colonnello, c’erano almeno altre cento persone citate con nome e cognome che a vario titolo sapevano che cosa si stava perpetrando. Beara è parola dal suono dolce, ingentilito dalle vocali. Nell’ex Jugoslavia evoca le gesta di Vladimir Beara da Spalato, un portiere-mito degli anni Cinquanta, considerato tra i massimi della storia del calcio e di cui Ljubisa era cugino. Parenti così diversi, destinati a restare nell’ immaginario collettivo, campioni l’uno nello sport, l’altro nella caccia grossa, nella colonna infame dei pulitori etnici fino alla mattanza totale, affinché non restasse vivo nessun musulmano in quell’angolo di terra aspra a ridosso del fiume Drina. Uomo di mare dapprima, ufficiale della Marina jugoslava, fedele servitore del titoismo finché il Paese è imploso. E poi portato dalle circostanze ad abbracciare l’idea granserba, nella sempiterna considerazione auto-assolutoria che non era lui a cambiare ma i tempi. Per mantenere prebende e privilegi riconosciuti ai gradi gerarchici militari, è salito sulla scialuppa di salvataggio fornitagli dal nume supremo dell’esercito dei serbi di Bosnia Ratko Mladic, conosciuto a Knin, nella Krajina croata, agli albori delle guerre balcaniche degli anni Novanta, e messo a capo della Direzione di sicurezza del comando supremo. Così è passato dalle acque dell’Adriatico ai boschi della Bosnia, mantenendo la postura dell’uomo che non è nato per discutere e avere dubbi. Ma solo per «mettere in opera con efficacia e rapidità ciò che gli è stato ordinato». Fosse anche un genocidio. Attorno a lui, in quelle ore atroci, i dubbi sorgevano persino in assassini seriali che nei quattro anni del conflitto bosniaco si erano distinti per malvagità, riducendo ciò che aveva comunque nome e sembianze di un esercito in un’accozzaglia di macellai sciolti da qualsiasi legge bellica. E avevano infierito sulla popolazione civile, non risparmiando donne e bambini, ripristinando campi di concentramento di hitleriana memoria, dando carta bianca a miliziani col diritto di saccheggio e stupro. C’erano ufficiali suoi pari, persino generali, tentennanti nel concedere i loro sottoposti quali fucilieri scelti dei plotoni d’esecuzione. Non per un rigurgito di umanità ma perché lungimiranti nel prevedere che uno sterminio su così vasta scala non sarebbe potuto passare inosservato e ci sarebbe stato un giudice, a conflitto finito, in una inevitabile nuova Norimberga. C’erano politici del partito serbo di Radovan Karadzic che non erano contrari al massacro purché fosse fatto più in là, non nel territorio su cui avevano giurisdizione. C’erano cittadini che non volevano l’odore della morte nei campi adiacenti alle loro case. Beara annotava gli inciampi, risolveva, proseguiva. Piani a, b c, d per supplire ai dinieghi. Il colonnello ridotto a lucido orchestratore della catena di montaggio che produceva cataste di corpi senza vita nonostante l’alcol, le poche ore di sonno, le arrabbiature. Nonostante una situazione precaria sul campo di battaglia. Perché il suo compito era attività collaterale che succhiava uomini e mezzi al confronto ancora in atto con l’esercito dei musulmani di Bosnia. E nonostante, infine, una spaccatura sempre più palese tra l’ala politica (Karadzic) e l’ala militare (Mladic) complici nell’orrore ma divisi, in quella fase, dall’ingordigia del potere. Ljubisa Beara è instancabile, onnipresente, implacabile. Aumenta la produzione autorizzando le mitragliatrici invece dei fucili e se qualcuno sopravvive alle raffiche è finito col colpo di grazia. Più presto, più presto incita il colonnello. Sui due piedi si decide che fare degli inciampi naturali in un’impresa così titanica. Un bambino che corre verso una fossa comune piangendo e chiamando il papà, viene graziato, forse l’unico. Non ci debbono, non ci possono essere testimoni in grado di raccontare a posteriori. Gli autisti degli autobus, dei civili, sono i supplenti dei tiratori scelti, a loro viene dato il “privilegio” di vendicarsi dei musulmani. Uno di essi chiede pietà per uno di quei ragazzi: si chiama Eldar, lo conosce bene, l’ha portato da scuola a casa per tutti gli anni delle superiori. Viene considerata un’insubordinazione da pagare a caro prezzo. Sarà lui a dover sparare a Eldar, altrimenti verrà ucciso. Obbligato, esegue, poi seppellisce la sua vittima nella tomba di famiglia accanto a suo figlio, pure lui morto in combattimento. Inseguito dai suoi mostri, scappa in Canada a Calgary dove si suiciderà. Un danno collaterale. Ljubisa Beara avrebbe voluto l’encomio di Mladic per lo sforzo più impegnativo della sua carriera militare. Naturalmente non sarà possibile. Nel 2002, a sette anni di distanza, verrà incriminato per genocidio dal tribunale dell’Aja, si costituirà nel 2004. Davanti alla Corte sosterrà che in quei giorni di luglio era a Belgrado a festeggiare il compleanno con la famiglia. Non sarà creduto e nel 2015 condannato definitivamente all’ergastolo. Morirà nel 2017, a 77 anni, nel carcere di Berlino. Nessun altro luogo sarebbe stato più indicato.
· Il genocidio silenzioso dei Dogon.
Il genocidio silenzioso dei Dogon. Daniele Bellocchio su Inside Over il 23 febbraio 2020. Il Sahel, la fascia di paesi africani che fa da cerniera tra il Mediterraneo e l’Africa sub-sahariana, è oggi sprofondata nell’anarchia delle soldataglie jihadiste. Dalla Mauritania al Burkina Faso, sulle sabbie del deserto si assiste all’avanzata dei gruppi islamisti che stanno sempre più prendendo controllo di intere porzioni di territorio. Governi deboli, eserciti senza mezzi e preparazione, assenza di strutture statuali sono solo alcuni dei fattori che stanno permettendo alle formazioni dell’internazionalismo salafita di impossessarsi di aree strategiche e allargare le loro fila con nuovi combattenti. Oltre a questi motivi non bisogna poi trascurare il fatto che la guerra del terrore ha trovato nell’endemica lotta tra pastori e agricoltori ulteriore combustibile per il jihad. È proprio all’interno di questo conflitto che si inserisce il dramma che stanno vivendo i Dogon, popolazione da secoli insediata ai piedi della falesia di Bandiagara, in Mali, al confine con il Burkina Faso e a sud di quella che è conosciuta come ”la grande ansa” del fiume Niger. I Dogon sono un popolo epico dell’Africa che il mondo ha iniziato a conoscere a partire dagli anni Cinquanta, dopo che l’ antropologo Marcel Griaule pubblicò il libro ”Dio d’Acqua” che descriveva con dovizia di particolari la storia, le abitudini, le straordinarie conoscenze astronomiche e la complessa cosmogonia dei Dogon. Per anni, le terre dei Dogon, hanno attirato visitatori. Dapprima esploratori e poi, nell’epoca del turismo di massa, frotte di viaggiatori affascinati dalle letture di antropologi e avventurieri e dalle raffinate opere di artigianato locale realizzate dagli uomini della falesia. Oggi però, questo mondo che negli anni è riuscito a resistere e rimanere autentico nonostante l’assedio di macchine fotografiche e parabole satellitari, si trova in serio pericolo perché minacciato dalla furia jihadista e mentre donne e bambini fuggono aumentando il numero dei profughi e gli uomini si arroccano sulle proprie pietraie cercando con vecchi fucili di arginare le incursioni dei ribelli islamici, il mondo, impassibile e sordo, distoglie lo sguardo dal massacro di un popolo, una cultura e una civiltà secolare. Dopo che nel 2011 è scoppiata la guerra in Mali e una marea fondamentalista ha travolto il nord del Paese dando inizio alla destabilizzazione dell’intera fascia saheliana, ecco che la violenza ha fatto incursione nelle terre dei Dogon. I Peul (conosciuti anche come fulani), tradizionali pastori della savana, non hanno mai avuto ottimi rapporti con i propri vicini allevatori, i Dogon appunto. Anche se non correva buon sangue però i pastori e gli allevatori erano arrivati nel tempo a un compromesso per una pacifica convivenza. Come spiega l’antropologo Marco Aime: ”dopo il raccolto i bovini potevano infatti pascolare sui campi fornendo così allo stesso tempo letame, estremamente prezioso per i contadini che non disponevano di altro fertilizzante. I Peul ricevevano in cambio miglio, altri prodotti alimentari e talvolta anche piccole somme in denaro.” Negli ultimi anni però la propaganda degli jihadisti ha attirato a sé i Peul che, sopratutto in un momento di siccità, desertificazione e quindi miseria diffusa, non hanno resistito al canto di sirene della predicazione salafita ed è iniziata così una penetrazione islamista nelle zone rurali del Mali. Incursioni dei Fulani e reazioni dei Dogon e la violenza ha iniziato ad aumentare giorno dopo giorno trascinando in una spirale di sangue l’intera regione. Stando a quanto raccontano i Dogon il momento che ha dato inizio alla guerra, che sta attanagliando la loro terra, è riconducibile all’ottobre del 2015 quando i Peul uccisero il celebre capo degli ”chasseurs” Dogon Souleymane Guido, detto Bahaga. Da quell’episodio c’è stata poi un’escalation di assalti e massacri. Human Rights Watch a febbraio ha stilato un rapporto all’interno del quale, allegando testimonianze che riportano di massacri compiuti sia dai Dogon che dai Peul, equipara le violenza commesse dai due gruppi. Che anche i Dogon si siano macchiati le mani e abbiamo commesso atrocità per rappresaglia è innegabile, come dimostra l’attacco compiuto da questi contro il villaggio Peul di Ogassougou nel marzo del 2019 durante il quale sono morte oltre 150 persone. L’obiezione che fanno i Dogon è quella di sentirsi vittime costrette a ricorrere alla violenza per non soccombere e che evidenziano il fatto che a combattersi ci sia da un lato una formazione di guerriglieri addestrati che impugnano armi automatiche e dall’altro contadini che imbracciano vecchi fucili da caccia e si spostano a piedi o con vecchie moto. Mentre massacri e scontri si registrano giorno dopo giorno, ai giornalisti è impedito l’accesso alle zone travolta dalle ostilità e le uniche informazioni arrivano attraverso messaggi e video diffusi con WhatsApp che mostrano violenze e barbarie senza limiti che si consumano quotidianamente: case e villaggi dati alle fiamme, intere famiglie trucidate, capi di bestiame abbattuti. L’equilibrio etnico in Mali è andato in frantumi, il futuro dell’intera regione è sempre più precario e non sembrano esserci argini concreti contro l’espansionismo salafita. E mentre contingenti internazionali e forze di interposizione si concentrano nelle regioni settentrionali del Paese, nella zona della falesia di Bandiagara sta consumandosi un massacro silenzioso che ha già spinto analisti e ricercatori a mettere in guardia il mondo sul concreto rischio che questa guerra, tra i Dogon, 250mila, e i Peul, 25 milioni, possa trasformarsi in un genocidio.
· Shoah ed Antisemitismo.
Dagospia il 14 febbraio 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Gent.mo Dagospia, sono portavoce della sinagoga Beth Shlomo di Milano, e vorrei dire in tutta franchezza che l'allarme dei media sull'antisemitismo mi pare eccessivo. Capisco il desiderio di fare notizia, ma il fascismo non è alle porte. Le leggi razziali neppure. Contrariamente a Germania e Francia, in Italia gli ebrei non vengono picchiati o uccisi. Non ci sono politici rilevanti che negano la Shoah o fanno dell'antisemitismo la loro politica. E io, come italiano, ne sono orgoglioso e ho il dovere morale di dirlo, anche se va contro quello che troppi media vogliono sentirsi dire. Esiste dell'intolleranza antiebraica in Italia? certo che sì, ed è sempre troppa. Ma quell'immagine di antisemitismo che traspare dai nostri media non corrisponde al paese reale. Non si cura l'antigiudaismo attribuendo agli italiani colpe che non hanno. Abbraccio con affetto e ringrazio chi mette in prima pagina le scritte antisemite, ma consideriamo che c'è anche il rischio dell'effetto emulazione. Proviamo a vedere che succede se proviamo a abbassare i toni, almeno per qualche settimana. Grazie e shalom. Davide Riccardo Romano
Abu Mazen: «Tagliamo tutti i rapporti con Stati Uniti e Israele». Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 su Corriere.it da Davide Frattini. Abu Mazen e i suoi consiglieri da due anni non incontrano Jared Kushner. Pochi giorni fa il presidente palestinese si è rifiutato di parlare al telefono con Donald Trump. Adesso il raìs sembra ufficializzare la rottura dei rapporti, non solo con la famiglia acquartierata alla Casa Bianca: «Interromperemo tutte le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti», proclama dal Cairo dove è in corso una riunione d’emergenza della Lega Araba. Il leader succeduto a Yasser Arafat dichiara anche di essere pronto a eliminare qualunque contatto con Israele e a cancellare la firma apposta da proprio da Arafat sotto agli accordi di Oslo assieme al premier israeliano Yitzhak Rabin. «Non passerò alla Storia come l’uomo che ha svenduto Gerusalemme». Lo sfogo rabbioso del presidente palestinese arriva dopo che martedì Trump ha presentato la «Visione per la pace», al suo fianco il premier Benjamin Netanyahu: gli israeliani hanno da subito abbracciato il piano americano, molto favorevole alle loro richieste. Il piano è stato rigettato anche dalla Lega Araba. Abu Mazen non può accettare che Gerusalemme resti «capitale indivisa» dello Stato ebraico – come indicano le 80 pagine – mentre ai palestinesi andrebbero le zone che non fanno parte della municipalità e sono al di là della barriera di sicurezza. Il presidente ha 84 anni, continua a fumare una sigaretta dietro l’altra nonostante le condizioni di salute. Si oppone all’iniziativa, per lui è una lotta esistenziale. Eppure il meccanismo per sciogliere l’intesa di Oslo – e quindi l’Autorità palestinese – è complesso. Soprattutto è improbabile che il raìs spinga la rottura fino a interrompere il coordinamento tra le sue forze di sicurezza e l’esercito israeliano. È vero che la collaborazione fa comodo a tutti e due, senza il supporto di Tsahal però anche Abu Mazen rischia di perdere il controllo sulla Cisgiordania a favore degli avversari di Hamas.
Intervista a Efraim Zuroff: “E’ l’antisionismo la nuova maschera dell’antisemitismo”. Umberto De Giovannangeli il 5 Febbraio 2020 su Il Riformista. «L’indignazione non può essere a intermittenza, legata al momento, in reazione a fatti particolarmente gravi, siano scritte vergognose come quelle apparse in Italia, o le continue profanazioni dei cimiteri ebraici o le brutali aggressioni contro ragazzi “colpevoli” di portare la kippah. L’indignazione non deve essere una medicina salva-coscienze, tanto per dirsi “io non sono uno di quei pazzi e non li giustifico”». A sostenerlo è Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme. Dal suo ufficio, Zuroff coordina lo sforzo in tutto il mondo del Centro Wiesenthal per individuare i criminali di guerra nazisti e consegnarli alla giustizia. Negli ultimi quattro decenni, Zuroff ha personalmente dato la caccia e portato in tribunale decine di ex nazisti e collaboratori, da ufficiali a semplici guardie di campo passando per comandanti dei campi di sterminio. Tutti loro si erano rifatti una nuova vita dopo il 1945. Solo qualche giorno fa, i leader mondiali si sono riuniti a Gerusalemme per celebrare i 75 anni della liberazione di Auschwitz. Sono riecheggiate parole di indignazione e il ripetere “mai più”. Ma basta l’indignazione per contrastare l’antisemitismo che rialza la testa in Europa? No, non può bastare. L’indignazione è una reazione immediata ad un fatto che si avverte particolarmente grave, che va oltre il livello di tollerabilità. L’indignazione può essere la leva per far scattare l’allarme generale, ma se resta fine a se stessa diviene solo una medicina per tranquillizzare la coscienza. Oggi l’Europa non ha bisogno di “tranquillanti’” ma di ben altro…
Di cosa ha bisogno dottor Zuroff?
«Della consapevolezza che l’odio razzista e antisemita non solo non è stato estirpato ma che rischia di diventare un cancro capace di minare mortalmente le società democratiche. Vede, per noi del Centro Wiesenthal la memoria di ciò che ha significato l’odio verso l’Ebreo l’abbiamo mantenuta, coltivata, perché siamo convinti che senza memoria non c’è futuro. Sui nostri tavoli continuano ad arrivare notizie di episodi di antisemitismo che scandiscono la quotidianità in Europa: cimiteri profanati, lapidi distrutte o imbrattate con i simboli nazisti o con frasi dispregiative verso gli Ebrei, bambini picchiati solo perché vanno in sinagoga o indossano la kippah… Questi fatti, tutt’altro che isolati, dovrebbero far riflettere tutti, non solo chi ha responsabilità politiche e istituzionali, ma anche i mezzi d’informazione e l’opinione pubblica; riflettere in particolare sul contesto nel quale l’odio cresce alimentandosi di vecchi stereotipi e mascherandosi sotto nuove vesti…»
Quali sarebbero queste “nuove vesti” dell’antisemitismo?
«L’antisionismo. Imperante sui social, o nelle scritte che inneggiano alla lotta contro i “sionisti assassini”. Ecco, questo antisionismo maschera l’antisemitismo, perché alla fine ciò che s’intende mettere sotto accusa, non è la politica di un Governo ma l’esistenza di uno Stato e del suo popolo. Si deve avere se non il coraggio, quanto meno l’onestà intellettuale di definire le matrici dell’antisemitismo, oggi: e una di queste è il radicalismo islamista. Denunciarlo non significa sostenere l’equazione musulmano = antisemita, ma mettere in evidenza come un clima di odio verso gli Ebrei cresca in ambienti segnati dal fondamentalismo islamico. Lo vediamo monitorando i loro siti e quelli di gruppi di estrema destra e di estrema sinistra in Europa. Cambiano i toni, i simboli, ma il messaggio veicolato è sempre lo stesso: senza gli Ebrei non solo la Palestina sarebbe libera ma il mondo sarebbe migliore. Quello che propagandava Goebbels e che oggi torna di attualità: la guardia è stata pericolosamente abbassata, il Mein Kampf si vende liberamente in tante librerie europee o si può acquistare via internet. Partiti che si ispirano al nazifascismo, e che in funzione antisemita abbracciano la causa palestinese con argomenti che si ritrovano nella propaganda jihadista, vengono tollerati, legittimati con la consolatoria affermazione che rientrando nel gioco democratico possono essere contenuti…»
E invece?
«Invece avviene il contrario. Perché da questa legittimazione, questi movimenti traggono forza, si presentano come forze nazionali, estendono la loro propaganda, additando i diversi da sé come dei nemici contro cui fare fronte. Ecco allora ritornare di attualità la figura dell’Ebreo usurpatore, che ha in mano la finanza mondiale decidendo le sorti delle varie comunità nazionali se non del pianeta. Questi messaggi attecchiscono soprattutto tra le giovani generazioni, quelle più esposte ad una propaganda pervasiva…»
Basta la repressione per contrastare il nuovo antisemitismo?
«Certo che no, ma questa considerazione non deve in alcun modo giustificare il lassismo o l’indulgenza verso quei gruppi, partiti, movimenti che fanno dell’antisemitismo, comunque declinato, il proprio elemento identitario. Questi movimenti vanno banditi dal consesso democratico perché della democrazia, intesa come rispetto e difesa del pluralismo culturale, ideale, religioso, sono nemici mortali. Quando faccio questi discorsi, qualche amico europeo mi dice «Efraim hai ragione, ma se li mettiamo fuorilegge rischiamo di farne delle vittime»…»
E lei come risponde a questa osservazione?
«Una democrazia che crede ancora nei suoi valori fondativi, in principi che sono stati alla base della civiltà europea, non deve aver paura di difendersi da quanti quei valori e quei principi li osteggiano apertamente e vorrebbero cancellarli. Democrazia non significa che tutto sia lecito in nome della libertà di opinione. No, le cosiddette “opinioni” di chi scrive “morte agli Ebrei, morte a Israele”, altro non sono che incitamento all’odio. Chi fa questo, chi torna a far circolare i “Protocolli dei Savi di Sion”, non è meno colpevole di quelli che picchiano ragazzi ebrei o massacrano fino alla morte, come è avvenuto non molto tempo fa in Francia, un’anziana signora scampata ad Auschwitz. I mandanti, quale che sia l’ideologia che li ispira, sono più pericolosi degli esecutori».
Dottor Zuroff, lei dirige il Centro Wiesenthal, l’uomo che ha legato la propria, straordinaria esistenza alla caccia ai nazisti. Un impegno che ha caratterizzato anche la sua di vita. Cosa c’è alla base di questo impegno?
«Potrei risponderle dicendo che per capire bisognerebbe almeno una volta nella vita, visitare lo Yad Vashem o raccogliersi nel Mausoleo dedicato ai bambini, 1,5 milioni, uccisi nei campi nazifascisti. Ma non è solo per loro, per onorare la loro memoria, che è nato il Centro Wiesenthal, il cui impegno non è legato soltanto alla caccia ai nazisti rimasti in vita. Il nostro impegno guarda al futuro, perché sappiamo, avendolo combattuto per una vita, che quella tragedia potrebbe ripetersi, in forme diverse, certo, ma potrebbe ripetersi. Il tempo passa per tutti, e tra non tanto, i sopravvissuti ai lager lasceranno questa terra. Ma con loro non devono portare la memoria di ciò che ha significato l’antisemitismo, delle atrocità consumate in suo nome. Abbiamo il dovere di far vivere quella memoria, trasmettendola ai giovani. E darne riconoscimento a quanti a questo hanno dedicato la loro esistenza, a mantenere in vita una memoria collettiva che non va sepolta nell’oblio”».
Antisemitismo il razzismo all’italiana rimosso per 50 anni. Guido Neppi Modona il 2 Febbraio 2020 su Il Dubbio. Sembra ormai chiaro che gli oltraggi e gli altri segnali di stampo antisemita delle ultime settimane non sono episodi occasionali, ma sono frutto di una pericolosa miscela di ignoranza, di frustrazione e di odio che merita immediato e forte contrasto. Per meglio inquadrare le attuali manifestazioni di antisemitismo è opportuno richiamare alla memoria la vergogna delle italianissime leggi antiebraiche del 1938, volute da Mussolini in piena autonomia dall’alleato nazista. Allora come adesso le scuole iniziavano nei primi giorni di settembre e non fu quindi casuale che i primi decreti contro gli ebrei siano stati emessi in concomitanza con l’inizio dell’anno scolastico, espellendo da tutti gli istituti di istruzione pubblici, dagli asili all’Università, gli insegnati e gli studenti ebrei. In effetti, le scuole furono le sedi in cui divampò con particolare virulenza e aggressività la propaganda antiebraica. Il Il 17 novembre 1938 venne poi emesso il testo legislativo fondamentale per la difesa della razza italiana, che insieme a sempre più crudeli e vessatorie circolari ministeriali condannò gli ebrei ad una vera e propria morte civile, privandoli di tutti i diritti e emarginandoli da qualsiasi rapporto sociale. Antisemitismo, il razzismo all’italiana rimosso per 50 anni. Indifferente, voltò la testa dall’altra parte, ma non pochi uomini di cultura, alti magistrati, rettori delle università, senza esserne né richiesti né sollecitati, appoggiarono entusiasticamente le leggi contro gli ebrei. Fu quello il periodo della privazione dei diritti, a cui fece seguito dopo l’ 8 settembre 1943, con l’occupazione tedesca dell’Italia settentrionale e la nascita della nazi- fascista repubblica sociale italiana, il più tragico periodo della persecuzione delle vite, mediante la deportazione e lo sterminio nei campi di concentramento della Germania e della Polonia, ove perirono oltre 7000 ebrei. L’italianissima persecuzione dei diritti agevolò grandemente la successiva persecuzione delle vite attuata dai nazi- fascisti, si può dire che ne fu la logica e necessaria premessa. Per fortuna, in quegli anni terribili dal 1943 al 1945 non pochi furono gli italiani che aiutarono gli ebrei per sottrarli alla deportazione e alla morte nei campi di sterminio. Ebbene, per oltre un cinquantennio dopo la Liberazione questa oscura e vergognosa pagina della storia italiana è stata completamente rimossa dalla memoria collettiva. Nell’Italia repubblicana per almeno tre generazioni non si è più parlato del razzismo italiano e lo sterminio degli ebrei è stato addebitato esclusivamente alla ferocia e alla brutalità dell’occupante tedesco. Non vi è stato alcun tentativo di vaccinare la popolazione dell’Italia repubblicana, a partire dai giovani, dai germi e dai veleni sempre latenti del razzismo. Se dalla scuola era partita nel 1938 la persecuzione contro gli ebrei voluta da Mussolini, è proprio nella nostra scuola degli anni 2000 che vanno iniettati e fatti crescere gli anticorpi per contrastare qualsiasi manifestazione di razzismo, non solo gli oltraggi contro gli ebrei. Nel 1938 si trattò di un razzismo di stato, voluto e imposto da un regime totalitario; almeno per ora sappiamo poco su chi sta diffondendo i germi del razzismo antiebraico, ma sembra trattarsi di un fenomeno dal basso, che presumibilmente si sta sviluppando negli strati pieni di rabbia, più frustrati e più colpiti dalla profonda crisi della società italiana, alla ricerca di capri espiatori, quali sono stati nei secoli gli ebrei e nelle intenzioni di qualcuno potrebbero divenire anche gli immigrati extracomunitari. La senatrice Liliana Segre parlando pochi giorni orsono al Parlamento europeo di Bruxelles, a chi le chiedeva come mai si parli ancora di antisemitismo, ha spiegato con grande lucidità e saggezza che insiti nell’animo dei “poveri di spirito” ci sono sempre stati razzismo e antisemitismo, ma non “era il momento politico” per tirarli fuori, ma “poi arrivano i momenti più adatti, corsi e ricorsi storici, in cui ci si volta dall’altra parte”. Ebbene, compito della scuola – canale privilegiato di comunicazione tra i giovani, la famiglia e la società civile – deve essere quello di ricostruire e spiegare quali sono state nella storia le vicende più tragiche, assurde, pretestuose e strumentali del razzismo, a partire da quelle a noi più vicine, sì che nessuno volti più la testa dall’altra parte di fronte a quei “poveri di spirito” che continueranno a fare professione di antisemitismo o di qualsiasi altra forma di razzismo.
Intervista a Ruth Dureghello: “Antisemitismo non si fa solo con la memoria”. Umberto De Giovannangeli de Il Riformista 2 Febbraio 2020. Una fotografia inquietante di una società, in parte, malata. E senza memoria. Dal 2004 a oggi – rileva l’ultimo rapporto di Eurispes presentato giovedì all’Università La Sapienza di Roma – è aumentato il numero di coloro che pensano che la Shoah non sia mai avvenuta: erano solo il 2,7%, oggi sono il 15,6%. In aumento, sebbene in misura meno eclatante, anche chi ridimensiona la portata della Shoah dall’11,1% al 16,1%. Inoltre, secondo l’indagine, riscuote nel campione un “discreto consenso”, 1 italiano su 5, l’affermazione secondo cui «molti pensano che Mussolini sia stato un grande leader che ha solo commesso qualche sbaglio» (19,8%). Secondo la maggioranza degli italiani, recenti episodi di antisemitismo sono casi isolati, che non sono indice di un reale problema di antisemitismo nel nostro Paese (61,7%). Parte da qui l’intervista concessa a Il Riformista da Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica romana.
Cosa racconta il rapporto Eurispes soprattutto nella parte dedicata all’antisemitismo in Italia?
«Per certi versi ciò che emerge è la dimostrazione allarmante del fallimento di una società intera che ha pensato, sbagliando, di poter contrastare l’antisemitismo facendo un esercizio di memoria che però è stato delegato al ricordo dei testimoni, dei sopravvissuti ai lager nazisti, senza una riflessione comune e una analisi puntuale di come la società civile stia pericolosamente degenerando su modelli di superficialità, individualismo e strumentalizzazione della stessa memoria. Mi lasci aggiungere che questi dati ci preoccupano ma non ci sorprendono. E questo perché da alcuni anni abbiamo la chiara percezione che attorno alla memoria della Shoah stia venendo meno un presidio culturale e questo nonostante l’incessante lavoro delle istituzioni, delle scuole e delle comunità ebraiche. I dati Eurispes devono quindi sollecitare una riflessione generale su come trasmettere alle prossime generazioni la storia della Shoah, anche nella prospettiva di quando verranno a mancare tutti i testimoni diretti. Il negazionismo non è solo una offesa per gli ebrei ma una volgare manipolazione della storia che deve preoccupare l’intera società».
Senza memoria non c’è futuro, ammoniva il premio Nobel per la pace Elie Wiesel, sopravvissuto alla Shoah. Ma oggi si sta facendo il dovuto per sconfiggere l’oblio?
«Come comunità ebraica cerchiamo di fare molto, ma se questo lavoro non è sostenuto, condiviso, presidiato anche dalle istituzioni che ne hanno la primaria responsabilità, il rischio è quello di non essere ascoltati, e soprattutto di assistere, come purtroppo stiamo vedendo, a nuove e diverse forme di antisemitismo, razzismo, negazione e banalizzazione del Male».
Tra queste nuove forme di antisemitismo c’è anche l’antisionismo?
«Assolutamente sì. Perché negare il diritto dello Stato ebraico di esistere, proprio per la sua connotazione ebraica, è di fatto il disconoscimento del diritto di esistere del popolo ebraico. Non riuscendo a colpire gli ebrei nelle forme e nei modi di quel terribile passato, si è costruito un modello di negazione di esistere attraverso la negazione del diritto di esistere dello Stato ebraico».
Quando si fa riferimento al futuro, il discorso non può non cadere sui giovani. Come comunità ebraica siete molto sensibili e attivi su questo tema, ma quali sono, dal vostro punto di vista, i limiti, le difficoltà, incontrati in questo lavoro?
«È un lavoro che deve essere costante e non può essere relegato a singole occasioni, quali i “Viaggi della Memoria” che sono peraltro privilegio di pochi, o affidarsi alla buona volontà di comunicatori, insegnanti o singoli rappresentanti, ma deve essere invece un impegno e un monito costante e una priorità del dibattito e un’azione che punti a sconfiggere i seminatori di odio antisemita e razzista».
Perché l’Ebreo è ancora oggi per questi seminatori di odio l’emblema di una diversità che viene vissuta e affrontata come una minaccia da estirpare?
«Perché di fronte alle diversità, e chi meglio degli ebrei la rappresenta da millenni, non c’è una cultura di riconoscimento e di riconoscenza, sì di riconoscenza, ma anzi la diversità fa ancora paura e permette di infondere insicurezza e indebolire la coscienza di molti. Insisto su questo punto, perché alimentare l’idea della diversità come pericolo, come minaccia, diventa lo strumento per raccogliere consensi, aggregare e reclutare forze e persone al servizio delle ideologie più pericolose».
Se dovesse individuare tre campi su cui convogliare un’azione costante e propositiva per contrastare l’antisemitismo e l’odio verso le diversità, quali indicherebbe?
«La scuola, i social e una attenzione particolare al linguaggio comune e all’utilizzo delle parole, che non sono solo strumenti di divulgazione del pensiero ma possono diventare armi pericolose».
Se dovesse raccontare in breve a un millennial cosa è stata la Shoah, come la descriverebbe?
«Come la volontà di un continente intero di sterminare un popolo, cancellandone ogni traccia nel presente e nel passato, nelle forme e nei modi più disumani che la Storia abbia conosciuto».
«Qui ebrei», la scritta comparsa sulla casa del figlio di una ex deportata nei campi di sterminio. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Andrea Pasqualetto. Mondovì, lo sfregio alla staffetta partigiana Lidia Rolfi. Condanna unanime, aperta inchiesta. La stella di Davide come quella usata dai nazisti per identificare gli ebrei. E la scritta antisemita “Juden hier”, qui abita un ebreo. Le frasi sono state scritte la notte scorsa a Mondovì, in provincia di Cuneo. A pochi giorni dal Giorno della Memoria, il 27 gennaio, sono comparse sulla porta dell’abitazione di Lidia Beccaria Rolfi, staffetta partigiana, deportata a Ravensbruck come politica e testimone dell’Olocausto. In quella casa ora vive il figlio Aldo che ha già sporto denuncia contro ignoti. «Ho attraversato questa porta molte volte. La scritta è apparsa oggi, dopo che Aldo è intervenuto su un giornale locale per ricordare sua madre. Al di là della patente ignoranza - Lidia è stata una deportata politica - è uno dei molti segnali che ci dovrebbero fare alzare la voce per ricordare a tutti che essere antifascisti è il primo dovere della memoria che abbiamo» commenta lo storico Bruno Maida che con Lidia Rolfi ha scritto diversi libri sulla deportazione, l’ultimo nel 1996. Il figlio di Lidia, Aldo, oggi, è fortemente impegnato nel tramandare il messaggio e la testimonianza della madre. Per questo, anche se non di origine ebraica, Aldo Rolfi, ha scritto una riflessione sulla memoria e sull’antisemitismo su un giornale locale. I proprietari dell’abitazione hanno denunciato l’episodio ai carabinieri. Indaga anche la Digos di Cuneo. Staffetta partigiana, dopo la deportazione, Lidia Beccaria Rolfi lavorò per l’Istituto Storico per la Resistenza di Cuneo e per l’Associazione nazionale ex deportati. Nel ‘78 scrisse «Le donne di Ravensbruck», prima opera in italiano sulla deportazione femminile nei campi di concentramento della Germania nazista. Nel ‘97 uscì postumo «Il futuro spezzato», un saggio sull’infanzia durante la dittatura, con l’introduzione di Primo Levi. Peraltro la famiglia Rolfi non è di origine ebraica.
Mondovì, la scritta in tedesco «Qui ebrei» sulla porta dell’ex deportata. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Andrea Pasqualetto. Mondovì, lo sfregio alla staffetta partigiana Lidia Rolfi. Condanna unanime, aperta inchiesta. Da Mondovì fu costretta ad andarsene e a Mondovì, cittadina medievale adagiata fra le Langhe e le Alpi, nei mesi bui della prigionia promise a se stessa di tornare: «Voglio vivere per ricordare, per mangiare, per vestirmi, per darmi il rossetto e per gridare a tutti che sulla terra esiste l’inferno». Lidia Rolfi, staffetta partigiana, prigioniera politica e a lungo insegnante in questa terra piemontese di resistenza, riuscì nell’intento e così testimoniò al mondo l’inferno di Ravensbruck, il campo di concentramento tedesco dove fu deportata il 30 giugno del 1944. Succede che oggi, 76 anni dopo, nei giorni dedicati alla memoria dell’Olocausto, siano tornati anche i simboli antisemiti: «Juden Hier», qui ci sono gli ebrei, e la stella di David. È successo nella notte fra giovedì e venerdì scorsi proprio a casa di Lidia Rolfi, mancata nel 1996, dove oggi vive il figlio Aldo. Qualcuno ha imbrattato la porta d’ingresso mentre tutti dormivano. Se n’è accorta la compagna di Aldo alle sette del mattino, mentre andava di corsa al lavoro. Ha visto la scritta, l’ha fotografata e gliel’ha inviata su WhatsApp. Lui ha aperto il cellulare un paio d’ore dopo e da lì è iniziata una giornata convulsa. Carabinieri, Digos, sopralluoghi, testimonianze. La procura ha aperto subito un fascicolo. «Stiamo indagando per propaganda e istigazione a delinquere per motivi di odio razziale, 604 bis, e lo stiamo facendo senza escludere nulla», ha detto con una certa prudenza il procuratore di Cuneo, Onelio Dodero. Al momento non ci sono indagati. Ma l’episodio è stato preso in seria considerazione dagli inquirenti, che da queste parti non ricordano precedenti. «Mai avuto a che fare con gruppi estremisti di destra», ricordano alla Digos. È stato naturalmente prelevato un campione della vernice nera della scritta per essere analizzato e si stanno controllando le telecamere della zona.Va anche detto che i responsabili del gesto un errore l’anno commesso: la famiglia Rolfi non è infatti ebrea. È un simbolo della resistenza, questo sì. Alla staffetta partigiana Lidia è intitolata una scuola primaria e una via, la stessa dove si trova casa presa di mira l’altra notte. «Mondovì non è un città razzista ed episodi di questo genere non ce ne sono mai stati, solo una svastica al cimitero tanti anni fa», spiega il sindaco Paolo Adriano che parla di «fatto gravissimo». Lui non crede alla ragazzata, piuttosto a un clima generale che sta alimentando rigurgiti di antisemitismo. Il pestaggio e le scritte di Roma contro Anna Frank, lo sfregio al Giardino dei giusti di Milano, le minacce alla senatrice Liliana Segre. In vista della Giornata della memoria, il settimanale locale «Provincia Granda» ha dato ampio spazio a Lidia Rolfi, ospitando un intervento del figlio e alcune interviste della madre, che sui lager ha scritto molto e un libro su tutti: «Le donne di Ravensbrück: testimonianze di deportate politiche italiane». «La violenza non è morta l’8 maggio del 1945, non è morta all’apertura dei lager, la violenza continua», ricordava oltre trent’anni fa con un refrain che oggi risuona come un triste presagio. Ieri è stata naturalmente una giornata di reazioni sdegnate. A partire da quella dello storico e docente universitario Bruno Maida, assiduo frequentatore di casa Rolfi: «Ho attraversato questa porta mille volte. Ci abitava la mia amica Lidia. È uno dei molti segnali che ci dovrebbero fare alzare la voce per ricordare a tutti che essere antifascisti è il primo dovere della memoria». Unanime la condanna del mondo politico. «Ecco dove porta la cultura dell’odio», è stata la sintesi di Nicola Zingaretti. «Sono ebrea anch’io», hanno scritto in un un post-it incollato sulla buca delle lettere di casa Rolfi.
Chiara Viglietti per la Stampa il 25 gennaio 2020. Primo Levi, dopo Auschwitz, veniva spesso qui. Da Torino a Mondovì, provincia di Cuneo. Saliva le scale, attraversava l’uscio della casa di Lidia, e si sedeva in cucina. Lì riempiva il silenzio con l’unica persona che lo avrebbe capito: una sopravvissuta come lui, Lidia Beccaria Rolfi. La sua casa, nella via che porta oggi il suo nome a vent’anni dalla morte, l’altra notte è stata profanata. “Juden hier”: qui ci stanno gli ebrei. Così qualcuno ha sfregiato di orrore la porta dei ricordi. Sotto ci ha messo l’altra stigmate: la stella di David. Fa male sempre. Nei giorni della Shoah ancora di più. E poco importa se il bersaglio fosse sbagliato: Lidia Beccaria Rolfi non era ebrea. Maestra, staffetta partigiana, fu tradita da una spia fascista in una vallata del Cuneese, internata per un anno a Ravensbrück come prigioniera politica. A guerra finita tornò. Ma quell’orrore, anni più tardi, si trasformò in una scrittura senza sconti, nata come un modo per guardare dentro l’inferno e raccontarlo. E, se possibile, sopravvivergli. Esattamente come Primo Levi. «Lo ricordo, Primo, mentre arrivava a Mondovì per salutare mamma. Si sedevano e parlavano. Poi calava il silenzio. Ed era un momento loro, che nessuno poteva condividere. In un certo senso sono rimasti là, in un lager, tutti e due. Non ne sono mai più usciti» ricorda il figlio di lei, Aldo Rolfi. A spezzare quel legame, nato sulle ceneri dell’indicibile, fu infine il suicidio di lui. Oggi è Aldo, testimone di quel dialogo a due voci, a ricordare. E lo fa come sua madre, nelle scuole e tra gli studenti. Vivendo nella casa che è stata di Lidia. E poi tornando ogni anno in pellegrinaggio al «campo di mamma», come chiama lui Ravensbruck. «A casa nostra si parlava sempre dei campi. Io sono cresciuto a pane e deportazione. Mamma non mi ha mai nascosto nulla», ricorda lui. Non è sempre stato così. Non nella Mondovì del Dopoguerra e non in una famiglia contadina, dove le donne erano nate per essere mogli o madri. Non sopravvissute a un campo di concentramento. Allora meglio nascondere la polvere sotto il tappeto. Quel mondo, contadino, cuneese, in fondo doveva già fare i conti con la tragedia di Russia. I deportati, invece, erano ancora un’altra storia: raccontavano cose indicibili, troppo disumane per essere di questo mondo. Diventeranno parole e verità con lei. Ma solo anni più tardi. Come per Liliana Segre. All’inizio solo gesti quotidiani ricordavano che da certe cose non si guarisce mai. Come quella dispensa di Lidia, piena zeppa, perché la fame dei lager non te la togli di dosso. Poi altre piccole regole: guai a sprecare. E guai a non mangiare di tutto. Un’economia mentale che non ha mai abbandonato la prima donna in Italia a scrivere di campi di concentramento. Era il 1978 quando a doppia firma, sua e di Anna Maria Bruzzone, uscì le Donne di Ravensbrück, seguito alcuni anni dopo da “L' esile filo della memoria”, racconto autobiografico. Lidia morì a 71 anni, nel 1996. La sua città non l’ha mai dimenticata. E ieri, sull’onda dell’emozione, tantissimi sono stati i messaggi di solidarietà e stima che, dalla politica alle istituzioni locali, hanno stigmatizzato l’offesa alla sua memoria. Dal Governo con le ministre Lucia Azzolina «profondamente turbata, quella scritta è un atto vergognoso. Con questo episodio si è superato il limite» e Fabiana Dadone che ha parlato di «un gesto che mi fa particolarmente male, visto che quella è la mia città» e il governatore del Piemonte Alberto Cirio che ha auspicato che «i responsabili vengano individuati al più presto e puniti con il massimo rigore». Mentre in serata la sua città ha voluto stringere idealmente il figlio Aldo e le parole che Lidia ha lasciato in un abbraccio: con una fiaccolata e un presidio antifascista a cui hanno aderito anche le associazioni partigiane. In ricordo di quella splendida resistenza interiore che dal lager le faceva scrivere: «Voglio vivere per tornare, per ricordare, per mangiare, per vestirmi, per darmi il rossetto. E per gridare a tutti che sulla terra esiste l’inferno».
Da La Stampa il 25 gennaio 2020. Aldo Rolfi, il figlio di Lidia, oggi è la voce di sua madre. Ed è stato lui, ieri mattina, a denunciare la scritta della vergogna. Rilanciandola anche sui social. Da dove arriva un gesto simile?
«Di imbecilli è pieno il mondo. Forse ho urtato la "sensibilità" di qualcuno. Ho appena scritto una riflessione sul giorno della memoria pubblicata su un giornale locale. Lasciando spazio all' analisi, profetica, che mia madre aveva fatto anni prima su immigrazione e convivenza civile».
Che cosa diceva sua madre di tanto scandaloso?
«Che aveva paura, e lo diceva in un' intervista del 1993, di questa inversione della destra che sta emergendo perché non siamo stati sufficientemente attenti».
E che pensava dell' immigrazione?
«Testuali parole: che ci piaccia o no siamo destinati a diventare Paesi multirazziali. Dobbiamo iniziare a vedere le persone che hanno pelle o tradizione diversa da noi come uomini. E diceva anche che offendere l' uomo è il delitto peggiore che si possa commettere. Perché è quello che lei ha vissuto sulla sua pelle nei lager». Che cosa avrebbe detto Lidia di quello che è appena successo sulla porta di casa sua?
«Credo che si sarebbe fatta prima una feroce risata, perché lei era così, molto ironica e forte. E poi avrebbe detto che abbiamo fallito. Perché se questo è il messaggio dopo l' orrore dei campi, allora è un fallimento per tutti».
E per Lei che cos' è?
«La prova di una regressione generale. Anche del sistema scolastico».
Che c' entra?
«C' entra eccome. Qualcuno vuol mettere mano alla riforma della scuola? Servono meno discorsi celebrativi e più conoscenza. Perché i giovani di oggi sono gli adulti di domani. E io non posso sentirmi chiedere da un insegnante, come è successo in una scuola piemontese, come funzionava il sistema scolastico nei lager». c. v.
Antisemitismo a Torino, scritta choc sui muri: «Crepa sporca ebrea». Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Massimo Massenzio. Dopo Mondovì, un altro episodio di antisemitismo nel cortile interno dell’edificio dove vive la figlia di una staffetta partigiana. Nuovo episodio di antisemitismo dopo quello di Mondovì. La scritta «crepa sporca ebrea» è comparsa sui muri di un palazzo di corso Casale, precollina di Torino, dove vive una donna di origini ebraiche, figlia di una staffetta partigiana. «Una frase terribile, soprattutto nel Giorno della Memoria. Termini vecchi, passati, che però fanno ancora male», dice la signora Maria, che ha sporto denuncia in Questura. Sull’episodio indaga la Digos. La scritta è stata realizzata sui muri del cortile interno del palazzo. «Non ho mai fatto mistero delle mie origini, non ne ho mai visto il motivo», racconta uscendo dalla Questura di corso Vinzaglio la donna, molto scossa. «Purtroppo il mio non è il primo caso — sostiene — e questa escalation fa riflettere. Meno male che in tante scuole gli insegnanti, e non solo, educano i ragazzi al rispetto dei veri valori della storia. È una brutta scritta, fa male. Fa tanto male...».
"Crepa sporca ebrea", scritta shock su un palazzo di Torino. L'ingiuria su una casa di corso Casale, dove vive una donna di origini ebree, figlia di una staffetta partigiana. Indaga la Digos. Appendino agli autori: "Affogerete nella vostra ignoranza". La Repubblica il 27 gennaio 2020. Nuovo episodio di antisemitismo dopo quello di Mondovì. La scritta "crepa sporca ebrea" è comparsa oggi sui muri di un palazzo di corso Casale, precollina di Torino, dove vive una donna di origini ebree, figlia di una staffetta partigiana. "Una frase terribile, soprattutto nel Giorno della Memoria. Termini vecchi, passati, che però fanno ancora male", dice la signora Maria, che ha sporto denuncia in Questura. Sull'episodio indaga la Digos. La scritta è stata realizzata sui muri del cortile interno del palazzo. "Non ho mai fatto mistero delle mie origini, non ne ho mai visto il motivo", racconta uscendo dalla Questura di corso Vinzaglio la donna, molto scossa. "Purtroppo il mio non è il primo caso - sostiene - e questa escalation fa riflettere. Meno male che in tante scuole gli insegnanti, e non solo, educano i ragazzi al rispetto dei veri valori della storia. E' una brutta scritta, fa male. Fa tanto male...". Duro il commento della sindaca Chiara Appedino: "75 anni fa finiva l'orrore dello sterminio ebraico. Oggi, esattamente nella stessa data, un muro della nostra città viene sfregiato da scritte antisemite. Ma sapete qual è la differenza? Che la storia si ripete due volte, la prima in tragedia, la seconda in farsa. E mentre la Città cancellerà quelle scritte - aggiunge - voi continuerete ad affogare nella vostra ignoranza e nel vostro anonimato. Finché le forze dell'ordine non vi troveranno, s'intende", conclude.
La figlia della staffetta partigiana e la scritta antisemita: «Resterà lì, testimonia i nostri tempi». Pubblicato martedì, 28 gennaio 2020 su Corriere.it da Massimo Massenzio. Maria Bigliani compirà sessantacinque anni domani. È andata in pensione lo scorso ottobre e vive in una storica casa di ringhiera, sulla precollina di Torino. Sul muro del terzo piano, proprio accanto alla sua porta, qualcuno ha vergato con il pennarello nero una terribile minaccia: «Crepa sporca ebrea». Quella scritta è rimasta lì, anche se la sindaca Chiara Appendino si è offerta di farla cancellare, perché Maria vuole che diventi una «testimonianza importante dei tempi che stiamo vivendo». Per questo, dopo qualche incertezza, ha deciso di rivolgersi agli investigatori della Digos e alla Procura, che adesso ha aperto un fascicolo per minacce aggravate dalla finalità di discriminazione religiosa. Maria è ebrea, e non ha mai fatto mistero delle sue origini. Spesso è andata incontro a prese in giro e sfottò da parte dei compagni di scuola, ma più avanti anche da parte dei colleghi che per anni hanno lavorato insieme con lei nell’ufficio Ambiente del Comune di Torino. Riconosce: «Ho sempre risposto a tutti per le rime, anche quando si trattava di insulti pesanti. Questa volta, però, è diverso. Mia mamma non avrebbe voluto che rimanessi in silenzio». Sua madre era Ines Ghiron Bigliani, coraggiosa staffetta partigiana, protagonista della Resistenza a Roma e a Milano. Era nata ad Alessandria nel 1917, ma la sua famiglia era originaria di Casale Monferrato. «I miei nonni si trasferirono presto a Parigi, dove mia madre ha vissuto fino al 1934», ricorda adesso Maria Bigliani, pescando appunti e fotografie in una scatola di cartone dove conserva tutti i suoi ricordi. «Erano anni difficili e mi raccontava che, appena tornata in Italia, non capiva per quale motivo si dovesse vergognare di essere ebrea», va avanti. «Poi arrivarono le leggi razziali e la nostra famiglia cercò rifugio a Ginevra, ma lei decise di non scappare. Così prima si nascose da alcuni parenti e poi riuscì a raggiungere Roma. È allora che si iscrisse al Partito d’Azione e che le assegnarono l’incarico di portare documenti riservati verso il Nord Italia. Ha corso tantissimi pericoli perché davvero credeva nella libertà e ha cresciuto i suoi tre figli con queste idee». A ottantasette anni Ines Ghiron ha raccolto le sue memorie nel libro Nonna raccontaci la tua vita, che ha dedicato ai suoi nipoti: «Ci ha trasmesso l’orgoglio di essere ebrei — ricorda Maria —. E un altro importante insegnamento è arrivato da Primo Levi, molto amico dei miei genitori, con la sua paura che l’Olocausto e tutte le sofferenze del popolo ebraico fossero dimenticati. Per questo spero che questo gesto orribile, compiuto da persone ignoranti e codarde, non venga scordato in fretta». Rileggendo quelle tre parole scritte proprio sopra il suo campanello, Maria non riesce a non provare una grande rabbia: «Non comprendo come si possano tirare fuori dal passato questi termini. Ho un po’ di paura, ma vorrei davvero che quello che è successo a me servisse d’esempio per i giovani. L’antisemitismo è sempre in agguato, si nasconde anche nelle frasi scherzose e non bisogna mai abbassare l’attenzione». Maria è vedova da cinque anni, ha due figli e dallo scorso ottobre è andata in pensione: «Ho sfruttato Quota 100 e adesso posso concedermi qualche viaggio e dedicarmi alla pittura, la mia grande passione», conclude con un sorriso. «Non sono mai stata in Israele, forse finalmente, dopo tanta attesa, riuscirò ad andarci».
Svastiche e vetri rotti in un bar gestito da una giovane marocchina. Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Lilina Golia. Nel giorno in cui si celebra la Giornata della memoria a Rezzato, pochi chilometri da Brescia, si registra un grave rai razzista contro una ragazza di origine marocchina che gestisce il bar Casablanca, in via Garibaldi. Vetrate sfondate, tende rotte, porte divelte e a terra, sul pavimento, una grande scritta, “negra troia”, con tanto di svastica e croce celtica. Madiha, la barista italiana, 36 anni è stata svegliata verso le 2 di notte dall’allarme del bar. Una volta arrivata sul posto, ha visto quanto accaduto, con il bar pesantemente colpito dal raid razzista e sessista. Indagano i carabinieri di Brescia. Le reazioni politiche al gesto non si sono fatte attendere. «Ancora una volta i fantasmi dei rigurgiti neofascisti colpiscono Brescia. Dopo le scritte ingiuriose e gli ordigni messi davanti alla casa del sindaco di Collebeato, reo di ospitare sul suo territorio alcuni immigrati sotto protezione internazionale, ora è il turno di Rezzato, dove un bar gestito da una ragazza di origine marocchina è stato vandalizzato da scritte razziste e inneggianti al nazifascismo. Brescia è una comunità ospitale e democratica, e non può tollerare queste continue provocazioni inaccettabili e violente, tanto più oggi, in una giornata dedicata al ricordo del più infame lascito dei regimi nazifascisti, i campi di concentramento. Nel manifestare la mia personale solidarietà alla ragazza vittima di questa vigliaccata, auspico la ferma reazione della comunità civile bresciana e delle istituzioni democratiche. Queste provocazioni indegne vanno stroncato sul nascere». Lo dichiara Alfredo Bazoli, capogruppo Pd in commissione Giustizia della Camera. «Quello che è successo, oggi e non a caso, a Rezzato in provincia di Brescia è un gesto gravissimo che ci addolora. L’ennesimo episodio di violenza e razzismo, l’ennesimo gesto di chi inneggia all’orrore del nazismo. Esprimiamo tutta la nostra solidarietà e vicinanza alla ragazza vittima di questo vile gesto». Lo dichiara il deputato democratico Emanuele Fiano della presidenza del Gruppo Pd della Camera. «Combatteremo insieme questi rigurgiti di neonazismo. Le istituzioni democratiche e repubblicane sono più forti di chi agisce di notte, nell’ombra, per imbrattare muri e distruggere vetrine, e le forze dell’ordine sapranno presto individuarne gli autori. E siamo certi ancora di più oggi, Giorno della Memoria», conclude. «Ignobile e intollerabile. Non si può definire in altro modo il vergognoso atto criminale di stampo razzista contro un bar di Rezzato, in provincia di Brescia. Adesso basta. Contro questi episodi si interverrà con la massima severità. Le forze dell’ordine sono già al lavoro per individuare i responsabili di questo atto vigliacco e spregevole siano individuati al più presto. Alla titolare dell’esercizio commerciale invio la mia piena vicinanza e solidarietà. Fa molto riflettere che un atto del genere avvenga proprio il Giorno della Memoria». Così il viceministro dell’Interno Matteo Mauri.
Torino, scritte naziste sul campanello della figlia di un partigiano: terzo caso in una settimana in Piemonte. I bigliettini adesivi con le scritte e i simboli nazisti. Nuova intimidazione nel quartiere Vanchiglia contro un'attivista dell'Anpi: "Sieg heil", svastica e simbolo delle Ss su due bigliettini. Indaga la Digos. Cristina Palazzo e Jacopo Ricca il 30 gennaio 2020 su la Repubblica. Una nuova scritta nazista è comparsa ieri a Torino. Questa volta nel mirino è finita la figlia di un partigiano del quartiere Vanchiglia che si è trovata sul campanello due bigliettini con frasi ingiuriose in tedesco e una croce uncinata. La signora, attiva nel gruppo dell'Anpi di quartiere, si è rivolta alla Digos della questura di Torino che sta cercando di capire chi possa essere l'autore. Si tratta infatti di persone che conoscono la donna e la storia della sua famiglia. Il padre infatti è stato un partigiano conosciuto in città. Dopo le scritte "Juden hier" a Mondovì e "Crepa sporca ebrea" in via Monferrato a Torino si tratta del secondo episodio a Torino e del terzo in Piemonte in pochi giorni. "Ancora minacce e squadrismo - è il commento della presidente dell'Anpi provinciale di Torino, Maria Grazia Sestero - Il moltiplicarsi di aggressioni e minacce a cittadini antifascisti, presso le loro abitazioni, sta raggiungendo livelli socialmente intollerabili. Mentre aumentano quanti si riconoscono in Mussolini e nelle sue criminali politiche di oppressione e persecuzione degli oppositori politici, degli ebrei e di ogni persona ritenuta “diversa”, in questi giorni dobbiamo purtroppo denunciare un’altra vile minacciai a una donna, iscritta alla nostra associazione, figlia di un partigiano. Un biglietto recante slogan nazisti è stato trovato sul suo campanello del citofono di casa. La vittima ha prontamente denunciato l’accaduto; chiediamo alle autorità competenti di individuare gli autori dell’aggressione perché si interrompa questa catena di violenze". La presidente dell'Anpi sottolinea: "Forze neofasciste e neonaziste, la cui presenza a Torino abbiamo denunciato più volte, hanno portato questi richiami di orrore criminale in una città Medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza. Troppa indifferenza si è instillata nell’opinione pubblica, troppo spesso riconoscendo libertà di espressione a chi evoca crimini del passato e introduce nella nostra democrazia germi di violenza che credevamo espulsi con la Liberazione dalla dittatura fascista. Le partigiane e i partigiani dell’Anpi, i tanti antifascisti che condividono nell’Associazione l’eredità della Resistenza chiedono che le forze sociali e politiche facciano dell’antifascismo la barriera a difesa della democrazia e della sicurezza nelle vie e nelle case della città". "L'ennesimo atto vigliacco, l'ennesima azione neonazista e neofascista a Torino. Gesti da non sottovalutare - dice il segretario metropolitano del Pd, Mimmo Carretta, vicepresidente della Commissione speciale del Comune per il contrasto ai fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza - "sono segnali preoccupanti a cui bisogna rispondere con la solidarietà e la fermezza antifascista. Gesti da non sottovalutare - afferma su Facebook - in un periodo in cui, come dimostra l'indagine Eurispes, si moltiplicano gli italiani che non credono più all'orrore dell'Olocausto e giustificano un dittatore come Mussolini". Carretta invita, "dalle scuole ai quartieri, dai posti di lavoro, alle strade e le piazze" a continuare "a tenere alta la guardia affinché il revisionismo, il neofascismo e il neonazismo non passino".
Da ilmessaggero.it il 31 gennaio 2020. La presa di posizione del sindaco Sala di Milano che ha affisso un cartello davanti alla porta di casa sua per sottolineare la sua posizione antifascista sembra essere contagiosa. Anche un parroco in un paese alle porte di Torino ha attaccato al portone della chiesa un cartello: "Juden hier, qui abita un ebreo, Gesù". Il quotidiano Avvenire ha raccolto la sua testimonianza: «Le persone che passano si fermano, leggono e alcune mi cercano per darmi una sorta di testimonianza positiva. Era quello che mi premeva di più: scuotere le coscienze» dice don Ruggero Marini, parroco della chiesa di San Giacomo di La Loggia. La scelta del parroco fa seguito alle scritte antisemite comparse a Mondovì e a Torino nei giorni scorsi. L'arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, si è mostrato molto preoccupato per questi rigurgiti di antisemitismo. «In tutte le sue forme, ha prodotto tragedie immani che dobbiamo non solo condannare, ma fare in modo che non si ripetano più. È grave che ci troviamo, nel nostro paese, fra la nostra gente, senza più ragioni forti per ricordarci che non solo siamo tutti fratelli, ma che condividiamo cittadinanza e interessi economici, lingua e territori». L'Osservatore Romano ha riportato il fatto di cronaca con un titolo significativo: «Smuovere le coscienze».
Insulti alla barista e svastica «Ho paura, non so se riapro». Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Pietro Gorlani. Una svastica al contrario, una croce celtica e una scritta offensiva e razzista. È quello che ha trovato nel sua bar a Rezzato (nel Bresciano) Madiha Khtibari, 36enne di origine marocchina. Proprio ieri, mentre si celebrava il Giorno della Memoria. «È un gesto vergognoso, che mi cambierà la vita. Adesso ho paura, non so se riaprirò il bar» ha detto a caldo la donna con in tasca un diploma da ragioniera e la cittadinanza italiana (è nata qui) e fidanzata con un imprenditore bresciano. Oltre alle offese razziste ha subìto anche ingenti danni al locale: vetrine sfondate, bottiglie di alcolici e latte rovesciate sul bancone, i bicchieri in mille pezzi, il tendone del gazebo divelto. È una scenografia inquietante, che ricorda tempi più bui della vernice usata per scrivere quelle infamie, quella scoperta da Madiha alle 2.40 dell’altra notte. «Mi è arrivato il messaggio d’allarme sul cellulare: pensavo a un furto o a un guasto tecnico» ha spiegato a Radio Onda d’Urto. Invece no. «Nel mio bar non si parla l’arabo, per rispetto nei confronti del Paese in cui vivo. Ma ricevo apprezzamenti insistenti dai clienti e anche minacce verbali». Non solo minacce, ma «anche offese razziste» spiega alCorriere il dipendente egiziano del distributore a fianco: «Madiha gestisce il Casablanca da un anno. È brava, i clienti sono cresciuti molto ma mi ha confessato che negli ultimi mesi dei ragazzi le hanno detto “Marocchina di m...”, rovesciando il caffè sul tavolo. È successo tre volte, l’ultima poco prima di Natale». Madiha però non ha mai sporto denuncia. Inizia a fare caffè alle 6.30 del mattino, soprattutto a operai e camionisti. La clientela è prevalentemente maschile: «Parlano di calcio, politica, donne; io cerco di essere gentile con tutti» dice Madiha, che se la prende anche con «l’omertà» dei vicini. Possibile non si siano accorti di nulla? «Io alle due ho sentito un botto, mi sono affacciato ma non ho visto nulla» spiega Eraldo Archetti, titolare del distributore Agip, che vive sopra il bar. Risposta fotocopia per l’altro vicino, Salvatore Criscuolo, titolare di una pizzeria. Le indagini si rivelano non semplici per i Carabinieri di Brescia: il piazzale non è videosorvegliato. La reazione del paesotto ieri è stata piuttosto tiepida: pochi i residenti arrivati sul posto per portare la loro solidarietà a Mahida. L’amministrazione comunale guidata dal sindaco leghista Giovanni Ventura, con un post su Facebook, le ha espresso solidarietà condannando «il gesto spregevole e miserabile». Molte le reazioni dei politici nazionali. Per Vito Crimi, reggente dei 5 Stelle, viceministro dell’Interno e bresciano d’adozione, «oggi più che mai è nostro dovere ricordare cosa fu l’orrore dell’Olocausto e combattere contro quanti seminano odio e ignoranza». Duro anche il deputato del Pd Alfredo Bazoli, che nel 1974 ha perso la madre nella strage di piazza Loggia: «Ancora una volta i fantasmi dei rigurgiti neofascisti colpiscono Brescia. Auspico la ferma reazione della comunità civile».
Sfondano vetrina e scrivono insulti razzisti con svastica in un bar gestito da una italo-marocchina nel Bresciano. A Rezzato. Qualcuno ha sfondato la vetrina scrivendo insulti sul pavimento, con una svastica e una celtica. "Ho paura, non so se riaprirò", spiega Madhia, la 36enne che gestisce il bar Casablanca. Oriana Liso il 27 gennaio 2020 su La Repubblica. Hanno sfondato la vetrina nella notte e poi sul pavimento hanno lasciato una scritta: 'negra' con una svastica disegnata al contrario e offese sessiste. È accaduto in un bar di Rezzato in provincia di Brescia gestito da una ragazza italiana ma di origini marocchine. Sulla vicenda indagano le forze dell'ordine. L'allarme del Bar Casablanca, che si trova all'interno di una stazione di benzina in via Garibaldi, è suonato alle due della scorsa notte: "Abito in un paese vicino, sono corsa al bar e l'ho trovato in quelle condizioni. Adesso ho paura, non so se riaprirò", racconta Madhia, 36 anni, genitori marocchini ma nata in Italia - "sono bresciana doc", spiega - che ha preso in gestione il bar poco più di un anno fa. Sulla pagina Facebook "Rezzato democratica" si legge: "Durante la scorsa notte ignoti si sono introdotti in un bar di Rezzato sfondando le vetrine e imbrattando i pavimenti con segni e scritte ingiuriose rivolte alla titolare. Segni che stridono con la giornata di oggi dedicata alla memoria delle vittime della Shoah e delle tremende conseguenze del razzismo innalzato a ideologia. Vogliamo esprimere tutta la nostra vicinanza alla titolare condannando con nettezza questo atto vile e razzista. Siamo convinti che le Forze dell’Ordine sapranno individuare al più presto i responsabili perché questo gesto violento non resti impunito". La Digos indaga sulle scritte e sui vandalismi: infatti nel bar sono stati anche spaccati i bicchieri, svuotate le bottiglie dei frigoriferi e tagliate le tende parasole.
"Troppe svastiche sui muri della Puglia", l'Anpi lancia l'allarme da Bari: "Esercitiamo la memoria". Il dato durante emerso durante la cerimonia. La 27enne Sara Acquaviva: "Ci sono alcuni quartieri di Bari, dove CasaPound prosegue i suoi vergognosi attacchinaggi". La Repubblica il 27 gennaio 2020. "Questo Paese ha conosciuto la vergogna terribile delle leggi razziali, l'esclusione dalla vita, la deportazione delle persone in campi di tortura e morte. Nonostante ciò, c'è chi ancora disegna svastiche in città. E' successo pochi giorni fa ad Andria, ma è all'ordine del giorno in città come Foggia o in alcuni quartieri di Bari, dove CasaPound prosegue i suoi vergognosi attacchinaggi, o l'altra notte a Mondovì, perché ormai si sono sdoganati anche i peggiori ricordi della storia del nostro mondo. Alla luce di questi campanelli d'allarme, dobbiamo essere ancora più efficaci nell'esercitare la memoria". E' un passaggio dell'intervento di Sara Acquaviva, Anpi Bari, alla cerimonia in occasione della Giornata della Memoria nel Comune di Bari, nel 75esimo anniversario della liberazione di Auschwitz, dedicata al deportato antifascista barese Filippo D'Agostino, morto nel campo di sterminio nazista di Mauthausen. "Oggi, - dice Acquaviva, 27enne attivista dell'Anpi - tutte le istituzioni e tutti i corpi intermedi sono chiamati a far capire che, come furono gli ebrei le vittime principali della Shoah, la follia potrebbe colpire qualsiasi altro gruppo etnico, politico o sociale, donne, migranti, omosessuali, poveri, attivisti politici, e ciò, in alcune parti del mondo è già in corso. Dobbiamo essere in grado di immaginare risposte concrete ai bisogni delle persone e mettere in pratica l'insegnamento della Shoah".
Stella di David sulla porta di un discendente di una famiglia sterminata nella Shoah. Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 su Corriere.it da Silvia Morosi. Un nuovo episodio di antisemitismo dopo quelli di Mondovì e Torino dei giorni scorsi. Presentata denuncia. Una stella di David sull’ingresso di casa con una freccia che indica il suo cognome sul campanello. A ritrovarla, a Bologna, è stato un uomo, discendente di una famiglia sterminata nella Shoah. Come raccontato al Tgr Rai dell’Emilia-Romagna, «verso le 10 sono andato a prendere il caffè al bar e sui campanelli ho visto questa scritta con il simbolo, la stella di David, con una freccia che va verso il mio nome nel campanello. Ho sentito il cuore battere forte, mi si è stretta la gola e mi sono chiesto “cosa devo fare?”». «Io sono agnostico — ha chiarito — quindi mi sembrava anche strano subire una discriminazione sulla base di una militanza religiosa. Ho perso nella Shoah tutta la famiglia di mio padre tranne lui». L’uomo ha sporto denuncia e annunciato che farà cancellare la scritta. Giovedì due adesivi con la scritta «Sieg Heil», il simbolo delle SS e una svastica, erano state trovate a Torino, nel quartiere Vanchiglia, sul campanello dell’appartamento di una donna iscritta all’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi) e figlia di un partigiano, che ha sporto denuncia alla Digos. Solo pochi giorni fa sono stati registrati altri due episodi di antisemitismo: a Mondovì (Cuneo) sulla porta della casa di Lidia Rolfi, ex deportata morta il 17 gennaio 1996 a 71 anni, oggi abitata dal figlio, era apparsa la scritta «Juden hier», «gli ebrei sono qui». E a Torino la scritta «crepa sporca ebrea» era comparsa sui muri di un palazzo di corso Casale, dove vive una donna di origini ebraiche, figlia di una staffetta partigiana. «Una frase terribile, soprattutto nel Giorno della Memoria. Termini vecchi, passati, che però fanno ancora male», aveva chiarito Maria Bigliani, figlia dell’ex deportata, spiegando che non avrebbe fatto cancellare la scritta. Quella che emerge dall’ultimo rapporto Eurispes, diffuso giovedì 30 gennaio, è una fotografia allarmante: è — infatti — in aumento il numero degli italiani che pensa che la Shoah non sia mai avvenuta. Nel 2004 la percentuale era il 2,7%, oggi è il 15,6%. Risultano in crescita, sebbene in misura meno eclatante (dall’11,1% al 16,1%), anche coloro che ridimensionano la portata della Shoah. Inoltre, il 19,8% del campione ritiene che «Mussolini sia stato un grande leader che ha solo commesso qualche sbaglio». Invece, l’affermazione secondo cui l’Olocausto non avrebbe prodotto così tante vittime come viene sostenuto trova una percentuale di accordo solo lievemente superiore: 16,1%, mentre il disaccordo raggiunge l’83,8%. Aumenta invece il numero di cittadini secondo i quali lo sterminio degli ebrei per mano nazista non è mai avvenuto: dal 2,7% al 15,6%.
Bologna, stella di David sulla porta di un discendente di deportati. Tracciata vicino al campanello di casa. Una freccia indicava il nome dell’uomo. Scattata la denuncia. Valentina Dardari, Venerdì 31/01/2020, su Il Giornale. Un uomo, residente a Bologna, ha presentato denuncia alle forze dell'ordine dopo aver trovato, tracciata sulla porta di casa sua, una stella di David, con una freccia che indicava il suo cognome sul campanello. L’uomo in questione è un discendente di una famiglia ebrea sterminata nell'Olocausto. Dopo gli episodi di antisemitismo verificatisi a Mondovì e a Torino, avvenuti negli scorsi giorni, un altro triste evento.
Stella di David su una porta a Bologna. La sua testimonianza è stata raccolta dal Tg Rai dell'Emilia-Romagna. Ha così raccontato: “Verso le 10 vado a prendermi un caffè al bar e con mia grande sorpresa ho visto la stella con la freccia che va verso il mio cognome sul campanello. Ho sentito il cuore battere forte e mi si è stretta la gola. Ho pensato alla mia famiglia e mi sono chiesto, sinceramente, e ora cosa devo fare?”. Ha poi spiegato di essere agnostico e ha trovato strano “subire una discriminazione sulla base di una militanza religiosa”. Ha perso nella Shoah tutta la famiglia di suo padre tranne lui. Ha deciso di sporgere denuncia e di far cancellare la scritta, a differenza di altre persone che hanno trovato scritte simili alla sua in Piemonte.
Gli altri episodi. Pochi giorni prima di Bologna, altri tre episodi di antisemitismo: a Mondovì, in provincia di Cuneo, la scritta "Juden hier", che in tedesco significa "qui ci sono ebrei", apparsa sulla porta della casa di Lidia Rolfi, staffetta partigiana deportata nel 1944 nel campo di concentramento tedesco di Ravensbrück e testimone degli orrori dell'olocausto. Adesso in quella casa vive il figlio Aldo, dopo che la donna è morta nel 1996. Il secondo terribile episodio a Torino, dove sui muri di un palazzo di corso Casale è comparsa la scritta “crepa sporca ebrea”. In quella casa vive una donna di origini ebraiche, figlia di una staffetta partigiana. Maria Bigliani, figlia della ex deportata aveva spiegato che non avrebbe fatto cancellare la scritta, ormai vecchia, passata, ma che fa ancora male. L’ultimo è avvenuto giovedì scorso, nel quartiere Vanchiglia di Torino, dove sono stati trovati due adesivi con la scritta “Sieg Heil”, il simbolo delle SS e una svastica. Si trovavano sul campanello dell’appartamento di una donna iscritta all’Associazione nazionale partigiani d’Italia, figlia di un partigiano. La donna ha sporto denuncia alla Digos. La cosa che preoccupa maggiormente è che, come si legge nel 32esimo rapporto dell’Eurispes, per il 61,7% degli intervistati i recenti episodi di antisemitismo non indicherebbero un ritorno del fenomeno. Il 15,6% degli italiani nega la Shoah.
Bologna, stella di David sulla porta di un discendente di vittime della Shoah. L'uomo ha già fatto denuncia ai carabinieri: "La bravata di qualche idiota". Merola: "Bologna non merita questi scempi". Valerio Varesi il 31 gennaio 2020 su la Repubblica. Una stella di David disegnata sul citofono e un freccia a indicare il nome tra i campanelli. E’ l’ennesimo episodio di antisemitismo e questa volta è a Bologna, in un condominio di viale della Repubblica, prima periferia della città, con bersaglio un ex insegnante di origine ebreo-polacca. Si tratta del discendente di una famiglia sterminata nella Shoah. Il simbolo è l’equivalente del tremendo "juden hier" con il quale i nazisti indicavano le case in cui abitavano gli ebrei. L’ex professore ha sporto denuncia ai carabinieri che ora stanno indagando. "Credo si sia trattato di una bravata di qualche idiota per emulare altri episodi", ha commentato la vittima. "Mi rifiuto di pensare che una città inclusiva come Bologna possa aver prodotto una cosa del genere". "Bologna non merita questi scempi e non rinuncerà mai a far valere la forza della memoria, la comunità ebraica è una parte importante della nostra città". Lo ha detto il sindaco di Bologna Virginio Merola. In serata sono giunti gli attestati di solidarietà da parte della neo consigliera regionale Elly Schlein, del presidente del quartiere San Donato Simone Borsari e di numerosi parlamentari di destra e di sinistra.
Torino, scritte naziste sul campanello della figlia di un partigiano: terzo caso in una settimana in Piemonte. I bigliettini adesivi con le scritte e i simboli nazisti. Nuova intimidazione nel quartiere Vanchiglia contro un'attivista dell'Anpi: "Sieg heil", svastica e simbolo delle Ss su due bigliettini. Indaga la Digos. Cristina Palazzo e Jacopo Ricca il 30 gennaio 2020 su La Repubblica. Una nuova scritta nazista è comparsa ieri a Torino. Questa volta nel mirino è finita la figlia di un partigiano del quartiere Vanchiglia che si è trovata sul campanello due bigliettini con frasi ingiuriose in tedesco e una croce uncinata. La signora, attiva nel gruppo dell'Anpi di quartiere, si è rivolta alla Digos della questura di Torino che sta cercando di capire chi possa essere l'autore. Si tratta infatti di persone che conoscono la donna e la storia della sua famiglia. Il padre infatti è stato un partigiano conosciuto in città. Dopo le scritte "Juden hier" a Mondovì e "Crepa sporca ebrea" in via Monferrato a Torino si tratta del secondo episodio a Torino e del terzo in Piemonte in pochi giorni. "Ancora minacce e squadrismo - è il commento della presidente dell'Anpi provinciale di Torino, Maria Grazia Sestero - Il moltiplicarsi di aggressioni e minacce a cittadini antifascisti, presso le loro abitazioni, sta raggiungendo livelli socialmente intollerabili. Mentre aumentano quanti si riconoscono in Mussolini e nelle sue criminali politiche di oppressione e persecuzione degli oppositori politici, degli ebrei e di ogni persona ritenuta “diversa”, in questi giorni dobbiamo purtroppo denunciare un’altra vile minacciai a una donna, iscritta alla nostra associazione, figlia di un partigiano. Un biglietto recante slogan nazisti è stato trovato sul suo campanello del citofono di casa. La vittima ha prontamente denunciato l’accaduto; chiediamo alle autorità competenti di individuare gli autori dell’aggressione perché si interrompa questa catena di violenze". La presidente dell'Anpi sottolinea: "Forze neofasciste e neonaziste, la cui presenza a Torino abbiamo denunciato più volte, hanno portato questi richiami di orrore criminale in una città Medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza. Troppa indifferenza si è instillata nell’opinione pubblica, troppo spesso riconoscendo libertà di espressione a chi evoca crimini del passato e introduce nella nostra democrazia germi di violenza che credevamo espulsi con la Liberazione dalla dittatura fascista. Le partigiane e i partigiani dell’Anpi, i tanti antifascisti che condividono nell’Associazione l’eredità della Resistenza chiedono che le forze sociali e politiche facciano dell’antifascismo la barriera a difesa della democrazia e della sicurezza nelle vie e nelle case della città". "L'ennesimo atto vigliacco, l'ennesima azione neonazista e neofascista a Torino. Gesti da non sottovalutare - dice il segretario metropolitano del Pd, Mimmo Carretta, vicepresidente della Commissione speciale del Comune per il contrasto ai fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza - "sono segnali preoccupanti a cui bisogna rispondere con la solidarietà e la fermezza antifascista. Gesti da non sottovalutare - afferma su Facebook - in un periodo in cui, come dimostra l'indagine Eurispes, si moltiplicano gli italiani che non credono più all'orrore dell'Olocausto e giustificano un dittatore come Mussolini". Carretta invita, "dalle scuole ai quartieri, dai posti di lavoro, alle strade e le piazze" a continuare "a tenere alta la guardia affinché il revisionismo, il neofascismo e il neonazismo non passino".
Il sondaggio di Alessandra Ghisleri, così l’Italia si scopre antisemita: “Gli ebrei hanno troppo potere”. Libero Quotidiano il 14 Gennaio 2020. Secondo un sondaggio della Euromedia Research di Alessandra Ghisleri, pubblicato sulla Stampa in edicola martedì 14 maggio, l' 1,3 per cento degli italiani pensa che la Shoah sia una leggenda inventata. L' 1,3 per cento potrebbe essere una percentuale fisiologica di imbecilli totali, scrive Mattia Feltri, e tuttavia corrisponde a circa 700 mila italiani maggiorenni - più o meno la popolazione di Palermo, quasi quella di Torino - convinti che Hitler non abbia torto un capello agli ebrei. Un altro dieci e mezzo per cento si limita a sostenere che il terribile consuntivo (sei milioni di ebrei ammazzati) sia stato fortemente esagerato dalla storiografia. Il 6,1 per cento si dichiara "poco favorevole" o "non favorevole" alla religione ebraica. Il 14 per cento degli intervistati ritiene che i palestinesi siano vittime di un genocidio da parte di Israele, l' 11,6 che gli ebrei dispongano di un soverchio potere economico-finanziario internazionale, il 10,7 che non abbiano cura della società in cui vivono ma soltanto della loro cerchia religiosa, l' 8,4 che si ritengano superiori agli altri, il 5,8 che siano causa di molti dei conflitti che insanguinano il mondo. La sequela di pregiudizi dimostra che la percentuale di aperti antisemiti (6,1 per cento) è molto al di sotto degli antisemiti inconsapevoli, o malamente mascherati. E Alessandra Ghisleri invita a leggere bene i numeri. Intanto l' 1,3 per cento di negazionisti "non è alto, ma mi aspettavo lo 0,2 o lo 0,3, qualcosa del genere". Poi, aggiunge, è impressionante che fra i dichiaratamente antisemiti il 49 per cento abbondante accusi gli ebrei di strapotere finanziario e quasi il 47 di sentirsi una razza superiore, e cioè le pietre angolari su cui il nazismo costruì la sua propaganda.
Eurispes, il rapporto choc: per il 15% degli italiani la Shoah non è mai esistita. Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandra Arachi. La Shoah? Per un italiano su sei non è mai esistita. È scritto nel rapporto Eurispes 2020, e a scorrere i suoi dati vengono i brividi, e non soltanto perché il 15,6 per cento degli italiani nega che la Shoah sia mai avvenuta ma anche perché poi c’è un altro 16,1 per cento di italiani che dice sì, la Shoah c’è stata ma non è stata un fenomeno così importante. Nel 2004 il negazionismo riguardava il 2,7 per cento degli italiani . «Sono dati allarmanti che non dobbiamo sottovalutare», dice Matteo Mauri, vice ministro dell’Interno, aggiungendo: «Il negazionismo continua ad infangare la memoria di questa tragedia». Il negazionismo degli italiani non guarda soltanto al passato. Secondo l’Eurispes c’è un fenomeno molto diffuso che riguarda i giorni nostri. Ben il 61,7 per cento, infatti, dichiara candidamente che i recenti episodi di antisemitismo sono casi isolati e non sono indice di un reale problema. Di più: il 37, 2 per cento la butta sull’ironia, sostenendo che quegli episodi di antisemitismo altro non sono che «bravate messe in atto per provocazione o per scherzo». Ma non è finita. Nelle pagine dell’Eurispes si legge che un italiano su cinque rivaluta Benito Mussolini. Per il 19,8 per cento, infatti «Mussolini è stato un grande leader che ha solo commesso qualche sbaglio», omettendo che fu proprio Benito Mussolini che nel 1938 emanò le leggi razziali, in linea con le altre affermazioni negazioniste contenute nel rapporto.
L’inchiesta choc: il 15% degli italiani non crede alla Shoah. Il Dubbio il 30 gennaio 2020. I dati del “Rapporto Italia 2020” di Eurispes. Secondo il 24% gli ebrei controllerebbero il potere economico e politico mondiale. E l’antisemitismo si annida in tutti gli schieramenti politici. Una parte minoritaria, ma comunque significativa della popolazione italiana, coltiva anche oggi pregiudizi antisemiti, quando non un clamoroso oblio della storia:secondo quanto emerge dal “Rapporto Italia” 2020 dell’Eurispes, il 16,1% degli italiani sminuisce la portata della Shoah, il 15,6% la nega. L’affermazione secondo la quale gli ebrei controllerebbero il potere economico e finanziario, raccoglie il generale disaccordo degli italiani: il 76% (il 39,6% per niente d’accordo ed il 36,4% poco), non manca però chi concorda con questa idea: il 23,9% (18,9%«abbastanza» e 5% «molto» d’accordo). Gli ebrei controllerebbero i mezzi d’informazione a detta di più di un quinto degli italiani intervistati (22,2%; il 4,3% molto, il 17,9% abbastanza), mentre i contrari arrivano al 77,7% (con un 46,4% del tutto in disaccordo). La tesi secondo cui gli ebrei determinano le scelte politiche americane, spiega il Rapporto Eurispes, incontra la percentuale più elevata di consensi, pur restando minoritaria: il 26,4%, contro un 73,6% di pareri contrari. Rispetto all’affermazione che l’Olocausto degli ebrei non è mai accaduto, la quota di accordo si attesta al 15,6% (con un 4,5% addirittura molto d’accordo ed un 11,1%abbastanza), a fronte dell’84,4% non concorde (il 67,3% per niente, il 17,1% poco). Invece l’affermazione secondo cui l’ Olocausto non avrebbe prodotto così tante vittime come viene sostenuto trova una percentuale di accordo solo lievemente superiore: 16,1% (il 5,5% è molto d’accordo), mentre il disaccordo raggiunge l’83,8% (con il 64,9%per niente d’accordo ed il 18,9% poco d’accordo). La credenza che la Shoah non abbia mai avuto luogo vede il picco di intervistati «molto» d’accordo tra chi si riconosce politicamente nel Movimento 5 Stelle (8,2%), concordi complessivamente nel 18,2% dei casi; la più alta percentuale di soggetti concordi (abbastanza o molto) si registra però tra gli elettori di centrosinistra (23,5%). I revisionisti risultano più numerosi della media a sinistra – per il23,3% l’ Olocausto degli ebrei è avvenuto realmente, ma ha prodotto meno vittime di quanto si afferma di solito – ed al centro (23%), meno a destra (8,8%).Secondo il Rapporto dell’Eurispes tra il 2004 e il 2020 è in aumento chi pensa che l’ Olocausto non sia mai avvenuto (dal 2,7% al 15,6%). A distanza di oltre 15 anni, nel confronto l’indagine condotta dall’Eurispes su questi stessi temi, la percentuale di italiani secondo i quali gli ebrei determinano le scelte politiche americane è oggi più bassa: dal 30,4% al 26,4%. Nel 2004 per oltre un terzo del campione (34,1%) gli ebrei controllavano in modo occulto il potere economico e finanziario, nonché i mezzi d’informazione, mentre oggi la percentuale risulta inferiore ad un quarto. Aumenta invece il numero di cittadini secondo i quali lo sterminio per mano nazista degli ebrei non è mai avvenuto: dal 2,7% al 15,6%. Risultano in aumento, sebbene in misura meno eclatante, anche coloro che ne ridimensionano la portata (dall’11,1% al 16,1%).
Partito antisemita è il quarto d’Italia, secondo un sondaggio il 12% non crede alla Shoah. Emanuele Fiano il 15 Gennaio 2020 su Il Riformista. Gli ebrei hanno troppo potere dicono in tanti che hanno risposto a un sondaggio. E l’antisemitismo si nutre sempre dello stesso cibo. Questa volta la ricerca sullo stato dell’arte dell’antisemitismo in Italia, è condotta da una ricercatrice, universalmente apprezzata, in genere dedita alla misurazione degli umori politici come Alessandra Ghisleri, e i risultati non sono affatto incoraggianti. Circa il 12% degli italiani crede sostanzialmente che la Shoah sia una bufala. Il 6,1% della popolazione si dichiara non favorevole alla religione ebraica, ma i valori che riguardano le motivazioni di questo plateale schieramento antisemita, sono ancora superiori (il 14% pensa che i palestinesi siano oggetto di un genocidio da parte degli ebrei, l’11,6 che gli ebrei dispongano di un potere economico troppo forte, il 10,7 che si occupino solo di se stessi etc etc ). Come al solito in questo tipo di ricerche, ancora più del valore assoluto sarebbe utile il valore comparativo, con gli anni precedenti. Nel caso della ricerca della Ghisleri non abbiano raffronti, ma tutte le ricerche che monitorano l’andamento storico degli atti e delle espressioni antisemite, anche sui social, misurano un cospicuo aumento. Quale giudizio dare dunque di questi dati?
Il primo: l’antisemitismo non è mai morto, e non morirà mai. La necessità dell’individuazione di un nemico, della circoscrizione del proprio territorio dove la diversità non è accettata, vale sempre. L’antisemitismo ha una sua peculiarità, una sua storicità, ma appartiene a una famiglia più grande, del razzismo e della discriminazione, che ha una persistenza storica formidabile e preoccupante.
Secondo: la concomitanza di fattori che inducono a un peggioramento della situazione, come le crisi economiche e (come dimostra anche per esempio il famoso post del senatore Lannutti), le crisi bancarie, aumentano l’intensità del fenomeno. Di fronte a un problema esistenziale così grande come la propria condizione materiale di vita, la precarietà della propria situazione, l’incertezza del futuro, l’impressione di essere impotenti contro un destino cinico e baro, scatta la ricerca di un nemico un po’ indecifrabile, un oscuro complotto, un popolo strano con strane usanze, qualcuno o qualcosa la cui alterità giustifica il sospetto di attività pericolose e nemiche.
Terzo: l’antisemitismo ha chiare e plurime matrici. Ai nostri giorni se ne ritrova uno classico di matrice neofascista o neonazista, i cui esiti ricorderemo tra poco nel Giorno della Memoria; ci sono le forme contemporanee, che usano lo Stato d’Israele come obiettivo, negandone il diritto all’esistenza e dunque attaccando un principio generale, sancito dal consesso internazionale e dall’Onu, che ovviamente è cosa ben diversa dal diritto di critica delle singole scelte dei governi che si succedono in Israele; ce n’è uno di matrice islamica, ovviamente in crescita nel mondo arabo e islamico, ma anche nei Paesi europei a forte presenza islamica; ci sono ancora presenti le matrici di origine cristiana, risalenti all’accusa di deicidio, anche se mi pare molto rarefatte. E credo si possa dire che la questione delle forme contemporanee dell’antisemitismo, delle sue matrici, non si distanzi molto da ciò che è stato osservato nel passato, e dalle sue radici storiche, anche se, sicuramente per l’Italia, oggi, la concomitanza di un’onda politica che fa della spinta identitaria, intesa come ricerca del proprio carattere originario come unico argine al globale, sta amplificando molto ogni sentimento discriminatorio.
Quarto: dobbiamo avere coscienza che Internet, e i social in particolare, hanno prodotto un’amplificazione esasperata dei peggiori sentimenti di odio, discriminazione e razzismo, magari nascosti dietro l’anonimato, come se la rete fosse una specie di terra di nessuno dove tutto è concesso. Dove io, anonimamente, posso finalmente togliermi il giogo delle norme, dei divieti, dell’etica pubblica. È la terribile questione dei discorsi di odio, che attraversano tutto il mondo della rete, e di cui l’antisemitismo è molta parte. Oggi dunque, questa è la mia impressione, i fattori contingenti si sommano all’eredità storica, nella stagione in cui peraltro sono destinati a scomparire gli ultimi testimoni della Shoah, con un connubio preoccupante. Serve un investimento complessivo. Non basteranno i divieti. Serve investire nella cultura, nella formazione e nel sociale. Ogni centimetro tolto al terreno dove sorge il pregiudizio è un centimetro guadagnato per il futuro.
Alberto Giannoni per “il Giornale” il 31 gennaio 2020. I negazionisti? Sono soprattutto a sinistra. Qualcuno sarà sorpreso o deluso, ma il dato è certificato nel Rapporto Italia 2020, lo studio Eurispes che è stato presentato ieri e accolto con grande clamore, ma forse letto distrattamente dai soliti commentatori. Contrariamente alla vulgata sull' allarme-fascismo infatti, dal rapporto emerge che la maggioranza dei negazionisti italiani non è affatto di destra, anzi più spesso è di centrosinistra o «grillina», e il fenomeno è netto. Certo, gli esiti del 32esimo rapporto Eurispes sono preoccupanti. Lo studio - un volume di 200 pagine - sviscera questioni molto diverse tra loro. E grande attenzione ha riscosso, giustamente, il «capitolo» dedicato alla Shoah, anche perché il tema è tornato sotto i riflettori: si teme un ritorno di sentimenti ostili agli ebrei, e purtroppo questo rigurgito sembra confermato come un pericolo concreto. Gli stereotipi sono sempre in agguato e in crescita. L' affermazione secondo la quale gli ebrei controllerebbero il potere economico e finanziario, in generale non trova consenzienti gli italiani, ma non manca una fetta consistente che condivide (23,9%). Quanto alle opinioni negazioniste in senso stretto, con l' affermazione secondo la quale la Shoah non sarebbe mai accaduta si dichiara d' accordo il 15,6% (con un 4,5 che si dice addirittura molto d' accordo), mentre i contrari raggiungono l' 84,4%. Il numero dei negazionisti oltretutto è aumentato molto negli ultimi 15 anni, passando dal 2,7 del 2004 al 15,6% di oggi, appunto. Eppure, leggendo le risposte negazioniste ed esaminandole secondo l' orientamento politico, emerge che solo una minoranza viene da destra. Infatti la maggioranza relativa di chi sostiene che la Shoah non abbia mai avuto luogo si trova tra gli elettori di centrosinistra (23,5%), mentre a sinistra sono il 17,1%, al centro il 19,2 e nel centrodestra il 13,8%. A destra? Sì scende al 12,8. I 5 Stelle sono molti di più: in sintonia con questa assurda tesi negazionista è il 18,2%, quasi uno su 5. Una percentuale molto simile risulta per i 5 Stelle che minimizzano («è avvenuto ma non ha prodotto così tante vittime come si afferma di solito»): sono il 18,3%, dato che sale addirittura al 23,3 a sinistra, mentre crolla all' 8,8% a destra. È chiaro che dati del genere smontano una narrazione sempre più in voga a sinistra. Anche se non si vedono significative forme di movimentismo fascista, infatti, ha avuto notevole successo il «revival» della mobilitazione antifascista, che viene collegata immancabilmente all' allarme antisemitismo, a sua volta infilato nel calderone di un generico «razzismo». L' obiettivo è politico: vogliono far coincidere l' antisemitismo e il fascismo, e il fascismo col centrodestra, o con la Lega. Però questa «narrazione» è insincera: non solo non tiene conto dell' antisemitismo islamista, ma come si vede dai dati Eurispes tende a rimuovere il fenomeno dell' antisemitismo di sinistra, che c' è e si vede. E attenzione: qui non si parla di sionismo o di Israele, ma di stereotipi e pregiudizi anti-ebraici in senso stretto. Qualcuno dovrebbe forse guardare alla trave nel proprio occhio, anche perché l' antisemitismo a sinistra ha radici antiche e profonde, come documentato da un recente saggio della storica Alessandra Tarquini, La sinistra italiana e gli ebrei. E le radici sono marxiste e comuniste.
Negazionisti soprattutto a sinistra: ecco i numeri. Alberto Giannoni su Il Giornale il 31 gennaio 2020. I negazionisti si trovano soprattutto a sinistra. Al “Giornale” da tempo mettiamo in guardia contro una lettura parziale e strabica del tema-antisemitismo. Ora lo certifica il “Rapporto Italia 2020″, uno studio Eurispes presentato ieri e accolto con grande clamore, ma forse letto distrattamente dai soliti commentatori: contrariamente a quanto afferma la “vulgata” sull’allarme-fascismo, la maggioranza dei negazionisti italiani non è affatto di destra, anzi più spesso è di centrosinistra o «grillina», e il fenomeno è netto. In generale, limitandoci alle opinioni negazioniste in senso stretto, con l’affermazione secondo la quale la Shoah non sarebbe mai accaduta si dichiara d’accordo il 15,6% (con un 4,5 che si dice addirittura molto d’accordo), mentre i contrari raggiungono l’84,4%. Un dato preoccupante, anche perché il numero dei negazionisti è aumentato molto negli ultimi 15 anni, passando dal 2,7 del 2004 al 15,6% di oggi, appunto. Però, leggendo le risposte negazioniste ed esaminandole secondo l’orientamento politico, emerge che solo una minoranza viene da destra. Infatti la maggioranza relativa di chi sostiene che la Shoah non abbia mai avuto luogo si trova tra gli elettori di centrosinistra (23,5%), mentre a sinistra sono il 17,1%, al centro il 19,2 e nel centrodestra il 13,8%. A destra? Sì scende al 12,8. I 5 Stelle sono molti di più: in sintonia con questa assurda tesi negazionista è il 18,2%, quasi uno su 5. Una percentuale molto simile risulta per i 5 Stelle che minimizzano («è avvenuto ma non ha prodotto così tante vittime come si afferma di solito»): sono il 18,3%, dato che sale addirittura al 23,3 a sinistra, mentre crolla all’8,8% a destra. Ed eccoli, i numeri di Eurispes. E analizzando i dati secondo la provenienza per macro area geografica, emerge che le opinioni totalmente negazioniste arrivano soprattutto dal Centro-Italia, come le risposte di chi si dichiara d’accordo con una lettura che minimizza la portata della Shoah.
Il Male DENTRO AUSCHWITZ. Fotografie e testo di Ivo Saglietti su Inside Over il 27 Gennaio 2020. «Quindi vennero la Seconda Guerra Mondiale, Hitler nelle nostre città e nelle nostre case. A ben guardare i fatti, le società europee, se non gli individui uno per uno, meritavano quel che stava loro capitando: il loro modo di vita valeva veramente troppo poco, basato com’era sull’egoismo da una parte e su ideali non più creduti dall’altra». -Albert Camus, febbraio 1946
L’Uomo infine esce dallo scompartimento: il caldo soffocante, la puzza e la cuccetta stretta erano troppo per lui. Il corridoio del treno era poco illuminato, mancavano due lampadine: treni tedeschi, pensa. Il treno era freddo e correva nella notte di un’Europa addormentata e indifferente. A volte attraversava paesi e città, e lo sguardo dell’Uomo allora si soffermava su lunghi convogli merci, vagoni carichi di carbone o altro. Andava a Cracovia alla ricerca di una tomba: un suo lontano zio, alpino della Cuneense era stato sepolto in quella città nel 1944, in una fossa comune con altri 2300 soldati tedeschi. Chissà perché, continua a chiedersi. È il suo terzo viaggio, sempre a gennaio, sempre in treno, ed è terminato, anche questa volta, ad Auschwitz/Birkenau. I convogli si arrestavano su questi binari, pensa. Da sotto la neve spuntano alcuni steli freddolosi e secchi: “È un simbolo di qualcosa che non capisco”, pensa l’Uomo. Osserva il binario arrugginito che finisce nel nulla e un vagone abbandonato e solitario di legno, nero e immobile nella neve. E s’incammina verso il campo.
Birkenau. Entra camminando sui binari che si allungano nell’immensità: entrarono in funzione nel maggio del 1944. Lo inquieta un pensiero: “In questo luogo e in quegli anni, io chi o cosa sarei stato?”. Poi li immagina scendere dal treno, incolonnati: uomini da una parte, donne e bambini dall’altra. Avranno osservato le torrette, le mitragliatrici, i grossi cani, i soldati, gli ufficiali delle SS, i teschi sulle uniformi e forse, pensa l’Uomo, avranno intuito. Eccolo il MALE. Ha il nome di Otto Adolf Eichmann e il grado di SS-Obersturmbannfũhrer. Fu il principale responsabile della così detta Soluzione Finale: lo sterminio degli Ebrei in Europa. L’Uomo osserva il ritratto: osserva il viso allungato della volpe sotto il cappello troppo grande, la bocca sottile, lo sguardo beffardo con un occhio semichiuso. Un uomo ordinario, banale in fondo. Soltanto un omicida. Catturato in Argentina e impiccato a Ramia, Israele, nel 1962. Aveva 56 anni. È questa fotografia a colpirlo, a commuoverlo: Michalina Petrenko, 13 anni numero E 27018, entrata a Auschwitz il 13 dicembre 1942, deceduta il 14 agosto 1944. Era domenica. Questo volto dolce di bambina, il foulard da contadina polacca, dalla destra della foto guarda lontano un po’ sorpresa. “Che peccati avrai mai commesso? – le chiede l’Uomo – Michalina, di quali colpe sei stata accusata? E come hai incontrato il Male e perché?” L’Uomo si sorprende dello stupefacente ordine del paesaggio: ogni albero, panchina, la scaletta per il trampolino, i pali che reggevano il filo spinato e sullo sfondo la torretta delle guardie hanno una disposizione precisa, troppo precisa. Solo una mente esteticamente perversa, portata all’estremo, poteva riuscire a mettere insieme un simile ordine. Cosa succedeva in questo ufficio, sotto gli occhi di Hitler? Chi stava dietro a quel tavolo, e chi davanti? Chi passava di qui e quali timori poteva avere? Cos’è quel cubo appoggiato sul tavolino? E quelle chiavi, quali porte aprivano o chiudevano? La luce di questo gabinetto medico lo impressiona: l’Uomo osserva il telo bianco sul tavolo e il bianco dei due camici poi intravede le siringhe, una boccetta nera sullo sfondo. Forse era l’ufficio del dottor Josef Mengele, immagina. L’Uomo prova ad immaginare i suoi esperimenti sui bambini. Lo chiamavano Zio. Mengele è morto immeritevolmente per cause naturali, meritava di essere impiccato, pensa. Milioni di scarpe, milioni di passi: l’Uomo non riesce ad immaginare quanti prati o campi di calcio ci si sarebbero potuti riempire. E poi milioni di occhiali, rasoi, spazzolini da denti e capelli. Ai deportati le scarpe venivano tolte e sostituite con zoccoli di legno, duri, a volte spaiati e come vestiti veniva dato loro una sorta di pigiama a righe. Tutto ciò serviva a mutarli da persone in un Nulla, che nulla valeva e nulla sarebbe mai più diventato. L’Uomo si sofferma a lungo a leggere i nomi, gli indirizzi sulle povere valigie da emigranti. E quante fotografie scatta malgrado sia proibito, ma tenta così di immaginarli, di conoscerli. Che cosa avranno mai infilato in quelle valigie, di corsa e sotto le grida delle SS? E dove pensavano di finire? Potevano mai immaginare il loro destino? L’Uomo attraversa un cancello di ferro aperto sul cammino verso la morte. La neve è stata tolta. In fondo a questo vialetto, tra due file di edifici sotto una betulla invernale, vede un muro nero e davanti uno più piccolo: è il muro delle esecuzioni. Qui i prigionieri condannati per chissà quale colpa venivano fucilati. Gli spari dovevano sentirsi per tutto il campo, pensa. Sotto gli edifici del campo della morte le cantine erano utilizzate come celle. Una parete gli sembra umida di sangue. L’Uomo ricorda di aver visto qualcosa di simile a Srebrenitza nei capannoni abbandonati dai soldati olandesi e occupati dagli assassini di Mladic. Poi lo sguardo gli cade su una targa. Commemora Padre Massimiliano Kolbe, prigioniero numero 16670: diede la vita al posto di un altro uomo, venne ucciso con un’iniezione di acido fenico. Il suo corpo venne cremato e le ceneri disperse. I fratelli Zelig e Sril Jacob hanno 9 e 11 anni. Nella foto originale sono insieme, appena scesi dal treno. Qui nel museo sono divisi. L’Uomo non ne capisce la ragione: sa che saranno stati riuniti nella morte. Zelig osserva l’SS che sta scattando la fotografia, Sril ha lo sguardo lontano: osserva il campo, inquieto, chiuso nel suo cappotto con la stella gialla a sei punte. Quante fotografie si possono osservare nel museo e nella storia di questo luogo inimmaginabile. L’Uomo si trova ora nel blocco della Francia. Su una parete, raccolta tra due finestre, numerosi i volti dei bambini che qui trovarono la morte. Furono quasi 80.000 gli Ebrei francesi trasferiti nei lager tedeschi, ne ritornarono 2665. Dei 230.000 bambini deportati ad Auschwitz, al momento della liberazione ne rimanevano 700. Si chiede, l’Uomo, come si possa posare sorridenti per una foto ricordo in un luogo così tragico. Sono orientali, pensa, e anche loro dovrebbero avere memoria di guerra, genocidi e di esecuzioni sommarie.
La Sauna. Qui avvenivano le procedure di ingresso nel campo: spogliazione, rasatura, doccia e disinfestazione. Su una grande parete l’Uomo vede, tra le tante che si sono salvate, una fotografia. Una festa, un matrimonio forse. La donna porta un cappello bianco con veletta, brinda sorridendo con l’uomo accanto a lei, lo stesso della foto di fianco. Sono entrambi molto belli e l’Uomo si sente soffocare dal pensiero che tanta gioia di vivere sia potuta terminare lì, tra quelle betulle. Una parte di Birkenau sembra abbandonata. Simbolo di questa desolazione sono i pali di sostegno dei reticolati caduti nella neve o rotti dal tempo. Il mantenimento dei campi è in effetti molto dispendioso e tecnicamente difficile. Birkenau potrebbe essere abbandonato alla polvere del tempo. Col calare della sera tutto diventa freddo, livido, del colore della morte. Gli entra nelle ossa, il freddo, e all’Uomo sembra di sentire sussurri salire dalle baracche annerite, nella cupezza della luce che svanisce. La neve gli scricchiola sotto i piedi. I sussurri che sente sono le voci delle vittime, sono il vento tra gli alberi che gli parla. Il sole che scende diventa una macchia grigia tra le rovine di quelle che furono le camere a gas, fatte saltare dai tedeschi in fuga nel gennaio del 1945. L’Uomo le osserva ripiegate sotto la neve: sono cupe, nere. Qualche cavo d‘acciaio spunta contorto dal cemento, ci sono impronte di coniglio o di lepre sulla neve, gli alberi sullo sfondo cercano di nascondersi nel cielo della notte. È tardi oramai, l’Uomo deve uscire dal campo. Il gelo lo avvolge. Mentre si avvia all’uscita, nel buio, improvvisamente si accendono i fari delle torrette. Per un istante l’Uomo si sente in pericolo, come se fosse sotto il tiro di armi automatiche. Gli sembra di udire grida in una lingua sconosciuta e si rende conto che le porte del campo sono chiuse. È un prigioniero ora e il panico lo assale. Poi, trova il modo di uscire, come un evaso.
«Il Male di cui sto parlando è qualcosa che ciascuno di noi si porta dentro. Si impadronisce del singolo individuo, nel privato, nella famiglia stessa, e poi sono proprio i bambini a farne di più le spese. E poi, quando vengono a crearsi le condizioni adatte, anche in tempi diversi, si scatena una crudeltà irrefrenabile che va contro la vita e l’uomo si sorprende della propria immensa capacità di odiare. È qualcosa che torna a nascondersi e aspetta. Ma ce l’abbiamo nel cuore». -Da “Cani Neri” di Ian McEwan
Giorno della Memoria, cinque libri da leggere per capire cos’è la Shoah. Libri per non dimenticare. Cinque frasi sulla Shoah tratte da opere diventate patrimonio dell'umanità. Da leggere e condividere. Amleto de Silva su ilmiolibro.kataweb.it. Storia, che passione: dieci grandi libri per conoscerla. Il bello di scrivere di libri è che hai a che fare, se sai scegliere, ovviamente, con le cose belle. E la cosa bella delle cose belle è che sono incontrovertibili: hai voglia a dire e hai voglia a fare, una cosa bella non la puoi spiattellare là urlando in un qualche talk show becero, non la puoi usare per argomentare qualsiasi fesseria ti venga in mente; non la puoi piegare a uso e consumo di una parte politica, perché contiene in sé qualcosa che non ha appartenenza se non umana. Per questo, in occasione del Giorno della Memoria, scrivo queste due righe e poi lascio parlare chi ha titolo e bravura per farlo. Cinque libri imprescindibili, punto e basta.
1) Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini. “Guardavo in giro ad uno ad uno zii e cugini, gran parte dei quali di lì a qualche anno sarebbero stati inghiottiti dai forni crematori tedeschi, e certo non lo immaginavano che sarebbero finiti così, né io stesso lo immaginavo, ma ciò nondimeno già allora, quella sera, anche se li vedevo tanto insignificanti nei loro poveri visi sormontati dai cappellucci borghesi o incorniciati dalle borghesi permanenti, anche se li sapevo tanto ottusi di mente, tanto disadatti a valutare la reale portata dell’oggi e a leggere nel domani, già allora mi apparivano avvolti della stessa aura di misteriosa fatalità statuaria che li avvolge adesso, nella memoria”.
2) Fred Uhlman, L’amico ritrovato. “Mio padre detestava il sionismo, che giudicava pura follia. La pretesa di riprendersi la Palestina dopo duemila anni gli sembrava altrettanto insensata che se gli italiani avessero accampato dei diritti sulla Germania perché un tempo era stata occupata dai romani. Era un proposito che avrebbe provocato solo immani spargimenti di sangue, perché gli ebrei si sarebbero scontrati con tutto il mondo arabo. E comunque cosa c’entrava lui, che era nato e vissuto a Stoccarda, con Gerusalemme? Quando il sionista accennò ad Hitler, chiedendogli se il nazismo non gli facesse paura, mio padre rispose: «Per niente. Conosco la mia Germania. Non è che una malattia passeggera, qualcosa di simile al morbillo, che passerà non appena la situazione economica accennerà a migliorare. Lei crede sul serio che i compatrioti di Goethe e di Schiller, di Kant e di Beethoven si lasceranno abbindolare da queste sciocchezze? Come osa offendere la memoria dei dodicimila ebrei che hanno dato la vita per questo paese? Für unsere Heimat?”.
3) Hannah Arendt, La banalità del male. “Eichmann era convintissimo di non essere un “innerer Schweinchund”, cioè di non essere nel fondo dell’anima un individuo sordido e indegno; e quanto alla consapevolezza, disse che sicuramente non si sarebbe sentito la coscienza a posto se non avesse fatto ciò che gli veniva ordinato – trasportare milioni di uomini, donne e bambini verso la morte – con grande zelo e cronometrica precisione. Queste affermazioni lasciavano certo sbigottiti. Ma una mezza dozzina di psichiatri lo aveva dichiarato«normale,» e uno di questi, si dice, aveva esclamato addirittura: «Più normale di quello che sono io dopo che l’ho visitato,» mentre un altro aveva trovato che tutta la sua psicologia, tutto il suo atteggiamento verso la moglie e i figli, verso la madre, il padre, i fratelli, le sorelle e gli amici era «non solo normale, ma ideale»”.
4) Primo Levi, Se questo è un uomo. “La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è una proprietà della sostanza umana. Gli uomini liberi dànno a questo scopo molti nomi, e sulla sua natura molto pensano e discutono: ma per noi la questione è piú semplice. Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a primavera”.
5) Anna Frank, Diario. “Una voce singhiozza entro di me: “Vedi a che ti sei ridotta: cattive opinioni, visi beffardi e costernati, gente che ti trova antipatica, e tutto perché non hai dato ascolto ai buoni consigli della tua buona metà”. Ahimè, vorrei ben ascoltarla, ma non va; se sto tranquilla e seria, tutti pensano che è una nuova commedia, e allora bisogna pur che mi salvi con uno scherzetto; per tacere della mia famiglia che subito pensa che io sia ammalata, mi fa ingoiare pillole per il mal di testa e tavolette per i nervi, mi tasta il collo e la fronte per sentire se ho febbre, si informa delle mie evacuazioni e critica il mio cattivo umore. Non lo sopporto; quando si occupano di me in questo modo, divento prima impertinente, poi triste e infine rovescio un’altra volta il mio cuore, volgendo in fuori il lato cattivo, in dentro il lato buono, e cerco un mezzo per diventare come vorrei essere e come potrei essere se… se non ci fossero altri uomini al mondo. La tua Anna“. Ecco, mentre Anna Frank si preoccupava delle meravigliose quanto drammatiche inezie dell’adolescenza, gli altri uomini al mondo, in uniformi naziste, rastrellavano il quartiere. La troveranno tre giorni dopo. Anna scompare a Bergen Belsen pochi giorni prima della liberazione dell’Olanda.
Amleto de Silva è uno scrittore, blogger, vignettista satirico e autore teatrale.
I 13 sopravvissuti italiani che vissero l’Olocausto Custodi della Memoria: «Resisterà dopo di noi». Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Conti. Modiano, le sorelle Bucci, Edith Bruck, Liliana Segre. Le storie di chi è scampato alla Shoah. «Le nuove generazioni ci seguono. Sono i magnifici frutti della nostra testimonianza». «Ci dicono sempre: siete gli ultimi sopravvissuti. Sì, è vero, siamo gli ultimi. E so che quando nessuno di noi ci sarà più perché non possiamo vivere in eterno, anche se mi piacerebbe, sarà diverso. Forse più freddo, affidato ai musei e a Israele. La testimonianza diretta è essenziale: ma la Memoria resisterà, deve resistere. Però c’è ancora tempo per morire, noi andremo avanti, racconteremo nelle scuole, alle nuove generazioni. Loro capiscono, ci seguono. Dopo gli incontri mi scrivono lettere, una più bella dell’altra. Sono i magnifici frutti della mia testimonianza». Edith Bruck vive a Roma in via del Babuino, in uno spazio magico sottratto al caos del centro di Roma, pieno di luce e di piante. Edith (i capelli e lo sguardo di una ragazza appena invecchiata, ma a maggio compirà 88 anni) è la sovrana di un regno fatto di libri, di letteratura, di poesia e di ricordi. La sua vita accanto al poeta e regista Nelo Risi. Le tracce delle sue radici di ebrea ungherese, poi natura-lizzata italiana. Edith fa parte dei pochi ultimi sopravvissuti italiani alla Shoah. Secondo l’analisi congiunta dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane e dello scrittore e storico Marcello Pezzetti, da decenni impegnato sul fronte della Memoria, sono rimasti tredici sopravvissuti a vivere in Italia. Tra loro c’è Edith. Nella primavera del 1944 viene prelevata dai nazisti dal ghetto ungherese di Sàtoraljaùjhely accanto al confine con la Slovacchia, e deportata prima ad Auschwitz e poi in altri campi di sterminio: Dachau, Christianstadt, infine Bergen Belsen. Ha appena 13 anni ma riesce a sopravvivere con la sorella: nei campi di sterminio perde padre, madre, un fratello e altri familiari. Dal ’54, dopo un passaggio per Israele, vive in Italia e ha la cittadinanza del nostro Paese. La sua è una storia uguale e insieme diversa a quella degli altri, perché tutte sono uguali e diverse. La vicenda di Liliana Segre è forse troppo nota per essere ripetuta ancora, ormai è diventata un simbolo della Memoria collettiva italiana. Così come quella di Samuel Modiano, per tutti Sami, uno degli italiani di Rodi rimasti ancora vivi e che vivono qui in Italia, come Joseph Varon, Rosa Hanan, Virginia Gattegno. Da anni accetta inviti nelle scuole. Il suo volto è diventato familiare a milioni di italiani grazie al docu-film di Walter Veltroni «Tutto davanti a questi occhi», prodotto da Sky e Palomar e trasmesso sui principali broadcaster tv (Rai, Mediaset, La7, Sky) nella Giornata della Memoria 2018. Un indimenticabile racconto-monologo, guidato dalle domande di Veltroni. Deportato a 14 anni da Rodi a Birkenau il 16 agosto 1944, Modiano ha sul braccio la matricola B7456 che ora mostra sempre nei suoi incontri nelle scuole. Perse suo padre e sua sorella. Ai primi del gennaio 1945 gli aguzzini sgombrarono il campo di Birkenau perché l’esercito russo era vicino: costrinsero i prigionieri a camminare nel gelo fino ad Auschwitz. Lì vide l’arrivo dei soldati sovietici ritrovando il suo compagno romano di prigionia, Piero Terracina (scomparso l’8 dicembre scorso) e Primo Levi, il futuro autore di «Se questo è un uomo». Tante testimonianze dei sopravvissuti verranno consegnate al futuro grazie a proprio ai docu-film, come il recentissimo «Kinderblock: l’ultimo inganno», magnifico documentario firmato da Marcello Pezzetti come autore e da Ruggero Gabbai come regista, prodotto dalla Fondazione Museo della Shoah in collaborazione con Rai Cinema e Goren Monti Ferrari Foundation. Racconta la straziante odissea delle sorelle Andra e Tatiana Bucci, entrambe di Fiume (ora si dividono tra l’Italia e le famiglie all’estero) e del cugino napoletano Sergio De Simone, finiti ad Auschwitz nelle mani del dottor Mengele, l’Angelo della Morte. Le cugine sopravvissute raccontano l’inganno per i bambini radunati davanti a Mengele, pronto per suoi atroci «esperimenti» («se volete vedere la mamma fate un passo avanti») e come il piccolo Sergio cadde nel tranello, finendo con altri 19 bambini nello scantinato della scuola-lager di Bullenhuser Damm ad Amburgo. È la agghiacciante storia del «blocco dei bambini», appunto il Kinderblock. Pezzetti ricostruisce l’indicibile crudeltà della loro fine. Quelli che non morirono con le iniezioni di morfina, dice nel film Pezzetti, «vennero impiccati, appesi al muro come quadri». Il documentario andrà in onda su Raiuno per Speciale Tg1 alle 23.20 del 2 febbraio. Tre ebrei italiani di Rodi sopravvissuti allo sterminio (lo stesso Modiano accanto a Stella Levi e Alberto Israel, che hanno poi scelto di vivere all’estero, lei a New York e lui a Bruxelles) sono protagonisti di un altro documentario, sempre firmato da Pezzetti e Gabbai, «Il viaggio più lungo»: da Rodi ad Auschwitz fu infatti uno spostamento geograficamente infinito. E poi ci sono le altre storie. Per esempio di Arianna Szörényi, nata a Fiume da padre ebreo ungherese ma di madre italiana e cattolica. Venne battezzata come i fratelli, crescendo come una cattolica. Però poi fu prelevata e deportata prima nella Risiera di San Sabba, l’unico campo di sterminio nazifascista in Italia, poi ad Auschwitz e infine a Bergen Belsen. Ecco Diamantina Vivante, nata a Trieste nel 1928 e lì arrestata con i fratelli Giulia, Moisè ed Ester nel novembre 1944: sopravviverà solo lei dopo l’internamento a Ravensbrück. E poi, tutti gli altri. Sono gli ultimi. Ma, come dice Edith Bruck, la Memoria resisterà. Deve resistere. Lo dicono sempre, i sopravvissuti, con forza: l’orrore degli orrori non può, non deve ripetersi mai più.
Dall’orchestra di Auschwitz al rap Vita di Esther, salvata dalla musica. Pubblicato giovedì, 23 gennaio 2020 ‐ Corriere.iti Paolo Valentino , corrispondente da Berllino. Una fisarmonica cambiò il suo destino, canta ancora oggi. Kolinka, superstite della Shoah: non ci credevo ma sapevo. La musica è stata la sua vita. La musica le ha salvato la vita. La musica la tiene in vita. Esther Béjarano è una cantante di 95 anni. Esther Béjarano è sopravvissuta ad Auschwitz. Esther Béjarano fa ancora concerti. Quando vi racconta la sua storia straordinaria, l’infanzia felice in una famiglia ebraica nel Saarland, le persecuzioni razziali, la deportazione nei campi di sterminio, le «harte Wendungen», le svolte dure del suo destino che l’hanno sottratta alla morte, la sua missione in una rap band, Esther ripete spesso una frase che può suonare strana: «Ho avuto fortuna». «Perché le sembra strano? Mi considero fortunata per essere ancora qui e poter raccontare quello che è successo», dice accogliendomi nella sua casa di Amburgo. Un appartamento caldo come un abbraccio, pieno zeppo di cose, quadri, mobili, libri, spartiti, strumenti musicali, ninnoli, fotografie, tante fotografie. Esther Béjarano non aveva neppure 20 anni nell’aprile del 1943, quando dal campo di lavoro di Neuendorf, nel Brandeburgo, dov’era stata internata alla fine del 1941, venne messa dai nazisti con altre centinaia di persone su un carro bestiame diretto ad Auschwitz. Era già sola. I suoi genitori, entrambi musicisti, erano stati uccisi due anni prima insieme a mille ebrei di Breslavia, in un bosco vicino Riga dopo un rastrellamento. Anche Ruth, una delle due sorelle, era morta falciata dalle SS insieme al giovane ebreo ungherese che aveva sposato, mentre tentavano di attraversare il confine con la Svizzera. Ma Esther tutto questo lo avrebbe appreso a guerra finita. Solo il fratello e l’altra sorella si erano salvati: nel 1937 Gerdi era andato da una zia negli Stati Uniti, Tosca in Palestina in una scuola agraria. Nel lager di Birkenau, la fortuna prese le sembianze di una fisarmonica. «Ero quasi alla fine, il lavoro consisteva nello spostare enormi pietre, mentre le guardie ci bastonavano. Sarei morta di sicuro, ma un giorno venne Zofia Czajkowska, la direttrice dell’orchestrina del campo. Cercavano musiciste. La capo baracca propose me e altre due. Io sapevo suonare il pianoforte, ma non ne avevano uno. Czajkowska mi indicò una fisarmonica. Non ne avevo mai vista una. “La sai suonare?”, mi chiese. Dissi di si. Mi chiesero di provare Bel Ami, una canzonetta allora in voga. Conoscevo il motivo, trovai gli accordi. E mi presero con le altre due amiche. Fu un vero miracolo». Esther si trasferì nella baracca dove vivevano i musicisti. «C’erano letti veri e mi diedero perfino un maglione». Dopo tre settimane di prove le piazzarono all’ingresso del campo. Eseguivano marcette e pezzi popolari, al mattino quando le squadre uscivano per andare al lavoro e alla sera quanto tornavano. Oppure suonavano sulla rampa, quado arrivavano i treni. «Era una pressione terribile per noi: quando le persone ci passavano accanto, destinate direttamente alla camere a gas, sicuramente pensavano che in un posto dove veniva suonata della musica non doveva essere così orribile». Esther Béjarano ha raccontato con semplicità e precisione l’orrore in un bel libro scritto insieme ad Antonella Romeo, La ragazza con la fisarmonica, edito da SEB27. «Ogni giorno vedevamo cadaveri distesi per la strada. Molte donne per disperazione si gettavano contro la recinzione dove passava la corrente elettrica. Le vedevamo al mattino. Morte, ancora appese al filo spinato». Ricorda bene il medico capo, il dottor Mengele, impassibile sulla rampa, che come Minosse con la coda decideva il destino di ognuno con un semplice movimento della mano. La «fortuna» di Esther prese diverse sembianze. Perfino quella di Otto Moll, il famigerato capo del crematorio, uno che adorava far sbranare i prigionieri dai suoi cani: quando la giovane fisarmonicista si ammalò di tifo addominale, la fece ricoverare nell’infermeria dei cristiani e minacciò perfino una dottoressa che non le dava le medicine. «Non so perché lo fece, forse per l’orchestra di cui si sentiva responsabile. Però mi salvò la vita». Poi la «fortuna» assunse il volto di sua nonna paterna, un’ariana. «Un giorno annunciarono che tutte le donne che avevano un po’ di sangue ariano nelle vene dovevano presentarsi al capo baracca: sarebbero state trasferite in un altro campo, il campo di lavoro femminile di Ravensbrück. Io ero lacerata. Non volevo lasciare le mie compagne, ma furono loro a dirmi che dovevo farlo, dovevo uscire da Auschwitz e sopravvivere per poter un giorno raccontare quello che era successo». Accadde proprio così. Esther lasciò Birkenau per Ravensbrück. Il Dopoguerra non fu facile. L’emigrazione in Palestina, lo choc del campo col filo spinato creato dagli inglesi per gli ebrei che venivano dall’Europa, le incomprensioni con gli ebrei che costruivano il nuovo Stato di Israele e guardavano con sospetto i sopravvissuti: «Non ci volevano. Ci colpevolizzavano, perché non siamo stati inghiottiti dalla Shoah, l’accusa implicita era che se eravamo vivi dovevamo aver collaborato con i nazisti». Nel 1956 decise di tornare in Germania insieme a Nissim, che aveva conosciuto e sposato in Israele. «Scelsi di non vivere nella città dov’ero cresciuta, troppo grande era il dolore del ricordo». Ci ha messo decenni, Esther, per trovare la forza e la voce di raccontare l’indicibile. Ma quando venti anni fa ha iniziato, non ha più smesso. Alla sua maniera. In musica. Prima in una band con i suoi figli, Edna e Joram. Ora con i Microphone Mafia, due musicisti rap, uno di origine turca, l’altro italiana. «Dopo il 1945 la Germania non ha fatto alcuna de-nazificazione. Ci fu silenzio. Non fu fatta luce sui criminali, solo negli anni 70 si è cominciato a parlare di Olocausto, grazie a un film americano. E questa è la ragione per cui oggi ci sono tanti neonazisti in giro. L’antisemitismo è in aumento: attacchi, aggressioni. Per questo io faccio questo lavoro, canto e vado nelle scuole per raccontare cosa ho vissuto».
Da rai.it il 22 gennaio 2020. Il 27 gennaio 1945: la liberazione di Auschwitz. Per cancellare le tracce dei loro crimini, il 20 gennaio 1945 ad Auschwitz, i nazisti fanno saltare i forni crematori 2 e 3, dove erano stati bruciati i corpi di centinaia di migliaia di ebrei. La notte tra il 25 e il 26 fu la volta del crematorio 5. Il giorno dopo le truppe sovietiche della Prima Armata del Fronte Ucraino, comandata dal maresciallo Koniev, entrano nel campo di sterminio: trovarono 7.000 prigionieri ancora in vita. Erano quelli abbandonati dai nazisti perché considerati malati. Quegli attimi terribili il mondo ancora oggi, dopo 75 anni, li ricorda come il Giorno della Memoria. In occasione del 75° anniversario dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz il 27 gennaio 1945, divenuto una ricorrenza con il Giorno della memoria dedicato alla Shoah, vi proponiamo questo speciale che raccoglie le testimonianze di chi in quell'inferno ci è passato e, dopo tanti anni dalla prigionia, ha deciso di tornarci per raccontare gli orrori che ha visto (Piero Terracina e Shlomo Venezia); testimoni oculari che hanno fatto della propria memoria una missione affinché il mondo non dimentichi mai (primo fra tutti Primo Levi); figli o nipoti di deportati che raccontano le storie tramandate in famiglia. Infine, lo speciale realizzato nel 2019 ad Auschwitz da Rai Scuola che ha accompagnato un gruppo di studenti in visita.
Il nascondiglio, i delatori e il viaggio dal Binario 21. La famiglia Varon cancellata ad Auschwitz. Pubblicato martedì, 14 gennaio 2020 su Corriere.it da Stefania Chiale. Quel maledetto 7 giugno 1944 Hasday sta rientrando da scuola insieme al cugino con cui condivide casa e nome: Hasday Varon, come il nonno, morto nella battaglia dei Dardanelli nel 1915. Il cugino, vedendo portar via dai fascisti la madre, i due fratelli e la zia — sei mesi dopo l’arresto del padre Bohor — corre incontro ai familiari e viene catturato con loro. Hasday cerca di trattenerlo, senza riuscirci. Sarà il solo membro della famiglia a salvarsi dal rastrellamento insieme al padre, Nissim, sfuggito all’arresto perché impegnato fuori città per lavoro. Si nasconderanno in un fienile nella casa di amici a San Giuliano Milanese per due anni, attendendo la fine della guerra. Per tutta la vita, Nissim porterà regali a quei «giusti» per averli salvati. Venerdì alle 9.30 verranno poste cinque pietre d’inciampo davanti alla casa milanese dei Varon, cinque delle nuove 28 targhe d’ottone a memoria di altrettante vittime milanesi dei campi di concentramento annunciate ieri mattina a Palazzo Marino. Ricorderanno Bohor Nahman Varon, Sara Attias Varon e i loro tre figli: Hasday, Dora e Leone. Saranno poste al 19 di via dei Cinquecento, oggi una casa di riposo, allora una casa per sfollati. Come i Varon: ebrei turchi, originari di Gallipoli. Bohor, passaporto italiano, nasce in Turchia nel 1902. Trasferito prima a Istanbul, poi in Grecia, arriva a Milano, raggiungendo con la moglie Sara e il primogenito Hasday il fratello Nissim, emigrato in Italia perché la legge di Atatürk obbligava gli stranieri a diventare cittadini turchi. In caso contrario, bisognava lasciare il Paese. Ai due fratelli, il Comune di Milano assegna una casa in via dei Cinquecento 19, dove le due famiglie vivranno fino al giorno della loro deportazione. Anni in cui nascono gli altri due figli di Bohor e Sara: Dora e Leone. Ha solo un anno Leone quando il padre viene arrestato e condotto a San Vittore dopo una verifica di documenti sul tram da parte della polizia fascista. Col convoglio n. 6 dal Binario 21 — lo stesso convoglio con cui partì la senatrice a vita Liliana Segre — Bohor lascia per sempre Milano e viene deportato ad Auschwitz: è il 30 gennaio 1944. Al suo arrivo viene selezionato immediatamente per le camere a gas. Dopo una denuncia che fruttò ai delatori 5.000 lire, anche Sara, Hasday, Dora, Leone e Rachele, moglie di Nissim, vengono arrestati e il 16 giugno 1944 deportati ad Auschwitz. Saranno assassinati anche loro, mamma e tre figli (di un anno e mezzo, 9 e 12 anni), nelle camere della morte. Solo Rachele sopravviverà ad Auschwitz, dopo 18 mesi. Tornerà a Milano e riuscirà a raccontare l’orrore vissuto dalla sua famiglia, sterminata per la sola colpa di essere venuta al mondo.
Paolo Mieli per il “Corriere della Sera” il 17 gennaio 2020. Elie Wiesel aveva quindici anni nel 1944, quando venne deportato ad Auschwitz assieme a suo padre, sua madre e le sorelle Hilda, Bea e Tzipora. Fu l' unico della sua famiglia che riuscì a sopravvivere. Dopo la liberazione, notò vent' anni fa Harald Weinrich in Lete (il Mulino), Wiesel subì la «tentazione dell' oblio». Nei primi tempi in cui fu restituito alla vita, «per circa dieci anni», sottolineò Weinrich, in lui «l' oblio si legò al silenzio, in un' alleanza problematica». Successivamente Wiesel iniziò a parlare e a scrivere per il pubblico, diventando, conformemente alla tradizione chassidica della sua famiglia, un «narratore di storie». E venne, anche per lui, il tempo di parlare di Auschwitz. Primo Levi iniziò molto prima. Fu liberato da Auschwitz il 27 gennaio del 1945. Aveva ventisei anni. Presto si mise a scrivere e nel 1947 diede alle stampe Se questo è un uomo , per la piccola casa editrice torinese De Silva. Il libro restò praticamente invenduto, la De Silva fallì e, fece notare Weinrich, anche «i ricordi di Levi caddero nell' oblio». O almeno così sembrò. Anche qui per una decina d' anni. Nel 1958 Einaudi ripubblicò quel testo di Primo Levi che, negli anni, divenne un successo mondiale. Per entrambi, forse per tutti, Auschwitz aveva evidentemente bisogno di bagnarsi nelle acque di Lete, il fiume dell' oblio, prima di assumere al cospetto del mondo intero il ruolo che la storia avrebbe assegnato al suo nome, indissolubilmente legato allo sterminio degli ebrei. E non solo degli ebrei. Il regno di Auschwitz , di cui si occupa lo straordinario libro del giornalista e storico statunitense Otto Friedrich, che esce domani per l' editrice Solferino, sarà il più grande. Il campo di Auschwitz fu creato dal nulla in diverse tappe, l' ultima tra il dicembre del 1941 e la metà dell' anno successivo, nella Polonia occupata, in una località sperduta nelle piane paludose della Vistola. E crebbe fino a diventare un «impero penitenziario di circa centocinquantamila abitanti», una città delle dimensioni di Tangeri o Aberdeen. Friedrich, per concentrarsi sul Regno di Auschwitz , ha ripreso in mano le carte del processo di Francoforte (dicembre 1963-agosto 1965), dal quale erano emersi particolari agghiaccianti. Particolari che però fuori dalla Germania occidentale non avevano avuto il risalto che avrebbero meritato. Perché? Il processo era stato voluto dal procuratore capo dell' Assia Fritz Bauer, il quale - non fidandosi dei suoi connazionali - aveva precedentemente collaborato con i servizi segreti israeliani per la cattura di Adolf Eichmann. Successivamente Bauer aveva delegato all' indagine su Auschwitz alcuni collaboratori (Joachim Kügler, Georg Friedrich Vogel e Gerhard Wiese) sufficientemente giovani da non essere stati coinvolti nelle vicende che si accingevano ad approfondire. Le indagini durarono quattro anni e furono spesso ostacolate, talvolta sabotate, dalle autorità della Repubblica federale tedesca. Dalle sue carte Friedrich capì che lo sterminio degli ebrei aveva avuto inizio assai prima che nella conferenza di Wannsee (convocata il 20 gennaio 1942 dall' alter ego di Heinrich Himmler, Reinhard Heydrich) venisse decisa la «soluzione finale», cioè la totale eliminazione degli israeliti. L' idea di costruire Auschwitz era stata di Himmler, che aveva affidato l' impresa al maggiore delle SS Rudolf Höss, il quale al processo di Norimberga esagerò, persino, attribuendosi la responsabilità di aver eliminato due milioni e mezzo di individui (il conto lo avrebbe tenuto Adolf Eichmann) più «un altro mezzo milione morti per fame e malattie». In seguito Höss sostenne che tale cifra gli pareva «eccessiva» e la ridusse a 1.135.000. Il 14 giugno 1940 giunsero ad Auschwitz i primi 728 prigionieri politici polacchi che furono destinati alla costruzione del campo. A loro poi se ne aggiunsero altri che furono fatti lavorare come schiavi. Nel giugno del 1941, quando appresero che Hitler aveva invaso l' Urss, gli internati ritennero che l' allargamento del conflitto avrebbe portato alla loro liberazione. E festeggiarono. Presto però dovettero accorgersi che stava invece per iniziare una stagione ancora più infernale della precedente. Höss riferì (a Norimberga) che con l' arrivo dei prigionieri russi lui stesso aveva assistito a casi di cannibalismo: i nuovi prigionieri, disse, «non erano più esseri umani». Dei dodicimila russi internati nell' autunno del 1941, solo centocinquanta sopravvissero fino all' estate successiva. Höss raccontò di aver deciso - assieme ad Eichmann - l' uso del gas Zyklon B per «sveltire» l' eliminazione dei reclusi già nell' estate del 1941 e che la prima «sperimentazione» fu fatta, in sua assenza, dal vicecomandante Karl Fritzsch il 3 settembre 1941. Venne poi il turno degli ebrei. Il primo cosiddetto Transport Juden giunse alla stazione di Auschwitz il 26 marzo 1942: portava 999 donne provenienti dalla Slovacchia. La stazione - scrisse il poeta Tadeusz Borowski, sopravvissuto a tre anni di internamento - appariva «piccola e graziosa una piazzetta di ghiaia chiara incorniciata da alti castagni». Le deportate non fecero però in tempo a compiacersi di questo quadretto idilliaco: «Vennero spogliate», racconta Friedrich, «rapate a zero, tenute in piedi per un appello che durò ore intere, picchiate, spedite a lavorare in gruppi e di nuovo picchiate». Dopodiché i nuovi arrivati furono divisi in due gruppi: i più, a cominciare da vecchi e bambini, venivano mandati direttamente a morte; quelli che apparivano in grado di lavorare venivano invece «salvati» anche se molti di loro sarebbero poi deceduti per stenti e malattie. Come è possibile allora che quella stazioncina potesse apparire a coloro che arrivavano ad Auschwitz, quasi un miraggio. Wiesel nel libro La notte (Giuntina) ha provato a spiegare perché. La vita nei ghetti autoamministrati della Polonia occupata dai nazisti era parsa in qualche modo accettabile: gli ebrei pensavano perfino di trovarsi «in condizioni migliori che in passato completamente autonomi, in una piccola repubblica ebraica». Wiesel ricorda che la sera prima della deportazione «le donne continuavano a cucinare uova, arrostire carne, preparare torte; i bambini gironzolavano dappertutto». Il giorno successivo, nei treni, sarebbe invece iniziato l' incubo. I nazisti stipavano gli israeliti in vagoni dove non c' erano né cibo, né acqua, né servizi igienici, né aria. «Chi aveva portato con sé un panino o della frutta si trovava presto a dover lottare per difendere il suo piccolo tesoro e quando queste misere riserve erano finite non rimaneva più nulla». I bambini «piangevano in continuazione, i vecchi deperivano e morivano». I cadaveri «restavano dove erano, tra le sconquassate valigie tenute insieme con lo spago». A volte i treni venivano lasciati fermi su binari morti per giorni e notti intere: nei vagoni sigillati si continuava a piangere, urlare, a morire, a calpestare i morti e alla fine poteva capitare che il numero di cadaveri rimasti su quei convogli superasse quello di chi ne usciva vivo. Borowski ricevette l' incarico di pulire un vagone che aveva trasportato un centinaio di suoi correligionari: «Negli angoli», raccontò, «in mezzo a escrementi umani e orologi abbandonati giacevano i corpi senza vita di bambini schiacciati e calpestati, piccoli mostri nudi con teste enormi e pance gonfie». Talché per i deportati quando il treno finalmente si fermava in quella piccola cittadina sconosciuta, l'«arrivo» poteva apparire come «una sorta di liberazione». La fine di un incubo, appunto. E in qualche modo l' inganno poteva continuare. Auschwitz, ricostruisce Friedrich, era «una società di complessità straordinaria». Per questo nel titolo del libro compare la parola «regno». Aveva il proprio stadio di calcio, la propria biblioteca, un laboratorio fotografico, perfino un' orchestra sinfonica. Nascondeva organizzazioni clandestine polacche di ispirazione nazionalista e altre di matrice comunista («i cui membri combattevano e a volte si uccidevano tra loro»). C' erano poi gruppi della Resistenza austriaca, russa, slovacca e francese. Vi si tenevano clandestinamente funzioni religiose di ogni culto: cattolico, protestante, ebraico. Il campo di sterminio ospitava anche un bordello, al quale «potevano accedere coloro che, tra gli internati, godevano di maggiori privilegi», quelli che «ottenevano permessi per buona condotta». Le ragazze più belle erano invece costrette a diventare amanti di un qualche gerarca nazista. Anche Rudolf Höss ne ebbe una, Eleonora Hodys. A quelle giovani donne era consentito farsi ricrescere i capelli, il che però costituiva un marchio di infamia. Nel libro Cilka' s Journey , la scrittrice australiana Heather Morris ha ricostruito la vicenda di una di queste «fortunate», Cecilia Kovachova che, una volta libera, fu accusata dai russi di aver «collaborato» con il nemico e venne internata in un lager staliniano. La Hodys fu ancora più sfortunata: restò incinta di Höss e quando lui venne a saperlo ordinò che fosse gassata; fu salvata dal comandante del Blocco 11, Maximilian Grabner (anche lui sotto inchiesta per aver avuto una relazione con un' internata ebrea), e mandata - grazie al giudice Konrad Morgen - a Monaco, lontano da Auschwitz. Ma, prima che la guerra finisse, fu uccisa dalle SS. Sul caso dell' amante di Rudolf Höss indagò anche il Morgen di cui si è testé detto, un magistrato in forza alle SS mandato ad Auschwitz per investigare sui fenomeni di corruzione che infestavano il campo di concentramento. In particolare Morgen fece indagini sul cosiddetto «Canada», un agglomerato di trenta baracche dove finivano le proprietà dei reclusi che avevano un qualche valore. Proprietà che in teoria avrebbero dovuto essere spedite al comando delle SS di Berlino, ma furono invece «immagazzinate» in quello che, scrive Friedrich, presto divenne il «più grande mercato nero d' Europa». Allorché nel gennaio del 1945 il campo fu liberato dai russi, i nazisti provarono a incendiare il «Canada», ma riuscirono a distruggere solo ventiquattro baracche su trenta e i sovietici trovarono una quantità incredibile di oggetti appartenuti agli ebrei: 863.255 abiti da donna, 38.000 scarpe da uomo, persino 13.964 tappeti Ma Morgen aveva fatto in tempo a far arrestare e condannare Grabner, coinvolto nello scandalo, il quale dopo la guerra sarebbe stato riprocessato e condannato a morte in Polonia. I tentativi di fuga da Auschwitz furono più di seicento. Quando qualcuno mancava all' appello, suonava una sirena e i prigionieri venivano portati all' aperto, dove dovevano aspettare sull' attenti mentre un plotone di SS con i cani inseguiva i fuggitivi. Due terzi dei quali furono ripresi, torturati per scoprire se qualcuno li aveva aiutati. Poi venivano portati in giro con al collo un cartello in cui era scritto «Evviva! Sono tornato» e infine impiccati. Che cosa ne fu di quei pochi che riuscirono a darsi alla macchia? Possibile che nessuno abbia fatto giungere fuori dalla Germania notizie di quell' inferno? In realtà già nel novembre del 1940 un ufficiale polacco, Witold Pilecki, si era fatto internare ad Auschwitz per organizzare un movimento di resistenza e raccontare poi delle condizioni di vita del lager. Nell' estate del 1942 le notizie presero a circolare e a Londra il «Daily Telegraph» scrisse di un milione di ebrei uccisi nell' Europa orientale. Il 4 aprile del 1944 un aeroplano da ricognizione statunitense volò su Auschwitz e scattò foto assai nitide (rimaste inspiegabilmente sepolte negli archivi della Cia fino al 1979). Nell'estate del 1944 due fuggiaschi da Auschwitz, Rudolf Vrba e Alfred Weczler, confermarono e ampliarono le informazioni di cui già in molti sapevano. Ma anche coloro che si opponevano al nazismo decisero di non credere a quelle notizie. E il tutto rimase - come ha scritto Walter Laqueur in un libro edito in Italia da Giuntina - un «terribile segreto». Che fu poi svelato molto (troppo) per gradi finché, meritoriamente, Otto Friedrich ha descritto quell' inferno in ogni suo dettaglio. Il libro di Friedrich racconta tutto: una rivolta ben organizzata nell' ottobre del 1944, le dispute religiose sul senso di quell' incubo, i tentativi di Himmler di distruggere le prove dell' accaduto, le ultime impiccagioni del 6 gennaio 1945. Infine la bolgia conclusiva della «liberazione», nel corso della quale i sopravvissuti avrebbero ritrovato - pur senza la nota claustrofobica - il disorientamento che avevano conosciuto nei vagoni sigillati. Questa è stata Auschwitz.
La mia famiglia inghiottita da Auschwitz e riscoperta grazie a una pietra d'inciampo. La cuginetta sparita sul treno che portò nel campo di concentramento anche Liliana Segre. E uccisa insieme ai genitori. Grazie a una delle targhe che qualcuno bolla come "divisive", uno scrittore ritrova una pagina dimenticata della sua storia. E riflette sul presente di tutti noi. Fabrizio Rondolino il 17 gennaio 2020 su L'espresso. Non capisco che cosa ci sia di “divisivo” nelle pietre d’inciampo: chi dividono? I nazisti dagli ebrei? Le persone civili dagli assassini? L’ignoranza arrogante della storia mi sembra, forse perché sto invecchiando, il vero male oscuro dei tempi presenti, la radice del pericolo: perché è sempre stata l’ignoranza del popolo il grande serbatoio di benzina con cui i dittatori hanno dato il mondo alle fiamme. Inciampare nella memoria è necessario. Siamo abituati a serbare soltanto i ricordi più belli: è umano, ed è un efficace meccanismo evolutivo per tenerci vivi. Se il nostro cervello conservasse soltanto i ricordi brutti, alzarsi la mattina diventerebbe sempre più difficile: e questo vale per le persone come per i popoli, per la mia vita come per la nostra storia. Ma ogni tanto bisogna anche ricordare le cose brutte, le cose orribili. Un po’ per non farsi trovare impreparati se mai dovessero tornare (e oggi siamo a un’ora incerta), e un po’ perché è l’unica cosa che possiamo fare per le vittime: ricordarci di loro. Nessuna condanna ha mai potuto riportare in vita gli innocenti: invece le pietre d’inciampo ci riescono, perché la memoria riporta in vita i morti. Il 14 gennaio a Torino, in via Piazzi 3, verranno posate le pietre in ricordo di Alessandro Colombo, di sua moglie Wanda Debora Foa e della figlia Elena, deportati e assassinati ad Auschwitz. È stata una signora che abitava con i genitori in quel palazzo, e che al momento dell’arresto aveva tre anni, Piera Billotti Marinoni, a chiedere la posa delle pietre: e non saprei come ringraziarla per questo gesto insieme umile e straordinario. Alessandro Colombo era infatti il fratello di mia nonna. Fino a ora sapevo pochissimo di questo zio, se non la sua tragica fine. Per molti anni in quasi tutte le famiglie non si è mai parlato della guerra e neppure della Shoah, e la mia non faceva eccezione. Mio padre mi raccontava a volte di Elena, che aveva un anno meno di lui: insieme si esercitavano al pianoforte. Questa immagine, l’immagine di due bambini che suonano insieme, è stata ed è tuttora per me l’immagine definitiva, e forse la più angosciante, della Shoah: una bimba ebrea che sarà da lì a poco deportata su un carro bestiame e assassinata appena scesa dal treno, e un bimbo con una mamma ebrea che diventerà mio padre (fino alla fine della guerra vivranno nascosti in una cascina del Vercellese). Avrebbe potuto accadere l’inverso, e io non sarei mai nato: in questo, credo, sta l’impossibilità di farsi una ragione di ciò che è stato, dei motivi e delle cause. Dobbiamo impedire che si ripeta, ma non credo che ne capiremo mai il perché. In questi mesi ho provato a scoprire qualcosa di più su zio Sandro, grazie all’aiuto del Museo diffuso della Resistenza di Torino, dell’Istoreto, del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano e di diversi studiosi e ricercatori, nonché di un cugino svizzero che ha ritrovato un intero album di fotografie: la vita di Sandro, per quel poco che ho potuto ricostruire, è stata una vita normale. Proprio come quella di quasi tutte le vittime. Il padre di Sandro era un agente di cambio, la madre era figlia di un altro agente di cambio: nato nel 1895, Sandro è cresciuto in una famiglia borghese agiata, bene inserita nel tessuto sociale e civile di Torino, liberale e laica. E fedele al Re: tutti gli ebrei piemontesi, da quando Carlo Alberto nel 1848 concesse loro i diritti civili, erano sinceri e ferventi monarchici. Non soltanto mia nonna, ma anche una sorella e un altro fratello avranno matrimoni cattolici: l’ebraismo, come in molte altre famiglie, era un tratto culturale e familiare assai più che religioso o “etnico”. Sandro studia in un istituto tecnico e a vent’anni va al fronte. Un fratello poco più grande, Arturo, sottotenente di fanteria, morirà in battaglia sull’Altipiano di Asiago. Quando ho trovato il suo nome nell’Albo d’oro dei caduti ho pensato a quanto possa essere beffardo il destino: un fratello cade nel fiore degli anni per salvare la Patria, l’altro verrà consegnato dalla Patria ai suoi assassini. Dopo la guerra Sandro avvia un’attività in proprio, ed è un lavoro che mi fa sorridere: imballaggi per dolciumi. Chissà come gli sarà venuto in mente, dove avrà imparato. Un giorno a Torino invitò a colazione il signor Motta in persona - così almeno si racconta in famiglia - e pagò senza indugio il conto, nonostante l’evidente differenza di fatturato fra i due. Non sappiamo se l’investimento si sia poi rivelato fruttuoso. Mi sono fatto di lui l’idea che fosse un uomo che amava la vita, sicuro di sé, generoso e forse anche un po’ sbruffone, sempre molto curato nell’aspetto, scapolo incallito e tombeur de femmes. E così me lo immagino in una Torino ancora gozzaniana, seduto in un caffè sotto i portici di via Po, mentre prende un vermouth con gli amici, oppure con la sua ultima conquista a passeggio per il Valentino o in una sala da ballo dove si suona il gez, come il regime l’aveva autarchicamente ribattezzato. Una foto lo mostra vestito in modo impeccabile con una sigaretta fra le labbra. Si è sposato soltanto a quarant’anni, e con una ragazza di appena diciotto, Wanda, figlia di un negoziante forse di tessuti e, a detta di tutti, incredibilmente bella. Esattamente nove mesi dopo nasce Elena, la loro unica figlia. Le foto ritrovate li mostrano a Cogne, a Bardonecchia, a Finale Ligure, come ogni famiglia torinese che si rispetti. La vita di Sandro, come quella di tutti gli ebrei italiani, si spezza nell’estate del 1938, quando il Re che lui aveva servito in guerra firma le leggi razziali di Mussolini. Elena, che ha cinque anni, non potrà più andare a scuola. Nell’Annuario industriale del ’39 la sua azienda c’è ancora: “C.S. - Fabbrica cartonaggi”, e può darsi che abbia potuto lavorare ancora per qualche anno. Ma dopo l’8 settembre del ’43 i repubblichini prendono il potere e i tedeschi arrivano a Torino. Sandro e Wanda fuggono a Forno Canavese, presumibilmente in un casolare della frazione Milani. Perché siano finiti lassù resta un mistero: ma il cappellano del piccolo santuario dei Milani, don Felice Pol, era legato alle bande partigiane della zona, e dunque potrebbe essere stato lui a organizzare la clandestinità di mio zio. Anche don Felice aveva fatto la guerra, e poi era stato vicecurato nella parrocchia dei santi Pietro e Paolo, a Torino, in largo Saluzzo: forse, chissà, si erano conosciuti al fronte e a Torino avevano continuato a frequentarsi. Ma il 7 dicembre 1943, dopo che un aereo di ricognizione aveva avvistato i “ribelli” per colpa della neve appena caduta, arriva a Forno una colonna tedesca di quasi duemila uomini, coadiuvata da forze della Guardia nazionale repubblicana, con l’obiettivo di annientare la banda partigiana “Monte Soglio”: 18 patrioti saranno catturati il 9, torturati per una notte intera e fucilati di fronte alla popolazione tenuta in ostaggio nel cortile della Casa Littoria. L’8 dicembre i tedeschi rastrellano il paese e scoprono così mio zio: «Verso mezzogiorno», racconta un testimone, «portarono nel cortile un uomo, forse un ebreo, che fu picchiato e schiaffeggiato in nostra presenza. Non so che fine abbia fatto, perché non l’abbiamo più visto». È questa l’ultima testimonianza esistente su mio zio, l’ultimo fotogramma che lo coglie nel momento esatto in cui passa dalla vita alla morte: e da quando l’ho scoperta continuo a rileggerla e a rileggerla, e non riesco a cancellare l’immagine di questo tranquillo borghese di quasi cinquant’anni, patriota, piccolo imprenditore, fedele al Re e alla patria che aveva servito al fronte, con una moglie giovane e bellissima e una figlia che suonava il pianoforte - ora trascinato fuori di casa e preso a schiaffi e a pugni e a spintoni, davanti a tutti, soltanto perché ebreo. Sandro e Wanda furono portati alle Nuove di Torino il 9 dicembre e successivamente trasferiti a Milano, nel carcere di San Vittore. Il 30 gennaio 1944 furono caricati sui carri piombati in partenza dalla Stazione centrale per Auschwitz, dove arrivarono il 6 febbraio. Su quel convoglio viaggiavano 605 ebrei, e soltanto venti tornarono a casa: fra questi, Liliana Segre. Così, ho riletto con un’emozione mai provata e piena di angoscia il racconto di quel viaggio nel libro scritto con Enrico Mentana: «Ci scaricarono davanti ai binari di manovra. Il passaggio fu rapidissimo. SS e repubblichini, a calci, pugni e bastonate ci caricarono sui vagoni bestiame. […] Ora ci ritrovavamo nel buio del vagone, con un po’ di paglia per terra e un secchio per i nostri bisogni». All’arrivo, prosegue Liliana Segre, «subentrò il rumore osceno e assordante degli assassini intorno a noi, che aprirono i vagoni e ci buttarono dinanzi agli occhi assuefatti al buio la visione dell’inferno. Una spianata, uomini vestiti a righe, prigionieri con la testa rapata erano sferzati dai diavoli SS coi loro cani, per fare in fretta in fretta in fretta a radunare noi, sbalorditi, incretiniti dal viaggio, ubriachi». Wanda e Sandro, come tutte le coppie, furono separati all’arrivo: lei non superò la selezione e fu portata subito alla camera a gas, Sandro invece ebbe meno fortuna e riuscì a sopravvivere per dieci mesi nelle condizioni disumane che i sopravvissuti hanno avuto il coraggio di descriverci. La durata media della vita ad Auschwitz era di tre-quattro mesi, e mi chiedo che cosa abbia fatto o avuto Sandro di speciale: forse un qualche incarico particolare, una sana e robusta costituzione, o forse è stato soltanto il caso. Morì il 30 novembre, quando le camere a gas erano già state smantellate e l’Armata rossa avanzava rapidamente: morì dunque di dissenteria, o di tifo petecchiale, o di tubercolosi, o di sfinimento, o di botte, o con un colpo alla nuca, o chissà. Non ce l’ha fatta per meno di due mesi: i russi entreranno nel campo il 27 gennaio 1945. E la piccola Elena? Qui il mistero è più fitto, le poche testimonianze sembrano contraddire i ricordi di famiglia: ma con l’aiuto del Cdec ho potuto ricostruire una storia, se non certa, assai probabile. Prima di nascondersi a Forno, Sandro affida la figlia all’Istituto Charitas, la cui prima sede era a due portoni di distanza dal suo appartamento alla Crocetta. L’Istituto Charitas, che nel Dopoguerra passò sotto la gestione delle Suore Minime, era stano fondato nel 1909 “pel ricovero temporaneo, talora anche di poche ore, di fanciulli sani, non discoli, in stato di momentaneo abbandono”, come recita una guida di Torino del 1928. Dal ’42, quando l’Istituto già aveva traslocato in corso Quintino Sella, lo dirigevano Luigi e Rita Vinay, evidentemente valdesi. In Piemonte ebrei e valdesi sono sempre andati molto d’accordo, e dunque oltre al vicinato anche un’affinità più profonda potrebbe aver influito nella scelta di mio zio. Che dunque parte per Forno con il cuore sollevato, perché è certo che sua figlia sia al sicuro. Invece il 23 (o 25) marzo del ’44 le SS arrivano all’Istituto Charitas, che da un anno ospitava anche i bimbi e le suore di un asilo bombardato, e prendono Elena. Mia nonna disse sempre che era stata venduta, ma non so se ne avesse le prove. Col tempo si abituò alla morte del fratello, perché in fondo in guerra possono morire anche quelli che non c’entrano niente, ma non riuscì mai a farsi una ragione della delazione che portò all’assassinio della bimba. Un ebreo valeva allora 5000 lire, più o meno quanto guadagnava un operaio in quattro mesi. Elena non aveva ancora compiuto undici anni quando fu presa. Ma soprattutto - è questa l’immagine che più mi sconvolge - si ritrovò sola, completamente sola, ad affrontare l’inferno. Il 27 marzo fu trasportata a Fossoli, il campo di transito italiano vicino a Carpi, e il 5 aprile salì sui vagoni per Auschwitz. La composizione di quel convoglio è particolarmente disperante: con lei c’erano altri 32 bambini - e però ho anche pensato: almeno avrà fatto amicizia, forse avrà anche riso, e mi è venuta in mente La vita è bella - e 139 anziani arrestati alla Casa di riposo israelitica di Mantova. Perché non li hanno ammazzati tutti subito? Che senso ha trasportare vecchi e bambini attraverso mezza Europa, nel caos della guerra, per poi ucciderli all’arrivo? Elena, come tutti i bambini di quel convoglio e come quasi tutti i bambini arrivati ad Auschwitz (a meno che non fossero gemelli o non incuriosissero per qualche altra ragione il dottor Mengele), fu portata alla camera a gas appena scesa dal treno, il 10 aprile 1944. Nessuno dei due poteva saperlo, ma il suo papà era oltre i reticolati, a qualche centinaio di metri appena: così vicini, così ineluttabilmente lontani. Quando ho parlato di zio Sandro e della sua famiglia ai ragazzi di due terze medie di Torino, la III G dell’IISS Calamandrei e la III G della Calvino, che stanno facendo una ricerca su di loro con l’aiuto del Museo diffuso e dell’Istoreto (a riprova che la scuola italiana può essere magnifica), ho insistito su un punto soprattutto: gli sventurati erano persone normali, normalissime, direi persino banali. Non avevano fatto nulla di speciale, o per meglio dire nulla di diverso da quello che fa la stragrande maggioranza della gente. Siamo noi a rendere unica la nostra vita: vista da fuori, è quasi sempre come tutte le altre. Eppure dentro una vita così ovvia può all’improvviso spalancarsi, letteralmente, l’inferno. Senza motivo, senza preavviso, senza ragione. Non voglio dire che se hai la pelle di un altro colore o parli un’altra lingua - zio Sandro credo parlasse soltanto piemontese - meriti gli insulti o le botte: vorrei dire invece alle persone normali come lo era mio zio, che magari mostrano indifferenza di fronte alle discriminazioni e all’intolleranza perché, appunto, pensano sia un problema di chi ha la pelle di un altro colore, ebbene, proprio come a persone come loro, normali e benpensanti e tranquille, è capitato da un giorno all’altro di dover fuggire, nascondersi, essere presi e picchiati per strada, e poi chiusi in un carcere e poi fatti viaggiare per una settimana su un carro bestiame e poi denudati nel freddo implacato dell’inverno polacco e poi spinti col calcio del fucile in una camera a gas. Per questo non dovremmo mai essere indifferenti, ma al contrario ben svegli per saper cogliere ogni minimo segnale di discriminazione: per egoismo bisogna vigilare: perché l’intolleranza è un fuoco che divampa incontrollato persino da chi l’ha appiccato, e potrebbe bruciare chiunque di noi.
Le due sorelle che sfuggirono ai nazisti in uno chalet in Val-d’Isère. Pubblicato domenica, 05 gennaio 2020 su Corriere.it da Marta Serafini. La storia di Huguette Müller e sua sorella Marion inizia nel dicembre del 1943. Quando le due giovani lasciano Lione, la città non era più sicura da tempo, poiché Klaus Barbie - il leader delle SS noto come il Macellaio di Lione - aveva iniziato a intensificare i rastrellamenti di ebrei. Le due giovani donne si mettono in cammino verso le Alpi, come meta hanno un villaggio della Val d’Isère, a pochi chilometri dal confine italiano. Nell’inverno del 1943 però quelle montagne non erano un luogo sicuro per due giovani ebree. I soldati tedeschi trasferiti dal fronte russo erano di stanza all’Hotel des Glaciers della Valle e all’epoca avevano già saccheggiato ristoranti e bruciarono gli chalet. Il motivo per cui le due giovani avevano scelto la valle come rifugio era forse che Marion fosse stata così consigliata da Pierre Haymann, un membro della resistenza francese, che sarebbe poi diventato suo marito. Una volta arrivate, Huguette però scivola e si rompe una gamba. Data la gravità della frattura la giovane avrebbe dovuto essere trasferito all’ospedale di Bourg St Maurice, nella valle. Spaventata dall’ipotesi che il ricovero potesse far saltare la loro copertura, Marion viene presa dal panico e dà un pugno in faccia al dottore. Né Huguette né Marion hanno mai parlato per molto tempo della loro vita sulle Alpi. «Marion agitava la mano con disprezzo ogni volta che le veniva chiesto. Rimane solo una fotografia di quel periodo», racconta per la Bbc, la storica britannica Rosie Whitehouse, nuora di Marion. Dopo la morte di Huguette, Whitehouse trova in una valigia una vecchia foto che la ritrae davanti ad uno chalet. Passa qualche altro anno e Whitehouse convince Marion a raccontare tutta la storia. Entrambe le sorelle erano nate a Berlino negli anni ‘20 ed erano fuggite in Francia dalla Germania con i loro genitori nel 1933, subito dopo la salita al potere di Hitler. Mentre Marion aveva documenti falsi, Huguette ne era sprovvista. «Quando il medico mi spiegò che Huguette rischiava di rimanere zoppa se non l’avessi portata in ospedale, risposti che era meglio zoppa che morta». Ed è a quel punto che il medico capisce di avere davanti due fuggiasche. E si offre di dare loro ospitalità e aiuto. A rischio della propria stessa vita. Frédéric Pétri — questo il nome dell’uomo — ospita le due ragazze nello chalet in cui vive con sua madre e sua sorella. E quando il tempo migliora permette alle ragazze di fare un rapido giro in giardino, ancora una volta rischiando in prima persona. Di questo atto eroico di Pétri però non si trova traccia nelle cronache locali. Ma l’ipotesi di Whitehouse è che facesse parte di un gruppo di giovani anti tedeschi. «Sperando di saperne di più sulle attività di resistenza in Val d’Isère, ho inviato una serie di e-mail e lasciato post sulla pagina Facebook del resort», racconta Whitehouse. A risponderle è Roby Joffo - il cui zio, Joseph Joffo, è autore di uno dei romanzi francesi più famosi sull’Olocausto, «Un sacchetto di biglie». Anche il padre di Roby, Henri, e suo zio Maurice (fratelli maggiori di Joseph Joffo) si erano rifugiati in Val d’Isère durante l’inverno del 1943-44, e avevano lavorato come parrucchieri sulla strada principale proprio di fronte al Lo chalet di Pétri. Roby è fermamente convinto che ci fossero altri ebrei nascosti nella valle. Ma nessuno ne parla. E ancora oggi le famiglie che vivono in Val d’Isère non ne fanno cenno. Una delle ipotesi di Whitehouse è che «l’unico modo per continuare a convivere con i vicini dopo la guerra sia stato di dimenticare quello che era successo», anche perché «la regione era cattolica, conservatrice e di destra». Huguette ora vuole che il coraggio e la gentilezza di Pétri siano riconosciuti e quindi ha chiesto a Whitehouse di scrivere a Yad Vashem, il Centro della memoria dell’Olocausto a Gerusalemme, per chiedere se prenderà in considerazione il riconoscimento di Pétri come uno dei Giusti tra le Nazioni - un elenco di persone non ebree che hanno rischiato le loro vite per aiutare gli ebrei durante l’Olocausto. Una richiesta che però richiederà altro tempo per essere vagliata.
Giorno della Memoria. Non lasciamo che Auschwitz anneghi nella retorica. Che senso ha dire “mai più” e poi vendere armi, portare la guerra nel mondo, negare i diritti ai rifugiati? In vista dei 75 anni della ricorrenza, una filosofa e uno scrittore riflettono sul senso vero del ricordare. Donatella Di Cesare e Wlodek Goldkorn il 26 gennaio 2020 su La Repubblica. Da quando, quindici anni fa, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite aveva deciso di istituire il Giorno della memoria e fissarne la data il 27 gennaio, il giorno appunto in cui nel 1945 le truppe dell’Armata rossa aprirono i cancelli di Auschwitz, quel lager diventò qualcosa di più di un luogo di morte e di sofferenza, quasi indicibili. Auschwitz si trasformò in un sinonimo della Shoah. O se vogliamo in una metonimia o una sineddoche, figure retoriche dove una parte fa da simbolo alla totalità del fenomeno e che si prestano a svariate interpretazioni e usi. Intanto, quel campo in terra di Slesia non fu la prima fabbrica della morte scoperta dai sovietici: già nell’estate del 1944, i russi scoprirono le macerie di Treblinka (900 mila ebrei assassinati in pochi mesi). E poi, quando si parla della liberazione di Auschwitz occorre tener presente che da liberare c’era ben poco. Al momento nel campo si trovavano appena duemila prigionieri, gli altri 65 mila, ancora in vita, furono avviati dai tedeschi nella famigerata marcia della morte verso altri lager, più a ovest, marcia in cui perirono circa 15 mila persone. In totale ad Auschwitz morirono circa un milione 100 mila esseri umani. Cominciamo questa nostra conversazione con alcune domande e l’indicazione di alcuni problemi riguardanti i modi e le conseguenze del fatto che un luogo maledetto ma assai concreto si trasformò in un simbolo. Il primo. Dal momento che fu l’Onu, un’organizzazione di Stati nazione sovrani a istituire la ricorrenza del 27 gennaio, la memoria della Shoah è diventata anch’essa affare di Stato, vicenda da presidenti, primi ministri, Parlamenti. E così, nei prossimi giorni avremo almeno due momenti solenni. Ad Auschwitz arriveranno i monarchi di Olanda, Spagna, Svezia e presidenti e premier di svariati Paesi. Ma prima, il 23 gennaio, a Gerusalemme ci saranno oltre quaranta fra capi di Stato e di governo. A prendere la parola saranno i rappresentanti delle quattro potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, oltre a quelli di Germania e Israele. Il presidente polacco Andrzej Duda ha annunciato che non verrà alla cerimonia israeliana dato che vi parlerà Putin e non lui. Infatti fra i russi e i polacchi c’è un conflitto sulle cause di quella guerra. E non è una discussione fra storici, ma fra autorità politiche delle rispettive nazioni. Che senso ha tutto questo? Che senso ha che politici dicano «mai più» e poi vendano armi che uccidono, facciano guerre, neghino i diritti ai rifugiati?
Donatella Di Cesare. «Non mi sorprende che gli Stati vogliano occupare la memoria, prenderne quasi possesso, rivendicando Auschwitz, il luogo stesso e il simbolo. È un feticismo della memoria, che emerge nelle commemorazioni sempre più trite e banali. Si sbandiera la pietà della memoria, mentre viene meno il compito di ricordare. Il risultato paradossale è l’amnesia collettiva. Ne parleremo forse in seguito. Questa gara fra gli Stati avviene anche perché nella nostra cultura la figura del vinto è stata sostituita da quella della vittima. E la vittima è ormai la figura fondativa. Sono ovviamente gli Stati europei ad avanzare questa pretesa vittimaria. Oggi in particolare i polacchi. Ma perfino la Germania, nel passato, è stata tentata, più volte, dal ruolo della vittima».
Goldkorn. «Un chiarimento doveroso: i polacchi erano fra le principali vittime del nazismo. La discussione che oggi divide in due la società riguarda le complicità di molti cittadini nello sterminio dei vicini di casa ebrei. E un’osservazione sui tedeschi. Accanto al Parlamento di Berlino è stato edificato un gigantesco monumento alle vittime dello sterminio. È come se la memoria della Shoah fosse fondativa di una Germania riunificata. Un paradosso inquietante».
Di Cesare. «La penso diversamente. Quel monumento è molto controverso. Sin dall’inizio è stato contestato dalle comunità ebraiche tedesche perché appariva troppo neutro, senza nessun rinvio allo sterminio degli ebrei. Per questo in seguito è stato costruito a parte un museo. Sono convinta comunque che con questo monumento la Germania abbia tentato di chiudere in qualche modo, dopo la riunificazione, il terribile capitolo dello sterminio. Di certo non è un atto fondativo. Piuttosto è memoriale voluto fortemente dall’alto, dall’élite governativa. Per il resto, il rapporto che la Germania ha con lo sterminio è ben diverso da quello che ha l’Italia. Il paragone a mio avviso non sta in piedi».
Goldkorn. «In Italia ci fu una guerra civile. I conti con il fascismo li hanno fatti i partigiani. Poi ci sono elaborazioni (anche sulle contraddizioni della Resistenza) che spettano agli storici e intellettuali, ma è altra cosa. In Germania invece il nazismo finì per mano delle potenze che occuparono il Paese. Ma vorrei introdurre un altro tema: memoria condivisa e memoria divisiva. Un giorno chiesi a Marek Edelman, il comandante in seconda della rivolta nel ghetto di Varsavia, se una memoria condivisa potesse esistere. Mi rispose con un’altra domanda: credi seriamente che la mia memoria da combattente possa avere qualcosa in comune con la memoria di un poliziotto (e sottolineò, ebreo) nel ghetto? La memoria per sua natura e statuto è divisiva».
Di Cesare. «Bisogna distinguere fra memoria individuale e ricordo collettivo. La memoria è la facoltà di ciascuno, che per giunta è selettiva. Altro è il ricordo, cardine dell’ebraismo. Si condivide insieme il ricordo di una narrazione. Prima fra tutte quella dell’esodo, il cammino verso la libertà. Condivisione non significa peraltro uniformità. Detto questo, la memoria di quel che è avvenuto non potrà mai essere la stessa, tanto meno per il protagonista della rivolta e per il poliziotto. Alla domanda se la memoria della Shoah sia condivisa, rispondo: assolutamente no. Le narrazioni dei popoli sono divergenti e divergenti sono gli usi che se ne fanno».
Goldkorn. «C’è una differenza fra chi è testimone diretto della Shoah e noi, la generazione nata dopo, che ne abbiamo solo sentito parlare o studiato sui libri. I testimoni stanno scomparendo. Ne restano pochi e preziosi. Ha parlato prima del compito della memoria. Come si fa a trasmettere il ricordo alle generazioni future? Non basta il comandamento, zakhòr, in ebraico: ricorda, di cui ha parlato».
Di Cesare. «Torno all’inizio, al feticismo della memoria, che ha finito per provocare una specie di amnesia collettiva. In Italia, e perfino in Germania, l’antisemitismo continua a esistere. Anzi aumenta! Come mai? Perché?
Goldkorn. La risposta?»
Di Cesare. «Poco studio, poca riflessione e un dibattito pubblico carente. Si pensa che l’antisemitismo sia una forma specifica del razzismo. Questo semplifica il fenomeno. Si trascura, ad esempio, che la mobilitazione antisemita attinge all’archivio dell’antiebraismo cristiano. Nuovi stigmi si intrecciano ai precedenti, accuse dimenticate riemergono con accenti inediti. Basti pensare a tutte le forme del complottismo. La Shoah non ha spinto a conoscere e studiare la storia e la tradizione ebraica. Un peccato! Ma il feticismo della memoria pone altri problemi. Ho l’impressione che molti pensino che il viaggio ad Auschwitz sia sufficiente».
Goldkorn. «L’anno scorso i visitatori italiani sono stati 130 mila, dei due milioni trecento mila in totale: la quarta nazione per quantità dei visitatori al Museo di Auschwitz. Moltissimi sono studenti delle medie superiori che arrivano in viaggi organizzati dalle scuole. Con tutte le critiche che si possono fare riguardo alla sistemazione di quel luogo, non è una cosa negativa che specie i giovani abbiano l’occasione di toccare con mano l’orrore».
Di Cesare. «Sono sempre stata scettica sui viaggi ad Auschwitz. Ci sono professori bravissimi, ottime scuole, dove gli studenti vengono preparati al viaggio con letture, conversazioni, percorsi di apprendimento. Per non parlare poi dell’incontro decisivo con i sopravvissuti. Esiste, però, il rischio che si punti solo sull’emozione, sull’effetto choc, mentre l’attenzione si concentra sulla ragionieristica del campo, o meglio, di quel poco che è rimasto del campo ad Auschwitz-Birkenau, il vero teatro dello sterminio».
Goldkorn. «Il luogo dove la vita del prigioniero durava poche ore, perché dai vagoni si passava direttamente alle camere a gas».
Di Cesare. «Ecco, di quella parte si è conservato pochissimo. Ripeto: va bene visitare quel luogo e ascoltare i testimoni. Il mio timore è che, finito il pellegrinaggio, affievolitasi l’emozione, tutto venga liquidato. Importante è studiare e riflettere. Vorrei aggiungere che una certa musealizzazione della Shoah può provocare grandi ipocrisie. È perfino possibile andare in pellegrinaggio ad Auschwitz, esprimendo lì per lì pietà per le vittime, e al ritorno condividere parole antisemite su Facebook o Twitter o rilanciare slogan razzisti».
Goldkorn. «Parliamo dell’uso politico della memoria. Ágnes Heller diceva che il nazionalismo era il peccato originale dell’Europa. Però, non tutti i nazionalismi portano al fascismo e perfino non tutti i fascismi finiscono con creare Auschwitz. Ammesso che esista, la lezione della Shoah è: non possiamo restare indifferenti, non possiamo permettere che migranti anneghino in mare, che bambini muoiano nei carrelli degli aerei».
Di Cesare. «Per quanto mi riguarda ho un concetto ben più negativo del nazionalismo, che ritengo un gravissimo pericolo. Di più: considero la «nazione» un’entità fantasmatica. E penso che sia venuto finalmente il tempo di denazionalizzare le menti. Da allora la cornice politica non è molto mutata. L’Europa resta un coacervo di Stati-nazione. Prendiamo, ad esempio, il tema della cittadinanza. Non è stato fatto molto. I passaporti europei sono un duplicato dei passaporti italiani, spagnoli, francesi.... Chi perde la nazionalità resta fuori dalla cittadinanza europea. Questo è grave. Soprattutto se si pensa al passato, quando, nel 1935, con le leggi di Norimberga, gli ebrei tedeschi diventarono apolidi. Non trovarono rifugio nel contesto europeo. Da lì all’internamento il passo fu breve. E oggi il problema resta, sia per gli europei, sia per i tanti profughi. Possiamo dire di vivere ancora all’ombra di Auschwitz perché per noi è sempre ovvio il campo di internamento – un’invenzione novecentesca - l’idea, cioè, che sia lecito internare o far internare (come in Libia) esseri umani. C’è un mondo di Stati e un mondo di campi. È una terribile eredità. Ha senso il confronto tra quel che è avvenuto decenni fa e quel che avviene oggi? Per me sì».
Goldkorn. «Potrei citare ancora una volta Edelman che paragonò la Sarajevo assediata dai serbi al ghetto di Varsavia, e così aveva fatto un uso radicale della propria memoria a difesa di chi era aggredito. Però dovrei obiettare: internamento non significa sterminio».
Di Cesare. «Il campo di internamento non è in nessun modo campo di sterminio. Ma ambedue fanno parte dell’universo concentrazionario. Il principio è internare ed escludere. Ci sono gradi e differenze, ma c’è anche, purtroppo, una continuità».
Goldkorn. «Finiamo in bellezza. Alla lettera. La memoria vive prima di tutto nelle opere d’arte, nella letteratura, nella poesia. E se pensiamo alla poesia come a una verità, a rappresentare la Shoah meglio di tutti è un poeta che non è mai stato ad Auschwitz, Paul Celan».
Di Cesare. «Sì, quest’anno ricorre il centenario della nascita e 50esimo della morte. Celan è stato forse il maggiore poeta di lingua tedesca nel Novecento. Non è possibile, però, etichettarlo solo come "poeta della Shoah". Ma certo è riuscito ad articolare il rantolo in cui minacciavano di soffocare per sempre le vittime e a incidere questa ferita nel tedesco, quella lingua madre che era divenuta purtroppo la lingua della morte».
Astronomi e filologi, quei cervelli in fuga dalle leggi razziali. Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Di Stefano. Le storie in un portale web dell’Università di Firenze: intellettuali, letterati, scienziati e professionisti italiani che a causa della loro origine ebraica si rifugiarono all’estero. È vero che l’Italia è stata, ed è, terra di emigranti poveri e senza cultura. Ma oggi sappiamo che c’è un’altra emigrazione italiana: quella dei cosiddetti «cervelli in fuga». Tutt’altro che un fenomeno nuovo, che merita di essere studiato. A questo deve aver pensato Patrizia Guarnieri, docente di Storia contemporanea all’Università di Firenze, nel creare un portale sui cervelli in fuga dall’Italia fascista, che ricostruisce le biografie non solo dei docenti ebrei espulsi dalle Università ma in generale di quegli intellettuali, letterati, scienziati e professionisti italiani che trovarono rifugio all’estero, magari per restarvi anche dopo la caduta del regime. E sono centinaia di «vite in movimento», tanto più se si contano le famiglie al seguito, i figli studenti, i nipoti che verranno. I casi sono tanti e variegati. Noti e meno noti. Il filologo e ispanista mantovano Ezio Levi D’Ancona aveva 54 anni, era sposato con Flora e aveva cinque figli quando dovette lasciare la cattedra a Napoli: decise di trasferirsi negli Stati Uniti con la moglie, fu ospitato a New York da Enrico Fermi, suo parente, e non ebbe vita facile se solo nel 1940 ottenne un posto in un College femminile di Boston, un anno prima di morire. I figli, lasciati con il suocero, avrebbero trovato rifugio in Svizzera nel gennaio 1944: nel 1946 Mirella sarebbe sbarcata a New York con il fratello Viviano, raggiungendo la madre e un altro fratello, Vivaldo. Full professor di Storia dell’Arte all’Hunter College, Mirella sarebbe diventata una notevole studiosa di arte rinascimentale, mentre l’ingegnere e imprenditore Vivaldo si sarebbe trasferito in Brasile. Famiglie in movimento. Come quella del cardiologo Massimo Calabresi, già finito in carcere nel 1923 (era attivo in Giustizia e Libertà). Senza dimenticare le due sorelle: Renata, psicologa, e Cecilia, esperta di letteratura comparata, anche loro amiche dei fratelli Rosselli e di Salvemini. In fuga con le leggi razziali, i Calabresi partono Oltreoceano, dove si affermeranno lentamente nei rispettivi campi: nessuno rientrerà in Italia. Massimo morirà a New Haven nel 1988 (sua moglie Bianca Maria Finzi Contini nel 1982), mentre il figlio Paul, sarebbe diventato un importante oncologo americano e Guido un giudice e giurista. Per ricostruire le biografie perdute bisogna ricorrere spesso ad archivi stranieri: e quando si può sono schede dettagliate con tanto di segnalazione dei familiari emigrati, degli enti di soccorso e delle relazioni d’aiuto. Chi conosce l’italiano d’Egitto Vinicio Barocas? Classe 1914, arrivò a Firenze nel ’32 per laurearsi in Fisica e frequentare la prestigiosa scuola di Fermi e Persico, emigrò in Inghilterra nel 1939 per non rientrare mai più: morì a Preston più che centenario nel 2016 dopo mille vicissitudini (compreso un internamento in Canada) che lo portarono a diventare da assistente nell’osservatorio astronomico di Greenwich a direttore dell’osservatorio di Preston. Si potrebbe continuare con la vicenda del fiorentino Umberto Cassuto, rabbino di Firenze fino al ’25 ed eminente ebraista, emigrato in Palestina il 5 giugno 1939 con la moglie Bice e le due figlie. La lista dei familiari duramente colpiti dalle persecuzioni è quasi interminabile. Pochi dei sopravvissuti rientrarono in Italia. Ci sono poi i sopravvissuti che vengono rifiutati anche dopo la guerra: come Enzo Bonaventura, uno dei maestri della psicologia sociale, che rifugiato a Gerusalemme fece un tentativo per rientrare a Firenze ma venne bocciato ai concorsi. Cancellato dal suo Paese, morì nel 1948 vittima del massacro terroristico di Hadassah. L’università, nel Dopoguerra, stentò a reintegrare gli accademici cacciati. L’italianista Attilio Momigliano, condannato alla «morte civile» nel ‘38, rinunciò alla cattedra che gli venne offerta in Inghilterra: al suo posto nell’Università di Firenze, Bottai chiamò «per alta fama» Giuseppe De Robertis che accettò volentieri dopo il rifiuto di Massimo Bontempelli e di Luigi Russo (disgustato dalla «repugnanza della cosa»). Dopo la guerra la cattedra fu sdoppiata in modo che De Robertis non venisse scomodato.
Giordano Tedoldi per “Libero Quotidiano” il 27 gennaio 2020. Nel suo importante saggio I volonterosi carnefici di Hitler, lo storico Daniel Goldhagen scrive: «Non v' è dubbio che nel 1939 la Germania fosse ormai riuscita a conseguire la morte civile degli ebrei». Per la morte effettiva, ci sarebbe voluto ancora qualche anno. Ma già dall' ascesa al potere di Hitler, nel 1933, la discriminazione degli ebrei venne avviata con la caratteristica energia del regime nazista. Tuttavia, come si sa, l' antisemitismo è fenomeno più antico di Hitler, che ne è stato l' esponente più fanatico e ferocemente organizzato. È interessante, per capire l' antisemitismo, spostare indietro le lancette della storia di una decina d' anni, e rileggere un curioso romanzo uscito a Vienna nel 1922, La città senza ebrei, firmato da un non meno curioso personaggio, Hugo Bettauer, e da poco ripubblicato da Chiarelettere (128 pagg., 14 euro). Sembra una favola, perché ha un tono leggero e quasi trasognato. Ma il contenuto è, alla luce di quanto riserverà il futuro, agghiacciante: si racconta che un giorno, a Vienna, sostenuto dalla maggioranza popolare, il cancelliere e ministro degli Esteri cristianosociale Schwertfeger proponga e faccia approvare dal parlamento alcune leggi che obbligano gli ebrei a sloggiare dall' Austria. La storia del romanzo, che si sviluppa in brevi capitoli somiglianti quasi a vignette (Bettauer fu prolifico giornalista e romanziere, aveva la penna facile per la prosa arguta e rapida, pur non essendo un Karl Kraus) o a scene cinematografiche (da un suo romanzo, La via senza gioia, un maestro dell' espressionismo tedesco, Georg W. Pabst, trasse un film con Greta Garbo) è tanto esile quanto chiara: dopo la forzata dipartita degli ebrei, le finanze austriache vanno prevedibilmente a picco, i negozi più eleganti si svuotano, le prostitute non possono più mantenere i loro giovani amanti ariani con i soldi dei protettori giudei, le raffinate e costose pasticcerie vengono sostituite da spacci di würstel e birra, agli eleganti capi parigini sfoggiati dalle dame israelitiche si sostituisce la triste moda indigena del loden e degli scarponi chiodati. Insomma, come dice a un certo punto l' avvocato dottor Haberfeld, ariano purosangue: «Vienna senza gli ebrei si sta trasformando in uno stagno!» Nemmeno l' operetta aiuta più (si ricordi che la famiglia Strauss, quella dei valzer di Capodanno e dell' operetta Il Pipistrello, era ebraica), al suo posto i compositori ariani non riescono a sfornare altro che "polpettoni". Per non parlare del disastro all' Opera di Vienna, falcidiata dei suoi migliori musicisti in quanto ebrei. Quest'ultimo particolare è uno dei tanti spunti del romanzo che, salito Hitler al potere, diverrà tragica realtà quando Furtwaengler, il direttore dei leggendari Filarmonici di Berlino, dovette fare i conti con un' orchestra privata di musicisti di prim'ordine, e con l'imposizione di non eseguire musiche di autori, come Mendelssohn, di origine israelitica. L'ipotesi che la cacciata degli ebrei avrebbe rappresentato un enorme danno non solo economico, ma anche culturale, è messa debitamente a fuoco nel romanzo. E non si avrebbe torto di dire che, se la Mitteleuropa è caduta politicamente alla fine della Prima guerra mondiale, il suo definitivo, corporale annichilimento, per via della capillare persecuzione nazista che ha svuotato i paesi dell' Europa centrale di scrittori, musicisti, scienziati non sostituibili (arricchendo economicamente e culturalmente altri paesi, come l' America), è avvenuto solo con la fine della Seconda guerra. Ma abbiamo detto che Bettauer, che pure si guadagnò le lodi di Robert Musil, non è Karl Kraus. Infatti la sua beffa, nonostante la mordacità con cui finge di piangere lacrime per «il vecchio austriaco purosangue che presto si sarebbe visto solo nei libri» minacciato dall' astuzia e dall' intraprendenza ebraica, conserva una leggerezza lontana dall' acida cattiveria di Kraus, e che lo avvicina, piuttosto, alle pallide speranze di convivenza con l' oppressore, nutrite, prima della fuga e del suicidio, da Stefan Zweig. Si ha la sensazione che Bettauer si augurasse che la minaccia antisemita, una volta messa in burla con tinte sarcastiche ma non particolarmente aggressive, sarebbe stata disinnescata. Così la storia della Citta senza ebrei si conclude con l' inevitabile ritorno dei perseguitati in un' atmosfera addirittura di apoteosi. Ma la tolleranza riconquistata che Bettauer si augurava, quell' accoglienza che avrebbe dovuto seguire al delirio antisemita, non doveva trovar posto nella storia, e il primo a farne le spese fu proprio lui, assassinato da un fanatico nazista, nel 1925, mentre si trovava nella redazione di uno dei tanti giornali cui collaborò o che fondò. L'assassino, difeso da avvocati vicini al nazionalsocialismo, scontò una breve pena e venne liberato. Si dimostrava così che, a Vienna, uccidere uno scrittore avendo come movente l' antisemitismo era legittimo. Privo di ogni resistenza interna, Hitler marciava a grandi passi verso la presa del potere che gli consentì di mettere in pratica quanto Bettauer aveva operettisticamente rappresentato con animo ancora ingannato dalla speranza.
Giornata della memoria, “i due amanti di Auschwitz” si incontrano dopo 72 anni. Redazione de Il Riformista il 27 Gennaio 2020. Per combattere e non dimenticare gli orrori dei campi di concentramento nazista, nella giornata della memoria è utile ricordare un’incredibile storia d’amore. I protagonisti, David Wisnia e Helen Spitzer, si sono conosciuti e innamorati nel campo di concentramento di Auschwitz nel 1943. Entrambi ebrei, lui aveva 17 anni di origine polacca mentre lei ne aveva 25 ed era slovacca. I due “amanti di Auschwitz” sono entrambi sopravvissuti e si sono ritrovati dopo 72 anni a New York. La loro tenera ed incredibile storia è stata raccontata dal New York Times attraverso la testimonianza di David Wisnia, sopravvissuto di ormai 93 anni. LA STORIA – David ha raccontato di aver incontrato di nuovo la sua amata “Zippi”, così chiamava Helen, ben 72 anni dopo il loro allontanamento forzato. I due, quando ancora si trovavano ad Auschwitz, pianificarono di stare insieme e si erano giurati amore eterno. Pur sapendo che erano in pericolo, si promisero di rincontrarsi se sopravvissuti all’orrore del lager. La promessa era quella di rivedersi a Varsavia al termine della guerra, invece i due amanti sono diventati entrambi americani e si sono rincontrati a New York nel 2016. Entrambi riuscirono a salvarsi per il loro talento. David Wisnia, infatti, aveva una bellissima voce e fu ingaggiato per intrattenere i soldati tedeschi. Deportato nel campo di concentramento nazista di Auschwitz a soli 17 anni, riuscì a scampare alla morte grazie alla sua attitudine. Helen invece fu imprigionata nel 1943 a 25 anni, ma anche lei aveva una grande predisposizione grazie alla conoscenza del tedesco e della sua abilità nel disegno. Riuscirono ad avere una relazione segreta per diversi mesi, ma Wisnia fu trasferito nel campo di concentramento di Dachau nel 1944 lasciando così Auschwitz. La soprannominata Zippi, invece, fu una delle ultime donne a lasciare ancora viva Auschwitz e riuscì a raggiungere il primo campo che ospitava ebrei americani nella Germania occupata, dove incontrò e sposò il capo della polizia locale, Erwin Tichauer.
L’INCONTRO – Sia David che Helen si trasferirono negli Stati Uniti dove costruirono separatamente la propria famiglia e il proprio lavoro. David è stato il primo tra i due a venire a conoscenza del destino di Helen, infatti riuscì a sapere che il suo grande amore era sopravvissuta alla prigionia e che era emigrata nel Nord America. “Erano passati 72 anni dall’ultima volta che aveva visto la sua ex ragazza. Aveva sentito che era in cattive condizioni di salute, ma sapeva ben poco della sua vita”, riporta il New York Times. Solo dopo tutti quegli anni, quando ormai Helen era già debilitata, riuscirono ad incontrarsi a Manhattan nel 2016. L’anno scorso la donna è venuta a mancare a 100 anni, ma i due amanti sono riusciti a coronare il loro desiderio di ricongiungersi dopo la fine di Auschwitz.
La «neonata di Auschwitz» e altri 200 sopravvissuti: insieme per i 75 anni della liberazione. Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Michele Farina. Il più vecchio ha 101 anni, la più giovane è nata ad Auschwitz, da prigioniera. E ci è tornata oggi, insieme con altri duecento sopravvissuti, forse per l’ultima volta, sempre per tenere viva la memoria. La neonata di Auschwitz ha 75 anni, l’età della liberazione: il 27 gennaio del 1945 i primi soldati russi entravano nel campo dove i nazisti avevano ucciso un milione e centomila persone, quasi tutti ebrei. Eva Szepesi, ungherese di Budapest, catturata nel 1944 con la mamma e il fratello, quel giorno era là sdraiata su un tavolaccio, moribonda. I nazisti che volevano svuotare il lager dai testimoni viventi non l’avevano nemmeno inserita tra i prigionieri destinati alle «marce della morte». Ma «qualcuno, non so chi, mi diede da bere la neve - ha raccontato al quotidiano The Guardian la signora Szepesi, che oggi vive a Francoforte in Germania - Mi ricordo la neve, il suo sapore: com’era buona. E mi ricordo un soldato con il cappello di pelliccia e la stella rossa che si china su di me e sorride». Eva ha 87 anni e oggi è ad Auschwitz con la figlia Anita. E’ il giorno dei sopravvissuti, che non sono soli. Sono arrivati con parenti, amici, molti giovani. C’è la consapevolezza che potrebbe essere l’ultima occasione per ritrovarsi nel luogo che ha segnato le loro vite. Nel pomeriggio, sotto una tenda, là dove arrivavano i treni piombati con il loro carico umano, c’è la cerimonia con le autorità e i leader politici. Parla il presidente polacco Andrzej Duda. E se non c’è Vladimir Putin, che accusa la Polonia di aver collaborato con Hitler all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, ben più importante è la presenza di Ernest Ehemann, 91 anni, che viene dal Canada: «Questo è il mio tredicesimo ritorno. E ogni volta è come se un video terribile ripartisse nella mia mente. L’arrivo con i miei genitori, la nostra separazione. Loro a sinistra e io a destra. Soltanto alla liberazione ho scoperto che erano morti, mezz’ora dopo il nostro arrivo». A sinistra le camere a gas, a destra la vita e la morte nel lager. «E’ un dolore, ma voglio tornarci - racconta Ernest — E’ l’ultimo posto dove ho visti vivi il mio papà e la mia mamma». Con Ernest c’è la figlia sessantenne Audrey: «E’ la terza volta che vengo, e non lo sento come un peso. Sento che questa è una parte di me, come è una parte di me imparare a raccontare la storia dei mei genitori e di chi ha vissuto la loro esperienza». Eva Szepesi, il numero 26877 tatuato sul braccio sinistro, ha scoperto soltanto nel 2016 che la mamma e il fratello erano morti ad Auschwitz, due dei sei milioni di ebrei uccisi nell’Olocausto. «E’ stata mia nipote a scoprire i nomi scritti in bianco e nero» nell’elenco delle vittime. Per decenni Eva ha preferito non indagare, non sapere. E’ una cosa naturale. Ed è bello che siano le nuove generazioni a cercare le tracce della memoria. Jona Laks ha 90 anni, viene da Israele. E’ una delle ospiti d’onore delle celebrazioni di oggi: «Sembra impossibile che sia passato tanto tempo — racconta alla Reuters sotto il cielo grigio di Auschwitz — Rivedo il forno, le scintille dal camino, l’odore della carne bruciata». Jona non doveva essere lì. Aveva 14 anni quando dal ghetto ebraico di Lodz, nella Polonia occupata dai nazisti, fu condotta al lager nel carro bestiame, con la gemella Miriam e la sorella più grande Chana. Jona all’arrivo del treno fu mandata a sinistra, verso i forni, le sorelle a destra. Era un dottore delle SS a fare la cernita: camere a gas o campo di lavoro. Il suo nome era Joseph Mengele, il famigerato «Angelo della Morte. «Arrivò con i cani e un bastone. Destra, sinistra, destra, sinistra. Non penso che neppure guardasse le persone, sembrava annoiato — ricorda la signora Laks — Quando ci separarono, mia sorella maggiore lo implorò: Non separi due gemelle». E Mengele, che era interessato per aberranti motivi pseudoscientifici agli esperimenti su fratelli e sorelle siamesi, mandò un ufficiale a recuperare Jona dalla fila di sinistra. «Fui fortunata - dice oggi lei - O forse sfortunata», prosegue dopo un istante di silenzio. «A volte penso che neppure gli animali potrebbero sopravvivere alle crudeltà a cui fummo sottoposti» racconta la nonna alla nipote Aldar che l’accompagna. Al Blocco 10 la signora Laks si ferma: lì c’era il laboratorio di Mengele. Fuori, un cortile con quello che viene chiamato «il muro della morte», dove i prigionieri a volte venivano allineati e uccisi, e dove oggi i sopravvissuti si ritrovano per accendere candele alla memoria. Altre scintille. «Dall’interno, sentivamo i lamenti di chi veniva assassinato», dice la novantenne sopravvissuta. Poi guarda Aldar, e ha come un sussulto. «Sono qui con mia nipote, posso dire che ce l’abbiamo fatta. Io ho vinto la guerra. Noi abbiamo un futuro».
Michele Farina per il “Corriere della Sera” il 28 Gennaio 2020. Il più vecchio ha 101 anni, la più giovane è nata ad Auschwitz, da prigioniera. E ci è tornata ieri, insieme con altri duecento sopravvissuti che hanno varcato il cancello con la scritta «Arbeit macht frei» (il lavoro rende liberi) forse per l' ultima volta, sempre per tenere viva la memoria. Tra loro, dicono al Cdec (Centro di documentazione ebraica contemporanea), non c' era nessuno dei tredici italiani, ancora in vita, passati dal Lager simbolo del male assoluto. La neonata di Auschwitz ha 75 anni, l' età della liberazione: il 27 gennaio del 1945 i primi soldati russi entravano nel campo dove i nazisti avevano ucciso un milione e centomila persone, quasi tutti ebrei. Angela Orosz è nata settimina: la mamma, Vera Bein, della comunità ebraica ungherese (425 mila deportati da maggio a luglio 1944, 90% sterminati) era stata presa come cavia umana dai «dottori» nazisti. Il parto fu indotto con un' iniezione dolorosissima. Quando venne alla luce pesava un chilo: «Ero troppo debole per piangere - ha raccontato anni fa -. E questo probabilmente mi ha salvato». Cinque mesi dopo, il campo fu liberato. In una baracca quel giorno nacque un altro bambino, Gyorgy Faludi. «Sua madre era troppo debole, così la mia mamma allattò tutti e due». Eva Szepesi, anche lei ungherese di Budapest, anche lei catturata nel 1944 con la mamma e il fratello, il giorno della liberazione era sdraiata su un tavolaccio, moribonda. I nazisti che volevano svuotare il Lager dai testimoni viventi non l' avevano nemmeno inserita tra i prigionieri destinati alle «marce della morte». Ma «qualcuno, non so chi, mi diede da bere la neve - ha raccontato al Guardian la signora Szepesi, che oggi vive a Francoforte in Germania -. Sono sopravvissuta grazie alla neve. Mi ricordo il suo sapore: com' era buona. E mi ricordo un soldato con il cappello di pelliccia e la stella rossa che si china su di me e sorride». Eva ha 87 anni e ieri era ad Auschwitz con la figlia Anita. Il 27 gennaio è il giorno dei sopravvissuti, che non sono soli. Sono arrivati con parenti, amici, molti giovani. C' è la consapevolezza che potrebbe essere l' ultima occasione per ritrovarsi nel luogo che ha segnato le loro vite. Nel pomeriggio, sotto una tenda, là dove arrivavano i treni piombati con il loro carico umano, si è tenuta la cerimonia con le autorità e i leader politici. Ha parlato il presidente polacco Andrzej Duda. E se non c' è Vladimir Putin, che accusa la Polonia di aver collaborato con Hitler all' inizio della Seconda Guerra Mondiale, ben più importante è la presenza di Ernest Ehemann, 91 anni, che viene dal Canada: «Questo è il mio tredicesimo ritorno. E ogni volta è come se un video terribile ripartisse nella mia mente. L' arrivo con i miei genitori, la nostra separazione. Loro a sinistra e io a destra. Soltanto alla liberazione ho scoperto che erano morti mezz' ora dopo il nostro arrivo». A sinistra le camere a gas, a destra la vita e la morte nel Lager. «È un dolore, ma ci torno - racconta Ernest -. È l' ultimo posto dove ho visto vivi il mio papà e la mia mamma». Con Ernest c' è la figlia sessantenne Audrey: «È la terza volta che vengo, e non lo sento come un peso. Sento che questa è una parte di me, come è una parte di me imparare a raccontare la storia dei mei genitori e di chi ha vissuto la loro esperienza». Eva Szepesi, il numero 26877 tatuato sul braccio sinistro, ha scoperto soltanto nel 2016 che la mamma e il fratello erano morti ad Auschwitz, due dei sei milioni di ebrei uccisi nell' Olocausto. «È stata mia nipote a scoprire i nomi scritti in bianco e nero» nell' elenco delle vittime. Per decenni Eva ha preferito non indagare, non sapere. È una cosa naturale. Ed è bello che siano le nuove generazioni a cercare le tracce della memoria.
Jona Laks ha 90 anni, viene da Israele. È una delle ospiti d' onore delle celebrazioni di oggi: «Sembra impossibile che sia passato tanto tempo - racconta alla Reuters sotto il cielo grigio di Auschwitz -. Rivedo il forno, le scintille dal camino, l' odore della carne bruciata». Jona non doveva essere lì. Aveva 14 anni quando dal ghetto ebraico di Lodz, nella Polonia occupata dai nazisti, fu condotta al Lager nel carro bestiame, con la gemella Miriam e la sorella più grande Chana. Jona all' arrivo del treno fu mandata a sinistra, verso i forni, le sorelle a destra. Era un dottore delle SS a fare la selezione. Il suo nome era Joseph Mengele, il famigerato «Angelo della Morte». «Arrivò con i cani e un bastone. Destra, sinistra, destra, sinistra. Non penso che guardasse le persone, sembrava annoiato - ricorda la signora Laks -. Quando ci separarono, mia sorella maggiore lo implorò: "Non separi due gemelle"». E Mengele, che era interessato per aberranti motivi pseudoscientifici agli esperimenti su donne incinte e fratelli siamesi, mandò un ufficiale a recuperare Jona dalla fila di sinistra. «Fui fortunata - dice oggi lei -. O forse sfortunata», prosegue dopo un istante di silenzio. «A volte penso che neppure gli animali potrebbero sopravvivere alle crudeltà a cui fummo sottoposti», racconta la nonna alla nipote Aldar che l' accompagna. Al Blocco 10 la signora Laks si ferma: lì c' era il laboratorio di Mengele. Fuori, un cortile con quello che viene chiamato «il muro della morte», dove i prigionieri a volte venivano allineati e uccisi, e dove oggi i sopravvissuti si ritrovano per accendere candele alla memoria. Altre scintille. «Dall' interno, sentivamo i lamenti di chi veniva assassinato», dice la novantenne sopravvissuta. Poi guarda Aldar, e ha come un sussulto della memoria. «Sono qui con mia nipote, e posso dire che ce l' abbiamo fatta. Io ho vinto la guerra. Noi abbiamo un futuro».
“Così i nostri vicini di casa aiutarono i nazisti”. Il Dubbio il 30 gennaio 2020. Il bellissimo e drammatico racconto di Liliana Segre al parlamento europeo. Il “razzismo” e “l’antisemitismo” ci sono “sempre” stati e ci sono tuttora, perché sono “insiti” dell’animo dei “poveri di spirito”. Lo sottolinea la senatrice a vita Liliana Segre, già deportata nel lager di Auschwitz, nell’attuale Polonia, intervenendo nella plenaria del Parlamento Europeo a Bruxelles. Il discorso della Segre si è concluso con un lunghissimo applauso dell’Aula e un minuto di silenzio.All’epoca della ‘marcia della morte’, che i carcerieri nazisti imposero ad una parte dei prigionieri nel lager, ricorda la senatrice, “la paura faceva sì che la scelta” di aiutare gli ebrei “fosse di pochissimi. Non fu solo il popolo tedesco, fu tutta l’Europa occupata dai nazisti, come in Francia e Italia”. In Italia, ha sottolineato, “i nostri vicini di casa furono aiuti straordinari per i nazisti: io parlo dell’Italia, dove abbiamo visto i nostri vicini di casa che ci denunciavano, che prendevano possesso del nostro appartamento, del nostro ufficio”. “Anche del cane, qualche volta – ha aggiunto – perché era un cane di razza. Il cane era di razza: questa parola ‘razza’, ancora la sentiamo dire, e per questo dobbiamo combattere questo razzismo strutturale, che c’è ancora”. “La gente mi chiede – prosegue – come mai ancora si parla di antisemitismo? Il razzismo e l’antisemitismo ci sono sempre stati. Non c’era il momento politico per tirare fuori il razzismo e l’antisemitismo, che sono insiti nell’animo dei poveri di spirito“.”E poi – aggiunge – arrivano i momenti più adatti, in cui ci si volta dall’altra parte, in cui è più facile far finta di niente. E allora tutti questi che approfittano della situazione trovano il terreno adatto per farsi avanti”, conclude.
Siate farfalle che volano sopra i fili spinati. Pubblichiamo un estratto del discorso che la senatrice a vita Liliana Segre ha tenuto al Parlamento europeo di Bruxelles. Liliana Segre su La Repubblica il 29 gennaio 2020. Comincio con il ringraziare l'amico David Sassoli che mi ha invitato qui oggi. Non posso nascondere l'emozione profonda nel vedere le bandiere colorate di tanti Stati affratellati in questo Parlamento dove si parla, si discute e ci si guarda negli occhi. Alla giornata del 27 gennaio a volte è stata data un'importanza che in fondo non c'è. Auschwitz non è stata liberata quel giorno. Quel giorno l'Armata Rossa vi è entrata ed è molto bello il discorso che fa Primo Levi ne La Tregua dei quattro soldati russi che non liberano il campo perché i nazisti erano già scappati, ma si trovano di fronte a questo spettacolo incredibile. Uno spettacolo più tardi incredibile per tutti coloro che lo vollero guardare, mentre qualcuno non lo vuole vedere nemmeno adesso e dice che non è vero. Si tratta dello stupore per il male altrui. Queste sono le parole straordinarie di Primo Levi e che nessun prigioniero di Auschwitz ha mai potuto dimenticare. Il 27 gennaio avevo 13 anni ed ero operaia schiava nella fabbrica di munizioni Union. Di colpo arrivò il comando immediato di cominciare quella che venne chiamata "Marcia della morte". Io non fui liberata il 27 gennaio dall'Armata Rossa, facevo parte di quel gruppo di più di 50 mila prigionieri ancora in vita obbligati a una marcia che durò mesi. Quando parlo nelle scuole dico che ognuno nella vita deve mettere una gamba davanti all'altra, che non si deve mai appoggiare a nessuno perché nella "Marcia della morte" non potevamo appoggiarci al compagno vicino che si trascinava nella neve con i piedi piagati e che veniva finito dalla scorta se fosse caduto. Ucciso. La forza della vita è straordinaria, è questo che dobbiamo trasmettere ai giovani di oggi. Noi non volevamo morire, eravamo pazzamente attaccati alla vita qualunque essa fosse per cui proseguivamo una gamba davanti l'altra, buttandoci nei letamai, mangiando anche la neve che non era sporca di sangue. Prima attraversammo la Polonia e la Slesia, poi fu Germania. Dopo mesi e mesi arrivammo allo Jugendlager di Ravensbruck. Eravamo solo giovani, ma sembravamo vecchie, senza sesso, senza età, senza seno, senza mestruazioni, senza mutande. Non si deve avere paura di queste parole perché è così che si toglie la dignità a una donna. Giorno dopo giorno, campo dopo campo, mi trovai alla fine del mese di aprile 1945. Quanto era lontano il 27 gennaio, quante compagne erano morte in quella marcia, mai soccorse perché nessuno aprì la finestra o ci buttò un pezzo di pane. Non fu solo il popolo tedesco, ma i popoli di tutta l'Europa occupata dai nazisti in cui abbiamo visto i nostri vicini di casa essere aiutanti straordinari dei nazisti. In Italia i nostri vicini ci denunciavano, prendevano possesso del nostro appartamento, anche del cane se era di razza. Questa parola, razza, la sentiamo ancora e allora dobbiamo combattere questo razzismo strutturale che resta. La gente mi chiede come mai si parli ancora di antisemitismo. Io rispondo che c'è sempre stato, ma non era il momento politico per tirare fuori il razzismo e l'antisemitismo insiti nell'animo dei poveri di spirito. E poi arrivano i momenti più adatti, corsi e ricorsi storici, in cui ci si volta dall'altra parte. E allora tutti quelli che approfittano di questa situazione trovano il terreno più adatto per farsi avanti. Quando subito dopo la guerra per caso restai viva e tornai nella mia Milano con le macerie fumanti, ero una ragazza ferita, selvaggia, che non sapeva più mangiare con forchetta e coltello, ancora abituata a mangiare come le bestie. Ero criticata anche da coloro che mi volevano bene: volevano di nuovo la ragazza borghese dalla buona educazione. È difficile ricordare queste cose e devo dire che da 30 anni parlo nelle scuole e sento ormai come una difficoltà psichica a continuare, anche se il mio dovere sarebbe questo fino alla morte. Io ho visto quei colori, ho sentito quelle urla e quegli odori, ho incontrato delle persone in quella Babele di lingue che oggi non posso che ricordare qui, dove tante lingue si incontrano in pace. Nei campi era possibile comunicare con le compagne che venivano da tutta l'Europa occupata dai nazisti solo trovando parole comuni, altrimenti c'era solo la solitudine assoluta del silenzio. E le bandiere qui fuori di cui parlavo all'inizio mi hanno fatto ricordare quel desiderio di trovare con olandesi, francesi, polacche, tedesche e ungheresi una parola comune. In ungherese ho imparato una sola parola, "pane". È la parola principale che vuol dire fame, ma anche la sacralità di una cosa oggi sprecata senza nemmeno guardare cosa si butta via. Da almeno tre anni sento che i ricordi di quella ragazzina che sono stata non mi danno pace. Non mi danno pace perché da quando sono diventata nonna, trentadue anni fa, quella ragazzina che ha fatto la "Marcia della morte" è un'altra persona rispetto a me: io sono la nonna di me stessa. Ed è una sensazione che non mi abbandona. È mio dovere parlare nelle scuole, testimoniare. Ma non posso che parlare di me e delle mie compagne. Sono io che salto fuori. Quella ragazzina magra, scheletrita, disperata, sola. E non lo posso più sopportare perché sono la nonna di me stessa e sento che se non smetto di parlare, se non mi ritiro per il tempo che mi resta a ricordare da sola e a godere delle gioie della famiglia ritrovata, non lo potrò più fare. Perché non ce la farò più. Anche oggi fatico a ricordare, ma mi è sembrato un grande dovere accettare questo invito per ricordare il male altrui. Ma anche per ricordare che si può, una gamba davanti all'altra, essere come quella bambina di Terezin che ha disegnato una farfalla gialla che vola sopra i fili spinati. Io non avevo le matite colorate e forse non avevo la fantasia meravigliosa della bambina di Terezin. Che la farfalla gialla voli sempre sopra i fili spinati. Questo è un semplicissimo messaggio da nonna che vorrei lasciare ai miei futuri nipoti ideali. Che siano in grado di fare la scelta. E con la loro responsabilità e la loro coscienza, essere sempre quella farfalla gialla che vola sopra ai fili spinati.
Un allarme da Auschwitz: "I sopravvissuti stanno scomparendo". I testimoni diretti, in grado di raccontare la Shoah, sono sempre meno. Tonia Mastrobuoni il 27 gennaio 2020 su La Repubblica. Sadiq Khan la tiene per mano, si deve piegare su di lei: Renee Salt parla a bassissima voce. Classe 1929, polacca, deportata ad Auschwitz nel 1944, quando aveva 15 anni, è visibilmente stravolta. Ma i suoi sussurri sono grida. "Non so come abbiamo potuto sopravvivere". Khan si ferma un momento: il sindaco di Londra è venuto fin qui per mostrarle la lapide dei donatori della Fondazione Auschwitz. "Londra" è stata appena aggiunta alla lista: ha appena stanziato 300mila sterline. L'Italia, per dire, ha donato un milione. La Germania centoventi. Khan si piega di nuovo su di lei: "Ci sono i fatti e i numeri, ma sono astratti - le risponde -. Sono le storie che contano, che sono importanti. Quando voi parlate, la gente ascolta". Di nuovo un sussurro: "Really?", davvero? Renee Salt ha sposato un soldato inglese dopo la guerra e si è trasferita a Londra. Ha dedicato gli ultimi vent'anni a raccontare la sua storia nelle scuole. A 90 anni è ancora costretta a denunciare un "ritorno forte dell'antisemitismo", come ha fatto domenica, alla vigilia della cerimonia ad Auschwitz. Il messaggio più forte del 75esimo anniversario è proprio questo: i sopravvissuti stanno via via scomparendo, negli ultimi cinque anni ne sono morti la metà. E i duecento che sono venuti qui dovrebbero essere i protagonisti di quello che potrebbe essere uno degli ultimi o forse l'ultimo anniversario con le vittime dell'Olocausto. Invece la vigilia delle celebrazioni è stata macchiata dallo squallido duello tra il presidente russo Vladimir Putin e quello polacco Andrzej Duda. Quest'ultimo ha boicottato le celebrazioni allo Yed Vashem, giovedì scorso, perché Putin parlava (l'Urss fu una delle quattro potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale) e lui no. Putin, dal canto suo, ha disertato la cerimonia di oggi. E va ricordato appena che Auschwitz fu liberata dall'Armata rossa. La cerimonia è cominciata stamane con una camminata silenziosa di ottanta sopravvissuti polacchi al cosiddetto 'muro della morte', quello delle fucilazioni, accompagnati dal presidente polacco Duda. Nel pomeriggio sono previsti a Birkenau, a tre chilometri dal campo originario di Auschwitz, nella gigantesca area designata allo sterminio su scala industriale, i capi di Stato e di governo e i rappresentanti di circa 60 Paesi tra cui il presidente della Repubblica tedesco Steinmeier, il premier francese Philippe, il presidente israeliano Rivlin, i re di Spagna, Olanda, Belgio, i presidenti di Svizzera e Austria, Sommaruga e van del Berllen, il primo ministro greco Mitsotakis e il Segretario al Tesoro Mnuchin. L'Italia sarà rappresentata dalla viceministra Sereni. Il primo a parlare sarà il polacco Duda, poi sarà la volta di quattro sopravvissuti che racconteranno le loro storie. Per non dimenticare.
Giornata della Memoria, quando non ci saranno più i testimoni come faremo a ricordare? Eraldo Affinati su Il Riformista il 26 Gennaio 2020. In questo momento storico, quando i protagonisti della Shoah stanno per dirci addio, le ultime parole di ognuno di loro andrebbero ascoltate e conservate come doni preziosi. I ricordi dei deportati sopravvissuti, vegliardi segnati dal trauma, bambini o adolescenti negli anni terribili del Terzo Reich, dovrebbero essere incisi con l’inchiostro rosso nei registri novecenteschi per frantumare qualsiasi illusione che potremmo ancora nutrire sulla natura umana. I nostri simili, purtroppo dobbiamo ammetterlo, sono pericolosi: ciò che accadde nel cuore di tenebra dell’Europa nella prima metà del secolo scorso non possiede uguali per ferocia e dimensione tecnologica e potrebbe riproporsi, in forma nuova e diversa, anche oggi. È la ragione per cui la triste recente vicenda legata alla senatrice Liliana Segre, costretta ad avere la scorta per difendersi dalle minacce antisemite, rappresenta una pagina nera. Quando non ci saranno più quelli come lei, dovranno essere le generazioni venute dopo ad assumersi la responsabilità di rivolgersi ai più giovani. Con una differenza decisiva: mentre i testimoni diretti avevano la naturale legittimità per farlo, noi dovremo conquistare tale condizione. Come? In due modi, entrambi ineludibili: trasformando i luoghi del terrore hitleriano e fascista in musei a cielo aperto e studiando le fonti. In tale prospettiva dobbiamo interpretare il testamento spirituale che Ginette Kolinka, nata a Parigi nel 1925 e deportata ad Auschwitz a diciannove anni insieme al padre, al fratello e al nipote, ha consegnato a Marion Ruggieri, scrittrice sensibile e pronta a raccoglierlo con taglio stilistico avvincente e personale. Il titolo dell’opera, Ritorno a Birkenau. 78699 (Ponte alle Grazie, traduzione di Francesco Bruno, pp. 89, 12 euro), riprende il numero tatuato sul braccio della giovane donna pochi momenti dopo il suo arrivo sulla famigerata banchina dove gli sventurati venivano divisi fra donne e uomini, bambini e adulti, sani e malati. Chi saliva sul camion andava direttamente al gas e poi nei forni crematori: migliaia e migliaia di esecuzioni a ritmo forsennato. Gli altri venivano condotti nelle baracche dove potevano almeno sperare di continuare a respirare, anche se le famigerate e periodiche “selezioni” incombevano giornalmente: bastava una ferita non guarita o una semplice malattia per essere eliminati. Ginette, partita dal campo di Drancy come tanti ebrei, deve la vita a una serie di fortuite circostanze, fra le quali il fatto di essere stata deportata nella primavera del 1944, solo un anno prima della fine del conflitto.
Il suo resoconto possiede un’intensità a volte quasi insostenibile; anche chi, come il sottoscritto, è abituato a leggere questi documenti, resta colpito dal ritmo incandescente del dettato: le condizioni spaventose della reclusione coatta, le attività inutili a cui le povere donne venivano sottoposte, la crudeltà spesso arbitraria delle Kapò, le angherie e soprattutto la fame che divorava le viscere, l’egoismo impietoso delle persone trasformate in bestie ma anche, verso la fine, quando Ginette rievoca il suo trasferimento in una fabbrica, la generosità inaudita di certi operai pronti a lasciare pezzi di pane nascosti nei macchinari industriali a beneficio delle lavoratrici. Ginette ha molto atteso prima di aprire bocca. A convincerla sono stati i ragazzi che ormai da tempo accompagna ad Auschwitz. La stessa cosa accadde a Ruth Kluger, di sei anni più giovane, l’autrice di Vivere ancora (Einaudi), una delle più potenti riflessioni sullo sterminio nazista. Entrambe queste donne hanno avuto la forza di attraversare la retorica, scansandola d’istinto, insieme agli alibi interiori in agguato per tutti noi: “Io sono diverso, io sono migliore”. Nessuno può dirlo. Solo Ginette ha il diritto di indignarsi, come quando nei paraggi del campo di Birkenau, qualche anno fa, vide una ragazza fare jogging proprio lì. “Correva, tranquillamente. Mi è mancato il respiro. Ho avuto voglia di urlare, di gridarle: “Ma sei matta?”. Salvo andare a capo e chiedersi: “O la matta ero io?”.
Shoah, nei disegni di un bambino l’incubo del campo di sterminio. Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Antonio Ferrari. Credo che tanti si saranno domandati per quale motivo i pochi sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti abbiano taciuto per anni, in qualche caso per oltre un quarto di secolo. Di sicuro alcuni «fortunati» per essere tornati alla vita, come numerose testimonianze ci hanno confermato, temevano di non essere creduti. Altri di essere accusati di aver gonfiato le loro sofferte storie e i loro ricordi per vittimismo, a caccia di solidarietà o di qualche immediato favore. Altri ancora, nonostante il desiderio di far conoscere «Il crudele viaggio nell’inferno dell’umanità», erano stati frenati dal disinteresse e dal cinismo di un mondo che voleva soltanto dimenticare, anzi cancellare, affidandosi all’abbraccio apparentemente consolatorio dell’indifferenza, quell’incubo che tantissimi avevano realmente vissuto. L’incubo della Shoah, eliminazione sistematica di milioni di ebrei, per troppo tempo infatti è rimasto un vergognoso segreto del passato. Al punto che in molti Paesi non vi erano editori disponibili a rischiare un modesto investimento con la possibilità, quasi la certezza, di vendere poco o niente. Il libro di Thomas Geve «Qui non ci sono bambini» realizzato in collaborazione con la casa editrice Einaudi è in edicola con il «Corriere della Sera» per un mese (pp. 183, euro 12,90 più il prezzo del quotidiano)Ho conosciuto personalmente una trentina di sopravvissuti, in Italia, in Francia, in Israele, in Grecia, nella Repubblica ceca e in quella slovacca. Ho raccolto, assieme alla collega del «Corriere della Sera» Alessia Rastelli, preziose testimonianze e indimenticabili racconti (anche con l’aiuto di audio e video per il nostro Corriere Tv) su quell’orrore, di cui non conosciamo e non impariamo mai abbastanza. Sono rimasto poi impietrito leggendo il libro di Thomas Geve Qui non ci sono bambini, in edicola domani con il «Corriere». Questo fanciullo ebreo di Stettino, deportato ad Auschwitz all’età di 13 anni e capace di sopravvivere, non ci ha regalato testimonianze orali o ricordi scritti, ma (da ragazzino curioso), quando lo hanno liberato, dopo 22 mesi di vita accanto alla morte e a quanto di più degradante possa compiere il genere umano, ha cercato carta e penna per donarci 79 disegni già nel 1945. Semplici tracce, che Thomas ha abbozzato, con tratto infantile ma con ricordi precisissimi, per raccontare a suo padre, che si trovava a Londra, quel che aveva visto, vissuto, patito e sofferto, e soprattutto le mostruosità a cui si era abituato. La storia, affidata alla grafica, racconta infatti le atroci esperienze di un bambino, fortunato perché dimostrava più dei suoi anni e che, invece dell’immediato invio alla camera a gas di Auschwitz-Birkenau, era stato assegnato ai lavori più massacranti. Una storia che ricorda quella di Liliana Segre, salvata dalla sua robusta costituzione fisica. Anche lei, ragazza milanese, oggi nominata senatrice a vita dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dimostrava più dei suoi 14 anni. Thomas Geve fa parlare la sua mente, già allora attratta dall’osservazione, allenata alla memorizzazione, e affascinata dalla tecnica. Da grande Thomas è diventato ingegnere civile. Il suo racconto disegnato è agghiacciante, e dimostra quanto l’umiliazione, la distruzione della propria identità siano il crimine più orrendo: molto più del dover convivere all’interno di un mondo criminale e folle, assetato di vendetta contro tutti i diversi. Da ragazzo, se le ferite della vita non ti hanno ancora raggiunto e colpito, vivi il gusto dell’esplorazione e ti interessano tutti gli esseri umani, il loro volto, la somma dei piccoli segnali che sei già in grado di decifrare. Ma quando «nulla intorno a te è degno di un uomo, come fai a diventare umano?», scrive Boris Cyrulnik nella postfazione del libro, riprendendo i preziosi ricordi del grande testimone Primo Levi, «Il peggio — scrive Cyrulnik — non è la morte, ma l’umiliazione, che rappresenta la disumanizzazione suprema». Thomas, con straordinaria autodisciplina e spregiudicatezza, impara in fretta le regole del campo di sterminio. Il «forno crematorio» diventa una normale presenza in quei luoghi infami, ma di notte, come tutti coloro che hanno conosciuto la fame, il ragazzo destinato alla morte sogna tavole imbandite, paté di fegato, salsicce, frutta, dolci, svegliandosi poi appagato con la mente ma ancor più ostaggio delle pulsioni dello stomaco vuoto. Pronto a qualsiasi bassezza, compreso il furto, per procurarsi una fetta di pane ammuffito, di cavolo marcio o di buccia di patate. L’autore del libro, con l’energia della giovane età e con il sostegno di un carattere coriaceo e proiettato sulla speranza di farcela, riesce a comprendere tutti i piccoli trucchi necessari per superare le prove più ardue, le torture e soprattutto per schiacciare la paura. Thomas, diventato amico dei detenuti più fragili, impara, con la dura esperienza quotidiana, a sottrarsi ai controlli dei kapò; prova grande simpatia per gli zingari, ritenuti da Hitler una sottospecie e invece traboccanti di umanità; solidarizza con le prostitute, arrestate perché vendevano il proprio corpo, ma costrette a offrire gli stessi servizi ai guardiani e agli aguzzini. In fondo, annota Thomas, «sono prigioniere, quindi vittime, anche loro». In sostanza, il piccolo autore cresce aiutando chi può aiutare e mentalmente annota tutto, con la meticolosa cura del ragazzino che già a 12 anni aveva stupito i genitori costruendo una radio rudimentale. Alla fine dell’inferno, dopo la liberazione e la scoperta del mondo e della pace, è pronto a disegnare il suo «viaggio intorno alla morte». Disegni che questo libro offre alla sensibilità di tutti coloro che hanno un cuore non impietrito dell’egoismo e da quel rivoltante «mi volto dall’altra parte», quasi sempre più feroce dell’odio. Libro che potrebbe far pensare persino i negazionisti, a patto che siano in buona fede.
Lunedì 27 gennaio, esce in edicola con il «Corriere della Sera», in occasione del Giorno della Memoria, il libro di Thomas Geve Qui non ci sono bambini. Un’infanzia ad Auschwitz, al prezzo di e 12,90 più il costo del quotidiano. Il volume, realizzato in collaborazione con la casa editrice Einaudi, resterà in edicola per un mese. Tradotto da Margherita Botto, contiene i disegni che Thomas Geve, internato dai nazisti all’età di 13 anni, realizzò nel 1945 a Buchenwald, dopo essere stato liberato dagli americani, per descrivere la sua terribile esperienza ad Auschwitz e in altri Lager nazisti. Il libro contiene anche una postfazione di Boris Cyrulnik e contributi di Avner Shalev e Volkhard Knigge. Thomas Geve è lo pseudonimo di Stefan Cohn, nato nel 1929 a Stettino (oggi Polonia, allora parte della Germania): deportato ad Auschwitz, vi perse la madre ma riuscì a sopravvivere. Ingegnere, dal 1950 vive in Israele. Nel 1985 donò i suoi disegni al memoriale Yad Vashem.
Giornata della memoria: le parole del bambino sopravvissuto alla Shoah. Lavinia Nocelli il 27/01/2020 su Notizie.it. Per ricordare l'orrore dell'Olocausto, in tutto il mondo il 27 gennaio si celebra il Giorno della Memoria. Parla Emanuele, il bambino sopravvissuto. Il 27 gennaio, in tutto il mondo, si celebra il Giorno della Memoria. Una data scelta dall’Onu nel 2005 e indicata per l’organizzazione di numerose iniziative affinché non si dimentichi. Parla il bambino scampato alla Shoah, Emanuele Di Porto, sopravvissuto per miracolo. Sono passati 75 anni dal giorno in cui le truppe sovietiche della 60^ armata del “Primo Fronte ucraino” abbatterono i cancelli di Auschwitz, rivelando al mondo intero la realtà dei campi di concentramento, un orrore della quali molti ignoravano l’esistenza e di cui molti, ancora oggi, negano l’esistenza. In una giornata densa di celebrazioni e iniziative per tener viva la memoria – che sembra negli ultimi anni tendente alla negazione – Sky propone una serie di contenuti tra protagonisti e ricostruzioni storiche, affinché non si dimentichi. “Sono venuti i tedeschi al ghetto, ho visto mia madre tornare, ma un tedesco in quel momento l’ha presa e l’ha messa su un camion. Io l’ho raggiunta, ma poi non lo so come ho fatto, sono sceso dal camion e sono andato a piazza Monte Savello. E lì sono salito su un tram. C’era il bigliettaro, e sono stato due giorni sul tram”, racconta attraverso i ricordi Emanuele Di Porto, bambino scampato alla Shoah per miracolo. Un reportage firmato Renato Coen, che ha raccolto insieme diverse testimonianze ne “Una luce nella notte”. Un lavoro, quello di Sky TG24, introdotto dal direttore Giuseppe De Bellis, che mette insieme le memorie del passato attraverso un’analisi del presente, attraverso le parole di scrittori, giovani studenti ed Emanuele. 75 anni dopo, però, la storia non è ancora finita. I lager nel mondo, e simili, si perdono nella conta. Tra guerre che infiammano Paesi poveri e divisioni interne in numerosi Stati, oggi milioni di persone sono ancora private delle loro libertà per motivi politici, etnici e religiosi. Dalla Corea del Nord ai laogai cinesi, alle colonie penali australiane fino all’inferno libico, per arrivare alle nostre carceri di detenzione in Italia. Sono migliaia le persone che ancora oggi sono rinchiuse in strutture “carcerarie” in cui non esistono o vengono presi in considerazione i diritti umani. Un orrore da tenere a mente mentre si commemora il Giorno della Memoria.
L’infanzia rubata dei figli della Shoah, l’abisso più profondo della barbarie nazista. Orlando Trinchi il 28 gennaio 2020 su Il Dubbio. La mostra alla casina dei Vallati. Oltre un milione e mezzo, tante furono le piccole vittime nei campi di sterminio del Reich, la ferocia dei persecutori non si allentò neanche quando la guerra era ormai persa. Scriveva nel 1942, dall’interno del Ghetto di Varsavia, lo storico Emanuel Ringelblum: «Anche nei tempi più barbari, una scintilla umana brillava persino nel cuore più crudele e i bambini furono risparmiati. Ma la bestia hitleriana è molto diversa. Essa divora i più cari a noi, quelli che suscitano la massima compassione, i nostri figli innocenti». Oltre un milione e mezzo, tante furono le piccole vittime della Shoah: a loro è dedicata la mostra Shoah. L’infanzia rubata, ospitata a Roma, dal 28 gennaio al 24 luglio, presso le sale della Casina dei Vallati, sede, dal luglio 2008, del Museo della Shoah. Ideata e prodotta dall’Associazione Figli della Shoah e organizzata dalla Fondazione Museo della Shoah in sinergia con la Comunità Ebraica di Roma, la rassegna, attraverso testimonianze e citazioni di diari, si appunta sulle difficili condizioni e le molteplici privazioni cui, durante gli anni della persecuzione nazifascista, furono sottoposti i bambini e i ragazzi di religione ebraica, deprivati di diritti essenziali come il gioco, l’istruzione, la libertà, la dignità e, in ultimo, la vita stessa. I bambini, a differenza degli adolescenti – che potevano essere impiegati come forza- lavoro e avevano quindi una possibilità lievemente maggiore di sopravvivenza – costituivano i soggetti più vulnerabili alle politiche persecutorie del nazismo, e, fra questi, i minori disabili furono le prime, tragiche vittime dell’Olocausto, avendo dovuto subire il programma di eutanasia del Terzo Reich volto a forgiare la cosiddetta “razza ariana”. Furono proprio i bambini a dover sottostare, fin dal 1933, alle prassi discriminatorie della Germania nazista, proseguite nel 1938 in Italia con le leggi razziali fasciste. La ferocia dei persecutori nei loro confronti non si allentò neanche quando era ormai chiaro che il secondo conflitto mondiale si stava risolvendo in una sconfitta manifesta per la Germania. Pur in anni così drammatici, tuttavia, piccole luci di speranza si levavano contro quell’oscuro fondale di barbarie e disumanità, come quella mantenuta viva dal pedagogo, medico e scrittore polacco di origini ebraiche Janusz Korczak, di cui la mostra traccia il percorso morale, educativo e umano, con uno speciale approfondimento delle sue fondamentali opere letterarie, come il sempre attuale Il diritto del bambino al rispetto ( 1929). Ispiratore dell’odierna Convenzione Internazionale dei Diritti dei Bambini, si profuse fino agli ultimi istanti nel tentativo di alleviare le sofferenze dei bambini del proprio orfanotrofio, situato nel Ghetto di Varsavia. Non li abbandonò neanche quando, ordinati e vestiti con cura, la mattina del 5 agosto 1942 vennero deportati verso il campo di sterminio di Treblinka, condividendone l’atroce sorte.
Antisemitismo, odio che non colpisce solo gli ebrei. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 26 Gennaio 2020. «Quante volte abbiamo ripetuto “mai più”, riferendoci alla tragedia della Shoah. Ma quel “mai più” rischia di diventare un’affermazione retorica se poi non c’è un sussulto d’indignazione di fronte a scritte vergognose come quella di Mondovì o all’antisemitismo imperante sui social. Juden hier non è solo uno sfregio alla memoria di quanti sono morti nei campi di sterminio e di chi, come Lidia Rolfi, ha combattuto il nazifascismo finendo deportata a Ravensbruck nel 1944; quella frase è uno sfregio per una intera comunità nazionale e per le sue istituzioni democratiche. L’antisemitismo, col carico di odio verso il “diverso”, non è un problema degli ebrei, è un virus che mina le fondamenta stesse di una società democratica». A sostenerlo in questa intervista a Il Riformista, è Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei). Juden hier, “qui ci sono gli ebrei”, è la scritta comparsa la notte scorsa sulla porta di casa di Aldo Rolfi, figlio di Lidia, partigiana deportata a Ravensbruck.
Quali sono i sentimenti che accompagnano questo sfregio?
«Indignazione, rabbia, dolore ma anche, e per certi versi soprattutto, la consapevolezza che l’antisemitismo non appartiene alla Storia ma è qualcosa che fa parte del nostro presente e che minaccia il nostro futuro. Il futuro di una comunità nazionale che si vuole democratica. Quella scritta ignobile, apparsa alla vigilia della Giornata della Memoria, dovrebbe servire da monito: tante volte, soprattutto nelle cerimonie istituzionali, si ripete il monito “mai più”. Ma quel “mai più” non può essere un esercizio retorico, non può essere solo il dovuto tributo alla memoria dei milioni di ebrei morti nei lager nazifascisti. Quel “mai più” deve essere un impegno che riguarda la nostra quotidianità, che deve investire le scuole, i mezzi di comunicazione. Contro questi seminatori di odio occorre condurre una grande battaglia culturale. Quel “mai più” non deve riguardare solo Auschwitz, perché i campi di sterminio sono il terminale di una campagna di odio che si nutre di atti quotidiani che ieri come oggi vengono sottovalutati. Quella scritta è l’evidenza dell’avvitamento che si registra su questi fatti, è un altro atto che genera quel senso di indecisione. Il nostro tormento oggi è proprio l’indecisione nel decifrare, da parte di tanti, questi gesti: quanto si sta prima o dopo quel filo rosso, quel confine, dell’allarme. Vede, in questi anni, abbiamo faticosamente lavorato con tante istituzioni, nazionali e locali, per far sì che il riconoscimento di un luogo dove era vissuto un ebreo che, come Lidia Rolfi, ha combattuto per la libertà, fosse un gesto positivo, un arricchimento per l’intera comunità. Ma gli autori di quella scritta ci dicono che la strada è ancora lunga… E che l’antisemitismo è un problema di tutta la società, e la Shoah, preceduta in Italia dalla vergogna delle leggi razziali, chiama in causa non solo i carnefici ma i tanti indifferenti. Dietro a quelle odiose leggi non c’era solo una idea di ‘“purezza” della razza che reclamava la emarginazione prima e la persecuzione subito dopo degli “impuri”. Dietro quelle leggi c’era anche l’idea di fondare una coesione nazionale additando negli Ebrei coloro che quella coesione minacciavano: stiamo parlando di una comunità che rappresentava l’1% della popolazione totale! Una minoranza additata come il Male assoluto, cancellato il quale, non importa con quali mezzi, l’Italia e gli italiani “perfetti” avrebbero ripreso la loro marcia trionfale».
I tempi son cambiati, certo, ma l’antisemitismo non è stato estirpato una volta per tutte. Come si manifesta oggi l’antisemitismo, e c’è una forma più pericolosa delle altre?
«Le forme sono molteplici e vanno conosciute e combattute con il medesimo impegno. C’è l’antisemitismo dell’estrema destra, ma c’è anche un antisemitismo che si cela dietro l’antisionismo e l’odio verso Israele al quale vengono attribuiti comportamenti nazisti».
Shoah, il dolore e la fatica del ricordo in questo mondo che non aiuta Israele. Fiamma Nirenstein, Lunedì 27/01/2020, su Il Giornale. In che modo una bambina ebrea nata nel dopoguerra incontra la Shoah e impara a portarne memoria? Con fatica, con disgusto, con incredulità, ingenuamente. Si avvia verso un'indagine impervia: non c'è chi le insegnerà, le spiegherà, la consolerà. C'è il segreto della crudeltà umana che non si può, non si deve rivelare ai bambini, e il segreto della unicità della condizione ebraica. Nessuno vorrà rivelarle i due segreti, dovrà costruirsene da sola l'immagine. E ancora oggi la bambina di ieri è sola con queste due questioni, perché sia l'immensità dell'abisso che la sua indicibile unicità le sono proibiti. Questa proibizione è ciò che impedisce a colui che non ha questa duplice esperienza dentro di sé di essere un credibile alleato quando dichiarata never again. Mi dispiace, io non vi credo anche se vi apprezzo. La bambina è sola mentre si costruisce nella sua mente un mosaico inaspettato. L'ebreo è ancora solo mentre ricostruisce faticosamente la sua gioia di vivere. A Kishinev il 6 e il 7 aprile del 1903 i contadini russi attaccarono gli ebrei, li fecero a pezzi, donne e bambini; ci furono condanne ed esclamazioni. Due anni dopo un'altra orgia di mutilazioni e stupri investì la stessa cittadina della Bessarabia. Roosevelt era certo contrario alla strage degli ebrei: questo non gli impedì di trattare altezzosamente e respingere Jan Karsky, l'eroico cristiano polacco che andò a chiedergli in ginocchio, per averlo visitato personalmente, di bombardare il Ghetto di Varsavia e la ferrovia che portava ad Auschwitz. A casa nostra in Via Marconi a Firenze la Memoria, la Shoah e la persecuzione degli ebrei avevano due volti, anzi tre, e tutti misteriosi: il più quotidiano, quello di un ansioso riavvio del motore della vita fiorentina, della speranza domestica, del sorriso della mia nonna in cucina, della riabilitazione borghese della famiglia Lattes-Volterra, del lavoro caparbio e deciso della mia mamma ex partigiana e ora giornalista come fosse un proseguo della lotta. L'aspirazione a riprendere la vita dopo anni di fughe, di nascondigli, di Resistenza, di fame, paura, discriminazione, dopo la deportazione di tre giovani, bellissimi fratelli della mia nonna Rosina (due Gastone e Angiolino finiti a Buchenwald, e il terzo Beppino fucilato mentre tentava la fuga) rendeva indicibile l'orrore attraversato. La nonna infatti non lo diceva; ci narrava come in una fiaba a lieto fine di quando i fratelli e le sorelle coi coniugi e i figli e le figlie si erano nascosti tutti insieme, come pazzi, nella villa di Bellosguardo dello zio Gualtiero; e poi, fulminati dalla loro stessa temerarietà mista a terrore, si erano dispersi. Così tre di loro furono presi perché, nascosti in una soffitta il fumo di un'incauta sigaretta filtrò fra le travi, e i fascisti li trovarono così. Un biglietto affidato nelle mani di qualcuno alla stazione è stata l'ultima traccia. La nonna raccontava la fuga, la paura, la dispersione in episodi in cui c'erano case di preti buoni, il sarto del nonno che in piazza del Carmine aveva chiamato il cavalier Lattes dalla finestra perché si nascondesse a casa sua...Israele fu subito la stessa cosa, lo sfondo realistico della vita ritrovata. Lo era anche per il babbo, che aveva voluto toccare la Shoah che aveva scampato quando era giovane sionista in Israele: adesso era tornato da un infinito, misterioso viaggio in Polonia, in pellegrinaggio a Baranow da cui provenivano suo padre, la matrigna, il fratello Moshe, 4 piccole sorrellastre, tanti zii e cugini che seguitò a nominare e a chiamare specie negli ultimi anni della sua vita. Poi a Varsavia aveva raccolto i documenti per costruire i libri che al posto delle parole dette hanno costituito il suo pegno. Israele era la logica, evidente risposta alla Shoah e lui per amore in Italia, la praticava andando a trovare le due sorelle che nel primo sionismo socialista erano emigrate, finché lui era sbarcato in Italia con la Brigata e si era poi sposato a Firenze. Il suo messaggio sulla Shoah era un vento di tempesta, nero, striato di sangue, indicibile. Non era disposto a condividere il suo dolore, ma solo a chiedere coi libri che si capisse, finalmente, di cosa si stava parlando. Una volta, nella disapprovazione generale, a una conferenza stampa (era corrispondente del giornale israeliano Al Hamishmar) di papa Giovanni Paolo II, lo apostrofò in polacco: «Come ha potuto tacere quando quella tribù selvaggia e spietata dava la caccia i bimbi negli orfanatrofi, ai vecchi e ai malati negli ospedali e nelle case di cura, agli handicappati, agli uomini e alle donne, alla gioventù di interi Paesi, per bruciarli vivi, per annegarli nei fiumi, per avvelenarli col gas, per seppelirli vivi in enormi fosse comuni?». Dunque, sin da piccola ho imparato sulla Shoah un paio di cose: la prima è che il popolo ebraico ha subito un male che richiede uno sforzo di comprensione disumano, unico; e poi, che in virtù della sua speciale storia lunga tre millenni di resistenza, il suo senso di vita e di ribellione è rimasto intatto come uno dei calici di cristallo che mia nonna aveva miracolosamente salvato da casa Volterra. Questo senso di vita miracolosamente trovò la sua unica realizzazione nel sogno di Israele: se prima e dopo la Shoah non ci fosse stata Israele, il popolo ebraico sarebbe morto di ferite e di dolore. Invece è fiorito in maniera sorprendente. Il dolore e l'unicità chiedono risposte miracolose, sacrifici pieni tuttavia di gioia costruttiva: non tutti hanno voglia di capirli. Sin da ragazzina la lettura del testo più classico per la gioventù, Anna Frank, mi ha lasciato oltre che molto affezionata ad Anna, piena di interrogativi e perplessa. La manipolazione del testo anche nelle sue riproduzioni teatrali aveva portato a una proiezione universalistica e persino positiva della storia e dello spirito di Anna, che alla fine ne esce disegnata più come una fanciulla presa dall'ansia adolescenziale e anche amorosa che dal tormento della reclusione in attesa della deportazione. Ma Anna la intuisce e prevede, spaventata e consapevole che si tratta della condanna a morte disegnata dai nazisti per tutti gli ebrei, e lo dice; ma nell'interpretazione volgare, essa viene disegnata soprattutto fiduciosa nella bontà umana, nella redenzione prossima ventura. Ma ai giovani che leggono il diario si dovrebbe invece spiegare la sofferenza di Anna, come fu scoperta e deportata, lei, sua madre e sua sorella insieme a milioni di innocenti; sono state uccise secondo un programma che alla fine l'ha trasportata con 3.659 donne insieme a sua sorella Margot, morta prima di lei e accanto a lei, fino a Bergen Belsen, fra incredibili sofferenze, mangiata dai pidocchi e dal tifo dopo le torture di Auschwitz. Questa è la Shoah, chi vuole coltivarne la memoria non deve cercarne un'inutile redenzione collettiva nella bontà umana. Non esiste. Ricordo che mi colpi molto anche il fatto che Se questo è un uomo fu all'inizio rifiutato dalla casa editrice Einaudi, selezionato da Natalia Ginsburg, perché ritenuto troppo specificamente ebraico, mentre il nazismo era il male universale e le sue vittime dovevano quindi incarnare, come il comunismo, una speranza universale di redenzione. Su questa scia si è costruita una cultura universalistica che fa dell'ebraismo un rappresentante del bene universale e dell'antisemitismo l'apoteosi di ogni cosiddetta (e dipende da dove la si guarda) cultura dell'odio. Ma chi pensa di difendere gli ebrei propugnando un fronte intersezionale anti oppressione, rifiutando di capire che oggi quando si dice sionismo si dice ebraismo, sbaglia fino ad allearsi di nuovo con un fronte antisemita. La redenzione del popolo ebraico è stata solitaria e misteriosa, specifica e straordinaria come la sua storia di sopravvivenza per 2000 anni fino al ritorno a casa. Gli ebrei già dal 1895, quando un giornalista di nome Theodor Herzl vide degradare il capitano Dreyfus solo perché era ebreo, concepirono l'idea della salvezza dall'antisemitismo tramite il ritorno allo Stato degli Ebrei, Israele. Nel 1975 la maggiore comunità delle nazioni, l'Onu, nata proprio per proteggere il mondo dagli orrori nazisti, dichiarando che «sionimso era uguale a razzismo» compì un inutile gratuito atto razzista e antisemita. Dopo la Shoah i sopravvissuti hanno preso la strada del loro Paese, Israele, l'unica patria a cui tornare dato che l'Europa era il deserto del tradimento: quei ragazzi scheletriti e ridotti in solitudine dalla Shoah hanno dovuto subito impugnare un vecchio fucile e affrontare l'assalto dei Paesi circostanti. Nessuno si mosse in loro aiuto. Oggi quando si legge che l'Ayatollah Khameini giura di nuovo la distruzione del «cancro» Israele, nessuno protesta. I politici di tanti Stati diversi che sono venuti nei giorni scorsi in visita in Israele per promuovere una nuova grande battaglia contro l'antisemitismo, se vogliono proporre una politica mondiale in cui never again non sia una pura espressione di conformismo universalista, devono sollevare ogni volta il problema dell'antisemitismo istituzionale, permesso o addirittura promosso. Le espressioni di antisemitismo corrente sono concrete, visibili e Israele non ha l'Europa accanto quando vi si oppone. Never again? Solo se gli ebrei si difenderanno, come ormai sanno fare, da soli.
Antisemitismo, non solo stereotipi: si nutre anche dell’odio nei confronti di Israele. Barbara Pontecorvo e Emanuele Calò (Solomon-Osservatorio sulle Discriminazioni) su Il Fatto Quotidiano il 24 gennaio 2020. A partire dal 2016 il mondo è stato costretto ad adottare, Paese per Paese, la definizione di antisemitismo dell’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance). L’Italia, come prevedibile, è fanalino di coda. Questa iniziativa è destinata a proteggere chi, come noi, è nato dopo l’Olocausto, ma è figlio della generazione superstite alla demolizione morale delle leggi razziali e alla demolizione materiale della Repubblica Sociale (“sociale”?) e del Terzo Reich. Si è costretti ad approvare questo provvedimento come argine morale, per quanto non vincolante (nemmeno per il giudice), alle idiozie che costituiscono, al contempo la linfa e l’humus dove si abbevera l’odio verso gli ebrei. Qui, l’offesa s’interseca con l’oligofrenia, con una tale violenza che finisce per confluire in quest’ultima. Dal sondaggio sull’antisemitismo appena realizzato da Euromedia Reseach di Alessandra Ghisleri per Solomon-Osservatorio sulle Discriminazioni si apprende che l’antisemitismo non si nutre solo degli antichi stereotipi sugli ebrei, ma anche dell’odio trasposto nei confronti dello Stato d’Israele in quanto ebreo collettivo. A meno che non sia smaccato il pregiudizio di non voler riconoscere ad Israele il diritto ad esistere (contro ogni principio di autodeterminazione del suo popolo), che cosa dovrebbe essere l’antisionismo che genera antisemitismo in maniera cosi cospicua? Esistono ebrei che non amano il sionismo (esempi ne abbiamo anche in Italia), ai quali andrebbe forse riconosciuto il diritto di non voler andare in Israele, se non altro sulla base del principio della libera circolazione e del suo inevitabile corollario di poter restare legittimamente dove ci si trova. Ma ad un non ebreo cosa dovrebbe importare se un ebreo vuole o meno tornare in Israele? Potremmo, convintamente, essere contrari al diritto di un discendente di africani di voler tornare, per dire, in Nigeria, sulle orme del “Back to Africa movement”? Per il sionismo si fa un’eccezione, poiché il termine – non a caso mai definito dai cosiddetti antisionisti – viene inteso come una volontà imperiale di prevaricazione e conquista senza limiti. “Distinguiamo fra antisemitismo e antisionismo”, si sente spesso dire. È una frase vera nella misura in cui siano veri i pregiudizi di ogni natura e tuttavia è spesa a livello interclassista ed a prescindere dallo spessore culturale di chi ne fa scientemente uso. Anche per loro si approva la definizione IHRA di antisemitismo, perché certi getti di fango non saranno sanzionati, ma cambieranno colore. E quando un intellettuale farà ascoltare la voce di un anonimo che dice “le vittime di ieri sono diventate i carnefici di oggi”, non ci penserà due volte, perché ormai l’odio gli ha deformato l’eloquio e la mente, ma, vivaddio, gli si potrebbe finalmente rispondere con solidi argomenti. Si troverà sicuramente in buona compagnia con coloro che sostengono che gli ebrei controllano l’economia, lo sport, i media, la cultura, la salute, la filatelia, il sesso, le bocciofile, l’enigmistica, il teatro, la filosofia, l’aria, la terra, il sottosuolo e perfino gli scantinati. Forse è stato pensando a tutti costoro che Erich Fromm (ebreo, come Gesù, Marx, Freud, Einstein..) scrisse Paura della libertà. Eh sì, senza l’antisemitismo vi è il rischio, per gli ebrei e per i non ebrei, di sentirsi liberi, molto più liberi. E la libertà, in quanto comporta anche l’assunzione di responsabilità, mette paura.
Noemi Di Segni: «In Israele ho respirato cultura, mai odio». Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Conti. Presidente delle comunità ebraiche italiane: «In Italia non ho mai ricevuto offese, ma dialogare è difficile». Noemi Di Segni, 50 anni, doppia laurea in Economia e commercio e in Giurisprudenza, una specializzazione in Diritto ed economia della Comunità europea, guida dal luglio 2016 l’Unione delle Comunità ebraiche italiane, ovvero il complesso, dialettico, articolato mondo israelitico del nostro Paese: 25.000 iscritti. Di fatto, rappresenta tutti gli ebrei italiani di fronte alle istituzioni del nostro Paese. Bionda, occhi azzurri, raffinata ed elegante, sorridente, sempre molto pacata, mai un tono di voce inutilmente alto. Ha una doppia nazionalità: italiana e israeliana (in Israele ha anche svolto il servizio militare) perché è nata a Gerusalemme il 24 febbraio 1969 da una famiglia ebrea di origine romana e torinese, ha tre figli, da poco è nonna. È sposata da 27 anni.
Il primo ricordo di Noemi Di Segni bambina a Gerusalemme.
«La fluidità con cui si passava da una parte all’altra della città, a bordo dell’autobus numero 4. Dai quartieri ultraortodossi a quelli di origine araba passando per il centro dove si svolgono mille attività. Ecco, mi viene in mente proprio il concetto di fluidità, in una città che è molto, molto più piccola della rappresentazione mediatica. Così come è diversa la realtà che si vive lì: c’è un racconto diffuso di luogo pericoloso, attraversato dalla paura, che non corrisponde minimamente alla verità».
Fluidità, convivenza. Un simbolo forte.
«Certo, lo sento anche oggi nel mio lavoro istituzionale. È possibile la coabitazione tra diverse famiglie e origini ebraiche accanto ad altre realtà. A Gerusalemme ci si sfiora, tutti diversi, in vicoli larghi mezzo metro... Un insegnamento importante, significativo: si può convivere mantenendo la propria identità nello stesso luogo, anche se molto stretto. Senza colpirsi. Senza aggredirsi».
La sua famiglia registra un continuo via-vai tra Italia e Israele dal 1945. Lei è nata a Gerusalemme. Si è sempre sentita italiana?
«Sempre. Al cento per cento. In casa era tutto italiano: lingua, cibo, libri, dischi. Insomma, cultura. Come è tipico in Israele: chi è figlio di immigrati, mantiene le proprie peculiarità. C’è una sommatoria di tante diversità, ed è la ricchezza di Israele. Alle Elementari ogni anno si organizzava una serata ispirata alla diversità delle nostre provenienze nelle musiche e nei cibi: francese, americana, marocchina, persiana. Ovviamente italiana».
Lei ha svolto anche il servizio militare per due anni.
«Sì, nel gruppo dell’Intelligence. Un insostituibile allenamento culturale. Non all’odio verso un nemico. Una parola che non ho mai, dico mai, sentito in due anni. C’era sempre il concetto di difesa, di tutela. Impressiona pensare che Israele affidi le sorti della propria difesa ai giovanissimi. Succede anche oggi. Quando vedo certi ragazzi in giro, più o meno sfaccendati, penso a quelli che in Israele oggi, a 18 anni, sono al mio posto di allora».
Ma dove si sente «a casa», Noemi Di Segni?
«Ho sempre vissuto, e vivo, una situazione di schizofrenia. Perché sono inevitabilmente attraversata dalle due dimensioni: Italia e Israele, dove ora sono i miei tre figli. Io vivo qui, ho un grande impegno personale nel lavoro e nell’Unione delle Comunità ebraiche. Ma non nascondo il senso di colpa di non essere in Israele. Per anni non mi sono iscritta a nessuna Comunità italiana proprio per la precarietà che avvertivo, perché pensavo “l’anno prossimo a Gerusalemme”. Poi mi sono iscritta alla Comunità ebraica romana, per passione culturale ma anche per una scelta alla fine di rispetto, coerenza e senso di dover contribuire alla Comunità all’interno della quale vivevo».
Perché tornò in Italia alla fine del 1989?
«Per amore. Conobbi mio marito in un campeggio estivo in Italia organizzato per i giovani. E decisi di trasferirmi a Roma con lui».
In cosa si sente israeliana?
«In un certo stile di vita, nella facilità di aprire la casa, di ospitare. O di educare i figli. C’è una minore riservatezza complessiva rispetto al modello italiano. Per tornare al concetto iniziale, c’è più fluidità».
Una sua paura?
«Ho una sola angoscia. Se dovessi morire, ora o tra cinquant’anni, non sopporterei l’idea di essere sepolta qui per sempre, lontana da Gerusalemme».
Lei guida gli ebrei italiani. Una realtà complessa.
«Complessa, antichissima e vivissima di tradizioni e beni culturali. Girando per il nostro Paese ci si rende conto di quanto l’ebraismo italiano sia variegato rispetto ad altri ebraismi. E sia poco conosciuto. Un vero peccato. Io avverto l’orgoglio di rappresentare una catena di generazioni secolari che appartengono insieme all’ebraismo e all’Italia».
Antica domanda. Si è «ebrei italiani» o «italiani ebrei»?
«Secondo me ebrei italiani. La componente dell’identità ebraica può essere molto forte o anche blanda ma alla fine la fiammella interiore è quella ebraica. Poi per tutto il resto si è italiani, nel costume, nella lingua, nelle tradizioni di famiglia. Ed è per questo che gli ebrei del nostro Paese vedono nell’Italia la propria Patria, con orgoglio, un legame fortissimo».
Lei porta un nome biblico importante, Noemi. Una storia segnata dal dolore, dalla perdita dei figli, ma anche dalla capacità di legare le generazioni, con grande generosità. Le pesa?
«Non nascondo che quel nome può rappresentare un fardello importante riferito al racconto biblico e so di essere esigente e faticosa. Ma la radice di Noemi porta, in ebraico, anche al concetto di piacevolezza. Ecco, vorrei essere percepita nel mio modo di essere con questo significato».
È difficile essere un’ebrea italiana? Domanda diretta: ha mai avuto attacchi personali, o episodi di discriminazione legata all’antisemitismo?
«No, per la verità non ho ricevuto particolari offese personali, né ho dovuto accettare limitazioni di alcun genere. Ho avuto, questo sì, spesso difficoltà a confrontarmi con persone che in qualche modo non riescono a ragionare, ed esprimono pregiudizi o generalizzazioni. Un fenomeno molto frequente».
Parliamo di antisemitismo in Italia? Lasciamo da parte numeri, statistiche. Che percezione ha del fenomeno? È stabile, in crescita, sta diminuendo?
«Secondo me è in crescita. So che esiste una quota di antisemitismo legata alla crescita dell’estremismo e al terrorismo islamico, sempre più diffuso e pericoloso, e che individua come obiettivi di odio e morte non solo gli ebrei. Poi c’è un antisemitismo crescente di gruppi di destra strutturati e che si richiamano al fascismo, forse, al neonazismo, comunque all’estremismo. Li vediamo e li percepiamo sempre di più. Magari non abbiamo un contatto diretto con loro ma vivono nei nostri stessi spazi quotidiani, organizzano cerimonie e manifestazioni. Io non vado certo a Predappio ma le immagini che arrivano da lì impressionano e preoccupano. Soprattutto perché sono giovani. Si riferiscono a modelli fascisti di cui nemmeno conoscono bene le radici storiche e cosa riecheggiano. La rilevanza del fenomeno sta nel fatto che poi dilaga sulla Rete con una modalità fatta di rapidi slogan, semplificazioni. Inviti agli ebrei a sparire, andarsene, tornare nei forni. Sono forme che emergono e fanno del male. E che crescono appunto sul web. Poi c’è il tema dell’anti-israelianismo, che si traduce anche in un odio contro gli ebrei italiani, identificati come rappresentanti di Israele in Italia. Un antisemitismo che passa per Israele e torna in Italia. Lo si vede in tante forme di boicottaggi: all’università, nei supermercati, nei festival, nelle fiere dei libri...».
Tema attualissimo: la parità tra uomo e donna. Lei è presidente dell’Unione delle comunità ebraiche. Suo marito è impegnato nel commercio di preziosi. A casa vostra c’è mai stato un ordine di priorità?
«No, mai. Un problema che non è mai stato all’ordine del giorno. Mai una discussione. Forse il mio doppio impegno, professionale, personale e istituzionale, genera sacrifici nel tempo dedicato alla famiglia che produce una richiesta di infinita pazienza agli altri familiari...».
Domanda molto ebraica: l’anno prossimo a Gerusalemme?
«Forse sì. L’anno prossimo a Gerusalemme. Forse, finalmente».
Salvini e il no all’antisemitismo «Chi è contro Israele è contro la libertà». Pubblicato giovedì, 16 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Conti. «Mi ritengo un amico di Israele. Chi è nemico di Israele è nemico della libertà e della pace. Viva l’Italia e viva Israele». Matteo Salvini raccoglie una congrua dose di applausi chiudendo nella sala Zuccari del Senato, a palazzo Giustiniani, il convegno che ha fortemente voluto e attentamente organizzato, «Le nuove forme di antisemitismo». La storia è nota, aveva invitato anche la senatrice Liliana Segre che ha declinato per i troppi impegni ricordando che «la lotta all’antisemitismo non deve e non può essere disgiunta dalla ripulsa del razzismo e del pregiudizio». Le risponde Matteo Salvini indirettamente e senza nominarla: «Mi dispiace che qualcuno non sia oggi qui perché avremmo dovuto parlare di tutto: è una classica metodologia italiana». I temi evocati da Liliana Segre, esplicitamente non sono all’ordine del giorno in questa mattinata incentrata sull’antisemitismo e le sue nuove forme, in particolare l’antisionismo e le diverse modalità con cui nel mondo (governo iraniano in testa) si teorizza la fine di Israele come Stato indipendente, o addirittura la sua distruzione. Al tavolo, coordinato dal direttore dell’Agenzia Italia Mario Sechi, i relatori: Dore Gold, presidente del Jerusalem Center for Public Affairs ed ex ambasciatore di Israele negli Stati Uniti; Douglas Mourray, accademico britannico, noto scrittore e saggista, autore di best seller; Rami Aziz, ricercatore egiziano copto e analista politico del Middle Eastern Affairs. Il saluto iniziale è della presidente del Senato, Elisabetta Casellati: «A più di settant’anni dall’abrogazione delle leggi razziali, quello dell’avversione etnica verso gli ebrei è tornato ad essere un tema di forte attualità. Un tema estremamente ampio ed articolato, che si nutre anche di una forte campagna di disinformazione su Israele. A ciò occorre aggiungere la percezione, sempre più diffusa, di come questo rigurgito antisemita sia anche espressione di un più generale sentimento di intolleranza verso ogni diversità: di etnia, di genere, di fede religiosa o di opinione politica». In quanto all’immigrazione, il messaggio della presidente è molto forte: «Mi chiedo se rinunciare alle nostre tradizioni in nome di un’esasperata globalizzazione non sia stato un errore. Una strategia che anziché placare le tensioni del tessuto sociale abbia invece avuto l’effetto di accrescerle. Mi chiedo se difendere il nostro essere italiani e il nostro essere europei, difendere le nostre radici culturali, non sia invece la strada migliore per creare presupposti solidi per costruire relazioni fondate sul rispetto e sulla considerazione reciproca». In sala molti giornalisti e volti televisivi: Lucia Annunziata, Fiamma Nirenstein, Monica Maggioni, Maria Latella, Antonio Di Bella, Paolo Liguori, Giancarlo Loquenzi, Annalisa Chirico. E poi - dato molto interessante - numerosi comunicatori italiani del mondo ebraico: Daniel Rerichel (Unione Comunità israelitiche), Daniel Fuinaro (Comunità ebraica romana), Fabio Perugia (Ospedale Israelitico di Roma). Si apre col saluto emozionante dell’ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar : «I miei quattro figli rappresentano la quarta generazioni di sopravvissuti alla Shoah per parte di madre, se i nazisti avessero portato fino in fondo il loro progetto criminale, non sarebbero mai venuti al mondo. Oggi il vecchio antisemitismo assume la nuova maschera dell’antisionismo, dell’odio contro Israele che è l’unico Paese rappresentato nell’Onu di cui altri Paesi mettono in discussione l’esistenza. La lotta contro il vecchio e nuovo antisemitismo va a beneficio di tutto il Paese, della sua società». Dore Gold cita dati allarmanti: «Gli incidenti legati all’antisemitismo, in Gran Bretagna, sono stati 500 nel 2013 e nel 2018 ben 1600, una crescita del 300%. In Francia, nel 2018, sono cresciuti del 75%». Murray racconta come degli ebrei si possa dire «tutto e il contrario di tutto, che si isolano o che vogliono integrarsi, che sono troppo ricchi o troppo poveri, che non hanno uno Stato o che lo hanno e anche molto forte….». Aziz arriva al punto: «Non c’è alcuna differenza tra l’antisemitismo, l’antisionismo e l’essere anti-israeliani». Sotto accusa, come emerge anche in altri passaggi dei relatori, l’antisionismo della sinistra europea. Aziz mostra una foto del leader laburista britannico Jeremy Corbyn in una manifestazione pro-Palestina: «Tra i manifestanti c’è chi alza cartelli violentemente anti-israeliani e nessuna ha qualcosa da dire. L’antisionismo è un nuovo modo di attirare soprattutto i giovani verso l’antisemitismo». Sullo sfondo del dibattito, l’imminente discussione e votazione in Parlamento della definizione di antisemitismo formulata dall’Alleanza internazionale per il ricordo dell’Olocausto (IHRA), secondo cui ogni forma di odio contro Israele in quanto Stato legittimo è una forma di antisemitismo. Il testo è già stato votato dal Parlamento Europeo e da alcuni Paesi europei, tra cui la Francia (dicembre scorso) e l’Austria. Avverte Salvini: «Arriveremo in aula e così vedremo chi alzerà la mano e dirà di sì». Infine arriva una domanda su Carola Rackete: «Ritengo che Liliana Segre abbia tanto da insegnare a me e al resto del mondo, Carola Rackete no, e mi ritengo in diritto di sostenerlo liberamente».
Il disprezzo dell'Isis nei confronti delle vittime dell’Olocausto. Lo Stato islamico non voleva soltanto minacciare Israele, ma infangare anche il ricordo delle vittime dell’Olocausto. Franco Iacch, Giovedì 30/01/2020, su Il Giornale. Lo Stato islamico ha diffuso il suo ultimo messaggio audio nel giorno in cui l'intera comunità internazionale commemorava le vittime dell'Olocausto. Non è stato certamente un caso. È stato un gesto di disprezzo. Tradotti in ebraico alcuni passaggi del messaggio di Abu Hamza al-Qurashi. Alle 19,45 di ieri sera, le principali piattaforme web dello Stato islamico hanno diffuso l’artwork che alleghiamo. È la traduzione in ebraico di alcuni passaggi del messaggio audio letto dal nuovo portavoce dello Stato islamico Abu Hamza al-Qurashi. Anche questa breve traduzione potremmo ritrovarla questa sera su al-Naba, il settimanale dello Stato islamico. La procedura adottata in questi specifici casi è nota. Quello di questa sera sarà un numero dedicato (dalle due alle quattro pagine) al messaggio audio تَمَرَ اللَّهُ عَليهم وللكافرين أمثالها diffuso lunedì scorso dalla Fondazione al-Furqan. Potrebbe anche essere un numero “speciale”. Oltre alle operazioni rivendicate ed impossibile da confermare in maniera indipendente, anche il Coronavirus (soltanto citato a pagina undici nel precedente numero) potrebbe trovare maggiore visibilità. Gli autori di al-Naba potrebbero utilizzare la medesima tecnica IW adottata nel febbraio dello scorso anno poco dopo la scoperta del super batterio blaNDM-1.
Il disprezzo nei confronti delle vittime dell’Olocausto. È certamente vero che lo Stato islamico ha citato nel suo messaggio audio il piano di pace degli Stati Uniti per il Medio Oriente. Tuttavia quello è solo un passaggio di un lungo testo volutamente diffuso nel giorno in cui l'intera comunità internazionale commemorava le vittime dell'Olocausto. Lo Stato islamico non voleva soltanto minacciare Israele, ma infangare anche il ricordo delle vittime dell’Olocausto. La scelta di pubblicare il messaggio audio il 27 gennaio scorso non è stato un caso. Un gesto di disprezzo. E sarebbe un grosso errore collegare il messaggio audio soltanto al piano di pace israelo-palestinese di Trump. La finestra di pubblicazione è stata scelta principalmente per disprezzare le vittime di quel genocidio sistematico ed industriale messo in atto dai nazisti. L’ultimo messaggio audio dello Stato islamico non è stato diffuso in un giorno qualunque. Non è stata certamente una coincidenza o un “fortuito” caso. Come direbbero i terroristi “il caso non esiste”.
Salvini: "L'antisemitismo in Italia? È colpa dei migranti islamici". Intervistato da un giornale israeliano, Salvini prende le distanze dai movimenti antisemiti. E rilancia: "Stop boicottaggio di Israele". Angelo Federici, Domenica 19/01/2020 su Il Giornale. Matteo Salvini come Donald Trump. In un'intervista concessa oggi al quotidiano Israel HaYom, il leader della Lega ha affermato che è pronto a riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele nel caso in cui dovesse diventare premier. Salvini, inoltre, riprendendo alcune affermazioni rilasciate questa settimana, ha assicurato che il suo partito non ha più alcun legame con organizzazioni - che Israel HaYom definisce antisemite - come CasaPound, Forza Nuova e Fiamma Tricolore. Nella sua intervista, Salvini parte con l'analizzare la situazione in Italia: "Tra i partiti seduti al governo c'è chi sostiene la Palestina, il Venezuela e l'Iran. La definizione di antisemitismo consentirà di chiarire le posizioni di queste persone, come nel caso del Bds (la campagna di boicotaggio di Israele, Ndr). C'è chi lotta per uno stato per i palestinesi, ma nega il diritto all'autodeterminazione per gli ebrei. Questa contraddizione si basa sull'ipocrisia. L'Italia è stata troppo lenta nell'adottare questa definizione internazionale (di antisemitismo, Ndr)". Poi, il leader della Lega si concentra su ciò che sta accandendo in Europa, dove si stanno registrando sempre più attacchi contro gli ebrei: "C'entra il fanatismo islamico", dice Salvini, che poi prosegue: "Ora la presenza massiccia in Europa di immigrati provenienti da Paesi musulmani, tra i quali ci sono molti fanatici che ricevono il pieno sostegno di alcuni intellettuali, sta diffondendo l'antisemitismo, anche in Italia".
Ci sarebbero, secondo il leader della Lega, due forme di antisemitismo in Occidente: quello dell'estrema destra e quello "istituzionalizzato dell'estrema sinistra. Pensa a Jeremy Corbyn o agli attivisti di sinistra in Germania che non vogliono essere come i nazisti ma si ritrovano a confiscare i prodotti israeliani". Salvini, inoltre, si è detto pronto, una volta al governo, a riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. In questo modo, il leader leghista sposa, con ancora più forza, la linea dell'amministrazione Trump sul Medio Oriente. Era stato proprio il presidente Usa, il 6 dicembre del 2017, a riconoscere questa città come capitale dello Stato ebraico. Questa decisione è stata duramente contestata dalla comunità internazionale che ha visto nella mossa di Trump un possibile pericolo per l'area. Il leader di Hamas, invece, ha parlato di "una dichiarazione di guerra contro i palestinesi". Lo status di Gerusalemme è contestato. La città è stata occupata da Israele nel 1967, dopo la Guerra dei sei giorni, e nel 1980 la Knesset, ovvero il parlamento israeliano, ha proclamato "Gerusalemme, unita e indivisa capitale di Israele". Come ricorda The Post Internazionale, però, "quella legge costituzionale fu definita però nulla e priva di validità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nella risoluzione 478. Fu considerata una violazione del diritto internazionale e un serio ostacolo al raggiungimento della pace in Medio Oriente". Per questo motivo, nessun Paese aveva mai spostato la propria ambasciata a Gerusalemme, preferendo Tel Aviv. Matteo Salvini è sempre stato un sostenitore di Israele e, in particolare, del premier Benjamin Netanyahu, che aveva incontrato il 13 dicembre del 2018. In quell'occasione, si era registrata una delle prime fratture all'interno del governo gialloverde. Il leader della Lega aveva infatti definito il Partito di Dio libanese un movimento terroristico: "Chi vuole la pace, sostiene il diritto all'esistenza e alla sicurezza di Israele. Sono appena stato ai confini nord col Libano, dove i terroristi islamici di Hezbollah scavano tunnel e armano missili per attaccare il baluardo della democrazia in questa regione". Queste parole avevano provocato l'ira dell'ex ministro della Difesa Elisabetta Trenta: "Non vogliamo alzare nessuna polemica, ma tali dichiarazioni mettono in evidente difficoltà i nostri uomini impegnati proprio a Sud nella missione Unifil, lungo la blue line. Questo perché il nostro ruolo super partes, vicini a Israele e al popolo libanese, è sempre stato riconosciuto nell'area". In seguito all'uccisione mirata del generale iraniano Qassem Soleimani, Salvini si è schierato al fianco del presidente americano Trump dicendo: "Donne e uomini liberi, alla faccia dei silenzi dei pavidi dell’Italia e dell’Unione europea, devono ringraziare Trump e la democrazia americana per aver eliminato Soleimani uno degli uomini più pericolosi e spietati al mondo, un terrorista islamico, un nemico dell’Occidente, di Israele, dei diritti e delle libertà". Solamente tre giorni fa, Salvini ha organizzato un incontro in Senato, intitolato "Le nuove forme dell'antisemitismo", in cui ha affermato che "chi vuole cancellare Israele ha in noi un avversario sempre" e ha chiesto che il Parlamento acceleri "l'approvazione del documento su come si identifica l'antisemitismo oggi". Come notava tempo fa Francesco Giubilei su IlGiornale, il leader della Lega è molto legato ai neoconservatori americani, in particolare alla galassia che ruota attorno a John Bolton, che rappresentano i più importanti sostenitori (e alleati) di Israele nel mondo: "I sostenitori di Salvini sono più al di fuori del governo piuttosto che al suo interno a partire dai leader tradizionali del movimento conservatore e dal gruppo di intellettuali legati all'area del national conservatism".
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 12 dicembre 2019. Caro direttore, io credo che questo continuo parlare di «odio» e queste «manifestazioni contro l' odio» possano sortire l' effetto di crearlo, e siano perciò pericolose. Credo pure che ad averlo inteso sia proprio Liliana Segre, che l' altra sera ha tentato di dirlo: «Siamo qui per parlare di amore e non di odio». E sarebbe bello: se non fosse che una manifestazione «contro» presuppone sempre qualcosa o qualcuno da fronteggiare, un convitato di pietra, ed è quello che si stanno inventando. Sotto processo non finisce solo il mancato unanimismo per certe commissioni che è lecito trovare superflue, oppure lo scrivere per giornali che simpatizzano per il centrodestra: ci finisce anche la verità, quando non utile. L' altra sera, a margine della manifestazione milanese «contro l' odio» (dove tutto è filato liscio, a quanto so) l' enciclopedia online wikipedia ha cancellato la notizia che i «200 attacchi social al giorno» contro Liliana Segre, a suo tempo denunciati da Repubblica, in realtà erano riferiti al corso dell' intero anno 2018, dunque «non ad un singolo giorno, e indirizzati non esclusivamente alla senatrice». Questo ha detto il rapporto ufficiale dell' Osservatorio sull' antisemitismo: ma, su wikipedia, qualcuno ha cancellato, e ha sostituito con la seguente dicitura: «La notizia è stata rilanciata da altre testate». Ecco: è proprio su internet, a proposito degli «anonimi leoni da tastiera», citati anche da Liliana Segre, che ho notato qualche nervosismo di troppo. Mi spiego. Durante una pausa della Prima della Scala, sabato sera, in un corridoio di accesso alla platea, sono uscito dal bagno e mi sono ritrovato Liliana Segre di spalle, davanti a me, che camminava molto piano (essendo anziana) con tre uomini di scorta che ostruivano il corridoio nel circondarla; dopo un po', nella situazione di stallo, sono riuscito a superarli uno alla volta, sfiorando la senatrice, dopodiché mi sono chiesto però a che cosa servisse la scorta, visto che eluderla sembrava così semplice. Questo ho scritto in rete. Un dubbio, si badi, tecnico, non una contestazione circa l'esistenza della scorta: vicenda su cui non ho informazioni sufficienti per esprimermi. Bene: non sto a dire gli insulti che ho ricevuto, ma anche, attenzione, i plausi. Brutta faccenda. Gli insulti, non sto a ripetermi, erano di gente rimbecillita che ormai vede odio dappertutto e che, oltre ad associarmi spregevolmente a Libero, non poteva concepire che Liliana Segre non fosse oggetto di adorazione messianica punto e basta; gli altri, i plaudenti, non erano leoni da tastiera o anonimi «haters», ma un misto tra i tradizionali «anticasta» (insospettiti perché Liliana Segre, sino a poco tempo fa, non l' avevano mai sentita nominare) e altri che reagivano più che altro all' odio degli anti-odio. Dunque, direttore, questo è il quadro che mi sono fatto: da una parte, una consueta minoranza di presunti «migliori» che ti mettono sulla lista dei sospettati solo perché non partecipi alle manifestazioni, o non santifichi a prescindere chicchessia, o, ancora, esprimi idee scorrette anche senza volerlo, come l' adorabile ottantenne Giorgio Carbone, che è stato lapidato per aver scritto che la Nilde Iotti della fiction è «grande in cucina e grande a letto, il massimo che in Emilia si chiede a una donna»; dall'altra, poi, eccoti un' altra minoranza che non sa bene chi sia o fosse Liliana Segre, salvo apprendere che dai 14 ai 15 anni fu segregata dai nazisti in un campo di concentramento, e che poi, senza una precisa professione, dopo decenni di anonimato, è passata al ruolo ufficiale di testimone e quindi a incassare premi, lauree, scranni da senatrice e canonizzazioni imposte da Repubblica, o altri fabbricatori di santi e di mostri. Queste due minoranze messe insieme, temo, compongono una maggioranza di «società civile» vanamente corteggiata da noi giornalisti, con evidenti e meravigliosi risultati.
A Verona una via per Almirante, Segre: «Incompatibile con la mia cittadinanza». Pubblicato martedì, 21 gennaio 2020 da Corriere.it. Il consiglio comunale di Verona ha votato di intitolare una strada a Giorgio Almirante, lo storico leader del Msi e della destra nazionale, che dopo la caduta del regime fascista di Mussolini aderì alla repubblica di Salò alleata di Hitler. «Mi chiedo se sia lo stesso Comune, quello di Verona, a concedere a me la cittadinanza onoraria e poi a intitolare una via ad Almirante: si mettano d’accordo!» è stata la prima reazione della senatrice Liliana Segre, sopravvissuta all’Olocausto. « Le due scelte sono di fatto incompatibili, per storia, per etica e per logica. La città di Verona, democraticamente, faccia una scelta e decida ciò che vuole, ma non può fare due scelte che sono antitetiche l’una all’altra. Questo no, non è possibile!» ha aggiunto la senatrice. Lo scorso 16 gennaio il consiglio comunale di Verona aveva deciso di conferire la cittadinanza onoraria a Liliana Segre. Ma il 20 novembre del 2019 la stessa assemblea aveva approvato l’intitolazione di una strada all’ex segretario del Msi. Dopo che il centrodestra aveva votato contro la presidenza della commissione sull’odio razziale a Segre, numerosi sindaci d’Italia aveva reagito conferendo la cittadinanza onoraria alla sopravvissuta ai lager. Anche comuni di centrodestra, per farsi perdonare lo «sgarbo», avevano aderito all’iniziativa; in altri casi invece erano nati casi paradossali: il comune di Biella, ad esempio, aveva nominato cittadino onorario Ezio Greggio, negando invece analogo titolo a Liliana Segre. Contemporaneamente il Viminale aveva dovuto assegnare una scorta alla senatrice divenuta bersaglio di decine di messaggi di odio antisemita al giorno.
Date un Tuttocittà alla Segre. Domenico Ferrara su Il Giornale il 21 gennaio 2020.
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Date un Tuttocittà dell’Italia alla Segre.
Odio e fake news: per bloccare via Almirante a Verona la sinistra tira in ballo pure Liliana Segre. Valeria Gelsi martedì 21 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Una lettera al prefetto di Verona per chiedergli di fermare l’intitolazione di una strada a Giorgio Almirante, già deliberata dal Consiglio comunale. A scriverla è stata l’associazione La città che sale. Sostiene che nulla nella vita e nei valori del padre della destra italiana avrebbe dato la “testimonianza dello sviluppo materiale e civile” richiesta dal regolamento comunale per l’intitolazione. Per questa associazione, infatti, la decisione del consiglio comunale sarebbe giustificata solo da “atteggiamenti ideologici”. Insomma, la solita manfrina, questa sì, dettata da atteggiamenti ideologici di chi ha lo sguardo fermo a un secolo fa.
La lettera al prefetto di Verona. La città che sale mette in relazione “l’assegnazione quasi contemporanea della cittadinanza onoraria a Liliana Segre (tributata quattro giorni fa, ndr) e la proposta di intitolare la via ad Almirante”. Una scelta che esporrebbe la città “al ridicolo, oltre che all’indignazione, configurando una sorta di grottesca, anacronistica e strumentale compensazione ideologica”. “Come si può celebrare la vittima di uno dei più abominevoli regimi politici novecenteschi e intitolare una strada ad uno dei responsabili di quel regime? Che senso ha insistere con questi atteggiamenti ideologici a 75 anni dalla fondazione della Repubblica e a 30 dalla fine della guerra fredda?”, si chiede quindi il consiglio direttivo dell’associazione, che firma la lettera al prefetto Donato Cafagna. La lettera non è estemporanea, ma fa seguito alle polemiche già sollevate dalla sinistra in consiglio comunale. Riproponendone errori e falsità. “Da un lato si dà un riconoscimento a una donna coraggiosa impegnata contro i rigurgiti di fascismo, dall’altro si sdogana una figura come Almirante, che di questo razzismo omicida fu un accanito e mai pentito teorico”, ha sostenuto il capogruppo di Sinistra in Comune, Michele Bertucco, parlando con Repubblica. E qui c’è la prima fake news.
Giampiero Mughini per Dagospia il 22 gennaio 2020. Caro Dago, ti confesso che se io fossi in un qualche consesso politico che dovesse decidere se votare sì o no l’intestazione di una strada cittadina al nome di Giorgio Almirante, voterei sì. E vengo a spiegarti il perché, che è semplicissimo. Almirante fa parte della storia italiana che è la nostra e in questa storia ha avuto un ruolo, il recupero alla vita pubblica dei “vinti” del 1945, di quelli che avevano fortemente parteggiato per i “vincitori” del 1922, quel fascismo storico che è impossibile ridurre a mera esperienza criminale. E’ un pezzo di storia del nostro Paese. Nel 1922 tutti menavano le mani. Più tardi, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti vennero uccisi per rappresaglia otto fascisti fra cui un parlamentare. Non erano rose e fiori gli anni Venti e Trenta, da nessuna parte in Europa: non lo furono in Germania, in Austria, in Spagna, dove la guerra civile durò tre anni con orrori a bizzeffe compiuti da una parte e dall’altra. Attenuare quegli orrori, quelle zuffe mortali, quelle guerre civili latenti o guerreggiate significa non capire nulla del secolo appena trascorso. In quel tempo e in quel periodo Almirante debuttò da giovane giornalista in un quotidiano diretto da Telesio Interlandi. Gli sedeva a fianco un coetaneo, Antonello Trombadori, futuro comandante militare dei gap comunisti durante la “Roma città aperta”. Più tardi Almirante divenne una sorta di redattore capo de “La difesa della razza”, la fetenzia antisemita voluta da Benito Mussolini e diretta dallo stesso Interlandi. Una colpa intellettuale morale non da poco, certamente. Alla mattina del 26 luglio, con il suo distintivo fascista all’occhiello Almirante stava recandosi alla tipografia de “La difesa della razza”. Un suo amico lo intercettò e gli disse che non era il caso e lo convinse a starsene alla larga. Le cose poi sono andate come sono andate. Com’è nel diritto di chiunque Almirante - e lo ha scritto impareggiabilmente Mattia Feltri nel suo “buongiorno” di oggi - Almirante ha mutato pelle e identità. L’antisemita degli anni Trenta in lui è morto, esattamente - e tanto per fare un esempio -come “il comunista” da anni Ottanta è morto nel mio carissimo amico Oliviero Diliberto, oggi tutt’altro personaggio e di tutt’altra caratura morale e intellettuale (anche se lui dice di no e sostiene anzi che io sono un “comunista” come lo era lui una volta). La storia ci tritura e ci seleziona, tutti noi raschiamo e raschiamo quello che eravamo ancora ieri e l’altro ieri. Almirante mi raccontò la volta che nell’immediato dopoguerra andò a fare un comizio missino in non ricordo più quale comune “rosso” del nord Italia. A un certo punto gli arrivarono addosso in molti e cominciarono a tempestarlo di cazzotti e pedate. Lui andò giù, ne uscì indenne, si accorse che gli mancava l’orologio. Si rivolse protestando a un dirigente comunista che si trovò innanzi. Dopo pochi minuti l’orologio gli fu restituito. Almirante è stato per 40 anni il testimone vivente di quella parte del Paese che nel fascismo ci aveva creduto. Uno di loro era mio padre, che mi ha pagato gli studi universitari e l’acquisto dei libri Einaudi dai quali ho imparato l’antifascismo. Una volta che avevo scritto delle “squadracce fasciste” mio padre mi chiese se sapevo che lui ne aveva fatto parte. Gli risposi di sì, pronto alla pugna. Papà non aggiunse altro. Per stile di vita e tutto, lui era l’opposto esatto del “fascismo” in cui aveva creduto, come lo era l’avvocato Battista padre del mio carissimo Pigi Battista che gli ha poi dedicato un libro quanto mai toccante. Il fascismo c’è stato nella storia d’Italia, e nessuno lo può cancellare. Nella storia successiva Almirante ha avuto un ruolo, e nessuno lo può cancellare. A dirla in una sola parola, il suo nome ci può stare sulla targa di una strada. La volta che lo intervistai a lungo nel suo studio in via della Scrofa, guardavo dietro di lui alla foto di Mussolini e al gagliardetto della Juventus. Una foto di Mussolini simile a quella che mio padre teneva dietro il suo tavolo da lavoro.
Lettera di Mirella Serri a Dagospia il 22 gennaio 2020. Gentile direttore, leggo con stupore la lettera in cui Mughini difende l’intestazione di una via a Giorgio Almirante. Mughini è un intellettuale colto che conosce tanti risvolti della storia. A suo parere Giorgio Almirante merita una targa in quanto rappresentativo degli ex fascisti che agirono e operarono nel dopoguerra in regime democratico ma con molte e ingiustificabili nostalgie. Mughini sa benissimo che vi furono parecchie ex camicie nere che riuscirono a cambiare pelle e altre che rimasero invece ancorate al vecchio credo. Almirante non fu nel dopoguerra un dannato della terra: ebbe anche la fortuna di avere un bel sostegno nella creazione di un partito neo fascista. Peraltro ci sono già molte strade in Italia a lui intestate, da Pomezia a Giarre in provincia di Catania e tante altre. Non aggiungiamone di nuove in memoria di un personaggio che, oltre a essere stato fascista come la maggior parte degli italiani ha avuto l’incancellabile colpa di avere sostenuto attivamente l’ideologia razzista. Lasciamo che Almirante riposi in pace con tutti i suoi errori ma evitiamo di rinverdirne il ricordo con nuove vie. Ci sono molti altri più o meno conosciuti eroi come Enzo Sereni morto a Dachau oppure Ada Ascarelli che riportò in Palestina circa 25 mila ebrei che si erano rifugiati in Italia che aspettano la loro targa. In generale lascerei perdere la guerra delle targhe o delle cittadinanze in cui si equipara la persecuzione razziale subita da Liliana Segre al destino di un ex fascista persecutore degli ebrei.
Antisemitismo, nel Msi non c’era. Anzi Israele era considerato un modello. Lo afferma il politologo Campi. Redazione de Il Secolo d'Italia il domenica 26 gennaio 2020. Antisemitismo, una piaga che non infettava il Msi. Lo sottolinea il politologo Alessandro Campi in un’intervista apparsa sul Giornale. Nella quale ricorda alcuni passaggi cruciali della storia del partito fondato da Romualdi e Almirante.
Antisemitismo e storia del Msi. Campi sottolinea che “il Msi ha conosciuto una complessa evoluzione, sulla quale hanno influito anche i cambiamenti di scenario geopolitico del secondo dopoguerra. Nasce filo-arabo e anti-colonialista (in funzione anti-britannica) per poi divenire occidentalista. Nemico di ogni terzomondismo. Al suo interno era una realtà molto variegata: una minoranza radicale ha certamente coltivato suggestioni antisemite (di matrice cattolico-tradizionaliste o nazi-paganeggianti). Ma i suoi vertici politici – Michelini, Almirante, Fini – non hanno mai alimentato sentimenti discriminatori o razzisti”. Ricorda poi, a proposito delle polemiche toponomastiche a Verona, che Giorgio Almirante fece in più occasioni autocritica sul suo passato. A cominciare dal 1967. “Almirante fece pubblica autocritica sul suo passato razzista e antisemita nel febbraio 1967. Durante una Tribuna politica (e per questo fu attaccato dagli ambienti della destra radicale, a partire dall’ideologo Julius Evola). Sempre in quell’anno, con la guerra dei “sei giorni”, si definì anche la posizione filo-sionista del partito, da allora mai più abbandonata. Israele era percepito come un bastione dell’Occidente anti-comunista. Piaceva alla destra la sua natura di nazione in armi. Così come veniva visto con simpatia ideologica il modello comunitario, patriottico e sociale dei kibbutz”. Infine Campi commenta la notizia della candidatura nel 1979 proprio con il Msi del marito di Liliana Segre: “La storia è complessa. Spesso la si racconta male, altrettanto spesso non la si conosce. Un valente storico e giornalista, Gianni Scipione Rossi, ha scritto nel 2003 un libro sul rapporto tra la destra italiana e gli ebrei che se letto con attenzione avrebbe evitato molto delle inutili polemiche di questi giorni. La verità è che la destra italiana ha fatto i conti con la responsabilità delle leggi razziali del ’38 ben prima del mea culpa di Fini”.
Felice Manti per il Giornale il 25 gennaio 2020. Il marito di Liliana Segre, senatrice a vita e testimone vivente dei guasti dell' antisemitismo e dei campi di concentramento nazisti, era un antifascista cattolico. Nulla di strano. Se non fosse che il suo cuore di uomo d' ordine, con una carriera militare, batteva a destra. E se non fosse che, come è stato possibile appurare spulciando negli archivi del Viminale, nel 1979 avesse deciso di candidarsi alla Camera con il Movimento sociale italiano ma come «indipendente». Neanche 700 voti. Già, l' Msi di Giorgio Almirante, il cui destino curiosamente si è intrecciato di recente con la stessa Segre per via del pasticciaccio della via intitolata (legittimamente) all' ex leader Msi dal Comune di Verona nel giorno della cittadinanza scaligera offerta (e rifiutata) dalla stessa Segre. Il perché Alfredo Belli Paci, morto nel 2008, avesse scelto di correre nel Movimento sociale «da posizioni antifasciste» l' ha spiegato al Giornale il figlio Luciano, che con il padre condivide la passionaccia per la politica, seppur da sponde opposte. «Ero il segretario provinciale dei giovani del Psdi, poi ho militato nel Psi, nei Ds, in Sd, Sel e infine Liberi e Uguali - dice al telefono con Il Giornale - non mi sono spostato io, che resto sulle posizioni di Saragat». Ma i tormenti politici del figlio sono poca cosa rispetto a quelli della madre alla notizia della candidatura: «Non le nascondo che fu un periodo difficile per lei e che la scelta di mio padre portò a delle lacerazioni nei nostri rapporti. Fin quando poi si decise a mollare tutto e a fare l' avvocato, da solo e poi insieme a me». Certo, c' è una Milano da raccontare e un clima irrespirabile che nessun libro di Storia potrà mai neanche lontanamente riuscire a far capire. «Siamo negli Anni '70, mio padre lavorò insieme ad altri - liberali, monarchici e antifascisti, lo scriva mi raccomando... - a quell' esperimento politico chiamato la Costituente di Destra», poi diventata Democrazia nazionale che trovò in Pietro Cerullo l' ispiratore insieme a Ernesto De Marzio, il generale Giulio Cesare Graziani, finanche Achille Lauro. Un tentativo di sfuggire al ghetto nel quale il fin troppo nostalgico Pino Rauti aveva confinato il Movimento sociale. L' esperimento fallì «ma papà ci credeva ancora, e per questo disse sì alla candidatura». Nonostante il no alla Repubblica di Salò gli fosse costato la permanenza in «sette campi di concentramento». Dalla storia della famiglia Segre arriva un' altra lezione a chi si ostina a dividere tutti in buoni e cattivi e a pretendere di avere la verità in tasca.
Ma il marito della senatrice Segre fu missino e almirantiano. Un documento del “Secolo”. Giovanni Pasero sabato 25 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Alfredo Belli Paci è stato più che un candidato del Msi. Il marito della senatrice Segre è stato convintamente almirantiano. Almeno così risulta a noi. Alle elezioni politiche del 3 e 4 giugno 1979 l’avvocato Belli Paci figura infatti nel cappello di lista dei candidati del Msi della Circoscrizione Milano-Pavia. In una competizione che, basta andare a guardare i giornali dell’epoca, vedeva il Msi su posizioni di destra radicale. In contrapposizione con gli “scissionisti” di Democrazia nazionale. Il servizio che documentiamo, si rende necessario dopo le quanto riportato da Il Giornale e La Verità. Con l’intervista al figlio del professionista milanese, che ha confermato la candidatura del padre, seppure sfumandone il significato. Tutto, ovviamente, comprensibile dal punto di vista del figlio. Ma il dato che a noi sembra importante è che quella dell’avvocato Belli Paci è stata una decisione convinta e non frutto di un momentaneo sbandamento.
Il marito della Segre non era un semplice candidato. Ecco la ricostruzione cronologica. A pagina 11 del Secolo d’Italia di giovedì 10 maggio 1979, vengono pubblicati i candidati della IV circoscrizione per la Camera e per il Senato. Alla Camera, il capolista è Franco Servello (storico esponente della destra italiana). Belli Paci è al numero 6, nel cappello di lista. Non proprio un Signor nessuno. Anzi, un candidato di prestigio, di assoluto prestigio per la Fiamma tricolore. È il 1979, siamo nel pieno degli “anni di piombo”. E a Milano, anche solo comprare il Secolo d’Italia all’edicola, è un rischio. Candidarsi, quindi, con il Msi-Dn è una scelta di campo coraggiosa. Né tiepida, né moderata.
Le parole di La Russa alla senatrice a vita. Nei giorni scorsi, Ignazio La Russa aveva lanciato un appello alla senatrice a vita Liliana Segre, per chiederle di non opporsi all’intitolazione di una via a Giorgio Almirante. Un appello che faceva una premessa. “Se la signora Segre lo avesse conosciuto, sicuramente avrebbe dato di quell’uomo un giudizio completamente diverso. Purtroppo Almirante è morto e un incontro con la Segre non è possibile. Un incontro tra i due, ne sono certo, avrebbe risolto la questione”. Il marito della signora Segre lo aveva conosciuto. E quindi si era candidato.
Con Alfredo una storia d’amore durata tutta la vita. Nell’intervista rilasciata a Sat 2000, la tv dei Vescovi, la senatrice Segre parlava del marito come di una persona fondamentale nella sua vita. “Liliana Segre attribuisce al marito la sua rinascita dopo l’orrore vissuto ad Auschwitz e lui le restò sempre vicino anche quando decise, compiuti i 60 anni, di diventare una testimone della Shoah”. Liliana e Alfredo si sono conosciuti nel 1948 e, fino alla morte di lui, nel 2007, non si sono mai lasciati.
Meloni: Almirante merita un omaggio, la sinistra ha perdonato il passato fascista di Scalfari e Bocca. Redazione de Il Secolo d'Italia mercoledì 22 gennaio 2020. “Non credo assolutamente che una via dedicata a Verona a Giorgio Almirante sia in contrasto con la concessione della cittadinanza onoraria a Liliana Segre”. Lo afferma all’Adnkronos la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, interpellata sulla polemica nata dalla decisione del Consiglio comunale di Verona di intitolare una strada all’ex segretario missino e le affermazioni di Liliana Segre che l’ha giudicata “incompatibile” con il conferimento a lei della cittadinanza onoraria. Per la leader della destra erede del Msi è anzi bello che Verona pensi in contemporanea all’omaggio a due figure come Liliana Segre e Giorgio Almirante. Il merito di quest’ultimo, sottolinea Meloni, fu di avere portato nell’alveo democratico un partito che nasceva dai reduci dell’esperienza della Rsi. Un merito che la storia gli deve riconoscere. “Appare oggi davvero bizzarro sostenere che un personaggio che per cinquant’anni ha fatto parte delle Istituzioni della Nazione sia un reietto, meritevole dell’oblio”. “L’approvazione delle leggi razziali – aggiunge – è una grave ferita nella storia del popolo italiano. Su questo non abbiamo alcun dubbio”. Anche il leader dell’Msi – ricorda Meloni – condannò “le leggi razziali” ed ebbe un ruolo importante nel traghettare la comunità politica che aveva il legame con l’esperienza fascista “nell’alveo del dibattito democratico”. La leader di FdI ricorda infine che anche altri personaggi, poi santificati dalla sinistra, come Eugenio Scalfari e Giorgio Bocca, scrivevano con entusiasmo sui giornali fascisti ma la loro “colpa” fu perdonata perché poi divennero bandiere della sinistra. Tale indulgenza invece non si è dimostrata verso altre figure, rimaste coerenti con la loro storia.
Segre spiazza i partigiani: "Sì a fiori sulle tombe dei fascisti". L'Anpi ha chiesto al sindaco di Rapallo (Genova) di non mettere più la corona d'alloro per i caduti della Rsi. Il commento della senatrice a vita Liliana Segre: "I morti sono tutti uguali. Non togliamo le corone a nessuno". Gianni Carotenuto, Sabato 04/01/2020, su Il Giornale. "I morti sono tutti uguali. Non togliamo le corone a nessuno". Queste le parole di Liliana Segre raccolte da una giornalista che le chiedeva conto dell'appello di Anpi al sindaco di Rapallo (Genova), Carlo Bagnasco, di non omaggiare più i militi della Rsi con una corona d'alloro. Lo riporta Libero. È successo il 2 gennaio. La senatrice a vita si era recata nella cittadina ligure, dopo alcune giornate trascorse nelle vicine Camogli e Portofino, per incontrare il primo cittadino e il deputato Roberto Bagnasco, entrambi di Forza Italia. Ultima tappa di una vacanza che Liliana Segre si è concessa in Liguria, regione a cui è molto affezionata. "Quello con Rapallo è un legame molto antico. Rapallo fa parte della mia vita", ha raccontato la senatrice. A Rapallo, infatti, risiede il figlio Alberto Belli Paci, che vive con la sua famiglia nella casa che il nonno della senatrice - come scrive Levante News - aveva acquistato nel 1937. È anche per questo motivo che, a fine dicembre, il Comune rapallese ha deciso all'unanimità di conferirle la cittadinanza onoraria. Riconoscimento di cui la senatrice si è detta molto lusingata. "Un grande onore, oggi, la visita della senatrice Liliana Segre a Rapallo. Un incontro semplice ed informale che ricorderò per sempre. Durante la visita abbiamo parlato di tanti argomenti che riguardano la storia del nostro paese e del mondo intero", ha scritto il sindaco Carlo Bagnasco, ricordando che la senatrice "ha speso la sua vita nella "lotta contro ogni forma di odio", promuovendo ultimamente, anche la creazione in Senato di una commissione permanente che si occupi di in maniera costane di questo, di cui, tra l’altro sarà la presidente". Nel suo post, il sindaco di Rapallo ha parlato della "lotta contro ogni forma di odio" che ha visto protagonista la senatrice. Ed è proprio l'odio a muovere, come accade (troppo) spesso, le truppe di Anpi. Lo scorso 29 dicembre, su Facebook, la sezione partigiana di Santa Margherita Ligure - Portofino aveva espresso soddisfazione per la cittadinanza onoraria concessa dal Comune di Rapallo alla senatrice a vita, definendola però "una decisione che si pone in controtendenza alla campagna d'odio di cui la signora Segre è stata ancora una volta vittima". Anpi, nell'occasione, lamentava "lo squallido gesto della giunta rapallese di omaggiare, ogni 4 novembre, coloro che ne furono i carnefici".
Gesto che i partigiani chiedevano di interrompere. Confidando magari nell'endorsement della senatrice. Che però non è arrivato. Anzi, Segre ha espresso un parere diametralmente opposto. Combattendo l'ennesima battaglia contro "ogni forma di odio". In nome di una pacificazione nazionale che purtroppo, a distanza di 75 anni, è ancora di là da venire.
Liliana Segre, Almirante e Salvini. Alberto Giannoni su Il Giornale il 23 gennaio 2020. Il fatto che l’intitolazione di una via a Giorgio Almirante, a Verona, abbia coinciso con la cittadinanza onoraria a Liliana Segre, rende tutto più complicato, e certo non si possono mettere sullo stesso piano, storicamente, un torto e una ragione. Ciò premesso, si può forse provare a ragionare, andando oltre il corto-circuito della cronaca. Nessuno come la senatrice a vita Segre, oggi, ha l’autorevolezza e la forza per unire, e quindi per riconciliare l’Italia con se stessa. Certo, non è pensabile che Liliana Segre si riconcili col Fascismo o con le infami leggi razziali, o che riabiliti quell’oscuro redattore della “Difesa della razza” che è stato il giovane Almirante. Allo stesso modo non si possono e non si devono legittimare gli attuali, patetici nostalgici del Regime. Cosa ben diversa, però, sarebbe riconoscere un pezzo della destra che viene dal Msi e che da quella pagina orrenda del razzismo fascista ha preso chiaramente le distanze, fino a condannarla nettamente. Si tratta di valorizzare quella condanna, che c’è stata, riconoscendo quel percorso che dal post-fascismo, tenendosi alla larga dagli estremismi, ha condotto alla democrazia, al “gioco” delle istituzioni parlamentari, e oltretutto a posizioni apertamente filo israeliane. Non si può dimenticare che Marco Pannella, il radicale, il nonviolento, l’antifascista che metteva in guardia dal “fascismo degli antifascisti”, invitato al tredicesimo congresso del Msi-Dn, il 20 febbraio 1982 andò a dire a quella platea: “Il fascismo non è qui!”, suscitando nella sala un evidente imbarazzo che Almirante stesso dovette risolvere assicurando che invece no, il fascismo era lì. Era chiaramente un artificio retorico, propaganda, e in ogni caso già da molti anni, lì, di quell’antisemitismo non c’era più traccia, e questo potrebbe confermarlo e spiegarlo meglio chi conosce bene la storia di quella destra – a cui personalmente non sono legato, neanche come “lessico familiare”. Nel 1967 Almirante già spiegava che quell’antisemitismo era “completamente superato, per ragioni umane, per ragioni concettuali”. Lo disse con rigore e pudore, mentre altri, anche a sinistra, praticarono l’infingimento e il silenzio opportunista. Questa storia andrebbe riscoperta in pieno. Questa, andrebbe riconosciuta e rispettata. Meriterebbe un riconoscimento. Ignazio La Russa l’ha ricordata bene ieri. Nel Consiglio regionale della Lombardia, due giorni fa, Viviana Beccalossi ha detto ad alta voce: “Alle leggi razziali guardo con orrore”. In una recente intervista al Giornale, Riccardo De Corato ha spiegato: che “Almirante prese le distanze, fu una brutta pagina che mai né il Msi né An hanno mai condiviso, l’abbiamo denunciata come la peggiore della nostra storia e non abbiamo mai avuto problemi a dirlo nelle piazze, nei congressi, sempre”. A sinistra c’è (stata) un’onestà intellettuale paragonabile a questa, sugli orrori del Comunismo e le complicità della sinistra italiana? La questione è ovviamente delicata, da non affrontare con l’accetta, ma la riconciliazione – nella verità – alla fine rafforza tutti e rafforza la democrazia. Offrire una mano tesa, un gesto di dialogo, avrebbe un valore storico. Le contrarietà ci sono, anche comprensibili, ma il tema-antisemitismo non dovrebbe essere usato con l’intenzione di dividere ed escludere, e soprattutto non ha titolo per farlo chi, a sinistra, finge di non vedere il problema delle vie intestate a Stalin, che fu ferocemente antisemita, e ai suoi complici politici, anche italiani. L’antisemitismo è una piaga, e non si può accettare che venga maneggiato con strumentalità e disinvoltura da chi intende solo mettere in difficoltà la destra o la Lega, che peraltro oggi è il partito più filosionista d’Europa, ha fatto approvare una mozione sacrosanta contro il boicottaggio di Israele e da molti viene vista non come uno spauracchio ma come un argine nei confronti dei nuovi pericoli, che oggi in Europa e al di là delle Alpi, non vengono da destra ma dal fanatismo religioso islamista.
Segre: ''Mio marito aderì a destra in cui c’era Giorgio Almirante''. La senatrice a vita Liliana Segre ha ammesso di aver sofferto per la decisione tanto da chiedere al marito di scegliere tra lei e la politica. Gabriele Laganà, Lunedì 27/01/2020, su Il Giornale. La senatrice a vita Liliana Segre negli studi di ''Che tempo che fa'' ritorna sulle polemiche in merito all’intitolazione di una strada a Giorgio Almirante a Verona proposta quasi contemporaneamente alle decisione di dare a lei la cittadinanza onoraria raccontando un fatto della sua vita personale, quella cioè del marito che per alcuni anni ha militato nel Msi. ''Mio marito, che era stato uno che aveva scelto due anni di internamento pur di non stare nella Repubblica sociale, vedendo molto disordine, per un certo periodo aderì a una destra in cui c’era anche Almirante'', ha dichiarato la Segre ammettendo che questa decisione l’ha fatta soffrire molto tanto che la coppia ha vissuto ''una grande crisi''. La senatrice a vita ha ammesso di aver invitato il consorte a scegliere tra lei e la politica. In quest’ultimo caso, però, la conseguenza era la separazione. Dopo le tenebre della crisi, ecco la luce della serenità: ''Per fortuna lui rinunciò per amore nei miei confronti - ha continuato la Segre-a una eventuale carriera politica. E io aprì le braccia a un amore ritrovato e fummo insieme per altri 25 anni''. Alla vigilia del Giorno della memoria, la Segre ricorda: ''Quel 27 gennaio io non ero ad Auschwitz, non ho avuto la gioia di veder aperto quel cancello. C’erano solo morti o persone malate che non avevano potuto obbedire al comando della 'marcia della morte’”. I più giovani pensano che quel giorno la guerra sia finita, ma la senatrice a vita tiene a ricordare: “Non è così, il conflitto era ancora nel pieno''. La Segre nel corso della trasmissione ha anche ricordato il momento in cui ha scelto di esporsi e di raccontare l’orrore che aveva visto. ''Diventata nonna, decisi di uscire dal silenzio durato 45 anni e fare il mio dovere di testimone. Fino ad allora non avevo avuto il coraggio di farlo''. La senatrice a vita, poi, ha parlato anche della scorta assegnatale per le minacce ricevute proferendo parole dolci e cariche di affetto per gli agenti che la proteggono: ''Tra loro e i miei nipoti non c’è molta differenza per me. Mi sento la nonna della mia scorta''. La stessa Segre ha confessato di aver temuto di essere meno libera ma con il passare del tempo ha iniziato a considerare i poliziotti come ''un grande regalo, ho degli amici, con loro posso mangiare la pizza con i miei nipoti''.
Da “il Giornale” il 27 gennaio 2020. «Mio marito, che era stato uno che aveva scelto due anni di internamento pur di non aderire alla Repubblica sociale, vedendo molto disordine, per un certo periodo aderì a una destra in cui c'era anche Almirante. lo ho molto sofferto e ci fu una grande crisi. A un certo punto misi mio marito e me sullo stesso piano e dovevamo sceglierci di nuovo. O separarci». La senatrice Liliana Segre, ospite di Fabio Fazio a «Che tempo che fa», racconta commossa l'episodio della sua vita privata anticipato dal «Giornale». Dopo la crisi, ricorda, il ritrovarsi: «Lui rinunciò per amore nei miei confronti a una eventuale carriera politica. E io aprii le braccia a un amore ritrovato e fummo insieme per altri 25 anni». Quanto al razzismo e all'antisemitismo, la Segre ha osservato: «Ci sono sempre stati, adesso quei sentimenti si possono di nuovo esprimere. Sono stati sdoganati». E sulla scorta che le è stata assegnata dopo le minacce ricevute: «Fra quei meravigliosi ragazzi (gli agenti sempre con lei, ndr) e i miei nipoti c'è poca differenza per me Sono la nonna della mia scorta».
L'amore di Liliana Segre per un marito conservatore: parla il figlio Alberto. «Mio padre patriota e ribelle, anche lui visse la tragedia». Michele De Feudis il 26 Gennaio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Sono molto felicemente il ragazzo di Liliana Segre». La storia di un italiano illustre inizia proprio così, con l’incipit di una lettera inviata al Corriere della Sera, pubblicata accanto alla «Stanza» di Indro Montanelli. È il racconto di un personaggio dal rigore civile e morale cristallino. La storia di Alfredo Belli Paci, marito della senatrice a vita, marchigiano, poi milanese d’adozione, avvocato pieno di stile ma soprattutto sorprendente e discreto Virgilio nel percorso che riportò l’amata Lilliana dall’orrore indelebile dei campi di concentramento e della persecuzione nazista alla vita e alla rinascita tra gli affetti familiari. Scomparso nel 2008, è descritto da Liliana come un gigante capace di donare silenzi, protezione, comprensione e temperanza. Il figlio maggiore Alberto - imprenditore e amante della cultura giapponese, liberale a tutto tondo - dal padre ha ereditato lo stile sobrio - apre alla «Gazzetta» un delicatissimo scrigno della memoria: «Mio padre è stato un esempio dal punto di vista del rigore, della serietà, dell’orgoglio militare: uomo tutto d’un pezzo. Aveva dieci anni più della mamma. Aveva sempre amato tutto quello che era collegato alla divisa, professava un amore profondo verso la patria». Come tanti italiani del tempo, aveva scelto giovanissimo la vita militare: «Aveva fatto il collegio Morosini, poi aveva frequentato l’accademia di Livorno che non era compatibile con le sue conoscenze matematiche. Infine era entrato nell’esercito, era di stanza in Grecia, come sottotenente di artiglieria. Aveva giurato fedeltà al Re, non aderì alla Repubblica sociale e - catturato da una compagnia di tedeschi - ventitreenne fu internato in sette campi di prigionia». Dopo il 1943 Alfredo divenne, come almeno altri 600mila italiani un «Imi», un internato militare italiano, patendo dolori infiniti, e scegliendo una certa idea di patria alla libertà che sarebbe stata conseguente all’adesione alla Repubblica nordista del crepuscolo fascista. Ecco l’idea dell’Italia di Alfredo: «Lui ha scelto di dire di no, di non fare patti: avrebbe potuto firmare e tornare in Italia. Mio padre fu profondamente eroico. È stato un patriota e ribelle. Soffrendo per le sue scelte. Difese il decoro degli ufficiali italiani in prigionia, scambiava fette di pane per un po’ di lucido, affinché le sue scarpe fossero pulite come si doveva ad un impeccabile ufficiale del Regio esercito. Della sua tenuta morale ci sono resoconti anche negli atti del Comando italiano dopo la guerra. Agli inviti ad aderire alla Rsi, aveva replicato a muso duro ad un comandante della Wehrmacht dichiarando che trovava inaudita questa proposta, perché un ufficiale aveva il dovere di resistere. Ed era stato punito», ricorda ancora commosso il figlio. L’incontro con Lilliana? «L’aveva conosciuto qualche anno dopo il ritorno della mamma. Al mare nelle Marche, a Pesaro, dove mia nonna Bianca - prosegue nel racconto Alberto - era andata in villeggiatura. Mia nonna si chiamava Foligno di cognome, e sfuggì alla persecuzione degli ebrei nascosta in conventi da suore a Roma». Dell’amore con Alfredo la senatrice Lilliana ne parla con poche parole, figlie di un pudore antico, ricordandone il senso di sicurezza che suo marito le trasmetteva. Senza mai fare domande. Nell’Italia del dopoguerra i dolori della prigionia (come della lotta partigiana e delle angherie subite dai fascisti nel Nord dopo il 1943) erano una memoria più o meno sussurrata, mai sbandierata pubblicamente per non riaprire ferite profonde. «Della tragedia di entrambi - spiega il figlio Alberto - della loro prigionia, non si parlava mai. Era un tabù assoluto. Sapevamo che qualcosa di tremendo era successo». I segni, quel numero tatuato di Liliana, erano lì a testimoniare l’orrore del Novecento. «La memoria - chiarisce Alberto - era una presenza. “Non parliamone, non facciamo soffrire la mamma”. Questo era il nostro pensiero». Alfredo, italiano e marito illustre aveva un contegno unico: «Mio padre teneva separati i mondi. Sapevamo che c’era stato qualcosa di terrificante. Nella mia infanzia non si parlava mai di niente di quel periodo. Si sentiva qualcosa di tremendo ma non si poteva identificare. Non c’erano tanti documenti, non esistevano la Rete o gli archivi digitali». Alfredo fu campione di garbo nell’accompagnare il percorso di vita con sua moglie: «Difendeva nostra madre, la portava in palma di mano, la incitava, le dava coraggio, era sempre di fianco. Sempre attento, tenero». Una roccia su cui appoggiarsi nei momenti in cui il peso del passato poteva creare smarrimento, una figura che richiamava lo stile del padre di Liliana, Alberto, ex ufficiale del ’99, che aveva combattuto nella prima guerra mondiale, e dello zio Amedeo, decorato con la croce di guerra a capo retta («Un fascista della prima ora», ricorderà Liliana): «Aveva una postura militare e una eleganza innata. Un grande bell’uomo, spiritoso, ottimo relatore. Affascinante ed elegante», chiosa il figlio. Lo ricorda così anche Eugenio Pasquinucci, amico di famiglia: «Mio padre aveva combattuto contro i tedeschi la battaglia di Montelugo. Era legato ad Alfredo, anche mia madre era amica della signora Liliana. Da piccolo giocavo con i loro figli nei parchi cittadini. Mio padre e Alfredo condividevano una idea differente dell’Italia. Un certo patriottismo». Lo stile che lo contraddistingueva in famiglia, Alfredo lo aveva anche nell’avvocatura: legale di pregio nel settore delle assicurazioni, ha trasmesso la passione per il diritto al secondo erede, Luciano, che scelse l’impegno politico nel Psdi di estrazione saragattiana. Le idee di Alfredo furono sempre legate «ad un chiaro senso dell’onore. Dopo le schifezze che aveva visto, si collocava - chiarisce ancora Alberto - nell’alveo della cultura conservatrice. Era un conservatore. Con noi figli era impeccabile, ma anche esigente» Negli anni ‘70 Alfredo, legato all’ammiraglio Gino Birindelli, aderì alla Costituente di destra per la libertà, insieme all’ex deputato Dc Enzo Giacchero (che era stato un comandante partigiano bianco) e Agostino Greppi. Nel 1979 si candidò alla Camera con il Msi, come indipendente, in chiara posizione anticomunista. «Quella fu una campagna elettorale decisiva per il Msi, che doveva superare la scissione governativa di Democrazia nazionale», ricorda il professor Giuseppe Parlato, presidente della Fondazione Ugo Spirito-Renzo De Felice. «Alle politiche del 1979 - ricostruisce l’ex parlamentare e sottosegretario Alfredo Mantica, in quel periodo vicino all’eretico deputato Tomaso Staiti di Cuddia - la destra di Giorgio Almirante presentò liste forti, di credenti, identitarie si direbbe adesso». «Quella Milano - analizza Marco Valle, intellettuale e direttore di Destra.it - era una città straziata dall’estremismo politico rosso, dove la sinistra in consiglio comunale applaudì la morte del giovane studente di destra Sergio Ramelli (sprangato da un commando di assassini a cui partecipò anche un pugliese, ndr)». Di quella campagna elettorale restano anche le riflessioni di Benito Bollati, deputato missino milanese, 93enne, che ci racconta «di un avvocato pieno di stile, di educazione antica. Il filo rosso che ci univa? Era il patriottismo dell’Italia che amavamo». Quella scelta di impegno politico creò una grave crisi nella coppia, che si superò unicamente quando rinunciò alla militanza politica. Alberto nei mesi scorsi ha scritto una lettera al «Corsera» per difendere sua madre da critiche e polemiche scaturite dalle cronache politiche: «A voi che non vi alzate in piedi davanti a una donna di 89 anni, che non è venuta lì per ottenere privilegi o per farsi vedere più brava ma è venuta da sola (lei sì) per proporre un concetto libero dalla politica, un concetto morale, un invito che chiunque avrebbe dovuto accogliere in un mondo normale, senza sospettosamente invece cercare contenuti sovversivi che potevano avvantaggiare gli avversari politici. A voi dico: io credo che non vi meritiate Liliana Segre!». Il figlio maggiore come il padre, al fianco dell’amata mamma: «L’idea di protezione - conclude Alberto - verso mia madre l’abbiamo eredita da papà. Con i miei fratelli, abbiamo ereditato la visione di difendere nostra madre fino a che avremo vita». Alfredo Belli Paci fu un italiano illustre, declinò nell’Italia ferita dalla Seconda guerra mondiale e negli anni complessi del dopoguerra la luminosa figura del cavaliere medioevale Wilfred di Ivanhoe. Coraggioso e fedele alle sue idee, tutta la vita al fianco dell’amata Rowena. E quando Liliana tornava a casa, provata, da una conferenza o una testimonianza in una scuola, la riaffermazione della normalità era cadenzata da queste parole di Alfredo: «Amore mio, tutto bene?». E la risposta era un sorriso che consentiva, ancora una volta, di superare il dolore.
Quando l’antisemitismo proviene dagli afroamericani. Daniele Zaccaria il 28 gennaio 2020 su Il Dubbio. Escalation di atti ebraici negli Stati Uniti. E non solo da parte dei suprematisti bianchi. Il caso del New Jersey e dei Black Hebrew Israelites. L’ultimo attacco lo scorso 10 dicembre a Jersey city contro un supermercato casher, quattro le vittime: un poliziotto, due ebrei ortodossi e un cassiere ecuadoriano. Gli autori della strage, deceduti nella sparatoria con le forze dell’ordine, si chiamavano David Anderson e Francine Graham. Anderson era un membro dei Black Hebrew Israelites, una setta di suprematisti afroamericani che si crede l’unica discendente dalle sacre scritture, ritiene gli ebrei bianchi dei semplici usurpatori che hanno finanziato la schiavitù e che appartengono a una razza inferiore mentre la Shoah sarebbe poco più che una leggenda. Il gruppo è noto sia alle autorità che ad associazioni anti- razziste come il Southern Poverty Law Center che appena lo scorso anno non lo riteneva capace istigare alla violenza. E invece tra le migliaia di adepti che si nutrono della grottesca propaganda dei Black Hebrew Israelites si annidano pericolosi fanatici, Nell’auto della coppia è stato ritrovato dell’esplosivo, l’appartamento di Anderson invece era pieno di scritti antisemiti in cui gli «avidi ebrei» sono accusati di controllare il governo se non addirittura di dominare il mondo. Se, giustamente, i media americani evidenziano con forza l’escalation di atti razzisti e antisemiti da parte dei suprematisti bianchi legati all’alt- right, c’è molta più pigrizia e reticenza quando questi odiosi attentati provengono da membri della comunità afroamericana. In particolare commentatori progressisti sembrano incartarsi nel classico circolo vizioso della propaganda incrociata: poiché i neri sono le vittime più frequenti di razzismo, sottolineare gli atti di intolleranza commessi da questi ultimi potrebbe corroborare la retorica della destra radicale. Sulla stessa falsariga del presidente Trump, discreto ai limiti del minimalismo quando a finire in cronaca sono i suoi ammiratori fan dell’America ariana, furente fino all’inquisizione quando capita ai neri, meglio ancora se di religione musulmana. Come scriveva questa settimana sul New Yorker lo storico David Nirenberg. «Pensare che l’antisemitismo sia sempre colpa degli “altri”, che non possa per definizione appartenere al proprio gruppo politico è una cosa pericolosissima». Se la maggior parte di attacchi contro gli ebrei americani proviene da ambienti legati al suprematismo bianco, nell’ultimo anno, specialmente nella regione di New York si sono verificate decine di atti ostili da parte di afroamericani. Il vertiginoso aumento del mercato immobiliare a Manhattan e Brooklyn ha spinto migliaia di ebrei ultraortodossi a traslocare nella Huseon valley e nel New Jersey settentrionale dove ora convivono con una comunità nera molto radicata e una forte presenza dei Black Hebrew Israelites. Tra la costruzione di nuovi appartamenti plurifamiliari in quartieri di case monofamiliari e di nuove sinagoghe, le dispute sulle tasse e i budget scolastici, la tensione è aumentata. Ma l’ondata di odio antisemita nella regione non può essere spiegata da ragioni socio- economiche. La giornalista Jane Coaston è convinta che il conflitto comunitario non c’entri molto con la recrudescenza di giudeofobia, la quale sarebbe il frutto di una precisa ideologia: «Le teorie della cospirazione sono molto più diffuse di quanto si creda, gli autori degli attentati non sono mai dei normali cittadini esasperati, ma sempre delle persone imbevute di complottismo, che si tratti di suprematisti bianchi che di membri di gruppi antisemiti come i Black Hebrew Israelite».
Dacia Maraini per corriere.it il 24 dicembre 2019. Mi capita di scrivere queste poche righe proprio sotto Natale. Un giorno in cui si festeggia la nascita di un bambino straordinario che ha cambiato le sorti di una grande parte del mondo. Un giovane uomo che ha riformato la severa e vendicativa religione dei padri, introducendo per la prima volta nella cultura monoteista il concetto del perdono, del rispetto per le donne, il rifiuto della schiavitù e della guerra. In nome di Cristo sono state fatte delle orribili nefandezze. La scissione fra etica e politica è accaduta nel momento in cui la Chiesa, da idealistica e innovativa forza rivoluzionaria si è trasformata in un impero che ha subito costruito il suo esercito, le sue prigioni, i suoi tribunali, la sua pena di morte. Ma molti, proprio dentro la Chiesa, hanno rifiutato i principi del vecchio Testamento, il suo concetto di giustizia come vendetta (occhio per occhio, dente per dente), la sua profonda misoginia, l’intolleranza e la passione per la guerra. Oggi la novità del movimento delle Sardine ricorda alla lontana le parole di un pastore povero che a piedi nudi portava a pascolare le pecore. I movimenti che abbiamo conosciuto finora, perfino il grande Sessantotto, usavano le parole Lotta, Guerra, Appropriazione, Distruzione, Nemico da abbattere, ecc. Mentre le piccole sardine , (che spero tanto non si facciano trasformare dai media in tonni pronti per la mattanza), rifiutano l’insulto e l’aggressività. Non pretendono di cambiare il mondo, ma di introdurre in una società sfiduciata e cinica, una nuova voglia di idealismo. Non hanno sbagliato simbolo secondo me, perché la sardina da sola non esiste, ma in una massa di corpi volanti, aiuta il mare a compiere i suoi cicli vitali. Inoltre possiamo dire che la sardina è ormai il solo pesce che non provenga da allevamenti intensivi, non si nutre di farine sintetiche, e non viene rimpinzata di antibiotici. Il fatto che riescano a smuovere tante persone, soprattutto giovani, è segno di una richiesta di nuove idealità, ovvero fiducia nel futuro, progetti comuni, spirito di solidarietà e collaborazione. Certuni li ridicolizzano, ma non si accorgono che fanno del male prima di tutto a se stessi. Con il sarcasmo perpetuano il vizio tutto italiano di disprezzare tutto ciò che è comunitario, di sentirsi superiore a ogni manifestazione di indignazione civica, di criticare tutto e tutti in nome di una conoscenza del mondo più antica e superiore.
LA RISPOSTA DEL RABBINO DI SEGNI ALL’ARTICOLO DI DACIA MARAINI. Da shalom.it il 24 dicembre 2019. “Capisco che in questi giorni festivi si esaltino i buoni sentimenti e la non violenza. Capisco che si cerchi di sottolineare che il nuovo movimento politico che riempie le piazze porti una ventata di freschezza. Quello che mi riesce più difficile da capire è che si debba per forza trovare nelle complesse anime di questo movimento un afflato religioso natalizio. E ancora di meno capisco che si debba trovare in tutto questo una opposizione religiosa. Da una parte il vecchio testamento violento e misogino, dall'altra la rivoluzione cristiana pacifica e le sardine. Perché se è innegabile la presenza di violenza e di un atteggiamento maschilista nelle antiche pagine della Bibbia, è anche vero che le stesse pagine parlano di pace, perdòno e amore, esaltando ruoli femminili. E che tutto questo si trascina e cresce nella tradizione successiva. E che la rivoluzione cristiana è tutt'altra cosa. Oggi un cristiano informato sa evitare le banalità e le menzogne di questa antica opposizione (che ha un nome preciso: marcionismo), che è rimasta però in mente e in bocca ai laici più o meno credenti ma quasi sempre ignoranti. Bisogna diffidare di chi predica una bontà stucchevole condita di false informazioni. È normale che un nuovo movimento politico cerchi di ispirarsi agli insegnamenti antichi, ma dovrebbe essere cauto nelle semplificazioni. Dopo il Gesù socialista, rivoluzionario più o meno armato, femminista ecc., oggi abbiamo anche, grazie a Dacia Maraini, il Gesù sardina. A me pare quasi una bestemmia, ma fate voi.” Lo scrive il rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni, nella sua pagina di Facebook, in risposta all’articolo di Dacia Maraini.
Dacia Maraini per corriere.it il 25 dicembre 2019. Mi dispiace se senza volere ho offeso la sensibilità di qualcuno con il mio articolo di martedì 24 dicembre sul «Corriere della Sera». Non avevo nessuna intenzione di criticare o offendere la religione ebraica. Non ho scritto un saggio sulla Bibbia ma solo un breve articolo di venti righe, semplificando per forza di cose, sulla nascita di Gesù bambino e su come le sue parole siano state poi tradite da una Chiesa cattolica troppo preoccupata del potere e gelosa delle sue prerogative. Non intendevo affatto riferirmi alla religione ebraica o alla Torah, ma solo a una storia tutta italiana di scontri fra una Chiesa diventata impero e una Chiesa che nella sua base continuava a credere nelle parole di Cristo. Considero la Bibbia un meraviglioso testo, di grande profondità e di grande poeticità. Ma certamente non può essere presa alla lettera. Le religioni savie hanno sempre storicizzato. E credo che anche la religione ebraica lo abbia fatto con saggezza. Per quanto riguarda le Sardine e l’accostamento che qualcuno ha considerato blasfemo, vorrei ricordare che per molti secoli Cristo veniva raffigurato con un pesce. Come scrive il dizionario «il pesce, essendo un animale che vive sott’acqua senza annegare, simboleggia il Cristo che può entrare nella morte pur restando vivo». Fra l’altro chiederei un poco di rispetto per una persona che, seppur bambina, ha subito due anni di campo di concentramento in Giappone per antifascismo e antirazzismo. Sento da sempre il dolore per le incommensurabili sofferenze del popolo ebraico, che ho sempre difeso e di cui ho spesso parlato nei miei libri con partecipazione e affetto.
Lettera del dottor Massimo Finzi a Dagospia il 25 dicembre 2019. La merda più la tocchi più puzza: se Dacia Maraini avesse tratto tesoro da questo vecchio adagio avrebbe evitato di peggiorare la situazione nel tentativo di correggere i contenuti di un suo precedente articolo pubblicato sul Corriere della Sera. Purtroppo per lei “verba volant, scripta manent”. Riferendosi a Gesù, Dacia Maraini aveva scritto testualmente: “ Un giovane uomo che ha riformato la severa e vendicativa religione dei padri, introducendo per la prima volta nella cultura monoteista il concetto del perdono.” Una frase che contiene un pregiudizio duro a morire (la religione ebraica improntata a giustizia severa e vendicativa) e un grave errore storico (Gesù avrebbe introdotto nella cultura monoteista il concetto del perdono). Nella tradizione ebraica giustizia e misericordia hanno eguale importanza (….senza misericordia il mondo non esisterebbe….) e sono in equilibrio tra loro come le due ali di un aereo il cui assetto di volo è garantito da entrambe le ali e mai da una sola. A proposito del perdono l’ebraismo ha sempre assegnato ad esso una importanza fondamentale tanto da dedicare un giorno intero del calendario al Kippur(il giorno dell’espiazione e del perdono). Una ricorrenza rispettata con il digiuno assoluto anche dagli ebrei meno osservanti e addirittura nei campi di sterminio dove un solo boccone di pane poteva fare la differenza tra la vita e la morte. Durante i dieci giorni che separano il capodanno ebraico dal Kippur, gli ebrei operano una ricognizione profonda alla ricerca delle colpe o delle offese che possono essere state commesse nei riguardi della Divinità, o nei confronti dei propri simili o anche contro la natura. Questa accurata introspezione culmina nel giorno del kippur con il proposito a non ripetere gli errori, con il pentimento e soprattutto con l’invocazione del perdono. Dio, nella sua grande misericordia concederà il perdono per le offese rivolte a Lui se il pentimento è stato sincero. Il perdono per le colpe tra gli esseri umani deve essere diretto nel senso che la richiesta deve essere avviata da chi ha commesso la colpa e può essere concesso solo da colui che ha ricevuto l’offesa. La tradizione ebraica non contempla un perdono “conto terzi” e neppure permette di porgere la guancia di un altro; di conseguenza neppure i discendenti diretti possono concedere il perdono per le offese rivolte ad un loro parente. Vorrei consigliare a Dacia Maraini una breve visita alla libreria di Via Elio Toaff dove potrebbe trovare una ricca esposizione di libri di cultura ebraica: eviterebbe di scrivere “inesattezze” e imbarazzanti tentativi di correzione. Lo dico con il rispetto che debbo ad una persona come lei il cui padre fu rinchiuso, insieme alla sua famiglia, in un campo di concentramento giapponese per essersi rifiutato di servire nella repubblica sociale di Salò.
«Antisemitismo, Sala non si limiti a tagliare i nastri». Alberto Giannoni il 17 gennaio 2020 su Il Giornale.
Walker Meghnagi, past president della Comunità ebraica, che significa Memoria?
«Mi rifaccio al testamento di rav Laras, grande rabbino capo e grande uomo, che aprì con un altra grande figura come il cardinal Martini il dialogo fra cristiani ed ebrei. Laras spiega che la Shoah ha segnato per sempre la sua esistenza. Ma aggiunge che la Giornata della Memoria è anch’essa arrivata a una crisi di senso e di comunicazione».
Le pietre di inciampo sono un ricordo toccante e doveroso, non le pare?
«Sono belle, ma serviranno per le prossime generazioni. Sollecitano la memoria, devono essere fatte, perfetto, ma io dico: fermiamo gli antisemiti, quelli del passato e quelli del futuro! Io ho pagato sulla mia pelle, so cosa vuol dire antisemitismo dalla mia infanzia in Libia».
Che ricordo ne ha?
«Frequentavo la scuola italiana, che ci dava le aule di nascosto, per studiare ebraismo. Quando lo hanno scoperto, lì ci hanno ammazzato di botte. Ho tredici ferite, una volta usarono un vetro. Io non abbassavo la testa, ero già come mio padre, che era stato minacciato per questo, dagli islamisti. Aveva un’azienda e un giovedì sera, lui a un capotavola e mia madre all’altro, disse ai noi figli maggiori: Lunedì partiamo. Mia madre ci raggiunse in Italia dopo 45 giorni coi piccoli. Abbiamo dovuto lasciare tutto, le nostre radici, le scuole, le sinagoghe, i nostri cimiteri. L’odio che colpisce gli ebrei non arriva da una parte sola».
Cosa intende dire?
«Quando si dice razzismo uguale antisemitismo è un errore. Vedo Sala che marcia contro l’odio. L’antisemitismo esiste da sempre, milioni di ebrei sono stati uccisi, ma l’antisemitismo ha delle specificità e va combattuto per quello che è oggi. Non si può relegare a una sola espressione della destra, forse 70-80 anni fa era così, oggi non più».
Oggi cosa vede?
«Vedo il Bds, movimento antisemita mascherato da anti-sionismo. Vediamo legami documentati fra aree vicine a questo movimento e il terrorismo. Tutto ciò dietro una facciata di difesa dei diritti umani. Ci sono persone che alimentano l’odio per Israele e considerano gli ebrei italiani responsabili di ogni cosa faccia. Io da italiano esigo rispetto».
La rassicura la mozione del centrodestra in Regione?
«Mi rassicura tutto ciò che va in questa direzione, anche il convegno di Salvini. Sono disponibile a parlare con tutti. Sono antirazzista, potevo nascere nero e arrivare su un barcone dalla Libia. Dialogo con tutti, ma non si faccia un calderone parlando genericamente di odio. Ci sono valori che non si possono sacrificare».
La preoccupa l’islamismo?
«Io non ho paura dei musulmani, temo gli antisemiti e il terrorismo di matrice islamica. Certo se non si blocca e si cavalca la tigre corre. In Italia, al di là di quelle manifestazioni che nessuno ha condannato, non ce ne sono molte come in altri Paesi europei, vedi la Francia. In piazza San Babila, il 25 aprile, al 90% sono centri sociali ad aggredire la Brigata ebraica. E si sente dire: Dovevate restare nei lager. Mi sfugge il motivo per cui le autorità consentano certe manifestazioni come quelle del 2017 o quella recente che in stazione Centrale definiva terroristi gli Stati Uniti, sull’Iran».
Nel 2017 la condanna del sindaco arrivò, lenta e rituale.
«È raro che alcune forze politiche di sinistra dicano: Anche tra di noi esiste l’antisemitismo. Sono cerimonie, sindaci, conferenze, tagli di nastri. Io vorrei una presa di posizione per un fenomeno che non è più strisciante».
Il Pd parlò di matrice neofascista di quegli slogan.
«C’è difficoltà a difficoltà a riconoscere la realtà, che è sfaccettata. Erano musulmani, non c’entrava niente il fascismo. Il fascismo è stato una brutta bestia, terribile, ma questo non vuol dire che tutto sia fascismo. E oggi chi non è di sinistra è definito fascista. O accusato, tacciato di essere salviniano, o di Fdi. Bisogna uscire fuori da questi luoghi comuni».
Lei al convegno di Salvini sarebbe andato, a differenza di Liliana Segre che ha detto no.
«Assolutamente sì, se qualcuno mi chiama per dialogare io devo essere disponibile. Ci sono intellettuali divisivi, portatori di una cultura di intolleranza, che vedono la violenza da una parte sola. Una dipendente del Comune ha insultato Israele, non mi interessa parlare della persona, ma nessuno ha preso posizione».
Lei avrebbe voluto un provvedimento del sindaco?
«No, e ha ragione che non può e non deve controllare tutti, ma avrei voluto una presa di posizione ufficiale, non parlare con due tre persone della Comunità. Doveva dire che era contro quella violenza verbale. Invece niente. Se fosse stato qualcuno di destra sarebbe scoppiata l’Italia».
La sinistra antisemita a braccetto con l’islamismo. Alberto Giannoni su Il Giornale il 20 dicembre 2019. Si sa ormai che il Partito laburista di Jeremy Corbyn, per fortuna travolto alle ultime elezioni nel Regno Unito, è stato pesantemente infettato dall’antisemitismo. Il centro Wiesenthal lo inserito nelle liste dei peggiori antisemiti e a pochi giorni dal voto il rabbino capo inglese Ephraim Mirvis lo ha definito pubblicamente un pericolo per gli ebrei inglesi, lanciando un allarme che è stato condiviso anche dal capo della Chiesa anglicana, l’arcivescovo Justin Welby. Meno noto è il fatto che anche i Democratici americani stiano rischiando la stessa deriva, a causa di esponenti vicini all’islam politico. Adesso lo stesso virus ha attecchito in Francia, dove il comunista Mélenchon – proprio commentando la sconfitta di Corbyn, nel tentativo di difenderlo – si è scagliato contro la Comunità ebraica, con accuse strampalate e cospirativiste che in Francia qualcuno ha iscritto direttamente nel solco dei collaborazionismo filo nazista del regime di Vichy. Mélenchon è un riferimento per i gilet gialli, in cui si trova un inquietante impasto di islamismo ed estremismo politico, rosso e nero. E fra le vergogne dei gilet gialli c’è l’aggressione ad Alain Finkielkraut, il filosofo ebreo parigino. Questa situazione non trova riscontro nei grandi partiti italiani, ma alcuni segnali di convergenze inquietanti ci sono da tempo, basti pensare ai vessilli di Hezbollah che sventolavano in piazza San Babila durante l’infame aggressione alla Brigata ebraica nel giorno (teoricamente consacrato a celebrare la Liberazione). Ma, poco notate dai più, c’erano anche bandiere con la falce e il martello, a Milano, nella piazza Cavour delle grida jihadiste, a dicembre 2017. E questo incontro fra islam politico e sinistra estrema, che da anni aleggia, a Milano e non solo, trova una ambiente naturalmente propiziatorio nel bds, il movimento per il boicottaggio di Israele che si dice antisionista e fa – neanche proseliti fra vecchi arnesi della sinistra estrema e i nuovi militanti dell’islam politico che inneggiano all’Intifada (“un sasso qua e un sasso lì) e manifestano per la Palestina invocando Allah (come nel noto corteo che nel gennaio 2009 si concluse con la preghiera sul sagrato del Duomo).
Dall’antisemitismo di Corbyn a quello nostrano “di maniera” pieno di ambiguità. Secondo il rabbino della Rocca dalla persecuzione degli ebrei è derivato un senso di colpa che è una chiave per comprendere le spinte antisemite di oggi. PIetro Di Muccio De Quattro il 21 Dicembre 2019. Con due editoriali, documentati e argomentati, Ernesto Galli della Loggia e Paolo Mieli hanno affrontato sul Corriere della Sera il tema dell’antisemitismo in Italia e Gran Bretagna. Mieli dimostra che il leader del partito laburista Jeremy Corbyn che ha perso rovinosamente le elezioni anche per ambiguità su questo tema – merita appieno le accuse e le censure di antisemitismo che svariate parti, anche autorevolissime, della società britannica gli muovono da tempo. E si stupisce che «la sinistra politica e culturale del nostro Paese ( con alcune, purtroppo poche, lodevoli eccezioni) pur particolarmente attenta agli slittamenti antisemiti nel discorso pubblico italiano non abbia ritenuto meritevole di attenzione queste particolarità di Corbyn che hanno suscitato allarme persino nell’arcivescovo di Canterbury». Mieli dunque stigmatizza non solo “l’ambigua sinistra inglese” ma anche la sinistra italiana che evidentemente, Mieli non lo dice ma lo lascia supporre, fa prevalere a riguardo la scelta dell’affinità politica sul dovere della condanna morale. E qui soccorre Galli della Loggia, che investigando “la realtà profonda dell’antisemitismo” ne pone in luce la peculiarità italiana, definita una sorta di antisemitismo “indiretto” o “di risulta”. Sicché la variante italiana della peste antisemita ( espressione nostra, questa) sarebbe alimentata anche “da un ultimo fattore: l’uso politico dell’Ebraismo da parte dei non ebrei, cioè l’uso che gli esponenti politici non ebrei – solo loro, solo e sempre esponenti della politica e dunque perlopiù, ahimè, personaggi agli occhi dell’opinione pubblica largamente screditati – fanno spesso e volentieri dell’Ebraismo. ” Antisemitismo “di rivalsa” e “d’invidia”, “vale a dire l’effetto aggressivo di un avvilimento, una forma di ottusa rivalsa per la capillare mortificazione che l’identità europea si trova a subire da tempo”, come si esprime Galli della Loggia, il quale pare considerarlo anche il risvolto dell’attestazione di un preteso “impeccabile status etico- ideologico”, non proprio “la manifestazione di un’effettiva avversione diretta nei confronti degli ebrei” ma una forma strumentale, occasionale ed enfatica, di adesione (“vicinanza/ solidarietà/ amicizia/ stima ecc. ecc.”) all’Ebraismo. Il rabbino Roberto Della Rocca ha scritto sulla stessa testata che Galli della Loggia “ha messo bene in luce non solo le responsabilità della civiltà occidentale nella persecuzione e nell’odio verso gli ebrei, ma anche il senso di colpa conseguente che ne è derivato e che, a suo parere, sarebbe una delle chiavi principali per comprendere l’antisemitismo contemporaneo.” A nostro modo di vedere, esiste un’altra linea di demarcazione che si diparte dalle considerazioni di Galli della Loggia. Troppi ambigui personaggi, anche non screditati, affollano la rumorosa categoria degli anti- antisemiti, come vorremmo definirla a nostra volta. Costoro sfoggiano un anti-antisemitismo cerimoniale, di maniera, ad uso e consumo di telecamere, talk show, “social” e consigli comunali. Nelle aporie dell’esibita contrarietà all’antisemitismo, tipica di un certo strato politico- culturale della società italiana, è riscontrabile invece un latente cripto antisemitismo. Gl’Italiani anti- antisemiti, infatti, non sempre sono filo- israeliti, per non dire filo- israeliani. Dell’antisemitismo avversano il mallo anziché il gheriglio.
La vita impossibile degli ebrei in Francia. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 24 gennaio 2020. Islamismo fa rima con antisemitismo. Lo sanno bene gli ebrei francesi, che ogni giorno devono fare i conti con l’avanzata dell’islam radicale, soprattutto nelle periferie e nei sobborghi cittadini, interamente dominati dagli islamisti, com’è è emerso da un documento riservato inviato dal Ministro dell’Interno transalpino, Cristophe Castaner, ai vari prefetti, con la richiesta di convocare al più presto i gruppi di valutazione dei vari dipartimenti. Come già spiegato da Inside Over, il Dgsi, l’intelligence interna francese, ha mappato almeno 150 banlieue che sarebbero attualmente in mano all’islam radicale. No-go zone dove lo stato è totalmente assente e dove la vita per gli ebrei è diventata impossibile. È solo l’ultima conferma di una situazione che si fa davvero allarmante. Come riporta lo Spectator, gli attacchi antisemiti nel 2018 sono aumentati del 74% rispetto all’anno precedente e le cifre per l’inizio del 2019 hanno rivelato un aumento del 78% rispetto allo stesso periodo del 2018. “Gli ebrei, che rappresentano meno dell’uno per cento della popolazione, sono soggetti a più della metà degli atti razzisti commessi in Francia”, ha dichiarato Francis Kalifat la scorsa settimana. Kalifat, che è presidente del Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche in Francia (Crif), ritiene inoltre che il numero di vittime sia più elevato. “Molte persone non sporgono denuncia”, ha osservato. “O perché non serve a niente o perché temono rappresaglie”.
55.000 ebrei hanno già lasciato la Francia. I numeri dell’antisemitismo in Francia fanno davvero impressione. Dodici ebrei sono stati uccisi specificamente a causa della loro religione dal 2003 ad oggi. La vittima più recente è Sarah Halimi nel 2017, picchiata a morte dal suo vicino musulmano, Kobili Traoré. Secondo quanto riferito, Traoré e la sua famiglia avevano insultato l’anziana donna ebrea in numerose occasioni e l’assassino ha ammesso che vedere un candelabro ebraico e un libro di preghiere ebraiche nell’appartamento di Halimi aveva scatenato l’aggressione mortale. Peccato che poi, nonostante l’efferatezza dell’omicidio, i giudici del tribunale lo abbiano in parte graziato, poiché non era a conoscenza “degli effetti negativi” dell’abuso di cannabis. La verità è che, come racconta lo Spectator, gli ebrei in Francia si sentono abbandonato a loro stessi. Negli ultimi anni circa 55.000 ebrei hanno lasciato la Francia per Israele, soprattutto da Parigi e Marsiglia. Ad Aulnay-sous-Bois, un quartiere vicino a Saint-Denis nel nord di Parigi, il numero di famiglie ebree è sceso da 600 a 100 negli ultimi anni. Rimangono appena 460.000 ebrei in Francia, che con l’avanzare dell’islamismo nel Paese, rischiano di essere sempre meno.
L’allarme di Finkielkraut: “L’antisemitismo è di sinistra”. Alain Finkielkraut, uno dei più importanti filosofi e intellettuali francesi, è intervenuto di recente per lanciare l’allarme sull’avanzata dell’antisemitismo e dell’islamismo nel Paese. “In Francia l’antisemitismo fa parte dell’estrema sinistra e di una parte crescente della popolazione con un background migratorio”, ha dichiarato alla rivista tedesca Der Spiegel. “È particolarmente preoccupante che l’estrema sinistra difenda l’Islam radicale e antisemita per due ragioni: ideologicamente, perché per loro i musulmani sono i nuovi ebrei; ma anche per ragioni tattiche, perché oggi ci sono molti più musulmani che ebrei in Francia. Quindi, anche l’islamismo di sinistra ha un futuro, e ne ho timore”. “L’antisemitismo non è una cosa del passato, ha anche un futuro”, ha detto Finkielkraut. È evidente che la sinistra che parla di antisemitismo senza condannare con fermezza l’islam radicale non può essere credibile. Il caso francese è emblematico.
· Paragonare le foibe alla Shoah?
Quel canto rock per le vittime delle Foibe. Angela Lonardo il 18/01/2020 su Il Giornale Off. Il nuovo singolo degli Exempla ci racconta una crudele pagina di Storia. S’intitola You Can’t Go Back il nuovo singolo degli Exempla, la band formata da Marta Melis (voce), Carlo Piernovelli (batteria), Marco Damu (chitarra), Luciano D’Ortenzio (tastiere) e Daniele Baldani (basso). Un pezzo su cui si dipana un racconto triste e immaginario della violenza che subirono molti militari e civili durante i regimi totalitari. Ad accompagnarlo un video che è un vero e proprio corto, interpretato da Carlotta Graverini e Michele Ferlito, che esprime il dolore delle vittime deportate, torturate, uccise e gettate nelle Foibe.
Marta, come si inserisce questo singolo nel vostro repertorio?
«Solitamente, quando componiamo, puntiamo agli spazi atmosferici della psichedelica pink-floydiana, questa volta no. You Can’t Go Back è un pezzo di immediato impatto emotivo. Un brano carico di sonorità molto ruvide del basso e vigorose della chitarra. Replica la formula sonora del rock progressive, dalle linee semplici della batteria e melodiche della voce. Il finale è mutuato da un motivo insistente delle tastiere».
Relativamente ai contenuti, su cosa volete porre l’attenzione?
«Per quanto riguarda il testo, abbiamo voluto esprimere l’ardire dell’amore quando, liberandosi dalle prigioni mentali, s’innalza verso la luce. Il ritornello dice: “Sento che puoi volare verso il sole e non tornare indietro. Il mondo ha bisogno di te, adesso. La verità ha bisogno di te, qui“. Senz’altro, se c’è l’amore, il mondo può reggersi in piedi anche con scarsi mezzi economici. Il miglioramento economico e sociale è un dovere, oltre che un diritto. Ma occorre assegnargli un limite, occorre subordinarlo al progresso spirituale. A volte, mi pongo questa domanda: quanta gente vive una vita autenticamente umana? Purtroppo, nella storia dell’uomo, tante cose si ripetono, ma nessuna squallidamente come la malvagità».
Al brano avete legato un video che racconta la drammatica vicenda delle Foibe.
«Non c’è niente di più vecchio di questa tragedia umana. E’ un fatto. Le riprese, durante la produzione del video, sono state una rilettura emozionante di fatti che, seppur immaginati, ti toccavano dentro, profondamente. Le uccisioni avvenivano in modo terribilmente crudele. I condannati venivano legati l’un l’altro con un lungo fil di ferro. Aprivano il fuoco a raffica di mitra e li precipitavano sui fondali delle voragini. Soltanto nella zona triestina tremila persone furono uccise e gettate nella foiba di Basovizza e nelle altre foibe del Carso. Pensiamo che verità e libertà equivalgano a raccontare anche la storia. E noi lo abbiamo fatto in questo video».
Vi aspetta un live importante il 1° febbraio al teatro Greco di Roma: qualche anticipazione?
«Canteremo tutti i brani del nostro album, a cui si aggiungeranno delle chicche, ovvero dei pezzi in lavorazione e che presto incideremo. Quindi chi verrà avrà un’anteprima. Abbiamo in programma anche altri concerti, come quello in primavera ad Arezzo. Tutte le date sono sui nostri canali social».
In quale punto del loro percorso si sentono oggi gli Exempla e dove vogliono arrivare?
«Siamo riusciti a realizzare gran parte di quello a cui aspiravamo, ma non si è mai arrivati. La nostra meta è da sempre la buona musica, in grado di elevare la mente e l’anima».
"Paragonare le foibe alla Shoah? Un'aberrazione", esuli contro la Rai. La Federazione degli esuli giuliano-dalmati denuncia ai vertici Rai la ricostruzione "giustificazionista" della trasmissione Agorà. Elena Barlozzari, Sabato 21/12/2019, su Il Giornale. Il servizio pubblico torna a occuparsi di foibe, su Rai3. Potrebbe sembrare una conquista. Non capita di frequente (per non dire mai) che il tema venga toccato in giorni che non siano quelli "comandati" dal nostro legislatore, ossia a cavallo del Giorno del ricordo. Quasi fosse una cartellino da timbrare, una specie di cambiale. Purtroppo però il dibattito intavolato giovedì scorso durante la trasmissione Agorà si è trasformato in un’occasione persa. Al centro non c’era il dramma degli italiani del confine orientale, non un riferimento a quanti lasciarono le proprie case per scampare alle persecuzioni titine, ma la sterile contrapposizione tra orrori del Novecento. Un’assurda gara tra catastrofi della malvagità umana. L’epilogo era già scritto nelle premesse. Il “pretesto” per parlare della persecuzione degli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia è stata una polemica locale. Quella che ha visto protagonista la giunta di centrodestra di Civita Castellana, rea d’aver bloccato i viaggi della memoria ad Auschwitz. L’amministrazione non manderà più gli alunni a visitare il campo di concentramento simbolo dell’Olocausto, bensì il museo della Shoah e le Fosse Ardeatine a Roma. Il governatore Zingaretti, indignato dalla decisione, è intervenuto a gamba tesa facendo sapere che sarà lui a finanziare il progetto. Dal Viterbese lo hanno ringraziato della premura chiedendo però se avesse intenzione di conferire fondi anche per i viaggi alla foiba di Basovizza. Ecco qui la spinosa questione che l’illustre professore Mario Canali, ordinario di storia contemporanea all’università di Camerino e allievo di Renzo De Felice, è stato chiamato a dirimere. Da un punto di vista storico è corretto equiparare gli eccidi delle foibe alla Shoah? L’accademico non ha dubbi: paragonare le due tragedie è un’aberrazione. “Ritengo aberrante - dice - avvicinare i due fenomeni”. “Mettere insieme le due cose - continua il docente - è una forzatura terribile”. “La Shoah - spiega - è stato un genocidio, il tentativo di liquidare un popolo con l’uccisione di 6milioni di persone, un’uccisione organizzata da parte di uno Stato nei confronti di una popolazione che non aveva fatto nulla”. E le foibe? Le foibe sono diverse? Non c’era forse uno Stato, quello jugoslavo, che ha attuato delle vere e proprie purghe anti-italiane? In questo caso, pur non “giustificando” il massacro, lo storico contestualizza. “Lì ci sono stati venti anni di regime fascista, un’italianizzazione coatta con espropri dei beni da parte delle nuove autorità italiane, sono state abolite le scuole in lingua slava e imposti nomi italiani”. “Questo - precisa - non giustifica, ma fa capire il substrato su cui si innesta la reazione”. Quindi: “La Shoah nasce dal razzismo, le foibe da conflitti storici precisi limitati a quell’area”. La lettura dello storico ha diviso gli ospiti in studio. “Il professore ha detto delle cose aberranti - ha commentato la deputata di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli - non si fa una classifica dei morti, non ci sono morti di serie A e di serie B, alle vittime va riconosciuta la stessa dignità”. Stefano Fassina di Liberi e Uguali ha replicato accusando la Montaruli di negare l’Olocasuto. “Mi metti in bocca parole che non ho mai detto”, si è difesa lei minacciando di querelarlo. I toni incandescenti del dibattito sono stati smorzati dalla conduttrice, Serena Bortone, che ha introdotto l’argomento successivo. Ma la querelle è continuata fuori dagli studi televisivi. La Federazione delle associazioni degli esuli fiumani, istriani e dalmati, infatti, ha scritto ai vertici Rai. “Durante la trasmissione - si legge della missiva - è stata perpetrata un’ulteriore umiliazione del popolo della Venezia Giulia, dell’Istria, del Quarnaro e della Dalmazia”. “Gli interventi dei presenti in studio - denuncia FederEsuli - lasciavano trasparire la parola tanto cara a chi giustifica: contestualizzare”. “Quale nesso dovrebbero avere eventi accaduti in tempo di pace con la guerra? È giusto ammazzare l’amico/parente/conoscente di un fascista (se poi fascista era), in quanto amico/parente/conoscente di un fascista?”. “Per questo - si legge nelle ultime righe della missiva - vi chiediamo di considerare con maggior attenzione la nostra storia, di invitare nei programmi che raccontano di noi persone delle nostre associazioni, come giustamente avviene trattando drammi altrettanto importanti per il nostro Paese”.
· Il Giorno del Ricordo.
19 misure cautelari contro i collettivi rossi che negano le foibe. Stamani la Digos di Torino ha notificato 19 misure cautelari nei confronti degli estremisti di sinistra che hanno messo a ferro e fuoco l'università di Torino lo scorso 13 febbraio per opporsi ad un volantinaggio sulle foibe. FdI: "Via le borse di studio". Elena Barlozzari, Giovedì 23/07/2020 su Il Giornale. Il più giovane ha appena vent’anni, il più grande quarantuno. Sono diciannove le misure cautelari notificate questa mattina dalla Digos di Torino al gruppo di antagonisti che lo scorso 13 febbraio ha trasformato l’università in un campo di battaglia. Il Campus Einaudi dovrebbe essere il tempio della condivisione e della libertà di espressione, eppure da anni è ostaggio di una frangia di estremisti di sinistra, riconducibile al centro sociale Askatasuna, uno dei più turbolenti della città. Lo stesso al quale appartengono i cinque No Tav identificati lo scorso lunedì durante l’assalto incendiario al cantiere di Chiomonte. Gente, insomma, che non va per il sottile e si impone con la violenza. E infatti quel 13 febbraio i disordini sono partiti dal tentativo di silenziare i ragazzi del gruppo universitario Fuan, vicino a Fratelli d’Italia. Non è andato giù ai facinorosi dei collettivi universitari che gli attivisti di destra stessero distribuendo dei volantini sulle foibe all’esterno del Campus Einaudi. E così hanno cercato di forzare il cordone di agenti dispiegati a presidio dell’iniziativa. I disordini sono proseguiti anche il giorno successivo, e si sono conclusi con la devastazione dell’aula universitaria intitolata a Paolo Borsellino, assegnata ai ragazzi del Fuan, e il ferimento di otto poliziotti e due guardie giurate. Di quei due giorni di passione, adesso, gli indagati dovranno rispondere a vario titolo per i reati di rapina, resistenza a pubblico ufficiale, minaccia ad incaricato di pubblico servizio, violenza privata e danneggiamento. Inoltre, dopo l’esecuzione delle misure cautelari è stata sequestrata l’aula storicamente occupata dai collettivi universitari. Uno spazio arbitrariamente sottratto agli studenti, che la dice lunga sull’impunità di cui gode il gruppo. Non a caso, Andrea Montalbano, presidente del Fuan, li definisce “mafiosetti rossi”. “All’università di Torino i centri sociali controllano il territorio con minacce, violenze e atti vandalici, per questo motivo - ci spiega il rappresentante studentesco - non ci stupisce che abbiano messo nel mirino la nostra auletta dedicata a Paolo Borsellino”. “Basta tutele e premi nei confronti di chi devasta le nostre università”, è l’appello dell’assessore regionale Maurizio Marrone, che chiede al rettorato “una posizione chiara e sanzioni disciplinari certe per arrivare alla revoca della borsa di studio agli eventuali beneficiari coinvolti”. “Non è accettabile - prosegue Marrone - anche solo l’idea di poter assegnare una borsa di studio a chi si è macchiato di condotte gravissime dal punto di vista disciplinare, incompatibili con un beneficio economico finanziato dalla Regione e riservato a studenti meritevoli, invece che ai figli di papà che trattano l’ateneo come un parco giochi dell’antagonismo”.
Trieste, la più alta onorificenza italiana allo scrittore che nega le foibe. Fanno discutere le dichiarazioni rese all'emittente triestina Tele4 dallo scrittore slavo Boris Pahor, nominato Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana: "Le foibe? È tutta una balla". Elena Barlozzari, Lunedì 13/07/2020 su Il Giornale. “Vorrei vivere almeno fino al 13 luglio. Spero che mi invitino a dire la mia”. Sono le parole affidate lo scorso aprile a Il Corriere della Sera da Boris Pahor, scrittore triestino della minoranza slovena, che il 26 agosto taglierà il traguardo dei 107 anni. L’anziano si augurava di poter assistere alla restituzione dell’hotel Balkan, ex sede del giornale sloveno “Narodni Dom”, alla sua comunità. Lo stesso che all’età di sette anni vide bruciare. Un gesto attribuito agli squadristi triestini, in risposta alle violenze anti-italiane che si erano registrate a Spalato. Erano gli anni in cui lungo il confine orientale infuriavano le tensioni nazionaliste. Sono passati cento anni da allora. I tempi sono cambiati. Lo dimostrano gli scatti che ritraggono il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e l’omologo sloveno, Borut Pahor, mentre rendono omaggio agli infoibati di Basovizza e ai quattro fucilati del Tigr. Ed oggi i due capi di Stato hanno anche siglato l’atto che sancisce il ritorno dell’edificio di via Fabio Filzi alla comunità slovena. La cerimonia è proseguita con la consegna a Boris Pahor di due onorificenze. Mattarella lo ha nominato Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana, Borut Pahor gli ha conferito la “Red za izredne zasluge”, l’Ordine al merito straordinario della Repubblica slovena. “Dedico le onorificenze a tutti i morti che ho conosciuto nel campo di concentramento, e alle vittime del nazifascismo e della dittatura comunista”, è stato il commento del centenario. Dichiarazioni opposte a quelle rese dall’anziano ai microfoni dell’emittente locale Tele4, che lo ha intercettato poco prima della cerimonia. “Professor Pahor è contento di questo omaggio?”. “Molto”, risponde l’anziano, facendo riferimento ad una lettera di protesta inviata a Mattarella qualche mese fa. Non erano piaciute a Pahor le parole pronunciate dal capo dello Stato in occasione del Giorno del Ricordo. Perché? “Ha fatto un attacco all’armata jugoslava che ha gettato nelle foibe non so quanti italiani”, ricorda lo scrittore. Poi l’inaspettato scivolone: “È tutta una balla questa, non era vero niente”. Un commento che Massimiliano Lacota, presidente dell’Unione degli Istriani, definisce “bruttissimo”. “Bel modo - annota polemico - di dire grazie al nostro Paese per averlo insignito della più alta onorificenza, non vi pare?”. “In passato - ricorda Lacota - Pahor denunciò attraverso un libro i crimini partigiani commessi a guerra finita, e lo apprezzai molto, ora queste frasi pronunciate poco prima di essere ricevuto da Mattarella sono uno sgarbo che non possiamo comprendere nè accettare”.
Mattarella e Pahor a Trieste: anche la memoria può trasformarsi in condanna. Toni Capuozzo su Notizie.it il 13/07/2020. L'incontro tra i due presidenti è una carezza a ferite della Storia ancora aperte, ma anche i bei gesti rischiano di produrre il loro contrario. Inevitabile: l’immagine del presidente della Repubblica italiana e del premier sloveno Borut Pahor mano nella mano davanti ai monumenti che sul Carso triestino ricordano le cicatrici di due comunità confinanti ma finalmente in pace, riporta alla mente quella del presidente Francois Mitterrand e del cancelliere Helmut Kohl, nella stessa posa, davanti al monumento che a Verdun ricorda le stragi che i due paesi si inflissero a vicenda nella prima guerra mondiale. Ma allora era il 1984, e l’Europa era un sogno in lenta ma certa costruzione, resa più rapida e turbinosa, cinque anni dopo, dal crollo del muro di Berlino, dalla riunificazione tedesca, dalla fine dell’URSS, dalla dissoluzione sanguinosa della Yugoslavia. Quasi cinquant’anni dopo quella foto simbolo dell’unità europea, il presidente Mattarella e il premier Pahor ripropongono lo stesso gesto, una carezza a ferite della Storia più modeste, quanto a numeri, ma più profonde, cicatrici che ancora fanno male. Il fine è nobile: cercare di guadagnare a una memoria condivisa gli errori e le sofferenze consumate al confine orientale d’Italia: l’incendio della Narodni Dom, la Casa del popolo della comunità slovena a Trieste, la condanna a morte di irredentisti slavi da parte di Tribunale speciale fascista, l’orrore di foibe come quella di Basovizza, in cui furono gettati, a volte ancora solamente feriti, centinaia di persone senza colpa alcuna se non di essere un ostacolo alle mire titine su Trieste, a guerra finita. Troppa roba, viene da dire: un’indigestione di storia per un angolo d’Europa che è una specie di soffitta del ‘900, dove sopravvivono tensioni identitarie, residui di ideologie ferocemente contrapposte e tra i confini aperti si affaccia ogni tanto lo spettro dei nazionalismi. Ma anche eredità ingombranti, quando le comunità che in passato sono state contrapposte affrontano, se non agende, problemi comuni: la dialettica tra interessi nazionali e unità europea, le pressioni migratorie, la crisi del coronavirus. Forse sarebbe meglio spendere più energie sul futuro comune, piuttosto che su un passato divisivo. La memoria – che è un patrimonio importante, per non ripetere gli errori – può essere una specie di condanna, un aiuto a restare inchiodati sulle proprie posizioni. Forse solo il tempo guarisce, e i bei gesti rischiano di produrre il loro contrario. Per dirla tutta: mai distanziamento sociale fu più grato e benedetto, sul Carso e attorno al Nardoni Dom, nel cuore di Trieste. Avremmo avuto più minoranze contestatrici, ma anche il silenzio della maggioranza non avrebbe avuto un alibi.
"Foiba delle menzogne". Ecco la maglietta choc al presidio antifascista. "Basovizza la foiba delle menzogne" è lo slogan che campeggia sulla maglietta di uno dei partecipanti alla manifestazione indetta dagli antifascisti triestini. I promotori: "È solo un feticcio nazionalista". Elena Barlozzari, Domenica 12/07/2020 su Il Giornale. “Basovizza la foiba delle menzogne”. È lo slogan che campeggia sulla maglietta di uno dei partecipanti alla manifestazione indetta venerdì scorso dal Comitato Pace Convivenza e Solidarietà Danilo Dolci in piazza Oberdan a Trieste. Un evento per festeggiare la discussa riconsegna del “Narodni Dom”, che tornerà alla comunità slovena cento anni dopo il suo incendio, avvenuto il 13 luglio 1920. Non è il solo motivo per cui hanno deciso di manifestare. È stata anche l’occasione “per dire un deciso no ai nazionalismi, ai razzismi e ai fascismi di ieri, oggi e domani”. Ma quella maglietta dal sapore negazionista non è sfuggita a chi ha seguito l’edizione serale del telegiornale dell’emittente locale Tele4, che ha mostrato alcune immagini della manifestazione. E ne è nata subito una polemica. Emanuele Merlino, presidente del Comitato 10 Febbraio, parla di “uno slogan inqualificabile e inaccettabile che dimostra solo una cosa: l’odio contro l’Italia non passa mai di moda”. Roba da “nostalgici della stella rossa”. Mentre il consigliere regionale di Fratelli d’Italia, Claudio Giacomelli, punta il dito contro la logica dei due pesi e delle due misure: “Se una cosa del genere fosse stata detta di altre terribili tragedie del Novecento sarebbe giustamente scoppiato un putiferio nazionale, invece, in questo caso tutto tace”. È arrivato il momento, secondo Giacomelli, “di discutere le proposte di legge presentate da Fratelli d’Italia per far sì che il reato di negazionismo delle foibe e dell’esodo sia punito per legge”. “Fatti come questi - ragiona il consigliere - dimostrano che è necessario proteggere con ogni mezzo il ricordo dei nostri martiri da quelle frange della sinistra radicale che agiscono indisturbate in tutto il Paese”. Nessun imbarazzo, invece, per Luciano Ferluga, presidente dell’associazione promotrice della manifestazione. Raggiunto telefonicamente da Il Giornale, l’attivista ribadisce il concetto: “La foiba di Basovizza? È solo un feticcio nazionalista”. “Un mito - continua - creato ad uso e consumo di chi soffia sul fuoco dell’odio interetnico”. Gente che “ha manipolato la storia e strumentalizzato le vittime, costruendo sulle menzogne la propria fortuna politica”. Ovvero? “I partiti di destra, che sono gli eredi del regime fascista”. Il presidente del comitato Danilo Dolci non crede che nella foiba di Basovizza si sia consumato un eccidio così vasto come viene raccontato. “Adesso che i mezzi tecnologici ce lo permettono, bisognerebbe riaprire la foiba e vedere effettivamente quante furono le vittime per dare alle nuove generazioni la possibilità di capire cosa sia veramente accaduto sul confine orientale”, propone Ferluga. Per lui la tesi della pulizia etnica ai danni degli italiani è “una grande bugia”. “Violenza e giustizia sommaria - mette le mani avanti - vanno sempre condannate, però chi è finito lì dentro qualche colpa ce l’avrà pur avuta”.
La foiba di Basovizza e quella visita storica che sa di fregatura. Per la prima volta un leader sloveno omaggia le vittime italiane di Tito. Ma è una riconciliazione-bidone che ci costerà una trentina di milioni. Fausto Biloslavo, Domenica 12/07/2020 su Il Giornale. La prima volta di un presidente sloveno sulla foiba di Basovizza, che domani renderà omaggio con il capo dello Stato italiano al luogo simbolo delle vittime italiane di Tito. Il 13 luglio era partita come una giornata storica, ma rischia di trasformarsi in «bidone» storico e non certo riconciliazione grazie alle imposizioni di Lubiana e all'arrendevolezza italiana. Non solo la richiesta slovena di commemorare quattro fucilati durante il fascismo, ma anche medaglie non previste allo scrittore ultracentenario Boris Pahor, che si ricorda di azioni squadristiche quando aveva 6 anni. Tutto è partito dalla riconsegna alla minoranza slovena dell'ex hotel Balkan, il 13 luglio, esattamente 100 anni dopo l'incendio che distrusse l'allora Narodni Dom, la casa del popolo degli slavi di Trieste all'interno dell'albergo. Per la storiografia ufficiale fu un vile attacco fascista, ma dati, fotografie e testimonianze dimostrerebbero il contrario. E la riconsegna avviene non solo con Mattarella, ma una passerella di ministri, Di Maio, Lamorgese e Manfredi oltre a Patuanelli solo perché originario di Trieste. Una «riconciliazione» senza popolo, per evitare contestazioni e giornalisti. Gli esuli sulla foiba saranno ridotti a un sparuto gruppetto di una quindicina di persone grazie alla scusa delle norme anti virus, nonostante ci siano spazi chilometrici per il distanziamento. E con la stessa scusa, per evitare domande scomode, l'accesso alla stampa è vietato, a parte Rai Quirinale e forse il quotidiano locale, allineato e coperto, con diffusione in streaming in puro stile sovietico. Domani il presidente sloveno Borut Pahor e il capo dello Stato, Sergio Mattarella si incontreranno alla foiba di Basovizza, monumento nazionale. La prima volta di un presidente sloveno sul luogo simbolo delle violenze dei partigiani di Tito contro gli italiani, dopo la fine della seconda guerra mondiale. Non potevano mancare le reazioni dei negazionisti come Claudia Cernigoi e l'ex senatore del Pci, Stojan Spetic, di fatto appoggiati da uno stuolo di intellettuali e politici locali. Spetic è convinto che si tratti «di un'improvvisazione politica e una gratuita concessione al revisionismo storico delle destre». Dopo la foiba, Pahor, con un «ricatto», ha preteso in cambio di trascinare Mattarella davanti al cippo, sempre a Basovizza, dedicato a quattro membri dell'Organizzazione Rivoluzionaria della Venezia Giulia (Tigr), ultranazionalista slava, fucilati nel 1930 con una sentenza del tribunale speciale per la difesa dello Stato. «Secondo le attuali leggi italiane queste vittime sono considerate come terroristi - ha dichiarato Pahor alla tv slovena - Il gesto deve essere inteso come un atto silenzioso di riabilitazione politica dei membri del Tigr e di quei combattenti antifascisti attivi anche prima dell'inizio della seconda guerra mondiale». L'organizzazione clandestina si era macchiata di attentati, omicidi e sabotaggi, costati la vita a civili italiani e sloveni. Per Mattarella dovrebbe suonare almeno imbarazzante l'atto di fede dei «martiri» di Basovizza. «Giuro davanti a Dio, sull'onore mio e della mia famiglia, che farò tutto il possibile per la liberazione del Litorale (Venezia Giulia nda), che deve essere unito alla Jugoslavia» ripetevano gli irredentisti slavi. Lo stesso tentativo annessionistico che riuscì a Tito dopo il 1945, a parte Trieste, dove ci ha lasciato come ricordo della sua occupazione di quaranta giorni la foiba di Basovizza. Le mosse slovene e italiane hanno spaccato gli esuli istriani sull'intera giornata del 13 luglio. Federesuli, a cominciare dall'Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, difendono l'evento. Il presidente, Renzo Codarin «comprende che i presidenti, in nome della pacificazione, devono fare anche questo passaggio» al monumento dei fucilati di Basovizza. Massimiliano Lacota, leader dell'Unione degli istriani non ci sta: «A queste condizioni non vado alla foiba. Se lo facessi, sarei obbligato a usare un mezzo della Prefettura, che poi si reca anche al monumento dei fucilati, perché tutta la zona sarà blindata. I morti si rivoltano nelle tombe. Il 13 luglio è diventato un atto politico, tutto fuorché un omaggio sincero agli infoibati». In prefettura i capi di Stato firmeranno la cessione del palazzo dell'allora hotel Balkan alla comunità slovena, ma anche croati e serbi rivendicano il loro spazio. Secondo la storiografia ufficiale l'incendio del Balkan, sede del Narodni Dom, un insieme di circoli economici, culturali e ultra nazionalisti delle comunità slave, è il primo atto del fascismo triestino. La Lega nazionale e la fondazione Rustia Traine presieduta dall'ex parlamentare, Renzo de' Vidovich, sostengono che la storia è completamente diversa. Nella notte fra l'11 e 12 luglio di 100 anni fa vengono uccisi a Spalato il comandante della nave «Puglia» Tommaso Gulli e il motorista Aldo Rossi in tafferugli con gli slavi. Il giorno dopo, a Trieste, si organizza una manifestazione italiana di protesta e muore il patriota Giovanni Nini, 17 anni, per mano degli slavi. Secondo de' Vidovich «gli jugoslavisti armati (come venivano chiamati allora i nazionalisti slavi nda) si rifugiano nell'hotel Balkan rincorsi da una folla, che voleva vendicare la morte di Nini». Il secondo piano dell'albergo si sospetta fosse una specie di arsenale e proprio da una di quelle finestre vengono esplosi colpi di arma da fuoco e lanciata la granata che uccide Luigi Casciana, tenente del Regio Esercito in servizio di ordine pubblico. Poco dopo divampano le fiamme, proprio dal secondo piano, che in breve distruggono il palazzo. Per la storiografia ufficiale è opera dei fascisti, ma secondo la pista alternativa l'origine sarebbe uno scoppio nella santabarbara slavista o l'incendio scaturito dalla distruzione di documenti compromettenti.
La Slovenia ha sempre chiesto la restituzione dell'edificio per la sua comunità a Trieste, oggi sede della «Scuola per Interpreti e Traduttori». Nel 2017 il ministro degli Esteri, Angelino Alfano, a caccia di voti per la sede dell'Agenzia europea per i medicinali a Milano (Ema) ottiene l'appoggio sloveno in cambio dell'ex Balkan. L'Italia perde l'Ema, ma Lubiana passa comunque all'incasso. Il risultato è che la riconsegna della Casa del popolo agli sloveni ci costerà 10 milioni di euro oltre al valore attuale del palazzo di 13 milioni. Peccato che per la vicenda del Balkan avevamo già costruito per la comunità, nel 1964, il teatro sloveno e speso altri soldi. In tutto la «riconciliazione-bidone» e blindata ci costerà una trentina di milioni.
Quelle colpe dell'Italia che offende Trieste e gli esuli. Per più di venti secoli Trieste ha combattuto per mantenere la sua identità. Oggi però l'Italia sembra essersene dimenticata. Alma Cosulich Gabrielli, Domenica 12/07/2020 su Il Giornale. Per più di venti secoli Trieste, Tergeste romana con i suoi monumenti, i numerosi Martiri cristiani e chiese a loro dedicate, resiste alle invasioni barbariche, diviene Libero Comune e sa difendersi dalla lunga dominazione austriaca e da quella, seppur brevissima, francese, mantenendo sempre la propria identità e la propria lingua, quella di Dante.
Dal 1815 al 1918 Trieste è nuovamente sotto dominazione austriaca. Numerosi sono i triestini che anche nel 1800 operano per rendere la città, conscia delle proprie origini, più grande e più funzionale. Cito Domenico Rossetti (1774 - 1842) che abbellisce la città e crea le assicurazioni sociali, l’Istituto dei Poveri, l’ospedale, circoli di cultura come La Società Minerva, il Lapidario, a testimonianza dell’antica civiltà, l’acquedotto. Elenco solo alcuni altri nominativi di scrittori, storici, editori e giornalisti, tutti patrioti quali Giovanni Orlandini fondatore nel 1836 assieme a Pasquale Besenghi (1797-1849) e ad Antonio Madonizza (1806 -1870) del giornale “la Favilla”, chiuso dall’ Austria dieci anni dopo. Pietro Kandler (1804-1872), Francesco Hermet (1811 -1880), Giuseppe Caprin (1843 -1904), Riccardo Pitteri (1853 -1915), Attilio Hortis (1850 - 1926), Felice Venezian (1851 - 1908), Attilio Tamaro (1884 – 1956). Della loro attività molto sarebbe da citare.
Dal 1831 al 1842 sono fondate le Assicurazioni Generali, la Riunione Adriatica di Sicurtà, e la Cassa di Risparmio. Triestini, nel 1848, nel 1859 e nel 1866 partono per andare a combattere nelle schiere d’Italia e manifestazioni a Trieste vengono stroncate dalla Polizia austriaca. Dopo la perdita della Lombardia (1859) e del Veneto (1866), l’Austria decreta che bisogna: “Contrapporsi energicamente all’influsso preponderante dell’elemento italiano in questi territori nominando persone di fiducia nei pubblici impieghi nel tentativo di germanizzare o slavizzare con ogni sforzo questi paesi.” Nel 1868 punta sull’elemento slavo. A questo scopo infiltra slavi in tutti i dicasteri del Governo austriaco. Questi infatti vuole con le immigrazioni, oltreché ridurre l’italianità della città, creare il terzo stato (trialismo) dell’Impero, quello slavo ed incorporarvi la città. E incominciano, con l’illusione di costituirlo, artificiosi insediamenti continuati massicciamente, nel primo decennio del 1900, come risulta dai censimenti austriaci del 1900 e 1910.
Nel 1868 una manifestazione di protesta si conclude con l’uccisione di Rodolfo Parisi e il ferimento di quattordici persone da parte delle guardie austriache. Nel 1881 viene fondato il giornale Il Piccolo.Gli associati delle tante società, fra cui cito Ginnastica, Filarmonica, Minerva, Propatria, sono desiderosi di congiungersi alla Madre Patria. Dopo la chiusura di queste società da parte dell’Austria, sono rifondate con altro nome. Sorge la Lega Nazionale (1891).
Il giovane Guglielmo Oberdan nel 1882 viene impiccato perché reo di intenzione. Al “Circolo artistico” viene affidata l’organizzazione di concorsi annuali di canzoni anche dialettali che, dal 1890, avendo trovato sempre maggior consenso, si svolgeranno al teatro Rossetti. Ricordo l’ “Inno della Lega”, “Lassè pur. che i canti e subi”, l’ “Inno a S.Giusto”, “Cari Stornei”, “La campana di S.Giusto”.
L’Edinost, giornale sloveno favorito dall’Austria, scrive il 7 gennaio 1911: “Non abbandoneremo la nostra lotta fino a quando non avremo sotto i piedi, ridotta in polvere, l’italianità di Trieste. Fino ad ora la nostra lotta era per l’uguaglianza, domani diremo agli Italiani che la nostra lotta è per il dominio. Non cesseremo finché non comanderemo noi. L’italianità di Trieste, che si trova agli sgoccioli, festeggia la sua ultima orgia prima della morte. Noi, sloveni, inviteremo domani questi votati alla morte, a recitare il confiteor.” Se non altro, erano parole chiare.
Nel 1913 una manifestazione per ottenere l’istituzione dell’Università italiana viene soffocata con molti arresti. Sarà nel 1915, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, che vengono distrutte, ed alcune incendiate, varie sedi fra cui quella del Piccolo, della società Ginnastica ed anche il caffè S.Marco. Più di mille triestini e istriani si arruolano nelle file dell’esercito italiano rischiando la forca (si veda Nazario Sauro) ed alcuni meriteranno la medaglia d’oro al valor militare. Il 3 novembre 1918 migliaia di triestini, dopo tre giorni di attesa sulle rive, accolgono festosi l’arrivo del cacciatorpediniere Audace: l’Italia, tanto desiderata, è arrivata!
L’11 luglio 1920: a Spalato vengono colpiti a morte Tommaso Gulli e Aldo Rossi, rispettivamente Capitano di Corvetta e fuochista della nave Puglia, che moriranno il giorno dopo. Il giorno 13 luglio 1920 segue una manifestazione italiana in piazza dell’Unità contro le uccisioni di Spalato e per mano serba viene ucciso il giovane Giovanni Nini. I manifestanti allora si recano verso l’Hotel Balcan (grande albergo con ristoranti e sale di ritrovo e vari appartamenti) sede di Iugoslavisti e presenti, in alcune stanze, gli sloveni. In una sparatoria, partita dal secondo piano, viene ferito mortalmente il tenente Luigi Casciana, che morirà poche ore dopo. Ci sono anche numerosi feriti. L’incendio è partito dall’alto, dall’interno dell’edificio. La propagazione del fuoco è facilitata dagli esplosivi quivi depositati, infatti, per la durata di tre ore, si sentono scoppi di bombe a mano e di munizioni, come da testimonianze ufficiali.
Nel 1930 autori di vari atti di terrorismo, quali attentati ad asili, a scuole, a caserme ed al Faro della Vittoria, accusati della morte del redattore Guido Neri, vengono processati e condannati alla pena capitale. Erano appartenenti al TIGR (volevano che diventassero slave Trieste, l’Istria, Gorizia e Fiume- oggi Rijeka). Questa condanna era, anche a giudizio di osservatori stranieri, legittima e conforme a leggi vigenti in Paesi europei come ad esempio l’Inghilterra.
Trieste, alla fine della seconda guerra mondiale, dal primo maggio 1945, subisce 40 giorni di terrore da parte dell’occupatore jugoslavo: deportazioni di migliaia di persone, in gran parte infoibate altre avviate a durissimi campi di concentramento, massacri, rapine… Da ricordare, il 5 maggio, giorno in cui una marea di persone si avvia lungo il corso Italia verso la piazza Goldoni, cantando inni italiani, quando la raffica di una mitragliatrice lascia sul terreno cinque morti e dieci feriti. Gli Alleati, giunti il 2 maggio, assistono impotenti e, probabilmente, in seguito ad interventi del maresciallo Alexander presso lo stato Maggiore Interalleato, riescono il 12 giugno a far lasciare la città agli occupatori. Nei mesi di luglio ed agosto gli Alleati estraggono dalla foiba di Basovizza 450 metri cubi di resti umani; per le gravi cause igieniche, sono costretti a chiuderla. Esperti stabiliscono che essa contiene ancora circa 300 metri cubi di salme. Tante altre foibe esistono nel circondario.
Il 3 ed il 4 novembre del 1953 vedono altri morti. Durante una manifestazione vengono uccise dalla Polizia Civile due persone: il quindicenne Piero Addobbati ed Antonio Zavadlil e nella manifestazione successiva altre quattro: Erminio Bassa, Nardino Manzi, Saverio Montano, Francesco Paglia.
Nel 1954, con il Memorandum di Londra, solamente a Trieste, fra un tripudio di folla, ritorna l’Italia. In questo atto l’Italia si impegna a “mettere a disposizione i fondi per la costruzione e l’arredamento di una nuova sede culturale in via Petronio” ed il ministro jugoslavo A. Bebler sottolinea che “questo gesto dovrebbe sostituire il Narodni Dom incendiato dai fascisti nell’anno 1920. Con questo si pone rimedio ad una delle gravi conseguenze delle violenze fasciste in un recente passato”.
Nel 1975, la Slovenia, allora regione jugoslava, con il Trattato di Osimo, ha incorporato cittadine italianissime come Capodistria, Isola, Pirano, assicurandosi lo sbocco al mare e non restituendo, a chi era stato costretto a fuggire, “né una casa né un mattone”. Dal 1971 la comunità slovena, che risultava essere del 5,72% a Trieste e dell’8,23% in provincia, non si fa censire. Da notare che questo è ritenuto indispensabile dalla Convenzione Quadro per la protezione delle minoranze del 1995, firmata anche dalla Slovenia.
I triestini, sotto il giogo straniero, anche se perseguitati, sono riusciti a difendersi e a mantenere la propria identità cristiana e italiana. La caratteristica di questa città è proprio la capacità di accogliere chiunque vi venga a vivere, per qualunque ragione (Ebrei, Austriaci, Greci, Tedeschi, Armeni, Serbi) condividendo la lingua e la cultura italiana, pur nella libertà ed il rispetto delle origini e della storia di tutti. Si vedano per esempio la Sinagoga, la Chiesa armena, le Chiese greco-ortodossa e serbo-ortodossa. Oggi costituisce un ulteriore oltraggio alla verità storica ed alla giustizia concedere la sede di una facoltà dell’Università degli Studi di Trieste, in presunta riparazione di gravissimi fatti accaduti 100 anni fa, di cui non sono chiari tutti gli aspetti quali la reale proprietà, la destinazione d’uso, l’origine dell’incendio, le esplosioni succedute per tre ore; e questo avviene dopo che già si era provveduto ad un oneroso risarcimento con la costruzione di un edificio. È improponibile inoltre che gli Italiani si trovino a rendere omaggio ai fucilati di Basovizza. La mancanza di dignità di fronte a chi non nasconde che vuole anche Trieste, dopo aver avuto l’Istria, reca un profondo dolore. Non è questa l’Italia tanto sognata, desiderata, amata dai Triestini. La Pace e la Fratellanza hanno il loro fondamento nella Giustizia.
Quattro ragioni per cui l'incendio fascista di Trieste divide ancora dopo un secolo. David Bidussa il 09 luglio 2020 su L'Espresso. L'Hotel Balkan in piazza Oberdan a Trieste (Archivi Alinari) Quattro ragioni per cui l'incendio fascista di Trieste divide ancora dopo un secolo. Il 13 luglio del 1920 le fiamme devastarono il Narodni Dom. Oggi il presidente Mattarella riconsegna l’edificio alla comunità slovena. Ma quei fatti parlano ancora al nostro presente ben più di quanto crediamo. Intorno all’incendio del Narodni dom si sono raccontate molte storie. Una cronaca di parte fascista (Michele Risolo, “Il fascismo nelle Venezia Giulia dalle origini alla marcia su Roma”, 1932) lo descrive come l’ultimo atto di un assedio all’inizio non violento. Francesco Giunta - il ras del movimento fascista triestino - incita la folla all’assedio del palazzo. Sono le 17.30 di martedì 13 luglio 1920. «Per due ore non accade niente», scrive Michele Risolo: «Poi da una finestra spunta una figura con la pistola, mentre dal tetto alcuni assedianti lanciano delle bombe a mano». E poi prosegue: «Allora i fascisti che circondavano l’edifizio dalla parte di terra, irruppero contro gli ingressi, ne scardinarono i cancelli e le saracinesche, lo invasero e, lasciato che alcuni passeggeri si mettessero in salvo, consegnarono agli agenti e ai soldati il gruppo dei forsennati che s’era asserragliato in una delle stanze più interne. Piazza Oberdan, la grande via Carducci, tutte le vie adiacenti mareggiavano di folla urlante e imprecante. Frattanto, dietro ordine di Giunta che cercava di contenere il tumulto per evitare inutili sacrifìci di vite umane, un gruppo di squadristi, guidati da Carlo Lupetina, era riuscito a requisire, nei dintorni, alcune latte di combustibile. Constatato che nessun essere vivente era più nell’interno dell’edifizio, richiamati gli squadristi che avevano invaso il tetto. La prima squadra fascista, agli ordini diretti di Giunta, coadiuvato dal Lupetina, diede mano alle latte di benzina e il fuoco divampò». Consideriamo ora una cronaca di parte avversa. Ai primi di luglio, racconta Claudio Silvestri (“Dalla redenzione al fascismo. Trieste 1918-1922”, 1959), si verificano scontri a Spalato tra popolazione slava e ufficiali italiani. La notizia degli scontri giunge a Trieste e il Fascio locale promuove una manifestazione antislava. Durante la manifestazione si hanno incidenti e tafferugli e un giovane dalmata muore senza che sia chiaro chi lo uccide. Francesco Giunta, leader locale del Fascio di combattimento, scrive Silvestri, «intuì che era il momento dell’azione. “Al Balkan! Al Balkan” è il grido dei manifestanti. Tre colonne si formarono: una precipitò per Via Roma; un’altra per via San Spiridione; la terza colonna, attraversato celermente il Corso, piegò per via Dante. Poco dopo, sboccando da più parti, la massa fascista, seguita dall’immensa fiumana di popolo, bloccava da tutti i lati l’imponente mole del Balkan e lo assediava, al comando di Giunta…scardinate le porte, che erano sbarrate… i fascisti gettarono all’interno dell’edificio delle latte di benzina e vi appiccarono il fuoco che durò per un’intera settimana, in quanto i vigili del fuoco, subito accorsi sul posto al primo allarme, erano stati impediti dai fascisti ad intervenire per domare l’incendio». I fatti del 13 luglio 1920 a Trieste bruciano ancora cento anni dopo e parlano al e del nostro presente più di quanto non crediamo. Quattro questioni ci riguardano ancora oggi.
Prima questione. A lungo la data del 13 luglio 1920 ha dormito nella coscienza pubblica, fuori da Trieste. Ma anche a Trieste ci ha messo del tempo per proporsi come data nel calendario civile della città. In altre parole, gli avvenimenti del 13 luglio 1920, come tutto ciò che riguarda la storia, sono una memoria costruita, più che un passaggio che si fissa subito nella memoria. I fascisti triestini la ricordano nel 1921 (nel primo anniversario) come l’atto di fondazione del movimento. Poi non ne parleranno più per dieci anni, fino al 1930. Nel 1932, alla Mostra che il regime dedica al decennale della Marcia su Roma quell’episodio non c’è. Negli anni del regime l’attenzione si sposta sulla memoria di Guglielmo Oberdan, di Nazario Sauro. Lentamente il “Balkan” scompare dalla memoria fascista. Quella scena, invece, rimane nella memoria della popolazione slovena (come ha ricordato Boris Pahor, su “Il Sole 24 Ore”).
Seconda questione. L’incendio del “Balkan” avviene con una folla che applaude. Primo segno della “zona grigia” di chi assiste ai fatti della storia, e si adegua. Scena che da allora si ripeterà molte altre volte, non solo a Trieste, ma che quel giorno ha un primo atto pubblico. Ma, soprattutto, il “Balkan” non è l’unico luogo che prende fuoco quel giorno. Ci sono almeno altri venti luoghi che segnano le tappe di devastazione che illuminano Trieste fino a notte inoltrata. Anche per questo tutta la discussione “tecnica” su chi appicca il fuoco al “Balkan” è di scarso interesse. Perché il tema è la violenza che si scatena in tutta la città e non solo chi dà fuoco a un luogo.
Terza questione. Trieste è stato spesso il segno di storie opposte e in conflitto che non hanno sopportato la presenza di “altri”. Un luogo dove segnare la propria presenza significa mettere una bandiera, espellere o silenziare le culture altre. Una scelta che non riguarda solo gli italiani, riguarda egualmente tutte le altre presenze nazionali in quel vasto territorio che è segnato da molti luoghi di memoria intrisi di sangue. Tanto per citarne alcuni: Basovizza, l’isola di Arbe, Fiume, la Risiera di San Sabba. Quattro luoghi molto vicini tra loro che, tutti insieme, raccontano il Novecento e con cui, molti, hanno difficoltà a misurarsi prendendoli in carico tutti insieme.
Quarta questione. A Trieste, quel giorno, e poi molte altre volte, nasce una nuova idea di “Italia”. Quel giorno a Trieste si afferma un’idea di nazione che ha come suo pilastro la messa al bando delle culture altre. Quella convinzione ha il suo precipitato, tre anni dopo, nel profilo culturale della riforma scolastica Gentile, un pilastro essenziale nell’«educazione dell’italiano». Cento anni dopo siamo ancora lì, non solo a Trieste, a fare i conti con la riforma fascista di più lunga durata.
Foibe, vergogna Rai: gli strafalcioni sulla visita di Mattarella e tutte le verità che hanno nascosto. Roberto Menia martedì 14 luglio 2020 su Il Secolo D'Italia. «La mia Patria mi fa male». Vien voglia di dirlo, come Brasillach, «per i giuramenti non mantenuti, per il suo abbandono e per il destino, per i suoi doppi giochi». È appena passato il giorno, dipinto come storico, dell’incontro tra i presidenti della repubbliche d’Italia e Slovenia, Mattarella e Pahor. Il Gr1 Rai apre così l’edizione del mattino. «Visita in Slovenia del presidente Mattarella: mano nella mano davanti alla foiba di Basovizza, è lo storico gesto che ha compiuto il capo dello stato con l’omologo sloveno, Pahor a Trieste dove hanno poi firmato un protocollo d’intesa per restituire alla comunità slava dopo 100 anni il Narodni dom, la casa di cultura bruciata nel 1920 dai fascisti, un gesto simbolico ricco di significato».
Per la Rai Trieste sta in Slovenia. Apprendiamo dunque dalla Rai, Radiotelevisione Italiana, che Trieste sta in Slovenia e così la Foiba di Basovizza. Chi paga e assume questi ignoranti? È possibile ascoltare roba simile? E poi, come mai non si spiega agli ascoltatori che cos’è la Foiba di Basovizza? Perché non si dice che fu riempita di 500 metri cubi di cadaveri di italiani di Trieste nei giorni funesti dell’occupazione jugoslava e comunista del maggio 1945? Meglio dire invece dell’incendio fascista del Narodni dom del… 1920, quando in Italia c’era il governo Giolitti e la Marcia su Roma sarebbe venuta due anni dopo.
Le parole di Abdon Pamich. Un grande italiano, Abdon Pamich, campione olimpionico a Tokio nel 1964 nella 50 km di marcia, ma soprattutto esule da Fiume, ha commentato con tristezza profonda la giornata: «Una corona di fiori in cambio di un palazzo. E noi ancora aspettiamo la restituzione delle case e delle nostre terre. Vincono sempre loro…». E rivolto al Presidente Mattarella ha chiuso: «Non sarete mai lasciati soli, ci avevano promesso, ecco qua. Meglio lasciar perdere». Parole sacrosante e amare.
La pacificazione? Non è così. Da decenni gli esuli istriani, fiumani e dalmati attendevamo un atto di scuse e di contrizione da parte di un presidente dei paesi eredi della ex Jugoslavia, ma ciò che è avvenuto ci ha lasciato l’amaro in bocca. La foto di Mattarella e Pahor che si tengono per mano a Basovizza dovrebbe essere il simbolo di una vera pacificazione. Ma non è così. Dietro ci sono troppe falsità, omissioni, baratti di bassa lega. E infatti il popolo non c’era, tutte cerimonie blindate e inaccessibili, meglio evitare…
Quelle tre piccole aste con le bandiere dell’Italia. Circola in rete un imbarazzante video dei preparativi alla foiba di Basovizza per l’arrivo dei presidenti: vengono issate tre piccole aste con le bandiere di Italia, Slovenia ed Unione Europea e viene ammainato il tricolore che alto svetta sempre sopra la foiba. Poteva dare fastidio.
L’incendio all’hotel Balkan. L’omaggio alla foiba di Basovizza avviene il 13 luglio, data che gli sloveni assumono essere simbolo delle violenze italiane e fasciste ai loro danni. 100 anni fa, quel giorno, fu incendiato a Trieste l’hotel Balkan (una parte era il “Narodni dom”, cioè casa del popolo) al termine di una manifestazione italiana. Si dimenticano di raccontare che la manifestazione era nata a seguito dell’eccidio di Spalato di due giorni prima – in cui i croati uccisero il comandante Tommaso Gulli e il motorista Aldo Rossi – sulla nave Puglia (quella che d’Annunzio volle poi al Vittoriale, simbolo dell’italianità assassinata in Dalmazia).
La Rai dimentica di raccontare che…Si dimenticano di raccontare che ai margine della manifestazione triestina fu ucciso a coltellate da un gruppo di slavi un ragazzo di 17 anni, Giovanni Nini, e gli assassini si rifugiarono al Balkan, centrale degli “yugoslavisti” di allora. Si dimenticano di dire che quando la folla esasperata si lanciò tumultuosamente al Balkan, da lì iniziarono a sparare uccidendo un ufficiale italiano, Luigi Casciana. Poi ci fu l’incendio: il Balkan continuò a bruciare ed esplodere perché all’interno vi era una vera e propria santabarbara.
Nessuna parola da Pahor sulle foibe. Il presidente Pahor nel suo discorso ha detto: “Dopo 100 anni giustizia è fatta, ci viene restituito il Narodni dom, ora il torto è riparato”. Nessuna parola sulle foibe. Ed infatti l’Italia regala alla comunità slovena l’edificio di Via Filzi, nel pieno centro di Trieste, ricostruito con fondi pubblici e che fino ad ora era sede universitaria (che viene sfrattata) come s’era impegnato a fare l’ex ministro degli esteri Angelino Alfano il 9 novembre 2017 in cambio del voto sloveno per avere l’Agenzia Europea del Farmaco a Milano (cosa ovviamente perduta).
Quegli eroi erano terroristi. Ma non basta. Pahor, per venire alla foiba di Basovizza, oltre alla consegna dell’ex Balkan pretende dall’Italia l’omaggio ai quattro fucilati del 1930, quelli che loro chiamano eroi. Ma erano terroristi responsabili di attentati dinamitardi e incendiari, dal Faro della Vittoria alle scuole e agli asili della Lega Nazionale e dell’Italia Redenta, a istituzioni e giornali come il Popolo di Trieste dove fu ucciso il giornalista Guido Neri e furono gravemente ferite altre tre persone. Appartenevano un’organizzazione clandestina, denominata TIGR (acronimo di Trst, Istra, Gorica, Rjeka, cioè Trieste, Istria, Gorizia, Fiume) che operava per annettere queste terre al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, poi diventato Jugoslavia. Precursori di Tito, in pratica.
Un paragone inaccettabile. Anche a questa richiesta Mattarella si è piegato ed il presidente della Repubblica Italiana ha reso omaggio ai terroristi anti italiani tenendosi per mano con Pahor: una parificazione inaccettabile tra i martiri innocenti della foiba di Basovizza, simbolo delle migliaia di italiani assassinati dai comunisti slavi, e i terroristi rei confessi del Tigr.
Assurdo quel che è accaduto a margine della consegna. Verrebbe infine da ridere, se non facesse piangere e disgustasse, quanto accaduto a margine della consegna, alla prefettura di Trieste, delle massime onorificenze di Italia e Slovenia allo scrittore Boris Pahor. L’ultracentenario sloveno ha pubblicamente rivendicato di avere scritto una lettera di contestazione a Mattarella il 10 febbraio scorso, giorno del ricordo “per l’attacco all’armata yugoslava dicendo che ha fatto gettare nelle foibe non so quanti italiani”. “E’ tutta una balla – ha detto Pahor – non è vero niente”.
Il negazionismo militante. Negazionismo militante che mal si concilia con l’onorificenza appena concessagli: il Quirinale non ha nulla da dire? D’altra parte, tuttora, dal colle più alto si fa orecchie da mercante sulla richiesta degli esuli di cancellare l’onorificenza (concessa allora da Saragat) a Tito, il maresciallo assassino, che risulta ancora Cavaliere di Gran Croce della Repubblica Italiana decorato di Gran Cordone.
Chi chiederà giustizia? Questo dunque il risultato della “giornata storica”. Ha ragione Abdon Pamich nella sua triste considerazione. Ecco perché questa patria ci fa male: non ne possiamo più di vederla così, prona, dimentica, ignorante, bugiarda. E intanto aspettiamo una giustizia che non arriva. Cinquanta, sessanta, settant’anni fa cacciarono 350.000 italiani dall’Istria, da Fiume, da Zara e rapinarono ai nostri nonni, padri e madri, decine di migliaia di case, di beni, oltre che di vite e di ricordi. Nessuno ci ha restituito neppure un mattone. Chi chiederà giustizia per noi?
Il 10 febbraio è “Il Giorno del Ricordo”: le foibe, l’esodo, ma cosa sanno gli italiani? 350 mila italiani fuggirono dall'Istria, Fiume e Dalmazia per scampare all'orrore delle foibe dei soldati di Tito. In Italia si ricorda, ma con "dopotutto erano fascisti..." Elisabetta de Dominis su lavocedinewyork.com il 9 Febbraio 2020. Siamo stati alla presentazione a Trieste del libro “10 FEBBRAIO. Dalle foibe all’esodo”, sulle 50 testimonianze raccolte da Roberto Menia
Lunedì è il 10 febbraio, “Il Giorno del Ricordo”, e molti italiani ancora non sanno che cosa si DEVE ricordare, perché non sanno cosa hanno patito, nel dopoguerra per dieci anni, gli italiani che abitavano le regioni dell’Istria e della Dalmazia, lungo la costa orientale d’Italia, che ora appartengono a Slovenia e Croazia. Non sanno ancora cosa significhino le parole ESODO e FOIBA. Devo dire che mi si rivoltano le budella quando l’estate ritorno nell’isola della mia famiglia, Arbe nel Quarnero, e sento dei turisti italiani, ignari della storia, chiamarla con il suo nuovo nome Rab. Sì, penso: Rabbiosamente Rab. Ma che cavolo di nome è Rab? E’ stata Arba dai tempi degli antichi Romani, che la fondarono, per secoli. Lussinpiccolo è diventata Mali Lusinj e bene non gli fa… Ragusa, la sesta repubblica marinara italiana, è oggi Dubrovnik. Assonanza con Diabolik… Ma ci sono tanti altri nomi cacofonici: basta guardare la carta geografica. Per esempio Goli Otok, ossia l’Isola Calva, il gulag dell’Adriatico dove i deportati denutriti erano costretti dai loro guardiani titini a spostare pietre tutto il giorno mentre venivano picchiati da altri deportati sotto il sole cocente fino a che si ammazzavano tra di loro. Quando mi appare, percorrendo la costiera, questa terra di sole pietre, penso sempre che esse siano le ossa pietrificate di quei disgraziati. I quali nella maggior parte erano comunisti: italiani che da diverse regioni della penisola si erano trasferiti per vivere il sogno comunista oppure jugoslavi d’ideologia stalinista, che Tito aveva deciso dovessero scomparire, non prima però di averli fatti soffrire in modi indicibili (ho scritto una minima parte delle efferatezze perpetrate). L’immane tragedia dell’esodo di 350 mila italiani è stata la conseguenza della PAURA, alimentata dalle continue “sparizioni” di connazionali da parte dei comunisti jugoslavi, tra le quali le più “riuscite” erano quelle di gettarli vivi nelle foibe (voragini naturali del terreno carsico) dell’Istria o mutilarli e annegarli con una pietra al collo nel mare della Dalmazia. In questi giorni fervono in diverse regioni italiane incontri “culturali” organizzati da sedicenti storici di etnia slovena, nati a Trieste o in Istria, che sostengono che le foibe siano un falso storico. E qui mi viene da vomitare. E mi chiedo come il nostro Stato permetta quest’ultima umiliazione nei confronti di suoi connazionali. A meno che non ci sia ancora un po’, molta, malafede nel convincimento di certe amministrazioni comunali: “Dopotutto erano fascisti…” Oltre undicimila abitanti inermi, donne, bambini ammazzati, tutti fascisti??? “I nostri genitori, anche qui in Italia, continuavano a parlare sottovoce: era opportuno non farsi sentire, se non si voleva esser tacciati da fascisti. Se oggi abbiamo la possibilità di parlare a testa alta, senza paura di farci sentire, lo dobbiamo all’onorevole Roberto Menia che nel 2004 ha istituito il Giorno del Ricordo” ha detto Massimiliano Lacota, presidente dell’Unione degli Istriani giovedì scorso, a Trieste, alla presentazione delle 50 testimonianze raccolte da Menia in “10 FEBBRAIO. Dalle foibe all’esodo”. Seduta vicino a me la signora Gigliola di Cherso (chiamata così dagli antichi Greci, che i croati hanno pensato bene di modificare in Cres) ha commentato: “Quando uno ha un grande dolore, non parla”. Piero Del Bello, direttore del Museo degli Istriani, Fiumani e Dalmati ha spiegato che “esule lo sei per obbligo, migrante per scelta, anche se terribile”, aggiungendo che “a casa mia non si parlava proprio, per quel senso di pudore che si era trasformato in vergogna perché non avevi più niente: famiglia, casa, terra. Come puoi ricordare, costruire una memoria se non hai più quel terreno fertile che aveva fatto stare in piedi la tua storia da generazioni? La vergogna si è trasformata in paura, che non ha mai più abbandonato le nostre genti. Bisogna scrivere la propria storia, altrimenti finisce nel silenzio. E Roberto invece ha avuto la fortuna che sua mamma gli ha raccontato.” Lo scrittore siciliano Pietrangelo Buttafuoco ha commentato che ha trovato volgare che in Senato si accostasse la parola dramma alla foiba, quando questa “è l’apice della tragedia”. E ha sottolineato che la malafede è sempre accompagnata dall’ignoranza, poiché qui “il vinto è stato trasfigurato nella condizione di imputato”. Un discorso poetico e toccante, ma le lacrime mi sono scese quando ha infine parlato Roberto Menia, perché ha espresso il mio sentire. “Con l’andare degli anni sento sempre più profondo questo legame tutto interiore. Mi fa male guardare dalla riva di Trieste il mare e vedere in lontananza quelle terre che non ho mai abitato. Questi sono ormai luoghi dell’anima per noi: non esistono più. Il nostro cammino non ha senso se non lascia qualcosa. Perché quest’Italia, che è un mosaico meraviglioso, deve perdere i tasselli di questa sua storia? La grande storia di un Paese è fatta di tante piccole storie. E quando toccano il cuore, ti trasmettono qualcosa. Abbiamo il diritto e il dovere di raccogliere tutte le testimonianze e tramandarle ai nostri figli. Simone Cristicchi, che ha scritto il “Magazzino 18”, era venuto a Trieste per scrivere del manicomio e ha scoperto che era pieno di ESULI IMPAZZITI: guardavano l’orizzonte senza parlare…”.
Diodato Pirone per il Messaggero il 10 febbraio 2020. «Una sciagura nazionale che non va negata». Così il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha definito la tragedia delle foibe, ovvero l'assassinio di migliaia di italiani gettati in profonde fosse naturali (le foibe, appunto) in Istria alla fine della seconda guerra mondiale da parte di formazioni partigiane yugoslave. Il presidente della Repubblica ha aperto così le cerimonie del Giorno del Ricordo, istituito il 10 febbraio in onore delle vittime delle foibe. Il Capo dello Stato ha usato parole forti, invitando a coltivare la memoria per contrastare «piccole sacche di deprecabile negazionismo militante» ancora presenti in Italia. Mattarella è stato chiarissimo: «Oggi il vero avversario da battere è l'indifferenza che si nutre spesso della mancata conoscenza». Il presidente ha partecipato al Quirinale a un concerto in memoria delle vittime delle foibe, alla presenza di esponenti delle associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati che rappresentano i circa 300.000 italiani che alla fine della guerra abbandonarono le città e le terre sulla sponda orientale dell'Adriatico cedute dall'Italia alla Yugoslavia di Tito e oggi territori della Slovenia e della Croazia. Cade inoltre in questa domenica di febbraio l'anniversario dell'eccidio di Porzus, dove tra il 7 e il 18 febbraio 1945 vennero uccisi 17 partigiani verdi della Brigata Osoppo Friuli da parte di un gruppo di partigiani gappisti comunisti. È una pagina di storia poco conosciuta al di fuori del Friuli Venezia Giulia e che il governatore Massimiliano Fedriga, nel giorno delle celebrazioni a Faedis e Canebola, ha invitato a «far conoscere al Paese e all'Europa per non cadere nel qualunquismo quotidiano.
GLI ECCIDI. Le foibe, ha ricordato Mattarella, sono un evento del passato cui «i contemporanei non attribuirono, per superficialità o calcolo, il dovuto rilievo». Quegli episodi tragici «ci insegnano che l'odio, la vendetta, la discriminazione, germinano solo altro odio e violenza». «L'angoscia e le sofferenze» delle vittime «restano un monito perenne contro le ideologie e i regimi totalitari che, in nome della superiorità dello Stato, del partito o di un presunto ideale, opprimono i cittadini, schiacciano le minoranze e negano i diritti fondamentali. E ci rafforzano nei nostri propositi di difendere e rafforzare gli istituti della democrazia e promuovere pace e collaborazione internazionale», con Paesi come Slovenia e Croazia che oggi fanno parte dell'Unione Europea. A testimoniare l'attualità del monito del capo dello Stato giunge da Marina di Carrara la notizia del danneggiamento di due targhe dedicate alle foibe. «Manterremo viva la memoria», ha sottolineato il ministro Federico D'Incà che rappresenterà oggi il governo alle celebrazioni a Basovizza. «La ricerca storica è l'arma più potente contro ogni strumentalizzazione», concorda dal Pd Luigi Zanda, che plaude a Mattarella. Come fa a più voci il centrodestra che, da Antonio Tajani a Giorgia Meloni, ringrazia il presidente per le frasi sul «negazionismo militante». Maurizio Gasparri denuncia però «tentazioni negazioniste» della Rai e chiama a intervenire la commissione di Vigilanza. Oggi, infine, sarà inaugurata a Roma la mostra Foibe ed esodo.
Mario Ajello per il Messaggero il 10 febbraio 2020. Raoul Pupo è uno dei massimi conoscitori delle questioni del confine orientale. Insegna storia contemporanea all'università di Trieste, ed è autore di numerosi saggi: «Da «La violenza del dopoguerra al confine tra due mondi (Il Mulino) a «Fiume città di passione» (Laterza).
Professore, basta a considerare le foibe una tragedia di serie B?
«Per un certo periodo, negli anni 60,'70,80, è stata una sciagura dimenticata. Prima di quel periodo, invece, le foibe e l'esodo sono stati temi di lotta politica e di contrasti internazionali al centro dell'attenzione».
E' la sinistra che ha cercato di negare o di minimizzare la questione?
«La sinistra non amava parlarne perché aveva il mito della resistenza jugoslava. E perché i comunisti avevano un'ambiguità non solo sulle foibe ma su tutta la tematica del confine orientale. Fino al 48, il Pci era in parte succube dei comunisti jugoslavi e doveva destreggiarsi tra due spinte. Da partito nazionale e anche di governo doveva respingere le rivendicazioni jugoslave sulla Venezia Giulia e su Trieste; ma in quanto partito comunista aveva grandi difficoltà a respingerle pubblicamente».
Ma il problema è stato solo la sinistra?
«C'è anche una ragione più generale, una ragion di Stato che è questa: la Jugoslavia era una pedina strategica fondamentale dell'Occidente e anche dell'Italia. Non la si poteva provocare. E sentir parlare di foibe e di esodo per Belgrado era una provocazione fascista. La Jugoslavia neutrale consentiva all'Italia di non essere sulla prima linea della Guerra Fredda. Il che significava che i carri armati sovietici stavano sul Danubio in Ungheria e non dalle parti di Gorizia».
I motivi politici sono chiari. Però perché la storiografia italiana ha sottovalutato e minimizzato le foibe, negando il posto centrale che avrebbero dovuto avere nella memoria nazionale?
«La storiografia italiana s'è occupata d'altro. Da una parte la sinistra aveva imbarazzi evidenti con questo argomento. Dall'altra parte la cultura cattolica non era assolutamente nazionalista. Questi due elementi hanno pesato negativamente».
La destra invece s'è battuta per la memoria delle foibe?
«Sì, ma sempre in ambienti molto circoscritti. E in più, la destra non ha mai avuto una storiografia. Basti pensare che, agli occhi della sinistra, il massimo storico di destra in Italia era Renzo De Felice. Il che è assurdo, perché non fu affatto di destra».
La sinistra ha fatto i suoi giochi, la destra ha fatto ciò che poteva, ma allora la memoria delle foibe chi l'ha tenuta veramente viva?
«A livello localizzato e territoriale, l'hanno tenuta viva tutti i partiti tranne i comunisti. A livello nazionale, si sono impegnate con grande determinazione le associazioni dei profughi. Quanto alla riscoperta sul piano degli studi, l'ha fatta con varie sfumature la storiografia democratica».
Il Giorno del Ricordo che cosa può creare, una memoria condivisa?
«La sua finalità è quella di conservare la memoria della catastrofe dell'italianità adriatica, sciagura che non ha riguardato soltanto le vittime delle foibe e e dell'esodo, ma tutta la comunità nazionale. Negli anni dopo il 2004, a questa finalità se n'è aggiunta un'altra: favorire la conoscenza della storia delle terre adriatiche. Bisogna allargare lo sguardo su tutta la grande storia della civiltà italiana sull'Adriatico orientale. Basti ricordare che Niccolò Tommaseo, uno dei padri della patria, era dalmata».
Mariolina Iossa per il “Corriere della Sera”l'11 febbraio 2020. Commemorazioni ufficiali ma anche polemiche. Discorsi istituzionali ma anche striscioni provocatori. Il Giorno del Ricordo per il massacro delle Foibe, 16 anni dopo la sua istituzione, non vede ancora superate le divisioni e pacificati gli animi con il giudizio della Storia, come nelle intenzioni del legislatore. Anche ieri, mentre al Senato si ricordava l' eccidio, e si lanciavano moniti «per non dimenticare» e contro «ogni negazionismo», e tutte le alte cariche dello Stato, da Elisabetta Casellati a Roberto Fico a Giuseppe Conte, trovavano l' intesa sulla necessità di «risanare» ferite ancora aperte combattendo ogni forma di «oblio», a Basovizza, quartiere triestino dove già lo scorso anno Matteo Salvini infuocò gli animi, si è consumato uno strappo. I parlamentari dem, Debora Serracchiani, Luigi Zanda e Tatjana Rojic hanno lasciato la foiba in segno di protesta quando ha preso la parola il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. Le Foibe sono diventate «un palcoscenico per la destra sovranista», ha twittato Serracchiani. Zanda ha stigmatizzato l'«eccesso di toni da propaganda». Prima di Gasparri, aveva tenuto il suo discorso il presidente del Friuli-Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, della Lega. Entrambi sono stati giudicati poco «canonici» dal Pd. «Ho ripreso il discorso di Mattarella, anche quello era propaganda?», ha ribattuto Gasparri, che ha poi esaltato la grande partecipazione di giovani ed esuli. Il sacrario giuliano, infatti, è stato invaso da cittadini ma si sono visti pure, come non accadeva in passato, molti volti della politica nazionale, tra cui il ministro per i rapporti con il Parlamento del M5S Federico D' Incà, la leader di FdI Giorgia Meloni e lo stesso Salvini, questi ultimi anche a Monrupino. Prima della cerimonia, a Trieste e in altri paesi della Regione sono comparsi striscioni di CasaPound con la scritta: «Partigiani titini infami e assassini», a cui ha reagito l' Anpi con una nota: «Alle tradizionali miserie dei neofascisti rispondono la storia e la loro irrilevanza. L' Anpi continuerà a fare il suo dovere di memoria in particolare verso le nuove generazioni». Polemiche anche per le dure frasi di Vauro. Il vignettista ha criticato l'«uso strumentale» della Giornata del Ricordo, diventata un «trucido strumento di propaganda sovranista e neofascista». Nell' aula del Senato, il premier Conte aveva sottolineato l' importanza di «non sottovalutare mai il rischio di nuovi nazionalismi, odi, divisioni, oblii». Il presidente della Camera Fico aveva chiesto «ancora una volta scusa» per «la ferita inferta a quelle genti e ai loro discendenti», e la presidente del Senato Casellati aveva rimarcato il «silenzio assordante» di troppi anni, che ha dato vita ad un «negazionismo antistorico, anti-italiano e anti-umano». Il Parlamento europeo ha ricordato «le vittime italiane di tutti i massacri delle foibe» e a Roma David Sassoli, con la sindaca Virginia Raggi, ha deposto una corona all' Altare della Patria. «Una tragedia nazionale che per troppo tempo si è tentato di negare», ha poi twittato il presidente del Parlamento Ue.
Michele Serra per “la Repubblica”l'11 febbraio 2020. Le uccisioni, la persecuzione e il conseguente esodo degli italiani di Istria e Dalmazia, che nel Dopoguerra dovettero abbandonare senza colpa le loro case, i loro luoghi, le loro radici, sono una tragedia umana e un crimine politico che solo l' idiozia di qualche ultrà può negare o ridicolizzare. Ma raccontare i fatti, imputabili allo spirito di vendetta del comunismo titino, tacendo l' antefatto, come è accaduto in molte delle faziose, rozze commemorazioni di queste ore, significa fare torto grave alla verità e alla storia. L' antefatto è la scellerata opera di "nazionalizzazione" fascista di quelle terre di confine. È la riforma Gentile che vieta di insegnare lo sloveno nelle scuole (con bambini in maggioranza sloveni). È Mussolini che a Pola, nel 1920, definisce gli slavi «una popolazione primitiva, senza storia, senza cultura e senza lingua». È il razzismo esplicito (proclamato, scritto, urlato) del fascismo, che pretese di "ripulire" quei luoghi, da sempre di confine e da sempre multietnici, dalla loro componente cosiddetta "allogena": gli slavi, la loro lingua, la loro identità. Erano padroni a casa loro, fino a che arrivarono le camicie nere a "italianizzarli": proprio come tentarono, senza riuscirci, in Alto Adige. Libri, memoria, fonti storiche abbondano. Non serve brandirle come un' arma politica in favore di questa o quella tesi: basterebbe leggerle per capire che la tragedia delle foibe è l' esito orribile di una altrettanto orribile storia di sopraffazioni "etniche" e nazionalismi criminali. Un Paese sereno non avrebbe alcun problema a celebrare a bassa voce, e unito, quel lutto. Non siamo un Paese sereno.
Foibe, il racconto di Benvenuti: "Ci chiamavano esuli, noi eravamo solo italiani". Il pugile Nino Benvenuti, medaglia d'oro alle Olimpiadi del 1960, si racconta: "Quella paura non l'ho sconfitta". Elena Barlozzari, Martedì 11/02/2020 su Il Giornale. Nino Benvenuti si appende alle corde del ring, le scavalca. È solo, al centro quadrato. "Ni-no, Ni-no", lo acclamano dalla platea. Lui si guarda attorno e allarga le braccia in segno di trionfo. Non è più il 1960, ma il ring è rimasto lo stesso, conservato come una reliquia nella palestra Audace Boxe di via Frangipane, a Roma. È il ring della XVII Olimpiade, il ring dei grandi pugili: Josselin, Mitzev, Lloyd, Radionyak. Benvenuti li scarta uno dopo l'altro, e conquista l'oro. "I-ta-lia, I-ta-lia". La folla è incontenibile. E pensare che chi come lui arrivava dalle terre dell'Adriatico orientale non veniva neppure considerato italiano. "Ci chiamavano esuli, come se venissimo da chissà dove, ma noi eravamo italiani, io - dice - sono stato un privilegiato perché la boxe mi ha salvato". L'attimo dopo s'inginocchia, come in preghiera, e bacia il tappeto con devozione. Quel quadrato non è solo il ricordo di una stagione fortunata, ma è anche una patria. È tutto ciò che gli è stato strappato e negato. La famiglia Benvenuti, padre, madre e cinque figli, è dovuta scappare da Isola d'Istria (oggi Slovenia) nel 1947. A guerra finita, perché non si poteva continuare a vivere nel terrore. Erano gente benestante i Benvenuti, avevano una bella villa, campi e vigne. Un giorno un graduato vide quegli averi e li desiderò per sé. Così ordinò che venissero requisiti. "Vennero a dirci che dovevamo fare i bagagli e andarcene perché un alto ufficiale aveva messo gli occhi sulla nostra casa e ci si voleva trasferire". I Benvenuti non osano protestare e salutano l'Istria per sempre, direzione Trieste. "Non ci ribellammo - ricorda - per timore delle conseguenze, voi non immaginate cosa significasse mettersi contro quella gente". I Benvenuti non vogliono più guai. Hanno già trascorso sette mesi di pene per il rapimento del figlio maggiore, Eliano, di 17 anni, claudicante per via della poliomielite. "Non si è mai capito perché lo portarono via, io ancora me lo domando, di noi fratelli era il più buono, il più diligente e il più fragile", dice Benvenuti. "Le guardie dell'Ozna, la polizia politica di Tito, lo prelevarono senza darci spiegazioni". Per i Benvenuti, quel giorno segna l'inizio di un incubo che non si è ancora interrotto. "I ricordi ogni tanto riaffiorano, durante la notte, in un momento particolare della giornata", ci confida Nino sprofondando la testa tra le mani. È come se gli stesse passando la vita davanti. Rivede quelle scene. Le racconta con la voce incerta, commossa. "Quando fecero irruzione in casa ci si gelò il sangue, era come se la nostra abitazione fosse diventata l'epicentro di un ciclone, mamma Dora non si riprese più da quello choc". Nino all'epoca non sapeva dell'esistenza delle foibe, non poteva certo immaginare che i titini avessero un'indole tanto crudele. Però aveva visto gli amici sparire e in cuor suo temeva che al fratello sarebbe toccata la stessa sorte. "Abbiamo pregato tanto - ricorda - per scacciare i cattivi pensieri che ci assillavano". Per Eliano, fortunatamente, le cose vanno diversamente. "Quando è tornato a casa non era più lo stesso, la prigionia gli aveva ingrigito i capelli, sembrava un vecchio". "A noi fratelli non raccontò mai nulla, forse confidò qualcosa ai nostri genitori, ma loro non tradirono il suo segreto". Benvenuti si interrompe. Ha gli occhi chiusi e sembra riuscire a vederla per intero: la paura. Una presenza oscura, che riaffiora dalle pieghe del tempo. È la stessa che ha costretto Eliano a portare le verità della sua prigionia nella tomba. La stessa che spezzò il cuore a mamma Dora, morta di crepacuore all'età di 46 anni. "È una paura endemica, irrazionale e non finisce mai al tappeto", racconta Benvenuti. "So perfettamente che i tempi sono cambiati e che l'Ozna non esiste più, eppure - confessa - c'è una parte di me che mi dice che devo stare zitto, che ho parlato più del dovuto, e che qualcuno potrebbe venire a prendermi". Ci guarda. Si rende conto che no, noi non lo possiamo capire. Non si stupisce. "Il vostro mondo non è il mio, viviamo nello stesso mondo - ragiona - ma siamo passati da un percorso diverso".
La bambina con la valigia simbolo dell'esodo istriano. Suo padre fu prelevato dai partigiani di Tito, lei scappò con la mamma da Pola. Ora un docufilm racconta la sua storia. Serenella Bettin e Fausto Biloslavo, Venerdì 07/02/2020, su Il Giornale. La bambina con la valigia è l’immagine simbolo dell’esodo istriano. Egea aveva 5 anni e nel luglio del 1946 si stava preparando con la mamma a lasciare Pola assieme ad altri 30mila italiani. Il papà, prelevato dai partigiani di Tito, era sparito nel nulla. Lo zio Alfonso, pochi giorni prima della forzata partenza dall’Istria aveva chiesto ad un fotografo di scattare l’immagine simbolo per non dimenticare mai il dramma dell’esodo. Egea, con i boccoli da bambina e un vestitino estivo, teneva con tutte e due la manine mani un borsone. Lo zio aveva aggiunto un cartello con la scritta “esule giuliana” e il numero dei polesani costretti ad andarsene dalle violenze di Tito e per non vivere sotto il comunismo. La foto è diventata il simbolo dell’esodo di almeno 250mila italiani dall’Istria, Fiume e la Dalmazia. Egea Haffner, con il nome come il mare, oggi è una signora di 78 anni che vive a Rovereto, in provincia di Trento. Questa sera a Verona sarà presente alla proiezione in anteprima del docufilm “Egea, la bambina con la valigia…. dal cuore esule”, la sua storia adottata per ricordare il dramma delle foibe. Un documentario realizzato con le parole e i ricordi di Egea grazie all’associazione culturale Storia Viva e alla regia di Mauro Vittorio Quattrina. All’anteprima porterà il saluto del Veneto, il vice presidente del Consiglio regionale, Massimo Giorgetti. I ricordi della seconda guerra mondiale di Egea sono ancora drammatici: “Il fischio delle sirene, per gli allarmi aerei, le fughe nei rifugi sotterranei”. E la ferita del padre prelevato dai partigiani di Tito a conflitto finito non si è mai rimarginata, anche se allora era solo una bambina. “Suonarono al campanello di casa nostra due titini - racconta al Giornale.it - Mia madre andò ad aprire. Dissero che papà doveva venire via con loro per un semplice controllo. Lui si tranquilizzò” seguendo i suoi carnefici. Kurt Haffner aveva fatto da interprete ai tedeschi perché conosceva la lingua. Figlio di un ungherese di Budapest, che a Pola aveva una gioielleria e di una viennese che faceva la pasticciera. Era il primo maggio 1945 e non riapparve mai più. A 26 anni venne probabilmente infoibato nei dintorni di Pisino, forse la notte stessa. La mamma di Egea, Ersilia Camenaro, era invece figlia di un croato e di un’italiana nel miscuglio etnico dell’Istria. Proprio lei il giorno dopo l’arresto ha visto la sciarpa del marito attorno al collo di un partigiano. Nel giro di un anno la giovane donna fu costretta a scegliere la via dell’esodo assieme alla piccola Egea. La nonna paterna, l’ultima a partire da Pola, si imbarcò sul piroscafo Toscana, che ha segnato il destino degli esuli. I profughi in patria trovarono prima ospitalità in Sardegna, da una zia a Cagliari e poi si trasferirono nella zona di Bolzano. Egea è cresciuta con i nonni nelle difficoltà quotidiane degli esuli additati come fascisti, anche se non avevano fatto nulla di male. La bambina con la valigia si tuffò nella scuola e “terminati gli studi – racconta - la vita mi sorrise un po’”. Grazie ad un bando dell’Enpas, l’ente nazionale di previdenza per i dipendenti pubblici, ottenne un lavoro come profuga e orfana di guerra. Egea si è ricostruita una vita sposandosi e mettendo al mondo due figlie. A Pola, dove c’è ancora la casa abbandonata dei nonni, torna spesso per vedere il bellissimo mare, ma resterà per sempre la bambina con la valigia, simbolo dell’esodo, con il ricordo strappato via del padre vittima delle foibe.
"Noi italiani in fuga da Tito. Quella fu una pulizia entica". La storia di Sergio Siberna, 91 anni: «Quella dei partigiani slavi fu pulizia etnica». Alberto Giannoni, Martedì 11/02/2020 su Il Giornale. "Norma finalmente dorme in pace». È un'immagine di dolcezza che chiude la poesia di Sergio Siberna dedicata alla martire delle foibe. Norma Cossetto, studentessa padovana, l'ultima a cadere in quel baratro che «sembra l'antro dell'Inferno», la foiba in cui fu gettata - ancora viva - dai «partigiani slavi. Insieme a lei tanti altri, «inghiottiti dalla voragine giù nel profondo». Furono migliaia, e centinaia di migliaia furono gli italiani costretti alla fuga dall'Istria e dalla Dalmazia. «Norma è la nostra martire - dice - è stata violentata, e non da una sola persona, oltraggiata oltre ogni dire, umiliata e gettata in una foiba». Sergio Siberna ha 91 anni, e ieri proprio a Cinisello Balsamo ha partecipato alla inaugurazione di un giardino dedicato a Norma, assurta a simbolo di quella schiera di infoibati e di quegli esuli italiani, i «migliori fra gli italiani» secondo la celebre definizione montanelliana, che furono cacciati dai comunisti slavi e male accolti anche dai comunisti italiani. (...) Quando parla di Norma si fa toccante. Ma quando racconta di sé Sergio ormai sorride. «Sono stato fortunato, abbiamo perso solo beni, altri no, hanno perso tutto e alcuni non hanno neanche avuto il risarcimento dovuto». Lui era fra quegli italiani e tanti ne ha conosciuti. «Sergio Endrigo fu mio compagno al collegio». Cita Ottavio Missoni e Nino Benvenuti che proprio ieri al Giornale ha raccontato la sua storia. «Grandi figure, campioni», dice con orgoglio. E ricorda Enzo Bettiza, firma storica di questo quotidiano, che frequentava il suo liceo. Ricorda con dolcezza, Sergio, che a suo modo è diventato un campione: di pallanuoto nel '57, e poi ha appena festeggiato 64 anni di matrimonio e si dedica ai nipoti. Non prova rancori e non li alimenta. Ripercorre la sua «storia anomala» partendo dall'8 settembre. Aveva 15 anni. «Abitavamo a Ragusa, l'attuale Dubrovnik, città bellissima, di nome e di fatto italiana, la quinta repubblica marinara, mio padre insegnava in una scuola di italiani. Quel giorno fu «lo sfacelo del nostro esercito. Avevo dei compagni, mi vergognai». Ragusa era sede di un corpo d'armata. «Prima di arrendersi, il comando italiano convocò mio papà, unica persona importante rimasto lì, e lui fedele al suo dovere aspettava un ordine del ministero da cui dipendeva. Gli offrirono di diventare il custode della cassa perché non cadesse nelle mani dei tedeschi, ma mio padre rifiutò, eppure dal 25 luglio non riceveva lo stipendio e avevamo speso i nostri pochi risparmi, e mia mamma insisteva perché tornassimo in Patria e tutto intorno c'erano i partigiani slavi, sapevamo che noi italiani eravamo a rischio». Arrivavano da Trieste e lì volevano tornare. A febbraio chiusero casa e partirono verso Mostar. «Dopo 20 chilometri eravamo già fermi per un allarme aereo in posto chiamato Hum. Trovammo rifugio in quella stazioncina». I cacciabombardieri colpivano e la contraerea tedesca rispondeva: sette incursioni da mattina a sera. «Il nostro treno era in fiamme. Mia madre andrò a recuperare le quattro valigie che avevamo e le trovò sforacchiate dai colpi. Un soldato fu ferito al collo». Finita l'incursione, la notizia che la linea era saltata. «Il treno tornò a Ragusa a marcia indietro, ma il nostro appartamento era stato occupato, gli alberghi requisiti dai tedeschi, mio padre disperato ci lasciò all'aperto andando a cercare una sistemazione e miracolosamente la trovò: essendo un tipo gioviale incontrò un amico croato, comandante di marina mercantile che proprio quella notte partiva, e ci lasciò la casa, fidandosi anche se noi eravamo tecnicamente il nemico». Passati pochi giorni, nuovo viaggio verso Mostar, che era sotto attacco. Finirono a Zagabria, in un centro raccolta profughi. Poi un nuovo viaggio verso Klagenfurt. «La stazione era stata bombardata, il treno si fermò prima, mio fratello aveva due anni e mezzo, c'era la neve. Attraverso Tarvisio arrivammo in Italia. Ricordo il gesto di mia sorella che baciava la terra, arrivammo infine a Trieste dopo otto giorni di Odissea. Fortunati, rispetto ad altri, che hanno avuto i loro cari infoibati, hanno perso fortune, tutto, soprattutto nelle città italiane, sulla costa, nelle zone ambite. Noi eravamo già Jugoslavia, ma Istria e Dalmazia erano italiane. Quella dei partigiani slavi è stata una pulizia etnica. Tito era un idolo per loro, con noi fu tremendo. E i profughi sono stati trattati molto male dai comunisti italiani. L'equazione era: sei scappato dal comunismo? Allora sei fascista. Ma lei pensa che 350mila persone fossero criminali fascisti? Mio padre non era fascista, era repubblicano. Certo, io ho indossato la divisa da Balilla, come tutti, ero un ragazzino, ma era solo un apparato scenico, non significava nulla per me. Non avrei avuto neanche il tempo di esserlo. Ci sentivamo solo italiani e fieri di esserlo, forse non eravamo critici, ma chi lo era? Chi distingueva l'Italia dal regime?». Sergio era solo un ragazzo che si era slogato una caviglia giocando con compagno, e non aveva grilli per la testa. «Partecipo sempre a queste cerimonie - dice pensando ai giardini Norma Cossetto, dove ieri ha incontrato il sindaco Giacomo Ghilardi e l'assessore Riccardo Visentin. Ripensa a quegli anni. «Avevamo fame, si mangiava pasta e ceci, e poi ceci e pasta». Ha ascoltato le parole del presidente, Sergio Mattarella. «È stato equanime». E ripensa a quegli italiani. «Sergio Endrigo e io fummo compagno di collegio a Brindisi, lo ricordo. Il collegio era stato intitolato a Niccolò Tommaseo, grande dalmata. Tanti di noi ancora si trovano, dopo anni, cantiamo, stiamo insieme». «Ormai - dice - è passato tanti tempo, e l'esperienza ci ha insegnato quali sono le cose su cui soprassedere, e ci ha insegnato anche a girare pagina. Non dimenticare, no. Ricordare ma senza astio». Alberto Giannoni
"Tito voleva eliminare tutti: contro di noi solo terrore". Unico nel suo genere, il quartiere Giuliano-Dalmata di Roma è diventato la "patria" degli esuli in fuga dal confine orientale: "All'inizio non c'era nulla qui, ma era sempre meglio del campo profughi". Elena Barlozzari, Lunedì 10/02/2020 su Il Giornale. Quello di Giovanna Martinuzzi, quasi 90 anni, è un sogno ricorrente. Si rivede ragazzina mentre cammina per i vicoli di Albona (oggi Croazia). Il paesaggio è rimasto lo stesso della sua infanzia, eppure non riesce più a riconoscere nulla di familiare. Si sente a disagio, le manca persino l'aria. Passo dopo passo la strada diventa sempre più stretta, quasi la volesse inghiottire. Si risveglia di botto, con il senso di claustrofobia addosso. "Sono settant'anni che faccio lo stesso incubo", racconta. Giovanna è un'esule, aveva appena 13 anni quando la sua famiglia è stata costretta la lasciare l'Istria per scampare alle persecuzioni titine. "Non potevamo più continuare a vivere lì, non sapevamo nulla delle foibe ma vedevamo la gente sparire". La lunga stagione di terrore, iniziata con il dilagare dei partigiani jugoslavi nelle terre che si affacciano sull'Adriatico orientale, mieterà tra le 7 e le 12mila vittime. "Abbiamo passato un anno nel campo profughi di Serviliano, nelle Marche, e poi siamo venuti qui", dice indicando ciò che la circonda. Un crocicchio di strade che portano il nome della sua gente. Siamo nel quartiere Giuliano-Dalmata di Roma, in zona Laurentina, il più grande "monumento" dell'esodo che esista in Italia. Quando Giovanna è arrivata nel quartiere, non c'erano case né strade, solo dei vecchi padiglioni diroccati. Erano quelli degli operai che lavoravano alla costruzione dell'Eur, abbandonati con lo scoppio della guerra. Li occuparono un pungo di profughi verso la fine del 1948, già l'anno successivo le presenze salirono a mille unità. "Era un luogo isolato, senza infrastrutture né servizi, ma era sempre meglio dei campi profughi", ragiona l'anziana, che non si è mai allontanata dal quartiere. "Ormai - spiega - è la mia patria". In quegli anni difficili, in cui gli italiani del confine orientale venivano guardati con diffidenza ed etichettati come "fascisti", l'ex villaggio operaio si è trasformato in un'isola felice. Una specie di enclave dove ritrovare parenti, amici, vicini di casa. Dove ricostruire la comunità che l'esodo aveva diviso. "Certo, - riflette Maria Ballarin, esule di seconda generazione - con il senno del poi mi rendo conto di aver avuto un'infanzia povera, però c'era un forte senso di fratellanza". Si viveva tutti assieme, come una grande famiglia, e si parlava la stessa lingua: il dialetto veneto. "Era il regno di noi bambini, trascorrevamo intere giornate a giocare a nascondino". La realtà, quella dei "grandi", però, era ben diversa. "I miei - prosegue - non mi hanno mai fatto pesare nulla, solo anni dopo ho scoperto quanto sia stato duro per loro rialzarsi". "Economicamente eravamo a terra". All'epoca lo Stato italiano faceva grande pressione perché i profughi dichiarassero l'abbandono delle loro proprietà. "Tanto ve le requisiscono gli jugoslavi", dicevano. Con quei beni poi l'Italia ha pagato il suo debito di guerra, e agli esuli? A loro cosa è rimasto? "Solo briciole, dilazionate nell'arco di cinquant'anni", denuncia Maria, mostrandoci le foto in bianco e nero della casa paterna. Una villa di due piani sull'Isola di Lussino, oggi meta di turismo da tutto il mondo. Lei, che sarebbe dovuta nascere lì, invece, è venuta al mondo in un appartamentino di 55 mq. "Era una delle prime case costruite nel quartiere, per chi veniva dall'esperienza dei padiglioni erano delle regge", ricorda. Nel corso degli anni e con l'Istituzione dell'Opera Profughi, l'ex villaggio cresce e si trasforma. E nel 1962 entra ufficialmente nella rosa dei quartieri di Roma. "Un vero miracolo", ci spiega Marino Micich, esule di seconda generazione e direttore dell'Archivio Museo storico di Fiume. "In tutta Italia sono diverse le zone in cui si è radicata la comunità giuliano-dalmata, ma nessuna è stata istituzionalizzata come è accaduto nella Capitale". L'assembramento dei profughi, per il governo di allora era una minaccia. Bisognava disperdere e annacquare, cancellare le prove delle barbarie dei vincitori. "Questo - riflette - è stato un modo per sopravvivere nella memoria, una testimonianza incancellabile del dramma della nostra gente". Soprattutto adesso che i protagonisti di quell'epoca se ne stanno andando. Gente come Romano Sablich, ex ufficiale di Marina classe 1924, uno dei pionieri del villaggio. È scomparso quest'estate, in punta di piedi. Proprio come era arrivato, stanco sporco e affamato dopo un periodo trascorso da invisibile alla stazione Termini. E ha portato via con sé i ricordi, i racconti e le tante fotografie che ci aveva mostrato un pomeriggio di due anni fa.
Le Foibe e l’Esodo. Giorgio Perlasca, Giusto tra le Nazioni. Parliamo dell’Istria, penisola tra i golfi di Trieste e del Quarnaro, della Dalmazia, la fascia costiera che dal golfo del Quarnaro scende sino all’Albania, e della Venezia Giulia (Trieste, Gorizia). La loro storia è italiana, prima romana poi dopo varie vicissitudini veneziana: l’Istria nel 177 a.c entrò nell’orbita romana e nel 27 a.c. Augusto le concesse la cittadinanza romana (ricordiamo l’Arena di Pola). Anche la Dalmazia entrò nell’orbita romana, nel 117 a.c. e fu la terra di quattro imperatori, il più rilevante Diocleziano. Ambedue, dopo le complesse vicende delle invasioni barbariche, impero bizantino, Sacro Romano Impero evidenziarono un rapporto sempre più stretto con Venezia finché dopo il 1400 le città costiere si unificarono sotto l’insegna del leone di S. Marco. E le città delle coste istriane e dalmate sotto l’ala del leone di San Marco si svilupparono sul piano commerciale e fiorirono sul piano artistico e culturale. Si parlava il dialetto veneto. Nel 1797 con il trattato di Campoformio Napoleone cedette la Serenissima all’Austria. Durante i 121 anni della dominazione austriaca le città della costa orientale erano popolate in prevalenza dall’etnia italiana, le campagne dagli slavi. Il governo asburgico, timoroso delle spinte irredentistiche e risorgimentali, favorì lo spostamento degli slavi, sudditi fedeli, verso la costa, chiudendo anche scuole italiane. Il clero, in maggioranza di etnia slava, fomentava l’avversione verso l’Italia, ritenuta laica e miscredente, in quanto colpevole di aver strappato Roma al papato. E le tre etnie balcaniche, sloveni, croati e serbi, divise tra di loro erano accomunate dal disegno di impadronirsi delle terre italiane. Durante la prima guerra mondiale molti irredentisti furono alla testa della campagna per l’intervento dell’Italia nel conflitto contro l’Austria. Basta ricordare Cesare Battisti e Fabio Filzi, impiccati a Trento, Nazario Sauro a Pola e Guglielmo Oberdan a Trieste. Dopo la prima guerra mondiale il trattato di Rapallo nel 1920 assegnò all’Italia, l’Istria, Zara (unica enclave in Dalmazia), le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa e dichiarò Fiume Città libera. Nel 1924 Fiume tornò definitivamente all’Italia con la parentesi dell’impresa di Fiume di Gabriele D’Annunzio. Nel periodo fascista gli scontri tra nazionalismo italiano e slavo si acuirono. Indubbiamente sin dall’inizio abbiamo varie leggi tese alla italianizzazione forzata: nel 1923 la legge Gentile stabilisce che nelle scuole non vi sia spazio per le lingue minoritarie, nel 1925 si proibisce l’uso delle lingue diverse dall’italiano nell’amministrazione pubblica, nel 1927 vengono soppresse le organizzazioni culturali, ricreative e culturali slovene e croate. Con Regio decreto del 1927 venne imposta l’italianizzazione dei cognomi anche se non trovò mai piena applicazione. Provvedimenti illiberali certo ma inseriti in un contesto di un mondo che non rispettava le minoranze (dalla Francia, alla Germania, alla Romania, Ungheria e alla stessa Jugoslavia), a parte la parentesi felice dell’impero austro-ungarico. E venne il dramma delle Foibe: cavità carsiche di origine naturale con un ingresso a strapiombo. È in quelle voragini dell’Istria che fra il 1943 e il 1947 sono gettati, vivi e morti, quasi diecimila italiani.
La prima ondata di violenza esplode subito dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicano contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Torturano, massacrano, affamano e poi gettano nelle foibe circa un migliaio di persone. Li considerano “nemici del popolo”. La vicenda di Norma Cossetto è emblematica e diventerà un simbolo di quel periodo terribile.
La seconda nel novembre del 1944 a Zara. Dopo l’8 di settembre del 1943 la città venne occupata dai tedeschi. Tito chiese agli anglo americani di bombardarla per una presunta rilevanza militare del piccolo porto commerciale, che in effetti non aveva, e in un anno fu sottoposta a 54 bombardamenti con oltre 4000 morti. Il 1 novembre 1944 quando già i tedeschi abbandonarono la città, i partigiani di Tito entrarono in una città distrutta ed inerme. Subito iniziarono le esecuzioni degli italiani, fucilati o affogati, perché lì foibe non ce ne sono… ma vi è il mare. Ma la violenza aumenta nella primavera del 1945, quando le truppe di Tito occupano Trieste, Gorizia e l’Istria e si scatenano contro gli italiani. A cadere dentro le Foibe e ad andare nei campi di concentramento ci sono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. È una carneficina che testimonia l’odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta da Tito per eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti e gli italiani. Anche 39 sacerdoti vennero uccisi. E si leva la forte voce del Vescovo di Trieste e Capodistria, Monsignor Antonio Santin. La persecuzione prosegue fino alla primavera del 1947, fino a quando, cioè, viene fissato il confine fra l’Italia e la Jugoslavia. Ma il dramma degli istriani e dei dalmati non finisce. Il 10 febbraio del 1947 l’Italia ratifica il trattato di pace e la fascia costiera dell’Istria (Capodistria, Pirano, Umago e Cittanova ) passa sotto amministrazione jugoslava (zona B); il resto dell’Istria, Fiume e Zara passano in maniera definitiva sotto sovranità jugoslava. La fascia costiera da Monfalcone a Muggia va sotto amministrazione alleata (zona A) mentre Gorizia e il resto della Venezia Giulia tornano sotto la sovranità italiana. Trecentocinquantamila persone si trasformano in esuli. Scappano dal terrore, non hanno nulla, sono bocche da sfamare che non trovano in Italia una grande accoglienza. La sinistra italiana li ignora: non suscita solidarietà chi sta fuggendo dalla Jugoslavia, da un paese comunista alleato dell’URSS, in cui si è realizzato il sogno del socialismo reale. La stessa classe dirigente democristiana considera i profughi “cittadini di serie B” e non approfondisce la tragedia delle foibe. Il 5 ottobre 1954 con il “Memorandum d’intesa” la parte amministrata dagli Alleati (la cosiddetta zona A) viene restituita all’amministrazione dell’Italia. E’ l’atto che permetterà, il 26 ottobre dello stesso anno, il ritorno definitivo di Trieste alla madrepatria. Il 10 novembre 1975 con il trattato di Osimo, nelle Marche, il’allora Ministro degli Esteri Rumor firmò la cessione in via definitiva della zona B alla Jugoslavia. Per quasi cinquant’anni il silenzio della storiografia e della classe politica avvolge la vicenda degli italiani uccisi nelle foibe istriane. È una ferita ancora aperta perché ignorata per molto, troppo tempo. Solo dopo sessant’anni l’Italia con la legge 30 marzo 2004 n° 92 ha riconosciuto ufficialmente questa tragedia istituendo il 10 febbraio come “Giorno del Ricordo”.
FOIBE: E COME POTEVAMO NOI CANTARE...Cristofaro Sola il 10 febbraio 2020 su L’Opinione. No, presidente Mattarella. Non abbiamo dimenticato le Foibe. E neppure in noi alberga indifferenza per il dramma dell’esodo istriano-giuliano-dalmata. Sono occorsi 57 anni dalla firma dei Trattati di Pace di Parigi, un Governo di centrodestra e un presidente della Repubblica giusto e coraggioso quale fu Carlo Azeglio Ciampi per restituire l’onore della memoria al popolo degli estremi confini orientali d’Italia, perseguitato e scacciato dai propri luoghi di vita dai partigiani comunisti del macellaio jugoslavo Josip Broz Tito. C’è voluta una legge dello Stato, la n. 92 del 30 marzo 2004, che consacrasse il 10 di febbraio a “Giorno del ricordo” per “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale” (articolo 1), perché si portasse alla luce del sole un brandello di storia italiana nascosto per troppo tempo sotto una coltre di insopportabili silenzi, ignobili negazioni, vili imbarazzi. Come potremmo, presidente Mattarella, dimenticare le foibe? Sepolcri immondi e camere di morte d’innocenti vittime della ferocia comunista. Gli eccidi degli istriani-dalmati-giuliani non furono assassinii maturati nei torbidi climi della guerra. Fu pulizia etnica, pianificazione consapevole per la rimozione coatta della presenza italiana da terre da sempre italiche ma che per effetto delle sorti del conflitto mondiale non lo sarebbero più state. E come pensa, signor presidente, che si possa risanare quella ferita suppurata da anni di colpevole pavidità dei governi italiani? E quand’anche avessimo per un attimo un vuoto di memoria ci sarebbero le scriteriate dichiarazioni dei “partigiani” da bollino blu dell’Anpi a farci sobbalzare dalla sedia, a indignarci. Non sono illazioni. Per annusare l’aria che tira dalle parti dei custodi della verità resistenziale è sufficiente leggere l’intervento conclusivo del vicepresidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, al seminario organizzato dall’Anpi nazionale e dal Coordinamento regionale Anpi Friuli-Venezia Giulia in vista del Giorno del ricordo presso la Biblioteca del Senato a Roma lo scorso 4 febbraio, dall’illuminante titolo “Il fascismo di confine e il dramma delle foibe”. Il nesso causale fascismo-foibe non cambia: è sempre uguale nel tempo ed ugualmente irricevibile. Scrive Pagliarulo: “...in questi anni nelle iniziative legate al Giorno del Ricordo è stata sovente rimossa la memoria di tre circostanze essenziali, gravide di conseguenze catastrofiche per quelle terre, in successione cronologica: il fascismo di confine; l'invasione italiana della Jugoslavia; la costituzione della Zona d'operazione del Litorale adriatico (Adriatisches Kustnland). La vicenda storica causata dall'intreccio di questi eventi col totalitarismo dello Stato fascista e dello stato nazista portò in quei territori alla esasperazione della guerra totale ed anche della guerra ai civili, ove cioè i già labili confini fra militari e civili, fra operazioni di guerra e crimini di guerra, fra relativamente lecito ed assolutamente illecito si dissolvono in un clima di parossismo della violenza...”. Se ne ricava che se barbarie fu, va giustificata come reazione parossistica all’essere fascisti degli istriani-dalmati-giuliani. E le foibe sarebbero state la risposta slava, probabilmente illecita ma giustificabile in un contesto di relatività del valore della vita umana, all’assolutezza del male del “fascismo di confine”? Ma come la si vuole riconciliare la memoria di questo Paese, signor presidente Mattarella, se ancora oggi si partoriscono simili nefandezze? La domanda andrebbe girata a Norma Cossetto. Peccato che lei non possa rispondere. Già, perché la giovanetta, studentessa presso l’Università di Padova, nell’estate del 1943 era tornata a casa in Istria, dove la colse il fatidico 8 settembre, l’armistizio. Norma fu intercettata da una pattuglia mista di partigiani italiani e jugoslavi mentre era in bicicletta. Arrestata, portata nella scuola elementare di Antignana e separata dal resto dei prigionieri. Fu torturata e stuprata. Poi, incatenata ad altri sventurati, fu condotta a piedi in località Villa Surani e gettata ancora viva in una foiba. Norma, italiana, era nata a Santa Domenica di Visinada, che oggi è un comune della Croazia. Risponda alla domanda signor Pagliarulo: la giovane Norma Cossetto fu violentata, torturata e trucidata barbaramente perché era fascista o perché era italiana? Si chiede che sulla tragedia delle foibe vi sia un rigoroso approfondimento storico. Benissimo. Si passino al setaccio archivi tenuti dolosamente chiusi per decenni. Si chiariscano le responsabilità di tutti i protagonisti di quegli anni turbolenti. Si vada fino in fondo nella ricerca della verità. A patto, però, che non si commettano omissioni o si facciano sconti ai responsabili. Alle bande titine ma anche ai partigiani comunisti nostrani che collaborarono con i titini alla pulizia etnica. Si potranno cercare quante giustificazioni si vorranno per distorcere la realtà dei fatti accaduti, ma una cosa non si potrà mai fare: negare che quei territori, italici per “diritto storico”, oggi sono località inglobate in altri Stati. Le autorità croate e slovene non perdono occasione per ribadirlo. La circostanza più recente risale a pochi mesi orsono. Il 12 settembre 2019 la giunta comunale di Trieste, per celebrare il centenario dall’impresa di Fiume, ha dedicato una statua a Gabriele D’Annunzio, il poeta-soldato guida e ispiratore dell’impresa fiumana. La cosa non è andata a genio all’”europea” Croazia. Il ministero degli Esteri croato, ignorando platealmente il diritto di uno Stato sovrano di onorare in patria i propri illustri cittadini, con una nota di protesta ha fatto sapere che il gesto “contribuisce a turbare i rapporti di amicizia e di buon vicinato tra i due Paesi”. E la ex presidente della Croazia, Kolinda Grabar-Kitarović (in carica all’epoca dell’”incidente” diplomatico), del tutto indifferente ai tentativi giustificazionisti dell’Anpi volti a dare una parvenza di legittimità all’espropriazione post-bellica della penisola istriana e dintorni, intervenendo attraverso il suo account Twitter contro l’iniziativa del Comune di Trieste, ha ribadito l’unica verità che interessa ai suoi connazionali: “Fiume era ed è tuttora parte orgogliosa della patria croata”. Fessi noi che abbiamo consentito che i due Stati nostri confinanti, Slovenia e Croazia, entrassero indisturbati nell’Unione europea senza chiedere loro conto della pulizia etnica operata in danno degli italiani. E ancora più fessi noi che, con i nostri soldi, abbiamo aiutato due regioni della ex-Jugoslavia, ridotte alla miseria da anni di comunismo titino, a rimettersi in piedi e a darsi una ripulita. La verità è che la ricorrenza del 10 febbraio ci fa male tre volte. Per il ricordo di quello che è accaduto settanta anni orsono ai nostri compatrioti; per ciò che continua ad accadere di umiliante e d’inaccettabile per la dignità della nostra Patria. E per l’amara constatazione di quanto sia viva e vegeta una certa sinistra nostalgica del comunismo che ha odiato altri italiani al punto di arrampicarsi sugli specchi del giustificazionismo pur di assolvere gli assassini, torturatori che a quei nostri fratelli dimenticati hanno inflitto dolore, perdita d’identità, morte e sradicamento territoriale. Signor Presidente Sergio Mattarella, le foibe sono la piaga che non smette di sanguinare; sono l’angoscia che arriva al cielo da “l’urlo” di Edvard Munch; sono lo struggente lamento del poeta (Salvatore Quasimodo) scolpito sulla pagina immortale di “Alle fronde dei salici”. E come potevamo noi cantare/Con il piede straniero sopra il cuore...
Il giorno del ricordo è arrivato troppo tardi e, forse, è meglio così. Toni Capuozzo il 10/02/2020 su Notizie.it. Il giorno del ricordo è arrivato troppo tardi e, forse, è meglio così. Il giorno del ricordo è arrivato quando i sopravvissuti erano ormai anziani o non c'erano più. E forse è meglio così, altrimenti gli sarebbero toccati gli insulti che sono arrivati a Liliana Segre. Non ho mai nascosto di diffidare, in un certo senso, delle giornate dedicate alla memoria e al ricordo, delle vittime del nazismo o di quelle del socialismo jugoslavo. Perché l’istituzionalizzazione della memoria rischia di renderle un rito, una scadenza obbligata, come un nodo al fazzoletto. L’olocausto non dovrebbe aver bisogno di date per essere iscritto nella coscienza collettiva dell’Europa, è qualcosa che dovrebbe assomigliare al ricordo di un nostro caro che non c’è più: non abbiamo bisogno del giorno dei morti per farcelo tornare in mente. E per quanto riguarda il ricordo delle foibe e dell’esodo di migliaia di italiani dall’Istria e dalla Dalmazia, è anche peggio. Suscita negazionismi o parole di circostanza, come un obolo al dolore altrui. Va detto: il giorno del ricordo è arrivato troppo tardi. Quando i sopravvissuti erano ormai anziani, o non c’erano più, e il riconoscimento tardivo alimentava per contrasto il senso di solitudine vissuto per tanti anni dagli istriani e dai dalmati. Si fatica a ricordare – e se capitate alla stazione di Bologna andate a leggervi l’ipocrita lapide che è un capolavoro del non detto – che gli esuli furono accolti a muso duro, in Italia. Furono trattati da fascisti, solo perché fuggivano il socialismo slavo. Non lo erano, e lo erano stati piuttosto milioni di italiani plaudenti alle avventure del duce, e ora pronti a essere partigiani del 26 aprile, seduti sul carro del vincitore a schernire gli altri, che pagavano gli errori e i crimini del fascismo, come fascisti. Non fu solo la sinistra, per ragioni ideologiche, a comportarsi così: l’Italia pagò i debiti di guerra alla Jugoslavia con i beni che gli esuli si erano lasciati alle spalle. Forse bisognerebbe cambiare vocabolario: dire che le foibe furono fosse comuni, dire che l’esodo fu il frutto di una pulizia etnica, dire che non fu solo nazionalismo perché vennero uccisi migliaia di sloveni e croati indocili, ricordare che l’Italia non seppe accogliere profughi che parlavano la sua stessa lingua. Ma temo che non si arriverebbe comunque a una memoria condivisa, come se anche il Male avesse una bandiera, e il Male dei nostri fosse sempre meno grave del Male degli altri. La signora che venne fotografata, bambina, con in mano una valigia, la scritta “esule giuliana” e un numero, non viene invitata nelle scuole. Meglio così, altrimenti le toccherebbero gli insulti che sono arrivati a Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti. Forse anche di più, e con meno scandalo.
"Tutto iniziò fuggendo dai fucili partigiani". L'Istria, l'esodo e le corse. Da Indy 500 alla F1. HMario Andretti h vinto tutto. Oggi, a 80 anni, ricorda: "Uccisero mio cugino e scappammo. Ci sentimmo traditi dall'Italia". Umberto Zapelloni, Giovedì 27/02/2020 su Il Giornale. «Stando in Italia non sarei mai diventato Mario Andretti. Gli Stati Uniti mi hanno dato la possibilità di realizzare la mia vita, di esaudire i miei sogni, di andare addirittura oltre, ma io mi sento italiano anche se non ho più quel passaporto. Il sangue non si può cambiare». Domani Mario Andretti compie 80 anni. E apre l'album dei ricordi. La sua è una storia da film hollywoodiano, quella del bambino fuggito dall'Istria e dagli orrori delle foibe per diventare prima profugo, poi emigrato e, alla fine del sogno, campione del mondo di F1, oltre che di Formula Indy. Vincitore alla 500 Miglia di Indianapolis a Daytona a Sebring a Monza alla Pikes Peak. Il libro dei record conta 111 vittorie e 109 pole in 897 gare. Un campione a 360 gradi. Un personaggio unico che riesce ancora ad arrabbiarsi su twitter se qualcuno considera Ascari e non lui l'ultimo italiano campione del mondo. «Sono contento di essere arrivato a 80 anni, ma per me è solo un numero. Non cambia niente». La voce di Mario Andretti arriva chiara e vivace dall'altra parte dell'oceano dove, oltre alle corse, ha business nel petrolio e nel vino. Torniamo alla fine degli anni Quaranta, quelli della grande fuga dall'Istria diventata comunista sotto Tito. «Io non avevo provato una grande paura perché il nostro paese non era stato bombardato durante la guerra, ma quello che successe dopo fu straziante. I nostri genitori non ridevano più e noi bambini capivamo che qualcosa stava cambiando. I partigiani locali fucilarono un nostro cugino vicino a casa. Un altro cugino scappò in Indocina. Anche noi ce ne andammo, non si poteva restare a Montona. E fu terribile perché un po' ci sentimmo traditi dal nostro paese».
La fuga della sua famiglia dall'Istria è del 1948. Che ricordi ha di quel periodo vissuto da profughi?
«Dopo qualche tempo in una caserma a Udine ci mandarono in un campo profughi a Lucca. La gente ci trattava come zingari, ma mamma e papà cercavano di non farci mancare nulla. Ci vestivano bene, ci mandavano a scuola. Feci tre anni all'Istituto Industriale Carlo Del Prete che c'è ancora oggi. Imparai un po' d'inglese, soprattutto la grammatica e fu utile quando poi a papà arrivò il visto per andare in America».
Ricorda ancora quel viaggio?
«Noi bambini eravamo allegri sul Conte Biancamano, papà diceva andiamo là 5 anni poi torniamo. Non siamo più tornati anche se io continuo a sentirmi italiano. Erano le 5 del mattino del 16 giugno 1955, era una bella mattina limpida, lo ricordo bene perché era il 21° compleanno di mia sorella. Passammo sotto la Statua della Libertà e pensai se un paese costruisce delle statue così grandi qui tutto potrà accadere».
E a Nazareth in Pennsylvania avete trovato l'America.
«Papà che lavorava in una fabbrica di acciaio dopo qualche anno tornò in Italia. Io gli dissi che preferivo restare. Dopo due settimane era già ritornato anche lui dicendo semplicemente la nostra casa ora è qui in America».
Negli anni però è tornato a Montona e poi anche a Lucca.
«A Montona mi hanno nominato sindaco in esilio, a Lucca cittadino onorario. È stato strano quando tornai per la prima volta in Istria vedere altra gente in quella che era la nostra casa, pensare che mai ci avevano compensato per quello che ci portarono via Ma è stato giusto fare pace col passato e oggi là ho ancora degli amici».
Intanto era già stato contagiato dalla passione per le corse. Una passione cominciata in Italia.
«A Monza. Andammo nel 1954 con mio fratello Aldo, dopo che avevamo visto la Mille Miglia sull'Abetone. Il nostro idolo era Alberto Ascari e il nostro sogno era di diventare piloti. A Nazareth dove andammo a vivere c'era una pista. Ricordo che ce ne accorgemmo una delle prime sere, vedevamo le luci in lontananza, sentivamo i motori Fu una passione bruciante. Non mi ha più lasciato. Per me è sempre stato un sogno essere in una macchina da corsa. Una voglia che non è ancora passata».
Che cosa ha avuto in più di suo fratello gemello Aldo. Avete cominciato insieme, ma è lei ad aver vinto tutto.
«Solo più fortuna. Aldo ha avuto un brutto incidente già alla prima stagione, in coma per tre settimane. Io invece ho saltato solo due gare per infortunio».
Sulle 111 vittorie, può sceglierne una o è impossibile?
«La vittoria a Monza nel 1977 la tengo nel cuore perché proprio lì avevo visto la mia prima gara importante a 14 anni e lì era cominciato il sogno. E poi lì ho vinto anche il Mondiale in un giorno triste, quello dell'incidente al mio compagno Peterson. E ripensando a quanti amici ho perso in pista, non posso che dire di essere stato fortunatissimo, non solo fortunato».
Monza significa anche una pole straordinaria con la Ferrari. Chapman, Haas, Ferrari ha lavorato con dei geni del motorismo.
«Erano dei maghi, ma Ferrari non lo puoi paragonare a nessun'altro. Con la Ferrari non ho vinto il mondiale, ma ho vinto la mia prima gara e poi corso la mia ultima in F1. Quello a cui tengo tanto è il fatto che con il Commendatore ho avuto sempre un rapporto diretto. Decidevamo tutto io e lui a quattr'occhi. Ogni ingaggio lo abbiamo fatto io e lui direttamente».
Sarebbe stato bello avere una biposto a quei tempi per portare Ferrari Invece ha portato Trump, come lo giudica come presidente?
«Ci sarebbe qualcosa da dire su certi comportamenti, ma si intende di economia e ha lavorato per il benessere dell'America e non solo dell'America, ma di tutto il mondo, anche con la Cina alla fine ha ottenuto dei risultati. Per me la sua è stata una presidenza positiva».
Buon compleanno super Mario.
Cristicchi: «Vi racconto la fuga degli italiani d’Istria. Una tragedia vera e dimenticata». Eugenio Murrali de Il Dubbio il 3 marzo 2020. Il cantautore presenta “Esodo” al teatro Vittoria di Roma, monologo accompagnato dalle sue canzoni e quelle di Sergio Endrigo. Simone Cristicchi sarà in scena fino a domenica al Teatro Vittoria di Roma con il suo Esodo, uno spettacolo commovente che racconta le tribolazioni degli italiani spinti a lasciare le loro terre d’origine in Venezia Giulia, Istria, Dalmazia e oggetto di torture da parte del regime comunista di Tito. Lo sguardo di Simone Cristicchi segue il dolore di questi esuli silenziosi, miti, la cui memoria è spesso messa da parte, offesa, se non addirittura calunniata. L’artista, con le idee rese ben chiare dalle sue ricerche, senza alcun cedimento a ideologie di qualsivoglia colore, dà voce alle piccole storie di donne, di uomini, di bambini, di terre di confine, “terre fragili”, contese, scenario di sofferenza. Solo sul palco, con l’ausilio della parola, delle immagini, delle sue canzoni intense e di quelle di Sergio Endrigo, Cristicchi evoca e restituisce istantanee di vita, con sobrietà e amore, senza retoriche, e offre un quadro chiaro di quel tragico momento passato alla storia come esodo giuliano- dalmata. Lo spettacolo, al cui testo ha collaborato Jan Bernas, trova forte ispirazione dal Magazzino n. 18 nel Porto Vecchio di Trieste, luogo in cui molti italiani — e furono circa 300 mila a prendere parte all’esodo — lasciarono sedie, armadi, materassi, letti, stoviglie, fotografie, giocattoli, diari che si erano portati dietro dalle loro case dopo il Trattato di Parigi del 1947, sperando di trovare spazi per una nuova fase della loro vita.
Esodo nasce da un percorso di alcuni anni. Come mai un romano è arrivato a parlare della storia degli italiani d’Istria?
«Tra il 2012 e il 2013 stavo facendo una ricerca sulle memorie della Seconda Guerra Mondiale. A Trieste ho saputo dell’esistenza del magazzino 18, nel Porto Vecchio, ho voluto visitarlo, sono rimasto molto colpito, e ho voluto approfondire questa storia. L’ho fatto per curiosità personale, per colmare una lacuna e anche per una forma di restituzione. Non ho nessun legame familiare con il mondo istriano».
Però sulla sua strada c’è stato Sergio Endrigo, uno degli italiani d’Istria che hanno potuto realizzare un sogno nonostante le difficoltà. Cosa la unisce a lui come artista e come uomo?
«Fin da piccolo ero abituato ad ascoltare le canzoni di Sergio Endrigo con il giradischi di mia madre, e anche quelle di Gino Paoli, Edoardo Vianello, Luigi Tenco. Poi ho avuto l’opportunità, la grande opportunità di fare un duetto con lui, che mi ha regalato un brano bellissimo, Questo è amore, presente nel mio album di esordio, Fabbricante di canzoni. Tanti anni dopo ho realizzato una serie di concerti dedicati a lui con l’orchestra sinfonica, il più eclatante è stato quello a Piazza Unità d’Italia a Trieste».
Ha avuto difficoltà nelle ricerche per il suo spettacolo?
«No, anzi, gli storici mi hanno supportato. Ho chiesto consiglio a persone che ne sapevano più di me, soprattutto per avere una patente di credibilità una volta salito sul palco. È chiaro che lo spettacolo non può essere una lezione di storia vera e propria, però con l’aiuto di alcuni esperti sono stato più tranquillo. Quando ha raccontato questa storia ha avuto contestazioni… Accettai l’idea di realizzare questo spettacolo, incoraggiato dal figlio di un profugo istriano secondo cui, venendo da fuori, avrei potuto raccontare questa storia non intrisa di ideologia e di politica. Lascio ad altri, infatti, questo tipo di scontro ideologico. Quello che faccio è evocare una pagina di storia e far sì che sia uno strumento per comprendere il pregiudizio, lo sradicamento di un’intera popolazione, e anche per parlare metaforicamente dei grandi esodi che stanno avvenendo oggi nel mondo. Con Jan Bernas abbiamo cercato di volare alto, su temi molto importanti a nostro avviso, evitando gli scontri che non hanno niente a che vedere con la storia che racconto».
Uno degli strumenti che lei utilizza nel racconto è la canzone. Come interviene?
«È stato Antonio Calenda, il regista di Magazzino 18, che mi ha spinto a scrivere dei brani, a trasformare quello che inizialmente doveva essere soltanto un monologo, in una sorta di musical. È stata sua l’idea, devo dire geniale, di utilizzare la forma canzone per riassumere in quattro minuti un’emozione».
Che trasformazione c’è stata in Esodo rispetto al precedente spettacolo Magazzino 18 a cui ha fatto riferimento?
«Il testo è più o meno rimasto identico, abbiamo soltanto svuotato. Siamo andati a togliere quello che era l’impianto scenografico, che prima era molto imponente, a favore di un’evocazione della parola. Rimane al centro il racconto, che diventa come una lezione di storia fatta a teatro con gli strumenti che mi sono congeniali. Non è una prosecuzione di Magazzino 18, è un altro impianto drammaturgico, probabilmente più scarno, ma comunque efficace».
Come reagisce il pubblico?
«In tutta l’Italia alla stessa maniera: c’è una grande commozione, a volte anche un senso di colpa per non aver conosciuto prima questa storia e un sentimento di gratitudine per questo racconto».
Per lei è importante dare voce ai vinti? Si considera un artista civile?
«Io sono un rigattiere, un cercatore di tesori nascosti. Quest’attitudine l’avevo fin da bambino, passavo interi pomeriggi a cercare dentro i garage oppure nei mercatini dell’usato. La stessa cosa faccio a teatro: l’attitudine è quella del ricercatore. Mi innamoro di una storia e cerco di approfondirla e restituirla, come una sorta di restauratore, a chi può apprezzarla. Il teatro è diventato per me un’isola di grande libertà, dove posso sperimentare».
C’è un sentimento, una caratteristica comune di questi italiani d’Istria che l’ha colpita?
«La malinconia. Quando parlano della loro terra, della loro vita precedente, lo fanno con un senso di nostalgia per un qualcosa che non potrà esistere più. Mi colpisce sempre emotivamente questo attaccamento alla terra natia, questo patriottismo. Ecco non bisogna mai scambiare il patriottismo con il nazionalismo: il patriottismo ha a che vedere con il cuore, con il sentimento, mentre il nazionalismo è pericoloso, è stato il male del Novecento. Loro invece dimostrano un grandissimo amore per i colori della bandiera, per la propria appartenenza a un popolo, cosa oggi svanita completamente».
Il registro della sobrietà e il raccontare storie di persone, sono state queste le chiavi che le hanno permesso di volare alto?
«Le piccole storie diventano tessere di un mosaico di una storia più grande, è come se fossero tante istantanee, tante fotografie, che poi alla fine rendono completo questo album di ricordi. È chiaro che bisogna contestualizzare storicamente, perché sono passati settant’anni, quindi è cambiato tutto. Parto sempre dalle piccole storie, perché sono come una lente d’ingrandimento, aiutano a mettere a fuoco meglio le cose».
Molte storie saranno rimaste fuori, ce n’è una che rimpiange particolarmente?
«In realtà no, a un certo punto ho sentito che la storia poteva funzionare così. Però ho tolto una parte presente in Magazzino 18, parlava di Goli otok, l’Isola Calva, un lager del comunismo jugoslavo. Questa è una storia che meriterebbe uno spettacolo intero e racconta di quest’unico lager presente in Europa fino al boom economico, un luogo dove venivano imprigionati i comunisti dissidenti. È una storia interessante perché ci restituisce la realtà di chi si opponeva al regime e descrive in toni molto drammatici il trattamento che gli veniva riservato. Per tanti anni le persone che sono vissute a Goli otok non ne hanno voluto parlare».
· Gli Odiatori Responsabili: ora Negazionisti e Giustificazionisti.
La “Sera di giugno” in cui l’odio comunista spense una vita. Cristiano Puglisi l' 01/02/2020 su Il Giornale Off. Francesco Cecchin era solo un ragazzo. E non era neppure maggiorenne. Ma aveva una passione: il Fronte della Gioventù. Una causa per la quale perse tragicamente la vita, il 16 giugno del 1979, dopo diversi giorni di coma e in seguito a un’aggressione avvenuta per le strade di Roma, in una serata che era iniziata in maniera tranquilla: un’uscita come tante, per una cena fuori con la sorella e un amico, che non poterono salvarlo. Un omicidio, il suo, rimasto senza colpevoli, perché quello che incredibilmente era l’unico imputato, un militante comunista, fu assolto. Una vicenda, quella di Cecchin, cui è stato dedicato uno spettacolo teatrale, ideato per ricordare uno dei tanti e sanguinosi episodi degli Anni di Piombo. Episodi spesso sepolti sotto una coltre di ideologica omertà. Soprattutto quando la vittima si trovava dalla parte “sbagliata”. Si chiama Sera di giugno ed è stato portato in scena ieri sera al teatro Rosetum, di via Pisanello 1 a Milano. Una rappresentazione accolta tra gli applausi, che ha scaldato il pubblico, rinnovando il ricordo del periodo più buio della recente storia italiana. Un periodo in cui molti furono i giovani morti per un’idea considerata sconveniente. E che, per questo, per anni non hanno goduto neanche del minimo conforto. Quello della memoria.
Sergio Rame per il Giornale l'11 febbraio 2020. Anche quando si pensa che il fondo sia già stato toccato, Vauro arriva a fare di peggio. E al peggio ormai non c'è più limite. Nel Giorno del Ricordo, in cui si commemorano gli italiani massacrati nelle foibe durante la seconda guerra mondiale e nell'immediato secondo dopoguerra, da parte dei partigiani jugoslavi e del Dipartimento per la Sicurezza del Popolo, il vignettista rosso ha infangato la memoria delle vittime e ferito i famigliari di queste con parole cariche di odio e di una violenza inaudita. "Il Giorno del Ricordo è un trucido strumento di propaganda sovranista e neofascista", ha tuonato ai microfoni dell'agenzia Adnkronos attaccando, poi, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per aver parlato di "crimini di guerra" e non delle "angherie fasciste". Insulti senza precedenti che fanno male a tutto il Paese. "La Giornata del Ricordo non può essere trasformata in quella della dimenticanza. Purtroppo quando la pietà umana diventa un alibi, per il modo in cui è stato istituito il Giorno del Ricordo diventa un volgare e trucido strumento di propaganda sovranista e neofascista". Ancora una volta il nemico numero uno di Vauro resta Matteo Salvini che oggi, come tutto il centrodestra, è tornato a denunciare i crimini del comunismo. "Trovo ripugnante l'uso strumentale di questa ricorrenza", ha tuonato il vignettista che, intervistato dall'Adnkronos, finisce per prendersela anche con il capo dello Stato. "Mattarella finalmente ha dichiarato che le responsabilità fasciste nella Shoah sono equiparabili a quelle naziste. Ed ha smantellato il mito degli italiani 'brava gente' - ha attaccato - non capisco perché sulla Giornata del Ricordo non abbia applicato lo stesso rigido criterio, parlando di 'angheriè fasciste invece che di crimini di guerra". Dopo aver premesso di condividere "la pietà umana per le vittime e gli orrori" della seconda Guerra Mondiale, ha concordato con quanto detto dalla piddì Debora Serracchiani: "La giornata del Ricordo è il palcoscenico della destra sovranista". Per Vauro, in Jugoslavia, ci sono stati prima di tutto i "crimini di guerra fascisti" e i "campi di concentramento". "Perché il progetto fascista era un progetto di sostituzione etnica, quello che si perpetrò fu un genocidio. E noi - ha, quindi, continuato - eravamo il paese aggressore". Nella ex Jugoslavia, secondo Vauro, l'Italia ha avuto "il ruolo del carnefice". Per questo, a suo dire, "l'uso strumentale di questa ricorrenza è dunque disgustoso". "Perché non c'è un momento in cui si ricordano le vittime jugoslave? O i molti militari dell'esercito italiano che nel Montenegro si unirono ai partigiani jugoslavi, in quanto consapevoli della violenza a cui si era arrivati?", si è quindi domandato. Per poi sentenziare alla fine delle intervista che "la pietà per le vittime non può diventare uno strumento auto-assolutorio o di propaganda becera". L'intervista di Vauro ha suscitato un'ovvia indignazione. "Se la verità è quella che raccontano lui e l'Anpi negazionista mi chiedo perché per decenni non ne hanno mai parlato e anzi hanno cercato in tutti i modi di cancellare dalla memoria nazionale foibe e dramma degli esuli", ha commentato Ignazio La Russa ricordando che, "per fortuna", presidenti della Repubblica come Carlo Azeglio Ciampi, che conferì la medaglia d'oro a Norma Cossetto, e oggi Mattarella hanno fatto "opera di verità rispedendo al mittente ogni tentativo negazionista tanto caro a Vauro". "Anche loro sono pericolosi nazi-fascisti?", ha quindi chiesto. "Anche loro in errore come chi come me, nel 2004 (ero capogruppo di Alleanza Nazionale e secondo firmatario della legge) istituì in Parlamento il Giorno del ricordo?".
Giampiero Mughini per Dagospia l'11 febbraio 2020. Caro Dago, sono reduce da una puntata di “Quarta Repubblica” abilmente condotta da Nicola Porro dov’era al centro la questione (in Italia dimenticatissima) delle “foibe” dove gli italiani vennero massacrati a migliaia “a dove coglio coglio” da furenti partigiani comunisti jugoslavi. In studio c’erano dei civilissimi congiunti di italiani che un giorno erano stati prelevati dai titini e di cui loro non seppero mai più niente. Uno di quei congiunti era stato un capostazione, un altro un poliziotto. Leggo oggi le puttanate pronunciate in materia da Vauro, non sono né le prime né saranno le ultime della sua vita. Vedo che innanzi alla fossa di Basovizza, alcuni esponenti del Pd si sono tirati indietro mentre parlava Maurizio Gasparri perché reputavano che stesse facendo della propaganda politica e non un’asciutta commemorazione. Ieri a “Quarta repubblica” la stessa Giorgia Meloni (che pure è persona civile) ha fatto piuttosto un comizio che una commemorazione. Mi sono ricordato di me giovane apprendista giornalista nella redazione del quotidiano comunista romano “Paese Sera” dove c’era un giornalista di una ventina d’anni più grande di me che era stato un partigiano italiano dalle parti di Trieste. Lui teneva in casa una foto del maresciallo Tito a modo di cimelio. La lacerò quando Tito (e fu una delle sue mosse più geniali, aggiungo io) ruppe con Mosca. Ricordo fra le mie letture più commoventi la lettera che il partigiano liberale Guido Pasolini manda al fratello maggiore Pier Paolo dicendogli quanto lui sia distante dai partigiani comunisti che gli sono attigui, e che se fosse per loro darebbero Trieste e tutto quello che c’è intorno ai “compagni” jugoslavi. Lui e altri partigiani della Osoppo verranno poi massacrati da una gang di delinquenti comunisti capeggiati da “Giacca”, uno di cui non so perché Sandro Pertini lo avesse graziato e fatto destinatario di una pensione pagata dalla Repubblica italiana (“Giacca” viveva in Jugoslavia). Quanto al massacro di quelli della Osoppo, fra cui lo zio del mio fraterno amico Francesco De Gregori, Francesco mi ha raccontato che andò suo padre a fare il riconoscimento del cadavere straziato del fratello. Un bel groppo di questioni. Ovviamente su una tale tragedia io mi auguro piuttosto che di ascoltare dei comizi, di leggere bei libri ricchi di fatti accertati, di nomi e cognomi, di spiegazioni esaurienti del prima e del dopo. E’ verissimo che lo strazio delle foibe è anch’esso una eredità di come il fascismo trattò la minoranza slovena. E’ verissimo che sono infiniti i casi di sopraffazione di quella minoranza durante un ventennio; nel mio libro su Italo Svevo avevo ricordato il caso di quella ragazzina che a scuola era stata appesa per le trecce perché aveva pronunziato alcune parole in lingua slovena. Di certo quando il nostro esercito operò nei territori sloveni si comportò né più né meno da esercito invasore, bruciando e fucilando. I nostri padri (i padri della mia generazione, il mio come quello di Pigi Battista) qualcosa in proposito ci sussurravano. E dunque studiare studiare studiare. Detto questo la tragedia dell’italianità in quelle terre è stata immane. Sono stati girati dei film sulle “quattro giornate di Napoli”, che in tutto e per tutto consistettero in qualche sparatoria sui tedeschi che stavano battendo in ritirata. Mai un cenno sul fatto che a Trieste, dove da un lato stavano arrivando gli inglesi e dall’altro stavano entrando i partigiani titini i quali lo gridavano forte e alto che volevano papparsi Trieste, il genero di Italo Stevo guidò un’insurrezione disperata di patrioti italiani che volevano parare la prepotenza dei titini. In quelle tre giornate di lotta cadde l’ultimo dei tre nipoti di Svevo, gli altri due erano morti durante la sciagurata campagna di Russia. C’è un’abbondante letteratura triestina et similia che racconta quelle giornate in cui i titini spadroneggiarono a Trieste. Trieste tornò ad essere nostra ben nove anni dopo, nel 1954. Perdemmo però l’Istria, la Dalmazia, terre in cui il segno dell’italianità era dominante, assolutamente dominante, imparagonabilmente dominante, e lo dico con tutto il rispetto per gli sloveni di ieri e di oggi. Circa 350 mila nostri connazionali salirono sui treni e sulle navi della fuga forti di una valigia e basta, un esodo biblico, e mentre i giornali ufficiali del comunismo nostrano li trattavano da fascisti. I sindacati delle ferrovie scioperavano contro i loro convogli e a Bologna, è raccontato in uno dei migliori libri su quella tregenda, impedirono ai padri di scendere dal treno e raccogliere dell’acqua per i loro figli assetati. La voce di quei 350mila e dei loro figli purtroppo è ancora fievole nel sentimento comune dell’Italia odierna.
Sylos Labini:”La Patria è un valore che non piace a sinistra”. Il Giornale Off il 10/02/2020. Acceso confronto fra Edoardo Sylos Labini e Paolo Berizzi nella puntata di sabato 8 febbraio a Otto e Mezzo su La7: ospite di Lilli Gruber, Labini ha parlato di Patria, Cultura e Identità con la professoressa Alessandra Tarquini e il già citato Paolo Berizzi. Ci hanno provato, a farlo cadere nel solito tranello che consiste nel rovesciare le tue affermazioni per farti dire quello che vogliono loro, ma il fondatore di CulturaIdentità non ci è cascato e ha replicato alle provocazioni, soprattutto di Berizzi, sullo spauracchio dei “fascisti”: la parola “Patria” nasce con Dante, il padre della lingua italiana e per questo dovrebbe accomunare tutti e non essere un elemento divisivo come vorrebbe certa sinistra. C’entra niente il fascismo. Ed è solo rispettando la nostra identità che si può interagire con gli altri rispettandone le tradizioni, altro che razzismo e xenofobia. “Prima gli italiani” è solo uno slogan, il vero pericolo è il terrorismo islamico, basti pensare alla fuga di cittadini ebrei dalla Francia a causa dei continui episodi di intimidazione razziale. Antisemitismo, con cui certa sinistra ha un problema, vedi la Brigata Ebraica che a ogni 25 aprile deve essere scortata. Negazionismo? E che dire dell’ANPI, che al Senato ha organizzato una giornata di studio sulle Foibe senza contraddittorio?
L’orrore comunista e lo sterminio silenzioso di cittadini italiani. in Approfondimento Di Giovanni Donzelli culturaidentita.it il 10 febbraio 2020. Niente spiega l’orrore delle foibe meglio dei racconti dei sopravvissuti. Pochissimi uscirono vivi da quella barbarie. “Dopo giorni di dura prigionia, durante i quali fummo spesso selvaggiamente percossi e patimmo la fame, una mattina, prima dell’alba, sentì uno dei nostri aguzzini dire agli altri: ‘Facciamo presto, perché si parte subito’. Un chilometro di cammino e ci fermammo ai piedi di una collinetta dove, mediante un fil di ferro, ci fu appeso alle mani legate un sasso di almeno venti chilogrammi. Fummo sospinti verso l’orlo di una foiba, la cui gola si apriva paurosamente nera. Uno di noi, mezzo istupidito per le sevizie subite, si gettò urlando nel vuoto, di propria iniziativa. Un partigiano allora, in piedi col mitra puntato su di una roccia laterale, ci impose di seguirne l’esempio. Poiché non mi muovevo, mi sparò contro. Ma a questo punto accadde il prodigio: il proiettile anziché ferirmi spezzò il fil di ferro che teneva legata la pietra, cosicché quando mi gettai nella foiba, il sasso era rotolato lontano da me. La cavità aveva una larghezza di circa 10 metri e una profondità di 15 fino alla superficie dell’acqua che stagnava sul fondo. Cadendo, non toccai fondo, e tornato a galla potei nascondermi sotto una roccia. Subito dopo vidi precipitare altri quattro compagni colpiti da raffiche di mitra e percepii le parole – Un’altra volta li butteremo di qua, è più comodo – pronunciate da uno degli assassini. Poco dopo fu gettata nella cavità una bomba che scoppiò sott’acqua schiacciandomi con la pressione dell’aria contro la roccia. Verso sera riuscii ad arrampicarmi per la parete scoscesa e a guadagnare la campagna, dove rimasi per quattro giorni e quattro notti consecutivi, celato in una buca. Tornato nascostamente al mio paese per timore di ricadere nelle grinfie dei miei persecutori, fuggii a Pola. E solo allora potei dire di essere veramente salvo”, raccontò uno di loro. Di ignobile non ci sono solo i fatti, ma la volontà di tenerli taciuti. Le vicende dell’esodo giuliano-dalmata sono un pezzo di storia censurata per decenni. Un vizio anti-italiano che ha umiliato i nostri concittadini discriminati dall’Italia stessa e svenduti dalla cecità antifascista alla prepotenza Titina. Con i partigiani vicini al Pci che collaboravano con gli infoibatori perché volevano che un pezzo di Italia fosse annesso alla Jugoslavia. Un fatto che ebbe un macabro culmine nell’eccidio di Porzus, in cui i partigiani bianchi (fra i quali il fratello di Pasolini) furono trucidati da quelli rossi. “Bisogna che si sappia come un italiano è stato trattato. […],nel 1945 il Tribunale di Trieste, che era sotto il Governo alleato, mi ha bollato come collaborazionista e sono finito in galera per due anni. Non hanno guardato se avevo combattuto per salvare i miei connazionali e le nostre famiglie. Sono stato umiliato”, ha raccontato in un’intervista a “Famiglia Cristiana” Graziano Udovisi, ultimo superstite delle foibe scomparso nel 2010. E poi “quella ragazza sequestrata dai partigiani”, della quale “per tutta la notte si erano sentite le urla mentre la seviziavano e la stupravano in branco”, prima di gettarla viva in una foiba. Era Norma Cossetto, studentessa universitaria figura simbolo del martirio degli infoibati. Uno sterminio che ha provocato decine di migliaia di morti ed oltre 200 mila deportati. Con questa verità ancora oggi la sinistra fa fatica a fare i conti. Oggi invocano l’arrivo dei profughi stranieri, ma quando nel ’47 i profughi italiani furono privati di tutto e costretti ad abbandonare i loro paesi e le loro abitazioni in Istria, Quarnaro e Dalmazia, deportati in treno in condizioni indegne furono accolti a sassate, sputi e lancio di pomodori alla stazione di Bologna dai giovani che sventolavano la bandiera rossa. In Toscana da consigliere regionale feci approvare un viaggio studio rivolto agli studenti presso il Monumento nazionale della Foiba di Basovizza (Trieste): oltre al viaggio del Treno della Memoria, che ogni anno accompagna centinaia di studenti in visita nei campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau, grazie alla mia mozione la Regione ne organizza uno anche per far conoscere ai giovani il dramma delle foibe. Peccato che il Pd che vi governa da sempre abbia affidato l’organizzazione dell’iniziativa all’Anpi e non alle associazioni di riferimento delle vittime. Grottesco, come se facessero raccontare la storia di Berlinguer a un ex dirigente del MSI, o quella di Almirante a un comunista. La memoria condivisa purtroppo è ancora lontana.
Foibe, quel disprezzo di Togliatti verso gli esuli italiani. Massimo Fochi, professore Storia e Filosofia il 1o febbraio 2020 su Nicolaporro.it. Ho ricevuto questa bella riflessione sul massacro delle foibe e l’ipocrisia di una certa sinistra nei confronti degli esuli italiani da un professore di Storia e Filosofia che con piacere pubblico. Al massacro delle foibe seguì l’esodo giuliano dalmata, ovvero l’emigrazione forzata della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana dall’Istria e dalla Dalmazia. Fuggivano per non morire, fuggivano per non essere infoibati, per non essere perseguitati e torturati. Si stima che i giuliani, i fiumani e i dalmati italiani che emigrarono dalle loro terre di origine ammontino a un numero compreso tra le 250.000 e le 350.000 persone. Fuggivano disperati e speranzosi verso la madre patria che invece, per anni, non li riconobbe, non li soccorse e li tenne in centri profughi quasi come vergogne da nascondere! Ma d’altra parte come si dovevano considerare uomini sconsiderati che scappano via dalla “libertà titina” e dal futuro radioso del socialismo? Ma è ovvio: non potevano essere che rigurgiti del fascismo, dei fascisti e dei mascalzoni in fuga! Leggiamo cosa disse Palmiro Togliatti (le cui posizioni sulla questione giuliano-dalmata sono certamente assai controverse), su quei poveri profughi italiani: “Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città, non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi.” (Da Profughi di Piero Montagnani su L’Unità – Organo del Partito Comunista Italiano – Edizione dell’Italia Settentrionale, Anno XXIII, N. 284, Sabato 30 novembre 1946). Si avete letto bene. Sono quelli che ora fanno la morale sull’accoglienza! Da non credere. Farebbe quasi ridere se non ci fosse da piangere e da commuoversi per quei poveri fratelli nostri, offesi e vilipesi da una ideologia non meno folle del fascismo. Massimo Fochi, professore Storia e Filosofia.
Foibe, l'Anpi choc sui morti: "Numeri della destra gonfiati". L'Anpi di Bologna chiarisce la posizione sulle foibe: se da una parte non viene negata la drammaticità di quei fatti, dall'altra vengono riletti i numeri, che per la rappresentante bolognese dell'Associazione sono "gonfiati" dalla "destra". Giuseppe Aloisi, Martedì 04/02/2020 su Il Giornale. L'Anpi di Bologna non ci sta a passare per negazionista. Attenzione però ai numeri della tragedia degli istriano-dalmati. Cifre che l'ente associativo sembra voler rileggere al ribasso. L'Associazione nazionale partigiani italiani - com'è spesso accaduto nel corso di questi ultimi anni - ha organizzato più di qualche conferenza per la ricorrenza del Giorno del Ricordo, che è dedicato ai martiri delle foibe. Il 10 febbraio di ogni anno, per via di un provvedimento approvato durante il mandato di un governo presieduto da Silvio Berlusconi, è dedicato ad alcune pagine di storia che, fino al 2004, avevano di rado ottenuto piena legittimazione ufficiale nei libri. Uno di questi convegni - quello previsto per oggi presso la biblioteca del Senato - ha sollevato particolare scalpore. Più di qualche esponente politico della coalizione di centrodestra ha accusato l'Anpi di aver messo in campo una conferenza negazionista e volta alla redistribuzione delle responsabilità di un dramma nazionale che, stando alla storiografia ufficiale, ha ormai ben poco di oscuro. Anche qualche figlio di esuli istriano-dalmati si è detto perplesso sulle argomentazioni che potrebbero essere presentate nel corso della riunione convegnistica. L'Anpi ha centrato la sua manifestazione principale sul "fascismo di confine". La sensazione, che è diffusa, è che si voglia provare a reinterpretare quelle fasi, magari alimentando una narrativa in grado di ridimensionare i crimini commessi dai partigiani di Tito. Ma sarà bene attendere qualche notizia in più sui contenuti del convegno, che tuttavia risulta essere a porte chiuse. Anna Cocchi, il vertice bolognese dell'Anpi, ha chiarito in queste ore la posizione assunta dall'associazione che rappresenta. Stando a quanto riportato dall'Adnkronos, la Cocchi ha voluto sottolineare come l'Anpi non abbia alcuna intenzione di negare la drammaticità delle foibe, aggiungendo però qualche specificazione: "Noi non neghiamo assolutamente le foibe - ha dichiarato - ma la verità va detta per quello che è, non si possono usare strumentalmente e politicamente le foibe come è stato fatto con Bibbiano". L'accento, poi, viene posto proprio sulla natura delle statistiche effettive, che per la Cocchi differiscono da quelle presentate dalla "parte politica di destra". L'esponente emiliana-romagnola ha infatti continuato, spiegando come l'obiettivo dell'Associazione nazionale partigiani italiani sia stato quello di fare "una ricostruzione politica e storica, cosa che l'Anpi ha fatto con una ricerca approfondita sulla storia del confine orientale". E quali sono, secondo la Cocchi, le risultanze di quella indagine? "Purtroppo - ha fatto presente abbiamo potuto constatare, attraverso questo studio, fatto raccogliendo testimonianze da storici, studiosi ed esperti e non da politici, che i dati raccolti - che appartengono alla storia - sconfessano i numeri dei morti sostenuti dalla parte politica di destra che risultano gonfiati". Sarebbe la destra, insomma, a distorcere la realtà storiografica. Nel frattempo, il centrodestra continua ad insorgere: il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri ha detto che l'Anpi dovrebbe provare vergogna, così come ripercorso dall'agenzia sopracitata. La senatrice Isabella Rauti di Fdi, invece, ha chiesto d'introdurre il reato di "negazionismo delle foibe".
Foibe, Meloni: ''Convegno Anpi revisionista, vogliono minimizzare crimini contro italiani''. Polemiche sul convegno organizzato oggi al Senato della Repubblica dall'Anpi dal "Il fascismo di confine e il dramma delle foibe". Duro attacco anche dalle associazioni degli esuli. Gabriele Laganà, Martedì 04/02/2020, su Il Giornale. Non si spengono le polemiche in merito al convegno organizzato oggi al Senato della Repubblica dall'Anpi dal "Il fascismo di confine e il dramma delle foibe" per celebrare il Giorno del Ricordo. Il punto di scontro è che molti, dai partiti del centro-destra fino all’Associazione Nazionale Dalmata e al Comitato 10 Febbraio, sostengono che in realtà l’appuntamento sia un modo per minimizzare o giustificare le orribili violenze contro gli italiani compiute dai partigiani comunisti di Tito. Di questo ne è certa la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni che all’Adnkronos ha lanciato un duro attacco agli organizzatori dell’evento: "Il convegno organizzato al Senato della Repubblica dall'Anpi "Il fascismo di confine e il dramma delle foibe" rappresenta senza dubbio l'ennesima occasione, dal chiaro intento revisionista, di voler minimizzare o provare a giustificare la violenza contro gli italiani. E' un vero e proprio oltraggio agli esuli istriani e dalmati infoibati vittime dell'odio comunista e, ancor più grave, che il tutto avvenga all'interno di un'Istituzione","Non è accettabile - ha continuato la Meloni - che ancora ci sia bisogno di rimarcare che le foibe non sono state un dramma ma un crimine i cui colpevoli troppo spesso non hanno pagato. Anpi senza vergogna”. Le foibe sono profonde cavità carsiche che caratterizzano il territorio giuliano. Al loro interno, anche a guerra finita, gli spietati partigiani jugoslavi e gli uomini della Ozna gettarono, anche vivi, civili italiani di Istria, del Quarnaro e della Dalmazia, carabinieri, partigiani “bianchi” (cioè non comunisti) e in generale di tutti coloro che si opponevano al Maresciallo Tito. Con la legge n. 92 del 30 marzo 2004, il Parlamento italiano ha ufficialmente riconosciuto il 10 febbraio come "Giorno del Ricordo". L’obiettivo è quello di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe e dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati. Eppure oggi c’è ancora chi nega o minimizza gli eccidi compiuti dagli uomini della “stella rossa”. C’è il sospetto che il convegno organizzato oggi al Senato sia indirizzato per portare avanti tesi negazioniste. "Esprimiamo preoccupazione, senza pregiudizio, per l'iniziativa organizzata dall'Anpi domani (oggi, ndr) in Senato in ricordo delle Foibe. Dalla locandina, dai relatori che saranno presenti sembra che l'Anpi si sia fatta promotrice di iniziative che sembrano avere un sapore riduzionista e giustificazionista e se ciò, domani, fosse confermato sarebbe l'ennesima presa in giro proprio alla vigilia della cerimonia ufficiale del Giorno del Ricordo". Lo ha detto all'Adnkronos Carla Cace, rappresentante dell'Associazione Nazionale Dalmata e Comitato 10 Febbraio in merito all'iniziativa organizzata dall'Anpi domani in Senato. Secondo la stessa Cace dalla locandina ''si evince una certa contraddizione dato che si dice da una parte che l'incontro è aperto al pubblico ma allo stesso tempo è scritto che potrà entrare solo chi ha l'invito. Una situazione che preoccupa e che monitoreremo''. Ma vi è anche un altro elemento sospetto che fa ipotizzare che il convegno sia “di parte”: “Rappresentati di varie associazioni- ha aggiunto la Cace- hanno cercato di partecipare all'iniziativa rispondendo alla mail presente nella locandina, ma non hanno ricevuto alcuna risposta. In questo modo non c'è contraddittorio, i partecipanti sono tutti docenti, professori di una chiara matrice politica, non ci sono rappresentanti di associazioni diverse, per così dire opposte". La rappresentante dell'associazione Nazionale Dalmata e Comitato 10 Febbraio ha anche sottolineato che ''l’accostamento di fascismo come causa delle Foibe è quanto di più storicamente sbagliato e quanto di più strumentale ed è una suggestione capziosa che certe realtà utilizzano facendo finta di ignorare che la componente italiana in Venezia Giulia e Dalmazia era una componente secolare e non certo collegata al ventennio e finche si cercherà di analizzare in questi termini la storia del confine Orientale, si cadrà nel giustificazionismo e non ci sarà una vera pacificazione nazionale". Maria Antonietta Marocchi, figlia di esuli istriani, all’Adnkronos ha lanciato un duro attacco per la decisione di affidare all'Anpi la rievocazione ufficiale delle Foibe: "E' gravissimo che l'Anpi organizzi al Senato il seminario sulle Foibe. Cercano di contraddire i fatti, non bastava il silenzio da 50 anni, continuano a nascondere la verità, rimandando l'aggiornamento dei libri di storia". “Trecentocinquantamila persone hanno lasciato la loro terra- ha continuato la Marocchi- perché hanno scelto di restare italiani. Lo hanno fatto per amore della patria, hanno subito terribili sofferenze, ed è ora che questi negazionisti la finiscano, usano le Foibe come se fosse una vendetta per quello che ha fatto il fascismo".
L'Anpi prende il Senato per raccontare le foibe "Offesa inaccettabile". Al convegno sugli eccidi titini neppure un rappresentante degli esuli. Fdi e Fi protestano. Fausto Biloslavo, Martedì 04/02/2020, su Il Giornale. L'Associazione nazionale partigiani tiene oggi un convegno in una sala del Senato giocando d'anticipo sulla giornata del Ricordo delle foibe e dell'esodo del 10 febbraio. E scoppia la polemica. A parte l'impostazione «giustificazionista» fin dal titolo, «Il fascismo di confine e il dramma delle foibe» non c'è neppure un rappresentante degli esuli a fare da contraltare. E l'aspetto più discutibile riguarda proprio il relatore dell'unico intervento, sul «dramma delle foibe», rispetto agli altri tre dedicati al periodo fascista. Franco Cecotti viene presentato come «già presidente dell'Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell'Età contemporanea nel Friuli-Venezia Giulia». Il relatore, però, è stato eletto nel 2016 segretario del comitato provinciale dal XIII congresso dell'Anpi di Trieste. A fianco, sul sito dell'Associazione partigiani con il suo nome, spiccano due foto dei sostenitori. Anziani veterani con tanto di copricapo filo titino, la «bustina» con la stella rossa. Una foto in primo piano ritrae Drago Slavec, recentemente scomparso, che ha combattuto con Josip Broz Tito in Bosnia. Poi fu catturato dai tedeschi e internato, ma riuscì sfuggire e si unì ai partigiani in Valtellina. Il presidente dell'Anpi di Trieste, Fabio Vallon, eletto con Cecotti, il 12 maggio scorso postava sulla sua pagina Facebook un selfie con la gigantografia del maresciallo Tito a Brioni e la frase «dame el cinque!». L'impostazione del convegno strettamente su invito, presso la Biblioteca del Senato, è chiara. La prima relazione è sulla «nascita del fascismo», poi verrà trattato «il fascismo di confine» e alla fine «i crimini fascisti» con Marta Verginella, storica dell'Università di Lubiana. «Il dramma delle foibe» sarà esposto solo da Cecotti eletto nell'Anpi da chi ha combattuto al fianco di Tito, il carnefice degli italiani. Per Massimiliano Lacota, presidente dell'Unione degli Istriani, associazione degli esuli con sede a Trieste, «è gravissimo che i partigiani tengano un seminario monco in un'aula del Senato con nessun rappresentante della nostra tragedia». Marcello Veneziani ha lanciato un tweet al vetriolo: «È un'infamia storica e un oltraggio ai caduti nelle foibe (...). La dittatura sulla Memoria sta diventando insopportabile». Fratelli d'Italia con Luca Ciriani ricorda che «le foibe non sono un dramma, ma un crimine. Anche quest'anno l'Anpi cerca di avvelenare la memoria degli infoibati» con un convegno «che sembra proseguire sulla strada del giustificazionismo». Maurizio Gasparri, di Forza Italia, sostiene «che in una sala istituzionale una manifestazione dal sapore equivoco» a ridosso del 10 febbraio «è un'offesa». L'ala dei negazionisti che vorrebbero abolire il giorno del Ricordo rivela: «L'Anpi nazionale quest'anno ha dato disposizione che le sue sezioni non partecipino ad altra iniziativa se non quella, centrale» nella biblioteca del Senato. Sandi Volk, che fa parte dei duri e puri, parlerà a Parma il 10 febbraio sulla foiba «di Basovizza falso storico» anche se è un monumento nazionale. Gli stessi partigiani perdono il pelo, ma non il vizio. L'Anpi di Lecce, pochi giorni fa, ha contestato la decisione del Consiglio comunale di intitolare una via a Norma Cossetto, medaglia d'oro alla memoria bollandola come «una presunta martire delle foibe». A Gorizia, l'Anpi organizza per «il Giorno del ricordo 2020» la proiezione delle «Memorie degli incendi» sui 200 villaggi dati alle fiamme durante l'occupazione tedesca fra Slovenia, Croazia e Italia. Neanche un cenno alle foibe nel documentario finanziato dall'Unione europea.
L'Anpi e il convegno sulle foibe. Scoppia la polemica al Senato. L'Anpi organizza un convegno sul fascismo e le foibe al Senato, ma la politica e le associazioni accusano: "Negazionismo". Giuseppe Aloisi lunedì 03/02/2020, su Il Giornale. commentaedìL'Anpi, per Donatella Schürzel, ha mosso un "attacco subdolo e negazionista" sul tema delle foibe. Il convegno organizzato dall'Associazione nazionale partigiani italiani presso la biblioteca del Senato, anche per il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, ha un "chiaro obiettivo negazionista". Polemiche simili erano state sollevate anche lo scorso anno, con la stessa sigla organizzatrice protagonista. Ma non in relazione ad una conferenza come quella prevista per domani. La stessa che sembra avere tutti i crismi della ufficialità istituzionale. L'evento rischia di essere travolto da una vera e propria bufera mediatico-politica. La coalizione di centrodestra, che nel 2004 ha istituito per legge il Giorno del Ricordo, sta insorgendo. Ma anche la Schürzel, che è la presidente dell'Anvgd di Roma, si è fatta sentire con chiarezza. Stando a quanto riportato dall'Adnkronos, l'esponente del comitato romano dell'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia ha parlato di una "cosa ignobile", riferendosi appunto al convegno che si terrà tra qualche ora. Ma a preoccupare non sono soltanto le tematiche che verranno esposte: la presidente ha rimarcato come non tutti gli interessati possano accedere all'iniziativa, che è dunque riservata agli invitati. Le domande provenienti dal comitato sono dirette e precise: "Forse perché ha paura di qualcuno che possa creare un contraddittorio? O teme di avere rappresentanti di esuli o parenti e amici di persone finite nelle foibe che possano testimoniare che questa è storia e verità e non ipotesi e illazioni?". Ci si chiede dunque quali siano le ragioni dietro le porte chiuse. Nonostante la ricerca storiografica, quindi, sembrano persistere tentavi volti a dubitare della veridicità del dramma degli infoibati o quasi. Vale la pena sottolineare come, dal punto di vista contenutistico, la linea perseguita dall'iniziativa dell'Anpi debba ancora essere verificata. Se non altro perché l'evento non si è ancora tenuto. Ma qualcosa nell'aria c'è. E la Schürzel lo ha fatto notare, concludendo in questa maniera: "Certo è che l'Anpi, forse presa da sconforto per il fatto che il giorno 10 febbraio il Senato insieme alla Camera celebrerà il giorno del ricordo a palazzo Madama, ha pensato di passare sottotraccia e fare, in un luogo attinente allo stesso Senato, un convegno dai toni quantomeno ambigui e oscuri". Si tratterebbe di una contromossa, insomma. Sul manifesto dell'iniziativa sono stati riportati gli interventi. Tra questi, è previsto quello della storica Anna Maria Vinci, che parlerà di fascismo di confine. Lo stesso titolo della conferenza può essere indicativo: "Il fascismo di confine e il dramma delle foibe". Il sentore insomma è che l'Anpi possa provare a ridistribuire le responsabilità di quei fatti, che sono ormai invece storicizzati. Il senatore di Fratelli d'Italia Luca Ciriani è poi intervenuto nel corso della serata, invitando tutti a tenere presente le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sulla tragedia vissuta dagli istriano-dalmati. Ciriani, secondo quanto ripercorso anche dall'Agi, ha voluto rammentare come le foibe siano state un "crimine". E l'Anpi, per l'esponente del partito guidato da Giorgia Meloni, "cerca di avvelenare la memoria degli infoibati". Toni simili a quelli utilizzati da Emanuele Merlino, che è il presidente del Comitato 10 Febbraio: "La storia delle foibe e dell'esodo merita rispetto", ha esordito. Poi la stoccata: "Strumentalizzarla ai fini ideologici come sembra fare l'Anpi non solo è scorretto ma è anche un'ulteriore ingiustizia a chi ha tanto sofferto". Vedremo se nel corso delle ore ci saranno altri sviluppi sul caso, che per Merlino rappresenta una vera e propria "ennesima vergogna".
Il Pd via da Basovizza per protesta. Ignorano le foibe per anni e ora s’infuriano se ci va la destra. Redazione de Il Secolo D'Italia lunedì 10 febbraio 2020. Il Pd se ne va dalla foiba di Basovizza per protesta. Motivo? Gli interventi del presidente della Regione Friuli Massimiliano Fedriga e del senatore di FI Maurizio Gasparri, che si trovava lì in rappresentanza del Senato. In pratica non hanno perso occasione per fare una sterile polemica in un giorno che dovrebbe unire nel ricordo tutti gli italiani. I parlamentari dem – la deputata Debora Serracchiani e i senatori Luigi Zanda e Tatjana Rojc – hanno preferito andarsene. “La Foiba di Basovizza ormai è palcoscenico della destra sovranista”, ha detto un’inviperita Serracchiani. “Il nostro impegno è sempre maggiore affinché questo giorno sia una solennità in cui si condivide pietà e giustizia e non un’occasione per spingersi in prima fila alla ricerca delle telecamere”, ha specificato. Parole che non convincono a fronte di una vergognosa defezione da una cerimonia molto partecipata. Erano presenti in migliaia, con numerose rappresentanze delle scuole, nonostante la pioggia. La cerimonia ha avuto il via con il rituale ingresso sulla spianata dei medaglieri delle associazioni d’Arma, dei gonfaloni dei Comuni, con in testa quelli di Trieste e Muggia, seguito dall’alzabandiera sulle note dell’Inno di Mameli. C’erano anche il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D’Inca, il prefetto di Trieste, Valerio Valenti e il sindaco del Comune di Trieste, Roberto Dipiazza. E ancora il presidente del Comitato per i Martiri delle Foibe, Paolo Sardos Albertini, i vertici delle associazioni dell’Esodo istriano-giuliano-dalmata. Tantissimi i pullman da tutta la regione, dal Nordest e dalla vicina Slovenia, i gruppi e le associazioni combattentistiche e d’arma presenti, con i propri labari. Alla Santa Messa officiata dal vescovo di Trieste, monsignor Giampaolo Crepaldi, la lettura della Preghiera per gli Infoibati, scritta dall’allora Arcivescovo di Trieste e Capodistria, Antonio Santin, e una serie di poesie e riflessioni lette dagli studenti.
Basovizza, l’intervento di Gasparri. ”Noi sapevamo: tanti, troppi, negavano. – ha detto nel suo intervento Maurizio Gasparri – Venivamo giovani, 40 anni fa, col tricolore sull’altipiano. Noi sapevamo: tanti, troppi, negavano. Ci vollero 35 anni perché Basovizza fosse dichiarato Monumento di interesse nazionale nel 1980. Ci vollero 46 anni perché un presidente della Repubblica si inchinasse davanti ai morti di Basovizza nel 1991. Ci vollero 47 anni perché Basovizza nel 1992 fosse dichiarato Monumento Nazionale. Ci vollero 59 anni perché nel 2004 fosse istituito con legge dello Stato il Giorno del Ricordo dedicato ai martiri delle foibe ed al popolo di Istria, Fiume, Dalmazia, costretto all’esodo. Quanto ci vorrà perché scompaiano quelle sacche di deprecabile negazionismo militante biasimate ieri dal presidente Mattarella?”. Gasparri ha anche commentato le parole di Debora Serracchiani: “Basovizza per la Serracchiani è palcoscenico della destra sovranista? Si inchini al ricordo dei martiri e rispetti le Istituzioni. A Basovizza hanno parlato i rappresentanti istituzionali accolti non da proteste ma da boati di applausi”. E ha aggiunto: “Il dramma che questa ricorrenza evoca mi spinge ad evitare di rispondere alla Serracchiani come meriterebbe, perché reputo sia intelligente non alimentare questa polemica. Purtroppo la sinistra su questo versante ha difficoltà che non riesce a superare: invece di rendere omaggio ai caduti alimenta polemiche. Io no, perché convivo con fenomeni legati alla scarsa capacità di comprendere i fatti e sopporto”.
Lollobrigida, il Pd non riesce ad ascoltare la verità sulle foibe. Anche Francesco Lollobrigida, capogruppo FdI alla Camera, ”I parlamentari del Pd abbandonano la cerimonia presso la Foiba di Basovizza perché, dicono, il luogo è diventato un palcoscenico della destra sovranista? Evidentemente per loro è insopportabile ascoltare la verità sui crimini del comunismo. Tratto comune di tutti gli interventi, dalle istituzioni, agli studenti, alle associazioni fino ai prelati, è stata proprio la condanna del silenzio sulle Foibe durato troppo tempo. Il comunismo, almeno quanto il nazismo, è stato protagonista di eccidi di una ferocia diabolica.
Mattarella: «Le foibe una sciagura nazionale». Pubblicato domenica, 09 febbraio 2020 su Corriere.it da Alessandra Arachi. Il presidente della Repubblica usa parole decise: «Le foibe furono una sciagura nazionale alla quale i contemporanei non attribuirono — per superficialità o per calcolo — il dovuto rilievo. Questa penosa circostanza pesò ancor più sulle spalle dei profughi». Ieri, alla vigilia del «Giorno del Ricordo», il capo dello Stato Sergio Mattarella ha partecipato al Quirinale a un concerto in memoria degli italiani torturati uccisi nelle foibe, alla presenza di esponenti delle associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati. Il capo dello Stato ha invitato a coltivare la memoria «per combattere piccole sacche di deprecabile negazionismo militante», nella consapevolezza che «oggi il vero avversario da battere, più forte e più insidioso, è l’indifferenza che si nutre spesso della mancata conoscenza». «L’angoscia e le sofferenze delle vittime restano un monito perenne contro le ideologie e i regimi totalitari che, in nome della superiorità dello Stato, del partito o di un presunto ideale, opprimono i cittadini, schiacciano le minoranze e negano i diritti fondamentali », rilancia il presidente Mattarella, mentre da Marina di Carrara arriva la notizia del danneggiamento di due targhe di marmo per ricordare le vittime delle foibe. «Questi atti vandalici confermano la necessità di mantenere viva la memoria», è il commento di Federico D’Incà, il ministro dei Rapporti con il Parlamento del Movimento Cinque Stelle che stamattina rappresenterà il governo alle celebrazioni che a Basovizza vedranno riuniti un nutrito gruppo di parlamentari bipartisan. Fra questi, oltre al leghista presidente della Regione Massimiliano Fedriga, ci saranno il leader della Lega, Matteo Salvini, la presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, e gli esponenti dem, Luigi Zanda, Debora Serracchiani e Tatjana Rojc. Prevista anche la presenza del senatore azzurro Maurizio Gasparri. Le celebrazioni cominceranno alle nove e mezza con la deposizione di corone di alloro al monumento della Foiba di Monrupino (Trieste), per poi proseguire alle ore dieci e trenta circa, con la cerimonia solenne al Sacrario della Foiba di Basovizza, monumento nazionale. «La ricerca storica è l’arma più potente contro ogni strumentalizzazione», ha detto Luigi Zanda membro del Senato della Repubblica, dove oggi pomeriggio ci sarà una commemorazione in ricordo delle vittime delle foibe. Alle quattro anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte arriverà a Palazzo Madama per la cerimonia insieme al presidente della Camera Roberto Fico e a quella del Senato Maria Elisabetta Casellati.
Mattarella: "Le foibe una sciagura nazionale. Negazionismo deprecabile, il problema è l'indifferenza". Il presidente della Repubblica interviene in occasione della celebrazione del Giorno della memoria. "Disinteresse e noncuranza si nutrono spesso della mancata conoscenza della storia e dei suoi eventi". La Repubblica il 09 febbraio 2020. Le foibe furono una sciagura nazionale sottovalutata, ma oggi bisOgna stare attenti, otre, al negazionismo all'indifferenza. Sergio Mattarella parla della tragedia che si consumò nel dopoguerra al confine fra Italia e Jugoslavia nel giorno della Giornata del Ricordo in memoria delle vitTime delle foibe. "Una sciagura nazionale alla quale i contemporanei non attribuirono - per superficialità o per calcolo - il dovuto rilievo", dice il presidente della Repubblica. Secondo il capo dello Stato "esistono ancora piccole sacche di deprecabile negazionismo militante", ma "oggi il vero avversario da battere, più forte e più insidioso, è quello dell'indifferenza, del disinteresse, della noncuranza, che si nutrono spesso della mancata conoscenza della storia e dei suoi eventi". "La persecuzione, gli eccidi efferati di massa - culminati, ma non esauriti, nella cupa tragedia delle Foibe - l'esodo forzato degli italiani dell'Istria della Venezia Giulia e della Dalmazia fanno parte a pieno titolo della storia del nostro Paese e dell'Europa". "Si trattò di una sciagura nazionale alla quale i contemporanei non attribuirono - per superficialità o per calcolo - il dovuto rilievo. Questa penosa circostanza pesò ancor più sulle spalle dei profughi che conobbero nella loro Madrepatria, accanto a grandi solidarietà, anche comportamenti non isolati di incomprensione, indifferenza e persino di odiosa ostilità". "Si deve soprattutto alla lotta strenua degli esuli e dei loro discendenti se oggi, sia pure con lentezza e fatica, il triste capitolo delle Foibe e dell'esodo è uscito dal cono d'ombra ed è entrato a far parte della storia nazionale, accettata e condivisa. Conquistando, doverosamente, la dignità della memoria".
Foibe, Mattarella: “Sciagura nazionale che non ebbe il dovuto rilievo, negazionismo deprecabile”. Redazione de Il Riformista il 9 Febbraio 2020. Il 10 febbraio si commemora il giorno del ricordo, per conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale. Una sciagura sciagura nazionale sottovalutata e poco ricordata ma che con le ventate di negazionismo degli ultimi tempi è necessario ricordare. Per questo motivo il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella parla della tragedia che si consumò nel dopoguerra al confine fra Italia e Jugoslavia. “Una sciagura nazionale alla quale i contemporanei non attribuirono – per superficialità o per calcolo – il dovuto rilievo”, dice il presidente della Repubblica. Secondo il capo dello Stato “esistono ancora piccole sacche di deprecabile negazionismo militante”, ma “oggi il vero avversario da battere, più forte e più insidioso, è quello dell’indifferenza, del disinteresse, della noncuranza, che si nutrono spesso della mancata conoscenza della storia e dei suoi eventi”. “La persecuzione, gli eccidi efferati di massa – culminati, ma non esauriti, nella cupa tragedia delle Foibe – l’esodo forzato degli italiani dell’Istria della Venezia Giulia e della Dalmazia fanno parte a pieno titolo della storia del nostro Paese e dell’Europa”. “Si trattò di una sciagura nazionale alla quale i contemporanei non attribuirono – per superficialità o per calcolo – il dovuto rilievo. Questa penosa circostanza pesò ancor più sulle spalle dei profughi che conobbero nella loro Madrepatria, accanto a grandi solidarietà, anche comportamenti non isolati di incomprensione, indifferenza e persino di odiosa ostilità”. “Si deve soprattutto alla lotta strenua degli esuli e dei loro discendenti se oggi, sia pure con lentezza e fatica, il triste capitolo delle Foibe e dell’esodo è uscito dal cono d’ombra ed è entrato a far parte della storia nazionale, accettata e condivisa. Conquistando, doverosamente, la dignità della memoria”.
Mattarella parla delle foibe e da sinistra piovono insulti: “Sei più bravo quando taci”. Redazione de Il Secolo D'Italia lunedì 10 febbraio 2020. Mattarella parla delle foibe come “sciagura nazionale”. E lancia un monito contro il negazionismo ormai non più strisciante che macchia il ricordo collettivo di quella tragedia. E cosa accade? A sinistra scoprono che l’odio alberga anche dalle loro parti. Nel blog “La camicia rossa” di Leonardo Cecchi sull’Espresso si può leggere una raccolta degli insulti e delle critiche becere che sono state rivolte al presidente della Repubblica. “Sei più bravo quando taci”, “Democristiano, stai zitto”, “Ti mancano le basi”, “Vai a dormire”, “Vaffan**o, i problemi sono altri”. Si tratta certamente di rigurgiti rancorosi di una minoranza, che però non trovano adeguato spazio. Quasi si trattasse di una parentesi da far passare sotto silenzio. Con onestà intellettuale il blogger dell’Espresso li sottolinea invece. E li stigmatizza. Prendendo atto che l’odio è trasversale, è un umor nero che contagia tutte le parti politiche e che trova spazio soprattutto sui social. Scrive Cecchi: “E quindi chi ieri, proprio ieri, si spellava le mani per i suoi bellissimi discorsi contro l’odio, chi si è alzato in piedi sentendolo parlare di dialogo e non di scontro, oggi prende quello stesso odio e lo riversa su di lui. Con una cattiveria inaudita. Facendosi uscire dalla bocca parole oscene. Fa dunque davvero riflettere notare che la virulenza dell’aggressione verbale sui social sta divenendo, in Italia, un male diffuso”. Un male che impedisce una memoria serena e condivisa. E abbatte ogni barriera ideologica giungendo ad avvelenare ogni parte del Paese. Conclude Cecchi: “Ma a chi, anche adesso, sta insultando Sergio Mattarella, un ammonimento. A voi, voi che ne acclamavate la figura fino a quando vi ha fatto comodo, diciamo solo una cosa: vergognatevi. Siete, senza dubbio alcuno, addirittura peggiori di quelli che l’odio lo hanno sistematizzato. Perché vi dimostrate ipocriti comportandovi peggio di loro”. C’è chi non tollera quindi che la figura del presidente della Repubblica sia super partes. Bene la presa d’atto dell’Espresso. Si attende ora analoga illuminazione anche in tutta quell’area di sinistra che della lotta all’odio ha fatto un cardine della propria azione politica.
Il Pd censura le vignette sulle Foibe «Offendono il nostro partito e l'Anpi». I responsabili dem a Firenze negano l'autorizzazione per la mostra di Krancic. «Vogliono negare il ricordo della tragedia». Fabrizio Boschi, Sabato 08/02/2020 su Il Giornale. Perché la sinistra è così. Quando si tratta dei suoi va bene tutto. Quando, invece, a fare satira sono gli altri, allora non passa nulla. Come ogni ricorrenza delle Foibe che si rispetti, anche quest'anno, un po' prima del 10 febbraio, è buriana. Al centro del tirassegno questa volta c'è il volto di Alfio Krancic, 71 anni, 40 dei quali trascorsi a disegnare vignette (e da 26 per il Giornale). Lui è particolarmente sensibile al tema delle Foibe in quanto, insieme alla sua famiglia, è stato esule da Fiume nel 1949, quando aveva appena un anno, fuggendo in un campo profughi a Firenze, dove poi si è stabilito. Ebbene, in questi anni Krancic ha disegnato tante vignette sulle Foibe. E al responsabile giovani di Forza Italia di Firenze, Davide Loiero, è venuta l'idea di allestirne una mostra itinerante con una ventina di vignette tra i vari quartieri di Firenze. Missione impossibile. Nella liberal democratica Firenze, i presidenti dei quartieri eletti dal Pd hanno negato l'autorizzazione ad ospitare l'esposizione. «Il tutto seguendo il solito grottesco protocollo - spiega il capogruppo di Forza Italia in consiglio comunale Jacopo Cellai . Al Q1 ci hanno detto che la decisione spettava al sindaco Nardella; al Q4 che se ne parlava l'anno prossimo, ma che sarebbero dovute essere esposte anche le vignette di altri disegnatori. La risposta più goffa è quella della presidente Perini del Q3 che su Whatsapp ci ha scritto che quelle vignette erano offensive per presidenti della Repubblica, Anpi e Pd. Se non è censura questa Il fatto è che per la sinistra fiorentina meno si parla di Foibe, meglio è». E la Perini mette una toppa che è peggio del buco: «Non è una questione di censura è una questione di educazione e di buon senso». A questo punto Krancic non ce la fa più a stare zitto: «Nella mia satira cerco sempre di colpire di fioretto e mai col bastone. Mi si accusa di attaccare i presidenti della Repubblica? Non è vero: solo Napolitano che non andò a Basovizza. Sull'Anpi poi cosa posso dire? Ogni anno ne inventano unaproprio loro parlano di satira volgare». Ma da quando in qua la satira ha bisogno di giustificarsi? Abbiamo mai sentito Vauro Senesi o Sergio Staino scusarsi per le loro vignette d'odio? Esempi. Staino, 2010. Bobo dice alla figlia: «Novantasei membri del governo polacco spariti di colpo». E lei: «La solita storia, a chi tutto e a chi niente». Riferendosi al governo Berlusconi e alla tragedia aerea che decimò l'esecutivo della Polonia. Vauro, 2016: disegna un piatto di sterco con sopra le candeline, il numero 80 e sotto la scritta «Habby Birthday Silvio». «Sarebbero queste le vignette educate e di buon senso? continua Krancic -. La verità è solo una: nel 2004 quando ci fu un'apertura, la sinistra ha inghiottito a forza il boccone amaro delle Foibe. Ma quel pasto pesante crea ogni anno reflussi gastrici dolorosi. Abbiano allora il coraggio di dirlo: eliminiamo il ricordo delle Foibe e basta. Tanto ogni anno è la solita musica».
Foibe, posta la foto di Tito con il «cuore»: bufera su esponente Pd. Pubblicato martedì, 11 febbraio 2020 su Corriere.it da Giulia Ricci. «Oggi così» e un cuoricino rosso, la didascalia della fotografia in bianco e nero del maresciallo Tito. Non molto tempo dopo, la richiesta di scuse da parte del suo partito, il Pd. Ma lui ribatte: «La memoria in questo paese viene distorta». È il segretario del circolo Pd di Bruino, Stefano Marengo, il protagonista dell’ennesima polemica che parte dai social, per una celebrazione che arriva durante il Giorno del Ricordo, istituito nel 2004 per «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe». Il primo a esprimere il suo biasimo è proprio Andrea Appiano, l’ex consigliere regionale di cui Marengo è stato portaborse nella scorsa legislatura: «Permettimi di dire che lo trovo davvero di cattivo gusto. Prova a pensarci seriamente un po’ su. Sulle ricostruzioni storiche ci possono essere punti di vista diversi, ma ironizzare su una tragedia è proprio inaccettabile». Il secondo è l’uomo fidato di Sergio Chiamparino, Carlo Bongiovanni: «Oggi hai pisciato fuori dal vaso. Non è fine ma è molto chiaro...». Ma se il presidente del Pd di Torino, Domenico Cerabona, lo difende: «Mio nonno dopo l’8 settembre ha fatto il partigiano con i “titini”, una delle ragioni per cui vado più fiero di portare il suo nome», il segretario metropolitano Mimmo Carretta punta il dito: «è un post sciocco e superficiale, che non corrisponde ai valori del Pd e della sua comunità. La memoria e la storia non si prestano a facili ironie, chieda scusa». Di tutta risposta, Marengo scrive un lungo post di spiegazione del proprio punto di vista: «Come ho ripetutamente scritto nei giorni scorsi – si legge sulla pagina Fb di Marengo - le foibe furono un crimine. Il punto non è questo, ma come la memoria, in questo paese, viene organizzata e distorta. I gravi regolamenti di conti del periodo bellico operati da alcuni dei militanti della resistenza o da loro gruppi - e tra questi regolamenti di conti sono evidentemente comprese le foibe - non possono – continua - in alcun caso compromettere l'onore del movimento partigiano nella sua interezza. Né dall'evidenza dei crimini si può dedurre la responsabilità diretta dell'alto comando partigiano: a quanto mi consta, infatti, manca qualsiasi prova del diretto coinvolgimento di Tito in quelle azioni criminali. Ora, mi chiedo se davvero tutto questo aiuti la costruzione di una memoria collettiva virtuosa, capace cioè di essere indicazione e monito per il presente. La risposta, evidentemente, è no. Il crimine senza appello delle foibe non meriterebbe qualcosa di meglio? Non meriterebbe un'indagine storica seria sulle sue cause e sulle responsabilità di chi si macchiò di quelle azioni turpi? Rinunciare alle semplificazioni e agli slogan e conoscere davvero la storia è l'unico modo che abbiamo, oggi, per rendere giustizia ai morti». Niente scuse, quindi? «Se qualcuno ha mal compreso le mie affermazioni – spiega Marengo - chiedo scusa e me ne assumo la responsabilità. La mia esigenza, tuttavia, è spiegare una posizione che non può essere ridotta a slogan di comodo».Ad attaccare anche il capogruppo della Lega in Sala Rossa, Fabrizio Ricca: «E questi sono quelli che ci fanno la morale? Che chiedono le patenti da democratici? Postando la foto di un dittatore che ha ucciso migliaia di nostri connazionali! Che schifo!»
Un parco per Norma Cossetto? Per i partigiani è "bullismo politico". L'Anpi Pescara contro la decisione del Comune di intitolare i giardini alla giovane uccisa nelle Foibe: "Iniziative culturali tese a riabilitare un passato di cui c'è poco da gloriarsi". Luca Sablone, Venerdì 09/10/2020 su Il Giornale. La sinistra riesce nell'impresa di continuare a criticare l'intitolazione di un giardino in memoria di Norma Cossetto, medaglia d'oro al valor civile attribuita dal presidente della Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi. L'ultimo episodio si è verificato a Pescara: il Comune si è visto scagliarsi contro l'Anpi, andata su tutte le furie per l'iniziativa nel parco di piazza Italia. L'Associazione nazionale partigiani d'Italia ha definito l'azione un "atto di bullismo politico" il quale non fa altro che aggiungersi alle altre "discutibili 'iniziative culturali' tese a riabilitare un passato di cui c’è poco da gloriarsi". Ovviamente la reazione dell'Amministrazione non si è fatta attendere: è stato sottolineato che in effetti è sorprendente che l'Anpi locale abbia nuovamente colto l'occasione per sposare quello "spirito di polemica e di visione politicizzata della storia". Pazzesco che si debba "artatamente speculare" sulla vicenda di una giovane inizialmente incarcerata senza alcuna colpa dai partigiani comunisti titini, poi stuprata per una notte da 17 aguzzini sul tavolaccio di una scuola e infine seviziata e gettata viva in una foiba per odio etnico, politico e ideologico. "Se non si comprende questo non si comprende nulla su un crimine, purtroppo non il solo, commesso non in una terra occupata, come si tenta di far credere, ma in Italia e su un’italiana", ha tuonato il Comune. Probabilmente per partito preso è stato deciso ancora una volta di cercare uno scontro lì dove invece occorrono "in primo luogo conoscenza ed equilibrio, e poi un doveroso e commosso ricordo nel segno della concordia".
"Partigiani del negazionismo". L'Anpi ha comunque voluto precisare: l'omicidio di Norma Cossetto non è in discussione visto che rappresenta un crimine "e che come tale va condannato". Ci mancherebbe. Ma ecco che arriva la lezioncina storica su quella che è stata l'occupazione nazista e fascista, contestualizzando il tutto solo per mera convenienza: "Libertà e democrazia non fanno parte del bagaglio culturale e ideologico del fascismo e dell’Italia fascista che scatenarono la guerra e si macchiarono di una infinità di nefandezze". Sulla questione si è espresso duramente Roberto Menia, responsabile dei dipartimenti italiani all'estero di Fratelli d'Italia: "Per l’Anpi intitolare un parco alla Medaglia d’Oro Norma Cossetto, violentata e infoibata dai partigiani di Tito perché italiana, è bullismo. Vergogna eterna ai partigiani del negazionismo e dell’infamia!". Una polemica di questo genere sul territorio abruzzese si era già verificata lo scorso anno, precisamente a Chieti l'8 novembre, quando alcuni consiglieri di minoranza erano rientrati in aula senza però partecipare alla votazione dell'ordine del giorno proposta dal consigliere leghista Marco Di Paolo relativa all'apposizione in città di una targa commemorante la 23enne. "Vergogna", aveva gridato il sindaco Umberto Di Primio. Alla fine l'ordine del giorno è stato approvato con i voti dei consiglieri della maggioranza di centrodestra.
Foibe, il giustificazionismo che uccide i martiri due volte. Nel mondo del giornalismo, dell’intellighenzia e degli storici blasonati, gratta gratta, resta sempre la discriminazione fra morti di serie A dalla parte giusta della storia e di serie B da quella sbagliata dei vinti. Fausto Biloslavo, Martedì 11/02/2020 su Il Giornale. La Repubblica di Torino bolla la martire istriana, Norma Cossetto, come “fascista”, il Corrierone descrive pudicamente le parole oltraggiose di Vauro sulla commemorazione delle foibe con il termine “gaffe” nel sotto titolo sul giorno del Ricordo. Michele Serra dedica le prime righe alla tragedia degli eccidi e dell’esodo, che non si possono “negare o ridicolizzare” e poi via con il resto dell’Amaca sulle solite colpe del fascismo che, di fatto, hanno provocato la reazione anti italiana. La Rai viene bacchettata perché relega il 10 febbraio in tarda serata o al mattino presto con una programmazione minima. Quasi tutti i media si sono occupati del ricordo delle foibe perchè devono, ma seppellendo la notizia fra le varie ed eventuali. Un atteggiamento editoriale che fa male e stride rispetto alla più che ampia copertura della giornata della Memoria per l’Olocausto. Una chiara dimostrazione che nel mondo del giornalismo, dell’intellighenzia e degli storici blasonati, gratta gratta, resta sempre la discriminazione fra morti di serie A dalla parte giusta della storia e di serie B da quella sbagliata dei vinti. Il negazionismo, per fortuna, è residuale, ma gran parte della sinistra guidata dal faro tutelare dell’Anpi continua a sostenere il “giustificazionismo”. Il fascismo, l’esercito italiano, le divisioni tedesche hanno compiuto errori e nefandezze, ma ci si ostina a non voler capire che un crimine non può giustificarne un altro. Due violenze solo si sommano, non si elidono e questo continuo richiamo al prima per fare capire il dopo nasconde la solita vecchia accusa che in fondo gli infoibati erano tutti fascisti e ben li sta. Non solo è legge della giungla, ma cozza con la realtà storica dei civili, donne innocenti e pure antifascisti invisi al comunismo di Tito che furono scaraventati nelle foibe. Non è un caso che un grande quotidiano nazionale bolli in un titolo come “fascista” Norma Cossetto specificando, nelle prime righe dell’articolo, che era iscritta ai gruppi universitari del regime. Pure l’astrofisica Margherita Hack partecipava alle gare sportive degli stessi gruppi, ma nessuno le ha mai rinfacciato un passato fascista. Per non parlare dei tanti personaggi che si innamorarono da giovani del Duce per poi cambiare idea e dedicarsi tutta la vita a condannare il fascismo. Il giustificazionismo, anche se sotto traccia e non impugnato esplicitamente, provoca un altro effetto perverso: gli oltraggi di serie A e di serie B. Se spuntano spettri anti semiti con scritte o simboli ingiuriose per le vittime dell’Olocausto diventa, giustamente, un caso nazionale. Se in occasione del 10 febbraio ci sono decine di oltraggi alle vittime del foibe passa in secondo piano. A Trieste è comparsa una scritta ingiuriosa contro Norma Cossetto e i militanti di Casa Pound hanno affisso, in riposta, uno striscione con la scritta “partigiani titini, infami e assassini”. Il giornaletto locale, che fa sempre parte del gruppo Repubblica, dedica una paginata con grande foto alla provocazione dell’estrema destra. Neppure una fotina sulle bandiere jugoslave con la stella rossa di Tito, carnefice degli italiani, che sventolavano al presidio antifascista il giorno del Ricordo nel centro del capoluogo giuliano con tanto di striscione che incitava alla “resistenza” in nome del negazionismo. Due pesi e due misure che alla fine fanno gettare la maschera agli ultimi panda comunisti, come Paolo Ferrero ospite del programma Quarta repubblica. Dopo la solita litania sui crimini fascisti, che hanno provocato le foibe, alla domanda se fosse d’accordo a revocare la più alta onorificenza italiana al maresciallo Tito ha risposto di no spiegando che era un grande leader. E il boia di migliaia di italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia oltre che di un quarto di milione di sloveni, croati, montenegrini, serbi, compresi i partigiani monarchici anticomunisti che combatterono pure contro i nazisti. Tutti prigionieri di guerra, in gran parte vergognosamente consegnati dagli inglesi ai titini e massacrati a conflitto finito assieme a donne, bambini, suore e preti. Giustifichiamo anche crimini di guerra di questa entità solo perchè si tratta del sangue dei vinti?
I soliti odiatori. Andrea Indini l'11 febbraio 2020 su Il Giornale. Ci risiamo. Come da copione. Mentre l’Italia si stringeva attorno ai sopravvissuti dei rastrellamenti titini, ricordando il terribile martirio delle foibe, la sinistra vomitava il solito odio. Ancora una volta hanno cercato di sbraitare per coprire le preghiere che si alzavano nel Giorno del Ricordo. Si sono preparati con una buona settimana di anticipo. Giorni segnati da ogni sorta di negazionismo. Il tutto nel tentativo di mettere a tacere, come hanno sempre fatto, le barbarie del regime comunista in Jugoslavia. Il culmine, poi, si è toccato ieri con il Partito democratico che al sacrario di Basovizza, monumento nazionale sul Carso triestino, se ne è andato via in blocco quando ha attaccato a parlare Maurizio Gasparri in rappresentanza del Senato (quindi con delega istituzionale). Con la piddì Debora Serracchiani che si è addirittura fiondata a twittare che il Giorno del Ricordo è diventato “un palcoscenico per la destra sovranista”. A rincarare la dose ci ha pensato il vignettista Vauro che sempre più spesso intinge la sua matita nell’odio feroce contro la destra. Ha detto: “È un trucido strumento di propaganda sovranista”. E si è pure lamentato con il capo dello Stato Sergio Mattarella di non aver denunciato le “angherie fasciste” perché, a suo dire, in Jugoslavia fu l’Italia “il Paese aggressore”. Ma non solo. C’è chi, come il Partito comunista di Marco Rizzo, si è spinto più in là, affermando: “Come ogni anno si aggiunge qualche elemento per la falsificazione storica degli avvenimenti del confine orientale. Vent’anni di revisionismo hanno prodotto il totale capovolgimento della realtà storica, grazie allo sconvolgimento e alla decontestualizzazione dei fatti, a una lievitazione dei numeri del tutto arbitraria e priva di criteri scientifici”. In pratica, secondo i nipotini dell’Unione sovietica, gli oltre 10mila italiani infoibati sarebbero solamente un errore di contesto, in quanto “la ricerca storica ha ceduto il passo alle strumentali logiche politiche e ai sentimenti di rivalsa della destra“. Frasi che pesano come macigni sui resti dei nostri connazionali massacrati ed infoibati. Questi, però, sono solo alcuni esempi di una lista (rossa) d’orrore. Ancora oggi le vittime e gli esuli vengono infatti schiacciati dall’odio da chi vuole minimizzare o, peggio, negare questa tragedia. Ci sono voluti 35 anni perché Basovizza diventasse un monumento nazionale. Eppure, ancora oggi, il Pd si permette di censurare la mostra delle vignette del nostro Alfio Krancic per “non offendere l’Anpi”. E ancora: ci sono voluti ben 59 anni perché fosse istituito con una legge dello Stato il Giorno del ricordo. Eppure, come si chiede giustamente Gasparri,”quanto ci vorrà perché scompaiano” tutte queste “sacche deprecabili di negazionismo militante biasimate?”. Probabilmente non andranno mai via. Perché l’odio è rosso, per antonomasia.
· Non erano fascisti: erano D’Annunziani. Libertari, non libertini.
Le armi dell'esteta D'Annunzio erano anche quelle politiche. Patriottismo, passione adriatica e spirito conservatore sono le idee cardine del Vate. Anche nei giorni di Fiume. Francesco Perfetti, Sabato 05/10/2019, su Il Giornale. Un grande scrittore e drammaturgo francese, Romain Rolland - quasi suo coetaneo ma da lui tanto diverso al punto che, pur avendolo frequentato per qualche tempo, non riuscì mai ad amarlo né ad apprezzarlo - disse che in Gabriele D'Annunzio non v'era «nulla di un poeta, nulla di un artista» e aggiunse, con una punta di velenosa malizia, che gli «sembrava un addetto d'ambasciata molto snob». Al di là della cattiveria, tuttavia, la battuta di Rolland, depurata dalla sua carica dispregiativa, coglieva, almeno in un punto, nel segno. Che D'Annunzio, infatti - in realtà grandissimo poeta e animo d'artista, contrariamente al giudizio velenoso e semplificatorio di Rolland - fosse uno snob è fuor di dubbio. Ma era, egli, uno snob sui generis, capace di ironia, anzi di quell'autoironia che lo spinse ad adottare, per firmare certe sue celebri cronache mondane, lo pseudonimo «Duca Minimo», quasi certamente con allusivo riferimento alla sua bassa statura. Che, però - val la pena di rammentarlo - lo accomunava ad altri «grandi», a cominciare dal suo amato Napoleone. Lo snobismo di D'Annunzio era, in un certo senso, insito nella sua stessa natura, era, per così dire, una manifestazione plastica del suo narcisismo e del suo egocentrismo. Era uno snobismo che traduceva, quasi in una ideale autorappresentazione, quel culto per la bellezza al quale egli fu sempre devoto, da giovane e da anziano, da viveur e donnaiolo a letterato e uomo d'azione. La categoria di «esteta armato», introdotta alcuni anni or sono da Maurizio Serra in un saggio dedicato ad alcuni spiriti eterodossi dell'intellettualità europea a cavallo tra il XIX e il XX secolo, coglie assai bene l'essenza della personalità dannunziana. E, al tempo stesso, spiega la difficoltà di por mano alla stesura di un lavoro biografico esaustivo di una figura e di una personalità tanto sfaccettate e poliformi. Occorrono, per un'operazione del genere, equilibrio storiografico e sensibilità artistica, competenza letteraria e attitudine psicologica, oltre che, naturalmente, capacità ed eleganza di scrittura. La più recente (e, allo stato, la migliore e più suggestiva) ricostruzione biografica del poeta-soldato è stata scritta proprio dall'ambasciatore Maurizio Serra, il quale al suo «esteta armato» ha dedicato un corposo volume dal titolo L'Imaginifico. Vita di Gabriele D'Annunzio (Neri Pozza, pagg. 720, euro 25) che in Francia, dov'è stato originariamente pubblicato, ha ottenuto due prestigiosi riconoscimenti, il Prix Chateaubriand e il Prix dell'Académie des Littératures. Il pregio di questa biografia, frutto di anni di ricerche, sta nel tentativo, a mio parere ben riuscito, di non isolare, ovvero far prevaricare, all'interno della narrazione la figura del letterato o dell'artista rispetto a quella dell'eroe o del politico o, infine, anche del crepuscolare esiliato nella dorata e quasi rinascimentale residenza del Vittoriale. D'Annunzio, l'«esteta armato» D'Annunzio, è un caso unico nella cultura italiana del primo Novecento, non solo e non tanto per la poliedricità della sua persona - per quell'essere, insomma, al tempo stesso, poeta e artista, dandy e seduttore, condottiero e visionario politico - quanto per aver inscritto tutte queste sfaccettature della sua personalità, la personalità di un «poeta in azione», sotto l'insegna di una avventura continua e senza fine. Per Maurizio Serra, tuttavia, D'Annunzio non è affatto un avventuriero, bensì un «vero principe dell'avventura, precursore e fratello maggiore dei Lawrence d'Arabia, Saint-Exupéry, Malraux e Roman Gary». È un termometro, si potrebbe aggiungere, che registra gli stati febbrili di tutta un'epoca attraversata in tutti i campi culturali e politici da pulsioni rivoluzionarie, al di là del bene e del male, di ogni tipo e di ogni colore. Leggere D'Annunzio, e ricostruirne le vicende umane, alla luce di una ideologia politica o anche soltanto di una passione politica sarebbe del tutto fuorviante. Egli non fu mai un politico nel senso proprio del termine. Fu, semmai, un letterato che pensava alla politica, in tutte le sue possibili manifestazioni, con l'aristocratica supponenza di chi in essa vedeva uno strumento per soddisfare o, in qualche misura, esaltare il proprio narcisismo e la propria volontà di azione. Il cimentarsi, lui letterato e poeta, con le schermaglie politiche, prima, e con la guerra guerreggiata, poi, non era che un modo di mostrare, a se stesso prima che agli altri, di saper «osare l'inosabile». Era, ancora una volta, una manifestazione di quello snobismo aristocratico proprio dell'«esteta armato». Tuttavia, D'Annunzio passioni politiche ne ebbe. Il suo patriottismo, molto risorgimentale invero, era un sentimento sincero. Come sincera era la sua passione adriatica. In lui ci fu quello che Serra chiama «l'accecamento nazionalista degli intellettuali», proprio degli albori di un secolo battezzato dalla Grande Guerra, ma il suo nazionalismo non aveva nulla a che fare con quello delle organizzazioni politiche nazionaliste propriamente dette. Si trattava, piuttosto, di un nazionalismo che esprimeva un sentimento generalizzato all'epoca in diversi Paesi europei e in diversi strati sociali e che comunque, nel suo caso, non perdeva di vista il contesto internazionale. Assai più discusso e controverso è il rapporto di D'Annunzio con Mussolini e con il fascismo. L'immagine del poeta-soldato come «Giovanni Battista del fascismo» per troppo tempo e con troppa leggerezza è stata accreditata sia da una letteratura fascista o filofascista in cerca di quarti di nobiltà culturale, sia da una letteratura antifascista e anti-dannunziana appiattita sull'ideologismo democratico e pacifista e tutta tesa a creare una linea di continuità fra i rituali del fascismo-regime e quelli che si svilupparono a Fiume durante il periodo dell'impresa dannunziana. Che tra il poeta e il duce non corresse buon sangue, malgrado gli apprezzamenti reciproci e di circostanza che i due si scambiarono, è un dato di fatto. Come, pure, è un dato di fatto che il «politico» Mussolini cercasse di neutralizzare la paventata concorrenza politica del «poeta dell'azione», ovvero dell'«esteta armato». Quale fosse il reale sentimento del duce nei confronti del suo amico-nemico lo fa ben intendere una sua riflessione sui costi che il regime sopportava per onorare e tenersi buono il poeta: «D'Annunzio è un dente cariato che bisogna riempire d'oro». Sul rapporto fra D'Annunzio e il fascismo, il giudizio di Maurizio Serra è corretto ed equilibrato, oltre che pienamente condivisibile: «D'Annunzio alla fine si è schierato con il fascismo, obtorto collo, dopo averlo contrastato. Ma se ha accettato il regime in mancanza di meglio, è altrettanto vero che non è mai stato fascista, né con il cuore né con la ragione, e il suo rivale Mussolini seppe metterlo in condizioni di non nuocere, ricoprendolo di onori con l'intento manifesto di soffocarlo». Il capitolo che Serra dedica ai «cinquecento giorni» di Fiume, quelli che vanno dal pomeriggio del 12 settembre 1919 al Natale di sangue del 1920, è uno dei più coinvolgenti del suo volume, non solo per la ricchezza delle informazioni (a cominciare da quelle relative ai finanziamenti dell'impresa) e per la ricostruzione del «clima» della «città di passione», ma anche, e soprattutto, perché consente di rivedere alcuni giudizi largamente diffusi. Come, per esempio, quello relativo alla perfetta sintonia che ci sarebbe stata fra D'Annunzio e De Ambris sia sulla Carta del Carnaro, «il più originale e insieme il più equivoco dei documenti usciti dall'esperienza dei cinquecento giorni», sia sulla loro visione politica. Se l'ideologia dannunziana oscillava, secondo Serra, «tra l'internazionalismo dei principi e il nazionalismo delle azioni» era evidente che «D'Annunzio non condivideva le concezioni più radicali di De Ambris e ancor meno la prospettiva di trasformare, prima o poi, la Repubblica in Soviet», perché «nonostante le provocazioni, il gusto per la rivolta, il desiderio di apparire come protagonista di una nuova Europa, egli restava molto più un conservatore che un rivoluzionario». Anche se, potremmo aggiungere, il suo conservatorismo era proiettato verso il futuro.
«1919, Fiume città di vita», ottimo racconto della Storia in tv. Pubblicato venerdì, 27 settembre 2019 da Corriere.it. «La terra di Fiume è insanguinata di sangue fraterno», scriveva D’Annunzio il 25 dicembre 1920, «voi volete dare alla storia atroce d’Italia il Natale di sangue…». Il Vate concludeva la sua personale avventura nello stesso tono magniloquente con cui l’aveva iniziata, invocando il sacrificio dei martiri, la strage fratricida e una resistenza disperata e nobile: «Nessuno passerà, se non sopra i nostri corpi». Il 12 agosto 1920 D’Annunzio, Vate e Comandante, decise di trasformare il territorio fiumano in Stato indipendente, proclamandovi la Reggenza Italiana del Carnaro. Fra i primi atti, la promulgazione della Carta del Carnaro, una Costituzione di stampo libertario e socialisteggiante ispirata dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris. In essa era prevista la parità dei sessi, il voto alle donne, la facoltà di divorziare e la libertà di culto, l’uso di droghe. Nella città fiumana giunsero personalità del mondo politico e culturale, tra cui Arturo Toscanini e Guglielmo Marconi. Lo Stato Libero del Carnaro fu il primo a riconoscere la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa. «1919, Fiume città di vita» è un ottimo programma di Fabrizio Marini e Nicola Maranesi realizzato da Rai Storia in occasione dei 100 anni trascorsi da quell’impresa (ora su Rai Play). Ripercorre gli episodi epici di quei giorni grazie alla ricostruzione storica, alle interviste agli esperti, ai documenti d’archivio, alle fonti autobiografiche e a un viaggio che si snoda attraverso i luoghi simbolo della vicenda dannunziana: da Venezia a Monfalcone, da Ronchi a Cantrida, lambendo il Carso e Trieste, fino ai siti che ancora oggi a Fiume/Rijeka rievocano gli avvenimenti di allora. L’Impresa di Fiume, terminata con le «cinque giornate di Sangue del Natale 1920» e le cannonate della nave «Andrea Doria», indusse molti partecipanti ad entrare successivamente nel partito fascista e a simpatizzare per Mussolini.
UN FIUME DI POLEMICHE SUL “VATE”. Da Il Fatto Quotidiano il 12 settembre 2019. Per inaugurarla il Comune di Trieste guidato dal sindaco di centrodestra Roberto Dipiazza ha scelto una data simbolica: il 12 settembre, nel centenario dell’occupazione di Fiume, l’attuale Rijeka. E così la statua di Gabriele D’Annunzio, che guidò la spedizione, diventa un caso diplomatico. Perché il ministero degli Esteri della Croazia ha consegnato una nota di protesta verbale all’ambasciatore italiano Adriano Chiodi Cianfarani. Anche la presidente croata, Kolinda Grabar Kitarovic, condanna lo svelamento della statua definendolo su Twitter “inaccettabile” perché celebra “irridentismo e occupazione”. Per Kitarovic il monumento è “scandaloso”: la cooperazione croato-italiana “oggi è basata su valori che sono completamente contrari”, scrive. “Mina le relazioni amichevoli” – Nelle comunicazioni al diplomatico, il governo croato ha spiegato che “sebbene si sia trattato di una decisione delle autorità locali e non nazionali”, l’inaugurazione della statua, realizzata dallo scultore e medaglista Alessandro Verdi, come “il ricordo dell’anniversario dell’occupazione di Rijeka in alcune altre città italiane, non solo mina le relazioni amichevoli e di buon vicinato tra i due Paesi, ma è anche il riconoscimento di un’ideologia e di azioni che sono in profondo contrasto con i valori europei”. Nella nota, dunque, si fa anche riferimento ai 150mila euro stanziati dalla Regione Abruzzo per le celebrazioni del centenario della “Impresa di Fiume” decise dalla maggioranza guidata da Massimo Marsilio di Fratelli d’Italia.
Dipiazza: “Fu un grande italiano” – “Come sindaco di Trieste – è stata la reazione di Dipiazza su Facebook – ho sentito il dovere di omaggiare un grande italiano, un grande poeta, un grande letterato come Gabriele d’Annunzio, che ha vie, piazze e scuole che lo ricordano in tutto il Paese. Ricordiamo un grande italiano in una città che viene scoperta ogni giorno da tanti turisti che arrivano dall’Italia e da tutto il mondo. Continuiamo così perché siamo sulla strada giusta”. Una scelta quella della giunta di centrodestra guidata che nei mesi scorsi aveva provocato molte polemiche anche in città, sfociando in una raccolta firme online.
Contro la statua si è espresso anche il sindaco di Rijeka, Vojko Obersnel, che ha definito il poeta “un precursore dell’ideologia fascista” e condannato “fermamente” il monumento, la cui inaugurazione “non può essere intesa in altro modo che come una glorificazione dell’occupazione violenta di una città”. Per Obersnel l’amministrazione di D’Annunzio, durata sedici mesi, fu “un’epoca sanguinosa e difficile per Fiume che vide la rovina della propria economia e una degenerazione generale”. I legionari guidati dal poeta, entrati in una città libera e prosperosa, ha detto Obersnel, “imposero con la violenza il loro potere per terrorizzare la popolazione croata e non-italiana“.
E a Rijeka compare bandiera italiana. La stampa di Zagabria, tra l’altro, riferisce che nella notte sconosciuti anno innalzato la bandiera italiana sul Palazzo del Governatore, che durante l’occupazione della città contesa dall’Italia e dall’allora Jugoslavia venne usato da D’Annunzio come sua residenza. Sul posto è intervenuta la polizia, che ha rimosso la bandiera e ha spiegato che si trattava di quella del Regno d’Italia, non di quella attuale della Repubblica italiana. Sul posto sono stati rinvenuti anche dei volantini ma non ne è stato precisato il contenuto. Due giovani italiani, di 19 e 20 anni, sono stati intanto fermati questa mattina davanti allo stesso Palazzo, con delle bandiere italiane.
I manifesti del Veneto fronte skinheads. Alcuni manifesti inneggianti all’annessione di Fiume all’Italia sono invece stati affissi a Trieste, Verona, Padova e Bolzano dai neonazisti del Veneto fronte skinheads. A Trieste, in particolare, l’affissione è avvenuta sulla sede del consolato croato in piazza Goldoni. Le foto sono state pubblicate sul sito del quotidiano della minoranza slovena Primorski dnevnik. I manifesti, oltre alla foto di Gabriele D’Annunzio e la bandiera italiana, citano la frase che il poeta pronunciò entrando a Fiume alla guida di circa 2mila legionari: “Io soldato, io volontario, io mutilato di guerra, sento di interpretare la volontà di tutto il sano popolo d’Italia proclamando l’annessione di Fiume alla Patria. Quis contra nos?”.
UN FIUME DI POLEMICHE SUL "VATE". Giordano Bruno Guerri per il Giornale il 13 settembre 2019. Gli anniversari, in Italia, finiscono spesso per risultare più divisivi che unificanti, un'occasione per ripescare e ravvivare antiche fratture. Fu così per i 150 anni dell'Unità, quando si dovette ricordare ai celebranti in quale modo violentissimo fu imposta al Sud, con la sanguinosa repressione del cosiddetto «brigantaggio». Non è colpa degli italiani, piuttosto del modo in cui da noi viene bistrattata la storia. Si stenta e si tarda - di decenni, a volte di secoli - a fare i conti con il passato, rifugiandosi nei miti rassicuranti delle nozioni (poche) ricevute. Così, per esempio, la Controriforma passa senza dubbi per buona cosa, perché riportò la Chiesa di Roma un passetto più vicino a quel cristianesimo che doveva difendere e pose le premesse per un clero meno corrotto; ma in genere si trascura di informare che l'istituzione dell'Indice dei libri proibiti e l'occhiuta vigilanza controriformista su ogni attività culturale recise per sempre quell'arteria giugulare che nel Rinascimento aveva fatto dell'Italia il paese più colto e avanzato del mondo. Allo stesso modo, se ancora siamo qui a paventare un ritorno al fascismo per ogni ragazzotto ignorantello a braccio destro levato, è anche perché per decenni, dopo il 1945, chi deteneva le leve del potere politico e culturale ha preferito ignorarne le cause e gli sviluppi, limitandosi e sostenere la vulgata parzialissima di una borghesia che difendeva i propri interessi con la forza. Come dire, per descrivere l'universo, che è tanto grande. Non mi aspettavo dunque che il centenario dell'Impresa di Fiume passasse senza contrasti, quando ho pubblicato un libro sull'argomento e mentre preparavo varie manifestazioni per conoscere e capire meglio cosa accadde davvero nella «Città Olocausta», divenuta «Città di Vita» con un artificio retorico di Gabriele d'Annunzio. C'era da sciogliere soprattutto un nodo, già noto agli storici come fasullo ma ancora ben stretto nella vulgata: la convinzione che l'Impresa sia stata una prima prova, se non la genesi, del fascismo. Tutto ciò benché la Carta del Carnaro, scritta da d'Annunzio e dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris, sia una delle costituzioni più avanzate e democratiche del Novecento. Hanno abbattuto la tesi dell'impresa fascista, decennio dopo decennio, Nino Valeri, Renzo De Felice, Emilio Gentile, George Mosse, Michael Arthur Ledeen, Francesco Perfetti, Claudia Salaris, in questi giorni Maurizio Serra con il suo L'imaginifico (Neri Pozza). Il convegno che si è tenuto al Vittoriale dal 5 al 7 settembre (quasi trenta storici, per la prima volta anche croati) ha confermato in abbondanza questa direzione degli studi, rafforzandola. Certo, la vulgata, ovvero l'opinione popolare, è difficile da cambiare, si tratta di un'operazione lenta e faticosa, ma le decine di conferenze, commemorazioni, convegni che si sono svolti ovunque in questi mesi, andavano tutti in quella direzione; la Festa della Rivoluzione - così si è chiamata la settimana dannunziana a Pescara - ha avuto un enorme successo di pubblico, proprio in quella città natale di d'Annunzio che una giunta grossolana aveva voluto platealmente «dedannunzizzare»; e se il Vittoriale degli Italiani aumenta i visitatori ogni anno è anche per questo motivo. Qualche problema c'è stato a Trieste, ma non per la grande mostra «Disobbedisco», quanto perché qualche esponente della sinistra, ancora preda della propaganda mussoliniana, ha lanciato con scarso esito appelli e sottoscrizioni contro il progetto di onorare il Vate con una pacifica scultura meditativa nella bella piazza della Borsa. La statua verrà inaugurata oggi, omaggio a un grande poeta, irredentista per Trento e Trieste. Anche se molti si sono dimenticati che per quelle due città gli italiani fecero, nel 1915-18, la «Quarta guerra d'Indipendenza». Per il resto, convulsioni di fronte all'affermazione di un d'Annunzio non fascista si sono avute solo all'estrema sinistra (un articolo sul manifesto in puro stile anni Cinquanta) e soprattutto da parte di più o meno colti velleitari di estrema destra, rabbiosi di vedere togliere dalla storia del fascismo un pezzo tanto pregiato come d'Annunzio. Se ne faranno una ragione, se e quando arriveranno a capire la differenza tra patriottismo e fascismo. È più comprensibile, infine, la presa di posizione del sindaco di Fiume, che addirittura vede nell'impresa la genesi del nazifascismo: lì sono ancora vittime della vulgata titina, più recente di quella di Mussolini. La storia a volte procede a salti improvvisi, ma le revisioni sono sempre lente.
Aurora Vigne per il Giornale il 13 settembre 2019. Dopo le polemiche del Pd, ora anche la Croazia ha condannato la decisione della città di Trieste di erigere un monumento a Gabriele D'Annunzio. Nella nota consegnato oggi all'ambasciatore italiano a Zagabria, Adriano Chiodi, si legge che si tratta di una "decisione di autorità locali" e non dello Stato. Inoltre, sempre nella nota del Ministero degli Esteri croato si legge che "questo tipo di atteggiamento, assieme alla celebrazione dell'anniversario dell'occupazione di Fiume in diverse città italiane, infrange i rapporti di amicizia e di buon vicinato tra i due paesi e onora un'ideologia e un operato che sono profondamente contrari ai valori europei". La statua dedicata a Gabriele D'Annunzio nella centrale piazza della Borsa è stata inaugurata questa mattina. Si tratta di una scultura del bergamasco Alessandro Verdi e rappresenta il Vate seduto su una panchina che legge melanconico un libro. Una scelta quella della Giunta di centrodestra guidata da Roberto Dipiazza di dedicare al Vate un monumento nel cuore della città che ha provocato molte polemiche, sfociando anche in una raccolta firme online tra detrattori e sostenitori dell'idea del Vate. In prima linea, naturalmente, i paladini del politicamente corretto che definiscono "offensiva" la statua. Anche il giallista Veit Heinichen, che vive a Trieste, aveva sentenziato affermando: "Che senso ha? A che futuro porta il nostalgismo?". "Tutta l'Italia è piena di viali e scuole dedicate a D'Annunzio e tutte queste polemiche che ho sentito mi sembrano davvero incredibili" ha detto nel suo intervento il sindaco Dipiazza, aggiungendo che " con questa statua ricordiamo un grande italiano come ce ne sono stati tanti altri e dobbiamo essere orgogliosi di lui". Inoltre, c'è da ricordare che proprio quest'anno si ricorda il centenario dell'impresa di Fiume e la giunta comunale del capoluogo giuliano ha investito 290mila euro per un grande mostra su D'Annunzio, curata da Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione del Vittoriale. "Passeggiando in città con il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza. Mi ha indicato quelle di Joyce e Svevo. Così è venuta fuori l'idea di una statua per D'Annunzio" aveva spiegato Guerri a il Giornale.
Giampiero Mughini per Dagospia il 13 settembre 2019. Caro Dago, mi ero immaginato - Dio quanto sono stupido! - che qualcuno del nostro neonato governo rispondesse garbatamente ma nettamente al governo croato che ci sta squassando le balle perché a Trieste è comparsa una statua di Gabriele d’Annunzio che sta leggendo un libro con un gomito appoggiato a una pila di libri, una statua che bissa quelle già esistenti per le strade di Trieste e dedicate rispettivamente a James Joyce e a Italo Svevo. Il custode per antonomasia della memoria di D’Annunzio in Italia, ossia il mio amico Giordano Bruno Guerri, ha già detto che in quella statua non c’è la benché minima allusione aggressiva nei confronti della Croazia o comunque degli slavi che hanno vissuto al confine con l’Italia. Gli esponenti del governo croato dicono che è intimidatorio nei loro confronti l’avere piazzato la statua di D’Annunzio a Trieste nel giorno centenario della cosiddetta “Impresa di Fiume”, quando D’Annunzio e molti italiani al suo seguito (alcuni dei quali fra i migliori italiani di quel tempo) si scaraventarono in armi su Fiume e come se qualcuno da noi oggi apprestasse il bis di una tale impresa e di una tale conquista. Era quella un’epoca in cui la maggioranza degli abitanti di Fiume era italiana, semplice semplice. Da qui comincia il ragionamento, se vuole essere un ragionamento che onori la verità. Le cose sono poi andate, quanto al nostro rapporto con gli slavi di confine, nel modo che finalmente sappiamo dopo tre o quattro decenni di oblio: che nel secondo dopoguerra 300-400mila italiani vennero espulsi da quelle terre da cui si portarono una via solo una o due valige, non più che questo, e in Italia i ferrovieri comunisti scioperavano contro di loro da quanto erano “fascisti”. E a non dire il conto macabro degli infoibati, qualcuno di loro sì che era stato fascista ma la più parte - uomini e donne e ragazze - solo perché erano italiani. Mica sto dicendo tutto questo perché invoco una rivincita, ci mancherebbe altro. Il regime fascista fece delle porcherie durante il ventennio e il nostro esercito (di cui faceva parte mio padre) fece delle porcherie quando entrò nelle terre jugoslave. Quel che è stato è stato, ciascuno con le sue colpe, i suoi lutti e le sue memorie. E beninteso siano mille le occasioni di un confronto, di un dibattito, dove ciascuno esporrà la sua parte di verità. Di certo, noi non dobbiamo forzatamente chiedere scusa a qualcuno, o meglio sì: caso per caso. Non ci rompano però i coglioni se mettiamo un simil-D’Annunzio per le strade di Trieste. Quello è pienamente nel nostro diritto, nel diritto della nostra gente, nella memoria alta della nostra cultura. E se non fossero analfabeti, quelli che oggi proclamano una parola sì l’altra pure i diritti degli “italiani” avrebbero dovuto ricordarlo ai nostri amici croati. Garbatamente, ma nettamente.
Fiume e il silenzio della Farnesina. Francesco Maria Del Vigo, Sabato 14/09/2019, su Il Giornale. Può la commemorazione del centenario di un evento storico trasformarsi in un caso diplomatico internazionale? Se di mezzo ci sono l'Italia, la Croazia, Fiume e d'Annunzio e pure Di Maio sì. Specialmente se tutto il complicato contesto storico viene ridotto al sistema binario di fascismo e antifascismo. Sempre comodo per bagattelle elettorali e rigurgiti nazionalistici. Il centenario dell'Impresa fiumana, celebrato il 12 settembre, è stato, in un certo senso, più dannunziano del previsto. E, a renderlo tale, involontariamente, sono state sia le autorità croate che quelle italiane. Mentre Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale degli Italiani, inaugurava una statua del Vate a Trieste il capo di stato croato Kolinda Grabar-Kitar - da Zagabria - twitta inferocita: «Fiume era e rimane una parte fiera della Patria croata e il monumento scoperto oggi a Trieste che glorifica l'irredentismo e l'occupazione, è inaccettabile». Il presidente di uno Stato straniero che pontifica sulla statua di un poeta italiano in Italia. Una follia. Le vanno dietro altri esponenti politici croati e la celebrazione - della statua a Trieste e di una mostra sull'impresa a Fiume - diventa un caso. Il governo recapita persino una nota verbale all'ambasciatore italiano: «L'inaugurazione, come il ricordo dell'anniversario dell'occupazione di Rijeka in alcune altre città italiane non solo mina le relazioni amichevoli e di buon vicinato tra i due Paesi, ma è anche il riconoscimento di un'ideologia e di azioni che sono in profondo contrasto con i valori europei». Un ragazzino viene fermato e portato in questura per aver esposto un tricolore di fronte al palazzo del governo nella cittadina croata, un tempo sede delle truppe del Vate. A una pattuglia privata di aviatori abruzzesi che voleva commemorare l'impresa, viene impedito l'atterraggio in terra croata: «Ci hanno detto di tornare indietro e anzi gli italiani ci avevano detto che ci avrebbero intercettato, in pratica che saremmo stati avvicinati da due caccia militari croati e che in caso di mancato assolvimento all'ordine di tornare in Italia addirittura avrebbero potuto sparare». Tutto surreale. Tutto stupendo. Se non avessimo trascorso parte della giornata insieme a Giordano Bruno Guerri, avremmo giurato che era tutta una sua invenzione, una strategia di marketing - assolutamente dannunziana - per pubblicizzare il Vittoriale, il Vate e le sue opere. Una grande beffa postuma nel nome dell'orbo veggente. Invece, purtroppo, è tutto vero. Ma a stupire non è tanto la canea scatenata dalle autorità croate, quanto il silenzio di quelle italiane. Troppo impegnate ad accaparrarsi le poltrone dei sottosegretari per respingere al mittente una inaccettabile invasione di campo straniera. Se l'era sovranista è tramontata - ammesso che sia mai sorta - lo si vede anche dal punto di vista culturale. La Croazia attacca e l'Italia tace. Luigi Di Maio, neo ministro degli Esteri e dunque titolare del dicastero di competenza, non balbetta neppure un tweet. Troppo impegnato a giocare al risiko degli incarichi giallorossi. La Farnesina pare «abbia preso in mano la situazione». Noi abbiamo il dubbio che Di Maio stia ancora googlando «Fiume» per capire qualcosa di questa strana querelle fluviale. Ma poi dei corsi d'acqua non si occupa il ministero dell'Ambiente? Bocche cucite anche al ministero della Cultura. Franceschini è troppo impegnato a difendere la passerella di Zerocalcare e Saviano all'Aquila per accorgersi di ciò che sta succedendo e rilascia una dichiarazione ai limiti del surreale: «Non accettiamo interferenze, non si censura la cultura». Ottimo. Ma lo dica alla presidente croata, non al sindaco abruzzese. Intanto sotto il sole tiepido di Fiume, tra i cigolii delle gru di un porto arrugginito e l'odore di vecchie cime, l'Italia porta a casa un'altra figuraccia. Da qualche parte, nel frattempo, d'Annunzio se la ride: è rivoluzionario anche cento anni dopo. Riesce a far casino anche da morto.
Calcio, Gabriele D’Annunzio ideò anche lo scudetto: su, fate polemica pure su questo! Tano Canino venerdì 13 settembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Anche lo scudetto si deve a Gabriele D’Annunzio. Il simbolo del trionfo calcistico, quel riconoscimento che Eupalla, dio del pallone sgorgato dal pennino di Gianni Brera, cuce ogni anno sul petto dei nostri eroi della pedata, ha nel Vate il suo più che illustre ideatore. Ed è persino ovvio che ci sarà qualche imbecille pronto a fare polemica e gridare allo scandalo. Il centenario dell’impresa di Fiume, della Carta del Carnaro, di quel mix indistinto di libertà, strafottenze, indulgenze e intelligenze che portò qualche migliaio di giovanissimi a rispondere all’appello del Poeta-soldato e, quindi, a condividere tutti insieme l’antico ratafià che divenne “il liquore cupo che alla mensa di Fiume chiamavo “Sangue Morlacco”, ha quest’altra chicca da celebrare. E non di poco conto. Da onorare, infatti, c’è il simbolo dello sport italiano più amato. Perché è vero che anche D’Annunzio amava il calcio. Gioco che praticò sin da giovane e per tanto tempo. Almeno fino a quando in un contrasto non finì per rimetterci un dente. E, insomma, a Fiume, durante l’occupazione della terra irredenta che sarebbe infine sfociata nel fratricida Natale di sangue del 1920, l’instancabile poeta organizzò anche una partita tra militari italiani e civili. Proprio in quell’occasione, gli venne in mente di far cucire sulle maglie azzurre indossate dai militari non lo scudo sabaudo, ma quello scudetto tricolore. Non è chiaro come sia terminato quell’incontro. Ma è sicuro che le foto delle squadre in campo fecero il giro. Cosicché, pochi anni dopo, qualcuno degli organizzatori del campionato di calcio ebbe a ricordarsene e la decisione fu presa: la squadra che avesse vinto il campionato si sarebbe fregiata per l’anno successivo dello scudetto cucito sulla maglia. Lo scudetto di Gabriele D’Annunzio.
Trieste, inaugurata la statua di D’Annunzio nel centenario di Fiume. La Croazia: «Scandalosa». Pubblicato giovedì, 12 settembre 2019 da Corriere.it. Nemmeno il tempo di inaugurarla, che è già stata ribattezzata «la statua della discordia». A cento anni esatti dall’Impresa di Fiume, la figura di Gabriele D’Annunzio non smette di far discutere. Al centro delle polemiche, la decisione del Consiglio comunale di Trieste di dedicare al Vate un bronzo a grandezza naturale nella centralissima piazza della Borsa, presentato giovedì mattina. Realizzato dallo scultore bergamasco Alessandro Verdi, raffigura il poeta seduto a gambe accavallate, assorto nella lettura di un libro. L’iniziativa non ha mancato di suscitare il disappunto del governo croato, rinfocolando i mai sopiti contrasti legati all’eredità dell’esperienza legionaria nell’attuale Rijeka. L’ambasciatore italiano a Zagabria Adriano Chiodi Cianfarani si è quindi visto recapitare una nota ufficiale con cui il locale Ministero degli Esteri ha reso noto che «questo tipo di atteggiamento, assieme alla celebrazione dell’anniversario dell’occupazione di Fiume in diverse città italiane, infrange i rapporti di amicizia e di buon vicinato tra i due Paesi e onora un’ideologia e un operato che sono profondamente contrari ai valori europei». Dura anche la presidente Kolinda Grabar-Kitarovic, secondo cui la statua - definita «scandalosa» - mira a «celebrare l’irredentismo e l’occupazione» della città di Fiume, che «è stata e resterà una parte fiera della sua patria croata». Non ultimo, il sindaco della stessa Rijeka, Vojko Obersnel, ha definito D'Annunzio «un precursore dell'ideologia fascista», colpevole di aver «imposto con un'occupazione l'autorità italiana a Fiume». Un'epoca «sanguinosa e difficile per la città» a causa di legionari che «imposero con la violenza il loro potere per terrorizzare la popolazione croata e non italiana di Fiume». In difesa del Vate si è subito schierato il principale promotore della statua incriminata, il sindaco di Trieste Roberto Dipiazza: «Ho sentito il dovere di omaggiare un grande italiano, un grande poeta, un grande letterato - ha dichiarato. Non vedo perché si facciano polemiche per la statua di D'Annunzio che era uno scrittore italiano straordinario. Il Novecento ormai è storia e dobbiamo essere liberi di parlarne e ricordarne gli autori senza farci problemi. Poi da sindaco non credo di dover chiedere il permesso a nessuno». Sulla stessa linea Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione Vittoriale degli Italiani e curatore della mostra «Disobbedisco. La rivoluzione di D’Annunzio a Fiume 191-1920», aperta fino al 3 novembre nel capoluogo giuliano: «Serve una memoria condivisa sull'impresa di Fiume fra italiani e croati - ha detto a margine dell'inaugurazione -. Occorre riflettere insieme su quell'evento. Il fascismo si impossessò a posteriori dell'impresa di Fiume, iscrivendola nel mito della "vittoria mutilata", ma il fascismo non ebbe nulla a che fare con l'impresa di D'Annunzio. Ciononostante, la versione del duce è stata accettata in seguito anche dall'Italia repubblicana e democratica. Così come la versione di Tito dell'occupazione fascista viene accettata dalle autorità croate anche ora che il regime comunista è caduto. Una cosa è certa: la maggioranza dei fiumani come degli istriani era italofona e chiedeva esplicitamente l'annessione all'Italia».
Inaugurata statua di D'Annunzio. La Croazia: "L'Italia offende valori Ue". La statua dedicata a Gabriele D'Annunzio nella centrale piazza della Borsa è stata inaugurata questa mattina. Il Pd aveva cercato di bloccare la decisione del sindaco con una petizione. Ora arriva la condanna della Croazia. Aurora Vigne, Giovedì 12/09/2019, su Il Giornale. Dopo le polemiche del Pd, ora anche la Croazia ha condannato la decisione della città di Trieste di erigere un monumento a Gabriele D'Annunzio. Nella nota consegnato oggi all'ambasciatore italiano a Zagabria, Adriano Chiodi, si legge che si tratta di una "decisione di autorità locali" e non dello Stato. Inoltre, sempe nella nota del Ministero degli Esteri croato si legge che "questo tipo di atteggiamento, assieme alla celebrazione dell'anniversario dell'occupazione di Fiume in diverse città italiane, infrange i rapporti di amicizia e di buon vicinato tra i due paesi e onora un'ideologia e un operato che sono profondamente contrari ai valori europei". La statua dedicata a Gabriele D'Annunzio nella centrale piazza della Borsa è stata inaugurata questa mattina. Si tratta di una scultura del bergamasco Alessandro Verdi e rappresenta il Vate seduto su una panchina che legge melanconico un libro. Una scelta quella della Giunta di centrodestra guidata da Roberto Dipiazza di dedicare al Vate un monumento nel cuore della città che ha provocato molte polemiche, sfociando anche in una raccolta firme online tra detrattori e sostenitori dell'idea del Vate. In prima linea, naturalmente, i paladini del politicamente corretto che definiscono "offensiva" la statua. Anche il giallista Veit Heinichen, che vive a Trieste, aveva sentenziato affermando: "Che senso ha? A che futuro porta il nostalgismo?". "Tutta l'Italia è piena di viali e scuole dedicate a D'Annunzio e tutte queste polemiche che ho sentito mi sembrano davvero incredibili" ha detto nel suo intervento il sindaco Dipiazza, aggiungendo che " con questa statua ricordiamo un grande italiano come ce ne sono stati tanti altri e dobbiamo essere orgogliosi di lui". Inoltre, c'è da ricordare che proprio quest'anno si ricorda il centenario dell'impresa di Fiume e la giunta comunale del capoluogo giuliano ha investito 290mila euro per un grande mostra su D'Annunzio, curata da Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione del Vittoriale. "Passeggiando in città con il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza. Mi ha indicato quelle di Joyce e Svevo. Così è venuta fuori l'idea di una statua per D'Annunzio" aveva spiegato Guerri a il Giornale.
"Era estraneo a Trieste". Una raccolta firme contro la statua del Vate. Dopo le polemiche del Pd, una petizione per bloccare il monumento a D'Annunzio. Fausto Biloslavo, Mercoledì 12/06/2019, su Il Giornale. Le statue di Svevo, Saba e Joyce sì, ma quella di Gabriele d'Annunzio, il poeta guerriero, politicamente scorretto, assolutamente no. La chiamata alle armi per bloccare il Vate in forma bronzea a Trieste è una raccolta firme in rete con change.org. La miccia era stata accesa dal Pd locale e alimentata dalla solita schiera dell'intellighenzia politicamente corretta, compresi attori più o meno comici. Solo Claudio Magris ha osato non opporsi a spada tratta alla statua di D'Annunzio nel capoluogo giuliano. «La biografia letteraria e politica di D'Annunzio rasenta il ridicolo ed espone il buon nome dell'Italia al ludibrio mondiale, ma non è il questo il motivo principale della nostra contestazione: D'Annunzio era un aloglotto e totalmente estraneo alla città» sostiene Alessandro De Vecchi, promotore della petizione. E oltre un migliaio di persone gli vanno dietro nello sputtanamento del poeta guerriero, che nasconde una chiara discriminazione ideologica. La scultura rappresenta il Vate seduto su una panchina, in borghese, che legge melanconico un libro. L'opera è dello scultore bergamasco Alessandro Verdi. La statua troverà spazio nella centralissima piazza della Borsa. I detrattori di D'Annunzio sostengono che «la collocazione di fronte al palazzo della Camera di Commercio è offensiva». Alla vigilia della petizione, il Piccolo, quotidiano di Trieste, ha raccolto le voci dei soliti intellettuali, che alimentano il «niet» a D'Annunzio accusandolo, soprattutto, di essere stato un mangia slavi. Paolo Rumiz, giornalista e scrittore, ha addirittura sostenuto che gli irredentisti come «Nazario Sauro e Cesare Battisti a cui abbiamo dedicato scuole e vie, si rigireranno nella tomba di fronte alla presenza di quella statua». Peccato che Luigi, figlio del martire Battisti impiccato dagli austriaci, partecipò come legionario, al fianco di D'Annunzio, all'impresa di Fiume. Un altro intellettuale politicamente corretto, il giallista Veit Heinichen, che vive a Trieste, sentenzia bocciando la statua: «Che senso ha? A che futuro porta il nostalgismo?». Forse come tedesco non ha ben presente che quest'anno si ricorda il centenario dell'impresa di Fiume partita da Ronchi dei Legionari, ma che aveva uno snodo importante proprio a Trieste. Per questo motivo la giunta comunale del capoluogo giuliano ha investito 290mila euro per un grande mostra su D'Annunzio, che verrà inaugurata in luglio. Intitolata Disobbedisco è curata da Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione del Vittoriale. La statua costa 20mila euro ed è nata «passeggiando in città con il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza. Mi ha indicato quelle di Joyce e Svevo. Così è venuta fuori l'idea di una statua per D'Annunzio» ha spiegato Guerri a il Giornale. Per ora l'unico intellettuale triestino a non sparare a zero sul Vate in bronzo è Magris. «In questo caso il problema non è la statua, ma avere un giudizio chiaro e onesto su D'Annunzio che, pur avendo scritto tantissime cose anche illeggibili, è autore di alcuni capolavori riconosciuti da tutti e destinati a restare come pochi» ha dichiarato al Piccolo. Il Pd per bocca del capogruppo in comune, Giovanni Barbo, si oppone e propone, al posto del Vate, il pachistano Abdus Salam, premio Nobel per la fisica, che a Trieste ha già il Centro internazionale di Miramare intitolato a suo nome.
Fiume 1919-2019. Diari dalla Città di Vita. Andrea Scarabelli il il 20 settembre 2019 su Il Giornale.
12 settembre 1919. Esattamente un secolo fa, Gabriele d’Annunzio entrava in Fiume d’Italia, “disobbedendo” ai diktat di Società delle Nazioni e compagnia bella, inaugurando quella che Claudia Salaris ha definito, usando un’espressione che ha avuto molta fortuna, «festa della Rivoluzione». Il Vate aveva compiuto la Marcia di Ronchi febbricitante, e sempre febbricitante era entrato nella Città, realizzando un’Impresa annunciata giorni prima da parole irrevocabili, vergate a mano su carta intestata Ardisco non ordisco, quasi in un interiore conto alla rovescia: «Giovedì, nel pomeriggio sarò a Ronchi per partire verso il gran destino». Ancora ignaro del fatto che quella febbre, quel fuoco sacro, sarebbero rimasti accesi per cinquecento giorni, dando vita a un evento sacro e metastorico senza pari, in vista del Carnaro recitò la sua celebre “orazion picciola”. Così Edoardo Susmel ricorderà le atmosfere di quel discorso e il volto del Comandante, illuminato dal sole: «Era di un pallore mortale. La fronte, i radi baffetti, il mento erano incrostati di polvere; ma il suo occhio era vivo e la sua voce, dapprima lenta e fioca, diventò metallica, acuta, penetrante». Innanzi ai convenuti, quella voce proruppe: «Ufficiali di tutte le armi, vi guardo in faccia. La mia volontà usa porre dietro di sé l’irreparabile. Io scrissi ieri, sul punto di partire, a un compagno di fede e di violenza: “Il dado è tratto. Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi”. Ora bisogna – m’intendete? – bisogna che io prenda la città. Sì, è vero, ho la febbre alta. Non so se il mio volto sia pallido o acceso. Ma certo in me arde un demone, il mio demone. E dal male non menomato mi sento, ma aumentato. La sbarra di Contrida è guardata dai moschetti e dalle mitragliatrici di tre Potenze. Spezzeremo quella sbarra. Io sarò innanzi: primo». Tra i narratori di quelle ore, concitate come poche altre, troviamo un giovanissimo cronista, che a onor del vero giunse nella Città Olocausta solo due giorni dopo, il 14 febbraio. Il suo diario, con il titolo Fiume, una grande avventura, è stato appena ripubblicato da Bietti, in una nuova edizione a cura di Daniele Orzati e con una densa postfazione di Anita Ginella dedicata all’autore, Carlo Otto Guglielmino, allora corrispondente del «Corriere Mercantile» di Genova – benché molti dei suoi reportage spediti al giornale fossero epurati, per via della censura intrapresa da Nitti (Cagoia, nell’indimenticabile definizione di d’Annunzio), nel timore che un’eccessiva informazione sui fatti fiumani potesse infiammare troppi animi… Cosa che, puntualmente, accadde.
Nel 1919 Guglielmino aveva diciotto anni, ma aveva già fatto in tempo a fondare il fascio futurista di Genova e tra l’altro – come ricorda Ginella – aveva provato a entrare in Fiume un mese prima della Santa Entrada, anticipando quell’autentico pellegrinaggio (Kochnitzky) che un pugno di mesi dopo avrebbe visto confluire nella Città di Vita artisti e rivoluzionari, letterati e sindacalisti, Arditi ed esteti. Come che sia, l’esito dell’operazione è documentato da una nota sul «Caffaro», pubblicata il 30 agosto: «I Futuristi genovesi – dinamicissima avanguardia di Genova industriale – pronti a qualunque sacrificio contro le sottili arti, le losche insidie e le aperte violenze di un governo che non rappresenta il forte popolo italiano, protestano per l’indegno trattamento usato dalla Questura Italiana al compagno Carlo Otto Guglielmino, arrestato perché diretto a Fiume e ricondotto a Genova alla stregua di un delinquente». Riuscirà a entrare nella Città di Vita, in modo piuttosto rocambolesco, nel settembre di quello stesso anno e nel corso della sua permanenza redigerà un diario, poi ripreso e rielaborato negli anni Cinquanta, una delle testimonianze più asciutte e antiretoriche dedicate all’Impresa. Lavorando nella Segreteria particolare del Comandante, ha modo di registrarne in presa diretta le sensazioni e i cambi d’umore, assistendo altresì a incontri epocali. Davanti a suoi occhi sfilano i grandi protagonisti del Novecento, da Marinetti e Mussolini a Toscanini e Marconi… Un piccolo aneddoto: quando il fondatore del Futurismo giunge a Fiume, vorrebbe arringare gli Arditi, ma d’Annunzio lo ferma. A meno che non reciti a lui – e solo a lui – La battaglia di Adrianopoli, meglio che taccia. «Parlo già troppo io» aggiunge il Vate, sarcastico.
Dalle pagine di Guglielmino emerge anche l’intensa e febbrile attività svolta dal Poeta, che lavora giorno e notte, tenendo discorsi, scrivendo proclami e occupandosi incessantemente di diplomazia. Così ad esempio annota, poco più di un mese dopo la Marcia di Ronchi: «Non so come d’Annunzio regga a tanto sforzo. Non va mai a letto prima di mezzanotte e si alza prestissimo. Scrive, riceve, visita i reparti, tiene discorsi. Mangia di regola nella camera da letto, facendosi portare un pasto leggerissimo. Non beve vino – se non in determinate occasioni – e poca acqua. Dopo ogni pasto si concede una tazza di caffè ed una sola sigaretta, che fuma a metà. Quando è costretto ad accettare l’invito dei reparti ed a mangiare alle loro mense, deve controllarsi: sa che basta un bicchiere di champagne a renderlo vivacissimo. Quando lavora nella sua camera indossa una vestaglia oppure, se fa freddo, il maglione grigio da aviatore». Collaboratore de «La Testa di Ferro. Libera voce dei Legionarii di Fiume», diretta da Mario Carli, Guglielmino ha anche modo di partecipare in prima persona a uno dei colpi di mano organizzati dal futurista Federico Pinna Berchet (il cui resoconto integrale è contenuto nel prossimo numero della rivista «Antarès – prospettive antimoderne», di prossima pubblicazione, tutto dedicato all’Impresa…), annotandone altri, dal furto di autocarri e mezzi militari al dirottamento di vari piroscafi, ovviamente senza colpo ferire, fino all’indimenticabile episodio dei “Cavalli dell’Apocalisse”. Ovvero quaranta cavalli sottratti dall’Ufficio Colpi di Mano e portati nella Città Olocausta. All’impresa segue un ultimatum: o verranno restituiti oppure il blocco della città verrà inasprito. D’Annunzio obbedisce, sennonché al posto dei quaranta purosangue sottratti, giovani e forti, ne rispedisce al mittente altrettanti vecchi e malconci – non prima di averli dipinti di bianco, rosso e verde.
Non mancano nemmeno piccoli aneddoti ed episodi riguardanti il Comandante, vero e indiscusso protagonista di Fiume, una grande avventura. Come una serata del 24 marzo, quando d’Annunzio entra nella Segreteria. In quell’immenso salone, affacciato sulla città e su un mare crepuscolare e sanguigno, quattro genovesi – Guglielmino, Mario Maria Martini, Giuseppe Canzini e Furio Drago – parlano della loro città. Quand’ecco che, improvvisamente, entra il Vate, straordinariamente euforico. Canzini si mette sull’attenti, ma gli viene fatto cenno di sedersi. D’Annunzio chiede notizie di Genova, dopodiché racconta di quando una sera, dopo l’inaugurazione del Monumento di Quarto, era riuscito a sgattaiolare lontano dagli ammiratori per compiere un giro notturno della città vecchia, verso il porto. «Non dimenticherò» mormora, leggermente commosso, «Porta Soprana immersa nel chiaro di luna. Le vecchie pietre sembravano fosforescenti. Il cielo che si vedeva al di là dell’arco era come uno specchio volto verso il mare, che quella sera doveva essere d’argento…». Dopodiché parla di Portofino, di quella piccola cresta sopra il faro, affacciata su due mari, da cui s’intravede da un lato la costa che da Camogli si estende sino a Genova e, dall’altro, il Golfo del Tigullio. Non c’è luogo, in Liguria, che lui ami di più. L’atmosfera è quasi sospesa, descritta da Guglielmino con toni lirici: «Il salone era pieno d’ombra e nessuno pensava ad accendere le luci per non rompere l’incanto di quel momento. Le mani di d’Annunzio tracciavano brevi parabole nell’aria, bianchissime. Fuori il tramonto si spegneva in toni sommessi. Il mare, dopo essere stato di porpora, ora era di un colore indefinibile, come una vecchia seta cangiante». Dopo una breve pausa, assorto in chissà quali meditazioni, d’Annunzio mormora: «Dovete difendere la vostra città da ogni contaminazione, dal troppo frettoloso piccone che non rispetta nessuna memoria del passato e dal cemento armato con il quale l’uomo costruisce in fretta ma dimenticando ciò che è bellezza, ignorando le armonie che si ottengono posando una pietra su l’altra, un marmo su un altro…». Il giovane protagonista di questa storia non sa ancora come quelle parole ispireranno molte delle battaglie giornalistiche che intraprenderà decenni dopo sulle colonne del «Corriere Mercantile» e de «La Gazzetta del Lunedì», finalizzate a difendere la sua Liguria dalla rapace e scellerata distruzione paesaggistica messa in atto nel secondo dopoguerra… Oppure il 2 aprile, quando il suo diario registra una passeggiata primaverile insieme al Comandante, vestito da Ardito e con il cappello all’alpina: «Disse che bisognava andare incontro alla primavera per farle festa; che ogni tanto occorre infiorare le armi perché se no diventano vecchie». Composta da Guglielmino e da altri genovesi, quel primo pomeriggio inondato dal Sole la colonna parte, al canto degli Arditi:
Se non ci conoscete
guardateci dall’alto,
siam fatti per la guerra
siam fatti per l’assalto…
Ad aprire la fila è d’Annunzio, descritto dal diciottenne con toni quasi metafisici: «A vederlo di dietro, con la giubba attillata, i calzoni ampi sugli stivali lucidi, procedere agile su per il sentiero pietroso, sembrava un ventenne. Quando la cima apparve vicina, si voltò a segnarcela e la sua figura, in quel punto, non aveva dietro a sé che il cielo; così incorniciato d’azzurro, stilizzato, con quel volto macerato, a qualcuno di noi parve un Santo guerriero che additasse un Paradiso». Un Paradiso annegato una manciata di mesi dopo nel sangue fraterno, per decreto dei “poteri forti” di allora. Un esito che, tuttavia, non basta a cancellare l’aura sacra di quell’esperienza, unica nel suo genere, apertasi un secolo fa, quando la colonna capitanata da d’Annunzio giunse nella Città liberata. Quando, come scrive Guglielmino meno di settantadue ore dopo quel fatidico 12 settembre, abbrivio di una vera e propria Quinta Stagione sul mondo, «ad un tratto, quasi una marea, si vide la gente avanzare, come impazzita. E nel silenzio esplose il rombo di tutte le campane che suonavano a martello, come quando il fuoco rugge e divora. Ed era veramente un incendio: stava avvampando il cuore della città».
D’Annunzio a Fiume, azione ambigua Libertaria, ma anche intollerante. Pubblicato giovedì, 12 settembre 2019 da Antonio Carioti su Corriere.it. L’impresa di Fiume si colloca in maniera ambigua nella storia del nostro Paese. Cento anni fa, il 12 settembre 1919, Gabriele d’Annunzio si mise alla testa di alcuni reparti militari ammutinati (i suoi «legionari») e occupò quella città della costa adriatica (oggi parte della Croazia con il nome di Rijeka), rivendicandone l’annessione all’Italia per via del fatto che la maggioranza degli abitanti nel centro urbano parlava la nostra lingua, anche se gli accordi del 1915 non prevedevano il suo passaggio sotto la sovranità del Regno sabaudo dopo la fine della Prima guerra mondiale. La conclusione del conflitto aveva visto infatti la dissoluzione dell’Austria-Ungheria, inizialmente non preventivata, e la nascita della Jugoslavia. Di conseguenza si era aperto un contenzioso tra Roma e Belgrado sul nostro confine orientale, in particolare su Fiume e sulla Dalmazia, che la conferenza internazionale di pace non aveva risolto. D’Annunzio cercò di sciogliere il nodo con la spada: in questo senso la sua azione ebbe un indubbio indirizzo nazionalista e imperialista, oltre che eversivo nei riguardi del governo in carica, guidato dal liberale di sinistra Francesco Saverio Nitti, e più in generale delle istituzioni parlamentari italiane e dell’ordine postbellico definito con il trattato di Versailles. Anche se all’epoca Benito Mussolini appoggiò l’impresa di Fiume soprattutto a parole e non mosse un dito quanto il successivo governo di Giovanni Giolitti, conclusa un’intesa con la Jugoslavia, sgombrò d’Annunzio dalla città con la forza nel dicembre 1920, oggi la destra di ascendenza neofascista rivendica l’avventura fiumana come parte della propria storia: la festa Atreju di Fratelli d’Italia le dedica una mostra che sarà inaugurata il 20 settembre, l’editrice Ferrogallico ha pubblicato il libro a fumetti Fiume o morte, a cura di Federico Goglio, mentre Eclettica propone il Poema di Fiume del padre del futurismo Filippo Tommaso Marinetti. Sul versante antifascista, in particolare da parte dell’Associazione partigiani (Anpi), forti critiche vengono invece rivolte alle celebrazioni di un’impresa letta come una premessa della dittatura. Sul piano storico il dibattito è più sfumato. Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale dannunziano e autore del recente libro su Fiume Disobbedisco (Mondadori), tende a valorizzare l’aspetto trasgressivo, libertario, movimentista e carnevalesco dell’impresa. Quindi a collegarla non tanto al fascismo, che pure da d’Annunzio mutuò riti e slogan, ma al Sessantotto, come una sorta di «festa della rivoluzione» (la definizione è della storica Claudia Salaris), lontanissima dal rigido culto della gerarchia e della disciplina vigente sotto il regime mussoliniano e anche dall’approccio compromissorio di Mussolini verso il potere costituito. C’è però anche chi, come Enrico Serventi Longhi nel libro Il faro del mondo nuovo (Gaspari editore), evidenzia un forte nesso di continuità fra legionari e camicie nere: a suo avviso lo squadrismo fu «per gran parte il frutto diretto della rielaborazione dell’esperienza fiumana», tanto che la «quasi totalità» di coloro che avevano seguito d’Annunzio «accettò di buon grado il processo di dissolvimento» dell’eredità di quell’avventura «dentro il processo storico di affermazione del fascismo». Tale giudizio può apparire esagerato, visto che legionari fiumani di rilievo, come Alceste De Ambris, si schierarono sul versante antifascista. Ma forse il punto più significativo è un altro. La componente antiautoritaria presente nel fiumanesimo, su cui insiste giustamente Guerri, non è di per sé incompatibile con uno sbocco totalitario. Anche lo squadrismo aveva componenti goliardiche (si pensi all’uso di far ingurgitare alle vittime il purgante olio di ricino). E comunque il vero nodo è la sacralizzazione della propria causa, un radicalismo che squalifica ogni dissenso. A tal proposito la stessa analogia con il Sessantotto, evocata da Guerri, è assai significativa. Proprio dalla contestazione giovanile nacquero infatti gruppi estremisti caratterizzati, oltre che dall’esaltazione della violenza, da una visione manichea e settaria della politica, che in gran parte contraddiceva lo spirito libertario delle origini. Anche il terrorismo delle Brigate rosse e di Prima linea si nutrì in parte dei fermenti sessantottini, proprio come lo squadrismo si era alimentato di quelli fiumani. Lo stesso mito della «Resistenza tradita», così popolare nell’ultrasinistra sorta dalla contestazione, assomiglia parecchio a quello dannunziano della «vittoria mutilata». Anche quando assume una forma trasgressiva, festosa e poetica, l’oltranzismo che attribuisce alla politica una dimensione di scontro tra il bene e il male sfocia generalmente nella delegittimazione dell’avversario, che si esprime magari attraverso la sua messa in ridicolo (si pensi al soprannome «Cagoia» che d’Annunzio usava per ingiuriare Nitti), e quindi nell’intolleranza. A quel punto il passo verso un atteggiamento liberticida non è poi così lungo.
D’Annunzio non fu mai fascista. Molti suoi «legionari» contro il Duce. In un libro edito da Mondadori lo storico Giordano Bruno Guerri ricostruisce le vicende dell’impresa di Fiume: uno spirito libertario che anticipa la rivolta del Sessantotto, scrive Paolo Mieli il 18 marzo 2019 su Il Corriere della Sera. Gabriele d’Annunzio con la sua levriera Crissa in visita a uno dei reparti di «legionari» con cui aveva occupato Fiume il 12 settembre del 1919. Le forze regolari italiane estromisero d’Annunzio dalla città durante le feste natalizie del 1920. L’impresa di Fiume fu una delle avventure più straordinarie del primo dopoguerra. Per sedici mesi (dal settembre 1919 al dicembre 1920) i «legionari» di Gabriele d’Annunzio occuparono la città adriatica dando vita ad una sorta di anticipazione del Sessantotto. Finché il capo del governo italiano, Giovanni Giolitti, pose fine con la forza a quell’esperienza nel cosiddetto «Natale di sangue». L’avventura fiumana suggestionò i contemporanei. Benito Mussolini ne trasse ispirazione per la successiva marcia su Roma, ma ebbe, nei confronti del «Vate» e dei suoi seguaci, un atteggiamento ambiguo. Lenin notò il carattere «rivoluzionario» dell’impresa dannunziana. Antonio Gramsci, evacuata Fiume, provò (inutilmente) a coinvolgere il poeta e i suoi reduci per contrastare le camicie nere che si accingevano alla presa del potere (nell’ottobre del 1922). Esce in libreria il 26 marzo il saggio di Giordano Bruno Guerri «Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920» (Mondadori, pagine 564, euro 28). Mussolini ebbe l’abilità di far dimenticare la propria doppiezza nel corso di quei «sedici mesi», di evidenziare la linea di continuità tra l’impresa dannunziana e la sua. E, nel delicatissimo triennio successivo alla conquista del governo, riuscì a tenere legato a sé d’Annunzio, vellicandone la vanità. In particolare nel momento più delicato: nelle settimane che seguirono il rapimento e l’uccisione di Giacomo Matteotti (estate del 1924), d’Annunzio divenne quasi un incubo per i fascisti. Quattordici anni dopo, il giorno successivo alla sua morte (1° marzo 1938), il Duce confidò a Galeazzo Ciano la convinzione che se d’Annunzio all’epoca dell’assassinio di Matteotti e della crisi che ne seguì «si fosse schierato contro», sarebbe stato «un pericoloso avversario perché aveva molto seguito nella gioventù». Ma in quella occasione d’Annunzio rassicurò personalmente Mussolini che non avrebbe mosso un dito contro di lui, raccomandandogli di «aver fede intiera» nella sua «lealtà e carità di patria». Per poi aggiungere: «Il mio silenzio e il mio lavoro sono oggi un esempio a tutti gli italiani; non l’uno sarà interrotto e non l’altro». Dopodiché, però, quando a fine luglio del 1924 le cose per il Duce sembrarono volgere al peggio, l’onorevole Tito Zaniboni dichiarò su «Il Mondo» che d’Annunzio aveva scritto in una lettera a un legionario di essere «molto triste di questa fetida ruina». E il poeta non smentì. Non voleva deludere Mussolini, ma neanche i suoi ammiratori che in quei giorni prendevano le distanze dal fascismo. Nato a Monticiano (Siena) nel 1950, lo storico Giordano Bruno Guerri, autore di molti libri importanti, è presidente della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani. In effetti a seguito dell’impresa fiumana il prestigio del poeta era altissimo, fa notare Giordano Bruno Guerri nello straordinario Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920, che sta per essere dato alle stampe da Mondadori. Molti erano convinti che l’autore de Il piacere potesse costituire un pericolo per il fascismo. Ernest Hemingway, in una corrispondenza dalla Svizzera per un giornale americano, scrisse: «In Italia sorgerà una nuova opposizione, anzi si sta già formando e sarà guidata da quel rodomonte vecchio e calvo, forse un po’ matto, ma profondamente sincero e divinamente coraggioso che è Gabriele d’Annunzio». Condivideva (a modo suo) questa opinione il generale Emilio De Bono, quadrumviro della marcia su Roma e ora capo della polizia, che nel dicembre 1922 invitò i prefetti a «controllare e reprimere tutte le organizzazioni legate al suo nome, a partire dalla Federazione dei legionari». Nell’aprile 1923 la Federazione, i sindacati di ispirazione dannunziana e l’Associazione arditi d’Italia si misero assieme nell’Unione spirituale dannunziana, con l’obiettivo dichiarato di resistere al fascismo e di fondare una costituente sindacale ispirata a quella costituzione utopistica che aveva preso il nome di Carta del Carnaro. In seguito, fa notare Guerri, fra l’estate e l’autunno una raffica di perquisizioni e di arresti fece naufragare il progetto. Fu del resto lo stesso d’Annunzio a mettere le cose in chiaro con Mussolini scrivendogli (il 15 maggio 1923): «Io non voglio essere aggettivato… Il nome dannunziano mi era già odioso nella letteratura, odiosissimo m’è nella politica». Un modo quasi esplicito per dirgli che, pur non mettendosi di traverso, non voleva essere strumentalizzato. L’unico intervento del poeta nella vita pubblica fu nello stesso 1923 la difesa della Federazione italiana dei lavoratori del mare (del suo vecchio sodale Giuseppe Giulietti) ad impedire che fosse inclusa nei sindacati fascisti. Nel 1924 l’Unione spirituale dannunziana assunse un atteggiamento sempre più apertamente antifascista: nel corso della crisi successiva all’uccisione di Matteotti, si unì all’opposizione dell’Aventino e tra l’8 e il 10 settembre convocò a Milano un Consiglio nazionale. Qui i reduci dell’impresa fiumana non confluiti nel fascismo presero quella che Guerri considera una «decisione estrema»: vista la volontà del Comandante di appartarsi dalla politica, dichiararono di ispirarsi al pensiero e non alla persona di d’Annunzio, «per il raggiungimento», dissero, «di quegli ideali, consacrati nella sua multiforme attività», di cui avevano fatto il loro «credo». Recuperando le «vecchie consuetudini dell’Ufficio colpi di mano», in pochi giorni, scrive Guerri, «i legionari trasformarono l’Unione spirituale in un’associazione clandestina, con depositi segreti, tessere anonime e una rete di cellule incaricate di sostenere le lotte operaie e tutte le forme di opposizione al regime». Ma era tardi. Troppo tardi. Le «leggi fascistissime» del 1925 «si abbatterono inesorabilmente anche sulla debole coalizione legionaria, di cui», ammette Guerri, «non abbiamo notizie certe se non nelle relazioni della polizia e nei rari opuscoli sequestrati durante la perquisizione delle sedi». Tra novembre e dicembre 1925 l’Unione — «ultima custode militante del fiumanesimo indipendente» — fu travolta dalla repressione. Nel frattempo d’Annunzio non si era ribellato alla svolta autoritaria di Mussolini. Anzi. Tra aprile e maggio del 1925 Mussolini promosse la trasformazione del Vittoriale in monumento nazionale. La generosità del Duce ebbe, secondo Guerri, un secondo fine: «Pagare per il Vittoriale era come ipotecarne l’abitante, che sarebbe divenuto “suo”… e per i più sprovveduti e i faziosi non ha mai smesso di esserlo». In realtà Mussolini «non coprì d’oro d’Annunzio che avrebbe potuto vivere più che bene con i diritti d’autore», bensì «spese per tenerlo occupato e — soprattutto — per cambiarne l’immagine pubblica legandolo al fascismo più di quanto non fosse». In questo clima di «circospetta vicinanza» maturò «una delle decisioni più controverse del Vate» che accettò di firmare il Manifesto degli intellettuali fascisti redatto da Giovanni Gentile (a cui si contrappose quello di Benedetto Croce, voluto da Giovanni Amendola) sottoscritto — tra gli altri — da Filippo Tommaso Marinetti, Curzio Malaparte, Luigi Pirandello, Giuseppe Ungaretti. In realtà, scrive Guerri, d’Annunzio non fu mai fascista. Ne è riprova il fatto che «fra gli oltre ventimila oggetti della sua casa non si trova un solo fascio o elemento che richiami il regime, se non relegato tra i doni che riponeva nel solaio». Parlava, il Vate, di «camicie sordide», mai di camicie nere; non celebrava le date sacre del regime e aveva quasi sempre parole di disprezzo per i gerarchi. Rispettava in Mussolini il demiurgo capace di realizzare «quel che a lui non era riuscito, una rivoluzione», ma sempre considerandolo «un uomo di gran lunga inferiore, umanamente e intellettualmente». Un uomo «tenuto a rendergli omaggio». Le sue lettere al Duce, «spesso citate a riprova di ammirazione e devozione», sono in realtà «un gioco di lusinghe e di minacce che più volte l’interlocutore non afferra» (come ha messo in luce una decina di anni fa Giampiera Arrigoni). D’altra parte l’impresa di Fiume era stata, certo, «un episodio del nazionalismo più consueto», ma aveva rappresentato soprattutto «una rivolta generazionale contro ogni regola costituita dal liberalismo, dal socialismo, dalla diplomazia tradizionale e dalle convenzioni». In questo fu, come si è detto all’inizio, un’anticipazione del Sessantotto. Dopo l’epilogo sanguinoso, però, la vicenda fiumana venne a tal punto inquinata dalla mitologia fascista da essere in seguito, dopo la caduta di Mussolini, «trascinata nell’oblio». Quasi per ritorsione. La rivoluzione fiumana, sostiene Guerri, è stata bollata come «precorritrice del regime», perché così aveva voluto Mussolini. Da Fiume Mussolini prese «la liturgia della politica di massa, sperimentata la prima volta dal Vate» che fu «il primo e ultimo poeta al comando nella storia dell’umanità»: «i discorsi dal balcone, il dialogo con i seguaci-fedeli, il culto per i caduti e le bandiere, il “me ne frego”, l’“a noi!”, le camicie nere e i fez degli arditi, Giovinezza, le marce, le cerimonie di giuramento, riti e miti». In realtà, ribadisce Guerri, ai tempi dell’impresa fiumana Mussolini aveva ingannato d’Annunzio, facendogli credere di essere dalla sua parte mentre tesseva trame con Giolitti. Poi, giunto al potere, il fascismo lasciò in soffitta l’essenza della rivoluzione fiumana, che era libertaria, e imboccò una strada tutta sua. Portando sulle spalle «l’indebito peso di una dittatura vicina solo per contiguità», chiarisce l’autore, il fiumanesimo verrà in seguito giudicato «in base a ciò che è avvenuto dopo e che sarebbe accaduto comunque»: i Fasci di combattimento erano stati fondati oltre sei mesi prima dell’ingresso del «Poeta guerriero» a Fiume; e avrebbero avuto la stessa evoluzione «anche senza l’esempio di d’Annunzio», il quale aveva dimostrato soltanto che «lo Stato liberale poteva essere sfidato — e vinto — con la forza». Mussolini fece proprio il saluto «eia eia alalà» — peraltro inventato da d’Annunzio molto prima del 1919, ma, secondo Guerri, non avrebbe mai accompagnato quell’esplosione di gioia con la frase che vi aggiunse il Comandante: «Viva l’amore!». E se molti legionari aderirono al fascismo, altri furono antifascisti, persino martiri dell’antifascismo o morti in esilio come l’altro uomo più importante della rivoluzione fiumana, Alceste De Ambris. «Si dimentica dunque», prosegue l’autore di Disobbedisco, «che Fiume fu anzitutto una “controsocietà” sperimentale in contrasto sia con le idee e i valori dell’epoca sia — e tanto più — con quelli del fascismo». Semmai da Fiume emersero caratteristiche che avrebbero dominato la scena un secolo dopo: la spettacolarizzazione della politica, la distorsione della realtà tramite la propaganda, la ribellione generazionale, l’avanguardia e la festa come mezzi di contestazione, la rivolta contro la finanza internazionale, il conflitto tra nazionalismi, i volontari che lasciano Paesi d’origine per combattere guerre globali, la libertà sessuale e di abbigliamento, il ribellismo e la trasgressione. Dopo il 1945 Fiume venne assegnata alla Jugoslavia di Tito. A difendere l’italianità di Fiume presso le potenze alleate, rimasero solo pochi politici locali, tra cui Riccardo Zanella. Tolto «il bavaglio» cui l’Italia fascista l’aveva costretto per vent’anni, l’autonomista Zanella cercò di presentare lo Stato libero come una «vittima del fascismo» alla stregua dell’Etiopia e dell’Albania. I rapporti con Tito, però, «erano troppo importanti per gli Alleati che gli avevano già negato Trieste». Era necessario offrirgli una contropartita e il leader comunista, che aveva unificato i partigiani serbi, croati e sloveni, poté presentarsi come il vendicatore delle violenze sopportate in guerra dagli slavi durante l’occupazione italiana. Dopodiché i «liberatori comunisti», scrive Guerri, «non furono meno feroci degli sconfitti nazifascisti» e quando entrarono a Fiume, il 3 maggio del 1945, diedero immediatamente inizio alla pulizia etnica. La repressione del dittatore Tito costò la morte di oltre seicento fiumani e l’esilio di altri trentottomila. Poi la Jugoslavia si adoperò a «cancellare metodicamente ogni traccia dell’identità italiana». Contemporaneamente l’Italia repubblicana escluse l’impresa di Fiume dalla galleria della storia nazionale. A commemorarla, al Vittoriale, restarono solo alcuni legionari «appesantiti e ingrigiti, con la medaglia di Ronchi appuntata sulla giacca». E man mano che morivano, quei raduni si fecero sempre più striminziti.
Bibliografia. All’impresa dannunziana del 1919-20 Pier Luigi Vercesi ha dedicato il saggio Fiume. L’avventura che cambiò l’Italia (Neri Pozza, 2017). Una visione complessiva delle vicende riguardanti la città adriatica si trova nel libro di Raoul Pupo Fiume città di passione (Laterza, 2018). Giordano Bruno Guerri ha pubblicato sul poeta i volumi D’Annunzio. L’amante guerriero (Mondadori, 2008) e La mia vita carnale (Mondadori, 2013). Importante anche la biografia di Lucy Hughes-Hallett Gabriele d’Annunzio (traduzione di Roberta Zuppet, Rizzoli, 2014). Da segnalare inoltre: Annamaria Andreoli, Il vivere inimitabile (Mondadori, 2000); Piero Chiara, Vita di Gabriele d’Annunzio (Mondadori, 1978).
FIUME IN PIENA. Giovanni De Luna per “la Stampa” l'11 settembre 2019. Il 1919 è il primo anno di pace dopo una guerra enormemente distruttiva. Troppe ferite impossibili da archiviare, troppi veleni ancora a intossicare un dopoguerra inquieto e tumultuoso. La situazione economica era allarmante. Lo sforzo bellico era costato un forte incremento del debito pubblico (nel 1913-1914 il deficit del bilancio dello Stato era di 214 milioni; nel 1918-1919 era arrivato alla cifra record di 23.345 milioni!); l' aumento dei prezzi e il reinserimento dei reduci - centinaia di migliaia di giovani che tornavano a casa con scarse prospettive di trovare un lavoro - alimentavano una rabbia sociale che sembrava incontenibile. Gli scioperi contro il carovita, nel giugno-luglio di quell' anno, con tumulti di piazza e saccheggi dei negozi, diedero la sensazione che la protesta potesse sfociare in una insurrezione generalizzata, alimentando la «grande paura» che il bolscevismo potesse avere successo anche in Italia. Gli avvenimenti russi del 1917 avevano infatti suscitato un' attesa «messianica» di rivolgimenti sociali. Di contro, tra i ceti medi, gli ufficiali inferiori di complemento, dopo aver assaporato l' ebbrezza dell' autorità e del comando, lasciavano a malincuore le trincee per ritornare a una vita quotidiana fatta di precarietà e incertezza. Erano convulsioni che rimbalzavano direttamente sulla politica. Le formule che avevano segnato l' età giolittiana erano tramontate e non c' era più una coalizione di partiti in grado di dare stabilità al governo, di gestire con lucidità la difficile transizione verso la pace. L' esecutivo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, che pure godeva del prestigio derivante dalla vittoria sugli austriaci, cadde a causa delle difficoltà incontrate dalla delegazione italiana alla Conferenza di Parigi. Gli successe Francesco Saverio Nitti. Dopo l'approvazione di una legge elettorale che introduceva il sistema proporzionale, le Camere furono sciolte e si tennero le elezioni (16 novembre 1919): il vecchio blocco liberaldemocratico risultò ancora la forza politica più votata (con il 38,9% dei voti), conquistando però appena 179 deputati, quando in precedenza ne aveva 310. Si trattava di una perdita secca, che sanciva l' impossibilità di costituire una maggioranza restando all'interno del quadro politico, imperniato sui liberali, che aveva guidato il Paese per più di sessant'anni. La guerra aveva stabilito un nesso strettissimo tra la violenza e i comportamenti collettivi. Sembrava che tutti i nodi politici fossero da sciogliere affidandosi alle armi e all' uso della forza; si guardava con insofferenza alle formule della democrazia, al vecchio progetto giolittiano di «controllare» il conflitto politico, sradicandolo dalle piazze per riportarlo fisiologicamente nelle aule parlamentari. La stessa sfiducia circondava la possibilità che si potessero ristabilire normali relazioni diplomatiche tra Stati. Si cominciò a parlare di «vittoria mutilata», proprio in relazione all' insoddisfazione per come l' Italia veniva trattata alla Conferenza di pace di Parigi. La nostra delegazione si era impegnata nel tentativo di aggiungere alle conquiste territoriali già promesse dagli Alleati con il trattato di Londra anche la città di Fiume, in Dalmazia, abitata in prevalenza da italiani. La ferma opposizione delle altre potenze vincitrici indusse i nostri rappresentanti diplomatici addirittura a disertare per un breve periodo il tavolo dei colloqui. Per forzare la mano agli Alleati mettendoli di fronte a un fatto compiuto, il 12 settembre 1919 circa duemila tra «legionari» e volontari, guidati da Gabriele D' Annunzio occuparono Fiume. Lo stesso D' Annunzio assunse il comando della città, proclamandone l'annessione all' Italia. Era un gesto rivoluzionario, un' iniziativa militare illegale che lasciava presagire quello che sarebbe accaduto tre anni dopo, nel 1922: la rivoluzione che tutti si aspettavano dai comunisti e dai socialisti sarebbe venuta da destra, dai nazionalisti e dai fascisti. In quella fase, le istanze rivoluzionarie erano ancora magmatiche e confuse e intrecciavano motivi di entrambi gli schieramenti. A Fiume D' Annunzio varò una sorta di Carta costituzionale in cui si affermava, ad esempio, che «lo Stato non riconosce la proprietà come il dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come la più utile delle funzioni sociali». L' avventura fiumana durò 15 mesi, provocò la caduta del governo Nitti che non era stato capace né di evitarla, né di reprimerla, e si concluse soltanto con il Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920, che assegnò alla città lo status di «città libera» (diventerà pienamente italiana nel 1924). D' Annunzio rifiutò di accettare quella soluzione; per costringerlo ad abbandonare la città fu necessario far intervenire l' esercito. Fiume fu bombardata e 18 gennaio 1921 D' Annunzio si arrese.
E LE LEGIONARIE ANTICIPARONO IL SESSANTOTTO. Mirella Serri per “la Stampa” l'11 settembre 2019. «Fiume è diventata un postribolo, ricetto di malavita e di prostitute più o meno high life», sosteneva indignato il presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti alla fine del 1919. Gli arditi, gli anarco-sindacalisti, i socialisti, i nazionalisti che avevano invaso Fiume, denunciava Nitti, ne avevano fatto un teatro di orge e festini a base di sesso e di cocaina. E responsabili erano soprattutto le donne di facili costumi. Il 12 settembre 1919, al seguito legionari di D' Annunzio arrivarono anche centinaia di signore e signorine la cui avventura fiumana non è mai stata raccontata: adesso viene ricostruita da Claudia Salaris nel volume Donne d' avanguardia (uscirà dal Mulino, che ora manda in libreria una nuova edizione ampliata di Alla festa della rivoluzione dedicato dalla Salaris all' impresa di Fiume). Le fanciulle che occuparono la città adriatica insieme con le milizie capeggiate da Guido Keller riflettevano le aspirazioni delle ultime generazioni femminili. Durante il conflitto mondiale le donne avevano sostituito in molti lavori gli uomini che si trovavano al fronte. E adesso si rifiutavano di rientrare tra le pareti domestiche. A Fiume arrivò un esercito di maestre, di crocerossine, di giornaliste, di scrittrici che crearono una «Città di vita», come la chiamò D' Annunzio , una «controsocietà» alimentata da progetti di ugualitarismo e di libertà.
Ma chi erano le legionarie? Erano donne spinte dal desiderio di indipendenza e di riconoscimenti, come la tredicenne Nada Bosich che lavorava alacremente per confezionare mostrine e indumenti per l' inverno, come la giornalista Bianca Flury Nencini che si occupava dei bambini fiumani, come Ebe Romano, autrice dell' Inno a Fiume, che preparava agli esami i giovanissimi soldati, o come la pianista Luisa Baccara che teneva concerti in piazza e che sviluppò con D' Annunzio la dipendenza dalle piste di «neve». O come la marchesa Margherita Incisa di Camerana che militava nei reparti di assalto. Le sostenitrici dell' impresa fiumana erano disseminate in tutta la Penisola, come la geniale Enif Robert, autrice con Filippo Tommaso Marinetti di Un ventre di donna in cui racconta la sua (immaginaria?) relazione saffica con Eleonora Duse. A Rapallo, dove il 12 novembre 1920 venne firmato il trattato internazionale che pose termine in modo drammatico alla vicenda fiumana, la Robert gettava volantini e compiva azioni provocatorie. La legionarie volevano varcare nuovi confini anche nell' ambito più intimo e privato. L' aristocratica Margherita Keller Besozzi, con lo pseudonimo di Fiammetta, fu la portabandiera delle richieste femminili in ambito erotico. «Avere il coraggio della propria sessualità e del proprio desiderio / Saper trovare l' UOMO», predicava, «prenderselo, avvincerlo, stordirlo, tenerselo / La donna di Fiume è la MADRE della donna moderna». Da vera provocatrice aggiungeva: «Sono giovane. / Fumo molte sigarette. / Me ne frego della crociata contro il lusso e porto sottovesti di seta. / Sono stata di molti uomini. / Lo confesso senza arrossire». Anche nell' abbigliamento le legionarie volevano eguagliare i maschi: indossavano casacche militari e portavano spadini sotto la giubba dove avevano ricamato: «O Fiume o morte». Le truppe del Comandante furono il laboratorio politico del Ventennio nero. Sperimentarono la politica di massa, il mito della romanità, il braccio teso e i saluti come «Eia, eia alalà», la canzone Giovinezza, il legame mistico tra la folla e il Capo. Lo spirito femminile, desideroso di libertà e di nuove regole, si rifletteva nella Carta del Carnaro, la costituzione dello Stato indipendente proclamato in attesa del ricongiungimento alla madrepatria, in cui era sancito il diritto di voto delle donne e il suffragio universale. Le legionarie pagarono anche con la vita la loro baldanza. Nel dicembre 1920, quando Fiume fu espugnata dall' esercito regolare italiano, pure le giacchette femminili si intrisero di sangue e tra le fanciulle vi furono vittime e mutilate. Ma della vicenda si perse la memoria. Non quella del gran circo fiumano che, secondo la Salaris, con la rivolta giovanile, le droghe, gli amori omo ed etero, e soprattutto con la richiesta femminile di emancipazione, anticipò la fantasmagoria ribelle degli anni Settanta.
D'Annunzio intendeva realizzare un ordine nuovo e non solo in Italia. Lo storico Gentile «liquida» la Carta del Carnaro e altre riforme. Ma il fiumanesimo era cosa seria. Giordano Bruno Guerri, martedì 20/08/2019, su Il Giornale. Non a caso derivante dalla parola volgo, per vulgata si intende la versione più diffusa di un'idea, di una concezione, di una teoria. E sradicare una vulgata erronea è uno dei compiti più difficili della storiografia e della comunicazione. La novità storiografica più rilevante del 2019, dunque, è che storici autorevolissimi stiano, giorno dopo giorno, abbattendo la vulgata di un d'Annunzio, e di un'impresa di Fiume, fascista. Per citarne solo alcuni, lo ha fatto Paolo Mieli recensendo sul Corriere della Sera il mio Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione a Fiume. L'ha scritto di recente anche Raoul Pupo in una articolo sul Piccolo di Trieste, dopo averlo detto in un'altra conferenza al MuSa di Salò. In un'intervista al Giornale di Brescia e ancora al MuSa di Salò, nel ciclo di incontri organizzati da Roberto Chiarini, Emilio Gentile ha spiegato quanto di straordinario avvenne a Fiume nel 1920, e che d'Annunzio non fu mai fascista. Domenica scorsa, dunque, leggevo con piacere crescente l'articolo pubblicato da Gentile sul Sole 24 Ore. Il titolo, riferito a Gabriele d'Annunzio e certamente non dell'autore, era invitante quanto approssimativo: L'eroe disoccupato a caccia di emozioni. Il testo, invece, è ineccepibile quando spiega che «L'unico atto rivoluzionario compiuto in Italia nel 1919 fu l'impresa di Fiume». All'inizio, precisa Gentile, l'impresa non aveva scopi rivoluzionari, era una protesta contro la debolezza dimostrata dal governo nelle trattative di pace, che non assegnavano Fiume all'Italia. Il poeta-vate, «divenuto leggendario per le gesta compiute durante la guerra», voleva provocare la caduta del governo Nitti. Presto, però, «affiancato da una schiera di esaltati giovani legionari», creò un movimento che intendeva realizzare un «ordine nuovo» in Italia e poi nel mondo. Sarebbe stato detto «fiumanesimo». A questo punto ci si aspetterebbe che l'illustre storico racconti e spieghi qualcosa di quell'«ordine nuovo», i tentativi rivoluzionari con ambizioni mondiali non sono poi così frequenti, nella storia d'Italia. Invece Gentile conclude sibillino: «Fiume divenne luogo di straordinarie o strampalate velleità palingenetiche». La mia stima per lui non mi permette di credere che davvero abbia liquidato in quattro parole tutto quello che accadde a Fiume nel 1920: la Carta del Carnaro (rivoluzionaria in senso democratico), la Lega dei popoli oppressi (che anticipa di decenni il terzomondismo), il Nuovo ordinamento militare (che precedette di mezzo secolo un esperimento analogo di Mao Tse-tung). Voglio dunque credere che un caporedattore pazzo (ce n'è, ce n'è) per fare stare l'articolo nella pagina abbia tagliato qualche migliaio di battute nella quali l'autore dava un altro scossone alla vulgata, magari ricordando come ha fatto Paolo Mieli che i reduci fiumani dell'«Unione spirituale dannunziana» vennero perseguitati dal regime fascista, alla stregua di socialisti e comunisti. Purtroppo abbattere una vulgata è tanto più difficile quanto più è antica. Quella di d'Annunzio e di Fiume fascisti è quasi secolare, perché fu imposta da Mussolini per oltre un ventennio: la revisione storica è iniziata troppo tardi, e l'Italia democratica ha creduto e in questo caso - crede ancora al duce. È una vulgata che, per esempio, ha suggerito a (pochi) bravi cittadini di Trieste di sottoscrivere una petizione contro una statua pacificissima di d'Annunzio nella loro città. Pazienza, la statua verrà collocata, la mostra triestina dedicata all'impresa continuerà fino a novembre, un'altra se ne inaugurerà a Pescara l'8 settembre, nell'ambito di una settimana intitolata non a caso «La festa della rivoluzione». Libri sereni e seri escono uno dietro l'altro sull'impresa, e presto anche un'intera collana dell'editore Giubilei. C'è da credere, soprattutto, che darà un contributo decisivo il grande convegno internazionale «Fiume 1919-2019. Un centenario europeo tra identità, memorie e prospettive di ricerca». Si svolgerà al Vittoriale dal 5 al 7 settembre, per la prima volta anche con la partecipazione di numerosi storici croati. Ci vorrà ancora del tempo, ma la vulgata è destinata a scomparire. Del resto, c'è ancora molta gente assolutamente certa che l'incendio di Roma sia stato appiccato da Nerone.
Quell'impresa con cui d'Annunzio sognò un mondo libero e giusto. Alessandro Gnocchi, Sabato 13/07/2019, su Il giornale. Proprio all'ingresso di Disobbedisco. La rivoluzione di d'Annunzio a Fiume 1919-1920, la splendida mostra in corso a Trieste (Salone degli incanti, fino al 3 novembre) si viene inghiottiti da un treno metallico in stile futurista. Fuori, bulloni e acciaio. Dentro, velluto rosso e legno. Curata da Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale, l'esposizione è la più completa mai realizzata sulla Impresa di Fiume. L'avventura comincia nella prima sala dove è esposta la T4, la mitica automobile sulla quale il poeta guerriero giunse a Fiume per rivendicarne l'italianità e porre rimedio all'offesa della vittoria mutilata. Gli Alleati erano stati amici nella guerra e nemici nella pace, impedendo all'Italia di arrivare fino ai suoi confini storici e naturali. Duemila disertori, ai quali si uniscono volontari e avventurieri, trovano in Gabriele d'Annunzio il leader che cercano per impadronirsi di Fiume, all'epoca porto strategico nell'Adriatico. La città aveva cinquantamila abitanti, trentamila dei quali italiani. D'Annunzio, nella sua casetta rossa di Venezia, riceve i congiurati e accetta di guidare l'invasione. A bordo della T4, senza sparare un colpo, il 12 settembre 1919 il Vate entra a Fiume. Inizia così una vicenda entusiasmante ma ancora da capire, nonostante gli studi importanti di Renzo De Felice, Francesco Perfetti, Claudia Salaris e Guerri stesso (il suo Disobbedisco, che ha ispirato la mostra, è appena uscito per Mondadori). La vulgata infatti legge l'Impresa alla luce di ciò che accadrà in seguito e la cataloga alla voce fascismo o protofascismo. In realtà, ha spiegato Guerri nella affollata lectio magistralis di giovedì sera al Museo Revoltella, molti legionari confluirono nel fascismo. E molti altri furono perseguitati dal fascismo. La differenza tra fiumanesimo e fascismo è tutta nella Carta del Carnaro, la Costituzione scritta dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris e dallo stesso d'Annunzio. Guerri ha esposto a Trieste le prime pagine manoscritte con correzioni autografe. Nonostante siano poco scenografiche, hanno la stessa potenza delle uniformi di d'Annunzio, delle bandiere, dei gonfaloni o della testa dell'aquila bicipite, stemma municipale, decapitata dai legionari il 4 novembre 1919 e ritrovata nel 2017 da Federico Simonelli al Vittoriale. È nella Carta del Carnaro che la rivoluzione di d'Annunzio perde i connotati del nazionalismo puro e semplice, diventa globale e trasforma in legge l'aspirazione a una società più libera e giusta. Della Carta del Carnaro si conosce tutto. Eppure il manoscritto in mostra offre una correzione autografa illuminante. D'Annunzio pare incerto tra due definizioni del Carnaro: Repubblica, quella vincente, è scritta sopra a Confederazione. Il modello del poeta sono la Serenissima e la Svizzera dei Cantoni. Siamo lontani mille chilometri dal nazionalismo «romano e imperiale» degli anni Trenta. Nella rivista Yoga, voce dell'avanguardia più radicale del fiumanesimo, la questione è spiegata benissimo da Guido Keller e Giovanni Comisso: giusto riprendersi Fiume e possibilmente la Dalmazia ma lo spirito italico non conosce confini. Il nazionalismo, come il capitalismo, è una dottrina imposta dalle «razze del Nord» per soffocare la magnifica varietà delle città-stato italiane. Anche il Risorgimento finisce sotto accusa. Non perché fosse sbagliato in sé. Ma perché ha preteso di centralizzare tutto e di cancellare le antiche autonomie. Il fiumanesimo invece vuole preservarle e incoraggia la formazione di una società multietnica e multiculturalista. Questa minuscola correzione, da sola, vale il viaggio per vedere l'esposizione. Questa minuscola correzione, da sola, copre di ridicolo chi ha sollevato polemiche da analfabeti sulla opportunità di fare una mostra su Fiume e dedicare una statua a Gabriele d'Annunzio (che va ad aggiungersi a quelle di Saba, Svevo e Joyce). Gli analfabeti si tengano pronti. Guerri ha infatti annunciato in conferenza stampa che il prossimo progetto sarà un museo del fascismo a Salò. Significa colmare un vuoto inspiegabile o meglio spiegabile con la cappa di conformismo che ha quasi ucciso la cultura italiana. Di recente il Vittoriale ha restaurato migliaia di lastre fotografiche. Sono quindi inedite e documentano la vita di tutti i giorni di una città sotto assedio ma entusiasta. I discorsi in piazza, gli arditi, d'Annunzio che brinda con il famigerato cherry ribattezzato «Sangue Morlacco», la squadra di calcio in maglia azzurra con scudetto tricolore sul petto (sì, la maglia della nazionale italiana nasce a Fiume), lo Stato maggiore al completo con belle signore e d'Annunzio che fa le linguacce, tantissime donne, che avevano un posto d'onore non solo nel cuore di d'Annunzio. La Carta del Carnaro, infatti, concedeva loro non solo il suffragio ma anche la eleggibilità a qualsiasi carica. Quando si esce dal treno futurista alla luce abbagliante di una Trieste bella da straziare il cuore, ci si imbatte nella gigantesca bandiera donata a d'Annunzio nel 1916 dalla triestina Olga Levi Brunner. Il poeta le promise che, dopo la liberazione della città, avrebbe issato il vessillo sul campanile di San Giusto. Nel 1917 fu stesa sul corpo e sul feretro del maggiore Giovanni Randaccio. La bandiera insanguinata divenne un simbolo. Nel maggio 1919, d'Annunzio la dispiegò al Campidoglio come testimonianza dei caduti per annettere le terre adriatiche. A Fiume fu esposta più volte durante i discorsi pubblici del poeta. Infine, al termine dell'impresa, dopo il Natale di sangue del 1920, quando Giovanni Giolitti ordinò all'esercito di attaccare d'Annunzio, la bandiera fu srotolata per coprire i cadaveri dei legionari italiani uccisi dall'esercito regolare italiano. Ora, finalmente, la bandiera è tornata a casa.
Macchè fascista!, il "federalismo" lo inventò lui. Quell’utopia sociale chiamata Fiume. Niccolo Lucarelli il 25/07/2019 su Il Giornale Off. Su Gabriele D’Annunzio, poeta, soldato, pensatore, dandy, uomo politico a tempo perso, aleggia ancora oggi un’aura di leggenda, così come di controversa interpretazione letteraria e ideologica. Un dibattito mai sopito, che torna alla ribalta con l’occasione del centenario dell’Impresa di Fiume; Enrico Serventi Longhi – professore di Storia Contemporanea alla Sapienza di Roma -, ne propone una lettura inedita inquadrata nel contesto sociale e politico dell’Europa dell’epoca, sottolineandone gli elementi di novità, anche grazie allo studio di documenti mai esaminati prima, e chiarendone le distanze e le differenze con il Fascismo. Il faro del mondo nuovo (Gaspari Edizioni, 192 pagine, 18 Euro) è la sua ultima fatica letteraria che, lontana da ogni trionfalismo retorico, affidandosi al rigore storico, confuta pregiudizi e cattive interpretazioni del pensiero del Vate e, nel bene e nel male. Restituisce al lettore contemporaneo il significato di quei cinquecento giorni, anche analizzando le voci dei tanti militari che vi presero volontariamente parte. Il volume è anche un approfondito studio sull’organizzazione delle truppe e le motivazioni che le spinsero a fare causa comune con D’Annunzio. Alla base dell’esperienza fiumana, non c’era soltanto l’istintuale prevalere di sensazioni e apparenze sui concetti, la ragione e la morale, che Benedetto Croce rimproverava al Vate già nel 1904. L’importanza del lavoro di Serventi Longhi sta appunto nell’inquadrare l’impresa dannunziana a Fiume all’interno di un pensiero socio-politico innovatore, con l’accortezza storica di chiarire l’equivoco delle relazioni fra questa e il Fascismo: fu quest’ultimo che si appropriò di rituali, motti e concetti ideati da D’Annunzio, per accreditarsi agli occhi degli italiani con una base anche intellettuale e rafforzare il culto dell’italianità guerriera. Fu questa appropriazione che, nel corso dei decenni, ha avvalorata la tesi di D’Annunzio fascista, e a relegare l’Impresa di Fiume fra gli atti anticipatori del regime. Un’ottica errata e fuorviante, che oltretutto limita il più ampio punto di vista del Vate. A Fiume, D’Annunzio immaginò di costruire una società nuova, dando all’impresa non soltanto un carattere nazionalista, ma anche sociale, con l’obiettivo di ampio respiro di “rigenerare le istituzioni e la società italiana al di fuori dei partiti”, utilizzando Fiume come una sorta di laboratorio da cui far partire una vera rivoluzione. Di particolare interesse la rilettura che Serventi Longhi fornisce della Carta del Carnaro, la costituzione fiumana stesa da De Ambris ma corretta dallo stesso Vate, il cui intervento non fu puramente legato allo stile e alla grammatica, ma ebbe carattere sostanziale, perché lasciava da parte i riferimenti alla democrazia diretta e stemperava il concetto di autonomia locale con la vaga formula della “libertà comunale”, importante tassello della comunità nazionale, all’interno della quale l’istruzione doveva essere pubblica e gratuita per tutti, e che avrebbe dovuto fondere “l’insegnamento umanistico, artistico e tecnico entro i confini del culto della Nazione”; si ha quindi la compenetrazione fra istruzione scolastica e addestramento militare, già teorizzata prima della guerra, ma da nessuno tradotta in formula politica. Inoltre, grazie al ruolo riconosciuto alle corporazioni, le categorie produttive assumevano un ruolo importante all’interno dello Stato, una novità assoluta nell’Europa moderna, che poi il Fascismo tenterà senza molto successo di fare propria. Il bel volume di Serventi Longhi – accuratamente documentato e scritto con quell’asciuttezza di linguaggio che dovrebbe essere propria di qualsiasi storico -, contribuisce a fare chiarezza su una questione che ancora oggi divide l’Italia.
Niccolo Lucarelli. laureato in Studi Internazionali, è critico d’arte e di teatro per varie testate di settore, e saggista di storia militare per lo Stato Maggiore dell’Esercito. Svolge anche attività di curatore indipendente in Italia e all’estero.
Adriano Scianca per “la Verità” il 2 agosto 2019. Il centenario dell'impresa fiumana con cui, nel 1919, Gabriele D'Annunzio cercò di annettere all' Italia la città dalmata che, al termine della grande guerra, era stata assegnata al neocostituito Regno dei serbi, croati e sloveni, ha un non secondario effetto positivo: far riscoprire tutta una serie di eccezionali storie nella storia. Sono tantissimi, infatti, i libri sulla Reggenza del Carnaro - così si chiamava il mini Stato instaurato dal Vate - ultimamente ristampati da grandi e piccole case editrici, molto spesso scritti dai protagonisti di quell'epopea. E, fra di loro, si trovano fior di personaggi incredibili, con vite originalissime e percorsi umani e intellettuali che non sfigurerebbero in un film. Un caso tipico è quello di Giovanni Host-Venturi, di cui la casa editrice Aspis ha appena ripubblicato L' impresa fiumana. Già ideatore della Legione volontari fiumani, lui, che nella città dalmata ci era nato, fu tra i principali ideatori e organizzatori della marcia di Ronchi che portò all'occupazione di Fiume da parte del Vate. Ma la parentesi fiumana è solo una parte della avventurosa vita di Host-Venturi, che qualche anno dopo si ritroverà in Argentina a fare da consigliere a Juan Domingo Peron e a vivere in famiglia il dramma dei desaparecidos. Un uomo, quindi, che ha attraversato tutto il Novecento, vivendone sulla propria pelle tutti gli entusiasmi, gli eroismi, le tragedie e i dolori. Ma andiamo con ordine. Host-Venturi nasce a Fiume, il 24 giugno 1892. Il cognome originale è Host-Ivessich, cambiato durante la prima guerra mondiale perché gli austriaci fucilavano immediatamente i loro sudditi che combattevano per l' Italia, rifacendosi anche sulle famiglie. Alla grande guerra partecipa da volontario, con il grado di capitano degli alpini e poi degli arditi, guadagnandosi tre medaglie d' argento al valore. Dopo il conflitto sembra quasi naturale per lui, fiumano di nascita, partecipare all' avventura di D' Annunzio. Durante la reggenza dannunziana, l' ex combattente auspica un colpo di mano che si estenda a tutta l' Italia, fino a coinvolgere il re in persona. Ma il piano è nebuloso e velleitario: il poeta soldato preferisce seguire i consigli del più assennato Giovanni Giurati e lascia cadere le tesi radicali di Host-Venturi. Dopo il conflitto, aderisce al fascismo, prima con qualche intemperanza, poi, dopo la marcia su Roma, allineandosi alle direttive di Benito Mussolini, che chiedeva una Fiume pacificata e che non creasse problemi diplomatici con gli iugoslavi. Nel gennaio 1923 divenne capo della Milizia nazionale fiumana, dal 1925 al 1928 diresse la segreteria della Federazione fascista di Fiume e fu commissario straordinario di quella di Pola. Fu consigliere nazionale del Partito nazionale fascista e, dal 1934 al 1935, membro della Corporazione della previdenza e del credito; dal gennaio 1935 all' ottobre 1939, fu sottosegretario alla Marina mercantile presso il ministero delle Comunicazioni, di cui poi divenne ministro. Ostile all' ordine del giorno Grandi, aderì alla Repubblica sociale italiana, pur non ricoprendo cariche né posti di rilievo. Alla fine della guerra preferì abbandonare l' Italia. Come molti ex fascisti, sceglie il Sudamerica per rifarsi una vita. Argentina, nel suo caso. Ma non abbandona la passione per la politica. Così, nel 2013, il giornalista Giorgio Ballario, sul sito Barbadillo.it, ricostruiva questo nuovo capitolo della vita di Host-Venturi: «In una recente intervista a un quotidiano argentino, l' avvocato Leonardo Gigli, che durante la Seconda guerra mondiale aveva combattuto agli ordini di Host -Venturi, racconta che l' ex capitano degli arditi e comandante della Legione fiumana si era incontrato più volte con il presidente Peron, suggerendogli di creare delle zone franche industriali a Bahia Blanca e Rosario per favorire lo sviluppo economico del Paese. Un progetto che incontrò un certo gradimento nel governo peronista, anche se non venne mai concretamente realizzato». L' ex combattente - che nel 1976 aveva pubblicato presso Giovanni Volpe le sue memorie fiumane, ora ristampate da Aspis - morirà suicida a Buenos Aires, il 29 aprile 1980. Dietro il gesto estremo, probabilmente, il dolore per la sorte del figlio Franco. Nato a Roma nel 1937, Franco Host-Venturi era emigrato in Argentina col padre a soli undici anni. Secondo Ballario, Franco, conosciuto anche come Nino, «fin da ragazzo aveva militato nella Juventud Peronista e successivamente era confluito nelle Fap (Fuerzas Armadas Peronistas), una frazione guerrigliera attiva nei primi anni Settanta a Buenos Aires e nelle principali città argentine». Era un artista, pittore e vignettista, entrato a far parte del «Grupo Espartaco» (1959-1968), un movimento artistico argentino dalle forti connotazioni sociali. Franco Host-Venturi partecipò a mostre contro la guerra in Vietnam e per Ernesto Che Guevara. La sua ultima mostra fu un omaggio al Cordobazo, una insurrezione popolare avvenuta nel Paese nel 1969. Poi il primo arresto, nel 1972. Grazie all' amnistia del 1973 tornò in libertà, ma nel 1976, a Mar del Plata, fu sequestrato da una banda paramilitare. Dopodiché non se ne seppe più nulla. Fu il primo artista desaparecido in Argentina. «Anche io fui arrestata», ha ricordato qualche anno fa a Repubblica la moglie Mabel Greemberg, «ero incinta del secondo figlio che nacque in carcere, e non ha mai conosciuto suo padre». Per poi aggiungere, con tragico presentimento: «Forse me l' hanno buttato a mare da un aereo, ancora vivo». Nel 2004, l' allora sindaco di Roma, Walter Veltroni, promise di inaugurare una scuola alla memoria di Franco Host-Venturi. Non sappiamo che fine abbia poi fatto quel progetto.
D’Annunzio cento anni dopo Fiume. Influenzò Malraux, Mann, Pasolini. Pubblicato giovedì, 29 agosto 2019 da Pier Luigi Vercesi su Corriere.it. Stenderne i difetti al sole e attendere che con il tempo evaporino lasciando un’essenza feconda sul fondo, come accade per molti scrittori, filosofi e politici, con Gabriele d’Annunzio non funziona. Innanzitutto occorrerebbe una piazza d’armi per contenerli tutti, i difetti. In secondo luogo, operò per tutta la sua lunga esistenza per mostrarsi umanamente peggiore di quanto in realtà fosse. Era un intento dichiarato. Non voleva forse essere l’inimitabile? Il superuomo che lascia traccia di sé scandalizzando la borghesia provinciale che l’ha generato, prosperando sui grandi spazi, le speculazioni e gli intrallazzi inaugurati dalla freschissima Unità d’Italia? In un progetto di vita simile, o diventava (cinicamente) un novello San Francesco, ma i lombi che l’avevano generato gli avevano trasmesso altre impellenti necessità, o si modellava in proprio. Creava, appunto, Gabriele d’Annunzio. Ci riuscì forzando sempre il destino, come un Alfieri legato alla sedia che si costringe a non demordere, come una personalità disturbata che trae dai propri stati depressivi la forza inumana di dispiegare allo zenit la capacità creativa di cui era indubbiamente superdotato. Esce in libreria giovedì 5 settembre il libro di Maurizio Serra, «L’Imaginifico. Una vita di Gabriele d’Annunzio» (Neri Pozza, pagine 720, euro 25)Ma l’Imaginifico (con una «m» sola) è infinite altre cose, è un tassello ineludibile del mosaico novecentesco, anche se la prima metà della sua vita, quella più da rotocalco, l’ha vissuta nel secolo precedente. L’Imaginifico è il titolo della biografia, anzi, di Una vita di Gabriele d’Annunzio, come recita il sottotitolo, in libreria il 5 settembre per i tipi di Neri Pozza nel centenario dell’impresa di Fiume. L’autore è Maurizio Serra, diplomatico di carriera, raro esempio di intellettuale italiano di respiro internazionale incapace di farsi imbrigliare nelle combriccole provinciali. Nato a Londra nel 1955, Maurizio Serra è diplomatico e scrittore, autore di diverse opere di storia e di letteratura. Per anni ha studiato senza preconcetti il modello umano di «esteta armato» che ha infiammato l’immaginario europeo nei primi quarant’anni del secolo scorso. Il suo D’Annunzio sfugge così agli schemi rigidi di chi, di volta in volta, ne ha estrapolato l’esistenza di letterato, di esteta, di politico, di principe rinascimentale, di esiliato in riva a un lago dorato. L’Imaginifico di Serra è un fenomeno sociale, un modello antropologico, un fermento rivoluzionario paludato in epiteti medievaleggianti, una sedimentazione di Goethe e di Nietzsche. Senza di lui è impossibile comprendere i Lawrence d’Arabia, gli André Malraux, gli Antoine de Saint-Exupéry, la guerra di Spagna, il fascismo e l’antifascismo, il nichilismo in salsa occidentale. Persino, azzarda Serra, Thomas Mann o Pier Paolo Pasolini. D’Annunzio è il latino che si è posto al di là del bene e del male, pensiero calato dalle brume nordiche, reinventato però a modo suo. Nella mente di D’Annunzio, «il passato non val più nulla, né vale il presente. Il presente non è se non lievito». Il poeta fregia la bandiera del XIII reparto d’assalto della medaglia di Ronchi il 29 maggio 1920Quando smembrarono la Capponcina, la villa dove abitava presso Firenze, per saldare i suoi debiti, si rammaricò di non aver avuto l’opportunità di far avvampare nel fuoco, con le proprie mani, quel mondo già andato, su cui non avrebbe più calcato un passo. Fu dunque un immanente adolescente. La sua fu una vita vissuta perennemente allo stato nascente, ciò che si sperimenta nell’innamoramento, ma che poi, fortunatamente, si consolida in altro. Ciò che d’Annunzio non comprese fu la deriva in cui sarebbe stato trascinato dal fascismo e dal nazismo. La sopraffazione, il razzismo, l’abominio, la depravazione, che è un gioco da ragazzi estrapolare dalla sua opera, anche se simili comportamenti umani (al di là della propaganda facinorosa cui si lasciò andare nei confronti dei nemici politici) non gli corrispondevano. Ne I sette Pilastri della saggezza, il colonnello Lawrence ammonisce: «Tutti gli uomini sognano ma non allo stesso modo. Coloro che sognano di notte nei polverosi recessi delle loro menti, scoprono al risveglio la vanità di quelle immagini. Ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi per sé e per gli altri, perché può darsi che recitino il loro sogno ad occhi aperti per attuarlo». Pensava a sé e svelava d’Annunzio, la cui opera è stata ufficialmente riposta nella soffitta del bric-a-brac, insieme alle imprese amorose e agli oggetti accatastati al Vittoriale, salvando nelle antologie scolastiche solo Alcyone (non se ne poteva fare a meno) e La figlia di Jorio (sfugge agli schemi dannunziani). Poi, come accade in Italia, chi ha tanti detrattori, per contrappasso accumula ciechi sostenitori. D’Annunzio, però, non è Fausto Coppi e Serra, stendendo i panni sporchi dell’Imaginifico, lo riporta alla luce del Sole.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Immigrazione ed emigrazione.
Pure l'Onu smentisce la sinistra: "I migranti non sono profughi". Il dossier: «La metà di loro aveva un lavoro in Africa, partono per cercare fortuna e mandare soldi ai parenti». Paolo Bracalini, Martedì 26/05/2020 su Il Giornale. L'immigrazione illegale come «investimento» per il futuro. Così scrive l'Undp (United Nations Development Programme) presentando la ricerca The Scaling Fences: Voices of Irregular African Migrants to Europes, realizzata intervistando più di 3mila immigrati provenienti da 43 diversi paesi africani e stabilitisi in 13 paesi europei (ma quasi la metà degli intervistati vive in Spagna e Italia, cioè i due porti di arrivo per il 90% di loro). Il dossier, anche se realizzato da un'organizzazione fortemente terzomondista e immigrazionista come le Nazioni unite, conferma in realtà le tesi opposte. Perché sfata la propaganda secondo cui gli immigrati scapperebbero da guerre, carestia e povertà in cerca di asilo politico, e quindi ci sarebbe il dovere morale di spalancargli le frontiere. La realtà che raccontano i diretti interessati, arrivati quasi tutti con i barconi attraverso le rotte gestite dalla criminalità organizzata, è completamente diversa. Non solo non scappano dalla fame nè dalle persecuzioni politiche, ma anzi la metà di loro stava discretamente bene nel paese di origine, il 49% aveva un lavoro, in molti casi uno stipendio maggiore e un livello di istruzione più alto della media dei connazionali. Il 50% degli immigrati che lavorava, alla domanda se guadagnasse a sufficienza per farcela in Africa, risponde positivamente, addirittura il 12% dice che era in grado anche di mettere via risparmi. «In Gambia avevo una vita confortevole, non eravamo ricchi ma i nostri genitori si sono assicurati che fossimo istruiti e curati» racconta Mahmadou. E allora perché pagano cifre elevate per mettersi in viaggio, rischiando anche la pelle? Risponde Aziz, dal Senegal: «Alla fine tutti vogliamo le stesse cose nella vita: buona salute, lavori dignitosi, opportunità per le nostre famiglie e per noi stessi. E poiché molte persone non sentono di averle in Africa, vengono in Europa». Insomma migranti economici, puri e semplici. «La ricerca dimostra che quelli che sono partiti stavano relativamente meglio rispetto ai loro coetanei» si legge nel rapporto. Quali sono le più importanti motivazioni che ti hanno spinto a partire per l'Europa? chiedono ai migranti intervistati. Il 60% risponde «lavoro/mandare soldi a casa», il 18% «famiglia, amici», l'8% «istruzione», ma nessuno accenna a situazioni di pericolo in patria o di essere stato costretto. Il loro è appunto un «investimento», anche consistente, mediamente di 2700 dollari, finanziati spesso dai parenti, per farsi portare illegalmente in Europa e poi, una volta lì, cercare un lavoro, una fonte di reddito, e quindi mandare soldi alle famiglie in Africa, gli «investitori» nel viaggio che quindi si attendono degli utili, un «return on investment» (Roi) scrive l'Onu utilizzando una espressione finanziaria. Il valore delle «rimesse» che il parente immigrato in Europa riesce a mandare a casa (lo fa il 78%) richiederebbe «40 anni per generare un'equivalente posizione economica in patria», scrive l'Onu. Quindi il ritorno dell'investimento, per quanto rischioso, è estremamente allettante. La migrazione clandestina può rappresentare «un salto di una generazione in termini di mobilità sociale». La ricercatrice Anna Bono, esperta di Africa, è stata la prima in Italia a spiegare che è la classe media africana, urbanizzata e tutto sommato benestante, a partire per l'Europa. «I risultati della indagine dell'Undp parlano chiaro - commenta su La Bussola Quotidiana -. Confermano che centinaia di migliaia di africani hanno raggiunto l'Europa illegalmente e per non essere respinti hanno mentito sostenendo di essere profughi in fuga da guerre e persecuzioni».
Lampedusa, incendiati i barchini dei migranti. Il sindaco: "Attentato all'immagine dell'isola". Lamorgese: "Individueremo i responsabili". Dopo l'oltraggio di due giorni fa alla Porta della Vita, ieri sera incendiate in due zone differenti le imbarcazioni con cui arrivano gli immigrati. Oltre 600 gli sbarchi nell'ultima settimana. Bartolo: "Qualcuno alimenta clima d'odio". Alessandro Ziniti il 06 giugno 2020 su La Repubblica. Fiamme alte in due punti diversi dell'isola. Bruciano le barche dei migranti incendiate in due punti diversi di Lampedusa da mani che - accusa il sindaco Totò Martello - "vogliono attentare all'immagine di Lampedusa". Per diverse ore questa notte i vigili del fuoco di Lampedusa hanno lottato contro il fuoco alimentato dallo scirocco e la Procura di Agrigento ha aperto un'inchiesta. "Lampedusa non può diventare territorio di guerriglia", dice il procuratore aggiunto Salvatore Vella. Interviene il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese: "Ferma condanna degli atti incendiari della scorsa notte a Lampedusa che fanno seguito ad altri gravissimi episodi dei giorni scorsi. Il Viminale sta profondendo ogni sforzo per affrontare la difficile situazione dell'isola a seguito della pressione migratoria nel Mediterraneo. Lo Stato c'è. Dobbiamo individuare i responsabili che tentano di alimentare tensioni e offendono la solidarietà e la generosità della comunità lampedusana". E l'europarlamentare Pietro Bartolo lancia l'allarme: "Quanto accaduto questa notte a Lampedusa è una ferita per gli abitanti dell'isola. Perchè è vero che da anni i lampedusani, che vivono e vogliono continuarea vivere di turismo, aspettavano che quelle barche venissero rimosse. Ma è altrettanto evidente che si tratta di un grave gesto alimentato da qualcuno che ha interesse a destabilizzare il clima politico e di convivenza civile sull'isola". Quattro giorni fa l’oltraggio alla Porta della vita, il monumento simbolo dell’accoglienza ai migranti, adesso l’incendio di alcuni degli ultimi barchini arrivati direttamente in porto. C’è grande tensione a Lampedusa dove nell’ultima settimana sono arrivati, tutti con sbarchi autonomi, 600 migranti. Un numero considerevole che preoccupa non poco l’isola che teme una stagione turistica estremamente magra a causa dell’emergenza Covid. L’hot spot di Contrada Imbriacola si svuota e si riempie a ripetizione di migranti in quarantena, una nave per tenere in isolamento chi arriva staziona tra l’isola e la costa agrigentina e l’isola si sente abbandonata dal governo. Proprio poche ore fa il sindaco Salvatore Martello aveva denunciato l’inadeguatezza dei mezzi di trasporto che garantiscono i collegamenti con la terraferma, pochi voli con aerei malconci in cui oggi pioveva dentro, che viaggiano a capienza ridotta per le misure di distanziamento. Una situazione estremamente critica che oggi verrà rappresentata al ministro per il Mezzogiorno Giuseppe Provenzano atteso in visita a Lampedusa.
Tre sbarchi in poche ore, Lampedusa di nuovo in emergenza. Pubblicato venerdì, 29 maggio 2020 da La Repubblica.it. Una barca dietro l'altra, fin dentro il porto di Lampedusa. Altri 185 migranti che sbarcano sull'isola arrivando a poche ore di distanza su tre barche in legno, la prima sicuramente proveniente dalla Libia dove, nelle stesse ore, le motovedette della guardia costiera di Tripoli riportano indietro altre 200 persone. Un'altra giornata di partenze dalla sponda africana dove l'Oim segnala, con grande preoccupazione, un massacro in un centro di detenzione non ufficiale dove 30 migranti sono stati uccisi dai trafficanti e altri 11 sono rimasti gravemente feriti per motivi non ancora chiari. A Lampedusa, dunque, e' di nuovo emergenza. L'hotspot con oltre 200 persone è già ben oltre la capienza e la nave per la quarantena che staziona tra l'isola e le coste dell'argentino sta già ospitando altri migranti in isolamento. Il primo barcone e' arrivato nel pomeriggio con 85 persone a bordo proveniente da Zwara mentre altre due imbarcazioni, una di 52 l'altra di 48 erano date in avvicinamento all'isola dove sono approdate in serata. Dopo gli arrivi a raffica dalla Tunisia dei giorni scorsi ora sembrano riprese le partenze anche dalla Libia dove l' Organizzazione internazionale per le migrazioni ha dato notizia esprimendo forte condanna dell'uccisione di 30 migranti a Mezda, a sud ovest di Tripoli. "Questo crimine insensato ci ricorda ancora una volta quali siano gli orrori che i migranti subiscono per mano dei trafficanti in Libia - dice il capomissione dell'Oim in Libia Federico Soda - questi gruppi criminali approfittano dell'instabilità e della situazione di insicurezza nel Paese per dare la caccia a persone disperate e approfittare della loro vulnerabilità". L'Oim denuncia che migranti soccorsi in mare e riportati indietro sono scomparsi e non si riesce a sapere quali sono le condizioni delle oltre 4.000 persone riportate indietro dalla guardia costiera dall'inizio dell'anno.
L'intervento. La rotta della violenza, la via pericolosa dei profughi che sognano un posto sicuro in Europa. Gianfranco Schiavone su Il Riformista il 28 Giugno 2020. I Balcani sono vicini ma la rotta balcanica è lontana. I Balcani sono quello straordinario crogiolo di storie complesse, lingue, religioni e culture che gli italiani conoscono per le loro ferie; la rotta balcanica è invece quella lunga via di fuga che dai confini greco-turchi arriva fino a Trieste. Una rotta lungo la quale transita parte rilevante dei richiedenti asilo che fuggono da conflitti e persecuzioni del medio oriente e cercano di arrivare in Europa: innanzitutto Siria, Afghanistan, Iraq, Iran. La rotta dei rifugiati per eccellenza. Ben lontano da quanto molti potrebbero pensare, si tratta di una via di fuga estremamente pericolosa, fatta da attraversamenti di molti paesi, sia dell’Unione Europea che esterni all’Unione, di respingimenti collettivi, di violenze, anche efferate, da parte delle diverse polizie, di campi di accoglienza inesistenti o, ove esistenti, degradati nonostante siano gestiti con fondi europei. Tutti i rapporti internazionali, da Amnesty International agli altri enti meno noti, e tutte le inchieste giornalistiche sono concordi: la rotta balcanica è la rotta della violenza; una violenza del tutto diversa, per modalità e attori, rispetto alla via del mare, ma che avvolge i migranti da ogni lato e in ogni momento. Una violenza che non avviene in un “altrove” lontano ed esotico nel quale riporre il nostro sdegno, ma dentro l’Europa e persino dentro l’Unione Europea nella quale dovrebbero vigere i regolamenti e le direttive sull’accesso al diritto all’asilo, sulle condizioni di accoglienza, sui diritti socio-sanitari etc. E dove la polizia dovrebbe agire nella legalità. Sullo stato della democrazia illiberale dell’Ungheria, sul suo muro che corre lungo tutto il confine della Serbia e sui suoi centri di detenzione per migranti poco ancora ci sarebbe da dire se non che, dopo essersi un po’ scomposta (ma non troppo) in dichiarazioni di condanna, l’Unione Europea ha lasciato fare i magiari. I rapporti sui “push-back”, ovvero sui respingimenti attuati in Grecia e in Bulgaria non sono mai stati smentiti al netto di qualche inconsistente dichiarazione ufficiale di circostanza, così come sono ormai migliaia le pagine che documentano le efferate violenze e le torture perpetrate dalla polizia croata (polizia dell’Unione) e dalle forze speciali lungo il confine con la Bosnia, cantone di Bihac: persone picchiate selvaggiamente, derubate di tutto, lasciate nude nella neve d’inverno e costrette a rientrare come possono in Bosnia dove li attende il nulla se non cercare, appena possibile, di rifare il “game” ovvero il crudele gioco del viaggio verso l’Europa (secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati gli ingressi registrati in Bosnia sarebbero stati 24.067 nel 2018 e 29.196 nel 2019). I migranti ci proveranno cinque, dieci, venti volte ad attraversare la rotta per arrivare in Europa, ignari del fatto che in Europa, in teoria, ci sono già. Non si vedono, in questa brutale storia, provvedimenti di respingimento alla frontiera esterna dell’Unione adottati, notificati ed attuati in conformità alle procedure del Codice frontiere Schengen. Al contrario, tutto deve avvenire fuori dalla legalità per non lasciare traccia. «Perché siamo sottoposti a trattamenti così disumani?», è il grido di un profugo afgano riportato nel dossier che la nuova rete “Rivolti ai Balcani” presenterà oggi, 27 giugno, a Milano (ore 11, chiostro della parrocchia S.Maria del Carmine). La rete comprende almeno 36 associazioni italiane (con adesioni in crescita) tra cui Amnesty International, ASGI, ACLI-IPSIA, ICS e molti gruppi di volontari che percorrono le strade dei Balcani con aiuti umanitari. Il dossier, che è anticipazione di un’ampia prossima pubblicazione, è un’analisi ragionata delle principali fonti internazionali, spesso non disponibili in italiano, e vuole di richiamare l’attenzione dell’Italia e delle sue istituzioni su ciò che sta avvenendo non dall’altra parte del mondo ma alle porte di casa nostra, a tre ore di viaggio in automobile da Trieste. Trieste, dunque: per anni linea di approdo e “porto sicuro” per i rifugiati della rotta balcanica. Un luogo dove avere accoglienza e toccare finalmente l’esistenza dello stato di diritto; sia per chi vi restava sia per chi vi si transitava soltanto. Dalla metà di maggio dell’anno della pandemia si verifica un brusco cambio di scenario: iniziano, placidamente annunciate, le cosiddette “riammissioni informali” dei migranti in Slovenia, giustificate, si afferma, sulla base della rinascenza di un accordo risalente addirittura all’anno 1997, altra epoca storica ma fa niente; in politica non si butta via niente. Si usano però ora nuove parole, leggere: riammissione invece di respingimento, ritorni “informali” invece di nessun provvedimento di respingimento. Ma i richiedenti asilo non c’entrano, vero? Non si applicano solo le direttive UE? E che fine ha fatto il famoso Regolamento Dublino? In una lettera aperta inviata da ASGI il 5 giugno al Governo italiano, che finora tace, si chiedono chiarimenti su ciò che appaiono a tutti gli effetti respingimenti collettivi proibiti dal diritto interno ed internazionale. E soprattutto respingimenti a catena: dall’Italia si viene consegnati alla polizia slovena che, parimenti senza notificare alcun provvedimento, corre il più veloce possibile lungo il piccolo paese e arriva al confine croato; nuovo veloce passaggio di polizia, nuova assenza di ogni documento. Da lì, nuova ultima corsa al confine bosniaco ovvero nelle sue vicinanze nei boschi e nei sentieri di campagna. Nessuna consegna stavolta alla polizia bosniaca: il confine verrà ora attraversato a piedi dai migranti a suon di botte. I migranti saranno dunque finalmente di nuovo fuori dall’Unione Europa dove, almeno per un po’. La rotta della violenza funziona così; e ora in questo gioco ci siamo anche noi.
La rotta balcanica scoppia. Immigrati incontenibili. In maggio quintuplicati gli ingressi clandestini Trieste sta diventando la Lampedusa del Nord. Fausto Biloslavo, Domenica 07/06/2020 su Il Giornale. «Non conosci qualche strada buona per arrivare a Trieste? O qualcuno con l'auto, un camion che ci porti fino in Italia», chiede via messaggio vocale dalla Bosnia un marocchino, che parla italiano. Nel cantone di Bihac vive in un campo improvvisato e vorrebbe arrivare clandestinamente da noi. Trieste è la porta d'ingresso dei migranti dalla rotta balcanica, che attraversano a piedi Croazia e Slovenia per spuntare in Italia. «Polterra 22 abbiamo ricevuto segnalazione di otto migranti in via Flavia», gracchia la radio a bordo del fuoristrada della polizia di frontiera di Trieste. «Quasi ogni giorno è così», sospira Lorena, assistente capo, soprannome «Calamita». Quando è di turno scova sempre gruppetti di immigrati illegali. Simpatica e innamorata della sua divisa, arriva in due minuti alla fermata dell'autobus dove i migranti sono piantonati dai militari del Piemonte cavalleria dell'Operazione Strade sicure. Tutti giovani provenienti dal Nepal, un'anomalia rispetto al flusso principale di afghani, pachistani e pure marocchini. Gli agenti controllano gli zaini e scoprono un passaporto con un visto croato. Le scarpe dei migranti non sono infangate e non sembrano provati da una lunga marcia. «Potrebbero essere stati scaricati vicino al confine da un passeur, che li ha nascosti in un furgone», ipotizza uno dei poliziotti. Giuseppe Colasanto, dirigente della polizia di frontiera di Trieste, ammette che «dopo il lockdown per il virus sono ripresi gli arrivi dalla rotta balcanica. In queste ultime settimane i rintracci si sono susseguiti in maniera piuttosto corposa». I numeri sono un tabù, ma dall'inizio dell'anno si era già registrata un'impennata del 23% rispetto al 2019, nonostante la pandemia. In maggio sono cinque volte tanto. Da aprile a oggi sarebbero stati rintracciati un migliaio in tutto il Friuli-Venezia Giulia. Solo nei primi giorni di giugno a Trieste sono arrivati oltre 200 migranti. Numeri ancora bassi rispetto la massa umana pronta a partire dalla Bosnia. Almeno 7.500 persone, ma fonti della polizia slovena parlano di almeno 10mila, che rischiano di trasformare Trieste nella Lampedusa del Nord Est. Shamran Nawaz è appena arrivato dopo «sei giorni e sei notti di marcia in Croazia e Slovenia». Il giovane afghano è accoccolato a terra assieme a una ventina di connazionali con alle spalle le grandi cisterne dell'oleodotto alle porte del capoluogo giuliano. Un automobilista segnala un altro gruppetto di afghani, che spunta dalla strada asfaltata dopo la ripida discesa dalla collina che segna il confine con l'Italia. «Ci avevano chiuso nei campi per la quarantena in Bosnia e Serbia. Finita l'emergenza virus hanno aperto le porte dicendoci: Andate», rivela l'afgano parlando in inglese. Poco più in là c'è un bambino di 12 anni con lo sguardo già da uomo. «Li abbiamo trovati anche nascosti in un vano creato ad arte all'interno di un Tir - racconta Lorena -. È chiaro che sono aiutati da organizzazioni criminali lungo tutta la rotta balcanica». Gli sloveni, dopo le accuse di lasciare passare il flusso migratorio, hanno mobilitato questa settimana 1.000 uomini al confine con la Croazia utilizzando droni, camere termiche, radar terrestri ed elicotteri. Oltre 200 migranti vengono fermati ogni settimana dopo aver passato il confine croato. Frontex, l'agenzia europea per il controllo delle frontiere, calcola che i migranti in Turchia desiderosi di arrivare in Europa, quelli spostati dalle isole greche sulla terraferma e gli altri lungo la rotta balcanica sono in totale 100mila. La polizia di frontiera di Trieste è a ranghi ridotti nonostante 40 uomini di rinforzo in arrivo. Il paradosso è che la Slovenia dal 10 marzo ha bloccato tutti i valichi alzando barricate di terra anche sulle stradine del Carso per fermare gli italiani a causa del virus. I migranti, però, passano e trovano sui vecchi cartelli che indicano il confine di Stato italiano scritte in rosso «no border», no confini e «welcome refugees», benvenuti rifugiati, lasciate da qualche talebano dell'accoglienza locale. Anche le riammissioni dei migranti in Slovenia intercettati alla polizia di frontiera si erano inceppate: solo due dal 15 aprile al 12 maggio. Poi sono un po' riprese, ma sempre facendo melina su orari di riconsegna, certificati sanitari e numeri, con l'obiettivo di riprendersi meno clandestini possibile. Il Cocusso, sul Carso triestino, è la collina dei vestiti. Zaini, maglioni, canottiere, scarpe, coperte, ma pure lamette da barba e bottiglie d'acqua erano disseminate nel bosco, come un campo di battaglia. Adesso le guardie forestali hanno raccolto quasi tutto in decine di sacchi neri dell'immondizia, ma nuovi indumenti abbandonati rendono l'idea del capolinea della rotta balcanica. «Siamo a 3 chilometri da Trieste e circa 200 metri dalla Slovenia - spiega il vicequestore Colasanto -. Su questa collina i migranti si cambiano su indicazione dei trafficanti, gli scafisti di terra, per meglio confondersi con la popolazione e non farsi intercettare dalla polizia». A quelli rintracciati vengono subito distribuite le mascherine e trasferiti sotto un grande tendone montato dall'Esercito dove sono visitati dal personale medico del 118. Poi devono fare la quarantena. I centri di accoglienza scoppiano e per questo il ministero dell'Interno ha montato una tendopoli azzurra sul Carso triestino. Dietro la rete con un evidente buco, da dove diversi escono o si dileguano alla faccia dell'isolamento, un gruppo giunto dal Marocco, che non è un paese in guerra, spiega il tragitto durato un anno. «Abbiamo preso l'aereo per arrivare in Turchia - racconta Omar -. Poi a piedi in Grecia, Albania, Montenegro, Bosnia e infine nove giorni a piedi per attraversare la Croazia e la Slovenia fino a Trieste». Il giovane marocchino tifoso della Juve vuole trovare «lavoro e una vita migliore perché amo l'Italia».
Tutte le frontiere "assediate": l'assalto dei migranti all'Italia. Aumentano le partenze dei migranti dalla Libia, continuano gli ingressi alla frontiera italo-slovena e riprendono i respingimenti a Ventimiglia. Con la fine del lockdown la situazione ai confini italiani rischia di diventare esplosiva. Alessandra Benignetti, Martedì 26/05/2020 su Il Giornale. Aumentano le partenze dalla Libia, non si fermano gli attraversamenti sul Carso triestino, tornano i respingimenti a Ventimiglia. Negli ultimi giorni le frontiere italiane sono state prese d’assalto. Sono 285 i migranti sbarcati tra sabato e domenica, stando ai dati diffusi dal Viminale. Ma con la fine del lockdown e l’estate ormai alle porte i numeri potrebbero salire ulteriormente già a partire dalle prossime settimane. Soltanto negli ultimi due giorni almeno 400 migranti sono stati intercettati dalla Guardia Costiera libica mentre tentavano di raggiungere le coste italiane. A riferirlo è Safa Msehli, portavoce dell'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim). I richiedenti asilo sono stati poi trasferiti in un centro di detenzione a Zawya, cittadina ad ovest di Tripoli.
Non si fermano gli sbarchi in Sicilia. In settanta, invece, ce l’hanno fatta. Sono quelli che domenica mattina, a bordo di un peschereccio di dieci metri, hanno raggiunto la marina di Palma di Montechiaro, nell’Agrigentino. Alcuni testimoni all’inizio avevano parlato di 400 rifugiati. "Sono state viste tantissime persone che scappavano per le campagne circostanti", aveva riferito il sindaco, Stefano Castellino. Una versione poi smentita dalle autorità, che oggi hanno disposto il trasferimento dei migranti, quasi tutti tunisini, a Taranto. Quello di Palma di Montechiaro è l’ennesimo sbarco fantasma. Domenica altri 52 sono approdati sugli scogli di Linosa a bordo di una imbarcazione di medie dimensioni. Il giorno prima a Lampedusa erano sbarcati 47 tunisini. È di questa mattina, invece, la segnalazione di un barcone in pericolo con a bordo 91 persone. I migranti si trovavano a 35 miglia da Malta quando si sono messi in contatto con la linea della Ong Alarm Phone per richiedere un "salvataggio immediato". Anche a maggio i numeri del Viminale fotografano un aumento degli arrivi rispetto allo stesso periodo del 2019. Dall’inizio dell’anno sono 4.737 le persone giunte in Italia, contro le 1.490 dell’anno precedente. Di quelli approdati sulle coste siciliane nel finesettimana nove sono pure finiti in manette per aver fatto rientro nel nostro Paese dopo essere stati espulsi o respinti. Alcuni di loro dovevano scontare condanne per reati commessi all'interno dei confini italiani.
Altri 70 migranti intercettati sul Carso triestino. Continuano gli ingressi anche al confine italo-sloveno. Qui i migranti arrivano a piedi, zaino in spalla, dopo aver attraversato i Balcani, oppure stipati all’interno di auto o tir. I passaggi sono ripresi dalla fine di aprile, con l’inizio della fase due dell’emergenza sanitaria. In 70 sono stati bloccati alle porte di Trieste tra domenica e lunedì. In maggioranza afghani e pakistani, anche loro come gli altri verranno messi in quarantena nella tendopoli allestita al Campo Sacro, un ex campo scout sul Carso. Il Sap, Sindacato autonomo di Polizia, parla di "rintracci quotidiani". "L’ennesimo, dopo quello di ieri e dei giorni scorsi: una situazione che obbliga oggi una maggiore attenzione da parte del governo centrale", denuncia in una nota il segretario provinciale di Trieste, Lorenzo Tamaro. Per il rappresentante di categoria "è fondamentale che si agevolino ed incrementino le pratiche di riammissione in Slovenia degli immigrati che entrano clandestinamente sul nostro territorio nazionale". Ma secondo il prefetto, Valerio Valenti, i numeri non sarebbero "eccessivamente preoccupanti". "È chiaro poi che possono anche intervenire fattori scatenanti: se ad esempio ne arrivano 200 in una sola giornata e non riusciamo ad attivare i meccanismi per accoglierli, allora il problema diventa serio", ha aggiunto. Finora però, assicura, "il governo è molto attento". Non è d’accordo il vice sindaco di Trieste, Paolo Polidori. "La rete cittadina dell’accoglienza è messa a dura prova, soltanto i minori non accompagnati che il comune ha l’obbligo di prendere in carico nelle strutture della città sono 400, e ci costano un milione di euro al mese", ci dice al telefono. "Da Roma – attacca – non arrivano indicazioni precise, la quarantena rende tutto più difficile e il sistema rischia di collassare da un momento all’altro perché i flussi non si fermeranno". "In Bosnia – continua Polidori - i campi profughi sono stracolmi, si parla di almeno 10mila persone, so per certo che da lì si sono messi in marcia almeno in 500". L’arrivo dell'estate rischia di peggiorare le cose. "La Croazia fa il possibile per controllare le proprie frontiere, ma appena inizieranno a sbarcare i primi turisti la maggior parte degli agenti di polizia verrà spostata nelle zone di villeggiatura e il confine resterà sguarnito – aggiunge il vicesindaco – sono tutti fattori che non fanno prevedere miglioramenti da questo punto di vista". La soluzione per lui sono i respingimenti. "Al confine con la Slovenia però non vengono fatti – denuncia Polidori – il governo ha paura, i militari sono pochi e i migranti una volta passato il confine si cambiano e buttano tutti gli oggetti riconducibili al Paese di provenienza".
Tornano i respingimenti a Ventimiglia. A Ventimiglia, invece, i respingimenti da parte dei poliziotti francesi sono ricominciati. A denunciarlo qualche giorno fa, è stata la Caritas Intemelia, che parla di una ripresa del transito dei migranti, "soprattutto afghani". Per ora i numeri sono esigui. Si parla di una decina di persone al giorno. Cifre che però potrebbero salire nelle prossime settimane. "Se continueranno gli sbarchi in Sicilia di conseguenza aumenteranno anche gli arrivi qui al confine, e poi non dimentichiamoci che ci sono anche gli ingressi dalla rotta balcanica, quelli non si sono mai fermati", ci spiegano dagli uffici della Polizia di frontiera. Il prefetto di Imperia, Alberto Intini, per ora è tranquillo. "Non mi sembra una situazione preoccupante, forse può esserlo in prospettiva", dice raggiunto al telefono da ilGiornale.it. "Siamo sull’ordine dei 10 respingimenti al giorno da parte dei francesi, sabato sono arrivati una ventina di migranti alla stazione di Ventimiglia – fa sapere - dati che sono certamente in aumento rispetto all’ultima settimana". "Ma - sottolinea - veniamo da un periodo di lockdown in cui gli arrivi sono stati zero". "Come hanno fatto ad attraversare l’Italia se gli spostamenti tra le regioni sono ancora vietati", attacca invece il deputato leghista Flavio Di Muro. "Se continueranno a mancare i controlli e una gestione degli sbarchi - avverte - è inevitabile che presto assisteremo di nuovo alle scene che abbiamo vissuto in passato qui a Ventimiglia". "L’annuncio della sanatoria voluta dalla ministra dell’agricoltura Teresa Bellanova e l’inserimento nel decreto rilancio della possibilità di accogliere i richiedenti asilo nella rete SIPROIMI, quella degli ex Sprar, sicuramente stanno contribuendo a far aumentare il numero delle partenze", ragiona il deputato della Lega. Non è l’unico a pensarla così. "L'assalto fuori controllo all'Italia di migliaia di clandestini è un fatto gravissimo, conseguenza delle scellerate politiche sull'immigrazione del governo", tuona il senatore di Forza Italia, Enrico Aimi. "I confini dell'Italia, che sono anche quelli dell'Europa, vanno presidiati e protetti – incalza - la situazione nazionale complessiva rischia di diventare irrimediabilmente esplosiva".
Da repubblica.it il 28 febbraio 2020. Altro che invasione di migranti, ora con il coronavirus è fuga di braccianti stranieri e problemi ulteriori in vista per l'agricoltura italiana. Col timore di non poter più tornare alle loro case, viste le iniziative e le loro restrizioni dei loro governi, dalla Romania alla Polonia fino alla Bulgaria, nei confronti dei loro lavoratori impegnati nelle regioni del nord Italia più direttamente colpite, molti hanno fatto le valige. E' l'allarme lanciato dalla Coldiretti nel sottolineare che più di un quarto del made in italy a tavola viene ottenuto da mani straniere con 370mila lavoratori regolari dall'estero impegnati ogni anno in italia. La Romania, sottolinea la Coldiretti, impone la quarantena ai suoi cittadini provenienti da Lombardia e Veneto dove rappresentano la comunità straniera più numerosa nei campi con oltre centomila lavoratori a livello nazionale ma misure restrittive sono state previste anche dalle autorità sanitarie polacche che raccomandano di adottare l'auto-monitoraggio mentre la Bulgaria chiede a tutti i passeggeri provenienti da tutte le regioni italiane (sintomatici ed asintomatici) di compilare al rientro un questionario, in presenza di un ispettore sanitario con l'invito ad osservare una quarantena al proprio domicilio nel paese. Si tratta di decisioni che stanno provocato le disdette degli impegni di lavoro da parte di molti lavoratori stranieri in italia che trovano regolarmente occupazione stagionale in agricoltura fornendo il 27% del totale delle giornate di lavoro necessarie al settore, secondo l'analisi della coldiretti. La comunità di lavoratori agricoli più presente in italia, spiega Coldiretti, è proprio quella rumena con 107.591 Occupati, davanti a marocchini con 35.013 E indiani con 34.043, Che precedono albanesi (32.264), Senegalesi (14.165), Polacchi (13134), tunisini (13.106), Bulgari (11.261), Macedoni (10.428) E pakistani (10.272).
Puglia, più meridionali vanno al Nord che migranti al Sud. Rielaborati dati sul benessere sostenibile dalla Cgil Puglia. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Gennaio 2020. La ripresa dei flussi migratori è la «vera emergenza meridionale» perché «sono più i meridionali che vanno al Nord che i cittadini stranieri immigrati regolari che scelgono di vivere nelle regioni meridionali«: è quanto emerge dall’analisi che ha fatto la Cgil Puglia sui dati del «Benessere equo e sostenibile» dell’Istat 2019 affidando il focus su lavoro, istruzione e innovazione ai ricercatori Elisa Mariano e a Giuseppe Lollo della Fondazione «Rita Maierotti». «Nel periodo compreso tra il 2002 e il 2017 - ha precisato Mariano in un incontro con i giornalisti a Bari - gli emigrati dal Mezzogiorno sono stati oltre 2 milioni, di cui oltre 132mila solo nel 2017, di questi ultimi oltre 66mila sono giovani di cui il 33% laureati (pari ad oltre 21 mila persone)». «Il rischio dello spopolamento delle aree del Mezzogiorno tra 50 anni - ha aggiunto - sarà una certezza: nel 2065 si prevede che al Sud ci saranno 4 milioni di residenti in meno con un terzo di popolazione di oltre 65 anni». Negli anni di crisi economica - emerge dal rapporto - si è ampliato lo storico divario tra Nord e Sud, non solo in termini di reddito ma anche per molteplici aspetti della vita sociale ed economica. La Puglia, pur vantando indicatori migliori delle altre regioni del Mezzogiorno, ha fatto i conti con un peggioramento della qualità del lavoro e il rischio di un declino demografico legato sia al calo delle nascite, sia ad una emigrazione verso il Settentrione che riguarda soprattutto i giovani più istruiti. Il sistema produttivo è ancora costituito da imprese piccole e piccolissime con scarsa propensione all’innovazione e bassa domanda di lavoro qualificato. «Continuiamo a registrare dati che non ci lasciano tranquilli - ha detto il segretario generale della CGIL Puglia, Pino Gesmundo - c'è sempre un divario tra Nord e Sud sulla occupazione di giovani lavoratori che hanno titoli di studio superiori al lavoro che svolgono. Bisogna insistere su politiche di sviluppo del governo nazionale per il Mezzogiorno, utilizzare meglio i fondi strutturali che ci consentiranno di superare il divario, se consideriamo che utilizziamo solo il 27% dei Fondi Fesr. Quindi, dialogo e collaborazione sono indispensabili per lo sviluppo». «A fonte di un tasso occupazionale negli ultimi dieci anni in lieve aumento - ha aggiunto Elisa Mariano - il benessere non passa solo attraverso il Pil, ma attraverso indicatori che già dal 2016 le istituzioni italiane hanno preso a riferimento per interventi efficaci. Ma emerge una consistente sacca di lavoro che non riesce a fare il salto di qualità dal punto di vista stabilità, la retribuzione e la sicurezza e la conciliazione tra vita e lavoro. Bisogna continuare ad investire nella formazione ed in ricerca, ma in maniera mirata». «Le donne al Sud devono essere maggiormente garantite - ha concluso Mariano - sia per la qualità del lavoro sia per i servizi di supporto alla famiglie e sarà necessario urgentemente anche a livello locale intraprendere un percorso di sviluppo duraturo e stabile capace di produrre buona occupazione, stabile e soddisfacente».
Da ilmessaggero.it il 16 dicembre 2019. Meno immigrazioni, più italiani all'estero, questi i dati Istat 2019. Aumentano i connazionali che si trasferiscono all'estero, diminuiscono invece gli immigrati dall'Africa verso l'Italia. A rivelarlo sono i dati dell'Istat Nel 2018 le cancellazioni anagrafiche per l'estero (emigrazioni) sono 157 mila (+1,2% sul 2017). Di queste, quasi tre su quattro riguardano emigrati italiani (117 mila, +1,9%). Le iscrizioni anagrafiche dall'estero (immigrazioni) sono circa 332 mila, per la prima volta in calo rispetto all'anno precedente (-3,2%). In tutto sono 816mila gli italiani trasferiti all'estero negli ultimi 10 anni. Flusso Nord-Sud. Si continua a spostarsi per i lavoro dal Sud verso il Settentrione e il Centro Italia e il fenomeno è in lieve aumento. Secondo il rapporto Istat sulle iscrizioni e cancellazioni anagrafiche della popolazione residente nel 2018, sono oltre 117 mila i movimenti da Sud e Isole che hanno come destinazione le regioni del Centro e del Nord (+7% rispetto al 2017). A soffrire sono soprattutto Sicilia e Campania, che nel 2018 perdono oltre 8.500 residenti italiani laureati di 25 anni e più per trasferimenti verso altre regioni.
Cristiana Mangani per il Messaggero il 17 dicembre 2019. Il Sud continua a perdere le sue migliori energie, per via degli italiani che scelgono di trasferirsi all'estero alla ricerca di un lavoro (+1,9%). Mentre, per la prima volta, gli immigrati sono in calo (-17% l'anno scorso quelli provenienti dall'Africa). L'Istat traccia un quadro del nostro paese per certi aspetti sorprendente. I dati emergono dal report sulle iscrizioni e le cancellazioni anagrafiche della popolazione residente, relativo al 2018. Si continua ad andare via dall'Italia, dunque: 117 mila nello scorso anno, cifra che fa lievitare a 816 mila gli espatriati nell'ultimo decennio. Un esercito fatto soprattutto di giovani (l'età media è sui 30 anni, 2 su 3 hanno tra i 20 e i 49 anni) e qualificati: quasi 3 su 4 hanno un livello di istruzione medio-alto e, in cifre, è pari a circa 182 mila il numero dei laureati che negli ultimi 10 anni hanno fatto le valigie. La destinazione preferita è il Regno Unito e la regione in assoluto con più partenze è la Lombardia.
LAUREATI IN FUGA DAL SUD. RISORSE PREZIOSE. Ma è soprattutto il Sud a essere depauperato di risorse umane preziose, anche a vantaggio delle regioni del Centro-Nord: solo l'anno scorso ha perso oltre 16 mila laureati, più della metà (8500) provenivano da Sicilia e Campania. Il flusso degli italiani che decidono di trasferirsi all'estero determina dunque una perdita per il Paese di figure qualificate: circa 33 mila i diplomati e 29 mila i laureati. Rispetto all'anno precedente diplomati e laureati emigrati sono in aumento (rispettivamente +1% e +6%) e l'incremento è molto più consistente se si amplia lo spettro temporale: rispetto a cinque anni prima, gli emigrati con titolo di studio medio-alto sono aumentati del 45%. Quasi tre cittadini italiani su quattro (73%) che si sono trasferiti all'estero ha 25 anni o più: sono poco più di 84 mila (72% del totale degli espatriati); di essi 27 mila (32%) sono in possesso di almeno la laurea. In questa fascia d'età si riscontra una lieve differenza di genere: nel 2018 le italiane emigrate sono circa il 42% e di esse oltre il 35% è in possesso di almeno la laurea, mentre, tra gli italiani che espatriano (58%), la quota di laureati è pari al 30%.
LAUREATI IN FUGA DAL SUD. L'INCREMENTO. Rispetto al 2009, l'aumento degli espatri di laureati è più evidente tra le donne (+10 punti percentuali) che tra gli uomini (+7%). Tale incremento risente in parte dell'aumento contestuale dell'incidenza di donne laureate nella popolazione (dal 5,3% del 2008 al 7,5% del 2018). Dato nuovo è quello che riguarda le iscrizioni anagrafiche dall'estero (immigrazioni) che sono state circa 332 mila, per la prima volta in calo rispetto all'anno precedente (-3,2%) dopo i costanti incrementi registrati tra 2014 e 2017. Più di cinque su sei riguardano cittadini stranieri (286 mila, -5,2%). In particolare sono in netta diminuzione, anche se restano consistenti le immigrazioni dal continente africano. E la Lombardia è la meta di un immigrato su 5. Per quanto riguarda invece il fenomeno inverso, cioè le cancellazioni anagrafiche dovute al trasferimento all'estero, nel 2018 sono state 157 mila (+1,25 nel 2017) e quasi 3 su 4 hanno riguardato emigrati italiani. A spiegare la ripresa dell'emigrazione sono le difficoltà del mercato del lavoro in Italia, ma anche il mutato atteggiamento nei confronti del vivere in un altro Paese, proprio delle generazioni cresciute nell'epoca della globalizzazione. E se è il Regno Unito ad accogliere la maggioranza degli italiani all'estero (21 mila), fanno la loro parte anche Germania (18 mila) e Francia (14 mila).
· Espatriati. In Fuga dall’Italia.
Adattabili, globalizzati e versatili: il successo degli studenti con la valigia. Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 su Corriere.it da Emanuela Di Pasqua. Gli studenti che studiano all’estero si adattano meglio al mercato del lavoro. Non solo: lo scambio studentesco rende meno diffidenti verso gli altri e alla lunga agevola la costruzione della pace. L’apprendimento di una nuova lingua diventa alla fine una sola tra le tante ragioni per andare a studiare lontano da casa e fuori dal proprio Paese. Lo dice uno studio targato University of California-Merced che sottolinea come dai dati statistici che emergono gli studenti che studiano all’estero sono anche quelli che si sono inseriti meglio e più velocemente nella realtà lavorativa. Grazie a queste esperienze migliorano quelle che sono chiamate le «soft skill», cioè la capacità adattiva e la versatilità, la consapevolezza, l’emancipazione e molto altro. Si tratta di competenze trasversali tanto (e giustamente) richieste dalle aziende perché migliorano la capacità di lavorare in gruppo, la gestione dello stress, la fiducia in se stessi, l’autonomia, la capacità di adattamento, la capacità di comunicare e l’intraprendenza che vengono nutrite con particolare vigore dalle esperienze di mobilità (oltre a essere il risultato del background socio-culturale). In particolare negli Usa il 97 per cento dei ragazzi che vivono un’esperienza di studio oltre i confini del proprio Paese trova lavoro entro 12 mesi, rispetto al 49 per cento della popolazione complessiva. Persino i profili professionali sono più elevati e il guadagno risulta essere mediamente maggiore di 6000 dollari se comparato a chi si forma nel proprio Paese. C’è un’ulteriore riflessione da fare: chi viaggia e si inserisce in altre abitudini e contesti di vita diventa più facilmente tollerante verso usi e costumi differenti. Insomma, la partnership tra scuole del mondo contribuisce al processo di pace e avvicina le persone. In un mondo in cui gli studenti si spostano senza timori è probabile che la diffidenza verso l’altro smetta di esistere. I dati sono tutti americani, ma anche in Europa queste riflessioni trovano conferma. Proprio nei giorni in cui la Gran Bretagna dell’era Brexit fa la sua prima vittima e dice addio all’Erasmus, questi numeri fanno pensare. L’Italia (persino l’Italia) continua a registrare cifre da record nello studio fuori dai confini. Ultimamente il flusso della mobilità studentesca è aumentato sensibilmente. sia per lo sdoganamento di una cultura di carattere globale, favorita dai nuovi media e dai mezzi di interazione sociale, sia per una facilitazione del movimento sbloccata dai trattati e dai numerosi programmi di scambio culturale previsti per gli studenti europei. Negli ultimi dieci anni gli studenti italiani di scuole superiori impegnati in attività formative all’estero è triplicato e per quanto riguarda l’istruzione universitaria risulta che di tutti i laureati italiani una percentuale vicina al 10 per cento ha svolto un periodo di studi all'estero. Nonostante tutto l’America è avanti e in particolar modo queste conclusioni riguardano il rapporto con alcune nazioni, come la Cina, nei confronti delle quali la mobilità studentesca si sta trasformando anche in un potente strumento di dialogo (in tempi in cui se ne avverte un gran bisogno). Durante l’appuntamento di Washington dedicato all’education si sono distinte alcune realtà, come quella della Carlson School of Management at the University of Minnesota, che vanta un 100 per cento di iscritti che si forma fuori. «Vogliamo studenti adattabili, flessibili, felici di spostarsi in altri posti e curiosi di altre culture» ha dichiarato Sri Zaheer, della Carlson School. A proposito di soft skill.
Valigia di cartone sostituita dal trolley, ma pugliesi e lucani restano emigranti. Fuga delle giovani menti di Puglia e Basilicata: in dieci anni 500mila italiani hanno abbandonato la propria terra natia. Gaetano Campione il 27 Gennaio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. In quasi 10 anni circa 500 mila italiani, di cui la metà tra i 15 e i 34 anni, sono andati via dal nostro Paese. E di questi, 14mila sono i pugliesi, 1.500 i lucani. La stima è che l’esodo complessivo dei nuovi migranti tricolori sia costato 16 miliardi di euro, oltre un punto percentuale di Pil: è questo infatti il valore aggiunto che i giovani emigrati potrebbero realizzare se occupati nel nostro Paese. Sono i dati che emergono dal «Rapporto 2019 sull'economia dell'immigrazione» della fondazione Leone Moressa. Tra le cause dell'esodo dei giovani dall'Italia ci sono le «scarse opportunità occupazionali». Il Bel Paese, infatti, registra «il tasso di occupazione più basso d'Europa nella fascia 25-29 anni: il 54,6% contro una media Ue del 75%. Nella stessa fascia d'età anche il tasso Neet (chi non studia e non lavora) è il più alto d'Europa: 30,9% a fronte di una media Ue del 17,1%». Inoltre il livello di istruzione dei nostri giovani è definito «molto basso»: tra i 25 e i 29 anni «solo il 27,6% è laureato, quasi 12 punti in meno rispetto alla media europea». Per Domenico De Masi, sociologo: «L’origine di questo grande flusso in uscita - ha scritto su Formiche.net - che considero a tutti gli effetti un’emergenza, ha un nome ben preciso: prospettiva. In Italia a tre anni dalla laurea solo il 53 per cento dei giovani trova un lavoro stabile. Vuol dire che uno su due rimane a casa con la laurea in tasca. In Germania andiamo ben oltre il 70 per cento. Non c’è da stupirsi se più di qualcuno decide di andarsene da qui». Necessità, non scelta Ma dove si va? La meta più ambita rimane Londra, scelta dal 20,5 per cento da chi è partito nel 2017 e dal 19,3 per cento da chi è partito negli ultimi dieci anni. Al secondo posto, la Germania, dove non solo ti assumono full time a tempo indeterminato ma ti danno pure un tutor per aprire il conto corrente e registrarti all’anagrafe. Molti scelgono anche la Svizzera e la Francia. Se poi si vuole arrivare più lontano, nella top ten delle destinazioni oltre Oceano spiccano Stati Uniti, Brasile, Australia, Canada e Emirati Arabi. Dunque, Italia, addio Ad oggi i nostri connazionali residenti all’estero sono 5,5 milioni, il 9 per cento dell’intera popolazione. La prima regione per espatriati è la Lombardia, seguita da Emilia, Veneto, Sicilia e Puglia dove, su una popolazione di 4milioni29mila53 abitanti all’1 gennaio 2019, ben 351mila527 sono iscritti all’Aire (Anagrafe italiana residenti all’estero), ci ricorda la fondazione Migrantes. Nel dettaglio, la provincia di Bari conta 101mila392 iscritti; Bat 23mila243; Foggia 68mila591; Lecce 102mila679; Taranto 29mila644; Brindisi 35mila958. I pugliesi emigrati in Paesi europei Ue e non Ue sono 282mila682; 2mila834 in Africa; 1.771 in Asia; 24mila349 in America Settentrionale; 44mila646 in America centro-meridionale; 5mila245 in Oceania. La valigia di cartone È stata sostituita dal trolley. Ieri come oggi, però, ci sono all’interno la nostalgia e il senso di perdita, con l’amara consapevolezza di lasciare le radici, gli amici, la famiglia. Perché anche quando torni, per brevi periodi, finisci per sentirti straniero in quella che una volta era casa tua. Ad Andria, a pochi metri dalla stazione di partenza delle compagnie di autobus, Daniele Geniale ha realizzato un murale. L’opera di street art rappresenta un giovane, volutamente disegnato senza testa, seduto su un trolley, con in mano un telefonino, mentre attende il pullman che lo porterà via. Il titolo? «Ritornerai». Ha spiegato l’autore del murale, finanziato dalla Regione Puglia col bando Open call: «È un pugno allo stomaco per tutti quelli che sono rimasti qui. Ma spero che possa essere anche un motivo di riflessione per tutti. Ritornerai diventa la domanda da fare da soli al proprio cervello e quella che ogni andriese si farà guardando l’opera, ogni qualvolta salirà su un mezzo di trasporto in partenza dalla propria terra». La mappa dell’espatrio La Svimez ci racconta come tra le prime 50 città italiane, 13 sono pugliesi se si analizzano i dati in percentuali: Molfetta, Modugno, San Severo, Martina Franca, Brindisi, Foggia e Manfredonia perdono dal 14 al 10 per cento della loro popolazione under 30. In termini assoluti Taranto è terza con 3.643 giovani andati via, Bari sesta con 2.971 e Foggia nona con 2.599. A Volturara ci sono 408 abitanti e 589 iscritti all’Aire. San Marco la Catola, Roseto Valfortore, Faeto, Anzano, Panni e Celle di San Vito hanno più cittadini all’estero che nei Comuni di appartenenza. Quelli che se ne vanno, non tornano più. C’è chi parla di tsunami demografico: ogni 100 giovani pugliesi fino a 14 anni, ci sono 168 anziani over 65. E l’età media della popolazione cresce. Abbiamo superato i 44 anni. Gli italiani sono i più vecchi d’Europa Le stime di Eurostat annunciano ripercussioni sociali ed economiche epocali: fino al 2050 l’Italia potrebbe perdere tra i 2 e i 10 milioni di abitanti, mentre gli anziani aumenterebbero di 6 milioni, quasi un terzo dell’intera popolazione.
Laureati in fuga dall'Italia: tutti i numeri di un'emergenza nazionale. L'analisi di due studenti italiani ad Harvard che mette insieme le statistiche su chi fugge dal nostro Paese. E smentisce molti luoghi comuni. Gaia Van Der Esch e Tommaso Cariati il 23 dicembre 2019 su L'Espresso. Avere un figlio all'estero, con il quale si comunica via Skype, via Whatsapp. È ormai una consuetudine per molte famiglie italiane che prendono atto dell'assenza di opportunità di carriera in Italia e accettano la dipartita, con grande sofferenza, al punto che molti italiani sono più preoccupati per i propri ragazzi che emigrano, anziché dell’arrivo di migranti. Conferma l'osservatorio European Council on Foreign Relations, il primo think tank paneuropeo per la ricerca e promozione di un dibattito informato a favore dello sviluppo dei valori europei, che più della metà degli italiani sarebbe a favore di misure di controllo sull’emigrazione. Allora perché i nostri politici, giornalisti ed esperti si preoccupano di chi arriva anziché invece porre un argine all'esodo di massa dei giovani? Ad andarsene sono tantissimi giovani ad alto potenziale, con qualifiche accademiche elevate, per nulla valorizzati in patria, ma apprezzati all’estero. Sono specializzati in tutti i settori, provengono da tutta Italia, poco più della metà trova casa in Europa, gli altri migrano negli Stati Uniti e in Australia. Difficile stabilire con esattezza quanti siano. I dati Istat dicono che nel 2018 sono partiti 117mila italiani di cui 30mila laureati. Ma in base all'analisi da noi effettuata il volume degli espatri potrebbe essere addirittura doppio. Infatti l’Istat, che utilizza i dati Aire, cioè l'anagrafe degli italiani all'estero, sottostima almeno della metà i numeri di chi parte. Prova ne è il fatto che nel 2017, per i 36 paesi Ocse, l’Aire ha registrato 76mila partenze, mentre i paesi di arrivo hanno registrato 146mila italiani. Quindi, seguendo questa logica, i giovani laureati partiti nel 2018 sono almeno 60mila, e quelli partiti negli ultimi 5 anni (tra il 2013-2018) sono 200mila al netto degli arrivi. Se uniamo i dati del report sui cittadini mobili, con i dati dell’Ocse sul contingente di italiani lavoratori nelle 36 economie più grandi, scopriamo che ci sono più di 600 mila laureati attualmente vivono e lavorano in questi 36 paesi. Sono circa il sei per cento di tutti i laureati italiani: una percentuale altissima se paragonata alla Francia (quattro per cento) o alla Spagna (due per cento). Il Rapporto Italiani nel Mondo 2019 della Fondazione Migrantes riporta, utilizzando principalmente dati Istat, che il 40 per cento di chi è partito nel 2018 ha fra i 18 e i 34 anni. Ma anche che questo dato sta peggiorando con un aumento di 8,1 punti percentuali delle partenze 18-34, mentre nello stesso periodo tutte le categorie di età over 35 sono diminuite. Questi fattori contribuiscono al generale invecchiamento della popolazione italiana. Il problema diventa ancora più grave ci si concentra sui laureati. Dice l'Eurostat, l'agenzia statistica dell'Unione Europea, che in Italia solo il 17 per cento della popolazione ha una laurea, percentuale di gran lungo inferiore alla media Ue, che si aggira attorno al 30 per cento. Significa che mancano all'appello almeno sette milioni di laureati rispetto agli altri paesi europei. E come se non bastasse, molti di coloro che conseguono il titolo di studio lasciano l'Italia. Infatti il report sui cittadini Europei in movimento dentro l’Unione, racconta che il 30 per cento degli italiani all’estero ha una laurea. Stiamo quindi perdendo una grande fascia di chi può far crescere il nostro paese, di chi sa innovare, di chi può contribuire, con le proprie energie e competenze, a tirare fuori l’Italia dalla spirale di crisi - economica, demografica, educativa e occupazionale – in cui si è avviluppata. Le competenze italiane vengono invece sfruttate dai paesi in cui i giovani emigrano.
Siamo partiti in cerca di opportunità e responsabilità. Gli expat sono partiti per tanti motivi. Oltre allo studio, c'è chi parte per trovare lavoro (62 per cento), per avventura (13 per cento), per amore o motivi personali (6 per cento). I dati parlano chiaro: l'Italia è un Paese dove i giovani non si sentono valorizzati come risorsa, e si organizzano per fare (spesso a malincuore) le valigie alla ricerca di un futuro migliore. Quello che spinge all'emigrazione non è la ricerca di un lavoro qualunque, perché qualcosa (anche se non quello che vogliamo) si trova a casa, bensì un'occupazione degna. Con un guadagno, delle prospettive e delle responsabilità in linea con il valore e l’investimento in formazione da parte delle famiglie e dei giovani. Chi se ne va non riesce a vedere futuro in un paese che accetta – secondo Eurostat - che oltre il 20 per cento dei suoi ragazzi fra i 15 e i 24 anni non faccia nulla: né studia né lavora. Un numero molto più alto rispetto agli altri paesi europei. Altri partono per curiosità e ambizione, in cerca di occasioni di sviluppo personale che l’Italia non offre. Chi termina gli studi, infatti, sente l'esigenza di sfruttare ciò che ha imparato e di apprendere qualcosa in più, di lavorare in un ambiente stimolante, con colleghi all'altezza e risorse che offrano una prospettiva di carriera. Il Paese delle università più antiche al mondo non ha neppure una propria università nella top 100 delle università mondiali, secondo i ranking di QS. Le opportunità di avere successo come imprenditore, nel paese delle piccole e medie imprese, sono praticamente nulle. Il famoso fondo di venture capital, Atomico, scrive nel suo report annuale sulle startup europee che ci sono 99 neonate società con un valore di più di un miliardo di dollari - le cosiddette “unicors” -, ma nessuna di queste si trova in Italia. Sono in Estonia, Ucraina, Romania, Repubblica Ceca, ben due in Spagna. Ma zero in Italia. L’Italia investe in ricerca l’1,3 per cento del proprio pil, il prodotto interno lordo, sorpassata da Repubblica Ceca e Slovenia. Il nostro paese ha tagliato la spesa per la ricerca del 21 per cento tra il 2006 e il 2016, secondo il Libro Bianco realizzato dal Gruppo 2003.
Siamo partiti per vivere in società giuste e per giovani. Appena arrivati all’estero molti expat hanno trovato una società dove essere giovani è un valore aggiunto. Per capirlo, basta guardare gli investimenti che i paesi fanno in educazione e in pensioni: secondo Eurostat, per ogni euro speso in educazione, l’Italia ne spende 3,5 in pensioni, il secondo numero più alto d’Europa (questa volta il primato ce l’ha la Grecia). E per ogni euro in università, ne spende 44 in pensioni, di gran lunga il numero più alto. I cugini francesi ne spendono 22. I nonni, senza volerlo o saperlo, stanno facendo la guerra ai nipoti. Il mondo del lavoro è altrettanto colpevole. L’Ocse stima che in Italia i laureati fra i 25-34 anni guadagno solo il 10 per cento in più dei loro coetanei senza una laurea. Per capirci, in Inghilterra il valore economico di una laurea è del 35 per cento e in Francia quasi il 45 per cento. Questo dato diventa molto preoccupante quando si scopre che, al contrario, i laureati italiani fra i 55-64 anni in Italia, hanno un “bonus” sui guadagni fra i più alti d’Europa, quasi al 65 per cento, mentre in Inghilterra non si va oltre il 45 per cento. Quindi il mercato del lavoro italiano penalizza i giovani e valorizza gli anziani, anche a parità di titolo di studio. Gli expat hanno anche trovato una qualità di vita più alta all’estero – con grande stupore vista la convinzione degli italiani che l’Italia sia il miglior posto dove vivere al mondo. Eurostat conferma che la qualità di vita nel Bel Paese è tra le più basse in Europa: manchiamo di dinamismo culturale e sociale. Gli aneddoti si sprecano, dalla decadenza dei parchi pubblici a quella dei nostri teatri e centri storici. All’estero si investe e si rispetta la cosa pubblica. Non i giovani emigranti hanno trovato una qualità di vita elevata, ma anche un contratto sociale più giusto. Società eque, con poca corruzione e nepotismo. Dove tutti pagano le tasse, che sono alte come o più che in Italia. Inutile dire che l’Italia è tra i peggiori paesi in termine di corruzione percepita, misurata da Transparency International. All’estero la meritocrazia funziona, e chi espatria ne beneficia. Anche nell’evasione resta capione, con un tax gap del 13,5 per cento e più di 150 miliardi l’anno secondo gli economisti Raczkowski e Mroz. Considerando che il nostro deficit è di 40-50 miliardi di euro l’anno, in Italia sembra esserci un gruppo di furbetti che vive a spese di tutti gli altri, tagliando le gambe ai giovani di oggi e alle future generazioni.
La soluzione alla crisi: perché siamo necessari all’Italia. Nonostante la nostalgia per la terra, la preoccupazione delle famiglie e i dati sconcertanti, la fuga dei cervelli non è certo l’unico problema a cui fa fronte l’Italia. Anzi, ne è una conseguenza. Basta pensare agli ultimi 25 anni. Negli anni ‘90, l’Italia aveva un pil procapite più alto dell’Inghilterra e si ritrova nel 2019 superata dalla Spagna. Siamo cresciuti del 7,5 per cento in 25 anni. Addirittura la Grecia è cresciuta più di noi (18 per cento). Questa crisi infatti presenta un’opportunità unica: l'Italia ha un contingente enorme di giovani formati, che parlano lingue, con esperienze lavorative internazionali, che hanno imparato lavorando al fianco di leader mondiali nei vari settori, e che potrebbero risolvere – tornando – tanti problemi del bel paese. Crisi economica: Un laureato che parte è una perdita pesante per l’Italia. Confindustria stima che una famiglia spende 165mila euro per crescere ed educare un figlio fino ai 25 anni. Mentre lo stato ne spende 100mila in scuola e università. Se prendiamo i dati ISTAT e li raddoppiamo (vista la discrepanza di dati) questo rappresenta una perdita di investimenti attorno ai €25-30 miliardi annui. Investimenti di cui beneficiano i nostri vicini tedeschi, francesi e inglesi, con tasse, innovazione e crescita. Parlando appunto di tasse si calcola, partendo da dati Ocse ed Eurostat, che le casse del tesoro perdono 49 miliardi die uro l’anno di gettito fiscale, di cui più di 25 miliardi di euro dai laureati all’estero. Denaro che potrebbe coprire il nostro deficit annuale. Questo volume non considera tutto l’indotto dell’attività economica che sarebbe generato se i nostri giovani tornassero dall'estero.
Crisi lavorativa: Secondo Eurostat gli italiani hanno una vita lavorativa di circa 31 anni, in Inghilterra è di quasi 40. La nostra età pensionabile, però, è in linea con gli altri paesi europei, il che ci dice che il problema è all'ingresso: in Italia si comincia a lavorare troppo tardi, in media a più di 30 anni. Solo il 70 per cento degli italiani fra i 25-34 anni in Italia lavora, contro più dell’80 per cento dei paesi del Nord. Gli expat quindi hanno esperienze di lavoro spesso più alte rispetto ai coetanei rimasti in Italia, e un loro ritorno rappresenterebbe una leva importante per innovare e importare nuove idee.
Crisi educativa e produttiva: Le competenze di giovani all’estero permetterebbero, nell’ipotesi di un ritorno in massa, di migliorare il gap di educazione che l'Italia ha nei confronti degli altri paesi europei. Secondo l’Ocse, l'Italia ha il più alto gap educativo tra emigrazione e immigrazione. In altre parole, esportiamo gli italiani più educati e importiamo gli stranieri che hanno studiato meno. Questo è estremamente dannoso per il futuro economico del paese dove invece di innovare in tecnologia, ingegneria, scienza e attività economiche “complicate”, ci si concentra su attività più semplici come ristorazione, turismo ed edilizia. Anche su questo i numeri parlano chiaro. La produttività dell’Italia, nona di 32 paesi Ocse nel 1995, è cresciuta in 25 anni del 6,8 per cento, il numero più basso di tutti e si ritrova oggi diciottesima.
Crisi demografica: Il rimpatrio, a giuste condizioni (stabilità e sostegno socio-economico), contribuirà a risolvere il preoccupante gap demografico, diminuendo il tasso di dipendenza ormai alle stelle. Secondo Eurostat, per ogni persona in età pensionistica, in Italia ce ne sono 2,8 in età lavorativa (16-65). La Francia e la Spagna ne hanno 3,3 e 3,4. È inutile chiedersi per l’ennesima volta “chi pagherà le pensioni nel futuro”. Però è importante ricordare che la ricchezza di tutti è creata da “pochi”, ossia da chi è in età lavorativa. Se continuiamo a spingere all’emigrazione i più produttivi fra gli italiani, non ci saranno speranze per mantenere il tenore di vita a cui siamo abituati.
Senza di noi non ce la possiamo fare: un appello al nostro paese e ai giovani all’estero. Un paese senza i suoi giovani è un paese senza futuro. Allora, come far rientrare gli expat? Il sondaggio del centro studi di PWC ci dice che l’85 per cento dei giovani all’estero pensa che il paese in cui vivono offra migliori opportunità lavorative che l’Italia. Nonostante ciò, il 74 per cento considererebbe un ritorno a parità di condizioni. L’opportunità è chiara ed esiste. L’Italia lo sa, e si sta muovendo per farci tornare: le città, le regioni e il governo stanno unendo le forze con imprese, associazioni ed università. Gli esempi non mancano: Milano ha lanciato “Talents in motion”, la regione Sardegna ‘Master and Back’, e al livello nazionale il decreto-legge sul rientro dei cervelli viene rinforzato continuamente per incentivarci a tornare, di cui la più recente modifica si trova nell’articolo 5 del decreto crescita del 28/5/2019. Ma la verità è che queste agevolazioni fiscali sono poco conosciute dagli italiani che potrebbero usufruirne. Secondo il sondaggio del Gruppo Controesodo, il 21,43 per cento degli Italiani all’estero non la conosce e il 40,95 per cento la conosce solo vagamente. Viste le discrepanze di dati sugli italiani all’estero, sarebbe il minimo che le istituzioni cominciassero a raccogliere dati affidabili e ad assicurarsi che i loro giovani siano al corrente dei loro diritti. Inoltre, dei pochi italiani che sono al corrente di queste agevolazioni, il 75 per cento non le considera sufficienti per rientrare. I dati lo dimostrano: dei 14.000 italiani rientrati tra il 2011 e il 2017 grazie alle agevolazioni, il 50 per cento è già ripartito. Perché? Troppi ostacoli nell’accedere alle agevolazioni, che in più sono di corta durata. Allungare la durata dei benefici fiscali, oltre ai 5 anni, ed espandere i nuovi benefici a chi è tornato usufruendo di leggi antecedenti potrebbe raddoppiare il numero dei giovani pronti a tornare, secondo il Gruppo Controesodo. Questo sarebbe un punto di partenza per il Governo. Ma sono ripartiti anche per le poche opportunità di crescita in Italia. La cultura lavorativa e l’attitudine del sistema verso i giovani sono i veri elementi che ci trattengono dal tornare a casa, o che ci spingono a ripartire. Investire fondi per l’impresa, la scienza, l’educazione è un inizio ed è necessario. Ma quello che serve è un cambiamento radicale di cultura lavorativa ed educativa, difficile da raggiungere ma che può succedere - se ognuno di noi se ne fa carico. Quindi torniamo a noi, e usiamo una metafora: nelle comunità macrobiotiche, il 20 per cento della popolazione guida l’80 per cento dei flussi. Se torniamo sparpagliati, ci disperderemo, non troveremo chi ha avuto le stesse esperienze e ha quindi la stessa visione del futuro. Dobbiamo tornare insieme, in massa critica, ed aiutarci a vicenda con i tanti giovani che sono rimasti e già lottano. Sta a noi combattere le ingiustizie e le inefficienze dell’Italia, salvare il Bel Paese cambiando quello che non va. Sta a noi ora tornare per consentire alla prossima generazione di immaginare un futuro, fin da subito, nel paese più bello del mondo. Quindi iniziamo da qua, dandovi degli spunti di riflessione ed invitandovi ad un dialogo che possa generare soluzioni e riportarci a casa.
CARA ITALIA, CIAO. CERVELLI IN FUGA. La grande diaspora. Le vere ragioni per cui i giovani stanno fuggendo dall'Italia. Ogni giorno vanno a vivere all’estero 400 ragazzi, molti dei quali laureati. Ma non sono arrabbiati o egoisti come li dipinge una certa retorica. E se vanno via non è solo per una questione di soldi. Gloria Riva il 23 dicembre 2019 su L'Espresso. Laura ha 31 anni, lavora a Parigi, ha una relazione complicata con l’Italia: «Uno di quegli amori non corrisposti che ti strazia il cuore». Alberto vive a Londra e ci insegna perché gli expat, cioè i giovani in cerca di fortuna all’estero, detestano la definizione di “cervelli in fuga”: «Si fugge da una guerra, non da un paese bello come l’Italia». Sergio, 35enne e professore negli Stati Uniti, spiega che il sistema educativo italiano è migliore di quello americano. Giulia sta in Cina e dice: «Il sistema sanitario italiano, gratuito per tutti, è cosa di cui andar fieri». Laura, Alberto, Sergio, Giulia fanno parte di una generazione di italiani under trentacinque, per lo più laureati e diplomati, che nell’ultimo decennio ha lasciato in massa l’Italia, ma che è pronta a tornare. Lo raccontano le loro cartoline all’Italia, pubblicate da l’Espresso e tante altre ancora sul nostro sito, e lo confermano con maggior forza due studenti italiani della Kennedy School di Harvard che dalle colonne dell’Espresso lanciano un appello politico a chi, come loro, si trova all’estero e sente forte il desiderio di rientrare, per contribuire a far risorgere il proprio paese. Sono Gaia van der Esch, 32 anni di Anguillara Sabazia (Roma), selezionata nel 2017 da Forbes fra i trenta giovani europei più talentuosi, e Tommaso Cariati, 26 anni, fiorentino, ex consulente McKinsey, che oggi si divide fra un mba a Stanford e un master ad Harvard. Dicono: «Torniamo a casa. Siamo partiti, abbiamo imparato, ci siamo divertiti. Ci siamo sentiti anche lontani da casa, soli. L’Italia è in crisi, economica e culturale: sta a noi fare qualcosa per il paese che ci ha cresciuto e ci ha insegnato tanto. Tocca a tutti noi, è il nostro turno. Torniamo a un lavoro che paga meno, con l’obiettivo di cambiare le regole dall’interno, torniamo per fare fronte comune alla corruzione e alla politica da spiaggia. Lanciamo questo appello a tutti coloro che come noi sono partiti: abbiamo un’opportunità e una responsabilità unica per partecipare alla rinascita dell’Italia. Usiamo le nostre idee ed energie per fare dell’Italia un esempio per il mondo. Torniamo e portiamo con noi i nostri colleghi e compagni di università, invitiamoli a lavorare nel Bel Paese, invertiamo la rotta, assicuriamoci che i giovani di oggi e di domani siano valorizzati, come noi lo siamo stati all’estero. Dobbiamo provarci. Tutti insieme». L’appello di Gaia e Tommaso giunge nel momento in cui il fenomeno dell’espatrio sta assumendo una dimensione preoccupante. Lo conferma il rapporto Italiani nel Mondo 2019 della Fondazione Migrantes: «In dieci anni il numero di expat è triplicato, passando da 39 mila nel 2008 a117 mila nel 2018». Nell’ultimo anno le partenze hanno interessato soprattutto i giovani - il 40 per cento sono ragazzi fra 18 e 34 anni - provocando «la dispersione del grande patrimonio umano giovanile. Capacità e competenze che, invece di essere impegnate al progresso e all’innovazione dell’Italia, vengono disperse a favore di altre nazioni più lungimiranti, che le attirano a sé, investono su di esse trasformandole in protagoniste dei processi di crescita e di miglioramento».
"Cara Italia, ora ascolta noi espatriati": le storie di chi è dovuto fuggire per realizzarsi. Dieci cartoline da parte di altrettanti cervelli in fuga, andati via per trovare lavoro o fare carriera fuori dai nostri confini. Con racconti di eccellenze e incomprensioni. E i suggerimenti su cosa fare per convincerli a tornare. Gloria Riva il 23 dicembre 2019 su L'Espresso.
IO SULLA VIA DEL RISO. Giulia Ziggiotti.. Cara Italia, aspettami. Tornerò da te fra qualche anno con dei chicchi di riso, per portare a termine il progetto iniziato da papà. E non temere, non mi dimentico di te: riempi la mia giornata. A Pechino dirigo la Scuola Italiana Paritaria d'Ambasciata e gli allievi sono per lo più figli di famiglie italiane residenti in Cina, approdate qui per motivi di lavoro. Come me, del resto. Sono arrivata in Cina otto anni e mezzo fa, affascinata dalla velocità di cambiamento di questa incredibile nazione. Basta starci lontana pochi mesi, per stupirsi - al proprio ritorno - di quanto tutto sia già rapidamente mutato, teso al futuro. Gli italiani di Cina iscrivono i loro bambini alla scuola paritaria perché sentono forte il desiderio di mantenere viva l'identità e la lingua, intatte le origini e la cultura. Qui insegniamo la tua storia, la tua civiltà, la passione per il bello: caratteristiche che ti rendono un luogo unico al mondo. È una grande opportunità per raccontarti e sento di amare questo lavoro. Ma ho in mente di tornare, se non altro per restituirti il privilegio concessomi di laurearmi in Lingua e letteratura Cinese all'Università di Venezia. C'è quella piccola risaia comprata da papà, che oggi garantisce un piccolo raccolto, sufficiente solo per pagarci le spese. Ma in futuro, attorno al riso (che mi ricorderebbe la Cina) vorrei creare un progetto di produzione agricola, per dare a una trentina di persone con fragilità l'opportunità di essere felici. Di godere di quella gioia data ogni giorno dall'appagamento di un lavoro amabile. Nel frattempo, ti chiedo un dono: fai dialogare il mondo imprenditoriale con quello della formazione, dell'università, degli istituti tecnici e professionali, perché hai istruito giovani con delle idee eccezionali, che purtroppo - troppo spesso - restano inascoltate: mettiti in loro ascolto, potresti accoglierle quelle idee e farle decollare! Altrimenti rischi di perdere quei potenziali, che tanto ti è costato formare, e qualche altro stato potrebbe raccoglierne i frutti.
Giulia Ziggiotti. Trentacinque anni, dal Veneto si trasferisce a Pechino. È head manager della Scuola Italiana Paritaria d'Ambasciata a Pechino.
A CASA TROVAVO SOLO LAVORI IN NERO. Alberto Campagnoli. Cara Italia, sabato scorso ero in piazza per te! Qui a Parliament Square si stava stretti come sardine. Già, non ero solo, c'erano un sacco di sardine londinesi accanto a me. Ci siamo ritrovati in migliaia, un po' in ansia per il voto e la Brexit e altrettanto per il populismo dilagante lì in Italia. Il movimento oltre Manica l'abbiamo creato insieme, perché davvero non ne possiamo più di sentire tutti questi discorsi d'odio. Del resto a te questa rabbia non s'addice. Tu ci hai insegnato a essere fraterni, gentili, dialoganti: così ci riconoscono gli amici e i colleghi qui a Londra. Gli italiani sono conciliatori nati, sono l'anima dei gruppi internazionali, sono il collante delle relazioni umane. Le sardine londinesi difenderanno la tua civiltà! Il prossimo potrebbe essere l'anno del mio ritorno, perché vorrei metter su famiglia! Sto cercando lavoro, come architetto, fra Milano e Torino, dove ci sono gli studi professionali internazionali, come quello in cui lavoro qui a Londra, la multinazionale Gustafson Porter + Bowman, dove sto progettando i nuovi spazi verdi della futura Ville Lumiere. Come vedi, lavorare tanto non mi spaventa: tu offrimi la dignità di un contratto, che abbia in sé il diritto alla paternità e le tutele che si addicono a un mestiere dignitoso. Sai, l'ultima volta non è andata proprio bene. Ti ricordi? Stavo a Venezia, avevo appena finito l'Università e mi si era presentata l'occasione di un lavoro bellissimo: coordinare gli eventi collaterali della Biennale di Venezia. Allestivo contesti artistici nei palazzi della città. Un sogno. Lo stipendio non era un problema: mille euro al mese, che per un ventiseienne era niente male. Ma mi pagavano in nero: quindi niente contratti e certezze! E io mi sono un po' spaventato: non c'era alcuna prospettiva di carriera. A malincuore ho lasciato Venezia e gli amici d'infanzia di Modena per un tirocinio a Berlino. Poi la tristezza è scomparsa quando sono stato assunto con un contratto qui a Londra: è stato commuovente trovare lavoro inviando un semplice curriculum. Nel frattempo, a Venezia, gli ex compagni di università hanno iniziato a sistemare le cose, faticosamente sono riusciti ad ottenere contratti regolari, ci stanno riuscendo. Mentre altri mi dicono che a Milano, per lavorare, serva essere freelance, quindi zero sicurezza! Facciamo un patto: tu riconosci i miei diritti e io prendo un aereo e torno da te. È come se fossi già lì!
Alberto Campagnoli, 31 anni, dall'Emilia a Londra: professione architetto.
SOGNANDO FRONTEX. Raffaele Gradini. Cara Italia, ho girato il mondo. Sono andato a Mosca per studiare allo Skolkovo Institute of Technology. Poi in Francia, alla Airbus di Tolosa. Mi sono trasferito in California, alla Nasa. Adesso sto ad Atlanta, cuore della Georgia,per progettare flotte militari per la Nato e la Marina Italiana. Ma credimi, mi sento a casa solo quando scorgo l'Etna. Mi manca la sua roccia, la sua sabbia nera fra le dita dei piedi: mi trasmette un senso di pace e mi ricorda come la nostra terra sia viva. Ed è così viva nel mare e nelle nostre piazze. E allora ecco che quando torno passo da un tuffo dagli scogli ad un’immersione nella cultura classica di Catania e di Roma, nei musei e nella bellezza degli edifici. M'informo tutti i giorni su quello che ti succede e mi rattrista la tua situazione politica, mi spiace vederti sommersa dal malcostume e dalla sfacciataggine politica. Non sopporto tutti questi attacchi gratuiti alle tue istituzioni, solo per prendere il pubblico di pancia e guadagnare qualche voto. Stiamo scrivendo un capitolo triste della nostra storia, alla fine degli anni '70 andammo con la nostra Marina a salvare dal mare i Boat People che scappavano dalla guerra del Vietnam. Adesso c’è chi festeggia quando i nostri militari non arrivano in tempo per salvare i migranti nel Mediterraneo. Qui ad Atlanta lavoro per rendere le nuove navi resistenti a minacce future e in parte ancora sconosciute. Studio e lavoro grazie a due borse di studio: la Fulbright e la Ermenegildo Zegna Founder's Scholarship. Quest'ultima mi lega a doppio filo con il nostro territorio e prevede che, finito il progetto di ricerca, io torni in Italia per almeno due anni. Ho stretto volentieri questo patto, perché ho tanti sogni da realizzare per te e con te! Vorrei lavorare al progetto Pesco, Permanent Structured Cooperation, dove l'Italia ha un peso consistente e con gli altri paesi vuole ottenere l'integrazione strutturale delle forze armate. Oppure andrei all'Eda, European Defence Agency per continuare a fare ricerca e servirti al meglio. C'è anche il piano Frontex per la difesa delle frontiere e dei mari, dove l'Italia ha un ruolo centrale. Mi piacerebbe far parte di una di queste agenzie per contribuire a costruire un’Europa unita. Vista da lontano l'Italia può sembrare piccola, ma non lo è, siamo la quarta economia d'Europa e proprio grazie ai nostri vicini ad alleati possiamo moltiplicare le nostre capacità: insieme siamo più forti! Vorrei vedere un Europa più solida anche grazie a te, mia Italia. Del resto, io sono europeo, siciliano e romano, ma soprattutto sono italiano, e come direbbe Gaber “per fortuna lo sono”.
Raffaele Gradini, 27 anni, ingegnere aerospaziale all'Aerospace System Design Laboratory di Georgia Tech ad Atlanta. Da Catania a Roma, fino ad Atlanta.
A CHICAGO FACCIO RICERCA. E IN ITALIA? Emanuele Colonnelli. Cara Italia, suvvia non tenermi il broncio. È vero, manco all'appello da qualche annetto, ma te l'ho già spiegato, ho una missione da compiere qui a Chicago: devo diffondere il verbo dell'arrosticino! E poi non ti tradisco, mai: faccio la spesa da Eataly e sfreccio per le strade della Windy City a bordo di una Giulia. Lo sai bene anche tu: torno sempre quando lanci progetti interessanti. Ad esempio, sarò a Roma tutto il mese di giugno. A fare che? Vado in visiting position al prestigioso Einaudi Institute for Economics and Finance. Lì ci lavora un gruppo di ricercatori d'eccellenza e fra noi economisti (italiani e non) si fa a gara per partecipare ai programmi dell'Istituto Einaudi, che accoglie le migliori menti economiche provenienti da tutto il mondo. Parteciparvi è un'ottima occasione di crescita professionale. Forse potresti impegnarti di più in progetti analoghi. Pensaci bene: a quel punto non attireresti soltanto i cervelli italiani in fuga, ma ti corteggerebbero le personalità più brillanti provenienti da tutti i paesi del mondo, non solo gli italiani. Forse non te ne sei resa conto, ma chi se ne va dall'Italia, lo fa anche perché sei priva di contesti internazionali al top. Prendiamo il mio caso. Mi sono laureato in Economia a Siena e la specialistica l'ho terminata in Bocconi. Volevo fare il professore e lo sanno tutti che per fare carriera ad alti livelli è importante ottenere un assegno di ricerca in una delle dieci università più prestigiose del mondo: però nessuna di queste si trova in Italia. Quindi, eccomi qui, alla Booth, fra i più importanti centri di ricerca economica al mondo, dove lavoro spalla a spalla con due premi Nobel, Eugene Fama e Richard Thaler. A questa cosa devi assolutamente porre rimedio: non hai capito che la tua carenza è l'assenza di un contesto dinamico e internazionale? Devi riuscire ad offrire interessanti opportunità di lavoro per i ricercatori - in tutti i settori - e allora tutti vorranno venire a lavorare da te. Io stesso vivrei benissimo a Milano o a Roma. Sono città con un approccio sano alla vita, tutt'altra cosa rispetto alla frenesia degli Stati Uniti. Come sai, non faccio programmi a lungo termine, quindi non escludo di poter tornare in Italia, sempre che mi venga offerta la possibilità di continuare la mia carriera universitaria con il giusto supporto della ricerca. Del resto l'Italia potrebbe essere un campo di ricerca scientifica interessante per me, che mi occupo soprattutto di corruzione dei sistemi economici, mercati emergenti e soluzioni di sviluppo per start up. Già, sono proprio le competenze che ti servirebbero per tornare a crescere!
Emanuele Colonnelli, 32 anni, di Ascoli Piceno, è professore di Finanza alla University of Chicago Booth School of Business.
NON RICONOSCEVO PIÙ IL PAESE IN CUI SONO NATO. Sergio Imparato. Cara Italia, mi vergogno un po’ a scriverti. Forse perché quando sono partito l’ho fatto senza troppi rimorsi. Ora, dopo otto anni all’estero, inizio a sentire la tua mancanza. Una mancanza di affetti, amicizie e cene interminabili, che piano piano apparecchia una fondamentale mancanza di sé. Perché sei partito, mi chiederai. Penso che chi parte lo fa soprattutto perché può, per opportunità. Qualcuno anche perché un po’ smarrito e non si riconosce più nel posto che chiama casa. Quando sono partito, ho sentito forte questo senso di smarrimento. La partenza è servita a ritrovarmi. Ed è stato facile ritrovarsi nell’Università Americana, che con le sue cerimonie, onori ed eccellenze, quasi ti impone un senso di appartenenza. Qui in America ho “messo su” famiglia e una piccola comunità di amici, tra cui tanti italiani. Qui ho trovato un lavoro che mi emoziona e un mondo tutto proiettato al futuro. E con sorpresa, qui ho trovato anche un grande desiderio di Italia. Mia moglie, che è haitiana/newyorchese, si è innamorata dell’Italia e vorrebbe viverci perché ormai la sente già casa, anche più di me. In America non ci vedono solamente come depositari di straordinaria bellezza, ma soprattutto come promotori di un buon modo di vivere. Un modo di vivere improntato alla condivisione del bello, del buono e al destino dello stare insieme. É stato proprio attraverso gli occhi di mia moglie e di chi non è cresciuto in Italia che ho iniziato a ritrovare il senso di casa e un certo orgoglio di essere italiano. Per me, essere italiano significa la genovese di mamma, che la odorano in centinaia e mangiano in dozzine, significa la domenica allo stadio con papà e il solito “gruppetto” che occupa un intero settore, significa le notti al bar della piazza con gli amici, dove si offre un bicchiere anche ai vicini di tavolo. Solo quando sei lontano ti accorgi che questi modi di stare insieme sono più di quello che fai, sono quello che sei. Torno? Quando mi fanno questa domanda mi viene in mente Michele in “Ecce Bombo”: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?” Se è vero che quando sono partito non ho pensato troppo a quello che lasciavo. Se e quando torno, devo aspirare a dare un piccolo contributo. Nella speranza che, un giorno, un altro come me, invece di partire, decida di restare. Forse torno. E “mi metto, così, vicino a una finestra, di profilo, in controluce…”
Sergio Imparato, 35 anni, napoletano, laureato in Filosofia, insegna Teoria Politica ad Harvard, dove è Faculty Advisor dell’Harvard College Italian Society.
ASPETTATEMI PERO'. Chiara De Lazzari. Cara Italia, ti scrivo dalla caldissima Melbourne, la mia casa dal 2013, dove sono ricercatrice. Vivere dall’altra parte del mondo ha molti di aspetti positivi e qualche difetto: l'Australia ti espone a moltissime culture differenti e ti permettere di imparare i nomi di animali improbabili capaci di uccidere un uomo in pochi minuti. Lo sapete che qui c’è il più alto numero di animali mortali al mondo, senza contare squali e coccodrilli? Vivere così lontano dall’Italia ti fa rivalutare il nostro Paese, tanto spesso viene criticato. Da quando sono qui voglio molto più bene al mio paese e ogni volta che torno apprezzo sempre più le sue peculiarità. Soprattutto adoro poter parlare ad alta voce senza attrarre gli sguardi indignati degli anglosassoni. La nostalgia è innegabile, ma rientrare non è facile. Bisogna farsi almeno 24 ore di viaggio per soddisfare quella strana voglia di stracchino (prodotto introvabile in Australia). Sebbene la comunità italiana sia molto grande, non esiste un volo diretto sull'Italia, a differenza degli altri paesi europei. Sono all’estero da quasi sette anni e mai come oggi mi sento italiana. Anzi, la mia italianità si rafforza nel tempo. Il legame si è consolidato negli anni e, sebbene io sia ben integrata nel contesto lavorativo e sociale australiano, continuo a vivere all’italiana. Parlo italiano tutti i giorni, cucino cibo italiano e sono attiva all’interno della comunità italiana qui a Melbourne. I primi anni ho fatto di tutto per integrarmi nella società australiana, ma poi il richiamo alle origini si è fatto sentire e oggi non potrei fare a meno di quella componente nostrana che rende la vita all’estero ancora più piacevole. Mi trovo onestamente molto bene dall'altra parte del mondo, ma spero un giorno di poter rientrare in Italia, per contribuire al mio Paese, magari potrei tornare a insegnare e fare ricerca in università, così da rendere i nostri centri di ricerca più internazionali e competitivi a livello mondiale. Per natura sono inevitabilmente positiva: sono sicura che l’Italia capirà il reale potenziale di tutti i giovani emigrati all’estero per fare esperienze lavorative. A quel punto darà la possibilità a chi si è formato in altri paesi di tornare. Per ora resto in Australia, cerco di non farmi ammazzare da ragni e meduse, con la consapevolezza che l’Italia mi sta aspettando.
Chiara De Lazzari, 32 anni, da Treviso all'Australia, dove insegna Scienze Politiche all'Università di Melbourne.
Sì, SIAMO DON CHISCIOTTE. Laura Surace. Cara Italia, io vivo a Parigi ma vengo da Reggio Calabria. Un posto che ti da e toglie tantissimo, nello stesso tempo. A 17 anni ho lasciato la Calabria per studiare genetica molecolare e biochimica a Pavia, che per i “terroni” è praticamente uno spostamento all’estero. Segue un dottorato all’università di Zurigo sull'immunologia tumorale, concluso con la scoperta del meccanismo che controlla la risposta immunitaria antitumorale nei pazienti trattati con radioterapia. Il progetto ha vinto vari premi e sono stata candidata come miglior giovane ricercatrice in Svizzera (ovvio, mica in Italia). Eppure è l'Italia che ringrazio, sono sopravvissuta agli anni del dottorato grazie alla passione per il calcetto e i pacchi stracolmi di peperoncino e Amaro del Capo spediti da mamma e papa. Ora sto all’Istituto Pasteur di Parigi per il PostDoc. Ho scritto un progetto su sistema immunitario e malattie metaboliche finanziato dalla prestigiosa borsa di studio europea Marie Curie. Negli ultimi due anni, ispirata dal crescente numero di stupidaggini pubblicate sui social, ho avviato una start up che si occupa di comunicazione scientifica. La mia creatura si chiama Naós Communication ed è il mio progetto per l'Italia. Formerà scienziati nell'arte oratoria e nel coinvolgimento del pubblico, perché spesso chi fa ricerca e scopre qualcosa di nuovo, non sa spiegarlo. Nonostante il progetto non sia stato ben accolto nel bel paese (la proposta è stata bocciata due volte), a breve riuscirò a spostare la sede a Roma, per poi avviare corsi di formazione internazionale nelle scuole e nelle università italiane. Ma tornare stabilmente è difficile. Prima di tutto perché tornerei solo se potessi traslare quello che faccio qui al Sud Italia. Perché se devo stare a Milano e pagare 400 euro per volare in Calabria – grazie comunque, Alitalia! - tanto vale restare in Francia. Nutro profondo rispetto per chi resta e lotta, ma mi sembrano tanti Don Chisciotte. Serve più consapevolezza, formazione e informazione. E bisogna capire se si sta lottando contro giganti o mulini a vento. Serve anche tanta voglia di cambiare, serve tempo e io resto in attesa. Nel mentre, mantengo il mio legame con l’Italia valorizzando i ricercatori all’estero, insieme all’associazione dei ricercatori italiani in Francia e porto Naós a Roma. Non vedo l'ora di inaugurarla: sarà una soddisfazione personale riuscire a realizzare parte della mia vita in Italia!
Laura Surace, 31 anni, da Reggio Calabria a Parigi, ricercatrice nel campo dell’immunologia e metabolismo.
GODT NYTT AR A TUTTI. Rosa Manzo. Cara Italia, Godt Nytt År! in norvegese significa Buon Natale! Sì, lo so, la lingua è piuttosto ostica. E infatti ciò che mi manca più dell'Italia è proprio l'italiano, la vocalità, i colori della nostra bella parlata. Ma vi assicuro che ci sono problemi ben peggiori: avete idea del freddo che fa quassù? Vivo a Oslo e sono una ricercatrice al Centro di Eccellenza PluriCourts, dove mi occupo di diritto internazionale in materia ambientale e cambiamenti climatici. Cerco nuove forme di cooperazione per fronteggiare l’urgente danno umano e ambientale provocato dal cambiamento climatico. Probabilmente ho scelto questa strada perché ho trascorso gran parte della mia vita a Taranto, all'ombra dell'Ilva, e so bene cosa significhi scegliere tra lavoro e salute. Come la penso? L’ambiente va protetto non solo come valore in sé, ma anche per l’importanza che svolge nel processo di formazione della identità personale. Per esperienza personale, posso affermare che al degrado ambientale segue necessariamente un degrado sociale e morale. Sono proprio le mie origini ad avermi dato la tenacia di continuare questo percorso lavorativo, che mi ha spinta lontana da casa. La speranza di tornare c'è sempre. Nei miei sogni c'è il progetto di potermi occupare di politiche ambientali e climatiche per rendere il nostro Paese sempre più verde e pulito e mostrare al mondo che siamo in gamba. Nel mio piccolo e stando a centinaia di chilometri di distanza, sono diventata responsabile di un progetto per i giovani italiani in Norvegia, che è appena partito. È il nodo di una più vasta rete mondiale che intende mettere in connessione le competenze degli italiani nel mondo. Il mio sogno, poi, sarebbe portare la mia esperienza accademica in Italia, anche solo come visiting lecturer, cioè frequentare le università italiane per raccontare agli studenti quello che sto sviluppando qui in Norvegia, lavorare con loro potrebbe aiutarli a comprendere il mondo della politica internazionale. Realisticamente, però, resto a Oslo, perché ci sono evidenti difficoltà di svolgere dignitosamente attività di ricerca accademica in Italia. Sono partita nel 2013 e ho viaggiato parecchio, fra la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti. E nonostante siano passati molti anni, essere così lontana da casa mi costa moltissima sofferenza, perché spesso si dimentica che noi giovani all’estero siamo costretti ad allontanarci dai nostri genitori proprio quando loro avvertono maggiormente la solitudine e si palesano i primi acciacchi. Cerco di affrontare tutto questo con fiducia nel futuro, perché chi è ottimista contribuisce positivamente all'ambiente circostante.
Rosa Manzo, 32 anni, da Taranto a Oslo, per occuparsi di diritti ambientali e cambiamenti climatici.
UNA MENTALITA' CHIUSA E ARRETRATA. Nicola Tamanini. Cara Italia, sono dieci anni esatti che ti ho lasciato, ma non potevo fare altrimenti. Faccio ricerca su onde gravitazionali - che può sembrare un po' astratto, ma questa è la frontiera che ci consentirà di comprendere meglio l'universo – e in Italia non avrei potuto farlo. Non parlo dell'assenza di incentivi economici: io, come penso gran parte di chi fa ricerca di base, non sono spinto a lavorare dal dio denaro, bensì dalla passione per la scienza e la consapevolezza di contribuire all'avanzamento della conoscenza collettiva dell'umanità. Quello che manca in Italia è la capacità di attirare giovani professionisti da tutto il mondo, compresi tutti quelli che ogni anno sforniamo dalle nostre eccellenti università, ma che poi non sappiamo trattenere. La ricerca scientifica nel ventunesimo secolo non è più fatta da singoli individui, ma da team di piccoli gruppi ed enormi collaborazioni a livello internazionale, con centinaia se non migliaia di persone. In Italia purtroppo mancano le opportunità e i mezzi persino per costruire piccoli team scientifici per competere o collaborare a livello internazionale. Se io volessi tornare per fare ricerca di base, so bene che non troverei le stesse opportunità che avrei in altri paesi europei. Eppure sono convinto che le esperienze professionali e multi-culturali maturate dai giovani italiani all'estero possano costituire la chiave per aprire una mentalità italiana a volte chiusa e arretrata e per rendere la società più al passo coi tempi e favorevole alle nuove generazioni. Sta qui la chiave di volta!
Nicola Tamanini, 33 anni, da Trento al Max Planck Institute di Potsdam, Berlino, dove fa ricerca sulle onde gravitazionali.
DATECI VOCE, PER FAVORE. Lucrezia Scarapicchia. Cara Italia, sono partita da Roma a 17 anni per fare l’Università in Inghilterra. Ho studiato relazioni internazionali a Exeter, in Inghilterra, e passato un anno in scambio a Shanghai. Dopo la laurea nel 2016, e una breve esperienza a Londra in una start-up, mi sono ritrovata a Pechino per uno stage di sei mesi alla delegazione dell’Unione Europea. Quell’esperienza mi ha aperto le porte al mondo della politica europea, quindi finito il tirocinio a Pechino, ne ho iniziato subito un altro a Bruxelles, al Parlamento Europeo. Lì ho seguito per due anni i negoziati Brexit. Sempre a Bruxelles, lavoro per Euractiv, una rete mediatica europea di riferimento per le politiche del vecchio continente. Mi occupo di creare nuove collaborazioni con i vari attori di Bruxelles, per lo più con associazioni di industria e ong. Dopo otto anni di lontananza sento un bisogno incolmabile di fare almeno un’esperienza di studio o lavoro in Italia. Parlo cinque lingue, sono vissuta a Londra, Pechino e Bruxelles, credo che potrei essere un profilo interessante per attrarre investimenti stranieri in Italia, sviluppare partnership internazionali per un’azienda o potrei mettermi in proprio, le possibilità sono molteplici. Ma tornerei a condizione di poter essere considerata un patrimonio, un asset per il mio paese. Vorrei tornare sapendo di poter offrire e applicare il bagaglio culturale e professionale accumulato in questi anni all’estero. Il problema è che uno all'estero crea legami e adesso c'è il mio ragazzo che vive a Parigi ed è più comodo frequentarsi sapendo che la distanza è colmabile in un'ora e venti di treno. Mentre Milano è un po' più lontana. Nel frattempo gestisco il profilo Instagram @giovanitalianinelmondo , per dare voce a chi è lontano da casa e qui a Bruxelles ho fondato la rete di giovani italiani in Belgio, Re.Gi.B, per per sostenere il ‘sistema paese’. È proprio questo che vorrei fare per l’Italia, per i giovani italiani nello specifico, e quindi anche per me stessa: ridare (o riprendere, dipende dai punti di vista) una voce ai giovani, per avvicinarsi alla partecipazione civica e politica, e perché no, contribuire un giorno alla creazione della futura classe politica italiana.
Lucrezia Scarapicchia, 24 anni, da Roma a Bruxelles, passando per Pechino. Si è occupata di Brexit per la Commissione Europea e ora il suo focus sono industria e organizzazioni non governative.
"Torniamo per combattere". "No, l'Italia è incurabile": le storie che ci avete raccontato. Centinaia di lettere dopo la nostra copertina "Italia Ciao". Con il racconto di giovani andati via o tornati nel nostro Paese. Tra sogni, speranze, gioie e frustrazioni ecco alcune delle esperienze che avete condiviso con noi. L'Espresso il 20 gennaio 2020. Dove far crescere mio figlio? A Dublino o a Catania? Sono stato da sempre appassionato di informatica, grazie ad una famiglia che mi ha sempre incoraggiato e fin da tenerissima età mi ha fornito gli stimoli ed i mezzi per coltivare questa passione. Ho un dottorato in ingegneria informatica conseguito nel 2012 a Catania, mia città natale. Durante il dottorato ho fatto uno stage presso Google a Dublino, che mi ha successivamente assunto a tempo indeterminato come Site Reliability Engineer e dove ho fatto carriera fino a diventare engineering manager. Adesso, dopo 7 anni in Google, dall'anno scorso sono Principal Software Engineer nella divisione Cloud di Microsoft, Azure. Mia moglie è ingegnere informatico, anch'essa laureata a Catania ed ingegnere a Dublino, dove viviamo assieme dal 2014.
Nostro figlio è nato a Dublino. Dove crescerà? A Catania con i nonni ed il resto della famiglia, o a Dublino, dove abbiamo opportunità lavorative che in Sicilia ci scordiamo? Dopo il dottorato ho pensato di rimanere in università, ma mi era chiaro che avrei dovuto fare una lunghissima gavetta ed il risultato finale sarebbe stato molto incerto. Dopo il dottorato feci diversi colloqui in Italia prima di partire. A Firenze mi offrirono 1.000 euro netti. Come ingegnere informatico, con dottorato e stage presso Google. A quel punto mi era chiaro che dovevo partire. Abbiamo comprato casa a Dublino, pensiamo di prenderne una più grande presto, ma il nostro cuore è sempre diviso tra Catania e Dublino. Andrea
Tornata carica di idee, ho trovato un Paese provinciale. Dopo 13 anni all’estero, sei mesi fa sono rientrata in Italia lasciando un indeterminato per un contratto di un anno in università. Sono rientrata carica di idee e voglia di fare, ho trovato un contesto pettegolo, provinciale, asfissiante, pieno di capini, capetti e caponi che bocciano e umiliano ogni nuova idea per portare avanti i soliti progetti, che funzionino o no. Non saremo noi expat a cambiare dinamiche tipiche del nostro paese. Simona
Perché la prassi è abbassare la testa a tutto? Ho 31 anni e sono un'italiana che dopo 3 anni di lavoro all'estero ha deciso di tornare nel bel paese. Lasciatemi dire che non è affatto bello e il problema non è uno stipendio più basso o una casa fatiscente passata per nuova, il problema sono gli italiani. Ho trovato lavoro nella PA e fin da subito è cominciata ad andar male con straordinari non pagati e ogni giorno nuove mansioni senza alcuna indicazione. Ho visto l'omofobia e la transfobia non venire nemmeno celate e ho visto tanta omertà, dipendenti col posto fisso abbassare la testa e incitarti a fare lo stesso perché quella è la prassi, rifiuti gettati in mezzo alle strade senza che i passanti dicessero nulla perché quella è la prassi, figlie e figli insultati a tavola e spinti a conformarsi, perché quella è la prassi. I nostri coetanei sono morti dentro, i nostri genitori sono mostri con dentro tanta rabbia e frustrazione per non aver raggiunto dei risultati. Tornare in Italia è stato inutile, sto cercando di andare a pulire i cessi per prendere le distanze da questo Paese malato. E non abbiate timore della destra, di Giorgia o di Salvini: governeranno un popolo di morti e frustrati. Andrea
In Italia neanche si accorgono quanto sia grave la situazione. Ho studiato comunicazione due anni in Svezia ma la mia passione è sempre stata la cucina. Da quando ho finito gli studi lavoro in un ristorante meraviglioso dove mi hanno assunto senza che avessi esperienze precedenti in cucina. Non vedo un motivo per tornare in Italia. Amo il mio paese ma siamo in pochi a renderci effettivamente conto di quanto grave sia la situazione, e non voglio mettere a repentaglio il futuro mio e della mia possibile famiglia nella remota speranza che le cose migliorino. In Italia c'è soprattutto un problema di mentalità, di pigrizia e di ostilità al cambiamento, e questo (forse) cambierà col tempo, non con noi giovani che cerchiamo di convincere una popolazione perlopiù anziana e tradizionalista a cambiare. Mi dispiace essere così disfattista, apprezzo la mentalità quelli come voi che ancora vedono qualche speranza per il nostro paese. Luca
Voglio mettermi alla prova, ma sono dovuta scappare. Sono una ragazza di 21 anni e sto studiando ingegneria elettronica nel Regno Unito con delle modalità che non esistono in Italia. Ho voglia di imparare e mettermi alla prova e, dopo aver provato a farlo in Italia, me ne sono dovuta andare per la mentalità e l'atteggiamento che trovavo in molte persone con cui avevo a che fare e che mi stava impedendo di seguire i miei sogni. Ora sono contenta ma mi manca l'Italia. Appena sentirò di aver acquisito le competenze e i valori necessari per essere a mio agio con me stessa voglio tornare e fare del mio meglio per aiutare il paese che mia ha insegnato ad amare la musica e l'arte senza le quali non sarei chi sono oggi. Sofia
Sono emigrato in Svizzera da pochi mesi. La situazione mi appariva paradossale: prima era un continuo dover scegliere se volevo aiutare i miei, vivere la mia vita, o mettere da parte qualcosa per il futuro, ora sono in grado di mandare a casa l'equivalente del mio precedente stipendio italiano, guidare un'auto sportiva, vivere in una bella casa, e mettere da parte in un mese quanto in Italia avrei messo da parte in un anno. Pensavo di essere un privilegiato, che avesse ricevuto un trattamento di favore o un gran colpo di fortuna, ma qui, questa situazione è la norma. I giovani sono valorizzati, le professioni sono riconosciute. La mia storia qui si stempera nelle storie di tutti gli altri giovani professionisti, che hanno tutti la medesima esperienza. Noi giovani professionisti qui non siamo ricchi, neanche lontanamente, ma stiamo bene, siamo spensierati, e qui si innesca un meccanismo che è la vera fonte di benessere, che non avevo finora considerato: quando non si deve più occupare gran parte dei propri pensieri con preoccupazioni, disillusione e sconforto, si può iniziare a guardare oltre, a impegnarsi per fare vera innovazione, coltivare la propria ambizione, lavorare divertendosi e vivere senza sentirsi una piccola ruota dentata di un grande ingranaggio. Da quando vivo in questo paese e per la prima volta ho in mano qualcosa per fare un confronto, ho iniziato a vedere dove realmente l'Italia ammazza le prospettive di crescita, l'ambizione e la voglia di fare. Qui si possono aprire startup e dar valore alle proprie idee con pochi costi, meno rischi, nessun marasma burocratico assassino dell'avanzamento tecnologico, e soprattutto senza quel clima da ""ma chi te lo fa fare?"", ""vai a lavorare che è meglio"", ""e se poi fallisci?"" che contraddistingue, purtroppo, il mio paese di origine. Qui ho un fondo pensione con il mio nome sopra, non verso i soldi sperando che tra qualche decade sia rimasto qualcosa per me. Qui pago tante tasse, ma le pago subito, pago tutto, e le pagano tutti. E qui i servizi sono impeccabili. Qui si ha un mente l'efficienza, qui non farete mai code chilometriche agli sportelli di qualche ufficio semisconosciuto per qualche operazione burocratica inutile, costosa e perditempo. Qui non c'è inutile ridondanza di uffici ed enti (come succede ad esempio in Italia con ACI e Motorizzazione) e qui nessuno alza il ciglio se voglio pagare col PoS. Potrei andare avanti, ma credo di aver dato l'idea della mentalità diversa e vincente che mi mancava in Italia. La Svizzera non è ovviamente un paese perfetto. Ci sono tante cose che non funzionano e se ne potrebbe fare una lista ugualmente lunga (pensiamo ad esempio al salary gap tra uomini e donne, che non stupisce, se pensiamo che qui il diritto di voto alle donne è stato esteso in ogni cantone solo nel 1990), ho amici che hanno preferito viaggiare in Inghilterra, Francia, Spagna e Australia. Dovunque siano andati, a prescindere dai pro e dai contro, tutti mi hanno parlato dello stesso guadagno in ""spensieratezza"" che permette loro di guadare oltre. E forse è da qui che l'Italia potrebbe puntare a ripartire." Alex
Tornare è difficile, ma non è impossibile. Noi siamo tornati. Dopo 4 anni in Inghilterra e 3 a Berlino a fare ricerca, abbiamo deciso che era il momento di ricominciare da casa nostra, dalle nostre radici. È faticoso, ma non impossibile, e mai come in questo momento questo paese ha bisogno di persone che abbiamo fatto esperienze diverse, con una mentalità aperta ed internazionale, perché si ricominci a guardare le cose da una prospettiva che vuole costruire e non solo demolire o criticare. È difficile, ma si può fare. Aiutateci a farlo! Valentina
"Torniamo per combattere". "No,..."La vera emergenza nazionale non sono i rifugiati, ma gli italiani che vanno via". L'intervento dell'associazione di italiani all'estero sulla generazione in diaspora raccontata dall'Espresso in queste settimane. «È urgente un dibattito pubblico sulle implicazioni economiche, sociali, culturali e politiche di questo fenomeno». Il Manifesto di Londra il 21 gennaio 2020 su L'Espresso. Il Manifesto di Londra è un gruppo di cittadini italiani che vivono in Gran Bretagna e Irlanda nato nel giugno del 2017 e impegnato in politica. Pubblichiamo la lettera che il gruppo ci ha inviato dopo il nostro servizio sugli expat.
Caro Espresso, Ti scriviamo per ringraziarti del numero in cui avete messo in copertina la “generazione in diaspora” , raccontando come l’Italia sia tornata ad essere un Paese di emigranti, come mai dal secondo dopoguerra. Da qualche anno l’associazione Manifesto di Londra cerca di portare al centro del dibattito pubblico il tema dell’emigrazione italiana. Siamo un’associazione composta da emigrati, nata per offrire uno spazio di attivismo culturale e politico per la comunità degli italiani a Londra e in Gran Bretagna e mantenere vivo un legame con l’Italia progressista. Guardando l’Italia da fuori, ci preoccupa che pochi si stiano accorgendo che la vera emergenza nazionale non sono le navi cariche di rifugiati, ma il mezzo milione di persone che in dieci anni ha lasciato il Paese. Pensiamo sia urgente un dibattito pubblico sulle implicazioni economiche, sociali, culturali e politiche di questo fenomeno, frutto della crisi di un Paese che ha smesso di offrire opportunità e speranza.
Caro Espresso, vorremmo che tu aprissi questo dibattito pubblico, continuando a scrivere del tema oltre gli stereotipi e i preconcetti. Ad esempio, scrivendo che la migrazione è fatta di storie individuali molto diverse tra loro. Ci sono i giovani cervelli in fuga, ma c’è anche chi è emigrato 40 anni fa, chi è emigrato a 45 anni perché ha perso il lavoro, e i camerieri e i rider che non hanno l’arroganza di pensare che tornando in Italia potrebbero salvare il Paese. Ci sono quelli che vivendo all’estero hanno trovato il giusto equilibrio e si sentono davvero cittadini del mondo o almeno dell’Unione europea. E ci sono i tantissimi che lasciano l’Italia per sfuggire alla disoccupazione e alla precarietà, spesso ritrovandosi a fare lavori sottopagati. È necessario raccontare tutte queste storie per evitare di creare false divisioni tra i “bravi o fortunati ma vigliacchi” che partono e i “coraggiosi ma frustrati” che restano, tra i “cervelli che disprezzano l’Italia” e le “gambe e le braccia che nessuno vuole”. La migrazione non può essere ridotta a una questione di scelte dicotomiche sul Paese in cui si vive meglio e in cui il proprio “capitale umano” è più valorizzato. La nostra, come tutte le vite, è una costante fluidità di condizioni di vita, di lavoro, di luogo di residenza, di affetti, di amicizie, di lotte. Le lotte con cui ci confrontiamo tutti i giorni sono anche quelle legate alla nostra identità e al senso di appartenenza: qual è il nostro posto nel Paese in cui viviamo e quello da cui veniamo, che responsabilità abbiamo di restare o di tornare.
Prese tutte insieme, queste storie ci ricordano che l’emigrazione è un fenomeno collettivo che sta scrivendo e scriverà il futuro dell’Italia, dell’Europa e del mondo. È necessario riflettere su un nuovo modello di società e cittadinanza transnazionale, equo, aperto e solidale, in cui si emigra per scelta e non per necessità. Nel 2020, il Manifesto di Londra continuerà a parlare di questi temi con Italians of London, un progetto video-fotografico per raccontare sui social media la quotidianità e la diversità della vita all’estero. Avvieremo anche un gemellaggio con Grande Come Una Città, il programma di cittadinanza attiva del Municipio III di Roma animato da Christian Raimo. A marzo saremo insieme a Roma per un evento in cui useremo tante storie di emigrazione per parlare delle sue cause e implicazioni.
Caro Espresso, aiutaci a raccontare l’emigrazione italiana all’estero ai tuoi lettori in un modo nuovo. Venite a trovarci a Londra e a discutere con noi all’evento di Roma. Soprattutto, continuate a raccontare le nostre, molte storie.
Quella svolta culturale che serve per convincere gli italiani espatriati a tornare. Aziende, università, politica e singole persone devono agire per arginare la vera emergenza del nostro Paese. Perché chi va via non lo fa solo per questioni economiche. Tommaso Cariati e Gaia Van Der Esch il 21 gennaio 2020, su L'Espresso. Quando abbiamo lanciato un appello agli expat per tornare e cambiare il nostro Paese , lo abbiamo fatto affiancandolo a una ricerca che non lascia spazio a dubbi . L’Italia non pensa al suo futuro e non investe nella sua unica speranza per uscire dalle molteplici crisi: i giovani. Che quindi partono ogni anno a centinaia di migliaia e non tornano. «Ma siete pazzi?» «Tornare in Italia per fare cosa?» «Tanto non cambia nulla, vi rovinate solo la vita», hanno scritto in tanti. Chi è ancora all’estero si aggrappa a ricordi, nostalgie e sogni, a volte ingenui. Chi è rimasto o tornato, si aggrappa al caffè buono e alla famiglia a due passi da casa. Ma anche alla felicità di sentirsi parte della svolta di cui ha bisogno il Paese e ai vari piccoli o grandi successi di chi è riuscito a migliorare le cose. Successi che hanno bisogno di essere amplificati e moltiplicati. Tanti hanno scritto che loro ci stanno, vogliono affrontare questa sfida insieme e tornare in Italia, e sono anche pronti ad accettare uno stipendio più basso e le difficoltà iniziali. I problemi, spiegano, non sono questi, ma gli italiani stessi. La cultura di nepotismo e intrallazzi. La chiusura mentale e il degrado della mala gestione della cosa pubblica. Quello che chiedono è un cambiamento culturale, a cominciare dal mondo del lavoro. Un aspetto a cui è difficile fare giustizia tramite i numeri della nostra ricerca, ma che emerge come centrale nelle lettere ricevute. Una cultura “vecchia” che sta frustrando chi è già tornato e spaventa chi vorrebbe tornare. Tuttavia nessuno può generare un cambiamento culturale da solo: per farlo ci deve essere movimento. Un ritorno coordinato e in massa: l’insegnante mai partito, la cuoca già rientrata, l’ingegnere pronto a fare le valigie al contrario. Insieme. Iniziando da chi è rimasto o ritornato in Italia, senza dimenticare i tanti expat. Serve smetterla di aspettare che le cose cambino, perché da sole non cambieranno mai, che si parli di corruzione, nepotismo o inefficacia della classe politica. È necessario che anche il sistema Italia lavori in questa direzione. Le università devono integrarsi con il mondo del lavoro, dare cattedre a chi le merita davvero, con concorsi trasparenti e aperti, non con i vincitori decisi a tavolino. Le tante aziende che non trovano manager devono dare spazio ai “giovani” e ce ne sono tantissimi che hanno avuto esperienze ai vertici all’estero e sono pronti a gestire team e strategie in Italia. Ma è anche ora di attrarre i talenti stranieri. Di diventare la meta preferita dei “turisti del lavoro” e non solo di quelli del selfie e del gelato. Creando un ciclo di virtuoso della migrazione, con italiani che partono alla ricerca di nuove esperienze e stranieri che vengono nel nostro Paese portando con loro un cambiamento culturale che fa bene a tutti e che farà sentire a casa gli italiani che torneranno.
C’è poi la politica: da dove iniziare? Semplificare la burocrazia e l’accesso agli incentivi che esistono, investire nelle nuove imprese, non solo con sgravi fiscali ma con la semplificazione delle licenze, della contabilità, delle mille inconvenienze che fanno dell’Italia uno dei luoghi meno attraenti per chi investe in innovazione. Spendere in scuole e ricerca. Nei giovani e nei bambini. Ambire ad avere le scuole e i servizi migliori del mondo, invece che accontentarsi della mediocrità cronica alla quale ci siamo abituati. Speranze che rischiano di rimanere tali. Tanti, troppi, hanno scritto che è da folli tornare perché è meglio godersi la vita all’estero. Li capiamo bene: è un po’ da folli rientrare e lo abbiamo pensato infinite volte anche noi. E lo penseremo ancora spesso in un futuro. Tornare sarà dura, ci saranno delusioni e difficoltà, come raccontano le lettere di chi l’ha già fatto. Ci si scontra con troppi muri, raccomandati incompetenti, amministratori attaccati alla poltrona. E per questo c’è bisogno dell’aiuto di tutti, anche a distanza. Chi è all’estero può creare partenariati con l’Italia, continuare a mettere il cuore nel promuovere l’eccellenza italiana all’estero. Lo stesso cuore di cui parla Andrea nella sua lettera in cui racconta la paura di comprare una casa più grande a Dublino, anche se i bambini ne hanno bisogno. Perché rappresenterebbe l’addio definitivo alla sua Sicilia, quella che considera ancora la sua vera casa. La speranza di vivere o tornare un giorno in un Paese diverso, civile e accogliente, tiene uniti gli italiani emigrati ovunque. Ora, tutti insieme, mettiamoci al lavoro per trasformarla in realtà.
Gaia van der Esch e Tommaso Cariati sono studenti italiani della Harvard Kennedy School of Government
Lavoro, dignità e futuro: cosa ci raccontano le storie degli italiani andati all'estero. Sono centinaia di lettere arrivate in redazione dopo la nostra copertina sui giovani in fuga all’estero. E spiegano i motivi di un fenomeno che non riguarda soltanto loro. Gloria Riva il 21 gennaio 2020 su L'Espresso. «Sono un giovane professionista, laureato ed emigrato in Svizzera. Qui ci sono tante altre persone espatriate, come me. Non siamo ricchi, neanche lontanamente, ma stiamo bene, siamo spensierati. Che è la vera fonte di benessere: quando gran parte dei propri pensieri non sono più occupati da preoccupazioni, disillusione e sconforto, allora si può iniziare a guardare oltre, a impegnarsi per fare vera innovazione, coltivare la propria ambizione, lavorare divertendosi e vivere senza sentirsi una piccola ruota dentata di un grande ingranaggio. In Svizzera ho iniziato a vedere dove realmente l’Italia ammazza le prospettive di crescita, l’ambizione, la voglia di fare». Sono centinaia le lettere che gli expat, coloro che sono andati a cercare fortuna all’estero, hanno scritto all’Espresso per raccontare la propria storia di emigrati, rispondendo all’appello lanciato dal nostro settimanale. Molte sono lunghe lettere di denuncia per un tradimento subìto: l’Italia ha offerto loro un’educazione eccellente, una laurea prestigiosa che tuttavia non è spendibile entro i confini nazionali. Tocca andare all’estero. È proprio la dignità del lavoro la prima causa di abbandono: la scorsa settimana l’Istat ha certificato che a novembre c’è stata un’impennata occupazionale, ma non c’è nulla di cui rallegrarsi, perché le nuove assunzioni sono soprattutto part-time involontari, offerti per lo più a donne che avrebbero gradito il tempo pieno. Il lavoro in Italia è malpagato, precario e spesso sessista: eccola qui la ragione che spinge molti a lasciare uno stage da cinquecento euro al mese a Roma per un contratto a tempo indeterminato a Parigi. Questo divario fra Italia e resto d’Europa ha aperto una vera e propria emergenza, a cui L’Espresso ha dedicato la copertina dello scorso 22 dicembre, “Italia Ciao” , dando la possibilità a decine di expat di scrivere una cartolina al Paese per spiegare i motivi dell’addio e dire a quali condizioni sarebbero disposti a tornare. E la condizione è sempre la stessa: un lavoro dignitoso. I dati sono drammatici, paragonabili a quelli di una grave crisi economica: l’Istat racconta che nel 2018 il numero degli expat è aumentato dell’1,9 per cento, in un solo anno se ne sono andati 117 mila connazionali. Nell’ultimo decennio gli emigranti sono triplicati: tre su quattro hanno in tasca una laurea, l’età media si aggira attorno ai trent’anni e le destinazioni principali sono Gran Bretagna, Francia, Germania, Australia e Stati Uniti. Uno stillicidio di capacità, competenze, energie che, invece di essere impiegate a favore del progresso e dell’innovazione di cui l’Italia avrebbe bisogno, vanno a favore di altri Paesi che le attirano, investono e le trasformano in protagoniste dei processi di crescita e di miglioramento. Il problema è che, al di là delle periodiche pubblicazioni statistiche, non esiste un corpo intermedio che dia loro voce, non c’è un sindacato degli expat che batta i pugni sul tavolo del ministero del Lavoro, dove tra l’altro quattro anni fa era stata istituita una cabina di regia per affrontare la questione. Ma per ora non è servita a granché. L’Espresso ha deciso di aprire l’iniziativa a tutti gli expat, dando loro la possibilità di condividere on line la propria storia, i dubbi e le prospettive per un Paese migliore, creando così il primo contenitore digitale di dialogo fra chi è rimasto in patria e chi è andato all’estero. In meno di due settimane sono arrivate oltre 150 lettere. Molti raccontano di averci provato a costruire il proprio futuro qui, ma di aver trovato un sistema vecchio, corrotto, stanco, maschilista, intollerante e clientelare, che ha impedito loro di intravvedere una prospettiva di carriera all’altezza delle proprie aspettative. Qualcuno invece è già tornato: c’è chi ha conquistato una cattedra all’università, chi ha accettato un’offerta da un’azienda privata, chi è rientrato portandosi l’intera famiglia «dopo sette anni fra Inghilterra e Berlino. È faticoso ma non impossibile. Mai come oggi questo Paese ha bisogno di persone che abbiano fatto esperienze diverse, con una mentalità aperta e internazionale, perché si ricominci a guardare le cose da una prospettiva che vuole costruire e non solo demolire o criticare. Aiutateci a farlo». La mano tesa viene dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha dedicato un’ampia parte del messaggio di fine anno a quella fiducia che va trasmessa ai giovani, «ai quali viene sovente chiesta responsabilità, ma a cui dobbiamo al contempo affidare responsabilità. Le nuove generazioni avvertono meglio degli adulti che soltanto con una capacità di osservazione più ampia si possono comprendere e affrontare la dimensione globale e la realtà di un mondo sempre più interdipendente». E ancora: «Occorre investire molto sui giovani. Diamo loro fiducia, anche per evitare l’esodo verso l’estero. Diamo loro occasioni di lavoro correttamente retribuito. Favoriamo il formarsi di nuove famiglie». L’attenzione mediatica sul tema ha almeno smosso l’interesse politico e istituzionale. Il dipartimento per le Politiche di Coesione della Presidenza del Consiglio ha avviato una serie di analisi per fare in modo che nei prossimi sei anni lo Stato e le amministrazioni locali abbiano ben chiaro che uno dei più importanti obiettivi da raggiungere è non solo la riduzione della fuga dei cervelli, ma anche la brain circulation, cioè la capacità di attirare talenti internazionali. A marzo di quest’anno sarà più chiaro il livello di interesse che lo Stato ha intenzione di porre sul tema, essendo quello il momento in cui verranno stanziati i fondi strutturali di programmazione per il periodo 2021-2027 e sarà quindi possibile capire quanto il Paese investirà e quali saranno in concreto le iniziative e le risorse per rendere l’Italia un luogo più attraente. Si parlerà invece di Rimesse 2.0 il prossimo 25 febbraio alla Maison de l’Italie di Parigi, dove Maria Chiara Prodi, presidente della commissione Nuove Migrazioni e Generazioni Nuove del Consiglio Generale degli italiani all’estero, organizzerà il primo evento sul tema, insieme al gruppo di deputati multipartisan dell’iniziativa 5x5 - Alessandro Fusacchia (Gruppo Misto), Paolo Lattanzio (M5S), Rossella Muroni (Leu), Erasmo Palazzotto (Sinistra Italiana) e Lia Quartapelle (Pd) - che, dopo l’inchiesta dell’Espresso, hanno deciso di farsi carico del problema degli expat. Così, se da un lato l’iniziativa del governo punta a creare le basi per un rilancio dall’interno, la commissione Nuove Migrazioni ha avviato un progetto per favorire rimesse di valore e competenze: «Oggi non esistono le condizioni sociali, culturali, politiche ed economiche per un rientro immediato di molti expat e le rimesse 2.0 servono proprio a favorire la creazione di un network che dia all’Italia quel contributo concreto in termini di competenze e innovazione, per rendere il Paese nuovamente attrattivo, favorendo quindi un ritorno di massa dei tanti millennial che se ne sono andati. Detto altrimenti, così come la prima generazione di migranti ridava all’Italia rimesse economiche, l’attuale seconda ondata migratoria può ridare all’Italia il contributo intellettuale che le è venuto a mancare con l’esodo di moltissime persone qualificate», spiega Maria Chiara Prodi, che nota come il fenomeno di chi se ne va sia complesso persino nella definizione: «Chi sta all’estero rifiuta spesso l’espressione “cervello in fuga”, ma anche “expat” o “emigrato”, polarizzando nettamente la percezione di sé e il fenomeno in generale. Penso sia necessario e urgente viversi semplicemente come cittadini italiani ed europei nel mondo portatori, come tutti, di diritti e di doveri, nonché di un potenziale unico, quello di poter tenere per mano italodiscendenti e nuovi italiani, di poter costruire un’Europa coraggiosa, di sentirsi al proprio posto all’interno di una comunità composita e vasta. Questo potenziale va attivato». C’è anche un risvolto politico ed elettorale finora sottovalutato. Alle Europee del 2019 l’affluenza alle urne da parte di cittadini italiani residenti in altri Paesi è stata del 7,7 per cento, contro una media nazionale del 54 per cento. E fuori dai confini nazionali il primo partito è il Pd, con il 32,7 per cento delle preferenze, mentre la Lega è al 17,9 per cento. Al contrario in Italia ha stravinto la Lega, 34,3 per cento, staccando di oltre undici punti il secondo partito, il Pd. Se gli expat italiani fossero andati alle urne tanto quanto i residenti in Italia, i partiti europeisti di centrosinistra avrebbero ridotto significativamente il divario dai sovranisti. Funziona così in Italia, ma anche negli altri Paesi, perché in Europa ci sono 17 milioni di cittadini risiedenti in uno Stato europeo diverso da quello di nascita, che godono di diritti solo a metà. Per l’ennesima volta il progetto di un’Europa unita resta incompiuto: le merci si muovono senza confini, i cittadini pure, ma non i loro diritti (e doveri). Anche per far presa sulle istituzioni continentali, tra il 9 e il 13 marzo, si svolgerà la conferenza Stato-Regioni-Province Autonome con il Consiglio generale degli italiani all’estero, il Cgie. Non si tratta solo di un’occasione per fare sintesi, ma anche un modo per mettere la politica di fronte all’evidenza di un problema non più rinviabile: l’esigenza di interrompere l’esodo degli italiani.
· Il trattato di Dublino, spiegato.
Il trattato di Dublino, spiegato. Mauro Indelicato , Sofia Dinolfo su Inside Over il 19 settembre 2020. Il superamento del Trattato di Dublino è uno degli argomenti che da sempre tiene banco all’interno dell’Unione Europea. Nel 2020 più volte il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha annunciato delle novità che andranno ad incidere sul sistema di accoglienza dei migranti da parte degli Stati membri. Ci sarà, secondo le indicazioni date dallo stesso numero uno dell’esecutivo europeo, una “nuova governance europea delle migrazioni” che si baserà su una struttura comune per quanto concerne asili e rimpatri con modalità più incisive e potrà contare su una maggiore solidarietà in tutta l’Unione nell’affrontare il problema dell’immigrazione. Almeno queste sono le prospettive, anche se a giudicare dall’andamento politico degli ultimi anni appare molto difficile poter vedere a breve delle vere modifiche al trattato.
Cos'è il trattato di Dublino. Il trattato di Dublino è stato firmato nel 1990 appunto a Dublino (Irlanda) per disciplinare la materia relativa al sistema dell’accoglienza e delle richieste d’asilo all’interno dell’Unione europea. Oltre ai Paesi comunitari, nel documento rientrano anche Norvegia, Svizzera e Islanda. Il trattato è entrato in vigore sette anni dopo, nel mese di settembre del 1997. Uno dei principi cardine che lo costituisce è quello secondo cui è lo Stato di primo approdo del migrante che deve far fronte al “sistema” accoglienza, domanda d’asilo inclusa, impedendo quindi che i richiedenti tale diritto facciano richiesta in più Stati membri. Altro punto fondamentale del trattato è quello di evitare il più possibile che vi siano richiedenti asilo detti “in orbita” e cioè che siano trasportati da uno Stato membro ad un altro. Da questi principi si evince come il trattato penalizzi i Paesi meridionali dell’Europa, Italia compresa, che registrano ogni anno l’arrivo di diverse migliaia di migranti su tutto il territorio nazionale. Adesso, stando a quanto detto dal presidente dell’esecutivo europeo, le modifiche del trattato dovrebbero proprio puntare su una maggiore solidarietà europea verso gli Stati più esposti ai flussi migratori.
Le modifiche del 2003 e del 2013. Quella annunciata dal presidente della Commissione Europea non è la prima modifica alla quale sottoporre il trattato di Dublino. Il documento ha subito già delle modifiche: nel 2003 con il regolamento “Dublino II” e nel 2013 con il regolamento “Dublino III”. La modifica del 2003 non è stata di tipo sostanziale ma più che altro formale dal momento che alcuni Paesi, Danimarca in primis, avevano rinunciato ad adottare alcune regole previste nel documento. Nel 2013 altre modifiche hanno incluso tutti gli Stati membri ad eccezione della Danimarca. Il principio cardine però è rimasto lo stesso, ovvero che lo Stato di primo approdo del migrante è quello che si occuperà dell’accoglienza e della relativa richiesta d’asilo. Ma mentre nel 1990 lo stesso principio si basava sul buon senso in quanto la percentuale delle migrazioni era contenuta, nel 2013, la situazione ha assunto prospettive diverse a causa dell’afflusso imponente di migranti. Sono state quindi sollevate numerose polemiche sulla possibilità di rivedere il trattato con modifiche innovative basate sul mutato conteso socio politico.
Le controversie legate a Dublino. Se negli anni della firma del primo trattato di Dublino il fenomeno era ridimensionato, con l’aumento del numero degli sbarchi soprattutto lungo le rotte del Mediterraneo i principi cardine previsti dal regolamento hanno creato più di un grattacapo ai Paesi del sud del vecchio continente. In particolare, la circostanza secondo cui i migranti devono chiedere asilo soltanto nello Stato di primo approdo, ha rappresentato per Italia e Grecia un onere gravoso che ha avuto conseguenze importanti anche sul piano interno. Infatti sono proprio Roma e Atene che ogni anno ricevono lungo le proprie coste il maggior numero di migranti salpati dal nord Africa e dalla Turchia. Una circostanza che ha comportato situazioni difficili nella gestione dell’accoglienza. Migliaia di migranti infatti sono dovuti rimanere nei Paesi di approdo in attesa dell’esito della domanda di asilo. Per tal motivo, specialmente dopo le primavere arabe del 2011, sono stati riscontrati gravi problemi nel sistema di accoglienza italiano e greco, con i due rispettivi governi spesso impossibilitati a far fronte da soli al problema. Inoltre il divieto di movimenti secondari interni all’Ue da parte dei richiedenti asilo, ha comportato il respingimento di migranti da parte di altri Paesi, a partire soprattutto da Germania, Francia e Austria, verso gli Stati di primo approdo. In Italia, ad esempio, nel 2019 sono stati di più i richiedenti asilo riportati all’interno del nostro territorio da altri Stati dell’Ue che i migranti sbarcati lungo le nostre coste. Secondo le statistiche delle autorità di Berlino, nel solo 2018 sono emersi 35.375 casi conclamati di movimenti secondari che hanno riguardato la Germania. Ogni mese dal territorio tedesco partono diversi aerei che rispediscono indietro, soprattutto in Italia, le persone protagoniste dei movimenti secondari.
Le proposte di modifica. In poche parole, l’applicazione del trattato di Dublino negli ultimi anni soprattutto ha mostrato non poche lacune che hanno portato i Paesi più coinvolti nel fenomeno migratorio a chiedere importanti modifiche. Sotto accusa è soprattutto il principio dell’onere esclusivo nell’accoglienza e nell’esame delle domande di asilo da parte dello Stato di primo approdo. Per superare questi limiti, sono state diverse le proposte di modifica presentate soprattutto negli ultimi anni in sede comunitaria, oltre alle due modifiche già ratificate nel 2003 e nel 2013. Complessivamente sono state avanzate sia proposte più “soft” che invece di radicale riforma del trattato di Dublino. Tra quelle del primo gruppo ci sono i regolamenti, chiesti soprattutto dai Paesi del sud Europa, per introdurre meccanismi automatici di ricollocamento dei migranti arrivati in territorio comunitario. Dunque, i principi sanciti da Dublino con queste eventuali modifiche non sarebbero stati toccati, ma al contempo l’obiettivo si sarebbe arrivati a una gestione solidale dell’accoglienza e delle domande di asilo. Il 23 settembre 2019 a Malta cinque governi dell’Ue, tra cui quello italiano, hanno avanzato una proposta sui ricollocamenti automatici dei migranti la quale però non ha avuto seguito in ambito comunitario. Tra le proposte di riforma più radicale invece, vanno annoverate quelle della commissione europea del 2015 quando a capo dell’esecutivo Ue vi era Jean Claude Juncker. Tuttavia su quel documento non si è poi trovata alcuna intesa. Nel novembre 2017 il parlamento europeo ha approvato una modifica sostanziale del regolamento di Dublino e dei meccanismi di asilo e protezione in ambito comunitario, ma anche in quel caso sul testo non si è trovato alcun accordo tra i vari Stati membri e quindi la riforma è naufragata. Più di recente, nel settembre del 2020 il presidente della commissione europea Ursula Von Der Leyen ha parlato di una prossima riforma sull’immigrazione da presentare in parlamento, in cui i principi di Dublino dovrebbero essere superati.
· La Sanatoria dell’Invasione.
Chiara Giannini per “il Giornale” il 3 dicembre 2020. Usavano il reddito di cittadinanza per finanziare il terrorismo internazionale: si tratta di due tunisini di 50 e 33 anni che sono stati denunciati dalla Guardia di Finanza di Bologna in quanto, fino allo scorso aprile, avvalendosi di un money transfer in provincia di Ferrara, versavano soldi a un pericoloso foreign fighter islamico, ex combattente dell' Isis iscritto nelle liste dell' antiterrorismo del Belgio e localizzato in Tunisia. Da quanto risulta, il cinquantenne, che è cittadino italiano e sul territorio nazionale da metà anni Novanta, aveva lavorato stabilmente nel nostro Paese fino al 2015. L' anno successivo si era trasferito in Francia, dove tuttora ha un impiego, subaffittando una casa Ater al 33enne, arrivato una quindicina di anni fa. Entrambi percepivano illegalmente il reddito di cittadinanza, attestando il falso all' Inps. In particolare il secondo aveva dichiarato un nucleo familiare inesistente. La somma percepita si attesta intorno ai 12mila euro, che ora dovranno essere restituiti. Sulla vicenda si è aperto un ampio dibattito. «Nelle ore in cui la Camera lavora per smantellare i Decreti sicurezza - ha dichiarato il leader della Lega, Matteo Salvini - , umiliando l' Italia che attende risposte su emergenza sanitaria ed economica, due tunisini vengono accusati di usare il reddito di cittadinanza per finanziare il terrorismo internazionale. Questo governo mette in pericolo l' Italia e - come dimostra anche il caso del killer di Nizza - tutta Europa. Il Paese merita di più e di meglio». A fargli eco la senatrice del partito del Carroccio, Lucia Borgonzoni: «Ci aspettiamo un' immediata presa di posizione da parte del ministro Lamorgese mentre porgiamo i ringraziamenti alla Guardia di Finanza di Bologna». Per l'onorevole Fabio Rampelli (Fdi): «Dell' improduttivo reddito di cittadinanza, dopo essere stato erogato a pregiudicati e mafiosi scopriamo che hanno beneficiato anche i terroristi islamici. Caro premier Conte, lo aboliamo il Rdc oppure lo estendiamo anche ai nuovi clandestini che arriveranno in Italia grazie a questo Dl sicurezza che favorisce l' immigrazione irregolare?». Il senatore Maurizio Gasparri (Fi) non le manda a dire: «Oggi si è veramente raschiato il fondo del barile per uno dei peggiori provvedimenti della storia della Repubblica italiana, figlio della politica qualunquista e assistenzialista di un errore democratico del quale pagheremo il prezzo per molti anni ancora, i grillini». La presidente dei senatori di Forza Italia, Anna Maria Bernini, specifica: «Forza Italia ha denunciato più volte le gravi anomalie con cui è stato erogato il reddito di cittadinanza, chiedendo criteri più rigidi perché il sussidio arrivasse solo a chi ne ha effettivamente bisogno. Ringrazio la Guardia di Finanza di Bologna per l' operazione con cui ha smascherato questa truffa, ma mi chiedo cosa aspetti il governo a rivedere una misura che in troppi casi è stata oggetto di facili quanto incredibili abusi». Il deputato Francesco Lollobrigida, capogruppo di Fratelli d' Italia alla Camera spiega che «questa è l' ennesima dimostrazione di come il cavallo di battaglia dei Cinquestelle si sia trasformato in una vera e propria manna per delinquenti e potenziali terroristi». Persino Debora Serracchiani (Pd) tiene a dire: «Bene che si apra una discussione: così il Reddito di Cittadinanza non funziona perché una cosa è la lotta sacrosanta alla povertà e al disagio, altra cosa sono le politiche attive del lavoro».
Chiara Giannini per “il Giornale” il 22 novembre 2020. Vengono in Italia come clandestini e poi girano video in cui simulano di mozzare la testa a qualcuno, come fanno i tagliagole radicalizzati. Succede nel centro di prima accoglienza di Monastir, in Sardegna, dove il rapper Daniel Rouge, algerino arrivato ad agosto su un barcone dalle coste del Nord Africa, ha girato un filmato, assieme ad altri suoi connazionali, in cui si vede chiaramente la struttura e in cui i messaggi e le allusioni appaiono più che chiare. Nel testo della canzone rap l' aspirante artista racconta la condizione di vita disagiata di chi arriva in Italia, usando termini tipici delle Banlieu e dei quartieri degradati di certe città a maggioranza araba. In una scena si simula anche lo spaccio di droga. Un filmato all' attenzione della questura di Cagliari, che sta indagando riguardo a possibili illeciti amministrativi o a reati di tipo giudiziario, soprattutto dopo gli ultimi episodi nel centro di Monastir, dove 8 persone sono state arrestate in seguito a risse e aggressioni. Il deputato della Lega Eugenio Zoffili, coordinatore per la Sardegna, chiarisce: «Mentre noi cittadini perbene rispettiamo le regole e siamo costretti a stare chiusi in casa, i clandestini del centro accoglienza di Monastir se ne fregano e oltre ad evadere, rubare, molestare minorenni, fare risse, occupazioni, attaccare le forze dell' ordine, ubriacarsi e altro ancora girano pure questo video rap». «Al ministro dell' Interno Lamorgese e al Prefetto di Cagliari, anche a fronte delle reiterate denunce del Sindacato Autonomo di Polizia Sap - conclude - nel rispetto dei cittadini italiani e sardi che non ne possono più di vergogne simili e in particolare nel rispetto della dignità di ogni agente delle forze dell' ordine che giorno e notte lavora senza sosta e sotto organico rischiando anche la propria salute per tenere a bada questi delinquenti, attraverso l' ennesima interrogazione parlamentare urgente, chiedo la chiusura del centro e il rimpatrio immediato di tutti gli algerini e degli altri clandestini». Il rapper, nonostante abbia un decreto di espulsione, in questo momento risulta essere a Roma, come risulta dal suo profilo Facebook, insieme alla sorella minorenne, anche lei ripresa nel video. «È un tipo di atteggiamento sconfortante- chiarisce il deputato leghista Gianni Tonelli -. Gli algerini non scappano dalla persecuzione. Infastidisce l' atteggiamento di superbia che hanno. È un problema di etica di comportamento nelle relazioni sociali. Quando si arriva, si deve entrare in punta di piedi. Questa è prevaricazione, la sfida è superiorità. Ci disprezzano ed è inaccettabile. Chi ha bisogno non usa comportamenti così». Il segretario del Sap di Cagliari, Luca Agati, tiene a dire: «È tanto tempo che denunciamo l' inadeguatezza di quella struttura che ci vede esposti in prima linea agli atteggiamenti anche aggressivi degli ospiti. Sarebbe il caso di chiuderlo in virtù della pericolosità a cui vengono esposti gli agenti di polizia ogni giorni».
Quei migranti fantasma impossibili da identificare. Mauro Indelicato , Sofia Dinolfo su Inside Over il 10 ottobre 2020. Nell’immaginario collettivo quando si parla di migranti africani l’idea è associata a quelle imbarcazioni precarie che, cariche di persone, dal continente attraversano il Mediterraneo per arrivare in Europa. Il più delle volte si trascura però che il fenomeno migratorio fa registrare dei movimenti anche all’interno dell’Africa con un trend dai connotati assolutamente rilevanti. Il fenomeno ha i suoi effetti nei Paesi europei nel momento in cui gli africani decidono poi di spostarsi verso l’Europa. Il motivo è legato alla fase di approdo nella nuova nazione: qui i migranti o dichiarano di essere cittadini del loro Paese africano d’origine o del Paese africano in cui hanno vissuto in un secondo momento prima di lasciare il Continente. La conseguenza è il rischio di ritrovarsi di fronte a delle persone la cui origine rimane sconosciuta.
Le migrazioni dentro l’Africa. Sono numeri importanti quelli che descrivono i movimenti migratori che avvengono all’interno dell’Africa. In un report diffuso dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD), è emerso che sono stati 36 milioni gli africani che nel 2017 hanno intrapreso i viaggi migratori alla ricerca di un nuovo modo di vivere. Di questi, 19 milioni si sono spostati all’interno dello stesso continente, mentre 17 milioni sono emigrati fuori. Ai dati presi in considerazione bisogna aggiungere anche quelli relativi ai movimenti di chi si sposta all’interno della stessa nazione senza uscire fuori dai confini statali. Si tratta di spostamenti che avvengono per cercare un lavoro con condizioni di vita più dignitose. Fra questi, negli ultimi anni, stanno aumentando anche i trasferimenti dovuti agli effetti del cambiamento climatico che causa disastri ambientali. I Paesi destinati ad accogliere i migranti sono spesso quelli aventi un’economia diversificata come ad esempio il Sudafrica, la Costa D’Avorio e la Nigeria. Ma ci sono poi altre nazioni che, per la loro posizione geografica, sono meta di chi scappa da guerre. In tal senso gli spostamenti avvengono verso l’Uganda, l’Etiopia e il Kenya. I flussi migratori che dal continente africano seguono la rotta del Mediterraneo, sono invece quelli che hanno come base di partenza il nord Africa. Ma spesso accade che, dopo diversi movimenti migratori all’interno del continente africano, si arrivi proprio all’estremo Nord e da qui si parte per l’Europa con una cittadinanza che può rimanere sconosciuta a chi ospita i nuovi arrivati.
L’identificazione impossibile: il caso emblematico della Costa d’Avorio. Un contesto piuttosto emblematico di questa situazione è quello riguardante la Costa d’Avorio. Da qui si parte sempre di più, a settembre erano già più di mille i migranti ivoriani sbarcati in Italia in questo 2020: “Ma non è detto che provengano tutti da lì – ha fatto sapere una fonte diplomatica a Insideover – Anzi, il governo locale spesso fa presente che sono molto pochi gli ivoriani a partire”. Il perché di questa discrepanza tra i dati è da ricercare nel fatto che la Costa d’Avorio è storicamente uno dei Paesi in cui emigrano gli africani che rimangono nel continente: “Questo è un fatto che ha sempre contraddistinto la Costa d’Avorio – ha proseguito la fonte diplomatica – Già negli anni ’60 il presidente Félix Houphouet-Boigny, avendo molte terre libere e poca manodopera, ha aperto i confini agli stranieri”. Dunque verso il Paese africano si è sempre emigrato. E oggi che da qui partono importanti flussi migratori verso l’Europa e l’Italia, potrebbero verificarsi due situazioni: che lungo le nostre coste arrivino ivoriani di seconda o terza generazione oppure cittadini di altri Paesi africani da anni residenti in Costa d’Avorio. In entrambi i casi, mentre i migranti dichiarano di essere ivoriani a tutti gli effetti, il governo locale più volte ha ribadito l’opposto. E cioè che non bisogna considerare questi due gruppi di immigrati come cittadini provenienti dalla Costa d’Avorio.
I problemi per i Paesi di primo approdo. L’accertamento della nazionalità di un migrante non è un problema soltanto di ordine burocratico, bensì anche politico. Il governo ivoriano ad esempio potrebbe trarre vantaggio dal ridimensionare la portata del flusso migratorio originato dal proprio Paese, sia perché avrebbe meno responsabilità e sia perché potrebbe essere interessato da un minor numero di rimpatri. Il caso della Costa d’Avorio è solo un esempio, forse quello più emblematico, ma sono diverse le realtà simili da cui una precisa identificazione del migrante appare molto difficile. E questa circostanza porta a non pochi problemi per i Paesi di primo approdo, a partire dall’Italia. Se un migrante dichiara di essere cittadino di una determinata nazione e il governo interessato nega tale circostanza, in caso di espatrio oppure di altri provvedimenti, quali tra tutti l’esame della domanda di asilo, potrebbero subentrare numerose problematiche. Anche perché l’identificazione di chi arriva sta alla base della gestione del fenomeno migratorio. Non avere chiarezza su questo dato vorrebbe dire avere difficoltà anche nell’amministrazione dell’accoglienza.
Il mercato nero dei contratti e degli indirizzi falsi creato dalla sanatoria migranti. La norma che avrebbe dovuto regolarizzare migliaia di stranieri sul nostro territorio si è trasformata in un affare per i caporali diventati intermediari. E molti migranti pagano migliaia di euro per un pezzo di carta fasullo ad aguzzini e imprenditori senza scrupoli così da ottenere il permesso di soggiorno. Collettivo Lorem Ipsum il 21 agosto 2020 su L'Espresso. Ficou guarda davanti a sé con lo sguardo fisso, la voce bassa che incespica sull’italiano a ripetere come una preghiera vergognosa quello che è successo. «Ho dato a Massimo mille euro e lui è sparito». Viene dal Senegal, ha 24 anni e da quattro è arrivato in Italia. «Sulla barca, dalla Libia». Poi un anno in Francia, a cercare una fortuna che qua in Italia non aveva trovato e che nemmeno lì troverà. A Roma, però, si apriva la prospettiva, per un irregolare come lui, di potersi finalmente mettere a posto. Uno spiraglio chiamato sanatoria, figlia della pandemia e di un apparente moto di giustizia sociale per i migranti, che è diventata per Ficou e per altri 600 mila uno dei pochissimi accessi al permesso di soggiorno. Il problema, però, è che per attivare la procedura - introdotta con il decreto Rilancio e accessibile dal 1 giugno al 15 agosto 2020 - bisognava lavorare in uno di questi tre settori: agricoltura, lavoro domestico e assistenza alla persona. Chi si guadagnava da vivere in altri campi, come l’edilizia e la ristorazione, è rimasto escluso. E così si è creato un mercato di contratti falsi, venduti da datori di lavoro italiani a cifre che arrivano fino a 8 mila euro, grazie all’aiuto di intermediari stranieri che hanno approfittato delle difficoltà dei connazionali per raggirarli. Una vera e propria “compravendita delle indulgenze”, in cui si è promesso il paradiso a costi altissimi per centinaia di migliaia di lavoratori. Le lacrime commosse della ministra del Lavoro Teresa Bellanova sembrano lontanissime da quello che è successo in strada e online, dove si sono moltiplicati i datori di lavoro disposti a spacciare contratti falsi a prezzi esorbitanti.
“PERCHE’ VENIAMO IN ITALIA? AVETE LEGGI MENO RESTRITTIVE DELLE NOSTRE”. Chiara Giannini per ilgiornale.it il 19 luglio 2020. La San Savino della Siremar, il traghetto che fa la spola tra Lampedusa e Porto Empedocle, attracca in banchina che sono già le 20.30. Sul molto diversi blindati della polizia e cinque autobus pronti a caricare quei 240 migranti traportati dall'isola invasa dai clandestini fino alla Sicilia, in quello stesso tratto di mare in cui è ancorata la Moby Zazà, la nave per la quarantena approntata dal governo che solo per i rifornimenti entra in porto. La gente è esasperata. «Abbiamo viaggiato sullo stesso traghetto - racconta un agrigentino -, sebbene distanziati. Ma quasi ogni giorno è così e nonostante ci sia chi fa la santificazione a bordo, il rischio di contrarre il Covid-19 è sempre alto. Abbiamo paura? Sì. Ormai parlano della nostra terra solo per i migranti, ma la Sicilia è altro. È turismo e cultura. Siamo stanchi». Umberto Prestia, responsabile della Lega a Porto Empedocle è sceso al porto per vedere l'ennesimo arrivo degli immigrati. «La nostra città - spiega - seppur martoriata dai ripetuti sbarchi, è una zona CovidFree. Nonostante il danno di immagine che stiamo subendo da parte della scellerata gestione del governo riguardo al fenomeno dell'immigrazione clandestina, Porto Empedocle è sicura per tutti i turisti. I postumi del lockdown - prosegue - sono ancora evidenti, soprattutto per quel che riguarda i commercianti e i loro dipendenti. Ma noi siamo felici di accogliere i turisti che intenderanno far tappa qui». Gli sbarcati, quasi tutti tunisini, con qualche eccezione per alcuni soggetti che arrivano dal Bangladesh, salgono sui pullman. Per ogni mezzo 55 persone, senza distanziamento sociale. Circa 190 di loro sono destinati a un centro di accoglienza di Caltanisetta, i restanti a Villa Sikania. «Guardate - ci dice un residente -, dicono che scappano dalla guerra, ma sono abbigliati come noi, sorridono e scherzano tra loro. Non ci risulta che in Tunisia ci sia la guerra». Dalla rete di protezione riusciamo ad avvicinarci e a chiedere in francese a un migrante: «Perché sei qui?». Ci risponde senza esitare: «Avete leggi meno restrittive delle nostre». Eh sì, perché il controsenso sta tutto nelle non decisioni del governo. Chi arriva in aereo viene rimandato indietro, chi giunge sulle coste siciliane da clandestino viene accolto tra tutti gli onori, visitato, rifocillato, mantenuto. E finito il periodo di quarantena, se non scappa prima dagli hotspot o dai centri di prima accoglienza, se proviene da un Paese come la Tunisia viene munito di un foglio di via, che gli imporrebbe il ritorno in Patria, visto che i rimpatri sono fermi a causa dell'emergenza Covid. Una bella fregatura, perché poi rimangono tutti qui. «Il grande bluff - tiene a dire una signora appena scesa dal traghetto - perché li dobbiamo mantenere noi. Poi ce li ritroviamo per le strade, a bivaccare, a chiedere le elemosina, a delinquere. Ma il premier Conte perché non viene a vedere con i propri occhi». Un poliziotto le fa eco: «Il ministro Lamorgese idem, non l'abbiamo mai vista a Lampedusa, neanche sa in che condizioni dobbiamo lavorare, con turni massacranti, rischiando di ammalarci perché i dispositivi di sicurezza non sono sufficienti». Sulla nave della Siremar, che in alcune occasioni per portare i migranti ha lasciato a piedi turisti e residenti, solo 20 agenti a fare da contorno a 240 clandestini. I due pesi e le due misure che ci sono tra l'essere italiano e l'essere clandestino. «Uno schiaffo ai morti del periodo di lockdown e alle loro famiglie - ci dice qualcuno - che per evitare il contagio non hanno più potuto vedere i loro cari, mentre questa gente è libera di circolare rischiando di portarci altri clandestini».
ANACONDE A SPASSO – VIDEO! A TARQUINIA UNO STRANIERO SI È SPOGLIATO COMPLETAMENTE E HA INIZIATO A BALLARE CON IL RETTILE IN BELLA VISTA – L’ALTRO GIORNO A SIRACUSA PASSANTI IN TILT PER L’EXTRACOMUNITARIO COMPLETAMENTE NUDO A PASSEGGIO CON L’ARNESONE ALL'ARIA.
Da tusciaweb.eu il 19 luglio 2020. Attimi di imbarazzo, e anche qualche risata, stamani all’alba. Un uomo di origine straniera si è spogliato completamente e ha iniziato a ballare lungo via delle Rose, a ridosso del centro storico di Tarquinia. Incurante delle auto di passaggio e vestito solamente con un paio di cuffie collegate a uno smartphone, l’uomo ha ballato per alcuni minuti al centro della strada prima di liberare il passaggio. Il tutto mentre alcuni passanti e residenti hanno immortalato la danza con i propri cellulari.
Pd e M5s lanciano il festival Ong: cancellate le multe milionarie. Pronta la riforma dei dl Salvini. In caso di violazione, si applica il Codice dalla navigazione: sanzioni alle Ong di 560 euro. E torna la protezione umanitaria. Bartolo Dall'Orto, Mercoledì 15/07/2020 su Il Giornale. Cambia tutto, o meglio tutto torna come prima. La maggioranza gialloverde è pronta a dire addio ai decreti sicurezza che hanno caratterizzato l’esperienza di governo targata Lega e M5s. Esulta il Pd, che trova una mediazione sbilanciata a suo favore. E arrossisce il Movimento, che quei dl Salvini aveva contribuito ad approvare. Il fulcro della bozza di riforma, redatta dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, ruota attorno alla riduzione delle multe milionarie contro le Ong che violano i divieti di ingresso nelle acque territoriali. Se la nave umanitaria effettua una operazione di Ricerca e soccorso, comunicandolo sia al Centro di coordinamento competente che allo Stato di Bandiera, allora non incorrerà in alcun divieto. In caso contrario, scrive però Repubblica, la violazione non verrà sanzionata con la multa emessa dalla prefettura contro l’armatore, ma sarà il giudice a decidere. L’Ong, infatti, all’ingresso in acque territoriali rischia di incorrere nella violazione del Codice della navigazione, punito con 2 anni di carcere e una sanzioe modestissima: solo 560 euro contro la forbice che va da 250mila euro a un milione che il prefetto era autorizzato a comminare grazie ai dl Salvini. E niente arresto per il comandante o sequestro immediato dell'imbarcazione, come previsto dalla normativa vigente. M5s e Pd si sono visti ieri insieme alla Lamorgese. Entro dieci giorni dovrebbero incontrarsi di nuovo per limare gli ultimi dettagli del testo. Poi la proposta verrà portata da Lamorgese in Consiglio dei ministri. Resta per ora sul piatto la possibilità di lasciare le multe da 10mila a 50mila euro, come previsto nel primo decreto Sicurezza. Ma il nodo deve ancora essere sciolto. Le altre novità targate M5s-Pd riguardano i permessi di soggiorno e lo Sprar. Torna la protezione umanitaria, anche se non si chiamerà così e forse non sarà di maglie così larghe come lo era prima dell’intervento della Lega. I permessi speciali verranno estesi a chi rischia di subire nel suo Paese "trattamenti inumani e degradanti", a chi necessita di cure mediche e a chi proviene da Stati dove siano in corso "gravi calamità". Inoltre, dopo la sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale il divieto di iscrivere all’anagrafe i richiedenti asilo, l’idea ora è quella di assegnargli anche una sorta di carta di identità della validità di tre anni. Si dimezzano anche i tempi di permanenza nei Centri per il rimpatrio, che scendono da 180 a 90 giorni. L’ultima novità riguarda lo Sprar: potranno accedervi, di nuovo, anche i richiedenti asilo. Ma saranno i Comuni, che già assicurano il servizio a titolari di protezione umanitaria e minori non accompagnati, a decidere se accoglierli e fornire loro servizi per l’inclusione.
Migranti, la maxi-sanatoria diventa un maxi-autogol. Non c'è nulla di strano nel flop della sanatoria per gli immigrati voluta dalla ministra Teresa Bellanova. Non è colpa della burocrazia né dei padroni delle aziende agricole. Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 11/06/2020 su Il Giornale. Non c'è nulla di strano nel flop della sanatoria per gli immigrati voluta dalla ministra Teresa Bellanova. Non è colpa della burocrazia né dei padroni delle aziende agricole. Era tutto ampiamente prevedibile e non c'era bisogno di rivolgersi a un aruspice per capirlo. Sarebbe stato sufficiente ascoltare le parole dei rappresentanti di categoria e degli addetti ai lavori. Ricapitoliamo: nel mese di maggio la ministra per le politiche agricole annuncia, in lacrime, una maxi sanatoria per centinaia di migliaia di migranti. Lo scopo? Regolarizzare un esercito di agricoltori, badanti e colf. Un bisogno impellente che sui giornali di sinistra diviene un vero e proprio allarme: senza i migranti in primavera rischiamo di rimanere senza frutta e verdura. A parte l'ambiguità di una posizione che, se fosse partita da destra sarebbe stata bollata come in odore di schiavismo, la decisione della ministra si scontra subito con la realtà. Le aziende agricole italiane non hanno bisogno di tutte quelle persone e, soprattutto, hanno bisogno di personale qualificato. «Temo che pochi dei 600mila immigrati che si intende regolarizzare saranno impiegati in agricoltura - dice al Sole24Ore Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura, lo scorso 7 maggio -. È ora di finirla con l'idea dell'attività agricola che può essere svolta da chiunque. Non si può potare un vigneto, operare in una serra o guidare macchine agricole senza alcuna competenza. Anzi, quanto più un operaio è specializzato, maggiori sono le probabilità che venga stabilizzato». Chiarissimo, no? A tutti, ma non alla Bellanova. «Temo che ci siamo focalizzati troppo sulla sanatoria degli irregolari. Mentre era fondamentale riaprire quanto prima i corridoi verdi che avrebbero riportato in Italia manodopera specializzata», gli fa eco Ettore Prandini, presidente di Coldiretti. Insomma, la ricetta è semplice: aprire i «corridoi verdi», come avevano già fatto molti Paesi europei, per fare tornare gli esperti del settore. Ma la Bellanova ai corridoi verdi preferisce le scorciatoie rosse. Anche se poi si dimostrano dei vicoli ciechi. Un'occasione troppo ghiotta per «fare qualcosa di sinistra» a favore di telecamera. Così arriviamo al risultato di questi giorni: alla fine su 600mila migranti (secondo i 5 Stelle 220mila) solo 9.500 hanno chiesto di aderire alla sanatoria. La maxi sanatoria in realtà era solo un maxi spot elettorale che si è tramutato in un maxi flop, anche se la ministra, dalle colonne di Repubblica, rivendica la sua scelta e scarica le colpe su misteriosi boicottatori. Ancora una volta l'ideologia ha prevalso sul pragmatismo e, alla fine, non ci ha guadagnato nessuno. Nemmeno i migranti. Forse solo la Bellanova che, per qualche settimana, ha potuto sfoggiare la coccarda buonista di una sanatoria inesistente.
Alessandra Ziniti per “la Repubblica” il 16 giugno 2020. Arrivano da mare ma anche da terra. Dalla Libia e dalla Tunisia, su gommoni e barchini, ma anche dalla rotta Balcanica. Il 40 per cento in più di sbarchi nel Mediterraneo solo a maggio, dieci volte di più dal confine sloveno. E l'Italia è solo la porta d'ingresso di un flusso migratorio la cui pressione sui confini preoccupa l'Europa dove è ancora lontano l'accordo sul pacchetto di proposte a cui sta lavorando la commissione europea, dalla riforma del regolamento di Dublino alla ricollocazione obbligatoria di chi arriva. I numeri diffusi ieri dall'Agenzia europea Frontex raccontano di una forte ripresa dei viaggi dopo il lockdown con un consistente aumento rispetto ad aprile mese in cui, naturalmente, la pandemia aveva fortemente condizionato i flussi. Soprattutto sulla rotta terrestre, con il sospetto che la Turchia abbia ripreso a far partire le migliaia di migranti ammassati al confine con la Grecia. «Ci sono stati più di 900 ingressi illegali su questa rotta a maggio - scrive Frontex - dieci volte di più rispetto al mese precedente. Nei primi cinque mesi del 2020, il numero degli arrivi è aumentato del 50 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, circa 6900». Già da prima del lockdown il Viminale aveva posto particolare attenzione agli arrivi dal confine del Friuli-Venezia Giulia disponendo l'invio di contingenti delle forze dell'ordine e dell'esercito per i pattugliamenti. E molte associazioni, tra cui l'Asgi, denuncia decine di riammissioni in Slovenia di afghani, pachistani, siriani, iracheni che si traducono in respingimenti verso la Croazia e la Bosnia. Anche i trafficanti libici e tunisini hanno ripreso a far partire i barconi: sono 5.638 gli sbarchi in Italia nel 2020, quasi il triplo rispetto all'anno scorso. Due Ong sono tornate in missione ma nell'ultima settimana non hanno soccorso nessuno. Ma non è la rotta del Mediterraneo centrale la più battuta, bensì quella orientale verso la Grecia dove nei primi cinque mesi dell'anno sono transitati in 12.700, soprattutto afghani. Quadruplicati anche gli arrivi dal Mediterraneo occidentale, circa 3700 dal Marocco o dall'Algeria. Complessivamente, sono 31.600 gli immigrati che nel 2020 sono entrati illegalmente in Europa, il 6 per cento in più dell'anno scorso.
Massimo Calandri per “la Repubblica” il 16 giugno 2020. Anche ieri sono arrivati almeno in 30, comprese due famiglie siriane con 6 bambini. E al confine, come tutte le mattine dall'inizio di giugno, la gendarmerie ne ha ricacciati indietro altri 45, a spintoni e male parole. Migranti. Con la riapertura delle regioni, i controlli meno severi alla frontiera slovena, hanno cominciato a raggiungere Ventimiglia. L'ultima città italiana prima della Francia. Dove ci sono come minimo 6 valichi per provare ad espatriare e continuare così un viaggio che dalla rotta balcanica porta - forse - a un mondo migliore: il Nord Europa. «È stato come aprire una diga», dicono le organizzazioni umanitarie. Sì, ma oggi quel flusso di vite e speranze si ferma lì. In una città che il sindaco, Gaetano Scullino, suo malgrado, definisce «un imbuto ». «Perché coi poliziotti francesi non si passa. Neppure le mamme, i piccoli in braccio. Quelli se ne fregano: ci rimandano anche qualcuno che magari è entrato da loro attraverso altri Paesi». Il centro della Croce Rossa è chiuso per ragioni di sicurezza, dopo un caso di Covid. «Agli stranieri non rimane che dormire sulla spiaggia. Si arrangiano sull'erba dei giardini pubblici o s' accampano sul greto del fiume Roja. In attesa di riprovare ad andare dall'altra parte. Oggi sono 500. Tanti minorenni. Nel giro di una decina di giorni, la situazione rischia di essere fuori controllo». Cinque anni fa, la barriera italo-francese - con la chiesa trasformata in dormitorio e poi la tendopoli, gli sgomberi - finì sotto i riflettori del mondo. «Allora nella mia gente c'era più comprensione, disponibilità. Oggi, non so. Qui si vive di turismo. E siamo reduci da mesi impossibili». Marsha Cuccuvé è la responsabile del Campo Roja, centro di transito gestito dalla Croce Rossa. Ha 28 anni, e ha appena trascorso un mese e mezzo di quarantena con 240 ospiti. Era stato segnalato un caso di Coronavirus: un pachistano, ricoverato in ospedale e guarito. Poi un bimbo nigeriano è risultato "debolmente positivo". «E insomma, abbiamo riaperto i cancelli il 20 maggio scorso. Tutti sono stati disciplinati, l'Asl ci ha monitorato ogni giorno: stiamo bene, benissimo». Però la Prefettura non permette di accogliere altri ospiti, per il momento. «È un delitto, perché avremmo molti spazi disponibili. In passato siamo arrivati ad ospitare oltre 600 persone». In un meno di un mese, il numero di presenze si è ridotto ad un centinaio, 7 donne. «È un centro di transito». Che fine hanno fatto, quelli hanno lasciato il Campo? Hanno provato ad andare in Francia, prima o poi ci riusciranno. Succede sempre così. «Non ci sono muri che possano fermare il diritto e la voglia di vivere ». Ma nel frattempo? C'è un ferroviere francese che è in malattia da più di un anno. Da quando col suo treno ha travolto e ucciso un migrante in galleria. La storia la racconta Christian Papini, direttore del centro Caritas che sta proprio accanto alla stazione. C'è chi si arrampica sui tetti dei convogli diretti in Francia, ma non sa che dopo la frontiera il voltaggio elettrico raddoppia e finisce folgorato. O asfissiato nelle sale macchine, dove prova a nascondersi durante il viaggio. I dipendenti delle Ferrovie francesi a Ventimiglia distribuiscono volantini, per scoraggiare chi tenta di entrare in quel modo. «Intanto i migranti guardano i treni passare, la Francia è giusto la fermata dopo. Come se ad uomo che muore di fame gli si mette sotto il naso un banchetto: voi riuscireste a resistere?», chiede Papini, insieme alla collega Serena Regazzoni. Sono tornati a lavorare i passeurs , che garantiscono il passaggio oltre frontiera. «Prima costava 150-200 euro, adesso ne chiedono anche a 500», racconta Jacopo Colombo, di Weworld. Ma poi arriva la gendarmerie. La polizia di frontiera italiana conferma: «Ogni giorno, rimandano indietro una media di 40-50 persone». Gli agenti italiani fanno lo stesso con gli irregolari che dalla Francia provano a venire in Italia scommettendo sulla recente sanatoria. «Quattro o 5 al massimo». «Dopo il passato, gli hanno tolto il futuro. La fame, e la sete di vita»: sono le parole di una targa che accompagna il monumento al cane randagio, eretto vicino alla foce del fiume Roja, all'inizio della passeggiata di Ventimiglia. Ieri sera un gruppo di ragazzi africani ha dormito lì, nascosto tra le siepi. Come cani. «Il ministero dell'Interno deve ripristinare quel servizio di pullman che alla frontiera recupera i migranti cacciati dalla Francia, e li porta direttamente nei centri di accoglienza», dice Scullino, che nella sua città non li vuole. Era sindaco anche dieci anni fa. «Mi ritrovai a gestire l'arrivo di 25.000 tunisini, dopo la primavera araba. Vi giuro, oggi è più difficile. Serve che qualcuno lo dica ben chiaro e forte a tutta questa gente: non venite a Ventimiglia, perché i francesi non vi faranno passare». Non ora, almeno.
Quel paesino di 84 abitanti dove il governo vuole mandare 100 immigrati. Ira dei cittadini: "Perché vogliono distruggere e sostituire la nostra comunità?". Salvini va all'attacco: "Pd e 5 Stelle sono veloci a mandare a casa i boss e a spalancare i porti ai clandestini". Luca Sablone, Sabato 09/05/2020 su Il Giornale. Sembra una notizia assurda, impossibile, incredibile e fantascientifica ma rappresenta una cruda realtà: un Comune italiano rischia di essere quasi completamente "sostituito" dall'arrivo di 100 immigrati. Stiamo parlando di Carapelle Calvisio, un paesino della provincia de L'Aquila di appena 84 abitanti. I migranti starebbero per essere ospitati in una struttura messa a disposizione dalla "Caritas dell'Arcidiocesi di Pescara-Penne Onlus" per il periodo di sorveglianza sanitaria. Arroccato su una delle propaggini meridionali del Gran Sasso d'Italia, il borgo è stato gravemente danneggiato dal terremoto de L'Aquila del 2009, con una significativa percentuale delle abitazioni crollate o dichiarate inagibili dopo i sopralluoghi del caso condotti dalla protezione civile, rientrando così nel cosiddetto "cratere sismico". ll sisma del 6 aprile non lo ha risparmiato: il 40% delle case è andato distrutto, ma gli abitanti si sono rimboccati subito le maniche e hanno provato a risollevarsi da una drastica situazione. La denuncia è arrivata da Matteo Salvini: "Il governo non manda aiuti e risposte ai cittadini, ma in compenso è pronto a spedire un centinaio di immigrati in un paese di circa 80 anime come Carapelle Calvisio, in provincia de L'Aquila". Il leader della Lega la giudica una vera e propria follia e perciò ha rivolto un duro attacco nei confronti del governo giallorosso: "Conte, Pd, 5 Stelle sono veloci a mandare a casa i boss e a spalancare i porti ai clandestini". Un primo esperimento italiano di "eliminazione identitaria": l'ha definito così Luigi D'Eramo. Nel paesino oggi vivono appena 84 abitanti, con un'età media di circa 60 anni, ovvero una categoria per definizione debole: "Il piccolo Comune oggi ha i fondi sufficienti appena per garantire i servizi essenziali, mentre non ha risorse per garantire i servizi di sicurezza urbana visto che ha in organico appena un dipendente e un ragioniere che appartiene a un altro Comune". Addirittura non ha a disposizione neanche un'unità di polizia municipale. Si verrebbe a creare un aumento di popolazione di oltre il 110%: "Un caso unico a livello italiano che determinerebbe una situazione insostenibile sotto ogni punto di vista".
"Vogliono distruggerci". Il deputato aquilano del Carroccio ha evidenziato i rischi di tale assurdità: non solo si cancellerebbe l'identità di un'intera comunità, ma da una parte si rischierebbe di stravolgere "una quotidianità secolare" e dall'altra si minerebbero tranquillità e sicurezza "con possibili, quasi certe, gravi ripercussioni". La vicenda conferma la linea politica dell'esecutivo giallorosso, che ha contribuito all'aumento degli sbarchi ad aprile e che sta inseguendo il folle progetto di regolarizzazione di 600mila immigrati. "Uno dei più piccoli e tranquilli comuni d’Italia sta per essere letteralmente invaso dall’arrivo di migranti, peraltro in piena emergenza Covid-19. È una circostanza intollerabile che la Lega combatterà con tutte le sue forze, in ogni sede", ha concluso D'Eramo. Ma come l'avranno presa i cittadini? Non proprio bene. Una abitante si è sfogata a ilGiornale.it e ha espresso tutta la sua rabbia dopo aver ricevuto la notizia: "Ma perché vogliono distruggere un paesino di vecchietti? E poi quelli che arriveranno dove dormiranno? Lavoreranno? Dove mangeranno? Carapelle Calvisio non è cambiata in tantissimi anni. Tutto va bene e quando le cose vanno bene non si cambia nulla". Ma anche chi è nativo del posto e al momento si trova in Canada si definisce deluso e sconcertato per l'arrivo dei migranti: "L'anno prossimo mi metterò in viaggio e tornerò. Avevo intenzione di tornare il 15 aprile ma l'emergenza Coronavirus non me l'ha permesso. Spero che per quando tornerò il governo si sarà dato una svegliata".
"Un paesino sostituito dagli immigrati". Ecco tutto quello che c'è dietro. Ora spuntano le carte. Cittadini furiosi: "È una cosa vergognosa". La Lega promette battaglia e attacca: "Le azioni politiche del Pd sono false e dannose". Luca Sablone, Domenica 10/05/2020 su Il Giornale. Accuse incrociate, chiarimenti, caos, dubbi e proteste: il possibile arrivo di 100 immigrati a Carapelle Calvisio ha movimentato in maniera notevole la politica abruzzese e nazionale. Ieri vi abbiamo parlato del paesino in provincia de L'Aquila che conta circa 84 abitanti e che rischia di essere "sostituito" dai migranti che starebbero per essere ospitati in una struttura messa a disposizione dalla "Caritas dell'Arcidiocesi di Pescara-Penne Onlus" per il periodo di sorveglianza sanitaria. L'accusa della Lega nei confronti del governo è stata tanto chiara quanto dura: "Sono veloci a mandare a casa i boss e a spalancare i porti ai clandestini. Non permetteremo questa sostituzione identitaria". Ma nelle scorse ore è arrivata la presa di posizione del Partito democratico, che ha puntato il dito contro la Regione Abruzzo: "La struttura di Carapelle Calvisio è stata individuata dal Dipartimento Lavoro e Sociale della Regione Abruzzo, che fa capo all’assessore della Lega Piero Fioretti". Ma è proprio così? Il leghista, contattato in esclusiva da ilGiornale.it, ha provato a fare chiarezza su quanto sta accadendo. Tutto è partito da mercoledì 22 aprile, quando la Prefettura de L'Aquila - su richiesta del soggetto attuatore nominato dal Capo Dipartimento nazionale di protezione civile - ha diramato una nota per sollecitare ad adoperarsi per trovare idonei alloggi volti all'accoglienza nel corso dell'epidemia. E poi sono iniziati a sorgere diversi interrogativi. "La Prefettura ha scritto alla presidenza e alla sola Asl de L'Aquila. Mi sembra strano perché se chiami in causa la presidenza della Regione per un'azione di livello regionale devi coinvolgere tutte e 4 le Asl", fa notare Fioretti. Effettivamente ci sono anche l'Asl 2 Lanciano-Vasto-Chieti, l'Asl 3 Pescara e l'Asl 4 Teramo.
Quella risposta della Caritas. Vi era già stata qualche azione di interlocuzione con qualche ente o associazione che aveva strutture sull'aquilano? "Guarda caso è uscita fuori l'unica che ha risposto a quell'informativa", fa notare l'assessore del Carroccio. Si tratta di un'associazione che ha sede a Pescara e che ha messo a disposizione la struttura su L'Aquila: "Pochi giorni dopo un funzionario, un dirigente della Caritas ha risposto mettendo per conoscenza anche il direttore della Caritas diocesana Pescara-Penne, don Marco Pagniello". Nella risposta infatti si legge che viene comunicata l'intenzione da parte della Fondazione Caritas dell'Arcidiocesi di Pescara-Penne Onlus di rendere disponibile una struttura di accoglienza di proprietà sita nel Comune di Carapelle Calvisio. "La struttura è provvista di camere con bagno e spazi interni ed esterni. Per capire meglio l'idoneità degli alloggi a garantire le previste misure di sorveglianza in considerazione della particolare tipologia di accoglienza chiediamo di poter conoscere le condizioni dell'accoglienza", viene specificato. Infine è stato richiesto anche di conoscere le condizioni economiche previste. Fioretti punta il dito contro il governo giallorosso, facendo sempre riferimento al fatto che il Capo Dipartimento della protezione civile ("che risponde sia al presidente del Consiglio Giuseppe Conte sia al Ministero dell'Interno") ha nominato un soggetto attuatore. Nella nota della Prefettura viene menzionato il decreto n. 1287 in data 12 aprile 2020, chiedendo di individuare - per gli immigrati che giungono sul territorio nazionale in modo autonomo - aree o strutture da adibire ad alloggi per il periodo di sorveglianza sanitaria previsto dalle vigenti disposizioni.
L'ira dei cittadini. Lo stesso Fioretti ha risposto alle accuse ricevute dal Pd abruzzese: "Il teatrino mediatico messo in campo da questi fantomatici rappresentanti politici ormai non stupisce, anzi rende più agevole smascherare la palese falsità e dannosità delle azioni politiche del Partito democratico". Il sindaco Domenico Di Cesare non ci sta e va all'attacco: "Sono deluso, nessuno mi aveva informato di una simile eventualità: in un periodo delicato come quello che stiamo vivendo, in piena emergenza sanitaria, quando si dovrebbe bandire ogni forma di contatto, a Carapelle potrebbero arrivare 100 migranti". Il primo cittadino si è detto soddisfatto dal comportamento tenuto fino ad ora dai suoi cittadini, che hanno rispettato le rigide norme previste dal governo, ma allo stesso tempo è preoccupato: "Ora, però, potremo presto ritrovarci con molte persone in quarantena. Chi ci assicura che queste persone saranno controllate? Chi mi dà la garanzia che gli abitanti di Carapelle non andranno incontro a maggiori rischi in questo modo? Chi li controllerà? Chi vigilerà sul loro rispetto delle regole?". Anche i cittadini hanno espresso la loro rabbia per la notizia. "È una cosa vergognosa. Qui passiamo la vita in pace, ci conosciamo tutti e nonostante questo portiamo la mascherina come norma anche se sappiamo che qui non c'è nulla. Se arrivano sicuramente porteranno il Covid-19. Un numero che raddoppia il numero di abitanti è impossibile che non contenga contagi", ci confessa un abitante. Il malcontento è notevole: "Perché vogliono sostituirci con questi immigrati?". In molti sperano che l'arrivo venga scongiurato, ma l'ira nei confronti del governo è chiara: "Incoscienti, va impedito assolutamente, c'è a rischio la nostra vita. È un'idea criminale".
Bellanova: “Senza le regolarizzazioni, rifletto sulle mie dimissioni”. Lisa Pendezza il 06/05/2020 su Notizie.it. Senza il via libera alle regolarizzazioni, la ministra Bellanova potrebbe rassegnare le dimissioni: "Non sono qui a fare tappezzeria". Quello della regolarizzazione dei migranti irregolari, per far fronte all’emergenza sanitaria e alla crisi economica in atto, è uno dei tanti nodi ancora da sciogliere all’interno della maggioranza per la stesura del decreto maggio e la ripartenza del Paese. A farsene portavoce è, in modo particolare, la ministra delle Politiche agricole Teresa Bellanova, la quale ha ribadito che non si tratta di una “battaglia strumentale per il consenso” quanto, piuttosto, una necessità da cui dipende la sua stessa permanenza al governo: in caso di nulla di fatto, non esclude la possibilità di presentare al presidente del Consiglio le proprie dimissioni.
Bellanova minaccia le dimissioni. Ai microfoni di Radio Anch’io, la ministra Bellanova ha ribadito che la regolarizzazione non ha a che fare con il gioco politico, dal momento che i lavoratori interessati dalla manovra non possono accedere alle urne: “In questo Paese, anche in questa fase di crisi, tanti guardano al consenso, a fare misure per dire "ti ho dato, ora votatemi". Noi stiamo facendo una battaglia per quelli che non voteranno o che almeno non voteranno nei prossimi anni”. “Se la misura non passa, questo, per me, è motivo di riflessione sulla mia permanenza nel governo” ha continuato la ministra. “Non sono qui per fare tappezzeria. Ci sono delle questioni che non si sono volute affrontare o che sono state affrontate in maniera sbagliata”. L’obiettivo è “concedere un permesso di soggiorno temporaneo per sei mesi, rinnovabile per altri sei, per le aziende e le famiglie che vogliono regolarizzare. Ci sarà anche un contributo per lo Stato, anche se non bisogna esagerare: si tratta di persone sfruttate per 3 euro l’ora facendo concorrenza sleale alle imprese che rispettano le regole”. A sostegno delle misure chieste dalla ministra dell’Agricoltura interviene Luciana Lamorgese, che parla di una “condivisione di fondo. Ieri abbiamo avuto degli incontri. Riguarderà anche tanti italiani oltre che gli stranieri. C’è la necessità di far emergere questi lavoratori non solo per garantire i diritti delle persone, ma anche per esigenze di sicurezza sanitaria che in questo momento sono necessarie. Stiamo lavorando e spero che nelle prossime ore si riesca ad arrivare ad un testo definito”.
Regolarizzazione migranti, Teresa Bellanova si commuove durante la conferenza stampa. “Voglio sottolineare un punto per me fondamentale, l’emersione dei rapporti di lavoro. Da oggi gli invisibili saranno meno invisibili”. Lo dice la ministra per le Politiche Agricole Teresa Bellanova in conferenza stampa a Palazzo Chigi. “Da oggi possiamo dire che lo Stato è più forte del caporalato”, aggiunge. Redazione de Il Riformista il 13 Maggio 2020.
Da adnkronos.com il 14 maggio 2020. "Voglio sottolineare un punto per me fondamentale, l'emersione dei rapporti di lavoro. Da oggi gli invisibili saranno meno invisibili". E' con voce rotta dalla commozione che la ministra delle Politiche Agricole Teresa Bellanova alla fine del suo intervento in conferenza stampa si sofferma su "un punto per me fondamentale, l'emersione dei rapporti di lavoro" prevista dal dl rilancio. "Da oggi possiamo dire che lo Stato è più forte del caporalato", scandisce. "Quelli che sono stati sfruttati nelle campagne o nelle false cooperative non saranno invisibili, potranno accedere ad un permesso di soggiorno per lavoro e noi le aiuteremo ad essere persone che riconquistano la loro identità e la loro dignità. Abbiamo fatto una scelta chiara, possiamo dire che da oggi vince lo stato, perché è più forte della criminalità e del caporalato", dice. Con il dl Rilancio "il settore agroalimentare ha una dotazione specifica: abbiamo destinato 1 miliardo e 150 milioni di euro per sostenere la filiera agricola", spiega Bellanova. "Gli interventi saranno finalizzati ai settori che hanno più sofferto, il florovivaismo, gli agriturismi, la filiera del vino".
Bellanova in lacrime: “Lo Stato è più forte del caporalato”. Debora Faravelli il 13/05/2020 su Notizie.it. Lacrime per il ministro Bellanova durante la conferenza stampa istituita per illustrare il Decreto Rilancio. Durante la conferenza stampa per la presentazione del Decreto Rilancio il ministro Bellanova è scoppiata in lacrime mentre stava illustrando uno dei provvedimenti a lei competenti. Si tratta dell’articolo 110 bis relativo all’emersione dei rapporti di lavoro, un tema che per la sua storia le sta particolarmente a cuore.
Bellanova in lacrime in conferenza stampa. Dopo essere intervenuta sulle misure riguardanti il mondo dell’Agricoltura e poco prima di chiudere la sua presentazione, l’esponente di Italia Viva ha voluto concentrarsi su quelli che ha chiamato “invisibili“. Senza riuscire a trattenere la commozione, che l’ha costretta a fermarsi prima di continuare il discorso, si è infatti detta orgogliosa di quanto stabilito dal governo per “quelli che sono stati brutalmente sfruttati nei campi o nelle false cooperative dove le persone venivano date in prestito per lavorare come badanti e colf”. Secondo quanto contenuto nel Decreto queste categorie potranno infatti accedere ad un permesso di soggiorno per lavoro in modo da riacquistare la loro dignità. E infine una frase che riassume il senso di quanto affermato: “Lo Stato è più forte della criminalità e del caporalato“. Anche il Premier Conte, che ha preso la parola subito dopo, non ha potuto fare a meno che ringraziare la titolare del dicastero dell’Agricoltura per la passione e il coinvolgimento con cui ha illustrato il provvedimento. A tal proposito anch’egli ha definito le regolarizzazioni un risultato importante e una battaglia di civiltà.
Le reazioni. Immediate le reazioni della politica su Twitter alla commozione del ministro. Prima fra tutte quella del suo leader Matteo Renzi che si è complimentato con lei esprimendosi “fiero e orgoglioso delle battaglie di Teresa Bellanova”. Anche Matteo Salvini non ha mancato di commentare le sue lacrime in chiosa alla sua opinione, nettamente negativa, delle misure economiche varate dal governo. “Le lacrime del ministro Bellanova (Fornero 2) per i poveri immigrati, con tanti saluti ai milioni di italiani disoccupati, non commuovono nessuno“. Anche Giorgia Meloni è intervenuta sull’argomento dicendosi basita della commozione di un ministro per la regolarizzazione degli immigranti quando “migliaia di italiani hanno pianto schiacciati dalla disperazione di aver perso tutto. Aspettando un aiuto che non è arrivato mai“. Dello stesso tenore anche le parole di Mariastella Gelmini, preoccupata delle lacrime degli italiani.
Il paragone con Elsa Fornero. C’è stato poi chi ha paragonato il ministro ad Elsa Fornero, anch’essa scoppiata in lacrime durante la presentazione della manovra finanziaria del 2011. L’allora ministro si era commossa non riuscendo a pronunciare la parola “sacrifici” riferendosi a quanto chiesto ai cittadini a causa dello stop all’adeguamento annuale delle pensioni in base all’inflazione.
Teresa Bellanova in lacrime, Giorgia Meloni "basita": "Lei piange per i migranti, gli italiani per un aiuto mai arrivato". Libero Quotidiano il 13 maggio 2020. "Sono basita". Giorgia Meloni commenta così, laconica, le lacrime di Teresa Bellanova per l'accordo raggiunto nel governo sulla sanatoria per i migranti irregolari che lavorano nei campi. "Centinaia, forse migliaia di italiani in queste settimane hanno pianto, magari di notte, di nascosto dai loro figli, schiacciati dalla disperazione per aver perso tutto, o per timore di perdere tutto - le ricorda la leader di Fratelli d'Italia alla ministra dell'Agricoltura renziana -. Aspettando un aiuto che non è arrivato mai. Stasera il Ministro Bellanova si è commossa. Ma per la regolarizzazione degli immigrati. Io sinceramente sono basita", conclude su Facebook la Meloni.
Teresa Bellanova su Facebook il 14 maggio 2020. È vero. Ho pianto. Ho faticato, ho combattuto, e alla fine ho pianto. Hanno accostato le mie lacrime ad altre lacrime: le hanno riportate ad un genere, quello femminile. Io invece ho avuto la forza di piangere - sì, la forza - perché ho fatto una battaglia per qualcosa in cui credevo sin dall’inizio, perché ho chiuso il cerchio di una vita che non è soltanto la mia, ma è quella di tantissime donne e uomini che come me hanno lavorato nei campi. Però una cosa la voglio dire, a chi sta con me e a chi sta contro di me: le lacrime non le giudicate perché appartengono non a me sola, ma a chi ha ogni giorno il coraggio di sfidare per cambiare, sapendo che si può perdere o vincere. Sono cose che hanno a che fare con la vita, con l’impeto e la forza delle idee. Le lacrime sono il segno costitutivo, generativo della nostra specie. Chi le teme, o chi non ne comprende il senso e la forza, ha perso di vista il carattere più importante dell’umano: la coscienza delle cose, quant’è prezioso mostrarsi vulnerabili. Se abbiamo perso di vista questo, se non sappiamo più riconoscere cosa significa il pianto di chi crede in quello che fa, è preoccupante. Più di ogni battaglia, vinta o persa che sia. La forza delle donne, ed anche di molti uomini, è proprio saper piangere: non esiste un “pianto di genere“, perché l’unico genere capace di pianto è quello umano. Le donne qui non c’entrano nulla: c’entrano coloro che ogni giorno portano avanti le battaglie in cui credono, magari impopolari ma giuste. Quelli che avanzano il cuore senza bisogno di calcolare le distanze. Spostano la notte più in là. E credono nella politica che guarda in faccia i problemi che attendono risposte.
Dagospia il 14 maggio 2020. Da “24Mattino – Radio 24”. Il confronto con le lacrime della Fornero, "Mi avrebbe imbarazzato molto di più un paragone con Salvini che non con una professoressa come la Fornero". Così la ministra per le Politiche Agricole Teresa Bellanova a 24Mattino di Simone Spetia e Maria Latella su Radio 24. "Se mi avessero confrontato a Salvini, questo mi avrebbe fatto molto male. La professoressa Fornero è persona di grande competenza e professionalità che io rispetto anche se su alcune cose la pensiamo in modo differente". A proposito delle sua commozione specifica "ci sono dei momenti in cui i sentimenti non si riesce a governarli noi siamo il frutto della nostra vita e della nostra storia, chi non sente questo evidentemente le cose che fa le fa da mestierante". "Io ho avuto la fortuna, nella mia vita, di avere momenti difficili, complicati - ha spiegato a Radio 24 - ma di fare le cose che ho voluto fare con grande passione e ieri tutto questo mi si è palesato in un momento in cui ero nella condizione di poter dire che si migliorava la vita degli altri" ha concluso commuovendosi ancora. "Noi andiamo incontro alle grandi campagne di raccolta dove c’è bisogno di manodopera, io stessa ho detto rendiamo compatibile il Reddito di Cittadinanza con il lavoro stagionale per un certo numero di giornate, è un lavoro che si sta facendo. Agli italiani non è mai stato impedito di andare a lavorare in agricoltura ma non possiamo obbligare le persone a fare un lavoro o un altro quindi dobbiamo agire su tutti gli strumenti e dare alle persone il diritto di fare questo lavoro in modo legale” Così la ministra per le Politiche Agricole Teresa Bellanova a 24Mattino di Simone Spetia e Maria Latella su Radio 24. "Come hanno fatto Regno Unito e Germania si può fare e ho rivendicato in più occasioni con la commissione la possibilità di avere i corridoi per le persone. Ma in Germania i viaggi sono stati organizzati dalle stesse imprese e in un numero non alto di persone. I corridoi verdi ci sono però bisogna avere le persone disponibili a salire su quei voli, bisogna sapere che queste persone vengono da zone rosse e devono fare la quarantena per 15 giorni. Non dico che non è possibile ma questo strumento da solo non è esaustivo". Così la ministra per le Politiche Agricole Teresa Bellanova a 24Mattino di Simone Spetia e Maria Latella su Radio 24. "Da mesi sto combattendo per dire che il caporalato non è frutto delle imprese e di non tutte le imprese. Ci sono delle imprese che si rivolgono al caporale perché vogliono competere nell'irregolarità, e ci sono delle imprese che sono costrette perché non trovano persone con permessi di soggiorno regolari per fare fronte al bisogno di raccolta". Così la ministra per le Politiche Agricole Teresa Bellanova a 24Mattino di Simone Spetia e Maria Latella su Radio 24. Nel governo “c’è stato molto confronto e io avrei voluto dare misure più dirette come sostegno alle imprese ma mi rendo conto che in un momento in cui fai la scelta di bloccare i licenziamenti, devi investire parte delle risorse per sostenere i lavoratori e garantire la cassa integrazione. Dobbiamo permettere alle imprese di competere e garantire la sicurezza ai lavoratori". Così la ministra per le Politiche Agricole Teresa Bellanova a 24Mattino di Simone Spetia e Maria Latella su Radio 24. "Il governo va avanti se risolve i problemi". Così la ministra per le Politiche Agricole Teresa Bellanova a 24Mattino di Simone Spetia e Maria Latella su Radio 24.
Ritratto di Teresa Bellanova, la ministra che ha reso visibili gli invisibili. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 15 Maggio 2020. Lacrime della forza, quelle versate da Teresa Bellanova in diretta, parlando della regolarizzazione dei migranti. Lacrime di gioia e di dolore per una battaglia – “rendere visibili gli invisibili”, che ha segnato la vita del Ministro delle Politiche agricole. Segno prorotto e prorompente della soddisfazione politica e umana di chi ha vinto la sua battaglia dentro e fuori il governo, dentro e fuori la politica. «Se noi facciamo emergere questo lavoro di regolarizzazione dei permessi di soggiorno non saranno costi per l’Italia, saranno entrate: perché i rapporti di lavoro irregolare privano lo Stato anche della contribuzione, oltre che togliere alle persone i loro diritti e la loro dignità. Quindi io non mi spaventerei dei numeri: se saranno 500-600 mila saranno i benvenuti, perché saranno persone che noi avremo tirato fuori dai ghetti e li avremo portati a vivere nella condizione della legalità e del riconoscimento della loro identità», dice a coronamento del decreto. E a chi la prende in giro perché ha pianto, risponde a muso duro: «È vero. Ho pianto. Ho faticato, ho combattuto, e alla fine ho pianto. Hanno accostato le mie lacrime ad altre lacrime: le hanno riportate ad un genere, quello femminile. Io invece ho avuto la forza di piangere – sì, la forza – perché ho fatto una battaglia per qualcosa in cui credevo sin dall’inizio, perché ho chiuso il cerchio di una vita che non è soltanto la mia, ma è quella di tantissime donne e uomini che come me hanno lavorato nei campi…». Bellanova quei ghetti di campagna, in cui il caporalato dà vita al nuovo schiavismo dei braccianti, lo conosce molto da vicino: a 14 anni usciva di casa all’alba per andare a raccogliere l’uva nelle campagne del brindisino. Dall’incassettamento dell’uva da tavola alle prime riunioni sindacali, il passo è stato breve. Già adolescente divorava tutti i libri e i giornali che le capitavano a tiro. Le sue coetanee si innamoravano delle celebrities di Hollywood, lei guardava a Giuseppe Di Vittorio. Va a scuola fino alla terza media. “Non ne sono orgogliosa”, dirà alla Gruber. La disciplina l’ha imparata prima nei campi, dove la fatica per le donne raddoppia, poi alla Camera del Lavoro di Brindisi. Lì trovava sempre una copia de L’Unità, che a fine riunione portava a casa. Un modo per imparare a leggere non solo il testo ma il contesto. A trent’anni diventa segretaria provinciale della Federazione Lavoratori Agroindustria (Cgil) di Brindisi. Prima donna, per giunta giovane, a capo di un sindacato tutto al maschile, nel Mezzogiorno. Oggi si presenta alle porte del Ministero alle 7.30 del mattino, spesso prima che siano arrivati gli uscieri. La sveglia a casa suona alle 5.30, la colazione si riduce a un caffè. E si immerge nelle rassegne stampa, poi nella lettura avida, assetata dei quotidiani. «Ne legge almeno dieci ogni mattino», ci racconta la sua Capo segreteria, Alessia Fragassi, che la accompagna da anni. Mette un’energia assoluta in tutto quel che fa, credendoci tanto da coinvolgere chi la circonda. «Non si rimanda mai a domani quello che si può fare oggi», ripete sempre. È una stakanovista. Al Ministero non erano preparati ai suoi ritmi. Negli ultimi giorni sono rimasti tutti convocati fino alle due di notte. Raramente si torna a casa prima delle 23. Un foglio bianco, pronto a essere firmato con le dimissioni, è rimasto sulla sua scrivania tutta l’ultima settimana. Al suo staff ha detto «Siamo in una partita esiziale, vinciamo o andiamo a casa». Fa sempre sul serio. Come quando ha deciso di lasciare il Pd – lei che colleziona tutte le sue vecchie tessere Pci – per seguire Matteo Renzi. Un incontro di affinità incredibile tra due anime dalla storia molto diversa. Mai avuto un ripensamento. «Ascolta Renzi, ma decide da sola e non cambia idea», dicono di lei. L’uomo con cui si confida è un altro. Si chiama Abdellah El Motassime, marocchino di Casablanca. È stato il suo interprete durante un viaggio nel 1988 con la Flai Cgil in tema agroalimentare, ed è stato subito colpo di fulmine. Convolati a nozze nel marzo ’89 e da allora profondamente uniti. «Vivono in connessione profonda», dice chi li conosce più da vicino. «È un punto di forza: lei sa di essere sostenuta in qualsiasi momento da un uomo umanamente esemplare, che ha una cura e un accudimento fortissimo nei suoi confronti». Il loro unico figlio, Alessandro, studia medicina e non vuole saperne di fare politica: «È un modo diverso per dedicarsi agli altri». Era lui ad accompagnarla al Quirinale per il giuramento da ministro, quello con l’abito blu costato indecenti polemiche. «Che non la feriscono», ci raccontano i suoi. «Ne ha viste e sentite tante, nella vita. Sa come rispondere a tono». E a proposito di risposte, ne ha per tutti. Il cerimoniale del Ministero le ha contestato i biglietti da visita. «Ministro, lei non può far stampare il suo numero di cellulare personale, altrimenti la chiamerà chiunque», le hanno fatto notare. Lei non ha fatto una piega. «Chi vuole chiamarmi, mi chiami». E ha messo il suo numero, senza schermi. Eletta deputata, trasferitasi da Lecce a Roma, si è trovata una casa vicino alla fermata del tram. E per andare a Montecitorio lo ha preso tutti i giorni. Sale sul tram con la mazzetta dei giornali e qualche libro. Ha finito da poco di leggere la trilogia di Elena Ferrante. Storie di miseria e di riscatto, di ragazze del Sud. Storie che le ricordano le cicatrici che ha addosso. Con il tram che prende passa accanto al Nuovo Sacher di Nanni Moretti, di cui conosce i film a memoria, come quelli di Ken Loach. L’altra sera è tornata a casa, dopo la conferenza stampa di Palazzo Chigi, senza festeggiamenti. Ha abbracciato il figlio e il marito. Lo staff che ha lavorato dietro le quinte conosce la cifra della sobrietà: «Ci ha detto di riposare per tornare l’indomani pronti, il lavoro non è ancora finito». I Cinque Stelle masticano amaro e sembra che Di Maio sia pronto, a partire dagli Stati Generali, a sfidare lo stesso Conte pur di rovesciare l’intesa sulla regolarizzazione. Ma ieri il cellulare di Teresa Bellanova non ha mai smesso di squillare. L’hanno chiamata in tanti, per congratularsi, da Beppe Sala alla ministra Lamorgese, con cui questo successo è condiviso. E Emma Bonino l’ha voluta con sé per una diretta Facebook, entrambe emozionate. Una marea di messaggi le è arrivata dai vertici del Pd: «Brava, non hai mollato». Quello che le ha detto anche Giuseppe Conte, come lei pugliese, nato a mezz’ora di strada dalla Cerignola di Giuseppe Di Vittorio. Nel suo segno, è nata una nuova leader.
Regolarizzazione no!! ecco perchè…Antonio Angelini detto Antonello l'8 maggio 2020 su Il Giornale. Ospito anche oggi il mio anonimo amico. Uno che ha lavorato per lo Stato sull’ immigrazione e sui reati commessi da immigrati. Procediamo con i nostri ragionamenti, basati solo su fatti e non su analisi svolte o dati elaborati da altri, per cercare di dare al cittadino comune un metodo per poter districarsi nella molteplicità di informazioni, anche spesso provenienti da fonti autorevoli, ma che esprimono in ogni caso opinioni molto differenti tra loro. Sulla base di eventi storici abbiamo dedotto, con un semplice ragionamento logico, che gli “italiani” non sono un popolo razzista, certamente non lo sono più della media di tutti gli altri popoli. Se questa è la conclusione delle nostre considerazioni logiche, il cittadino comune non può fare a meno di domandarsi come mai allora, ogni volta che si affrontano argomenti sociali di un certo tipo, il pericolo del razzismo venga continuamente tirato fuori con il fine di indirizzare l’opinione pubblica (ovvero appunto il comune cittadino) verso scelte specifiche. Come detto il concetto di “razzismo” nel nostro paese sta indirizzando scelte politiche e sociali di rilevanza storica, non solo in termini di immigrazione ed appartenenza alla Unione Europea, ma anche in ambiti scientifici e sanitari ed economici. Pertanto l’argomento “razzismo” è un argomento decisamente attuale anche per come è stata affrontata, ad esempio, l’emergenza pandemia. Su quest’ultimo argomento, la pandemia, ne parleremo nei prossimi incontri, per una questione appunto di conseguenze logiche nei ragionamenti. Procedendo per passi logici, affrontiamo il problema dell’immigrazione “globale”, ovvero la possibilità per chiunque di poter decidere di spostarsi e vivere in qualunque posto del nostro pianeta. Partiamo proprio da questo principio, ovvero il diritto per chiunque di poter decidere dove vivere ed anche di come vivere. Un principio certamente astrattamente valido. Per aiutare nel ragionamento logico partiamo da presupposti ideali, ovvero, immaginiamo effettivamente il pianeta come un unico sistema politico e sociale in cui ciascun essere umano ha il sacrosanto diritto di poter vivere la propria vita nel modo che egli ritenga il più dignitoso possibile. Di fronte a questo principio e a questa prospettiva ideale, nessuno ritengo potrebbe mai opporre una valida risposta contraria. Questo diritto è sacrosanto. Restiamo nel mondo ideale, ovvero unica società globale uniformata in tutto, regole, leggi, economie etc. Appare immediatamente evidente che, tolte alcune fluttuazioni statistiche, potendo scegliere, la stragrande maggioranza della popolazione del pianeta preferirebbe vivere in luoghi del pianeta dove il clima sia più mite, dove le città siano più belle, certo nessuno preferirebbe vivere in zone aride, desertiche, oppure impervie (tolte come detto alcune fluttuazioni di popolazione). Diciamo che su 7 miliardi dell’intera popolazione mondiale, attuale, più della metà sceglierebbe gli stessi luoghi, le stesse aree del pianeta. In parte è già cosi, ma dobbiamo immaginare una distribuzione senza limiti di distanza, costi di viaggio, infrastrutture etc. Supponiamo che le risorse locali, ambientali, economiche e nutrizionali in quei luoghi siano in grado di soddisfare questa distribuzione non uniforme della popolazione mondiale. L’incremento della popolazione stessa (perché anche il diritto alla nascita è inalienabile, pertanto non si può pensare, in questo contesto ideale, di limitare le nascite e l’aumento della popolazione mondiale) determinerebbe ad un certo punto una perdita di equilibrio tra le scelte di ciascuno e l’effettiva sostenibilità ambientale, economica, sociale. Questi sono ragionamenti semplici, che valgono in effetti a prescindere da quale sia la distribuzione delle scelte della popolazione globale su dove vivere. Esisterà sempre un limite, qualunque esso sia, oltre il quale non si potrà andare. Quindi in un mondo ideale, considerando solo uno dei due parametri di scelta, il “dove” vivere, concettualmente si arriva facilmente ad un paradosso, logico, ovvero: non è possibile che “tutti” possano vivere in uno stesso posto. A questo dobbiamo aggiungere l’altro parametro di scelta, ovvero “come” vivere. Diciamo che in un mondo ideale deve certamente restare un principio indissolubile, ovvero quello che la libertà personale è limitata dalle libertà altrui, ovvero qualunque sia la scelta di un singolo essere umano, essa non potrà mai prevaricare i diritti di un altro essere umano. Quindi il “come” vivere deve essere comunque limitato al concetto semplice, purché non leda i diritti altrui, quindi ovviamente non vivere svolgendo attività illegali ad esempio. Se si presuppone che in un mondo idealmente globalizzato, ognuno possa svolgere una attività lavorativa legale e dignitosa utile alla società, anche in questo caso, escluse le attività illegali, arriviamo ad un paradosso in cui non tutti possono fare quello che realmente vorrebbero ma devono potersi adeguare alle esigenze del sistema società. Allora ecco che assumendo per sacrosanto un diritto ideale in cui ogni essere umano possa scegliere dove vivere e come vivere, anche in un mondo ideale, raggiungeremmo dei paradossi in cui questo non sarebbe effettivamente possibile. A questo punto potremmo iniziare a porre le infinità di paletti dovute alle regole di mercato, alla sicurezza, alla sostenibilità economica di ciascun paese (Nazione), alle differenti leggi dove quegli stessi principii ideali, che perdono di coerenza anche in un mondo ideale, ancor di più vengono messi in discussione. Ma restiamo al nostro paese e proviamo ad abbracciare le ragioni di chi ritiene sia giusto aprire a chiunque l’accesso al nostro sistema, senza fare alcuna considerazioni sulle modalità di arrivo, ne tantomeno alcun tipo di selezione sulle persone che decidessero di voler venire a vivere nel nostro territorio. Perciò idealmente accettiamo l’idea di una immigrazione libera verso il nostro Stato. Chiediamo, a chi perora questa causa, quale è il limite di persone che ritenga di poter accettare in ingresso, in quanto, come detto, non è pensabile che 7 miliardi di persone possano venire a vivere tutte in Italia. Ovviamente questo è un estremo ragionamento ma che, senza arrivare al numero dell’intera popolazione mondiale, effettivamente crea un limite, qualunque esso sia; ovvero, domani si dichiara che chiunque voglia venire nel nostro paese lo possa fare, garantendogli il viaggio ed una vita dignitosa. Esisterà comunque un limite oltre il quale non si potrà andare e, raggiunto quel limite, questo principio perde di validità perché a quel punto anche chi oggi si dichiara per l’apertura totale dovrà dire “adesso basta”. Se si è stabilito che il nostro paese possa ospitare dignitosamente, ad esempio, dieci milioni di persone, arrivati a dieci milioni più “uno” quell’uno in eccesso vedrà irrimediabilmente limitato il suo diritto.
Senza aver preso alcun dato, senza aver fatto alcun ragionamento politico o sociale, ma semplicemente ragionando su dei concetti molto semplici, ecco che comunque si osservi la questione dell’immigrazione, dei “limiti” ci saranno e ci dovranno essere. Il punto è “quali limiti”? Allora viene immediato chiedersi perché nelle due posizioni attuali pro e contro immigrazione (in realtà un “certo” tipo di immigrazione) chi si pone nella posizione del “contro” viene immediatamente tacciato di razzismo? Proprio in un paese in cui, con ragionamenti precedenti abbiamo stabilito che il popolo italiano non è storicamente più razzista di qualunque altro popolo sulla terra? In un paese in cui l’immigrazione c’è da decenni senza che ciò abbia comportato, fino a pochi anni fa, qualche forte squilibrio sociale? Il comune cittadino ha, o dovrebbe avere, a questo punto tutti gli strumenti per iniziare una analisi più approfondita e comprendere che chi perora la causa dell’immigrazione libera, o non ha chiaro il problema, oppure nasconde un fine diverso. Nello specifico, quel che accade da alcuni anni è un ingresso di persone attraverso vie non legalmente riconosciute e che determina un rischio della vita per quelle stesse persone, per poter raggiungere il continente europeo. Anche qui volendo abbracciare il pensiero di chi pone, giustamente, la salvaguardia della vita di queste persone sopra ogni altra considerazione, non possiamo non porci il problema, concettuale, che questo traffico se mantenuto, se incentivato, non avrà fine, o potrebbe non avere una fine nei limiti che in ogni caso si potrebbe decidere di stabilire; tanto per intenderci i 600 mila, attualmente considerati indispensabili per motivi umanitari ed economici, da regolarizzare sul nostro territorio. Supponiamo di dare ragione al Ministro che ha fatto questa proposta, cosa accadrà con i prossimi 600 mila? E con i 600 mila dopo? Si arriverà ad un punto, come detto, in cui delle misure dovrebbero necessariamente essere prese anche da chi “oggi” perora questa causa, perché è una conseguenza naturale. Allora perché parlare di “razzismo” quando questa locuzione non ha assolutamente nulla a che vedere con ciò che sta avvenendo? In questo incontro volutamente non si è fatto riferimento a dati, anche ufficiali, sulla criminalità da parte di cittadini stranieri, sul degrado, sullo spaccio, sulle mafie straniere, sullo sfruttamento da parte di chi organizza i viaggi illegali, sulle mancanze di controlli, di selezione, sull’impatto sociale di migliaia di persone senza alcuna tutela, o con tutele non eque, sul nostro territorio, sull’effettivo aiuto a certe popolazioni, sul terrorismo islamico e soprattutto al senso morale di aiutare solo chi riesce a raggiungere certe “reti” illegali e non altri, ne si propongono politiche sociali o soluzioni. Come detto questi incontri hanno lo scopo di fornire al comune cittadino dei mezzi di logica deduzione, per potersi poi successivamente fare una idea propria della situazione. Di certo quel che si può affermare è che oggi il problema dell’immigrazione nel nostro paese nulla ha a che vedere con il razzismo, ma ben altre sono le ragioni che muovono le parti sociali.
Antonio Angelini detto Antonello. Sono nato nel 1968, segno Toro . Euroscettico della prima ora non avrei potuto essere sposato che con una meravigliosa donna inglese. Laureato in Economia e Commercio nel 92 alla Università “La Sapienza” di Roma, iscritto all’ albo degli Agenti di Assicurazione, a quello dei Promotori Finanziari e all’ Albo dei Giornalisti Pubblicisti di Roma. Appassionato da giovane di Diritto Pubblico , ho fatto volontariato nel movimento fondato da Mario Segni per i referendum sul maggioritario ed elezione diretta dei sindaci. Ho lavorato in banca un anno , poi un anno e mezzo (93-94) in Forza Italia. Dal '95 mi sono dedicato alle Assicurazioni ed altro. Ho sempre scritto di calcio, divertentissima arma di distrazione personale ma anche di massa. Data la situazione del mio Paese , sento di dover fare informazione su altro. Mi considero un vero Patriota . Guai a parlar male dell’ Italia in mia presenza. Inizi anni 90 incontrai un anziano signore inglese, membro della House of Lord ed euroscettico. Mi raccontò con 10 anni di anticipo tutte le pecche della nostra UE, monetarie e non. Da allora sono stato un Euroscettico di fondo ma senza motivazioni scientifiche. Molti anni dopo incontrai Alberto Bagnai e le motivazioni iniziarono ad poggiare su basi scientifiche.
PANDEMIA E AGRICOLTURA. Ieri i braccianti immigrati erano “gli invisibili”. Adesso tutti li cercano disperatamente. Gli stagionali dall’Africa non arrivano più. Quelli rimasti in Italia sono costretti nei ghetti. Tonnellate di frutta e ortaggi potrebbero marcire. Ma il governo ha paura di fare una sanatoria. E chiede aiuto all’Est Europa. Alessia Candito il 09 aprile 2020 su L'Espresso. Frutta, verdura e ortaggi grazie alle loro braccia sono sempre arrivati nei mercati e sugli scaffali, ma loro per decenni sono stati invisibili. Nell’Italia spaventata dall’epidemia di Covid, per decreto sono diventati sulla carta i “lavoratori essenziali” di quei settori che non si possono fermare. Ma senza contratti né diritti, l’esercito dei braccianti migranti è rimasto bloccato nei ghetti e nelle tendopoli e il motore della filiera agroalimentare si è fermato. È bastato imporre uno straccio di lavoro regolare per giustificare gli spostamenti e un’intera filiera è andata in crisi. Prodotti bandiera del made in Italy marciscono sugli alberi, nei campi, nelle serre. Piccoli e grandi produttori gridano al disastro, Il governo studia soluzioni. Chi con la sua fatica ha sempre trainato il settore, oggi rischia la fame. «Il nostro sudore è uno degli ingredienti della vostra dieta giornaliera. Siamo degli esseri umani, con uno stomaco quasi sempre vuoto e non solo braccia da sfruttare», recita il testo che accompagna la raccolta fondi promossa da alcuni dei braccianti di Foggia sulla piattaforma GoFundMe, rilanciata a livello nazionale da Aboubakar Soumahoro. Il ricavato verrà diviso fra i vari coordinamenti territoriali e usato per comprare cibo. Perché la fame non conosce confini. E in ghetti, tendopoli e casolari oggi si convive con la paura di non potersi difendere dalla pandemia. Mani rotte dal lavoro nei campi, Mbaye ha occhi più anziani dei suoi 26 anni. Il lockdown lo ha sorpreso in Calabria, alla tendopoli di San Ferdinando, da anni istituzionale “soluzione temporanea” all’ormai stabile presenza di migliaia di braccianti stranieri che arrivano per la stagione degli agrumi. Oggi, una potenziale bomba sanitaria. Un solo caso di Covid trasformerebbe quella massa di tende blu in un focolaio. Associazioni come Medici per i Diritti Umani, Mediterranean Hope, SOS Rosarno, Sanità di Frontiera, Csc Nuvola Rossa, Co.S.Mi. da settimane dicono che l’unica soluzione è svuotare tendopoli e ghetti. I loro appelli sono rimasti inascoltati, piani e programmi presentati a Regione e prefettura per risolvere in fretta la situazione, ignorati. Chi vive in un recinto con altre 500 persone è cosciente del rischio. E sa che a poco servono quel pugno di mascherine e l’igienizzante che il comune di San Ferdinando ha distribuito. Costretti a vivere anche in otto sotto stracci di plastica blu e a dividere tutti non più di una decina di bagni, i braccianti migranti della Piana sono bloccati in un assembramento di fatto. Pochissimi hanno contratti fissi e in regola, pochissimi riescono a lavorare. Chi ha sempre contato solo su impieghi a giornata, adesso deve stare fermo. «Ma se non lavoriamo, non mangiamo. Qui nella Piana di Gioia Tauro la stagione delle arance sta finendo, ma non posso spostarmi per cercare lavoro», dice Mbaye. Da quando ha lasciato il suo Gambia, ha sempre o quasi fatto il bracciante. Ha imparato a muoversi in Italia secondo il ciclo dei raccolti, seguendo il passaparola dei connazionali, la rete di chi diventa famiglia a schiena curva nei campi. Aveva una protezione umanitaria, cancellata dal decreto Salvini, ma convertirla in permesso di lavoro non è stato semplice. È uno dei fortunati, qualche contratto lo ha strappato, sebbene le ore lavorate su carta siano assai meno di quelle effettive. Forse basteranno, gli hanno detto al sindacato. Il problema potrebbe essere la casa. La legge prevede che il lavoratore presenti anche un regolare contratto di affitto, nonostante la maggior parte dei braccianti si sposti per tutta l’Italia secondo il ciclo dei raccolti. La pratica era in itinere quando tutto è stato congelato fino a giugno, in attesa o nella speranza che l’epidemia passi. «In Basilicata mi aspettano per pomodori e zucchine», freme Mbaye , «lì un lavoro lo avrei».